GIANNI MATERAZZO ALBUM DI FAMIGLIA (2007) 1 C'eravamo appena seduti a tavola, quel giorno, che subito s'incominciò a dis...
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GIANNI MATERAZZO ALBUM DI FAMIGLIA (2007) 1 C'eravamo appena seduti a tavola, quel giorno, che subito s'incominciò a discutere dell'argomento... «Oddio, io preferirei che Renzo andasse a stare a Torricella, per quei tre, quattro mesi» sospirò mamma riempiendo i piatti di mestoli di rigatoni fumanti, grondanti ragù. «A Torricella è come se stesse a casa sua. Zia Coletta e zia Angiolina, figurati, sarebbero felici di ospitarlo». «Bisogna vedere se le tue zie sono effettivamente in grado di assumersi un impegno del genere» obiettò papà, scettico. «Non vorrei, tra l'altro, che per loro fosse un onere eccessivamente gravoso: hanno la loro età, le vegliarde». Alludeva a zia Coletta e zia Angiolina, le chiamava le tue zie, vegliarde, con un tono di degnazione, di vago sfottò. «Sono due querce, quelle» replicò mia madre piccata «ci arrivassi io a quella età, in buona salute come loro. Razza forte, quella dei De Lellis, razza abruzzese». «L'ultima volta che le abbiamo viste, è stato nel luglio del '49, se non vado errato» la rimbeccò papà con quel suo modo di parlare ricercato, un po' ampolloso «a zia Angiolina, ricordo, si era riacutizzato il diabete, zia Coletta, invece, mi pare si fosse fratturata il femore a seguito di una caduta». «Sono acciacchi dell'età, quelli» minimizzò mamma «e poi c'è Armandino, volendo. Per qualsiasi evenienza, Renzo può sempre appoggiarsi a lui». Di tutti i vari parenti di mamma, questo tale Armandino era quello che papà meno sopportava. «Buono quello» sogghignò «te lo raccomando». «Perché, che hai da dirgli? È una cara persona, invece, uno stimato professionista, tra l'altro». «Sì, veterinario in quel di Torricella... Su, non ha mai concluso nulla di buono nella vita, tuo cugino. Quello straccio di laurea, se l'è preso a più di quarant'anni, e solo grazie al fatto che era reduce di guerra. Diciamolo, è sempre stato uno scombinato, una capa fresca».
Quando si parlava di lui, il sarcasmo di papà si faceva sferzante. «Sei ingiusto con lui, Giulio» protestò mamma «non dimenticarti che ha fatto la guerra, è stato due anni prigioniero in Africa Orientale... Senza dire poi della disgrazia che gli è capitata... Ah, quante ne ha patite, pover'uomo!». «Sì, la disgrazia» commentò papà con un ghignetto ammiccante, la bocca piena di rigatoni. «Tutta una famiglia di matti, quella». «Stai parlando di mio cugino carnale» s'inalberò a quel punto mamma, ferita nell'orgoglio, negli affetti familiari più profondi. Aveva le guance in fiamme. La discussione stava ormai degenerando: anche per quella volta non si sarebbe deciso niente. Accadeva, questo, nell'agosto del 1955. Io e la mia famiglia stavamo per rimpatriare. Dopo vent'anni trascorsi a Tripoli, in Libia, tornavamo in Italia, lasciavamo per sempre l'ex colonia. Mio padre, direttore della locale Cassa di Risparmio, aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Napoli, sua città natale: era lì che, coi primi dell'anno, saremmo andati a stabilirci. C'era solo quel dannato inghippo della mia iscrizione all'Università a complicare le cose, a settembre scadevano i termini, bisognava che io fossi a Napoli prima di quella data. In poche parole, mi toccava partire da solo e con ben quattro mesi di anticipo. A quel punto, perciò, si trattava semplicemente di decidere dov'era meglio che andassi a passare quei quattro dannati mesi, se a Napoli, come sembrava ovvio, dato che là ci stabilivamo, oppure a Torricella Peligna, anonimo paesotto di montagna, in Abruzzo, dove mia madre era nata e dove sarei potuto andare comodamente ospite delle fantomatiche zia Coletta e zia Angiolina. Be', a un paio di settimane dalla partenza, quei cacadubbi dei miei genitori non avevano ancora preso una decisione, erano ancora lì a discettare della faccenda. Quando poi i loro battibecchi pigliavano quella piega polemica, per non dire rissosa, mi calava addosso una noia mortale. A mio padre, tra l'altro, poco sconfinferava che andassi a Torricella. Nutriva una cordiale antipatia per i parenti di mamma, specie per questo tale zio Armandino. Spesso lo bollava con quegli epiteti poco lusinghieri: scombinato, capa fresca. Per non dire della misteriosa allusione che ogni tanto faceva a proposito dei suoi congiunti... Tutta una famiglia di matti, quella. La decisione alla fine fu presa. L'aveva spuntata mia madre. Per quel periodo, fino a Natale, cioè, sarei andato a Torricella Peligna.
Di questo luogo avevo un debole e confuso ricordo. Dovevo esserci già stato una volta, nell'estate del '38, all'età di due anni circa. Di tutta l'Italia, anche se ci ero tornato in anni successivi - '47, '49 -, avevo un'idea vaga, come di una terra mitica, la patria dove un giorno saremmo ritornati per sempre, dove c'erano le nostre radici, i parenti, una casa. Ero piuttosto eccitato all'idea di partire. Il pensiero però di finire in questo paese sconosciuto, di restarci relegato, confinato tutto quel tempo, ospite di zia Coletta e zia Angiolina, mi allettava poco, anzi mi dava una certa inquietudine, per non dire angoscia. Intanto avevo scoperto che le zie in questione erano in realtà prozie: la loro età si aggirava intorno agli ottant'anni e passa. Ma soprattutto ero rimasto atterrito dalle loro facce. Un giorno mamma me le aveva mostrate su un vecchio album di famiglia, fitto di foto giallastre, sbiadite, che ritraevano gruppi familiari, coppie o singole persone in pose rigide e goffe da manichini, gli abiti ottocenteschi, i visi spiritati... «Ecco, questa è zia Coletta, e questa è zia Angiolina» mi aveva detto mamma, compiaciuta e fiera, indicandomele sull'album. Avevano facce terrificanti, in quelle foto, volti da medaglione funebre, da ovale di porcellana, di quelli che vedi sulle lapidi, nei cimiteri, con dentro stampato il ritratto del defunto. Non l'avessi mai sfogliato, quell'album con le foto delle zie e del resto del parentado nelle sue varie ascendenze, discendenze, rami collaterali e compagnia bella. Più mamma andava avanti a sfogliarlo, più inorridivo. Eravamo arrivati alle ultime pagine. Girandole, sfuggì una foto, volò sul pavimento. La raccattai: sembrava più che altro l'immaginetta di un santino, con gli orli listati di nero e una piccola croce al centro del bordo inferiore. «Chi è questa?» chiesi. C'era ritratta, in primo piano, una donna di aspetto truce, contadinesco. Dietro, era stampato il suo nome, Maria De Lellis, e un breve, retorico epitaffio. «È zia Manetta» rispose mamma facendo il viso mesto, sospiroso, mi tolse di mano quel ritrattino da necrologio e lo mise via, lo infilò in mezzo ad altre foto sfuse, ammucchiate alla fine dell'album. «Poveretta, è morta giovane, Manetta. È stata disgraziata, nella vita» aggiunse, non si capiva se alludendo alla sua prematura dipartita o a qualche terribile sventura che aveva segnato la sua breve esistenza. «E questo chi è?» chiesi pescando una foto tra quelle relegate alla rinfusa nelle ultime pagine.
Mostrava un giovanotto a braccetto di una signorina, un brunetto magro e capelluto, lo sguardo ardente, un po' allucinato. «Questo?...» mamma si chinò sulla foto poggiandoci su l'unghia appuntita «questo è zio Armandino». «Ah, zio Armandino» ghignai «lo scombinato, la capa fresca». «Anche tu con questa scemenza della capa fresca» fece mamma richiudendo l'album infastidita. «Aspetta. E lei chi è?» ripescai la foto «com'è che ha la faccia cancellata?». La donna sottobraccio a zio Armandino aveva il viso coperto da una patacca tonda, una specie di macchia d'inchiostro. «Questa?» disse mamma esitante, tornando a puntare l'unghia aguzza sull'immagine «chi lo sa? Forse qualche sua fidanzata. È una fotografia di tanti anni fa, questa» spiegò perplessa, forse anche un po' imbarazzata «è vecchia almeno di vent'anni». Eravamo in tinello, seduti al tavolo. Mamma si alzò e uscì, andò in cucina. Sentivo l'acciottolio dei piatti, di là, l'acqua del lavandino che scorreva. Restai a guardare l'album da solo, a sfogliare quelle pagine di cartoncino nero zeppe di foto, tutte ordinate, infilate negli appositi angolini. Sprofondai nella contemplazione affascinata e un po' raggelata di tutti quei personaggi sconosciuti, quelle tremende facce di parenti, zii, avi, tutti nati, vissuti a Torricella Peligna, molti già defunti. Un mondo oscuro, lontano, tetro. Guardavo quelle immagini con un senso di ripulsa e insieme di attrazione morbosa, macabra. Fra tutte quelle foto, mi colpì un'istantanea grande e rettangolare che ritraeva un gruppo di persone sedute su un prato scosceso pieno di margherite: dietro, sul fondo, si vedevano i tronchi e le fronde di una pineta ombrosa. Erano donne, bambini, qualche ragazzetto, tutti vestiti alla moda di prima della guerra, tutti per lo più accovacciati sull'erba, i visi sorridenti, le pose leggiadre, parevano in prevalenza mamme coi loro figlioletti. Al centro spiccava mia madre, giovane, belloccia. Accoccolato davanti a lei, si notava un moccioso di un paio d'anni, vestito con un buffo pagliaccetto, lo sguardo torvo: ero io. Di fianco a me, una bambina con le trecce, di qualche anno più grande, mi teneva un braccio intorno alle spalle. Rideva, quel genere di risata scema e impertinente che spesso i bambini di quell'età sfoderano di fronte all'obiettivo. Una signora, anche lei accosciata, le belle gambe ripiegate, strette, composte, poggiava a sua volta la mano sulla spalla gracile della bambina. Sul suo viso, notai, c'era la stessa macchia
d'inchiostro, quella specie di timbro, di marchio che avevo già visto nell'altra fotografia. «Ah ma'! E questa mo' chi è?!» gridai alzandomi, uscendo di stanza con la foto, volevo fargliela vedere, chiederle spiegazioni di quelle strane macchie tonde, quelle facce cancellate. Entrai in cucina, mia madre stava preparando la cena, tagliava a fette, sul marmo della tavola, zucchine, carote, sedani, ortaggi vari. Le indicai la donna con il viso coperto dalla patacca. «Chi è?» chiesi. «Questa?» dette una sbirciata. Teneva il coltello da cucina in pugno, il grembiule allacciato davanti «che ne so, Renzo. Sarà una di Torricella». «Ci siamo anche io e te, qua» le feci notare «guarda, dietro c'è scritto Torricella Peligna, luglio 1938». «Sì. Ho visto». «E non sai chi è?» insistetti «perché anche lei ha la faccia cancellata?». «Ma che vuoi che ne sappia. È una foto di tanti anni fa» sbottò «rimettila dov'era, per favore. E poi riponi l'album dove stava, all'ultimo ripiano in basso dell'étagère». Mi era venuto il magone, a sfogliare quel vecchio album, uno strano, oscuro turbamento. La stessa notte mi sognai Torricella, io che camminavo lungo le stradine lastricate di ciottoli, fra le case rustiche; passavo davanti ai portoncini antichi, sotto le loggette con le ringhiere in ferro battuto, le finestrelle strette. Era tutto come nelle fotografie dell'album. Dietro un grande cancello, mi aspettavano zia Coletta e zia Angiolina. «Vieni, vieni» mi dicevano sorridenti «benvenuto». Mi accompagnavano lungo un viale di cipressi... Mi accorgevo, all'improvviso, di trovarmi in un cimitero. «Entra, entra» continuavano a dirmi le zie, cerimoniose, indicandomi una cappella funebre. Esitavo. Avevo un groppo in gola, un'angoscia paralizzante. Mi guardavo in giro come in cerca di qualcuno che mi venisse in aiuto, mi liberasse da quell'incubo. In mezzo alle tombe, mi appariva d'un tratto la bambina della foto di gruppo, quella con le trecce: rideva, la stessa risata scema e impertinente. Con lei c'era pure la signora, anche nel sogno aveva il viso coperto da una patacca tonda, quella stessa macchia d'inchiostro della foto. Mi svegliai di soprassalto, fradicio di sudore, il cuore in gola. Passò qualche minuto prima che mi riavessi dallo spaventoso incubo: in quei pochi minuti decisi irremovibilmente che a Torricella Peligna non sarei andato a starci nemmeno morto. Di Venere e di Marte, non si sposa e non si parte, non s'inizia nessun'a-
rte, ripeteva sempre mia madre, la cui esistenza quotidiana era legata in modo ferreo al fatto che di martedì e venerdì non era permesso fare niente che non rientrasse nelle cose abituali, di ogni giorno. Neanche un paio di pedalini nuovi, appena comprati, potevi metterti, per dire, se no chissà quale accidente o disgrazia ti sarebbe capitata tra capo e collo. Solo che la nave che faceva servizio settimanale tra Tripoli e l'Italia partiva sempre di venerdì: una bella jattura. Non c'erano alternative, del resto, mia madre, sia pure tormentata da angosce e funesti presentimenti, dovette rassegnarsi al fatto che io partissi di venerdì. La mattina del giorno prima della partenza, mia madre mi fece la valigia. La tirò giù dall'armadio: era un valigione di cuoio giallo di proporzioni smisurate. Da solo pesava un quintale, figurarsi con tutta la roba che mamma ci avrebbe cacciato dentro e che di fatto riuscì incredibilmente a ficcarci. Intanto ci andava tutto il mio guardaroba: il cappotto, poi tre abiti, due paia di scarpe, tre camice, due pullover, un maglione, un gilet e, per finire, mutande, canottiere e calze varie. La biancheria intima, notai, era tutta infeltrita e qua e là rammendata. «Ah ma'!» protestai indignato, mentre mamma la sistemava in valigia «ma cosa sono 'sti calzini bucati, 'ste magliette infeltrite, porco Giuda?!». «Be', ma queste vanno sotto» si giustificò lei. Era la sua visione del mondo, quello che andava sotto, che non era visibile, poteva anche essere rammendato, vecchio, fare schifo, tanto non si vedeva. «Te la compri a Napoli la biancheria di ricambio. Là è più a buon mercato la roba e di migliore qualità». «Sempre come un pezzente devo andare» mugugnai. Finì di fare la valigia. Ci ficcò di tutto, per la gran parte regali da portare ai parenti di Torricella. Oltre alla mia roba, sistemò dentro la capace valigia datteri secchi, piatti di argentone, babbucce arabescate, pugnali berberi e una caterva di altri oggetti di artigianato locale, finanche un tappeto di Bukara riuscì a inzepparci. Quando provai a sollevare l'immane bagaglio, mi sembrò di smuovere un macigno... «Ah ma', ma questa pesa un quintale. Minchia, ma tutta 'sta roba debbo portare in Italia?!». «Sono i regali per i parenti di Torricella» rispose «e non dire quella parola» mi ammonì, non sopportava che dicessi minchia. Era un intercalare siciliano molto diffuso a Tripoli anche tra noi ragazzi. Prima di chiudere la valigia ci nascosi dentro, furtivo, il libro che stavo
leggendo, "Gli indifferenti", un romanzo all'indice, una storia scabrosa che mi attirava da matti. Fra le sue pagine, tra l'altro, ci avevo infilato alcune fotografie viste sull'album di famiglia qualche giorno prima: certi scorci del paese, in particolare, e poi i ritratti di zia Angiolina e zia Coletta, ma soprattutto le due foto in cui si vedevano quei visi coperti da una macchia tonda d'inchiostro. Mi avevano morbosamente incuriosito, quel paio di foto. Chissà chi erano quelle due là, con la faccia cancellata. Chissà chi gliel'aveva coperta con quella patacca. E perché, soprattutto. «Hai messo tutte le tue cose in valigia?» mi chiese mamma, alla fine «bada di chiudere bene a chiave le serrature. In viaggio potrebbero aprirtela e rubare. Non ti dimenticare che c'è un tappeto di Bukara, dentro. È il regalo per zio Armandino, quello. Ci tengo molto a quel regalo, è costato una fortuna». «Sì, l'ho chiusa, ma', sta tranquilla». Per un attimo mi era venuta paura che mamma avesse scoperto che dentro ci avevo infilato quel libro. Era una gran bigotta, mamma. Oltretutto, tra le pagine c'erano nascoste le foto del suo album, era gelosissima di quelle foto, le teneva tutte conservate, ordinate in quel fottuto album di famiglia. «Ci tieni tanto a zio Armandino, che gli hai regalato 'sto tappeto di Bukara, costato una fortuna?» divagai. «Sì, gli sono molto affezionata. Quasi come a un fratello». «Perché dici che è stato sfortunato, che ne ha patite tante nella vita?». Mamma fece di colpo il viso afflitto, assorto, come se il pensiero le andasse lontano, chissà a quale periodo della sua vita, a quale triste ricordo. «Si è fatto tutta la guerra, povero cristo» pigliò a elencare querula, «più due anni di prigionia in Africa Orientale. Ha sofferto tanto, laggiù, ha patito la fame, il caldo, le zanzare. Non si è mai perso d'animo, però, altro che capa fresca, come dice tuo padre. Quando è tornato in Italia, si è iscritto all'Università, ha sgobbato, studiato sodo, ma alla fine l'ha spuntata, è riuscito a prendersi la laurea in veterinaria». «Papà dice che gliel'hanno data perché era reduce, che a tutti quelli che tornavano dalla guerra, praticamente la regalavano, la laurea». «Sciocchezze!». «Be', ma allora dove sta tutta 'sta sfortuna,» obiettai «tanta gente ha fatto la guerra, è stata in prigionia». Mamma alzò gli occhi al cielo, agitò una mano in un gesto melodrammatico. «Lasciamo perdere» gorgogliò «questo è stato niente al confronto della
disgrazia che gli era già capitata prima». «Quale disgrazia, ma'? Prima quando?». Ogni volta veniva fuori la storia di 'sta disgrazia. Non c'era verso di sapere che razza di disgrazia gli era capitata, a zio Armandino. Ogni volta la mamma faceva quel gesto melodrammatico, alzava gli occhi al cielo. «Lasciamo perdere, va, non ne parliamo» gorgogliava ogni volta. 2 Da un paio d'anni eravamo andati ad abitare in un quartiere cosiddetto residenziale, si chiamava Città Giardino, era fatto tutto di villini simili, coi muretti di cinta e le inferriate da cui straripavano le bouganville e le siepi di gelsomino. Tornando a casa, la sera, il profumo di quelle siepi impregnava così intensamente l'aria da tramortire. A quell'ora, poi, da una moschea là vicino si sentiva il muezzin recitare, dall'alto del minareto, la sua preghiera vespertina, mi dava una strana, struggente malinconia, quella cantilena. La nostra villa era una delle ultime: più in là, si vedevano solo muriccioli a secco, ciuffi di palme, tamerici polverose e tabbie irte di fichi d'India. Oltre, era il deserto, la desolazione, il nulla: solo un tremolio dell'aria provocato dalla calura, e le cicale che frinivano invisibili, assordanti. La mattina della partenza passò a prenderci l'autista della Cassa di Risparmio. Arrivò con la gigantesca Cadillac, e noi - papà, io e mamma, compreso il valigione -, già pronti da mezz'ora sul pianerottolo di casa, salimmo a bordo. Durante il tragitto fino al porto, restai tutto il tempo silenzioso. Un languore malinconico mi aveva come annichilito. Non riuscivo a pensare a nient'altro se non al fatto che stavo lasciando per sempre Tripoli, i luoghi della mia infanzia e adolescenza. Era un pensiero vago, stralunato. Passammo davanti all'albergo Uaddan, una settimana prima ci eravamo andati tutti noi della terza B a festeggiare la fine della scuola, del liceo, la fine di tante cose che finivano e non tornavano più. Mi passavano davanti agli occhi le sagome dei compagni: erano fantasmi, ormai, ombre pallide, lontane. Che sbornia, quella sera all'Uaddan! Prima di imboccare il corso, lanciai una mesta occhiata all'ex palazzo del governatore, ora sede di re Idris El Sedussi e della sua corte. A quell'ora del mattino, l'asfalto delle strade era già lustro e molle per il sole che picchiava e faceva esalare dal bitume una tremula onda di calore. Incrociava-
mo altre macchine, tutte americane, mastodontiche, con le carrozzerie arroventate che sparavano spillate di luce accecante. A piazza Castello, svoltammo per la strada del porto, era l'ultimo tratto di terra ferma che percorrevo, l'ultimo tratto di suolo tripolino. Tripoli, bel suol d'amor. Attraverso il finestrino aperto ci arrivò dal mare una zaffata di salsedine, un puzzo putrido di petrolio e rifiuti. Attraccata al molo, imponente, bianca nel sole abbagliante, stava l'Argentina, la mia nave. Dopo aver passato l'ufficio della dogana, accompagnato dai miei, salii l'interminabile passerella che portava a bordo. Ero come in trance e grondavo sudore per il caldo feroce, la sferza accanita del sole, la fatica di trasportare su per la scaletta quel maledetto valigione. In cima c'era un ufficiale in divisa bianca che mi controllò passaporto e biglietto. Ero stremato. Dovetti continuare a trascinarmi la valigia per tutto il ponte e poi, dentro, sottocoperta, lungo i corridoi. Alla fine sbandavo, urtavo con l'immane bagaglio contro le pareti degli stretti passaggi. Avevo il braccio anchilosato, la mano così spasmodicamente artigliata attorno al manico, che quando mollai finalmente il macigno, non l'articolavo più. «Ma'» ringhiai «n'altra volta che mi ficchi tutta quella maledetta zavorra in valigia...». La cabina di seconda classe che mi era stata assegnata, aveva il numero tredici: era uno stanzino angusto e soffocante che prendeva luce e aria da un unico piccolo oblò. «Ti hanno dato la cabina numero tredici» commentò mia madre guardandosi attorno desolata «porta buono, il tredici». «Stai accorto, uagliò» si raccomandò mio padre. Erano gli ultimi pedanti avvertimenti che dovevo sorbirmi. «Prima cosa, studia; secondo, non prendere freddo; tertium, sii oculato col danaro. Dovrai amministrarti da solo, da questo momento in poi». «Ricordati, quando sei a Torricella, per qualsiasi cosa fa sempre capo a zio Armandino» mi ripeté mamma per la centesima volta. Neanche lo conoscevo, 'sto zio Armandino, l'avevo visto solo in foto, sottobraccio a quella signorina con la faccia cancellata. «Non ti dimenticare» aggiunse, «che il suo regalo è il tappeto di Bukara. Tra l'altro, c'è scritto il suo nome sulla carta da imballaggio». «Fanculo anche al regalo di zio Armandino» mi sfogai asciugandomi il sudore che mi colava a rivoli «solo quello pesa mezza tonnellata». «Uagliò, fa l'uomo» si congedò virilmente mio padre dopo avermi dato un buffetto sulla guancia e fatto un ganascino. Mia madre, invece, al mo-
mento del distacco, fu presa da commozione: era la prima volta che il cuoricino suo, l'animuccia se ne andava per tanto tempo, che partiva lontano. Mi abbracciò e sbaciucchiò a lungo. «Sta attento, a mamma». La nave si staccò lentamente dalla banchina. I motori ruggivano cupi dal fondo dello scafo e lo strepito della sirena si levò aspro e potente come il grido di un gigante asmatico. Intruppato nella massa di passeggeri che si assiepava lungo i parapetti, salutavo con la mano i miei genitori fermi sul molo, un gesto pigro, distaccato. Dall'alto della colossale murata, li vidi diventare sempre più piccoli, quando li persi di vista nel brulichio di gente che gremiva la banchina, mi staccai dal parapetto e feci qualche passo a casaccio, incerto se tornare in cabina o andarmene in giro per il ponte di seconda classe. Di colpo fui aggredito dall'idea lucida e lancinante che ero solo, solo e sperduto su quella nave che prendeva inesorabilmente il largo. Ebbi un attimo di panico. Tornai in cabina a disfare la valigia. Quell'operazione pratica e meticolosa mi tolse un po' di dosso lo sgomento. Cominciai a disporre sulla mensola dello specchio del minuscolo bagnetto i vari arnesi da toilette: il pettine, lo spazzolino da denti, il rasoio Gillette... Poco prima, il commissario di bordo aveva annunciato attraverso l'altoparlante che per i passeggeri di seconda classe il pranzo veniva servito alle 12.30 nella sala-ristorante. Aggiunse, rivolto ai signori uomini, che era gradita la giacca - in poche parole ti cacciavano via se non ti presentavi in giacchetta. Mi lavai la faccia, le ascelle, mi pettinai con un po' di brillantina liquida, mi vestii e, alla fine di tutto, andai a rimirarmi nello specchio lungo e stretto dell'anta dell'armadio. Vidi riflesso un mezzo adolescente smilzo, la faccia glabra e bruciata dal sole, i capelli ispidi, malgrado la brillantina liquida e il lavoro di pettine. I suoi occhi mi fissavano come quelli di un gatto spaventato, ebbi un momento di straniamento, come di perdita d'identità. Guardavo me nello specchio e vedevo un altro. «Ma tu chi sei?» farfugliai a fior di labbra. Il suono bisbigliato di quelle parole mi fece trasalire. Stavo diventando matto. Rinchiusi l'anta e guardai l'orologio: mancava un quarto a mezzogiorno. In attesa dell'ora di pranzo me ne andai sul ponte, all'aria aperta. La cabina era un buco maledetto, caldo, soffocante, impregnato di un tanfo insopportabile, oltre che rintronante per il rombo continuo e infernale dei motori della nave. Mi appoggiai al parapetto aspirando avidamente il soffio salmastro che saliva dalla sterminata massa blu del mare. Girai attorno lo sguardo scrutando l'orizzonte: la costa della Libia era ormai una sottile,
lontanissima strisciolina... Addio, Tripoli bel suol d'amor, compitai mentalmente. Bel suol d'amor o bel sol d'amor? Boh, mai saputo. Mi affacciai in sala-ristorante alquanto intimidito. Non sapevo dove andarmi a sedere, avevo persino vergogna d'inoltrarmi in quel salone già tutto gremito di gente che pranzava euforica e disinvolta, i camerieri che servivano pattinando veloci e sguscianti tra i tavoli, coi piatti e i vassoi in bilico sulle loro dita da prestigiatori. Veniva su un brusio soddisfatto, un odore appetitoso di cibo, un tintinnio di stoviglie. Il maitre, o quello che era, mi adocchiò, mi venne vicino e, con un fare falsamente cerimonioso gliene fregava assai di uno sbarbatello come me -, mi chiese nome e cognome e numero di cabina. «L'abbiamo messa di posto insieme al signor Piperno» mi comunicò guidandomi verso un tavolino d'angolo «abbiamo molti passeggeri, questo viaggio. Non le dispiacerà, signor Castaldo...». E invece mi dispiaceva eccome. Adesso, ogni volta dovevo mangiare con questo tizio davanti, magari costretto a conversare con lui, a scambiare convenevoli e frasi di circostanza: ero negato per questo genere di cose, quando mi ci trovavo invischiato soffrivo come una bestia. Era già seduto comodamente a tavola, 'sto tale Piperno. Sollevò per metà le chiappe dalla sedia e mi tese la mano con un sorrisetto trattenuto, tentennando un po' la testa. «Lieto, Piperno» disse con voce baritonale. Sembrava mezzo raffreddato, aveva il naso chiuso, gli occhi lucidi, un po' gonfi. «Piacere, Castaldo» farfugliai. A vederlo così da vicino, là per là non l'avevo neanche riconosciuto. Invece era proprio lui, il professore di lettere della terza A. Ci mettemmo a sedere. «Io ti ho già visto» esordì cameratesco, pigliando a scrutarmi con gli occhi strizzati. «Terza liceo, sezione B» risposi un po' impacciato. «Volevo ben dire» sorrise compiaciuto delle sue doti di fisionomista. «Sezione B, perciò col collega Azzarita. Dico bene?». «Proprio lui». «Il buon Azzarita» commentò lievemente ironico «formidabile grecista». «A chi lo dice. Era il nostro terrore. Quando c'interrogava in greco e scorreva il dito sul registro alla ricerca della vittima di turno, era il panico» ridacchiai sforzandomi di mostrarmi spiritoso. Se mi ci mettevo, riuscivo
anche a essere disinvolto e brillante. Che fatica, però. «Formidabile grecista, ma anche un po' rompiscatole» sogghignò Piperno scrollando leggermente la testa. Mi stupì quella sua battuta, non capivo se l'aveva detta convinto, perché davvero il collega Azzarita stava anche a lui sulle scatole per quella mania del greco antico e la barbosa pedanteria con cui lo insegnava, o per farsi bello con me, mostrare che era un insegnante ganzo, moderno, spregiudicato. Era la prima volta che parlavo con lui, che mi ci trovavo faccia a faccia. Lo incrociavo sempre per i corridoi dell'Istituto, elegante, dinoccolato, aveva stile, il tipo, quelle sceme delle mie compagne di classe si sdilinquivano per lui, anche se era l'insegnante di un'altra sezione. Passava col suo registro sotto il braccio, i libri, giornali vari e quel sorrisetto sempre stampato in faccia: non si capiva mai se pensava ai cavoli suoi o lo teneva lì, fisso sulle labbra, il sorrisetto, per rispondere ai saluti dei ragazzi, dei colleghi che incrociava. Comunque sia, lo trovai discretamente simpatico, conoscendolo. Era difficile che qualcuno mi stesse simpatico: ero terribilmente prevenuto con tutti, trovavo tutti, o quasi, invariabilmente antipatici, stronzi, rompiscatole, deficienti, e così via. Con lui, invece, legai abbastanza, e fu una vera fortuna visto che dovevamo mangiare allo stesso tavolo, a pranzo e a cena, per tre giorni filati tanto durava il viaggio da Tripoli a Napoli, con relative soste a Malta e Catania. Per la prima colazione, però, non si fece mai vedere: si alzava tardissimo, si faceva delle dormite di dieci, dodici ore filate. Forse per questo aveva quella faccia pesta, gli occhi gonfi, la voce cavernosa. Sembrava sempre che fosse appena uscito da uno stato di catalessi, che l'avessero buttato giù dal letto di forza. Come primo, quel giorno, ci servirono un potage di verdura con dentro dei crostini: una sbobba verdastra che solo a vederla faceva ribrezzo, a mangiarla un po' meno. Piperno se la ingollò tutta senza fare una piega. Stava seduto a tavola come un damerino, con gli avambracci poggiati correttamente, la testa eretta e il cucchiaio impugnato e portato alla bocca con stile e compostezza. Non come facevo io che lo infilavo in bocca dritto, brandendolo come fanno i bambini. Pensare che mia madre me lo ripeteva sempre che a tavola si sta in un certo modo, che i signori si riconoscono da come stanno a tavola. Non si parlò molto, quel primo giorno. Nessuno dei due era un gran conversatore. «Così, ti iscrivi all'Università di Napoli, Giurisprudenza» disse a un cer-
to punto sempre con quel mezzo sorrisino reticente, tentennando la testa «come mai hai scelto quella facoltà?». «Veramente l'ha scelta mio padre. Dice che apre tutte le strade, soprattutto nel pubblico impiego. Dice che lo Stato è sempre il miglior padrone: paga bene e non licenzia mai. Così dice». Piperno prese a scuotere la testa divertito. «Ma scusa, tu non hai delle preferenze, una qualche vocazione?». «Nessuna». «Una volta almeno, che so, alle ginnasiali, alle elementari, ti avranno pur dato il solito, classico tema: Cosa vuoi fare da grande? Quale risposta hai dato, per curiosità?». «L'aviatore». «L'aviatore?» sgranò gli occhi. Ridacchiai. «Scherzo, avrei una fifa matta a volare». Adesso rideva proprio, Piperno. Era un tipo alto e secco, col naso lungo e la chioma scapigliata da poeta. Aveva quarant'anni e passa, ma sembrava ancora un giovanotto. Magari un po' invecchiato, a guardarla da vicino, la faccia era segnata da rughette, punti e forellini come una pietra pomice. Veniva a tavola con degli eleganti completi scuri, le camice stirate e apprettate, le cravatte Regimental col nodo scappino, all'ultima moda. Fumava almeno un pacchetto al giorno di Navy Cut Player's, pregiate sigarette inglesi, e se le accendeva con un Ronson di marca, d'argento massiccio. Quello che più colpiva di lui, però, erano gli occhi: quando abbozzava quel sorrisino e pigliava a fissarti con le palpebre un po' strizzate, c'era qualcosa di ipnotico nel suo sguardo. Per il resto, fu un viaggio noioso. Vagavo per i ponti, su e giù per le scalette metalliche, i boccaporti, lungo i parapetti, come un disperato. Stavo le ore a poppa, col busto e la testa spenzolati fuori, a fissare la scia di schiuma ribollente delle eliche, ad ammirare i delfini che filavano di fianco alla nave e, a tratti, spiccavano un tuffo fuori dall'acqua, lisci e lucenti come fossero di metallo. Ogni tanto rialzavo la testa e vagavo con lo sguardo sul mare sconfinato: faceva paura il mare visto dalla nave, era di un blu cupo e tenebroso e, al solo pensiero di cascarci dentro - a star là, chissà perché, mi sfiorava quell'insana tentazione - mi venivano i brividi, lo sgomento. «Dove andrai a stare, a Napoli, in una pensione per studenti?» mi chiese il prof. Piperno. Era l'ultima sera che stavamo insieme a cena. L'indomani saremmo arrivati a Napoli.
«No, a Napoli mi fermo solo qualche giorno, il tempo di fare l'iscrizione all'Università, di comprare i testi degli esami. In quei giorni vado ospite da certi zii, parenti per parte di papà». «Ah, non ti fermi a Napoli?». «No, fino a Natale, vado a stare in casa di certe zie, in Abruzzo. Tanto, in Giurisprudenza non c'è obbligo di frequenza. Così dice mio padre. Poi, a gennaio del nuovo anno, quando anche i miei saranno rimpatriati, ci stabiliremo a Napoli. Mio padre ha già avuto il trasferimento». «Cosa fa tuo padre?». «Direttore di banca» risposi con una punta di idiota vanità: mi sentivo importante quando potevo dire che mio padre era direttore della Cassa di Risparmio. Al prof. Piperno non sembrò fare effetto la notizia, pareva più incuriosito del fatto che in quei mesi, fino a Natale, andavo a stare in Abruzzo. «Così, te ne vai in Abruzzo. Bellissima regione» commentò tentennando la testa e marcando quel suo sorrisino in punta di labbra. Prese un'aria sognante. «In una sua intervista» citò «Hemingway lo definiva uno dei luoghi più belli che gli fosse mai capitato di vedere. Lo sapevi?». «No». «Hai letto Hemingway?». La domanda mi gettò in uno stato d'angoscia, quasi di panico. Per un attimo mi sembrò di essere tornato in quella sordida aula di scuola - terza liceo, sezione B. Mi sembrò di stare impalato davanti al prof. Azzarita, balbettando risposte insensate, la testa confusa, i paurosi vuoti di memoria. Chi l'aveva mai letto Hemingway? E adesso che gli dicevo, puttanaeva? Di botto mi tornò in mente un libercolo gualcito che girava per casa: erano, manco a farlo apposta, dei racconti del famoso scrittore... «Sì, ho letto i "Quarantanove racconti"» risposi pronto «solo il primo, però» precisai «gli altri quarantotto devo ancora finire di leggerli». Piperno si mise a ridere. Aveva un discreto senso dell'umorismo. «In che parte dell'Abruzzo vai a stare?» mi chiese accendendosi una Navy Cut Players in attesa che ci servissero il dessert. Mi allungò il pacchetto. «Prego» disse. Ogni volta, a fine pasto, mi offriva una sigaretta. Ogni volta gli rispondevo: «Grazie, non fumo». Niente, non voleva metterselo in testa. Visto che era l'ultima sera che stavamo insieme a mangiare, accettai. In effetti, ogni tanto sfumacchiavo qualche sigaretta fregandola a mio padre, sbafandola ai compagni di scuola. Tirai una boccata, aveva un tremendo sapore
aromatico e dolciastro, quella schifosa Navy Cut offertami da Piperno, per poco non vomitavo. Pizzicava in gola, tra l'altro. Risposi tra colpi di tosse e raschi di tonsille. «In un paese di montagna. Torricella Peligna, si chiama». «Dove?» ripeté Piperno allungando l'orecchio. Forse non aveva sentito bene, avevo risposto tossendo, la voce afona. «Torricella Peligna» ridissi dopo aver buttato giù un sorso d'acqua. Piperno fece una strana faccia. Prese a vagare con lo sguardo, gli occhi persi nel vuoto. Tornò a guardarmi. «Torricella Peligna, provincia di Chieti?» domandò fissandomi fra le palpebre strizzate, tremolando la testa. C'era una specie di ansia, di morbosa curiosità in quella sua precisazione, che non riuscivo a capire. «Sì, provincia di Chieti. Perché, c'è stato?». Non rispose. Ci avevano portato la creme caramel, la mangiammo in silenzio. Piperno non smise di scuotere il capo, di guardare da una parte e dall'altra come inseguendo il filo di certi suoi pensieri. «Che strano» disse a un certo punto: lo disse come a se stesso. «Strano cosa?». Ci fu un altro lungo intervallo. Piperno insisteva a raccogliere dal piatto gli ultimi rimasugli del budino, se li portava col cucchiaino alla bocca. Pareva come sprofondato in una specie di stralunata meditazione. «Che strana coincidenza» ripeté. Aspettai che mi desse qualche ragguaglio su questa strana coincidenza. Invece continuò a passare la punta del cucchiaino in mezzo ai residui liquidi del budino, facendo dei solchi, degli strani ghirigori. «Cioè?» chiesi a un certo punto. Alzò lo sguardo e mi fissò per alcuni lunghissimi momenti, tanto che mi venne il sospetto che fosse uscito di testa all'improvviso. Pareva un matto con tutti quei silenzi, quel guardarsi attorno con gli occhi vuoti. Poi, come scuotendosi da quello stato di afasia: «No, pensavo» farfugliò «ultimamente ho letto un romanzo di un autore italo-americano. Molto interessante». «Ah, sì?» feci fingendomi incuriosito. Non me ne fregava niente della cosa. Era stato tutto quel tempo a rimuginare sul fatto che aveva di recente letto il romanzo di un autore italo-americano. E allora? «La coincidenza quale sarebbe?» chiesi, così, tanto per chiedere. «Che è oriundo di Torricella Peligna» rispose «si chiama John Fante. Suo padre è emigrato in America all'inizio del secolo. Faceva il muratore. Andarono a stare in Colorado. Poi lui, John, si trasferì in California e là ha
iniziato la sua carriera di scrittore. Senza molta fortuna, peraltro. Per mantenersi scrive sceneggiature per il cinema, la televisione. Dei suoi romanzi, in Italia, per ora hanno pubblicato "Aspetta primavera, Bandini". Ne sapevi niente?». La domanda, questa volta, non mi provocò quella specie di ansia da interrogazione. Ci mancava solo che fossi pure obbligato a sapere chi era 'sto John Fante, cosa aveva scritto e compagnia bella. Mica c'era nel programma di maturità. «No, mai sentito. Be', ma io Torricella praticamente non la conosco. Ci sono stato un'estate quindici anni fa circa, prima della guerra. Avevo due anni. Non mi ricordo niente». «Ah, ho capito» fece Piperno. Ci alzammo e ci avviammo fuori della sala-ristorante. «Però avete la casa, là?» s'informò «tua madre c'è nata a Torricella Peligna, mi hai detto». «Sì, certo». «Per caso, da tua madre magari, hai mai sentito parlare di una certa famiglia De Lellis?» mi chiese prima di accomiatarsi, svagato e curioso insieme. «De Lellis? Mia madre si chiama De Lellis. C'è un suo cugino a Torricella che si chiama così. Armando De Lellis. Zio Armandino. Fa il veterinario». Un'espressione ebete, quasi catatonica, calò di colpo sulla faccia di Piperno come una maschera. Smise quel suo eterno tremolio del capo, il sorrisetto complice e bonario gli sparì: ora mi fissava muto, con gli occhi assenti, le palpebre a mezz'asta. «Perché mi ha chiesto se conoscevo una certa famiglia De Lellis?» gli domandai imbarazzato, e anche un po' preoccupato per l'espressione beota con cui continuava a fissarmi. «Conosce una famiglia De Lellis di Torricella?». Sbottò in una risata che mi fece trasalire. Era un tipo controllato, Piperno, non alzava mai la voce, era sempre misurato, discreto. Quella sghignazzata non era da lui: mi lasciò stecchito. «No, sciocchezze» spiegò sempre ridacchiando in quel modo esagerato «a Bologna, quando insegnavo al liceo Minghetti, avevo un collega che mi parlava di certi suoi amici di Torricella: si chiamavano De Lellis, appunto. Lui, il mio collega, era di un paese lì vicino... Sciocchezze, reminiscenze». La cosa finì lì. Nel salutarmi, Piperno, nel caso non ci fossimo rivisti la
mattina dopo nel trambusto dello sbarco, mi dette il suo indirizzo. «Vienimi a trovare, se capiti a Bologna» si raccomandò. Quelle cose che si dicono in certe circostanze, quando ci si conosce durante un viaggio, in occasione di una vacanza e, alla fine, prima di salutarsi, ci si scambiano gli indirizzi. Dei proforma. Dentro di me sapevo benissimo che per il resto della mia vita non l'avrei mai più rivisto, il professor Piperno. Simpatico e tutto quanto, ma figurarsi se, capitando a Bologna, andavo a trovarlo, o cose di questo tipo. Non ci pensavo neanche. E poi quando mai sarei capitato a Bologna. Di preciso non sapevo neppure dov'era collocata geograficamente. 3 Quando l'Argentina finalmente attraccò alla banchina del porto di Napoli, ebbi subito la sensazione violenta e frastornante di essere approdato in un altro mondo. Mi ritrovai giù dalla nave, col mio valigione, senza neanche sapere come. Rimasi non so quanto sul molo, sperduto fra gente di ogni risma, assordato dalle sirene delle navi che strepitavano a più non posso, asfissiato dal puzzo di petrolio, bitume e marciume vario che impregnava l'aria. Non mi raccapezzavo, non capivo dov'era l'uscita, da che parte dovevo andare. Trascinandomi eroicamente il bagaglio, mi avviai a casaccio fendendo la folla brulicante, vociante. Presi al volo un taxi e, dopo aver attraversato una città che, se possibile, era caotica peggio del porto, arrivai a piazza Dante. «Quanto pago?» chiesi all'autista, mentre scaricava la valigia dal portabagagli - non c'era neanche il tassametro su quello scassone di taxi. «Facite vuie, signurì» mi rispose. Non avevo spiccioli. Gli scucii un biglietto da mille, convinto che mi desse indietro il resto. «Grazie tante, signurì» fece intascando la banconota - resto, nisba. Con quel facite vuie, signurì, i modi bonari e sottomessi, si era incamerato come minimo il doppio della tariffa, quel figlio di buona donna d'un tassista. I miei zii abitavano all'ultimo piano di un vecchio palazzotto fatiscente, un edificio del '600 o giù di lì. Suonai alla porta e mi venne ad aprire una servetta con la faccia smunta e il piumetto per spolverare in mano. Le dissi chi ero. Non fece una piega, anche se mi sembrò al corrente della faccenda, dell'arrivo cioè di un ospite, di un parente che veniva da lontano. In casa, a sentir lei, non c'era nessuno, e se c'era, stava impegnato in
qualche faccenda, da qualche parte di quella casa sterminata. Precedendomi attraverso corridoi, stanze, saloni, disimpegni, mi accompagnò in una specie di piazza d'armi buia, polverosa, piena di vecchi mobili accatastati. In un angolo c'era una brandina, mi fece capire che avrei dormito lì. Era di poche parole, la guagliona. Mi piantò da solo in quella stanza e se ne andò senza dire beo, col piumetto per spolverare in mano e quella sua faccetta patita. Era l'una. Aspettai fino alle tre e mezza prima di rivedere un'anima pietosa che si ricordasse di me, del nipote Renzo Castaldo, venuto da Tripoli. Avevo già rinunciato all'idea di pranzare, di farmi almeno un panino imbottito, quando tornò la servetta e mi annunciò che era pronto da mangiare. Mi ritrovai in una tavolata piena di donne e marmocchi. Erano tutti grassi e ricci, i peccerilli, con gli occhi neri e lustri come olive greche e le fossette alle guance. Mi guardarono per tutto il pranzo muti e attoniti, manco fossi stato un marziano piovuto dal cielo. Zio Marcello, il fratello di papà, non venne a tavola né a pranzo né a cena, né quel giorno né il giorno dopo. Pare fosse a Roma per un processo importante. Faceva l'avvocato, questo mio zio. Il resto della giornata lo passai buttato sulla branda a sonnecchiare. In quel torpido dormiveglia mi venne da ripensare alle foto con le macchie che avevo notato sfogliando con mamma l'album di Torricella: in tutt'e due si vedeva una donna col viso coperto da un tondo bluastro, una specie di grossa goccia d'inchiostro. Mi avevano colpito, quelle macchie, stuzzicato una curiosità smaniosa, una voglia di scoprire che genere di facce nascondevano. Prima di partire da Tripoli, ero andato a riguardarle, le avevo osservate in dettaglio con la grossa lente d'ingrandimento che mio padre usava a scopo filatelico - era un accanito collezionista di francobolli, papà. Analizzando i particolari, ero arrivato alla sorprendente conclusione che le due donne ritratte, quella più giovane, snella, sottobraccio a zio Armandino, e l'altra, più piena e formosa, seduta in gruppo sul parato, erano la stessa persona. Scoprii che avevano le stesse mani lunghe, affusolate, le unghie laccate di scuro. Sui loro vestiti, poi, ad aguzzare l'occhio, si scorgeva la stessa spilletta a forma di farfalla. Chi è che le aveva sfregiate in quel modo?, continuavo ad arrovellarmi in quello stravacco sonnacchioso. Chi le aveva come decapitate con quelle macchie sporche, bluastre? Perché l'aveva fatto? Me le ero portate con me, quelle due foto, nascoste in valigia, infilate tra le pagine del libro che stavo leggendo, "Gli indifferenti". Prima di cena uscii, scesi giù a fare due passi, a prendere una boccata
d'aria. Girai un po' per i vicoli là attorno, in mezzo agli effluvi di fritto e di altri odori grevi che uscivano dalle sordide case dei bassi, dal fondo delle piccole rosticcerie, dalle pizzerie affollate e rumorose. Per strada scorrazzavano e schiamazzavano frotte di scugnizzi. In un buco di cartoleria, comprai una boccetta di scolorina. Verso una cert'ora mi congedai educatamente dai miei ospiti, dissi che ero un po' stanco a causa del viaggio, che l'indomani mi aspettava una giornataccia, e altre balle simili, e me ne andai a dormire. Mi chiusi nello stanzone polveroso, quella specie di deposito zeppo di vecchi mobili accatastati e, nel silenzio tenebroso dell'immensa e antica casa, mi dedicai finalmente alla ghiotta operazione. Con grande cautela e pignola precisione passai il primo liquido sulle due macchie. Poi, dopo un po', come spiegavano le istruzioni, ci spennellai sopra anche la seconda sostanza. Aspettai trepido che l'operazione producesse i suoi effetti - questione di qualche minuto. Niente. Fallimento totale, atroce delusione: sotto le macchie che il liquido aveva sciolto e schiarito, affiorò la stampa della foto, anche quella, però, intaccata dall'acido della scolorina. Il viso della sconosciuta restava perciò ignoto, per sempre cancellato, ora, al suo posto, rimaneva una desolata, irrimediabile chiazza biancastra. Perché mi fossi portato dietro quelle foto - se mamma si accorgeva che gliele avevo tolte dall'album, scoppiava il finimondo - dovevo ancora capirlo. Forse, più che il mistero in sé delle macchie, aveva, a un certo punto, cominciato ad attrarmi lei, la donna col viso cancellato. Non mi stancavo di scrutare, studiare, specie nella foto di gruppo, la sua posa sensuale e insieme placida, le sue forme procaci: aveva un vestito a pois attillato, le maniche corte, la scollatura profonda che mostrava vistosamente lo spacco fra i seni. La gonna lasciava nude le ginocchia rotonde, i polpacci slanciati, torniti, le caviglie sottili. Anche le sue mani mi seducevano, non finivo più di analizzarle con la lente da filatelico: una era posata sulla spalla della bambina, un gesto lieve, materno. Quella mano, pensavo, quelle dita, le unghie smaltate, curate, avrebbero potuto posarsi anche sulla mia di spalla. Ero là, io, a mezzo metro da lei. Di certo, scattata la foto, la bella signora si era mossa, magari girata verso di me, mi aveva sorriso, fatto una carezza. Andavo a Torricella con l'idea pazzesca di rintracciarla, conoscerla. Anche quello era un modo di vincere l'angoscia che ogni volta mi afferrava al pensiero dei mesi che mi toccava passare in quel borgo selvaggio. Solo che adesso, porca miseria, insieme alla macchia d'inchiostro, la scolorina
aveva grattato via per sempre anche il viso che c'era sotto. Mi consolavo pensando che erano passati quasi vent'anni, la foto portava la data del luglio '38, chissà, pensavo, com'era cambiata in tutti quegli anni la signora, come si era trasformata. Magari era grassa, ora, addirittura sfasciata, le erano venuti, come a mia madre, il doppio mento, le borse sotto gli occhi. In quei giorni, vai a capire perché, quel viso cancellato, pian piano, stranamente, si era materializzato, nella mia fervida, delirante immaginazione, in quello di Rita Hayworth, nessuno mi toglieva più di testa, ormai, che la misteriosa signora avesse lo sguardo vellutato, il sorriso seducente della diva, la sua meravigliosa massa fulva e inanellata di capelli. Mi spogliai, mi ficcai tra le lenzuola di quella specie di branda da caserma. Fuori, giù, nella piazza, sentivo passare i tram: ogni volta tremavano le mura, vibrava il pavimento e i vetri della finestra tintinnavano peggio che per una scossa di terremoto. La luce dei fari che balenava dalle fessure delle persiane, il rombo sordo e uniforme delle auto che passavano incessanti, lo strombettio lontano dei clacson, mi tennero a lungo sveglio. Era l'Italia, quella, pensavo, era il respiro di una vera città, di una grande, ignota, paurosa metropoli. Avevo fatto tutto, risolto ogni cosa. Mi ci era voluta l'intera mattina a sbrigare le pratiche per l'iscrizione, c'erano volute file di ore agli sportelli dei vari uffici, delle tante segreterie. Un massacro. Credevo di soccombere. Per consolarmi, la sera, ero andato al cinema, facevano in prima visione "Gioventù bruciata", l'ultimo film di James Dean. Ero un patito di quell'attore. Mi stregò e coinvolse a tal punto, in quel film, che all'uscita del cinema, tornando a casa, mi ero messo a rifargli il verso: senza manco accorgermi, avevo preso a mimarne le mosse, i tic, le smorfie, il modo di camminare tutto ingobbito, saltellante, coi pugni affondati nelle tasche dei calzoni, la testa bassa e lo sguardo sguincio. Un fenomeno stranissimo. Mi ero talmente calato nel suo personaggio, che mi sentivo lui in tutto e per tutto. Ero convinto persino di assomigliargli. Il treno per Torricella era un diretto che partiva alle 9.45 dalla stazione di Mergellina. Uscito dalla desolata periferia della città, attaccò a filare in mezzo alla campagna a tutta forza. Sferragliava talmente che pareva dovesse disintegrarsi, andarsene in pezzi da un momento all'altro. Correva come un dannato, quel diretto - figurarsi se fosse stato un rapido. Seduto sulla dura panca di uno scompartimento di terza classe, vagavo con lo sguardo fuori dal finestrino. Com'era vario e colorato il paesaggio lì,
in Italia, tutto diverso da quello piatto, brullo e giallastro della Libia. Com'era lontana Tripoli, ormai. Lontana anni luce: Tripoli, il liceo, i compagni di scuola, le festicciole, i bagni al Lido, le partite di tennis al Beach Club. Ero in Italia, ora. Io stesso mi sentivo un altro. Mi sentivo lui, il ragazzo triste e ribelle di "Gioventù bruciata". Non c'era nessuno nel mio scompartimento. Tutto il convoglio pareva vuoto. Lungo i corridoi non passava anima viva, neanche il controllore che in genere viene a forare il biglietto. Neanche quello - almeno potevo chiedergli perché quel diretto filava a una velocità così pazzesca. Niente, non c'era un cane su quel treno fantasma. Per un attimo mi venne la tentazione di tirare il segnale d'allarme. Di colpo, poi, lo sentii rallentare. Con uno stridore di freni da scorticare i nervi, eccolo fermarsi in una stazioncina sperduta in mezzo a campi e macchie d'alberi. Tirai un sospiro di sollievo. Salirono quattro o cinque passeggeri. Rimanemmo fermi in stazione almeno mezz'ora. Sembrava che, dopo quella furibonda rincorsa, il treno avesse dato fondo a tutta la sua forsennata energia, pareva morto, inerte, piantato per sempre sui binari di quella stazione scalcinata e deserta. C'era un gran silenzio intorno: sotto il sole velato del mattino, si sentiva solo il frinire delle cicale in mezzo ai cespugli. Poi, sbucato all'improvviso come dal nulla, apparve sul marciapiede polveroso il capostazione, alzò la paletta e soffiò nel fischietto cavando un sibilo acutissimo che lacerò l'aria ferma, il silenzio afoso. Il treno si dette come una scrollata, da sotto la sua carcassa metallica sparò alcuni poderosi soffi, sollevò tumultuose nuvole di vapore. Con un ansito, dapprima lento e ritmato, poi sempre più convulso, serrato, tornò a lanciarsi sferragliante per la campagna. Il viaggio fu tutto così: folli rincorse attraverso i campi e lunghissime soste alle stazioni. Ogni volta salivano e scendevano pochi, sparuti passeggeri, e non si capiva la ragione di quelle soste interminabili. Il guaio è che il treno si fermava di continuo: ogni stazione che incontrava, la più piccola e derelitta, non c'erano santi, quel treno della malora faceva sosta. Fu un viaggio eterno. Verso la fine, quando il sole già declinava, il diretto cominciò ad arrancare: stavamo attraversando un immenso altipiano. Sul fondo, si alzava una montagna massiccia e tondeggiante. Lontani, sulla pianura, si vedevano decine di cavalli in branco: pascolavano tranquilli, oppure galoppavano con le criniere al vento. Pareva il Far West. Il treno fece la sua ennesima fermata davanti a una casa rustica a due piani. E se non era per l'insegna con scritto Stazione di Polena, non avrei
mai saputo di essere arrivato a destinazione. Scesi col mio valigione e mi guardai attorno: non c'era nessuno, mi sembrava di essere arrivato in capo al mondo. L'aria era fresca e aveva un profumo sottile e pungente che mi entrò nelle narici, mi dilatò i polmoni. Da qualche parte doveva esserci la mia corriera: infatti, girando attorno all'edificio della stazione, la vidi poco più in là ferma in uno spiazzo polveroso e bianco di breccia. Un tizio baffuto e di aspetto un po' losco mi venne incontro. Gli chiesi balbettando se quella era la corriera che andava a Torricella Peligna. Biascicò un mezzo sì, mi prese di mano la valigia e, senza sprecarsi in tante chiacchiere, andò a caricarla sul tetto della corriera inerpicandosi su per una scalettina metallica. Disse soltanto: «Per la madosca, se pesa. Che ci stanno dentro, le pietre?». Eravamo in quattro a bordo. Lo stesso tizio venne a farmi il biglietto, si era messo a tracolla una borsa di cuoio e in testa un berretto con la visiera. Aveva un'aria meno disperata con quel berretto e la borsa a tracolla. Ancora un po' smarrito, dubbioso, tornai a chiedergli se la corriera andava dritto a Torricella Peligna. «Fa pure le voltate» rispose. Là per là, non l'afferrai la battuta, la capii ripensandoci. Spiritoso, il tipo. Chi l'avrebbe mai detto, con quella faccia da morto di fame. Fino a Torricella furono davvero tutte voltate. Una strada terribile, sterrata, col fondo sconnesso, seminato di cune, bozzi, buche, un percorso infernale, pieno di curve, tornanti, pettate, saliscendi. La vecchia carcassa del mezzo sobbalzava di continuo alzando dietro di sé nuvoloni di polvere e, ad ogni voltata, facendo schizzare da sotto i pneumatici raffiche di pietrisco. A soffrire un po' di stomaco, era peggio che viaggiare sull'Argentina col mare in tempesta. Come il treno, anche quella fottuta corriera si fermò un numero infinito ed esasperante di volte. Fermò in tutti i paesi, le contrade, le frazioni, le varie località sparse lungo il percorso. Ogni volta il bigliettaio annunciava il nome del posto biascicandolo fra i baffi. Nomi lunghi, strambi: la Castelletta, Pizzoferrato, Colle di Macine, Montenerodomo, Fallascoso. Salivano ogni volta grappoli di contadini con le facce stralunate, carichi di fagotti, insaccati in abiti ottocenteschi. Qualcuno andava in giro con quelle rudimentali calzature chiamate chiochie. le usavano i briganti, i cafoni di una volta. Le donne, specie le più anziane, vestivano ancora come nel secolo passato, con certe gonne a pieghe, nere, gonfie, lunghe fino ai piedi, e in testa i fazzolettoni annodati alla nuca. Man mano che salivano e si andava-
no a sedere o si ammassavano lungo il corridoio, l'aria si faceva sempre più greve e irrespirabile. Alla fine, la corriera si era completamente riempita di cafoni. Dai e dai, a forza di fermarsi e caricarli, ormai era stracolma di gente. C'era un tanfo, lì dentro, che credevo di soccombere, di morire asfissiato. 4 La corriera arrivò a Torricella che era già buio. Si fermò lungo il corso del paese e subito una turba di indigeni venne ad accalcarsi sul marciapiede, davanti allo sportello. Cosa ci facevano tutti quei cafoni là attorno, non si capiva, se ne stavano intruppati, con le facce un po' tonte, a guardare la gente che scendeva e che saliva. Doveva essere per loro uno spettacolo di grande interesse, quello, un evento da non perdere. Scesi e mi feci largo fra tutte quelle facce che mi fissavano con ebete stupore. Faceva freddo lì fuori, all'aria aperta. Mi guardai attorno rabbrividendo, stringendomi nella giacchetta: vidi solo uno stradone buio e deserto, appena rischiarato dalla fioca luce di certi lampioni in ferro battuto, neri, rugginosi, piantati lungo i marciapiedi sconnessi. Calavano, non capivo da dove, folate di nebbia umida e bianchiccia. Dio santo, in che posto mi avevano spedito quei minchioni dei miei genitori. Mi venne vicino un tipo tarchiato, la coppola sdrucita, calcata in testa, e una giacchetta rattoppata e così striminzita che le maniche gli arrivavano a metà avambraccio, gli lasciavano scoperti i polsi massicci. Balbettò qualcosa in dialetto: non capii un tubo, anche perché aveva una parlata nasale e sconnessa, tipica degli scemi. Un po' doveva esserlo, a dire il vero, con quella faccia di tipo lombrosiano, le grosse mascelle e la scucchia, gli occhi vicini da bertuccia. Alla fine mi sembrò di capire che voleva portarmi il bagaglio, faceva il facchino, in poche parole. Si caricò in spalla quella dannata valigia del peso lordo di una tonnellata come fosse un fagotto da niente e mi guidò fino a casa di zia Coletta e zia Angiolina. A vederla da fuori, la casa aveva un aspetto dignitoso, sembrava un'abitazione di signori di paese. Entrammo in un vecchio portone ad arco coi batacchi di bronzo: il buio androne esalava un gelo muffo, misto a un vago sentore di piscia di gatto. Regalai all'omaccio una manciata di spiccioli per il trasporto: se ne andò visibilmente soddisfatto scappellandosi e mugolando indecifrabili parole di gratitudine.
Da certe descrizioni di mamma, sapevo che le zie abitavano al pianterreno. Bussai all'unica porta dell'androne - l'altra era in cima alla rampa di scale che portava al piano di sopra. Venne ad aprirmi una vecchia tracagnotta e claudicante, vestita di un abito di lana nera, grossa, fatto ai ferri, le maniche rimboccate. Era rossa in faccia, un po' scarmigliata, e impugnava un enorme mestolo di legno imbrattato di una pasta gialla e granulosa. Sembrava una contadina. D'acchito, la scambiai per la serva di casa. Era zia Coletta. «Tu sei Renzo, il nipote!» esclamò «entra!». Entrai esitante, il sorriso tirato fino allo spasimo. Posai la valigia vicino alla porta. Non sapevo che dire, le mascelle mi si erano come cementate. Continuavo a sfoggiare quel sorriso fasullo, mi dolevano le gote a forza di sorridere. «Salve» alitai. «Ti ho visto che eri un mammoccello!» gridò zia Coletta. Non parlava, gridava. «Mo' sei un giovanotto! Fatti abbracciare, a zia!» protese le braccia, mi chinai al suo livello, mi sentii abbrancare al collo e sbaciucchiare con foga le guance, prima una poi l'altra. Era impregnata di uno strano tanfo, un misto di fumo di camino e aglio. Era apparsa anche l'altra zia, intanto, zia Angiolina: una vecchia segaligna col viso ossuto e severo e due occhi chiari da gufo. Era tutta diversa dalla sorella, aveva un aspetto più signorile, contegnoso: portava un vestito scuro, austero, e un medaglione appuntato sotto il collettino di pizzo. Mi baciò compunta. «Non è venuta Carmela a prenderti alla corriera?» mi chiese per prima cosa. «Chi è Carmela?» balbettai frastornato, morso da un'improvvisa, vaga tristezza. «È la nostra donna di servizio» mi spiegò «l'avevo mandata a prenderti alla fermata». Ci sedemmo a parlare attorno a una grande tavola rustica che campeggiava in mezzo alla sala d'ingresso. Presero a farmi le solite domande di rito. Rispondevo a monosillabi. Mi era calata addosso una strana malinconia. Che ci faccio qua, ragionavo svanito, in questa casa brutta, tetra, insieme a queste due vecchie sconosciute? Le guardavo. Erano tutte diverse dalle foto dell'album: più vecchie, rugose, canute. Non le avrei mai riconosciute. C'era un grande camino acceso. Una grossa pentola panciuta, nera, incrostata di fuliggine, pendeva sul fuoco agganciata a una catena. Zia Colet-
ta ogni tanto si alzava, ci andava vicino, c'immergeva dentro il mestolone e rimestava il contenuto con piglio esperto e forzuto. «Ti pace la polenta?» mi chiese scoccandomi occhiate ammiccanti. «Sì, credo di sì» risposi con un filo di voce, attanagliato da una sottile angoscia. «A Tripoli, però, non la mangiamo mai». «Polenta e salsicce. Ti piacciono le salsicce?!». Diceva frasi del genere, zia Coletta Com'è andato il viaggio? Come stanno mamma e papà? Zia Angiolina parlava poco, invece, diceva cose meno banali, più concettose, si vedeva che era istruita e voleva mostrarlo, marcare la sua superiorità rispetto alla sorella rozza e sempliciotta. A un certo punto chiesi se potevo andare in bagno, mi tenevo stretta una pisciata da almeno due ore, stavo scoppiando. Mentre ero lì, beato, che scaricavo nel water un torrente di orina, sentii dall'ingresso una voce trafelata. Doveva essere Carmela, la serva di casa, parlava un dialetto strettissimo, una specie di ostrogoto. Cercava di discolparsi, la poveretta, spiegava di non aver visto un accidente di nessuno scendere dalla postale, c'erano un sacco di cafoni alla fermata e, in quel fitto di gente, mica era facile adocchiare una persona che manco si conosceva. Rientrai. Vedendomi apparire, la ragazza s'irrigidì, restò due secondi di sasso, come impietrita. Abbassò gli occhi e una vampata di rossore le incendiò le guance. Poi, brusca, senza mezza parola, un balbettio, pigliò a trafficare per il salone: tirò fuori dal cassetto della credenza la tovaglia e l'andò a stendere sulla tavola, afferrò piatti, posate e bicchieri e li sistemò tutti in giro. Andava su e giù rapida e indaffarata: faceva come se io non ci fossi. Era una giovinetta formosa, questa serva, paffuta e colorita come una bambola Lenci. Sulla cima della testa aveva una lunga treccia arrotolata, e indossava un abituccio marrone a quadrettini, le calze di filo, qua e là rammendate, e un paio di scarpe scalcagnate, con le stringhe e il mezzo tacco. Doveva essere il suo vestito buono, quello, se l'era di sicuro messo per l'arrivo del nipote. Non venne a sedersi a tavola, mangiò in un angolo appollaiata su una seggioletta di paglia, col piatto di polenta e salsiccia sulle ginocchia e un'enorme fella di pane in mano. Dopo cena sparecchiò, lavò i piatti in quattro e quattr'otto e tornò a sedersi su quella stessa seggiola. Restò tutto il tempo in quell'angolo ad ascoltarci attenta e silenziosa come una gatta. Solo alla fine la vidi che aveva rovesciato la testa all'indietro, chiuso gli occhi e aperto la bocca. Dormiva. «Carmela!» strillò zia Coletta con un tono di rimprovero, quasi fosse una
grave sconvenienza abbioccarsi sulla seggiola. Lei tirò su la testa, sbatté gli occhi. «Eh, che c'è?» biascicò intontita. «Aggiusta il letto all'ospite, rimboccagli le coperte!» le ordinò zia Coletta, sempre strillando. Mi guardò e, sottovoce: «Ti abbiamo lasciato la stanza più grande, più bella. La stanza dei tuoi bisnonni». «Sarai stanco del viaggio» osservò zia Angiolina scrutandomi. Dovevo avere una faccia provata, oltre che triste e stralunata come quella di un Pierrot. «Eh, un po'» annuii. Restammo a chiacchierare un'altra mezz'ora. Parlavano solo loro, le zie. «Eh, certo che...» commentavo ogni tanto con un sorrisetto vago, affilando sulla tovaglia l'ennesima pallina di mollica di pane. In quel dopo cena torpido, con la stanchezza che mi era calata addosso, la digestione faticosa, non avevo fatto che appallottolare mollica di pane e commentare con dei gran Eh, certo che... Quando ero a corto di argomenti, o proprio non mi andava di sforzarmi, me ne uscivo con un bel Eh, certo che... La frasetta andava accompagnata da un mezzo sorriso sbieco e una scrollatina di testa. Riuscivo a mostrarmi partecipe e discorsivo anche per una intera serata con quel Eh, certo che... Funzionava a meraviglia. Ci demmo la buonanotte, finalmente. Mi ritirai nella stanza che le zie avevano preparato per me. Era un camerone col pavimento di cotto, le pareti ruvide, il soffitto basso, di travi. C'era una porta-finestra che dava su una specie di loggetta: prima di mettermi a letto, uscii, andai ad affacciarmici, mi appoggiai alla ringhiera di ferro battuto e respirai l'aria pungente della notte. La nebbia si era dissolta, il cielo era limpido, nero, seminato di milioni di stelle, Rientrai. Carmela mi aveva portato in stanza la valigia. «Volete che vi aiuto a disfarla?» mi disse posandola sul pavimento in un angolo. «No, grazie. Lo faccio domattina». Mi guardai in giro, osservai i mobili antichi, funerei, i quadri alle pareti. «Toh, quanta gente» commentai con una risatina divertita, mi si era accapponata la pelle, invece, un senso di freddo mi era sceso fin dentro le ossa. Non ci avevo fatto caso, entrando, a tutti quei quadri e quadretti appesi alle pareti. Alcune erano immagini religiose: la Madonna col volto dolente e in braccio il bambinello; un Cristo che indicava col dito il proprio cuore gonfio e vermiglio come un pomodoro; i soliti santi con l'aureola e i visi rivolti misticamente al cielo. Nella penombra, poi, uno alla volta cominciarono ad apparirmi, come in
una funerea galleria, anche le facce di alcuni parenti di mamma. Avevo già avuto il piacere di fare la loro conoscenza sfogliando il famoso album di foto, quello che mamma mi mostrò prima di partire, che teneva gelosamente riposto nell'ultimo ripiano in basso dell'étagère. Occhieggiavano sinistri e spettrali dalle loro cornici. Al centro di una parete campeggiava una coppia ritratta a mezzo busto, lei col tuppo, il vestito ottocentesco, lui coi baffi a virgola, il colletto duro e il cravattino. Mi fissavano nella penombra con certi occhi vivi e sgranati da far spavento. Girai lo sguardo, non reggevo quei loro occhi allucinati. «Quei due signori, per esempio, chi sono?» chiesi, la voce strozzata. Li indicai col pollice sfoggiando un sorrisetto scanzonato, dentro avevo la tremarella. «Quelli? Quelli sono don Armando De Lellis e la mogliera, donna Amelia. Sono il padre e la madre di comare Angelina e comare Coletta». La notizia mi colpì. Cribbio, erano i miei bisnonni, quelli. Ero emozionato. Lei, donna Amelia, era in pratica la nonna di mia madre, aveva lo stesso nome, infatti, ci assomigliava pure. Adesso non riuscivo più a staccare gli occhi da quel ritratto, mi soggiogava e atterriva nello stesso tempo. Restai muto non so quanto a fissarlo con avida, insaziabile curiosità. C'era un altro viso già visto, familiare, incorniciato e appeso in un angolo. Era una foto recente: non aveva la patina seppia e sfumata, la stampa sbiadita dei ritratti di una volta. Era un viso largo, da contadina, lo sguardo accigliato, fisso, un po' ottuso. «Lei la conosci?» chiesi a Carmela. «È la comare Manetta» rispose pronta, lusingata di quel ruolo ciceronesco che improvvisava con un certo buffo sussiego. Maria De Lellis, ecco chi era! Mi tornò in mente l'immaginetta listata a lutto sfuggita dalle pagine dell'album, planata sul pavimento del tinello. Povera zia Manetta, è morta giovane. È stata disgraziata nella vita, poveretta, aveva commentato mamma con l'aria da monaca, mesta e compassionevole. Chi era 'sta zia Manetta, perché la sua foto si trovava in quella stanza, in mezzo a tutti quei ritratti di avi, nonni, prozii, tutti defunti, trapassati da tempo, tutti appesi alle pareti, sistemati in antiche cornici piene di riccioli e fregi? Che tipo e grado di parentela aveva con zia Angiolina e zia Coletta? «Ma cos'è, parente delle zie?» azzardai. «Sì, è la nipote, sorella di don Armandino» rispose Carmela, ringalluzzita, compresa in quel compito di spiegare al forestiero chi era quello e quel-
l'altro, a chi era nipote, zio, fratello o cosa. «Ah, era sorella di zio Armandino?». «Sì, erano fratello e sorella, don Armandino e la comare Manetta... Poveretta, lei è morta giovane». Carmela si avvitò l'indice alla tempia. «Non ci aveva la testa a posto, povera cristiana» aggiunse con una spallucciata. «Cos'era, matta... scema?» chiesi. Lei annuì con un po' di imbarazzo, un sospiro, un'altra alzata di spalle: l'argomento aveva preso una piega scabrosa. «Be', mo' vado» tagliò corto, congedandosi, uscendo frettolosamente di stanza, di nuovo con quel fare solerte, affaccendato, come se fosse sconveniente che la serva di casa indugiasse a spettegolare coi forestieri, gli estranei. Si fermò un attimo sulla soglia, mi sorrise civettuola. «Be', buonanotte, sogni d'oro» mi augurò. Notai che di lato le mancava un dente, un premolare. Aprii la valigia, cominciai a disfarla. Adesso capivo perché mamma diceva di zia Marietta che era stata disgraziata nella vita. Capivo anche perché papà, quando si parlava di zio Armandino, oltre a tacciarlo di scombinato, capa fresca, faceva quella battuta maligna sulla sua famiglia, la chiamava famiglia di matti. La prima matta della famiglia era appunto Marietta, sorella di zio Armandino. Adesso capivo. Mi spogliai, m'infilai il pigiama. Ma quando si trattò di andarmi a ficcare sotto le coperte, ebbi dei momenti di seria difficoltà. Il letto era un autentico catafalco, per cominciare, bisognava inerpicarcisi, tanto era alto da terra. La testiera, poi, pareva il cancello di un cimitero, piena di sbarre e ghirigori in ferro battuto, con l'ovale centrale dipinto di nero, decorato di malinconici disegni floreali. Solo il pensiero, mentre dormivo, di avere sulla testa quella grata funerea mi faceva star male. Mi svegliai al suono delle campane. Da quando ero arrivato era stato un continuo scampanio: da diventare matti. L'orologio del campanile, tanto per dirne una, rintoccava ogni quarto d'ora: un vero stillicidio. Ogni quarto d'ora, non c'erano santi, quel dannato orologio scoccava implacabile i suoi lugubri rintocchi. L'avevo appurato mettendomi a letto, la sera prima. Mi rigiravo cercando di addormentarmi, stremato dal viaggio, dall'impatto col paese, dalle zie, e da tutte quelle cose nuove e strane che mi erano capitate, compreso quel lettone a catafalco col materasso duro e bitorzoluto, per non parlare dei quadri appesi alle pareti, quella galleria di facce spettrali, di parenti defunti, di cari estinti, quando cominciai a sentire quei rintocchi spezzare ogni quarto d'ora il silenzio della notte. Stiamo freschi, pensai.
La mattina, poi, mentre ancora mi crogiolavo in un dormiveglia comatoso, la campana grossa attaccò all'improvviso a suonare a distesa: un fracasso che non finiva più, concitato, assordante. «Ma com'è che le campane stanno sempre a suonare, in questo paese?» chiesi a Carmela, venuta a portarmi il caffè a letto. «E be', questa è la messa delle nove» rispose. Venne a posare la tazzina sul comodino e poi andò a spalancare la finestra. «Dov'è l'ufficio postale?» domandai. Mi ero tirato su, sorbivo il caffè. «Sta su, verso la metà del corso» rispose fissandomi la bocca nel gesto che facevo di accostarla alla tazzina. Si era appoggiata al muro col vassoietto in mano e un'aria indolente, trasognata. «Devi mandare qualche telegramma?» s'informò curiosa, grattandosi un polpaccio col dorso della scarpa. «No, devo solo imbucare una lettera» risposi restituendole la tazzina. «Una lettera a papà e mammina?» fece lei ammiccante, uscendo di stanza. Non risposi. Si stava prendendo troppa confidenza, quella servetta: la sera prima mi dava del voi, adesso era già passata al tu. Ci aveva preso, però, si trattava proprio di una lettera a papà e mammina. Solo che dovevo ancora scriverla. Non che morissi dalla smania di farlo, me l'avevano chiesto loro. Scrivi subito, quando arrivi, mi avevano raccomandato. Facci sapere subito tue notizie. Spedisci per posta aerea, mi aveva spiegato papà, se no chissà quanto ci mette ad arrivare. A questo proposito mi aveva fornito di speciali buste e foglietti di carta velina, col bordo listato di azzurro e by air mail stampigliato in un angolo, in alto. L'ufficio postale, come aveva spiegato Carmela, stava appunto su per il corso, verso la metà. Era una bella giornata di sole e l'aria fresca, settembrina, aveva un odore tutto speciale, sottile, pizzicante, doveva essere l'altitudine a dare all'aria quel profumo strano, inebriante. Mi fece effetto vedere il paese di giorno, con la luce viva del sole che mostrava impietosa le case vecchie, rugose, i portoncini antichi, le finestrelle strette, i marciapiedi lastricati di ciottoli. Che fatica, Dio buono, camminare su quel selciato sassoso. L'ufficio era un unico locale a pianterreno. Si entrava dal portone e subito, oltre un uscio coi vetri smerigliati, ci si trovava in uno stanzone enorme, male illuminato, zeppo di vecchie scaffalature, di mobiletti-archivio, sommerso da montagne di pacchi, pacchetti, stampe, pile di lettere. Il telegrafo picchiettava indefesso i messaggi e la striscia scorreva senza sosta, si arrotolava, si ammucchiava in un angolo, sul pavimento. In quel caos da
capogiro, dietro una scrivania, incastrata in una sedia girevole e a rotelle l'unica cosa moderna in tutto quel vecchiume - troneggiava una donna incredibilmente grassa, straripante di ciccia. Sulla cima del suo pachidermico corpaccione, spuntava una testolina e una faccetta allegra e burrosa. Senza scollarsi dalla sua poltroncina, spingendosi e ruotando su quella specie di trespolo snodato e scorrevole, il donnone si spostava agilmente da un punto all'altro dell'ufficio. Chiesi un'affrancatura aerea per Tripoli. La donna-cannone consultò un libraccio tutto gualcito, disse la cifra che dovevo spendere e affilò sulla scrivania una mezza dozzina di francobolli - il piano era seminato, ingombro fino all'inverosimile di oggetti di cancelleria: calamai, boccette d'inchiostro, penne, matite copiative, gomme per cancellare, barattoli di colla, timbri, tamponi di carta assorbente. «Scommetto che voi siete il figlio di Amelia De Lellis» fece a un tratto, fissandomi con quel faccino pingue e giulivo, gli occhi luccicanti e il dito a salsicciotto puntato. Quando seppe che ero appunto il figlio di Amelia l'aveva intuito, furba, dal fatto che spedivo una lettera a Tripoli - non finiva più di stupirsene e rallegrarsene. Aveva una parlantina irrefrenabile. Ogni tanto, poi, lasciava partire delle risate squillanti come i gorgheggi di un soprano. Chissà quanto sarebbe durato tutto quel suo stupore complimentoso, quel fiume di commenti e risate scoppiettanti, se non fosse entrato un tizio a chiedere se era arrivato "Il Ponte", una rivista che il tale riceveva in abbonamento, evidentemente. Era un uomo sulla cinquantina, l'aria elegante e ganza del signorotto di paese. A quel punto, la grassona m'indicò e annunciò solenne: «Armandino, ti presento il figlio di tua cugina Amelia. Guarda che bel giovane che tieni per nipote» e giù una delle sue risate acute ed esplosive che trapanavano i timpani. Il signore si girò a guardarmi, mi squadrò da capo a piedi. «Tu sei Renzino?» disse con un sorriso dolce e lo sguardo lustro di stupita, lieta sorpresa. Mi abbracciò calorosamente: aveva addosso un profumo di acqua di colonia, un odore di flanella e tabacco. Era il famigerato zio Armandino, roba da non crederci. Uscimmo, ci avviammo lungo il corso. Poggiandomi paterno una mano sulla spalla, il famoso zio prese a farmi un sacco di domande, s'informò dei miei studi, la famiglia, Tripoli, l'ambiente della ex colonia, la vita che si faceva laggiù, e via di questo passo. La solita solfa. A un certo punto, pri-
ma che gli passasse di mente, mi avvisò che la sera ero invitato a cena da lui. Me lo ordinò, anzi. «Niente storie, stasera sei a cena da noi» disse bonariamente perentorio. Aveva i baffetti sottili all'americana, i capelli lisci e neri, brizzolati un po' alle tempie e pettinati all'indietro con la riga in mezzo: pareva un attore hollywoodiano vecchio stile, anni '40. Davvero. Era uno strano misto tra George Brent ed Errol Flynn. Camminando lungo il marciapiede del corso, si girava spesso a guardarmi, languido e sorridente, come sorpreso, orgoglioso di avere un nipote venuto nientemeno che da Tripoli. Da quei suoi sguardi teneri e avvolgenti, pareva anche compiacersi del mio aspetto: gli sembravo un tipetto originale, forse, un ragazzo moderno, con un certo suo stile, un'aura cosmopolita. Quella mattina mi ero messo i calzoni di vigogna e un maglione a collo alto color zabaione, non passavo certo inosservato. D'istinto, poi, forse per far colpo sullo zio, ero tornato a calarmi nei panni del personaggio de "La valle dell'Eden", il ragazzo schivo e ribelle interpretato dalla rivelazione del cinema americano, l'ultima scoperta, dopo Marion Brando, del famoso Actor's Studio: James Dean. Senza neanche accorgermi mi ero messo a camminare mezzo ingobbito, masticando monosillabi, lanciando in giro occhiate sbieche, passandomi ogni tanto le dita tra i capelli ispidi e spettinati - per somigliare a lui, avevo smesso del tutto di pettinarmi. Le mie risposte secche e un po' sarcastiche, invece di smontarlo, lo stuzzicavano, lo incuriosivano. Mi teneva la mano sulla spalla e mi parlava con quel tono carezzevole, le vocali larghe, una lieve erre moscia. Quando arrivammo alla fine del corso, mi indicò la sua Volkswagen posteggiata in uno slargo, quasi davanti all'ambulatorio veterinario. Disse che quella mattina avrebbe fatto sciopero, se ne sarebbe andato a caccia di quaglie, starne, pernici, pure di qualche lepre, se capitava - si era appena aperta la stagione venatoria, infatti. Zio Armandino. L'avevo conosciuto, finalmente. In valigia c'era pure il tappeto di Bukara che la mamma aveva acquistato per lui al Suk di Tripoli. Un regalo costoso, speciale, i famosi tappeti di Bukara... Appoggiati a lui per qualsiasi cosa, mi aveva ripetuto mia madre fino alla noia. Be', non mi dispiaceva proprio 'sto zio al quale appoggiarmi per qualsiasi cosa. Scombinato, capa fresca, lo bollava sarcastico papà, non mi pareva proprio. Lo vidi andare verso la macchina. Assomigliava a George Bernt nel film "La scala a chiocciola": la giacca di velluto da gentiluomo di campagna, la camicia scozzese di flanella e un paio di ganzissimi stivaletti a gambale,
allacciati di lato con le Abbiette. Lo osservai mentre tirava fuori dal bagagliaio il fucile da caccia e la cartucciera che si affibbiò alla vita, sotto la giacca. Quando aprì la portiera, il cane, che stava dentro accucciato, schizzò fuori festoso e scodinzolante. Salirono a bordo entrambi, lui mise in moto l'auto e si avviò: dal vetro abbassato del finestrino mi salutò con un gesto molle della mano e un sorriso di straziante dolcezza. 5 Zio Armandino abitava sopra di noi, al primo piano. Il suo appartamento, però, era più bello, sembrava una casa di città anche se un tantino triste, polverosa, con quella mobilia ottocentesca, la carta da parati stinta, chiazzata di umido, le tende un po' flosce, le mantovane sdrucite. Nel salone, al centro di una parete, c'era un grande camino di pietra con la mensola in legno massiccio, seminata tutta di oggetti di antiquariato. Ci sedemmo a un tavolo rotondo. Eravamo solo io e lui, anche se c'era un terzo posto apparecchiato, col piatto, le posate, il bicchiere e tutto quanto: aprendomi il tovagliolo sulle ginocchia, mi domandavo chi ci si sarebbe venuto a sedere. Arrivò una vecchia secca e sgobbata reggendo una grande zuppiera fumante fra le mani adunche. «Rachele, conosci Renzo?» sorrise lo zio rivolto alla donna, a mo' di presentazione. «Sì, sì, il figlio di Amelia, ho capito» rispose lei, scorbutica, la voce chioccia. Manco mi guardò in faccia, solo un'occhiata sguincia. Se ne andò subito, si allontanò piegata in due ciabattando a passi veloci e scattanti. «Dov'è Pupa?» le chiese zio Armandino mentre lei usciva di stanza «dalle una voce, per cortesia». Un richiamo rauco e rabbioso, a metà tra il ringhio della iena e il verso della cornacchia, echeggiò per casa, istantaneo... «Pupaaa!». Pareva l'urlo di Tarzan. «Chi è Pupa?» azzardai timidamente. «Ma come, non vi siete visti?» si stupì zio Armandino scodellando nel mio piatto un paio di mestoli di pasta e fagioli. «Le ho detto di te, di venirti a salutare, a conoscere. Non è scesa giù nel pomeriggio?». «No, no». Ancora dovevo capire chi fosse questa Pupa, che legame parentale aveva con lo zio, se era la sorella, la moglie o magari la madre, la zia - un'altra
orrenda vecchiaccia, tipo Rachele -, quando entrò la persona in questione. Ero di spalle, non la vidi: mi arrivò soltanto una forte zaffata di profumo Arpège, mi sembrò, lo usava pure una mia compagna di classe. Raggiunse il tavolo come una folata di vento, si sedette. «Scusatemi» disse. Afferrò il tovagliolo e, mentre se lo apriva sulle ginocchia, girò la faccia dalla mia parte e mi fissò un paio di secondi con occhi assenti, che non guardavano. «È così che saluti tuo cugino Renzo?» la rimproverò bonario zio Armandino stirando i baffetti filiformi nel solito, mieloso sorriso. Si alzò di scatto. Mi alzai anch'io: avevamo all'incirca la stessa statura, lei però calzava le cenerentole. Era vestita tutta di nero, con un maglioncino aderente da ciclista e i pantaloni a metà polpaccio, attillati: una mise che le modellava il virino, i fianchi rotondi, le tette piccole e appuntite. Stringendole la mano, sentii che l'aveva molle e bollente come se avesse trentanove di febbre. «Su, datevi un bacio» c'invitò lo zio. Ci scambiammo il doppio bacio sulle guance, lei con uno slancio impacciato. Al profumo di Arpège, mescolava un sentore di carne calda, febbricitante: fremeva e traspirava tutta, come se fosse in uno stato di continuo orgasmo. Parlò pochissimo durante la cena, solo monosillabi, frasette secche, concise, dette quasi per dovere: ogni volta faceva uno scatto, alzava la testa, scoccava uno sguardo veloce su me, sul padre. Aveva i capelli lunghi, ricci, a coda di cavallo, un nasetto di tipo adenoideo, la bocca lenta e carnosa e gli occhi grandi, un po' a palla, con le palpebre gonfie e piene di ciglia e rimmel. Non capivo se mi piaceva o no, se mi era antipatica o meno. Il nome era tremendo. Pupa. A una cert'ora zio Armandino si congedò: «Vado a farmi la mia oretta di lettura» ci disse, lo sguardo languido, velato di sonno, il sorriso stanco. «Mi sentirò le notizie del giornale radio, e poi a nanna... Ragazzi, io mi sveglio alle sei, al canto del gallo». Avevamo preso il caffè, lui si era fumato un mezzo toscanello con grande voluttà, spandendo nuvole di fumo, impuzzonendo la tavola. Pupa ogni tanto sventolava la mano e arricciava il nasino in una smorfia che accentuava al massimo quella sua aria schifiltosa. «Voi restate pure. Beati voi che potete dormire fino a tardi. Vi invidio». Lo zio si alzò pigramente e, con un ultimo, indulgente sorriso, se ne uscì. Lo sentimmo passare in cucina, fermarsi a parlare con la vecchia serva. Piombò un silenzio pauroso. Pupa mosse il coltello, urtò il bicchiere: ne
uscì un tintinnio assordante. Seguirono momenti di tensione spasmodica, volevo fuggire. Stavamo seduti a tavola a occhi bassi, immobili, quasi pietrificati. Nessuno dei due fiatò per almeno un paio di minuti. Mi parvero lunghi un millennio: io appallottolavo mollica di pane, lei si contemplava le unghie laccate di rosa. «Ti piace la musica?» se ne uscì d'un tratto. Trasalii. «Dipende». Passò un altro tormentoso minuto. Mi arrovellavo per trovare qualcosa da dire, da aggiungere, magari sulla musica. Ero stato terribilmente laconico, prima. Niente. Per quanto mi scervellassi non mi veniva niente in testa, neanche una boiata qualsiasi. Paralisi totale. Afasia. «Vuoi venire su, in camera mia? Sentiamo qualche disco» mi propose voltandosi verso di me, ma senza guardarmi, girando gli occhi da un'altra parte. «Sì, va bene». Ci alzammo quasi simultaneamente. La seguii un po' curvo, saltellante, grattandomi qua e là, alla maniera di James Dean o Marion Brando, stile Actor's Studio. Salimmo al buio su per una rampa ripida e stretta, lei davanti, io dietro. «Non fare caso a questo schifo di uccelli impagliati» disse «sono i trofei di mio padre, il cacciatore». Neanche ci avevo fatto caso a quei volatili, tipo fagiani, starne, attaccati a tavolette di legno ovoidali, appesi ai muri. In cima alla rampa di scale, vidi da una nicchia del muro fare capolino una civetta impagliata: stava con gli artigli aggrappati a un ramo e gli occhi finti che ci fissavano vitrei. «Un giorno o l'altro, questa la faccio sparire» proclamò Pupa «ma ti pare che debba vedermi circondata da queste presenze sinistre?». Di colpo si era messa a parlare a tutto spiano, aveva un modo di esprimersi affettato, come se recitasse, se ogni cosa che diceva dovesse suonare spiritosa, originale. «Quel personaggio inqualificabile che è mio padre» continuò a declamare «fa di professione il veterinario, dovrebbe cioè curare, salvare gli animali. A settembre, invece, quando si apre la caccia, quella specie di atroce mattanza di innocui volatili, il dottor De Lellis Armando mette a tracolla la doppietta, la cartucciera, e va per le campagne a impallinare uccellini. Ti sembra coerente?». «Eh, certo» feci, mostrando di condividere la sua indignazione: la questione mi lasciava freddo, in realtà.
Entrammo in una stanza che mai mi sarei aspettato. Era arredata di mobiletti moderni, laccati di bianco: il lettino aveva una trapunta a fiori e sul pavimento c'era un grande tappeto soffice e peloso. Ebbi subito un senso di calore, d'intimità. «Accomodati» mi invitò Pupa indicandomi una sedia di vimini a dondolo «cosa vuoi sentire? Tranne che le canzoni del Festival di Sanremo... le detesto, quelle... ho un po' di tutto». Non sapevo che dire. Non avevo dei gusti precisi in fatto di musica: mi piacevano i cantanti americani, tipo Frank Sinatra, Dean Martin, oppure certe vecchie canzoni napoletane. Avevo paura di rivelare gusti dozzinali. «Ma, non so» balbettai «mi piace, per esempio...». «Melodico? Jazz? Armstrong? Nat King Cole? Basta che non mi chiedi Luciano Tajoli o Natalino Otto». «Natalino Otto? Chi lo conosce?». «Ti piace Gershwin?» tagliò corto vedendomi dilaniato dal dubbio, torturato dall'incertezza «metto Summertime. Ti va bene?» si avvicinò al grammofono, sfilò dalla busta un 78 giri, lo mise sul piatto, fece scattare il braccio meccanico e poggiò la puntina sull'orlo del disco: subito si diffuse per la stanza il refrain melanconico del brano. Pupa andò ad accoccolarsi sul letto, rimase là in silenzio tutto il tempo che durò il disco. Io mi lasciai andare sulla sedia a dondolo su e giù, piano piano, per non rompere l'incanto del momento. Per un po' la puntina frusciò a vuoto. Pupa si tirò su di scatto - si alzava sempre così, come una molla. «Adesso ti faccio sentire una canzone che mi manda in estasi» disse tornando sculettante al grammofono, sfilando dalla busta un altro disco «"Les feuilles mortes". La conosci? Non dirmi che non la conosci, ti ripudio come cugino». «Ah sì, mi pare. È francese, no?». «C'è anche nella versione di Yves Montand. Naturalmente te la faccio ascoltare cantata da lei, la musa dell'esistenzialismo, Juliette Gréco. Sono andata a sentirla a Parigi, sai, in un locale di Saint-Germaine-des-Prés, una cave piena di fumo. Un'emozione, guarda...». Ero frastornato. Non sapevo un tubo di tutte quelle cose che sciorinava. Juliette Gréco, la musa, la cave. Ascoltammo il disco in religioso silenzio. Lei era tornata ad accoccolarsi sul letto e, a occhi chiusi, ripetendo le parole della canzone a fior di labbra, ondeggiava la testa al ritmo lento della musica. Pareva davvero in estasi.
Il disco finì. Pensai a come i dischi finiscono in fretta specie se ti piacciono e li stai magari ascoltando o ballando con una che ti piace. Pensai che mi sarebbe piaciuto fare un balletto con Pupa. «Tua mamma dov'è?» le chiesi, così, d'acchito, una domanda che non c'entrava niente col pensiero di prima. «Non c'è, è via» rispose brusca, come se non volesse parlarne. Si alzò di nuovo e tornò a rimettere lo stesso disco. Afferrò il tappetone peloso per un capo e lo trascinò, lo ammucchiò in un angolo. «Balliamo?» disse, quasi mi avesse letto nel pensiero. Il cuore prese a battermi. Stava in mezzo alla stanza, controluce, in posa d'attesa, flessuosa e invitante, la mano sul fianco - con l'indice dell'altra faceva un gesto rotatorio. «Ti va?». La raggiunsi, la presi alla vita e cominciammo a girare. Incespicavo ogni tanto. «Come lo balli, a valzer o a slow?» mi chiese. «Boh, non lo so». Prima di indovinare il passo, di andare a ritmo, ci misi un po', boia d'un Giuda. Ero tutto sudato, alla fine. «È malata, mamma. Sta in un sanatorio» disse a un certo punto, quando avevamo preso a girare che era una meraviglia. Sua madre era malata, stava in sanatorio. Dio santo, che tristezza, non le avessi mai fatto quella domanda. Mi guardai bene dal fargliene altre, il discorso finì lì, per fortuna. Sentii la sua guancia morbida e calda poggiarsi sulla mia, i suoi seni aderire al mio torace, duri come due mele. Cominciai a eccitarmi, mi si gonfiò il coso nei calzoni. Lei se ne accorse. «Guarda che siamo cugini» mi alitò nell'orecchio. La frase mi gelò. Il disco era finito. Restammo un istante allacciati. Pupa tirò indietro la testa e mi fissò, prima la bocca, poi la fronte, non guardava mai negli occhi. «Cugini in seconda, comunque» sorrise. Era la prima volta che la vedevo sorridere: aveva i denti grossi e bianchi come i tasti di una fisarmonica. Stavamo fermi al centro della stanza, mezzi allacciati, come se dovessimo iniziare un altro giro di danza: non sapevo che fare, che dire. Feci un mezzo sbuffo, una risatina a commento di quello che aveva detto, che cioè eravamo cugini - in seconda però. «Fammi capire» le chiesi, tanto per uscire dall'imbarazzo «ma il tuo nome è proprio Pupa?». «No, per carità. Mi chiamo Gabriella. Solo qua in casa, a Torricella, so-
no Pupa: per papà, le zie, la gente del paese. A Bologna sono Gabriella. Le amiche, i compagni di Università, mi conoscono tutti come Gabriella. Se venissero a sapere di questo mio nomignolo, sai le sghignazzate, gli sfottò». Attaccò a ridere: l'idea che i suoi amici scoprissero che in casa la chiamavano Pupa le sembrava molto divertente. Rideva in modo strano, era una specie di singhiozzetto, la sua risata, tipo il nitrito di un cavallino. Mi sconcertò quel suo modo di ridere. Il coso mi si ammosciò del tutto. «Senti quest'altra» disse tornando al grammofono, mettendo su il rovescio dello stesso 78. Avevo preso ad aggirarmi per la stanza: intanto sbirciavo qua e là ozioso. Mentre la musica andava, indugiai davanti a uno scaffaletto di libri, lessi i titoli sul dorso. Accanto, appesa alla parete, c'era una specie di bacheca gremita di fotografie, cartoline, cartoncini d'invito, souvenir vari, fiori secchi, tutti fissati con le puntine da disegno, infilati gli uni negli altri. «Sei tu, questa con le treccine?» le chiesi distratto e allo stesso tempo attirato, punto da non so che genere di curiosità. «Sì, sono io. Avevo dieci anni, là. Ancora con le trecce. Le zie mi hanno fatto le trecce fino alle ginnasiali. Ti rendi conto?». Lo diceva indignata, il tono altisonante: recitava, come al solito. «Se non mi fossi opposta tenacemente, ribellata, andrei ancora in giro con le trecce, e magari il fiocco in testa. A ventun'anni». «E chi sarebbero queste zie che ti hanno fatto le trecce fino alle ginnasiali?». «Come chi sarebbero? Zia Angiolina e zia Coletta. Non sai che sono vissuta fino a quindici anni sotto la loro ferrea tutela? Fortuna che il liceo sono andata a farlo a Bologna, in collegio, dalle suore di Santa Dorotea». «Ma scusa, tua mamma dov'era?». «Ti ho detto, no?» rispose nel modo brusco di prima «mia madre è in sanatorio». Si appoggiò alla parete, aveva la faccia tirata, lo sguardo cupo, prese a osservarsi le unghie, a stuzzicarsele l'una con l'altra. «Scusa, ma da quant'è che sta in sanatorio?» provai a chiedere. A quel punto era inutile far finta di niente, glissare, tanto valeva andare a fondo della cosa. Il disco era finito ma continuava a girare, con la puntina che raschiava nel solco: si era incantato. Pupa taceva, aveva agganciato un ricciolo della sua lunga coda di cavallo, lo cincischiava col dito, lo arrotolava, lo tirava...
«Da sempre, praticamente» rispose dopo un lungo silenzio, in un sussurro che le sfuggì dalle labbra imbronciate come per caso «io, mia madre, è come se non l'avessi mai avuta, praticamente». «Ma cos'ha?» insistetti. Continuava a strecciarsi i capelli. «Non lo so». La voce le usciva appena, un farfuglio indistinto. Di scatto, gettandosi indietro la coda di cavallo con un colpetto secco della mano, si mosse veloce verso il grammofono. Niente, non voleva saperne dell'argomento. «La conosci questa?» disse con la voce di nuovo squillante mettendo su un altro 78, un'altra canzone francese. Non risposi. «Fino a ieri» divagai, «neanche sapevo della tua esistenza, e tu altrettanto». «A dire il vero, io avevo notizie di un certo cugino africano». «Invece noi due ci siamo conosciuti, ci siamo già visti una volta». «Quando?». «Nel luglio del 1938, qui a Torricella». «Impossibile». «Non ci credi? Te lo giuro. Se vuoi te ne do la prova». «Che prova?». «Aspetta solo un momento» dissi uscendo dalla stanza a razzo, scendendo veloce i gradini «torno subito!». «Dove vai, adesso?!» mi gridò dietro mentre scendevo a rompicollo le scale. Anche l'altra rampa, quella dell'atrio, la feci di corsa, elettrizzato dalla scoperta, dall'intuizione che mi aveva folgorato - più che un'intuizione, pensavo, era stata una deduzione: anzi un sillogismo. Sì, c'ero arrivato esattamente in base a un sillogismo, farneticavo tra me, eccitato, elettrizzato dalla scoperta appena fatta, un puro e semplice sillogismo. Risalii le due rampe di scale facendo i gradini a quattro a quattro, divorai d'un fiato tutti quei gradini, fin su, nel sottotetto dove Pupa aveva la sua stanza. «Guarda qua!» rantolai col respiro mozzo, mostrandole la foto. «Cos'è?» fece lei prendendola in mano, osservandola col naso arricciato e un sorriso incerto. «Non ti riconosci? Sei quella con le treccine». «Ma guarda» commentò sorpresa. «E sai chi è il moccioso che ti sta accanto, vestito con quel patetico pagliaccetto?».
«Chi?». «Io». Pupa non si faceva capace. «Tu questo?!» esclamò sbottando in quella risata a singhiozzo, quella specie di nitrito. Rideva a bocca aperta, la stessa espressione sciocca e insolente che aveva la bambina della foto. «Ma sei buffissimo!» sghignazzava sgangherata. «E questa che mi sta vicino, con la faccia cancellata, chi sarebbe?» chiese tornando seria, assorta «chi è che l'ha sconciata così?». «Boh. Prima ci aveva una macchia d'inchiostro, sulla faccia. Ho cercato di toglierla con la scolorina e invece è andata via pure la stampa» spiegai «anche se non si vede in viso, dovresti riconoscerla». «È una parola. Proprio non saprei». «È tua madre». Dicendolo, non so perché, mi venne la pelle d'oca. Pupa non rispose. Si era irrigidita: fissava la foto imbambolata. «Sai come ci sono arrivato a capirlo?» dissi piano, emozionato «attraverso un sillogismo. Se A è uguale a B e B è uguale a C, anche A è uguale a C». Le mostrai l'altra foto. «Vedi, sta pure qua quella signora, sottobraccio a tuo padre. In una sta con lui, nell'altra sta con te e ti tiene la mano maternamente poggiata sulla spalla. Ergo, secondo la logica matematica del sillogismo, la signora di quelle foto è con tutta probabilità tua madre». «Ha la faccia cancellata anche qua» osservò Pupa in un bisbiglio, non mi aveva neanche ascoltato, forse, neanche aveva seguito quel mio ragionamento. Restò alcuni lunghi, cogitabondi momenti a osservare le foto. «È o non è tua madre, quella?» provai a insistere «possibile che non la riconosci? Va bene che ha la faccia cancellata...». Non rispose. «Guarda com'era giovane papà in questa fotografia. Irriconoscibile» commentò alla fine. Non disse altro. Gettò le due foto sul piano del tavolino con un gesto sbadato, indifferente, e tornò al grammofono. Dopo aver frugato tra i 78 giri, ne sfilò uno dalla busta, lo adagiò sul piatto, fece scattare il braccio meccanico, posò sul disco la puntina. «Ah, La vie en rose!» esclamò, rapita, estasiata «Edith Piaf... Dai, balliamola». Mi si avvicinò a passo di danza, mi porse la mano, mi invitò con quel fare teatrale, l'aria mondana. Aveva la fissa per le canzoni francesi, tutte un po' tristi, vecchiotte. Una vera mania. Prendemmo a girare per la stanza al ritmo lento e strascicato del pezzo. Sentivo il contatto morbido e accaldato del suo corpo, annusavo avido il suo profumo marca Arpège misto al sudore. Pupa, mia cugina. Neanche
sapevo che esistesse. 6 Alle undici dormivo ancora. Avevo preso sonno tardissimo. Tutta la notte ero stato ossessionato dall'orologio della chiesa, dai rintocchi che, implacabili, ogni quarto d'ora scoccavano come una campana a morto. In più si era alzato un ventaccio furioso: soffiava con tale violenza che pareva dovesse sradicare la casa. La ragione vera, però, di quella maledetta insonnia era Pupa, inutile negarlo. Dal giorno in cui l'avevo conosciuta, non riuscivo più a togliermela di testa. C'eravamo rivisti un paio di volte soltanto, tutt'e due le volte avevamo fatto una lunga, solitaria passeggiata - l'unica cosa, del resto, che si potesse fare in quel paesotto fuori dal mondo, sperduto in mezzo alle montagne. Parlava sempre lei, durante quelle passeggiate, sempre delle sue cose, sempre con quel tono teatrale, esagerato, pieno di paradossi, di frasi e parole ricercate. Eppure smaniavo lo stesso di rivederla, anche solo per andare a passeggio, anche se dovevo tutto il tempo sciropparmi i suoi sproloqui. Non era neanche il mio tipo, tra l'altro, aveva un sacco di piccoli difettucci: era bruna e riccia, tanto per cominciare, e a me invece piacevano le bionde diafane, le nordiche coi capelli lisci e gli occhi chiari. La cosa, però, che più mi dava fastidio di lei, era la sua spocchia, quel piccolo mondo altezzoso ed esclusivo in cui pareva rinchiusa: le canzoni francesi, Juliette Gréco, Bologna, l'Università, i colleghi, il giro di amiche - le citava di continuo, le chiamava per nome, come se anch'io le conoscessi: Pinuccia, Mirella, Loredana. Da quel suo piccolo mondo, pareva guardare tutto e tutti con distacco e degnazione. A me, per dire, mi trattava come un ragazzino qualunque, un qualsiasi cugino in seconda. Con tutto che venivo dall'Africa e rifacevo il verso a James Dean, non ero riuscito a fare colpo su di lei neanche un po'. La cosa mi rodeva, ci stavo perdendo il sonno. Fui svegliato da un brusio di voci che veniva dal salone. Poi sentii bussare, i soliti due colpetti, si aprì la porta ed entrò Carmela. «Sveglia, signorino Renzo» cinguettò petulante «stamattina ti abbiamo lasciato dormire di più perché è domenica». «Ma che ora è?» biascicai cavernoso. «Sono le undici passate. Di là, ci sta tua cugina che t'aspetta» mi annun-
ciò. «Pupa?». Non volevo crederci: sgusciai fuori dal letto a razzo e cominciai a vestirmi a velocità vertiginosa. Cribbio, c'era Pupa di là che mi aspettava. «Il caffè. Bevilo, sennò ti si raffredda» mi raccomandò Carmela posando la tazzina fumante sul comodino. Andò ad aprire le imposte della finestra. Faceva sempre così, la mattina, mi portava il caffè e poi subito andava a spalancare la finestra. Mi irritava terribilmente quel gesto, mi scuoteva il sistema nervoso. Ancora imbambolato e torpido di sonno, venivo accecato da tutta quella luce, investito dall'aria esterna, peggio che da una secchiata d'acqua. Ogni volta mi ripromettevo di dirglielo, farle capire che mi dava terribilmente ai nervi quando spalancava in quei modi la finestra. Invece mugugnavo solo qualche parolaccia tra i denti. Erano tutti seduti attorno al tavolone: zio Armandino, pupa, le prozie. Sul piano c'erano i bicchierini di cristallo, quelli buoni, la bottiglia di Marsala e un grande vassoio pieno di dolcetti, specialità paesane fatte in casa dalle zie. «Ben levato!» strillò zia Coletta vedendomi entrare con quell'aria rattrappita e pesta di chi si è appena svegliato. «Salve» salutai. Lo sguardo subito corse torvo su Pupa, stava seduta in pizzo alla sedia e sbocconcellava un dolcetto con quel suo fare sempre vagamente schifato. Aveva indosso una giacca tre quarti rosso bordò, non se l'era nemmeno tolta. Manco mi guardò. «Mangia anche tu una pastarella!» mi fece zia Coletta, sempre gridando «lo vuoi un goccio di Marsala?!». «No, grazie, zia... Come mai questa riunione?» chiesi un po' frastornato. In realtà ero alquanto sorpreso di vederli là, tutti riuniti attorno al tavolo, tutti rivestiti. «Tuo zio passa sempre a farci visita, la domenica mattina. E poi ci accompagna in chiesa» spiegò zia Coletta altisonante, la parlata forbita «c'è la funzione solenne alle undici, la Messa cantata». Zio Armandino finì di gustare a piccoli sorsi il Marsala. «Adesso muoviamoci» disse posando il bicchierino, alzandosi. Aveva il vestito della domenica, la cravatta e le scarpe a punta ben lucidate. Aiutò le zie a infilarsi i soprabiti, si mostrava con loro pieno di premure e attenzioni, e le zie parevano assai compiaciute e lusingate di questo. «Tu non vieni alla Santa Messa?» mi chiese zia Angiolina. «Alla Santa Messa?» balbettai preso un po' alla sprovvista. «Anche lui miscredente» commentò scherzoso zio Armandino strizzan-
domi l'occhio. «Questi ragazzi d'oggi, zia, non credono più a nulla. Gioventù bruciata». «Sì, tu ci ridi» ribatté zia Angiolina, piccata, con un tono di predica, di rimbrotto «se non vanno più a Messa, la colpa è anche dei genitori che non gli inculcano più i principi religiosi. Tu, a tua figlia, per esempio, non l'hai fatta neanche cresimare ancora. Bella roba!». Mi lanciò un'occhiata di sussiegosa intesa, come se desse per scontato che condividevo il suo severo rimprovero. «Sta tranquilla, zia. Pupa la farà la Cresima» rispose zio Armandino, sempre strizzandomi l'occhio «volente o nolente, dovrà in ogni caso farla quando convolerà a giuste nozze. Il problema è se troverà mai qualcuno che se la sposa». Mi guardava, continuava a farmi l'occhiolino, forse avrei dovuto sorridere, mostrare di aver colto l'ironia complice di quella sua battuta allusiva. «Sì, tu scherzaci. Perché invece non ti dai da fare e non le cerchi un bravo marito a questa tua figlia?» replicò pronta zia Angiolina fissandomi e facendo su e giù con la testa come a farmi intendere la gravità della situazione. Forse avrei dovuto farle un cenno, mostrare che avevo compreso il problema, che ero d'accordo con lei. Ci muovemmo verso la porta, uscimmo tutti in gruppo sulla strada. Zio Armandino aveva al braccio zia Angiolina, zia Coletta, a sua volta, si aggrappava al braccio della sorella. Si avviarono tutt'e tre lungo il corso in salita, mescolandosi ai paesani rivestiti a festa - anche loro andavano a messa, salivano a frotte verso la chiesa. In fondo, in alto, al di sopra di un muraglione chiamato le Terrate, incombeva la grande chiesa in stile romanico, con la facciata di pietra secolare, macchiata e corrosa dal tempo, il muschio e i ciuffi d'erba che spuntavano tra pietra e pietra. Zio Armandino camminava piano, girandosi spesso a controllare se le vecchie procedevano senza intoppi. Zia Coletta si appoggiava anche al bastone, aveva l'andatura sciancata a causa di quel suo femore rotto. «Visto che bravo tuo padre? Accompagna le zie a messa» commentai. Io e Pupa ci eravamo fermati sul marciapiede, davanti all'albergo Roma. Era una bella giornata di sole, il vento era caduto. «Le sue care ziette» fece sarcastica Pupa «stravede per loro. Sono le uniche parenti strette che gli sono rimaste a Torricella. E loro, le ziette, adorano lui, naturalmente... L'unico nipote maschio, il cocco». «È l'unico nipote maschio?» osservai «lo sai che ancora non l'ho capita
'sta parentela». «Ti spiego io la genealogia» attaccò Pupa facendo grandi gesti nell'aria come a rappresentare un immaginario albero genealogico. C'eravamo avviati giù per la strada di S. Antonio - si chiamava così, la strada, perché a un certo punto, in prossimità di una curva, c'era una chiesetta dedicata appunto al Santo. Partendo dai bisnonni Armando e Amelia, Pupa mi spiegò la parentela, le discendenze, i rami collaterali e via dicendo. Ci mise un'ora. Particolare curioso: in tutta quella prolissa e dettagliata rassegna, non citò mai la madre. Neanche per sbaglio. «Ah, però» dissi alla fine, avevo la testa confusa, ci avevo capito poco o niente. In fondo, non è che m'importasse granché di conoscere il mio albero genealogico. Ero molto più curioso, invece, di sapere qualcosa di più della madre di Pupa, di scoprire, per esempio, se davvero, come sospettavo, lei e la donna delle foto erano la stessa persona. Ci avevo tanto ricamato sulla misteriosa signora senza volto, mi ero quasi invaghito di lei a forza di guardarla, esaminarla con quella grossa lente da filatelico: me le ero persino portate dietro, quelle due fotografie, con la segreta e pazzesca idea di rintracciarla a Torricella, di conoscerla, scoprire chi era. Ed ecco là, subito svelato il mistero, ecco che, fin dalla seconda sera del mio arrivo a Torricella Peligna, venivo a sapere che forse, probabilmente, incredibilmente, la signora della foto era la madre di Pupa. A quel punto mi serviva solo la controprova per esserne matematicamente certo. E solo Pupa, a quel punto, poteva darmela. Invece, ogni volta che si sfiorava appena l'argomento, lei si irrigidiva, si ammutoliva, oppure dava risposte vaghe, imbarazzate. Quella sera, quando le avevo mostrato le foto dicendo che la donna col viso cancellato per me era sua madre, aveva addirittura finto di non capire. Si era alzata ed era andata a mettere su un altro disco, un'altra di quelle lagne di canzoni francesi. «No, questo per spiegarti l'amore sviscerato che le due venerande prozie nutrono nei confronti di mio padre» continuava a dire Pupa, logorroica «ormai è l'unico erede maschio della gloriosa stirpe dei De Lellis, rimasto a Torricella, il superstite. A parte che è anche l'unico a occuparsi di loro, ad accompagnarle a messa, a curare i loro interessi». «Che genere d'interessi?» domandai, tanto per mantenere viva la conversazione. «Si fa per dire, interessi» rispose Pupa «riscuote le loro pensioni, i vari vitalizi, certe rendite che hanno dalle campagne. Cose così». «Zia Coletta e zia Angiolina... le possidenti» commentai scherzoso.
Eravamo arrivati alla curva di S. Antonio, la strada passava davanti a quello che in paese veniva pomposamente chiamato campo sportivo. Era in realtà una spianata di terra dura e argillosa, le righe tracciate con la calce, le porte fatte di travi sbilenche, inchiodate alla meglio. Il terreno era tutto circondato da campi incolti, dirupi, macchie di alberi, cataste di legna, pagliai. Avevano appena finito di giocare. Da su, prima di arrivare al campo, si sentivano i versi bestiali degli atleti in azione, lo schiocco sonoro del pallone calciato. Un branco di ragazzotti in mutande sciamava dal terreno di gioco e si andava a rivestire ai bordi del campo, dove avevano lasciato gli indumenti ammucchiati: più che giocatori, parevano una banda di disperati, con quelle brache larghe e le magliette sbrindellate, con le scarpacce rimediate, fradici di sudore, stravolti dalla fatica. Incrociammo tre di questi. Uno se ne stava in sella ad una Guzzi rossa, con una gamba penzoloni, il piede poggiato a terra. Ancora acceso in faccia, un po' trafelato, vedendo passare Pupa, le scoccò un'occhiata sbieca, fulminante. «Ciao, Mimmo» salutò lei gettandosi indietro la coda di cavallo con un gesto breve della mano, uno scatto vanitoso della testa. «Salve» rispose il tipo facendo una strana faccia, da furbo e da fesso insieme: la faccia di uno che si è ringalluzzito, ma non vuol darlo a vedere. Pupa si girò e gli fece, allusiva, la voce chioccia, affettata: «Sto ancora aspettando di fare quel famoso giro in moto». Lui scoppiò a ridere. Una risataccia fasulla al massimo. «Io sono qua» sghignazzò. «Quando vogliamo farlo...». Era un ragazzo biondastro e ricciolino, con due occhi verdi e lampeggianti da gatto selvatico. Si staccava dagli altri giovinastri del paese per una certa aria da bulletto di periferia, del tipo di Poveri ma belli, per capirci, quel genere di film comicoromanesco che faceva il pienone nei cinema di terza visione. Era l'unico, per dire, munito di scarpette da calcio bullonate e di regolare casacca coi colori della Roma e il numero nove stampato sulla schiena. Giocava a centrattacco, a giudicare da quel nove, figurarsi se un soggetto così non giocava in quel ruolo. Pupa montò in sella, dietro, e si aggrappò a lui senza tanti complimenti. Il ragazzo dette un gran colpo al pedale di avviamento e, sgasando a tutto spiano, partì a razzo giù per la via di Gessopalena: le gomme spazzarono la breccia e alzarono nuvole di polvere bianca, e dal tubo di scappamento uscì un fracasso assordante e fiotti di fumo nero e puzzolente. Li vidi sparire oltre una curva, sentii il crepitio del motore af-
fievolirsi, ridursi a un lontano ronzio. Ero rimasto solo con gli altri due. Quella stupida fanatica di Pupa mi aveva piantato in asso, lasciato là come un allocco. Ero imbarazzatissimo, non sapevo che fare, che contegno darmi. Uno dei due stava ancora seduto sul ciglio della strada: si era tolto le scarpe da ginnastica e, infilate quelle normali, se le allacciava con gesti assorti e meticolosi. «Ce l'ha una squadra, Torricella Peligna?» chiesi. La domanda suonò così improvvisa e stonata, che i due quasi trasalirono. Mi sbirciarono muti, diffidenti, il labbro di sopra arricciato. Seguì un silenzio pauroso. Nessuno dei due rispose. «Salve» dissi a un certo punto, muovendomi per tornare in paese. Manco mi salutarono. Mi avviai lungo via Peligna facendo finta di niente, coi pugni affondati nelle tasche, fischiettavo e pigliavo a calci i sassi della strada. Quello fu il primo approccio che ebbi coi ragazzi del paese. E anche l'ultimo, l'unico. Mi scocciava, ora, tornare a casa, trovare magari Carmela che sfaccendava, sentirmi dire com'è che ero già tornato dalla passeggiata, com'è che Pupa non era con me. Così me ne andai nell'orto, ci entrai da fuori, dalla porticina esterna, quella che si apriva lungo il muro di cinta. Pigliai a girellare davanti al portichetto, sempre con le mani ficcate in tasca, la testa ciondolante, lo sguardo torvo. Ogni tanto davo una pedata a un sasso, una ghianda, una buatta vuota. Chissà quando si decideranno a tornare, quei due stronzi, rimuginavo nella mia testa. Andai ad affacciarmi al cortiletto. Cribbio, Carmela era lì che stendeva il bucato, che appendeva i panni con le mollette alle cordicelle tese da un muro all'altro. «Be', sei già tornato?» fece senza manco guardarmi «e la signorina Pupa?». «Pupa è andata a fare un giro in moto con uno» riposi neutro. «Mimmo Masciarelli, ci scommetto» ridacchiò «eh, Mimmo piace alle ragazze. Anche a quelle con la puzzetta sotto il naso come Pupa, le signorine di città, i tipetti fini». «Ma perché, se la fanno i due?» chiesi fingendo distacco, dentro mi sentivo rodere dal sospetto, da una strana, molesta gelosia. «Così si dice in giro». «Ah, così si dice?» ghignai, per poco non stramazzavo a terra alla notizia «forse perciò ancora non tornano. Magari si sono fermati da qualche parte a pomiciare». «Eh sì, staranno a fare le loro cose. Magari si sono infrattati, nascosti
dietro un cespuglio, sotto un pagliaio» rise Carmela continuando a sciorinare i panni, ad attaccarli alle cordicelle con le mollette «è sempre stata una pazzerella, la signorina Pupa. Fin da bambina... Eh, quanti pensieri ha dato al padre, disgraziato. Quante preoccupazioni e dispiaceri ha patito il povero don Armandino, prima con la moglie, ora con la figlia». «Prima con la moglie?» ripetei «perché, anche la moglie...?». «Eh, ha passato i guai suoi con quella» sospirò Carmela «è stata proprio una disgrazia, per lui, sposarla». «Be', ma è roba passata, ormai. Non è una storia di prima della guerra?». «Sì, ma da allora non si è più ripreso. Non vedi com'è, sempre così triste, solo, senza neanche un amico? Casa e lavoro e basta». Carmela alzò gli occhi e mi indicò il balconcino del primo piano: era proprio là, sopra di noi. «La vedi quella loggetta? Lì c'era la loro camera da letto. Le imposte, vedi, sono sempre chiuse. Da allora sono sempre rimaste così: chiuse, sprangate. Da allora don Armandino non ha più voluto dormire in quella stanza, non si è voluto più coricare nel letto matrimoniale». «Ah, è così, non ha più voluto dormire in quella stanza?» ripetei inebetito. Un brividino, chissà perché, mi corse tra le scapole come una lucertola che si arrampica su per un muro. «Dal giorno del ricovero della moglie, a quella loggetta non si è affacciato più nessuno» Carmela mi si avvicinò «la casa, su» mi bisbigliò furtiva e misteriosa, «non è più la stessa, da quel giorno. C'è qualcosa che è cambiato, lassù». «In che senso, cambiato?» domandai, anch'io bisbigliando. «Non so dire come, ma io me la ricordavo in un altro modo». «In che modo?». «Non so. Il corridoio, per esempio, dove ora c'è la libreria...». «Carmela!» la voce di zia Angiolina risuonò secca. Ci voltammo: era sull'uscio del cortiletto «hai finito di stendere il bucato?». «Sì, commare Angiolina» rispose Carmela prendendo da terra il catino vuoto. «Su, ora vai in casa, che c'è da fare in cucina» le ordinò zia Angiolina, arcigna, dura. Carmela sgattaiolò dentro insinuandosi tra la vecchia e lo stipite della porta. Zia Angiolina restò sulla soglia. «E tu che fai, Renzo?» mi chiese scrutandomi: mi raggelò con quei suoi
occhi da gufo. «Niente» risposi, le mani affondate nelle tasche, dando un calcio a un rametto secco caduto da un mucchio di legna accatastato contro il muro. «Di che parlavate?» mi domandò continuando a scrutarmi con lo sguardo sospettoso, indagatore. «Fesserie». Ormai ci vedevamo quasi ogni giorno, io e Pupa. La mattina facevamo quelle passeggiate interminabili, quelle specie di scarpinate; il pomeriggio, invece, sul tardi, oppure la sera dopo cena, giocavamo a carte, Monopoli, dama, a seconda di come le tirava. Oltre alla fissa per le canzoni francesi, scoprii che Pupa era maniaca dei giochi di carte, tipo briscola, rubamazzetto, scala quaranta, ma anche del domino, per dire, lo Shangaj, gli scacchi e via dicendo, ce li aveva tutti, quei giochi, era fornitissima. Ce ne andavamo in sala, in genere, ci mettevamo seduti al tavolo rotondo e passavamo tutta la sera a giocare - si stava più comodi lì, soprattutto quando si faceva una partita a Monopoli, con tutto quell'armamentario: tabellone, dadi, pedine, banconote e compagnia bella. C'eravamo dati appuntamento alle cinque e mezza, quel pomeriggio. Puntuale, salii in casa da lei, bussai. Venne ad aprire Rachele. «Pupa non c'è, è uscita» mi abbaiò in faccia. «Abbiamo appuntamento» spiegai alla megera. Stava piantata sulla soglia, mi sbarrava il passo. «Posso entrare? Vado ad aspettarla in sala, magari» azzardai timidamente. «Vai, vai» gracchiò tornandosene in cucina, lasciandomi via libera. Aspettai due ore, quel pomeriggio, seduto al tavolo rotondo dove si mangiava, sempre coperto da quella tovaglia verde con la frangia e un vaso di ceramica al centro, dal quale spuntava sempre lo stesso, triste mazzo di fiori finti e polverosi. Si era fatto buio, nel frattempo, tanto che andai ad accendere la luce. In quelle due ore, per ammazzare il tempo, mi misi a fare dei solitari, ne feci almeno un centinaio, oltre a sganasciarmi in un numero infinito di sbadigli - mi stavo slogando le mandibole a forza di sbadigliare. Poi da giù, da via dei Fossi, mi arrivò all'orecchio il crepitio sgangherato di una marmitta scassata - l'avevo già sentito un'altra volta, non so da che parte, quel rumoraccio sferragliante. Andai a guardare dai vetri della finestra. Al chiarore scialbo di un lampione, vidi una moto ferma sul ciglio
della strada: aveva il faro acceso e il motore in folle che tossicchiava al minimo. Il tipo in sella mi sembrò lui, Masciarelli. C'era anche una tizia a cavalcioni sul sedile di dietro: smontò e si avviò verso il portone di casa. Il piazzale era buio, si vedevano solo delle sagome, la riconobbi dalla falcata, dalla coda di cavallo. «Scusa il ritardo» mi fece entrando in sala tutta ansante, sfilandosi la giacca tre quarti, gettandola sul divanetto. «Sono stata da Doralice, la sartina che abita giù, dopo la curva di S. Antonio. Mi sta cucendo un vestito, ero passata da lei a provarmelo». Sì, Doralice, la sartina, pensai dentro di me, preso da un attacco di gelosia. A chi la vuoi dare a bere? Invece sei andata a pomiciare con Masciarelli, ti sei infrattata con lui da qualche parte, magari dietro un pagliaio, rimuginavo, senza avere il coraggio di sbatterglieli in faccia, quei miei sospetti. Avrei voluto smascherarla, inchiodarla. T'ho visto, sai, qua sotto, eri dietro di lui, sgualdrina, in sella alla sua moto, avrei voluto gridarle. «Fortuna che, tornando, ho incontrato Mimmo» disse Pupa «mi ha dato un passaggio fino a casa». La notizia di colpo mi svuotò, forse erano tutte fantasie malate, le mie, farneticazioni. «Dai, già che sei qui» mi propose «perché non resti a mangiare con noi? Magari dopo cena ci facciamo una partita a scala quaranta». Mi feci un po' pregare, desiderare. Alla fine però accettai. Finito di mangiare, zio Armandino se ne andò quasi subito a dormire. Si finì il suo mezzo toscanello appestando la tavola con quel puzzo acre di fumo, si scolò l'ultimo bicchiere di vino, poi, un po' inciuchito, anche dalla stanchezza, ci augurò la buonanotte e ci lasciò con uno di quei suoi sorrisi carichi di struggente dolcezza. Giocammo tutta la sera a scala quaranta. Le vinsi tutte io, le partite. Pupa mi doveva quattrocento lire, alla fine. «Facciamo l'ultima» mi propose «se vinco io andiamo pari, se perdo ti pago il doppio. Ci stai?». «Ci sto». Cominciai a dare le carte. «Aspetta. Prima vado un momento in bagno» disse alzandosi, dirigendosi verso la porta che dava nel vano della scala che portava al sottotetto. «Scusa, ma non puoi andare nel gabinetto qui?» le obiettai a bassa voce per non svegliare lo zio e Rachele che dormivano già da un paio d'ore almeno. C'era un silenzio di tomba, in casa. Anche da fuori non veniva nessun rumore, solo il rintocco lugubre delle campane, ogni quarto d'ora.
Pupa si era fermata sulla soglia. Restò bloccata lì, muta, indecisa, un'aria strana, trasognata. «Perché non mi ci accompagni?» mi chiese in un sussurro, girandosi verso di me. «Dove?» domandai alzandomi, avvicinandomi a lei. Non capivo il senso di quella sua richiesta. Indicò con un gesto vago il lungo corridoio immerso nella penombra. «E buio laggiù» mormorò. Scrutai anch'io in quella direzione, perplesso «E be', allora?». «Ho paura». «Paura?» ripetei stupito «ti fa paura andare in bagno?». «Ho paura del buio». «Accendi la luce, no?» dissi girando l'interruttore. «Spegni!» protestò lei, rauca, portandosi una mano alla faccia, come se volesse schermarsi gli occhi, non vedere. Spensi. C'era un attaccapanni a stelo all'imbocco del corridoio, con un impermeabile di tela cerata appeso, una coppola, un ombrello. Più in là si notava nell'ombra una scaffalatura incassata nel muro, stipata di grossi volumi polverosi. Oltre, troneggiava un grande armadio nero, antico, funereo. In fondo, poi, s'intravedeva la porta chiusa dello studio di zio Armandino e, accanto, alla fine del corridoio, la porta a vetri del bagno. «Ma cos'è 'sta storia?» ghignai fissando Pupa, cercando di capire che cosa le passava per la testa. «Che aspetti ad andarci? Sta lì a due passi, il bagno». Girai di nuovo l'interruttore: il corridoio si illuminò di una luce scialba. «Non si può» balbettò lei, lo sguardo spiritato «c'è la stanza dei miei genitori, laggiù». «C'è lo studio di tuo padre. E be'?». Restò zitta qualche secondo. «Ci sono le macchie sul muro» bisbigliò lugubremente. «Quali macchie, Pupa?» domandai con la voce strangolata da un improvviso, indefinibile senso di angoscia. Era lei che me lo stava insinuando con quel suo atteggiamento stralunato, con le cose incomprensibili e deliranti che diceva. Mi stava contagiando, porco cane, mi stava mettendo addosso una strana fifarella. Era la sua stessa paura, che le vedevo dipinta negli occhi dilatati, nella bocca mezza aperta, tremolante, a mettermela addosso. «Ci sono degli schizzi sul muro del corridoio» continuò a farfugliare «e
poi papà non vuole che vada in quel bagno, che entri nella loro stanza». «Quale stanza?» chiesi, sempre più raggelato «di che schizzi parli, Pupa? Qui non c'è niente» ridacchiavo cercando di farmi coraggio, di sdrammatizzare la cosa. «Non ci sono schizzi sui muri» la rassicuravo muovendomi lungo il corridoio, osservando la tappezzeria. «E poi che schizzi sarebbero, scusa?» insistevo a chiedere per rincuorarla, sbloccarla da quello stato di atterrita paralisi che pareva averla attanagliata. «Schizzi di sangue» alitò con un filo di voce. Tacqui. Taceva anche lei. Poi si scosse da quella specie di stupore, di sgomento che ci aveva preso tutt'e due. Infilò la porta della scala e salì su, alla mansarda, andava sicuramente a fare pipì nel suo bagnetto personale. Giocammo l'ultima partita a scala quaranta, la vinse lei, andammo pari. Di quell'episodio del corridoio, delle macchie sul muro, gli schizzi di sangue, la sua paura infantile di andare in quel bagno, al buio, non si parlò più. Io stesso non ci tornai più su, neppure col ricordo, mi passò di testa quella sera stessa, me ne dimenticai completamente. Non saprei dire perché. I fatti strani, paurosi, in genere mi attiravano, ci arzigogolavo sopra, cercavo di spiegarmeli. Quell'episodio, invece, lo cancellai del tutto dalla mente. Specie il particolare delle macchie sul muro. Schizzi di sangue, aveva detto Pupa. Pareva in trance mentre lo diceva. 7 Erano passate già tre settimane dal mio arrivo a Torricella, e ancora non avevo letto neppure una pagina di Istituzioni di diritto privato, l'esame che avrei dovuto sostenere a giugno - il primo esame, uno dei fondamentali, a sentire mio padre. A essere sinceri, non avevo neanche osato aprirlo, il testo, dargli, che so, una sfogliata, rendermi conto un po' della sua consistenza. Lo vedevo là, sul tavolino, in un angolo della stanza, impilato con altri libri: il solo sfiorarlo con lo sguardo mi dava un senso di nausea. «Signorino Renzo, che fanno qua 'sti libri?» se ne uscì Carmela una mattina mentre spolverava per la stanza con un piumetto spennacchiato «non ti vedo mai prenderli in mano, aprirli, leggerli. Quand'è che ti metti a studiare? Invece di andare a spasso con la signorina Pupa, perché la mattina non studi un po'?». Parlava come mia madre, lo stesso genere di velato ammonimento, di blando rimprovero. Quella sua osservazione mi scatenò una rabbia sorda, una specie di vergogna, di oscuro senso di colpa.
La odiavo, quella servetta intrigante, sempre ficcata nella mia stanza con la scusa che doveva rifare il letto, rassettare, sempre lì a spiarmi, a controllare quello che facevo o non facevo. Ora s'intrometteva anche nei fatti miei, osava pure farmi delle osservazioni. Quand'è che ti metti a studiare? aveva detto con quel tono saccente. Incredibile! Ma quello che più mi aveva fatto girare le scatole era stata l'aggiunta maligna e pettegola circa Pupa. Invece di andare a spasso con la signorina Pupa, perché la mattina non studi un po'? Una decisione comunque andava presa. Anche ricorrendo a un gesto estremo, magari a uno strenuo atto di volontà alla Vittorio Alfieri, per dire, che a un certo punto si legò a una sedia e disse: Volli, sempre volli, fortissimamente volli. Non arrivai a tanto, più modestamente decisi che il primo ottobre, cascasse il mondo, avrei iniziato seriamente a studiare. La sera prima del giorno fatidico dissi a Carmela di svegliarmi alle sette. «Dov'è che devi andare?» mi chiese «devi prendere la corriera?». Avrei voluto risponderle che erano fatti miei. «No, domani comincio a studiare» risposi. «Meglio tardi che mai» commentò con un sorrisetto che le scoprì quel premolare che le mancava. L'avrei strozzata, non seppi neanche replicare, darle una risposta appropriata, che la mettesse al posto suo. Alle sette in punto, l'indomani, entrò in stanza e venne a posare la tazzina di caffè sul comodino. «Sono le sette precise, signorino Renzo. Su, svegliati» si chinò a bisbigliarmi nell'orecchio. Poi, come suo solito, andò ad aprire la finestra. Dio buono, come mi dava ai nervi quando andava a spalancare le imposte in quel modo, con la luce e l'aria fredda del mattino che inondavano la stanza. Ancora imbambolato di sonno, allungai la mano per accendere la radio, un antiquato apparecchio di bachelite marca Marelli, che un giorno, non so come, mi ero ritrovato sul comodino - stava nel salottino, prima, posato sul trumeau, eternamente spento, muto, impolverato. Forse gli mancavano le valvole, pensavo. Poi, un giorno, eccotelo sul comodino del mio letto, ce l'aveva messo lei, Carmela, la servetta impicciona - impicciona ma, a dire il vero, anche piena di tante piccole attenzioni, premure e pensieri gentili. L'accesi. Stavano trasmettendo il giornale radio. A un certo punto sentii la notizia. Los Angeles, Stati Uniti, l'attore americano James Dean - diceva pressappoco lo speaker - è morto in un incidente stradale... Alla guida
della sua Porsche, si è scontrato a forte velocità con un'altra auto... Seguivano dettagli sulla sua vita, i film che aveva interpretato, e via dicendo. Scesi dal letto. Presi a vestirmi senza neppure fare toletta, darmi una sciacquata alla faccia, radermi quei quattro peli che mi crescevano. Avevo la testa sfasata, il pensiero perso, facevo ogni gesto in modo meccanico, come un automa. La notizia della morte di James Dean mi aveva messo addosso una tristezza luttuosa, un'angoscia cosmica. «E il caffè non l'hai preso?» mi fece Carmela «mo' s'è raffreddato». Non risposi, mi infilai la giacca di tweed e mi avviai alla porta d'ingresso. «E mo' che fai, esci?» mi gridò dietro «non ti eri svegliato presto per studiare?». Mi avviai verso la pineta. Il cielo era nuvoloso, l'aria umida, fredda, aveva piovuto tutta notte. Invece di salire per le gradinate, tagliai in mezzo ai pini. Quel poco di erbacce e aghi di pino che ancora ricoprivano il terreno erano zuppi d'acqua, il resto era tutta terra nera e fangosa. Arrivai in cima e mi sedetti sui gradini del monumento ai caduti - una specie di altare di pietra sovrastato da un obelisco e dalla statua della vittoria alata, dai paesani confidenzialmente chiamata zia Filomena. Avevo l'orlo dei calzoni tutto inzaccherato e le scarpe fradice di guazza, con due dita di fango attaccato alle suole. Non ci feci neppure caso, pensavo a James Dean morto, sfracellato, andato a schiantarsi con il suo bolide da corsa contro un'altra auto a duecento all'ora. Aveva appena finito di girare il suo terzo film "Il Gigante". Non mi facevo capace che fosse morto. Tornai in paese. Volevo andare da Pupa, vederla, chiacchierare un po' con lei. Commentare magari la tragedia. Avevo un groppo in gola, una morsa allo stomaco, un gran magone. Venne ad aprirmi Rachele. «Si è alzata Pupa?» chiesi. Mi fissò le scarpe infangate. «Dove sei andato, a capare marrocche?» gracchiò «non entrare che mi sporchi il pavimento!». Aveva in mano il bastone e lo straccio per spugnare, le mattonelle dell'ingresso erano ancora umide, appena lavate, si sentiva per l'aria il puzzo pungente della varechina. «Pupa è partita» disse. «Partita? Quando?». «Presto. Con la postale delle sette». Pupa era andata a Bologna per faccende universitarie, lo seppi da zio Armandino. Non mi aveva neppure avvertito. Ci restai di sale. Mi sentii
derelitto e abbandonato senza di lei, più spaesato che mai. A questo, poi, si aggiungeva la notizia della prematura, tragica morte di James Dean: due mazzate in una volta. Mi prese una botta paurosa di depressione, aggravata, tra l'altro, dall'incubo dell'esame. Non avevo più scuse, adesso. A 'sto punto non mi restava che mettermi a studiare. La mattina dopo, infatti, attaccai a leggere le prime pagine del ponderoso testo. Non ci capii niente: una selva di concetti astrusi, per giunta infarciti da una terminologia incomprensibile, oltre che da un'infinità di frasi in latino. Sgomento, richiusi il volume. Dio santo, da quell'esame pareva dipendesse tutta la mia vita, il mio futuro, il senso stesso della mia esistenza. In ogni lettera che mi arrivava da Tripoli by air mail, papà mi chiedeva a che punto ero con la preparazione di quel dannato esame. Non faceva che ricordarmi che si trattava di un esame fondamentale, che stava alla base di tutto. Gesù, tutto cosa? Questo, papà non lo specificava, né io approfondii il concetto più di tanto. Tra una cosa e l'altra, insomma, stavo sprofondando in un abisso di tetra inerzia, di umore cupo, nerissimo. Poi, all'improvviso, come folgorato da un'ispirazione divina, decisi di spostare di un mesetto l'inizio della preparazione, di rimandarlo al primo di novembre, in pratica. Dopo questa sofferta, anche se repentina decisione, mi sentii subito meglio, più sollevato. Pupa tornò a Torricella un pomeriggio, sul tardi. Arrivò con la postale delle sei che veniva da Pescara. Ebbi un tuffo al cuore quando la intravidi dietro il vetro polveroso del finestrino. Preceduta da un concitato strombazzamento, la corriera sbucò da via Peligna e percorse quel tratto di corso fino alla fermata, all'altezza del Sale&Tabacchi. Non fece in tempo a fermarsi che fu subito circondata, assediata dalla solita ressa di paesani. In mezzo a quell'assembramento di gente accalcata attorno alla corriera, emerse Pupa e si avviò dritta e spedita lungo il marciapiede. Aveva indosso un montgomery e in mano una valigetta, per poco svenivo dall'emozione. La vidi dirigersi verso casa, camminare con la sua aria altezzosa, il naso al vento, il passo rapido, pareva andarsene tranquilla per una via cittadina piena di vetrine illuminate, di gente elegante che passeggiava, e non lungo un marciapiede sconnesso e buio, coi paesani che le saettavano occhiate sguince, un po' losche. Ero appena uscito dal negozio del barbiere - mi ero fatto dare una sfoltita ai capelli. Da lì, dalla soglia della bottega, la tenni d'occhio finché non raggiunse il portone di casa. In sella alla sua Guzzi, veniva su per via dei
Fossi Mimmo Masciarelli. I due si incrociarono, lui frenò, stettero a parlare un paio di minuti. Pupa ogni tanto scoppiava a ridere, ogni volta dava al ragazzo una spinta scherzosa e divertita. Parevano in gran confidenza, i due, il tarlo della gelosia e del sospetto tornò a rodermi. Cenai assorto, silenzioso, quella sera, con la faccia nel piatto, dentro di me fremevo di finire, di correre su da Pupa. Le zie se ne accorsero. «Renzo è triste, stasera» fece zia Coletta sorridendo bonaria, piegando un po' il capo in giù, da una parte, per potermi scrutare negli occhi «cos'è, hai nostalgia di mamma?». «Il signorino Renzo tiene le pene d'amore» se ne uscì Carmela con un'arietta allusiva che mi gelò il sangue nelle vene, sapeva ogni cosa, quella ficcanaso intrigante, aveva capito tutto. Cominciò a radunare piatti, posate, bicchieri. «Tiene una croce, il signorino Renzo» aggiunse dirigendosi spedita in cucina. «Una croce?!» strillò zia Coletta fingendosi meravigliata «è vero, Renzo? Cos'è, ti sei già innamorato di qualche bella giovinetta di Torricella? E chi è la fortunata?». «Ma neanche per sogno. Sono solo fantasie di Carmela» mi schermii ridacchiando imbarazzato «non c'è nessuna giovinetta. Anzi, debbo dire che purtroppo le poche fanciulle che ho visto in giro per il paese sono tutte abbastanza racchie... Scusate, vado a fare due passi, a prendere una boccata d'aria» dissi poi, posando il tovagliolo sulla tavola, alzandomi. Non era vero, naturalmente, smaniavo di salire da Pupa. Pupa non c'era di sopra. C'era zio Armandino seduto ancora a tavola, da solo: rumava il suo mezzo toscanello e finiva di scolarsi il bicchiere di vino. «Pupa era stanca. Appena mangiato è andata subito a letto» m'informò col suo sorriso dolcissimo e sfinito. Aveva gli occhi lustri, un po' per il sonno, un po' per quel paio di bicchierozzi che si scolava di solito a cena. «Ma vai pure a salutarla» mi autorizzò «è salita proprio adesso. Le farai piacere». Non me lo feci dire due volte, m'inerpicai veloce lungo la scala che portava alla mansarda. Bussai alla porta con le nocche, due colpi leggeri. Sentii la voce di Pupa che diceva: «Chi è? Avanti». Mi affacciai cautamente. Era a letto, la mano che ancora stringeva la peretta del lume del comodino, lo aveva appena acceso e teneva la testa sollevata dal cuscino per vedere chi era che bussava, che veniva a scocciarla a quell'ora. Si era tolta il fermaglio, aveva i capelli sciolti sulle spalle, riccio-
luti: somigliava un po' ad Anna Maria Ferrero, una nuova attricetta italiana niente male. «Ah, sei tu, Renzo? Cos'è successo?» fece vedendomi far capolino. «Tuo padre mi ha detto che potevo salire a salutarti» ghignai accattivante. «Ciao, come va? Siediti» mi disse senza molto entusiasmo. «Be', così te ne vai, senza dir niente?» cominciai a rimostrare, il tono ironico per smorzare il risentimento che avevo covato in corpo in quei giorni. Non solo risentimento, era tutto un groviglio confuso e penoso di stizza, magone, senso di abbandono e tradimento, amore frustrato. Sì, anche amore frustrato. Sedendomi ai piedi del letto e guardandola, sentii di essere cotto di lei. Stracotto, furiosamente innamorato. «Ah, dici la mia partenza per Bologna?» rispose distratta «avevo un esame da dare: un complementare. Ero indecisa, l'avevo preparato pochino. Poi ho detto: ma sì, o la va o la spacca. Così, all'ultimo, sono partita e l'ho dato. Ho preso ventotto, pensa un po'». Mi parlava del suo esame del cavolo, dei motivi della sua partenza improvvisa. Non capiva che io ero là a chiederle spiegazione del perché se n'era andata senza dirmi niente, non si rendeva conto. «Di' un po' una cosa» la incalzai, sedendomi ai piedi del letto «che c'è tra te e Mimmo Masciarelli? Cos'è, filate?». Mi guardò sgranando gli occhioni cigliati. «Mimmo Masciarelli? Quello con la Guzzi? Ma cos'hai, i bruchi in testa?». «A sentire Carmela» insistetti sardonico, con lo strazio nel cuore, però, «sembra che voi due ve la fate». Restò alcuni secondi zitta. Stava sollevata, con le spalle e la testa appoggiate al cuscino, alla testiera del letto di legno laccato. Tornò a fissarmi con gli occhi ancora più sbarrati, dovette notare la mia faccia tirata, il mio mezzo sorriso che voleva esprimere distacco e ironia, invece era un ghigno di sofferenza. Dio, come stavo soffrendo in quel momento, mentre aspettavo che lei mi rispondesse, magari ammettendo che sì, ci filava con quel bullo di Mimmo Masciarelli. «Renzo!» esclamò stupefatta «mi stai facendo una scena di gelosia?». «Gelosia? Ma dove?» sogghignai sforzandomi fino allo stremo di apparire distaccato «era per sapere. Sinceramente, mi stupirebbe che tu te la facessi con uno come il Masciarelli...». Continuava a guardarmi colma di sorpresa e incredulità. «Non ti sarai
mica incapricciato della sottoscritta?» disse. «Chi, io?» reagii diventando rosso in faccia. Ero in un bagno di sudore, il corpo mi formicolava, mi prudeva. «Il cugino» sorrise protendendosi col busto, allungandosi verso di me per abbracciarmi: un gesto tenero, innocente, affettuoso. Aveva un pigiamino di cotone attillato, sotto era nuda. Sentivo il profumo di Arpège che emanava dal suo corpo morbido e caldo. Intravidi una fettina scoperta del suo fianco: mi eccitai. Quell'abbraccio era solo uno slancio amichevole, persino un po' materno e pietoso. Invece ci trovammo avvinghiati, io che cercavo affannosamente la sua bocca, lei che torceva la testa, tentava di svincolarsi. «No, che fai? Dai, no, non voglio...». Alla fine si arrese, lasciò che la baciassi. Sembrava un frutto di mare, la sua bocca, un fiore sfatto: era molle, umida, inerte. Strappai le coperte e mi fiondai su di lei con l'uccello già duro - da sotto i calzoni si andò a schiacciare, a incollarsi sul suo bacino. Lei ansimava e ripeteva: «Ma dai, Renzo... Su, smettila... Cosa ti ha preso adesso?». Intanto smaniava e muoveva la pancia come una bajadera che fa la danza del ventre. Micidiale quel movimento rotatorio e voluttuoso del bacino. Dopo un po' che lo faceva sentii una piacevole fitta al basso ventre. Uscii di stanza a gambe larghe, bagnato, appiccicato, mi colava da tutte le parti. «Domani, una lunga promenade» mi ricordò lei da sotto la trapunta, stiracchiandosi «voglio arrivare fino alla Madonna delle Rose». Erano quasi le undici e Pupa non si era ancora fatta viva. Da una finestrella che si affacciava sul corso, spiavo se per caso fosse già uscita, andata a fare qualche compera. Ormai li avevo tutti i sintomi dell'innamoramento: gelosia, sospetto, ansia. Mi arrovellavo per ogni cosa, ormai. Quella stanza era l'unica della casa che dava sul corso del paese. Era una specie di salottino dove le zie si trattenevano durante le ore morte a sferruzzare, a capare piselli, fagioli, o a dire il rosario, e intanto sbirciavano fuori, guardavano passare la gente, facevano commenti. Entrò Carmela. Mi vide in quell'atteggiamento insolito. «Che sti' a fa' arrete a la vuccettà?» chiese. «Cosa? Traduci, per favore» sbottai. Aveva preso talmente confidenza che adesso mi si rivolgeva in dialetto. «Che fai dietro la finestra?».
«Niente» risposi «guardavo che tempo fa». Uscì. Quand'era già lontana, in qualche altra stanza della casa, sentii che commentava: «Sì, il tempo. Stai a fare le poste a Pupa». Era una giornata col cielo velato, lungo la groppa della Maiella, a mezza costa, ristagnavano strisce bavose di nebbia, stracci di nuvole. Pupa passò alle undici e mezza, ci avviammo giù per via Peligna, prendemmo subito un passo veloce. Era più fremente e febbrile del solito, quella mattina. Era proprio bella, cribbio, tutta profumata, un filo di trucco, il montgomery aperto sul pullover di lana d'angora, la gonna larga, a pieghe, e ai piedi dei comodi mocassini col tacco basso, adatti a una lunga camminata. Subito attaccò a parlare delle sue cose. Della sera prima, di quello che era successo tra noi, su, in camera sua, neanche un cenno. Verso la curva di S. Antonio, prima di imboccare il sentiero che portava alla Madonna delle Rose, vedemmo arrivare su per la strada in salita una Lancia Appia blu. L'auto frenò bruscamente in un crepitio di pietrisco. Si affacciò a un finestrino un signore con un trench avana, il collo rialzato, forse voleva un'informazione. «Ciao, Renzo» disse con un sorrisetto in punta di labbra, scuotendo un po' la testa. Era Piperno. Il professor Piperno. Quello col quale avevo fatto il viaggio in nave. 8 «Professore, che ci fa da queste parti?» balbettai frastornato. Scese dall'auto. «Sono venuto a trovarti Renzo. Non sei contento?» disse poggiandomi una mano sulla spalla con un fare amichevole e confidenziale che mi lasciava interdetto - ci conoscevamo appena, in fondo. Lo fissavo incantato, come di fronte a un'improvvisa, prodigiosa apparizione. Non riuscivo a dare un senso alla sua presenza là, a Torricella, ebbi come un capogiro. «Il professor Piperno» dissi a Pupa che se ne stava un po' in disparte, indifferente «insegnava nel mio liceo. Abbiamo fatto il viaggio in nave insieme... Professore» feci, rivolto a lui «questa è mia cugina, Pupa De Lellis». «Gabriella, prego» puntualizzò lei allungando la mano, scoprendo con uno strappo di labbra tutta la chiostra di denti «Pupa è un orrendo nomignolo» ironizzò con quei suoi giri di parole ridondanti «che i miei mi hanno affibbiato quando ero ancora una neonata indifesa e incapace di ribel-
larsi». Piperno le strinse la mano. «Invece è carino Pupa» commentò con la solita scrollatina di testa, il solito sorrisetto indulgente. Salimmo sulla sua auto e tornammo in paese con lui. Disse che voleva trattenersi qualche giorno a Torricella: era molto curioso di conoscere il paese di origine di John Fante, voleva individuare la casa dove era nato Nicola, il padre dello scrittore, emigrato in America agli inizi del secolo. Chiese dove poteva alloggiare, se c'era una locanda in paese, una pensioncina, qualcosa del genere. Lo accompagnammo all'albergo Roma. Era ormai quasi l'una. Ci salutammo e ci demmo appuntamento per il pomeriggio, saremmo passati dall'albergo a chiamarlo. «Ma chi è questo tuo amico?» mi chiese Pupa mentre rientravamo a casa. In tutto quel tempo non aveva spiccicato parola, lei di solito così estroversa, loquace. Si era chiusa in un mutismo totale, come se l'arrivo di Piperno a Torricella, il suo improvviso, inatteso irrompere nella nostra routine paesana, in quel nostro pigro vivacchiare, l'avesse scombussolata, tramortita. «Mica è mio amico. Chi lo conosce» sbottai sfogando la mia sorpresa, lo sconcerto «giusto quel viaggio in nave abbiamo fatto insieme. Io non so che gli è saltato in testa di venire a Torricella. Sai che palle, adesso, doverselo sorbire tutto il giorno, portarselo in giro per il paese». Indugiavamo nell'androne di casa buio, freddo, puzzolente di muffa e di piscia di gatto. «Ah, non è tuo amico?» commentò Pupa perplessa «del resto, come fa a esserlo con l'età che ha». «Appunto... Ma tu sai niente di questo John Fante scrittore?» le chiesi. «Mai sentito» rispose afferrandosi al corrimano della scala, posando un piede sul primo gradino. Esitò... «Da dove viene questo tizio?» mi domandò sempre con quell'aria un po' stralunata. «Da Bologna, penso». «Da Bologna?» si stupì. Salì un altro paio di gradini. Sostò pensierosa. «Si è fatto un viaggio in macchina mica male. Ci sono cinquecento chilometri per arrivare fino a Torricella Peligna... E che fa a Bologna?». Girai il chiavone della porta, schiusi il battente per metà. «È la sua città, Bologna. Credo sia andato via da lì prima della guerra. Così mi ha detto. In tutti questi anni è stato a Tripoli, insegnava nel mio stesso liceo. Nella terza A. Io ero nella B». Pupa salì un altro gradino. «Bologna... Ora andrà a insegnare in qualche
liceo, tipo il Galvani, il Minghetti...». «Probabile. Adesso è in aspettativa, credo» risposi girando oziosamente il chiavone nella toppa, facendo un gran fracasso con quella serratura che scattava a vuoto, il saliscendi che andava su e giù. «Avanti!» sentii gridare dalla cucina - era la voce di zia Coletta «chi è?!». «Così sta a Bologna» commentò trasognata Pupa. Salì lentamente altri tre gradini, era ormai a metà della scala. «Sì, sta a Bologna» confermai aprendo la porta, entrando. Quel botta e risposta rischiava di non finire più. Avevo fame. «Pensa le coincidenze» sentii dire da Pupa da in cima alle scale, la sua voce echeggiò nell'androne «anch'io sto a Bologna, faccio l'Università e sono iscritta alla facoltà di lettere, la stessa che ha frequentato lui quand'era studente, magari...». Feci capolino dallo stipite della porta: «E allora?». Pupa aveva raggiunto il pianerottolo, mi guardò da lassù. «Niente. Si fa per dire... Ciao, buon appetito». «Altrettanto. Ci vediamo poi». Chiusi la porta. «Io non so se vengo» sentii che diceva dalla soglia di casa. Mi riaffacciai: Pupa non era più sul pianerottolo. «Non mi farai mica il bidone?!» gridai. Anche lei si riaffacciò oltre lo stipite; «E invece te lo faccio proprio. Tra l'altro, mi è cordialmente antipatico il tuo amico». Impostò una vocetta chioccia che rifaceva il verso a un certo modo di parlare degli aristocratici. «Tutto distinto, a modino, con quell'aria da intellettuale snob... Deve essere uno che se la ricrede parecchio, quel tuo amico lì. Per carità, non vengo mica!». «Sei una vigliacca!» le urlai. Non rispose, sentii i suoi passi allontanarsi nell'appartamento di sopra. Richiusi la porta. Dalla cucina mi arrivò una zaffata di odore denso di mangiare. «Fagioli... Mannaggia alla madosca, ancora pasta e fagioli con le cotiche» imprecai tra me. Avevo cominciato a orecchiare il dialetto del posto, certe frasi, certi intercalari, soprattutto le imprecazioni, le mezze bestemmie. Invece poi venne, Pupa. «Dove vai?» le chiesi mentre uscivo dal portone, vedendola scendere la
scala, sentendo il ticchettio dei suoi tacchi sul marmo dei gradini. «L'idea di te e del tuo amico» mi rispose «che girate per Torricella come due disperati alla ricerca della casa avita di questa famiglia di emigrati, mi ha mosso a pietà». Notai che si era vestita elegante. Aveva un cappotto con grandi baveri e la martingala, scarpe coi tacchi alti e un frivolo, vaporoso foulard al collo. Si era anche truccata e profumata un po' più del solito. «Pare che vai a teatro, così rimpupazzata» osservai vagamente sardonico «adesso voglio vederti a camminare per certe ruve, con quei tacchi. Cos'è, vuoi far colpo sul forestiero?». Non rispose. Si guardava in giro col naso all'aria, le narici frementi e lo sguardo che errava dal campanile al cielo pieno di nuvoloni che si ammucchiavano contro la Maiella. «Mi sono rimpupazzata per farti fare bella figura col tuo amico» disse alla fine. Piperno si affacciò sulla soglia del bar dell'albergo scostando la frusciante cortina di cannette che schermava l'ingresso. Aveva un bicchiere di punch fumante in mano, la faccia pesta di sonno, la voce cavernosa e nasale, doveva essersi appena svegliato, di sicuro si era fatto almeno un paio d'ore di pennichella. «Ciao, ragazzi... posso offrirvi qualcosa?». «No, grazie» rispose Pupa. «Neanch'io. Un'altra volta, magari» feci eco. «Davvero?» insisté scrutandoci entrambi come per accertarsi che non facevamo complimenti. Ci esplorava col suo sguardo strizzato, tentennando un po' la testa, il sorriso in punta di labbra. Indugiò su Pupa, forse notando la sua eleganza, il trucco, l'aria cittadina - arrivando, quella mattina, l'aveva vista più dimessa, vestita per una camminata alla Madonna delle Rose. Notai nei suoi occhi uno strano luccichio, un lampo di curiosità eccitata, poi subito un velo di languore, una specie di rapimento, una malinconia lontana. Fu solo un attimo, eppure, ci avrei giurato, nell'occhio di Piperno passarono in quell'attimo tutte queste cose qui. Davvero. Ci avviammo verso la chiesa. I paesani, appostati davanti alle puteche, agli angoli delle strade, ci saettavano con occhiate sguince. Era soprattutto Piperno che squadravano in tralice, il forestiero... E mo' chi è questo? parevano rimasticare nella loro testa, insaccati nelle giacchette striminzite, nei calzoni informi, le coppole calcate sulla fronte, il labbro increspato in una smorfia di diffidenza, di curiosità ostile... Chi ce l'ha mandato questo a Torricella? Che è venuto a fare? Piperno non passava certo inosservato
con quel suo trench avana stretto in vita con la cintura, zeppo di fibbie, tasche, bottoni, bottoncini. Aveva preso con sé la macchina fotografica, una Leica molto professionale, e se l'era messa a tracolla. Fu un pomeriggio massacrante. Piperno ci costrinse a una scarpinata estenuante, interminabile. Ci trascinò da un punto all'altro del paese alla ostinata ricerca di questa cavolo di casa dove, prima di emigrare in America, avrebbe abitato Nicola Fante, padre del famoso scrittore. Prima tappa fu la chiesa. Le chiese mi davano una grande tristezza. Entrandoci, infatti, mi prese subito il magone. Quel silenzio gelido, echeggiante, quella tetra penombra, la luce spettrale che pioveva dalle finestre coi vetri colorati, il palpitare di tutti quei moccoli accesi, infilzati sotto le statue dei santi, mi gettarono subito in uno stato di languore mortale. I santi della chiesa di Torricella, notai, avevano un aspetto pauroso. Ce n'erano almeno una dozzina piazzati nelle loro nicchie lungo le navate, ai lati dell'altare, avevano certe facce di gesso dipinto e certi testoni da far spavento. Era un bel po' di tempo che non rimettevo piede in una chiesa. Volevo scappare. «Io vi aspetto fuori» bisbigliai a Pupa mentre percorrevamo la navata laterale «tanto sei tu che conosci il parroco, che lo devi presentare a Piperno». «Tu invece vieni» mi ordinò lei sibilando tra i denti, fulminandomi con un'occhiataccia «se mi lasci sola con lui, ti giuro non ti guardo più in faccia». Con la scusa di ammirare la statua di un certo San Marziale, a un certo punto mi fermai. Non se ne accorsero, proseguirono e li vidi sparire oltre l'uscio nero e cigolante della sacrestia. Quando fui fuori provai una sensazione meravigliosa, mi sentivo libero, rinato, gonfio di felicità. Nell'archivio parrocchiale non si trovò niente che potesse dare qualche straccio di indicazione su questa casa della malora, dove si presumeva fosse vissuto quel benedetto uomo di Nicola Fante - padre del famoso scrittore. Peregrinammo non so ancora per quanto chiedendo informazioni a destra e a manca: nessuno sapeva niente, cadevano tutti dalle nuvole. Alla fine approdammo in municipio, anche qui lunghe ricerche, consultazione di registri anagrafici, certificati, attestati e altre scartoffie varie. Finalmente, dai e dai, appurammo che l'ultimo domicilio conosciuto di Nicola Fante era sito in vicolo Sansone 26, proprio dietro al palazzotto del Comune. Il calvario, se Dio vuole, era finito. Raggiungemmo il posto, era una specie di slargo. Sulla facciata della ca-
sa, proprio sopra l'angusto portoncino di legno corroso, c'era un minuscolo, sbilenco balconcino con l'esile ringhiera in ferro battuto. Seduta in cima, su una seggioletta impagliata, vedemmo una vecchia decrepita: era vestita come le contadine di una volta, col sottanone nero fino ai piedi e il fazzoletto annodato sulla nuca. Teneva sulle ginocchia una spasa di rame, dentro ci sbucciava fagioli. «Scusate, buona donna» fece Piperno, la faccia all'insù, la voce impostata «siete per caso parente di Nicola Fante?». La vecchia ci guardò cisposa, senza rispondere. Doveva essere un po' sorda, oltre che mezza cecata. «Il mastro muratore emigrato all'inizio del secolo in America. Lui e la moglie Ficca Maria... Abitava da voi, per caso?» continuava a chiedere imperterrito Piperno alzando man mano il tono della voce. «Si chiamava Fante Nicola... Non vi dice niente questo nome?!». La vecchia parve raccogliere qualche brandello della lunga e articolata domanda. Biascicò una mezza risposta in dialetto. «Dice che là non c'è nessuno che si chiama Nicola Fante» tradusse Pupa. «E voi come vi chiamate?» provò a chiedere Piperno. La vecchia si sporse, strillò qualcosa. «Dice che non ha capito» tradusse ancora Pupa, il tono annoiato, insofferente. Piperno si arrese: «Grazie, arrivederla!» salutò agitando il braccio. La vecchia rispose da in cima al suo balconcino con un gesto vago della mano. Prima di allontanarsi dal posto, Piperno scattò una serie di foto alla casa, alla vecchia appollaiata sulla loggetta. Era molto meticoloso nel farlo. Ogni volta regolava i din, gli asa, provava le inquadrature. «Be', io vado» disse a un tratto Pupa, scocciata «ci vediamo». Salutò con un gesto della mano, un falso sorriso e si avviò giù per il vicolo ciottoloso barcollando un po' sui tacchi. «Aspetta!» la richiamò Piperno costringendola a girarsi. Portò la Leica all'occhio e puntò l'obiettivo su di lei. Scattò veloce una decina di istantanee. «Ti ho immortalata» proclamò alla fine col solito sorrisino, la solita scrollatina di testa, rinfoderando la Leica nella custodia di cuoio. Pupa fece una spallucciata e proseguì giù per la stradina, sussiegosa. «Un po' scostante, la fanciulla» commentò Piperno accendendosi una Navy Cut. «Non sapevo che avessi una cugina a Torricella». «Manco io, se è per questo» risposi.
«Così graziosa, tra l'altro... somiglia tanto a una che conoscevo» aggiunse con quell'ombra di nostalgia che avevo visto illanguidirgli lo sguardo, prima, quando eravamo passati a chiamarlo in albergo. «Somiglia ad Anna Maria Ferrero» dissi «ce l'ha presente quella nuova attrice?». «Sì, ho capito. È vero» convenne Piperno. «Il padre, tuo zio, fa il veterinario, mi hai detto» divagò. «Sì, il veterinario». «E la madre?». «La madre? Chi l'ha mai vista» ghignai. Piperno tacque, fece una boccata e gettò la sigaretta a metà. «È morta, per caso?». «Boh. Pupa dice che sta in un sanatorio. Dice che lei la madre neppure l'ha conosciuta. È come se non l'avesse mai avuta, praticamente. Un'orfanella». «In un sanatorio» ripeté Piperno «da quando?» chiese dopo una lunga, svagata pausa. «Se Pupa neanche si ricorda di lei, dev'essere roba di prima della guerra». «E i motivi per cui è stata ricoverata, li conosci?». «Questo bisognerebbe chiederlo al marito, a zio Armandino. Pupa, quando poco poco provi a parlare di sua madre, si chiude a riccio, fa certe facce». Raggiungemmo l'albergo camminando muti, svagati, stranamente immalinconiti. Ogni volta che si parlava di questa zia, dopo un po' si creava, chissà perché, una specie di imbarazzo, una strana atmosfera. Anche con Piperno era successo, anche con lui che non c'entrava niente in tutta quella storia. Mentre percorrevamo il corso, silenziosi e un po' melanconici, Piperno pigliò a fischiettare il motivetto di una canzone, lo faceva come soprapensiero, a fior di labbra, perso in chissà quali lontani ricordi e nostalgie. Era "Parlami d'amore, Mariù", il motivo, una vecchia canzone che De Sica gorgheggiava in un film degli anni '30, "Gli uomini che mascalzoni". Mi colpì, la cosa. Piperno era un tipo misurato, uno che non pigliava di punto in bianco a fischiettare in mezzo alla strada, come un qualsiasi garzone di bottega: qualcosa, un'emozione, un ricordo lontano doveva averlo turbato, scosso a tal punto da fargli perdere il suo abituale self control. Va a capire, poi, perché gli era tornato in mente proprio quel motivetto: Parlami d'amore, Mariù, tutta la mia vita sei tu...
Qualcuno entrò in camera. Non era il solito passo leggero e rapido di Carmela che veniva a svegliarmi, a portarmi il caffè a letto. Era uno scalpiccio strascicato, accompagnato dal tonfo ritmico di un bastone. «C'è la fiera, stamattina!» sentii strillare nel buio della stanza «su, sveglia, poltrone, è una bella giornata! Vatti a fare un giro per le bancarelle!» mi esortava a gran voce zia Coletta andando ad aprire gli scurini della finestra. «Ah, c'è la fiera?» grugnii, la testa ovattata, imbottita di sonno. Mi tirai su, mi sganasciai in un colossale sbadiglio. «Carmela dov'è?» chiesi. «Oggi è giorno di fiera, è festa pure per lei» mi notificò zia Coletta uscendo di stanza con quell'andatura arrancante, il bastone che a ogni passo picchiava sordo sulle mattonelle di cotto. Sbucando dal portone di casa, mi trovai di fronte a un paese trasformato, irriconoscibile. L'intero corso, su entrambi i lati, era invaso da due file ininterrotte di bancarelle, tutte incredibilmente stracariche di merce, le più svariate e strane, sciorinate, ammucchiate senza ordine, messe in mostra alla rinfusa. La folla intasava la strada, indugiava accalcandosi attorno ai banchetti, curiosando, toccando. Si vendeva di tutto: dagli stivali di gomma agli attrezzi agricoli, dalle conche di rame alle seggiole impagliate, e poi tovaglie, coltellini a serramanico, coppole, orologi a sveglia, noccioline americane, servizi di piatti e posate, giacche da uomo, calze da donna, zucchero filato. Di tutto. Passai in albergo a chiamare il professor Piperno: dissero che era già uscito. Mi mescolai a quella folla brulicante alla ricerca del professore curioso com'era degli usi e costumi locali, di certo anche lui era in giro per la fiera. In mezzo a tutto quel caos di gente, col frastuono di voci, i richiami rauchi degli imbonitori, il puzzo acre del pellame, gli effluvi della porchetta arrosto, tutti mescolati insieme, mi venne a un certo punto la nausea e un giramento di testa. Mi stavo sentendo male. Feci sosta davanti a un banco che vendeva scarpe. Appeso a un'asta c'era un grappolo di chiochie, quelle specie di calzature che ancora usavano i contadini del luogo. Presi a osservarle da vicino, curioso. «Te ne vuoi comprare un paio, signorino?» sentii dirmi alle spalle. Mi girai, c'era Carmela col vestito della festa e un'aria allegra e pacchiana. Era in compagnia di due amiche, due cafonette come lei. «Ah, ciao» salutai con un pizzico di sufficienza, era pur sempre la serva di casa.
«Senti» le chiesi «hai visto per caso quel signore che alloggia all'albergo Roma, quel mio conoscente?». «Il professore, dici?» si girò da una parte e dall'altra scrutando in mezzo alla ressa «stava qua proprio adesso» disse «andava a spasso con la signorina Pupa...». «Pupa?». «Sì, lui e la signorina Pupa» confermò con un luccichio malizioso degli occhi. «Ma lo sai che il tuo conoscente è proprio un curiosone» aggiunse sottovoce accostandosi come per farmi una confidenza, svelarmi un segreto «l'altro giorno è stato un'ora a farmi domande, a chiedermi questo e quell'altro. Voleva saper tutto. È simpatico, però, una persona fine, un vero signore». Le amiche di Carmela salutarono, proseguirono lungo le bancarelle «Ciao, Carme'. Ci vediamo». «Ciao» rispose lei alle due che si allontanavano perdendosi nella folla. «E che voleva sapere?» domandai. «Chiedeva di un certo Nicola Fante» mi ragguagliò Carmela «ce n'è tanti a Torricella e contrade che si chiamano con quel nome. Che ne so io... Alla fine ho capito che la persona che cercava, questo tale Nicola Fante, era emigrata in America tanto tempo fa. E be', gli ho detto, lo venite a cercare a Torricella Peligna?» rise scoprendo il premolare che le mancava «poi mi ha cominciato a chiedere della famiglia De Lellis. Ha voluto sapere vita, morte e miracoli di tutti...». «Carina quella spilla» la interruppi, aveva appuntata sul petto una farfallina con le ali dorate, tempestata di pietruzze blu. Carmela chinò il viso e si toccò il gioiello con un guizzo vanitoso. «È d'oro, questa, dovessi crederti». «E chi ha detto il contrario. Chi te l'ha regalata, il tuo fidanzato?». «Non ce l'ho, io, il fidanzato» si schermì ridendo, ancora scoprendo il premolare mancante. «Ma tu l'hai conosciuta la moglie di zio Armandino?» le chiesi a bruciapelo. Ero stato trafitto dall'assurdo sospetto che la spilletta a forma di farfalla che Carmela sfoggiava fosse la stessa che avevo notato osservando con la lente d'ingrandimento le famose foto con le macchie: in entrambe si vedeva appuntata sul vestito della signora senza volto una farfallina molto simile a quella che aveva Carmela. «Sì, l'ho conosciuta» rispose «tanti anni fa, prima della guerra. Ero una mammoccella, a quei tempi». Fece un gesto con la mano a indicare la sta-
tura di lei bambina. «E com'era?». «E chi se lo ricorda. Pare che fosse una bella signora». «E ora dov'è?». «E che ne so. In qualche ospedale, forse» rispose con una spallucciata «chiedilo alla signorina Pupa, a tuo zio... Be', mo' devo andare». Si congedò bruscamente, si allontanò di fretta. «Ciao ciao». Rimasi fermo dov'ero, vicino alla bancarella che vendeva scarpe, scarponi, stivali di gomma, chiochie. Rimasi non so quanto lì davanti, impalato, pensieroso, stordito dal frastuono, dalla confusione. Pensavo alla spilletta d'oro a forma di farfalla appuntata sul petto di Carmela. Sembrava la stessa che aveva la signora in quelle foto. Uguale. 9 Quando zio Armandino seppe di questo mio amico di Tripoli, questo professore di liceo venuto a Torricella Peligna a trovarmi, sia pure col pretesto di conoscere il paese di origine di John Fante, lo scrittore italoamericano - neanche zio Armandino sapeva di lui un tubo, tra parentesi volle subito conoscerlo, invitarlo a casa, magari a pranzo. «Come preferisci, zio» tentai di smontarlo «volevo solo dirti che non si tratta proprio di un amico. Ha quarant'anni, tra le altre cose». «Perbacco, Renzo, era professore nel tuo liceo, anche lui reduce da una ex colonia italiana» insisteva zio Armandino, l'eterno, dolcissimo sorriso, la carezzevole erre moscia «ce n'è abbastanza perché tuo zio senta il dovere, oltre che il piacere, di invitarlo perlomeno a pranzo, questo signore. Quella dell'ospitalità è una tradizione molto radicata tra la gente d'Abruzzo. Non vorrai che proprio io venga meno a questo nostro antico e nobile costume». Piperno venne a pranzo il giorno di Ognissanti. Era una mattinata frizzante, soleggiata. Prima di andare a tavola, stemmo un po' sulla terrazza a chiacchierare, a crogiolarci al sole. Intanto, coi gomiti appoggiati alla balaustra, ammiravamo il vasto paesaggio che si apriva tutt'intorno. «Vede là?» faceva zio Armandino indicando un punto della Maiella che si stagliava davanti a noi azzurrina, le cime imbiancate di neve «in quella fenditura, quel canalone, c'è una grotta di straordinaria bellezza, tra l'altro, immortalata da Gabriele D'Annunzio in una sua famosa opera teatrale, "La figlia di Jorio"... si chiama la Grotta del Cavallone».
«Ah, caspita!» commentò Piperno, ogni cosa che diceva zio Armandino si complimentava, si stupiva, andava in visibilio. «Quel profilo aguzzo di monti, lo vede?» proseguiva imperterrito lo zio «sembra un gigante sdraiato, vede? Quelli sono i Pizzi». «I Pizzi» ripeté Piperno un po' stordito «ah, ho capito». «È pronto! Prego, accomodatevi!» annunciò zia Coletta a mo' di megafono, affacciandosi sul terrazzo. Erano state invitate a pranzo anche lei e zia Angiolina. Il tavolo che Rachele aveva apparecchiato con la tovaglia ricamata, le posate buone, quelle d'argento, era il solito che stava in un angolo della sala, un tavolo sempre coperto da un pesante panno verde con l'orlo frangiato e un vaso di ceramica al centro, con dentro un mazzo polveroso di fiori finti - su quel tavolo, io e Pupa la sera ci facevamo interminabili partite di scala quaranta, Monopoli, domino. Per l'occasione era stato allungato e ci si poteva stare comodamente anche in otto persone. A capotavola si sedette zio Armandino, di fianco a lui, da una parte e dall'altra, le vecchie zie e, sempre da una parte e dall'altra, a seguire, io e Piperno. All'altro capo avrebbe dovuto sedersi Pupa, ma la sedia rimase vuota fino all'ultimo. Sgobbata e sbilenca, Rachele avanzò attraverso la sala e venne a posare sulla tavola la spasa ricolma di fumante pasta alla chitarra. Zio Armandino si alzò in piedi. «Passatemi i piatti, vi faccio le porzioni» ci ordinò sorridente, sfilando il forchettone infilzato nella matassa di maccheroni «così, alla buona, alla paesana» si scusava mentre riempiva i piatti di grosse forchettate «qua non abbiamo camerieri che servono a tavola. L'ospite, spero apprezzerà i nostri modi schietti, assai poco formali. Spero che apprezzerà soprattutto questo tipico piatto abruzzese: pasta alla chitarra al sugo di gallo» continuava a dire, sempre indaffarato a fare le porzioni. «Pasta alla chitarra?» sorrise Piperno cerimonioso, simulando viva curiosità «strano nome: evoca concertini, serenate». «Ah, buona questa!» rise lo zio. Quando gli passai il piatto di Pupa perché facesse anche a lei la porzione, zio Armandino si accorse dell'assenza della figlia. «E Pupa? Perché non è a tavola, quella maleducata?». «Talis pater, talis filia» sentenziò zia Angiolina, forse alludendo alla scarsa puntualità di zio Armandino, alla sua sbadataggine. «Rachele!» chiamò ad alta voce lo zio. Dalla cucina si sentì un verso inarticolato di risposta. «Vuoi dare una voce a Pupa, per cortesia?!».
Il richiamo dell'anziana serva squarciò l'aria come il latrato di un cane col cimurro: «Pupaaa!». Pupa si presentò dopo un paio di minuti. Si era rimessa quella funerea e attillata montura alla Juliette Gréco: maglioncino a giro collo, calzoni aderenti, calze fumé, cenerentole ai piedi e un foulardino di seta al collo, anche quello nero. Quando venne a sedersi fui investito da una ventata di profumo, si era versata addosso almeno un paio di litri di Chanel - ne aveva comprato una boccetta a Bologna, quando era andata a fare l'esame. «Scusate» disse aprendosi il tovagliolo sulle ginocchia, il viso arricciato in quella sua espressione eternamente schifata. «Buongiorno, Pupa» la salutò cortese Piperno girandosi verso di lei, esaminandola con una bonaria scrollatina di testa. «Molto parigina, vedo. Sembri proprio un'esistenzialista» commentò affabile, scherzoso. «Glielo dica anche lei, professore» approfittò per sfogarsi zio Armandino, al quale, a quanto pare, non piaceva che la figlia si conciasse in quel modo «le spieghi quanto nichilista e decadente sia questa filosofia. Le pare che una ragazza intelligente debba ispirarsi, anche solo nel modo di vestire, a questa deteriore moda d'oltralpe?». «Bisogna vedere se ne segue soltanto la moda» sorrise Piperno con la solita scrollatina di testa, «o se invece ne è una convinta seguace. Ricordiamoci che l'esistenzialismo non è solo un fenomeno pittoresco, è una corrente di pensiero importante, che ha influito sul costume, sulla cultura della società di oggi. Il padre, il teorico di questa corrente filosofica, è Jean-Paul Sartre, uno dei maggiori filosofi contemporanei, un maître à penser». Si girò di nuovo verso Pupa. «Hai letto Sartre?». «No, mai» rispose Pupa, secca «sapete che vi dico?» sbottò poi, inaspettatamente «io me ne sbatto altamente di Sartre, l'esistenzialismo e tutto il resto». «Che parole!» la riprese severa zia Angiolina «è il modo di esprimersi, questo?». «Va be', me ne infischio» si corresse Pupa «a me piace vestirmi così, punto e basta. Sartre nemmeno lo conosco, l'ho visto solo in fotografia: è piccolo, brutto, strabico. Pare Peter Lorre, il gobbo di Notre-Dame. Non leggerò mai un suo libro». «Una studentessa di lettere» osservò Piperno, «dovrebbe conoscere di Sartre almeno la produzione letteraria... Credo di aver portato con me "Il muro", una raccolta di suoi racconti. Te lo darò da leggere, se permetti...
anzi te lo regalerò». «Grazie del pensiero» ribatté Pupa pungente «lo leggerò se mi va, non perché me lo consiglia lei». «Pupa!» la rimbrottò ancora zia Angiolina «è la maniera di rispondere, questa?». Piperno non sembrava essersela presa più di tanto. Scrollando indulgente la testa, si girò verso Pupa con quel suo sorrisino trattenuto e la soppesò strizzando gli occhi, sornione. «Ha ragione lei. Touchè. Ho questo viziaccio di assegnare i compiti a casa anche quando non sono in classe, seduto dietro la cattedra. Deformazione professionale». Si accese una sigaretta, aspirò una boccata, eravamo tra il primo e il secondo. «Posso dirtelo?» fece tornando a girarsi verso di lei «forse ha ragione tuo padre: il nero non ti si addice. Un abito allegro, magari a fiorellini, ti donerebbe di più. Sei una ragazza molto graziosa, credo tu lo sappia» tentennò la testa, mimò un cipiglio severo «questa mise invece ti incupisce, ti dà un'aria scontrosa e musona, che non è, sono certo, nella tua indole». «Ecco, glielo dica, professore» approvò zio Armandino. Pupa si era imbronciata a tal punto che pareva dovesse esplodere da un momento all'altro, sbottare, non so, in una scenata, oppure alzarsi da tavola e uscirsene di stanza sbattendo la porta. «Non mi pare tu abbia preso molto da tuo padre, nei tratti fisici» proseguì Piperno imperterrito, analitico «scommetto che assomigli più alla mamma... scommetto pure che tua madre non ha questo vezzo di vestirsi di nero né questa tua aria sempre imbronciata». Un gelo drammatico calò sulla tavola. L'aver solo evocato la fantomatica signora De Lellis, sia pure in quel modo del tutto incidentale, ebbe sui commensali un effetto paralizzante. Non so per quanto restammo là, tutti muti, impacciati, aspettando solo che arrivasse il secondo, intanto ci aggiustavamo il tovagliolo sulle ginocchia, tossicchiavamo, ogni tanto lanciando una fugace sbirciata dalle parti di zio Armandino. Che gli era saltato in testa a Piperno di tirar fuori quell'argomento, la somiglianza tra Pupa e sua madre? Si era dimenticato che la madre era ricoverata in un sanatorio? Non l'aveva ancora capito che soltanto sfiorare la faccenda era tabù? Non si sentiva volare una mosca. Zio Armandino, alla fine, fece un profondo, sconsolato sospiro, si portò una mano alla fronte e se la stropicciò per alcuni secondi, fissando la tovaglia con lo sguardo vitreo, disperato. In quegli attimi nessuno osò parlare, anche Piperno pareva essersi reso
conto della sua gaffe. Non sapeva che dire, ora, che fare, si guardava in giro perplesso, sorpreso, con un mezzo sorriso melenso sulle labbra. Notai che Pupa, in tutto quel frangente, non aveva mai staccato gli occhi dal padre, lo scrutava con uno sguardo sgranato, ansioso, spiava ogni sua minima reazione. Quando lo zio, visibilmente sconvolto, chiese il permesso di alzarsi da tavola, di assentarsi un istante, Pupa lo rincorse con uno scatto scomposto. Lo raggiunse sulla soglia della porta, si abbracciò a lui, commossa. «Papà, papà!» ripeteva, la voce trepida, implorante. Lo zio si sciolse dal suo abbraccio e, sempre muto, stralunato, uscì di stanza. Pupa andò ad accasciarsi su un divanetto accanto al camino e scoppiò in singhiozzi. Fu una scena imbarazzante, persino surreale. Non durò molto, però. Quando Rachele fece il suo ingresso col vassoio del secondo - costate di agnello con patate arrosto -, tutto, come d'incanto, si ricompose, tutto tornò come prima. Zio Armandino rientrò, venne a sedersi a tavola, e lo stesso fece Pupa: come se niente fosse accaduto. Per un po' il silenzio continuò ancora a gravare sulla tavola, solo qualche sommessa parola di scusa, qualche sospiro. Nessuno si sognò di fare commenti e considerazioni su quanto era successo. Tutti si gettarono sul secondo. Armati di forchetta e coltello, ci mettemmo di lena a tagliare la carne, staccarla dall'osso, toglierci i grassetti, le pellecchie. La conversazione languì soprattutto perché le nostre mandibole, adesso, erano strenuamente impegnate a macinare un agnello ai ferri non proprio tenerissimo Dopo il caffè, io e Pupa scendemmo nell'orto a fare un giro, a smaltire il pranzo. Mi sentivo greve, torpido per l'abbuffata e quei tre, quattro bicchieri di vino che mi ero scolato. Vagammo un po' in mezzo alle sterpaglie, fra gli olmi del boschetto, fra i cespugli incolti. Pupa era silenziosa, come presa da un pensiero, un turbamento. «Cos'hai?» le chiesi dopo un po' che giravamo a casaccio, lei strappava steli d'erba, foglie, con un gesto assorto, lo sguardo trasognato, ne masticava la punta, l'orlo e li gettava. «Sei diventata sorda?» ripetei «t'ho chiesto cos'hai». «Niente. Cosa vuoi che abbia?». «Ti vedo strana». «Strana?». «Ti ha dato fastidio qualcosa, ci scommetto. Forse tutti quei commenti sul tuo modo di vestire. Oppure...» azzardai, «quell'accenno che Piperno ha fatto a tua madre, alla somiglianza tra te e lei».
«E perché avrebbe dovuto darmi fastidio?» replicò Pupa fingendo distacco, indifferenza, invece era nervosa, turbata. «Ti sei dimenticata la scena turca che è seguita? Tuo padre che si alza da tavola ed esce di stanza, tu che gli corri dietro stravolta, e poi scoppi a piangere... Com'è che ogni volta che si parla di tua madre» insinuai «avete sempre delle strane reazioni, in casa?». Pupa non rispose, masticava un filo d'erba. Lo sputò, alzò lo sguardo. «Nuvole a pecorelle, pioggia a catinelle» sentenziò fingendosi interessata al fatto che il cielo si era tutto coperto di uno strato di cirri. Lasciai perdere, non insistetti. C'era un che di oscuro e pauroso attorno alla figura di questa zia, al suo misterioso ricovero - avvenuto, tra l'altro, non si sa quando né dove né perché. Finanche Piperno si era trovato impegolato senza volerlo in questa strana, ambigua storia. Anche lui, con i suoi commenti, le sue domande, le involontarie gaffe, aveva finito per rimanerci invischiato. Vagammo ancora per un po' tra gli alberi del boschetto. Poi Pupa si fermò appoggiandosi con la schiena al tronco di un olmo, alzò il viso, chiuse gli occhi e aspirò voluttuosamente l'aria fresca, il profumo delle piante. Chissà perché, lo scambiai per un gesto d'invito, di abbandono. Un po' per questo, un po' per la torbida, pigra eccitazione che mi sentivo in corpo a causa di tutto il mangiare e il bere del pranzo, mi fiondai su di lei e la baciai con foga. Pupa fece qualche debole gesto di reazione, qualche mugolio di protesta. Alla fine si lasciò andare, dapprima un po' riottosa, passiva, poi sfoderò un palmo si lingua e cominciò ad agitarmela in bocca a tutto spiano. Mentre ci baciavamo come due forsennati, le infilavo le mani sotto il maglioncino, nei pantaloni, ero alla ricerca vogliosa della sua carne nuda. Riuscii, da sotto la morsa del reggipetto, ad agguantarle una tetta. Pupa, a quel punto, si divincolò, sgusciò via dalle mie braccia. «Basta, dai, che ci vedono» disse muovendosi verso casa, risalendo il terreno scosceso. «Chi è che ci vede?» rantolai, arrancandole dietro arrapato. «Le suore» rispose indicando sbadata il muro di cinta che delimitava l'orto: era una recinzione in pietra, mezza diroccata, infestata di rovi, seppellita di rampicanti. «C'è l'asilo là» spiegò «ci possono vedere». Oltre il muro c'era una specie di parco e una casa a tre piani con le mura di mattoni grigi e le finestre con le imposte dipinte di verde scuro, quasi nero, un edificio tetro, tristissimo. «Ma che dici? C'è un muro di almeno due metri» ghignai «tutta una scusa, la tua».
«Eppure io le vedevo le suore, quando uscivano in giardino coi bambini» confermò Pupa un po' svanita, fermandosi a osservare la facciata di casa De Lellis «da piccola, mi ricordo, stavo le ore a guardare i bambini dell'asilo che giocavano, facevano il girotondo... Oh, quante belle figlie, Madama Doré, oh, quante belle figlie... Son belle e me le tengo, Madama Doré, son belle e me le tengo» prese a canticchiare con qualche esitazione, come cercando di ricordarsi le parole. Cantava quel ritornello demenziale con la voce in falsetto. Anche quando veniva presa da un accesso di riso, le usciva quella voce chioccia, infantile: «Il re ne comanda una, Madama Doré, il re ne comanda una» continuava a ripetere rapita, trasognata «che cosa ne vuol fare, Madama Doré, che cosa ne vuol fare?». Guardò su, verso il terrazzo del primo piano. «Li vedevo da lì, dal terrazzo: facevano il girotondo insieme alla suora e cantavano questa filastrocca». «Impossibile» obiettai «dal terrazzo non si vede l'asilo. Forse da quel balconcino» indicai la facciata della casa che guardava appunto sul lato est dell'orto, quello delimitato dal muro di cinta. Al primo piano c'era la loggetta con le imposte chiuse. Là, mi aveva detto Carmela, c'era la stanza da letto di zio Armandino e sua moglie. «Sì, hai ragione, forse era da quel balconcino che mi affacciavo a guardare i bambini dell'asilo... era la stanza da letto dei miei genitori, mi ricordo». «E com'è che ha le imposte chiuse?» provai a sondare. «Ah, che ne so. Forse è disabitata, adesso» sussurrò incantata, come se scoprisse il particolare solo in quel momento. Un brividino mi accarezzò la schiena, l'idea che lì c'era stata la stanza da letto dei genitori di Pupa, non so perché, mi raggelò. Chissà quante volte, pensai, sua madre si era affacciata da quella ringhiera... Chissà quante volte era apparsa lassù, la signora senza volto, che ormai non riuscivo a immaginare se non col viso di Rita Hayworth. Per un attimo mi sembrò di vedere la diva in cima alla loggetta, vestita di una lunga, bianca vestaglia di seta, i capelli fulvi sciolti sulle spalle. Un altro brivido mi corse lungo la spina dorsale. Cominciava a far fresco, tra l'altro, il sole era scomparso dietro un denso strato di cirri. Ripensai alla filastrocca che Pupa aveva canticchiato poco prima con quel terribile vocino in falsetto. Mi strinsi nelle spalle, rabbrividii, intanto ripetevo tra me e me le parole di quella tiritera: Oh, quante belle figlie, Madama Doré, oh, quante belle figlie... Sul terrazzo si affacciò Piperno. «Vi saluto, ragazzi. Ci vediamo più tar-
di» disse agitando una mano «Pupa, ricordami di darti quel romanzo di Sartre. "Il muro"... a proposito, non dovevamo andare a Juvanum oggi nel pomeriggio?». «Sì, certo, ci andiamo» risposi. «Ci andiamo se poi mi va» masticò a mezza bocca Pupa. Rientrato a casa, mi chiusi in camera e mi gettai sul letto, sfinito, mi addormentai subito, di sasso. Mi svegliai tutto infreddolito, e per alcuni momenti non riuscivo a raccapezzarmi di dov'ero, se a Torricella o a Tripoli. Non mi ricordavo neppure se era notte o giorno. Dai vetri delle finestre entrava una luce livida, opaca. L'orologio del campanile batté quattro rintocchi forti e due più leggeri, squillanti: erano le quattro e mezza. Avevo dormito quasi due ore, un sonno pesante, buio, comatoso. Mi riaffiorò alla mente quel bacio furioso che c'eravamo dati io e Pupa nell'orto, tra gli alberi del boschetto. Riprovai il gusto della sua lingua guizzante, un bacio così struggente e appassionato, non l'avevo mai dato in vita mia... «Pupa... Pupa... Pupa...» presi a ripetere a fior di labbra in preda a una specie di delirio amoroso e demenziale. Mi ricordai di colpo che avevamo promesso a Piperno di accompagnarlo Juvanum. Mi precipitai fuori della stanza ravviandomi i capelli, aggiustandomi affannosamente il colletto della camicia, la cravatta. «Dove corri?» mi gelò Carmela sulla porta di casa. Rientrava portando una damigianetta di vino cotto che era andata a prendere in cantina. «Che ti frega? Vado dove mi pare» le risposi brusco, scansandola. «Guarda che Pupa e il professore è da mo' che se ne sono andati» mi avvisò. «Come andati?». Carmela depositò la damigiana in cucina. «Pupa è passata a chiamarti ma tu dormivi» disse. «Erano in macchina?» chiesi. «Sì, proprio in macchina. Li ho visti che andavano su per la via nuova» rispose guardandomi in modo strano, ancora ansante per la fatica, la faccia rossa, accesa, gli occhi che brillavano di malizia. L'avrei presa a schiaffi. Mi avevano fatto il bidone, quei due cretini, mi avevano piantato in asso come un allocco... «Fanculo!» imprecavo tra i denti uscendo, avviandomi lungo il corso, le mani ficcate in tasca, lo sguardo che scrutava torvo verso le casette dell'Unra, la curva del vecchio mulino, quasi potessi ancora scorgere l'Appia blu di Piperno che filava via, lui e Pupa a bordo.
Mi prese una rabbia sorda, stizzosa. A quell'ora, ruminavo tra me, erano già a Juvanum che giravano fra i resti della scalcinata città romana, su e giù per quella specie di anfiteatro, in mezzo a quelle quattro colonne smozzicate, lungo la strada consolare, lastricata di pietre sconnesse. La famosa città romana di Juvanum: un mucchio di macerie e basta. Senza starci neanche a pensare, spinto come da una carica a molla, tipo quei giocattolini di latta con la chiavetta nella schiena, che basta spostare una levetta e subito partono, pigliano a muoversi a scatti, a marciare, mi avviai a passo spedito lungo il corso. Arrivato alla curva del mulino, infilai la scorciatoia, una specie di mulattiera ripida e fangosa che tagliava fuori la pineta e il cimitero e sbucava dritto sulla via nuova. Dopo circa mezz'ora di marcia forsennata, raggiunsi il bivio per Juvanum. Un gocciolone mi colpì la fronte, stava cominciando a piovere. Affrontai la pettata a passo di bersagliere. Dopo un paio di tornanti avevo già il torace squassato dal fiatone, oltre che dalla rabbia, dal dispetto... «Stronzi, maledetti fetenti!» masticavo rabbiosamente tra me mentre salivo su per quella strada sbrecciata, la ghiaia che mi crepitava sotto le suole, il sangue che mi martellava alle tempie, nel petto «teste di minchia che non sono altro...». In cima al Colle dell'Irco, la strada spianava. Intanto aveva attaccato a piovere forte. Era quasi buio, ormai, anche per lo strato di nuvole che si era addensato in cielo, basso, grigio, pesante. All'orizzonte, verso il mare, era tutto un baluginio di lampi e un brontolio cupo di tuoni. Incrociai un cafone in groppa all'asino: l'animale aveva un basto con due cestone ai lati cariche di legna tagliata. «Scusate, compare, avete visto una macchina passare?» chiesi. Senza neanche rispondere, il cafone m'indicò uno spiazzo d'erba spelacchiato di lato alla strada: in mezzo c'era l'auto di Piperno ferma, col muso rivolto ad est, verso la valle del Sangro, verso l'Adriatico. Neanche mi ero accorto di quell'Appia blu targata BO. Che cavolo ci faceva parcheggiata in quel punto? E loro, Pupa e il professore, dov'erano? Già mezzo fradicio, con la pioggia che mi inzuppava i capelli e mi colava a rivoli lungo la faccia, il collo, mi diressi verso l'auto. Forse volevano salire sulla cima del colle a godersi l'eccezionale panorama, forse la pioggia li aveva bloccati. Forse erano in macchina, facevano sosta lì aspettando che spiovesse. Mi abbassai a sbirciare attraverso il lunotto posteriore, erano seduti, lui al volante, Pupa nel sedile accanto. Li intravidi attraverso il vetro inondato
d'acqua, erano girati di profilo, si guardavano, chiacchieravano... poi - che strano - Piperno si chinò su di lei e mi sembrò che l'abbracciasse. Prima di rendermi conto che i due si stavano baciando, prima che prendesse forma nella mia testa l'idea che i due, Piperno e Pupa, stavano pomiciando di brutto, passarono alcuni minuti. Restai non so quanto a fissarli come un cretino, un losco guardone. Li spiavo attraverso il lunotto, inebetito, ipnotizzato, ancora non capivo, non riuscivo a credere che i due erano lì che si sbaciucchiavano, si strofinavano senza ritegno. La pioggia mi scrosciava addosso senza tregua, senza pietà. Neanche la sentivo. 10 Arrivai a casa stravolto, fradicio fino all'osso. Vedendomi in quello stato, le zie e Carmela restarono senza parole. Non si capacitavano che mi fossi potuto ridurre in quel modo, coi vestiti così grondanti acqua che, entrando, in quei pochi secondi che avevo indugiato sulla porta, ai piedi mi si era formato un lago. Mi chiedevano, incredule e stupefatte, dove ero stato, com'è che con quella pioggia non mi ero portato dietro l'ombrello o non avevo pensato a ripararmi da qualche parte, dentro un portone. Come spiegare che ero stato al Colle dell'Irco a piedi e che, tornando, lungo la strada non avevo trovato un posto dove ripararmi nemmeno a crepare? Giusto il cimitero, s'incontrava su quella stramaledetta via sbrecciata, che poi, a quell'ora, era pure chiuso e non ci si entrava nemmeno morti. Cominciai a sfilarmi la giacca, pesava un quintale tanto si era inzuppata d'acqua. «Ero andato, mannaggia, a fare due passi per la via della Penna» spiegai inventandomi là per là la circostanza «e all'improvviso mi ha preso 'sto maledetto acquazzone». Zia Coletta andò a mettere una fascina di ginestre secche nel camino acceso, una fiammata crepitante si alzò di colpo. «Vieni ad asciugarti al fuoco!» mi urlò «ti prendi un malanno, sennò!». «Svelto, togliti i vestiti bagnati» mi sollecitò zia Angiolina, forse vedendomi impacciato, irresoluto «mettiti subito della biancheria asciutta». Restavo là, impalato davanti alla porta, senza sapere che fare, mi ero tolto solo la giacca e non mi decidevo a sfilarmi gli altri indumenti. «E meglio che vada di là, in camera» boccheggiai alla fine, avviandomi. «Carme', vagli a dare una mano!» strillò zia Coletta. Carmela mi seguì, pronta, solerte. Una volta in stanza, si dette un gran daffare a sfilarmi di dosso il resto
dei vestiti. «Mamma mia, come ti sei bagnato» non faceva che ripetere togliendomi le scarpe, i pedalini e poi, a fatica, i calzoni. Seduto sul bordo del lettone, la lasciavo fare, inerte, inebetito. Alla fine mi sfilò anche le mutande. Vedendomi l'uccello ridotto a un grumo, fece una risatina scema. «Il pipinello» rise. Ero ridotto proprio male. Dopo un po' cominciai anche a tremare. Dapprima erano solo dei brividini a fior di pelle, poi man mano si fecero più frequenti e intensi: partivano da dentro, come delle scariche elettriche. Alla fine battevo letteralmente i denti, squassato da un tremore irrefrenabile. «È meglio che ti metti a letto» mi consigliò Carmela aiutandomi a infilare il pigiama. Zia Angiolina arrivò col termometro, zia Coletta con una tazza di vin broulé. Mentre tenevo il termometro sotto l'ascella, mi assopii, sentivo le voci delle donne bisbigliare frasi, commenti preoccupati, poi il palmo freddo di una mano mi si posò sulla fronte. «Scotta. Ha un bel febbrone» sussurrò grave zia Angiolina. La stessa mano ossuta mi frugò sotto il pigiama, sfilò il termometro «trentanove e tre» sentii dire. Sprofondai in un sonno buio, agitato, pieno di sogni brevi, lancinanti. C'era sempre Pupa, in quei sogni. La sognai tutta la notte in preda alla febbre, al delirio. Tutta la notte fui perseguitato dall'incubo di Pupa. Mi svegliai sfebbrato, vuoto, dolcemente spossato, languidamente inebetito. «Come stai?» mi chiese Carmela entrando col vassoietto, la tazzina di caffè. Questa volta non spalancò la finestra come faceva di solito, aprì appena lo scurino lasciando filtrare uno spiraglio di luce. «Che ora è?» pigolai. «È tardi. Sono le undici» m'informò. Appoggiata con la spalla alla parete, aspettò che finissi di bere. Alla fine allungò la piccola guantiera perché ci appoggiassi sopra la tazzina vuota. «T'è passata la febbre?» mi chiese. «Boh» risposi. La scena di Pupa che si faceva baciare da Piperno in macchina, di me sotto la pioggia a dirotto che li spiavo dal lunotto posteriore, mi aggredì di nuovo. Non era più l'incubo notturno, convulso e febbrile, né il sogno confuso e affannoso che al risveglio se ne va via, evapora. No, era una imma-
gine vivida, netta. Crudele. Una roba vera, reale, accaduta la sera prima, vista coi miei occhi. Pupa che si lasciava baciare da Piperno... Una disperazione quieta e struggente mi pigliò alla gola. Volevo morire. «Mamma mia, e che hai fatto stanotte?» disse Carmela posando il vassoio sul comò, prendendo ad aggiustarmi le coperte e il lenzuolo attorcigliati, sconvolti, per metà penzolanti sul pavimento. «Lo stesso, tanto mi alzo» risposi mettendo una gamba e il piede fuori dal letto. Lei subito me li ricacciò sotto le coperte. «No, non ti puoi alzare» mi fece brusca «zia Angiolina ha detto che devi stare a letto finché non torna lei e ti misuri la febbre». «Dov'è che è andata?». «Al cimitero. Lei e zia Coletta. Le ha accompagnate in macchina don Armandino. Oggi è il due di novembre, il giorno dei morti. Sono andate prima a messa, poi scendevano giù al cimitero a portare i fiori ai parenti scomparsi... Ci stanno i cimiteri, laggiù in Africa?» mi chiese ridendo, scoprendo quel buco che aveva in fondo, quel premolare che le mancava. Nel rincalzarmi le coperte, si chinò su di me e mi schiacciò il petto sulla fronte e sul naso. Sentii, sotto la lana ruvida della maglia fatta ai ferri, insieme all'odore di fumo di camino, di aglio e chissà cos'altro, una massa calda e morbida. Non so che mi prese. Forse la disperazione, lo strazio di quella scena vista il giorno prima, Pupa e Piperno che si baciavano. Chissà. Abbrancai Carmela con tutte e due le braccia, l'avvinghiai a me e la tenni stretta, affondando di più la faccia nel suo petto, nella lana pelosa. Lei non si mosse, restava immobile, si lasciava stringere. «T'è venuta voglia?» mi sussurrò. «Mh-mh» annuii, sempre aggrappato a lei, la faccia affondata nel suo seno. Restammo per un po' così, muti, senza neppure rifiatare. Pian piano mollai la presa e lei si rialzò, era rossa in faccia, una ciocca di capelli le cadeva sulla fronte. Poi, senza che me l'aspettassi, pigliò a spogliarsi: lo fece in quattro e quattr'otto, rimase solo con la catenina. Sembrava una pollastra spennata, così, tutta nuda, la pelle bianca, le forme rotonde. Venne a ficcarsi sotto le coperte e mi si accucciò contro. Poi, senza tanti preamboli, mi prese l'uccello già dritto come una baionetta e, con una mossa rapida ed esperta, se lo infilò nella passera. Fu questione di qualche secondo, tre o quattro stantuffate, una fitta al basso ventre, e poi tutto un lago in cui mi sembrò di annegare, beato e pago come un re.
«Così non stai tanto a pensare a Pupa» mi bisbigliò come leggendomi nel pensiero. Rimanemmo abbracciati un paio di minuti in silenzio, un po' ansanti. Avevo il naso contro la sua fronte, i suoi capelli odoravano di selvatico, mi facevano il solletico alle narici. Alla fine si sfilò dal mio abbraccio, sgusciò da sotto le coperte e in due e due quattro si rivestì. Alle volte mi faceva paura, quella servetta petulante e ficcanaso. Sembrava che sapesse tutto di me. Senza farlo vedere, era sempre lì a scrutarmi, a spiarmi, indovinava ogni mio umore o stato d'animo, ogni pensiero che mi passava per la testa, capiva se ero turbato, per dire, depresso, scocciato, o invece contento, tranquillo, spensierato. Tutto notava, quella cafonetta intrigante, e ne intuiva al volo il motivo. Aveva qualcosa della strega, della fattucchiera. Davvero. Si sedette sull'orlo del letto e, senza guardarmi negli occhi, fissandomi un punto imprecisato della faccia, disse con noncuranza: «Non me lo fai un regalino?». Là per là non capii. «Regalino? Che regalino?... Cos'è, il tuo compleanno oggi?» ghignai. «Non ti è piaciuto, prima?» sorrise lei, civettuola. Di colpo tutto mi fu chiaro. Mi tornò in mente la prima volta che, a Tripoli, andai a puttane. Due amici, due tipi scafati, mi accompagnarono in un bordello clandestino: stava in un dedalo di viuzze e casupole calcinate, il posto, sperduto nella città vecchia, un quartiere tutto popolato da arabi veniva una certa strizza ad avventurarsi in quella specie di Casbah. C'erano tre donne, in quel tugurio. Una di loro, grassa e mezza nuda, se ne stava semisdraiata su una specie di giaciglio sfatto. Aveva il palmo delle mani e la pianta dei piedi dipinti di henne ed era carica di bracciali tintinnanti e di anelli, persino infilati nelle dita dei piedi. Gli amici si scelsero le altre due prostitute, due negrette procaci e nere come la liquirizia, a me lasciarono la bagasciona, quei figli di buona donna. «Cosa aspetti, bambino? Dai, vieni che facciamo l'amore» disse la baldracca in un italiano storpiato, vedendomi incerto, persino un po' spaventato. Mi slacciai i calzoni, salii su quella specie di letto e mi inoltrai tra le sue cosce lardose. Con due dita, lei prese il mio uccello e se lo infilò in quel posto, un gesto abituale, esperto, di una che lo fa di mestiere. Esattamente come aveva fatto Carmela, un gesto che le prostitute fanno in genere coi pivelli, quelli che vanno al casino per la prima volta - anch'io ero uno di
quelli, un verginello maldestro, neppure capace di prendere da solo la mira, di infilarlo al primo colpo. Così, Carmela la dava per soldi. Anche lei, a suo modo, era una prostituta, forse non proprio una professionista consumata, forse solo una che, capitando, si faceva trombare dietro compenso. Sta di fatto che mi aveva chiesto un regalino, per la scopata di poco prima. Proprio in quei giorni mi era arrivato da Tripoli il vaglia mensile di dodicimila lire. Scesi dal letto e andai a prendere i soldi nel cassetto del tavolino, li tenevo chiusi a chiave là dentro, insieme al passaporto, il libretto universitario, la patente, e altri documenti vari. Sfilai una banconota da cinquecento lire, l'allungai a Carmela con nonchalance, e tornai a infilarmi sotto le coperte. «Mamma mia, sei ricco, tu. Ce li hai i quattrini» commentò sorpresa, contenta, anche un po' vergognosa, ficcando i soldi in una saccoccia della veste. «Di' un po' una cosa» le feci a muso duro - il particolare mi tornava ogni tanto alla mente, mi girava da giorni nella testa come la falena attorno a un abat-jour «chi te l'ha regalata quella spilletta d'oro a forma di farfalla che portavi l'altro giorno alla fiera?». Carmela dilatò gli occhi e aprì la bocca come per rispondere, ma restò muta. «Non dirmi che te la sei comprata, perché non ci credo» la prevenni con un sorrisino tagliente. Diventò tutta rossa, abbassò lo sguardo. «Mo' che ti credi, che faccio la puttana?» replicò senza guardarmi: stava seduta in fondo al letto e passava un dito sulla coperta, ci faceva sopra degli strani solchi. «Mo', siccome abbiamo fatto l'amore e t'ho chiesto se mi facevi un regalino, mo' tu ti credi che io faccio la puttana». Tentai il bluff. Era solo un'idea, la mia, un vago sospetto. «Quella spilletta a forma di farfalla era della signora De Lellis, lo sapevi?» sparai con il tono di chi la sa lunga. «Sì, della moglie di zio Armandino, quella che sta in sanatorio». «E chi te l'ha detto? Nessuno lo sa» balbettò stupita alzando di scatto lo sguardo, fissandomi a bocca aperta, vagamente spaventata. Si era tradita, il bluff aveva funzionato. «Lo so io, come vedi» risposi con l'aria da furbo. «Allora, com'è che te la ritrovi? Non l'avrai mica sgraffignata?». «M'hai preso per una ladra?» protestò fingendosi offesa. Poi, in tono sommesso, sospiroso: «Me l'ha regalata don Armandino» confessò alla
fine di un lungo silenzio, sempre facendo col dito quei segni sulla coperta «oh, mi raccomando, non lo dire in giro» mi pregò tornando a guardarmi piena di apprensione, preoccupata. «E a che titolo te l'ha regalata?». «Così, per simpatia. Mi vuole bene, don Armandino» rispose lei con una spallucciata, un sorriso compiaciuto e vanitoso «e poi gli faccio tante ambasciate, tanti servizietti». «Anche quello che hai fatto a me, poco fa?». Altra spallucciata, altro sorriso ammiccante. «Eh, ogni tanto». Si alzò, venne a rincalzarmi il letto. «Pupa è partita, sai?» mi disse, così, d'acchito, cambiando discorso. La notizia mi lasciò senza fiato, mi colpì come un calcio agli stinchi. «Come partita?» rantolai. «Partita, partita. È andata a Bologna insieme al forestiero, il professore. Sono partiti in macchina, stamattina... Erano anche passati a salutarti». «A salutarmi?». «Sì, verso le nove. Zia Angiolina gli ha detto che dormivi, che ieri sera ti eri messo a letto con la febbre a trentanove. Ti salutano tanto. Il professore ha detto a zia Angiolina di salutarti tanto». «Di salutarmi tanto» ripetevo a pappagallo. «Sì, ha detto che gli dispiaceva di non poterti salutare. Ha detto che dovevano partire subito per arrivare a Bologna prima di notte. Dice che lassù, col buio e con la nebbia, la strada non si vede, guidando». «La strada non si vede» ripetevo imbambolato. «Che c'è, ti dispiace?» fece Carmela prendendo vassoio e tazzina da sopra il comò. «Dispiace? Figurati. Che mi frega». «E invece a te ti dispiace» ripeté Carmela uscendo di stanza «ti dispiace che Pupa mo' se la fa con quello lì» sentii che diceva dall'altra stanza, a ogni passo alzando il volume di voce, dicendo ogni parola più forte, fino a gridarle «ti dispiace che se n'è partita, che se n'è andata a Bologna insieme a quello!». In quei giorni, quando per caso lo incrociavo nell'androne di casa o veniva ad affacciarsi per salutare le vecchie, zio Armandino mi si rivolgeva sempre con una particolare premura. «Ti senti un po' solo?» mi chiedeva scrutandomi con gli occhi languidi, sorridendomi comprensivo, compassionevole.
Non capivo cos'è che suscitava quella sua attenzione affettuosa, se il fatto in generale che mi trovavo a Torricella Peligna solo, spaesato, lontano dalla famiglia, oppure, in particolare, perché Pupa se n'era partita all'improvviso con Piperno e avevo perso così la sua compagnia. Comunque fosse, quel suo chiedermi ogni volta se mi sentivo solo, quei suoi sguardi e sorrisi pieni di struggente comprensione, di pietoso interessamento, avevano finito davvero per farmi sentire un povero derelitto, solo, abbandonato, tradito, bidonato. «Perché non mi accompagni a Colle Zingaro?» mi chiese un pomeriggio. Doveva andare in una masseria, giù, dalle parti di quella frazione. Accettai, mi sentivo troppo depresso e scoglionato, quei giorni. «Notizie dai tuoi?» mi fece mentre scendevamo in macchina per i tornanti sbrecciati di via della Penna. «Niente, mi hanno mandato l'altro giorno il vaglia postale. Per il resto, nessuna novità» risposi osservando i quadranti del cruscotto, girando la manovella, alzando e abbassando il vetro del finestrino: era la prima volta che salivo sulla sua Volkswagen. «Come va questa macchina?» chiesi, così, tanto per dire qualcosa. «A meraviglia. Sono indistruttibili queste auto made in Deutschland. Ha fatto centosessantamila chilometri, questa, e ancora va come un treno. Ha la carrozzeria di un carrarmato» decantava compiaciuto «straordinaria marca, la Volkswagen. In fatto di tecnica, bisogna ammetterlo, i tedeschi sono imbattibili. Un'auto così, per esempio, non è neanche lontanamente paragonabile alle nostre Fiat, con quelle carrozzerie di stagnola, quei motorini spinti. A noi italiani piacciono le auto veloci, brillanti, poi ci lamentiamo se nel giro di qualche anno il motore fonde, sbiella». Non gli avessi mai fatto quella domanda, i discorsi sulle macchine, le loro prestazioni, caratteristiche e compagnia bella, mi tediavano a morte. C'erano persone, e zio Armandino era tra quelle, a quanto pare, capaci di discettare le mezze giornate di macchine, motori, spinterogeni, carburatori e via discorrendo. Anche di calcio. Calcio e auto erano argomenti che mi facevano calare il latte alle ginocchia. A pensarci, dovevo essere uno dei pochissimi al mondo al quale non fregava niente di argomenti come il calcio e le automobili. Io e altri due o tre, roba da Guinness dei primati. «Com'è che Pupa è partita?» chiesi a un tratto. Mi uscì così, senza pensarci. Zio Armandino non rispose subito. Tirò fuori dal taschino di petto un toscanello e se lo accese. «Credo che avesse un esame da fare» rispose «è una testa matta, quella ragazza» aggiunse sospirando «del resto, che vuoi,
è maggiorenne e libera di fare quel che le pare». Io tacevo, guardavo la campagna fuori dal finestrino, il paesaggio grigio, autunnale. «Ogni tanto prende una sbandata, quella benedetta ragazza» riattaccò lo zio. Teneva il sigarino all'angolo della bocca e lo faceva ballonzolare a ogni parola «Che vuoi farci? Anche se un padre» ammise «un minimo di controllo dovrebbe esercitarlo sulla figlia... Ti risulta che ci sia qualcosa tra Pupa e il professor Piperno?» mi chiese un po' teso, il sorriso imbarazzato «stavate spesso insieme, forse ti sarai accorto di qualcosa». «Be', lui, il cascamorto un po' lo faceva» risposi «anche Pupa, però, ci marciava» calcai, preso da un improvviso, stizzoso bisogno di sfogarmi. «Lo immaginavo» commentò zio Armandino con la voce spenta, afflitta «eh sì, Pupa è soggetta a questi colpi di testa, queste infatuazioni. Solo che il professor Piperno... per carità, degnissima persona... è un po' stagionato per lei, se vogliamo. E poi, a parte le poche notizie che tu ci hai fornito sul suo conto, resta di fatto un illustre sconosciuto». «Be', certo, mettersi col primo che capita, oltretutto più vecchio di oltre vent'anni» sogghignai velenoso. Provavo un gusto acre ad esagerare le cose, a farla sembrare una storia losca, mi trattenni a stento dal rivelare a zio Armandino che li avevo scoperti che pomiciavano in macchina di brutto. «Tra l'altro, un illustre sconosciuto, come giustamente hai detto... Io in te, zio, le avrei proibito di partire con quello lì, di farci un viaggio in macchina, loro due soli, fino a Bologna». Mi vendicavo, sfogavo tutta la mia rabbia, la gelosia. Alla fine provai schifo di me stesso, mi sentivo un vecchio colonnello in pensione, alla fine, bilioso, maligno e bacchettone. Zio Armandino si girò verso di me con un sorriso indulgente, ma anche un po' malizioso. «Non è che ti sei preso una mezza cottarella per Pupa?» disse. «Io?! Ma che dici, zio?!» ridacchiai «siamo cugini, io e Pupa». Ero avvampato, sudavo, mi aveva preso dappertutto un atroce formicolio. Mi sentii all'improvviso scoperto, svergognato peggio di un bruto, di un maniaco sessuale. Fortuna che eravamo arrivati in quella masseria della malora. «Ma certo. Scherzavo» sorrise lo zio fermandosi con la Volkswagen davanti alla casa. Aprì la portiera e scese. Scesi anch'io. Calavano da Torricella folate di nebbia, l'aria umida mi gelò il sudore sulla pelle, mi sferzò la faccia smorzando quella vampata di rossore. Dentro, la vergogna mi restò,
mi pulsava e lancinava come un ascesso a un dente. Anche lì fuori si sentivano i muggiti strazianti della vacca. Accompagnati dal contadino entrammo nella stalla: la bestia stava sdraiata su un fianco, la pancia gonfia e tesa come un aerostato. C'erano altre mucche, là dentro, e un sacco di tafani che giravano per l'aria. C'era soprattutto una puzza di fieno fradicio e di letame da mozzare il fiato. Da una valigiotta a soffietto che si era portato dietro, zio Armandino cavò tutto l'armamentario del suo mestiere. Si infilò dei guanti di gomma e un camice bianco, intanto parlava col contadino, gli chiedeva informazioni sullo stato della partoriente. Parlavano in dialetto, capivo un paio di parole su dieci. Intuii vagamente che la bestia faceva fatica a sgravarsi del vitellino. Me ne uscii. Non reggevo quel fetore di stallatico. Feci un giro attorno a quella specie di casa fatta di pietre grezze, il tetto di tegole tutto sbilenco. Dietro, sull'aia, c'erano galline e tacchini che razzolavano e un cagnaccio peloso legato alla catena, accucciato, col muso tra le zampe. Appena mi vide sbucare, si alzò e mi abbaiò contro, senza molta convinzione, però. Abbaiava guardando da un'altra parte, e ogni suo latrato finiva in una specie di ululato uggiolante, per niente minaccioso. «Che fate là fuori? Prendete freddo» sentii dirmi da una donna apparsa sulla soglia di casa «venite dentro, accomodatevi... Chi siete» mi chiese in dialetto «il figlio del dottore?». «No, il nipote» risposi. Mi trovai in uno stanzone buio, col pavimento di mattonelle di cotto tutto sconnesso e avvallato. Dal soffitto pendeva un filo a treccia col piatto di ferro smaltato e la lampadina accesa - faceva una luce così debole che si vedeva tale e quale il filamento elettrico. Dopo un po' arrivò anche zio Armandino: il vitello era nato e la puerpera stava bene. Su invito del padrone, di sua moglie e di un altro paio di donne sparse per la casa, ci sedemmo a un tavolaccio e qui cominciò quel cerimoniale paesano e contadino che consisteva nel gradire la roba che ti offrivano. «Favorite, non fate cerimonie» ripetevano a mo' di litania. In parole povere, bisognava assaggiare ogni cosa che sciorinavano sul piano della tavola. Cominciammo con un prosciutto tagliato a fette spesse due dita, poi si passò a un salamino piccante, seguirono delle pizzelle, dei tocchetti di cacio. Alla fine, come quei fuochi d'artificio alle feste di paese, ci fu offerta una girandola impressionante di dolcetti rustici, il tutto annaffiato con vino cotto, che guai a non assaggiarlo. Ti toccava assaggiare tutto, altri-
menti si offendevano a morte. Mentre io e zio Armandino ci rimpinzavamo, loro se ne stavano seduti a guardarci orgogliosi e compiaciuti. Se appena dicevi di no a qualcosa che loro insistevano a offrirti protendendo il piatto, subito si alzava un coro di: «Non fate cerimonie, favorite». Quando riprendemmo la via del ritorno, io ero quasi completamente ciucco. Si era fatto buio, nel frattempo, la nebbia era scesa densa e compatta, non ci si vedeva a un metro di distanza, pareva di stare in un sottomarino, mentre si andava su con la Vokswagen, pareva di navigare in un mare di latte. Anche zio Armandino era un po' brillo: a lui, avevo notato, la sbronza gli veniva in forma malinconica e sentimentale. Era ancora abbastanza sveglio, però, a giudicare da come guidava su per i tornanti, veloce e sicuro, in mezzo a quel nebbione che non lasciava vedere neppure il ciglio della strada. «Non sono stato un buon padre, lo so, sono stato assente» si rammaricava «ma quella che purtroppo le è mancata, è stata la madre. E venuta su orfana di madre, povera Pupa... sì, c'erano le zie ad accudirla, a provvedere, ma i genitori, è inutile, sono un'altra cosa». «E be'» interloquivo ogni tanto, la testa mi girava e mi sentivo sprofondare in una specie di dolce, euforico sopore. «Eh sì» continuava a sfogarsi zio Armandino in quel modo tranquillo e un po' lagnoso «a Pupa è mancata la madre... e anche il padre, in pratica. D'altra parte, il lavoro mi ha tenuto sempre lontano da casa. Dal '40 al '45, poi, sono stato del tutto assente, prima la guerra, quella sciagurata guerra, poi la prigionia in Africa Orientale... Pupa è praticamente cresciuta come un'orfanella: fra Torricella, in casa con le zie, e Bologna, nel collegio delle suore di Santa Dorotea. Secondo me, perciò è venuta su così ribelle, quella figlia mia... ribelle, sventata, cocciuta». Continuò a parlare per tutto il viaggio. Uno sfogo amaro e anche un po' patetico. Lo ascoltavo distratto, stordito. Anche se mezzo sbronzo, però, a un certo punto presi ad arrovellarmi su un fatto che non riuscivo a capire, che mi restava oscuro, inspiegabile peggio di un rompicapo: la madre di Pupa, cribbio, la moglie di zio Armandino, cioè, era viva o morta? A farla breve, era o no ricoverata in quel benedetto sanatorio di cui aveva parlato Pupa, sia pure en passant, oppure era defunta da un pezzo, visto che zio Armandino non la finiva più di piangere sulla triste sorte della figlia, orfana di madre, poveretta? Mistero. «Come si chiamava la zia?» gli chiesi a un tratto. Usai, non so perché, il verbo al passato, come se la zia non ci fosse più, come se fosse morta, ap-
punto. «Maria» rispose zio Armandino, neanche mi corresse, come se anche per lui si trattasse di una persona passata a miglior vita. Di colpo mi calò addosso lo sgomento. L'euforia del vino cotto era svaporata, di colpo mi era passata la sbronza. Imboccando il pezzo finale di via della Penna, percorrendo, in mezzo al nebbione, quel tratto buio di corso fino a casa, fui di nuovo morso dal senso di gelo, di vago orrore, che da un po' di tempo a questa parte mi afferrava ogni volta che veniva evocato il fantasma della madre di Pupa, la signora della foto, la donna col viso cancellato. Ripensai al balconcino dal quale, da piccola, Pupa guardava i bambini dell'asilo giocare, cantare la filastrocca Oh, quante belle figlie, Madama Doré, oh, quante belle figlie... Doveva essere stata la stanza dei suoi genitori, quella, chissà quante volte ci si era affacciata anche lei, la zia, a quel balconcino. Perché erano sempre chiuse le imposte di quella stanza? Perché tanto mistero attorno a questa zia? Perché tutti quei silenzi, quelle mezze frasi, le fughe, le allusioni strane, le risposte vaghe, reticenti? Con chiunque facevi cenno a lei, da Pupa stessa a Carmela, nessuno ti sapeva dare una risposta chiara, precisa. Ci si era messo pure zio Armandino, adesso: lui, addirittura, parlava della moglie come se fosse morta. 11 Era già ora di cena quando rientrai a casa. Zia Angiolina stava già seduta a capo tavola, arcigna e impettita come sempre. Zia Coletta, in piedi, condiva nella spasa il cavolfiore con olio, aceto e sale. Carmela, invece, era in cucina ad arrostire le scamorze. Entrando, fui avvolto da un discreto tepore, veniva da una stufa di terracotta che troneggiava mastodontica in un angolo della sala. Mi stavo abituando a quella casa tetra, alle vecchie zie, a Carmela, a quell'atmosfera domestica, sonnolenta, scandita da giornate tutte uguali, tediose, in cui accadevano sempre le stesse cose, sempre nello stesso modo. Adesso lo chiedo a loro, a zia Coletta e a zia Angiolina, pensai sedendomi a tavola: gli chiedo se la moglie di zio Armandino è morta oppure è ancora viva, ricoverata da qualche parte, chissà dove. Indugiai, non avevo una gran confidenza con le due vecchie. Praticamente ci stavo insieme solo quando si andava a tavola, solo a tavola scambiavo con loro qualche parola. Alle volte le incrociavo di ritorno dalla messa, le vedevo rientrare coi
loro vestitucci neri, le scarpette antiquate col mezzo tacco, le calze di filanca grigia. Si sfilavano i cappottini striminziti, si slacciavano i fazzoletti annodati sotto il mento - zia Coletta ci metteva sempre più tempo, impicciata com'era dal bastone, dalla camminata arrancante, sciancata. Si ritiravano nella loro stanza da letto, ed eccole, appena dopo, uscire col vestito di casa, le ciabatte e, sulle spalle, lo sciallino di lana fatto all'uncinetto; eccole subito darsi da fare, mettersi a sbrigare le faccende domestiche, cominciare a preparare il pranzo. Qualche volta, se restavo a casa il pomeriggio, le vedevo, verso una cert'ora, recitare il rosario, sedute accanto alla finestra, in quell'unica stanza della casa che si affacciava sul corso. Sciorinavano a fior di labbra le loro lugubri litanie facendo scorrere fra le dita la corona, grano dopo grano. Ogni tanto scoccavano occhiate fuori, sulla gente che passava, lasciandosi andare, tra una giaculatoria e l'altra, a qualche commento biascicato a mezza bocca. «È passata la comare Lucietta» diceva zia Angiolina «sta andando all'ambulatorio medico, ci scommetto... Santa Maria, mater Dei, ora pro nobis...». «Il marito ci avrà avuto un altro attacco» rispondeva zia Coletta «nel terzo mistero doloroso si contempla la flagellazione di Gesù...». «Un giorno o l'altro quello ci resta» profetizzava zia Angiolina atona. Facevano sempre questo genere di tetri commenti, di funesti presagi. Li facevano tra un versetto del rosario e l'altro. Le volte che mi ero fermato a spiarle, a origliare, ero rimasto agghiacciato dalle cose che dicevano. Parlavano dei loro conoscenti, compari, comari, amici, parenti, sempre e solo facendo riferimento alle disgrazie, le malattie che li avevano colpiti. «E be', che ci vuoi fare?» concludeva zia Coletta ogni volta, fatalista. Pareva che ci provassero un gusto sottile e insano a parlare delle disgrazie delle varie persone di Torricella Peligna. Avevano, tra l'altro, un quadro preciso e dettagliato di tutti gli infermi del paese, conoscevano di ognuno di loro diagnosi, prognosi, eventuale ricovero in ospedale, decorso della malattia e via dicendo. A volte sapevano persino quanti giorni gli restavano da campare. Eravamo alla frutta, ormai... «Che tipo era zia Maria, la moglie di zio Armandino?» chiesi d'un tratto con aria vaga e noncurante, sbucciandomi una pera. Sentii come un gelo calare sulla tavola. Zia Angiolina si raschiò la gola, zia Coletta saettò sulla sorella un'occhiata sguincia. Non risposero.
«Ve la ricordate, no?» insistetti sempre in quel tono ameno. «Certo che ce la ricordiamo» rispose alla fine zia Angiolina ripiegando il tovagliolo con dei gesti pignoli, quasi maniacali. Lo faceva sempre quando aveva finito di mangiare, infilando poi il tovagliolo nell'apposito anello. «Ma è morta?» chiesi con un sorrisetto che poco si intonava con la domanda. Altro silenzio. Zia Coletta stava ruminando l'ultimo spicchio di mela, aveva gli occhi bassi, guardò di nuovo la sorella di sottecchi, un'occhiata fugace. «È come se lo fosse» sospirò zia Angiolina intrecciando le mani sulla tovaglia, aveva delle chiazze bianche sul dorso, sulle dita secche e nodose come ramoscelli. Mi facevano un po' senso, quelle macchie, sembrava che in quei punti la pelle si fosse scolorita con la varechina. «Eh, povera Maria» scosse la testa zia Coletta. Lei, invece, aveva sul labbro superiore, all'angolo della bocca, un neo grosso e nero dal quale spuntavano due o tre peli lunghi, arricciolati come fili metallici. Anche quel neo mi faceva un po' schifo. «E dov'è ora?» continuai imperterrito. «In un luogo dove la curano» rispose zia Angiolina «senza speranza, purtroppo» aggiunse beccheggiando con la testa, grave, rassegnata. Mi fissò con i suoi occhi slavati, gelidi, sempre un po' lacrimosi. «Com'è che ti interessi tanto alla zia?» mi domandò con una punta di fastidio, quasi volesse richiamarmi a un po' di discrezione, di riservatezza. «Così, volevo solo sapere qualcosa di lei» risposi con un'alzata di spalle. «Zio Armando ha molto sofferto a causa sua, e meno si parla di lei e di quella triste vicenda, meglio è. Bisogna rispettare il suo dolore» mi ammonì zia Angiolina con un tono oscuro, misterioso, ma facendomi chiaramente capire che era meglio se mi stavo zitto e non facevo tante domande, soprattutto non mi azzardassi a farle a lui, a zio Armandino. «Ma cos'ha» domandai, sempre sfoggiando quell'aria da finto tonto, «è malata?». Dopo avermi fulminato con uno sguardo di ghiaccio, zia Angiolina annuì due o tre volte con la testa, chinò lo sguardo sulle mani che teneva intrecciate e prese a rigirarsi l'anello intorno al dito. «Sì, è malata. Molto malata» rispose, calcando sulla parola molto. A quel punto non me la sentii più di continuare in quell'inutile interrogatorio. Anche loro, le vecchie, se provavi a fargli qualche domanda su questa misteriosa zia, ti rispondevano in quel modo vago, imbarazzato. Mi
sembrò che fossero persino scandalizzate da quelle mie domande, zia Angiolina mi aveva addirittura fatto intendere che era meglio lasciarlo perdere, quell'argomento. Seguì un silenzio di tomba. In cucina si sentiva il rumore dell'acqua del lavandino che scorreva, di Carmela che raschiava e risciacquava pentole e tegami. Mo' che vuole 'sto impiccione? sembravano pensare le vecchie con quel loro silenzio caparbio, quasi ostile Arriva qua, in casa, ficca il naso negli affari di famiglia. Come si permette? Sì, va be', è figlio di nostra nipote Amelia, ma che vuol dire? Questo non lo autorizza certo a intromettersi in fatti che non lo riguardano. In realtà, ero io a pensarle queste cose. Di colpo ebbi la paurosa sensazione di essere un estraneo, uno capitato non si sa come e perché in quel paese sperduto in mezzo alle montagne, in una casa che non era la mia, fra persone che non avevo mai visto prima di allora e con le quali, in quei due mesi, non avevo stabilito nessun rapporto, nessuna confidenza. Sì, gentili, educate, ospitali quanto si vuole, ma niente di più. Che ci avevo da spartire con quelle due vecchie, in fin dei conti? Sbirciai le manacce di zia Angiolina tutte piene di quelle schifose macchie bianche, osservai di sfuggita quel neo grosso e ripugnante che zia Coletta aveva sul labbro, irto di peli lunghi e arricciolati, e mi accorsi di botto che le due zie, oltre a essermi del tutto estranee, mi stavano proprio sulle palle. Mandandole mentalmente a fanculo, mi alzai. «Esco a fare due passi» annunciai con un sorrisino ipocrita e mellifluo, e me ne uscii. Se fossi stato un ragazzo giudizioso, avrei approfittato del fatto che Pupa se n'era andata a Bologna con Piperno per mettermi una buona volta a studiare. Mi ero ripromesso, coi primi di novembre, di iniziare la preparazione di Istituzioni di diritto privato - un esame fondamentale, come diceva Papà, me lo ripeteva anche nell'ultima lettera. L'idea solo di mettermi a sgobbare su questo testo di migliaia di pagine, mi scatenava un'angoscia cosmica. Non ebbi neanche tanti travagli interiori, lacerazioni, crisi di coscienza e tutto il resto. Decisi che avrei iniziato a studiare a gennaio, con l'anno nuovo. Punto e basta. Si era alzato un vento di bora, quel pomeriggio, da sradicare gli alberi, scoperchiare i tetti. Veniva giù dalla chiesa, si insinuava per via dei Fossi con una violenza tale che, quando uscii dal portone, per poco non mi sollevò di peso da terra e mi scaraventò contro il muro di casa. A Torricella lo chiamavano vuoira, quel ventaccio: fischiava e ululava da far paura.
Stretto nel mio cappotto, chino in avanti per meglio fendere quell'ira di Dio, mi avviai a fatica verso il bar dell'albergo. Non erano neanche trenta passi dal portone di casa: si attraversava lo slargo lì davanti, si raggiungeva l'altro marciapiede del corso e, proprio là, con la sua grossa insegna dipinta a mano, la lanterna che pendeva sul portoncino d'ingresso, c'era l'albergo Roma. Ci misi un secolo a fare quei trenta passi, arrancavo a testa bassa e ogni due o tre metri dovevo fermarmi, piantarmi a gambe larghe, piegarmi in avanti per resistere all'urto di quelle rabbiose folate. Stavo ormai per raggiungere eroicamente la meta, quando vidi posteggiata lungo il marciapiede, poco più in su, un'Appia blu targata Bologna. «Cribbio, ma quella è la macchina di Piperno!» esclamai tra me e me «cribbio, ma allora sono tornati quei due figli di puttana!». Ripresi precipitosamente la via del ritorno. Ora il vento lo avevo alle spalle, mi soffiava sul sedere, sulla schiena, mi sospingeva verso casa schiaffeggiandomi con violenza, ci impiegai tre secondi a tornare. Indugiai nell'androne, sconvolto, stordito, non tanto dalla vuoira quanto piuttosto dal fatto che Pupa e Piperno erano tornati. Riprendevo fiato, mi ravviavo i capelli, e intanto riflettevo confuso, stralunato, il cuore che mi batteva veloce, impazzito. Riflettevo su che? Neanche io lo sapevo. Guardai in su, lungo la rampa di scale che portava al piano di sopra, come cercando un segno, un invito, un pretesto qualsiasi per salire in casa, andarli a salutare. «Salve! Siete tornati finalmente» avrei detto con un piglio allegrotto e spavaldo. Avevo la morte nel cuore, invece, il terrore di rivederli, di dover constatare coi miei occhi, crudamente, che i due si erano messi insieme, si erano pure fidanzati, magari. Cominciai a salire i gradini: li salivo a uno a uno, esitante, dubbioso, lacerato, non sapevo neanche io da quale tormentoso dilemma. Ci misi non so quanto a raggiungere il pianerottolo. Davanti alla porta, ancora mi arrovellavo se bussare o no, se entrare o meno, salutarli o lasciar perdere. Indugiai altri minuti piantato sulla soglia di casa, le dita anchilosate, penosamente artigliate attorno al batacchio. Bussai, alla fine. Mica perché avessi deciso di farlo, era stata la mano che, da sola, aveva alzato due volte il batacchio e aveva picchiato, senza che io lo volessi, senza che me ne fossi neanche accorto. «Avanti!» berciò rauca e screanzata la voce di Rachele. Entrai. «Buonasera, Rachele» alitai atono. Ero attanagliato dall'emozione, la voce mi usciva a stento. Mi schiarii la gola: «Ho visto la macchina del professor
Piperno... Per caso sono tornati?». «Va', entra. Sono di là» mi rispose Rachele facendo un gesto verso la porta della sala. Mi lasciò lì, se ne tornò in cucina con quella sua camminata a scatti, arrancante, tipo Frankenstein. «Permesso?» dissi affacciandomi nel salone. Nelle poltroncine e divanetti settecenteschi, imbottiti di raso a strisce, stavano seduti zio Armandino, Piperno e, di spalle, la testa che spuntava dallo schienale, un'altra persona che non conoscevo: aveva la chioma biondo-platino, arricciata e vaporosa come se fosse appena uscita dal parrucchiere e le avessero fatto di fresco la permanente. «Ciao, Renzo» fece Piperno alzandosi, venendomi incontro e placcandomi la mano con uno slancio cordiale e caloroso che mi lasciò interdetto «eccoci di nuovo a Torricella, come vedi» sorrise tentennando come al solito la testa «siamo andati via all'improvviso, non ti abbiamo neanche potuto salutare quella mattina. Avevi la febbre alta. Ti sei rimesso, spero» continuò senza smettere mai di scrollare la testa: pareva gli fosse venuto un attacco epilettico. Intanto si era alzata anche la signora bionda che, entrando, avevo visto di spalle. Mi fissava con un sorriso soave. E questa chi è?, mi chiesi mentre mi si affollavano convulsamente nella testa le ipotesi più astruse: pensai che fosse un'amica di Pupa, una parente di Piperno, oppure la sua fidanzata. Ma allora Pupa dov'era? Che cos'era successo? «Renzo. Come stai?» mi fece la bionda con un tono affettuoso e confidenziale che mi sbalordì. «Non c'è male» farfugliai fissandola frastornato. «Così saluti tua cugina?» sorrise Piperno notando la mia reazione ebete «è Pupa, non la riconosci?». Ebbi un capogiro. Possibile che quella signora davanti a me che continuava a contemplarmi con lo sguardo velato e sognante, fosse Pupa? Che quel tipo elegante, coi capelli biondo-platino, fosse lei, Pupa De Lellis, mia cugina? Non riuscivo a crederci, dovetti fare uno sforzo tremendo per rintracciare dietro, sotto quel trucco, la permanente, la tinta smagliante dei capelli, il tailleur beige a righini, la Pupa che avevo conosciuto al mio arrivo a Torricella. «Accomodati, Renzo, togliti il paltò. Prendi un caffè?» mi fece zio Armandino notando che io continuavo a restare in piedi, con addosso il cappotto e quella terribile aria da baccalà che dovevo avere in quel momento. Sul tavolino basso c'era già la guantiera con le tazzine, la zuccheriera e
tutto il resto. Dalla cucina si sentiva il borbottio dell'acqua che bolliva nella caffettiera. «No, grazie» balbettai «ero passato solo un momento... Be', ci vediamo». Me ne andai lasciandoli là a prendere il caffè, a conversare, a dirsi chissà cosa. Scendendo le scale, rivedevo le loro facce, i loro atteggiamenti. Zio Armandino mi era parso anche lui alquanto frastornato. Certo, il vedersi arrivare la figlia trasformata in quel modo, fidanzata a un uomo di mezza età, un illustre sconosciuto, tra l'altro, doveva avergli procurato un certo scombussolamento. Piperno e Pupa, invece, al momento del congedo mi avevano rivolto un semplice sorriso di circostanza, appena un'occhiata, il fatto che me ne fossi subito andato li lasciava del tutto indifferenti. Mentre uscivo e di nuovo affrontavo la bora che soffiava a tutta forza, conclusi sgomento, col magone nel cuore, che avevo perso Pupa per sempre. Peggio, pensai che Pupa non c'era più, si era trasformata in una signora bionda in tailleur. Una metamorfosi mostruosa, sconvolgente. «Hai visto che bella signorina che si è fatta Pupa?» disse Carmela aprendo gli scurini, venendo poi a posare sul comodino la tazzina di caffè. Emisi una specie di gemito. Lei, come al solito, si era appoggiata al muro e, mentre io sorbivo a piccoli sorsi il caffè, continuò a far commenti pettegoli. «Be', certo lui è un po' anzianotto, ma è tanto un bel signore». «Bello?» obiettai, la voce cavernosa, impastata di sonno «dov'è che è bello?». «Be', fanno una bella coppia, insieme. Lei si è tanto ingentilita» continuava a decantare Carmela «sta bene così bionda, vestita elegante. Prima pareva una zingarella». «Ma tu quand'è che l'hai vista?». «Ieri sera. A una cert'ora sono venuti giù a salutare zia Coletta e zia Angiolina». «Che cos'hanno detto le vecchie quando hanno visto la nipote conciata in quel modo?». «Be', erano un poco meravigliate. Da principio non l'avevano neanche riconosciuta». «Zia Angiolina sarà contenta che la nipote finalmente ha trovato marito» ridacchiai. «Come no! Era la sua croce, quella» fece Carmela riprendendo dal comodino la tazzina vuota, avviandosi per uscire.
Mi ero tirato su col busto e mi stavo stiracchiando tutto, sganasciando in un colossale sbadiglio. «Io lo so dove sta la mamma di Pupa, la moglie del dottore» disse Carmela fermandosi sulla porta con la guantiera in mano. La notizia mi bloccò a metà dello sbadiglio, mi paralizzò con le braccia aperte nel momento massimo dello stiracchiamento. «Sta a Lanciano» mi venne a bisbigliare tornando sui suoi passi, sedendosi al fondo del letto «in un istituto religioso... l'altra sera, ti ricordi tutte quelle domande che facevi su questa zia, e le ziette manco ti rispondevano. Be', io penso proprio che l'hanno ricoverata là» mi confidò con fare segreto, furtivo, la voce soffocata, girandosi a sbirciare verso la porta come se potesse esserci qualcuno a origliare, o potesse sentirla zia Angiolina dall'altra stanza. «Lo so perché ogni mese il dottore mi dà i soldi per la retta da pagare, tramite vaglia postale, a quell'istituto di Lanciano». «Carmela!» sentimmo chiamare all'improvviso, era la voce arrochita e imperiosa di zia Angiolina «dove sei? Ci sta il bucato da stendere». «Vengo!» gridò Carmela scattando in piedi, uscendo di stanza in tutta fretta. Sentii che zia Angiolina la rimbrottava, le loro voci si allontanarono, si persero in fondo alla casa. Mentre ero al gabinetto, seduto sulla tazza del water, impegnato in quella piacevole, anche se a volte laboriosa operazione mattutina, sentii qualcuno bussare alla porta del bagno. Non c'era di peggio, per me, che essere interrotto, distratto mentre ero seduto sul water. «Chi è?!» latrai. Era di nuovo Carmela. «È scesa mo' Rachele. Dice che Pupa vuole vederti, che t'aspetta su, in camera sua» mi annunciò attraverso la porta, eccitata. Non risposi. Ero al culmine dello sforzo: contrassi tutti i muscoli nello spasmo finale... Plof. «Signorino Renzo, hai sentito?!» ripeté da dietro la porta Carmela. «Sì, ho sentito, ho sentito! Va bene, adesso ci vado!». Trovai Pupa che si truccava seduta al tavolino, in vestaglia. Sul piano c'erano seminati tutta una serie di oggetti da trucco: rossetto, rimmel, cipria, matite, vasetti e flaconi vari. Aveva davanti a sé uno specchio ovale, di quelli portatili, ed era tutta sporta in avanti, intenta a disegnarsi con la matita un sopracciglio: un segno netto, filiforme. «Ciao, mi hai chiamato?» dissi, l'aria distaccata, sostenuta.
«Sai, Renzo» fece lei senza smettere di truccarsi, parlava a spizzichi e bocconi, presa com'era a disegnarsi quell'assurdo sopracciglio «avevo una gran voglia di rivederti». Il primo sopracciglio era a posto, si fermò un istante, si girò a guardarmi. «Sai, non vedevo l'ora di farmi una chiacchierata con te». Mi sorrise e batté le ciglia come Minnie nei cartoni animati quando fa la svenevole con Topolino «ti voglio bene, Renzo. Sai, in questi giorni ti ho pensato molto...». Mi fece un altro sorriso, tornò a girarsi verso lo specchio e attaccò a disegnarsi il secondo sopracciglio «ho scoperto, in questi giorni, che l'unico vero amico che abbia sei tu... l'unico col quale sento che posso aprirmi, confidarmi... del resto, siamo cugini... sai, Renzo, sono felice». «Felice di che?» chiesi. Stavo in piedi, la fissavo con aria sempre più fredda, quasi schifata. «Di tutto quello che mi sta capitando... È un uomo meraviglioso, sai. Anche se può sembrarti assurdo, è proprio l'uomo che ho sempre desiderato, sognato... È colto, sensibile, fantasioso, romantico... E il fatto che abbia tanti anni più di me, sai, non mi dispiace per niente». Tornò a girarsi dalla mia parte. Adesso, con tutte e due le sopracciglia disegnate, aveva un'aria più simmetrica, prima pareva un clown. «Mi piace un uomo più anziano di me, paterno, protettivo». «Ma se dicevi che ti era antipatico. Che era uno snob, un presuntuoso». «Sai, adesso posso dirtelo» rispose attaccando a imbrattarsi le ciglia di rimmel con un minuscolo spazzolino «Piperno mi ha affascinato fin dal primo momento, quando è sceso dalla macchina con quel trench chiaro e mi ha stretto la mano, e intanto mi fissava con uno sguardo che non saprei dirti... quello sguardo, Renzo, mi ha trafitto, mi è entrato dentro... mi ha dato un fremito che non so spiegarti». «Allora mi hai raccontato un sacco di balle» le obiettai col solito sarcasmo «perché dicevi che ti rompeva, che non volevi vederlo?». «Forse perché avevo paura». «Paura?». «Sì, avevo paura di potermi innamorare di lui» sorrise riponendo lo spazzolino del rimmel nell'apposita scatoletta, girandosi di nuovo «capisci, Renzo?». «Perché ti sei fatta queste sopracciglia alla Greta Garbo?» cambiai discorso «che fine hanno fatto quelle che avevi prima?». «Ma le ho depilate, è così semplice» scoppiò a ridere, quel genere di ri-
sata a singhiozzo che mi urtava terribilmente. Mi mostrò una pinzetta «Con questa, vedi? Mi sono strappata i peli delle sopracciglia a uno a uno». «Una tortura, dev'essere stata». «Una piacevole tortura. È lui che mi ha voluta così». «Com'eri prima non gli stavi bene, allora» commentai sempre in quel modo sferzante. Non rispose. Avvitò l'astuccio del rossetto facendo uscire la punta color sanguinaccio, e cominciò a passarsela su quelle sue belle labbra carnose ed elastiche come la gomma. Ebbi una fitta al cuore: quella bocca che avevo baciato con tanta emozione, tanto struggente piacere, adesso era roba esclusiva di Piperno, maledetto lui e il giorno che l'avevo conosciuto su quel piroscafo fetente. «Bisogna conoscerlo, Renzo» prese a farneticare Pupa «è un esteta, lui, un artista». Intanto faceva una serie di smorfie con la bocca rimirandosi nello specchio le labbra che aveva appena finito di pittarsi a forma di cuore. «Lo sapevi che a Tripoli ha fatto anche delle regie teatrali?». Era in pieno delirio, ormai, infatuata, innamorata pazza «E infatti ha un meraviglioso senso della scena, Mino, un gusto straordinario per il vestire eccentrico, per il trucco sofisticato». Dio, se mi davano fastidio tutte quelle scemenze che diceva a proposito del suo Mino. «Mino? Chi è Mino?» chiesi con aria cretina, fingendo di non capire. In realtà, mica lo sapevo che Piperno si faceva chiamare con quel nomignolo da finocchio. «Non sai che si chiama Mino?». «Non si chiama Giacomo?». «Certo. Mino, diminutivo di Giacomo». «Allora, cos'è 'sta storia che è un esteta, un artista, che ha un fantastico senso della scena?» ormai il mio tono sfiorava lo scherno, il dileggio «insomma, perché Giacomino ti ha voluto diversa da come sei?». «È stato un gioco, Renzo... un gioco folle e meraviglioso» mi rispose Pupa girandosi definitivamente e accavallando le gambe. Si era passata sulle gote un po' di cipria rosa. «Un giorno, quando eravamo a Bologna» cominciò a raccontare divertita, elettrizzata, «se n'è uscito dicendo: tu non sei un tipo bruno, sei una falsa mora... mi fece notare che la mia pelle è chiara, il colore degli occhi
tendente al verde dorato... e poi, via questa coda di cavallo, mi ha detto, questa mise tutta nera, quest'aria tenebrosa e triste da esistenzialista, voglio vederti risplendere, vedere valorizzata la tua natura solare, gioiosa. E così mi ha portato da un parrucchiere e gli ha ordinato di tagliarmi tutti quei capelli scuri, arruffati, quella codaccia di cavallo... La voglio bionda, gli ha detto, e le faccia un taglio anni '30... In casa sua, fra i vestiti appesi in un armadio, rimasti là per anni, ha trovato un tailleur che mi stava a pennello e una camicetta di raso: erano di sua sorella, mi pare, rimasti là da prima della guerra». Mentre farneticava di queste cose, Pupa si tolse la vestaglia, rimase in sottoveste. Si andò a sedere sul bordo del letto e prese a infilarsi le calze di nylon. Lo faceva con quei gesti esperti, tutti femminili: arrotolava prima la calza, ci introduceva il piede nudo, poi la srotolava man mano lungo il polpaccio, la coscia, se l'aggiustava, lisciava le grinze e, in ultimo, sollevata la sottoveste, l'agganciava alla giarrettiera. Mi arrapavano un sacco le scene dei film in cui si vedeva l'attrice fare quell'operazione di infilarsi le calze, e poi agganciarle alle giarrettiere alzando la gonna, scoprendo le cosce. Sbirciai Pupa mentre lo faceva. Non staccai gli occhi un istante dalle sue gambe, non persi neppure un gesto. Provai ancora quella fitta al cuore di prima, quando la osservavo passarsi il rossetto sulle labbra. «Vi sposate?» le chiesi, torvo in faccia interrompendo quel suo demenziale sproloquio. «Certo». «Quando?». «Ah, ancora non l'abbiamo deciso. Mino vuole che prima finisca l'Università... Sabato l'altro, comunque, ci fidanziamo ufficialmente, ne abbiamo già parlato a papà e alle zie. Quel giorno mi regalerà anche l'anello di fidanzamento... Una cosa molto formale» mi ragguagliava felice, radiosa «ah, non credere, sotto quei modi da uomo moderno, di mondo, Mino è in fondo un tradizionalista... Sabato faremo una bella cena per festeggiare l'evento. Naturalmente sarai invitato anche tu». «Troppo gentile» grugnii «immagino che ti sei fatta già sbattere da lui». Pupa mi fissò esterrefatta «Renzo!... ma che linguaggio è questo?». «T'ha sverginata, il porco, eh?» ghignai furioso, incattivito. Ero fuori di me al pensiero che Piperno l'aveva trombata, sverginata. Avrei voluto essere io a farlo, l'avevo desiderato, sognato. «Sverginata?» sorrise lei maliziosa «e chi ti dice che ero ancora vergine? Ohi, cuginetto, ho ventun'anni, io».
12 Novembre era ormai agli sgoccioli, stava per arrivare l'inverno. Eppure, da un po' di giorni, il tempo a Torricella era stranamente mite e soleggiato. Scesi nell'orto a fare un giro. Presi a vagolare inoltrandomi tra gli alberi del boschetto. Era una vera giungla, quel pezzo di terra piantato a olmi, pini, frassini e non so cos'altro. Oltre a tutto il mare di foglie fradice che ricopriva il terreno, c'era un fitto quasi inestricabile di rami, cespugli, rovi, sterpi, masse straripanti di ortiche. Notai a terra uno stronzo secco. Incredibile, c'era gente che scavalcava il muretto e veniva a fare i suoi bisogni nell'orto, neanche fosse un diurno, una latrina pubblica. Poco più avanti incontrai un rospo: se ne stava acquattato tra le foglie, gonfio, viscido, pieno di bitorzoli e verruche. Spiccò un salto e sparì tra le erbacce. Sotto il muro di cinta dell'asilo, scoprii una colonia di funghi marroncini e carnosi: mi chinai a coglierne uno. «Non si mangiano, quelli!» mi avvertì una voce alle spalle. Era Carmela, aveva un rastrello in mano. «Mica ho intenzione di mangiarli» risposi «magari prima andrebbero cotti. Ma perché, non sono buoni?». «Sembrano buoni: assomigliano ai funghi porcini. Invece sono di una specie velenosa. L'altr'anno, giù a Tre Confini, una famiglia s'è mangiata quei funghi: sono finiti tutti quanti all'ospedale, due sono pure morti». «Pussa via!» feci gettando il fungo, strofinandomi le dita contro i calzoni, quasi fossi stato pericolosamente contagiato. «Visto che bella giornata?» disse Carmela rastrellando foglie secche, ammucchiandole in un unico punto «è l'estate di San Martino, questa, anche se è arrivata in ritardo. Invece del dieci di novembre, quest'anno è venuta alla fine del mese». Vidi avanzare verso di me Piperno con la sua andatura dinoccolata, il trench stretto in vita con la cintura, alla maniera di Humphrey Bogart. «Buongiorno» salutò rivolto a me, ma anche a Carmela «mi ero dimenticato: ti ho portato da Bologna un libro». Mi porse un volume in brossura. Lo presi, lessi in copertina il titolo, l'autore: "Aspetta primavera, Bandini", John Fante. «Ah, il famoso scrittore oriundo torricellano. Grazie del pensiero» sorrisi a mezza bocca, laconico, freddo: avrei dovuto mostrarmi grato, lusinga-
to, o cose del genere. In realtà, odiavo Piperno dal giorno che l'avevo visto baciarsi in macchina con Pupa sul Colle dell'Irco, con la pioggia che cadeva a dirotto, che mi infradiciava tutto, covavo per lui un'avversione sorda, ostinata. «Leggilo, sono sicuro che ti piacerà» disse. «Questo poi è da vedere» ghignai sgarbato, sfuggente. «Da vedere se lo leggerai o se ti piacerà?» sorrise divertito, fissandomi, tentennando la testa. Non avvertiva la mia ironia ostile, la confondeva col mio carattere a volte chiuso, schivo, con i miei atteggiamenti scontrosi e sarcastici, tipici dell'età. «Qual è l'ultimo libro che hai letto?» mi chiese. C'eravamo mossi, camminavamo sulle foglie marce senza una direzione, a casaccio. Poco più in là Carmela aveva rastrellato una montagna di foglie morte e aveva appiccato il fuoco: per l'aria si era sparso un odore acre di fumo. «"Gli Indifferenti"» risposi. Non avevo letto più niente in quei mesi, a Torricella, più che qualche rotocalco trovato su in casa di zio Armandino, non avevo letto più un tubo. «Ah, però» si stupì e si compiacque Piperno «è un opera importante, innovativa». Non gli avessi mai detto che avevo letto "Gli Indifferenti", attaccò subito una dotta disquisizione su quell'opera letteraria. Il cervello mi si chiudeva in quelle occasioni, si bloccava del tutto, mi arrivava solo un rumore di parole senza senso. Disse che il romanzo di Moravia era in pratica una specie di manifesto ante litteram dell'esistenzialismo, che, prima ancora di Sartre, senza saperlo, Moravia aveva anticipato, con quel romanzo, l'essenza filosofica dell'esistenzialismo. Ero stremato. Fortuna che dal terrazzo, a un certo punto, si affacciò Pupa. Gorgheggiò un uh-uh che mi fece raggricciare la pelle. Sfarfallò la manina. «Sono pronta, Mino. Ti aspetto davanti al bar!». «Va bene, Pupa» rispose lui «ti raggiungo». Prima che uscisse dalla porticina esterna dell'orto, lo vidi fermarsi a parlare con Carmela, sempre intenta a rastrellare le foglie secche. Lemme lemme, raggiunsi il pozzo. Mi sporsi oltre il parapetto a scrutare il fondo buio da cui saliva un sentore umido e freddo. Sputai. Sentii il rumore impercettibile dello sputo che, amplificato dall'eco, toccava, giù in fondo, il pelo dell'acqua. Vidi lo specchio stagnante incresparsi di tanti anelli concentrici. Lasciai cadere altri tre, quattro sputi, ogni volta ascoltavo quel piccolo tonfo, fissavo i cerchi disegnarsi sul pelo dell'acqua nera, fredda.
Rialzando la testa, notai che Piperno stava ancora a parlare con Carmela, chissà che cavolo aveva da dirle. A un certo punto infilò la mano nel trench, cavò da una tasca interna il portafoglio, sfilò una banconota da cinquemila e la rifilò alla servetta. Lei la prese con un po' d'impaccio, di ritrosia, e la fece sparire in una tasca del vestito. Mi chiedevo che razza di servizio, ambasciata o vattelapesca, Piperno le aveva chiesto di fargli, doveva trattarsi di una cosa grossa, importante, se l'aveva ricompensata con quella cifra. Mi ero incamminato verso la pineta, non sapevo neanche io perché. Salivo i gradini di pietra sconnessa a due a due, di slancio. Attraversando i tratti piani, pigliavo a calci le pigne sparse a terra fra l'erba ormai secca e stopposa, gli assestavo certe pedate rabbiose, le facevo volare lontano. In quei mesi, a Torricella, ero diventato un formidabile colpitore di pigne secche: le centravo con la punta della scarpa, le facevo schizzare a distanze enormi. In cima, sbucando sullo spiazzo di erba del monumento ai caduti, vidi Pupa e Piperno seduti su una di quelle scomodissime panchine di ferro, piantate ai margini del piazzale, si godevano il sole di mezzogiorno, l'aria mite di quelle giornate. «Renzo, dove vai?» chiamò Pupa scorgendomi. Stavano là, silenziosi, incappottati, un po' storditi dall'aria, dalla luce. Feci un gesto vago, teatrale, come a dire che non lo sapevo neanche io. «Vieni a sederti con noi» m'invitò Piperno. Mi avvicinai. Preferii accovacciarmi sull'erba, mi scocciava sedermi sulla panchina accanto a loro. Presi subito a raccattare pigne, a scagliarle lontano. «Allora, sabato c'è la cena di fidanzamento?» ghignai. «Naturalmente» sorrise Pupa «adesso vi dico anche il menù... timballo, come primo, Rachele lo fa squisito... come secondo, arrosto misto di agnello, salsicce, bracioline di maiale. Per contorno, peperoni alla brace, funghi trifolati...». «Per me, per favore, senza aglio» si raccomandò Piperno. «Non ti piace l'aglio?» chiese Pupa girandosi, guardandogli l'orecchio. «L'aglio? Per carità! Non è un problema, comunque, rinuncerò ai funghi trifolati». «No, non è giusto. Dirò a Rachele di cucinarteli a parte». Pupa finì di elencare il menù: c'erano un altro paio di pietanze, altri contorni, il fiadone per dessert.
«Hai letto il libro?» mi chiese Piperno cambiando discorso. Avrei voluto dirgli di no, che non l'avevo letto, che non me ne fregava niente di John Fante, della sua poetica di ragazzo povero, figlio di emigranti italiani, e via discorrendo. Invece l'avevo letto tutto d'un fiato e mi era pure piaciuto. «Discreto» risposi laconico. «Che libro gli hai regalato?» s'intromise Pupa sorpresa e incuriosita. «Un romanzo di John Fante» rispose Piperno. Pupa si girò ancora verso di lui, gli guardò di nuovo l'orecchio: «Così, hai regalato a Renzo un romanzo di John Fante. E a me?» lo apostrofò fingendosi molto offesa. «Sono gelosa, sai?». Piperno le cinse le spalle con un braccio, l'attirò a se e la baciò. «Lo regalerò anche a te, alla prima occasione». «Cerchi di rimediare, adesso» fece lei smorfiosa, recitando la parte dell'offesa a morte. Le smancerie di quei due mi davano il voltastomaco. «Be', io vado. Ci vediamo in paese» masticai alzandomi, allontanandomi. «Ciao, Renzo» mi salutò Piperno, in ritardo. Si stavano strofinando a tutto spiano. Sferrai un calcio rabbioso a una pigna. Feci cilecca, questa volta. Da un giorno all'altro era arrivato l'inverno, dalla sera alla mattina, la temperatura era precipitata quasi a zero, lo sentivo dire, fra l'altro, dai bollettini meteorologici che a volte ascoltavo alla radio la mattina, quando mi svegliavo. «Piove. È venuto l'inverno» mormorò Carmela dopo avermi portato il caffè a letto, guardando fuori dalla finestra. Aveva lo sguardo perso, malinconico: il brutto tempo, la pioggia, le davano l'angoscia. Passò un dito sul vetro appannato, disegnò un cerchio coronato da raggi. Lo notai dopo, alzandomi, aveva disegnato il sole. La gigantesca stufa di terracotta del salone andava a tutto spiano. Mentre ero lì, seduto al tavolo, che facevo colazione, ogni tanto sbirciavo Carmela che ci buttava dentro i tronchetti stagionati: dallo sportello aperto usciva il ruggito del fuoco che divorava i pezzi di legno, i bagliori rossastri delle fiamme. Carmela richiuse lo sportello di ghisa e rimase un po' con le mani stese sulla stufa a riscaldarsele: era appena venuta su dall'orto con una catasta di legna tra le braccia, intirizzita, scarmigliata per il freddo, la pioggia, lo sforzo.
«Piove forte?» le chiesi. Insieme al caffelatte, mangiavo una fella di pane abbrustolito, stavo seduto al tavolo, tutto rattrappito dal freddo, la sciarpa girata intorno al collo. Di mattina, a quell'ora, c'era ancora un gran gelo per casa. «Tra un po' nevica» mi rispose. Mi avvicinai anch'io alla stufa, anch'io ci allungai le mani sopra per riscaldarmele. Stemmo lì un bel po' a riscaldarci le mani, zitti, senza parlare. Le zie erano a messa. C'era un silenzio totale in casa, fuori, un silenzio quasi cosmico, rotto solo dal rumore rombante e cavernoso della legna che ardeva. Mi sembrò di essere sospeso nell'universo, in quel momento, fuori dal tempo, dallo spazio. L'avevo provata altre volte quella sensazione, a Torricella, soprattutto la notte, sentendo il verso della civetta, l'abbaiare lontano di un cane, i rintocchi lugubri dell'orologio del campanile: rumori isolati, remoti, che ancora di più davano il senso della solitudine, l'idea paurosa di trovarsi lontani dal mondo, sperduti nel cosmo, nel nulla. «Da quando sei a servizio in questa casa?» mi venne da chiedere a Carmela, così, di punto in bianco. «Eh, sono cinque anni, ormai» mi rispose con un leggero soprassalto. Mi era tornato in mente, non so perché, quello strano episodio successo su, in casa di zio Armandino. Eravamo in sala, io e Pupa, seduti al tavolo rotondo, giocavamo a scala quaranta. A un tratto lei disse che doveva andare in bagno, si alzò e si avviò per salire su, nella sua mansarda... Perché non vai nel gabinetto, qua? le dissi. Mi pareva strano che facesse una rampa di scale, quando c'era un bagno in fondo al corridoio, a due passi. Non gliel'avessi mai detto, Dio buono, entrò in uno stato di marasma mentale impressionante, cominciò a farneticare di macchie, schizzi di sangue e compagnia bella. Disse che aveva paura del buio, che suo padre non voleva che lei andasse in quel bagno, che entrasse nella loro stanza da letto. Disse un mucchio di cose insensate e deliranti. Sembrava, in quel momento, una bambina in preda a un terrore oscuro, infantile, tanto che venne pure a me una certa inquietudine: fu lei a contagiarmela anch'io per un attimo credetti che davvero ci fossero delle macchie, degli schizzi di sangue sulle pareti del corridoio. «Sei stata mai a servizio da zio Armandino?» chiesi a Carmela. Una domanda che in apparenza non c'entrava niente col ricordo di quell'episodio inquietante che mi era tornato alla mente all'improvviso. «No, mai» rispose lei facendo un buffo cipiglio, tra lo stupito e il sospettoso «mo' tu mi devi dire perché mi stai a fare tutte 'ste domande» mi apo-
strofò levando le mani da sopra la stufa, sistemandosi la treccia che teneva arrotolata sulla testa, fermandola con le forcine. «Così, per sapere» risposi vago. Lei raccattò dal tavolo la tazza della mia colazione e tutto il resto, e si diresse verso la cucina. «Mh, ci credo poco» disse pigliando ad armeggiare, aprendo sportelli, cassetti, tirando fuori un cestino pieno di uova, un sacchetto di farina «perché t'interessa tanto sapere se sono stata a servizio da don Armandino?» mi chiese dalla cucina, a voce alta, per farsi sentire. La raggiunsi. Si era messa a fare la pasta, era già alle prese con le uova: le spaccava lasciando cadere tuorli e chiara nel mucchio di farina. «Una volta, mi ricordo» attaccai «mi hai detto che da quando la moglie di zio Armandino è stata ricoverata in sanatorio, qualcosa è cambiato in quella casa. Dicevi, per esempio, che lo zio non aveva più voluto coricarsi nel letto matrimoniale, nella camera dove dormiva con la moglie». «Sì, è così». «Hai detto anche, quella volta, di aver notato una libreria che prima non c'era. Che volevi dire, perché hai fatto caso a quel particolare?». Carmela fece una spallucciata. «Niente, volevo dire... a quei tempi, prima della guerra, ero ancora una mammoccella. Mi ricordo, però, che dopo il ricovero della signora, tutto è cambiato in quella casa, hanno rimesso la tappezzeria ai muri, rifatto le tende, comprata una cucina nuova, moderna, la ghiacciaia. E tra le altre cose, hanno pure piazzato quella scaffalatura là in corridoio». «E tu come lo sai?» le domandai «andavi spesso in casa di zio Armandino?». «Da piccola, ci accompagnavo mamma. Due volte la settimana, mia madre andava ad aiutare la comare Rachele nei lavori pesanti, come la pulizia generale della casa o il bucato delle lenzuola, oppure quando c'era da fare la conserva di pomodori. Portava anche me, quando ci andava, e mentre l'aspettavo, passavo il tempo a girare per la casa curiosando, spesso entravo anche nella camera della signora. Mi piaceva guardare le cose belle e lussuose che aveva: i vestiti, le scarpe, i foulard, le calze di seta, e poi la toletta tutta piena di vasetti di crema, boccette di profumo. Non toccavo niente, naturalmente, dovessi crederti. Però ogni tanto frugavo in certi cofanetti preziosi. Dentro c'erano i suoi gioielli: orecchini, collane, anelli con certi brillanti grossi come delle nocciole. Era elegante, la signora, bella, elegante, sempre profumata, ingioiellata».
«Allora te la ricordi». «Non tanto» rispose Carmela. Aveva mescolato uova, farina e acqua, e ora stava manipolando l'impasto. «In casa non c'era mai, era sempre via... una volta, mi ricordo, l'ho vista bene, da vicino. Era tutta vestita da città, il cappotto col collo di pelliccia, il cappellino, e una valigia in mano» Carmela si fermò, si passò l'avambraccio sulla fronte, si ravviò una ciocca e riprese a impastare con piglio esperto ed energico «quel giorno, mi ricordo» continuò «io, mamma e la comare Rachele eravamo andate, mi pare, al funerale di qualcuno, un parente, un compare, non so. Quando tornammo e salimmo su in casa, per la prima volta vidi la signora da vicino, era tutta vestita elegante e truccata, come ti dicevo prima, e aveva questa valigia in mano. Con lei c'era pure la signorina Pupa, era una bambinetta a quei tempi, aveva tre o quattro anni, anche lei era tutta vestita, col cappottino, la cuffietta, le scarpette nuove. Era inverno, mi ricordo, faceva freddo, c'era la neve». «Questo è tutto quello che ti ricordi di 'sta zia Maria?». «Sì, solo questo fatto qua, lei tutta vestita, con la valigia in mano, che all'improvviso, non so perché, pigliava a questionare con la comare Rachele, gridavano, la signora spingeva la comare, voleva passare». Ascoltavo il racconto assorto, incantato. La fantasia prese a galoppare, l'immaginazione si mise fulmineamente in moto, suggerendomi possibili nessi e relazioni tra la scena che Carmela aveva rievocato e le paure di Pupa, il suo rifiuto, quella sera, di inoltrarsi nel corridoio buio, di raggiungere il bagno. «E poi che è successo?» la incalzai, sbranato dalla curiosità. «A un certo punto, la comare Rachele disse a mamma di andare di corsa alla bottega a chiamare don Armandino». «E perché disse questo, te lo ricordi?». «Boh, chi lo sa... dopo un po' arrivò il dottore tutto affannato, con la faccia da pazzo. Io e mamma, però, non tornammo sopra. Dal portone sentivamo questi urli, Pupa che piangeva. Da allora non l'ho più rivista, la signora, dopo quel giorno è stata ricoverata, credo». «Non sai perché?». «Aveva una brutta malattia, mi pare. Don Armandino e la comare Rachele non volevano che uscisse, che andasse in giro» spiegò Carmela dilatando le narici piena di sussiego. Aveva finito di impastare, prese un matterello e cominciò a tirare la sfoglia, ogni tanto spargendola di farina. Il suo racconto, come tutti gli squar-
ci che ogni tanto si aprivano sulla figura di questa misteriosa zia, illuminandola tutte le volte di una luce fosca e inquietante, mi aveva messo addosso la solita sottile angoscia, quello strano malessere. Pioveva, quella mattina. Uscendo di casa bene imbacuccato e armato di un grosso, rustico ombrello trovato nel ripostiglio - era di quelli che si vendevano alle fiere di paese, che usavano i contadini - vidi arrivare Pupa quasi correndo, stretta nel suo montgomery, col cappuccio rialzato. Mi passò accanto senza neanche guardarmi e sparì nell'androne. Singhiozzava. Rientrai, la inseguii su per le scale. «Pupa, che ti è successo?» le chiesi. Lei si fermò a metà della rampa, si sfilò il cappuccio. «È tutto finito» gemette. Aveva i capelli arruffati, le ciocche bionde e ricce di permanente mezze sfatte, e il bistro agli occhi che le colava penosamente, le impiastricciava le gote. «Cos'è che è finito?» domandai. «Domani parte. Dice che deve andare a Roma». «Ti ha lasciato?». «No» farfugliò a occhi bassi, tra le lacrime, appoggiata con la schiena alla parete. «E allora?». «L'altra settimana è andato a Lanciano, oggi a Roma. E cambiato, non è più lui». Provai un gusto insano a sentirle confessare quelle cose. Covavo la piccola e meschina speranzella che si lasciasse con Piperno, recitavo, però, la parte dell'amico, del cugino che prendeva a cuore le sue pene, si interessava a lei, l'aiutava. «Sono andata in albergo a salutarlo prima che partisse» si sfogava Pupa con la voce nasale, impastata di pianto «la pioggia mi aveva bagnato la faccia, mi si era sciolto il rimmel, l'ombretto, non so che cosa... togliti quel trucco, mi ha detto. Mi guardava con una faccia strana, come se mi vedesse per la prima volta... adesso basta con questa mascherata, diceva... l'ha chiamata mascherata, capisci?». «Cioè il fatto che ti trucchi in quel modo?». «Sì, anche che mi ossigeno i capelli, che li arriccio. Pensare che è stato lui a volerlo. E adesso la chiama mascherata». Scoppiò ancora in singhiozzi. Scappò di nuovo, raggiunse il pianerotto-
lo, entrò in casa, sbatté la porta. Di ritorno dalla messa, entrarono zia Coletta e zia Angiolina. Posarono l'ombrello aperto sul pavimento dell'androne perché l'acqua scolasse. «Renzo. Che fai là?» mi apostrofò zia Angiolina vedendomi fermo come un baccalà a metà della scala. 13 Zia Coletta e zia Angiolina si erano messe tutte in ghingheri, per l'occasione. Anche zio Armandino si era rivestito, ovviamente: un completo di flanella, la cravatta, il fazzoletto che spuntava dal taschino di petto e le scarpe a punta lucidissime. Persino Rachele, quella sera, aveva assunto un aspetto più civile: sopra il vestito buono della festa portava un grembiule bianco e si era pettinato quel cesto di capelli grigiastri, quella specie di matassa arruffata che teneva malamente raccolta in un tuppo. Pupa non c'era, invece, non era ancora scesa. Si avvertiva, però, una strana aria. Quello che più rendeva l'atmosfera inquieta, incerta, imbarazzata, era il fatto che Piperno, partito per Roma a metà settimana, non era ancora tornato. Sicché vedevo zio Armandino aggirarsi mestamente per il salone, come perso in chissà quali pensieri. Ogni tanto, poi, andava alla porta-finestra del terrazzo e, scostata la tenda, guardava fuori. Cosa guardasse, Dio solo lo sa. Era una sera buia, nuvolosa, senza luna. Giusto qualche puntino luminoso, qualche grappolo di lucette di paesi lontani si poteva scorgere in fondo alla valle, ai piedi della Maiella. Zia Coletta e zia Angiolina, invece, se ne stavano sedute nel divanetto, impettite e compunte, le mani intrecciate in grembo. Anche loro tacevano, giravano attorno sguardi assorti, a tratti aggiustandosi una piega dell'abito, la spilletta appuntata in petto, il pizzo del colletto, dei polsini. «E be', che ci vuoi fare» sospirò zia Coletta rompendo quel silenzio tetro, quasi luttuoso, neanche fossimo ad una veglia funebre. «Pupa dov'è?» chiese zia Angiolina. Non finì di dirlo che Pupa apparve, elegantissima, profumata e truccata in modo così accurato e lezioso, che mi venne subito da pensare che l'avesse fatto apposta, per sfregio: una sfida a Piperno, uno schiaffo morale a quel suo invito a smetterla di truccarsi in quel modo, che la mascherata era finita. Entrò sparata, pimpante. «Ciao, zia Angiolina... ciao, zia Coletta» salutò
con voce squillante andando a baciare le vecchie «su, cos'è questo mortorio?» cinguettò allegra, spensierata «mica è un funerale... dai, mettiamoci a tavola che fra un minuto arriva Mino. Ho visto adesso la sua macchina posteggiata davanti all'albergo. È appena tornato da Roma». Sentimmo bussare, infatti, seguì un tramestio in anticamera. Rachele aveva aperto la porta, Piperno era entrato, e ora, aiutato dalla vecchia serva, si sfilava la sciarpa di cachemire, il cappotto di cammello e glieli consegnava insieme all'elegante Borsalino. «Scusatemi. Sono in ritardo» si annunciò entrando in sala, scrollando un po' la testa. Aveva in mano un grande mazzo di gladioli avvolto nella carta cellophanata. Lo strano fu che rivolse uno sguardo e un sorriso a tutti meno che a Pupa, lei, neanche la degnò di un'occhiata. Pupa, che si era mossa per andargli incontro, si fermò a mezza strada e gli scoccò un'occhiata obliqua e tagliente peggio di una rasoiata. «Questi sono per le nostre care zie» si inchinò Piperno, ossequioso, consegnando i fiori a zia Angiolina. Nel riceverli la zia ebbe un lieve soprassalto di stupore e imbarazzo. «Grazie» disse «non dovevate disturbarvi». Ci sedemmo a tavola quasi subito. Rachele portò il timballo, il profumo del pasticcio di maccheroni riscaldò l'ambiente, lo vivacizzò. Zio Armandino si alzò in piedi e, impugnato un grosso coltello d'argento, cominciò ad affettare il timballo, ogni porzione che veniva staccata e messa nel piatto, si tirava dietro sfilacci di mozzarella, perdeva palline di carne tritata. «Sono dovuto andare a Roma, al consolato, per sbloccare certi intoppi relativi al mio rimpatrio. Solite beghe burocratiche» prese a raccontare Piperno, ciarliero, espansivo, non l'avevo mai visto così esuberante. «Roma» commentò zio Armandino «è un pezzo che non ci torno. Sempre così caotica?». «Piena di turisti. Sta sempre di più assumendo il carattere della città cosmopolita. Adesso poi che hanno costruito la nuova stazione Termini» continuava a raccontare Piperno «un'opera grandiosa, ultramoderna, direi quasi avveniristica... Come se non bastasse, si è insediata a Roma mezza Hollywood» sorrise mondano «via Veneto è diventata una passerella di divi, artisti, modelle, signore dell'aristocrazia. C'è anche un notevole sottobosco di cinematografari, ma soprattutto di fotografi e cronisti assatanati, all'eterna caccia di scandali, di notizie piccanti». «Povera Roma» sospirò grave zia Angiolina «la città santa, centro della cristianità...». Si andò avanti così per tutta la cena: Piperno che teneva banco, parlava a
ruota libera dei più svariati argomenti, e noi che lo ascoltavamo, ogni tanto interrompendo con qualche obiezione banale, qualche commento cretino. Pupa, invece, se ne stava muta, assente, caparbiamente estranea e ostile. Lei e Piperno non si rivolsero per tutta la sera neanche uno sguardo, una parola. Quando eravamo già al caffè, zio Armandino chiamò Rachele e le disse di prendere dalla ghiacciaia la bottiglia di spumante: doveva servire al brindisi augurale, coronare la cena di fidanzamento. Stranamente, però, nessuno fino a quel momento aveva fatto il minimo cenno alla circostanza, neanche una parola, un'allusione. Mi aspettavo che Piperno tirasse fuori dalla tasca della giacca il tanto atteso anello - così aveva detto Pupa, che alla fine della cena Mino le avrebbe donato l'anello coi brillantini, lo zaffiro, l'ametista, o quello che cavolo ci aveva fatto incastonare. Invece niente. Dell'anello neanche l'ombra. Mi accostai a lei e le bisbigliai all'orecchio: «Scusa, e l'anello di fidanzamento?». «Tutto rimandato. Sine die» rispose tra i denti, il tovagliolo davanti alla bocca «stamattina è venuta a chiamarmi Teresa, la donna dell'albergo, dicendo che c'era una telefonata interurbana per me, da Roma. Era lui, mi pregava di rimandare la cerimonia, di dirlo in casa, di avvertire papà». «Come mai?». «Pare che l'anello non fosse pronto. Il gioielliere non l'aveva ancora completato» rispose Pupa in un soffio, piegata verso di me «naturalmente è solo una scusa... è tutto finito, te l'ho detto. Cerca solo di prendere tempo». Intanto Piperno si era alzato da tavola chiedendo il permesso di andare un momento in bagno. Zio Armandino aveva già versato lo spumante nei bicchieri a calice, si aspettava che Piperno tornasse, per brindare - a che, poi, non si sapeva. Piperno tornò. Non si sedette. Era terreo in faccia. «Scusate» disse con la voce fioca e smozzicata «non mi sento molto bene... temo che dovrò lasciarvi. Mi dispiace». «Che si sente, professore?» s'informò premuroso zio Armandino «perché non prova a stendersi un momento sul letto?». «No, no» fece Piperno con una smorfia, piegandosi un po' in avanti, comprimendosi lo stomaco come preso da una fitta «torno in albergo... scusate ancora». Fece un cenno sofferente con la mano, un saluto circolare e uscì. Zio Armandino l'accompagnò in anticamera, l'aiutò a infilarsi il cappot-
to. Sentimmo la porta richiudersi. Lo zio rientrò e, senza dire niente, allargò le braccia in un gesto costernato. Dopo un paio di minuti anche Pupa si congedò. «Ho sonno. Vado a dormire» disse asciutta, alzandosi da tavola di scatto, uscendo di stanza velocemente. I calici pieni di spumantino rimasero sulla tavola a sfiatare le loro bollicine. Nessuno ne aveva assaggiato neanche un mezzo sorsetto, neanche le labbra ci si era bagnato. Il silenzio, l'impaccio che avevo notato arrivando, erano di nuovo calati sulla tavola. «Be', è già finita la festa?» chiese brutalmente Rachele entrando e vedendo noi superstiti seduti attorno alla tavola, silenziosi, assenti. Zia Coletta si era presa un'altra fetta di fiadone e la degustava a piccoli bocconi; zia Angiolina non faceva che piegare e ripiegare il tovagliolo; zio Armandino si era acceso il suo mezzo toscanello e, accasciato sulla sedia, esalava anelli di fumo guardando il soffitto. Nessuno rispose, nessuno fiatò. Rachele prese a radunare piatti, bicchieri, teglie. «'Sto spumante non lo beve nessuno?» gracchiò ammiccando ai calici ancora pieni fino all'orlo. Nessuna risposta. Uscì tutta sbilenca sotto il peso della catasta di piatti e stoviglie sporche. «E be', che ci vuoi fare» sospirò zia Coletta. Uscii a fare due passi, a prendere una boccata d'aria. Quell'atmosfera di muto smarrimento, di indefinibile impaccio, che aveva gravato più o meno durante tutta la cena, mi aveva contagiato, mi sentivo in corpo un'inspiegabile angustia. Faceva freddo. Dal cielo notturno, irradiato di una luce strana, spettrale, cadeva una rada, fine pioggerella mista a nevischio. Mentre scendevo giù per via Peligna, con la faccia affogata nello sciarpone, la coppoletta di velluto calcata sulla fronte, sentii improvviso, lacerante, l'ululato di una sirena. Appena dopo vidi sbucare dalla curva di Sant'Antonio un'autoambulanza, veniva su a tutta birra, a sirene spiegate. Sta a vedere che l'hanno chiamata per Piperno, pensai. Tornai indietro, rifeci il pezzo di strada quasi a passo di bersagliere. Il furgone era fermo davanti all'albergo Roma e due tizi in camice bianco entravano nel portone con una barella. C'era Luigi Di Jorio sulla soglia d'ingresso dell'albergo.
«Che è successo?» gli chiesi affannato. «Il vostro amico» fece lui, l'aria grave, solenne «si è sentito male. Ha chiesto di chiamare l'ospedale più vicino, ha voluto che gli mandassero l'ambulanza». «Ma che ha?». Era un uomo di mezza età Di Jorio, alto, corpulento, la faccia paonazza, lo sguardo sonnacchioso, e un paio di baffoni a cespuglio, pepe e sale. «Dolori di pancia, vomito» rispose «sta male, povero professore». Sentimmo un trapestio su per la scala. Vedemmo scendere due infermieri con la barella: Piperno ci stava steso sopra con addosso una coperta, gli occhi chiusi, il viso bianco, scavato, la bocca mezza aperta e la bava che gli si era raggrumata agli angoli. C'era anche un medico con loro, doveva essere salito nella stanza di Piperno prima che io arrivassi. «Cos'ha mangiato?» chiese a Di Jorio. «Stasera non ha cenato in albergo, è andato fuori» rispose lui «era invitato dal dottor De Lellis. Questo è suo nipote». Mi indicò con un gesto. «Avete mangiato funghi?» mi chiese di fretta il medico. «Sì» gli risposi. «Avvelenamento da funghi» diagnosticò, raggiungendo poi di corsa l'ambulanza. Il furgone fece una brusca inversione e imboccò via Peligna a tutta velocità, le gomme che stridevano sull'asfalto. Le sirene echeggiarono a lungo squarciando il silenzio notturno in cui era immersa Torricella - mi sembrò un paese morto, abbandonato, in quel momento, un paese fantasma. Mi si gelò il sangue, a sentire quell'ululato che si allontanava nella notte. L'idea che anche io avevo mangiato quei funghi mi trafisse improvvisa. Guardai Luigi Di Jorio, deglutii. «Be', ma com'è che a noi non hanno fatto niente, i funghi?» boccheggiai. Mi fissò con una strana faccia. «Anche voi li avete mangiati?». «Come no. Una bella porzione, tra l'altro». «A certi fa effetto prima, ad altri dopo» rispose sentenzioso. «Voi dite che anch'io rischio di...?». «Per forza. Se li avete mangiati, anche a voi farà effetto il veleno, prima o poi. Lo volete un consiglio? Andate da don Peppino Carapella, il medico condotto. In questi casi bisogna farsi subito una lavanda gastrica». Cominciai a sudare freddo, le ginocchia mi tremavano e mi parve di avvertire anche certi dolorini allo stomaco e alla pancia. «Ma perché, si può morire?» chiesi con il pianto in gola, sull'orlo dello
svenimento. «Due volte su tre, chi mangia certi funghi velenosi che si trovano da queste parti, va al creatore. La gente li scambia per funghi porcini, li coglie, li cucina, li mangia, e ci resta secco» continuava a spiegare impietoso Luigi. Mi scrutò coi suoi occhi sonnacchiosi. «Siete diventato pallido» mi disse «quello è il segno che il veleno vi è entrato nel sangue. Sentite a me, giovanotto, andate subito da don Peppino Carapella, fatevi fare una lavanda gastrica, prima che sia tardi». Il medico condotto aveva l'abitazione e l'ambulatorio lungo il corso, poco più avanti. L'idea di andare a bussare al suo portone, di svegliarlo e tutto il resto, mi gettò in uno stato lacerante di dubbio e indecisione. Che cosa gli avrei detto dopo averlo svegliato nel cuore della notte, buttato giù dal letto, magari? Che avevo mangiato dei funghi, forse velenosi? Che un'altra persona, che aveva mangiato gli stessi funghi, si era sentita male ed era stata trasportata urgentemente in ambulanza all'ospedale di Lanciano? E se poi non era così? Se poi a Piperno gli era venuta una semplice colica renale? Che figura ci avrei fatto? Pensai che preferivo crepare avvelenato dai funghi piuttosto che svegliare in piena notte questo tal dottor Peppino Carapella, farlo scendere giù in ambulatorio, farmi visitare e compagnia bella, tutto un gran traffico magari per niente, una grigia tremenda e basta. Cominciai ad andare su e giù per il marciapiede aspettando che i sintomi si manifestassero in modo evidente. Avevo la disperazione nel cuore, un senso di angoscia mortale, quelli potevano essere i miei ultimi istanti di vita. Pensai a mia madre, a mio padre, avrei voluto che fossero là, ad assistermi, a confortarmi nel momento del trapasso. Invece erano a migliaia di chilometri, dall'altra parte del Mediterraneo. «Mamma!» gridai dentro di me «mammina, aiutami!». Era già mezz'ora che andavo avanti e indietro come un matto, aspettando che mi venisse la nausea, il vomito, il torcibudella. Niente. Fisicamente mi sentivo benissimo: a forza di andare avanti e indietro, avevo persino digerito l'abbondante e ottima cena. Di colpo mi convinsi che quei funghi non erano velenosi. Di colpo mi sentii felice e leggero come un fringuello, per lo scampato pericolo. Tornai a casa. Era tutto buio, erano tutti a dormire. Mi venne quasi da ridere ripensando alla fifa tragica che mi aveva attanagliato fino a qualche momento prima. Riflettevo sul fatto che se tutti erano andati a dormire tranquilli e beati, voleva dire che nessuno, a quanto pare, aveva avvertito sintomi di avvelenamento, che i funghi perciò non erano velenosi, che Piperno si era sentito male per tutt'altra ragione.
Carmela mi aveva messo il "prete" a letto, lo tolsi e mi ficcai sotto le coperte, mi rincantucciai nel tepore delle lenzuola. Non ebbi neanche il tempo di ripensare a quella concitata, surreale serata, che il sonno mi calò addosso, mi stese knock-out. Sognai che viaggiavo sull'Argentina, tornavo a Tripoli da papà e mamma, dagli amici di scuola, tornavo a Città Giardino, nella nostra bella villetta con le siepi profumate di gelsomino e gli alberelli di oleandro. Ero con Piperno, affacciato al parapetto della nave, il mare era blu, sconfinato e il sole splendeva accecante. «Sai, torno a Tripoli» mi diceva Piperno scrollando un po' la testa, sorridendomi e scrutandomi in quel suo modo sornione: si era infilato tra le labbra una Navy Cut Player's e picchiava il Ronson d'argento sul legno della balaustra. «Accidenti, non funziona questo accendino. Sarà mica finita la pietrina?» diceva, continuando a batterlo sul parapetto. Emersi faticosamente dal sonno, qualcuno bussava alla porta della mia stanza. «Chi è?» latrai. Si affacciò Carmela. «Ho da darti una brutta notizia, signorino Renzo» disse andando ad aprire gli scurini: entrò una luce fioca, livida. «Ma che ora è?». «Sono le sette» si avvicinò al letto «ti porto il caffè?». «Portamelo. Ma cosa è successo?». «Il professor Piperno è morto». Sentii mancarmi la terra sotto i piedi, alla notizia, un abisso di sgomento si aprì dentro di me. «Morto?!... E com'è morto?» ripetei. Non riuscivo a crederci, non mi capacitavo. «Non lo so. È andata Teresa a dirlo a don Armandino, stamattina presto. Hanno telefonato all'albergo dall'ospedale di Lanciano. È morto stanotte». L'idea della morte di Piperno mi aveva annichilito a tal punto che, mentre Carmela mi ragguagliava del fatto - intanto apriva la finestra, rifaceva il letto, rassettava la stanza e via dicendo -, mi ritrovai già bell'e pronto, lavato, fatto i bisogni, vestito e tutto il resto, senza che neanche me ne fossi accorto. Incapace di pensare, sconvolto, devastato dalla notizia, salii su, in casa di zio Armandino. Venne al solito ad aprirmi quella befana di Rachele. «Ho saputo che stanotte il professor Piperno è morto» rantolai.
«Sì, be', e allora?» fece lei. Aveva in mano la mazza per spugnare, il secchio d'acqua, lo strofinaccio. «Mo' però non puoi entrare» mi avvertì «ho appena passato lo straccio». «C'è zio Armandino?». «No, è già uscito». «E Pupa?» azzardai. «Pupa è partita». «Come partita?» chiesi varcando la soglia proibita, violando il territorio off limits: facendo in pratica un paio di passi sul pavimento ancora umido. «Guarda là, hai lasciato le pedate sulle mattonelle!» berciò la megera piantandomi il bastone nelle costole, sospingendomi fuori della porta. «Pupa è partita, come te lo debbo dire?! È uscita proprio mo' con la valigia, prendeva la corriera delle sette per Pescara!». Guardai convulsamente l'orologio: le sette e un quarto. Forse facevo ancora in tempo a vederla un istante, a parlarle: le corriere, a Torricella, partivano sempre in ritardo. Mi precipitai giù per le scale a rompicollo, facevo i gradini a quattro a quattro. Schizzai fuori dal portone a razzo, pigliai a correre lungo il corso a perdifiato. La corriera era ancora là, ferma davanti al Sale&Tabacchi, ne intravedevo la sagoma nel fitto nebbione che spesso, a quell'ora del mattino, allagava il paese. Arrivai col fiatone, il cuore che mi scoppiava. La corriera aveva già gli sportelli chiusi, il motore acceso e la carcassa che vibrava e sussultava tutta. Presi a girarci attorno, a correre su e giù lanciando occhiate disperate ai vetri polverosi. Vidi Pupa seduta in fondo, nell'ultima fila, aveva indosso il montgomery, un foulard in testa annodato sotto il mento e inforcava un paio di occhialoni neri. Sferrai un paio di pugni al vetro, lei si voltò e mi fissò per un attimo: era pallida, senza trucco. «Pupa!» gridai. Il borbottio cavernoso del motore in folle e il vetro del finestrino chiuso le impedivano di sentire il mio richiamo straziato. Girò la faccia, tornò di profilo, lontana, irraggiungibile, come un pesce in un acquario. Anch'io, là fuori, dovevo sembrarle un pesce, in mezzo a quel mare di nebbia, la bocca che si spalancava muta gridando inutilmente il suo nome. Niente, non mi sentiva. O non voleva sentire, forse. La corriera si mosse, arrancò fragorosa lungo la strada. Le corsi dietro come un forsennato. «Pupa! Ferma!» gridavo continuando a inseguirla fino alla curva, all'imbocco di via Peligna. Là mi fermai, ero stremato, a pezzi. Restai a guardare
la corriera sparire giù per la strada, inghiottita dalla nebbia. 14 Zio Armandino mi chiese di accompagnarlo alla stazione dei carabinieri. Lì, a sentir lui, lo aspettava un giudice, o qualcosa del genere, uno venuto da Lanciano per avere notizie di Piperno, sapere chi era, da dove veniva, che ci faceva a Torricella Peligna, e via discorrendo. «Tu puoi anche non presentarti» mi disse lo zio mentre facevamo quel tratto di strada fino alla caserma «se per ipotesi volessero sapere qualcosa di preciso riguardo, non so, al fatto che è di recente rimpatriato dalla Libia, o cose di questo tipo, magari ti chiamo. Anche se, da quel che ho capito, non è che tu sappia granché del povero professore». «Ma chi è questo tizio venuto da Lanciano?» chiesi. Non avevo ben chiara la questione, ero tremendamente confuso, sfasato. «È un magistrato della Procura» mi spiegò lo zio sorridendo: cercava di sdrammatizzare la faccenda, ma si vedeva che era teso, nervoso «per fortuna lo conosco: è il dottor Cipollone, a Lanciano ci vediamo spesso al Circolo del bridge... Da quel che ho capito, il problema sta nel fatto che non riescono a rintracciare i familiari del povero professore. Che tu sappia, ne aveva a Bologna o a Tripoli?». Scossi la testa e alzai le spalle, sporgendo il labbro inferiore, tutta una mimica muta per dire che di Piperno non sapevo un tubo, assolutamente niente. «Ma si è saputo di che è morto?» domandai. «Macché» rispose zio Armandino «faranno comunque un'autopsia, per accertarlo». «Il medico che è venuto con l'ambulanza da Lanciano» lo informai «diceva che i sintomi erano quelli di avvelenamento da funghi». «Sciocchezze» tagliò corto lo zio. Intanto eravamo entrati nel portone della caserma. «Li abbiamo mangiati anche noi, quei funghi, e non ci è successo niente». C'era un appuntato nella stanza d'ingresso, stava seduto a un tavolino, dietro un enorme e antiquata macchina da scrivere: si alzò e fece strada a zio Armandino su per una rampa che portava al piano di sopra, una scala che si inerpicava stretta, buia, coi gradini di pietra consumata. Mi sedetti ad aspettare su una seggiola scatasciata, sotto una finestrella a feritoia sbarrata da una grata di ferro e da cui pioveva una luce livida, invernale.
Faceva un freddo boia in quella caserma. Mentre aspettavo mi calò addosso una tristezza e uno sgomento senza fine, volevo piangere. L'appuntato tornò e si sedette di nuovo al tavolino, dietro la macchina da scrivere, col doppio foglio e la carta carbone già infilati nel rullo. Si assestò per bene sulla sedia, si soffiò sulla punta delle dita intirizzite, e attaccò a battere. Usava solo gli indici, fra una battuta e l'altra, passava un tempo interminabile, come se ogni volta il poveraccio dovesse faticosamente rintracciare il tasto, la lettera. Ogni tanto sgarrava. Ogni volta si agitava disperato sulla sedia, alzava gli occhi al soffitto, si picchiava la testa coi pugni, imprecava muto tra i denti. Poi, come accingendosi a un lavoretto di fino, si armava di apposita gomma per cancellare, si chinava assorto sul foglio, e iniziava l'impegnativa operazione di correzione. Dopo mezz'ora, zio Armandino ridiscese. Il colloquio era finito, sentii la voce sua, e non so di chi altro, scambiarsi, lungo le strette scale, saluti e convenevoli. «Tutto sistemato, pare» disse mentre uscivamo lo zio, con l'aria rinfrancata, tirando un sospiro di sollievo «sono riusciti a rintracciare la sorella, vive in Canada. Provvederà lei a tutto. Questo mi allevia non poco. Ci mancava solo che dovessimo pensare noi al trasporto della salma, ai funerali e a tutte le altre incombenze del caso». «Ah, ha una sorella» commentai. Mi ricordai di Pupa che raccontava dei giorni passati a Bologna con Piperno, di lui che le aveva fatto indossare un tailleur che la sorella aveva lasciato in casa, un abito di prima della guerra, un modello anni '30. «Ma che fa, viene fin qui dal Canada?» chiesi. «No, credo che abbia incaricato per telefono una ditta di pompe funebri qui in Italia, pensano loro a tutto». «E Pupa perché è partita?» mi venne da chiedere, così, d'impulso. Eravamo arrivati davanti al portone di casa. Zio Armandino cominciò a beccheggiare con la testa, ad allargare le braccia, non la finiva più di andare su e giù col capo, di aprire le braccia in quel gesto costernato. «Lo sai tu?» disse alla fine. «Forse era sconvolta». «È probabile... sì, è possibile che la morte del professor Piperno l'abbia scossa a tal punto che ha scelto la fuga... per meglio dire, la rimozione». Rimozione? Cos'era 'sta roba? Mi venne in mente un incidente stradale, il carro attrezzi che portava via le auto fracassate. «Cioè?».
«In psicanalisi» si dilungò a spiegarmi lo zio, «la rimozione è quel meccanismo inconscio che scatta in noi quando ci troviamo di fronte a fatti, eventi, come la morte di una persona cara, per esempio, che non riusciamo ad accettare, che perciò rimuoviamo, cancelliamo, fingiamo che non siano accaduti... Anche partire, andarsene, come ha fatto Pupa, può essere un modo di rimuovere» concluse con un largo, un po' stanco sorriso. Che cosa ci fosse da sorridere sul fatto che Pupa era scappata, questo non riuscivo a capirlo. «Tu sai, Renzo, cos'è la psicanalisi, vero?» mi fece sempre con lo stesso sorriso sfinito «hai fatto il classico, tu, sei un ragazzo istruito, dovresti saperlo». «All'incirca» risposi. In realtà, ne avevo un'idea molto vaga, l'argomento non mi appassionava. «Secondo te, dove se ne sarà andata Pupa?» chiesi. Quello sì che m'importava. «Presumo a Bologna» rispose lo zio «stasera proverò a rintracciarla telefonicamente... Ciao, Renzo» si accomiatò con un ultimo sorriso dolcissimo, lo sguardo velato di stanchezza, di una vaga malinconia «vado in casa, ho bisogno di sdraiarmi un po' sul letto». Mentre attraversavo il corso, mi dirigevo verso il bar dell'albergo Roma, pensai che anch'io, come Pupa, volevo rimuovere tutto, cancellare dalla mia testa i fatti orribili di quelle ore. Fui fulminato dall'idea pazzesca di fuggire anch'io da Torricella, di raggiungere Pupa a Bologna, magari. Il bar era deserto, freddo, spettrale più che mai. Mi avvicinai al bancone per ordinare un caffè: non c'era nessuno. Sentii un tramestio provenire dal retrobottega, dopo un po' sbucò Di Jorio. «Vorrei un caffè» dissi «lungo, per favore». «Un caffè lungo? Pronti» disse lui. Aveva tra le mani una cassetta piena di bottiglie vuote. Cominciò a depositarle una alla volta, in fila, sotto il bancone, un operazione lenta, meticolosa, esasperante - io intanto aspettavo paziente il caffè. Si rialzò, alla fine, rosso in faccia, le vene del collo gonfie per lo sforzo di chinarsi ogni volta a mettere in fila quelle dannate bottiglie. «Che ne facciamo di tutta la roba del professore?» mi chiese, così, d'acchito. «In che senso?». «In camera ci sono rimasti i suoi vestiti, gli effetti personali. Che ne dobbiamo fare?» ripeté accendendo la macchina per il caffè espresso. Il mastodontico marchingegno prese a fischiare, sfrigolare, a sparare e-
normi sbuffi di vapore, neanche fosse l'Orient Express in partenza per Istanbul. «Voi eravate suo amico, no? Perché non la prendete voi la sua roba e con comodo la fate recapitare a qualcuno della famiglia? Avrà qualche parente, congiunto, il professore». Non sapevo che rispondere, la richiesta del padrone dell'albergo mi aveva messo in grave imbarazzo. Avrei preferito evitare quella scocciatura di occuparmi della roba di Piperno. Poi, un po' per non essere scortese, un po' perché confusamente sentivo che forse mi spettava quell'incombenza, finii per dirgli di sì. Andai su, nella stanza che Piperno occupava, accompagnato da Teresa, la nipote di Luigi Di Jorio, una ragazza magra e slavata come una sogliola lessa - era una specie di factotum, in quell'albergo: cucinava, serviva a tavola, rifaceva le stanze, teneva pure la contabilità della ditta. «Non aveva molta roba» mi disse precedendomi, aprendo la porta della camera. Entrando, ebbi subito una sensazione di morte. Le persiane erano socchiuse, l'ambiente immerso in una penombra gelida, sepolcrale, mancava solo la salma del caro estinto distesa e composta sul catafalco. Il letto in ferro battuto era stato rifatto e tutta la stanza appariva perfettamente in ordine: c'era il comò con la specchiera, l'armadio scuro, antiquato, il tavolino in un angolo, un paio di seggiole, il trespolo con la brocca e la bacinella di ferro smaltato, il quadro di una Madonna dal viso smunto e dolente, appeso alla parete, sulla testata del letto. Sul comodino notai un paio di libri, altri erano sparsi sullo scrittoio insieme a riviste, giornali, un'agenda in pelle, la macchina fotografica Leica, la penna stilografica, un paio di pacchetti di Navy Cut Player's, il Ronson d'argento... «Adesso vi metto tutto nella valigia» disse Teresa aprendo l'armadio, staccando le stampelle coi vestiti appesi. Piegava ogni indumento con gesti svelti, esperti, e li ammonticchiava sul letto. Tirò giù, dalla cima dell'armadio, la valigia e prese a riempirla. «Non c'è molta roba» continuava a ripetere «quelli che più ingombrano e pesano sono i libri e i giornali. Anche queste medicine occupano un bel po' di spazio: ne teneva tante, il povero professore». Non ci avevo fatto caso, là per là, effettivamente, la stanza era disseminata di farmaci di ogni specie. Erano sparsi un po' dappertutto, sul comodino, nei cassetti del comò, sullo scrittoio. Erano flaconi di sciroppo, boccette di pillole, tubetti di compresse. C'era di tutto: analgesici, ricostituenti, vitamine, lassativi, antispastici, cardiotonici, colliri, collutori. Aveva per-
sino una pomata antiemorroidale, lo sventurato Piperno. Finanche di emorroidi soffriva. Quella stanza era una farmacia al completo, se non avessi saputo che era professore di lettere, avrei pensato che facesse il rappresentante farmaceutico. A giudicare da tutte le medicine che si portava appresso doveva essere molto cagionevole di salute, doveva soffrire, poveretto, di una quantità impressionante di malattie. Forse perciò era morto. Altro che funghi. «Va be', fate con comodo» dissi a Teresa che continuava a ficcare vestiti, medicine, libri e tutto il resto nella valigia aperta sul letto «la vengo a prendere più tardi. Domattina, magari». «Certo. Quando volete. Ve la lascio sotto, nell'ingresso» rispose Teresa. «Avete per caso un orario ferroviario?» le chiesi prima di uscire. «Certo. Chiedetelo a zio Luigi. Lo tiene lui, l'orario dei treni». «È quello di quest'anno, aggiornato?». «Certo» mi confermò. Diceva sempre certo. Mai un forse, un non so. Tutto era sempre certo per lei. Mi scocciava presentarmi a casa con la valigia di Piperno, dover spiegare alle vecchie tutta la faccenda, che cioè quelli dell'albergo mi avevano pregato di farla recapitare ai familiari del defunto, e via discorrendo, soprattutto non volevo che sapessero cosa avevo deciso di fare di quella valigia, dove avevo intenzione di portarla. Ecco perché avevo detto a Teresa che sarei andato a ritirarla più tardi, o la mattina dopo, magari. Durante la cena, a un certo punto me ne uscii con questo secco e sorprendente annuncio: «Domani parto». Zia Angiolina alzò di scatto la testa dal piatto di minestra che stava sorbendo a lente cucchiaiate. «Parti? E dove vai?» mi chiese sorpresa, un po' sospettosa. «Non tornerai mica laggiù, in Africa?» si accavallò ridendo bonaria zia Coletta «non ti avrà mica preso la nostalgia di mamma e papà?». «Nostalgia?» ridacchiai «no, devo solo andare a Napoli». «A Napoli?» aggrottò la fronte zia Angiolina. «Sì, mi tocca fare una capatina all'Università, sbrigare alcune faccenduole, tipo la firma degli statini di esame, il colloquio coi professori... Formalità necessarie, purtroppo» risposi con un piglio da gran praticone, lontano chilometri dalla mia indole «parto domattina, con la corriera delle sette». «Ma quella va a Pescara» mi obiettò zia Angiolina scrutandomi in faccia, sempre più sospettosa e diffidente «il treno per Napoli si prende alla stazione di Palena. Non sai che la corriera per la stazione di Palena parte
da Torricella a mezzogiorno?». L'obiezione mi prese un po' alla sprovvista. M'inventai che dovevo passare per Roma, che avrei preso perciò un direttissimo da Chieti Scalo. A quel punto zia Angiolina giustamente mi chiese cosa andavo a fare a Roma. Le risposi che già che c'ero, ne approfittavo per fermarmi una mezza giornata nella capitale, il tempo di far richiesta al Ministero degli Esteri del certificato di reduce. Per rendere più credibile la cosa, precisai che papà si era tanto raccomandato di richiedere al più presto quel documento che serviva a ottenere una riduzione sulle tasse universitarie. Era vero, tra l'altro, solo che per camuffare le mie reali intenzioni mi stavo impegolando in un giro senza fine di bugie e balle più o meno grosse. Quanto a questo, ero un fenomeno. Ero capace di sparare panzane, così, all'impronta, le sparavo così bene, le congeniavo in modo talmente verosimile, che finivo per crederci anch'io. Alla fine, dopo aver raccontato tutte quelle frottole circa la mia partenza, non sapevo neanch'io se davvero sarei passato prima da Roma per quel certificato di reduce, proseguendo poi per Napoli per farmi firmare lo statino d'esame e compagnia bella, oppure, come in realtà avevo deciso di fare, se avrei semplicemente preso un treno a Pescara per raggiungere Pupa a Bologna. Alla fine, neanche io mi raccapezzavo più. Avevo detto a Carmela di svegliarmi alle sei e mezza. Di solito, all'alba era già in piedi, subito pigliava a trafficare per casa, nell'orto, oppure usciva, andava giù per il trattore a fare la spesa al mercato. Entrò, aprì gli scurini e venne a posarmi la tazzina di caffè sul comodino. «Sono le sei e mezza, signorino Renzo» si chinò a bisbigliarmi nell'orecchio. Mi tirai su a fatica, imbottito di sonno, ingranchito. Dalla finestra entrava un chiarore fioco. Accesi la luce del comodino e bevvi il caffè: mi addolcì la bocca, l'avevo sempre impastata e amara, al risveglio. «Per me tu vai a Bologna» mi fece Carmela, appoggiata con la spalla alla parete, grattandosi un gomito «dì la verità, tu vai da Pupa». Che figlia di buona donna, anche stavolta aveva indovinato le mie intenzioni, fiutato le mie varie manovre per tenerle nascoste. «Ci hai preso» ammisi scoperchiando le coperte, buttando le gambe giù dal letto. «T'ho scoperto, mascherina» rise lei mostrando il buco di lato, in fondo,
quel premolare che le mancava. «Tu sai per caso dove abita Pupa a Bologna?» le chiesi mentre mi vestivo. Ormai mi aveva scoperto, potevo tranquillamente farle quella domanda. «Io so tutto» rispose con aria furba «lo so perché don Armandino mi dà sempre da imbucare le lettere che scrive alla figlia quando lei va a stare a Bologna... Via Giuseppe Petroni 11, presso Zaniboni» scandì. «Cos'è, una pensione?». «No, sta in una casa in affitto insieme a due altre signorine, due colleghe di Università». M'infilai il cappotto, girai la sciarpa intorno al collo e feci per uscire, avevo preso con me solo una borsa di pelle, ci avevo ficcato dentro lo stretto necessario. In giro per casa non vidi le vecchie. «Me le saluti tu, le zie» dissi frettolosamente a Carmela aprendo la porta d'ingresso. «Non fai colazione?» mi chiese. «No, è tardi. Perdo la corriera». «Ma hai preso solo il caffè». «Lo stesso. Ciao». Ero sulla soglia, scalpitavo. Carmela mi si avvicinò, mi trattenne per il bavero del cappotto, girò la testa da una parte e dall'altra come per accertarsi che nessuno la vedeva, la sentiva. «Tu lo sai come è morto il professore?» mi alitò in un orecchio con fare segreto, furtivo, la mano di lato alla bocca «è morto avvelenato dai funghi». La notizia mi frastornò. Non avevo tempo di approfondirla, chiedere spiegazioni, ascoltare le risposte di Carmela. Rimasi due secondi a fissarla, poi mi mossi di scatto, mi allontanai. Lei mi venne dietro, dal vano del portone, restò a guardarmi mentre attraversavo a passo svelto il corso, raggiungevo l'albergo. Da lontano, mi fece un cenno di saluto con la mano e rientrò. C'era un freddo bestia, quella mattina, la nebbia ristagnava densa e lattiginosa tra le case, lungo le ruve, per tutto il paese. «Pesa» mi disse Teresa sollevando la valigia posata in un angolo dell'ingresso «se aspettate un momento chiamo Carluccio di Maone, ve la faccio portare da lui». Carluccio di Maone era il tipo che, il giorno del mio arrivo a Torricella, mi aveva portato fino a casa il valigione, era quella specie di energumeno con la fronte bassa, gli occhi di scimpanzé, le mascelle e la scucchia da
uomo di Neanderthal. Si caricò il bagaglio di Piperno sulla spalla e mi accompagnò fino alla corriera. Gli detti trecento lire, le intascò sprizzando felicità e gratitudine dagli occhietti ottusi, gorgogliando incomprensibili parole di ringraziamento. Salii a bordo, mi andai a sedere in fondo, all'ultima fila. La corriera partì quasi subito, era mezza vuota. Dopo neanche dieci minuti sprofondai in un dormiveglia torpido e malsano. Feci appena in tempo a intravedere la Morgia, l'enorme roccia piantata lungo la provinciale, a pochi chilometri dal paese, emergeva dalla nebbia, aspra, puntuta, nerastra come il dente cariato di uno smisurato pescecane. Mi risvegliai mentre attraversavamo l'abitato di una qualche località di pianura. La nebbia era sparita come d'incanto, scoprendo un cielo terso, un sole accecante. Quel paesaggio, ai miei occhi pesti di sonno, apparve del tutto estraneo, atrocemente sconosciuto: provai una stretta allo stomaco e un saporaccio amaro mi salì in bocca, me la impastò. Arrivammo a Pescara a mezzogiorno. Il treno sarebbe passato tra meno di un'ora: era il rapido Lecce-Milano, che arrivava a Bologna alle 16.46 l'avevo letto sull'orario ferroviario dell'albergo. La stazione era scalcinata e sporca peggio di una latrina, coi pavimenti seminati di rifiuti, cartacce, cicche di sigaretta a centinaia. Feci un biglietto di seconda classe, più il supplemento rapido. Dal tipo che stava allo sportello seppi che il treno transitava sul primo binario. C'era un bar lungo lo squallido, polveroso marciapiede, un posto affollato di gente rumorosa, saturo di fumo, di odori grevi, dolciastri. Presi al banco un cappuccino con brioche: faceva schifo. Mi feci dare anche un paio di panini imbottiti, una bottiglietta di chinotto e li ficcai in borsa. Era il mio pranzo, quello, l'avrei consumato seduto comodamente in un sedile di velluto di seconda classe. Quando finalmente salii sulla carrozza del rapido Lecce-Milano, provai un senso quasi di trionfo, di conquista. M'imbucai in uno scompartimento mezzo vuoto, issai la valigia di Piperno e la borsa in cima alla reticella, mi sfilai il cappotto e la sciarpa e li sistemai per bene accanto al bagaglio. C'era un posto libero vicino al finestrino: mi ci andai ad accomodare. Ero soddisfatto di me. Per uno che veniva da Tripoli, un diciottenne spaesato, inesperto, costretto a destreggiarsi nel casino della città, alle prese con treni, orari, biglietterie e compagnia bella, me la stavo cavando discretamente. Davanti a me, appena dopo, venne a sedersi una signora di mezza età truccata come una puttana d'alto bordo: si slacciò il pelliccione, accavallò
le gambe formose, poi, pescato dalla borsa di coccodrillo un pacchetto di Muratti, sfilò una sigaretta e, con un sorriso smagliante - i denti erano finti, però, incapsulati -, mi chiese: «Disturbo se fumo?». Aveva una voce leziosa e cantilenante, una esse dolcemente strisciata. Doveva essere del Nord Italia. Più tardi scoprii che era di Bologna. Tu-tun... Tu-tun... Cullato dai sobbalzi cadenzati delle ruote sui binari, dal vibrare sferragliante del treno in corsa, pian piano mi assopii. Tu-tun... Tu-tun... Nel dormiveglia, riassaporavo la quiete, il silenzio della casa, il tepore soffice del letto, il gusto del caffè che Carmela mi portava la mattina. Tu-tun... Tu-tun... In quel torpore sonnacchioso, rivedevo la scena come in sogno: io che uscivo di casa col cappotto, la sciarpa, la borsa, e Carmela, sulla soglia d'ingresso, che mi tratteneva per un bavero e mi soffiava in un orecchio quel segreto: «Tu sai come è morto il professore? È morto avvelenato dai funghi». Tu-tun... Tu-tun... Il treno sobbalzava sulle giunture dei binari. Perché me l'aveva confidato in quel modo furtivo e lugubre, quasi si trattasse di una notizia terribile, una faccenda che era meglio tenersi per sé? Tu-tun... Tu-tun... Il rapido Lecce-Milano filava a tutta forza sui binari che correvano senza fine, si snodavano a perdita d'occhio lungo la costiera adriatica, a poche decine di metri dalla riva del mare. Tu-tun... Tu-tun... Riaprendo gli occhi, vagando con lo sguardo sonnolento su quel mare livido, invernale, pian piano l'eco di quelle parole si affievolì, si spense, perse via via il suo tono di annuncio oscuro e funesto, svanì come un sogno qualsiasi che, un minuto dopo il risveglio, ti è già uscito di mente, te lo sei già dimenticato. 15 All'uscita della stazione di Bologna, trovai una fila ordinata e paziente di persone che aspettavano di prendere il taxi. Ne passavano pochi, a dire il vero, uno ogni tanto: facevano il giro della piazza, si fermavano lungo il marciapiede, imbarcavano il primo della fila, e via, ripartivano - fra le tante macchine che circolavano erano riconoscibili per la carrozzeria bicolore: il tettuccio nero, le fiancate verdi. Mi accodai alla fila e aspettai disciplinato il mio turno. Si usava così, nel Nord Italia, tirava un'altra aria da quelle parti. Non c'era il caos, la sporcizia, il chiasso di Napoli, le persone erano silenziose, serie, i marciapiedi puliti, e per le strade il traffico di auto, tram,
camioncini, vespe e motocicli vari, era liscio, scorrevole. C'era solo un gran freddo e una nebbiolina umida e bianchiccia che ti entrava fin dentro le ossa. Dopo una mezz'ora di attesa, salii finalmente sul mio taxi. «Dove andiamo, signore?» fece l'autista parlando con l'identica cadenza dialettale della signora in treno, la bolognese in pelliccia che fumava Muratti a tutto spiano. «C'è un albergo nei paraggi di via Giuseppe Petroni?» chiesi. L'uomo ci pensò. «La posso portare al San Giorgio» rispose «resta da quelle parti, in zona universitaria». Mi sbarcò davanti a questo cavolo di albergo. Era la prima volta che ci andavo, che prendevo una stanza in un hotel e via dicendo. Un po' emozionato, mi avvicinai al bancone: dietro, c'era un tipo di mezza età, allampanato, calvo, che mi fissò al di sopra degli occhiali da presbite che teneva sulla punta del naso. Gli dissi che volevo una stanza. «Singola?». Non capii. Non ero esperto di stanze, alberghi, e compagnia bella. «In che senso?» balbettai. «A un letto o matrimoniale?». «A un letto, a un letto». «Documento, per favore». «Come, scusi?» ero frastornato, ci misi un po' prima di capire che voleva la carta d'identità, la patente, il passaporto o qualcosa del genere. «Ah, sì». Rovistai nella borsa, pescai dal fondo il passaporto e glielo squadernai sotto il naso con un guizzo vanitoso. Ero un tipo che viaggiava, io, mica un cretinetto qualsiasi, venivo da Tripoli, Libia, c'era tanto di timbro stampigliato sopra. Infatti subito cambiò atteggiamento, il tipo lì, il bolognese che fino a un momento prima mi squadrava con sufficienza. Staccò una chiave dal pannello che stava alle sue spalle e, sgusciando solerte da dietro il bancone: «Prego, l'accompagno, stanza 22» mi disse prendendomi il bagaglio e precedendomi dentro un piccolo ascensore «se ha bisogno suoni pure il campanello» mi fece, tutto gentile, aprendo la porta della stanza, biascicando la esse a tutto spiano. Rimasi solo. Gettai un mesto sguardo fuori dalla finestra, non si vedeva niente, solo un muro di nebbia. Mi andai a sedere sulla sponda del letto, mi sentii all'improvviso spaventosamente solo, sperduto nel mondo, alloggiato in un freddo, squallido alberghetto di una città ignota, piena di nebbia, di stradine e portici angusti, dove la gente pareva appartenere ad un'altra spe-
cie umana, quasi marziana, parlavano tutti uno strano linguaggio cantilenante, infiorato di esse strisciate, di zeta sibilanti. Erano le sette di sera quando suonai il campanello di un portone di Via Giuseppe Petroni. Stava sotto un portico, tanto per cambiare, al numero civico 11. Pigiai un bottone della grossa campanelliera in ottone, di lato c'era la targhetta con scritto Zaniboni. «Chi è?» rispose una voce chioccia che usciva dai forellini del citofono. Mi aveva chiesto chi ero. E adesso cosa dicevo a quella voce strana, uscita dalla campanelliera, che di certo non era quella di Pupa. Restai un po' a pensarci. «Sono Renzo Castaldo» replicai esitante, accostando la bocca ai campanelli, parlando dentro ai forellini. «Chi desidera?» s'informò la voce. «Cercavo Pupa... Gabriella De Lellis» mi corressi grattandomi la testa «sono il cugino». «Terzo piano» mi rispose la voce. Sentii lo schiocco del tiro, vidi il battente schiudersi. Lo spinsi, entrai. C'era un gabbione di rete metallica nell'androne, con dentro la cabina dell'ascensore, una specie di casotto di legno con gli sportelli a vetri. Mi ci imbucai, pigiai il tasto tre e, dopo una violenta scossa e qualche sussulto, il trappolone si staccò da terra. Stridendo e sibilando penosamente, cominciò a fatica a salire, pareva lo tirassero su a mano, dall'alto, avvolgendo a forza di manovelle quei grossi cavi di acciaio unti, neri di grasso, a cui era appeso. Sulla porta mi aspettava una ragazza crespa, grassoccia, gli occhiali da miope: «Io sono Pinuccia, un'amica di Pupa. Piacere» mi disse allungandomi la mano paffuta. Aveva l'accento meridionale, era abruzzese anche lei, forse, oppure pugliese. Pupa mi aveva detto che all'Università di Bologna si iscrivevano un sacco di abruzzesi e pugliesi, una vera e propria colonia di studenti fuori sede che emigravano a Bologna da quelle lontane regioni del Sud. «Sta poco bene, Pupa» m'informò guidandomi lungo il corridoio del vecchio, tetro appartamento. «Che ha?». «Ha avuto una delusione d'amore» rispose la ragazza con aria distratta «ma tanto le passerà, prima o poi». Bussò con due colpetti delle nocche «Pupa!» chiamò a voce alta, accostando la faccia, la bocca alla porta «c'è tuo cugino!».
Pupa stava semisdraiata su un lettone matrimoniale, appoggiata alla testiera con due cuscini dietro la schiena e una borsa d'acqua calda sullo stomaco. «Che fai tu qua?» mi disse accigliata. Prese da un pacchetto sul comodino una sigaretta, la infilò tra le labbra e staccò un fiammifero da una bustina di Minerva. «Cos'è, ti sei messa a fumare?» le chiesi avvicinandomi ai piedi del letto. La stanza era in penombra, un abat-jour col cappello di pergamena spandeva dal comodino un alone di luce smorta. Pupa si accese la sigaretta e soffiò una nuvoletta di fumo. «Come hai fatto a trovarmi?» mi domandò. Aveva una vestaglia azzurra e dei calzerotti di lana ai piedi. «Me l'ha dato Carmela, l'indirizzo». «Che vuoi?» mi chiese sgarbata, stranita. Mi sedetti sull'orlo del letto, dalla sua parte. La osservai silenzioso: era irriconoscibile. Si era tagliata i capelli quasi a zero, alla tifo, in faccia neanche un filo di trucco, le labbra pallide, screpolate, le sopracciglia depilate, praticamente inesistenti. Pareva una deportata. «Perché ti sei rapata a quel modo?» le chiesi alla fine. «Sono fatti miei» rispose brusca, come irritata dalla mia presenza, dal mio arrivo inatteso «adesso esci un momento, per favore» disse «aspettami in salotto. Intanto mi vesto. Poi usciamo». «Dove andiamo?» le chiesi intimidito, mortificato dai suoi modi, mi faceva sentire un intruso, un rompiscatole. «Dovrai pur cenare, no? Ti accompagno in qualche trattoria o al ristorante, se preferisci». «Non ti devi mica disturbare. Posso andarci da me» le risposi, sempre col quel fare colpevole, quasi fossi un ladro penetrato in casa sua, colto sul fatto. Mi ero alzato e girellavo per la stanza, ebbi un improvviso scatto di orgoglio, di ribellione. «Guarda che io sono venuto a Bologna solo ed esclusivamente per riportare la valigia di Piperno. No, ti dovessi credere». «La valigia di Piperno?!» Pupa si bloccò mentre spegneva il mozzicone di sigaretta nel portacenere del comodino. «Che ti credi, che sono venuto per te?» sogghignai. Ero partito al contrattacco, mi stavo inventando quella storia della valigia di Piperno per dimostrare che non la filavo proprio, che me ne fregavo di lei. E invece continuavo, dentro di me, a spasimare per quella cugina sgarbata e un po' matta. La guardavo così ridotta, la testa rapata, la faccia pallida, le oc-
chiaie, lo sguardo febbricitante, conciata con quella brutta vestaglia azzurrastra, quei ridicoli calzerotti ai piedi: avrei voluto saltarle addosso, rovesciarla sul letto, baciarle la bocca sfatta, ficcarle le mani sotto la vestaglia, in mezzo alle cosce. Quel suo aspetto dimesso e malaticcio mi scatenava una voglia malsana. Si alzò, s'infilò le ciabatte e si strinse la vestaglia in vita con la cinta: «Cos'è questa storia della valigia di Piperno?» mi fece scrutandomi accigliata. Stavo per abbozzare una risposta qualsiasi, la più verosimile possibile, quando lei si mosse veloce verso la porta: «Non parliamone adesso, per carità! Fammi prima andare in bagno a lavarmi. Tu intanto aspettami di là in salotto». Uscì di stanza e dopo un po' sentii arrivare da qualche parte della casa il rumore dello sciacquone, l'acqua del rubinetto che scorreva. L'aspettai in salotto vagando per la stanza, osservando ogni cosa, ozioso, sfasato, toccando le suppellettili, passando il dito sul velo di polvere che ricopriva i mobili. Dopo mezz'ora, Pupa si presentò vestita, truccata, profumata. Indossava il solito montgomery, ma in testa si era messo un basco, di traverso: le dava un'aria stramba, quel copricapo, da maschietta. «Andiamo a cenare al Pappagallo» annunciò. «Pappagallo?» ripetei camminandole dietro lungo il corridoio. «Sì, è un ristorante. Anche abbastanza caro, uno dei più rinomati di Bologna... Non ti preoccupare, offro io» precisò «Pinuccia!... Noi usciamo!» gridò sulla porta d'ingresso, guardando il soffitto, aspettando che l'amica le rispondesse. «Ti sei presa le chiavi?!» si sentì una voce dal fondo dell'appartamento, lontana, attutita. «Sì, le ho prese! Ciao!». Mentre andavamo lungo i portici semideserti di Strada Maggiore - una via fatta tutta di portici bui, tenebrosi, fiancheggiata da palazzoni d'epoca -, Pupa si informò brevemente, mi chiese dove alloggiavo, quanto tempo pensavo di trattenermi a Bologna e via dicendo. «Domani paghi l'albergo e vieni a sistemarti in casa da noi» disse alla fine, sempre in quel modo nervoso e sbrigativo. Non risposi, però l'idea non mi faceva per niente schifo. Ci sedemmo a un tavolino d'angolo. Pupa pareva di casa in quel locale affollato, coi camerieri in giacca bianca, solerti, cerimoniosi. Avevo una fame boia. Su suggerimento di Pupa, ordinai un piatto di lasagne al forno, una specialità bolognese. Lei prese invece dei tagliolini in brodo. «Ti sono
piaciute?» mi chiese dopo che avevo spolverato famelicamente la porzione. «Squisite» risposi. Me le ero proprio gustate, sul serio. Non avevo mai mangiato in vita mia un piatto così gustoso, con tutta quella besciamella, quel sugo di carne denso, saporito. «Adesso mi dici perché sei venuto a Bologna, soprattutto mi spieghi perché ti sei portato dietro la valigia di Piperno?» mi apostrofò Pupa piantandomi in faccia uno sguardo torvo e indagatore. «Niente» cominciai a dire, cercando di minimizzare la cosa «quelli dell'albergo Roma mi hanno gentilmente chiesto, dato che ero suo amico, diciamo, se volevo prendermi l'incarico di far recapitare la roba di Piperno a qualche suo familiare. E allora ho pensato: mo' la porto a Bologna, magari vedo di depositarla in casa sua. Poi, quando arriva la sorella...». «Quale sorella?» m'interruppe Pupa «quella che vive in Canada?». «Sì, quella». Pupa restò alcuni secondi accigliata, cogitabonda. «Del resto, di familiari ha solo questa sorella, che io sappia» osservò come tra sé «è emigrata col marito in Canada prima della guerra» tacque qualche secondo. «Che morte assurda che ha fatto» commentò d'un tratto mettendosi una mano davanti agli occhi, scuotendo drammaticamente il capo, come volesse svuotarlo di tutti i pensieri, i ricordi penosi che lo infestavano. «Ma di che è morto, secondo te?» le chiesi. Coltello e forchetta in pugno, avevo abbordato il secondo: scaloppine al marsala con contorno di cavoletti di Bruxelles. «Non lo so» rispose, già stanca di parlare della faccenda, infastidita, oscuramente turbata «d'infarto, probabilmente. Papà, l'altro giorno, quando è venuta Teresa a darci la notizia, ha detto che non poteva essere che infarto». «Il medico che è venuto da Lanciano con l'ambulanza parlava di avvelenamento da funghi, però». Pupa fece una spallucciata. «Cretinate. Saremmo dovuti morire tutti, allora». Mi tornò in mente Carmela. Prima che partissi, mentre uscivo di casa per andare a prendere la corriera, mi aveva rivelato in un orecchio che Piperno per lei era morto avvelenato dai funghi. Perché me l'aveva confidato a cavallo della porta, con quel fare misterioso e tetro da fattucchiera, come se fosse un segreto che era meglio non spifferare in giro?
«Anche Carmela dice che per lei Piperno è morto avvelenato dai funghi» sogghignai. Era un po' che stavamo in silenzio, io impegnato a finire la scaloppina al marsala, Pupa che sbocconcellava svogliata un sedano in pinzimonio. «Perché insisti con questa idea?» reagì lei stizzosa «stai anche a credere alle stupide fantasie di Carmela, quella cafona ignorante e pettegola? Senti, Renzo, io di questa storia non ne voglio più parlare» fece allungando di scatto la mano attraverso la tavola, afferrandomi un polso e stringendomelo forte. Parlava a voce bassa e scandita, come per dar peso e impegno solenne alle parole. «Mino è morto. La storia che ho avuto con lui è stata bella, in certi momenti meravigliosa, l'ho vissuta, in quei momenti, come un sogno, una favola, una dolce pazzia. Gli ultimi giorni, però, già era finita. Perché, non lo so. Non lo saprò mai. Ora, con la sua morte, davvero tutto si è concluso e io voglio solo dimenticare». La voce le si era improvvisamente incrinata e la sua mano si stringeva intorno al mio polso in una morsa quasi disperata. Finii di mangiare i cavoletti senza pane, avevo una mano praticamente immobilizzata, ero impedito a prendere il pane, spezzarlo, metterlo in bocca. Neanche il vino potevo più versarmi e sorseggiare: con una mano sola si è assolutamente impossibilitati a fare certe cose. Eppure mi beavo di quelle sue dita trepide e calde che serravano spasmodicamente il mio polso. «Perciò, Renzo, non ci torniamo più su questa storia. Aiutami anche tu a dimenticarla, me lo prometti?». «Te lo prometto» annuii. Intanto il cameriere mi aveva portato la macedonia di frutta con gelato e maraschino. «Però quella valigia da qualche parte la devo sistemare» dissi pigliando a degustare la macedonia: Pupa mi aveva liberato il polso dalla sua dolce morsa, ora potavo sgomitare liberamente. «Io mi chiedo che accidenti di impegno ti sei preso» sbottò «non potevi dirgli di no a quelli dell'albergo Roma? Mica eri obbligato a prendertela in consegna, quella valigia maledetta». «Tu sai dove abitava Piperno, immagino» insistetti un po' sornione, un po' maligno. Si girò di colpo di profilo, fremente, agitata, gonfia di stizza. «Lo vedi?
Gira e rigira, stiamo sempre a parlare di lui, della valigia, di dove sta di casa, di questo, di quell'altro» blaterava guardando da un'altra parte. Le parole le uscivano di bocca rabbiose, piene di saliva, e intanto gesticolava, afferrava la saliera, una posata, o qualsiasi altro oggetto, e poi lo rimetteva a posto sbattendolo nervosa. «Ma che ci vuole, dai» replicai dopo quella sua breve sfuriata «si tratta solo di portare la valigia a casa sua e lasciarla là. Ci vado io. Basta che mi dici l'indirizzo». «Non lo so» rispose secca. «Ma scusa, non hai detto che sei stata a casa sua, che in un armadio, per esempio, avete anche ritrovato quel tailleur che portavi quando sei tornata a Torricella? Un tailleur di sua sorella, mi hai detto. La sorella che sta in Canada. Non te lo ricordi più?». «Sì, va be', sono stata a casa sua... Maledetto il momento che mi sono messa con lui!» Pupa si girò di nuovo dalla mia parte e mi piantò in faccia due occhi torvi e furiosi. «Colpa tua! Se non era per te non l'avrei mai conosciuto!». Chinò di colpo la testa sul tavolo, appoggiò la fronte all'avambraccio e attaccò a singhiozzare in silenzio, si vedevano solo le spalle che sussultavano debolmente. Qualche cliente vicino di tavolo si girò lanciando brevi occhiate sguince. I camerieri ci fissavano vagamente sconcertati. «Dai, non fare così» cercavo di consolarla carezzandole la testa bionda e mezza rapata, sembrava di lisciare le setole di una spazzola «su, dai, che ci guardano». Sollevò la testa, prese il fazzoletto, si tamponò gli occhi gonfi di lacrime, si soffiò rumorosamente il naso. «Davvero, non mi ricordo dove abitava, non so neanche il nome della via» miagolò lagnosa, nasale «non saprei neppure ritrovare il posto». Mi guardò come folgorata da un'idea improvvisa: «e poi, anche se me lo ricordassi, come faresti a entrare? Ce le hai le chiavi di casa sua?». L'obiezione mi lasciò interdetto. Era vero, porca l'oca, non ce le avevo mica le chiavi. «Potrei lasciarla in portineria» dissi dopo un attimo di smarrimento, era una soluzione anche quella. «Perché non la butti in un canale, quella maledetta valigia, in un bidone del rusco?» propose Pupa. Parlava seriamente, non scherzava. Era proprio vero, di Piperno non voleva più saperne. Non le bastava che fosse morto, doveva farlo morire anche dentro di sé.
La valigia di Piperno era di cuoio scuro, di grandezza media. La piazzai sul letto, feci scattare le due serrature, l'aprii e cominciai a rovistare fra gli indumenti, il mare di medicinali stipati in ogni angolo, i libri, le riviste, gli oggetti da toletta e tutto il resto. Nessuna chiave. Provai a fare mente locale. Mi venne in mente che forse potevano trovarsi nelle tasche di qualche giacca o pantalone. La sera della famosa cena, l'ultima per lui, mi ricordai che Piperno portava il cappotto di cammello e una giacca spigata. Buttai all'aria tutto per tirare fuori quei due indumenti. In una delle tasche del paltò, infatti, ci trovai un mazzo di chiavi infilate in un anello al quale era appeso un ciondolo. Ce n'erano cinque, attaccate a quel portachiavi: due sembravano quelle dell'auto - una della portiera, l'altra del motore -, la terza, piccola, scoprii che era della valigia; le altre due, invece, erano Yale e parevano proprio chiavi di casa: forse una del portone, l'altra dell'appartamento. Solo che, boia d'una miseria, non sapevo dove stava di casa Piperno. Restai non so quanto seduto sul letto ad arrovellarmi, mezzo imbambolato. Facevo ruotare il portachiavi attorno al dito, e intanto rimuginavo. Cribbio, come facevo a sapere l'indirizzo della buonanima, a scoprire dove abitava? Quella scema di Pupa, cribbio, non se lo ricordava, o faceva finta di non ricordarselo. Pure il suo indirizzo aveva rimosso. Oltre a lui e alla sua morte, adesso anche la casa dove abitava cercava di dimenticare. Eppure c'era stata chissà quante volte. Chissà quante trombate si erano fatte i due, in quell'alcova. E lei, la troietta, neanche si ricordava più l'indirizzo. Rimasticavo questi pensieri torbidi, rancorosi, quando mi si accese una lampadina in testa, proprio come agli eroi dei giornalini a fumetti che leggevo fino a qualche anno prima - "Topolino", "il Vittorioso", e così via. Mi ricordai improvvisamente che, quando c'eravamo salutati la sera prima dello sbarco, Piperno mi aveva dato un suo biglietto da visita, «Quando ti capita di passare per Bologna vienimi a trovare» mi aveva detto rifilandomi il cartoncino, quelle cose che si dicono tanto per dire, quegli impegni che si prendono e due secondi dopo si sono già dimenticati. Dove l'avevo ficcato quel dannato biglietto da visita? Buttato, non l'avevo, di solito, biglietti del genere li infilavo in qualche tasca o nel portafoglio. Andai a controllare il portafoglio, a frugarci dentro. Che colpo di culo, ragazzi! L'avevo là, in mezzo a un sacco di altre cartuccelle, foto, ricevute, ritagli di giornale, eccetera. Ci mettevo di tutto, in quel portafoglio, lo inzeppavo fino a farlo scoppiare: era ridotto in modo pietoso, gonfio, sfor-
mato, scucito, unto e ammaccato, tanta era la cianfrusaglia che ci ficcavo dentro. Comunque, il biglietto da visita di Piperno era là: Prof. Giacomo Piperno, via Galliera 34, Bologna, c'era stampato in un bel corsivo svolazzante; sotto, in caratteri più piccoli, Docente di Lettere, Storia e Filosofia. Me lo rigiravo tra le dita felice, emozionato, neanche avessi ritrovato la mappa perduta di un tesoro. Che cos'era in fondo? Niente di più che l'indirizzo di un tipo passato a miglior vita, deceduto di morte improvvisa, per caso conosciuto da vivo durante un viaggio in mare. Niente di più. La fregatura era che, dopo l'improvviso, inatteso trapasso, mi avevano malauguratamente affibbiato il suo bagaglio perché lo facessi recapitare a un suo congiunto, parente o vattelapesca. Be', se non altro mi sarei tolto l'impiccio, la scocciatura, mi sarei finalmente disfatto dell'ingombrante malloppo, liberato dell'incubo di piazzare da qualche parte quella valigia maledetta. Si era fatto tardi, quasi mezzanotte. Presi a spogliarmi. Non avevo portato con me neanche il pigiama, non ci stava nella borsa. Giusto la biancheria di ricambio ci avevo messo dentro, più una camicia pulita, lo spazzolino da denti, il rasoio Gillette con relativo pennello e sapone da barba Palmolive. Il pettine, ormai l'avevo abolito: da quando mi atteggiavo a James Dean, avevo smesso praticamente di pettinarmi, mi ravviavo solo un po' i capelli con le dita in modo da marcare l'aspetto trasandato e quel broncio scontroso che il divo aveva eternamente stampato in faccia. Mi ficcai tra le lenzuola ruvide e fredde di quel triste letto d'albergo, con la sola canottiera e le mutande. Spensi la luce del comodino e mi rannicchiai a mo' di feto. Avevo la testa che mi turbinava di pensieri monchi, di spezzoni di immagini. Mi passavano per la testa, in un turbinio febbrile, tutti i momenti di quella convulsa giornata. Erano accadute un fottio di cose, quel giorno. Carmela mi aveva svegliato alle sei e mezza, portato il caffè a letto - prima che uscissi di casa, mi aveva anche confidato in un orecchio quel suo sospetto, che Piperno cioè fosse morto avvelenato dai funghi. Poi la partenza, la corriera che lasciava tristemente Torricella immersa nella nebbia, nel chiarore livido dell'alba. E ancora, il viaggio in treno, l'arrivo a Bologna, il taxi, l'albergo San Giorgio. Infine, l'incontro con Pupa, la sua testa rapata, il ristorante, lei che piangeva, che non voleva più saperne di Piperno. E ora quella squallida stanza d'albergo, io rannicchiato sotto le coperte col pensiero fisso di dovermi sbarazzare della valigia di Piperno. Tutto questo mi passava e ripassava nella testa come la pellicola impazzita di un vecchio film muto di Charlot. Restai un po' ad ascoltare i rumori che venivano da fuori, dalla strada.
Era notte fonda, ormai, si sentiva sfrecciare crepitante qualche moto, o il fruscio sull'asfalto dei pneumatici di un'auto; ogni tanto un tram passava sferragliando, facendo tremare i vetri della finestra. La campana lontana di qualche chiesa prese a battere mezzanotte, non riuscii a sentire tutti e dodici i rintocchi. All'ottavo già ronfavo. 16 Al numero 34 di via Galliera, sotto il solito portico gelido e tenebroso, c'era un portone antico, colossale. Infilai nella serratura una delle due Yale: ci entrò liscia, girò, fece scattare la serratura, e il pesante battente si schiuse sotto la spinta della mia mano come d'incanto, neanche fossi stato Ali Babà e avessi pronunciato le parole magiche: Apriti Sesamo... Attraversai un cortile vuoto, silenzioso, raggiunsi un grande androne con due ingressi distinti, due rampe di scale. Imboccai la scala B - sulla targhetta della campanelliera avevo letto Prof. G. Piperno, scala B, IV piano. Era un antico, tetro palazzo, i muri intonacati di rosso mattone, scrostati, marci di umido, le scale buie, strette, ripide. Arrivai su, al quarto piano, senza incontrare nessuno, senza sentire un rumore, notare un segno di vita. A ogni pianerottolo, le porte erano chiuse, sprangate, pareva un condominio disabitato. Anche la seconda Yale entrò al primo colpo, la girai, tre-quattro volte nella serratura e la porta si aprì. La casa era immersa in una oscurità gelida e stantia. Dalla persiana di una porta-finestra del corridoio filtrava un raggio di luce polverosa, che andava a stamparsi sul pavimento, una riga dritta e sottile che risaliva fino a metà della parete. Posai la valigia all'ingresso e mi inoltrai lungo il corridoio a passi cauti, col respiro trattenuto. Mi sentivo quasi un ladro, uno che andava a svaligiare l'appartamento, avevo persino la sensazione che ci fosse qualcuno in casa, che all'improvviso potesse sbucare e cogliermi in flagrante. Invece non c'era anima viva, era un appartamento deserto, abbandonato. La persona che ci abitava era morta e non ci avrebbe mai più rimesso piede, restavano solo le sue cose in quella casa vuota e silenziosa. Spinto da una curiosità morbosa e raggelata, cominciai a esplorare le varie stanze. C'erano una sala, due camere da letto, un piccolo studio, la cucina, il bagno, il ripostiglio - un quadrilocale più servizi, in pratica. Mi affacciai nella stanza dove Pupa e Piperno di sicuro avevano fatto l'amore durante il loro soggiorno bolognese. Non c'era traccia apparente
del misfatto. La sola vista del letto, però, il pensiero che i due ci avevano fatto l'amore sopra, nudi, oscenamente abbracciati, mi fece star male. Doveva essere uno di famiglia ricca, Piperno: la casa era tutta arredata di mobili antichi, di lusso. Alle pareti, dentro cornici massicce, dorate, erano appesi enormi quadri a olio, paesaggi, ritratti, nature morte. In un angolo del piccolo studio, piazzata di traverso, notai una scrivania con relativa seggiola in stile. A naso, doveva essere un mobile del '700, un pezzo di antiquariato: sul piano troneggiava un grosso lume stile Impero e, disposti in bell'ordine, un calamaio antico di maiolica, una cartella di cuoio sbalzato e un fermacarte di bronzo a forma di elefante, e altri ammennicoli vari. Un'intera parete della stanza era occupata da un'immensa scaffalatura di legno scuro, zeppa, stipata fino in cima da centinaia di libri. Avevo visto abbastanza. Stavo per andarmene, missione compiuta, valigia sistemata. Sbirciando dalla porta del salotto, scorsi un televisore. Stava acquattato in un angolo, sistemato su un trespolo a rotelle. Non ne avevo mai osservato uno da vicino, neanche mai provato ad accenderlo, a guardare incantato quelle prodigiose immagini che affioravano dietro la lastra di vetro nera, bombata. Mi venne la tentazione di andare a girare un po' di quelle manopole, vedere se funzionava. Passando accanto al divano, per caso, notai con la coda dell'occhio una grossa busta posata sui cuscini. Mi chinai a prenderla, così, tanto per sapere che roba era, che ci faceva gettata là, magari dimenticata da Piperno, lasciata su quel divano prima di partire, di tornare con Pupa a Torricella. Pareva proprio che qualcuno l'avesse posata un momento e se ne fosse andato, fosse partito dimenticandola. Stampata sul bordo c'era l'intestazione di uno studio fotografico. La busta era chiusa con due linguette metalliche. L'aprii senza pensarci due volte, da dentro, sfilandola con cautela, tirai fuori una foto formato ritratto. A un angolo di questa, appuntata con una graffetta, c'era una seconda fotografia, piccola. La prima, notai, era l'ingrandimento dell'altra. Restai a rimirarla rapito, incantato, mostrava il viso di una donna coi capelli platinati, arricciati, il trucco anni '30. Sembrava una diva del tempo, una bionda del genere di Assia Noris, Jean Harlow, Ginger Rogers: sopracciglia filiformi, occhi bistrati, labbra dipinte a cuore. Gli occhi fissavano l'obiettivo, sembravano guardarti con aria languida, sognante. La bocca accennava un sorriso lieve, sfumato, come d'intesa. Mi stregavano quel sorriso, quello sguardo, non finivo più di contemplarli. Somigliava stranamente a Pupa, la donna di quella foto, pareva lei nel giorno che era tornata a Torricella dopo
la fuga a Bologna con Piperno, così vistosamente trasformata, con quella stessa tinta e acconciatura di capelli, lo stesso trucco, e quel tailleur d'altri tempi, quella camicetta di raso color pesca. La foto piccola era sgualcita, ingiallita. La rigiravo tra le dita ammaliato. Lessi dietro: scritta in diagonale con una calligrafia minuta, molto femminile, l'inchiostro ormai stinto, c'era una dedica: Al mio Mino, con amore infinito, Mariù. Lasciai la stanza dell'albergo San Giorgio un po' prima di mezzogiorno. Pagai il conto e, con la borsa in una mano e la busta delle foto nell'altra, me ne andai. Era una mattina grigia, fredda, con l'aria che tagliava la faccia. La strada per arrivare a casa di Pupa me la ricordavo a memoria, non dovetti chiedere informazioni neanche una volta: a passo svelto, impiegai cinque minuti ad arrivarci. Ero da un giorno appena a Bologna, e mi pareva già di conoscerla, di muovermi disinvoltamente lungo le sue strade strette di città medioevale, sotto i portici bui, tra i palazzi antichi intonacati di rosso, di giallo ocra. Suonai il campanello. Venne Pupa a rispondermi al citofono, a dare il tiro al portone. La trovai sulla porta di casa che mi aspettava, la faccia torva, quasi arrabbiata, aveva addosso ancora quella brutta vestaglia azzurrastra, i calzerotti di lana grossa ai piedi e un paio di babbucce da persona anziana. «Vieni, ti faccio vedere la stanza dove dormirai» mi disse brusca, senza neanche salutarmi, ciabattando lungo il corridoio. Era strana, cambiata. Nel giro di qualche mese l'avevo vista trasformarsi già un paio di volte. Ogni volta era diventata una persona diversa, non solo nell'aspetto, anche interiormente, nel carattere. Facevo fatica a pensare che quella ragazza trasandata, coi capelli alla tifo, la faccia senza trucco, un po' spiritata, era la Pupa che avevo conosciuto al mio arrivo a Torricella, belloccia e sensuale, con la coda di cavallo e i maglioncini neri, i calzoni attillati che le mettevano in evidenza le gambe lunghe, il sedere rotondo. Era tutta diversa, ora, diversa anche da come si era presentata a Torricella dopo la sua fuga con Piperno, con quel tailleur antiquato, ossigenata, truccata come una stellina del cinema d'anteguerra - quel giorno, quasi ci restavo secco nel vedermela davanti, neanche la riconobbi così mostruosamente trasformata. Sfilai dalla busta la foto-ritratto e gliela schiaffai sotto il naso. «Guarda qua» sogghignai. Stavamo nella stanza dove avrei dormito la notte, lei aveva appena aperto le persiane e una luce smorta, invernale, aveva invaso
l'ambiente. Prese la foto in mano e la contemplò a lungo, accigliata, stupefatta, quasi allarmata. «Che cos'è?» chiese alla fine. «L'ho trovata in casa di Piperno» dissi. Mi ero messo a svuotare la borsa, a sistemare le mie poche cose nei cassetti, sul piano del comò. Alzando gli occhi, la vidi riflessa di profilo nella specchiera: si era come paralizzata, la foto stretta in mano e lo sguardo assorto, incollato su quel ritratto di donna. Vidi riflesso anche me stesso: ero spettinato al punto giusto, non tanto, proprio come James Dean ne "La valle dell'Eden". Avevo anche una faccia strafottente, da duro. Mi piacqui. Presi coraggio nel vedermi allo specchio, cavolo, che bel ragazzo, pensai osservandomi, passandomi le dita fra i capelli, saggiando coi polpastrelli quel velo pungente di barba che mi cresceva stentata sul mento, sul labbro - non mi ero rasato, quella mattina. «Sei andato in casa di Piperno?» mi chiese Pupa staccando finalmente gli occhi dalla foto, girandosi verso di me. Anch'io mi ero girato, stavo appoggiato col gomito al piano del comò. Presi a sogghignare e a sogguardarla con l'aria di chi la sa lunga. «Sono andato a portare la sua valigia» confermai. «E come hai saputo dove abitava?». «Lascia perdere» risposi sempre con quel mezzo ghignetto da figlio di buona donna «allora, a chi ti fa pensare quella là, la donna della foto?». Si andò a sedere sul letto. Posò la fotografia accanto a sé, sulla coperta, e mentre continuava a contemplarla, muta, trasognata, pescò da una tasca della vestaglia un pacchetto di Macedonia Extra, i Minerva, e si accese una sigaretta. Sparò una nuvola di fumo. «E chi sarebbe, questa?» domandò. «Lascia perdere. Rispondi: a chi assomiglia?». «A chi assomiglia?». «Quei capelli biondo-platino, arricciati, il trucco anni '30... A chi assomiglia? Anzi, a chi assomigliava?». Si girò a fissarmi. «A chi?» ripeté imbambolata. «A te. Ecco a chi assomigliava. A te quando sei arrivata a Torricella trasformata in quel modo». Fece una lunga tirata alla sigaretta. «Tu dici?». «Ma è così evidente, cribbio!» sbottai a ridacchiare beffardo «altro che artista, esteta e tutte quelle balle lì. Piperno t'ha portato dal parrucchiere,
ha voluto che ti truccassi in quel modo, t'ha fatto mettere quel vecchio tailleur fuori moda e tutto il resto, perché assomigliassi alla donna di quella foto. Mi taglio le palle se non è così». Pupa tornò a riguardare la foto-ritratto. «E perché l'avrebbe fatto?» domandò con l'aria più ebete di questo mondo. «Leggi la dedica, dietro quella foto piccola» risposi muovendomi per la stanza a casaccio, tutto ingobbito, con la testa ciondolante e i pugni affondati nelle tasche dei calzoni. Intanto ridacchiavo tra i denti, imitavo la ghignata in falsetto che James Dean faceva di continuo in "Gioventù bruciata". «Al mio Mino, con amore infinito, Mariù» lesse Pupa, la voce atona «e chi sarebbe questa Mariù?». «Se non lo sai tu». «Una sua vecchia fidanzata, un'amante...». «Trent'anni fa. Prima della guerra... Forse ora è morta o si è sposata con un altro... O chissà cos'altro, vattelapesca». Facevo congetture, mi venivano così, mi si affacciavano veloci alla mente. Cominciai a fantasticarci sopra, a farci un romanzo: magari era vero, ci indovinavo. «Per me è stata la donna della sua vita, quella, la donna che ha amato alla follia e che non ha mai dimenticato. Per me gli è rimasta nel cuore per sempre». Pupa ascoltava ammutolita, lo sguardo attonito, la bocca mezza aperta. «Sennò perché avrebbe conservato la sua foto? Perché ne avrebbe ricavato quel po' po' d'ingrandimento?». Si affacciò Pinuccia: «Ragazzi, tra due minuti la pasta è cotta» ci annunciò «spaghetti al sugo». «Spaghetti al sugo?» dissi «è il mio piatto preferito». «Fatti con la conserva Cirio, naturalmente» precisò lei. «Vado matto per la conserva Cirio». Pupa ingollò di malavoglia un paio di forchettate. «Non ho fame» disse a un certo punto «vado a sdraiarmi un po' sul letto». Si alzò e se ne uscì con lo sguardo perso, lasciando me e Pinuccia da soli, seduti al tavolo della cucina a finire gli spaghetti. «Certo, è stata una brutta botta, povera Pupa» commentò Pinuccia portando a tavola il secondo: formaggio stracchino e una spasa di fagiolini lessi «ma poi si è saputo come è morto il suo fidanzato?» chiese.
Feci di no con la testa, avevo appena messo in bocca un pezzo di pane spalmato di quel formaggio molle e insipido. «Le ha preso proprio brutto. Per me ha un esaurimento nervoso» proseguì lei «per me dovrebbe distrarsi, farsi magari un viaggetto». La stavo ad ascoltare cercando a fatica di finire la pietanza. Odiavo quel genere di formaggio e i fagiolini lessi, darmeli da mangiare era come infliggermi una punizione, sottopormi a una tortura. «Ha un esaurimento nervoso, dici?» ripetei fissandola interrogativo. «Per forza. Con tutte le delusioni e gli shock che ha subito... lui che la lascia proprio il giorno del fidanzamento e, come se non bastasse, muore all'improvviso, la notte stessa... mica facile reggere due batoste del genere». Pinuccia parlava con la calata pugliese, un po' stracca, fissandomi da dietro le lenti graduate con due occhi piccoli e neri come chicchi di caffè. Aveva la faccia piena, gommosa, cosparsa sulle guance e il labbro di una leggera peluria, pensavo che non ci sarei andato a letto neanche morto, neanche se mi fossi trovato solo con lei su un'isola deserta. «Siete molto amiche, voi due?» le chiesi «voglio dire, vi confidate, vi dite tutto?». «È tre anni ormai che stiamo insieme in questa casa» mi spiegò «c'è un'altra ragazza che ha preso in affitto con noi l'appartamento, ma non sta quasi mai a Bologna: frequenta poco i corsi, è anche parecchio indietro con gli esami. Sì, io e Pupa siamo molto amiche, e mi dispiace vederla così». Fece una pausa, si alzò, radunò piatti, stoviglie, tegami e li andò a depositare nel lavello. «Oddio, mi dispiaceva anche vederla così diversa, così infatuata di quel tipo tanto più anziano. Non era più lei». «Vedo che anche a te ha dato quell'impressione» commentai sbucciando un arancio, mangiandolo a spicchi. «Lo vuoi il caffè?». «Sì, grazie». «Lo faccio fresco». Cominciò ad armeggiare attorno alla caffettiera, la svitò, la svuotò della posa. «Ma sai» osservava preparando il caffè, «sembrava talmente felice, al settimo cielo... Sì, pensavo di averla persa come amica, però ero contenta che avesse incontrato l'amore, che si sposasse. Certo, mi faceva impressione come da un giorno all'altro si fosse così trasformata, non solo nell'aspetto, anche nel modo di fare. Sembrava che recitasse, che si atteggiasse». «Brava, hai detto bene!» esclamai «la stessa impressione che ho avuto io. Pareva che recitasse una parte, il personaggio di una commedia, che lo
facesse per compiacere lui» continuai infervorato. Cribbio, finalmente potevo sfogarmi, tirare fuori tutto lo sconcerto, lo sbalordimento che mi aveva provocato Pupa tornando a Torricella, bionda, truccata come Jean Harlow, con quel tailleur fuori moda. Finalmente potevo confidare a qualcuno tutto quel groviglio di sensazioni che avevo in corpo e che neanche mi azzardavo a esternare. Mi alzai di scatto. «Adesso ti faccio vedere una cosa» dissi a Pinuccia uscendo dalla cucina «aspetta un momento». Andai nella mia stanza, presi sul letto, dov'erano rimaste, le foto e tornai veloce. Il caffè era sul gas. Pinuccia stava in piedi accanto al fornello aspettando che uscisse. «Guarda qua» le dissi mostrandole l'ingrandimento «ha voluto che Pupa diventasse così, come la donna di questo ritratto». Ora il caffè borbottava e sfrigolava a tutto spiano, ormai era fatto, dal becco uscivano fischi e getti di vapore. Pinuccia spense la fiamma e venne a sedersi al tavolo per meglio osservare la donna della fotografia. «Soccia!» commentò. Ogni tanto le scappava quell'intercalare che i bolognesi avevano continuamente in bocca, faceva effetto sentirla anche da lei, quella parola, lei nata in provincia di Bari, con quella sua calata pugliese, era stridente il contrasto. Da quel soccia che le era uscito e dalla faccia allibita che aveva fatto, mi convinsi del tutto che era così, boia d'una miseria. Piperno voleva far rivivere in Pupa la donna della foto-ritratto, quella tale Mariù che gli aveva scritto la dedica dietro la foto piccola: Al mio Mino, con amore infinito, Mariù. Ci pensai un bel po' prima di decidermi. Alla fine, anche se torturato da ansie, scrupoli e incertezze, tornai in casa di Piperno, in Via Galliera 34. Ero spinto a farlo da un bisogno oscuro e vorace di scoprire chi era quella tale Mariù della dedica, e se davvero Piperno l'aveva amata così appassionatamente che, a distanza di tanti anni, ancora conservava la sua foto, anzi ne aveva fatto fare persino un ingrandimento. Smaniavo anche di capire che razza di storia c'era stata tra lui e Pupa. Volevo soprattutto togliermi quel dubbio che aveva preso a rodermi, se cioè Piperno, come sospettavo, si era messo con Pupa perché in qualche modo gli ricordava la Mariù della dedica. Andavo a frugare in quella casa, fra i ricordi del defunto, con l'avida, caparbia certezza di trovare risposta a questi interrogativi. Provavo, tornan-
doci, un senso di raccapriccio, come di macabra profanazione, neanche dovessi scoperchiare una tomba, riesumare uno scheletro. Eppure ci tornavo, era più forte di me. Ero convinto che là, da qualche parte, avrei scoperto qualcosa di grosso. Avevo il presentimento che qualche segreto inconfessato, nascosto, seppellito in mezzo a chissà quali carte e documenti, sarebbe saltato fuori. Il primo posto dove mi fiondai a rovistare smanioso, fu il cassetto della scrivania del '700. Provai ad aprirlo, ma era chiuso a chiave. Questo mi confermò nell'idea che là dentro Piperno ci teneva chiuse le sue cose private, segretissime. La mattina avevo notato sulla scrivania una vaschetta di cristallo piena di oggetti di cancelleria - puntine da disegno, pennini, elastici, un temperalapis. In mezzo c'erano anche alcune chiavi. Una di queste era dorata e aveva l'impugnatura a forma di ghirigoro, mi sembrò in stile proprio con quel mobile del '700. La infilai nella toppa, la girai, la serratura scattò... Aprii il cassetto: era pieno, stipato di documenti, carte, manoscritti, dattiloscritti, taccuini, vecchie agende, biglietti volanti, fogli graffettati fitti di appunti. Sciorinai il tutto sul piano della scrivania, da quell'ammasso di scartoffie, uscì a sorpresa un pacchetto di lettere legate, tenute insieme da un nastrino celeste. Slacciai il fiocco, sfilai la prima lettera - le buste mancavano, erano rimasti solo i foglietti doppi di carta paglierina, pregiata... T.P. 28 novembre 1938, c'era scritto in testa al foglio, la calligrafia era inclinata, minuta, la stessa della dedica... Mino mio caro, incominciava. Presi a leggere voracemente, avevo quasi l'acquolina in bocca mentre leggevo, e un senso febbrile di eccitazione mi formicolava per tutto il corpo. 17 Pupa non venne a tavola, la sera. «Che fa, non cena?» chiesi a Pinuccia. «Macché, si è rintanata in camera sua ed è rimasta là tutto il pomeriggio. Prima, le ho portato un bicchiere di latte caldo e qualche biscotto». Posai sul piano di formica il pacco di lettere e altre carte interessanti trovate in casa di Piperno e mi misi a sedere. Come primo, Pinuccia aveva preparato una minestrina col dado, per secondo c'erano dei formaggini Mio. «Perché poi non ti affacci da lei?» mi disse scodellandomi nel piatto due mestoli di farfalline in brodo «forse ha bisogno di essere distratta, di parlare, sfogarsi. Con me non spiccica parola, solo dei monosillabi. Forse con te, che sei il cugino». «Cugino un cavolo!» scattai «prima che arrivasse Piperno c'era una
mezza storia fra noi, se proprio t'interessa. Poi è arrivato quel rompiballe, che Dio l'abbia in gloria». «Ah, questa non la sapevo» fece Pinuccia restando col cucchiaio di minestra in brodo a mezz'aria «soccia, ma non siete cugini?». «E dagli co' 'sti cugini!» m'inalberai «siamo cugini di seconda, tanto per cominciare. Mica è incesto, Dio buono, mettersi con una cugina di secondo grado». «Hai ragione. Anch'io al mio paese, a Bitonto, mi ero presa una cotta per un cugino» mi raccontò Pinuccia «lui era di primo grado, tra l'altro... ma scusa, 'sto Piperno non era un tuo amico, un tuo conoscente?». «Sì, un po' lo conoscevo. Stava a Tripoli, insegnava nel mio stesso liceo. E allora?». «Soccia, bell'amico: fregarti la ragazza» commentò Pinuccia. Non faceva che dire soccia, quella sera. «Perché dici sempre soccia?» le obiettai. «Lo dicono tutti, qua a Bologna» mi rispose «a forza di sentirlo ripetere mi è entrato nell'orecchio, mi esce così... Lo so, non dovrei dirlo, è un'espressione volgare». Stava sbucciando la stagnola del formaggino: posò l'occhio sul pacco che avevo posato sul tavolo. «Cos'è quella roba?» chiese curiosa. «Lettere» dissi «adesso vado da Pupa e, a costo di farle venire una crisi isterica, gliele faccio leggere tutte... Deve sapere la verità, quella cretina. Deve capire che Piperno l'ha soltanto presa in giro, se n'è solo servito per dar sfogo alle sue fantasie malate, alle sue nostalgie erotiche e sentimentali. Quel matto cercava attraverso Pupa di risuscitare la Mariù della foto, la donna che ha amato quand'era giovane... Sì, lo so, sembra pazzesco, ma è così, è andata proprio in questo modo!». Ero così convinto delle cose che dicevo, così infervorato nel denunciarle, che mi scappavano persino di bocca frammenti di cibo. «S'è messo con Pupa unicamente per questo motivo, te lo dico io. Si è incapricciato di lei solo per la somiglianza che aveva con la sua ex. E per rendere meglio l'illusione, l'ha persino rivestita e imbellettata come una pupattola: doveva sembrare il più possibile somigliante all'originale!... Alla fine, stufo di quella ridicola carnevalata, l'ha scaricata come un giocattolo vecchio, l'ha gettata, messa da parte come una bambola rotta!». Ero proprio arrabbiato, avevo quasi la bava alla bocca, parlando, lo sfogo mi saliva dalle viscere, le parole mi uscivano da sole e, dicendole, le assaporavo e me ne compiacevo per come si allineavano, incisive, vibranti
d'indignazione. «Ma sei sicuro che sia andata in questo modo?» osservò dubbiosa Pinuccia «che l'abbia presa in giro fino al punto di convincerla a truccarsi e vestirsi come la donna della fotografia? Mi sembra incredibile». «Mi taglio le palle se non è andata così!» risposi. Non scherzavo, ero talmente convinto di quella mia idea che davvero mi ci giocavo i coglioni. La stanza era al buio. Raggiunsi a tentoni il suo comodino e accesi l'abat-jour. «Pupa, svegliati!» feci brusco, senza tanti complimenti. Lei si rigirò nel letto pigramente. «Perché mi vieni a svegliare?» miagolò. «Ho da farti vedere delle cose importanti». Mi sedetti sulla sponda del letto e sciorinai sulla coperta tutte le lettere, più uno scartafaccio scritto a mano fitto fitto, zeppo di cancellature, anche quello trovato in casa di Piperno, nel cassetto della sua scrivania. Pupa stava raggomitolata sotto un plaid: aveva addosso la solita vestaglia di panno azzurro-polvere e i calzerotti di lana grossa ai piedi. Si tirò su, prese dal comodino una sigaretta e l'accese. «Cos'è 'sta roba?» chiese soffiando uno sbuffo di fumo, osservando il manoscritto e tutte quelle lettere sparse sul letto. «È la prova che Piperno ha avuto un'amante in gioventù» presi a spiegare telegrafico «lei era sposata. I due, per questo e per altri motivi, avevano deciso di scappare all'estero. Era stato tutto stabilito, programmato. Poi deve essere successo qualcosa. Questo accadeva diciassette anni fa, esattamente nel dicembre del 1938. È scritto tutto qua, in queste lettere». Gliene allungai una, l'ultima che Piperno aveva ricevuto, gliela sventolai sotto il naso. «Leggi questa, intanto». «Non leggo niente» replicò lei scansando la mia mano «quante volte debbo ripeterti che di questa storia non ne voglio più sapere, eh?!». Parlava affilando le parole a una a una, quasi sillabandole. «Ti ho anche scongiurato di aiutarmi a dimenticarla. Ma tu niente, testone, continui a girarci attorno, a insistere». Dette un'altra occhiataccia alle lettere, al manoscritto, li indicò con un gesto a ventaglio, nervoso. «Dove l'hai trovata tutta 'sta roba? E perché me la vieni a mettere qui, sul mio letto?!» squittì esasperata. «Era in casa di Piperno, nel cassetto della sua scrivania, chiusa a chiave».
«Sei tornato ancora là?! Ma allora lo fai apposta?!» gridò. Era fuori di sé. «Senti qua» la incalzai calmo, strafottente, attaccando a leggere la lettera «Alle volte, Mino mio, ho la sensazione di commettere una pazzia, un gesto folle, irreparabile... Fuggendo con te all'estero, io recido tutti i legami col mio passato, i miei affetti, il mio mondo. Solo l'amore cieco e immenso che ci avvince può spingermi a questa decisione fatale. È il cuore che mi fa compiere questo passo, non la mente, il mio cuore gonfio d'amore infinito, sordo a qualsiasi appello della ragione. Se fosse la coscienza a guidarmi, mi richiamerebbe al mio dovere di madre e di moglie, mi griderebbe: non abbandonare la tua famiglia, non...». «Hai finito?» m'interruppe Pupa «si può sapere perché mi stai a leggere tutta questa patetica pappardella?». «È solo per farti capire» risposi sadico «che l'unico vero amore di Piperno è stata 'sta Mariù che gli scrive la lettera, la Mariù della foto con dedica. Tu sei stata solo un surrogato, l'assurdo, penoso tentativo che Piperno ha fatto per risuscitare in qualche modo, attraverso di te, lei, Mariù». «Ah, è questo che vuoi dimostrare?» sbottò Pupa in una risata falsa e sgangherata «cioè che Mino, mentre stava con me, s'illudeva di stare con quell'altra, che cioè, in poche parole, non mi amava, che cioè non mi ha mai amato per quella che ero... Tu sei matto in testa, caro mio. Invece Mino mi ha amato eccome, se vuoi saperlo, era stracotto di me. Altro che surrogato». «Sei proprio un'illusa» replicai con una risataccia, sfilai dalla busta la foto-ritratto. «Guarda bene, osserva i tratti, la bocca, gli occhi, il naso» ghignavo crudele «non ti accorgi quanto t'assomiglia? Non capisci che sei stata per lui solo un manichino, una marionetta? Che si è messo con te solo perché le ricordavi Mariù? Ti ha usato proprio come un bambolotto, il figlio di puttana. T'ha fatto vestire e truccare esattamente come lei, un vero e proprio travestimento di scena. Del resto, non faceva anche il regista teatrale? Sei tu che me l'hai detto... Per un po' si è illuso di tornare con la sua adorata Mariù, poi s'è accorto che l'artificio non funzionava, s'è stancato del giochetto, e un giorno ha deciso di farla finita e ti ha detto di brutto: togliti questo trucco, basta con questa mascherata. Te lo ricordi?». Stavo infierendo impietoso su Pupa. Volevo sputtanare Piperno, dimostrare che la loro storia d'amore era stata solo una farsa. Mi accorsi, a un certo punto, che tutto quel mio accanimento non dava nessun risultato, anzi risvegliava in lei certe strane curiosità, quasi che il passato di Piperno,
l'esistenza di questa misteriosa Mariù, improvvisamente l'avessero attratta, rapita, ammaliata. Incominciò a farmi un sacco di domande, la cretina, dapprima in modo sbadato, casuale, poi sempre più interessata, morbosamente coinvolta. «E com'è che avevano deciso di andare proprio a Tripoli?» mi chiese d'un tratto, intenta a osservare intensamente la foto di lei «non potevano restarsene in Italia? Hai scoperto perché proprio a Tripoli?». L'avevo scoperto ma non mi andava di rispondere. «Non lo so» masticai. Aveva preso a leggere pezzi di quell'ultima lettera. Li leggeva a fior di labbra. «D'altronde non poteva continuare così, fra sotterfugi, bugie, incontri fugaci, furtivi, sempre col patema d'animo. Bisognava che dessi un taglio a tutto questo, che scegliessi di troncare, o con il mio passato, la mia famiglia, oppure con te, amore...». Si fermò. Correva con gli occhi lungo le righe. Riprese. «E chissà che queste leggi razziali che ti costringono a rifugiarti a Tripoli, anche se assurde, spregevoli, non siano in fondo, Mino mio, un fatto della provvidenza, una circostanza voluta dal destino. Che sarebbe avvenuto di noi, altrimenti? Avremmo trascinato questa nostra relazione clandestina chissà per quanto ancora. Invece mi sono trovata di fronte ad una scelta netta, anche se dolorosa e lacerante, tu non sai quanto, tesoro mio: o rinunciare a te o fuggire con te...». Senza guardarmi, con gli occhi fissi sulla lettera, Pupa mi chiese: «Ma cosa c'entrano le leggi razziali?». Non mi andava di rispondere. «Piperno era ebreo» dissi alla fine, svogliato, guardando il soffitto. «Ebreo?» trasecolò Pupa, fissandomi attonita «ma come, non era italiano?». «Ebreo italiano». «Sembrava un italiano». «Sì, ma era ebreo. Piperno è un cognome ebreo». «E perché ha dovuto rifugiarsi a Tripoli?». «Da quello che ho capito, perché agli ebrei, con quelle leggi, toglievano il posto di lavoro negli uffici, nelle scuole. Piperno era professore, insegnava in un liceo qui, di Bologna». «Ma la Libia non era una colonia italiana? Non valevano anche là queste leggi?» mi obiettò. Me le ero lette tutte, quelle lettere. C'era tutta la storia d'amore tra Piperno e quella tale Mariù in quella corrispondenza epistolare, dall'inizio alla
fine, dal nascere timido, trepido di quel loro sentimento, fino alla scelta finale di lei, drammatica e disperata, di lasciare la famiglia e fuggire a Tripoli con l'uomo della sua vita. «A Tripoli c'era Balbo» masticai laconico. «Balbo?». «Ma sì, Balbo, il governatore della Libia. Lui non li perseguitava gli ebrei, era loro amico, pare». Mi alzai dal letto e andai a sedermi in una poltroncina a fiori imbottita, sdrucita e bitorzoluta. Scomodissima. Perché andai a sedermi su quella scomoda poltroncina, non lo sapevo neanche io. Forse per rompere con tutte quelle domande di Pupa, quelle risposte svogliate che mi toccava darle. Forse anche perché ero stato folgorato da un'intuizione. Spostando le chiappe dal letto alla poltroncina, volevo dare il giusto peso a quella intuizione, sottolineare quanto era acuta e perspicace. «Per me, sai di chi era il tailleur che Piperno ti ha fatto indossare, la camicetta di raso, quelle scarpette antiquate?» dissi con aria furba. «Di sua sorella» rispose Pupa incuriosita, frastornata «stavano in casa sua, in un armadio». «Erano di Mariù, invece» le rivelai col solito sogghigno «lei qualche volta è venuta a Bologna, negli ultimi tempi. C'è scritto nelle lettere. Doveva, tra l'altro, pubblicare un suo romanzo: "La maestra di campagna"». Indicai sul letto lo scartafaccio. «Eccolo là. Doveva essere pubblicato dalla casa editrice di cui Piperno era consulente letterario». Pupa prese il manoscritto. «Mariù D'Amico» lesse sul frontespizio. «"La maestra di campagna"... romanzo...». «Veniva a Bologna, si tratteneva qualche giorno, lasciava i suoi abiti, i tailleur» ripresi a dire sarcastico. Da dove mi usciva tutto quel sarcasmo, proprio non lo sapevo. Sarcasmo inutile, tra l'altro, sprecato. A Pupa non faceva nessun effetto tutto quel mio sarcasmo. Non la sfiorava nemmeno. Continuò a far domande, a riferire frasi, brani, spulciandoli fra le varie lettere, leggendo i dati biografici in calce al romanzo - stranamente, in quelle note non si faceva il minimo cenno al fatto che fosse sposata e con prole. Scoprimmo, invece, in quelle note, che questa tale Mariù D'Amico era di Bucchianico, un paese della provincia di Chieti, e che il suo romanzo "La maestra di campagna", era basato sulla sua esperienza appunto di maestra. Diplomata alle magistrali, la signorina D'amico cominciò a far supplenze nelle scuole elementari sparse tra le montagne là attorno: posti dove le aule scolastiche erano ricavate da qualche vecchia casa rurale, do-
ve le cinque classi venivano raggruppate in una sola e gli scolari erano pochissimi, tutti figli di contadini che abitavano nelle masserie, le contrade della zona. «Tu pensa la coincidenza» commentava Pupa ogni volta che veniva a scoprire qualche particolare curioso «è nata a Bucchianico, in provincia di Chieti. Un anno, pensa, è andata persino a insegnare a Ripabianca... Sai dov'è Ripabianca?». «No, dove?». «Sotto Colle Zingaro. È una contrada là sotto». Un altro particolare che la sorprese molto, fu che Piperno aveva già acquistato i biglietti dell'aereo. C'era un volo da Ostia, diretto a Tripoli, l'aereo era un idrovolante. «Cos'è un idrovolante?» mi chiese. «Un aereo che invece di atterrare ammara» risposi. «Dovessi crederti cos'è». Dopo avere sviscerato la storia, i rapporti fra Piperno e Mariù D'amico, così come si potevano ricavare da quella quindicina di lettere ardenti e appassionate che la maestra di campagna aveva scritto al professore di lettere, Pupa si mise finalmente calma. Pareva come guarita da quella forma di cupo e astioso mutismo in cui si era chiusa dopo il trauma per l'improvvisa morte di Piperno. Come per reazione, anzi, le si scatenò una strana euforia, una smania sfrenata, voleva divertirsi, fare pazzie. «Stasera voglio uscire, andare in qualche locale notturno, qualche night club. Ho voglia di ballare, fare cose folli» disse a un tratto accendendosi ansiosamente una sigaretta. «Stasera?!» domandai stupito. «Sì, stasera. Adesso, subito. Dai, preparati». «Ma sono quasi le undici». «E be'? La vita comincia a mezzanotte in questi locali». «Quali locali?». «Ce n'è tanti. L'Esedra, per esempio». «Che roba è?». Pupa si era tolta la vestaglia, i calzerotti, era rimasta in sottoveste e a piedi nudi. Sembrava un'invasata, tale era la frenesia che l'aveva presa di uscire, andare a divertirsi, a ballare in questo cavolo di locale chiamato Esedra. «Sì, andiamo all'Esedra. Mi piace quel night, c'è un'atmosfera equivoca, peccaminosa, ci sono pure le entraîneuses...». «E dove sta' sto posto?». «Fuori porta Mazzini, ci andiamo in taxi. Su, fa svelto» continuava a
dirmi, anche se era lei che doveva prepararsi. Io ero già bell'e pronto: avevo solo quel vestito... Staccò dall'armadio un abitino nero, lucido, di taffettà. «Ti piace?» mi chiese aprendoselo davanti, facendo le prove di fronte allo specchio dell'armadio. «Ma è da sera». «Mezza sera». Era impazzita. Dopo mezz'ora era già pronta: le spalle nude, la gonna gonfia, a campana, come la corolla di un fiore, sostenuta, sotto, da una sottoveste infustita. Si era messa le calze di nylon, naturalmente, e due scarpine di vernice nera con certi tacchi a spillo che la facevano più alta di almeno dieci centimetri. Si era fatta anche un trucco pesante, da ballerina di avanspettacolo: con quel trucco, quel vestito, la testa biondo-platino, rapata alla tifo, pareva proprio una vamp. Lasciò un biglietto all'amica in cui le diceva che eravamo andati a ballare, che saremmo tornati tardi, di non preoccuparsi. Infilò un pellicciotto di castorino e uscimmo nella notte fredda e nebbiosa. Prendemmo il taxi a Piazza Aldrovandi, il locale si trovava in periferia, dalle parti di San Lazzaro. 18 Mi sfilai il cappotto, Pupa il castorino. Li consegnammo alla guardarobiera. Lì fuori, nella hall del dancing, la musica ci arrivava alle orecchie con un'eco sorda, attutita, una specie di tonfo cadenzato. Dentro, invece, varcata la porta con i battenti a molla, imbottiti, era l'inferno. Fummo investiti, travolti, assordati dal fragore e dal ritmo di una scatenata musica latino-americana. A suonarla, era un'orchestrina di tipi atticciati, le chiome impomatate, i baffi nerissimi e dei gran sorrisi Durban's indelebilmente stampati in faccia: si chiamavano i "Los Caballeros" e vestivano camice a sbuffo, gilet sgargianti e stivaletti alla gaucho. Parevano dei tarantolati per come si dimenavano frenetici scuotendo a tutta forza le maracas, picchiando sui tamburi: rumba, samba, conga, mambo a tutto spiano. C'era un'atmosfera elettrica in quel dannato dancing, metteva il pepe al culo. La sala era tutta immersa in una suggestiva penombra, solo quegli scalmanati dei "Los Caballeros" stavano in piena luce, piazzati sulla pedana, coi riflettori addosso che sparavano un caleidoscopio di luci cangianti. Andammo a sederci in fondo al locale, a uno dei pochi tavolini rimasti
liberi. Subito si presentò una bionda fasciata da un abito da sera, la chioma che le copriva un occhio e metà faccia, scendendole fino alle spalle, lunga, ondulata, alla Veronica Lake. «Buonasera, benvenuti all'Esedra» disse, la voce roca, l'aria fatale. Si sedette con noi, accavallò le gambe «champagne o whisky?» ci chiese. «Per me un pernaud con ghiaccio e molto seltz» ordinò Pupa con grande nonchalance. «Io whisky» balbettai. L'entraîneuse fece cenno a un cameriere. Intanto quel fracasso sincopato, quello strepito di ritmi sudamericani, di colpo cessò. Si levò dall'orchestrina la voce impostata del solista: «Besame, besame mucho...» prese a gorgheggiare. Le luci si abbassarono e le coppie si allacciarono romanticamente, si mossero, scivolarono lungo la pista sull'onda della struggente e appassionata melodia. Si avvicinò un tipo alto, elegante, con una stramaledetta aria da playboy, da incallito frequentatore di night. «Posso avere l'onore?» sussurrò a Pupa con un mezzo inchino. Pensavo che lei declinasse l'invito. Invece accettò senza pensarci due volte: si alzò in piedi di scatto e si diresse insieme al tipo verso la pista. Li seguii con lo sguardo, lui l'afferrò alla vita con un gesto maschio, quasi piegandola in due, sollevandola quasi da terra, e si lanciò nel vortice della danza trascinandola per la sala stretta a sé, guancia a guancia, al ritmo di un tango maledetto, la Cumparsita. Ero senza parole, annichilito, in quel fottutissimo night, in quel luogo di lussuria e perdizione, accadevano cose dell'altro mondo. Credevo di sognare, di vivere una situazione onirica, allucinatoria. Davvero. Girandomi, mi accorsi che anche l'entraineuse se n'era andata. Mi avevano piantato tutti. Mi avevano lasciato solo come un cane: era una congiura, porco Giuda. In compenso arrivò il cameriere col whisky e il pernaud, li posò sul tavolino e sparì, si dileguò anche lui come un fantasma. Agguantai nervoso il bicchiere e buttai giù una gran sorsata, il drink mi colò giù per la gola, fino al fondo dello stomaco, come un fiotto di lava. Schioccai la lingua. Mi dette una bella sferzata, quel sorso di whisky. Intanto era tornata Veronica Lake. Non le detti neanche il tempo di sedersi. «Balla?» le chiesi posando il bicchiere, alzandomi. Lei mi sogguardò, mi sorrise, poi, senza una parola, mi prese per mano e mi guidò tra i tavolini fino alla pista. Qui, mi sorrise di nuovo e allargò le braccia sollevandole
leggermente, in modo che potessi cingerla alla vita. Il tutto senza una parola. Ballava divinamente, la bionda, era leggera come una piuma. Stavano sciorinando il repertorio dei lenti. Facemmo l'intero giro della pista sulle note dolcissime e stregate di Amado mio - la cantava Rita Hayworth in "Gilda", quella canzone. Ripensai, chissà perché, a Torricella, mi sembrava lontanissima, irreale, come un sogno confuso, un ricordo evanescente. Rividi la loggetta da cui Pupa, da piccola, guardava i bambini fare il girotondo, cantare la filastrocca: Oh, quante belle figlie, Madama Doré, oh, quante belle figlie. Da lassù, si affacciava anche sua madre. Me la figurai con la lunga vestaglia bianca, i capelli sciolti sulle spalle, continuavo a immaginarla con il viso di Rita Hayworth Amado mio, stanotte o mai, io t'amerò, tu m'amerai, ricamava con la sua voce da tenorino, il solista dei "Los Caballeros": era il leit motiv di "Gilda", lo cantava la Hayworth nel film. Torricella, la loggetta, la madre di Pupa - la fantomatica zia Maria che aveva così morbosamente attirato la mia curiosità, per quell'alone di mistero che l'avvolgeva, per quella strana macchia che le copriva il viso in quelle foto di tanti anni fa. Tutto era terribilmente lontano, in quel momento, irreale, senza senso. Riuscii finalmente a incrociare Pupa e il suo cavaliere. Mi accostai a loro, facendomi largo tra le coppie che affollavano la rotonda, volevo che Pupa mi vedesse ballare con Veronica Lake, stretto a lei, cheek to cheek. Nel mezzo di una giravolta, i nostri sguardi si incontrarono: lei stava abbarbicata al playboy, la guancia incollata alla sua. Pensai che avrebbe provato un moto di sorpresa, magari una punta di gelosia, nel vedermi avviluppato alla bionda: inarcò soltanto un sopracciglio e increspò le labbra in un sorrisetto compiaciuto... Ah, bravo, vedo che anche tu ti dai da fare, mi fa piacere, sembrò dire con quel sorrisetto. Mi strizzò pure l'occhio, la scema, una strizzatina d'intesa, di complimentoso consenso. Non era gelosa di me neanche un po', non mi filava proprio da quel lato. Erano quasi le quattro di notte quando il corteggiatore di Pupa ci riaccompagnò a casa con la sua Giulietta spider - era un bolide tale, quell'Alfa Romeo, che quando partì mi mancò il fiato, mi sembrò quasi di decollare, mi avevano relegato dietro, nel sedile di fortuna, un angolo angusto, claustrofobico. «A proposito, scrivimi il tuo numero di telefono» fece a un tratto il tipo, rivolto a Pupa, mentre sfrecciavamo rombando lungo via Emilia Levante
«nel cruscotto c'è carta e biro». Pupa eseguì con gesti esagerati, teatrali «Tre, uno, cinque, nove, zero» compitò con voce enfatica, mentre scriveva: era brilla. Ci sbarcò in Piazza Aldrovandi, il playboy. Prima di scendere, mi toccò anche assistere alla scena disgustosa di lui che la baciava. La Giulietta si allontanò verso il fondo della piazza in un baleno, lacerando la notte col ruggito metallico del suo motore fuoriserie. «Be', che fai lì impalata?» chiesi a Pupa: si era fermata in prossimità di un portone, come se dovesse entrarci. «Gli ho detto che abitavo qui, non volevo che sapesse dove sto di casa» mi spiegò incamminandosi a passo rapido. I suoi tacchi schioccavano sul selciato: la città era buia, deserta, paurosamente silenziosa. «E quel numero di telefono che gli hai dato?» le chiesi tallonandola lungo via Petroni. «Me lo sono inventato. In casa mica ce l'abbiamo il telefono». «Lo conoscevi?» la incalzai. «Chi?». «Quel tipo della Giulietta spider. L'avevi mai visto prima?». «No. Era un discreto fusto, però». «Ah, brava! Ti metti col primo venuto, così» ghignai velenoso «arriva un fusto, un cretino qualsiasi che ti invita a ballare, e tu ci stai, ti fai stringere, baciare, e ci vai pure a letto, magari». Presi a tartassarla, amaro, sarcastico. Lei non rispondeva. «Che rompipalle che sei» faceva ogni tanto «uffa, la pianti?». Continuai a punzecchiarla, a offenderla. Per tutto il tratto di strada, fino al portone, in ascensore, e poi dentro, in casa, non feci che strapazzarla, arrivai persino a darle della ninfomane. «Sono fatti miei, faccio quello che mi pare» si difendeva «ma sentilo. Il cuginetto moralista!». La inseguii fino in bagno, non la mollai un momento. «Quanti uomini ti sei fatta finora?» chiedevo mentre lei si struccava davanti allo specchio, si lavava i denti. «Devo fare pipì, vuoi uscire, per favore?» mi fece, sospingendomi fuori dalla porta, chiudendosi a chiave. «Dieci? Venti? Cento? Da quanti ti sei fatta sbattere?» le ringhiavo da dietro la porta. Uscì dal bagno, la seguii in camera da letto. «Adesso vorrei andare a dormire» guaì esasperata, battendo forte il tacco
sul pavimento. «Anche se mi fai schifo, ho voglia di scoparti» le dissi torvo. Io pure ero mezzo sbronzo, oltre che invelenito, disgustato. L'idea che Pupa fosse una mezza ninfetta, una che collezionava maschi di tutte le specie, da Mimmo Masciarelli a Piperno, fino a quest'ultimo che aveva rimorchiato all'Esedra - per parlare solo di quelli che conoscevo - mi straziava, ma allo stesso tempo mi eccitava. Il pensiero torbido e insano che Pupa fosse una ninfomane mi arrapava terribilmente. Si era sfilata il vestito di taffettà e, in sottoveste, seduta sulla sponda del letto, si sganciava le giarrettiere. Mi avventai su di lei e la rovesciai sul grande lettone matrimoniale, lunga distesa. Cavò uno strillo acutissimo. «Vai coi cani e coi porci, solo con me fai la verginella, ah?!» schiumavo ficcandole le mani fra le cosce, frugando con le dita sotto l'orlo delle mutandine. «Non è così, ti prego» si difese, improvvisamente lagnosa, arrendevole «è che tu sei pulito, innocente... perché vuoi metterti con una come me, con una sgualdrina?» balbettava fra ansiti e singhiozzi «perché vuoi sporcarti?». «Perché sì!» ringhiai sfilandole di forza lo slip, e poi slacciandomi affannosamente i calzoni. «Sono malata, Renzo. Non te ne sei accorto?» gemeva, farfugliava «se un uomo mi fa la corte, non so resistere, è più forte di me... sono malata, viziosa, depravata... a ventun'anni son già andata a letto con un sacco di gente... non ti sporcare con me, Renzo, non corromperti anche tu» rantolava. Le tappai la bocca con un bacio furioso, quasi un morso. Mi feci strada tra le sue cosce ormai spalancate, trovai subito la fessura e ci entrai con un colpo solo, dritto, sicuro, come una pugnalata. Era la prima volta che lo infilavo così, al primo colpo, senza dover prendere la mira, senza tutti quei goffi, affannosi tentativi. Mi sentivo come un soldato yankee che espugna Fort Apache, irrompe a cavallo nel fortino e trionfante ci pianta in cima la bandiera. Poi fu tutto un deliquio trasognato, delirante, un andare su e giù dolce e stordito, fra gemiti, pigolii e sospiri. Ci scambiavamo paroline sceme e sdolcinate, e intanto andavamo su e giù, su e giù, pregustando il gran finale. Ci addormentammo di sasso. Era quasi l'alba, ormai, quando sprofondammo sfiniti in quella specie di letargo.
Dalie persiane filtravano gli spiragli polverosi del giorno. Allungai un braccio, brancicai con la mano, accanto a me il letto era vuoto. Pupa non c'era. Guardai l'orologio, le tre e mezza - del pomeriggio, ovviamente. Tornai a rincantucciarmi tra le coperte e ripresi a dormicchiare beato e soddisfatto. Non desideravo niente, in quel momento, non chiedevo altro alla vita. Ero pago di aver fatto l'amore completo con Pupa, finalmente, e mi crogiolavo ripensando a quei momenti. Godevo a starmene là, accucciato nel tepore del letto, a dormicchiare, a crogiolarmi in quei pensieri. Mezz'ora dopo entrò Pupa. Felpata e silenziosa, venne a posare qualcosa sul comodino. Si sedette sulla sponda del letto e restò per un po' lì, silenziosa. «Renzo, dormi?» bisbigliò. Stavo uscendo dal dormiveglia «Cosa c'è?» biascicai. «Sono le quattro del pomeriggio. Ti ho portato la colazione». Mi sollevai sul gomito. La intravidi nella penombra, già tutta vestita come se dovesse uscire, sul comodino aveva posato un piatto con un bicchiere di latte, un panino e un'arancia. «Posso accendere la luce?» chiese. Senza aspettare risposta schiacciò la peretta dell'abat-jour «ho deciso di tornare a Torricella» disse. Avevo preso a masticare il panino con la mortadella, buttavo giù sorsate tiepide di latte. «Come mai?» domandai con la bocca piena. «Che faccio qua?» rispose vagando per la stanza con uno sguardo perso «tra venti giorni è Natale... tu che fai?». «Che vuoi che faccia? Vengo anch'io. A Natale arrivano i miei da Tripoli». «Allora partiamo?» chiese, come se non sapesse decidersi e aspettasse da me una conferma per vincere le sue incertezze, i suoi dubbi. «Partiamo» confermai. Partire, restare, per me era indifferente. Volevo solo stare con lei, in quel momento. A Bologna, Torricella o Canicattì, per me era lo stesso. «Dai allora, preparati» mi disse alzandosi e andando ad aprire le persiane: la stanza si allagò di una luce scialba, invernale. «A che ora è il treno?». «Non lo so. È lo stesso. Intanto andiamo alla stazione, il primo treno che va a Pescara, lo prendiamo». «Non hai un orario ferroviario?» chiesi sbucciando l'arancia. «Ce l'ha Pinuccia, credo. Solo che lei adesso non c'è, è andata all'Uni-
versità». Pigliammo un tram in via San Vitale, poi un altro in via Indipendenza che andava dritto alla stazione. Pupa mi aveva pregato di portarle il bagaglio: una valigia che pesava almeno un quintale - era un destino, cribbio, che dovessi sempre accollarmi 'sta rogna di portare le valigie degli altri, tutte pesantissime, tra parentesi. «E che ci hai messo dentro, sassi?» le chiesi mentre ci avviavamo verso la fermata del tram. «Ci sono i testi che devo consultare per la tesi» rispose camminando spedita, col suo passo spavaldo: sia che fosse triste, allegra, nervosa, o scoglionata, Pupa aveva sempre quella falcata, quando camminava, quell'incedere da mannequin, dritta, il naso al vento, l'andatura elastica e decisa. Era un piacere vederla camminare, pareva sempre che sfilasse in passerella. Il primo treno per Pescara partiva nientemeno che alle 20.17: era il Milano-Lecce e viaggiava di notte, aveva le carrozze-letto. Nervosa, impaziente, Pupa volle prendere un locale che andava a Rimini. «Intanto facciamo un pezzo di strada. Chissà che a Rimini non si trovi la coincidenza con un altro locale che va ad Ancona, o magari a Pescara» disse mentre cercavamo un posto a sedere, facendoci largo a gomitate nella ressa di pendolari, soprattutto studenti, che avevano preso d'assalto la terza classe. Si avventavano irruenti e schiamazzanti per occupare quei dannati sedili di legno: una scena selvaggia. Arrivammo a Rimini alle sette. Fu un viaggio d'inferno in mezzo a quell'orda di giovinastri vocianti. Il vagone era così saturo del fumo delle loro Alfa puzzolenti, del tanfo acre che in genere i ragazzi si portano addosso all'uscita di scuola, che per poco crepavamo gasati. Lasciammo la valigia di Pupa al deposito bagagli e ce ne andammo a spasso per la città, in attesa del treno-letto Milano-Lecce che chissà quando sarebbe passato per Rimini. Per Ancona o Pescara, naturalmente non trovammo nessun locale. «Ma scusa» obiettai, «invece di andarcene in giro come due zingari, non potevamo informarci meglio degli orari e nel frattempo starcene a Bologna, a casa, al caldo, tranquilli?». «Pensavo ci fosse un locale per Ancona o Pescara» si scusò Pupa. «E da Pescara, poi, come ci saremmo arrivati a Torricella?». «È vero» ammise pensierosa «la corriera per Torricella c'è solo a mezzogiorno». «E arriva a Torricella verso le sei di sera... ma porca puttana!» sbottai «ti rendi conto in che genere pazzesco di avventura ci siamo imbarcati? Siamo usciti di casa alle quattro del pomeriggio e, se tutto va bene, arriviamo a
Torricella alle sei di sera di domani. Più di ventiquattr'ore di viaggio, Dio buono!» berciavo scandalizzato «ti rendi conto? Un'intera giornata. Facevamo il giro del mondo in aereo». «Magari» sospirò Pupa. Stavamo percorrendo il lungomare deserto, illuminato da fiochi lampioni in stile Liberty. «Vedi, quello è il Grand Hotel» mi fece Pupa indicandomi un palazzo imponente, anche quello in stile Liberty, circondato da un grande parco, le finestre, le vetrate dei saloni tutte illuminate. «Ah» commentai distratto, ancora scocciato del contrattempo. Arrivammo sul molo. Il mare era grosso, nel buio, sentivamo le onde scaraventarsi contro la banchina di pietra e schiaffeggiarla con fragore. In quell'oscurità, si vedeva solo la spuma bianca che schizzava in alto. «Se venisse un signore e ti dicesse: ti do diecimila lire se ti fai il bagno, tu che faresti?» disse Pupa seria, compunta. «Che farei?...» esitai. Quella battuta l'avevo già sentita da qualche parte. «Scemo. Lo diceva uno degli amici del film "I Vitelloni". L'hai visto?». «Giusto» ridacchiai «ganza, quella battuta. E quell'altra, quando in macchina incrociano gli operai che stanno ad asfaltare la strada e Sordi si sporge dal tettuccio apribile, gli fa un gestaccio e gli dice: Lavoratoriii!... Prrrr!». Rifeci la mossa e la pernacchia, mi aveva fatto sbellicare dalle risate, quella scena. Che film, "I vitelloni"! Ero andato a rivederlo tre o quattro volte, tanto mi era piaciuto. «Hai presente quel personaggio, lo scemo che si eccita e fa tutti quegli strani versi davanti alla statua dorata dell'angelo?» mi chiese Pupa cercando di ricordarsi «mi sfugge il nome, ora». «Giudizio». «No, dicevo l'attore. Come si chiama?». «Silvio Bagolin». Sapevo tutto a memoria di quel film. Di Alberto Sordi, mi ricordavo tutte le battute. Andavo pazzo per Alberto Sordi. «Sai» mi fece ad un tratto Pupa, seria, assorta «avevo una zia scema come Giudizio», mi prese sottobraccio, mi si strinse contro, ebbi un brivido di piacere. «E allora?». «Si chiamava zia Manetta. È morta tanti anni fa, prima della guerra, io ero ancora bambina. Certe volte mi viene paura di diventare pazza o demente come lei, come zia Manetta. Da un po' di tempo mi sono fissata che c'è una tara in famiglia».
«Una tara? Ma che dici?» ridacchiai. «Mi ricordo, la vedevo seduta vicino alla finestra, in cucina» prese a raccontare «stava tutto il giorno seduta su una seggioletta e si passava di continuo un pettine fra i capelli. Io mi affacciavo per vederla, ero attratta e spaventata nello stesso tempo. Aveva, mi ricordo, lo sguardo fisso, ottuso, come quello di una scimmia, e si passava e ripassava quel pettine in mezzo ai capelli, un gesto sempre uguale, ossessivo. Poi, ogni tanto, scoppiava di colpo in una risata. Faceva accapponare la pelle, quella risata. A quel punto, scappavo in preda al terrore. Zia Manetta, sorella di papà. Poveraccia!». Pupa si strinse ancora di più contro di me e girò la faccia, mi guardò l'orecchio. «Dovessi fare la sua fine, Renzo?». «Ma dai!» risi sgangherato. Mi aveva raggelato quel racconto. Mi ricordai del ritratto di questa zia Manetta, stava appeso nella mia stanza a Torricella. Non pareva una pazza, una demente, o quello che era, in quel ritratto. Anche nell'immaginetta funebre, vista per caso sfogliando con mamma l'album delle fotografie, non dava l'idea di un'alienata mentale, aveva piuttosto un cipiglio da donna di paese saggia e contegnosa. Invece era una mentecatta, a stare ai ricordi di Pupa, a sentire la raggelante descrizione che ne aveva fatto. 19 Eravamo tornati a Torricella da una settimana appena e già la vita aveva ripreso a scorrere nel modo pigro e ozioso di sempre. Come se niente fosse accaduto, come se Piperno non fosse mai venuto da quelle parti e nessuna storia d'amore ci fosse stata tra lui e Pupa - anche la sua morte assurda e improvvisa era stata dimenticata. Scoprii, in quei giorni, che Torricella era un luogo stregato. Tutto pareva immutabile, in quel paese, ogni cosa continuava e si ripeteva sempre nello stesso modo, con le stesse stracche cadenze, la stessa stucchevole monotonia. Tutti quegli avvenimenti, in sé eccezionali, persino sconvolgenti, dopo appena una settimana sembravano già remoti, dimenticati, cancellati, come un temporale estivo che scoppia violento e improvviso e, neanche dieci minuti dopo, è già finito, passato. Anch'io pian piano ricominciai a sprofondare in una specie di inerzia, di oblio accidioso. Di giorno, in genere, me ne andavo a spasso con Pupa, facevamo le solite lunghissime camminate. La sera, invece, la trascorrevamo in camera sua ascoltando dischi, oppure impegnati in interminabili, estenuanti partite a domino, a scala quaranta, fra sbadigli e battute sceme.
Tutto come prima, tutto come se niente fosse accaduto. Intanto, l'inverno incalzava gelido e le giornate si accorciavano paurosamente. I pochi paesani che vedevi passare per il corso, andavano in giro tutti imbacuccati, rattrappiti dal freddo polare. Dopo le otto, il paese era deserto, restava soltanto la nebbia che allagava ruve, slarghi, piazzette. In quel biancore sporco e uniforme, spuntavano i lampioni del corso, tristi e solitari, con il loro alone di luce spettrale. «Che tristezza, Torricella d'inverno» mormorò Pupa col naso incollato ai vetri della finestra. Eravamo nel salone. Mi avvicinai a lei, restai anch'io a contemplare via dei Fossi, lo spiazzo lì sotto, le case vecchie che si inerpicavano oltre le Terrate, la facciata della chiesa, la nebbia che velava ogni cosa. Mi ero talmente impigrito, quei giorni, che persino la cotta che avevo per Pupa si era smorzata, come sopita. Ora, standole dietro, vicino, sentendo il suo Chanel n. 5 solleticarmi le narici, posando lo sguardo sui suoi capelli - erano ricresciuti, nel frattempo, biondi sopra, castani alla radice -, sul suo collo lungo e morbido, fui preso da un improvviso, violento desiderio di lei, come una fiammata del camino quando ci butti dentro una fascina secca di ginestre. L'abbrancai da dietro, pigliai a sbaciucchiarla sulla nuca. «Sei pazzo?» protestò girandosi. Invece di respingermi, si protese con la bocca e spinse il bacino contro il mio uccello già dritto e tosto, sotto i calzoni, come un salammo soppressalo. «Dai, no» farfugliava con la voce ansimante «c'è papà di là, nello studio... c'è Rachele che gira per casa». «Cristo, ma non va mai a letto 'sta gente?» mugolai «andiamo su da te, in camera» suggerii, ormai travolto dai sensi, incapace di frenarmi: le avevo alzato la gonna, le infilavo le mani nelle mutande. Avevamo appena fatto l'amore. Ce ne stavamo lì, stravaccati sul letto, dolcemente spossati, ad ascoltare Rock araund the clock, una canzone appena uscita, un ritmo nuovo, fantastico, indiavolato, quando Pupa si alzò di scatto, afferrò una sedia, l'accostò all'armadio, ci montò sopra e prese faticosamente a tirare giù dalla cima del mobile una grossa valigia di fibra. «Dammi una mano, per favore, pesa un quintale» mi implorò a un tratto. La valigia le stava piombando addosso, lei cercava disperatamente di trattenerla. Mi alzai, mi avvicinai per darle una mano, peccato, mi divertiva vederla armeggiare in quel modo, magari pure cadere giù dalla sedia con tutta la valigia. L'aiutai a depositarla a terra, sul tappeto peloso: era un valigione vec-
chio, ammaccato, polveroso, pieno di graffi e spellature. «Era in cantina, l'ho portata su ieri sera» disse Pupa facendo scattare le serrature, aprendola «una sgobbata che non ti dico, e ho dovuto fare tutto di nascosto... l'ho messa là, in cima all'armadio, sperando che quella befana rompiscatole di Rachele non la vedesse». «Perché non deve vederla?». «La strega non vuole che si vada in cantina, si frughi tra le vecchie cose messe da parte» mi spiegò cominciando a rovistare tra libri, giornaletti, giocattoli e cianfrusaglie varie. «Mi sono fatta dare da Carmela la chiave della cantina e ieri sera, quatton quattoni, sono andata a trafugarla... Ci stanno chiusi, conservati, tutti i miei libri, i miei giocattoli di quand'ero bambina, in questa valigia... Guarda, questo è tutto quello che resta della mia infanzia» disse con un sorriso un po' triste, un tono di rimpianto nella voce. Prese un abbecedario di pezza e me lo mostrò. «Tu non sai quante volte l'ho guardato e riguardato, questo libro di stoffa. Fino a consumarlo... A, Asino... B, Bocca» leggeva girando le pagine di tessuto stampato, ormai stinte, sdrucite. Si vedeva una A grande, in maiuscolo, e un altra vicino, più piccola, in minuscolo: sotto, la figura di un asinelio. «Perché t'è venuta voglia di riesumare le cose della tua infanzia?» le chiesi. Pupa continuò a girare le pagine, era arrivata alla lettera P, Pipa: si vedeva una pipa con la cannuccia ricurva. «Non lo so. Quando leggevo questo libro» rispose in un sussurro misterioso, «mia madre era ancora a Torricella, in questa casa. Io ancora non andavo a scuola». Stava con le gambe incrociate, accoccolata sul tappeto, la valigia aperta davanti, di colpo le mani le caddero sulle ginocchia insieme al libro di pezza. «Ho cercato dappertutto in cantina, l'altra sera» disse atona, lo sguardo perso «non ho trovato niente di mia madre. Non so, qualche vecchio documento, una foto, un oggetto. Niente. Non c'è traccia di lei, né in cantina né in casa». «Non c'è traccia di lei» ripetei, anch'io sopraffatto, contagiato da quel senso di sgomento, di smarrita perplessità che doveva aver preso Pupa. Era un fatto davvero strano, inspiegabile, che di sua madre non fosse rimasta traccia in quella casa, che nessuno ne parlasse, che tutti, quando si chiedeva qualcosa di lei, rispondessero sempre in modo vago, ambiguo, evasivo.
In quel caos di oggetti, i più disparati, che riempivano la valigia, Pupa pescò una bamboletta di celluloide: era nuda, tutta ammaccata, senza una gamba e coi capelli ridotti a pochi sfilacci. La vista del macabro reperto sembrò suscitarle un'ondata di ricordi, di sensazioni, legati forse a un periodo felice della sua infanzia: gli occhi le si illuminarono e le labbra le si schiusero in un mezzo sorriso bambinesco. «Ofelia» mormorò contemplando estasiata l'orrenda bamboletta dal cranio quasi calvo, mutilata di un arto «quanto ci ho giocato con lei... quanti bagnetti le ho fatto». «Forse perciò si è pelata in quel modo» commentai cinico «e com'è che ha questo nome strambo? Chi gliel'ha messo?... Ofelia». «Credo mamma» farfugliò trasognata. «Allora ti ricordi qualcosa di lei?». Pupa aggrottò le sopracciglia, come se un pensiero oscuro avesse preso a ronzarle a vuoto nella testa, tipo quei mosconi che insistono caparbi a uscire da una stanza e ogni volta vanno a picchiare tremende capocciate contro i vetri della finestra. «No, di mamma non ricordo niente, te l'ho già detto» rispose alla fine «ma penso sia stata lei a battezzarla Ofelia, a una bambina non verrebbe certo in mente un nome del genere». «Ma tu hai mai provato a parlare di lei a tuo padre?» domandai. Quando una cosa non mi quadrava, diventavo noioso e insistente fino all'esasperazione. «Possibile che zio Armandino non ti abbia mai parlato di tua madre, del suo ricovero, della sua malattia?». Non rispose, continuava a rigirare tra le mani Ofelia, a sistemarle quei pochi stoppacci di capelli che le erano rimasti in testa. «Quello che più mi lascia esterrefatto» riattaccai, «è che prima di adesso tu non abbia mai sentito il bisogno di sapere dove sta, d'informarti della sua salute, dei motivi del suo ricovero. Non hai mai avuto neppure la curiosità di vederla, magari solo in fotografia... Perché, per esempio, non hai mai chiesto a tuo padre di accompagnarti a farle visita? Ti rendi conto, Pupa, che tutto questo è assurdo, incomprensibile?». Più che turbarla - mi accorsi - le mie domande la infastidivano. «Non hai capito niente, allora» sbottò «per me mia madre è come se fosse morta». «Che vuoi dire?» replicai polemico, infervorato «anche per una madre morta si ha curiosità, si vuole sapere com'era fatta, che tipo era». «Papà non ha mai voluto che se ne parlasse» ammise Pupa gettando Ofe-
lia nella valigia, chiudendo il coperchio, alzandosi. Si accese una sigaretta. «Di mia madre non si poteva parlare in casa, era tabù». Le parole le uscivano a fatica, come cavate a forza, anche il pensiero si dipanava come una matassa dura da districare. «Mi ricordo, le volte che chiedevo di mia madre a papà, vedevo subito che si turbava. Scuoteva la testa e mi diceva: Povera mamma... Oppure: Tua madre è come se fosse morta, piccina mia. E meglio che non ci pensi... Ecco, queste erano le sue risposte... E così zia Angiolina e zia Coletta: Tua mamma è tanto malata, mi rispondevano. Adesso va a giocare, non ci pensare... Queste erano le spiegazioni... A un certo punto ho smesso davvero di pensarci. Dall'età di dieci anni, senza accorgermene, ho cominciato pian piano ad abituarmi all'idea di essere orfana, di non avere una madre, di non averla mai avuta. E la cosa, ti dirò, non mi faceva neanche soffrire tanto. A un certo punto non ho più sentito il bisogno, come da piccola, di sapere dov'era, se era morta o cosa... Sai, da bambini vengono certi complessi... Le amichette ti chiedono: Ma tu, la mamma non ce l'hai?... Mi sentivo infelice e derelitta, ogni volta che dovevo rispondere. Cominciai a dire che era morta, era più semplice, meno imbarazzante. Preferivo spacciarmi per una povera orfanella anziché star lì sempre a spiegare che era in sanatorio, malata o chissà che». Calò un gran silenzio. Pupa fece altre due boccate e schiacciò il mozzicone nel portacenere. «Capisci?» concluse distratta, pensierosa. Si sdraiò lunga distesa sul letto, fece uno sbadiglio. Io arzigogolavo sprofondato nella seggiola a dondolo. Andavo su e giù fissando il soffitto, rimuginando. «E com'è che ti è venuta questa smania improvvisa? Da dove ti è nata?» chiesi. La mia voce suonò irreale in quel silenzio di tomba. «A proposito di mia madre, dici?... Non lo so. Forse questi ultimi fatti, la storia con Mino». Pigliò a stuzzicarsi le unghie: se le rimirava, le portava alla bocca e le mordicchiava. «Anche tu, in un certo senso». «In che senso?». «Non saprei. Anche tu, però, me l'hai abbastanza scombussolata, la vita. Non te ne faccio una colpa. Anzi». «Meno male». «Tutti questi fatti mi hanno dato un bello scossone. È come se all'improvviso mi fossi trovata a una svolta della mia esistenza e dovessi farne il bilancio, capire chi sono, cosa voglio, perché sono fatta in un certo modo... Anche dov'è mia madre, adesso voglio sapere, porca miseria!... Chi è, dove
si trova. E quanto e come ha influito sulla mia vita, sul mio carattere, il fatto di non averla mai conosciuta». Mi guardò accigliata. «Conta, sai, non avere avuto la mamma» proclamò con un improvviso sbocco di commozione, la voce tremula, le lacrime che le inumidivano gli occhi. «Io so dov'è» dissi enigmatico. Pupa mi scrutò con due occhi così sgranati e penetranti che pareva volesse mangiarmi la faccia. «Tu sai» scandì «dove sta mia madre?!... Cos'è, mi prendi in giro, per caso?». «Te lo giuro». Non voleva crederci, si convinse solo quando le spiegai che a dirmelo era stata Carmela, la quale, a sua volta, l'aveva capito dai pagamenti che zio Armandino la incaricava di fare mensilmente in posta, tramite vaglia, a un certo istituto religioso di Lanciano. «Sì, ma questo mica prova che mia madre si trova in quell'istituto» obiettò. Era entrata in uno stato di agitazione terribile, non era più in sé, si alzava dal letto, girava per la stanza, tornava a sedersi, andava a guardare fuori dalla finestra. «E allora perché tuo padre manda ogni mese i soldi a questo istituto?» le dissi «possiamo sempre andare ad accertarci se tua madre si trova effettivamente là: una mattina pigliamo la corriera, andiamo a Lanciano». «No, io non vengo» fece lei brusca, perentoria. «Scusa, non volevi conoscere tua madre, sapere dove si trova, che specie di male ha, come sta?... L'hai detto tu, prima». «Non so più se lo voglio» rispose «ho paura». 20 Stavo uscendo. Mi ero già infilato il cappotto, i guanti di lana, girato la sciarpa intorno al collo, quando mi venne in mente di chiedere una cosa a Carmela. Stava in cucina, sbucciava patate. «Carmela» le chiesi affacciandomi un momento, «te lo ricordi l'indirizzo di quell'istituto religioso di Lanciano dove sta ricoverata la zia, la mamma di Pupa?». Parlavo sottovoce, non volevo farmi sentire dalle vecchie - stavano nell'altra stanza a dire il rosario. Carmela non rispose, non si voltò neppure, si era come irrigidita, pur continuando a sbucciare furiosamente patate.
«Be', allora?... Non ti ricordi, quella mattina? Sei stata tu a dirmi che sapevi dov'era ricoverata». «Io non so niente» replicò a mezza bocca. «Ma come non sai niente?» insistevo stupito. «Che vuoi sapere ancora?» chiese senza girarsi, dritta davanti al lavandino, col coltello e la patata in mano che stava sbucciando «te l'ho già detto, no?». «Mi hai parlato di una specie di istituto religioso, o qualcosa del genere. Non hai specificato il nome, però, né l'indirizzo». «Istituto religioso delle Ancelle del Sacro Cuore, via Santo Spirito 47, Lanciano» ripeté tutto d'un fiato «io non t'ho detto niente, pero. L'hai letto tu sulla ricevuta del vaglia. Io non c'entro, capito?». «Capito, capito» risposi sconcertato dal suo atteggiamento. Non l'avevo mai vista così, Carmela: fredda, scontrosa, sgarbata. Prima di uscire dal portone, mi calcai sulla fronte la coppoletta di velluto a coste. Col freddo cane di quei giorni, mannaggia, mi toccava ogni volta mettermi quell'odiosa coppoletta. Il guaio è che soffrivo di sinusite: la mamma, anche per lettera, non faceva che raccomandarmi, a causa appunto di quella cavolo di affezione al naso, di coprirmi sempre il capo quando uscivo col freddo. Mi sentivo infelice, umiliato, a girare per Torricella con quella fottuta coppola in testa: ero convinto che mi desse un'aria cafona e paesana, oltre che un po' da fesso. Non sopportavo, neanche lontanamente, di avere un'aria del genere. «Ciao, Renzo, dove te ne vai di bello?» sentii dirmi, mentre una mano mi si poggiava paterna sulla spalla: era zio Armandino. «Ah, ciao, zio... Niente, uscivo a far due passi». «Vieni con me al bar?» mi propose con un sorriso serafico «ti offro qualcosa». «Va be', grazie». Lo seguii docile, raggiungemmo il bar dell'albergo, entrammo. «Sediamoci» disse lo zio tenendomi sempre la mano poggiata affettuosamente sulla spalla, guidandomi verso il fondo del locale. Ci sedemmo a un tavolino, lui si sbottonò il giaccone a vento, si tolse la coppola, la posò sul piano di marmo. Anch'io mi sfilai la coppoletta: mi bastò levarmi di testa quel fottuto berrettino per sentirmi di nuovo me stesso. «Che prendi?» mi chiese lo zio col sorriso che gli si apriva sempre di più, gli occhi che gli si velavano di languore. «Un'amarena» dissi. Prendevo sempre l'amarena: mi fosse piaciuta, al-
meno. Niente, se qualcuno mi offriva da bere al bar, mi si paralizzava di colpo la mente. A sentirmi chiedere cosa prendevo, era il vuoto, il blocco mentale, l'afasia. Finivo sempre per chiedere un'amarena. «Luigi!» chiamò zio Armandino. Di Jorio stava dietro il bancone a risciacquare bicchieri e tazzine «portaci un'amarena e un Aurum». Lo zio tornò a guardarmi, tenero, avvolgente, il sorriso, però, subito gli si spense, gli occhi gli si appannarono di una tristezza vaga, lontana. «Sono preoccupato per Pupa» mi confidò «molto preoccupato». «Perché?» chiesi, l'espressione assente, leggermente da tonto. Adesso, pensai, attacca con un altro dei suoi lunghi e lagnosi sfoghi su Pupa, come quel giorno che l'accompagnai a Colle Zingaro. «La vedo turbata, cupa, silenziosa» proseguì stropicciandosi il mento, girando lo sguardo attorno «vorrei farla visitare da un medico, magari da un neurologo». «Ah!» commentai laconico, non volevo dargli spago. Lui era partito in quarta, ormai. «Del resto, è anche spiegabile» disse «è appena uscita da un'esperienza senza alcun dubbio traumatizzante». «Eh be'» mi limitai a dire con una scrollatina di testa. Luigi venne col vassoio delle ordinazioni, posò sul marmo il bicchierino di Aurum e la mia amarena. «Di sicuro le cause sono più profonde» cominciò a ragionare zio Armandino assaporando a piccoli sorsi il liquore «non è escluso che questo suo carattere ostico, questi tratti nevrotici della sua personalità, dipendano da un'infanzia difficile, diciamo, dal fatto, per esempio, che le è mancata la madre». «Eh be'» dissi grattandomi un orecchio. Chissà, pensai, dove vuole andare a parare con 'sto discorso su Pupa, la sua infanzia difficile, la mamma che le era mancata e via discorrendo. «Molte delle nevrosi hanno origine da traumi subiti nell'infanzia, ormai è accertato: Freud, le sue scoperte, lo hanno scientificamente dimostrato». Zio Armandino si accese un toscanello e lasciò che una voluta di fumo interminabile gli sfuggisse di bocca, lenta, sinuosa. Per un po' restò zitto, pareva riflettere, magari non pensava a niente. «La grande rivoluzione del secolo» riattaccò come divagando «la psicanalisi: straordinario strumento di diagnosi e terapia delle patologie mentali». Altro lungo silenzio, altra boccata di sigaro, altra spirale di fumo che, dalle labbra schiuse a forellino, saliva al soffitto. «Per la prima volta, con lo strumento della psicanalisi, si è riusciti a sondare l'inconscio, cioè la
parte buia e nascosta della nostra mente, del nostro essere» riprese «è lì che hanno origine le nostre nevrosi, i disturbi del carattere, le fobie, le ossessioni, le manie di persecuzione, i comportamenti schizoidi, paranoidi... Sì, lo so, sono paroloni difficili, termini scientifici. Nel linguaggio comune si dice che una persona è pazza, strana, lunatica, fissata eccetera». Zio Armandino mi scrutò con sguardo interrogativo. «Mi segui?» chiese, forse notando la mia espressione ebete, l'occhio vitreo. «Sì, certo» annuii. Chissà dove voleva andare a parare, pensai. Schiacciò il mozzicone del sigaro nel portacenere. «Renzo, tu che stai spesso con lei» mi fece dopo una lunghissima pausa pensierosa, arrivando finalmente al dunque, «hai capito perché Pupa si è portata in camera quella valigia piena dei suoi giocattoli, dei libri di quand'era bambina. Sai per caso cosa cercasse fra quelle cose?». Ecco dove zio Armandino voleva andare a parare con tutta quella tortuosa premessa. Era partito dicendo di essere preoccupato per Pupa, di vederla turbata, cupa, silenziosa: alla fine voleva solo sapere cosa cercava in quella valigia. «Cercava qualche fotografia della madre, credo» risposi senza starci su a pensare. Zio Armandino si fece serio, tirato. Stava per rispondere qualcosa quando entrò nel bar un tipo del paese, uno col quale aveva appuntamento, evidentemente. «Ah, eccoti qua. Salve» gli fece, vedendolo. «Buonasera, dottore» salutò l'altro stropicciandosi le mani, soffiandosi sulla punta delle dita intirizzite. Prima di congedarmi, zio Armandino, mi prese da parte. «Dopo cena, Renzo... meglio sul tardi» mi bisbigliò in un orecchio, «passa da me una mezz'ora. Ti aspetto nello studio, facciamo due chiacchiere». Erano le undici di sera, e zio Armandino ancora non si vedeva. Forse era dovuto andare in qualche lontana masseria per il parto di una vacca, c'era sempre qualche vacca che partoriva nel suo lavoro di veterinario, in genere sempre in masserie lontane, sperdute. Pupa se n'era andata a dormire già da un pezzo. Avevamo giocato a Monopoli fino a un'ora prima. Stavo decisamente cominciando a rompermi le scatole. A un certo punto mi alzai dal divanetto dov'ero seduto ad aspettare e presi a girare per la casa deserta e paurosamente silenziosa. Adesso vado ad aspettarlo nello studio, pensai tra me. Provai ad aprire cautamente la porta della stanza: non era chiusa a chiave. Mi affacciai, mi arrivò una zaffata pungente di chissà quale odore, al-
cool, trementina, acquaragia... Girai l'interruttore, si accese il lampadario centrale. Non ero mai stato nello studio di zio Armandino, mi guardai in giro. In un angolo della stanza, scorsi un gatto impagliato, stava piazzato su un tavolone messo contro la parete, ingombro di bottiglie, barattoli e arnesi vari - tutto materiale, probabilmente, che zio Armandino usava per imbalsamare quelle macabre carogne. Se ne vedevano parecchie, disseminate per casa, di quelle bestie impagliate. Pupa le odiava: un giorno, diceva, le avrebbe fatte sparire tutte. Il puzzo acuto che avevo sentito entrando, usciva proprio da uno di quei barattoli, quei recipienti che occupavano il piano del tavolo. Mi aspettavo, almeno là, nel suo studio, di trovare una foto di sua moglie. Invece niente, non ce n'era neanche mezza, neanche quel genere di fotografie incorniciate che si tengono sulla propria scrivania. Non mi facevo capace, da nessuna parte si vedeva uno straccio di foto di questa fantomatica zia, neppure una, magari, che so, dimenticata, gettata in fondo a un cassetto, in mezzo ad altre carte. Un'istantanea di lei e il marito, per esempio, nel giorno del loro matrimonio, oppure durante la luna di miele. I miei ne avevano parecchie di questo genere, tipo viaggio di nozze a Venezia, per capirci, con loro due in piazza San Marco, tutti rivestiti, eleganti, in mezzo a un nugolo di piccioni. Presi a frugare in giro, negli scaffali, ad aprire ante, sportelli e tiretti di vari mobili. Rovistando in un cassetto della scrivania, mi capitò tra le mani la bobina di una pellicola a passo ridotto - prima, in uno scaffale della libreria, avevo notato anche un vecchio proiettore. C'era una targhetta incollata sulla bobina. Torricella Peligna, maggio 1933, cerimonia di nozze, ci stava scritto in stampatello. Non feci in tempo a rimetterla a posto. «Oh, Renzo, sei qua? Scusa il ritardo» sentii dire da zio Armandino. Ebbi un sussulto, il sangue mi si gelò nelle vene, era entrato ed avanzava verso di me un po' curvo, ciondolante, passandosi le dita fra i capelli con un gesto affaticato. Spinsi con un colpetto dell'anca il cassetto aperto, si richiuse senza che lui si accorgesse di niente. La bobina la nascosi dietro la schiena con una mossa rapida e disinvolta. Simulavo un'aria vagamente scocciata, come se fossi lì ad aspettarlo da chissà quanto tempo: non si accorse di niente. Ero bravissimo in questo genere di recite, un attore nato. «Sono venuto ad aspettarti nel tuo studio» dissi tranquillo, un po' annoia-
to. «Hai fatto bene» rispose andando a sedere dietro la scrivania «accomodati» Mi indicò una seggiola lì accanto. Si prese a stropicciare la fronte: se la stropicciò a lungo, poi si passò le dita tra i capelli, intanto tirava su col naso. Era un po' costipato. «Te l'ha detto proprio lei?» esordì, la voce lievemente arrochita, nasale «ti ha detto Pupa che cercava una foto di sua madre in quella valigia?». «Sì» risposi asciutto, senza stare a girarci troppo attorno «da un po' di giorni si è messa in testa che vuole sapere tutto di lei. Vuole anche conoscerla, vederla». Zio Armandino aveva la testa china sulla scrivania, le spalle curve, una matita in mano che rigirava oziosamente tra le dita. «Questo si è messo in testa?» ripeté senza guardarmi, fissando la matita. «Sì, questo si è messo in testa». «Ho fatto di tutto perché Pupa un giorno non sentisse la curiosità, il bisogno, legittimo peraltro, di sapere che ne è di sua madre, dove si trova, perché all'età di quattro anni l'ha praticamente persa... Credimi, Renzo, ho fatto di tutto». Tirò ancora su col naso, poi, se Dio vuole, posò la matita e si decise a soffiarselo. «Purtroppo il giorno è venuto» mormorò con un tono sconsolato, rassegnato. Fece un'altra lunghissima pausa: sembrava ruminare pensieri dolorosi. «Anche se la cosa mi costa, tu non sai quanto, dovrò decidermi a rivelarle la triste verità» Starnutì, tirò fuori di nuovo il fazzoletto, si risoffiò il naso rumorosamente. «Quale triste verità?» chiesi a un certo punto, notando il suo esagerato indugio nel ripiegare il fazzoletto, nel rimetterlo in tasca. «Sua madre vive da quasi vent'anni, ormai, praticamente relegata, lontana, esclusa dal consesso umano e civile» rispose lo zio mestamente. «Come sarebbe, relegata?» domandai. Un brividino mi corse lungo la spina dorsale. Pensai alla galera: cos'è, aveva commesso dei reati, era una ladra, un'assassina? «Con tutta l'assistenza e le cure del caso, naturalmente» spiegò zio Armandino, «ma pur sempre relegata, incapace ormai di condurre una vita normale, tra gente normale». Si prese la fronte in mano, un gesto desolato. «Che disgrazia!» gemette «da quel momento la mia vita si è spezzata». Dio santo, pensai, ma cosa cribbio era successo a 'sta benedetta donna?
«Ma perché, che cos'ha?» balbettai. Zio Armandino si lasciò andare contro lo schienale della seggiola, fece un profondo, sofferto sospiro. «Schizofrenia» disse fissandomi con espressione tragica. Schizofrenia, pensai tra me. Cosa cribbio è 'sta schizofrenia, mi chiedevo mentre zio Armandino continuava a fissarmi muto, disperato. «Schizofrenia?» ripetei in un balbettio. «Sai cos'è la schizofrenia?». «Vagamente». «È una malattia della mente, terribile» prese a spiegarmi «comincia in modo subdolo: la persona che ne è colpita comincia a fare, a dire cose strane, ad avere allucinazioni, visioni di cose e persone inesistenti... Da principio si pensa a disturbi passeggeri, a un banale esaurimento nervoso... Maria, mia moglie, cominciò così: Pupa non aveva ancora quattro anni... Nel giro di poco, i sintomi si manifestarono sempre più frequenti, vistosi, allarmanti». «Che faceva?» chiesi agghiacciato, la gola secca, la bocca allappata. «Alternava momenti di assoluta normalità con altri di pazzia pura. Sragionava, agiva in modo incomprensibile, fuggiva di casa». Aveva la voce rotta, zio Armandino, si premeva le tempie con le dita, come se il riferire della malattia della moglie gli facesse rivivere tutto lo strazio, la tragedia di quei giorni lontani. «La schizofrenia è in pratica una dissociazione della persona. È come se l'io si spaccasse in due, una parte normale, sana, l'altra impazzita, fuori controllo: un alternarsi sconcertante tra le due facce della stessa personalità». Tacque, chiuse gli occhi. «Tu non puoi capire, Renzo» riattaccò col pianto in gola, «cosa significhi vedere la persona che ami, la tua compagna adorata, trasformarsi improvvisamente, diventare una specie di Erinni, violenta, aggressiva, accecata nella ragione, la mente sconvolta... Esaurita la crisi, tornava lentamente in sé, senza memoria di ciò che le era accaduto: tornava a essere la madre premurosa di sempre, la moglie devota, la esemplare donna di casa». Starnutì ancora, si soffiò un'altra volta il naso. «E non si guarisce?» azzardai «dicevi che oggi, con la psicanalisi...». «Le terapie psicanalitiche» rispose, «risolvono le nevrosi, i disturbi del comportamento, non le psicosi, che investono invece l'intera personalità. La schizofrenia, purtroppo, rientra fra le psicopatie. La scienza non può niente contro queste forme di malattia mentale, che anzi si aggravano col passare del tempo... Non credere, l'ho fatta visitare dai migliori psichiatri e
neurologi d'Italia. Niente da fare». Sospirò, scuotendo la testa rassegnato. «Da tutti, senza esclusione alcuna, ho avuto sempre e solo una risposta: la schizofrenia è incurabile. Né le cose, oggi, dopo quasi vent'anni, sono cambiate molto. Purtroppo, riguardo a questa malattia, si sono fatti assai scarsi progressi». «E se Pupa ti chiedesse di vedere sua madre, di conoscerla?» chiesi. «E allora a cosa è servito, Renzo, che in tutti questi anni abbia cercato disperatamente di evitare a Pupa questo ulteriore, terribile shock?» rispose lo zio accorato «perché credi abbia fatto di tutto per allontanare dai suoi pensieri, dalla sua vita, l'immagine, il ricordo della madre?... Ho provato a farlo nel modo più indolore, anche mentendole, ingannandola, evitando sempre l'argomento, eludendo le domande che spesso, specie da bambina, Pupa mi rivolgeva... Cos'altro potevo fare per risparmiarle l'impatto sconvolgente, l'orrore che avrebbe provato incontrando la madre, vedendola così ridotta? Una donna fuori di senno, abbruttita, fisicamente irriconoscibile». Sentimmo come un gemito. «Papà!» invocò dalla soglia della stanza una voce straziata, supplichevole «perché non me l'hai mai detto?». Era Pupa: aveva sentito tutto. Stava ferma nel vano della porta, in pigiama, a piedi scalzi, gli occhi sgranati, sgomenti: pareva un fantasma. Zio Armandino si alzò e le andò incontro scompostamente. Pupa, anche lei si slanciò verso il padre: si abbracciarono con un tale impeto, si tennero stretti in modo così spasmodico che sembrava non dovessero slacciarsi più. «Piccola mia» farfugliava lui commosso, la voce incrinata. «Papà, papà» singhiozzava lei con la faccia schiacciata contro la giacca del padre, affondata nel cavo della sua spalla «me lo dovevi dire, papà... perché non me l'hai mai detto che la mamma...?». «Piccola mia» ripeteva lui, «potevo mai rivelarti una verità così atroce, così triste?». «Dovevi dirmelo, papà. Era meglio». Andarono avanti ancora un bel pezzo, sempre abbrancati in quel modo, le voci querule, ripetendo sempre le stesse frasi smozzicate, inconcludenti. Mi ero commosso anch'io. Sul serio. Mi sentivo un groppo alla gola e gli occhi mi pungevano. Poi cominciai a stufarmi di quella loro pantomima. Non ne potevo più, alla fine. 21
Ora Pupa sapeva tutto di sua madre. Zio Armandino le aveva rivelato la terribile verità che per tutti quegli anni aveva tenuto tenacemente nascosta. Sua madre era una pazza, in poche parole. Peggio, una matta da legare, tanto che era stato necessario rinchiuderla in un manicomio o qualcosa del genere. Quella stessa sera, però, dopo la tragica confessione, zio Armandino aveva anche cercato in ogni modo di dissuadere Pupa da quell'idea che si era messa in testa, di volere a tutti i costi, cioè, incontrare la madre, conoscerla, andare a farle visita e via dicendo. A sentire zio Armandino, la donna era ormai ridotta in uno stato quasi vegetativo, tipo quelle alienate mentali che, se ti capita per disgrazia di visitare un manicomio, vedi vagare per i corridoi, i cortili, facendo strani gesti, versi animaleschi, oppure starsene ammucchiate in qualche angolo, mute, lo sguardo vuoto. Anche d'aspetto, da quello che intuimmo dalle poche, straziate parole di zio Armandino, la povera donna doveva sembrare più che altro una barbona sciatta e scarmigliata. Non è che avesse detto proprio così, quella sera drammatica in cui aveva rivelato il terribile segreto, però, dai suoi sguardi disperati, dalle accorate esortazioni rivolte a Pupa: «È meglio che non la vedi, ne rimarresti sconvolta, figlia mia» non ci voleva molto a capire che la donna era ridotta proprio male, e che per Pupa, vederla, sarebbe stato un altro colpo tremendo. Alla fine, Pupa sembrò convinta. Anzi, da qualche giorno pareva anche essersi rasserenata, in certi momenti era tornata persino allegra, vivace. Una sera mi disse: «Mi accompagni domattina a Lanciano?». «A Lanciano? A fare?» chiesi. Stavamo giocando a Shangaj, un cavolo di gioco cinese fatto di tante bacchettine colorate che si gettavano sul tavolo a casaccio e poi bisognava ripescare a una a una, sfilandole dal mucchio senza smuovere le altre - solo i cinesi potevano avere inventato un gioco di pazienza e precisione così noioso e snervante come quello. «Voglio andare dal parrucchiere, mi faccio schifo con questa chioma bicolore» rispose Pupa passandosi le dita fra i capelli a spazzola «guarda qua, mezza gialla e mezza nera. Quando esco mi tocca sempre mettere il fazzoletto, come le beghine». «Va be', ti accompagno. Gioca adesso» dissi, era il suo turno. Si chinò sul mucchio di bacchettine e ne sfilò dieci tutte di fila. Era bravissima in quel gioco del cavolo. Con quelle sue dita lunghe, le unghie appuntite, era un fenomeno a sfilare le bacchette dal mucchio. Lo faceva con delicatezza e puntiglio, la lingua che le spuntava tra i denti per lo sfor-
zo di concentrazione. Per ogni bacchetta che pescava, poi, batteva le mani in segno di vittoria, di esultanza. Dio, come la odiavo quando batteva le mani in quel modo, mi sentivo rivoltare dentro. «Devi per forza battere le mani ogni volta?» sbottai a un certo punto. Lei, per tutta risposta, dette una smanacciata al mucchio di bacchette disperdendole tutte. «Basta, mi sono scocciata di giocare a Shangaj, vado a dormire» disse alzandosi di scatto «allora, domani sveglia alle sei» mi ricordò «ciao, buonanotte». Se ne uscì piantandomi da solo là, con le bacchette di Shangaj sparse sul tavolo. Sì, doveva esserci una tara di famiglia, pensai, la madre schizofrenica, la zia Manetta demente, il padre, neanche lui tutto giusto. Presi a infilare le bacchette nell'apposito astuccio, un cilindro di cartone ornato di disegni e ideogrammi cinesi. Se Pupa era matta, pensavo assorto a infilare le bacchette in quel tubo, anch'io mica scherzavo tanto: io, più che matto, ero pazzo di lei. Che fossi stracotto, innamorato pazzo di Pupa, lo capivo dal fatto che, malgrado non mi filasse per niente, continuavo a stravedere per lei. Di lei mi piaceva tutto, porca miseria. Anche nei suoi momenti peggiori la trovavo attraente, anche quando era depressa, sgarbata, scostante, o quando si presentava senza il trucco, con le occhiaie violacee, le palpebre gonfie, la faccia pallida, la bocca screpolata, e quei patetici capelli a spazzola, biondi sopra, neri alla radice: anche quando era così malmessa, mi attirava terribilmente, persino di più. Solo quando si giocava a Shangaj e batteva le mani ogni volta che sfilava una bacchetta senza smuovere le altre, solo allora mi scatenava un'antipatia furiosa. Mica perché era brava e mi vinceva sempre, neanche per sogno. A urtarmi era quel gesto che faceva di battere le mani, felice e trionfante: l'avrei strozzata in quei momenti. Il parrucchiere stava in una traversa del corso di Lanciano. «Che fai in questo frattempo?» mi chiese Pupa sulla porta del negozio. La titolare le aveva detto che ci volevano almeno un paio d'ore per fare la tinta, la messa in piega e tutto il resto. «Che faccio? Vado un po' in giro» risposi. Faceva un freddo da stecchire, quella mattina: parlando, il vapore ci usciva di bocca a fiotti e i nostri nasi erano rossi e gocciolanti come rubinetti spanati.
«Con questo freddo? Perché non mi aspetti qua nel negozio, al caldo?» mi propose Pupa sinceramente preoccupata «ti sfogli qualche rivista, intanto». «Sì, "Grand'hotel", "Bolero film"» sogghignai, il piglio del maschietto orgoglioso e sprezzante... «ti saluto. Ripasso verso le undici». Pupa uscì dal parrucchiere quasi a mezzogiorno: era irriconoscibile. Le avevano tinto i capelli di un color testa di moro così fasullo che parevano impiastricciati di cromatina per scarpe, di lucido Brill. Per non parlare dell'acconciatura, delle strane ondine che le avevano modellato su quei tre centimetri di capelli. Sembrava una signora borghese, così conciata, col pellicciotto di castoro, i tacchi alti, la borsetta e quella messa in piega, quel colore che si vedeva lontano un miglio che era una tinta artificiale. Passeggiando per il corso, notai che la gente la sbirciava, si girava a guardarla. La cosa mi gonfiava di un orgoglio beota e vanitoso: mi faceva sentire ganzo, camminare al suo fianco. Toh, guarda quello che figa si porta a spasso, mi sembrava di leggere nelle occhiate dei provincialotti che incrociavamo, che ci squadravano di sguincio. Del resto, si vedeva che eravamo tipi di classe, persone venute da fuori, casualmente di passaggio in quella squallida cittadina di provincia. Pupa si fermava di continuo davanti alle vetrine a guardare la roba esposta, specie se si trattava di abbigliamento, scarpe, gioielli, profumeria e via discorrendo. Neanche mi accorgevo che si fermava, continuavo a camminare, a parlare, finché non scoprivo, con la coda dell'occhio, che non era più al mio fianco. Mi voltavo, era ferma a una vetrina dieci metri più indietro. «Cavolo, avvertimi quando ti fermi» le dicevo incavolato «continuo a camminare, a parlare a vuoto, la gente che mi vede parlare da solo mi prende per matto, cavolo». «Dove sta quel posto?» mi fece d'un tratto, a bruciapelo. «Che posto?». «Il posto dov'è ricoverata mia madre, quell'istituto religioso. Come si chiama?» disse, il profilo improvvisamente duro, tirato. «Non vorrai mica andarci?» obiettai, assalito da un'angoscia improvvisa, un malessere che mi riportò a quella sera tragica e allucinante, quando zio Armandino ci rivelò il dramma di sua moglie, di Pupa tenuta per tutti quegli anni all'oscuro del fatto di avere una madre schizofrenica. «Dai, basta con questa storia, lascia perdere» dissi con uno scatto di insofferenza «adesso invece ce ne andiamo in un bar, ci prendiamo un cap-
puccino, una brioche». Cercavo di distrarla, di farle passare quell'insana idea che, chissà come, le era tornata in mente. «A che ora c'è la corriera per Torricella?» domandai. «Alle cinque» rispose torva. Puttana miseria, pensai, ancora più di quattro ore a girare per Lanciano. «Perché non ce ne andiamo a un cinema? Ho visto i cartelloni di "Buonanotte avvocato", con Alberto Sordi. Lo rivedo volentieri, quel film, fa scompisciare dalle risate. Ti giuro». «Detesto Sordi» rispose. Ci sedemmo al tavolino di un bar che stava lungo il corso, non lontano dalla fermata delle corriere: era zeppo di gente e saturo di fumo e di un odore denso e dolciastro di caffè espresso e bomboloni alla crema. Stavo inzuppando la brioche nel cappuccino bollente. «Allora, mi dici come si chiama quel posto?» tornò a domandarmi. Aspettò la risposta con lo sguardo freddo, fisso nel vuoto, il naso un po' arricciato, le labbra schiuse in una smorfia ostinata, i denti grossi e bianchi mezzi scoperti. In quella sua smorfia c'era un che di caparbio che mi smontò. Volevo distrarla da quell'idea morbosa di andare a conoscere la madre schizofrenica - chissà come e perché le era tornata in testa - ma quella sua smorfia, quei denti mezzi scoperti, lo sguardo che fissava il vuoto, mi smontarono. Avevo buttato giù l'ultimo sorso di cappuccino, addentato l'ultimo boccone di brioche. Tirai fuori il portafoglio e ripescai il biglietto dove mi ero appuntato nome e indirizzo. «Istituto religioso delle Ancelle del Sacro Cuore» biascicai deglutendo, «via Santo Spirito 47». «Dov'è via Santo Spirito, scusi?» chiese Pupa a un cameriere che raccoglieva tazze e bicchieri da un tavolino lì accanto. «Dietro la stazione» rispose quello facendo dei gesti mimici, come a indicare una strada lunga che girava non lontano da là, la stazioncina ferroviaria di Lanciano stava appunto alla fine del corso, da quelle parti. Era un antico edificio a tre piani, vecchio e scalcinato, col colonnato davanti: sembrava una casa abbandonata, la casa degli spiriti. Attorno c'era una specie di parco incolto, infestato di erbacce, recintato da un muro con la cima irta di cocci di vetro e filo spinato. A uno dei pilastri del cancello era appeso un campanaccio. Pupa tirò più volte la cordicella: ne uscì uno
scampanio fesso che metteva i brividi. Dopo un po' vedemmo arrivare lungo il vialetto di ghiaia una suora tarchiata, lo scialle di lana sulle spalle e una faccia pallida e piatta come una pagnotta cruda. Si fermò a un metro dalle sbarre del vecchio, rugginoso cancello. «Buongiorno. Dite» fece con le braccia incrociate, lo sguardo accigliato, indagatore. «Buongiorno, madre» rispose Pupa con qualche esitazione «sono la nipote di... Maria De Lellis... sono venuta a trovarla». La suora ci scrutò a lungo, in silenzio. Io facevo finta di niente, come se fossi estraneo alla faccenda. Durò così a lungo quella sua occhiata perplessa e interrogativa che, per darmi un contegno, a un certo punto mi chinai fingendo di allacciarmi una scarpa. «Da dove venite?» chiese alla fine. «Da Torricella Peligna» rispose Pupa impaziente «allora, ci apre, madre?». «E lui chi è?» chiese la suora infilando finalmente una mano nella saccoccia della tonaca, tirando fuori un chiavone nero, antico, del peso almeno di un paio di chilogrammi. «Lui?... Lui è uno che mi ha accompagnato» rispose Pupa nervosa «un amico». Io guardavo in alto, fischiettavo a fior di labbra, distratto. La suora infilò il chiavone nella serratura e lo girò faticosamente una decina di volte almeno, con un rumore cigolante di ferro arrugginito, di congegni inceppati. «Com'è che il signor De Lellis non viene mai a trovare la moglie?» s'informò la suora mentre percorrevamo il vialetto «ci manda la retta ogni mese, questo sì, però in questi ultimi tempi non è più venuto a farle visita. Se lo vedete» continuò, «ditegli che si faccia vivo ogni tanto. Tra l'altro, adesso le spese sono anche aumentate, bisogna che ci mandi qualche soldo in più». «Come sta la zia?» azzardò Pupa con la voce strozzata dal magone. Chissà perché non diceva di essere la figlia: si fingeva la nipote. Forse si vergognava di avere una madre ridotta in quello stato. «Sempre lo stesso. Solo che con l'età incomincia a farsela sotto» rispose crudamente la suora, «e non è più capace di mangiare da sola, bisogna imboccarla. È tutto lavoro in più, spese aggiuntive». Volevo tornare indietro, scappare. Che mi fregava della mamma schizofrenica di Pupa? Che c'entravo io in tutta quella storia orrenda e tristissima
di mamme pazze, di figlie ignare, che all'improvviso volevano conoscere la verità, smaniavano di vedere, sapere, toccare con mano? Che c'entravo io in tutto questo? Perché ci andavo? Attraversammo un salone freddo, spoglio, male illuminato. Al centro c'era una tavola, una specie di fratino lungo e stretto di legno grezzo, massiccio. Attorno, stavano sedute a mangiare una dozzina di vecchie: da certe scodelle di terraglia ingollavano una minestra dall'odore nauseabondo. Vedendoci passare, alzarono gli sguardi, ci fissarono con occhiate avide, cispose. Era una scena surreale, tutte quelle vecchiette che scucchiaiavano broda dalle ciotole, quell'acciottolio di fondo, quel biascichio di ganasce sdentate. Una scena fuori dal tempo, un quadro di Bruegel. «Ma sono tutte pazze, quelle vecchie?» chiese Pupa alla suora, sgomenta. «Perché pazze? Questo è un ospizio, mica un manicomio» rispose la suora piccata. Io e Pupa ci guardammo negli occhi. «Certo, qualcuna è un po' svanita» spiegò, «qualche altra ci ha l'arteriosclerosi». «E Maria De Lellis cos'ha?» chiese Pupa ansiosa, smarrita. Stavamo salendo su, al primo piano. «Be', lei è un caso speciale» rispose la suora. Ora stavamo percorrendo un corridoio. In fondo c'era una finestrella: contro la luce smorta che filtrava dai vetri, si vedeva la sagoma di una donna seduta. «Eccola la vostra parente» ci disse, indicandola. Ci avvicinammo: avevo la gola secca, Pupa tremava. «Poverina, non parla più ormai, non riconosce nessuno» spiegò la suora facendo alla donna una ruvida carezza in faccia. Maria De Lellis era seduta su una seggiola bassa, impagliata. Non si capiva bene che età avesse: forse una cinquantina d'anni. Portava un vestito di lana scura, di foggia paesana, le calze nere, e ai piedi delle ciabatte di feltro. Dio santo, che racchia che si era sposato zio Armandino: racchia, matta e pure vecchia. Com'era possibile, pensai, che quello sgorbio di donna fosse stata un tempo, vent'anni prima, la signora della foto col viso cancellato? Dov'erano finiti quel suo corpo formoso, stretto in un vestito a pois, elegante, scollato, quelle sue mani morbide, curate, le unghie smaltate? La donna neanche si voltò a guardarci, aveva il viso come impietrito, lo sguardo fisso e
ottuso di una scimmia. Sembrava del tutto insensibile a quello che le accadeva attorno, chiusa com'era nella sua demenza. Con uno scatto brusco, improvviso, infilò una mano nella tasca della veste e tirò fuori un vecchio pettine di tartaruga coi denti per metà mancanti o spezzati. Con un gesto lento, meccanico, pigliò a passarselo tra i capelli. «Sta le ore a pettinarsi» sorrise la suora guardando prima Pupa, poi me. Di colpo, senza che ce lo aspettassimo, la donna scoppiò in una risata fragorosa, da far accapponare la pelle «ogni tanto si fa una risata» commentò la suora, benevola, indulgente. Pupa fissava la pazza con gli occhi così sgranati che pareva le uscissero dalle orbite. La guardava muta, la bocca mezza aperta, le labbra tremolanti dallo sbalordimento, dal raccapriccio. «Ma questa è zia Manetta» balbettò. La suora la guardò. «Non è sua zia che è venuta a trovare?» chiese notando perplessa l'espressione sgomenta di Pupa, soprattutto il suo sconcerto di trovarsi di fronte a una persona diversa da quella che credeva. Restammo a fissare la povera mentecatta non so per quanto, attoniti, silenziosi. Lei continuava a passarsi il pettine tra le ciocche stoppose e grigiastre. Poi, d'un tratto, sganciò un'altra di quelle sue risate. Pupa sussultò, fece due passi indietro, atterrita. Senza una parola, un cenno di commiato, si girò allontanandosi veloce lungo il corridoio, quasi correndo. Mi scusai con la suora e la seguii: anch'io a passo svelto, praticamente di corsa. Scappavamo, in parole povere. Mentre scendevamo le scale a precipizio, sentimmo echeggiare una terza risata. Da lontano, aveva un'eco ancora più stridula e agghiacciante. 22 In quel paio d'ore di viaggio in corriera, restammo tutto il tempo silenziosi, come tramortiti da quello che avevamo scoperto. Pupa si era assopita, la testa abbandonata allo schienale di vilpelle, la bocca mezza aperta, il respiro aspro. Eravamo seduti su due sedili appaiati, io dalla parte del finestrino. Mentre la corriera filava lungo la provinciale, vagavo fuori con lo sguardo: l'aria imbruniva, si accendevano le prime luci, il paesaggio si faceva indistinto. Pensavo, sfasato, che in tutti quegli anni, in fondo non era cambiata molto zia Manetta. Aveva sempre quella faccia da contadina un po' ottusa e rincagnata: si era fatta solo più rugosa e i capelli le erano diventati sale e pepe.
Ma allora, Dio santo, se la mentecatta che avevamo visto in quell'ospizio di Lanciano era lei, zia Manetta, perché il suo ritratto stava appeso alla parete della mia stanza insieme a quelli degli altri defunti, bisnonni, avi, zii, parenti di vario grado, tutti morti, passati a miglior vita in epoche diverse? E poi, che senso aveva quell'immaginetta trovata sparsa in mezzo alle altre foto dell'album di famiglia, quella specie di santino listato a lutto, con tanto di epitaffio? Avevo la testa vuota, i pensieri andavano e venivano filacciosi, inconcludenti. Li lasciavo entrare e uscire, mi mancava la voglia, la forza di fermarli sull'unico, vero, inspiegabile mistero: com'è che zia Manetta era viva, ricoverata in quell'ospizio di Lanciano, e in giro, invece, si insisteva a dire che era morta? Entrando in paese, la corriera attaccò come sempre a strombazzare a tutto spiano. Pupa uscì finalmente dal suo assopimento comatoso, in quei pochi minuti che impiegammo ad arrivare, scendere dalla corriera, raggiungere casa, passò velocemente dallo sbigottimento di prima a una specie di rabbia sorda, di odio feroce per il padre e per le balle che continuava a raccontare a proposito della madre. Zio Armandino stava cenando, era alla fine, ormai, al caffè. Pupa entrò in sala come una furia. L'avevo seguita con un po' di esitazione, d'imbarazzo. Mi fermai a qualche metro di distanza, accanto al grande camino di pietra, fingevo di incuriosirmi a certi oggettini antichi che facevano bella mostra sulla mensola della cappa. «Perché continui a nascondermi la verità?!» strepitò Pupa sfilandosi con gesti concitati la pelliccia, gettandola su un divanetto. Si andò a sedere al tavolo in faccia al padre. «Perché, eh?!». Zio Armandino la guardò trasecolato. Si girò a sbirciare anche me. Io seguivo la scena con la coda dell'occhio, fingendomi sempre intento a osservare gli oggetti davvero interessanti che stavano sulla mensola del camino: un vecchio lumino a olio, un antidiluviano orologio a sveglia, un antico coltello a serramanico finemente intarsiato, e altre cosucce del genere. «Ma si può sapere che cosa è successo?» sorrise zio Armandino, tentando di raccapezzarsi. «Dov'è la mamma?!» gli abbaiò in faccia Pupa accendendosi intanto una sigaretta, le mani tremanti per la rabbia, sparando poi una gran nuvola di fumo. «Che significa dov'è?» boccheggiò zio Armandino. «Là, in quel posto non c'è. Dove sta?» lo incalzò Pupa agitandosi sulla
sedia, facendo tirate di sigaretta una dietro l'altra. «Quale posto?» cercava di capire lo zio. «A Lanciano. In quella specie di ospizio di suore. Le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù Cristo benedetto!» sparava Pupa a raffica. «Là non c'è. C'è zia Manetta, là! Perché continui a dirmi balle, a ingannarmi?!». Zio Armandino stirò le labbra e i baffetti in un sorriso di sollievo. «Ma figlia mia» disse, «chi ti ha mai detto che tua madre è ricoverata in quell'Istituto? Cosa te l'ha fatto credere, mi chiedo, chi si è sognato di darti questa informazione?». Pupa si zittì, spense con un gesto stizzoso il mozzicone nel posacenere. Si girò un momento a guardarmi. «Mi dici chi ti ha detto una cosa del genere?» ripeté zio Armandino. «Carmela» borbottò Pupa a occhi bassi. «Carmela?... E che ne sa Carmela?» sorrise lo zio cadendo dalle nuvole. Poi, con un tono grave, un po' ansioso: «Sei andata a Lanciano, in quell'Istituto? Hai visto zia Manetta?» chiese. «Sì» annuì Pupa. Non era più inferocita, adesso, era solo imbronciata «pensavo che fosse morta, zia Manetta». «Zia Marietta morta?» zio Armandino si alzò, andò alle spalle della figlia, le accarezzò la testa «chi ti ha detto che è morta? Sarà mica stata ancora Carmela?». «Ma no, sono le zie che me ne hanno sempre parlato come di una già defunta» bofonchiò Pupa con un fare di colpo piagnucoloso, infantiloide. Si alzò anche lei, andò ad abbracciarsi al padre. «Da piccola, mi ricordo, quando si andava al cimitero il giorno dei morti, le zie portavano sempre dei fiori, dei lumini, alla tomba di zia Marietta» frignò. «Ma è impossibile, piccola mia. Ricordi male» la rassicurava zio Armandino continuando a carezzarla affettuosamente in testa. «E allora la mamma dov'è?» miagolò Pupa, stretta forte al padre, la faccia appoggiata al suo petto: pareva regredita all'età di otto anni, pareva una mammuccia che fa i capricci, e il padre che cerca di blandirla, consolarla. Una scena pietosa. «Dov'è la mamma?» implorò tra i singhiozzi «ti prego, dimmelo. Lo voglio sapere». Zio Armandino non rispose. «Su, su... Adesso basta piangere» le diceva non smettendo di carezzarla, intanto mi lanciava delle occhiate meste, complici, come a volermi dire: Ma tu guarda questa mia figlia... Si slac-
ciarono dall'abbraccio, tornarono a sedersi al tavolo. Pupa si soffiò il naso, si asciugò gli occhi. «Allora dov'è?» ripeté implorante, la voce nasale, impastata di lacrime. Zio Armandino si passò più volte le dita tra i capelli. «È all'estero, in Svizzera» sospirò affranto, dopo una lunga, eterna pausa «in una clinica specializzata... una clinica per schizofrenici». «Mi ci devi portare, papà» supplicò Pupa. Zio Armandino fece un altro sospiro, si passò un'altra volta le dita tra i capelli: «Ci andremo» promise. Andai a letto a mezzanotte passata. Le acque sembrava si fossero calmate. Dopo lo sfogo di Pupa, alla fine sembrava che tutto si fosse chiarito: padre e figlia si erano spiegati, riconciliati, con la promessa da parte di zio Armandino che, passate le feste di Natale, visto che Pupa ci teneva proprio, l'avrebbe accompagnata in Svizzera a conoscere la madre. Almeno questo mistero era stato svelato: la madre di Pupa non era ricoverata in quell'Istituto di suore a Lanciano, come credeva Carmela - leggendo sul vaglia la causale del versamento, vedendo scritto il nome di Maria De Lellis, Carmela aveva in buona fede creduto che si trattasse della moglie di zio Armandino, senza sapere che lo zio ci aveva pure una sorella ricoverata, anche lei con problemi di salute mentale, anche lei di nome Maria. Quando rientrai, la casa era buia, sprofondata nel più assoluto silenzio. Si sentiva solo il lugubre ticchettio dell'orologio a cucù. Le zie e Carmela erano già a dormire da un pezzo. Mi chiusi in camera, la testa ancora mi ronzava per tutte le cose che erano accadute quel giorno. Prima d'incominciare a spogliarmi, d'infilarmi il pigiama e tutto il resto, andai a togliere il prete da sotto le coperte e a metterlo, insieme al braciere, fuori della stanza, nel terrazzino. Guai a lasciare il braciere in camera, mi aveva sempre raccomandato Carmela, ci si addormentava e come niente, durante il sonno, si moriva intossicati dal fumo dei tizzoni. Dio santo, di quante cose si poteva crepare in quel dannato paese: se uno mangiava i funghi, rischiava di morire avvelenato, se si lasciava il braciere nella stanza c'era il pericolo di ritrovarsi stecchiti la mattina dopo a causa delle esalazioni tossiche. Era piena di insidie, Torricella Peligna. Presi a spogliarmi, mi sfilai giacca e calzoni del principe di Galles, andai ad appenderli a una stampella dell'armadio. Quella mattina, per andare
a Lanciano ad accompagnare Pupa dal parrucchiere, mi era venuto il ghiribizzo di vestirmi elegante, di mettermi appunto il principe di Galles. Progettavo di passare una giornata frivola e mondana, d'invitare Pupa magari in un ristorante costoso, di andare poi a vederci un film in un bel cinema di prima visione. Ci avevo arzigogolato parecchio su quell'andata a Lanciano, ci avevo fatto su un sacco di fantasie, tipo io e Pupa, eleganti, pieni di charme, che ce ne andavamo a spasso per la città, e tutti a guadarci, a commentare fra sé: Guarda che bella coppia, quei due. Invece, per le smanie di lei, eravamo finiti in quel sordido ospizio, scoprendo, tra l'altro, che non c'era nessuna Maria De Lellis ricoverata là dentro: c'era zia Manetta, invece, la zia che Pupa da piccola ricordava seduta in cucina, lo sguardo fisso, e un pettine in mano che si passava di continuo tra i capelli, scoppiando poi di colpo in quella risata demenziale che la faceva fuggire terrorizzata - a Pupa, per poco non le era venuto un collasso nervoso a rivedere zia Manetta dopo quasi vent'anni, a risentire quella risataccia da brividi. Perché poi in camera mia ci fosse il ritratto di zia Manetta appeso alla parete insieme a quelli degli altri defunti, questa era un'altra storia, un altro enigma da risolvere. Mi ficcai a letto con la testa infestata di pensieri, azzannato allo stomaco da dubbi e interrogativi angosciosi, come se tutte le spiegazioni e i chiarimenti di quella sera non fossero serviti a niente, come se qualcosa di oscuro, di irrisolto e sospetto continuasse a intorbidare la faccenda. Alla fine vinse lo sfinimento, il sonno mi piombò tra capo e collo come una trave che crolla dal soffitto. Vidi Pupa solo nel pomeriggio. Salii su a sentire se voleva fare una passeggiata. Era in camera sua e si truccava seduta al tavolino, davanti al solito specchio ovale portatile. Si era appena fatta il bagno, aveva addosso l'accappatoio e un asciugamano avvolto a turbante intorno alla testa, si sentiva per la stanza un profumo fragrante di saponetta Lux. «Come stai?» le chiesi sbracandomi sulla seggiola a dondolo. Fece un sorriso mesto. «Insomma». «Ti sei tranquillizzata, adesso?». «Abbastanza. Ho dormito tutta mattina». «Me ne sono accorto» commentai infilando la mano in una tasca della giacca di tweed, quella con le toppe ai gomiti che mettevo assieme ai calzoni di vigogna. Incontrai un oggetto metallico, rotondo. Lo tirai fuori: era la bobina che qualche sera prima avevo trovato in un cassetto della scriva-
nia di zio Armandino. Da quella famosa sera non mi ero più rimesso la giacca di tweed. «Cos'hai là?» mi chiese Pupa curiosa, sbirciandomi attraverso lo specchio. «Pazzesco» dissi, stupito io stesso «me n'ero completamente dimenticato. È una pellicola a passo ridotto, otto millimetri. Sai dove l'ho trovata? In un cassetto della scrivania di tuo padre». «Gliel'hai trafugata». Pupa si girò a guardarmi sorridente, le belle labbra lustre del rossetto color geranio che si era appena dato. «Ci mancherebbe» mi giustificai un po' vergognoso «no, è che quella sera ero andato ad aspettarlo nel suo studio, e mentre ero là mi sono messo a cercare in giro se c'era per caso qualche foto di tua madre. Frugando in un cassetto ho rinvenuto 'sta bobina. Proprio in quel momento è entrato tuo padre. Mi scocciava far vedere che ficcavo il naso tra le sue cose: così, tza!, d'istinto me la sono nascosta dietro la schiena. Per poco mi veniva un colpo. Lui non si è accorto di niente. Ci siamo seduti a parlare. Non sapevo dove mettere la bobina, alla fine, senza farmi accorgere, l'ho infilata nella tasca della giacca... poi sei arrivata tu, la spiona, e c'è stata tra voi quella lacrimevole sceneggiata napoletana». «Dì pure tragedia greca». «E così mi è rimasta in tasca. Da quella sera non l'ho più rimessa, 'sta giacca di tweed. È il film del matrimonio di tuo padre» spiegavo rigirando la bobina tra le mani. Mentre lo dicevo, fui preso da una specie di capogiro. «Giusto. C'è scritto sopra: Torricella Peligna, Maggio 1933, cerimonia di nozze. Dio buono...» boccheggiai incredulo, stupefatto per la scoperta a scoppio ritardato «... ma qua c'è pure tua madre... voglio dire, in questa pellicola dovrebbe vedersi anche lei». Pupa non reagì. Non disse niente: si sciolse l'asciugamano che aveva attorno alla testa a mo' di turbante e, afferrato il pettine, pigliò a ravviarsi i capelli ancora umidi. «Hai capito cosa ho detto?» ripetei con la bobina tra le dita, mostrandola, facendola sfarfallare «in questa pellicola si dovrebbe vedere la cerimonia di nozze di tuo padre e tua madre». Niente. Muta. Continuava a ravviarsi col pettine quei due, tre centimetri di capelli che le erano ricresciuti. Mi alzai, le andai vicino... «Perché non rispondi?» le feci «non t'interessa conoscere tua madre, sapere com'era fatta?». Come uscendo da uno stato di trasognata apatia, si girò verso di me.
«Dà qua» disse, quasi strappandomi di mano la bobina. La osservò, la rigirò, lesse la traghetta. «E come si fa a vederla?». «C'è un proiettore nello studio di tuo padre». «Lo sai adoperare?». «Ce ne avevo uno simile, a Tripoli. Ci vedevo coi compagni di scuola i filmini muti della Pathé: Stanlio e Ollio, Tom Mix, Ridolini». «Vallo a prendere». «Sì, e se torna zio Armandino?». «Papà è andato a L'Aquila, torna stasera tardi». Pupa si alzò, si strinse con un gesto nervoso la cintura dell'accappatoio «E poi, anche se torna? È proibito vedere il filmetto delle sue nozze?» sbraitò «cos'è, un documento segreto, una roba pornografica?». Il proiettore era pieno di polvere. Ci soffiai sopra, lo ripulii col fazzoletto, infilai la spina nella presa, lo accesi. Funzionava. «Dovrebbe funzionare» dissi indaffarato a montare la pellicola: l'agganciai alla bobina fissa, la feci poi passare per i vari incastri, misi a fuoco il rettangolo di luce che avevo diretto su una parete della stanza, e azionai il motorino. «Spegni la luce in mezzo» dissi a Pupa. Lei andò a spegnerla. Si sedette sulla sponda del letto e accavallò le gambe, il busto eretto, l'espressione distaccata, il naso arricciato, schifato, quasi ci fosse costretta a vedere quel film. La pellicola prese a scorrere con un ronzio uniforme, erano immagini accelerate, coi fotogrammi segnati, graffiati, spesso illuminati da improvvisi aloni. Si vedeva un corteo di gente che seguiva gli sposi lungo la ripida rampa di scale che portava alla Chiesa maggiore di Torricella. Tutte persone azzimate, vestite alla moda dell'epoca: qualche uomo aveva persino il papillon, alcune signore portavano quei cappellini con la veletta che andavano di moda prima della guerra. Gente elegante, mescolata alla massa di paesani, alle frotte di ragazzini che si giravano di continuo a guardare l'obiettivo, le facce compiaciute, gli sguardi spiritati. Lei, la sposa, era al braccio di un omaccione baffuto: forse il padre. Saliva i gradini con lo sguardo chino per non incespicare nel lungo vestito bianco. In testa portava una specie di cuffia coronata da una ghirlandina di boccioli. «Quella è tua madre» deglutii. «Non si riesce a vedere» commentò Pupa nervosa, impaziente: non pareva, ma era emozionatissima, al limite del mancamento «che schifo di film!».
«È che non la inquadrano mai in primo piano, porca miseria!» imprecai. La scena, a un certo punto, cambiò completamente. Si vide una strada bianca, polverosa, e sullo sfondo la Morgia. Lungo il ciglio erano ferme alcune auto dell'epoca. Accanto a una di queste - una Fiat Balilla vecchio modello -, in mezzo a un gruppo di persone che lo circondavano, riconoscemmo zio Armandino, non aveva più il completo da cerimonia, indossava un abito da viaggio, sportivo. «Papà» mormorò Pupa rapita, ipnotizzata «guarda com'era giovane... com'era bello». La cinepresa lo riprendeva in primo piano, sorridente, un po' impacciato, gli occhi che spesso guardavano l'obiettivo, pudichi e vanitosi insieme. Il ronzio della pellicola senza sonoro, le immagini veloci, graffiate, davano alla scena un che di febbrile e concitato, soprattutto alle facce delle persone, ai loro gesti. Poi, di colpo, entrò nell'inquadratura la sposa. Era girata di spalle, salutava le persone, che le si accalcavano attorno, con un gesto timido e grazioso della mano: era bionda, i capelli arricciati, indossava un tailleur chiaro. Gli sposi - era evidente - stavano partendo per il viaggio di nozze, si congedavano da amici e parenti che li avevano accompagnati, scortati con altre auto fin là, lungo la strada per Gessopalena, quasi all'altezza della Morgia. Lei si girò verso la cinepresa accostando il viso a quello del marito, concedendosi in primo piano all'obbiettivo: sorrideva, batteva le lunghe ciglia imbarazzata. Fece a un tratto il gesto ardito di baciare zio Armandino: un bacio fugace sulla bocca. Poi, scherzosa, gli passò le dita sulle labbra come per togliergli gli sbaffi lasciati dal rossetto. «Mariù» alitò nel buio Pupa, la voce quasi atona. «Mariù D'Amico» ripetei esterrefatto «la donna della foto con dedica... l'amante di Piperno». Ci fu un momento di silenzio. La pellicola scorreva ronzando, i fotogrammi si succedevano frenetici e traballanti. «Mia madre» aggiunse Pupa con un filo di voce, meno che un bisbiglio. Gli sposi salirono a bordo della Balilla e l'auto si allontanò lungo la provinciale sbrecciata in una nuvola immensa di polvere bianca, in un tripudio di mani che salutavano, di fazzoletti che sventolavano. 23 Pupa volle vederlo e rivederlo non so quante volte, il filmino, fino alla
noia. Non c'era dubbio, la sposa ripresa in quella pellicola a passo ridotto e la Mariù della foto-ritratto, l'ex di Piperno, erano la stessa persona. C'era una così evidente e smaccata somiglianza tra loro, che solo un deficiente o un orbo potevano pensare che si trattasse di due persone diverse. La scoperta ci aveva sconvolti. Per essere comunque sicuri al cento per cento di non aver preso un abbaglio, cominciammo a fare una serie di verifiche e controlli. Per avere la conferma che Mariù D'Amico era proprio la madre di Pupa, la moglie di zio Armandino, che perciò abitava e viveva a Torricella e via discorrendo, come prima cosa rileggemmo attentamente tutte le lettere scritte da lei a Piperno - le avevo portate con me da Bologna, insieme alle foto, quelle lettere. Be', non scoprimmo un tubo, alla fine. Niente, non c'era verso di trovare una parola, una frase riferita a Torricella, alle persone del posto, ai familiari, niente, neanche di sfuggita. Erano così turgidi, quei messaggi d'amore, così grondanti poesia, passione, sentimento e dramma, che proprio non c'era spazio per considerazioni più prosaiche, legate cioè a fatti, persone della vita di ogni giorno, alla realtà quotidiana. Tutte le lettere, poi, portavano la data in cima al foglio, ma non la località di provenienza. Ma allora, porca miseria, da dove le scriveva Mariù D'Amico quelle dannate missive? Qual'era il maledetto paese o la città da dove venivano spedite? Tra l'altro, Piperno aveva conservato solo i foglietti, non le buste, bastava che fosse rimasta anche una sola busta e si poteva ricavare dal timbro postale la località in cui era stata imbucata. C'era solo una specie di sigla in cima al foglio, prima della data. Una T e una P puntate. «T.P.!» urlai trionfante. Pupa stava semisdraiata sul letto con le lettere sparse attorno, io ero seduto a terra, sul tappeto peloso, tutto intento a esaminarne una. «Sai che vuol dire T.P.?». «T.P.?». «Sì, quel T.P. che c'è in ogni lettera prima della data». Pupa osservava il dettaglio assorta, accigliata, neanche ci avesse in mano la Settimana Enigmistica e si fosse imbattuta in uno di quei rebus spaccameningi. «T.P.?... Che vuol dire?». «Vuol dire Torricella Peligna!» esclamai eccitato, ringalluzzito da quella decisiva scoperta. «Questa è la prova incontrovertibile che le lettere erano spedite da Torricella Peligna, cribbio, che la Mariù che le scriveva non poteva essere che tua madre!». «E perché si firmava Mariù?» obiettò Pupa alzando gli occhi dalla lettera e fissandomi con lo sguardo stralunato. Era ancora stordita, incredula per
quella pazzesca scoperta, che fra sua madre e Piperno, cioè, c'era stata vent'anni prima la travolgente storia d'amore che veniva fuori da quella corrispondenza epistolare - a leggerla, pareva proprio un romanzo rosa di Liala. Ebbi un attimo di paralisi mentale. Già, perché si firmava Mariù? Un nome del genere, pensai, poteva averlo usato come pseudonimo per il suo romanzo, un sacco di scrittori, o presunti tali, avevano la civetteria di cambiarsi il nome, di mettersene uno di fantasia. Mi tornò in mente il giorno in cui Piperno, a bordo dell'Appia blu, arrivò a Torricella. Quello stesso pomeriggio, reduci da tutto quel peregrinare alla ricerca della casa avita dei genitori di John Fante, mentre tornavamo all'albergo, Piperno mi chiese della madre di Pupa: se era morta, viva o cos'altro. Calò un gran silenzio, dopo. Lui prese a fischiettare una vecchia canzone: "Parlami d'amore, Mariù", s'intitolava. Adesso capivo, porca miseria! Altro che John Fante. Era venuto a Torricella solo ed esclusivamente per rivedere, dopo quasi vent'anni, lei, Mariù... «Mariù è il diminutivo di Maria» spiegai «si firmava così anche nel romanzo. Forse le piaceva chiamarsi in quel modo. Un vezzo». «Sarà. Del resto, fino a due mesi fa non sapevo neanche che si chiamasse Maria. Non so niente di mia madre, se è per questo. Niente!» sbottò Pupa esasperata, rovesciandosi sul letto all'indietro, lunga distesa, coprendosi la faccia con l'avambraccio. «Non hanno fatto che ingannarmi, prendermi in giro: tutti quanti! A cominciare da quel fesso di mio padre, per finire con Piperno... Mi hanno ingannata, usata, trattata come una bamboccia scema... Li odio tutti! Mio padre, Piperno... Anche mia madre, odio! Se penso che era lei che Piperno voleva, che cercava in me, sento un odio, una rabbia che neanche puoi immaginarti... Ecco perché mi ha costretta a quell'umiliante carnevalata, voleva che somigliassi alla sua Mariù, voleva ritrovare nella figlia la madre, quel mostro... s'illudeva di risuscitare in me il suo grande amore perduto! Che uomo abbietto! E che troia anche mia madre! Moglie infedele e madre snaturata!» si sfogava Pupa, la voce rotta, rabbiosa: sembrava un torrente in piena, torbido, schiumoso. «Non solo cornificava mio padre, aveva pure deciso di filarsela all'estero con l'amante, la vigliacca! Spariva, se ne andava col suo ganzo a Tripoli, piantava tutto, il marito, la famiglia... la figlia: una bambina di quattro anni appena... Io!... Ti rendi conto, Renzo, che razza di madre cinica e degenerata ci ho avuto?». «Be', ma se era schizofrenica» mi uscì detto, così, senza pensarci. «Questo pure è vero» mormorò Pupa dopo alcuni momenti di silenzio,
come riflettendo su quella mia uscita, sempre gettata sul letto supina, col braccio sugli occhi. «O forse lo è diventata dopo» osservò. Nel dir così, sollevò un ginocchio, piegò la gamba ad angolo. L'accappatoio le si aprì davanti. La vista di quella gamba nuda, mi scatenò in corpo una tempesta di voglie aspre, fameliche, mescolate a un sentimento amoroso languido, svenevole. Una miscela micidiale, se non le davo subito la stura, mi sarebbe scoppiata in corpo come una carica di tritolo. Provai a slacciarle dolcemente la cintura dell'accappatoio, la mano mi tremava, il cuore mi picchiava in petto come un martello pneumatico. Con la mano spiccia - l'altro braccio, si ostinava a tenerlo sugli occhi Pupa mi bloccò il polso, mi impedì la subdola manovra. Lasciai perdere, mi chinai su di lei e, insinuando la testa sotto l'avambraccio, raggiunsi la sua bocca. Ebbe all'inizio una reazione fredda, inerte, poi, pian piano si sciolse, partecipò. Ci baciammo a lungo, golosamente. Assaporavo l'amaro delle sue lacrime, il sapore salato del moccio che le colava dal naso, mi dava gusto quel bacio umido, caldo, impiastricciato di lacrime e moccio. «Lui amava mia madre, non me» riprese a farfugliare Pupa alla fine del lunghissimo bacio. Mi rialzai: un filo di saliva vischiosa ci tenne uniti per qualche secondo. L'accappatoio le si era aperto davanti e il suo corpo era sgusciato fuori completamente nudo, morbido, col pube nero, riccio e folto come un cespuglio, i seni bianchi e i capezzoli turgidi come chicchi di uva passa, era la prima volta che la vedevo così, tutta nuda, che potevo contemplarla estasiato, sdilinquito. «Cavolo, se sei bona» gorgogliai. Non lo raccolse proprio, quel mio apprezzamento. «Come sono infelice, Renzo» continuò a gemere, a recriminare «quel fetente di Piperno che sfogava su di me i suoi rimpianti, la nostalgia del suo amore perduto... Mio padre che mi ha mentito per una vita, mi ha raccontato solo balle... Mia madre, una matta che trescava con un altro e stava per scappare con lui fregandosene del marito, di me...» la voce le si fece piagnucolosa «...di me, una povera bambina di soli quattro anni». «Ci sono qua io, Pupa» mormorai. Mentre lei sproloquiava in quel modo mi ero spogliato nudo, adesso le ero sopra, dentro. «È vero... solo tu... mi vuoi... un po'... di bene» pigolò con la voce che le usciva a singhiozzo a causa del fatto che le stavo sopra, dentro, e la stantuffavo a più non posso... «anch'io... te ne voglio... però... Renzo... cuginet-
to... mio...». Faceva freddo, quella mattina. Il cielo era grigio, coperto, minacciava pioggia. Verso le undici e mezza, armati di ombrello, sfidando il brutto tempo, io e Pupa uscimmo a fare la solita passeggiata. «Andiamo per la via nuova» disse lei mentre varcavamo la soglia del portone di casa. Si era messa il vecchio montgomery: con i capelli corti, un po' arruffati, e quel montgomery, aveva ripreso l'aria da ragazza di città, eccentrica, sfrontata. «Come mai per la via nuova?» chiesi. Sapevo che non voleva mai fare quella strada per non passare davanti al cimitero, le dava tristezza. «Voglio andare al cimitero». «Al cimitero? A fare?». «Così, mi gira di andarci». Entrati nel piccolo camposanto di Torricella Peligna, Pupa si guardò in giro come per orientarsi: c'era un ometto che si aggirava tra le tombe, rastrellando le aiuole, togliendo dai vasi i crisantemi ormai appassiti - stavano là dal due di novembre, dal giorno dei morti. «Scusate, compare» gli fece Pupa, «dove sta la tomba di famiglia di De Lellis?». Il compare ce la indicò. Entrammo nella cappella. Aveva il soffitto a cupola e le pareti rivestite del marmo delle lapidi. Le tombe dei defunti erano in pratica incassate nelle pareti, tutte affilate l'una sull'altra, coi nomi incisi sopra, la data di nascita e di morte, un breve epitaffio e il medaglione che mostrava il viso mesto e compunto del caro estinto. «Guarda là» bisbigliò Pupa indicandomi una lapide in alto, appena sotto il soffitto. «Maria De Lellis, 1906... Vedi che ho regione, che non ho le traveggole. Quella è la tomba di zia Manetta, me lo ricordo benissimo. Zia Angiolina e zia Coletta mi facevano sempre la rassegna di tutti i defunti, quando si veniva al cimitero il giorno dei morti. Cominciavano dai bisnonni e finivano con zia Manetta». Mi stavo sentendo male dentro quella cappella funeraria, con quel puzzo rancido di crisantemi sfatti, misto al tanfo di umido e muffa di morti. «È vero, hai ragione» ammisi «c'è anche il medaglione con la sua faccia». Nel piccolo ovale smaltato si vedeva il viso di zia Manetta. Neppure in quella foto si capiva che era una pazza, una deficiente, aveva lo stesso cipiglio severo e sussiegoso del ritratto appeso alla parete della mia stanza,
dell'immaginetta vista mentre sfogliavo con mamma l'album delle fotografie, quel giorno lontano, quando ero ancora a Tripoli. «Però non c'è la data di morte» feci osservare a Pupa «c'è scritto solo 1906, l'anno in cui è nata». «Là dentro non ci sta nisciuno» c'informò il custode entrando, notando che fissavamo quella lapide. Pigliò a sfilare i fiori dai vasi: li gettava poi in un secchio che si era portato dietro. «Ah, non c'è nessuno in quella tomba?» si stupì Pupa. «Non lo sapavate?» rispose l'uomo prendendo a parlare una specie di italiano maccheronico, alla Peppino De Filippo. «Quella, la tomba, è ancora vacante. La titolare ancora non è decessa... Trattasi della sorella del dottor De Lellis, vostro patre... Fra la quale la chiamavano la scimilita, con licenza parlando, a causa del motivo che era un po' tocca al cervello... Vedete là? In cima al marmo non ci sta scritto l'anno della dipartita». «Sì, infatti» tagliò corto Pupa. Si fece un frettoloso segno della croce e uscì di corsa, senza neanche salutare. «Arrivederci, compare, tante grazie» salutai. Dovevo sempre mettere una pezza alle fughe precipitose di Pupa, alle sue reazioni imprevedibili. «Preco, mio dovere» rispose quello, compito. Non mi era mai capitato d'incontrare un camposantaro così forbito nel parlare, così educato, signorile. Raggiunsi Pupa. Ci avviammo per tornare in paese. «Hai visto, allora?» dissi dopo un po' che si marciava lungo la strada di ritorno «la tomba è vuota, zia Marietta non è ancora morta... Del resto, scusa, non era lei la matta che abbiamo visto in quell'ospizio di Lanciano?». «Be', dì pure quello che vuoi, ma io mi ricordo che da bambina zia Coletta e zia Angiolina mi dicevano ogni volta: Là ci sta la povera zia Manetta. Questo, mi ricordo. Ecco perché ho sempre creduto che fosse morta». «Ma sai, i ricordi d'infanzia sono spesso vaghi, confusi». «Vaghi un fischio! Mi ricordo benissimo, invece!» scattò «adesso anche tu ti metti a ripetere le stesse fesserie che sforna mio padre da una vita?». «Hai ragione, scusa» ammisi contrito, confuso «è che non ci si capisce niente in tutta questa storia. Sembra una commedia di Pirandello». «Commedia?» fece Pupa seria, senza un pizzico di ironia «questa è una tragedia, altroché commedia!». Eravamo già in paese, stavamo facendo il corso, camminavamo lungo il
marciapiede. «Passiamo un momento in posta» disse Pupa. «A fare, in posta?». «Voglio spedire una cartolina a Pinuccia. Quando siamo partiti da Bologna non le ho fatto neanche gli auguri di Natale. Anzi, ci metti la firma pure tu». Entrammo nell'ufficio postale: era, al solito, immerso nel caos più completo. Dietro al tavolone c'era lei, la cicciona, incastrata con le natiche straripanti nella seggiola girevole a rotelle. Quando ci riconobbe, fece un sorriso radioso e gorgheggiò: «Oh, chi si vede!». «Buongiorno, Celestina» salutò Pupa. Anch'io salutai masticando un 'giorno a mezza bocca. Ero rimasto colpito dal nome: Celestina. Non sapevo che avesse quel nome soave, evanescente, così poco adatto a un tipo di quella stazza, strizzata in quel vestito nero da vedova inconsolabile. Pupa si fece dare una bella cartolina patinata di Torricella, l'affrancò, ci scrisse: Auguri di Buone Feste, bacioni, Pupa, e la fece firmare anche a me. «Celestina, lei conosceva mia madre?» chiese a un tratto. Mi lasciò allibito quella sua domanda formulata in quel modo secco, diretto, senza tanti giri di parole. «La conoscevo sì» rispose l'altra, anche lei un po' stupita, circospetta. Poi si lasciò andare, prese a rievocare commossa, poetica. «Era tanto bella... ti assomigliava molto, sai? Solo che lei era bionda e tu sei brunetta. Ma avete lo stesso sguardo, la stessa bocca, lo stesso nasino capriccioso». Fece di colpo il viso compunto, lo sguardo mesto. «Che brutta sorte le è capitata. Che disgrazia... Come ha sofferto il povero Armandino... tuo padre». «Celestina, si ricorda se la mamma riceveva posta?» la incalzò Pupa. «Posta?... Sì, ne riceveva, certo» rispose Celestina un po' esitante, sorpresa dalla domanda. «Voleva che gliela tenessi da parte, veniva sempre lei a ritirarla» aggiunse con un tono di voce diverso, sussurrato, piegando la testa di lato in modo malizioso, ammiccante. «E da chi la riceveva, si ricorda?» insisteva Pupa fingendo un'ansia trepida, filiale, nostalgica. Invece, ci avrei giurato, era lì tutta tesa a capire, ricostruire, svelare quella cortina fitta e inestricabile di mistero che avvolgeva la figura della madre. «Ultimamente, mi ricordo... ma si tratta sempre di prima della guerra...
riceveva molte lettere da una casa editrice... Come si chiamava?» Celestina si pizzicò la pappagorgia burrosa come a sollecitare il ricordo di un nome dimenticato «si chiamava... si chiamava...». «Non importa come si chiamava. Si ricorda se le lettere venivano da Bologna?» chiese Pupa. «Sì, da Bologna... Un giorno mi confidò, tutta emozionata, che dovevano pubblicarle un suo romanzo... Ah, se scriveva bene, Maria!... Aveva già pubblicato un libro di poesie con la casa editrice Carabba di Lanciano... Ce l'ho, sai, quel libro» trillò «"Le rose, le spine", è intitolato. C'è anche la sua dedica: A Celestina, con tanto affetto, Mariù... Si firmava Mariù: le piaceva farsi chiamare così». Pupa ascoltava muta, la faccia tirata. Pareva essersi inceppata, non riusciva più ad andare avanti in quella specie di interrogatorio. «Scusi, ma dopo che fu ricoverata» intervenni «ricevette altre lettere da quella casa editrice di Bologna?». «Sì, un paio, se non ricordo male. Poi gliene arrivò una anche da Tripoli» si ricordò. Mi puntò il dito contro: «Proprio da Tripoli, la vostra città!» squittì eccitata. «E che fine hanno fatto?». «Le ho tenute per tanto tempo da parte. Poi, con la guerra, l'occupazione tedesca, lo sfollamento, l'ufficio rimasto inattivo, abbandonato per quasi un anno, chissà dove sono finite... Avrei potuto darle al marito» aggiunse in quel modo un po' ammiccante, sottovoce, come se rivelasse un'indiscrezione, «ma non mi è parso il caso... Noi impiegati postali, sapete, abbiamo il dovere di tutelare l'utente, di non violare la segretezza della sua corrispondenza». A tavola ero così assorto a rimuginare su questi fatti, sulle cose che io e Pupa andavamo scoprendo un po' alla volta, che neppure sentii la voce di zia Angiolina: «Renzo, che pensi?». «Mh?» feci guardandola con l'occhio vitreo, assente. Ripensavo al viaggio in nave, alla strana reazione di Piperno quando gli dissi che, in attesa di stabilirmi con la famiglia a Napoli, sarei andato a stare fino a Capodanno a Torricella Peligna, in Abruzzo. Quando sentì il nome di quel paese in provincia di Chieti, Piperno cambiò faccia, ammutolì. «Ti stavo chiedendo quando arrivano papà e mamma» disse zia Angiolina. La sua voce mi arrivò filtrata, la sua domanda rintronò nella mia testa, vuota di senso, come un'eco di suoni sconnessi.
«Quando arrivano mamma e papà, dici?» ripetei sfasato «dovrebbero essere qui per il ventitre sera». «Non ti piace il lesso?!» gridò zia Coletta notando che cincischiavo attorno alla carne, la tagliuzzavo, ci toglievo i grassetti, le pellecchie, senza decidermi a mangiarla. Detestavo il lesso, mi rimaneva tutto in mezzo ai denti. «No-no, mi piace» risposi mettendone un pezzo in bocca. Mi guardavano di sottecchi, preoccupate, diffidenti. Non ci facevo caso, stavo di nuovo sprofondando in quella specie di confusa ricostruzione dei tanti piccoli dettagli sparsi, dimenticati, in apparenza insignificanti, ma che invece, messi insieme, ricomponevano tutto il quadro della faccenda, prendevano un rilievo, una luce nuova, un senso completamente diverso. Pensavo alla breve, pazzesca storia d'amore fra Piperno e Pupa. Lui, stranamente, non le aveva mai fatto domande sulla madre. Strano che non avesse, neanche in modo indiretto, indagato, cercato di sapere dov'era, se era viva o che fine aveva fatto. Solo a me, in proposito, aveva rivolto qualche domanda distratta - fu lo stesso giorno in cui piombò a Torricella senza che neanche me lo aspettassi. Dopo quell'ultima lettera di Mariù, in cui pareva che tutto ormai fosse stato deciso - si sarebbero incontrati il tal giorno a Roma, per poi prendere da Ostia l'idrovolante per Tripoli -, certamente Piperno non aveva saputo più niente di lei. A sentire Celestina, erano arrivate altre due lettere da Bologna, in cui forse Piperno prendeva gli ultimi accordi, oppure sollecitava una risposta, un'ulteriore conferma. Quelle due lettere, Mariù non era mai passata a ritirarle. Piperno ne aveva scritta un'ultima da Tripoli: anche quella era rimasta là, nell'ufficio postale, senza risposta. Dopo, più niente. «Bisogna che qualcuno vada a prenderli alla stazione di Palena» sentii dire da zia Angiolina «hai provveduto, Renzo?». «Prego?». «Non dovevi incaricare Camillo Palizzi di andare a prendere con l'auto i tuoi genitori alla stazione di Palena?». «Camillo Palizzi?... Sì-sì, l'ho avvertito». All'improvviso, mi tornò in mente quella mattina di fine novembre: Piperno venne nell'orto e mi regalò un romanzo di John Fante, "Aspetta primavera, Bandini". Prima di andarsene, si fermò con Carmela a parlare, parlottarono un bel po', i due. Alla fine, lui tirò fuori il portafoglio e le scucì un bigliettone da cinquemila: sicuramente le aveva chiesto se sapeva niente della signora De Lellis, e lei, Carmela, in cambio dei soldi, certa-
mente gli aveva rivelato l'indirizzo dell'Istituto religioso delle Ancelle del Sacro Cuore. Qualche giorno dopo, infatti, Piperno era andato a Lanciano. Chissà come c'era rimasto a vedersi di fronte quello sgorbio di zia Manetta. Si sarà anche chiesto, a quel punto, dove diamine era ricoverata Mariù. E chissà quali altri inquietanti interrogativi si sarà posto. Del resto, le stesse domande ce l'eravamo fatte io e Pupa dopo aver scoperto che là, in quell'ospizio, c'era zia Manetta e non, come credevamo, sua madre. Ma forse Piperno non si era arreso, ruminavo nella mia testa, forse aveva intenzione di andare a fondo in quella faccenda, forse aveva continuato a indagare, a informarsi, a fare domande in giro per Torricella, fra i paesani. Poi l'epilogo, la tragedia seguita alla cena in cui si doveva festeggiare il fidanzamento fra lui e Pupa. Non ci fu nessun fidanzamento, nessun festeggiamento, durante quella cena. Niente di niente, neanche un mezzo brindisi. Di fidanzamento non se ne parlò proprio. Verso la fine, Piperno si era pure sentito poco bene, aveva chiesto scusa e, dopo avere salutato tutta la compagnia, se n'era tornato in albergo. La notte, poi, era morto. Di cosa, nessuno lo sapeva. Infarto? Avvelenamento da funghi?... Boh! «Mangiati la mela!» mi strillò bonaria zia Coletta «una mela al giorno, leva il medico di torno. Lo sapevi?». La fissai col solito occhio vacuo. «Ah, sì». Presi a sbucciarmi la mela con gesti legnosi, distratti. «Questo sta completamente sfasato, oggi» sentii che farfugliava. «Forse è l'attesa, l'emozione. Il ventitré arrivano Amelia e Giulio» spiegò zia Angiolina «sono più di tre mesi ormai che non rivede i genitori». «Chissà allora quando parte militare» commentò zia Coletta. Un altro ricordo mi aveva folgorato, mi era scoppiato nel cervello come una deflagrazione muta, accecante. La mattina in cui per caso incontrai Pupa e Piperno in pineta - se ne stavano seduti su una panchina, mezzi abbioccati, a godersi l'ultimo, tiepido sole di novembre -, a un certo punto si parlò del menù della cena di fidanzamento, e Pupa, elencandolo, disse che come contorno c'erano pure i funghi trifolati. Piperno subito fece presente che, per via dell'aglio, non poteva mangiarli. Pupa lo rassicurò, glieli avrebbe fatti cucinare a parte da Rachele, senza aglio. Piperno dunque aveva mangiato dei funghi cucinati a parte, solo per lui... 24
Dopo mangiato, di solito facevo una pennichella. Quel pomeriggio, invece, me ne restai tutto il tempo disteso sul letto, vigile, sveglio, con l'orecchio teso a ogni minimo rumore della casa: aspettavo che tutto fosse tranquillo, che le vecchie si fossero finalmente appisolate - anche loro, dopo pranzo, si ritiravano in camera, si facevano un'oretta di riposino. In realtà, cercavo il momento buono per andare a chiedere a Carmela alcune cosette. Lei era in cucina, lavava i piatti, sentivo l'acciottolio delle stoviglie, lo scroscio dell'acqua del rubinetto. Mentre ero lì disteso ad aspettare, quel pensiero, che continuava da un paio di giorni a rodermi come un tarlo, mi tornò alla mente. Niente, non mi facevo ancora capace che la misteriosa signora delle foto fosse Mariù, che sotto quelle macchie si nascondesse il suo viso, il suo sguardo velato, i ricci biondissimi, quel sorriso lieve, un po' malizioso. In tutti quei mesi, chissà perché, mi ero sempre figurato il viso di Rita Hayworth. E invece, incredibilmente, c'era il suo, quello di Mariù. Facevo fatica a crederci, ad abituarmi all'idea. Soprattutto non riuscivo a mettere insieme le varie e diverse identità che si fondevano in lei, nella sua persona: la madre di Pupa, prima di tutto, ma anche la zia schizofrenica. E ora che l'avevo scoperto, addirittura l'amante di Piperno. Pazzesco! Mi alzai. A passi felpati raggiunsi Carmela in cucina. «Me lo faresti un caffè?» le chiesi sottovoce facendo capolino alla porta. Ebbe un soprassalto. «Mi hai fatto paura... Ti sei già alzato?» mi apostrofò. In genere durava un'oretta, la mia siesta pomeridiana. «Carmela, adesso devi dirmi la verità» bisbigliai accostandomi a lei con fare circospetto, il tono complice. «Perché, dico le bugie, io?». «Un giorno, un mese fa circa, eravamo nell'orto, tu rastrellavi il prato... Il professor Piperno si fermò a parlare con te, parlò un bel pezzo. Alla fine ti fece pure un regalino. Te lo ricordi?». «Regalino?» ripeté asciugandosi le mani nel grembiule «non mi ricordo». «Dai, non fare lo gnorri, erano soldi, danari, quelli che t'ha dato. Era una banconota da cinquemila, se non ho visto male». Insinuandosi veloce tra me e lo stipite della porta, Carmela sgusciò fuori dalla stanza: andò verso la credenza, aprì uno sportello e tirò fuori un ferro da stiro, poi si avvicinò al camino, raccolse un paio di palette di brace e le versò all'interno dell'arnese.
«Mo' ti metto su il caffè» disse tornando in cucina a passi svelti, indaffarata. Era chiaro, cercava di eludere la mia domanda. Non mi arresi. Volevo che vuotasse il sacco, dicesse tutto quello che sapeva, a cominciare dalle cose che, in cambio di quelle cinquemila lire, aveva confidato a Piperno, quel giorno nell'orto. Mentre aspettavo che mettesse su il caffè, presi a osservare distratto il presepio che zia Coletta e zia Angiolina avevano allestito in un angolo del salone. Era una roba monumentale, caotica, informe, d'una bruttezza che inorridiva. Le statuette, intanto, erano sparse fra il muschio e i sassi senza un minimo di logica, piazzate così, a casaccio, e poi erano tutte sbeccate, monche, una diversa dall'altra, alcune minuscole, altre gigantesche. In vita mia non avevo mai visto un presepio più orrendo di quello. Davvero. Carmela tornò. Aveva steso sul tavolo una coperta di lana e sopra ci aveva messo una pezza di cotone. Sul pavimento, lì accanto, c'era posato il cestone stracolmo di panni da stirare. «Accidenti, se è brutto 'sto presepe» commentai «guarda qua: Gesù bambino è più grosso dell'asino, a momenti». «Ci mancano le lucine» disse lei e pescò dalla cesta una veste di fustagno, la sciorinò sul tavolo e prese a passarci sopra il ferro rovente «vedrai che bello quando le accendono». «Perché non vuoi rispondere, Carmela» tornai a chiederle, la voce bassa, insinuante. Di là, in cucina la macchinetta aveva già preso a sfrigolare. Carmela sgattaiolò di nuovo via: tornò poco dopo con la guantiera, la tazzina di caffè fumante posata sopra, la zuccheriera. «Mo' beviti il caffè» disse posando il tutto sul tavolo. Feci il primo sorso. Lei aveva ripreso a stirare la veste, ogni tanto la spruzzava immergendo le dita in una bacinella d'acqua. «Cosa cercava Piperno?» tornai alla carica «t'ha dato cinquemila lire. Cosa voleva in cambio?». Carmela taceva, la faccia china, il ferro da stiro che andava avanti e indietro nervosamente. «Voleva sapere dove stava ricoverata la moglie di don Armandino» rispose in un bisbiglio. Si girò a guardare verso il fondo della casa, verso la stanza delle zie. «Sccc!... Non farti sentire. Quelle ci hanno le orecchie lunghe» mi sibilò con la voce soffocata, facendo smorfie, strani gesti. «Volevo starmi zitta, io... Qua, in questa casa, lo sai anche tu, nessuno parla mai della signora De Lellis». Fece una spallucciata. «Che me ne importa a me. Alla fine gliel'ho detto che stava ricoverata in quell'Istituto di suore a Lanciano. Per-
ché non dovevo dirglielo, se mi dava un bel po' di quattrini? Che c'era di male se lo sapeva anche lui?». Andava su e giù col ferro da stiro, non si fermava un momento, di colpo cambiò tono, fece la voce querula, la faccia infelice. «Io sono povera, ti dovessi credere» pigolò «anche la famiglia mia se la passa male. Siamo massarioli, noi, contadini, e la terra non rende da queste parti, è solo fatica. I quattrini non bastano mai». Posò il ferro da stiro sulla apposita griglia, agguantò dalla cesta una manciata di fazzoletti da naso. «Ma perché il professore si interessava tanto alla moglie di don Armandino?» mi chiese fissandomi, la voce così bisbigliata che facevo fatica a sentire «tu lo sai, l'hai capito?». «No» mentii - invece lo sapevo eccome - «e tu?». Fece un'aria saputa, misteriosa. «In paese dicono che tanti anni fa, prima della guerra, la signora De Lellis ci aveva un amante. Dicono che si era impazzita per lui» rispose in un soffio «lo sai che m'ha detto Baruzzi, l'appuntato dei carabinieri?» aggiunse, passando bruscamente ad altro argomento «m'ha detto che alla Procura di Lanciano hanno già appurato com'è morto il professor Piperno». «Com'è morto?». «Avvelenato dai funghi». Non finì di dirlo che sentimmo dal corridoio che portava alla stanza delle vecchie, i passi strascicati e zoppicanti di zia Coletta, alternati al tonfo sordo che faceva il suo bastone sul pavimento. La porta del bagno si chiuse e dopo un po' si sentì lo sciacquone che scrosciava. «Zia Coletta è andata al cesso» commentò Carmela in un bisbiglio strangolato. «E com'è che è venuto a dirlo proprio a te, l'appuntato?» domandai. Anch'io bisbigliavo, era tutto un parlare bisbigliato «Cos'è, un tuo spasimante, per caso?». «Mi fa le poste» rispose Carmela dilatando vanitosa le narici. Parlò a voce alta, questa volta, intanto, infaticabile, andava su e giù col ferro da stiro «Gli piaccio». «Perciò è ufficiale» chiesi conferma, dubbioso, perplesso, «Piperno è morto avvelenato dai funghi». «Avvelenato dai funghi, proprio così» confermò. Ci fu una lunga pausa. «Mo' non so cosa fare» se ne uscì a un tratto dandosi un'aria importante, di buffo sussiego, «non so se debbo andargliela a dire ai carabinieri, 'sta
cosa qua». «Cosa?». Posò il ferro sulla griglia, mi venne più vicino: «Il giorno della cena del fidanzamento della signorina Pupa col professore, te lo ricordi?». «Certo che me lo ricordo». «Be', quella mattina, verso le nove» pigliò a sussurrarmi Carmela quasi nell'orecchio, «è venuta giù la comare Rachele e ha chiesto a zia Coletta... Comare Colè, ci stanno un po' di funghi nell'orto? Pupa m'ha detto che il professore non può soffrire l'aglio. All'ultimo me l'è venuto a dire, quando li avevo già cucinati. Mo' mi tocca prepararglieli a parte, solo per lui... E zia Coletta: Non ti prendere pena, comare Raché, mo' ci vado io a coglierli nell'orto, poi te li porto su». «E be', allora?» chiesi. Non capivo bene cosa volesse dirmi riferendo quell'episodio. «I funghi dell'orto, quelli che stanno sotto il muro dell'asilo, sono velenosi» mi rivelò tutto d'un fiato, mettendosi la mano di lato alla bocca, accostandosi ancora di più al mio orecchio. «Già, sono velenosi. Mi ricordo. Me l'hai già detto una volta» farfugliai senza ancora raccapezzarmi. «E zia Coletta lo sa che quei funghi sono velenosi» aggiunse lei facendo un cenno furbo e ammiccante del pollice. Sentimmo un rumore secco, come di qualcosa di duro che cade e rotola sul pavimento. Ci girammo di scatto a guardare verso il corridoio: da dietro lo spigolo del muro, sulle vecchie mattonelle esagonali, spuntava il manico di osso del bastone di zia Coletta. Ci guardammo negli occhi, raggelati. Carmela si portò una mano alla bocca, sgranò gli occhi. «Mamma mia» mormorò «zia Coletta... stava là dietro...». Accadono cose strane, pensavo tra me infilandomi il pigiama. Era già un po' che mi ronzava in testa la frase, che me la ripetevo mentalmente ogni due secondi. Mi ficcai a letto, spensi il lume del comodino, mi accucciai fra le lenzuola scaldate dal "prete". Si era alzato un vento teso, asciutto: lo chiamavano garbino, da quelle parti, in genere portava pioggia. Accadono cose strane..., mormorai ascoltando il garbino che fischiava fra gli alberi stecchiti dell'orto. Avevo visto Pupa nel pomeriggio: era raffreddata, mezza influenzata, con qualche decimo di febbre. Si era infilata due o tre golfini, aveva ingol-
lato un paio di aspirine e si era messa a letto. «Sto male» mi aveva detto, il naso chiuso, la voce roca «ci vediamo domani». Volevo parlarle dell'episodio che Carmela mi aveva rivelato in gran segreto, e invece mi toccò tenermelo per me, rimuginarci sopra per il resto della giornata da solo. Non era una faccenduola da poco: Carmela si era addirittura posta il problema se andare a denunciare la cosa ai carabinieri. Accadono cose strane..., continuavo a ripetermi nel buio della stanza, raggomitolato sotto le coperte. Quella frase, ripetuta a fior di labbra, aveva un potere magico, m'infondeva calma, riuscivo a ripensare alle cose terribili che stavano accadendo senza essere preso dall'ansia, dal panico. Accadono cose strane..., pensai per l'ennesima volta mentre mi rappresentavo la scena, così come Carmela l'aveva raccontata in quel modo concitato, prima che il bastone di zia Coletta cadesse sul pavimento e ci accorgessimo che la vecchia stava dietro lo spigolo del corridoio a origliare. Rivedevo Rachele scendere ciabattando giù per le scale, entrare in casa, chiedere a zia Coletta se poteva andare nell'orto a raccogliere un po' di funghi. Proprio all'ultimo, Pupa l'aveva avvisata che il professore non poteva soffrire l'aglio: mo' le toccava cucinargli dei funghi a parte. Rivedevo zia Coletta che diceva a Rachele di non prendersi pena, che ci andava lei a raccogliere i funghi nell'orto e poi saliva su a portarglieli. Accadono cose strane..., la frase ormai mi rintronava in testa in continuazione, mi sfuggiva di bocca da sola, come le preghierine che mamma mi faceva ripetere da bambino: Dolce cuore di Gesù, fa ch'io t'ami sempre più... Come le litanie che le beghine biascicano in chiesa recitando il rosario insieme al prete; come i ritornelli di certe canzonette; che ti si piantano nell'orecchio e non c'è verso di cacciarli via. Accadono cose strane..., zia Coletta che andava a cogliere i funghi nell'orto e li portava su a Rachele, e Rachele che li cucinava a parte per il professor Piperno. Lo strano era che zia Coletta faceva tutto questo sapendo benissimo che i funghi che crescevano nell'orto, sotto il muro dell'asilo, erano velenosi. Mi svegliai al rumore della pioggia: picchiava dura sui vetri, scrosciava sorda e rabbiosa nell'orto, lungo via dei Fossi, sul piazzale. Ogni tanto scoppiavano dei tuoni: uno fu così violento e lacerante che sembrò che il fulmine si fosse abbattuto sul davanzale della finestra. Accesi la luce del comodino, guardai l'ora: le nove e mezza. Come mai Carmela non era ve-
nuta a svegliarmi, a portarmi il caffè a letto? «Non c'è Carmela?» chiesi a zia Angiolina mentre facevo colazione seduto al tavolo in sala. «Chissà dov'è che se n'è andata, quella stupida» rispose attizzando il fuoco del camino «vorrei proprio saperlo». Salii su da Pupa per vedere come stava. «Pupa?» chiamai sottovoce, affacciandomi. La stanza era al buio, si sentì un gemito uscire da sotto le coperte. «Sei tu, Renzo?» miagolò dopo un lungo silenzio fatto di sospiri, soffi, strani versi. «Entra». Si tirò su torpida, intronata di sonno, di raffreddore. Accese l'abat-jour. Aveva gli occhi gonfi, la bocca screpolata, i capelli arruffati. Si era infilata tre golf, uno sull'altro: pareva uno spaventapasseri. Fui preso da una voglia smaniosa di baciarla. Andai a sedermi sulla sponda del letto e l'arpionai con la mano alla nuca. Bruciava. «Dai, che ti attacco l'influenza» disse alla fine, tramortita, asfissiata dal mio bacio rapace. «Ti sei misurata la febbre?». «Ieri sera avevo trentotto... Stanotte mi è successa una cosa strana» aggiunse fissandomi stralunata. «Accadono cose strane...» sentenziai con un sogghigno. «No, davvero... Non so se l'ho sognata o se l'ho vista con i miei occhi» disse puntandosi le dita sulla fronte, scrollando la testa come per liberarla del tutto dallo stordimento del risveglio. «Stanotte, verso le tre, mi sono svegliata. Avevo scordato gli scurini aperti: entrava la luce dei lampi e la pioggia batteva così forte contro i vetri che pareva li dovesse spaccare». Si stropicciò la faccia, si grattò la testa, incredula, frastornata. «No, non è stato un sogno... Mentre chiudevo le imposte ho gettato un occhio giù... C'era un buio pesto, nell'orto, ma ho visto lo stesso una scena incredibile». Si ammutolì, come se il ricordo di quella scena incredibile l'avesse paralizzata, come se non trovasse le parole per descriverla... «Cos'è che hai visto?» la incalzai notando che non si sbloccava. «Ho visto due che spingevano una carriola lungo il viottolino che porta al pozzo» prese a raccontare sfasata, incerta «uno spingeva la carriola, la teneva per le stanghe, l'altro gli camminava a fianco con l'ombrello aperto e un lume a petrolio in mano... Sulla carriola c'era come un ammasso non so di cosa: mi è sembrato un mucchio di panni, un sacco di calce... Poi ho
visto una gamba, un piede nudo che penzolava». «Cos'è, un sogno che mi stai raccontando?». «Appena sveglia, ho pensato di sì, di averla sognata, la scena» rispose guardandomi con gli occhi lucidi, sgranati «invece, adesso che ci ripenso, l'ho proprio vista con i miei occhi». Le poggiai una mano sulla fronte. «Perché non provi a misurarti la febbre?» ghignai. «Ti giuro, mica sto delirando. C'erano davvero queste due persone che ti ho detto: spingevano una carriola verso il pozzo, e dentro la carriola ci stava questo mucchio di stracci, questo piede che penzolava. Ti giuro». «Ma dai, con quella pioggia, quel buio, mezza intontita dal sonno, dalla febbre a trentotto, tu, da quassù, sei riuscita a vedere tutte queste cose: uno che spingeva la carriola, l'altro che teneva l'ombrello aperto, il lume a petrolio». «Sì, l'ho visto, ti giuro. Lampeggiava in continuazione» ripeté convinta, caparbia «ogni volta che scoppiava un fulmine, s'illuminava tutto come di giorno». «E dov'è che andavano con quella carriola?». «Ti ho detto, verso il pozzo... Poi non ho visto bene cosa è successo. Mi sembra che abbiano sollevato di peso questa specie di grosso fagotto e l'abbiano gettato giù». «Giù dove, nel pozzo?». «E dove sennò?... Li ho visti anche tornare indietro, questi due: uno che spingeva la carriola, l'altro che teneva l'ombrello aperto, il lume a petrolio». «E chi erano 'sti due?». «Avevano dei cappotti neri, degli scialli, dei fazzoletti in testa, e le galosce ai piedi» ripeteva Pupa come in trance «quello che teneva l'ombrello aperto, arrancava un po', si appoggiava a un bastone, mi sembra». «Saranno mica state zia Coletta e zia Angiolina» sghignazzai. Non rispose. Anch'io tacqui, un senso di gelo mi calò fin dentro le ossa. Pupa mi fissava con uno sguardo strano. 25 Era ormai una settimana che Carmela non veniva più a svegliarmi la mattina, a portarmi il caffè a letto. Non la vedevo neanche più in giro per casa a sfaccendare. Da circa una settimana era praticamente sparita. Anco-
ra non riuscivo ad abituarmi alla cosa: senza Carmela, la casa era terribilmente vuota, desolata. Le voci circa la sua improvvisa scomparsa erano piuttosto contraddittorie. «Eh, quella se n'è tornata alla masseria, è andata a fare le feste in famiglia» spiegava zia Coletta bonaria, quasi si fosse trattato di una scappatella di cui non preoccuparsi più di tanto. «Se ne sarà andata a Lanciano, a servizio in qualche casa privata» commentava invece seccata zia Angiolina «imparerà a sue spese» aggiungeva in tono di malaugurio. Quella stessa settimana, Pupa era rimasta tutto il tempo a letto, ammalata, con la febbre alta. Il dottor Carapella, il medico condotto, era andato a visitarla e le aveva scoperto un focolaio di broncopolmonite: le aveva anche ordinato le punture di penicillina. Quando Pupa, ancora convalescente, uscì per la prima volta di casa, eravamo già al ventuno di dicembre, mancavano quattro giorni a Natale. Quella mattina, l'accompagnai a fare due passi per il corso: era una giornata fredda, col cielo velato, un sole pallido, smorto. «Dio, come mi gira la testa, come mi sento debole» pigolò Pupa. Mi stava sottobraccio, camminava un po' barcollante: si era messa il pellicciotto di castorino, le calze di lana, un berretto da montagna calato fin sulle orecchie e uno sciarpone lungo mezzo chilometro, girato intorno al collo tre, quattro volte. «Andiamo un po' nell'orto» disse mentre tornavamo verso casa. Entrammo dall'esterno, dalla porticina di legno fradicio, mezza scardinata, che si apriva lungo il muro di cinta. «Vedi, questa è la carriola» disse Pupa fermandosi sotto il portichetto ingombro di attrezzi, vanghe, rastrelli, catini, fiaschi spagliati, bottiglie, damigiane vuote, seggiole rotte, e altra roba ammucchiata, accatastata. C'era pure 'sta carriola di ferro, di quelle che usano i muratori. M'indicò anche un lume a petrolio appeso al muro, attaccato a un gancio di fil di ferro. «E quello è il lume, vedi?» disse. «E allora?». «Allora niente. È solo per dimostrarti che non me la sono mica sognata, quella scena» rispose. Mi stava sempre sottobraccio, mi trascinò lungo il viottolino scosceso che portava al pozzo. «Andiamo a verificare» disse girandosi a guardarmi, sorridendo debolmente.
«Verificare cosa?» chiesi sorpreso. In quella settimana e passa mi ero del tutto persuaso che quella notte Pupa aveva avuto soltanto un incubo: me lo confermava il fatto che la sera stessa la febbre le era salita quasi a quaranta e per tutta la notte, a sentire zio Armandino, Pupa non aveva fatto che delirare, dire scemenze e assurdità. «Niente. Voglio solo vedere se l'hanno poi buttato nel pozzo, quel corpo». «Quale corpo?!» scattai. La sua insistenza cominciava a innervosirmi. «Quella specie di fagotto bianco, col piede che penzolava fuori» rispose tranquilla. La malattia l'aveva come purificata, svuotata di quella sua vitalità febbrile, sensuale: aveva un'aria angelica, svanita, la voce flebile, i gesti lenti, lo sguardo languido. «Non ti capisco» ridacchiai incredulo, ma anche un po' nervoso: magari non era stato un sogno, magari l'aveva vista davvero quella scena. «Possibile che non ti sei ancora convinta di averla sognata, quella?...». Le parole mi morirono in gola. Avvicinandomi, mi accorsi che il pozzo era chiuso da una specie di sportellone di ferro, fermato a un anello del parapetto da un grosso lucchetto. «Hanno chiuso il pozzo» commentò Pupa, sempre in quel tono placido, svagato. «Ermeticamente» aggiunsi notando che la fessura tra lo sportellone e il muretto era stata tutta riempita, come sigillata da una specie di pasta biancastra, stucco, probabilmente. «Io vado a denunciare la cosa ai carabinieri» fece Pupa. «Denunciare che cosa?». «La scena che ho visto quella notte. Potrebbe esserci un corpo in fondo al pozzo». «Che corpo, Pupa?! Tu hai visto che gettavano nel pozzo il corpo di una persona?». «Mi è sembrato. Comunque, verificare non costa niente. Su, andiamo adesso». Ci muovemmo, risalimmo il viottolino a passo lento, lei sottobraccio, quasi appoggiata, un po' stanca, cagionevole. Usciti dall'orto ci avviammo verso la caserma dei carabinieri. «Sei sicura di quello che fai?» le chiesi prima di entrare. Eravamo arrivati davanti al portone della caserma. «Certo» sorrise serafica. Accompagnati dall'appuntato, salimmo al primo piano, entrammo
nell'ufficio del maresciallo: una stanza buia, spoglia, col ritratto del Presidente della Repubblica appeso alla parete. Il maresciallo Santirocco stava seduto dietro una vecchia scrivania, vedendoci entrare, neanche si alzò, a momenti manco ci salutava. Era un tipo sulla quarantina, grassoccio, coi capelli brizzolati, tagliati a spazzola, e la faccia ingrugnata, diffidente. «Sono venuta a fare una denuncia» disse Pupa timida, esitante. Il maresciallo ci sogguardò per qualche istante, sospettoso. Poi, sempre in silenzio, senza spiccicare parola, solo un mezzo grugnito, fece un gesto della mano per dire di accomodarci. Pigliammo un paio di sedie e ci andammo a piazzare davanti a lui: faceva un freddo cane in quella stanza. Pupa gli raccontò il fatto. Lui ascoltava muto, attento. Gli ripeté praticamente le cose che aveva detto a me. Solo che, quando si trattò di descrivere l'aspetto delle due persone che spingevano la carriola, restò sul vago, non specificò che avevano addosso dei cappotti scuri, degli scialli, dei fazzoletti in testa, le galosce ai piedi: soprattutto, parlò di una sola persona, non di due. Alla fine del racconto, il maresciallo non fece nessun commento, non chiese nessuna precisazione. Le cose che aveva ascoltato gli erano bastate e avanzate, a quanto pare. Restò a lungo a capo chino, le mani intrecciate sulla scrivania. Ogni tanto sbirciava di lato, alzava lo sguardo e ci fissava con aria interrogativa: prima Pupa, poi me - perché fissasse anche me, questo non lo capivo. Tutto quanto, nel più assoluto silenzio. Alla fine si alzò, andò ad affacciarsi alla porta e, con un vocione da basso raffreddato, chiamò l'appuntato Baruzzi. «Porta su la Olivetti!» gli ordinò. Baruzzi salì con la vecchia, monumentale macchina da scrivere tra le mani e, un po' trafelato, andò a piazzarla a un angolo della scrivania: ci si sedette davanti, infilò nel rullo due fogli con la carta carbone in mezzo, e restò ad aspettare che il maresciallo cominciasse a dettare. Tutto, nel più assoluto silenzio, solo lo scalpiccio dei passi, il rumore delle sedie smosse, il fruscio dei fogli infilati nel rullo. «Torricella Peligna, 21 dicembre 1955» cominciò a dettare il maresciallo «in data odierna, la sottoscritta...» si fermò, guardò Pupa, le fece un cenno muto del mento. Pupa non capì. «Dì le tue generalità» le bisbigliai dandole una piccola gomitata nel fianco. «Ah, le mie generalità... Gabriella De Lellis, nata a Lanciano il 12 Marzo del 1934» declinò. «De Lellis Gabriella» ripeté il maresciallo compitando le sillabe in modo
che Baruzzi non sbagliasse a trascrivere, dandogli soprattutto il tempo di rintracciare le lettere, battere i tasti - pigiava un tasto alla volta, Baruzzi, usava solo gli indici. Durò un'ora la stesura di quel dannato verbale. Fu una fatica bestiale da parte di tutti: di Pupa, del maresciallo, che ogni tanto si inceppava con la grammatica e la sintassi, di Baruzzi, che si districava penosamente nella selva di tasti, battendoli uno alla volta, con una lentezza da bradipo, esasperante. «E adesso che succede?» chiese Pupa alla fine dell'estenuante stesura del verbale, firmando il documento in calce. «Faremo un sopralluogo» rispose il maresciallo Santirocco calcandosi in testa il berretto della divisa, pigliando dall'attaccapanni il pastrano grigioverde. «Subito?» chiese Pupa con una lieve ansietà nella voce. «Subito, adesso» rispose il maresciallo. Pupa ebbe un attimo di smarrimento. «Posso chiedervi un favore, maresciallo?». «Dite». «Potreste non fare il mio nome, non dire che sono stata io a segnalarvi la cosa?». Il maresciallo si era infilato il pastrano, se lo abbottonava. «Come volete, signorina» rispose. Pupa non volle assistere al sopralluogo - così l'aveva chiamato il maresciallo Santirocco. Mentre eravamo nell'orto e si procedeva all'operazione, alzando lo sguardo la intravidi dietro i vetri della finestra del sottotetto. Era là, nella sua stanza, che ci spiava: forse con la stessa ansia che attanagliava anche me, in quel momento, con lo stesso terrore che nel fondo del pozzo si potesse trovare davvero il corpo di una persona che qualcuno ci aveva gettato dentro, giù. «Come mai è chiuso?» domandò il maresciallo a zia Angiolina indicando il pesante coperchio di ferro e il lucchetto che lo teneva fermato. «Venivano su dei cattivi odori» rispose zia Angiolina consegnandogli la chiave del lucchetto «già un'altra volta è successo» spiegò «c'era caduto dentro un gatto e dopo un po' la carogna si era putrefatta e mandava una puzza che si sentiva fino in casa». C'era anche zia Coletta. Erano tutte e due un po' tese, allarmate per quel controllo che il maresciallo dei carabinieri era venuto a eseguire a seguito
di una segnalazione, una denuncia anonima. Stavano là, un po' frastornate, strette nei loro cappottucci neri, lo scialle all'uncinetto sulle spalle, il fazzoletto di lana annodato sotto il mento. Il maresciallo aprì il lucchetto, lo sfilò dagli anelli e, con l'aiuto dell'appuntato, sollevò il pesante sportello di ferro, lo sganciò dai cardini e lo appoggiò al parapetto. «Scendi a controllare, Baruzzi» disse poi all'appuntato affacciandosi a ispezionare l'interno del pozzo: c'erano come degli scalini che scendevano fin giù, dei tondini di ferro fatti a manubrio e piantati lungo la parete. «Sì, signor maresciallo» disse Baruzzi scavalcando il muretto e pigliando a scendere con le mani e coi piedi: si era portato dietro, infilata in una tasca del pastrano, una torcia elettrica. Dopo neanche due minuti, sentimmo echeggiare la sua voce dal fondo. «Qui c'è il cadavere di una persona, signor maresciallo!» Il sangue mi si gelò nelle vene. Quella voce irreale che saliva rimbombando dal fondo del pozzo, che laconicamente comunicava che laggiù c'era il cadavere di una persona, mi risvegliò di colpo da quello stato di attesa un po' ottuso, inerte, mi sbatté in faccia la cruda realtà dei fatti, come una sberla, un cazzotto nei denti. Pupa aveva ragione, cribbio, l'aveva vista davvero, quella scena, non se l'era sognata. «Che faccio, signor maresciallo?!» chiese Baruzzi dal fondo del pozzo. Il maresciallo stava saggiando la resistenza della corda avvolta attorno alla carrucola, si accertava anche che l'arco di ferro al quale era agganciata la carrucola fosse abbastanza solido da sostenere il peso di un corpo umano, non soltanto di un secchio pieno d'acqua. Si girò attorno come in cerca di qualcosa. «Avete qualche metro di corda?» chiese. Scattai. «Aspetti che vado a vedere» dissi risalendo velocemente il viottolo, andando a recuperare un rotolo di corda che avevo notato prima sotto il portichetto, gettato in un angolo in mezzo a tutta quella catasta di arnesi e roba varia. Di corsa, tornai a consegnarlo al maresciallo. Non mi disse neanche grazie, depositò il rotolo nel secchio. «Adesso ti calo il secchio: ci sta un pezzo di corda dentro» annunciò affacciandosi. La voce echeggiò come il brontolio di un tuono lontano. «Tu imbraca il corpo e aggancia il peso al manico del secchio... Poi cerchiamo di tirarlo su, sempre se la carrucola regge». Il secchio aveva raggiunto il fondo, Baruzzi prese ad armeggiarci attor-
no, da su sentivamo il suo ansimare, il rumore dell'acqua smossa. «Come va, Baruzzi?» chiedeva ogni tanto il maresciallo scrutando il fondo buio. Mi ero affacciato anch'io: sentivo salire, oltre all'eco di tutto quel tramestio, un soffio gelido, un odore putrido d'acqua stagnante, di mura fradice di umido. «Qua l'acqua è mezza gelata, signor maresciallo» rispose Baruzzi «il cadavere è mezzo incastrato nel ghiaccio». Ci fu un lungo momento di silenzio, solo quel tramestio e i soffi, i mugolii di Baruzzi faticosamente impegnato ad agganciare in qualche modo il cadavere al manico del secchio. «È una donna» gli sentimmo dire «è... Carmela» aggiunse dopo una pausa. Le ginocchia mi si piegarono, un formicolio mi prese alla testa, come un senso di svenimento, e un gusto dolciastro mi salì dallo stomaco alla bocca, una specie di nausea. Il corpo di Carmela fu issato con grande fatica, col rischio continuo che la corda della carrucola si spezzasse o che la stessa carrucola cedesse. Se non c'era Baruzzi a sostenere quel peso di oltre mezzo quintale, a sorreggerlo mentre risaliva gli scalini di ferro piantati lungo la parete, bisognava far venire i pompieri da Lanciano. Lo disse a un certo punto il maresciallo mentre, a due mani, trafelato, sudato, girava la manovella della carrucola: dal congegno usciva un cigolio che scorticava i nervi. Depositarono il corpo fradicio e gocciolante di Carmela sull'erba rada del terreno. Pareva uno stoccafisso: aveva indosso solo il camicione da notte, i capelli erano sciolti, tutti rappresi, incrostati di ghiaccio, e la faccia, i piedi, le mani, bianchi come la cera. Restai a guardare quel viso con un senso di quieto raccapriccio, di inerte, stupefatto orrore: la bocca era livida, schiusa in un orribile smorfia di morte, gli occhi aperti a metà, opachi. Non sembrava lei. Zia Coletta e zia Angiolina avevano attaccato una specie di cantilena non molto diversa da quella che intonano le prefiche quando vanno a fare le veglie funebri. Era soprattutto zia Coletta a darci dentro con quella litania. Dopo i primi commenti inorriditi, tipo: Mamma mia, Carmela!... Oddio, povera Carmelina!... Dopo queste prime esclamazioni tragiche, zia Coletta attaccò una nenia lugubre che non finiva più. «Povera Carmelina!... Che brutta fine che hai fatto!... Povera figlia mia!...».
Non fece che ripetere per tutto il tempo quelle tre frasi: le strillava con una voce stridula e straziata che faceva raggricciare la pelle. Il maresciallo chiese un telo, qualcosa per coprire il cadavere. Zia Angiolina andò a prenderlo in casa. Lo spettacolo macabro del corpo di Carmela finì sotto una vecchia coperta militare, ruvida, tutta bucherellata dalle tarme. Il maresciallo disse a Baruzzi di restare lì a piantonare il cadavere, che lui tornava in caserma a trasmettere il fonogramma alla Procura di Lanciano. Nel pomeriggio arrivò da Lanciano il dott. Cipollone, il sostituto procuratore della Repubblica: era un tipo occhialuto e smilzo, col naso a uncino e i denti grossi e sporgenti da coniglio. Accompagnato da zio Armandino e dal maresciallo, andò per prima cosa a dare un'occhiata al cadavere. In tutte quelle ore il corpo di Carmela era rimasto lì, sotto la coperta militare tarmata, steso a terra vicino al pozzo. Il maresciallo si chinò e tolse la coperta scoprendolo quasi per intero. «Per essere morta da una settimana è conservata abbastanza bene» commentò il dott. Cipollone dando alla salma uno sguardo superficiale, così, giusto per dovere professionale. «Che ha detto di preciso il medico legale?» chiese rivolto al maresciallo - il medico legale era passato un'ora prima, aveva anche lui dato una rapida occhiata al cadavere ed era subito ripartito. «Dice che prima dell'autopsia non si può dire quale è stata la causa del decesso» rispose Santirocco «il corpo presenta varie abrasioni, contusioni, forse pure delle fratture, ma possono essere state conseguenza della caduta». Ci fu un momento di silenzio. Il dott. Cipollone si accese una sigaretta. Stavamo tutti e quattro attorno al cadavere di Carmela e lo guardavamo con uno strano, impacciato distacco, come si guarda un mucchio di rifiuti, un ammasso di roba inutile e ingombrante, di cui prima ci si sbarazzava, meglio era. Tra un po' infatti l'avrebbero tolto, quel cadavere, caricato sul furgone e portato all'obitorio di Lanciano per l'autopsia. «Io proprio non so come sia finito in fondo a questo pozzo» se ne uscì zio Armandino allargando le braccia in un gesto pieno di costernazione e stupore. «Il suicidio e la disgrazia sono da escludere, direi» osservò il giudice di Lanciano dando un'avida, impaziente boccata alla sigaretta, parlava e fumava a scatti «era sposata, fidanzata? Frequentava uomini?» domandò. «Le compagnie maschili, di certo non le mancavano» rispose lo zio am-
miccante, sfoderando un gran sorriso. Riusciva a sorridere anche nei momenti più tragici, zio Armandino, quei suoi sorrisi funzionavano anche nei frangenti più penosi. «Poveretta, era una ragazza dalla dubbia moralità» spiegò «le zie la tenevano in casa, a servizio, per ragioni di umana compassione, più che altro, di carità cristiana... Sì, sapevano che si prostituiva con gente del paese, ma chiudevano un occhio» continuò con un fare sospiroso e fatalista «del resto, non era un'attività pubblica, la sua: lo faceva con una certa discrezione... Sta di fatto, comunque, che esercitava il mestiere». «Potrebbe essere stata vittima di un suo cliente» azzardò il dott. Cipollone dando boccate nervose alla sigaretta. Il fumo gli usciva di bocca insieme alle parole. «Ah, non è affatto escluso» concordò lo zio abbozzando un altro dei suoi sorrisi, lo abbozzò soltanto, questa volta. Mi venne da pensare, in quel momento, che anche lui, zio Armandino, era stato un cliente di Carmela, in qualche modo. Le aveva finanche regalato la famosa spilletta d'oro a forma di farfalla per le sue prestazioni - spilletta appartenuta a sua moglie, tra l'altro. «È un'ipotesi verosimile» ripeté il magistrato e, rivolto al maresciallo, disse: «ricopriamo pure il cadavere» poi, sbrigativo, «cosa c'è scritto, maresciallo, nel suo rapporto a proposito di quella testimonianza?» chiese. Santirocco tornò a stendere la coperta militare sul corpo di Carmela. «Verso le tre della notte, tra il 12 e il 13 scorsi» prese a riferire, come ripetendo a memoria le parole del verbale, «il teste in questione dichiara di avere visto una persona dirigersi verso il pozzo spingendo una carriola... all'interno di questa, il teste dichiara inoltre di avere notato un corpo umano, in apparenza senza vita. Il corpo in oggetto veniva poi, sempre a detta del teste, gettato nel pozzo». «Ah, non sapevo» trasecolò zio Armandino «e chi sarebbe questo teste?» chiese spostando veloce lo sguardo dal dott. Cipollone al maresciallo, scrutandoli entrambi sospettoso, allarmato. «Vuole tenere l'anonimato, per il momento» spiegò il sostituto procuratore, «piuttosto, dove abitava la vittima?» s'informò brusco, impaziente, sempre tirando dalla sigaretta rapide e nervose boccate di fumo. «Con le mie zie, naturalmente, in questa stessa abitazione» rispose zio Armandino facendo un gesto verso la casa «aveva la sua cameretta nello scantinato». «Riceveva i suoi clienti a domicilio, per caso?» chiese senza tanti ri-
guardi il dott. Cipollone, gettando la cicca, spegnendola col tacco della scarpa. «Nella stanza dove dormiva, dice? Qua, in questa casa?» si stupì zio Armandino. Anche quando si stupiva non riusciva a fare a meno di sorridere: fece un sorriso a metà tra lo stupito e lo scandalizzato. «Vorrei proprio sperare che non fosse arrivata a tanto». «Può mostrarmi la sua stanza?» fece il dott. Cipollone, accendendosi un'altra sigaretta: ne fumava una dietro l'altra, aveva le dita gialle di nicotina. Zio Armandino indicò il portichetto, la porta da cui si entrava nel grande seminterrato «Certamente, dottore. Venga». Entrammo uno alla volta, in fila indiana. In fondo a un vasto vano buio e freddo, appena rischiarato da una finestrella che si apriva quasi a livello della strada, si scorgeva la scaletta di ferro che portava su, in casa di zia Coletta e zia Angiolina, e il piccolo uscio della stanza di Carmela. Zio Armandino andò ad aprirlo. Ci affacciammo in una specie di antro dal soffitto basso, le mura sbilenche e nude e un finestrino che dava sull'orto. Di mobili, c'erano solo il letto in ferro battuto, un comò rustico e un paio di seggiole impagliate. «La camera, come può vedere, dottore, è perfettamente in ordine» spiegò lo zio «era così anche la mattina della scomparsa di Carmela... Mancavano solo i pochi indumenti, le povere cose che la ragazza teneva. Tanto è vero che le zie hanno avuto il sospetto che se la fosse squagliata alla chetichella, si fosse per così dire licenziata senza preavviso». «Aveva dei clienti abituali?» chiese il dott. Cipollone guardandosi in giro, inquieto, frettoloso. «Penso di sì» rispose zio Armandino «sa, vivendo in paese». «Da quel che vi risulta» domandò ancora il sostituto procuratore, «fra questi clienti abituali, può esserci qualcuno di vostra conoscenza di cui sospettare? Non so, un soggetto rissoso, violento, dedito al bere?». Zio Armandino e il maresciallo lo guardarono con espressione incerta, dubbiosa. «Ce ne sono nei paesi di questi personaggi: individui asociali, magari senza lavoro, con qualche precedente penale» insisteva il dott. Cipollone. Gettò il mozzicone sul pavimento e lo spense girandoci sopra la suola della scarpa. Il maresciallo prese a scrollare un po' la testa, come se gli fosse venuto
in mente qualcuno ma avesse qualche resistenza a indicarlo. «C'è un certo Carluccio Di Maone» disse alla fine, passandosi una mano tra i capelli brizzolati, tagliati a spazzola «fa il facchino, l'uomo di fatica. È un po' scemo, gli manca qualche rotella» aggiunse battendosi la fronte con un dito. «Diciamo pure che si tratta di un individuo mentalmente ritardato» sorrise zio Armandino. «Era un cliente della donna?» chiese il dott. Cipollone accendendosi la centesima sigaretta. «Le stava dietro. Forse c'è anche andato, qualche volta» rispose il maresciallo «è un poveraccio, un uomo tranquillo, servizievole, grande lavoratore... Se gli gira, però, diventa una bestia, non capisce più niente. Se gli salta il ticchio, piglia a menare palate a tutta forza». Quel botta e risposta tra il giudice di Lanciano e il maresciallo mi fece balenare in testa un'ipotesi pazzesca: che forse, però, poteva spiegare tante cose. M'immaginai Carluccio di Maone che andava a trovare nottetempo Carmela, me lo immaginai che entrava dalla porticina esterna dell'orto e, con fare furtivo, raggiungeva Carmela in camera sua. Nel vedersi davanti quella specie di cavernicolo, per giunta infoiato, deciso a sfogare le sue voglie, Carmela, spaventata, reagiva, lo scacciava. Sentendosi respinto, Carluccio, a sua volta, s'imbufaliva e l'abbrancava tentando di usarle violenza. Disperata, Carmela lo respingeva, pigliava a urlare magari, si difendeva con le unghie e coi denti. A quel punto, perduta del tutto la testa, il bruto l'afferrava alla gola e, ottuso com'era, oltre che dotato di forza bestiale, neppure si accorgeva che la stava strangolando. Vedendola afflosciarsi a terra senza vita, veniva poi colto da panico e scappava. Ecco allora entrare in scena zia Coletta e zia Angiolina, eccole darsi alacremente da fare per coprire lo scandalo, nascondere il fattaccio: non sia mai che in paese si venisse a sapere che Carmela riceveva uomini in camera sua, in casa loro. Peggio ancora, se si scopriva che era stata strangolata e uccisa proprio nella stanzetta che occupava come domestica a servizio presso la rispettabile e onorata famiglia De Lellis. Le zie, perciò, caricavano il cadavere di Carmela sulla carriola e andavano a gettarlo nel pozzo in modo da cancellare ogni traccia del delitto, scongiurando così lo scandalo, evitando che il fattaccio infangasse il buon nome dei De Lellis. Sì, lo so, era un'idea pazzesca, una ricostruzione cervellotica, eppure ci credevo, mannaggia, e non vedevo l'ora di correre da Pupa per raccontargliela. Lei, Pupa, era rimasta tutto il giorno su, tappata in camera sua, chiusa nella sua
angoscia, tormentata dal suo terribile segreto. Non aveva trovato la forza, il coraggio di confessare al maresciallo tutta la verità, che cioè, a spingere verso il pozzo la carriola con dentro il cadavere di Carmela, erano stati in due, quella notte, due sagome nere, i cappottucci striminziti, gli scialletti sulle spalle, i fazzoletti annodati sotto il mento. Una ci aveva pure il bastone, camminava zoppicando. 26 Ero emozionatissimo di rivedere i miei genitori, dopo più di tre mesi di lontananza. Così emozionato, eccitato dall'imminente incontro, che tutte le altre cose pazzesche e terribili che erano accadute in quei mesi a Torricella, fino all'ultimo giorno - fino al giorno prima, praticamente - mi erano completamente uscite di mente, spazzate via come foglie secche da una raffica di vento. Tutto dimenticato, cancellato - o forse solo momentaneamente rimosso -, come il cadavere di Carmela, ritrovato in fondo al pozzo, per esempio, o la scena incredibile alla quale Pupa aveva assistito quella famosa notte, col temporale: zia Coletta e zia Angiolina che spingevano giù per il viottolo che portava al pozzo una carriola con dentro il cadavere di Carmela, appunto. E ancora, l'arresto di Carluccio Di Maone, col maresciallo e Baruzzi che andavano a prelevarlo in casa sua e lo trascinavano in caserma ammanettato - avevo assistito personalmente alla scena, mescolato alla folla curiosa dei paesani. In caserma, poi, il dott. Cipollone aveva fatto a Carluccio il terzo grado, l'aveva tartassato di domande fino a notte fonda. Alla fine, però, aveva dovuto rilasciarlo per mancanza di indizi. Mi ero messo ad aspettarli davanti all'albergo Roma, i miei genitori. Faceva un freddo cane, quel pomeriggio, calava da su, dalla pineta, un nebbione denso che ti entrava fin dentro le ossa. Li aspettavo tutto incappottato, intirizzito, battendo i piedi sul marciapiede per il gran gelo. Per riscaldarmi un po', ero entrato nel bar a prendermi un punch bollente: mentre lo sorseggiavo, Luigi Di Jorio, col solito tono solenne, biblico, aveva profetizzato: «Stasera nevica». Quando scorsi i fari della macchina bucare il buio e la nebbia, avvicinarsi velocemente, il cuore pigliò a battermi e una gioia lancinante mi si irradiò per tutto il corpo, come una scarica elettrica. Durò poco, però. Quando vidi papà e mamma scendere dalla Fiat 1400 diesel di Camillo Palizzi, ebbi una stranissima reazione, un brusco, repentino moto di antipatia per loro. Quasi di vergogna.
Mia madre sbucò dall'abitacolo tutta infagottata in un'enorme pelliccia di visone, con un ridicolo cappellino in testa e la faccia imbellettata, le gote rosse di cipria, le labbra dipinte. Papà, invece, aveva l'aspetto sussiegoso di un commendatore, con quella lobbia, quel paltò col bavero di Astrakan, i guanti di cinghiale, le scarpe con la suola di gomma alta tre dita. Così conciati, parevano proprio due borghesoni tronfi e rimpupazzati, che uscivano per andare al ristorane o a teatro, magari a vedere una rivista di Macario o di Wanda Osiris, con le ballerine mezze nude che alla fine dello spettacolo sgambettavano in passerella. «Cuoricino mio!» squittì mamma abbracciandomi con uno slancio isterico, sbaciucchiandomi in faccia. Non finiva più di stringermi e sbaciucchiarmi, in un profluvio di espressioni amorose e sdolcinate: «Creatura mia bella, a mamma sua... Animuccia mia, quanto mi sei mancato». «Ti sta bene quel copricapo» fece mio padre ammiccando alla mia coppoletta, dopo avermi baciato sulle guance e dato alcuni buffetti, fatto un paio di ganascini, il suo saluto fu più sobrio, virile. Li aiutai a portare i bagagli in casa, ne avevano una caterva, compresa l'enorme e antiquata cappelliera che mia madre si portava sempre dietro quando viaggiava, si trasferiva - aveva un sacco di cappelli, mamma, tutti brutti e ridicoli. In casa erano tutti schierati ad aspettarli, ad accoglierli: zia Coletta, zia Angiolina, zio Armandino, Pupa, Rachele. Fu un'orgia di abbracci commossi, di sbaciucchiamenti, un fuoco d'artificio di frasi fatte, esagerate. «Finalmente!». «Vi trovo bene». «Tu stai benissimo, Amelia. Sempre giovane e bella». «Tu, zia Coletta, sei sempre uguale... Anche tu, zia Angiolina». «Pure Giulio... Guardate là, sembra un ragazzo». «E questa è Pupa... Oh, Gesù, che bella signorina s'è fatta. L'ultima volta che l'ho vista era un mammoccetta... Cos'era, l'estate del '47?» gorgheggiava mamma. «Madonna mia, sono passati più di otto anni». C'eravamo tutti seduti intorno al tavolone in sala. «Che bella questa casa» attaccò a decantare mamma girando gli occhi intorno, rapita, estasiata «il camino... quanto è bello il fuoco» gorgogliò alzandosi e andando a stendere le mani sulla fiamma crepitante «la mia casa... Torricella, il mio paese». Stava dando la stura a tutta una sequela di frasette retoriche e leziose: le
diceva in dialetto, commossa, eccitata, le guance accese, lo sguardo languido. Non la reggevo. Zia Coletta aveva portato in tavola un vassoio di dolcetti paesani e una bottiglia di marsala. «Mh, che squisitezza i celli pieni» mugolò mamma addentando quella specie di tortello farcito di mosto dolce: il famoso cello pieno, tipico dolcetto abruzzese. Una schifezza. Papà parlava fitto con zio Armandino, lo zio gli stava raccontando di Carmela, la serva di casa, che avevano ritrovato morta in fondo al pozzo, vittima, pare, di un bruto, un certo Carluccio Di Maone. «Carluccio Di Maone?» captò mia madre «me lo ricordo. Quello grosso e un po' scemo. Be', che ha fatto?». Calò un silenzio luttuoso e costernato. S'incominciò a parlare della cosa in quel modo sommesso e grave con cui si commentano certi avvenimenti. Si incominciarono a dare valutazioni senza logica, versioni dei fatti aggiustate, a sciorinare particolari e circostanze inventate di sana pianta. Pupa mi stava seduta accanto. «Perché non andiamo a fare due passi?» mi bisbigliò quasi all'orecchio. «Sarà meglio» risposi a mezza bocca, alzandomi. Uscimmo, non se ne accorsero neppure, tanto erano impegnati a parlare del fatto. Fuori, aveva preso a cadere un nevischio fitto, sottile. Mi toccò dormire nel salottino, quella notte, arrangiato su una rete di fortuna, con un materasso di crine che pareva imbottito di sassi tanto era duro. Nella stanza da letto che avevo occupato in quei mesi, ci si erano installati i miei genitori. Appena sveglio andai ad affacciarmi da loro. Erano le nove, stavano ancora in vestaglia. Coi bigodini in testa, mia madre disfaceva i bagagli, toglieva la roba dalle varie valige e la sistemava ordinatamente nell'armadio, nei cassetti del comò. Mio padre era seduto sul bordo del letto e si tastava il polso: registrava il battito cardiaco. Appena si rintanava in un ambiente domestico, papà prendeva subito l'aspetto di un degente di ospedale, assumeva l'aria tragica di uno che all'improvviso è assalito da tutti i mali di questo mondo. Di sicuro si era svegliato con l'emicrania, l'extrasistole, gli spasmi al colon e chissà quanti altri disturbi, provocati, c'era da giurarlo, dal fatto che la notte si era scoperto e aveva preso freddo alla pancia o, più probabilmente, dalla cattiva digestione causata dalla cena alquanto pesante della sera prima.
«Ame', ti voglio bene, portami un mezzo bicchiere d'acqua con una punta di bicarbonato» stava dicendo a mia madre nel momento in cui, in pigiama, mi ero affacciato nella loro stanza. «Uè, ciao» li salutai sbadigliando, grattandomi la testa. «Ho il vago sospetto, Renzo» fece papà per tutta risposta, «che in tutto questo lasso di tempo tu non abbia neppure sfiorato il testo di "Istituzioni di diritto privato"». «In effetti, sono un po' indietro» sbadigliai continuando a grattarmi da tutte le parti. «No, tu non hai letto nemmeno un rigo di quell'esame. Il volume, ho controllato, è perfettamente intonso» replicò papà mandando giù l'acqua e bicarbonato che nel frattempo mia madre aveva provveduto a portargli. «Be' no, una sfogliata gliel'ho data» tentai di giustificarmi «solo che son successi tanti di quei casini in questi mesi». Mi detti una furiosa grattata al costato. Poi, d'acchito: «Ah pa', tu lo conoscevi il professor Piperno, quello che insegnava a Tripoli, al liceo?» gli chiesi. «Di vista» rispose «era un correntista della Cassa di Risparmio. So che si dilettava di giornalismo, oltre che esercitare la sua professione d'insegnante. Scriveva su "L'ora di Tripoli": recensioni, servizi su avvenimenti culturali, spettacoli». Ruttò sonoramente: dopo il rutto, in genere si rianimava. «Poveraccio, è venuto a morire proprio a Torricella Peligna... Mi diceva zio Armandino che l'autopsia ha accertato che il decesso è avvenuto per intossicazione da funghi». La mamma era sempre presa a sistemare la biancheria e tutto il resto: quando sentì la faccenda dell'intossicazione da funghi, si slanciò verso di me, mi abbracciò. «Cuore mio» guaì tenendomi stretto «se penso che anche tu hai mangiato quei funghi... Maria Vergine, non farmici pensare». «Ah ma'!» scattai scocciato per la scena melodrammatica che mamma si era messa a recitare «son qua vivo e vegeto. Non starci a pensare, adesso». «Sì, sì, hai ragione, dobbiamo solo ringraziare la Madonna» disse lei sciogliendosi dall'abbraccio, ripigliando a riordinare nei cassetti la biancheria «stasera, alla Messa di mezzanotte, voglio accenderle un cero di ringraziamento». Per mamma, nella vita, tutto si risolveva accendendo ceri alla Madonna. «È inutile che stai ad accendere i ceri, ma'» sbottai «il professor Piperno è morto avvelenato perché ha mangiato dei funghi che Rachele gli ha cuci-
nato a parte, non erano gli stessi che abbiamo mangiato noi». «Ah be', allora si spiega tutto» commentò papà. «Adesso vi dico una cosa che neanche ci si crede» feci a un tratto, dopo una pausa, mettendomi a girare per la stanza nervoso e tirato per quello che stavo per dire. Era difficile parlare coi miei di certe cose, quasi impossibile: tra noi non c'era nessuna confidenza quando si affrontavano certi argomenti, specie se riguardavano il sesso e tutte le cose che rientravano in quel discorso, come prostituzione, per dire, pederastia, adulterio, o più volgarmente corna, e così via. Quando poco poco si faceva un accenno a qualcosa del genere, li vedevo irrigidirsi, ammutolire. Fu uno sforzo terribile, sputare il rospo. Del resto, non potevo lasciarli all'oscuro di quel segreto così grosso. «Sapete che il professor Piperno, prima della guerra, prima di andare a Tripoli, ha conosciuto zia Maria?» dissi dopo un'altra lunga, macerata pausa. Aspettai una loro reazione. Niente. Mamma continuava indaffarata a sistemare la roba nei cassetti, mio padre restò seduto sull'orlo del letto, lo sguardo fisso nel vuoto. «Ma la cosa davvero grossa è che tra i due c'era, come dire?» non mi usciva la parola, non riuscivo a spiegare che tra loro c'era stata una relazione amorosa, una tresca, o quello che accidenti era stata «insomma, i due erano amanti» esplosi alla fine. Un silenzio carico di stralunato imbarazzo calò nella stanza. Durò pochi secondi, mi parvero eterni, insopportabili. Tutta la casa era immersa in un silenzio di tomba: zia Coletta e zia Angiolina non c'erano, non erano ancora tornate dalla Messa, mio padre taceva, mia madre sistemava le cose con particolare zelo, la faccia china, le guance avvampate. «Renzo, ma che sciocchezze dici?» se ne uscì dopo alcuni penosi istanti mio padre, rompendo quel tragico silenzio. «Sul serio, io e Pupa abbiamo scoperto delle lettere di zia Maria» tentai di spiegare, la voce fessa per l'impaccio, il disagio che provavo - lo provavo più per loro, per come li vedevo impacciati e a disagio, che per me stesso. «Non ci credete?» gracchiai esasperato da quel loro goffo, penoso imbarazzo «se volete ve le faccio leggere». Niente, non ci credevano. O, più probabilmente, si rifiutavano di crederci. E comunque l'argomento li imbarazzava talmente che continuavano a starsene lì, senza azzardare una parola, un commento, muti, assenti, ingessati. Mi montò dentro un senso impotente di rabbia e disperazione. Inco-
minciai a spararle grosse, a sganciare affermazioni talmente madornali che lasciavano di stucco anche me, mentre le dicevo. A sentirle, papà e mamma passarono da quello stato di muto disagio, di penoso impaccio, a una specie di sbigottito stupore. «Sennò Piperno non sarebbe venuto a Torricella» sogghignavo con aria furbastra «è venuto per rivedere zia Maria, la sua vecchia fiamma. E chissà che non sia morto perché voleva sapere che fine aveva fatto. Chissà che non l'abbiano avvelenato perché ficcava troppo il naso negli affari di casa De Lellis, nel loro passato». Li guardai. Si stavano scambiando delle strane occhiate, era come se volessero tacitamente comunicarsi il loro reciproco sbigottimento, lo sconcerto di scoprire che il loro unico figlio farneticava, dava di matto. In quello scambio di occhiate mute e sgomente, c'era esattamente questo sentimento di profonda preoccupazione. «E chissà che anche Carmela non sia stata fatta fuori e gettata nel pozzo perché sapeva troppe cose» continuavo in quel tono delirante «sapeva, per esempio, che a Piperno avevano cucinato i funghi raccolti nell'orto, li avevano cucinati solo per lui, a parte... funghi che tutti, a cominciare da zia Coletta, che era andata a coglierli, sapevano che erano velenosi». Sciorinavo ipotesi pazzesche, alle quali neanche io credevo, volevo scuoterli, farli uscire dal loro sbigottito stupore, non mi accorgevo che più le sparavo grosse, più loro si spaventavano, si radicavano nell'idea che Remino, il loro unico adorato figlio, era impazzito. Sentimmo la porta di casa aprirsi, le zie rientrare, tornare dalla messa. Il passo sciancato di zia Coletta, il tonfo ritmico del bastone sul pavimento, si avvicinarono. La vecchia si affacciò, rossa in faccia per il freddo, un po' scarmigliata. «Ben levati! Avete dormito bene?!» strillò. Avevamo appena preso il caffè, la conversazione languiva. Papà approfittò di una pausa più prolungata delle altre. «Pranzo ottimo» si complimentò, già stordito, gravato dal cibo, dalla digestione faticosa. «Adesso scusatemi, chiedo venia, ma vado a farmi una pennichella. Il riposino postprandiale è per me un'esigenza oserei dire fisiologica». Si alzò da tavola e si mosse verso la stanza da letto. «Va,va, non fare complimenti!» gli gridò dietro zia Coletta. «Buon riposo, Giulio» gli augurò zia Angiolina.
Filomena, la nuova serva di casa, una contadinotta tarchiata e paonazza, aveva già cominciato a sparecchiare. Con la scusa di darle una mano, anche le zie si alzarono da tavola e, dopo aver trafficato un po' in cucina con stoviglie, piatti e tegami sporchi, si dileguarono silenziose come ombre. Restammo a tavola io e mamma soltanto, lei aveva preso un giornale illustrato e lo sfogliava. Fuori, dai vetri della porta-finestra che dava sul terrazzino, si vedeva la neve calare fitta. Ogni tanto mamma alzava lo sguardo a rimirare lo spettacolo. «Hai visto quant'è bella la neve, Renzo?» disse trasognata. In piedi accanto alla finestra, osservavo anch'io i fiocchi scendere senza sosta, silenziosi, leggeri: l'orto era già tutto bianco e sulla loggetta si erano formati dei mucchi farinosi di neve. «È la prima volta che la vedi, vero?» mi chiese mamma. Non mi andava di rispondere, di sprecarmi in esclamazioni di meraviglia, in commenti estasiati. «Ah ma', perché nelle foto dell'album zia Maria ci ha sempre una patacca in faccia?» chiesi a bruciapelo. Ancora scombussolata per quello che era successo la mattina, per tutti quei discorsi, quelle mie farneticazioni, mamma ebbe una specie di trasalimento. «Adesso la pianti con 'sta storia di zia Maria» sbottò. «Allora lo ammetti, era lei in quelle foto. Perché dicevi di non sapere chi era?». «Ma di cosa vaneggi? Di che foto parli, Renzo?» reagì alterata, due chiazze rosse sulle guance. Andai a prendere le foto e gliele gettai sul giornale che aveva davanti, aperto sul tavolo. «Sono le foto dell'album di Torricella: ti ricordi quel giorno che lo sfogliavamo insieme, a Tripoli? Chi è quella donna con la patacca in faccia?». «Come ti sei permesso di prendere le foto dell'album?» mi rimproverò. Cercava di sviare il discorso, di eludere la mia domanda «Guarda come le hai sciupate. Cosa ci hai fatto, si può sapere?». «Ci ho passato la scolorina. Ho provato a togliere le macchie d'inchiostro che tu ci hai fatto per cancellare la faccia di Maria D'Amico, detta anche Mariù». Tacque. Quando veniva presa in castagna, mia madre si chiudeva in un silenzio ostile e caparbio. Era capace di tenerti il muso, di non rivolgerti la parola per intere giornate, se poco poco la prendevi in castagna, o le facevi
uno sgarbo, un'offesa qualsiasi, qualcosa che le andava storto. Era permalosa e suscettibile al massimo, mamma. «Ha fatto tanto soffrire Armandino, quella sgualdrina» masticò alla fine a denti stretti, a occhi bassi, scansando le foto con un gesto brusco, riprendendo a sfogliare la rivista, a guardare le immagini di un servizio giornalistico sui Savoia in esilio. «Ingrata, perfida, pazza» aggiunse. «Allora anche voi sapevate della tresca tra lei e Piperno?» la incalzai. «Non so niente di questo Piperno. So che tradiva il povero Armandino» rispose continuando a sfogliare le pagine «e adesso basta parlare di questa storia. Sei ancora un ragazzo, non sta bene che ti impicci di certe cose». «E ora dove sta zia Maria?» continuai imperterrito. I suoi rimproveri e ammonimenti mi facevano un baffo. «Dove si merita» rispose gonfia di risentimento, tagliente «in un istituto di suore dove ci vanno i matti, le persone pericolose». «Dove, a Lanciano?». «Sì, a Lanciano». Girò pagina, aguzzò l'occhio su una foto di Maria José. Anche lei credeva alla storia di Lanciano, al fatto che fosse ricoverata in quella specie di ospizio, l'Istituto delle Ancelle del Sacro Cuore. Anche a lei magari avevano detto che zia Marietta, la cugina scema, era passata a miglior vita. Magari le avevano pure spedito a Tripoli le partecipazioni di morte, con tanto d'immaginetta listata a lutto, telegramma e tutto il resto. Lasciai perdere. Ripresi le fotografie e me ne uscii di stanza. Andai a buttarmi sul letto, adesso sapevo chi e perché aveva cancellato in quelle foto il viso di Mariù, l'aveva sfregiato con quelle grosse, brutte macchie d'inchiostro bluastro. Era tipico di lei, di mia madre, fare cose del genere, afflitta com'era, torturata da tutte le sue piccole manie e superstizioni. Era piena di fisse, mamma, di ubbie, fisime, paure, credenze. Era ancora una donna di paese, in questo senso, ancora legata ai proverbi, ai rituali, alle pratiche magiche, a certi esorcismi da fattucchiera. Il fatto che zio Armandino, suo cugino prediletto, adorato - cugino carnale, come lo chiamava: mi faceva pensare a una bistecca di manzo, la parola carnale -, fosse stato così scandalosamente cornificato dalla giovane moglie, era per mamma un affronto intollerabile, un'onta che colpiva anche lei, l'intera parentela dei De Lellis, la loro dignità, la loro reputazione. Via, quella donnaccia dalla sua vita, dai suoi pensieri, dai suoi ricordi. Via anche dalle foto di famiglia. Non doveva restare traccia di quella sgualdrina, quella donna ingrata e perfida. Quella pazza. Una bella macchia d'inchiostro sulla faccia e di
Maria D'Amico, in arte Mariù, si sarebbe per sempre cancellato il ricordo. Aveva nevicato fitto tutta la mattina: il paese era silenzioso, sommerso da un metro di neve soffice e bianca. Era la prima volta che vedevo la neve, che ne vedevo tanta. Ero incantato, strabiliato. Prima che facesse buio, io e Pupa uscimmo, c'eravamo messi certi stivali di gomma che zio Armandino teneva nel ripostiglio e, con le sciarpe al collo, il maglione, il passamontagna in testa, ci avventurammo in mezzo a tutta quella neve che si era accumulata lungo le strade, sui tetti, contro le case. Sembrava panna montata. C'era un silenzio totale in paese, finanche i rintocchi del campanile arrivavano fessi e attutiti, si sentiva solo lo scricchiolio della neve sotto i nostri passi, sotto le suole degli stivali che sprofondavano, e i nostri respiri affannosi. Si faceva una fatica bestia a camminare in mezzo a tutta quella neve farinosa e abbacinante che si stendeva per il paese a perdita d'occhio: Torricella era trasfigurata, irriconoscibile. Quel paesaggio bianco, irreale, dava anche una sottile eccitazione, una specie di euforia. A un certo punto Pupa si fermò a fissarmi, aveva le guance rosse, lo sguardo acceso, uno strano sorriso. «Cos'hai?» le chiesi. Non rispose. Appallottolava tra i guanti di lana una manciata di neve, aveva fatto come una palla. All'improvviso, me la scagliò addosso, mi colpì in fronte. Attaccò a ridere come una pazza. Cominciammo a lanciarci palle di neve a tutta forza. Alla fine lei era esausta per la fatica, il troppo ridere. Scappò arrancando in mezzo alla neve, la inseguii, l'abbrancai. Ci rotolammo avvinghiati come due orsi in lotta. Lei continuò a ridere tutto il tempo, la cosa mi dava dannatamente ai nervi. Per farla smettere di sghignazzare in quella maniera sgangherata, le ficcai una manata di neve in bocca. Cominciò a tossire, a sputare. Mi urtava terribilmente quella sua risata a singhiozzo. Tornando a casa, appena entrati nell'androne, Pupa cambiò bruscamente faccia, si fece di colpo cupa, pensierosa. «Allora non è stato Carluccio Di Maone a buttare Carmela nel pozzo» mi fece picchiando le punte degli stivali contro il muro per sgrullare la neve dalle suole. «Pare di no» risposi «pare che avesse un alibi». Mi venne da pensare che tutta l'allegria di Pupa, tutte le risate isteriche di prima, e quelle sue stramberie, fossero solo un modo di scacciare l'angoscia.
«Un alibi?» ripeté a fior di labbra «e chi è stato, allora?» chiese girandosi, piantandomi due occhi in faccia colmi di paura e smarrimento. «Saranno state mica zia Angiolina e zia Coletta?». Fece una risatina un po' folle. «Assurdo, ridicolo!». «Boh, non so» mormorai. Mi stava contagiando, anche a me stava venendo il magone, quella brutta strozza che prende alla gola. «Sei tu che le hai viste, quella notte, con la carriola e dentro il...» non ebbi la forza di completare la frase. Deglutii, abbassai gli occhi. «Sai cosa penso, Renzo?». «Cosa?» alzai lo sguardo, stava attaccata al corrimano della scala, aveva appoggiato un piede sul primo gradino. «Mi sa che quella scena me la sono proprio sognata» disse con un sorriso vago, uno sguardo allucinato «mi sa proprio che è stato un sogno, quella notte» mi guardò accigliata, grave «oh, avevo la febbre a quaranta!». «Mh, la febbre a quaranta» annuii. Cos'è, adesso voleva cancellare, rimuovere anche quell'episodio? «Ciao, vado a vestirmi» si accomiatò di colpo, di nuovo pimpante, allegra, salendo di corsa la rampa di scale, entrando in casa a valanga, sbattendo la porta d'ingresso. 27 La cena della vigilia, si decise di farla tutti insieme su da zio Armandino. C'era un'aria strana, stregata, quella sera. Era quell'aria tutta speciale che si respira durante le feste di Natale, in paese, col presepio, la neve, i dolci, il profumo dei mandarini sparsi per casa. Mentre si cenava, pareva che il mondo, il tempo e tutto il resto, si fossero fermati: ce ne stavamo lì, seduti a tavola, a mangiare la pasta con le sarde cucinata da Rachele, e sembrava che non ci si dovesse più alzare, che tutto si fosse fermato in quell'istante, come in una foto di gruppo scattata col lampo al magnesio. Fuori, il paese era silenzioso, sommerso sotto un metro di neve che la luna faceva brillare di una luce azzurrina, magica. Quando, verso le undici, ci alzammo da tavola, quel senso di quieta attesa, di beata inerzia, continuava a circolare tra noi, sembrava non dovesse più abbandonarci. Era ormai l'ora di andare a messa. «Voi due non venite?» chiese mamma a me e a Pupa, prima di uscire, in-
filandosi la pelliccia. «No, zia, a messa ci andiamo domattina» rispose Pupa con uno sbadiglio. Rivolta a me: «Vero, Renzo?». «Come no» confermai, anch'io sbadigliando. «Volete prendermi in giro?» sorrise mamma sulla porta di casa, intruppata tra zia Angiolina e zia Coletta, anche loro incappottate, sul punto di uscire. «E tu, Amelia, stai anche a credergli? Sono due atei, questi miei nipoti. Ah, che gioventù!» esclamò zia Angiolina agitando scandalizzata la mano. Non aveva il solito tono predicatorio, però, pareva quasi riderci su. Era la vigilia di Natale, del resto, si era tutti più buoni, inclini all'indulgenza, al perdono. Uscirono tutti, anche mio padre. L'ultimo fu zio Armandino, si affacciò in sala: «A dopo» ci salutò con un gesto molle della mano, un sorriso dolcissimo. Si era messo un elegante paltò grigio, la sciarpa di seta bianca e il Borsalino: sembrava un attore della vecchia Hollywood. «Accidenti, che figurino, tuo padre» commentai «ma che fa, con 'sta neve esce con le scarpe basse?» chiesi a Pupa notando quei suoi scarpini a punta, neri, lucidissimi. «Scherzi? A messa, specie in queste occasioni, ci si va vestiti eleganti» mi spiegò lei. «È una messa solenne quella della vigilia, con tanto di coro di voci bianche, musica d'organo, addobbi vari». Stavamo sbracati davanti al camino acceso, un po' intorpiditi, gravati dall'abbondante cena - la pasta con le sarde e il capitone erano duri da digerire. «Dai, usciamo anche noi, sennò mi viene sonno» disse Pupa alzandosi di scatto «stasera ci toccherà stare alzati fino all'una di notte. Sai che barba». «Perché fino all'una di notte?» chiesi tirandomi su faticosamente. «Dobbiamo scambiarci i regali, no?» rispose lei infilandosi il pellicciotto. Uscimmo tutti imbacuccati. «Dove andiamo?» disse Pupa. Lo spazzaneve non era ancora passato e le strade erano ancora impraticabili. «Boh» risposi. Non sapevamo che fare, dove andare. Ci fermammo davanti al portone di casa a osservare il gruppo dei matusa avviarsi lungo un viottolino che i paesani, a forza di passarci e ripassarci, avevano tracciato in mezzo alla
neve alta. Procedevano in fila indiana: in testa zio Armandino, dietro zia Angiolina, con zia Coletta che si aggrappava al suo braccio, che arrancava appoggiandosi al bastone; seguivano papà e mamma, eleganti e impettiti nei loro abiti da città. I paesani, che salivano anche loro su per quelle piste di fortuna verso la chiesa, li avevano riconosciuti, li salutavano con deferenza, gli auguravano buon Natale: sapevano che lui era il dottor Giulio Castaldo, direttore di banca, e lei, la moglie, Amelia De Lellis, una compaesana, nativa di Torricella. Sapevano pure che erano da poco rimpatriati dalla Libia. Le voci correvano, in paese. Anche se non pareva, le cose subito si risapevano, tutti sapevano tutto di tutti. Si era accodata al gruppo anche Rachele, camminava tutta sgobbata nel suo cappottaccio liso, le scarpe scalcagnate, il fazzoletto nero in testa che la faceva sembrare più che mai una strega, le mancava solo la scopa fra le gambe. «Pure quella befana di Rachele va alla messa di mezzanotte» commentò Pupa vedendola passare. Era una scena irreale, tutta quella gente che saliva a frotte verso la chiesa arrancando lungo i viottolini, su per le ripide gradinate che portavano al sagrato. Da in cima alle Terrate, dai lampioni della balaustra in ferro battuto, si spandeva su quella distesa di neve una luce fioca, irreale. Le campane cominciarono a suonare: non avevano quel rintocco sonoro e squillante, battevano dei colpetti fessi, smorzati. Rientrammo in casa quasi subito, c'era un freddo cane fuori, e si faceva una gran fatica a camminare lungo quei viottolini, in mezzo alla neve alta. Pupa si tolse il pellicciotto. «Tò appendilo» mi fece allungandomelo, andando dritta in sala a scaldarsi davanti al camino. Anch'io mi sfilai il cappotto e lo appesi, insieme al castorino di Pupa, all'attaccapanni che stava all'inizio del buio corridoio, accanto a una scaffalatura stipata dei grossi volumi di due monumentali enciclopedie: la famosa Treccani e una vecchia enciclopedia medica - quando salivo in casa di zio Armandino, spesso andavo a spulciare dalla Treccani qualche notiziola, mi toglievo un dubbio, una curiosità circa un personaggio storico, per dire, o la capitale di un paese esotico, e cose del genere. Mentre appendevo i cappotti, per la prima volta, quella sera, mi accorsi che i ripiani della scaffalatura erano incastrati in una rientranza del muro. Mi resi anche conto - era la prima volta che lo notavo - che giù, nella casa di zia Coletta e zia Angiolina, le stanze, i corridoi, la forma generale del-
l'abitazione, corrispondevano al piano di sopra. In quel punto, per esempio, giù, al pianterreno, lungo lo stesso corridoio, c'era una rientranza del muro identica a quella della libreria: solo che al posto degli scaffali e dei libri, c'era la porta che dava nella stanza delle zie. Mi ricordai pure di certe strane allusioni che Carmela aveva fatto una mattina a proposito di zio Armandino, di sua moglie, della disgrazia che l'aveva colpito: disse che da quel giorno, dal ricovero di lei, cioè, zio Armandino non aveva più dormito nella stanza matrimoniale; disse anche che da allora qualcosa era cambiata in quella casa, parlò di una libreria che prima non c'era. Pupa si era sbracata sul divanetto, davanti al camino. La fiamma languiva, il tecchio si era mezzo consumato, ridotto quasi del tutto in brace. «Non vedi che il fuoco si sta spegnendo?» dissi andando a prendere dal cestone lì accanto un paio di tronchetti e alcuni ramoscelli, che poi sistemai in modo esperto tra i due alari. In quei mesi ero diventato un maestro ad accendere il fuoco, l'avevo imparato da Carmela. Pare una fesseria, ma per accendere il fuoco, mettere il tecchio nella posizione giusta, appoggiarci attorno i vari tronchetti, i ramoscelli più piccoli, le fascine secche di ginestra e via dicendo, occorreva un certo genio, una capacità speciale. Carmela era bravissima a farlo. Invece Pupa non sapeva neanche da dove cominciare. Era del tutto incapace, in quel senso, e non solo per quel che riguardava il fuoco, era inetta in tutti i lavori pratici, manuali, tipo rifare il letto, lavare i piatti, attaccare un bottone, e via dicendo, le facevano schifo, più che altro. Dopo aver sistemato la legna attorno al tecchio, impugnai quel tubo di ferro, chiamato da quelle parti suffatore, e attaccai a soffiarci dentro a tutta forza. Dalla brace schizzarono via miriadi di scintille e si alzarono linguelle di fiamma che si appiccarono ai tronchetti, ai ramoscelli, e presto presero a divampare, a crepitare. «Come faceva quella canzoncina?» chiesi a Pupa tra una soffiata e l'altra. «Quale canzoncina?». «Quella che sentivi cantare dai bambini dell'asilo, ti ricordi? Me l'hai detto tu, una volta. Mi hai detto che da piccola stavi affacciata alla loggetta della stanza da letto dei tuoi genitori e guardavi i bambini che giocavano nel prato dell'asilo e cantavano insieme alla suora una strana filastrocca». «Oh, quante belle figlie, Madama Doré, oh, quante belle figlie» prese a canticchiare Pupa in falsetto, l'aria trasognata, fissando il fuoco che ormai ardeva, crepitava e sfrigolava a tutto spiano. Stava semisdraiata sul diva-
netto, un gomito puntato sull'imbottitura e la guancia appoggiata al palmo della mano. «Son tutte quante belle, Madama Doré, son tutte quante belle...». «Vieni a vedere una cosa» le dissi posando il suffatore, la presi per mano e la costrinsi dolcemente ad alzarsi, a seguirmi. «Cos'è che devo vedere?» biascicò facendosi quasi trascinare, pigra, svogliata. La portai in corridoio, le indicai la scaffalatura stipata di enciclopedie. «Non ti sembra strano che abbiano messo una libreria nel vano di una porta?» dissi. Lei fece scorrere lo sguardo sul dorso dei volumi con l'aria un po' tonta di chi non ha capito la domanda, non sa dove l'altro vuole andare a parare. «Perché strano? C'è sempre stata quella libreria». «Hai mai fatto caso» continuai «che questo appartamento e quello di sotto hanno pressappoco la stessa grandezza, la stessa forma, lo stesso numero di stanze, distribuite pressappoco nello stesso modo? Questo corridoio, per esempio, c'è anche sotto, al pianterreno, uguale. In questo punto, giù» le spiegavo, «c'è la stessa rientranza del muro. Solo che non ci hanno messo una scaffalatura all'interno. Giù, c'è la porta che dà nella stanza di zia Coletta e zia Angiolina». «Stai dicendo che anche qua c'era una porta in origine?» fece Pupa, di colpo animandosi, prendendo un'espressione assorta, incuriosita. «Per me c'era la porta della stanza da letto dei tuoi genitori» dissi con un'emozione improvvisa che mi afferrò al gargarozzo e mi fece deglutire a fatica. Pupa restò alcuni secondi muta a fissare la libreria. Anch'io tacevo, avevo la bocca asciutta, la gola strangolata. «E dov'è finita la stanza dei miei genitori?» domandò lei in un tetro sussurro. «È sempre qua, per me» alitai «difatti, il balconcino di questa stanza, quello che praticamente dà sull'asilo, dal quale ti affacciavi da piccola, ha le imposte sempre chiuse. Ci hai fatto caso?». «Il balconcino dove mi affacciavo da bambina» mormorò, come tra sé «e perché avrebbero messo questa libreria al posto della porta?». «Non lo so». La voce mi uscì così sfiatata che dovetti schiarirmela e ripetere «non lo so. Per me l'hanno murata, poi ci hanno messo questi scaffali e queste enciclopedie davanti». «Murata?» fece Pupa «cioè hanno alzato un muro davanti a una porta? Ma è assurdo».
«Non ci credi?» dissi pigliando a sfilare i volumoni dell'enciclopedia medica, a posarli sul pavimento uno sull'altro. Liberato lo scaffale, picchiai con le nocche sul muro: si sentì un rumore cavo, sonoro. «Senti? Dietro è vuoto». Mi girai verso Pupa, non c'era più, sparita. «Pupa!» chiamai. Sentii la porta di casa sbattere e un rumore di passi precipitarsi giù per la scala. Corsi ad affacciarmi sul pianerottolo, scrutai nella penombra gelida e tenebrosa dell'androne: intravidi Pupa infilare la porticina da cui si scendeva nello scantinato. «Dove cavolo è andata?» biascicai tra i denti. Indugiai sulla soglia, non sapevo se raggiungerla o aspettare che tornasse. La scoperta che dietro quella scaffalatura potesse esserci una porta murata, che oltre quella porta ci fosse la stanza da letto dei genitori di Pupa, mi aveva gettato in uno stato di angoscia e insieme di eccitazione, due stati d'animo che urtavano tra loro e, nello stesso tempo, si mescolavano torbidamente, dandomi un senso di malessere, di penosa incertezza. Avrei voluto non averla mai fatta, quella scoperta: mi faceva star male, malissimo. Pupa risalì di corsa le scale, rientrò in casa ansante, lo sguardo sbarrato, stringeva tra le mani un piccone. «Cos'è quell'affare?» chiesi stupito. «Voglio buttare giù il muro» disse appoggiando l'attrezzo alla parete e pigliando a sfilare di gran lena i restanti volumi, posandoli sul pavimento uno sull'altro. L'aiutai: pesavano cinquanta chili l'uno, quei maledetti libroni della Treccani, e ogni volta che li depositavo facevano un tonfo sordo e si alzava una nuvola di polvere. Dopo aver sbaraccato tutti i libri, smontare anche le assi che formavano lo scaffale fu uno scherzo, erano semplicemente appoggiate a dei tasselli. Adesso c'era il muro bianco e nudo davanti a noi. Impugnai a due mani il piccone e sferrai il primo colpo: il risultato fu modesto. Era una parete maledettamente dura, quella che avevamo di fronte, che volevamo buttare giù. A quel primo colpo, la punta del piccone sembrò solo scalfirla: una piccola scarica di schegge di mattone, di pezzi di calcinaccio, schizzò tutt'intorno. Sferrai un secondo colpo, ancora più forte, rabbioso. E poi altri, sempre più fitti, violenti. Picchiavo su quel muro come un forsennato, per terra c'era già tutto un rovinio di detriti e nella parete si era aperta una breccia. «Aspetta» fece Pupa avvicinandosi al tramezzo, osservando la superficie scura che si scorgeva oltre lo squarcio. La picchiettò con la punta dell'indi-
ce «Legno» disse «è la porta». Ricominciai a menare picconate a tutta forza, avevo il respiro grosso, il sudore mi colava a rivoli «Porco cane se è tosto, 'sto cavolo di muro!» ringhiai sferrando l'ennesima picconata. «Vuoi che faccia un po' io?» mi chiese Pupa. «No, no... ormai è fatta». Sotto quegli ultimi colpi, crollò mezzo metro di parete, ormai aveva perso la durezza solida e compatta di quando era tutta intera, ormai veniva giù a grossi pezzi, i mattoni si staccavano a due-tre alla volta. Ormai, più di metà di quel tramezzo, tirato su nel vano della porta, era venuto via, crollato a terra, ora si poteva vedere il legno dell'infisso, la maniglia di ottone. Con un po' di sforzo, volendo, ci si poteva anche entrare, in quel varco che avevo aperto a forza di picconate. «Fermati» disse a un tratto Pupa «provo a entrare». Girò la maniglia e spinse la porta. Esitò qualche secondo. Io avevo poggiato l'arnese a terra e riprendevo fiato. Mi passai l'avambraccio sulla fronte, mi asciugai il sudore con la manica della giacca. Pupa scavalcò quel mezzo metro di muro rimasto in piedi e, girandosi di sbieco, si insinuò nella stretta apertura. Sparì nel buio gelido della stanza. Dopo un po' si accese la luce. «Sì, è proprio la camera da letto dei miei» sentii che diceva sottovoce. Un'eco strana risuonò nel vano. Entrai anch'io, mi girai attorno con lo sguardo. Ci guardavamo in giro, tutt'e due muti, attoniti. C'era un silenzio ronzante, in quella camera matrimoniale, un odore polveroso e stantio di luogo chiuso, segreto, disabitato, un freddo che assomigliava a quello delle chiese, delle cappelle funerarie. «Sì, è proprio la stanza di mia madre e mio padre» ripeteva Pupa in un bisbiglio stupefatto, incantato, vagando con lo sguardo. Era una bella stanza, col pavimento in ceramica, la carta da parati ai muri. Dal soffitto pendeva un lampadario di cristallo, infestato di sfilacci polverosi, di ragnatele. I mobili erano stile '900, il moderno che andava di moda prima della guerra: il letto con la testiera di legno chiaro, impiallacciato, l'armadio a tre ante, il comò sormontato da una grande specchiera, le abat-jour sui comodini coi cappelli di stoffa crespata, i morbidi scendiletto, le grandi stampe alle pareti, i bei soprammobili. «Dio, quanti ricordi mi tornano in mente» disse Pupa a fior di labbra, quasi che a parlare col tono normale potesse rompersi quell'incanto, profanarsi la sacralità di quel luogo: sembrava di stare in chiesa, in un museo. «Mi ricordo la mamma che si truccava davanti alla toilette» continuava a
rievocare, muovendosi là in giro cauta, sfiorando con le dita i mobili, toccando gli oggetti. Prese da sopra il comò una statuetta di maiolica colorata raffigurante una donna anni '30, col gonnellino, la racchetta in pugno, un soprammobile stilizzato, lezioso, come tutti gli oggetti di quegli anni «Da piccola, pensavo fosse la mamma, questa» sorrise. Rimise la statuetta a posto. «Dov'è la toilette?» farfugliò tornando a guardarsi attorno. «Quale toilette?» chiesi, io pure bisbigliando, muovendomi discreto, badando a non fare troppo rumore con le suole delle scarpe. «Volevo truccarmi anch'io, mi ricordo» evocava Pupa, di nuovo persa, rapita «volevo sempre spruzzarmi il profumo da una certa boccetta quadrata col tubicino di gomma avvitato in cima. Mi piaceva schiacciare la peretta e sentirmi schizzare in faccia il profumo. Facevo i capricci, ora che mi viene in mente, perché volevo ad ogni costo che mamma mi smaltasse le unghie. Lei mi accontentava, alla fine, seduta davanti alla toilette, mi passava lo smalto con un pennellino». «E dov'era 'sta toilette?». Non vedevo nessuna toilette in giro. Pupa si girò verso l'angolo della stanza a destra della porta. «Era là, mi sembra» disse indicando un grosso paravento di seta, snodato, coi vari pannelli decorati di figure e disegni ornamentali, in stile cinese «dietro quel paravento, forse». Si mosse verso quel punto, andò a vedere se dietro c'era la famosa toilette che lei ricordava, dove sua madre stava seduta a truccarsi, dove lei, piccolina, si faceva pittare le unghiette di lacca. Mi capitava ogni tanto di fare dei sogni orribili, degli incubi spaventosi, come essere inseguito da gente che voleva ammazzarmi, per dire, oppure di girare per casa e, aprendo una porta, di trovarmi di colpo di fronte a un'enorme tigre inferocita. Nel sogno, vivevo queste situazioni spaventose come se fossero vere, reali, e soffrivo atrocemente, smaniavo di risvegliarmi, lottavo disperatamente per uscire dall'incubo che mi teneva prigioniero, mi attanagliava. Ecco, provai la stessa cosa quando Pupa scostò il paravento cinese. Dietro, come lei si ricordava, c'era appunto la toilette, anche quella in stile con tutto il resto della stanza, sormontata da uno specchio alto e stretto, il piano di cristallo seminato di oggetti: la spazzola e il pettine d'argento, i flaconi di profumo, i vasetti di crema, la scatola della cipria. Seduta in modo innaturale davanti alla toilette, c'era una persona. Stava lì, immobile e rigida come un fantoccio. Pupa cacciò un grido bestiale, così acuto che mi venne la pelle d'oca da
capo a piedi, mi si gelò il sangue per tutto il corpo. Indietreggiò e corse ad aggrapparsi alla mia spalla. «Cos'è, Renzo?» rantolò. Restammo a fissare il fantoccio impietriti. Era come un sogno, un incubo, la vista di quella specie di manichino seduto davanti alla toilette, con le mani incrociate in grembo. Un incubo, però, da cui non ci si poteva risvegliare: quello che vedevamo era una cosa vera, reale, era il cadavere mummificato di una donna, col volto nerastro, scarnificato, i capelli aridi come stoppa, una lunga vestaglia indosso e le pantofole ai piedi. Pupa mi stava avvinghiata, mi artigliava la spalla e il braccio. «Pensi che sia mia madre, Renzo?» mormorò afona. «Sì» dissi «imbalsamata». «È stato mio padre, dici?». «Credo». Non mi uscì altro. Tacemmo tutt'e due annichiliti dall'orrore, dalla spaventosa sensazione di vivere appunto un incubo. Non avemmo la forza, lo stomaco di avvicinarci: restammo a fissare quella specie di macabro manichino a distanza, inebetiti, ipnotizzati. «Andiamo» dissi a un certo punto. Uscimmo dalla stanza infilandoci uno alla volta in quello stretto varco del muro. Ci fermammo nell'ingresso, esitanti. «Voglio andarmene, Renzo» disse Pupa «prima che tornino dalla messa». «Dove?» chiesi imbambolato, con l'immagine di quel cadavere imbalsamato fissa davanti agli occhi, stampata nella testa. «Via... Non lo so...». «E come, con cosa?». «In macchina» disse Pupa. Non sapeva neanche lei quello che diceva. «Con la macchina di Piperno» proposi sfasato. Mi ero ricordato di avere da qualche parte, in una tasca, o forse nel fondo della borsa che avevo portato con me andando a Bologna, il mazzo di chiavi di Piperno: c'erano anche quelle della sua macchina in mezzo alle altre - la Lancia Appia blu era rimasta tutto quel tempo a Torricella, posteggiata nel piazzale sotto casa. «La sai guidare?» mi fece Pupa fissandomi con gli occhi spiritati. Incredibile: avevamo appena buttato giù un muro a colpi di piccone, avevamo appena scoperto che dietro quel muro c'era una porta, c'era la stanza da letto dei suoi genitori; avevamo appena trovato nella stanza il
cadavere imbalsamato della madre, e lei mi chiedeva se sapevo guidare. «Certo, ho la patente. L'ho presa in Libia, ma vale anche per l'Italia» la rassicurai. Pazzesco, avevamo appena scoperto che nella stanza da letto dei suoi genitori, seduta da chissà quanti anni davanti alla toilette, c'era sua madre in vestaglia, imbalsamata, e io le rispondevo che, sì, sapevo guidare, e che avevo pure la patente. 28 Poi tutto avvenne come in trance, come in preda a un lungo, interminabile incubo, a un angoscioso sogno a occhi aperti. L'Appia era seppellita sotto un metro di neve. Per riuscire ad aprire la portiera dovetti togliere quella mezza tonnellata di neve che ci si era accumulata contro. Lo feci con le mani. Un'altra faticata bestiale. «Fa presto» mi pregava Pupa mentre io, trafelato, spazzavo neve a tutto spiano «tra poco la messa finisce». Finalmente riuscii ad aprire per metà la portiera, a introdurmi faticosamente nell'abitacolo, a sedermi al volante. Infilai la chiave, tirai la manopola del gas e provai a mettere in moto. Niente, la batteria era scarica, il motorino di avviamento tossiva, ansimava, ma il motore non partiva - era più di un mese, del resto, che la macchina era ferma, parcheggiata là. Poi, d'un tratto, chissà come, dai e dai, a forza di provare e riprovare, una qualche minuscola, residua scintilla finì per scoccare e il motore si accese. Assestai dei gran colpi al pedale dell'acceleratore, il motore ringhiava e ruggiva come una belva impazzita: avevo il terrore che potesse spegnersi. Lo lasciai acceso, in folle, e scesi dalla macchina per togliere la neve anche davanti al cofano, alle ruote anteriori. Pupa aveva trovato un badile, stava piantato in un mucchio di neve spalata di lato a un portone. Con quell'arnese l'operazione fu molto più semplice e veloce. Mentre spalavo a tutta forza, pensavo a come raggiungere la provinciale. Avrei potuto scendere per via dei Fossi, pensai. Doveva esserci passato un camioncino, poco prima, o un altro tipo di automezzo con lo chassis alto: infatti aveva lasciato i solchi delle ruote, aveva in qualche modo aperto la strada. Spalai tutta la neve fino all'imbocco di via dei Fossi. Risalii in macchina rotto, sudato, ansante. Anche Pupa salì, chiudemmo le portiere: si partiva, grazie a cielo.
Stavo ingranando la marcia, quando qualcuno picchiò con le nocche al finestrino. Il vetro era così incrostato di ghiaccio che non riuscivo a distinguere chi c'era fuori, dall'altra parte del finestrino. Per un istante pensai fosse zio Armandino, mi prese un colpo. Girando a fatica la manovella, riuscii ad abbassare il vetro: nel buio, scorsi le sagome imbacuccate di Mimmo Masciarelli e altri due del paese. «Dov'è che ve ne andate a 'st'ora di notte, co' tutta 'sta neve?» mi chiese Masciarelli, in tono di vago sfottò. «Niente, ho voluto vedere se si avviava il motore» risposi noncurante «adesso ci faccio un giro per ricaricare la batteria. È completamente a terra». «Ciao, Pupa» salutò lui chinandosi, saettando Pupa coi suoi occhi verdastri da gatto selvatico «buon Natale». Pupa rispose con un sorriso stanco «Ciao, auguri». «Ma questa non è la macchina del forestiero, quello che è morto?» domandò Masciarelli, ammiccante. «Sì, infatti» risposi vago «dopo le feste dovrò portarla a Lanciano. Ci vediamo». Lo salutai ingranando la marcia, provando a partire. Le ruote posteriori presero a slittare, a sparare raffiche di neve mista a fango e pietrisco: più davo gas, più giravano furiosamente a vuoto. «No, tutto quell'acceleratore!» mi gridò Masciarelli «aspetta, adesso ti diamo una spinta. Mi raccomando, appena un po' di gas. E ingrana la seconda!». Andarono tutti e tre dietro la macchina e, puntando le mani sul portabagagli, le dettero un bello spintone che liberò le gomme da quella dannata poltiglia di neve, fango e breccia in cui si erano impantanate. «Ciao, grazie. E buon Natale!» gli augurai infilando via dei Fossi, seguendo i solchi che un camioncino aveva lasciato. «Auguri e figli maschi!» ci gridò dietro Masciarelli in tono sarcasticamente allusivo. Scendemmo lungo la ripida via a rompicollo. Ci ritrovammo in pochi secondi sulla strada provinciale: lo spazzaneve ci era da poco passato, l'aveva sgombrata. Finalmente potevo andare via liscio, spedito, anche se a moderata andatura, a non più di 50 all'ora, c'era sempre il rischio di prendere qualche sbandata in curva o sul fondo ghiacciato, di uscire di strada, magari, di finire giù per una scarpata o, peggio, in un dirupo. Sotto Casoli, la neve non c'era già più. Al bivio di Piane d'Archi, seguendo i rari cartelli stradali, imboccai la via per Fossacesia, San Vito,
eccetera. All'improvviso, come d'incanto, mi ritrovai sulla Statale Adriatica. Girai d'istinto a sinistra, a nord: direzione Pescara, Ancona, Rimini, Bologna. La strada era deserta. «E adesso dove andiamo?» chiesi a Pupa. «Boh» rispose sfasata. Per tutto quel tempo non c'eravamo scambiati neppure mezza parola. Avevo guidato fin là, ero sbucato sull'Adriatica e, senza pensarci, avevo girato a sinistra convinto che fossimo diretti a Bologna, dando per scontato che la destinazione fosse quella. «Non so se fino a Bologna basterà la benzina» annunciai, anche se la lancetta del quadrante segnava il serbatoio praticamente pieno. «Chi l'ha detto che andiamo a Bologna?» obiettò Pupa. Parlava a fatica, la voce impastata. «Tieni conto che è Natale, i distributori sono tutti chiusi». «Tu vai» mi rispose acciambellandosi sul sedile come una gatta, disponendosi a dormire «quando finisce la benzina, ci fermiamo». Appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi. Guidai tutta la notte: chilometri e chilometri lungo quella strada buia e deserta. Incrociavo ogni tanto qualche macchina, dei camion. Le cittadine, i paesi che attraversavo erano anche quelli deserti, le luci spente, i semafori fuori servizio. Pupa dormì tutto il tempo. Io ebbi due o tre momenti di abbiocco. Poi, a forza di guidare con gli occhi fissi sull'asfalto illuminato dai fari, la mente vuota, attenta solo alla guida, sentii passarmi pian piano la stanchezza, il torpore, l'angoscia. Alla fine ero sveglio come un grillo, teso come una corda di violino. Filai tutta la notte a centoventi all'ora, lungo la Statale Adriatica. Sfrecciavo a tutta velocità anche quando attraversavo gli abitati. Correvo e basta, le mani artigliate allo sterzo, il piede schiacciato a tavoletta sull'acceleratore. Ero così sveglio e vispo che avrei potuto continuare a correre al volante di quell'Appia, per chissà quanto ancora, all'infinito. Poi il serbatoio entrò in riserva. Vidi, a un certo punto, la lancetta del quadrante oscillare sul rosso. Il cielo, intanto, cominciava a schiarirsi, a diventare bianchiccio come un vetro smerigliato. Poi, dal mare, all'orizzonte, spuntò uno spicchio rosso: era il sole che sorgeva. Dopo appena mezz'ora era già tutto fuori, rotondo, sospeso sull'Adriatico piatto come un lampione colorato. Anche il cielo prese a tingersi di rosa, e il mare a scintillare come una sterminata lastra di metallo.
Pupa si mosse, si tirò su, torpida, ammaccata. Fece uno sbadiglio. «È l'alba» miagolò girandosi a guardare quello spettacolo meraviglioso del sole che sorgeva sul mare «dove siamo?». «Quasi a Cattolica» dissi «sta anche per finire la benzina». «Da Cattolica a Rimini saranno venti chilometri» sbadigliò «ce la facciamo ad arrivarci?». «Può darsi. Ti vuoi fermare a Rimini?». «Sì, ci fermiamo a Rimini» disse «prendiamo una stanza al Grand Hotel, una suite». Mi girai a guardarla. «Stai scherzando?». «Dico sul serio». «E chi paga? Costerà un fracco di soldi una stanza in quell'albergo». Pupa si mise a rovistare nella borsa, tirò fuori un libretto di assegni, lo sventolò. «Ho il mio conto corrente personale, se proprio vuoi saperlo: ce l'ho a Bologna, presso la Banca Popolare dell'Emilia Romagna» m'informò tutta fiera e sussiegosa «ci saranno depositati almeno due o tre milioni». Mi faceva impressione quel suo modo di fare così sciolto, pimpante, quasi spavaldo. Aveva dormito tutto il viaggio acciambellata nel sedile, si era fatta un sonno di almeno cinque ore filate e adesso, svegliandosi, dopo tutte le cose orribili e tremende che erano successe, parlava di conti in banca, di suite al Grand Hotel e via dicendo. Pensai che forse era una reazione, un modo per distrarsi, per uscire dall'incubo. Sì, doveva essere così, per forza, altrimenti c'era da sospettare che fosse impazzita, che le avesse dato di volta il cervello, dopo quello che avevamo scoperto la sera prima. Anche a me, del resto, stava capitando un fenomeno del genere. I ricordi di quei momenti si andavano pian piano sbiadendo, raffreddando. Anche se, ogni tanto, mi riaffiorava ancora alla mente la scena: il corridoio, tutti quei volumi ammonticchiati sul pavimento, il cumulo di calcinacci e mattoni rotti, il polverone che si era alzato. Rivedevo come in sogno la stanza da letto, risentivo quel puzzo di chiuso, di morte. L'immagine di quel cadavere imbalsamato, di Pupa che lo scopriva dietro il paravento cinese, tornava a tratti a trafiggermi. Dio santo, che orrore quel cadavere seduto goffamente davanti alla toilette, la vestaglia di seta, le pantofole ricamate, le mani che parevano artigli scarnificati, gli anelli alle dita. Più il sole, però, si alzava sul mare e il cielo si faceva azzurro e luminoso, più quell'orribile scena sbiadiva, si raffreddava. «Mannaggia, ho dimenticato le sigarette» disse Pupa rovistando nella
borsa. «Guarda nel cassetto del cruscotto» suggerii. Mi ricordavo che Piperno ci teneva sempre le sue Navy Cut Player's, là dentro. Pupa lo aprì. «Hai ragione» disse tirando fuori il pacchetto di sigarette, la vidi poi chinarsi in avanti, sbirciare, allungare una mano ed estrarre dal fondo del cassetto anche una busta. «Pupa De Lellis, via dei Fossi, Torricella Peligna, Chieti» mormorò leggendo l'indirizzo. Strappò lentamente la busta, sfilò alcuni fogli, prese a leggere. «Mia piccola cara ragazzina, avrei preferito dirtele a voce tutte le cose che sto per rivelarti, ma forse è meglio che le metta nero su bianco, come suol dirsi. Sono in viaggio, sto tornando da Roma. Mi sono fermato in un paese, si chiama Campo di Giove. Ho appena finito di mangiare un boccone in una trattoria e ne approfitto per scriverti. Penso che imbucherò questa lettera a Bologna, domani. Sì, perché domani tornerò a Bologna e stasera, a cena, non ci sarà nessun annuncio di fidanzamento. Lo sai anche tu, Pupa, hai capito benissimo che la nostra storia è finita. È vero, mi ero preso una bella cotta per te, ragazzina mia. Anche se ora, a mente fredda, capisco che forse è stata più infatuazione che altro. Cercherò di spiegarti perché tutto questo sia finito da un giorno all'altro. Non sarà facile. Tieniti forte: ne rimarrai in qualche modo scioccata...». Pupa s'interruppe. «Com'è che stava qua dentro questa lettera?» si domandò frastornata. «Be', lo dice lui stesso» provai a spiegare, anch'io ero alquanto frastornato «tornando da Roma, si è fermato lungo la strada a mangiare e ne ha approfittato per scriverti. Poi, ripartendo, ha messo la lettera nel cassetto del cruscotto e là è rimasta, evidentemente. Aveva già deciso di lasciarti, a quanto pare, di tornarsene a Bologna. Te l'avrebbe spedita da lì. Solo che, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, gli è stato impossibile farlo: la sera stessa è morto». Pupa non mi ascoltava. Si era accesa una sigaretta e aveva ripreso a leggere, leggeva per conto suo. Sbirciai dalla sua parte, notai che la lettera era un papiello di almeno tre o quattro fogli, proprio un romanzo, un testamento. «Che dice? Quali sono le cose scioccanti che ti rivela?» chiesi. «Niente. Parla di mia madre. Dice che a Torricella era venuto per rivedere lei» rispose Pupa dopo un po', telegrafica, sempre assorta nella lettura.
Continuò a leggere per un pezzo. Poi si interruppe un'altra volta, abbandonò la mano che stringeva tutti quei fogli in grembo e appoggiò la testa allo schienale, guardava il mare livido, invernale. Io guidavo. Correvo lungo l'Adriatica deserta col piede schiacciato a tavoletta sull'acceleratore. «E che dice di tua madre?». «Niente che già non sapessimo» rispose, lo sguardo perso in quel panorama infinito «avevi ragione tu. Si era illuso di ritrovare in me il suo antico amore, Mariù... Eri sua figlia, le assomigliavi da morire, confessa nella lettera. È stato onesto, però, ammette di avermi usato, di aver giocato sulla mia pelle. Mi chiede addirittura perdono, per questo... Sai che dice, fra l'altro?». «Che dice?». «Che fra i vari motivi per cui si è deciso a lasciarmi c'eri anche tu». «Io?!». «Sì. A un certo punto dice di essersi accorto che eri cambiato nei suoi confronti, eri freddo, scontroso. Si chiedeva il perché. Quando ha scoperto che anche tu ti eri preso una cotta per la sottoscritta, si è come vergognato, si è sentito improvvisamente un intruso, uno stagionato e ridicolo Casanova. Così dice. Dice anche che ti voleva bene e gli eri troppo simpatico per farti un torto del genere. Dice che gli dispiaceva molto di aver perso la tua amicizia, la tua stima». «Poveraccio» commentai sinceramente colpito da quella confessione «in fondo era una brava persona». «Sì, proprio una brava persona» ripeté Pupa trasognata, lo sguardo ancora perso sul mare «era una persona sensibile, un uomo eccezionale: colto, intelligente, affascinante. E credo che in fondo, al di là di tutto, un pochino mi abbia anche amato» si consolò. Dopo una pausa di svagato silenzio, di lunghe occhiate fuori dal finestrino, Pupa ripigliò a leggere. Io continuavo a guidare come un pazzo lungo la statale. «Che dice ancora?» le chiesi dopo un po' che leggeva, ormai doveva essere quasi alla fine di quella dannata lettera. «Delle cose tremende, dice» rispose Pupa «avevi visto giusto, tu. Era proprio andato all'ospizio delle suore quando fece quella gita a Lanciano». Abbassò la mano che stringeva i fogli, l'adagiò in grembo. «Le suore erano convinte che zia Manetta fosse la moglie di papà. Mio padre aveva messo la sorella nell'ospizio facendola passare per sua moglie».
«La moglie invece era morta, imbalsamata. Murata nella stanza da letto» commentai tetro. L'avere solo evocato quella immagine, mi fece ripiombare nell'atmosfera di angoscia e di incubo della sera prima. Anche a Pupa doveva aver fatto lo stesso effetto. «Fermati!» mi pregò con la voce soffocata. Frenai, accostai al ciglio della strada: c'era la campagna oltre la scarpata, si vedeva un casolare, una vigna coi filari, le viti nude, nere, contorte. Pupa scese e vomitò. Faceva dei versi orribili, misti a singhiozzi e a rantoli. Scesi anch'io. Stavo a guardarla inerte, imbambolato. Non sapevo che fare, che dire. Anch'io ero messo male. Dio buono, che Natale schifoso stavamo passando. Dopo aver dato di stomaco, Pupa riprese a leggere la lettera. La finì prima di arrivare a Rimini. Piperno rivelava, a conclusione, che la prima volta in cui venne a pranzo - era il giorno di Ognissanti -, zio Armandino, parlando di sé, delle sue vicende personali, familiari, eccetera, gli aveva confidato la disgrazia che sua moglie cioè era schizofrenica, ricoverata da quasi vent'anni in una casa di cura. Tua madre non era schizofrenica, posso garantirtelo, smentiva Piperno nella lettera, reciso. Era assolutamente sana di mente, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali... A dimostrazione di questo, aveva accluso a quel suo interminabile papiro l'ultima lettera ricevuta da Mariù. Pupa la lesse. Faceva raggricciare la pelle, quella lettera. Indirettamente, svelava la spaventosa tragedia che doveva essersi consumata in casa De Lellis, tra lei e zio Armandino. In questa lettera, datata 18 dicembre 1938, Mariù informava drammaticamente Piperno che il marito aveva scoperto la loro corrispondenza epistolare, venendo così a conoscenza della loro tresca, del piano di lei di piantarlo, di fuggire con l'amante all'estero. En passant, riferiva anche che zio Armandino aveva reagito alla cosa con grande stile e signorilità. Senza far scene, piazzate o cose simili - così scriveva Mariù -, con quei suoi modi pacati, urbani, sfoderando quel suo sorriso angelico - me lo figuravo tale e quale mentre Pupa leggeva -, si era limitato ad avvertire la moglie che avrebbe contrastato in ogni modo la sua sconsiderata decisione, che avrebbe fatto di tutto per dissuaderla dal folle proposito. Con le buone o con le cattive, aveva poi aggiunto, velatamente minaccioso. Mentre leggeva la lettera della madre e veniva a conoscenza di tutto questo drammatico retroscena, Pupa di colpo si interruppe, come se non credesse ai suoi occhi, alle parole scritte sul foglio con quell'inchiostro blu,
la calligrafia elegante, inclinata. «Riuscirò lo stesso a fuggire, Mino» lesse tremante, emozionata «ti giuro, ci riuscirò. Mi sono messa d'accordo con un certo Camillo, un giovanotto di Torricella che ha una vettura di sua proprietà e fa servizio di tassì. Approfitterò del giorno in cui quel cerbero di Rachele va a Fallascoso a trovare i suoi parenti. È l'unico momento buono, l'ultima occasione utile per fuggire. Mio marito, spero, sarà fuori, in giro per le masserie a vendere i suoi concimi. Scenderò con Pupa per via dei Fossi, non ci vedrà nessuno. Camillo ci aspetterà col suo tassì alla curva...». Pupa rilesse due volte quest'ultima frase. Volle farla leggere anche a me: non ci credeva. «Sì, c'è scritto questo» le confermai. Avevo rallentato e, presa la lettera dalle mani di Pupa, ci avevo dato una rapida sbirciata. Lei si mordicchiava le unghie in preda a un'ansia speranzosa. «Dice proprio così» ripetei restituendole i fogli, «scenderò con Pupa per via dei Fossi». «Perciò mi portava con sé» balbettò lei con la voce rotta dall'emozione. L'aver scoperto che la madre fuggiva portandosi dietro la figlioletta di quattro anni, cioè lei, Pupa, sembrò averla in parte ripagata, consolata, facendola per qualche attimo riemergere dalla voragine di angoscia e orrore in cui era sprofondata. Chissà poi che cos'era successo. Di certo, la velata minaccia di zio Armandino di dissuadere la moglie - con le buone o con le cattive - dal suo folle proposito di piantarlo, andarsene con l'amante, fuggirsene con lui a Tripoli, era stata messa in atto. Con le cattive a quanto pare: facendola fuori, in poche parole. Il fatto poi che l'avesse pure imbalsamata, murata nella stanza da letto, era talmente incredibile e spaventoso, che mi venne da pensare che il pazzo, lo schizofrenico, in quella casa era proprio lui, lo zio Armandino. Mi tornò alla mente l'episodio di una sera: io e Pupa che giocavamo a scala quaranta, e lei che, a un certo punto, si alzava per andare a fare pipì, ma aveva paura di raggiungere il gabinetto che stava in fondo a quel buio corridoio... Mio padre non vuole che ci vada, spiegò balbettante, che entri nella loro stanza da letto... E poi ci sono le macchie di sangue sul muro, gli schizzi... Mi ricordai anche dell'episodio, in apparenza insignificante, che mi raccontò Carmela, un fatto accaduto anni addietro, prima della guerra: la si-
gnora De Lellis e Pupa - una bambina, a quei tempi -, erano tutte vestite, incappottate e pronte per uscire... Erano in corridoio, secondo il ricordo di Carmela, e lei, la signora, aveva una valigia in mano, però c'era Rachele che tentava di fermarla, e intanto diceva alla madre di Carmela di correre ad avvertire don Armandino. Là, in quel corridoio, riflettevo, in quel giorno lontano, dovette avvenire la tragedia. Di sicuro, quel giorno, zio Armandino uccise la moglie, davanti agli occhi di Pupa, probabilmente. Carmela e sua madre sentirono, giù dal portone, gli urli e Pupa che piangeva. Del fatto, Pupa non ricordava niente, le era rimasto solo l'oscuro, invincibile timore di inoltrarsi in quel corridoio buio, di scorgere sulle sue pareti quelle macchie, quegli schizzi di sangue. Chissà come erano andate veramente le cose, ruminavo, chissà in che modo zio Armandino aveva ucciso sua moglie: forse a coltellate, oppure sparandole col fucile da caccia. Fu certamente una scena orribile, col sangue che schizzava dappertutto imbrattando le pareti, lasciando le macchie sulla carta da parati. «Ma perché mio padre insisteva a dire che la mamma era schizofrenica?» domandò Pupa mentre stavamo per arrivare a Rimini. Cercava penosamente di districarsi in quel macabro, mostruoso groviglio di fatti e cose che man mano venivano fuori. «Perché gli faceva comodo crederlo» risposi. Una certa idea, anche se un po' strampalata, me l'ero fatta di tutta quella faccenda. «Quando tuo padre spiegava che gli schizofrenici alternano momenti di normalità a momenti di pazzia, voleva convincersi appunto di questo: che fino a che tua madre si era comportata da brava moglie, fedele, innamorata, era da considerarsi normale, sana di mente; quando invece ha preso a fare cose strane e sospette e zio Armandino ha scoperto che aveva un amante col quale voleva scappare, di colpo la moglie si è trasformata ai suoi occhi in una schizofrenica pazza. Non si capacitava, tuo padre, del fatto che si fosse innamorata di un altro, si rifiutava di crederlo. Per spiegare in qualche modo la cosa, si è inventato che era affetta da schizofrenia, che cioè era scissa in due, aveva una doppia personalità, in pratica: una sana, l'altra malata. Non so se ho reso l'idea». «Sì, ho capito» mormorò Pupa dopo avere riflettuto un po', pareva perplessa, il mio ragionamento doveva sembrarle troppo arzigogolato. «E chissà» azzardai, preso dalla vertigine di quelle mie ardite, visionarie interpretazioni, «che averla imbalsamata e murata in quella stanza, nella
loro camera da letto, non gli abbia dato l'illusione di averla ancora con sé, la moglie, fedele e innamorata come prima, come sempre». «Che orrore!» sbottò Pupa in un singhiozzo straziato «allora è stato lui a ucciderla, mio padre?!». «Adesso l'hai capita?». 29 Il Grand Hotel era immenso e suntuoso come un palazzo reale. Salita la scalinata, si entrava in una hall sterminata, col pavimento completamente ricoperto da enormi tappeti persiani. Al centro, oltre a un tavolone di legno scuro, seminato di riviste e giornali stranieri, campeggiava una statua di bronzo alta almeno tre metri. Sparsi, poi, in ogni angolo del salone c'erano gruppi di tavolini e poltroncine e, data la ricorrenza, avevano anche piazzato in un angolo un colossale albero di Natale, carico di festoni, palle, decorazioni, lucette colorate e tutto il resto. Pupa si fiondò dritta alla reception. «Guarda che non ce la danno una stanza matrimoniale» le ricordai, un po' intimorito dall'ambiente «se non si è sposati, non le danno, negli alberghi, le stanze a due letti». «Questo è il Grand Hotel» mi rispose lei con una spallucciata sdegnosa. Raggiunse sparata il bancone e, rivolgendosi sciolta e sicura al signore in uniforme che stava in piedi là dietro, chiese una stanza per due. Io, vigliacco, mi ero fermato a qualche metro di distanza, per darmi un contegno, fissavo il colossale lampadario che pendeva dal soffitto. «Renzo, dammi la tua carta d'identità» sentii dirmi da Pupa. Pronto, cavai dalla tasca interna della giacca il portafoglio, sfilai il documento e andai a consegnarglielo. «Non hanno bagagli, i signori?» chiese il tipo in livrea. «No, non ne abbiamo» rispose Pupa con grande nonchalance. «Terzo piano, stanza 315» disse lui, consegnandole una grossa chiave agganciata a una palla di legno col numero della stanza stampigliato sopra. «È aperto il bar?» chiese Pupa. «Certo, signora» rispose l'uomo, compito «apre alle sette». Con la sua falcata altezzosa da mannequin, Pupa attraversò diagonalmente l'immensa hall e imboccò un ampio corridoio fiancheggiato da grandi vetrate, da cui si vedevano le terrazze dell'hotel, il parco rigoglioso di alberi, di siepi ben potate. La seguii zampettandole dietro come un cagnolino.
Ci sedemmo a un tavolino basso, circondato da poltroncine e divanetti imbottiti. Arrivò il cameriere e Pupa gli ordinò un cappuccino con brioche e tartine varie. Si muoveva, apostrofava i camerieri e faceva ogni cosa come se fosse di casa, in quell'albergo di gran lusso. Spolverammo la colazione famelicamente, come divorati da un appetito insano, come bisognosi di placare l'angoscia e l'orrore accumulati in quelle ore - la lettera di Piperno, scoperta per caso nel cruscotto dell'auto, ci aveva assestato gli ultimi, tremendi cazzotti allo stomaco, ci aveva anche risolto tanti dubbi tormentosi, però, oltre a confermarci i sospetti più atroci. Mentre macinavo brioches una dietro l'altra, pensieri scialbi e filacciosi presero a infestarmi la testa. Pensavo ai miei genitori, mi immaginavo la scena di loro, di zio Armandino, zia Coletta, zia Angiolina, compresa Rachele, che tornavano dalla messa di mezzanotte camminando in fila indiana lungo quei sentierini tracciati in mezzo alla neve alta. Li vedevo entrare nell'androne, sgrullarsi la neve dalle scarpe, salire su, al primo piano, entrare in casa, sfilarsi i cappotti - c'era ancora da compiere l'atto finale del rito della vigilia: lo scambio dei regali. Mi figurai la loro espressione di stupore e sorpresa nel vedere tutto quel casino all'ingresso e in corridoio, tutte quelle macerie, quel gran mucchio di mattoni e calcinacci, le assi della scaffalatura, i volumi dell'enciclopedia medica, della Treccani, gettati sul pavimento, pieni di polvere. M'immaginai la faccia di mamma e papà, quando, sbirciando attraverso quella breccia aperta nel muro a colpi di piccone, avrebbero scorto Maria De Lellis seduta davanti alla toilette con la vestaglia, le pantofole, e notato il suo viso mummificato, ma ancora riconoscibile nei tratti, i capelli giallastri e sfilacciati come sterpi secchi. Cercavo di immaginarmi il loro sconcerto, il raccapriccio. Di certo, pensai, zio Armandino si sarebbe premurato, a quel punto, di spiegargli che cos'era successo, perché zia Maria era là, seduta davanti alla toilette, immobile, mummificata. Coi suoi modi dolci e suadenti, gli avrebbe certamente raccontato che la moglie, poveretta, aveva cominciato a dare segni di squilibrio mentale, di schizofrenia. Scendendo nei particolari, poi, scommetto che avrebbe ripetuto a mamma e a papà tutta la pappardella dell'io scisso, della personalità lacerata dal contrasto tra la parte malata e degenere, quella cioè che spingeva Maria a filarsela con l'amante, e la parte sana, di moglie fedele, di madre amorevole. Figuriamoci se zio Armandino non si sarebbe anche inventato che, facendo appunto appello alla parte sana di lei, era riuscito alla fine a convincerla, a
indurla a desistere dal suo folle proposito. Eccola là, infatti, nella camera matrimoniale, seduta alla toilette, che si truccava come ogni mattina, si faceva bella. Ci avrei giurato che zio Armandino avrebbe dato una versione del genere a papà e mamma. «Vedete?» avrebbe detto col suo sorriso angelico, lo sguardo languido, la carezzevole erre moscia «alla fine sono riuscito a convincerla dell'errore che stava per commettere, a farla desistere dalla sua assurda decisione: eccola là, che si trucca, si prepara». E intanto avrebbe indicato il cadavere imbalsamato della moglie, la macabra messa in scena «Maria, ci sono Amelia e Giulio che vogliono salutarti: sono appena arrivati da Tripoli». Cercavo di immaginarmi la reazione di papà e mamma, le loro facce stravolte. Dopo le feste, pensai, avrei dovuto mandargli subito un telegramma o sentirli per telefono, chiamarli al numero pubblico dell'Ufficio Postale o dell'albergo Roma. «Ma allora Piperno è stato avvelenato» fece d'un tratto Pupa uscendo da quel silenzio stralunato, addentando una tartina, «magari anche Carmela hanno ammazzato, gettato nel pozzo». «Mi sa di sì» annuii. «Li hanno tolti di mezzo perché non si scoprisse che mia madre era morta, uccisa anche lei, imbalsamata, murata nella camera da letto». «Mi sa proprio di sì» annuii di nuovo «Piperno l'aveva capito che sotto c'era qualche magagna, qualcosa che non quadrava. Mi sa che aveva cominciato seriamente a sospettare che tua madre doveva aver fatto una brutta fine» spiegavo macchinalmente, ormai le cose erano così scontate nella loro spaventosa evidenza, che non faceva neppure più tanto effetto ripeterle. «Quanto a Carmela, te l'ho detto, voleva denunciare la cosa ai carabinieri, spifferargli che Piperno aveva mangiato dei funghi cucinati a parte, funghi raccolti nell'orto, funghi velenosi. Lo sapevano tutti che i funghi dell'orto erano velenosi». «Tutti d'accordo, perciò» sibilò Pupa in un sussulto di sdegno, di inorridita incredulità «tutti in combutta per coprire l'orrendo delitto di mio padre, la sua pazzia, per seppellire per sempre la povera mamma. Dio, se penso a tutte quelle atroci menzogne sulla mamma schizofrenica, ricoverata non si capiva dove. Tutti d'accordo, tutti uniti: zia Coletta, zia Angiolina, Rachele... Pensare che ho vissuto con loro la mia infanzia, la mia adolescenza. Con quelle assassine, quei mostri».
Avrei voluto partecipare allo sdegno di Pupa, al suo orrore. Avrei voluto anch'io scandalizzarmi, indignarmi. «Eh, certo che...» dissi sganasciandomi in uno sbadiglio stracco. Avevo passato la notte in bianco, l'avevo passata a guidare per quattrocento chilometri con l'acceleratore schiacciato a tavoletta. «Ma la cosa più orribile, la cosa che non riuscirò mai a scordare, a cancellare dalla testa» disse Pupa a denti stretti, gli occhi sbarrati, la voce rotta, rauca, «è che ho vissuto tutti questi anni in quella casa, con mia madre che stava là, a due passi da me, murata in una stanza, morta, imbalsamata». Quando salimmo su, nella nostra stanza d'albergo, non ebbi neanche il tempo di girarmi attorno, di ammirare l'ambiente di gran lusso in cui ero capitato. Pupa mi si venne ad abbarbicare addosso con un abbraccio muto, tenace, disperato. Restai lì impalato, un po' confuso, imbarazzato. Le massaggiavo la schiena in silenzio, di più non sapevo che fare. Attraverso il golfino di lana d'angora soffice e peloso, sentivo il calore del suo corpo, il suo respiro aspro. «Ma com'è che sei voluta venire in questo albergo di gran lusso?» le chiesi a un certo punto. Non resistevo più a stare lì impalato con lei abbracciata, abbarbicata. La domanda ebbe il suo effetto. Si staccò da me, andò nell'attigua stanza da bagno e aprì i rubinetti della vasca: l'acqua prese a scrosciare bollente, si sollevarono nuvole di vapore. «Mi piacciono gli hotel di classe» disse tornando «adesso mi faccio un signor bagno» annunciò togliendosi le scarpe e andandosi a sdraiare sul grande letto matrimoniale, in attesa che la vasca si riempisse. «Vedo che ti muovi in quest'ambiente» osservai petulante, «come se ci fossi già stata chissà quante volte». «Macché. Non sono mica una habitué del Grand Hotel» ridacchiò, stava con le braccia incrociate dietro la testa vagando con lo sguardo per la stanza «ci sono già stata una volta, però. Indovina con chi?» aggiunse con una punta di civetteria. Ero distrutto da una notte passata in bianco, da una bestiale tirata alla guida di una Lancia Appia, ero provato, sconvolto da tutta la serie di fatti frenetici accaduti in quegli ultimi giorni, fino alla sera prima, eppure un moto di gelosia si fece strada in tutta quella rovina e mi punse molesto. «Con chi?» chiesi. «Con Renato Salvatori» sorrise fatua «sì, l'attore» precisò notando il mio silenzio.
«Anche con quel burino sei stata?» sogghignai. Mi accorsi con sorpresa e sollievo che non ero poi tanto geloso del fatto, anzi, in un modo strano e sorprendente, in fondo ne ero lusingato. «È successo l'estate scorsa. Lui, Salvatori, era venuto a Bologna a girare non so quale film. L'ho conosciuto a una festa, un party in una villa in collina. C'erano un sacco di belle ragazze, a quella festa, signore della buona borghesia bolognese. Be', tu non ci crederai, ha subito puntato me, mi ha fatto tutta la sera una corte asfissiante. Alla fine, molto galante, carino, mi ha invitato a cena per il giorno dopo in un ristorante di Rimini, dove, gli avevano detto, si mangiava un pesce fantastico». «Tu, come tuo solito, hai subito accettato, naturalmente» commentai amaro, sardonico. «Così, siamo andati in questo ristorante chic, abbiamo cenato al lume di candela» proseguì Pupa incurante del mio commento amaro e sardonico «poi lui è voluto andare anche al night: abbiamo ballato fino a tardi come degli scatenati, abbiamo fatto le ore piccole. Era sfinito, Renato, non ce la faceva a tornare a Bologna. Così, abbiamo deciso di fermarci a Rimini e siamo venuti qui, al Grand Hotel, e abbiamo preso una suite». «Alla faccia del caciocavallo!» mi complimentai, sempre più amaro, sardonico. «Vedo che nel tuo lungo elenco non mancano i divi del cinema. Oddio, definire Renato Salvatori un divo mi sembra un po' esagerato. Ragazzi, ha una faccia da bullo». «Tu neanche ti immagini che razza di fustaccio è, a vederlo di persona» replicò Pupa «si sa, è un po' nature. Del resto, faceva il bagnino a Viareggio. Ma se lo vedessi spogliato, ragazzi». Non commentai. Cercavo di non farmi prendere dal tarlo della gelosia, evitavo di soffermarmi col pensiero su Pupa che faceva l'amore con 'sto fustaccio di Renato Salvatori, magari in un letto simile a quello dove stava stravaccata in quel momento, in una stanza del Grand Hotel uguale alla nostra. Odiavo quel genere di attori, tipo Renato Salvatori, Antonio Cifariello, Maurizio Arena e compagnia bella, quelli, per capirci, della categoria dei Poveri ma belli. Pupa si alzò, tornò nella stanza da bagno. «Lascio la porta accostata. Quando ti chiamo, vieni che m'insaponi la schiena» mi gridò chiudendo i rubinetti della vasca. Mi gettai sul letto. Pensavo a Pupa e Renato Salvatori. Mi accorsi che non provavo nessuna gelosia, forse perché ero troppo stanco, distrutto dalla notte passata a correre in macchina lungo la statale Adriatica.
«Sai che mi disse Renato?!» gridò Pupa, già nella vasca, col rumore dell'acqua, di lei che ci sguazzava dentro insaponandosi. «No, che ti disse?». «Mi disse che potevo fare l'attrice!». «Addirittura!» commentai a voce alta, per farmi sentire. «Ti giuro! Mi disse che tutte le varie attricette di adesso potevo mettermele in saccoccia tutte quante! Così m'ha detto, ti giuro!» gridava Pupa dalla vasca da bagno, sciacquandosi e insaponandosi. «M'ha dato anche il suo numero di telefono. Vieni a Roma, m'ha detto, ti presento a qualche regista o produttore, ti faccio fare dei provini!». «Non dirmi che ti vuoi dare alla carriera cinematografica!» sghignazzai. «Perché non andiamo a Roma?!» fece lei dopo qualche secondo di silenzio. «Quando?!». «Anche domani! Andiamo a passare il capodanno a Roma, telefono a lui, a Salvatori!». Pupa continuò a parlare, a far progetti strampalati, a vaneggiare. Io me ne stavo stravaccato sul letto, preso dai miei pensieri, aspettando che Pupa mi chiamasse per insaponarle la schiena. Pregustavo il momento in cui la mia mano sarebbe scesa, scivolata per caso dalla schiena al sedere. L'uccello mi si gonfiò sotto i calzoni. Il sonno mi fulminò mentre immaginavo di insaponare il sedere di Pupa. Mi risvegliai. Qualcuno mi pizzicava la faccia, mi faceva dei ganascini. «Renzo, sveglia...». «Eh, che c'è?» biascicai aprendo a fatica le palpebre pesanti di sonno, incollate. «È l'una passata» disse Pupa. Si era seduta sulla sponda del letto, dalla mia parte: stava tutta avvolta in un morbido accappatoio rosa e si strofinava i capelli con un asciugamano di spugna. «È meglio che scendiamo in sala-ristorante, sennò finisce che non ci servono». «Ah...». «Ti ricordi, Renzo, quella mia paura di andare in bagno, di fare quel corridoio al buio?» disse a un tratto con una voce strana, lugubre. «Mi ricordo» risposi, la bocca impastata, gli occhi appiccicosi, la testa imbottita di sonno «avevi paura di vedere certe macchie di sangue sul muro, certi schizzi». «Be', forse ho capito il perché di quella paura» continuò a dire sempre
con quella voce strana, lo sguardo assorto «mentre stavo nella vasca e mi insaponavo, mi è tornata alla memoria una scena, una roba lontana, confusa». «Tu e tua madre in quel corridoio. Lei con la pelliccia e la valigia in mano». «Sì, proprio. Come hai fatto a indovinare?» mi disse girandosi, scrutandomi stupita. Non risposi. «Che ci daranno da mangiare?» divagai «oggi è Natale». Neanche lei rispose. Stava lì, muta, stralunata: ripescava in chissà quali recessi della memoria quel ricordo rimosso, quel terribile episodio vissuto da bambina, diciassette anni prima. Mi alzai, andai in bagno a sciacquarmi la faccia. C'era un pettine sulla mensola. Lo bagnai, pigliai a passarmelo tra i capelli, dopo quasi quattro mesi mi rifeci la riga, mi pettinai. Non m'andava più di girare scarruffato, di fare il verso a James Dean. Era il 25 dicembre del 1955. Il giorno di Natale. FINE