JOYCE CAROL OATES UNA FAMIGLIA AMERICANA (We Were The Mulvaneys, 1996) per i miei "Mulvaney"... Lascio me stesso alla te...
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JOYCE CAROL OATES UNA FAMIGLIA AMERICANA (We Were The Mulvaneys, 1996) per i miei "Mulvaney"... Lascio me stesso alla terra per nascere dall'erba che amo, Se ancora mi vuoi cercami sotto le suole delle scarpe. Difficilmente saprai chi io sia o che cosa significhi, E tuttavia sarò per te salutare, E filtrerò e darò forza al tuo sangue. Se non mi trovi subito non scoraggiarti, Se non mi trovi in un posto cerca in un altro, Da qualche parte starò fermo ad aspettare te. WALT WHITMAN, Canto di me stesso I Immagini di famiglia La casa da fiaba Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi? Forse pensavate che la nostra famiglia fosse più grande. Ho incontrato spesso persone convinte che noi Mulvaney fossimo virtualmente un clan, ma in realtà eravamo solo sei: mio padre, che era Michael John Mulvaney Sr., mia madre Corinne, i miei fratelli Mike Jr. e Patrick e mia sorella Marianne, e io, Judd. Dall'estate del 1955 alla primavera del 1980, quando mio padre e mia madre furono costretti a vendere la proprietà, i Mulvaney sono stati alla High Point Farm, sulla High Point Road, undici chilometri a nordest della cittadina di Mt. Ephraim nella parte settentrionale dello stato di New York, nella valle di Chautauqua, circa centodieci chilometri a sud del lago Ontario. High Point Farm era una proprietà molto nota della valle, destinata con il tempo a essere definita un luogo di interesse storico, e "Mulvaney" era
un cognome molto conosciuto. Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto. Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato Bene! È quello che si meritano. «Troppo esplicito, Judd!» direbbe mia madre, torcendosi le mani a disagio. Ma io credo nel dire la verità, anche se dolorosa. Soprattutto se dolorosa. Per tutta la mia infanzia di Mulvaney sono stato il piccolo di famiglia. Essere il piccolo di una famiglia simile significa rendersi conto di essere l'ultimo minuscolo vagone di un lungo treno ruggente. Mi volevano bene, per cui, quando mi prestavano una qualche attenzione, ero una creatura abbagliata e accecata da luci intense, ardenti, che potevano spegnersi di colpo e lasciarmi al buio. Non riuscivo a capire chi fossi, se avessi un nome preciso o molti nomi, tutti quanti affettuosi e molti scherzosi, come Fossette, Belfaccino oppure, in alternativa, Musone o Ranger, il mio preferito. Quasi sempre, sono stato Piccolo o Piccino. Judd era un nome legato a una certa dose di severità, serietà, anche se noi bambini Mulvaney venivamo rimproverati di rado e ancora più raramente puniti; Judson Andrew, il mio nome di battesimo, era un nome di tale dignità e ambizione che non sono mai riuscito a sentirlo mio. Era soltanto una cosa presa in prestito, come una maschera di Halloween. Si poteva avere l'impressione, o almeno l'avevo io, che Judd, o meglio Piccolo, per poco non ce l'avesse fatta. A nascere, intendo. Il treno stava per lasciare la stazione, l'ultimo vagone veniva trascinato velocemente sui binari. Non che Corinne Mulvaney fosse così vecchia quando sono nato; aveva solo trentatré anni. Il che di certo non significa essere vecchi in base agli standard di oggi. Io sono nato nel 1963, l'anno che, diceva papà scrollando cupo la testa con uno sguardo di profonda tristezza, «ha spezzato in due la storia» per gli americani. A me preoccupava essere arrivato tanto in ritardo; c'erano già tutti! Una famiglia Mulvaney completa senza Judd. Ho sempre avuto quella sensazione. Per quanto mi sforzassi non potevo sperare di arrivare a condividere i loro bei giorni, i segreti, le battute. I ricordi. Che cos'è una famiglia, dopo tutto, se non ricordi? Casuali e preziosi come il contenuto del cassetto che in cucina serve da ripostiglio generico (a casa nostra si chiamava "cassetto della robaccia", per buone ragioni). Il mio handicap, capii gradualmente, stava nel fatto che quando io ero sul punto di nascere mio fratello Mike aveva già dieci anni, e tra bambini questo equivale a una generazione. Dov'è Piccolo? Chi ha preso Piccolo? Gli
strilli cominciavano, e il più vicino mi raccattava e si partiva. L'abbaiare di una mischia di cani, con la loro ansia di non essere lasciati lì che scimmiottava la mia, esagerata perché spesso gli animali sono esagerazioni degli esseri umani, emozioni svelate senza pudori. Chi ha preso Piccolo? Non dimenticate Piccolo! I cani, i gatti, i cavalli, persino le automobili e i furgoni che papà e mamma guidavano prima che io nascessi, quei grandi modelli sexy e sgargianti degli anni cinquanta: ho scrutato tutto nei gonfi album fotografici di mamma, deciso a incollarmi a quei ricordi. Ma certo, ricordo benissimo! Ma certo, c'ero anch'io! Il primo pony di Mike, Crackerjack, che era un sauro con chiazze color sabbia. Il nostro setter Foxy da cucciolo. La volta che papà finì in un fosso con il trattore. La volta che mamma lanciò torsoli di pannocchie per spaventare certi strani cani che pensava minacciassero le galline e poi si scoprì che i cani erano un orso nero con i suoi due cuccioli. La volta che papà invitò centocinquanta persone al pranzo all'aperto dei Mulvaney del quattro luglio convinto che ne sarebbe arrivata solo la metà, e invece si presentarono tutti, e anche qualcuno in più. La volta che un amico leggermente discutibile di papà venne a High Point Farm partendo da un aeroporto di Marsena su un Piper Cub giallo canarino e atterrò («Quasi un atterraggio d'emergenza» aveva commentato secca mamma) in uno dei pascoli, e anche se il neonato nelle foto che celebravano l'evento doveva essere mia sorella Marianne, nel luglio 1960, sono riuscito a convincermi Sì c'ero, ricordo. Ricordo! E quando in anni successivi parlavano dell'episodio, narrando di come il vento sballottasse il piccolo aereo quando Wally Parks, l'amico di mio padre, aveva fatto fare un breve volo a papà, io ero certo di esserci stato, ricordavo la mia grande eccitazione, la grande eccitazione di tutti noi, Mike, Patrick, Marianne e me, e ovviamente mamma, lì a guardare il Piper Cub che saliva sempre più su scosso dal vento, diventava più piccolo in distanza sino a essere non più grande di uno sparviero, alto sopra la valle, e pareva che un solo, forte soffio di vento potesse trascinarlo giù. E mamma aveva pregato: «Dio, riportami quei balordi vivi e non mi lamenterò mai più di nulla, prometto! Amen». Potrei giurarlo anche adesso: io c'ero. Perché i Mulvaney erano una famiglia nella quale tutto ciò che accadeva era prezioso e tutto ciò che era prezioso era immagazzinato nel ricordo e tutti avevano una storia. Per questo molti di voi ci invidiavano, credo. Prima degli eventi del
1976, quando tutto per noi andò in pezzi e non venne mai più ricomposto nello stesso identico modo. Noi Mulvaney saremmo morti l'uno per l'altro, però avevamo segreti l'uno per l'altro. Li abbiamo ancora. Chi vi racconta queste cose è un adulto: Judd Mulvaney, trent'anni. Redattore capo del Chautauqua Falls Journal, un quindicinale con una tiratura di 25 600 copie. Faccio il giornalista o comunque lavoro per i giornali dall'età di sedici anni, e per quanto ami il mio lavoro e ne sia, immagino, piuttosto ossessionato, non sono ambizioso in senso materiale. L'editore del Journal, un anziano signore che è mio amico, mi ha affidato l'incarico di preparare un «buon giornale, per bene, che dica la verità», ed è ciò che ho fatto e continuerò a fare. Fare carriera, trovare posti meglio pagati in città più grandi risveglia solo un modestissimo barlume d'interesse in me. Non sono un giornalista in cerca di sensazionalismo, di temi controversi. Preferisco raccontare la verità e spero di restare immune per sempre dall'ipocrisia. Mi sono costruito una personalità calma e moderata e nell'insieme meravigliosamente civile. La gente sussurra a Corinne Mulvaney, dopo avermi conosciuto: «Che bravo giovanotto!» e, se sono donne come lei, donne della sua età con figli adulti e lontani: «Che fortuna, avere un figlio simile!». In effetti penso che mamma sia fortunata, non solo perché ha me, ma perché ha anche i miei fratelli e mia sorella, e noi la amiamo quanto, o quasi, lei ama noi. Mamma non sa e spero non saprà mai che due dei suoi figli sono stati coinvolti in un crimine di estrema gravità. Sarò esplicito con voi: sono stato complice di due reati punibili con lunghi periodi di detenzione nello stato di New York e sono quasi arrivato a essere complice prima e dopo il fatto di un omicidio, e con ogni probabilità non mi sarei pentito se l'omicidio fosse stato commesso. Di certo mio fratello Patrick, che ha quasi commesso l'omicidio, non si sarebbe pentito. Se, al momento della sentenza, il giudice gli avesse chiesto di parlare a propria discolpa, Patrick lo avrebbe guardato negli occhi e avrebbe detto: «Vostro onore, ho fatto quello che ho fatto e non ho rimpianti». Molte volte nell'immaginazione ho sentito Patrick pronunciare quelle parole. Tante volte, nel crepuscolare stato di coscienza tra sonno e veglia, quando interviene una sottile, cangiante, misteriosa personalità che pochi di noi hanno esplorato, arrivo a pensare che in realtà Patrick sia stato arre-
stato, processato e condannato per omicidio, rapimento, furto d'automobile, tutte le numerose accuse che gli sarebbero state rivolte, e che si sia presentato a un giudice e abbia parlato proprio in quel modo. Poi mi costringo a svegliarmi, e il sollievo mi invade come la luce del sole! Non è successo, non è andata così. Ma questo documento non è una confessione. Niente affatto. Sono giunto a considerarlo come un album di famiglia. Un album di famiglia che mia madre non ha mai tenuto, uno di quelli che dicono l'assoluta verità. Il genere di album che nessuna madre tiene. Ma se siete stati bambini in una famiglia avrete tenuto uno di questi album nei ricordi e nelle congetture e nei desideri: il lavoro di un'intera vita. Potrebbe essere il più importante, l'unico lavoro della vostra vita. Ho detto che eravamo sei in famiglia, ma è fuorviante. Sei è un numero così piccolo! In realtà High Point Farm ferveva di attività, era complicata e, in un bambino, poteva creare confusione come una rappresentazione teatrale con volti familiari e no che entrano ed escono di continuo. Amici, parenti, ospiti, i contatti di lavoro di papà, mano d'opera: ogni giorno e spesso ogni ora si poteva fare affidamento sul fatto che stesse succedendo qualcosa. I miei erano persone socievoli, conosciute, che mal tolleravano la quiete, tanto meno la solitudine. E vivevamo in una fattoria. Avevamo cavalli, mucche da latte, capre, qualche pecora, polli e faraone e oche e anatre selvatiche per metà addomesticate. Che strepiti di prima mattina, quando i galli si davano convegno! Sono cresciuto tra quei suoni e tra gli strilli degli uccelli selvatici (soprattutto ghiandaie che nidificavano molto vicino a casa, sulle nostre querce giganti), al punto di credere che facessero parte del tessuto stesso del mattino. Il tessuto della mia anima. A differenza di altre fattorie della valle, High Point Farm non era più una "vera" fattoria. Gli introiti di papà venivano dalla Mulvaney Tetti e coperture, a Mt. Ephraim. In origine la proprietà comprendeva trecento acri di buon terreno fertile, per quanto collinoso, ma quando papà e mamma la comperarono restavano solo ventitré acri; e papà ne affittava quindici a vicini che vi coltivavano coda di topo, frumento, soia, erba medica, granturco. Però avevamo animali da fattoria che amavamo e ovviamente cani, di rado meno di quattro, e gatti, gatti! sempre un numero prefissato di gatti che potevano entrare in casa, e un numero variabile di gatti da granaio. I miei primi ricordi sono di animali dotati di personalità più forti della mia. Un cavallo ha una personalità molto precisa per quanto imprevedibile, a
differenza, per esempio, di un cane; un gatto può essere praticamente qualunque cosa. Papà, per scherzo, si lamentava sempre che il padrone di casa fosse un certo gatto persiano capriccioso, totalmente preso da sé e bellissimo, Palladineve, e che la vicecomandante fosse, è ovvio, mamma; dopodiché non osava speculare oltre, era troppo umiliante. «Oh, sì! Siamo tutti tristi per il povero Ricciolo, no?» lo prendeva affettuosamente in giro mamma, e papà faceva la faccia scura. «Così trascurato in casa sua!» Avessi provato a contare animali domestici e volatili di High Point Farm con personalità tanto spiccate da essersi meritati un nome, quanti sarebbero stati? Venti? Venticinque? Trenta? Di più? E ovviamente cambiavano, variavano in continuazione. Una nuova cucciolata di cani, una di gatti. Agnellini, caprette. Era raro che nascesse un puledro ma quando accadeva, dopo molti giorni e notti di preoccupazione (soprattutto da parte di mamma; a volte dormiva nella stalla con la cavalla gravida) era una grande occasione. Diverse famiglie di canarini erano sorte e scomparse prima della mia nascita e una delle storie di casa più amate era quella di mamma che provava ad allevare canarini in cucina e il problema era che c'era riuscita troppo bene, e al culmine della "epidemia di canarini", come la chiamava papà, c'erano tre grandi gabbie che contenevano un totale di quindici canarini che emettevano trilli, cinguettii, gorgheggi, urla, a volte strilli. «E defecavano senza sosta» come diceva secco papà. Ricordo che una volta, quando ero molto piccolo, papà portò a casa una capretta grigia con zampe rachitiche, perché il suo proprietario, un allevatore nostro vicino, voleva spararle. «Venite a conoscere Billy!» annunciò papà. Un'altra volta mamma e Mike tornarono da una spedizione al negozio di mangimi di Eagleton Corners con un grosso galletto bantam dal piumaggio fiammeggiante e gli occhi dorati, molto sussiegoso. «Tutti fuori a conoscere Capitan Marvel!» annunciò mamma. Il mio primo cucciolo è stato un bulldog che si chiamava Stivaletti. Sono cresciuto con lui come con un fratello. Quando ripenso a noi allora, quando eravamo i Mulvaney di High Point Farm, penso alla distesa di terreno invasa dalla vegetazione spontanea, una specie di giungla dai confini mal definiti come in un sogno, con i nostri recinti di filo spinato sempre cadenti che si perdevano verso una terra coperta d'arbusti, collinosa, incolta. (In una fattoria bisogna riparare di continuo i recinti, o bisognerebbe farlo.) Metterci a fuoco richiede uno sforzo, come mettere a fuoco un sogno e tenerlo fermo. Uno di quei sogni tentatori e ossessivi che sembrano tanto vividi, tanto
reali, finché non guardi più da vicino, cerchi di vedere, e cominciano a svanire, come fumo. Facciamo un salto a High Point Farm. Venite con me, vi ci porto io. Dalla Route 58, la Yewville Pike, una bella autostrada di campagna a due e tre corsie che collega Rochester, Yewville e Mt. Ephraim su un asse rettilineo nord-sud, si passa per la città crocicchio di Lebanon, si prosegue per tredici chilometri seguendo il fiume Yewville e attraversando il nuovo ponte a Mt. Ephraim. (Popolazione: 19 500 abitanti nel 1976.) Continuate lungo quella che a un certo punto diventa Meridian Street, passando davanti alle vecchie fabbriche in mattoni lungo il fiume (posti dove si producono borsette da donna, maglioni, calzature) che hanno l'aria malinconica di aziende chiuse ma in realtà sono ancora produttive, almeno fino a un certo punto. Svoltate a destra in Seneca Street, oltrepassate il brutto e imponente edificio in stile greco classico che è la biblioteca pubblica di Mt. Ephraim, con la cancellata in ferro battuto. Poi la centrale di polizia di Mt. Ephraim. I Veterani delle guerre d'oltremare. L'associazione benefica degli Odd Fellows. Prendete a destra della piazza, dove quasi tutti i vecchi olmi sono stati tolti, e proseguite sulla Fifth Street, dove girerete a destra alla chiesa episcopale della Trinità. No, un attimo. Questo percorso è una scorciatoia per evitare il "centro" di Mt. Ephraim (poco più di tre isolati, ma quelle strade vecchie e strette possono congestionarsi di traffico). Arrivate fino in fondo a South Main Street, poi un'altra svolta a destra, una a sinistra, e adesso siete in un'area di piccole aziende e magazzini. Ecco la Mulvaney Tetti e coperture, un modesto edificio di un piano con la facciata a stucco, dipinto di recente in un bel verde scuro con finiture bianche. Sul tetto ci sono modernissime assicelle in asfalto e poliestere, di un verde ancora un po' più scuro. Quanto era orgoglioso papà della Mulvaney Tetti e coperture. Quanto aveva lavorato per la ditta e per costruirsi la reputazione di persona con cui tutti desideravano fare affari, non solo perché i suoi prodotti erano eccellenti ma perché era un tipo dannatamente gradevole, uno che ti piaceva e che rispettavi. Adesso tornate sulla Fifth e tirate diritto per tre isolati. Superate sulla sinistra il liceo di Mt. Ephraim dove tutti noi Mulvaney abbiamo studiato, a turno (struttura tipo fabbrica, tetto piatto che perde, una costruzione in mattoni da poco prezzo che risale alla metà degli anni sessanta e mostra già segni di invecchiamento), poi i campi da gioco della scuola e all'angolo
il campo da baseball, niente di spettacolare, un po' di panchine e un prato con erbacce e spazzatura trascinata in giro dal vento come i grossi gomitoli di sterpaglia nel deserto. C'è il ristorante di Rose & Chubby, c'è la Taverna dei Quattro Angoli con il parcheggio sterrato. Superate Depot Street. La Railroad. Giù per la lunga discesa, con la Guanti Drummond su un lato, ancora in attività nel 1976, a un solo passo dalla bancarotta. (Il signor Drummond era un conoscente di mio padre, sentivamo a tavola i problemi del pover'uomo.) Prendete a destra al bivio e passate il Tabernacolo degli Apostoli di Cristo, una delle prime chiese di mamma nella zona ma prima che nascesse Judd, un triste edificio di blocchi di cemento con un tendone da teatro e lettere rosa che dicono GIOITE TUTTI, CRISTO È RISORTO! Continuate oltre i binari ferroviari e lo scalo merci della Chautauqua & Buffalo. Vedrete il serbatoio dell'acqua a quindici metri dal suolo, appollaiato su quelle che io ho sempre considerato "zampe di ragno": MT. EPHRAIM a lettere bianche slavate dalla pioggia. (Probabilmente sul serbatoio ci sono anche scritte in vernice fosforescente, iniziali e graffiti. Probabilmente LICEO MT. EPH. CLASSE '76. È in corso una guerra perenne tra le autorità locali che vogliono il serbatoio privo di scritte e i ragazzi delle superiori decisi a marcarlo come proprio territorio.) Adesso svoltate sulla Route 119, l'Haggartsville Road, un'autostrada statale a scorrimento veloce. Sulla sinistra la stazione di servizio della Gulf, a destra il centro commerciale Eastgate, poi i soliti fast-food drive-in come Wendy's, McDonald's, Kentucky Fried Chicken, tutti costruiti di recente lungo l'autostrada, all'inizio degli anni settanta. Legnami Spohr, Officina Hendrick. Nomi familiari perché i proprietari erano amici di mio padre, membri come lui della Camera di commercio di Mt. Ephraim, degli Odd Fellows, del Country Club. Il semaforo più avanti segna il confine della città. Più in là, a sinistra, il Country Club Lane che dall'autostrada trafficata sale per chilometri verso un "esclusivo" complesso residenziale; il Country Club non è visibile dall'autostrada però si possono vedere i verdi campi da golf, la punta del lago artificiale che brilla come vetro infranto. Sulla destra c'è un secondo insediamento residenziale di prestigio, l'Hillside Estates. Adesso avete lasciato la città e il limite di velocità è novanta chilometri orari, ma tutti corrono di più. Camion pesanti, autoarticolati. Furgoni. Superate piccole fattorie, campi, e l'autostrada sale gradualmente. I binari ferroviari corrono a lato della strada per diversi chilometri poi svaniscono in un tunnel che sembra scavato nella roccia. Dopo una manciata di case che sono tuguri e un triste villaggio di roulotte appare una stretta
strada asfaltata che si biforca sulla destra: High Point Road. Adesso siete tra le colline ai piedi delle Chautauqua Mountains e in lontananza ci sono le montagne: pendii alberati che sembrano scolpiti, fluttuanti. Mt. Cataract è la più alta, settecento metri al di sopra del livello del mare, con la cima bianca come di gesso, visibile nei giorni limpidi anche se dista quasi cinquanta chilometri. Sembra una mano, no? diceva Marianne. Come qualcuno che ci saluti. D'inverno questa è una regione di neve vasta e profonda e ramificata come una tundra. Con l'occhio della mente non solo vedo ma mi sento piccolo piccolo di fronte alle colline di un bianco accecante che si estendono per chilometri, impennacchiate e solcate da gambi spezzati di frumento. Sparvieri che volano alti in spirali pigre, falchi dalle grandi ali e dalla vista tanto acuta da riuscire a individuare i piccoli roditori che corrono da una piantina all'altra per poi piombare giù come razzi in una discesa improvvisa ad afferrare la preda tra gli artigli e infine risollevarsi. Nella stagione calda quasi tutti i campi sono lavorati, coltivati. Pascoli di collina attraversati da ruscelli e stretti torrenti serpeggianti. Mandrie di Holstein che brucano; a volte cavalli, pecore. Adesso siete nel cuore della campagna, e si continua a salire. Superate la città di Eagleton Corners: ufficio postale e drogheria nello stesso piccolo edificio tozzo, negozio di articoli per l'agricoltura, stazione di rifornimento, chiesa metodista di assi di legno bianche. Adesso la natura della High Point Road cambia: l'asfalto diventa terra e ghiaia, poco più di un'unica corsia, praticamente niente banchine e un profondo fossato sulla destra. La strada segue l'orlo di un'antica costa di ghiacciaio, una delle molte, bizzarre striature in rilievo che segnano il terreno in questa parte dello stato di New York, come giganteschi unghioni lunghi chilometri. E adesso a lato della strada scorre un torrente, Alder Creek, che è profondo, veloce, infido come un fiume. Salite ancora, la collina è ripida e la strada curva, buona idea passare in seconda. Quando la strada ridiventa pianeggiante, superate la fattoria Pfenning sulla destra, che confina con la proprietà Mulvaney. Finalmente! La casa degli Pfenning è la tipica costruzione rurale della regione, un economico rivestimento esterno d'asfalto, un tetto a scandole che trasuda lento marciume. La stalla è tenuta meglio, e anche questo è tipico. Lloyd Pfenning è il maggiore fittavolo di papà: quasi tutti gli anni affitta dodici acri per seminare avena e frumento. Altri ottocento metri e oltrepassate la vecchia, cadente scuola pubblica numero 9 della contea di Chautauqua, trasformata da tempo in abitazione, dove ha vissuto una successione di famiglie; in quest'anno 1976 la famiglia si chiama Zimmerman.
Altri ottocento metri e vedete, sulla sinistra, una grossa cassetta della posta, nera e bella, con il disegno argentato di un cavallo che s'impenna su un lato e il cognome MULVANEY a lettere rosse catarifrangenti. Di fronte c'è un sentiero d'accesso quasi nascosto da alberi e arbusti, e il cartello che mamma ha preparato con le sue mani, con tanto orgoglio: HIGH POINT FARM 1849 Il sentiero in ghiaia è fiancheggiato da alti, vecchi abeti rossi. Attorno alla casa cinque enormi querce, e intendo enormi: la più alta supera tranquillamente di tre volte l'altezza della casa, che ha tre piani. D'estate, il rigoglio è tale che per vederla dovete prima seguire con gli occhi tutto il sentiero. Che casa! D'estate, il suo color lavanda sembra fluttuare a mezz'aria, allegra e magica come la casa in un libro di fiabe. E l'antica slitta nel cortile anteriore, a dare l'impressione che il cavallo sia appena trottato via lasciandosi dietro l'unico passeggero, una figura umana, uno spaventapasseri teneramente comico che indossa vecchi abiti di papà. Una casa da fiaba, state pensando, sì? E deve esserlo, perché ci vivono persone da fiaba. High Point Farm era uno dei posti più noti della zona già da molto prima che i miei la comperassero e la ristrutturassero parzialmente, è ovvio. In precedenza era stata l'isolata residenza di un eccentrico gentiluomo di campagna nato in Germania, che era morto nel 1951 e l'aveva lasciata a giovani, lontani parenti che vivevano in città distanti e che nutrivano ben poco interesse per la proprietà, se non come occasionale rifugio per l'estate o per un weekend di caccia. Nel 1976, quando io avevo tredici anni, High Point Farm si presentava quasi florida e non era insolito che fotografi arrivassero da posti lontani come Rochester e Buffalo per ritrarre la casa "storica" e gli edifici annessi, i cavalli al pascolo, l'antica slitta e il "pittoresco" ruscelletto che scorreva nel cortile anteriore. Ogni anno, High Point Farm appariva sui calendari stampati da commercianti locali, su quello del Mt. Ephraim Patriot-Ledger e della Western New York Historical Society. Sulla parete del mio ufficio al giornale c'è un calendario del 1975 della Historical Society, sempre aperto su ottobre: L'ora delle zucche a High Point Farm! Una foto patinata dello spaventapasseri sulla slitta con la vecchia giacca scozzese, il berretto con i paraorecchie, i larghi calzoni cachi di
papà, circondato da zucche di un arancio abbagliante di varie dimensioni compreso, sul terreno, un enorme esemplare deforme che doveva pesare più di quarantacinque chili. Dietro la slitta c'è la casa lavanda-e-pietra con le numerose finestre e i tetti scoscesi. Ho fatto plastificare la pagina, altrimenti sarebbe sbiadita e rovinata da tempo. La nostra casa era una costruzione vecchia e irregolare con sette camere da letto, verande e portici e strane torri e torrette e tre alti camini in pietra. Papà diceva che la casa non aveva stile, che era vari stili, un riassunto dell'architettura americana. Dai dati disponibili risultava che vi avevano lavorato almeno sei costruttori, ristrutturando, espandendo, spostando, a partire dal 1930. Papà manteneva l'esterno in condizioni ottimali, è ovvio, specialmente i tetti, che erano coperti da tegole di prima qualità di un magnifico blu prugna e dotati di grondaie e canali di scolo in alluminio senza saldature. La vecchia parte centrale della casa era in pietra e stucco; sezioni più recenti erano in legno. Quando io ero molto piccolo, dev'essere stato alla metà degli anni sessanta, papà e due dei suoi operai della Mulvaney Tetti e coperture e Mike Jr. e Patrick avevano ridipinto le parti in legno, portandole dal grigio canna di fucile al lavanda, con persiane dello sgargiante viola scuro delle melanzane fresche. La grande porta d'ingresso diventò color panna. (Furono necessari settanta litri di pittura a olio per quel legno vecchio, secco, e settimane di lavoro. Che sforzo di squadra! Mi sarebbe piaciuto avere l'età per usare un pennello, arrampicarmi sull'impalcatura e dare una mano. E forse nell'immaginazione sono giunto a credere di essere stato un membro della squadra.) Parte dell'interesse storico della casa veniva dal fatto che era stata una "casa sicura" del movimento clandestino sorto dopo l'approvazione nel 1850 della legge sugli schiavi fuggitivi, una delle più vergognose misure legislative della storia americana. Mia madre si emozionò nello scoprire documenti su quell'attività nell'archivio della Società storica della contea di Chautauqua e scrisse una serie di articoli per il Mt. Ephraim PatriotLedger. Quale innocente presunzione! Quanto l'affascinava l'idea di «vivere in un luogo della storia!» come diceva lei. Era nata in una piccola fattoria venticinque chilometri più a sud, dove la vita quotidiana era lavoro, lavoro, lavoro e le stagioni semplicemente si ripetevano all'infinito, senza mai aggiungere qualcosa a quella che definiamo "storia". Fu dopo che io cominciai ad andare a scuola che mamma prese a interessarsi seriamente di antiquariato. Aveva arredato buona parte della casa con
autentici pezzi d'epoca, quelli che poteva permettersi, e le venne l'idea di comperare e rivendere. Acquistò un po' di roba, mise su bottega in un piccolo granaio riconvertito dietro casa, fece pubblicare annunci su qualche periodico locale specializzato e preparò un cartello da sistemare accanto allo spaventapasseri sulla slitta: ANTICHITÀ HIGH POINT AFFARI & MERAVIGLIE! Non che i clienti accorressero in massa. High Point Farm era troppo lontana dalla città, troppo difficile da individuare. Magari faceva un salto qualche autista della domenica, attirato dallo spettacolo della casa lavandae-pietra sulla collina, ma quasi tutti i visitatori di mamma erano mercanti come lei. Se poi qualcuno voleva comperare un pezzo del quale si era innamorata in modo particolare, mamma cedeva al panico e mormorava una scusa fiacca: «Oh, mi spiace! Avevo dimenticato. Quel pezzo è già stato acquistato da un altro cliente». Arrossiva e torceva le mani nella gestualità di chi si sente in colpa. Papà commentava: «La debolezza di tua madre come donna d'affari ha un motivo piuttosto semplice. È un caso disperato di dilettantismo». Aggirandosi tra aste, mercati delle pulci, svendite casalinghe nella valle di Chautauqua, senza tirarsi indietro alla prospettiva di frugare tra discariche e spazzatura, abitudine per cui papà la prendeva in giro senza pietà, mamma portava a casa solo le cose di cui si innamorava; e, ovviamente, non sopportava l'idea di vendere a estranei cose di cui era innamorata. Che cos'è la verità? La domanda di Ponzio Pilato. E con quanto mistero aveva risposto Gesù: Chiunque è della verità ascolta la mia voce. Un tempo credevo di capire questo dialogo. Oggi, non più. Narrando questa storia dei Mulvaney, dei quali mi trovo a essere il figlio più giovane ma anche, spero, un osservatore neutrale, o almeno qualcuno le cui emozioni sono state purgate ed esorcizzate dal tempo, io voglio scrivere ciò che è vero. Tutto ciò che viene riferito qui è accaduto, ed è mio compito suggerire come, e perché; perché ciò che potrebbe apparire non plausibile o inesplicabile a distanza (l'esilio che un padre amorevole impone a un figlio amato, qualcosa che potrebbe uscire da una cupa favola dei Grimm) non è non plausibile o inesplicabile dall'interno. Riferirò tutti i
"fatti" che mi è riuscito di raccogliere, e il resto sono congetture, immaginate ma non inventate. Molto si basa su ricordi e su conversazioni con membri della famiglia su cose che non ho vissuto in prima persona e che non potrei mai conoscere, se non seguendo le vie del cuore. Come diceva papà, in quel suo modo tanto diretto da imbarazzare tutti, a cui bisognava rispondere subito e non si osava distogliere lo sguardo: «Noi Mulvaney siamo legati dal cuore». La cerva Come un sussurro il furtivo fruscio. Judd. Judd. Judd. Dovevo avere undici anni la notte che venni svegliato dai cervi e li seguii allo stagno nel pascolo. Svegliato non dagli zoccoli all'esterno della finestra (non avevo idea che quel rumore fosse di zoccoli) ma da un fruscio nell'erba alta, secca. Judd! Oh Judd! Judd dorme così sodo, scherzava mamma, che quando era piccolo suo padre e io ci chinavamo sulla culla ogni pochi minuti per controllare che respirasse! Vero: fino all'età di tredici anni ho dormito sodo, e intendo molto sodo. Rannicchiato sul fondo di un pozzo profondissimo. Vi chiedete perché? I giorni feriali a High Point Farm non cominciavano mai più tardi delle sei del mattino, quando mamma strillava su per le scale: «SVEGLIA! ALZATEVI E FATE GRANDI COSE, RAGAZZI!». E magari fischiava, o picchiava su una padella. Lavori nella stalla prima di colazione (mio Dio, poteva occorrere fino a un'ora per lavare le mammelle delle mucche incrostate di sporcizia e gonfie di latte, attaccare la mungitrice a ogni mucca, svuotare quelle pesanti sacche da latte, riversarlo dalle mungitrici nei secchi) e lavori nella stalla dopo la scuola (i cavalli, soprattutto; la stessa quantità di lavoro, però almeno amavo i nostri cavalli), all'incirca dalle quattro e mezzo alle sei del pomeriggio. Poi la cena, una cosa intensa nella nostra famiglia. Il solo tenere testa agli altri alla nostra tavola richiedeva a un ragazzino come me, il più piccolo dei Mulvaney, energia e forza, come restare in piedi per dodici round di un combattimento di boxe tra pesi piuma; a chi vede le cose da fuori può anche sembrare facile, ma di certo non lo è. E dopo cena un'oretta di lavori domestici, ancora intensi (mamma pretendeva che Patrick o Marianne sorvegliassero i miei sforzi: era preoccupata che non fossi l'allievo impeccabile che a suo giudizio dovevo essere), altra eccitazione in famiglia nel guardare la televisione
se c'era qualcosa di "utile, istruttivo": i nostri genitori prediligevano i documentari storici, scientifici e biografici dei canali pubblici. E li discutevamo nel corso della trasmissione, e dopo; noi Mulvaney eravamo una famiglia che parlava. Sicché, quando verso le dieci barcollavo sulla scala e andavo a letto, era con la pesantezza di una pietra che precipita lenta in acque scure, profonde. A volte mi addormentavo con solo mezzo pigiama addosso, sdraiato di traverso sul letto, con Stivaletti raggomitolato felice al mio fianco. A volte mi addormentavo in bagno, seduto sul water. «Oh, Judd! Mio Dio! Svegliati, amore!» poteva strillare mamma, dopo avere spalancato la porta che avevo scordato di chiudere a chiave. Non esisteva privacy a High Point Farm. Tra noi sei, e i cani e i gatti e i frequenti visitatori e gli ospiti che si fermavano per la notte (i miei erano le classiche persone ospitali e Marianne invitava sempre le amiche a dormire da noi. Più siamo, più siamo felici! diceva mamma), la privacy non era proprio un'opzione. Patrick era, per sua presa di posizione, il lupo solitario di famiglia. Aveva letto Walden di Henry David Thoreau a dodici anni e spesso la notte si accampava ad Alder Creek, nel bosco; comunque, portava con sé uno dei cani, o più. Nella sua stanza c'era sempre un cane o un gatto, e io a volte lo sbirciavo (l'ammirazione sciocca dei fratelli minori) nel sonno, ancora vestito, con una grossa forma pelosa coricata sul ventre che russava discretamente come lui. Dio, se dormivo sodo da ragazzo! In quei giorni tutto era forte e intenso quasi da far male; insomma, tutto poteva rendermi così felice, così eccitato. Mi buttavo sul letto e nel mio cervello scattava un interruttore ed ero andato, partito. E se qualcosa mi svegliava bruscamente di notte (vi sorprenderà, ma non era mai il vento. High Point Farm era spazzata costantemente da un vento che faceva scricchiolare i rami delle querce, vibrare i vetri delle finestre, e uggiolava di continuo sotto le tegole e giù per i camini, però noi non lo sentivamo più: diventavamo un poco ansiosi solo se il vento si spegneva) era come mi avessero puntato in faccia una torcia elettrica. I miei occhi si aprivano di scatto e restavo sdraiato a letto con il cuore che martellava, coperto di sudore. Il momento di rapidissimo terrore quando non sai chi sei, o dove. Allora ricordavo il mio nome, il mio vero nome: Judson Andrew Mulvaney. A papà piaceva insinuare che il mio nome venisse da un suo parente «ricco, eccentrico», un «irlandese proprietario terriero della contea di Kildare», ma secondo me era una battuta: papà non aveva parenti in Irlanda,
né parenti che ammettesse di avere negli Stati Uniti. Ma che nome per un ragazzino! Quale promessa di dignità, di fulgore! Il solo pronunciarlo, dargli forma ad alta voce... era come il soprabito nuovo di papà, di cammello, il regalo di Natale che mamma gli aveva comperato in saldo il marzo precedente nel migliore grande magazzino di Yewville, un soprabito enormemente più largo di tutto ciò che il Ranger magrolino poteva indossare, però c'era sempre la speranza che un giorno, crescendo, potesse andarmi bene. Come gli stivali chic da cavallerizzo di papà, un altro saldo, e i suoi guanti di pelle foderati di pelliccia. Il suo furgone Ford, e la station wagon Buick di mamma, e l'Olds Cutlass rosso acceso di Mike e la jeep Wrangler e il trattore John Deere e altri macchinari e veicoli della fattoria che forse un giorno sarei riuscito a guidare. Judson Andrew Mulvaney evocava tutte queste cose alla mia mente. Tremante d'eccitazione corsi alla finestra a guardare i cervi. Sei, sette (otto?) animali che con cautela, in fila indiana, attraversavano il nostro cortile posteriore. Erano cervi con la coda bianca, probabilmente diretti allo stagno del nostro pascolo, sei o sette metri oltre il recinto. Dove di giorno la nostra piccola mandria di Holstein beveva, brucava, dormicchiava sulle zampe stolide, riempiendo lentamente le enormi mammelle, quasi immobili come animali di cartapesta in bianco e nero e l'unica cosa a dare l'idea che fossero vive era lo sventolio delle code per allontanare le mosche. Erano le 3.25. Strano brivido, pensare di essere l'unico Mulvaney sveglio in casa. C'erano molti cervi sulla nostra proprietà, nelle aree boscose più distanti, ma era raro che passassero vicino a casa nostra, per via dei cani. (Anche se i nostri cani non andavano mai a zonzo di notte, come quelli di certi vicini e un piccolo branco di cani semiselvatici che infestava la zona. Mamma era furibonda con chiunque abbandonasse in campagna gli animali domestici. «Come se non fossero umani anche loro.» E c'erano agricoltori in miseria che non credevano nell'idea di nutrire i cani, per cui gli animali dovevano cercare di arrangiarsi da soli.) I cani dei Mulvaney erano ben nutriti e addomesticati e non venivano addestrati per la caccia, anche se in teoria dovevano fare "da guardia" alla proprietà. Volevo seguire i cervi! Uscii a piedi nudi dalla stanza e arrivai alla scala pensando Nessuno di loro sa dove sono, Ranger è invisibile. Stivaletti era immerso in un sonno tanto profondo sul letto che non si era accorto della mia scomparsa.
Nemmeno Troy, che dormiva a pianterreno, parve sentirmi. Osservando attentamente la scala ci si sarebbe fatti una buona idea della famiglia che viveva lì. Le scale delle vecchie fattorie come la nostra sono bizzarramente ripide, quasi verticali, e strette. La nostra ultima rampa in fondo era sempre ingombra di roba sui lati perché lì, come nel resto della casa, si accumulavano cose depositate "temporaneamente" e mai più raccolte, o nemmeno notate, per settimane. Posta non aperta per mamma e papà comprese, a volte, bollette, cataloghi L.L. Bean, cataloghi di sementi Burpee, circolari della Farm & House Supplies. Vecchi numeri di Farm Life, Time, Newsweek, Consumer Report, The Evangelist, il settimanale della famiglia cristiana. Vecchi libri di testo. Guanti spaiati, stivali singoli. Striglie indurite e spazzole, puntine da disegno, viti, bottoni. Alcuni scalini erano stati destinati in via ufficiosa alla funzione di ufficio oggetti smarriti, per cui se trovavi qualcosa, diciamo sul pavimento del soggiorno, lo mettevi su uno di quegli scalini e non ci pensavi più. E lì restava per settimane, mesi. Per un po' sulla scala stazionarono due nastri blu della fiera dello stato di New York, vinti da Patrick con il suo progetto per il Club 4-H. C'era una cravatta sporca di sugo di spaghetti, arrotolata, che Mike aveva buttato e poi dimenticato. Ogni tre o quattro settimane, quando la scala diventava talmente congestionata che sul fondo restava solo uno stretto passaggio, mamma dichiarava una moratoria e ordinava a chiunque avesse sottomano di fare pulizia; ma nel giro di pochi giorni, o ore, l'accumulo riprendeva, le cose si ammucchiavano dove non avrebbero dovuto. Papà la chiamava la quarta legge della termodinamica: «La propensione degli oggetti di High Point Farm a resistere a ogni tipo di ordine che venga loro imposto». In fondo alla scala mi fermai a fare il punto. A parte i tremiti e i cigolii prodotti dal vento che io non sentivo, la casa era muta. Attraversai in punta di piedi la sala da pranzo, aprii cautamente la porta basculante (scricchiolò!) e in punta di piedi passai in cucina, sperando che il canarino non si svegliasse e facesse rumore. In fondo al corridoio posteriore c'era un bagnetto e di fronte la camera di Mike, naturalmente con la porta chiusa. (Mike, il figlio maggiore, era speciale, e godeva da anni di privilegi speciali. Non dormiva sopra con tutti noi, aveva la sua stanza a pianterreno, vicino alla porta sul retro, per cui in sostanza aveva un ingresso tutto suo, una privacy. Al momento aveva vent'anni, lavorava con papà alla Mulvaney Tetti e coperture, non era più un ragazzo e voleva essere considerato un adulto. Spesso rientrava tardi di notte, anche nei giorni fe-
riali. Non sapevo se fosse già tornato, nonostante l'ora.) La porta sul retro non era chiusa a chiave. Sorrisi girando la maniglia: com'era facile! Uscire di casa senza che qualcuno se ne accorgesse. Ranger è il piccolo della famiglia, però ha in serbo qualche sorpresa per tutti. Aspettate e vedrete. Luminosissima, splendente, la luna. Non me l'aspettavo. Cenci di nubi vi correvano sopra come cose vive. La luce era quasi dolorosa per gli occhi. Tutte quelle stelle che scintillavano e pulsavano. E parevano vive. Quante! Mi davano il capogiro, mi confondevano. Delle costellazioni che Patrick aveva cercato di insegnarmi, facendomi guardare nel telescopio che aveva assemblato da un kit di montaggio, riuscivo a identificare solo l'Orsa Maggiore, l'Orsa Minore, Orione? Ma dov'era Andromeda? Più guardavo, più il cielo sembrava muoversi e ondeggiare. Il vento faceva vibrare le stelle. Il terriccio battuto del sentiero d'accesso era meravigliosamente fresco e compatto sotto i piedi. I miei piedi nudi con le piante irrobustite dall'estate, quando correvo scalzo il più possibile. Nella mia stanza non sembrava facesse freddo, ma adesso che il vento mi gonfiava i calzoni del pigiama e mi sollevava i capelli dalla fronte, avevo i brividi. E quella luna così luminosa da ferirmi gli occhi. Sul tetto del fienile c'era la banderuola a forma di gallo. Cigolava nel vento: puntava a nord-nordest. Era già ottobre. Un odore di freddo intenso, di neve che sarebbe caduta. Nella stalla un cavallo nitrì. Un altro gli rispose. Quei suoni ambigui, liquidi. Un terzo cavallo! Che cosa facevano svegli a quell'ora? Impossibile che mi avessero sentito, o fiutato. Trifoglio, il mio cavallo, mi riconosceva sempre per vie misteriose (il mio modo di camminare, il mio odore?) quando mi avvicinavo alla stalla, prima di vedermi. Qualcosa guizzò al mio fianco e scomparve nell'erba. Uno dei gatti da granaio? O un procione? Il mio cuore sobbalzò in una risposta immediata, anche se non avevo paura. La notte era così viva. Mi preoccupava un po' che i miei potessero scoprirmi. Potevano accendersi le luci, illuminare l'ultima parte del sentiero d'accesso. La voce di papà avrebbe strillato: «Chi c'è?». E l'abbaiare dei cani. Ma no. Aspettai, e nulla accadde. Era come se fossi davvero invisibile. Al buio, la casa appariva più grande che di giorno. Una massa solida, incombente, confusa con le enormi querce che la circondavano, immensa
come una montagna. Anche le stalle erano buie, massicce, grevi, tranne nei punti in cui il chiarore lunare colava sui tetti di lamiera come acqua, filtrando tra i frammenti di nubi che svolazzavano in cielo. Nessun orizzonte, un solido crinale scuro fitto d'alberi come l'orlo di un profondo bacino, con me al centro. Le montagne erano visibili solo di giorno. Le file di alberi. Di notte, le nostre staccionate dipinte di bianco brillavano fioche come oggetti visti sott'acqua, ma le staccionate non dipinte e le recinzioni di filo spinato erano invisibili. Sull'aia non sarei riuscito a identificare i mucchi di fieno e di letame, se non avessi saputo dove si trovavano. Il silo di mattoni greificati brillava nella luce lunare. Stalle, stie, i capannoni nei quali riposavano le macchine, in buona parte macchine vecchie, arrugginite e rotte, il garage, le tettoie per auto: silenziose e misteriose nella notte. Sul lato opposto del sentiero, il frutteto, quasi tutti meli Winesap, alberi ammassati nel buio e le foglie che frusciavano nel vento, e mi venne da pensare Magari sono morto. Sono un fantasma? Forse non sono qui, nemmeno per sogno? Ma non tornai indietro, andai avanti, seguendo i cervi, e così mi trovai a superare l'angolo delle fragole (di cui adesso si occupava mia sorella Marianne, visto che l'estate prima io avevo fatto solo un mediocre lavoro di concimatura e sarchiatura), ed ecco l'orto di mamma al quale davamo tutti una mano, o per lo meno Patrick, Marianne e io: granturco, zucchine, cinque o sei zucche ancora lì e calendule che cominciavano a sbiadire, perché c'erano già state una gelata o due. L'espressione sul viso di mamma quando lo definiva un giardino autunnale: «Così malinconico che ti viene voglia di piangere». Lungo lo steccato, i girasoli fitti fitti, e quasi tutti cominciavano a cadere, ad andare in pezzi, a testa bassa, come ubriachi nel vento. Gli uccelli avevano becchettato quasi tutti i semi e i fiori si presentavano laceri, ciechi, eppure per me era sempre strano passarvi vicino: i girasoli sembrano persone! Seguivo i cervi anche se non li vedevo. Sul terreno c'erano molte pozzanghere che brillavano come specchi. Di notte gli odori sono più forti. Fiutai un ricco aroma di fango, foglie marce e letame. Stavo perdendo contatto con i piedi, ormai gelati, quasi intorpiditi, e se qualcosa li graffiò, o se sassi e spine li tagliarono, non me ne accorsi. Ero spaventato, ma felice! Non ero più Judd. Irriconoscibile. Arrivai di soppiatto allo stagno, che da quel lato era profondo meno di un metro. Veniva alimentato dal ruscello serpeggiante che confluiva nell'Alder Creek. Ogni pochi anni si riempiva di sedimenti, cascami d'albero
ed escrementi d'animali e papà doveva dragarlo con un bulldozer preso a prestito. Un solo cervo, una femmina, stava bevendo! Mi accucciai nell'erba, restai a guardare da quattro o cinque metri di distanza. Vedevo il collo lungo proteso, snello. Il muso abbassato sull'acqua. Sotto la luna, la cerva non aveva più colori, e sulla superficie dello stagno la luce si muoveva in onde agitate attorno al punto in cui lei beveva. Dov'erano gli altri cervi? Era insolito vederne uno da solo. Il branco doveva avere proseguito, inoltrandosi tra gli alberi. La cerva indugiò lì. Sollevò la testa sul chi vive, pronta a fuggire. Le sue orecchie ebbero un guizzo: mi aveva sentito? Forse poteva fiutarmi. I suoi occhi erano come quelli di un cavallo, sporgenti e lucidi, neri. Nelle sue zampe agili vibrava tensione. Adoravo quelle creature selvatiche. Non avrei mai potuto cacciarle. Non avevano nomi, a differenza degli animali di High Point Farm. Non potevi chiamarle, o identificarle. Di giorno, non appena le intravedevi, svanivano. Come per rifiutare l'autorità dei tuoi occhi. Avevano il potere di apparire e scomparire. E così doveva essere: non come nel libro della Genesi, dove Adamo dà nome alle creature di terra, mare e cielo, e Dio gli concede il dominio su di loro. Niente affatto. Il mese successivo si sarebbe aperta la stagione della caccia ai cervi nella valle di Chautauqua e dall'alba al tramonto avremmo sentito i maledetti fucili esplodere colpi tra boschi e campi, visto i furgoni dei cacciatori parcheggiati a lato della strada e spesso sulla nostra proprietà. Ogni anno (grazie a una legge della contea a favore dei "diritti dei cacciatori") papà doveva disseminare sulla nostra proprietà nuovi cartelli a lettere arancio con DIVIETO DI CACCIA DIVIETO DI PESCA se volevamo tenere lontani i cacciatori, ma i cartelli, disposti ogni cinquanta metri, facevano poca differenza: i cacciatori facevano quello che volevano, quello per cui sarebbero rimasti impuniti. Per l'intero inverno non avevamo praticamente visto una sola cerva nei pressi di casa, e di rado qualche maschio. I maschi dei cervi venivano uccisi per farne teste impagliate con i palchi di corna da appendere alla parete come trofei. Orribili occhi di vetro nelle orbite che un tempo contenevano occhi vivi. Mamma piangeva di rabbia nel vedere i corpi dei cervi attaccati ai parafanghi dei veicoli dei cacciatori, carne ormai morta, e a volte si metteva a parlare con loro, coraggiosamente, forse avventatamente. Diceva che uccidere per puro divertimento è da delinquenti. Era cresciuta in una fattoria dove tutti i maschi adulti e i ragazzi cacciavano, a Ramsonville, e non lo aveva mai sopportato. Nessuna donna
lo sopportava, diceva. Un tempo, molto prima, anche papà cacciava, ma ora non più. C'erano brutti ricordi (ma io non sapevo di cosa si trattasse) legati alla caccia di papà e agli uomini con cui usciva a cacciare, nella zona del lago di Wolf's Head. Adesso papà era iscritto allo Sportsmen's Club di Chautauqua, per motivi "d'affari", però non pescava e non cacciava più. La sua posizione, che definiva "neutrale", era che da quando gli uomini avevano allontanato da quella parte dello stato lupi e coyote, predatori naturali dei cervi, si era creato uno squilibrio e la popolazione di cervi era aumentata, per cui erano malnutriti, sempre sull'orlo della morte per fame, per non dire quale sorta di predatori fossero diventati a loro volta, quali danni procurassero ai raccolti. (Compresi i nostri.) Eppure, papà non credeva nella caccia: sono gli animali a cacciare gli animali, diceva, ma l'uomo è superiore alla Natura. L'uomo è fatto a immagine di Dio, non della Natura. Ma non fece troppe obiezioni quando Mike, a quindici anni, volle comperare un fucile calibro .22 per "allenarsi a tirare", e lui stesso conservava ancora i suoi fucili, che non toccava da anni. La cerva mi fissava dal lato opposto dello stagno. Con le zampe anteriori piegate, la testa bassa. Poi sentii anch'io ciò che doveva avere sentito lei: qualcosa che avanzava, procedeva nel prato. Udii l'ansito dei cani prima di vederli. Un branco di cani! Un istante, e la cerva ruotò su se stessa, fece un balzo, corse via, con la coda, bianca sotto, levata come una bandiera di segnalazione. Perché le cerve alzano la coda quando scappano in cerca di salvezza? Un segnale per gli occhi dei predatori, bianco nella tenebra? I cani corsero al ruscello, si tuffarono, ringhiando di gola, ma senza abbaiare. Se si erano accorti di me, non lo diedero a vedere. Non erano interessati a me, solo alla cerva, cinque o sei animali feroci in caccia, le orecchie piegate all'indietro, il pelo ritto. Mi parve di riconoscere uno o due cani dei nostri vicini. Mi misi a urlare, invaso dall'orrore, ma erano già scomparsi. Il suono di una fuga scomposta, dell'inseguimento, sempre più debole con il crescere della distanza. Ero ormai allo stagno e qualcosa mi si conficcò in un piede. Ansimavo, singhiozzavo. Non riuscivo a credere a quello che era successo. Era stato così veloce. Se solo avessi avuto un fucile. A volte trovavamo carcasse di cerve e daini nel bosco, nei campi di frumento, talora persino nel frutteto. Una volta, una cerva parzialmente divorata vicino alla slitta di mamma. Gole e ventri squartati di animali caduti lì. Di solito erano divorati solo in parte.
Se soltanto avessi avuto un fucile. Uno dei fucili di papà, chiusi in un armadio o un ripostiglio, in qualche stanza. La doppietta Browning, i due fucili da caccia. E c'era anche quello di Mike. Mike aveva perso ben presto interesse per il tiro al bersaglio e Patrick odiava le armi e papà non mi aveva insegnato a usare doppiette o carabine, non mi aveva nemmeno permesso di toccarle. (Però non ne sono certo, può darsi che io non glielo avessi mai chiesto.) In ogni caso, pensavo che sarei riuscito a usare un fucile. Prendere la mira, premere il grilletto, e uccidere. Invece tornai a casa di corsa, in pianto. Un ragazzino inerme! Undici anni! Belfaccino, Fossette! Ranger, nella notte. Ad asciugarsi lacrime e moccio dal viso. Nel bagno a pianterreno, tremante, feci scorrere l'acqua calda. Cercavo di non pensare a quello che era successo alla cerva, a quello che i cani forse le stavano facendo in quel momento, quello che non avevo visto e udito. Forse stava accadendo nel bosco, se non era riuscita a fuggire (ma non credevo ci fosse riuscita), però magari non lo avrei mai saputo. Non pensarci avrebbe detto mamma. A volte persino con un sorriso, una carezza. Non pensarci, mamma metterà le cose a posto. E se mamma non ci riuscirà, lo farà papà. Promesso! Mi terrorizzava l'idea che i tubi dell'acqua calda emettessero il loro solito fischio e svegliassero i miei. Cosa diavolo ci fai qui, Judd? Sentivo già la voce di mio padre, più perplessa che arrabbiata. Non sono ancora le quattro. Il mio maledetto piede, il destro, sanguinava per una ferita non lunga ma profonda. Entrambi i piedi erano coperti di graffi. Per amor di Dio, perché non ti sei messo le scarpe? Non avevo risposta, non c'era risposta. Seduto sul water, a coperchio abbassato, scrutai le piante dei piedi, il sangue, la sporcizia. Insaponai le mani e cercai di lavarli e avevo in gola un uh-uh-uh che pareva il rantolo di uno che sta soffocando. E mi venne in mente una cosa: avevo lasciato una scia di sangue! Senza dubbio. Sul pavimento. Buon Dio, dovevo pulire prima che qualcuno la vedesse. Prima che la vedesse mamma, scendendo al pianterreno alle sei. Fischiettando, cantando tra sé. C'erano dei cerotti nell'armadietto dei medicinali. Cercai di metterli sui piedi. Il tetano! E se mi fosse venuto il tetano? Mamma ci avvertiva sempre di non andare in giro a piedi nudi. Mi sarebbe stato bene, pensai. Se l'ultima iniezione antitetano avesse perso efficacia, se fossi morto di una
morte orribile e lenta per avvelenamento del sangue. Non pensarci: a quello che sta accadendo nel bosco. O che non sta accadendo. O che è già accaduto. Magari mille volte mille prima che tu nascessi e potessi rendertene conto. Fuori, Mike arrivò, parcheggiò l'auto. Facendo il minimo rumore possibile. Aveva risalito il sentiero d'accesso tenendo accese solo le luci di posizione, a bassa velocità. Una volta sceso, non aveva sbattuto la portiera. Non riuscii a scappare in tempo. Sulla soglia c'era mio fratello, mi guardava, batteva le palpebre. Viso arrossato e occhi un poco iniettati di sangue e odore di birra nel fiato. Colore di mora attorno alla bocca, sul collo: il rossetto di una ragazza. E un odore dolciastro di sudore e profumo. Un bel ragazzo che le ragazze fissavano per strada, Mulo Mulvaney, l'unico di noi a somigliare molto a nostro padre, e con lo stesso sorriso di papà, un po' storto, scherzoso-vergognoso-affettuoso. Mike non si radeva dal mattino, così aveva la barba di un giorno, la mascella scura. La sua nuova giacca scamosciata era aperta e la camicia di feltro-velluto color oro parzialmente sbottonata. Dalla V spuntava una peluria rosso castano, crespa. Una cerniera di rame spiccava sui jeans aderenti di mio fratello e il mio sguardo scese sul suo inguine. Mi venne spontaneo. Mike disse, perplesso: «Ehi, ragazzo, e che diavolo: cos'è successo? Ti sei tagliato?». Sul pavimento c'erano macchie di sangue, carta da cucina inzuppata di sangue, cose che non potevo nascondere. Dovetti confessare a Mike che ero uscito a fare un giro. «Così, per il piacere di farlo.» Mike scrollò la testa, in segno di disapprovazione. «Esci a quest'ora della notte? Ti tagli i piedi? Sei impazzito?» Il mio fratellone che mi amava. Mikey Junior che era il più vecchio dei fratelli Mulvaney, Ranger che era il più giovane. Tra noi c'era sempre stata una specie d'alleanza, no? Mike, che era un po' sbronzo, e come papà allegro, simpatico e caloroso quando aveva bevuto di buon umore e nessuno gli rompeva le scatole, e si trovava nella posizione di poter essere generoso, si chinò a esaminare i miei piedi. «Se scoprono che vai in giro a piedi nudi come uno stronzo di indiano suonato, ti faranno vedere i sorci verdi. Lo sai quanto si preoccupa mamma per il vecchio maledetto tetano.» Mise sulla parola "tetano" uno strilletto femminile, per cui ci stava già scherzando su. Una situazione strana, ma buffa. E, comunque, niente di cui dovesse impicciarsi.
Ovviamente, Mike non avrebbe fatto la spia, quello era sottinteso. Non più di quanto io avrei fatto la spia su di lui, raccontando a mamma a che ora era rientrato. Prendendomi sotto le braccia e sollevandomi come fossi un fagotto di biancheria, Mike mi tolse dal water, soffocò un rutto. Alzò il sedile, abbassò la cerniera e orinò nella tazza, non più cosciente di quel che faceva di una delle nostre Holstein, pronta a pisciare nello stagno da cui lei e le altre mucche bevevano. Mike rise. «Cristo, se sono a pezzi.» Gonfiò le guance, roteò gli occhi. «Devo proprio buttarmi a letto.» Troppo insonnolito per lavarsi le mani, a cerniera sbottonata e con il pene che ballonzolava all'infuori, barcollò in corridoio verso la sua stanza. Il piccolo bagno, delle dimensioni di un ripostiglio, puzzava dell'odore intenso, caldo dell'orina di mio fratello e io tirai l'acqua, sussultando al rumore dell'impianto idraulico, ai riverberi sonori delle tubature nella casa addormentata. Ero stravolto, avevo la nausea. Non pensare! Non farlo. Inumidii qualche tovagliolo di carta e cercai di pulire il corridoio, le macchie di sangue sul linoleum che non era troppo pulito, insozzato da anni di sporcizia. In quanto al tappetino a corda intrecciata, era talmente lurido che forse nessuno avrebbe fatto caso al sangue. Sentii un miagolio perplesso, era Palladineve che si sfregava contro la mia gamba, incuriosito da quello che stavo facendo e con la voglia di mangiare, ma io mi limitai a qualche carezza e lo rispedii via e zoppicai su per la scala fino alla mia stanza che aveva la porta socchiusa! E una volta entrato nella camera dove il buio era familiare, gli odori familiari, strisciai a letto a fianco di E.T. che emise un sonnolento gorgoglio felino e Stivaletti che nemmeno si mosse, sbuffando contento nel sonno. Alla faccia della vigilanza degli animali. Nessuno sapeva che ero uscito a parte mio fratello che non solo non avrebbe parlato ma probabilmente non se lo sarebbe nemmeno ricordato. Il vento aveva preso forza. Scaraventava foglie contro la mia finestra. Erano le 4.05. La luna si era spostata in cielo; brillava dietro un ammasso di nubi come un uovo osservato alla luce di una candela. San Valentino, 1976 Nessuno riusciva a dire che cosa fosse successo, nemmeno Marianne Mulvaney, a cui era successo. Corinne Mulvaney, la madre, avrebbe dovuto accorgersene. O intuirlo.
Visto che si vantava di sapere leggere i volti del marito e dei figli con la pazienza, l'astuzia e la dedizione di uno studioso di sanscrito alle prese con antichi testi. Eppure non lo aveva capito. Non all'inizio. Il comportamento della figlia l'aveva confusa (mai avrebbe creduto a un'altra ipotesi: ingannata). La dolcezza, l'innocenza di Marianne. La sincerità. La telefonata giunse inattesa un pomeriggio di domenica. Per fortuna Corinne era a casa, nel granaio dell'antiquariato, dove tentava di riportare a un simulacro dell'antico fulgore una poltrona in noce americano fatta di rami "naturali" (valle del Delaware, circa 1890-1900) che aveva comperato per trentacinque dollari all'asta dei beni di una villa. La poltrona era talmente malconcia che le veniva da piangere. Quanto si abusa delle cose belle! era il frequente lamento di Corinne. Il granaio era pieno di cose maltrattate, in buona parte in attesa di un restauro o di un minimo di semplice attenzione. Corinne riteneva di averle salvate, però non sapeva esattamente cosa farne: mettere il cartellino del prezzo e rivenderle le pareva ingiusto. Ma non era una donna d'affari concreta, non aveva metodo (da cui le continue prese in giro di Michael Sr.), ed era facile lasciare andare le cose da sé. Nei mesi invernali il granaio era terribilmente gelido: non poteva aspettarsi clienti se lei stessa riusciva a stento a stare lì. Dalle narici le uscivano esili vapori di respiro, come pensieri espulsi lentamente. Le dita si intirizzivano e diventavano goffe. Le tre stufe elettriche che Michael aveva installato per lei tremavano e ronzavano nello sforzo, con le serpentine di un rosso incandescente, decise a riscaldare uno spazio forse non riscaldabile. In una luminosa giornata d'inverno, con il sole freddo che entrava da finestre coperte di ragnatele e non isolate, l'interno del granaio era come l'immenso universo che si estende, e si estende e si estende fin dove non hai più voglia di seguirlo, o anche solo di pensarci; solo che al centro stava Dio, in un modo o nell'altro, grande sole che non muore mai. O no? Erano questi i pensieri solitari di Corinne. Pensieri a cui era suscettibile solo quando si trovava sola. Così squillò il telefono, e all'altro capo del filo c'era Marianne, che sembrava perfettamente normale. Quanti anni, quante commissioni fatte per i figli, quanti viaggi in città, a scuola o a casa dei loro amici, secondo i casi, quando hai quattro figli e vivi in campagna a undici chilometri dal primo centro abitato. Marianne disse: «Mamma? Scusa, ma qualcuno potrebbe venirmi a prendere?» e Corinne, reggendo in precario equilibrio la cornetta tra mento e spalla, si interruppe a metà del tentativo di incollare una stri-
scia di corteccia in sfacelo a una gamba della poltrona. Non riuscì a sentire nella voce della figlia qualcosa che potesse indicare tensione, o preoccupazione. O isterismo controllato. Vero: Corinne si era quasi dimenticata che l'accompagnatore di Marianne al ballo studentesco della sera prima (nessuno avrebbe mai chiamato Austin Weidman il "boyfriend" di Marianne Mulvaney) avrebbe dovuto riportarla a casa, dopo una visita a Trisha LaPorte. O forse doveva riaccompagnarla il padre del ragazzo, il dottor Weidman il dentista? Corinne aveva dimenticato persino se il ragazzo avesse una sua automobile. (Non l'aveva.) Andava orgogliosa di non essere mai stata una madre che stava in ansia per i figli; non solo perché i ragazzi Mulvaney godevano della fama di essere molto autosufficienti e capaci di badare a se stessi (le amiche che erano madri come lei la invidiavano), ma anche perché a Corinne risultava difficile preoccuparsi di se stessa. L'avevano cresciuta abituandola a pensare a sé per ultima, il che le sembrava giusto. Più che darsi da fare, volava, sempre senza fiato; tutt'altro che un modello di compostezza. Alle amiche piaceva, le volevano persino bene, però scrollavano la testa. Corinne Mulvaney era una donna attraente, quasi carina, a scrutarla da vicino. Se non ti lasciavi influenzare dalle prime impressioni. (Che invariabilmente portavano a chiedersi, con un'aria quasi oltraggiata: come possibile che un bell'uomo come Michael Mulvaney Sr. abbia sposato quella donna?) Corinne era alta, allampanata, dinoccolata e lentigginosa, oltre la quarantina ma rumorosamente giovanile, con un lungo viso cavallino spesso arrossato, capelli color carota talmente ricci, si lamentava ridendo, che quasi non riusciva a passarci una striglia. Scendendo in città per commissioni indossava i vestiti di casa: salopette, stivali di gomma di L.L. Bean, una giacca a vento troppo larga (del marito? di uno dei figli?). Era una donna nervosamente allegra, e il nitrito della sua risata, all'Associazione agricoltori o in banca, faceva girare le teste della gente. Gli occhi di un azzurro straordinariamente luminoso, senza ciglia, con la tendenza ad aprirsi troppo, a fissare, erano il suo tratto più singolare, una fonte d'imbarazzo per i figli. Il suo palpitante parlare in pubblico, quel suo fischiare. Gli occasionali, sempre tanto imbarazzanti discorsi su Dio. («Rigurgiti divini» li chiamava Patrick. Ma Corinne protestava: Dio non è tutt'attorno a noi, non è in noi? Gesù Cristo non è venuto sulla terra per essere il nostro Salvatore? Chiaro come i nasi che abbiamo in faccia.) Se non altro, Corinne non imbarazzava sua figlia Marianne. La dolce, giuliva Marianne che era Germoglio, che era Cinciallegra, che era il teso-
ruccio di tutti. Non giudicava mai la madre, o chiunque altro, con il ruvido sprezzo degli adolescenti che tanto ferisce i genitori che li adorano. La voce di Marianne era bassa, dolcemente liquida, e aveva un tono di scusa. Chiamava da casa di Trisha LaPorte, dove aveva trascorso la notte. Il ballo di san Valentino al liceo di Mt. Ephraim si era tenuto la sera prima e Marianne Mulvaney era stata l'unica studentessa del ginnasio eletta a fare parte della "corte" del Re e della Reginetta: un onore, ma Marianne lo aveva preso con disinvoltura. Era rimasta in città come faceva in genere per occasioni simili, balli, feste, partite di football o basket; aveva molte amiche ed era la benvenuta ovunque. Meno spesso, le amiche di Marianne venivano a High Point Farm a trascorrere una notte o un weekend. Corinne si crogiolava nella popolarità della figlia come nella calda luce del sole riflessa da uno specchio. Alle superiori, era una goffa ragazza di campagna già fortunata ad avere un'amica o due, molto seria e alla buona; per lei era fonte di continuo stupore che sua figlia fosse diventata ciò che era. Michael Sr. obiettava: eri maledettamente bella, e lo sai. E con gli anni sei diventata ancora più bella. Se no, perché mi sarei innamorato di te, Dio santo? Quello era un arcano. Un enigma che Corinne non aveva mai risolto. Ci aveva pensato ogni giorno degli ultimi ventitré anni. Marianne si scusò (un'abitudine che Corinne doveva cercare di farle perdere: scusarsi più del necessario) per il fastidio che dava. «Il padre di Trisha dice che sarebbe lieto di riportarmi a casa, ma sai come sono ghiacciate le strade e noi abitiamo così lontano, e non voglio proprio disturbarlo.» Corinne disse: «Germoglio, amore, ti mando uno dei tuoi fratelli». «È okay? Insomma...» «Non c'è problema» rispose Corinne in un tono strascicato da campagnola. «Non c'è problema.» (Quell'espressione era entrata a fare parte del codice di famiglia dei Mulvaney. Uno dei ragazzi l'aveva presa da qualche programma televisivo e adesso la usavano tutti.) Corinne chiese a Marianne di salutare e abbracciare Lilian LaPorte, la madre di Trisha, sua amica da tanti anni. Entrambe facevano parte da tempo dell'Associazione genitori-insegnanti, erano attive nella Lega delle elettrici e nelle ausiliarie del General Hospital di Mt. Ephraim. Stava per riappendere quando, in ritardo, le venne in mente di chiedere: «Ah, com'è stato il ballo, amore? Ti sei divertita con... come si chiama? E com'era il vestito, tesoro?». Marianne aveva già riagganciato.
** In seguito, Corinne avrebbe ricordato con stupore quella conversazione, così tranquilla e consueta. Così normale. Ovviamente, Marianne non aveva mentito. Nascondere una verità, per quanto brutta, non è mentire. Marianne era incapace di ingannare volutamente. Se di tanto in tanto si riscontravano in lei vaghissime tracce di quelli che si potrebbero definire sotterfugi significava che stava proteggendo qualcuno: di solito, naturalmente, i fratelli maggiori. Mikey Junior, che da adolescente ne aveva combinate parecchie («All'inizio Mulo era il nostro fagottino di gioia» scherzava Corinne, con un sospiro «adesso è il nostro ragazzi che ragazzo!»), Patrick, il povero, dolce, timido e irascibile Pizzicotto, che sin dall'asilo infantile aveva avuto la tendenza a blaterare cose che non voleva dire, che in realtà non voleva affatto dire, non solo alla famiglia, il che era già abbastanza brutto, ma anche ai compagni di scuola, persino agli insegnanti! Addirittura, in una memorabile occasione d'enorme imbarazzo, quando non aveva più di dieci anni, aveva rivolto un'osservazione acida, tagliente («E lei come fa a saperlo? Glielo ha detto Dio?») a un insegnante di religione della chiesa evangelica di Kilburn. (Corinne era una fervente "protestante aconfessionale", come amava definirsi, con un debole per le chiesette sperdute di campagna; trascinava nella propria scia i figli, che sembravano abbastanza contenti. Michael Sr. non si lasciò mai coinvolgere da quelle infatuazioni, è ovvio: si descriveva come "un cattolico permanentemente non praticante" e per lui quello, in quanto a religione, bastava.) Dei ragazzi, Marianne era sempre stata la più spontaneamente cristiana. Con quello stile reboante che imbarazzava i figli, Corinne era solita dire: «Gesù Cristo è venuto ad abitare nel mio cuore quando ero ragazza, ma nel cuore di Germoglio abita, lo giuro, fin dal giorno della nascita». Al che Marianne arrossiva e sventolava le dita in un'inconscia imitazione della madre. Sospirava. «Oh, mamma! Le cose che dici.» Corinne si ergeva in tutta la sua statura. Madre della casa, custode di High Point Farm. «Sì! Le cose che dico sono verità.» La terribile vanità di Corinne Mulvaney: il suo orgoglio per quella verità. Se ne meravigliava: del fatto che, anche a due o tre anni, Marianne semplicemente non potesse mentire. Un tratto che la distingueva dai fratelli, oh, sì! Ma anche da altri bambini che, raccontando frottole, imitano d'istin-
to gli adulti, fingono "innocenza", "ignoranza". Marianne, mai. Ed era così bella! Così radiosa. Non esiste un altro termine: radiosa. La bacheca in cucina, regno di Corinne, era addobbata di istantanee di Marianne: mentre riceveva un nastro rosso per le sue succose fragole grosse come prugne qualche anno prima, alla fiera di stato ad Albany e, l'anno prima, due nastri blu, uno ancora per le fragole, l'altro per un lavoro di cucito; arruolata come dirigente della Gioventù cristiana di Chautauqua; alla riunione nazionale del Club 4-H a Chicago, dove aveva vinto un premio, nel 1972. Quasi tutte le foto ritraevano Marianne nella sua veste di cheerleader, con il gonnellino delle cheerleader di Mt. Ephraim, di lana marrone, e sopra la camicetta di cotone bianco a maniche lunghe. La sera prima, Michael aveva scattato cinque o sei Polaroid di Marianne nel suo vestito nuovo, che aveva cucito lei stessa seguendo un cartamodello: raso e chiffon, fragola e panna, con un corpetto pieghettato e una gonna dall'orlo smerlato che le arrivava alle caviglie sottili. Ma quelle foto stavano su un davanzale di finestra, non ancora scelte e affisse in bacheca. Lei, Corinne, non aveva mai imparato a cucire. Non sul serio. Sua madre si era dimostrata impaziente nel cercare di insegnarle; aveva scambiato l'entusiasmo di Corinne per imprudenza. Oppure l'entusiasmo è una forma di imprudenza? Con l'ago, Corinne era buona solo a rammendare, un'attività che le piaceva. Non ci si aspetta la perfezione da chi rammenda jeans logori o calzini bucati. Com'era bella Marianne! Sola con nessuno a osservarla, Corinne poteva fissare e fissare quelle fotografie della figlia. A diciassette anni, Marianne era ancora molto giovane, e giovanile; con una carnagione chiara, delicata, senza le lentiggini della madre; occhi azzurri infossati e intelligenti; riccioli scuri che scattavano come molle e diventavano lucidi sotto i robusti colpi di spazzola che Corinne, ogni tanto, era ancora autorizzata a dare. Era segreta convinzione di Corinne che Marianne fosse una persona molto più fulgida di lei, un indovinello che Dio le aveva dato da risolvere. Devo diventare la degna madre di una figlia simile, non è così? Naturalmente, Corinne amava anche i figli maschi. Quanto... d'accordo, quasi quanto Marianne. In un certo senso amare i ragazzi rappresentava un'altra sfida. Come stare su una canoa in un fiume impetuoso e mantenere una rotta rettilinea. I ragazzi non ti lasciano riposare! Tanto tempo prima, quando erano giovani innamorati sposati da poco con un unico figlio, Mikey Junior che adoravano, Corinne e Michael avevano fatto un patto. Se avessero avuto altri figli, e lo desideravano tanto,
dovevano promettere di non preferire mai uno a un altro; mai amare uno dei loro figli di più, e un altro di meno. Michael, la voce della ragione, disse: «Abbiamo amore più che a sufficienza per tutti, comunque siano. Giusto?». Corinne lo strinse e lo baciò in silenzio. Certo che era giusto. Che giovane madre febbrile, devota, si potrebbe dire ossessiva, era stata! I suoi occhi azzurri brillavano come neon. Il suo cuore batteva saldo e deciso. Sapeva di poter amare in maniera sterminata perché lei stessa era nutrita dall'inesauribile amore di Dio. Ma Michael aveva altro da dire. In effetti, era loquace e appassionato come Corinne lo aveva visto di rado. Veniva da una grande famiglia irlandese cattolica di Pittsburgh, sei ragazzi e tre ragazze; suo padre, operaio siderurgico e forte bevitore, aveva sottomesso la moglie sin da giovane e il suo gioco preferito era mettere Michael e i fratelli l'uno contro l'altro, con l'astuzia. Crescendo, Michael aveva dovuto competere con i fratelli per l'approvazione, o "l'amore", del padre. A diciotto anni ne aveva avuto abbastanza. Aveva litigato con il vecchio, lo aveva mandato all'inferno, se n'era andato di casa. Il padre era passato alla rappresaglia escludendo Michael per sempre dalla sua vita: non gli aveva più parlato, nemmeno al telefono; non aveva permesso a nessun altro membro della famiglia di vedere Michael, parlargli, rispondere alle sue lettere. «Di tutti, solo due dei miei fratelli hanno mantenuto i contatti con me» disse Michael, amareggiato. «Mia madre, le mie sorelle, persino mia sorella Marian a cui sono sempre stato tanto vicino, si sono comportate come se fossi morto.» «Oh, Michael.» Lui scrollò le spalle, atteggiò il viso a una coraggiosa indifferenza, ma Corinne vide la ferita profonda, incancellabile. «Quanto ti mancheranno...» La sua voce si spense nel silenzio, perché era un commento fiacco. Naturalmente, aveva già capito che i rapporti tra Michael e la sua famiglia erano freddi: non un solo Mulvaney si era presentato al loro matrimonio! Ma lei non aveva mai sentito la storia completa. Non aveva mai sentito una storia così triste. Michael disse, piano: «Né più né meno di quanto io manchi al vecchio bastardo». Suona il campanaccio
Patrick, l'astuto e sospettoso Pizzicotto, stava cadendo in una delle trappole di mamma! Che suonava il campanaccio della veranda sul retro, il "pezzo d'antiquariato" (come lo chiamava lei) in rame, a forma di zucca, per richiamarlo dentro e invogliarlo a offrirsi volontario ("volontario") per andare in città e riportare a casa Marianne. Come uno sciocco, Patrick arrivò di corsa. A High Point Farm, il suono del campanaccio era un segnale in codice per Chi ha voglia di una scampagnata? una bella sorpresa? Anni prima, quando la famiglia era più giovane, papà o mamma suonavano spesso il campanaccio nelle sere d'estate per annunciare un viaggio improvvisato per chiunque fosse a portata d'orecchio, alla Regina dei formaggi sulla Route 119, al lago di Wolfs Head per una nuotata con picnic. Quando il drive-in sulla Route 119 era ancora aperto, il campanaccio poteva significare addirittura un film, anzi un doppio spettacolo. In ogni caso, doveva indicare una scampagnata! una bella sorpresa! Non un incarico da svolgere. Patrick avrebbe dovuto aspettarselo. A diciotto anni, non più un ragazzino schiavo delle voglie e degli umori dei genitori, era probabile che dovesse essere lui a correre in automobile in un pomeriggio di domenica, non i suoi. Era metà febbraio, non poteva trattarsi di una spedizione alla Regina dei formaggi o al lago. Ma il suono lontano del campanaccio, mentre camminava sull'argine del torrente gelato con uno dei cani, Seta, che trotterellava e fiutava al suo fianco, gli accelerò i battiti con la promessa di avventure di sapore infantile. Della famiglia, Patrick era l'unico che amasse passeggiare da solo. Gli piaceva stare solo. O al massimo con un animale o due come compagnia. Aveva fatto i suoi lavori della giornata nella stalla, aveva pulito i box dei cavalli, strigliato, nutrito, dissetato: sette secchi di acqua al giorno per cavallo, come minimo! Poi si era arrampicato, seguendo Alder Creek per chilometri, tra le colline al di sopra di High Point Farm. Forse lo spettacolo dei panorami distanti, coperti di neve e spazzati dal vento, lo aveva rapito, ma in realtà la sua mente era tormentata da idee. Idee che ronzavano e brillavano come comete in miniatura. In una delle sue riviste scientifiche aveva letto un articolo che lo aveva sconvolto: "Perché le leggi della natura sono matematiche?". Com'era possibile che le leggi della natura fossero matematiche, e solo matematiche? Aveva letto anche di certe recenti scoperte sull'evoluzione e di nuove teorie sull'origine dell'Homo sapiens nel Nordafrica. Quello che cosa c'entrava con la matematica? Angosciato, a-
veva detto ad alta voce: «Non riesco a capirlo». Con l'innocente vanità dei diciott'anni, Patrick Mulvaney si riteneva uno scienziato sperimentale, un biologo. La Cornell University lo aveva premiato con una prestigiosa borsa di studio perché potesse imparare le "scienze naturali". Suo padre, che non era andato al college, si vantava che la Cornell fosse «una delle grandi università americane». Dichiarazione imbarazzante per Patrick, per quanto senza dubbio vera. Patrick intendeva darci sotto per arrivare a un Ph.D. e dedicarsi a nuovissime ricerche sulla biologia molecolare. Al liceo, i suoi voti in scienze erano sempre altissimi; aveva voti alti anche in geometria e in algebra, ma intuiva i propri limiti, sapeva di non essere portato per la matematica pura. Lo riempiva di sgomento e panico pensare che le leggi della natura potessero essere essenzialmente matematiche, non un fatto di infaticabili osservazioni, dati, esperimenti. Era ingiusto! Ingiusto! Però, era esatto? "La scienza è un testo interminabile che viene di continuo scritto, rivisto, corretto, espanso e revisionato, mentre la matematica è pura e astorica. Molta della scienza di oggi verrà confutata, ma non la matematica." Era così? Come poteva essere così? Che cosa poteva dire della vita la matematica? Della più semplice vita monocellulare? Cosa poteva dire del misterioso diramarsi dell'evoluzione della vita nei milioni di anni di esistenza del pianeta? Patrick mormorava ad alta voce: «Non sanno tutto». Una cipria di neve, sollevata dal terreno, gli venne scaraventata in faccia da una raffica di vento. In alto, il cielo era chiaro: un blu invernale compatto, come di ceramica. Patrick proseguì e si mise a sorridere. Al ricordo degli "acquerelli di squisita bellezza" (parole di mamma) che aveva appeso alla bacheca in cucina, a quattordici anni. Misteriose immagini di quelli che parevano lune, soli, comete con contorno di aure brillanti. Che cos'erano? Dopo avere lasciato che la famiglia si abbandonasse alle ipotesi per qualche giorno, Patrick aveva svelato che cosa fossero quelle stampe: fotografie ingrandite della saliva dei cani. Le espressioni sulle facce di tutti. Quanto aveva riso Patrick. Tutti quanti, persino Mike, a fissarlo tra incredulità e repulsione. Come se li avesse traditi venendo meno a una sacra promessa. Come se avesse tradito i cani! Patrick aveva preteso di sapere perché la saliva dei cani, satura di microbi (non tanto diversi dai nostri), fosse parsa loro di "una squisita bellezza" un giorno, ma non il giorno dopo. Lascia perdere, Patrick, aveva risposto stizzita la mamma, però per fa-
vore tira subito via quella roba. Patrick rise ad alta voce. Il ricordo aveva sconfitto l'ansia di pochi minuti prima. «Non sanno tutto!» disse, ascoltando divertito la propria voce. Intendeva non solo i Mulvaney, ma quasi l'intera specie umana. Udendo il campanaccio, il richiamo della madre, girò sui tacchi e percorse al trotto i due chilometri circa che lo dividevano da casa, con Seta che sbuffava eccitato al suo fianco, ma quella volta sarebbe toccato a lui cadere in trappola. «Mi spiace disturbarti, P.J., ma Germoglio ha bisogno che qualcuno la vada a prendere dai LaPorte. Puoi farci un salto tu?» si scusò mamma, sorridendo, con quel suo sfacciato modo di approfittare degli altri a cui nessuno dei figli sapeva resistere: Corinne Mulvaney che recitava la parte della donna agitata, impotente, e forse si immaginava davvero in quei panni del tutto contrari alla sua vera natura, che era iperefficiente. Era a metà del restauro di un mobile e non poteva interrompersi, sperava che lui capisse, le spiaceva tanto privarlo del suo tempo libero dopo che aveva svolto i suoi incarichi, e così bene, però insomma si trattava di fare un favore a Germoglio, no? «Prendi la Buick, amore. Papà è fuori con il furgone. Tieni...» Pescò le chiavi della station wagon da un'ampia tasca della tuta e le lanciò con un'allegria fuori luogo a Patrick, che le scoccò un'occhiataccia piena di tutta l'ironia adolescenziale che gli riuscì. «Accidenti, grazie, mamma» disse, facendo risalire gli occhiali sul naso. «Una gita domenicale a Mt. Ephraim e ritorno. Proprio quello che mi ci voleva.» Ventidue chilometri, andata e ritorno. No, diciamo ventiquattro, perché i LaPorte abitavano al lato opposto della città. Un viaggio che Patrick faceva cinque giorni a settimana, avanti e indietro, di solito sull'autobus della scuola. Così andò a Mt. Ephraim e recuperò sua sorella e sì, forse si accorse che qualcosa non andava: il sorriso di Marianne era meno convincente del solito, nei suoi occhi c'era un'espressione evasiva, e di sicuro non era la solita creatura traboccante di chiacchiere, un io profondamente e puramente, e per la mente superiore di Patrick spesso insopportabilmente, femminile; ma a dire il vero fu un sollievo non sentire tutti i particolari del ballo e della festa e del suo cavaliere, e la consueta litania delle amiche (Trisha, Suzi, Bonnie, Merissa) o quanto fosse "fantastico" l'addobbo della palestra, quanto "eccezionale" il gruppo locale che suonava, e come tutti avessero trascorso una serata "meravigliosa, indimenticabile". E quale "onore" fosse stato per lei essere ammessa alla corte della Reginetta di san Valentino. Pa-
trick, all'ultimo anno di liceo, non nutriva il minimo interesse, nemmeno un interesse antropologico, per la vita sociale frenetica, soggetta a continui cambiamenti, dei suoi compagni di scuola. Forse Corinne era un po' delusa di lui. Patrick aveva praticamente ignorato che la sera prima si sarebbe tenuto il ballo di san Valentino fino al momento in cui la casa era entrata in agitazione per Marianne e per il suo vestito nuovo, con papà che come al solito scattava Polaroid e il cavaliere che stava per arrivare: Austin Weidman in un abito scuro che gli dava l'aria del direttore delle pompe funebri, il povero Weidman con la voce da adenoidi che era in effetti un compagno di classe di Patrick, un ragazzo timido, accigliato, nervoso nei gesti, intelligente quanto bastava per poter essere da anni amico di Patrick Mulvaney, però non lo era. Semplicemente, Patrick non lo trovava interessante, gli sorrideva freddo, nemmeno lo vedeva. Perché? Il modo di fare di Patrick. Una volta Marianne si era lamentata con mamma. Perché Patrick era così scortese? così sgarbato? con le sue amiche? le sue amiche che in realtà lo ammiravano? E Corinne l'aveva tranquillizzata, con Patrick a portata d'orecchio: Oh, è solo il suo modo di fare. Il che aveva dato una scossa d'energia all'ego di Patrick. Quindi non prestò molta attenzione alla sorellina, più giovane di un anno, indietro di un anno a scuola ma distante anni luce da lui, ne era certo, in tutto ciò che contava davvero. Forse le chiese come era andato il ballo, o cosa diavolo fosse, e forse Marianne gli rispose con un mormorio vago ma per nulla allarmante; e forse, con una risatina di scusa, toccandosi la fronte in un gesto tanto simile a quello di Corinne, lei aggiunse: «Credo di essere stanca». Patrick rise, una di quelle risate neutre da fratello che significavano E con ciò? Aveva gettato la borsa di Marianne sui sedili posteriori della Buick e la borsa era scivolata giù ed era caduta sul pavimento della macchina, e stranamente Marianne non se n'era accorta, o comunque non si era voltata per rimetterla a posto. Nella borsa c'erano il suo vestito nuovo, le scarpe per il ballo, cosmetici. Patrick non sprecò nemmeno mezzo pensiero. Perché non me lo hai detto? Appena sei salita in automobile? Appena ci siamo trovati soli? In seguito avrebbe pensato quelle cose, ma sul momento no. E neppure rifletté sul fatto (lui, che andava tanto fiero della sua capacità d'osservazione) che quando aveva imboccato il vialetto d'accesso dei LaPorte sua sorella era già fuori ad aspettarlo. Ad attendere nel freddo. Con borsa e bor-
setta ai piedi. Marianne, nel suo cappotto buono di lana blu. Ad aspettare. A dire il vero, è possibile che Patrick si sia sentito sollevato. Perché Trisha, la migliore amica di Marianne, non era lì e lui non sarebbe stato costretto a scambiare saluti. Era uscito in retromarcia dal sentiero d'accesso dei LaPorte senza una seconda occhiata, e se qualcuno fosse stato a guardare da una finestra, dietro una tendina socchiusa, non se ne sarebbe accorto. Marianne armeggiava con la cintura di sicurezza e intanto carezzava la testa insistente di Seta, che dalla sua precaria posizione sul sedile posteriore si protendeva verso di lei nello spasmodico desiderio di passare sul sedile anteriore, che gli era vietato. Però Marianne non si lasciò leccare il viso. «No, Seta! Giù.» Seta era il cane di Mike, che ora lui trascurava quasi sempre. In seguito, mamma avrebbe detto: Credevo che tu e Marianne foste tanto vicini. Credevo condivideste cose che non avreste condiviso con papà o me. In effetti, Patrick non si era nemmeno preoccupato di chiedere perché Marianne avesse bisogno di essere riportata a casa. Perché Austin Weidman, il suo accompagnatore, non fosse andato a prenderla. Non era una sua responsabilità? Marianne passava spesso la notte in città con un'amica o con l'altra e quasi sempre veniva riportata a casa, se non da un accompagnatore, da qualcun altro. Marianne Mulvaney era così amata, così benvoluta, che di rado mancavano persone disposte a farle favori. Non si informò nemmeno su Austin Weidman. Era assurdo che Marianne fosse andata al ballo con lui. Figlio di un dentista, famiglia benestante, molto cristiana, colta. Marianne aveva accettato di uscire con lui solo dopo avere consultato la propria coscienza, senza dubbio chiedendo anche consiglio a Gesù, perché se Austin non le "piaceva" come di solito un ragazzo piace a una ragazza di diciassette anni, almeno lo "rispettava "; e lui le aveva chiesto di poterla accompagnare da settimane, o mesi. Il povero stupido le aveva addirittura scritto una lettera! (Che Marianne aveva mostrato solo a Corinne, non agli irridenti maschi Mulvaney.) Spinto dall'astuzia della disperazione, Austin aveva osato candidarsi per accompagnare Marianne Mulvaney, una del penultimo anno, di certo una ragazza che non lo aveva mai incoraggiato, con netto antìcipo su altri pretendenti più probabili. Marianne con il suo cuore tenero, con il suo timore di urtare i sentimenti di chiunque, aveva ovviamente accettato. L'anno prima aveva fatto lo stesso, quasi. Jimmie Holleran sulla sedia a rotelle. Jimminy il Grillo, come lo chiamavano crudelmente dietro le spalle
gli altri, un ragazzo della classe di Marianne, anzi il vicecapoclasse, colpito da tempo dalla fibrosi cistica. Era amico di Marianne dai tempi della Gioventù cristiana, e anche lui l'aveva invitata a un ballo con mesi di anticipo. Per quanto persino mamma si fosse posta qualche domanda («Germoglio, ma non sembrerà... pietà?»), Marianne, ferita, aveva detto: «Jimmie mi piace. Io voglio andare al ballo con lui». Impossibile discutere con tanta bontà. Germoglio Mulvaney era così dolce, così sincera, così carina, così... cosa, esattamente? luminosa e sfolgorante, come se l'anima le brillasse radiosa in volto, che potevi sorridere di lei, magari persino ridere, ma non potevi non amarla. Da buon fratello. Patrick disdegnava gli sport scolastici, quasi tutti i club e le attività e le competizioni di popolarità sotto qualunque spoglia, però non poteva certo ignorare la presenza di Germoglio Mulvaney al liceo di Mt. Ephraim. (Come, stringendo i denti, non poteva ignorare la reputazione del fratello maggiore altrettanto popolare, Mike Mulo Mulvaney, che si era diplomato nel 1972.) Non che fosse geloso. Non Pizzicotto. Anzi, la popolarità della sorella al liceo l'anno prima lo aveva messo in imbarazzo. Stava sulle spine quando era costretto a guardarla con le altre cheerleader schierate prima delle partite, otto ragazze in gonnellini di lana marrone che mettevano in risalto i corpi snelli, e poi i seni piccoli e perfetti, i ventri piatti, i fianchi e le cosce e le gambe tanto lucide. Erano tutte agili come ballerine, snodate come ginnaste. Erano tutte molto, molto belle. Portavano camicette di cotone di un bianco accecante e calzettoni di lana di un bianco accecante e i loro sorrisi erano di un bianco altrettanto accecante, sorrisi così gioiosi! E tutto al servizio della squadra di football della scuola, della squadra di basket, della squadra di nuoto. Ragazzi. Ragazzi che in segreto Patrick disprezzava. Scrutava cupo un angolo dell'auditorio come frugasse nei recessi della sua mente labirintica e tutt'attorno a lui centinaia di idioti strillavano, applaudivano, fischiavano, battevano i piedi come una sola immensa bestia. DUE! QUATTRO! SEI! OTTO! CHI STA PER DARCI SOTTO? I RAMS DI MT. EPHRAIM!!!
Troppo stupido, troppo spregevole per meritare commenti. Ma cercate di spiegarlo a Michael Sr. e Corinne, gli orgogliosi genitori di Germoglio Mulvaney. Come per quattro anni erano stati gli orgogliosi genitori di Mulo Mulvaney. Patrick non aveva mai raccontato ai suoi quanto temesse di poter scoprire un giorno il nome di Marianne in un gabinetto della scuola. Non appena vedeva parole oscene o a doppio senso, disegni sconci e soprattutto le iniziali di ragazze che pensava di conoscere Patrick, se non c'era nessuno in giro, cancellava in preda al disgusto. A volte ci scriveva sopra con un pennarello. Quanto disprezzava le menti schifose dei compagni! Il loro umorismo giovanile! Persino i ragazzi a posto, quelli mezzo intelligenti, potevano diventare sorprendentemente volgari in un gruppo di soli maschi. Perché, Patrick non lo capiva. Ogni due o tre parole infilavano un "merda", "cazzo", "culo", "stronzo", "ciucciacazzi". Patrick era troppo puro per tollerare l'infrazione di tabù che non fossero solo intellettuali. Un'altra cosa non aveva mai confessato ai genitori: nonostante la popolarità, Marianne era considerata una delle "brave ragazze cristiane". Vergini, ovviamente. Ma vergini anche nella testa. Avevano qualcosa di vagamente comico: la loro stessa bontà, la modestia. Girava la storia che Marianne avesse chiesto a uno degli insegnanti di scienze perché Dio avesse creato i parassiti. Alla mensa, tra risate, voci alte, battute a pieno volume, Marianne faceva parte del gruppo dei cristiani che prima di prendere in mano la forchetta chinavano la testa mormorando preghiere di gratitudine. In maggioranza, le credenti più ferventi erano le ragazze; pochi i maschi. Jimminy il Grillo Holleran era uno di quelli. Restavano tutti indifferenti alle occhiate perplesse degli altri. O nemmeno se ne accorgevano. Conversando, proprio come la madre, Marianne parlava con tale familiarità di Gesù da farti credere che Lui fosse nella stanza accanto. L'autunno prima, uno dei giocatori di football più conosciuti si era infortunato durante una partita. Era stato ricoverato in ospedale con una commozione cerebrale e Marianne Mulvaney era stata tra i promotori di una fervente veglia di preghiera sul campo, durata tutta la notte. Il ragazzo era entrato nel reparto di terapia intensiva del General ma alla fine della veglia, il mattino dopo alle otto, i medici lo avevano dichiarato "fuori pericolo". Quindi, si poteva sorridere di Marianne Mulvaney e delle "brave ragazze cristiane" di Mt. Ephraim. Si poteva persino ridere. Ma loro non se ne accorgevano mai; oppure, quando se ne accorgevano, non si offendevano.
Perché non me lo hai detto? Qualsiasi cosa. Come hai potuto lasciare che ti riportassi a casa quel giorno senza sapere quello che stavi provando. Quanto soffrivi. Alle cinque del pomeriggio il cielo era striato di crepuscolo. Crepe color prugna tra chiazze di nubi. Gonfie, alte. Patrick cercò di non farsi spaventare dall'apparizione di veicoli coperti di neve a lato della strada, abbandonati giorni prima durante una tormenta. Sulla Haggartsville Road si guidava bene, ma la High Point era in sostanza un'unica corsia ripulita malamente dalla neve. Fin lì c'era arrivato, quindi era probabile che sarebbe riuscito a rientrare a casa. E il mattino dopo di nuovo a scuola. Gli ispirava noia la sola vista del maledetto autobus. Ne parlò con Marianne, che stringeva in grembo le mani guantate di angora rosa e non parve sentire, o comunque non rispose. Com'era rigida, tesa. Aveva paura del modo di guidare del fratello? Temeva che l'auto sbandasse? Sotto la polvere fine di neve, il duro strato di neve accumulato sulla High Point era liscio come raso. Traditore. Quel vestito di raso: color panna, con orlo di chiffon fragola: era san Valentino. La signora Glover, l'insegnante d'inglese dell'ultimo anno, che parlava timidamente di Cupido, "amore romantico", Eros. Qualcuno sa che cosa significhi Eros? Alla curva subito dopo la fattoria Pfenning le ruote posteriori della station wagon girarono a vuoto per diversi angosciosi secondi. Patrick scalò subito la marcia, pigiò sui freni. Sapeva di non dover ruotare il volante nella direzione suggerita dall'istinto ma in quella opposta, assecondando lo sbandamento. E in un attimo riprese controllo del veicolo. Aveva allungato il braccio per tenere lontana Marianne dal cruscotto ma la decelerazione era stata minima e la cintura l'aveva tenuta ferma. Però lui vide quanto fosse rigida la posizione della sorella, china in avanti, le mani intrecciate con forza sopra le ginocchia. Le sue labbra pallide si muovevano mute. Stava pregando? Sotto la giacca di pecora di Patrick si accumulò di colpo sudore nervoso. «Marianne? Stai bene?» «Oh, sì.» «Scusa se ti ho spaventata.» Perché non me lo hai detto in quel momento'? Perché nemmeno una parola?
È stato perché non volevi contaminare anche me? A quel punto, francamente, dopo chilometri di guida, Patrick cominciava a essere irritato, ferito dal silenzio della sorella. E adesso, l'idiozia della preghiera muta! Un insulto. La High Point Road, sgomberata in modo sommario dagli spazzaneve, correva attorno al margine dell'antica striatura del ghiacciaio. Da nordest, dall'ampia tundra innevata del Nord dell'Ontano, giungeva quel vento persistente. Scuoteva la station wagon come spesso scuoteva l'autobus della scuola. Come una presa in giro, pensò Patrick. Come una beffa. Invisibili correnti d'aria che strattonano la tua vita. Ricordò l'ultimo anno delle medie. Nello spogliatoio dei ragazzi. Maschi che parlavano delle sorelle. Forse ne parlava uno solo, e gli altri ascoltavano avidi. Patrick non stava in mezzo a loro, ci stava di rado, si teneva a una certa distanza e intanto continuava a cambiarsi in fretta e con imbarazzo. Nella fase della prima adolescenza in cui il semplice sussurro di una parola proibita, la carezza di una piuma, un'improvvisa zaffata di profumo dolciastro, il fruscio del tessuto sul tessuto, serico, insinuante, il semplice pensiero delle ascelle di una ragazza! le narici! il rosso taglio umido tra le loro gambe! sarebbero bastati a eccitarlo sessualmente, fino al dolore. Era corso a nascondersi per disgusto, per vergogna. Non aveva ancora messo a punto l'altezzoso stile Pizzicotto, quel suo modo di guardare dall'alto in basso gli inferiori. Patrick Mulvaney un genio? Andiamo! Il suo Q.I. era solo 151. In prima superiore aveva fatto una serie di test con altri cinque o sei studenti scelti. In teoria non si dovevano conoscere i risultati, ma in qualche modo Patrick ne era venuto al corrente. Forse glieli aveva riferiti sua madre, assurdamente fiera. Non un genio, però le voci correvano. Come la voce che fosse cieco da un occhio. A Patrick importava? A Patrick non importava. Ripeteva a se stesso che al liceo di Mt. Ephraim fosse preferibile essere rispettato e temuto piuttosto che benvoluto. La popolarità! I suoi eroi erano Galileo, Newton, Charles Darwin. I Curie, Albert Einstein. Gli scienziati dei quali leggeva voracemente sulle pagine di Scientific American, a cui era abbonato. Inimmaginabile che una sola di quelle persone potesse tenere alla popolarità. Lo irritava, però, il fatto che tutti conoscessero il suo segreto: in effetti era cieco da un occhio. Quasi. Di certo mamma lo aveva confidato all'insegnante di ginnastica, quando
Patrick aveva iniziato il liceo. Aveva promesso di non farlo, ma probabilmente sì, era stata lei, mossa dalle migliori intenzioni. Non voleva che l'altro occhio potesse subire conseguenze, doveva essere stata quella la sua logica. Patrick la sentiva implorare, la vedeva torcersi le mani. Aveva avuto un incidente mentre governava un cavallo, anzi il suo cavallo Prince che adorava, il giovane focoso Prince a un tempo docile e nervoso, ed era successo che il castrato di due anni si era spaventato nel suo box vedendo una cosa innocua e insignificante come le ali di un uccello in volo proiettare un'ombra su una balla di fieno illuminata dal sole e con improvviso terrore Patrick, che aveva solo dodici anni e non pesava molto più di quarantacinque chili, era stato scaraventato contro un muro e si era trovato sotto i terribili zoccoli del cavallo, come magli, e aveva urlato per chiedere aiuto. Il braccio sinistro si era rotto, l'occhio sinistro si era gonfiato e chiuso. Aveva avuto il distacco della retina, un intervento chirurgico d'emergenza a Rochester. Dell'esperienza Patrick ricordava poco, per repulsione e incredulità. Il suo orgoglio era rimasto ferito alla prospettiva di essere l'unico Mulvaney costretto a portare occhiali. Mentre guidava, chiuse l'occhio sinistro, guardò con il destro la strada innevata, il bagliore bianco, la discesa rocciosa verso la valle. Sarebbe dovuto essere un paesaggio familiare, ma in realtà lo sorprendeva sempre la sua freschezza, la combinazione di minacce e promesse. Patrick non riusciva mai a spiegare a qualcuno, nemmeno a Marianne, quanto affascinante fosse il fatto che là fuori c'era il mondo; e che lui, dotato del miracolo della vista, fosse qui. Non dava per scontata l'esistenza del mondo là fuori più di quanto desse per scontata la propria esistenza qui. E per lo meno vedeva con l'occhio destro. Perché l'occhio è uno strumento di osservazione, di conoscenza. Ecco perché amava il suo microscopio. Il telescopio che aveva assemblato da sé. I libri, le riviste. Il suo taccuino di laboratorio, con meticolosi disegni e lettere a grandi caratteri in inchiostri colorati. L'orologio sportivo nero altimetro/barometro/"luminescente" che portava di giorno, di notte, da sveglio, nel sonno e toglieva solo per fare la doccia anche se in effetti l'orologio (un regalo di compleanno della famiglia, scelto da Marianne sul catalogo L.L. Bean) era garantito impermeabile, ovviamente. E amava la radio a onde corte che aveva costruito con un kit. Nelle notti d'insonnia gli concedeva il sollievo di bollettini meteo dai monti Adirondack, dalla Nuova Scozia. Addirittura dalle Montagne Rocciose del Canada. Si può riporre in quegli strumenti e quelle conoscenze una fiducia che
non si può riporre negli esseri umani. Non è un segreto, è un semplice fatto. Patrick guidò la station wagon Buick di sua madre con estrema cautela sull'ultimo tratto della High Point Road. Stava pensando che l'orizzonte che si era abituato a vedere negli anni senza sapere che cosa davvero vedesse, lì nella valle di Chautauqua, a 360 gradi, era una cerniera che congiungeva due spazi: quello finito, una sostanza impropriamente chiamata "terra" che scendeva al fiume Yewville, invisibile da quella distanza, e quello infinito, una sostanza impropriamente chiamata "cielo", lassù in alto. Entrambi erano un ignoto. Ma si sforzò di immaginare il ghiacciaio di milioni di anni prima, un'epoca alla quale era stato dato il misterioso nome di Pleistocene, una delle parole che Patrick pronunciava con reverenza quando era solo. Pleistocene. Montagne di ghiaccio alte chilometri che seppellivano tutto sul loro percorso. Era evidente che Patrick si sentiva ferito, si vedeva dalla sua espressione. Se solo Marianne se ne fosse accorta. Un'accelerata quando imboccò il sentiero d'accesso divorato dalla neve, la corsa verso casa per annunciare Eccoci qui! E una rumorosa manovra di parcheggio davanti al granaio dell'antiquariato, dove Corinne stava lavorando. Forse Marianne cominciò a dire : «Grazie, Patrick...» ma parlò a voce troppo bassa. Lui era già saltato giù dal veicolo, in una delle sue esplosioni di furia incandescenti e mute, e un attimo dopo anche Seta esplose dal retro dell'automobile con un balzo comico, si mise a sguazzare nella neve, orinando a piccole gocce, scrollando le orecchie come fosse rimasto confinato per anni. Marianne cominciò a trasportare la borsa con il vestito in direzione della porta sul retro e il manico di plastica le scivolò dalle dita e Patrick esitò prima di aiutarla a riprendere la borsa e Marianne si affrettò a dire, con voce tremante, con la paura negli occhi che erano di un azzurro non troppo limpido, come Patrick avrebbe ricordato in seguito: «No! Tutto bene, la tengo». Marianne gli sorrise, in modo poco convincente. Il fratello alto e impaziente e dinoccolato era nervoso come uno dei puledri. «Come preferisci» disse. Scrollò le spalle, quasi ad annunciare che per l'ennesima volta era stato respinto, in maniera cortese ma inconfondibile. Girò sui tacchi, corse in casa, salì nella sua stanza, ai suoi libri. Tutto bene, la tengo. Tutto bene.
Codici di famiglia Molte cose avevano nomi in codice a High Point Farm. Come i nostri nomi, che potevano creare una certa confusione perché dipendevano da stati d'animo, circostanze, sottintesi. Per esempio, di solito Michael Sr. era papà, però a volte Ricciolo e a volte Capitano. Poteva essere Brontolo (dei sette nani) o Groucho (quello dei fratelli Marx), poteva essere Grande Orso, Pollastrello, Zuccherino, ma questi ultimi nomi li usava soltanto mamma. Mio fratello maggiore di solito era Mike però talora Mike Jr. oppure Mikey Junior; talora Grande Uomo, Mulo, Numero Quattro (il numero della sua maglia per i quattro anni in cui è stato un eccellente fullback al liceo). Patrick era spesso P.J. (da Patrick Joseph) o Pizzicotto. Marianne era spesso Germoglio o Cinciallegra. I miei nomi, come ho detto, erano molti, anche se predominavano Piccolo, Fossette, Ranger. Mamma era mamma, a parte certi nomi speciali che soltanto papà poteva usare (Tesoro, Amore, Dolcezza, Zuccherino). Ogni tanto la si poteva chiamare Fischietto, però solo all'interno della famiglia, mai in presenza di estranei. Era una questione di finissima calibratura, di tatto. Quale nome in codice in quale momento. Specialmente nel caso di mamma, perché certe volte sentirsi chiamare Fischietto la irritava e altre volte era esattamente ciò che voleva sentire: rideva e arrossiva, e alzava gli occhi al cielo come fosse stata messa a nudo la parte più segreta della sua anima. Perché Fischietto? Perché mamma aveva l'abitudine di fischiettare quando si credeva sola e per quelli di noi che si trovavano a origliare il suo fischio era un suono allegro e contagioso. In cucina, nel granaio dell'antiquariato; mentre si occupava degli animali; nell'orto per tutta la lunga estate e fino in autunno. Il fischio di mamma era forte e sicuro quanto un fischio maschile, ma quando cambiava d'umore poteva diventare liquido e dolce come un flauto. Restavi ad ascoltarlo affascinato. Pensavi che mamma stesse parlando proprio con te senza esattamente saperlo. Serrando la sbarra attorno al collo robusto di una mucca, pulendo il manto di un cavallo sporco di fango e letame, respingendo qualche gallinella furibonda che aveva sperato di nascondere le proprie uova nel fienile, specialmente di prima mattina quando lei e il nostro canarino Piumotto erano gli unici esseri svegli, mamma cominciava a fischiettare Faith of Our Fathers, The Battle Hymn of the Republic, Tell Me Why the Stars Do Shine, ma anche
I'm Dreaming of a White Christmas (un classico che le andava bene tutto l'anno, per l'esasperazione di papà), I'm Forever Blowing Bubbles, I'll Be Seeing You, Heartbreak Hotel, Hound Dog, Blue Suede Shoes (nonostante sostenesse di disapprovare Elvis in quanto deprecabile esempio morale per i giovani). Quando stava in casa, in genere mamma fischiava con Piumotto che, come quasi tutti i canarini maschi, rispondeva eccitato a ogni fischio all'interno del suo territorio o nei dintorni. Fischiare, poi, era un modo comodo e veloce per comunicare con gli animali: i cavalli nitrivano subito in risposta, rizzando le orecchie e agitando la coda come per dire Sì? È ora di mangiare? Mucche, capre, persino le pecore si mettevano sul chi vive. Due dita infilate in bocca, un fischio penetrante, e mamma poteva far convergere su di sé ovunque si trovasse cani, gatti, pollame e qualsiasi cosa, di solito sotto una delle tettoie per auto, nella zona destinata alla nutrizione all'aperto, ridente e generosa come la Signora delle oche nella nostra vecchia, logora copia delle fiabe dei Grimm. Anche papà fischiava. Fischiettava felice tra sé. Ma nessuno dei suoi nomi alludeva alla presenza o assenza di capacità musicali in lui. Erano in codice anche le procedure che talora usavamo per parlare tra noi servendoci degli animali. Era un modo di comunicare entrato in uso prima della mia nascita. Ricordo che una volta, quando ero piccolo piccolo e strisciavo con molta energia sul tappeto, papà e mamma cantarono le mie lodi a uno dei cani: «Foxy, guarda! Piccolo è veloce come te». Quel modo di parlarci era una maniera giocosa, divertente per rivolgerci semplici richieste: «Seta, vuoi fare un salto là e chiedere a Ricciolo se vuole cenare presto o più tardi, e in ogni caso quando pensa di spannocchiare il granturco?». Oppure, a voce alta: «Palladineve, vuoi chiedere a Judd di venire a darmi una mano?». Era una delle tecniche preferite per teneri rimproveri: «Focaccina, chiedi a un certo qualcuno» (poteva essere Mike, Patrick, Judd, o persino papà) «quanto tempo abbia intenzione di restare lì con lo sportello del frigorifero spalancato?». Di solito frasi del genere venivano da mamma o papà. Quando i figli li imitavano, l'impressione era che il codice non funzionasse, non del tutto. Ricordo Mike furibondo con Patrick per qualche motivo una volta che entrambi cavalcavano nell'aia, Patrick in testa, rigido e impettito, con il cavallo che sbatteva la coda, e Mike dietro che urlava: «Ehi, Prince, dì a chi ti cavalca che è un culo di cavallo, grazie!». Ma Prince e chi lo cavalcava ignorarono il commento, fuggendo al piccolo galoppo. In effetti, quasi tutti questi scambi di battute si verificavano in casa. A-
desso che ci penso, per buona parte in cucina. Perché la cucina era il cuore della casa, il luogo dove gravitavamo d'istinto in cerca l'uno dell'altro. La radio era sempre accesa, sintonizzata sulla stazione di Yewville che mamma prediligeva; c'erano sempre cani e gatti tra i piedi, in cerca di carezze o di cibo; e naturalmente Piumotto era un residente fisso della cucina, nella sua bella gabbia d'ottone vicino alla finestra. Tra tutti gli animali dei Mulvaney, il gatto Focaccina era l'intermediario preferito per quei dialoghi; Focaccina che era dolcemente docile e paziente e sempre così attento quando gli esseri umani parlavano da farti giurare che capisse le nostre parole. Con comica intensità passava lo sguardo da un interlocutore all'altro, e poi indietro, e poi di nuovo avanti, come lo spettatore di una partita di tennis. I suoi occhi felini, color del bronzo, irradiavano comprensione, partecipazione. Era quasi possibile pensare, come sosteneva papà, che Focaccina fosse non un gatto ma un essere umano mimetizzato; però, essendo un animale, era sempre tanto più carino degli uomini. «Focaccina, noi due ci capiamo, vero?» diceva papà, chinandosi a carezzare il gatto, versando croccantini dalla scatola nella ciotola per uno snack tra un pasto e l'altro che era contrario alle regole dietetiche di mamma, come lo erano le spedizioni di papà al frigorifero tra pranzo e cena. «Siamo tutti e due endomorfi, eh?» Papà diventava sempre più robusto con gli anni, il suo torso muscoloso si era ingrossato, la pancia sporgeva sopra la cintura; non sarebbe mai stato grasso, nemmeno grassottello, perché non aveva zone flaccide, solo una carne sfacciatamente soda. Focaccina aveva iniziato l'esistenza tra i Mulvaney come un micino abbandonato, salvato da morte imminente per fame assieme al fratello Maschiaccio in un interramento nei paraggi di High Point Farm. Era così piccolo che stava nel palmo della mano del più giovane dei Mulvaney; con allarmante velocità era cresciuto alle dimensioni di un robusto maschio adulto, era stato castrato e pesava un po' più di nove chili. Non era certo un bell'animale, anche se il suo manto candido era serico, sempre impeccabilmente pulito, con striature sghembe di arancio, nero, grigio e castano che parevano scarabocchi di un bambino. La testa era rotonda come un cavolo cappuccio. La coda era ad anelli come quella di un procione. Sin dall'inizio era stato il micio di Marianne, ma lo amavamo tutti. Papà aveva modi un po' rudi di dimostrargli il suo affetto, quando lo sollevava da terra e se lo metteva in grembo, e intanto continuava a sorseggiare il caffè e fare telefonate. Aveva l'abitudine di rivolgersi ad alcuni dei figli tramite Focaccina: «Focaccina, c'è una cosa che mi lascia perplesso, e forse tu puoi darmi una mano. Perché, dopo che ho fatto una
semplice richiesta cinque giorni fa, la gomma del maledetto John Deere è ancora sgonfia?». L'oggetto di quelle osservazioni era di solito Mike, che tendeva a trascurare i suoi doveri. Così Mike rispondeva a Focaccina, con un sorriso: «Focaccina, spiega a papà che sono solo un po' indietro. Sto ancora finendo di togliere il letame dalle maledette stalle. Digli che mi spiace, signore!». Esisteva un protocollo per quegli scambi verbali, una logica dietro la più aggrovigliata delle perifrasi. Quando il codice veniva infranto, l'effetto era lo stesso di uno schiaffo in faccia. La volta che Marianne entrò in cucina così in silenzio che all'inizio non mi accorsi della sua presenza, doveva essere la sera del giorno dopo san Valentino, la sera della domenica che aveva trascorso dai LaPorte. Meno di ventiquattro ore dopo che le era successa quella cosa, e in quel limbo di tempo in cui nessuno di noi aveva la minima idea, il minimo sospetto. Stavo terminando in fretta uno dei miei lavori di casa, sgomberando la nicchia della cucina da riviste, giornali e cataloghi per corrispondenza che si erano accumulati; mamma stava dando gli ultimi ritocchi a cinque o sei piantine che aveva comperato per disporle sul tavolo, fischiettava tra sé, e la sentii dire con la sua voce più civettuola: «Piumotto! Cos'è questa storia che mi è giunta all'orecchio di un certo qualcuno che stamattina non è andato in chiesa?». In un attimo di stupefatto silenzio, mi voltai e vidi che era entrata Marianne. Mi dava la schiena. Portava i jeans, un maglione. Aveva i capelli raccolti in un'approssimativa coda di cavallo. Disse, a voce così bassa che quasi non la sentii: «Mi pare... mi pare crudele che quel povero uccellino resti imprigionato in gabbia tutta la vita per permettere a esseri egoisti come noi di divertirsi. Penso sia peccato». Mamma restò così sorpresa che le forbici le sfuggirono di mano e caddero sul pavimento. Perché non soltanto era stata Marianne, di tutti i figli, a pronunciare quelle dure parole, ma aveva anche infranto il codice. Quando mamma o papà ti parlavano attraverso un animale, rispondevi sempre nello stesso modo. Eppure, all'improvviso, Marianne non lo aveva fatto. Mamma, sulla difensiva, ergendosi in tutta la sua statura come fosse stata messa in discussione la sua integrità morale, ribatté: «Germoglio! Come sarebbe a dire? Piumotto è un canarino allevato per stare in gabbia, come i suoi genitori e i suoi nonni, per intere generazioni! Piumotto non avrebbe vita se non fosse nato per quella gabbia. Anzi, c'è nato, in quella gabbia. Si potrebbe dire che la gabbia sia la vita di Piumotto. Ed è una bellissima
gabbia d'ottone del XIX secolo, un oggetto d'antiquariato». La voce di mamma era tremula per dolore e indignazione, come quando discuteva di politica con papà. Si alzò sulla venerabile parola "antiquariato". Marianne, quasi impercettibilmente, disse: «Mamma, è sempre una gabbia». Poi girò sui tacchi, con un sospiro di esasperazione, o un gemito soffocato, senza nemmeno salutarmi, e corse fuori dalla cucina prima che mamma potesse aggiungere altro. Mamma e io restammo a guardare, entrambi stupiti, mia sorella che si scaraventava oltre la porta basculante, in sala da pranzo, e scompariva. Ti sei resa conto, Marianne, che infrangendo il codice quel giorno lo hai infranto per sempre? Per tutti noi? La ragazza sporca Mike Mulvaney Jr. era all'ultimo anno di liceo e giocava nella squadra di football e alcuni suoi amici erano rimasti coinvolti nella storia con quella ragazza, ma lui no. Mulo aveva sentito tutto, è ovvio. Ma non era coinvolto. Cosa puoi aspettarti da una ragazza simile? Da quel tipo di ragazza. La madre, le sorelle. Vivono di sussidi. Ce l'hanno nel sangue. Quel che avevano fatto i ragazzi del liceo dopo l'ultima partita. Tre o quattro della squadra e alcuni ragazzi più vecchi che si erano diplomati l'anno prima. Sì, erano tutti amici di Mike Mulvaney, però Mike Mulvaney non era uno di loro, quella notte. Fare ubriacare una ragazza ritardata. Farle cose, ci siamo capiti. Ehi, non è ritardata. Chi lo ha detto? L'intera famiglia, i Duncan. La madre è un'alcolizzata, ha sangue indiano nelle vene. Viene dalla riserva di Seneca. Non è quello che so io. Io ho sentito che sono... negri. Be', stessa cosa. Gente di quel genere. E quel... come si può definire? Quel campo di roulotte... Il villaggio di roulotte. Sulla Haggartsville Road. Mulo sapeva tutto, o forse solo qualcosa. I ragazzi esagerano. Erano tutti sbronzi. Nel cimitero di Mt. Ephraim: pazzesco! Non puoi credere a tutto quello che senti. Della Rae Duncan usciva con tutti, compresi ragazzi sui vent'anni e anche più vecchi. Oppure era sua sorella, o una delle sorelle,
quella con il bambino. Un bambino nero come il catrame. No, quello è morto. Non aveva un buco nel cuore? Il lunedì mattina cominciammo a sentirne parlare. Dapprima sull'autobus, poi a scuola. Nessuno sapeva di preciso. Nessuno dei ragazzi più giovani. I fratelli maggiori non volevano parlare e non era chiaro se le sorelle maggiori sapessero: aggrottavano la fronte, distoglievano lo sguardo. All'eccitante promessa è successo qualcosa seguiva la promessa ancora più eccitante qualcuno finirà nei guai. A Della Rae Duncan era successo qualcosa, o stava per finire nei guai, o entrambe le cose. Della Rae era una delle ragazze grandi sull'autobus. Quindici anni e ancora in prima superiore. Non era nelle classi speciali come un suo cugino, un ragazzo alto e grosso con il labbro leporino. Qualcuno di noi credeva che, forse in seconda media, la avessero messa in una classe speciale, ma adesso stava nella prima normale. Della Rae era una ragazza sporca, avevamo sentito dire. Era soltanto una di quelle cose che si sanno. Esistevano certe ragazze sporche e Della Rae Duncan era una di loro. Alcuni di noi pensavano che fosse una ragazza sporca perché erano sporchi i suoi vestiti, la sua pelle. La pelle era a chiazze, come il legno. Era una ragazza bassa, tozza, con seni abbondanti. Una faccia da bulldog. Grandi occhi dalle palpebre pesanti e una cicatrice a serpente sul labbro superiore, gonfio. Sarebbe stata quasi carina se non fosse stata brutta. Sarebbe stata timida se non avesse avuto un caratteraccio. Portava jeans maschili e una giacca cachi per ogni singolo giorno dell'inverno e puzzava di fumo di legna e ascelle. Puzzava dell'interno di una roulotte dove non si cambia mai aria. Aveva capelli inamidati di brillantina che parevano un berretto posato sulla testa, non capelli normali. Si vedeva che erano neri ma non sembravano esattamente neri; davano più l'idea di essere coperti di un sottile strato di polvere. Della Rae non era ad aspettare l'autobus della scuola con gli altri ragazzi del villaggio di roulotte, il lunedì mattina. Nemmeno il martedì. Neanche il mercoledì. Il giovedì riapparve. Stessa faccia da bulldog. Stessa pelle chiazzata di nero. Occhi dalle palpebre gonfie. La giacca verde con il cappuccio a stringhe che dava l'idea di essere stata usata per pulirsi le mani. Della Rae nemmeno ci vide mentre si faceva strada verso il fondo dell'autobus, dove sedette in compagnia di un'altra ragazza che si diceva fosse in parte indiana o forse in parte nera. O tutt'e due. Al liceo giravano chiacchiere, ma solo in segreto. Sussurri, risatine. I ragazzi ne parlavano nei gabinetti o negli spogliatoi, a testa bassa, lo stupore
dipinto in volto assieme ai sorrisetti sconci. Molte risate. Espressioni di incredulità. Quanti ragazzi? Per quanto tempo? Dove? Le ragazze, naturalmente, non ne sapevano nulla. Soprattutto le ragazze per bene non ne sapevano nulla. Non volevano sapere perché il semplice sapere certe cose significava essere contaminate. Era possibile pregare con la massima sincerità e foga per una persona afflitta (come Della Rae Duncan) e chiedere a Gesù Cristo di aiutarla senza sapere esattamente perché. Anzi, a dire il vero, non era meglio non saperlo? Ti potevi sentire in pena per quella persona, e generoso. Non dovevi ritrartene con un moto di disgusto. Un anno prima, all'incirca, era giunta notizia della morte in Vietnam di un fratello maggiore di Della Rae Duncan. Con il tempo, il suo nome sarebbe stato inciso, assieme a quello di altri "caduti" di Mt. Ephraim, su una lastra di granito di fronte all'ufficio postale. Si chiamava Dwight David Duncan ed era un soldato scelto dell'esercito americano, vent'anni al momento della morte. Dopo aver lasciato il liceo aveva lavorato per la Mulvaney Tetti e coperture. Quando apparve la sua foto sulla prima pagina del Mt. Ephraim Patriot-Ledger, papà esclamò: «Porca puttana! Dwight Duncan! Povero ragazzo!». Ci raccogliemmo attorno a lui a guardare la foto e leggere le colonne a stampa. Non conoscevamo Dwight David Duncan, ma il fatto che papà lo conoscesse, e fosse tanto sconvolto, ci diede l'impressione di averlo lì in cucina con noi; in cucina, dove persino i cani si muovevano incerti, preoccupati. Il soldato scelto Duncan era un ragazzo tarchiato, scuro di carnagione, con palpebre pesanti come quelle di Della Rae e capelli lisci e flosci, da indiano. Lo avevano fotografato in uniforme, con il berretto spinto all'indietro sulla testa, una sigaretta che gli penzolava dalle labbra. Papà ci raccontò che era un bravo ragazzo, un grande lavoratore, tranquillo, magari non troppo intelligente ma capace di eseguire gli ordini senza fare domande e senza lamentarsi. «Dio non voglia che Mikey Junior venga mai arruolato» sospirò. Una pausa, e poi papà aggiunse, come faceva sempre quando sfiorava l'argomento: «Comunque, è una guerra che bisogna combattere». Il che era come buttare un fiammifero acceso in una latta di benzina. Mamma disse: «Perché bisogna combatterla?». Papà disse: «Tesoro, ne abbiamo già parlato». Mamma disse: «Sì, però tu non cambi mai idea!». Papà, calmo, con una strizzata d'occhio a noi ragazzi, disse: «Be', tu non
cambi mai idea». A quel punto, mamma cominciava a passeggiare avanti e indietro, agitando le braccia, gli occhi colmi d'angoscia. Se in cucina c'era qualche gatto, scappavano tutti fuori a orecchie basse. Se c'era Stivaletti, il più ansioso dei cani, si metteva a danzare sul linoleum in punta d'unghie, uggiolando con il muso rivolto alle facce della padrona e del padrone di casa, vivide per lui come visi dipinti su palloncini. Mamma, che aveva tenuto sull'argomento discorsi improvvisati, balbettanti, a genitori, a riunioni di preghiera, all'Associazione genitori-insegnanti e a scuola, soffocava singhiozzi di frustrazione. Diceva che la guerra in Vietnam andava fermata, che entrambe le parti dovevano mettere fine al massacro, che cosa terribile, che tragedia. Un paese lacerato! I padri contro i figli! Come era accaduto a metà dell'Ottocento, quando la legge sugli schiavi fuggitivi aveva diviso il paese e c'erano stati quasi quattrocentomila morti, una legge così crudele, inumana, becera, e adesso in un'epoca più illuminata non si poteva pensare che i nostri leader avessero imparato dal passato? «Prima Kennedy, poi Johnson e adesso Nixon!» urlava mamma. «Quello che ci occorre per salvarci è un vero leader cristiano, prima che sia troppo tardi.» «Sì» diceva papà «però resta il fatto che bisogna combattere questa guerra.» «No, non è vero! Sbagli!» «Bisogna fermare i comunisti, punto e basta» diceva papà. Aveva un tono pacato e testardo. Il suo bel viso grosso brillava, i capelli ricci catturavano la luce del lampadario con uno scintillio oleoso, il colore dei trucioli. Non era alto, però era solido, imponente; sprizzava peso, autorevolezza. Bastava guardarlo per capire che se gli avessi dato uno spintone sul petto sarebbe rimasto immobile, saldo. «Come i nazisti, o anche peggio. Venti milioni di uomini, donne e bambini uccisi da Stalin e dai suoi boia! Ancor più milioni uccisi dal "presidente Mao" e dai suoi boia! No, amore, la guerra non si potrà fermare finché non ricacceremo indietro quei bastardi, e se anche uno dei miei figli dovesse indossare un'uniforme e andare a combattere...» «Come? Che cosa stai dicendo?» «Oppure, Dio non voglia, due dei miei figli...» «Due figli! Michael Mulvaney, sei impazzito?» «È una guerra che bisogna combattere. Punto e basta.» A volte mamma usciva di casa come una furia e si rifugiava in una stalla in cerca del conforto di stupidi animali, per usare la sua frase; a volte emi-
grava papà, a fumare una sigaretta all'aria aperta; oppure Stivaletti arrivava a un tale livello di eccitazione che mamma e papà dovevano mettersi assieme a calmarlo; oppure Piumotto si metteva a strillare, e tutti quanti si giravano verso la gabbia, stupefatti all'idea che una creatura così minuscola, più piccola della più piccola delle nostre mani, potesse fare tanto chiasso. Dei ragazzi Mulvaney, Mike Jr. era il patriota (anche se confessava di sperare "con tutta l'anima" di non venire arruolato dopo il diploma) e Patrick il dissidente, è chiaro. Anche se all'epoca aveva solo quattordici anni, un ragazzino dalla voce gracchiante, Patrick era un ammiratore di chiunque contestasse la guerra e aveva già detto che sarebbe fuggito in Canada come obiettore di coscienza, se necessario. Papà, minaccioso, replicava che era tutto da vedere, se mai fosse giunto il momento, Dio non volesse! Mamma torceva le mani e ribatteva vedi, vedi! Questa guerra sta lacerando le famiglie americane! Patrick, ebbro di sé, aveva l'abitudine di spingere gli occhiali all'insù contro la fronte, quasi sperando che si spezzassero, e annunciava di essere un pacifista: aveva letto Disobbedienza civile di Thoreau, non poteva versare sangue, nemmeno animale, figurarsi umano, e nessun mero potere politico avrebbe potuto fargli cambiare idea. Strano, però: Mike e Patrick non litigavano mai sull'argomento. Patrick sfuggiva ai confronti diretti con il fratello maggiore (che in effetti lo surclassava di una decina di chili) e Mike sembrava più che altro divertito da Patrick, a prescindere dalle focose frasi che uscivano dalle sue labbra. Mike non era tipo da discussioni sui concetti astratti. Tutte balle, per lui. Rideva e scrollava le spalle muscolose, un modo di fare di papà che significava Vivi e lascia vivere. In quel caso: Combatti e lascia combattere. La sua era la filosofia del giocatore affidabile: fai quello che fanno i tuoi compagni di squadra e non li tradisci. Marianne, rossa in volto come mamma, ma per istinto la pacificatrice della famiglia, diceva di odiare la guerra, ogni guerra, e di pregare che la guerra del Vietnam finisse presto, assieme a tutte le altre, per sempre. Dopodiché, nessuno si sarebbe più arrabbiato con qualcun altro, mai più. Judd, che aveva solo otto anni, teneva per sé le proprie idee. Sperava di entrare nell'Air Force non appena avesse avuto l'età e diventare un pilota di bombardieri. La foto del soldato scelto Dwight David Duncan sul Mt. Ephraim Patriot-Ledger venne ritagliata e appesa nella bacheca in cucina, dove ebbe il primo piano per mesi, presenza sorridente, che non accusava. Con il
tempo, venne coperta da nuovi arrivi: Polaroid, pagine a colori brillanti del Calendario della famiglia dal catalogo di semi Burpee di mamma. Mike Mulo Mulvaney, fullback nella squadra di football delle superiori di Mt. Ephraim che vinse il campionato nella stagione 71-72, era stato con alcuni compagni di squadra quella notte, ma non con i ragazzi che lo avevano fatto. Qualunque cosa avessero esattamente fatto. Con Della Rae Duncan. O a Della Rae Duncan. Se solo si fosse potuto credere a metà dei folli racconti che giravano! Si sa che i ragazzi esagerano. Ragazzi che nemmeno c'erano, Cristo santissimo. La notte dopo la partita e la grande festa per la vittoria, Mike non aveva l'automobile. Era con i suoi amici Frankie Kreigner, Brock Johnson, qualcun altro. Pigiati nella Cadillac del padre di Frankie, ed era vero che alcuni dei ragazzi avevano bevuto, si erano passati lattine di birra, anche una fiaschetta di vodka, il Wild Turkey del padre di qualcuno. Quindi forse i ragazzi violavano la legge perché bevevano su un veicolo a motore in movimento, ma solo da un punto di vista tecnico. Nessuno era ubriaco, comunque non Mulo Mulvaney, non molto. Non Frankie, che guidava. Mulo poteva essere a volte un tipo duro, un osso duro sul campo da gioco (l'allenatore non ti battezza Mulo per niente), ma godeva della reputazione di gran bravo ragazzo. Per nulla cattivo. Certo, ti centrava diritto al plesso solare con la spalla e ti sollevava da terra come un personaggio dei cartoni animati troppo stupito per sorprendersi prima dell'atterraggio, devastante, sulle chiappe, ma non era per fare del male, come certi ragazzi; era più per... fare colpo. Per portarti a capire che faceva sul serio. Così lo avresti rispettato. E la volta successiva gli saresti stato alla larga, se possibile. Ed era il tipo che poi ti aiutava a rialzarti, ti metteva una mano sulla spalla e ti diceva Bel gioco! Bel tentativo! Il giocatore più popolare della squadra, praticamente. Uno dei più belli. Un ragazzo per bene e anche, a conoscerlo un po' meglio, un cristiano. All'incirca. Sua madre Corinne Mulvaney era una devota frequentatrice di chiese, all'epoca membro della congregazione della Chiesa metodista unita di South Lebanon. Mulo, adesso che aveva un po' più di anni, andava sempre meno con Corinne e con gli altri alle funzioni religiose, però certe cose ti restano addosso. Nel profondo del cuore devi sapere che Fai agli altri
ciò che vorresti facessero a te è un'idea piena di buonsenso. Così cominciava a essere leggermente spaventato. Non molto, ma un poco. Trangugiare Molson tiepida assieme a vodka e whisky non lo aiutò. Dopo il grande party dai Maclntyre (la chicchissima casa in stile ranch sul campo da golf) si erano ammassati sulle automobili e si erano diretti alla fetida County Line Tavern, dove esisteva la possibilità, prospettiva che poi si rivelò infondata, di bere anche a tarda ora e trovare "ragazze". Poi giunse notizia che T-T Maclntyre aveva rimorchiato Della Rae Duncan, e la povera idiota era tanto scema e tanto sbronza da immaginare di piacergli, da credere che lui la volesse come ragazza fissa. La gang stava sul furgone di Jamie Klinger. Percorse la Route 119 fino al fiume, poi tornò a Mt. Ephraim. Fece un giro sulla Main Street dove tutto, alle due di notte passate, è morto: il Majestic, il Checkerboard Diner. Poi dentro il cimitero che sta dietro l'Iroquois. Fu lì che Frankie Kreigner li seguì. Però non entrò nel cimitero, si limitò a girare attorno. Mike Mulvaney disse: «Non sarebbe meglio dare un'occhiata? Magari le stanno facendo del male o chissà cosa». Dopo un po' disse, come un'implorazione: «Merda, Della Rae, quella povera ritardata, è come pescare pesci in un barile». Gli altri erano divisi. Forse sì, forse no. La situazione aveva qualcosa di eccitante. Sapevano che Della Rae stava facendo divertire i loro amici, o comunque lo immaginavano. Per quanto non volessero esattamente indagare. Della Rae era una porca ed era ubriaca fradicia e preferivi non pensare a certe cose, ma Mulo sentì il sangue corrergli nell'uccello come se qualcuno avesse aperto un rubinetto: di acqua calda. Per cui, alla fine, quello che fecero fu fare niente. Per il cimitero! sogghignavano i ragazzi dietro le mani. Ooh! Urrà per il cimitero! sentivano le ragazze, perplesse e vagamente imbarazzate. Evviva il cimitero! Avanti così! E i maschi si facevano il segno dei pacifisti, ridendo come matti. A volte sotto il naso degli insegnanti, e se l'insegnante era una donna, ci si divertiva ancora di più. Le ragazze non sapevano niente. Almeno, non le ragazze per bene. Per cui, spingere una di loro a chiedere: «Il cimitero? Perché?» era un colpo da maestro. Alla scuola, dove Della Rae studiava, le ragazze ne sapevano ancora meno. Le più intelligenti, le leader, le più popolari: Marianne Mulvaney, Suzi Quigley, Trisha LaPorte, Bonnie Sherman e la loro cricca. Erano cheerleader, ricoprivano cariche in classe (Marianne Mulvaney era segretaria),
facevano parte del Club teatrale, del Club francese, della Società letteraria Calamo & Carta, del coro. Si preparavano per l'Honors Degree. Erano attive nella Gioventù cristiana. Siccome erano brave ragazze ritenevano di non essere snob e gareggiavano tra loro per essere cordiali, gentili con gli studenti meno brillanti; i perdenti più patetici; come Della Rae Duncan e altri ragazzi del villaggio delle roulotte. I loro sorrisi erano monete d'oro versate senza avarizia nei corridoi della scuola, i loro Ciao! e Salve! e Come va? erano melodiosi come il canto degli uccelli a primavera. Fu solo dopo le vacanze di Natale, quando la scuola riaprì in gennaio, che Marianne Mulvaney girò un angolo nello spogliatoio femminile e vide, con notevole disagio, Della Rae Duncan. Seduta lì, a spalle afflosciate, su una panca, davanti al suo armadietto aperto. Gli occhi puntati sul pavimento. Il viso di Della Rae era gonfio e inasprito come quello di un'adulta. Le labbra si muovevano. I capelli unti si alzavano dalla testa a ciuffi rigidi. La lezione di ginnastica era cominciata dieci minuti prima, e all'appello Della Rae era risultata assente, però non aveva fretta, se ne stava lì raggomitolata in preda a una specie di torpore. Marianne, che teneva al proprio aspetto con tanta pignoleria, notò che Della Rae era parzialmente svestita: portava ampi calzoni da ginnastica gonfi attorno ai fianchi e un reggiseno logoro, di un grigio sporco (che seni enormi!), fermato da spille di sicurezza. La carne, che si presentava macchiata, coperta da una patina lucida, avvolta da un lezzo di sudore al talco, pareva sul punto di traboccare dagli indumenti. A quattordici anni, a dispetto delle pose sociali, Marianne era una ragazza timida; fisicamente timida; mai a proprio agio nello spogliatoio quando doveva denudarsi con le altre ragazze, e tanto meno nelle docce comuni. In chiesa il reverendo Appleby parlava in quel suo modo accalorato, passionale, a volte reticente dei peccati della carne come tentazioni per tutti noi, ma Marianne vedeva ben poche tentazioni. In casa, sarebbe rimasta mortificata dall'imbarazzo se solo sua madre l'avesse intravista in abbigliamento intimo. Troppo tardi per una ritirata. Della Rae l'aveva vista. Il delizioso viso di Marianne si illuminò del solito sorriso abbagliante. «Ciao, Della Rae!» Una voce da soprano, molto nobilmente caucasica. Gli occhi delle due ragazze si incontrarono. Tagliente come un coltello lo sguardo nero di Della Rae. Marianne si sentì immediatamente avvampare e il suo cuore si mise a correre come se le avessero sparato, come un uccello che si alza in volo per fuggire, però un uccello ferito, trasportato avanti dalla sua stessa acce-
lerazione, senza incertezze nel passo. Era tornata nello spogliatoio per prendere una confezione di Kleenex dall'armadietto ma non poteva restare in presenza dell'altra ragazza, non un istante di più! Batté in ritirata, continuando a sorridere con un doloroso sforzo di muscoli, mentre Della Rae Duncan la fissava con un odio per nulla celato. Ma perché io? Che cosa ti ho fatto? Qualunque cosa ti abbiano fatto, perché è colpa mia? Stordita, come l'avessero schiaffeggiata (lei, Marianne Mulvaney!), Marianne tornò in palestra, dove stava cominciando una partita di pallavolo. La signora Deltz, l'insegnante, le chiese se avesse visto Della Rae Duncan e Marianne annuì. La signora Deltz, una donna sulla trentina, piccola, filiforme, con capelli tra il biondo e il bianco, scrutò Marianne, una delle sue alunne predilette, con uno sguardo di cauta riservatezza. «Certa gente provoca più guai... Quel tipo di ragazza. Che tristezza!» Fu un mormorio, più un riflettere ad alta voce che una vera comunicazione verbale. Marianne fissò le proprie scarpe da ginnastica, di un bianco immacolato, i lacci bianchi perfettamente annodati, i calzini di lana bianca a coste. Non riuscì a trovare una sola parola da dire. Quel giorno Della Rae non si presentò alla lezione di ginnastica, e se qualcuna delle ragazze ne sentì la mancanza, nessuna aprì bocca. Provvidenza Bene, allora! Non credeteci se non volete. Io so che cos'è successo e so cos'è la verità e gli obiettivi di Dio non verranno alterati dal fatto che persone come noi credano o no. E noi ridevamo, protestando. Oh, mamma. Era il dicembre 1938, fra Natale e Capodanno. Corinne aveva sette anni. Sua madre, Ida Hausmann, guidava l'auto di famiglia con Corinne come unico passeggero, una vecchia Dodge scassata del 1931 che pareva un sottomarino affondato, grigia con pustole rosse di ruggine. Erano a metà circa del viaggio di ritorno dalla città di Ransomville, con sei o sette chilometri ancora da percorrere, ed era esplosa una tempesta, pioggia e nevischio e poi nevischio e neve, il cielo sopra l'orlo montuoso della valle di uno spaventoso nero bluastro con nubi come quelle facce gonfie e distorte che vedi quando cominci ad addormentarti, e il sole un occhio rosso incandescente come l'ultimo pezzo di carbone avvolto dalle fiamme al soffiare del
mantice del fabbro. (Il nonno Hausmann di Corinne era fabbro, oltre che agricoltore.) E si udiva un rumore strano, come l'aspro risucchio del mantice del vento, che leccava l'automobile inerme cercando di sollevarla da terra. Contro i desideri del marito (il signor Hausmann era parsimonioso con la benzina e con l'uso dell'auto di famiglia e non approvava i "salti" in città se non per scopi pratici come fare la spesa) la signora Hausmann si era avventurata su pessime strade di campagna per andare a trovare una sorella più anziana inferma che viveva a Ransomville; adesso, al ritorno, cominciava a essere presa dal panico per il modo in cui nevicava, una tormenta imprevista. La madre di Corinne era una di quelle donne soggette ai "nervi", "agitazioni" d'origine ignota, e nelle situazioni d'emergenza poteva assumere il controllo in maniera completa, come quando il fratello dodicenne di Corinne aveva perso diverse dita in un incidente di trebbiatura, oppure crollare completamente, mettendosi a parlare e gemere tra sé, pregare ad alta voce e scrollare la testa come stava facendo in quel momento, oh! non sarebbero mai arrivate a casa, se fossero rimaste bloccate nella neve non sarebbe mai riuscita a spalarla (nel bagagliaio c'era una pala proprio per quelle evenienze), perché era andata a trovare sua sorella, oh perché, perché! Le si inumidirono gli occhi, prese a battere rapidamente le palpebre. Corinne era incaricata di tenere pulito l'interno del parabrezza sul lato del conducente, nei punti in cui si appannava, passandoci sopra con i guanti, ma il vapore continuava a riformarsi e neve e particelle di ghiaccio si attaccavano all'esterno, e la signora Hausmann piangeva e rimbrottava Corinne come se fosse colpa della bambina. Corinne si considerava una ragazza grande, non una bambinetta spaventata e non piangeva facilmente, ma le scrollate che il vento dava all'automobile! e come la risucchiava! e la neve turbinava e correva verso di loro come un tunnel in cui dovevano lanciarsi, senza possibilità di scelta, perché tornare indietro era escluso. E i tergicristalli si muovevano sempre più lenti, incrostati di ghiaccio. E la signora Hausmann urlava Non ci vedo, Corinne ti ho detto di tenere puliti i vetri! E Corinne fregava frenetica il vetro, protendendosi sul volante, ma che cosa poteva fare? Il ghiaccio era fuori. E la signora Hausmann riusciva ad andare solo a una quindicina di chilometri l'ora, o meno. E a un ponte di tavole di legno sopra un torrente invisibile nel mulinare di materia bianca c'era una rampa talmente incrostata di ghiaccio che le ruote della Dodge nonostante le catene cominciarono a girare a vuoto, girare a vuoto, e la Dodge si mise a scivolare in-
dietro e la signora Hausmann pestò sull'acceleratore e l'automobile continuava ad andare indietro, poi il motore sputacchiò e morì. La signora Hausmann gridò quando l'auto cadde dalla rampa di legno e, con una sensazione orribilmente nauseante che Corinne avrebbe ricordato per l'intera vita, precipitarono rotolando in un canale di tre metri e mezzo a lato della strada. Dio ci aiuti! strillò la signora Hausmann. Dio aiuti la mia bambina e me! Non lasciarci morire! Può darsi che Dio abbia sentito e si sia impietosito: per buona sorte di madre e figlia, il fondo del canale era pieno di ghiaccio, non d'acqua. L'auto si raddrizzò e si fermò lentamente e scese il silenzio, tranne il vento e il sibilare della neve che era come una cosa viva, e malvagia. Corinne vide che la bocca della madre sanguinava e il suo cappello a cloche di lana nera, l'unico suo cappello buono, pendeva storto su un occhio, con il ramoscello di drupe d'agrifoglio rosso brillante di sbieco. Più tardi, la signora Hausmann avrebbe scoperto di avere due denti anteriori malfermi per l'impatto con il volante, ma al momento non se ne accorse, non ne ebbe il tempo. Ansimò, grugnì come un uomo per aprire a forza la portiera dal suo lato, spalancarla, e poi strisciò fuori, con grande difficoltà sulla neve gelida. La gonna pesante si alzò a rivelare cosce chiare come lardo e calze beige a rete, uno spettacolo che Corinne non aveva mai visto. Corinne! Prendi la mia mano! Sbrigati! urlò la signora Hausmann. Corinne afferrò la mano guantata della madre e scese dall'auto, nonostante l'orrore della situazione, con il cervello intorpidito. Penetrò in un gorgo di neve talmente violento da non riuscire quasi a vedere la madre, distante pochi centimetri. Poi si arrampicarono sull'argine in ginocchio, aiutandosi con le mani, fino alla strada che non sembrava più una strada, tanto era sommersa dalla neve. Rivoletti di ghiaccio presero a formarsi sui loro visi; le ciglia catturavano fiocchi di neve come fossero ragnatele vive, vibranti. Era un freddo al di là del freddo, nemmeno riuscivi a percepirlo: le dita dei piedi e delle mani si intorpidirono, i volti divennero gelati e fragili come ceramica. La signora Hausmann urlò a Corinne che sarebbero andate alla fattoria dei Gorner, lì vicino (non era lì vicino?), però sembrava confusa sulla direzione da prendere. Partì in un senso, per attraversare il ponte, poi si fermò di colpo e fece dietrofront, stringendo forte la mano di Corinne. Si tolse dal collo la sciarpa di lana e la avvolse attorno alla testa di Corinne, per proteggerla dai morsi del gelo. Non avere paura! Non avere paura! Mamma si prenderà cura di te. In seguito, ebbero l'impressione di avere camminato, di essersi trascinate
per molti chilometri, a testa bassa nel vento. Eppure non potevano avere fatto tanta strada. Camminavano in cerchio? Non era chiaro su quale lato del torrente si trovassero, la signora Hausmann non riusciva a ricordare. Non era nemmeno chiaro dove esattamente si trovasse la strada. Nell'aria c'era un suono alto, squillante, sopra i rintocchi del vento. Come una voce, ma le parole erano talmente strascicate da essere incomprensibili. Sembrava il ronzio di cavi dell'alta tensione, solo che non ne esistevano lungo la Ransomville Road: l'elettricità non era ancora giunta in quella remota parte della valle di Chautauqua. Corinne, non mollare! Resta con mamma! implorava la signora Hausmann. Non era mai stata una madre espansiva, o tanto meno calorosa. Aveva avuto quattro o cinque figli prima di Corinne, di cui solo due erano sopravvissuti, e chissà quanti aborti, "incidenti" come venivano succintamente definiti, mai chiaramente distinguibili da altri tipi di "problemi femminili", eppure adesso nella tormenta appariva a Corinne tanto amorevole! tanto amorevole! La stringeva forte, la rimbrottava e implorava, le soffiava in volto un caldo disperato fiato. Corinne aveva molto sonno, le sue palpebre volevano chiudersi. Le ginocchia sotto i calzoni pesanti di lana erano come acqua, senza ossa. Non aveva più paura e nemmeno freddo, avrebbe solo voluto sdraiarsi al riparo della neve e prendere la testa pesante tra le braccia e dormire, dormire. Ma sua madre continuava a scrollarla, a darle schiaffi in viso. Le labbra gonfie della madre brillavano nei punti in cui il sangue si era coagulato in ghiaccio. Dio aiutaci! pregava la signora Hausmann. Dio aiutaci! Non guiderò mai più quell'automobile e nessun'altra automobile, te lo giuro Dio. Ci fu allora un sinistro bagliore rosso acceso, come se il sole avesse levato l'ancora e fosse affondato nel terreno, spinto giù dal terribile vento. Si frantumò in una miriade di frammenti, scintille rosse piccole come lucciole. Ed erano proprio lucciole! La signora Hausmann vide con occhi appannati ciò che non poteva essere, ma era. Corinne, guarda! Un segno di Dio! Madre e figlia barcollarono verso le lucciole che le guidarono non dove sarebbero andate (giurò più tardi la signora Hausmann) ma in tutt'altra direzione, e così salvarono le loro vite. Perché nel giro di cinque minuti davanti a loro, in mezzo alla tormenta, apparve una forma scura: la scuola! La scuola fatta di un'unica stanza che Corinne frequentava, chiusa per le vacanze natalizie. La signora Hausmann non ebbe il tempo di chiedersi come avessero fatto a trovare la scuola, perché in effetti non stavano andando nella direzione opposta? ma le lucciole le guidarono a scintillii intermittenti, quasi invisibili, danzando diversi metri davanti a loro, emettendo anche
(così sembrava) quello strano suono alto e melodico che doveva essere una voce di Dio, troppo pura per l'orecchio umano. Alla scuola, la signora Hausmann prese un sasso e lo scagliò contro una finestra con la poca forza che aveva, e il vetro si ruppe; e lei e Corinne strisciarono all'interno dalla finestra, strappandosi gli abiti sulle schegge rimaste sul telaio tanto erano stordite, intontite, però si trovarono finalmente al chiuso, in un rifugio, ansanti e singhiozzanti di sollievo. Dentro regnavano il gelo e un buio da grotta, ma la signora Hausmann individuò la stufa a legna e Corinne trovò la scatoletta che conteneva i fiammiferi da cucina della sua insegnante, e la signora Hausmann riuscì, con dita intirizzite e tremanti, ad accendere il fuoco, e così furono salve. Sarebbero state recuperate solo ventiquattro ore dopo, da una squadra di soccorso dello sceriffo che scortava lo spazzaneve sulla Ransomville Road, ma da quel momento in poi, come disse la signora Hausmann, le due furono nel seno del Signore. Quel giorno, un'altra persona meno fortunata che viaggiava sulla stessa strada, un vicino degli Hausmann, morì congelato: il suo furgone si era fermato e lui aveva cercato un rifugio. Su un'autostrada della contea, una giovane coppia abbandonò l'automobile alla tempesta e si avviò coraggiosamente a piedi. Si persero e si rifugiarono in un canale d'irrigazione per sfuggire al vento; l'uomo si coricò sopra la donna e la salvò dal congelamento, e anche lui sopravvisse, però non molto bene, perché gli dovettero amputare entrambe le gambe all'altezza delle ginocchia. E molti capi di bestiame morirono nella valle, intrappolati all'aperto quando la tormenta si abbatté su di loro. Si disse che dal cielo piovvero anatre canadesi trasformate in ghiaccio, quasi fossero state abbattute dai cacciatori. Persino nelle città di Ransomville, Milford, Chautauqua Falls e Mt. Ephraim ci furono morti e quasi morti. Lo Yewville gelò tanto da sgelarsi solo alla fine d'aprile. La neve continuò per mesi, sino a primavera avanzata, una neve dalla crosta innaturalmente dura, amara e acida al gusto. Nascose i cadaveri di una miriade di creature selvatiche, rivelati solo al disgelo. Ma la signora Hausmann e Corinne vennero risparmiate, e da allora lo spirito di Dio dimorò per sempre nei loro cuori. Per questo amo tanto le lucciole diceva Corinne, con occhi lucidi da bambina di sette anni. Hanno salvato la vita a mamma e a me. **
E alcuni di noi si mettevano a ridere. Oh, mamma! E mamma si infuriava, veloce come un gatto che si gira di colpo a lanciare un sibilo se lo prendi contropelo. «Piantatela con quegli Oh, mamma! Ricordo quel giorno alla perfezione come fosse stato la settimana scorsa, non trentotto anni fa. Sì, e vedo quelle lucciole esattamente come vedo voi.» Papà, Mikey Junior e Patrick cercavano di mantenere espressioni serie. La storia di nonna Hausmann e mamma a sette anni, sperdute in una tormenta sulla Ransomville Road, era una delle più vecchie storie della famiglia Mulvaney ma tutti noi, crescendo (tranne Marianne, è ovvio: lei difendeva sempre mamma), finimmo per chiederci quanto fosse accurata. L'imbarazzo maggiore era quando mamma la raccontava a persone che conosceva appena, come il mio insegnante di matematica in terza media, il signor Cole, o certe signore in cui si imbatteva all'Associazione agricoltori, o nostri amici che passavano la notte alla fattoria: Dio che veglia su di noi, la vita di mamma cambiata per sempre da un atto di "provvidenza". Il solo modo di mamma di pronunciare quella parola: provvidenza. Vedevi un'alta colonna di marmo nero con una croce in cima. Vedevi un cielo azzurro tanto vasto e profondo da poterci cadere per sempre. Così papà non riusciva a trattenersi dal commentare, con la mano sulle labbra, con una strizzatina d'occhi che gli sollevava metà faccia, che il fatto che sua suocera Ida Hausmann non avesse mai più guidato alcun veicolo era senza dubbio un atto di provvidenza: «Quella sì è stata una benedizione di Dio, sissignore!». Per noi ragazzi, che l'avevamo conosciuta solo come una nervosissima, piagnucolosa, grigia vecchietta con occhiali dalle lenti spesse così, l'idea di nonna Hausmann alla guida di un veicolo era ridicola. Ma mamma teneva duro. Mamma era testarda, ed eloquente. In tono ferito, colmo di dignità, diceva che sua madre era una donna di campagna di vecchio stampo, nata in Germania e portata in America a meno di un anno d'età; era sempre stata una luterana con i piedi per terra, non certo incline a crisi di misticismo religioso; quando persone simili si trovano di fronte a una verità che sanno vera, non cambiano più idea, mai. Mamma diceva che per capire certe cose devi provare certe cose. Come chi va a esplorare l'Antartide, o la luna: dopo che hai messo piede in un posto del genere, non dubiterai mai più che esista. Come partorire: di quello, dopo una sola esperienza, non dubiterai mai. «Se lo hai fatto, sai. Se non lo hai fatto, non sai.» Mamma sorrideva beata e puntava il suo limpido sguardo azzurro su
tutti noi, uno dopo l'altro, finché cominciavamo a innervosirci. Anche papà. Perché era quello l'asso nella manica di mamma: era la madre, e possedeva un'autorità misteriosa e indiscussa. Papà era il boss, ma mamma era il potere. Mamma nella sua salopette lercia di letame oppure, nella stagione calda, con la maglietta del liceo e i calzoncini cachi, un vecchio maglione di papà con le maniche rimboccate sopra i gomiti, gli stivali che chiamava "stivali da combattimento", oppure i sandali di pelle in stile hippie che portava con i calzini di cotone. Mamma con i capelli crespi che al sole proiettavano un luminoso color carota. Il sorriso di mamma che poteva essere dolce e scherzoso, oppure inacidirsi nella sua espressione all'aceto; la risata cavallina che faceva venire a tutti la voglia di ridere al solo sentirla. Eccomi qui, una donna divertente e un po' sciocca, una donna qualunque, una mamma da telefilm, però Dio ha toccato ugualmente la mia vita. Mike Jr., il più simile a papà, poteva scherzare, audacemente: «Ehi, mamma, e cosa mi dici di Ciambella?». (Uno dei gatti da granaio.) «Lei ha avuto trenta micini. Questo che razza di autorità la rende?» E mamma ribatteva, veloce come al ping pong, perché era abilissima nel rispondere a un servizio assassino: «La rende un'autorità sui micini». E ridevamo tutti, mamma compresa. Però restava il fatto che era nostra madre. Di tutti noi, il più scettico sulla storia della tempesta e delle lucciole era sempre Patrick. (Forse perché, più intelligente di tutti, voleva credere con tanta forza?) Aveva un modo tutto suo di appoggiare i gomiti sul tavolo (quello di cucina, perché facilmente ci trovavamo lì), sporgere in fuori il labbro inferiore, la sua posa di guerra al Club del dibattito a scuola, e dire: «Oh, mamma! E dài. Facciamo un'analisi razionale. Non potevano essere lucciole in una tormenta a dicembre. Per favore». E mamma, con le guance imporporate, ribatteva: «Allora che cos'erano, mister Socrate? Io c'ero, e ho visto. So riconoscere una lucciola se ne vedo una». «Come faccio a sapere che cosa fossero?» protestava Patrick. «Può essere stata un'allucinazione.» «Di tutte e due? Mamma e me? Un'allucinazione identica nello stesso identico momento?» Mamma, esasperata, si protendeva sul tavolo verso Patrick. «Esiste un fenomeno noto come isterismo collettivo» diceva Patrick, sussiegoso. «Il potere della suggestione e del desiderio. La mente umana
è... be', proprio bizzarra.» «Parla per la tua "mente umana"! La mia è normalissima.» Mamma rideva, però dal luccichio negli occhi si vedeva che era imbronciata. Ma Patrick insisteva. Mike poteva tirargli un calcio alla caviglia sotto il tavolo, Marianne poteva assestargli una gomitata e dire: «Pizzicotto!» in tono scherzoso, ma Patrick era incapace di fermarsi. C'era qualcosa di meraviglioso nell'incandescente fastidio dei suoi occhi, soprattutto quello matto. «Okay, mamma, però rifletti. Perché mai Dio avrebbe scatenato una tormenta che ha quasi ucciso te e tua madre, per poi salvarvi mandando "lucciole"? Ha senso?» Gli occhiali di Patrick vibravano d'urgenza adolescenziale. La sua voce crepitava come una radio assediata da scariche. Era un teenager americano che voleva che le cose avessero un senso. «E le altre persone che sono morte quel giorno, in quella tormenta? Perché Dio ha dato la preferenza a te e alla nonna? Che cosa avevate di tanto speciale?» Quello era l'asso nella manica di Patrick. Lo buttava sul tavolo in raggiante trionfo. A quel punto, mamma era rossa in volto a un livello pericoloso: il colore scarlatto che a volte ti si dipinge in viso senza che nemmeno tu te ne accorga, se hai lavorato nelle stalle in una giornata di caldo soffocante, anche se hai evitato il sole. Le sue mani sussultavano come uccelli feriti, le parole uscivano a spezzoni dalle labbra. Tutti noi, anche papà, ci concentravamo, ci chiedevamo come sarebbe riuscita mamma a rispondere alla sfida di Patrick, a zittire i suoi dubbi, e i nostri, per sempre. Maledetto Pizzicotto! Avrei voluto dargli un cazzotto su quella boccaccia da sapientone che ci metteva tutti in ansia dopo la cena domenicale (le sere di domenica erano sempre occasioni da "supersformato", il che significava che mamma e Marianne creavano, con gli avanzi del frigorifero, deliziose combinazioni uniche, irripetibili), con cani e gatti che nei rispettivi angoli ingurgitavano resti di cibo, ansiosi anche loro, in preda al nervosismo animale che si manifesta in un rapace appetito, nei musi immersi nelle ciotole. E a quel punto Piumotto si risvegliava dal suo sonnellino della prima sera per rimbrottare, chiacchierare, cinguettare con suoni acuti come i denti di una forchetta strisciati sul vetro. Patrick non si accorgeva dello sconvolgimento che aveva provocato. Si tendeva in avanti, con la spina dorsale ben in rilievo sotto la camicia, spingeva all'insù lungo il naso gli occhialini alla John Lennon e aggrottava le sopracciglia in modo da scrutare mamma come fosse un esemplare da laboratorio, una delle povere sfortunate falene che inchiodava
al polistirolo nella sua stanza. Corinne raddrizzava le spalle, buttava la testa all'indietro. Comunque fosse vestita, a prescindere dallo stato di disordine dei suoi capelli, parlava con calma, con dignità. Sempre mantenere la dignità: era l'ordine perenne di Capitan Mulvaney alle sue truppe. «Credo quello che Dio mi chiede di credere, Patrick. Non Gli chiederei di spiegare i Suoi motivi più di quanto voglia sentirmi chiedere da qualcuno di voi perché vi amo.» Mamma faceva una pausa, si asciugava gli occhi. I nostri cuori battevano come metronomi. «È stato un atto provvidenziale, e lo è ancora, essere risparmiata dalla morte nel 1938, affinché...» e qui mamma faceva un'altra pausa, inspirava profondamente. I suoi occhi, soffusi di una lucentezza speciale, scrutavano a uno a uno i membri della famiglia, ci guardavano con quel folle amore senza confini, e in momenti simili il mio cuore si contraeva come se la donna che era mia madre mi avesse infilato le dita nel costato per afferrarlo, come si può tenere nel palmo un passerotto tremante per dargli conforto. «Affinché voi figli, Mike, Patrick, Marianne e Judd, poteste nascere.» E noi sospiravamo, e ci beavamo in quella consapevolezza. Anche Pizzicotto, che si mordeva il labbro e si accigliava ancora di più. Sì, aveva senso, sì, era la nostra verità. Papà sorrideva e annuiva per comunicare il suo assenso. Al diavolo, sì: provvidenza. Fragole & panna Quel pomeriggio di domenica, di sopra nella sua stanza, Marianne svuotò metodicamente la borsa di tutto, tranne il vestito di raso del ballo. Le sue dita erano cieche e intorpidite, ma efficienti. Poi chiuse la cerniera della borsa e la appese nell'angolo più lontano dell'armadio, sotto il soffitto spiovente. Sempre mantenere la dignità. Aveva trascorso l'intera vita a High Point Farm, nella grande vecchia casa. Quello che cominciò a darle sui nervi fu il suono familiare del ticchettio degli orologi. Orologi per misurare il tempo, si sarebbe pensato. Si sarebbe detto che esistesse un unico tempo e che tutti quegli orologi, e quelli che i Mulvaney portavano al polso, fossero presi dall'impegno di scandirlo con il loro tic-
tac. Per cui in ogni stanza bastava dare un'occhiata a una parete, o una mensola, o un tavolo e avere la certezza di una corretta misurazione del tempo. Solo che ovviamente non era così. Non a High Point Farm, dove Corinne Mulvaney collezionava "antichi" orologi americani. Anzi, nemmeno li collezionava. «Più che altro, quelle maledette cose si accumulano» si lamentava Michael Mulvaney Sr. Per cui a High Point Farm non esisteva il tempo ma i tempi. Tanti tempi quanti erano gli orologi, distinti e disorientanti e combattivi. Quando l'orologio "banjo" del 1850 circa che stava nel corridoio d'ingresso, dipinto a mano, batteva le sei con i suoi rintocchi musicali, la pendola "neogotica" del 1889 sul pianerottolo del primo piano si schiariva la gola preparandosi ad annunciare l'una e un quarto. Sulla mensola in salotto c'erano un orologio "a campanile" della valle di Chautauqua (1890 circa) e una pendola in legno di noce con decorazioni in stile olandese (1850 circa), l'uno quasi sul punto di rintoccare le nove e l'altra che scampanava con sussiego le undici e mezzo. Nella stanza per le riunioni di famiglia c'era un rozzo orologio (1850 e dintorni) con carica da otto giorni e un'aquila in ottone in cima che batteva ora, mezz'ora e quarto d'ora a ritmo jazz; in sala da pranzo, un orologio da mensola in pino chiaro con una scena fluviale dipinta (e ormai piuttosto sbiadita) sulla cassa in vetro, del 1870 circa, e una delicata pendola in mogano della valle di Chautauqua di fine secolo, dallo scampanio etereo. Sparsi nel resto della casa c'erano altri numerosi orologi antichi di Corinne, ognuno un tesoro, un affare, un trionfo particolare. Quando mancava un eccesso di competizione da altre fonti sonore come radio, televisione, audiocassette, dischi, voci ad alto volume o abbaiare di cani, ci si poteva aggirare in casa in una trance di tic-tac-tictac. Ovviamente, parecchi orologi, compresi i più belli, avevano smesso del tutto di ticchettare da tempo. I loro pendoli non si muovevano da anni; le snelle lancette nere che indicavano numeri neri si erano arrestate per l'eternità in misteriosi, fatali momenti. Si sarebbe pensato che il tempo si fosse fermato. Ma sarebbe stato uno sbaglio. Marianne aveva sempre amato gli orologi di High Point Farm. Credeva che tutte le case fossero come la sua. Tanti orologi che ticchettavano i propri singoli tempi. Che battevano l'ora, la mezz'ora, il quarto d'ora quando volevano. Le amiche che andavano a trovarla chiedevano: «Come fai a sapere qual è il tempo reale?» e Marianne rideva: «Oh, il tempo reale sta in
cucina. L'orologio elettrico di papà». Portava le amiche nella grande cucina di campagna dove, sulla mensola del caminetto, c'era un orologio General Electric tondo, a forma di sole raggiante, con grandi lancette nere e numeri neri in rilievo e un lieve ronzio da fare saltare i nervi, come un digrignare di denti. Era stato regalato a papà per il suo quarantacinquesimo compleanno dal circolo del poker. I pokeristi del circolo erano uomini d'affari e commercianti locali e l'atteggiamento prevalente tra loro era di bonaria canzonatura. Visto che Michael Mulvaney Sr. era noto per arrivare in ritardo in molte occasioni, comprese le serate di poker che erano tanto importanti per lui, il regalo di un orologio era significativo. In ogni caso, lì stava il tempo "reale" di High Point Farm. Tranne, ovviamente, come amava sottolineare mamma, quando mancava l'elettricità. Nella camera di Marianne c'erano diversi altri orologi di mamma, dei quali uno solo "registrava il tempo", in modo capriccioso: un piccolo orologio da mensola in ceramica color panna con ghirlande di minuscoli boccioli di rosa dipinti, pendolo dorato e lancette delicate, una voce che era come il più dolce richiamo d'uccello. Era di inizio secolo, un vero pezzo d'antiquariato, insisteva mamma. Ma naturalmente non ci si poteva fidare del suo tempo, così Marianne teneva una sveglia a molla con quadrante di plastica, lancette luminose verdi e numeri che brillavano al buio. Per cinque sere a settimana Marianne puntava la sveglia sulle sei, anche se da anni non aveva più bisogno di un segnale acustico per svegliarsi. Persino nel buio più nero dell'inverno. Quel giorno afferrò bruscamente l'orologio e avrebbe voluto seppellirlo sotto il cuscino per tacitare il tranquillo tic-tac-tictac. Ma ovviamente non lo fece. Che cosa avrebbe risolto? E c'era il suo orologio da polso, il suo bell'orologio, un Seiko a batteria in oro bianco con numeretti blu, un regalo di mamma e papà per il suo sedicesimo compleanno. Se lo era tolto appena rientrata a casa. Non lo aveva esaminato troppo bene, sapendo, o immaginando, che il cristallo era crepato. Quante volte, ossessivamente, aveva passato il pollice sul cristallo, tastando la minuscola crepa. Ma non l'aveva guardata. E se il leggerissimo ticchettio si era fermato, non lo voleva sapere. Non era una ragazza abituata a pensare, calcolare, pianificare. Il concetto di pianificare un'azione per poterla suddividere in piccole, caute fasi, che Patrick avrebbe trovato eccitante, confondeva Marianne. Nel suo cervello
ci furono come delle scariche. Ma ecco la verità: Mt. Ephraim era una città talmente piccola che se avesse portato l'orologio alla gioielleria Birchett, dove era stato acquistato, il signor Birchett avrebbe potuto accennarne con il padre o la madre di Marianne, se li avesse incontrati. Ne avrebbe parlato in tono casuale, normalissimo. E se lei avesse smesso di portare l'orologio papà, che aveva occhi di falco, lo avrebbe notato. C'erano altri orologiai nella zona, per esempio a Eastgate, ma come arrivarci? Riflettendo sul problema, Marianne si sentì affaticata. Forse la mossa più saggia era continuare a portare l'orologio come se nulla fosse, perché se non lo avesse esaminato da vicino tutto sarebbe stato a posto. Patrick avrebbe intuito, se non lo aveva già fatto. La spaventava con la sua capacità di vedere ciò che era invisibile. La sua mente funzionava come una calcolatrice: un'addizione veloce come il mercurio, una risposta immediata. Non le aveva chiesto molto della sera prima perché sapeva. Disgustato di lei, si era irrigidito nella propria consapevolezza. Non una parola su Austin Weidman. Come mai il tuo accompagnatore non ti riporta a casa? In circostanze normali, suo fratello l'avrebbe presa in giro, ma quelle non erano circostanze normali. L'occhiata tagliente che le aveva rivolto, fuori, quando le era caduta la borsa sulla neve. E lei aveva mormorato in fretta, vergognandosi, tutto bene, la tengo, tutto bene. E Patrick se n'era andato, senza un'altra parola. Sai che vuoi farlo, Marìanne. Perché saresti venuta con me se non avessi voluto? Non ti farò del male, Cristo. E dài! Nessuno fa giochetti con me. Ed ecco una stranezza che avrebbe ricordato: quando era entrata nella sua stanza, che era esattamente come l'aveva lasciata il giorno prima, eppure irrimediabilmente cambiata, aveva capito per quanto tempo ne fosse stata lontana, e a quale distanza. Come se fosse uscita e ora non potesse tornare. Anche mentre, torpida, entrava, chiudeva la porta. «Focaccina! Ciao.» Il gatto che preferiva tra tutti, Focaccina, grasso, bianchissimo con macchie variegate, pisolava appallottolato su un cuscino del letto. Si mosse, batté le palpebre e la fissò. Lontana per tanto tempo, e a una tale distanza.
Aprì la borsa e tolse il completo da toilette, le scarpette di raso color panna adesso sporchissime, vari articoli di biancheria intima e le calze beige chiaro strappate, mise tutto tranne il completo da toilette sul fondo del cestino dei rifiuti senza esaminare nulla. (Il cestino era in vimini dipinto di bianco, foderato con un sacco di plastica per svuotarlo con maggiore comodità; lei stessa avrebbe versato tutto nel bidone della spazzatura di lì a pochi giorni, come sempre. Nessuno in famiglia avrebbe avuto occasione di vedere che cosa buttasse, o tanto meno di chiedersi perché.) Non tolse dalla borsa il vestito spiegazzato di raso e chiffon. Non gli diede una sola occhiata, non lo toccò. Richiuse subito la cerniera e appese la borsa nell'angolo più lontano dell'armadio, sotto il soffitto spiovente. Poi risistemò i vestiti sugli appendiabiti, non proprio per nascondere la borsa ma semplicemente perché non fosse la prima cosa che vedeva quando apriva l'armadio. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! Uno dei detti giocosi di Corinne. Senza una sola sillaba d'ironia, perché l'ironia non era nella natura di Corinne. Nell'armadio, tre camicette di cotone bianco da cheerleader su appendiabiti in fil di ferro. Maniche lunghe, bottoni doppi ai polsini. Se eri una cheerleader del liceo di Mt. Ephraim, il che era normalmente ritenuto il più ambito onore per le ragazze, eri tenuta ad acquistarti le tue camicette e i gonnellini di lana marrone e mantenere quei capi d'abbigliamento in condizioni impeccabili. Le gonne ovviamente venivano lavate a secco ma Marianne lavava le bluse con le proprie mani, spruzzava l'appretto e le stirava con amore. Inspirando il buon, familiare, consolante profumo di bianco. Che in quel momento si chinò per inalare. Chiuse gli occhi. Ti adoro in quel costume da ragazza pon-pon. Venerdì scorso. Tu non mi hai visto, immagino. Ma io c'ero. Corinne era così divertente! Come una mamma da telefilm. Raccontava storie su se stessa alla famiglia, o a parenti, o ad amici, persino a persone che conosceva poco e aveva appena incontrato. Quanto le sarebbe piaciuto essere una casalinga, una normale casalinga americana, pazza per i figli; in cuor suo amava i lavori di casa, per esempio stirare («Calma e rappacifica i nervi, no?»), però a metà della stiratura veniva distratta da una telefonata, o da un cane o un gatto che richiedevano attenzioni, o da uno dei ragazzi, o da qualcosa che succedeva fuori, così lasciava l'asse da stiro per poi essere rudemente richiamata dal terribile puzzo di bruciato. «È mia figlia la vera donna di casa. Germoglio adora stirare.»
Non era esattamente vero, ma quasi. Quando aveva dieci o undici anni, Marianne aveva cominciato con orgoglio a stirare dapprima i fazzoletti di papà, poi le sue camicie sportive, che non richiedevano un'abilità eccessiva, e infine le sue camicie bianche di cotone, che la richiedevano. E ovviamente le proprie bluse di cotone. Come cucire, anche stirare può essere meditazione: un periodo di interiorità, riflessione, preghiera. Non che lo raccontasse alle amiche, avrebbero riso di lei. Con tenerezza, con affetto. Oh, Germoglio! Persino Trisha, che era a sua volta una gran brava ragazza. Lui aveva detto che a Mt. Ephraim non c'era nessuno con cui parlare di cose serie. Tranne lei. Dio esiste? A Dio importa un qualche accidenti di noi, gli interessa che viviamo o moriamo? Marianne non ricordava quando lui lo avesse detto, o chiesto. Se fosse stato prima di lasciare il party dei Krauss o dopo, dai Paxton. Se prima o dopo i cocktail "al succo d'arancia". L'aroma fruttato pungente, delizioso che le aderiva al palato. A volte mi sveglio nel cuore della notte, sai. E ho tanta paura, quasi mi viene da urlare qualcosa di assurdo, pazzesco... Perché mi riduci in questo stato, Dio? Che senso ha? I suoi occhi seri, umidi, dalle palpebre pesanti. Ad alcune ragazze parevano begli occhi ma Marianne evitava di incontrarli, scrutarli in maniera troppo evidente. L'accelerazione del suo respiro, il fiato di liquore dolce. Il calore della sua pelle che era piuttosto chiara, giallastra. Dalle labbra di Marianne era sfuggita una risatina acuta che non sembrava sua, sembrava appartenere a un'anonima, indistinguibile ragazza immersa nella sera, tra una casa e l'altra, sull'auto di un ragazzo oppure a barcollare ebbra sui tacchi alti tra le automobili, con il cappotto sbottonato, nell'ondeggiare indistinto dei fari. Oh Zachary che modo di parlare con Dio! Marianne chiuse l'anta dell'armadio con un colpo secco. Il gatto si strusciava contro le sue caviglie in un'estasi languida. Sembrava intuire, o addirittura sapere. Quanto tempo lei fosse stata lontana, e a quale distanza. Quanto aleatorio il suo ritorno. Provvisorio. Lei si chinò, lo strinse a sé. Che gatto grosso, robusto! Fratello di Maschiaccio, però più pesante, più morbido. Testa rotonda come un cavolo. Lunghe vibrisse bianche si irradiavano dal muso, rigide come setole di
spazzola, e vibranti. Le sue fusa erano gutturali, crepitavano come elettricità statica. Da piccolo dormiva in grembo a Marianne mentre lei faceva i compiti al suo tavolo, o era coricata sul letto a parlare al telefono, o leggeva, o guardava la televisione a pianterreno. La seguiva ovunque, chiamandola con fiochi, ansiosi miao? trottandole dietro come un cagnolino. Marianne lo coccolò e gli grattò le orecchie, e lo fissò negli occhi. Occhi amorosi che non giudicavano. Ignari. Le strane fessure nere delle pupille, quasi spaventose. «Focaccina, sto bene! Rimettiti a dormire.» Andò in bagno. Stava usando il bagno quasi ogni mezz'ora; la vescica pizzicava e bruciava. Ma c'era l'insensibilità, come una nube. Chiuse la porta a chiave, usò il bagno, la vecchia tazza di un bianco ceramica sporco: gli impianti idraulici di High Point Farm avevano bisogno di un "riammodernamento", come lo chiamava Corinne, soprattutto i bagni. Però papà aveva messo graziose mattonelle di plastica che simulavano il mattone, di un ricco rosso-castano, e il mobile del lavello era ragionevolmente nuovo, un giallo smorzato con la rubinetteria di Sears. E sulle pareti, come in quasi tutte le stanze di High Point Farm, foto in cornice della famiglia: a cavallo, in bicicletta, con cani, gatti, amici e parenti, il robusto Mikey Junior che faceva il clown davanti all'obiettivo nella toga da neodiplomato ruotando il tocco su un indice, un Patrick pelle e ossa, all'epoca delle medie, che si tuffava dal trampolino più alto del lago di Wolf's Head, immortalato all'apogeo di quello che pareva un salto mortale all'indietro, forse un doppio salto mortale. C'era Germoglio, Germoglio che sorrideva alla macchina fotografica che la adorava, quante volte Germoglio aveva sorriso alla macchina fotografica che la adorava; ma Marianne, sussultando mentre abbassava i jeans, le mutande, e appoggiava il corpo insensibile all'asse del water, non la cercò. «Oh! Oh.» Come a volte, non spesso ma a volte, le accadeva di gemere nello sforzo di dolorosi movimenti dell'intestino, in un improvviso lampo di sensazioni quasi troppo forti per riuscire a esprimerle, anche in quel momento il suono uscì a forza dai suoi denti stretti: «Oh Dio! Oh Gesù!». Sembrava timorosa di deporre del tutto il peso del suo corpo; le tremavano le gambe. Il dolore era netto e rapido come la lama di un coltello infilata dal basso dentro di lei. Non ti ho fatto male, volevi farlo. Smettila di piangere. Non fare giochetti con me, okay?
Non sono il tipo di ragazzo con il quale farai i tuoi giochetti. Quando tentò di orinare, dapprima non ci riuscì. Riprovò, e finalmente uscì un rivolo, esiguo ma cocente, caldo tra le gambe. Non osò abbassare gli occhi su se stessa nel timore di vedere qualcosa che non avrebbe voluto vedere. Che aveva già intravisto, con occhiate sfuggenti rubate a casa dei LaPorte, sotto lo scorrere dell'acqua calda in una vasca. Il dolore si smorzava, l'intorpidimento tornava come una nube. Quando tirò l'acqua, vide piccole scie, sottili vermi di sangue. Ecco che cos'era, allora! Il suo periodo. Ma certo, il suo periodo. Così ne aveva parlato mamma la prima volta, calorosa e materna e decisa a non essere imbarazzata: il tuo periodo. Era routine, e Marianne reagiva bene alla routine. Come quasi tutti i Mulvaney, e i cani, i gatti, i cavalli, il bestiame. Puoi rifare quello che hai già fatto, certo che lo puoi rifare più di una volta, ancora e ancora. Non c'è bisogno di pensarci molto. Comunque, a Marianne tremavano le mani, alla prima vista del sangue mestruale si sentì quasi svenire, in preda a un lieve panico; ricordò il suo primo periodo, nell'estate del tredicesimo compleanno, la paura che aveva provato nonostante la dolcezza, la sollecitudine di Corinne. Sto bene. Mi prenderò cura di me. Nel cassetto del cassettone, una scorta di "sottili maxiassorbenti igienici" e mutandine aderenti di nylon con fasce elastiche. Si rese conto di avere i crampi da ore. La sensazione di un nodo alla bocca dello stomaco che aveva cercato di ignorare finché era diventato impossibile. E un'emicrania in arrivo: un dolore rimbombante, come se tenaglie le stringessero le tempie. Soltanto routine. La routine si può affrontare. Chiedere di essere esentata dalla lezione di ginnastica il giorno dopo, una lezione di nuoto alla quinta ora. Dopo la scuola sarebbe andata all'allenamento delle cheerleader ma forse non avrebbe partecipato; sarebbe dipeso dai crampi, dall'emicrania. A ginnastica o alle riunioni delle ragazze pon-pon c'era sempre qualcuna, a volte anche parecchie, che chiedeva l'esonero per quel giorno, spiegando con un'imbarazzata scrollata di spalle di avere il proprio periodo. Alcune ragazze con il boyfriend fisso lasciavano persino intendere, o informavano esplicitamente il boyfriend, di avere il periodo. Marianne non sapeva immaginare tanta franchezza, tanta intimità. Non era mai stata così vicina a un ragazzo, aveva avuto innumerevoli amici ma pochissimi boy-
friend, con tutto ciò che quel termine implicava di speciale, di possessivo. Dividere segreti. No, nemmeno con i fratelli, nemmeno con Patrick che adorava. Le bruciavano le guance al solo pensiero. Il suo corpo era suo, un io privato. Soltanto Corinne poteva essere informata di certe cose ma non sempre, nemmeno Corinne, nemmeno mamma. Fece scendere altre due pastiglie di aspirina nel palmo sudato, le buttò giù con un sorso d'acqua del rubinetto del bagno. Nell'armadietto dei medicinali c'erano molti vecchi flaconi, alcuni lì da anni, di Corinne, di Michael Sr. Ce n'era uno che conteneva le pillole di codeina che papà aveva cominciato a prendere qualche mese prima, quando il dentista stava lavorando su un canale radicolare, ma alla fine le aveva lasciate perdere, disgustato. «Non c'è niente di peggio dell'avere la testa confusa.» Be', no. Marianne pensava ci potesse essere molto di peggio. Però prese solo l'aspirina. Il suo era solo un problema di routine e lo avrebbe gestito con misure di routine. Segnò la data, il 15 febbraio, sul suo calendario dei gatti. Era stata un maschiaccio, la ragazza definita Deliziosa-come-ungermoglio. Era uscita da una finestra all'ultimo piano e si era messa a correre in punta di piedi sul ripido tetto incatramato del portico posteriore, salutando birichina Mulo e P.J. che stavano sotto. I suoi fratelli erano a petto nudo, abbronzati; Mulo sulla rumorosa falciatrice Toro, P.J. a raccogliere detriti con il rastrello. Guarda chi c'è sul tetto! Vieni giù, Marianne! Stai attenta! L'espressione che avevano in faccia! Salire sui tetti era rigorosamente vietato a casa Mulvaney, perché i tetti sono posti seri, potenzialmente pericolosi. I tetti erano la vita di papà, come diceva lui. Ma ecco là Germoglio, dieci anni, in maglietta e short, a dare spettacolo come i fratelli maggiori che adorava. Un bel ricordo. Sbucò dal nulla, una bambina che si cala da una finestra, tremante di eccitazione e suspense, con il finale su una vampata di sole estivo. Ignorando i richiami dei maschi, era rimasta a schermarsi gli occhi come una guida indiana, aveva visto le montagne a nordest, le colline boscose dove fasce di luce e ombra si alternavano con tanta rapidità da far pensare che le montagne fossero in qualche modo vive e irrequiete. E il monte Cataract come una mano che salutava, visibile soltanto a Germoglio. Qui. Guarda qui. Alza gli occhi, guarda qui.
Nella luminosa cucina, ricca del profumo del pane che cuoceva, Corinne, appoggiata a un banco, chiacchierava al telefono con un'amica. Gli occhi azzurri che si alzavano sul viso di Marianne, il sorriso rapido. La radio intonava una depressa canzone country-rock e Piumotto, come eccitato da un canarino rivale, cantava a gola spiegata per controbattere, ma a Corinne non dava fastidio il frastuono. Quando vide Marianne prendere la giacca a vento da un piolo in corridoio coprì il ricevitore con una mano e chiese, sorpresa: «Amore? Dove vai?». «A trovare Molly-O.» «Molly-O? Adesso?» L'implorazione stupefatta nella voce di Corinne: Non prepariamo assieme la cena della domenica sera, il supersformato? Non è una di quelle cose che Germoglio e la sua mamma fanno sempre? Fuori era freddissimo. Sei o sette gradi meno del pomeriggio. E il vento che faceva piangere gli occhi. Quell'ora color ardesia che non è né giorno né sera. Il cielo somigliava a conchiglie d'ostrica tritate cinte di fiamma a ovest, ma a livello del suolo si riuscivano quasi a vedere (a volte Marianne, dalla finestra della sua camera, era rimasta a osservare il fenomeno) le ombre che si sollevavano dai contorni innevati del terreno, come cose viventi. Dell'esatto colore tra blu e porpora del bellissimo tetto che Michael Sr. aveva installato sulla casa. Sui tempi lunghi, diceva papà, ottieni esattamente ciò che ti spetta per quanto hai pagato. La qualità costa. Il cuore di Marianne batteva forte dopo lo scampato pericolo in cucina. Sarebbe stato impossibile evitare la mamma mentre preparavano la cena. E nessuno degli altri, a tavola. Eppure, quant'era fortunata ad avere una madre come Corinne. Tutte le ragazze si stupivano di fronte alla signora Mulvaney, e al signor Mulvaney che era così divertente. I tuoi genitori sono più o meno come due amici, no? Incredibile. A quell'ora, la madre di Trisha si sarebbe già materializzata nella camera di Marianne a chiedere com'è andato il ballo? com'era il tuo cavaliere? e il party com'è stato? o c'era più di un party? hai dormito abbastanza stanotte? Sembrerebbe di no. Un'altra madre forse avrebbe persino chiesto di rivedere il vestito di Marianne. Il vestito tanto speciale. Anche le scarpette di raso. Solo per vedere, per tessere reminiscenze. Per esaminare.
Uno dei gatti da granaio, una tigre arancio con un mozzicone di coda, saltò fuori da una pila di legna per trottare a fianco di Marianne quando lei attraversò la neve del cortile, diretta alla stalla dei cavalli. Emise un miagolio speranzoso, si strusciò contro le gambe della ragazza. «Ciao, Lentiggini!» disse Marianne. Si chinò a carezzare la testa ossuta, ma per qualche motivo, per quanto chiaramente desiderasse essere accarezzato, il gatto scappò via, sventolando di fretta la coda. Era stato quasi sul punto di graffiarla o morderla. «D'accordo, allora vattene» disse Marianne. Com'era buona, com'era chiara l'aria fredda. Pura e inodore. A metà inverno, con un freddo simile, i fecondi odori di High Point Farm si estinguevano. Niente giochetti. Niente giochetti con me. Ricordalo! Dai LaPorte aveva fatto due bagni. La prima volta verso le quattro e mezzo del mattino, ma non ricordava molto chiaramente, e la seconda alle nove e mezzo e Trisha dormiva ancora, o fingeva di dormire. Il dolce tictac di una sveglia da comodino. Ore di quella sveglia, ore immobili sotto le coperte di un letto che non era suo, in una casa che non era sua. Verso l'alba, un rumore di tubature da qualche parte, poi di nuovo silenzio, e dopo tanto tempo i primi scampanii, suoni smorzati che Marianne immaginò venire dalla chiesa cattolica di St. Ann, in Mercer Avenue. Poi la signora LaPorte che bussava brevemente alla porta della camera di Trisha verso le nove e chiedeva sottovoce: «Ragazze? Qualcuno vuole venire in chiesa con me?». Trisha emise un gemito senza alzarsi e Marianne restò immobile, ferma come la morte, e non diede risposta. Più tardi, Trisha chiese a Marianne che cosa fosse successo dopo il party dei Paxton, dove fosse andata Marianne, e chi la avesse riportata indietro, e Marianne vide la preoccupazione, il timore negli occhi dell'amica. Non dirmelo! Ti prego, no! così imbastì il suo più luminoso sorriso da Germoglio e scosse la testa come fosse tutto troppo complicato, troppo confuso per ricordare. E in effetti era così: Marianne non ricordava. Solamente una macchia mal definita, una ragazza che non era lei e non era qualcuno che conoscesse. Tossiva e si sentiva soffocare mentre dal mento le colava un vomito caldo come acido, in un abito strappato di raso color panna e chiffon color fragola, e le sue gambe correvano! correvano! goffe come forbici per tagliare i tessuti impugnate da un bambino.
** Nel box di Molly-O a quell'ora? Ma perché? Quel posto sicuro, familiare. Il silenzio e l'immobilità della stalla, a parte lo sbuffare perplesso, il nitrire dei cavalli. Marianne si chiese se, in casa, Corinne si stesse consultando con Patrick. È successo qualcosa a...? Anche Judd l'aveva guardata in maniera strana. Aveva solo tredici anni, però... in maniera strana. Marianne prese una spazzola e a colpi veloci, ritmici, la passò sui fianchi di Molly-O, sulla ruvida criniera crepitante. Poi sollevò cereali e melassa alla bocca umida, avida. Rise e sussurrò parole dolci a Molly-O che si era svegliata da un sonnellino per tremare di piacere, sbuffare e battere gli zoccoli e agitare la coda, tirando su con il naso mentre mangiava dalla mano di Marianne. Un brivido, una sensazione squisita nutrire un cavallo dalla propria mano! Da piccola, Marianne strillava deliziata al contatto della lingua di un cavallo. Amava il respiro umido, la vita forte, inimmaginabile che scorreva in quel corpo immenso. Un cavallo è così grande, un cavallo è così solido. Rispetti sempre un cavallo per le sue dimensioni. Amava il ricco aroma equino che era un odore della prima infanzia, quando le visite alla stalla dei cavalli erano scrupolosamente supervisionate da adulti e le era proibito avventurarsi lì da sola, così proibito! Era entrata lì per la prima volta tra le braccia di papà, poi era stata deposta con cautela sul pavimento coperto di paglia e aveva camminato, o aveva tentato di farlo: l'eccitazione quasi insopportabile di vedere i cavalli nei loro box, affacciare le teste stranamente lunghe, battere le palpebre degli enormi occhi sporgenti per guardare lei. Aveva sempre amato l'odore tra il dolciastro e il rancido di paglia, letame, cibo per animali e calore animale. Lo sguardo del cavallo che ti riconosce: Io ti conosco, ti amo. Dammi da mangiare! È così facile rendere felice un animale. Così facile fare la cosa migliore per lui. Molly-O aveva nove anni, e non era più giovane. Aveva sofferto di infezioni respiratorie, problemi alle ginocchia. Come tutti i cavalli che i Mulvaney avessero mai posseduto. («Il cavallo è l'animale più delicato noto all'uomo» diceva papà «però non te lo dicono finché è troppo tardi ed è diventato tuo.») Non era un bel cavallo nemmeno in base agli standard della valle di Chautauqua, però era di carattere dolce e docile: torace stretto,
zampe troppo corte, ginocchia nodose. Il manto era di un ricco rosso brunito, con una chiazza bianca sul naso che somigliava a una bandiera e quattro macchie bianche, irregolari, sopra gli zoccoli, i suoi calzini: il cavallo di Germoglio, il regalo per il suo dodicesimo compleanno. Non c'è amore come quello per il tuo primo cavallo, ma è un amore facile da dimenticare o mal riporre; è come l'amore per te stesso, per l'io che non sei più. Marianne nascose il viso nella criniera di Molly-O sussurrandole quanto dispiacere provasse, quanto! Da che era iniziata la scuola aveva trascurato Molly-O, e l'estate prima non l'aveva cavalcata più di una decina di volte. La sua cavallomania di tanti anni prima era finita da un pezzo. Era stata una mania modesta, a paragone di altre ragazze di sua conoscenza che prendevano lezioni e cavalcavano i loro costosi purosangue alla scuola d'equitazione nei pressi di Yewville. Aveva raggiunto l'incandescente apice quando aveva fra i tredici e i quindici anni, poi si era placata con l'arrivo di altri interessi che richiedevano la sua attenzione, quando la "popolarità" di Marianne Mulvaney (la complessa, ipnotica vita dell'esteriorità) divenne uno dei parametri cardine della sua esistenza. Partecipare alle competizioni ippiche non era per lei, né per gli altri Mulvaney. (Al culmine del suo interesse, all'età di quindici anni, Patrick era un fantino capace, promettente.) Papà diceva che la "grande felicità" procurata dai cavalli, come da tutto il resto di High Point Farm, stava nel restare a livello dilettantesco. «E intendo da veri dilettanti.» A un uomo, diceva papà, era più che sufficiente competere con altri in affari. Magari ogni tanto una partita di golf, squash, tennis, poker, ma non cose serie, solo per il piacere dell'amicizia, e con vero spirito sportivo. A lacerare il cuore di un uomo basta il semplice essere un uomo d'affari americano. Naturalmente, papà ammirava certi suoi amici, colleghi di lavoro e soci come lui del Mt. Ephraim Country Club che erano persone "da cavalli" (i Boswell, i Mercer, gli Spohr), ma l'idea che sua figlia prendesse lezioni d'equitazione e gareggiasse in quelle ridicole competizioni equestri formali lo disgustava. Esibizionismo allo stato puro; conduceva al fanatismo, all'ossessione. Non vuoi che animali che ami si esibiscano più di quanto desideri vederlo fare da persone che ami. E poi era troppo maledettamente costoso. Anche se i Mulvaney erano "benestanti". Almeno, era la reputazione di cui godevano in loco. (Nonostante il modo di vestire di Corinne e la sua abitudine di fare acquisti nei discount.) Di High Point Farm si parlava in
termini ammirati e Michael Mulvaney Sr. faceva sfoggio di un certo stile, guidava automobili nuove e portava abiti sportivi di classe (niente discount per lui); era generoso nelle donazioni agli enti benefici e ogni quattro di luglio apriva uno dei suoi pascoli per ospitare il picnic annuale dei vigili del fuoco volontari della valle di Chautauqua. Ma in privato si preoccupava dei soldi, delle spese di gestione di un posto come High Point Farm, affittava tutto il terreno possibile perché doveva mantenere una famiglia "spendacciona" come la loro. (Anche se il più spendaccione di tutti era Michael Mulvaney Sr.) Di tanto in tanto minacciava di vendere un cavallo o due, o tre, adesso che i figli erano cresciuti e il loro interesse per i cavalli era diminuito, ma ovviamente protestavano tutti, persino Mike Jr. che ormai di rado si affacciava nei box. E mamma diventava praticamente isterica. Sarebbe come un'esecuzione capitale! Sarebbe come vendere uno di noi! Be', sì. Nel box accanto scalpitava il castrato di Patrick, Prince, nitrendo e sbuffando per richiamare l'attenzione di Marianne. E anche Trifoglio e Rosso cominciarono ad agitarsi. Ci siamo anche noi! Abbiamo fame! E una gang di sei gatti da granaio si stava raccogliendo attorno a Marianne, miagolando e strusciando le zampe sul pavimento con fare insinuante. Amaci! Sfamaci! Tutte quelle creature avevano ricevuto da mangiare due volte quel giorno, da Patrick e Judd, ma l'apparizione di Marianne aveva scombussolato la loro routine, o così volevano far credere; e Marianne aveva un cuore troppo tenero per deluderle. Da bambina aveva stabilito regole per se stessa: se coccolava o nutriva un animale in presenza di altri, doveva coccolarli e nutrirli tutti. Era ciò che avrebbe fatto Gesù se avesse vissuto in intimo contatto con gli animali. Cosa farebbe Gesù? È questo che mi chiedo. Ci provo, e ci provo, ma le mie buone intenzioni si infrangono quando sono con gli altri. Per esempio con i ragazzi, capisci? È come se ci fosse il mio vero io, quello che stare vicino a qualcuno come te, Marianne, porta allo scoperto, e poi c'è l'altro io che... be', che è uno stronzo, un vero mostro. Di questo mi vergogno. Gli occhi di lui si alzarono lenti su quelli di lei. Le palpebre pesanti, l'arco stretto del naso, i capelli lisci scesi sulla fronte. La pelle era giallastra, come in una vecchia foto. Era seduto sullo scalino sotto di lei, a spalle raggomitolate, e lei avrebbe voluto dargli una gomitata come avrebbe fatto con Patrick per sollecitarlo a raddrizzare la schiena, le spalle. La musica
filtrava dalle pareti, batteva e pulsava. Era tanto forte da influenzare il battito del cuore, da farti sudare. Lui aveva bevuto ma non era ubriaco, giusto? e sembrava anzi parlare con una franchezza, una sincerità che lei non conosceva. O forse non pensava affatto ciò che le aveva detto? Era stato solo per ingannare, per manipolare? Lei non poteva crederlo. Come avrebbe potuto? Non Marianne Mulvaney, nel cui cuore Gesù Cristo aveva dimorato per gli ultimi diciassette anni, o più. Quando lasciò la stalla, il pensiero la sfiorò, lieve e passeggero come un fiocco di neve. Sto dicendo l'addio? Ora il cielo era solcato da crepe e rattoppi e brillava a ovest come una misteriosa fiamma livida sull'orlo dell'estinzione. Alle finestre anteriori del granaio dell'antiquariato scintillavano luci e per un inquieto momento Marianne pensò che dentro ci fosse Corinne; ma erano soltanto luci riflesse. Sollevò il paletto della porta del granaio con dita intirizzite dal gelo ed entrò. Accese la luce e sperò che nessuno in casa se ne accorgesse. Sperò che Corinne non prendesse una giacca e corresse fuori per raggiungerla. Le era venuto in mente un... che cos'era? Non un sogno esattamente, ma il vivido ricordo di una stampa in cornice, una cosa appesa alla parete? Uno degli "affari favolosi" di Corinne. All'improvviso, le sembrava urgente rintracciare quella stampa. Ma dove, in mezzo a quel caos? Marianne non visitava la bottega della madre da un po'. Dovevano esserci state nuove acquisizioni. A quanto pareva, Corinne aveva cominciato a scortecciare e restaurare una strana poltrona fatta di rami d'albero contorti, nodosi, una specie di attrezzo da tortura, e su uno dei tavoli da lavoro c'era una sedia a dondolo in stile Shaker, ma Marianne non poteva dirlo con certezza. Odore di solvente per pittura, vernice, cera per mobili, vernice a olio (Corinne si era messa a dipingere l'interno del granaio di un brillante azzurro uovo di pettirosso ma non aveva finito), escrementi di topo, polvere. L'odore confortante di cose vecchie, del passato. Sono così felice qui, le cose sono così tranquille e posate qui! esclamava Corinne, spingendo via ragnatele, schivando un gocciolio d'acqua dal soffitto, facendo allegramente spazio per permettere ai visitatori di aggirarsi nell'ammasso di oggetti, con occhi che brillavano come quelli di un bambino. Tutti i figli di
Corinne venivano coinvolti di tanto in tanto nell'ossessione di Corinne, soprattutto Marianne, ansiosa di fare da aiutante alla mamma, anche se le mancava la passione assoluta della madre per le cose vecchie, il piacere al semplice guardarle e toccarle e fiutarle e sollevarle; il fatto, fonte di eterno fascino per Corinne, che fossero vecchie. E abbandonate dai precedenti proprietari. Michael Sr. coltivava uno dei suoi tipici punti di vista umoristici su quell'antiquariato: per lui, la merce di Corinne era sostanzialmente "ciarpame". Per una parte "ciarpame okay" e per un'altra "ciarpame non troppo male", ma in maggioranza "ciarpame e stop" del tipo che si può trovare nel solaio o nella cantina di chiunque, se non nella discarica cittadina. La mistica del vecchio e abbandonato su di lui non attaccava. «Nel mio mestiere» diceva «dai al cliente materiali e prestazioni al passo con i tempi, o ti trovi con il culo per terra.» Marianne pensava che il granaio fosse per Corinne un rifugio dall'incessante intensità, dall'atmosfera da lunapark della vita di famiglia. Soprattutto quando lei e i suoi fratelli erano piccoli. Sia la casa che il granaio dell'antiquariato erano pieni zeppi di roba e davano l'impressione che fosse appena passato un tornado, ma se non altro nel granaio regnava la quiete. Pesanti mobili da giardino in ferro battuto arrugginito, un sofà "revival gotico", una sedia "revival rococò" con una squisita filigrana di ferro, divanetti e testate di letti in tessuto a disegni cinesi, la bizzarra poltrona di rami d'albero contorti con la corteccia ancora attaccata, lo "stile naturalista" dei primi del secolo; salice locale e rattan importato e legno antico verniciato e riverniciato che dava l'impressione di potersi disintegrare in molecole se mai avesse dovuto sopportare il peso di un corpo umano. C'erano arredi completi per sale da pranzo, scalcinati tavoli allungabili in acero e sedie in stile, con i sedili sfondati; c'erano cumuli di paralumi pesanti di polvere, lampade d'avorio scolpito e ingiallito, "colonne doriche" decorate da stampigliature dorate, persino un clavicembalo con le corde spezzate e tasti che avevano il colore del tè per la prima colazione. C'erano superfici laccate, superfici ruvide, superfici a specchio (macchiato), porcellana e marmo e pietra e cemento (urne funerarie, cani, gatti, uno spettrale "negro" dipinto di bianco che nella mano priva di dita stringeva le redini di un cavallo invisibile). C'era un mobiletto con scatole da scarpe piene di cartoline d'epoca datate 1905, 1911, 1923, con le grafie frettolose e sbiadite e spesso indecifrabili di sconosciuti; cartoline con affrancatura da un penny con panorami della valle di Chautauqua, fotografie dipinte a mano per sembrare
acquerelli dalle romantiche sfumature pastello che costavano solo un dollaro la decina. (Quando Corinne riusciva a venderle.) Marianne non seppe resistere, estrasse una cartolina a caso, una scena al tramonto con una chiatta, muli aggiogati e mulattiere intitolata Chiatta sul canale Erie a Yewville, N.Y., 1915. Sul retro, un messaggio in inchiostro blu quasi invisibile, in una fiorita calligrafia femminile: Ciao Rose! Forse penserai che sono morta. Invece no, sono molto viva. Come state tutti? E siete ancora nella stessa casa? Fammi avere tue notizie. Qui tutto bene a parte Ross e nonna, nessun cambiamento. Il mio affetto a tutti e anche al piccolo. Tua sorella Edna. Era datata venerdì 16 luglio, pomeriggio. Marianne la rimise nella scatola da scarpe e si mosse. Se avesse cominciato a leggere quelle vecchie cartoline si sarebbe persa per un'ora. Ne aveva rubata qualcuna da tenere nella sua stanza. Venivano vendute a un prezzo talmente basso che le sembrava un delitto. Documenti così tragicamente veri e unici e insostituibili. Corinne ammetteva che erano preziose, ma d'altronde tutto nel suo granaio era prezioso, no? Era quello il senso dell'antiquariato, giusto? Dietro pile di vecchi libri macchiati e deformati dall'acqua (La guida di James Fenimore Cooper, A Modern Chronicle di Winston Churchill, Il figlio della frontiera di Hamlin Garland, A Children Garden of Poetry e diversi libri del Reader's Digest, l'Information Please Almanac 1949), in parte coperti da una vecchia trapunta malandata che puzzava di cherosene, Marianne trovò quello che cercava. La riproduzione incorniciata di un antico dipinto d'autore ignoto, intitolato La pellegrina: un romantico panorama di montagne al crepuscolo, un lago tra gli alberi, la luce che promanava dall'immagine del volto di Cristo in cielo e scendeva su una figura femminile avvolta in un mantello, inginocchiata in un prato tra pecore e agnelli al pascolo, in riva all'acqua. La figura era a piedi nudi e a giudicare dalle apparenze aveva appena attraversato un terreno roccioso; il suo profilo parzialmente nascosto da una treccia di capelli biondo chiaro e da uno scialle posato per modestia sul capo. Sotto il titolo c'era una scritta che Marianne trovava eccitante: Colui che perde la vita per amor mio la ritroverà. Corinne aveva portato a casa La pellegrina anni prima, da un mercato delle pulci, e non lo aveva mai venduto pur avendo abbassato il prezzo diverse volte in modo abbastanza consistente: 25 dollari, 19,98, adesso 12,50. (Fra l'altro, come faceva Corinne a decidere quei prezzi? Come osservava Michael Sr., sembrava possedere la capacità innata di tenerli alti
quanto bastava a scoraggiare i potenziali acquirenti.) Marianne ricordava che Patrick aveva detto di quella stampa: Che melassa, mamma! e immaginava che anche lei dovesse essere d'accordo, certo, era sentimentale e stupida, brutta come le peggiori immaginette del catechismo, Gesù che fluttuava in cielo come un dirigibile, le pecore raccolte attorno alla pellegrina come giocattoli di legno con sconcertanti musi umanoidi. Eppure Marianne trovava l'immagine affascinante, un enigma da risolvere. Molte volte aveva chiesto a Corinne chi fosse la pellegrina, e da dove venisse. Era sola: perché? Era molto giovane, appena una ragazza. Stava per morire, ed era per quello che Gesù le sorrideva dalle nubi? Ma non sembrava ferita o esausta; nel suo atteggiamento umile, nella testa china, nelle mani giunte e levate in preghiera, c'era un sottofondo di fierezza. Chiaramente la pellegrina stava pregando Gesù, ignara di Lui, anche se i Suoi raggi di luce la illuminavano, sottraendola all'ombra. Anche Corinne trovava La pellegrina affascinante. Aveva idea che si basasse su un qualche racconto popolare tedesco, non sapeva perché. E la didascalia non era esatta; avrebbe dovuto dire Colei che perde la vita per amor mio la ritroverà. Marianne passò le dita sul vetro, lasciando scie nella polvere. Si accoccolò a fianco della stampa, fissandola avida, con la vista appannata dalle lacrime. Sentì nel cuore una fitta di gioia acuminata come dolore. Non vedeva La pellegrina da molto tempo e se n'era quasi scordata. Ma evidentemente aveva pensato a quello la notte prima, mentre faceva il bagno nella vasca di Trisha LaPorte. Stordita, intorpidita. Con pensieri che scorrevano rapidi e fluidi, privi di peso o di apparente significato. Gesù aiutami. Gesù aiutami. Come scene intraviste dal finestrino di un'auto in corsa, prive di profondità e colore. Come le strane facce cangianti, facce di sconosciuti, a volte distorte e grottesche, che vediamo piombando in un sonno esausto. Così, nel vapore dell'acqua, sopra un corpo nudo e inerte di ragazza, un corpo che Marianne non guardò, La pellegrina si levò in aria, prese forma. Rimase sospesa finché svanì nel torpore e nell'oblio, un foro scavato nello spazio della coscienza stessa.
Tante cose da dire! Tante interruzioni! Risate, e Judd rimproverato da papà perché passava pezzetti di salsiccia a Stivaletti sotto il tavolo, e
mamma rimproverata da papà Per amor di Dio dolcezza vuoi smetterla di saltare su ogni cinque minuti? e la scoperta, a metà pasto, che il forno era ancora acceso al massimo e lo sformato messicano di pollo-gamberettisalsa cominciava a bruciare. Marianne aveva aiutato mamma a preparare la cena come sempre, come se nulla fosse successo, quindi forse nulla era successo. Oltre al supersformato c'erano pane grigliato con fiocchi di parmigiano, frullato di noci al forno con zucchero di canna, una gigantesca insalata mista condita con lo speciale mix di olio e aceto di mamma, torta ripiena di mele alla cannella con gelato alla vaniglia. Quante cene, quanti pasti lì nella grande accogliente cucina di High Point Farm: puoi trascinartene dietro il ricordo fino all'eternità, eppure ogni occasione era unica, misteriosa. In una foschia di sorrisi, cenni della testa, cibo masticato e inghiottito, Marianne superò la cena, che durò un'ora. Non era chiacchierona, sorridente, allegra come al solito, ma forse nessuno se ne accorse? (Tranne mamma?) Mikey Junior era fuori con la sua ragazza Trudi Hendrick (quei due cominciano a fare sul serio? mamma preoccupata, curiosa), ma tutti gli altri Mulvaney erano ai loro consueti posti. E affamati. Sai che vuoi farlo. Perché saresti venuta con me se non avessi voluto? Nessuno ti farà del male, Cristo santo datti una calmata. Le chiacchiere svolazzavano attorno alla testa di Marianne come stelle filanti. Ascoltava ma sembrava che non udisse. La guardavano in maniera strana? Non si erano accorti di niente? Aveva nelle orecchie un ronzio distante, come vespe d'estate sotto i cornicioni del tetto. Quel dolore come un pianto nei lombi. (Non pensare: va-gi-na. Brutte parole come u-te-ro, cli-to-ri-de.) Marianne balzò in piedi per risparmiare un viaggio a mamma, riportò in tavola il pasticcio riscaldato; passò a papà il cestino del pane riempito di fresco, la margarina senza sale, la lucida ciotola "svedese" dell'insalata. Mamma stava raccontando eccitata del candidato che lei e le sue amiche della chiesa volevano sostenere alle prossime presidenziali, Jimmy Carter: «Un vero cristiano e un uomo intelligente, forte». Papà mormorò di soppiatto, con una strizzatina d'occhio per i ragazzi: «Combinazione rara, eh?» ma mamma decise di ignorare il commento. Cercava di non litigare mai a tavola, per principio. Poi si passò a parlare delle strade ghiacciate, del tempo previsto per lunedì mattina (raffiche di neve, temperature fino a ventotto sottozero). I prossimi appuntamenti con il dentista (Patrick, Judd; gemettero tutti e due), una visita dal veterinario (per il povero Seta, che aveva una dentatura in cattivo stato). Papà tirò fuori l'argomento dell'offer-
ta che la Mulvaney Tetti e coperture aveva fatto il lunedì precedente all'impresa che aveva appaltato i lavori per l'ampliamento dell'ospedale St. Matthew, una delle sette offerte presentate da imprese locali, per quanto ne sapeva; la decisione sarebbe stata annunciata presto, forse in settimana. Con una scrollata di spalle per nascondere la speranza e l'ansia che provava, sorrise e concluse: «Niente nuove, buone nuove, si dice. Giusto?». Mamma intervenne con quel suo modo di proiettare all'infuori la testa, da ragazza sciocca, e quella sua risata a nitrito. «Niente nodi, buone nuove, come disse il condannato all'impiccagione di fronte al patibolo.» «Oh, mamma!» strillarono tutti. Tranne Marianne, che ebbe un sorriso fioco. Sapeva di avere urtato i sentimenti di sua madre poco prima, con lo scambio di battute su Piumotto. Anche se non ricordava più cosa si fossero dette. Patrick tentò di avviare una discussione sul viaggio nel tempo ma papà rise ironico e osservò che era già abbastanza brutto avere tanti posti inutili e costosissimi da raggiungere viaggiando, mancava solo andare avanti e indietro nel tempo. Mamma commentò che tuffarsi nell'ignoto l'avrebbe innervosita: «Il noto è più o meno tutto ciò che posso affrontare». Patrick si imbronciò, disse che non prendevano mai niente sul serio, e papà ribatté che invece prendevano tutto sul serio, però non a tavola. Passò a raccontare una barzelletta nuova («Ci sono questi due ladri perfettamente identici, solo che uno è repubblicano e l'altro democratico, e si incontrano in un bar...») che aveva sentito nel pomeriggio nello spogliatoio del club, e tutti risero, o emisero suoni tra grugnito e risata, e anche Marianne sorrise, per quanto fosse impegnata a passare la ciotola dell'insalata. E a riempire il cestino del pane foderato di tovagliolini di carta con disegni di zucche, residui di Halloween. Patrick osservò secco: «L'Homo sapiens è l'unica specie che ride? Qual è il vantaggio evolutivo della risata? Qualcuno lo sa?». Mamma disse, pensosa: «Ridere è una maniera per uscire da te, ridere di te, delle manie, delle pretese della specie umana». Papà disse: «Cavoli, è un modo per sfogarsi. Buttare fuori la tensione nervosa». Judd disse: «È qualcosa che succede, non puoi farlo per forza». Patrick disse: «Ma perché? Perché succede? Qual è il punto?». Mamma sospirò, mise una mano sul braccio di Patrick, e disse: «Oh, Pizzicotto, se devi chiederlo non lo saprai mai». E tutti risero di Patrick che era arrossito, imbarazzato. Tutti tranne Marianne che era al bancone a tagliare altre fette di pane. Sorrise, e tornò a sedere. Di che cosa avevano parlato? È già come se non ci fossi più. Resta solo il mio corpo.
Aveva visto Patrick lanciarle un'occhiata di sbieco. Ma non una parola. Sulla parete c'era la bacheca di sughero dei Mulvaney. Decorata da fotografie a colori, ritagli di giornale, nastri blu e rossi, la "medaglia" conferita a papà dalla Camera di commercio, fiori secchi, splendide fotografie di pomodori, bocche di leone, aquilege ritagliate dai cataloghi di semi. Sotto ciò che era visibile c'erano altre cose, e sotto quelle probabilmente altre ancora. Strati archeologici. La storia recente dei Mulvaney. La bacheca era lì da sempre, il contributo di mamma alla gestione della casa. Al centro c'era un grande calendario che recava in alto, a mano, la scritta PROGRAMMA OPERATIVO . High Point Farm doveva essere gestita come un campo per l'addestramento delle reclute, ritenevano i Mulvaney anziani, oppure sarebbe sopraggiunto il caos e li avrebbe spazzati via come un diluvio. Quindi, con caparbietà e con il giudizio di Salomone, Corinne preparava ogni mese una tabella degli incarichi: lavori di casa, lavori all'ora di pranzo, incombenze per la spazzatura, ogni tipo di lavoro all'aperto legato alla stagione, lavori per i cavalli, lavori per le mucche, lavori nella stalla, lavori per gli animali domestici, e tutto ciò che era inclassificabile ricadeva sotto la voce "miscellanea". (Quelli, a unanime giudizio dei Mulvaney giovani, potevano essere gli incarichi più infidi. Aiutare mamma a sgombrare la cantina, per esempio. Aiutare mamma a scartavetrare, grattare, stuccare, dipingere nel granaio delle anticaglie. Aiutare mamma a mettere il collare antipulci a tutti i cani e i gatti in un solo pomeriggio.) Come ogni mese, il febbraio 1976 si presentava a un occhio neutrale sotto l'aspetto di una serie di quadrati bianchi sistemati con simmetria all'interno di griglie identiche, come se il tempo fosse un oggetto da suddividere in maniera definitiva ed esatta; ogni quadrato gestito dalla meticolosa mano di Corinne Mulvaney. Corinne era famosa per la sua terribile equità; come diceva papà, non risparmiava il peggio a nessuno, nemmeno a se stessa e a lui. Vero, a volte i Mulvaney si accordavano tra loro, si scambiavano incarichi senza l'approvazione di mamma. Purché i lavori venissero eseguiti, non c'era problema, ma quando il PROGRAMMA OPERATIVO registrava anche la minima defaillance, si scatenava l'inferno, come diceva papà. Però era bello, rassicurante. Sapevi di poter consultare in qualunque momento la bacheca e scoprire cosa ci si aspettava esattamente da te, non solo per quel giorno ma per l'intero mese. Come sempre, sulla bacheca spiccavano le Polaroid più recenti. Germo-
glio nel suo graziosissimo vestito per il ballo. Prima che il suo sfortunato cavaliere, Austin Weidman, arrivasse sull'automobile del padre a portarla via. Fragole e panna! aveva celiato papà, scattando le foto. Ma naturalmente era orgoglioso; come poteva non esserlo? E mamma era orgogliosa. L'orgoglio precede la caduta, avrebbe mormorato mamma, mordendosi il labbro, ma era difficile resistere! Marianne aveva cucito un vestito tanto splendido per il suo progetto per il Club 4-H, per la competizione della fiera di contea che si sarebbe tenuta solo in giugno. E poi Marianne era così deliziosa. Snella, seni alti, occhi fulgidi, lucidi capelli castano scuro del colore del mogano più pregiato. In una delle istantanee, Marianne e Corinne sorridevano a papà il fotografo, tenendosi abbracciate alla vita e Corinne, in maglietta SALVIAMO LE BALENE e jeans, era meravigliosamente giovane, birichina. La luce bianca del flash metteva in risalto ogni lentiggine del suo viso e faceva sfolgorare di un azzurro neon i suoi occhi. Era stata fotografata nel pieno di una risata, ma la sua espressione, il suo orgoglio erano inconfondibili. Questo è il mio regalo al mondo, la mia bellissima figlia, grazie Dio. La cena stava finendo. Erano al dessert. Il discorso era tornato su papà e sulle sue trionfali o quasi partite di squash del pomeriggio. Marianne ascoltò e rise con gli altri. Anche se la sua mente vagava lontano e andava tenuta sotto stretto controllo come un aquilone squassato da un vento feroce. Nessuna telefonata per Germoglio quel giorno. Nessuna. Corinne doveva essersene senz'altro accorta. Papà faceva il bravo, in maniera sorprendente: aveva mangiato una piccola porzione di torta e ne aveva stoicamente rifiutato un'altra. Si complimentò con mamma e Marianne per la fantastica cena e si mise a parlare del suo amico Ben Breuer, un nome che ricorreva spesso alla tavola di High Point Farm. Il signor Breuer era avvocato, socio e amico intimo del senatore democratico del collegio elettorale di Chautauqua, Harold Stoud, che Michael Mulvaney Sr. ammirava molto e alle cui campagne elettorali aveva offerto contributi. «Ben e io siamo allo stesso identico livello, quasi come gemelli» disse papà, sorridendo «però se ce la metto tutta lo posso battere. Vincere è prima di tutto un atto di volontà. Quando si è allo stesso livello, certo. Però io non sempre ce la metto tutta, è chiaro? Così, se Ben vince una partita o due, crede di avere vinto di suo. Mantenere un buon equilibrio è più importante.» Patrick si spinse sul naso gli occhiali con la montatura in metallo e scrutò papà con aria indagatrice. «Più importante di cosa, papà?» chiese.
«Più importante di vincere.» «Un buon equilibrio. In che senso?» «Nel senso dell'amicizia. Puro e semplice.» «Non capisco.» L'atteggiamento leggermente provocatorio di Patrick, lo sguardo puntato, indicavano il contrario. I suoi occhi si erano incupiti. Papà rispose, cordialmente: «L'amicizia con una persona della qualità di Ben Breuer per me significa molto più del vincere una partita». «Non è ipocrisia, papà?» Un'espressione ferita sul viso di papà. Stava mangiando cucchiaiate di torta dal piatto che mamma, dopo avere intercettato le sue occhiate di desiderio, aveva spinto nella sua direzione. Fissando Patrick con un paziente sorriso paterno rispose: «È sano senso degli affari, figliolo. Ecco cos'è». Dopo cena c'era il rischio che Corinne bussasse alla sua porta. E naturalmente Marianne non poteva chiudere a chiave: impossibile chiudere a chiave una porta a High Point Farm e violare il codice di famiglia. Anzi, non c'erano serrature sulle porte delle stanze dei figli. A cosa serve una serratura? Dio aiutami. Gesù abbi pietà di me. A cena, Marianne aveva avuto una piccola crisi di nausea, ma nessuno se n'era accorto. L'aveva sconfitta restando immobile e aspettando che passasse. Come diceva papà: un atto di volontà. Ma era ancora lì. La nausea che si era diffusa nel suo corpo come quel particolare tipo di densa schiuma verde che, se non veniva tenuta sotto controllo, tutte le estati si espandeva nello stagno dove si abbeveravano gli animali e lo inquinava. Microrganismi che si moltiplicano grazie alla luce solare, aveva spiegato Patrick. Solo misure drastiche li potevano bloccare. Ma la nausea restava, assieme al sapore di bile gialla in fondo alla bocca. Acido. Orribile. Gli accumuli di vodka, vodka e succo d'arancia. Lei non sapeva di preciso che cosa contenessero i cocktail. Li aveva preparati Zachary, le aveva detto che erano leggeri, non le avrebbero dato fastidio. Come si era sentita allegra, euforica! Con quanta facilità aveva riso! Sei così bella Marianne aveva detto lui guardandola, e lei aveva capito che era vero. Gesù abbi misericordia di me, perdonami. Fammi stare bene. Nel pomeriggio, appena rientrata a casa, aveva preso due aspirine. Per sopravvivere all'ordalia della cena, altre due. Le sembrava che il dolore al basso ventre, l'incandescente gocciolio di sangue fossero diminuiti. Aveva
la pelle calda, le bruciava la fronte. Se mamma se ne fosse accorta, con quel solito mormorio imbarazzato, abbassando gli occhi, avrebbe detto che si trattava soltanto del suo periodo. Arrivato quel mese con qualche giorno d'anticipo. Esaminare il vestito senza toccarlo o sentirne l'odore. La spallina sinistra era strappata dal corpetto pieghettato però non aveva subito altri danni, il rammendo sarebbe stato facile. Più problematico il lungo strappo alla gonna, in diagonale dall'orlo in su. Le sembrò di risentire il grido del tessuto delicato, come se le fossero stati estratti dalla carne i suoi stessi nervi. Nessuno ti farà del male, Cristo santo datti una calmata. Nei punti in cui aveva lavato il vestito con il sapone Pond per il viso e acqua tiepida, nel bagno di Trisha, erano ancora visibili le macchie, vomito e sangue. Il raso era ancora umido. Asciugandosi, si sarebbe arricciato. Ma ovviamente lei avrebbe ritentato. Non si sarebbe lasciata scoraggiare. Raccolto il vestito tra pollice e indice, come temesse un contatto virulento, lo rigirò sopra il letto. Oh. Oh Dio. Le macchie di sangue sul davanti erano chiare come efelidi ma le macchie più scure sul retro, cinque o sei, lunghe fino a quindici o venti centimetri, avevano acquisito un'inconfondibile sfumatura giallastra. Come accadeva sugli orli interni di certe mutande che Marianne fregava, fregava con la spazzola per cancellare ogni traccia di sangue mestruale prima di metterle ad asciugare nell'armadio e poi gettarle tra la biancheria da lavare. Vergognandosi all'idea che Corinne, che avrebbe fatto il bucato, potesse vedere. Oh, quanta vergogna! Anche se, com'era ovvio, Corinne non avrebbe mai detto una sola parola, Corinne che era così dolce, così gentile. Non c'è motivo di sentirti imbarazzata Germoglio, credimi, insisteva mamma, perplessa dalla sensibilità della figlia. Ma Marianne non sapeva frenarsi. Quelle mutande non erano ridotte in condizioni tali da doverle gettare, però non erano adatte a essere indossate, soprattutto per le lezioni di ginnastica a scuola. Luna dopo l'altra, si erano accumulate sul fondo del cassetto della biancheria intima di Marianne, destinate a essere portate, se mai fosse accaduto, in situazioni d'emergenza. Senti, sai che volevi farlo. Perché saresti venuta con me se non avessi voluto? Nessuno ti farà del male, Cristo santo datti una calmata! Al ballo era stata fotografata con il Re e la Reginetta di san Valentino e le "damigelle d'onore" della Regina, tra le quali Marianne Mulvaney era
l'unica che non frequentasse l'ultimo anno. Sul palco. Sorridente e stordita. La musica del gruppo era così forte! Potenti assolo di trombone, piatti e batteria assordanti. Il Re di san Valentino che era un ragazzo alto biondo rosso in viso, una stella del basket, baciò Marianne, sulla bocca. Lei sentì odore di whisky, di birra, anche se bere su terreni di proprietà della scuola era vietato. Coriandoli le si impigliarono nei capelli. La band suonava Light My Fire. Lei ballò con un ragazzo dell'ultimo anno, Zachary Lundt, e poi con un altro studente dell'ultimo anno, Matt Breuer, figlio dell'amico intimo di papà. Nell'eccitazione non ricordava più con chi fosse andata lì, chi fosse il suo accompagnatore. Poi intravide la faccia cavallina e cupa di Austin Weidman e gli fece cenni di saluto, allegra. Le sue amiche erano venute a High Point Farm a vedere il vestito e si erano fermate a cena. Mamma adorava le amiche di Marianne: com'era fortunata Marianne, diceva, ad avere amiche così perfette! Ragazze dolcissime! La gioventù di mamma era stata solitaria, essendo lei la figlia di un agricoltore del tipo che deve lavorare, lavorare, lavorare. Quello stile di vita ormai apparteneva al passato, come le lampade a cherosene, i gabinetti in cortile, le catene da neve sui pneumatici. Nella sua stanza, Marianne aveva creato i modelli dei vestiti per Trisha, Suzi, Merissa, Bonnie. Erano tutte ragazze molto per bene, di famiglie benestanti di Mt. Ephraim; erano "brave ragazze cristiane", in generale. Suzi e Merissa erano ragazze pon-pon come Marianne. Bonnie era segretaria di classe. Trisha sarebbe diventata redattrice, l'anno successivo, del giornale della scuola. Ovviamente avevano tutte un accompagnatore per il ballo, ma si trattava di ragazzi con cui erano già uscite in passato, ragazzi di una certa qualità. Prendevano in giro Marianne per Austin Weidman, del quale pronunciavano il nome in quattro sillabe scandite in tono monocorde (Austin Weid-man) come fosse il più buffo nome immaginabile. Suzi che era la più sfrontata del mazzo aveva detto sorniona: Che peccato, Germoglio che spreca quel vestito per Aus-tin Weid-man. Tutte le ragazze avevano riso, anche Marianne, che era arrossita violentemente. Si era messa a passeggiare con andatura impettita nella sua stanza nel lucido vestito di raso, con le reticelle di chiffon color panna alla vita e ai fianchi, l'impeccabile corpetto pieghettato, le spalline elegantemente sottili. (Sì, sotto avrebbe dovuto mettere un reggiseno senza spalline! Immaginatevi.) Aveva imitato l'atteggiamento sexy e arrogante di una modella spingendo in fuori il bacino, circondando la testa con le braccia, ma ora si immobilizzò di colpo in quella posizione, confusa.
Nessuno ti farà del male, Marianne. Marianne Mulvaney, che stronza. Mi stai facendo incazzare, lo sai? Tutti a scuola avevano votato per il Re e la Reginetta di san Valentino e i nomi degli otto finalisti erano stati annunciati il venerdì mattina a ogni classe dagli altoparlanti e Marianne Mulvaney era l'unica persona non dell'ultimo anno della lista e le sue amiche avevano lanciato strilli eccitati e l'avevano abbracciata, baciata. Marianne si era sentita stordita, disorientata, un poco spaventata. Chi aveva votato per lei? Perché qualcuno doveva votare per lei? Non era come venire presa nella squadra delle cheerleader dopo settimane di implacabile allenamento, né come essere eletta segretaria di classe, cosa che poteva essere ritenuta un onore che poche ragazze avrebbero ardentemente desiderato. Era la grazia che scendeva inattesa dall'alto. Era la celebrità al liceo. Era peccato tanta felicità? Tanta vanità? Più tardi, avrebbe riprovato a lavare il vestito nel lavandino del bagno. Doveva aspettare che tutti fossero a letto. E avrebbe dovuto essere molto silenziosa, cauta. Se mamma avesse sentito. Se mamma avesse bussato alla porta. Se avesse sussurrato Germoglio...? Marianne ripiegò il vestito, riducendolo alle dimensioni di una maglietta. Un rocchetto di filo del set da cucito che aveva aperto sul letto rotolò giù e Focaccina balzò all'inseguimento. Era rimasto a scrutarla dall'altro lato della stanza. Il vestito era ancora umido, ma Marianne lo mise su uno scaffale alto dell'armadio, sotto qualche abito estivo. Chiuse la cerniera e appese la borsa in un angolo dell'armadio. Fuori vista. Per fortuna non aveva una madre come quella di Trisha. Che frugava nella stanza della figlia. Quello sguardo negli occhi della signora LaPorte, quel tremito nervoso nella voce. Sto benissimo, grazie. Sul serio! Un po' stanca, credo. Mal di testa. Lo sguardo che Trisha e la madre si erano scambiate. Avevano parlato di Marianne, ovviamente. Di notte, nelle lunghe ore in cui lei non era rientrata. Non era tornata con Trisha e le altre. Dov'era andata? O Gesù, davvero non ricordo. Ho peccato ma non ricordo. In mezzo alle gambe perdeva sangue che finiva in un assorbente. La parte inferiore dell'addome dolorava. Quel dolore che indicava crampi le dava un certo conforto: una cosa di routine. Con qualche giorno d'anticipo quel mese, ma niente di cui allarmarsi, no? Prendi ancora due aspirine prima di
andare a letto. Pensa ad altro. Troppo presto per dormire. Il telefono non aveva squillato una sola volta per lei, per l'intera domenica. Sedette al suo tavolo. Aprì il libro di geometria. Le parole stampate, le illustrazioni presero a ondeggiare. Lesse e rilesse il problema e già mentre leggeva dimenticava. Il gatto fece rotolare il rocchetto di filo color panna sul tappeto e a un certo punto Marianne non lo sopportò più e lo sgridò. «Focaccina! Basta.» Crudeli e ingiuste, alcune delle voci che giravano al liceo. Che le "brave ragazze cristiane", le ragazze "popolari", "carine" (ammesso che fossero davvero carine), venissero subdolamente premiate dai voti degli insegnanti. Marianne era certa che non fosse vero. Giusto? Lavorava sodo, era diligente, coscienziosa. Vero, le amiche erano liete di aiutarla con i problemi di matematica, con scienze che le creava guai. Anche i ragazzi dell'ultimo anno. Patrick raramente però: Patrick disapprovava. Al pensiero di Patrick, Marianne si mise a tremare. Era convinta che lui sapesse. Sulla station wagon, mentre tornavano a casa, quel suo modo di guardarla accigliato. Di certo avrebbe saputo l'indomani mattina, entro il termine delle lezioni. Oppure nessuno avrebbe osato dirglielo? In ogni caso, ci sarebbero state battutine sussurrate, allusioni che lui avrebbe sentito. Mulvaney! Credete di essere tanto per bene, eh? Da Trisha aveva fatto il bagno due volte, e poi una terza volta a casa nel pomeriggio, e adesso alle dieci di sera un quarto bagno, calando con cautela il corpo nudo, intorpidito, in un'acqua tanto calda da strapparle un gemito. Il bagno era pieno di vapore, quasi non vedeva nulla. La vasca era un enorme vascello di pesante porcellana bianca con piedi a forma di zampa. Da bambina, Marianne ci si perdeva, ridacchiava solo un po' spaventata e la spinta dell'acqua le sollevava piedi e gambe, le spingeva torso e testa all'indietro. Mamma la lavava in quella vasca, attenta a non lasciare scendere troppa acqua, e a non farla diventare troppo calda. L'acqua calda usciva dal rubinetto destro, la fredda dal sinistro. Non era proprio il caso di alzare il piede e provare a metterlo sotto il rubinetto destro. Non è successo niente che tu non abbia voluto e chiesto. Quindi tieni il becco chiuso. Capito? Lui l'aveva scrollata, forte. Per fermare il suo pianto, i singhiozzi. Il vomito che quasi la soffocava. Il puzzo in automobile che lo aveva infuriato. Nella vasca le correnti d'acqua calda si muovevano e torcevano assieme alle correnti di acqua fredda. Un rumoroso sgorgare che smorzava ogni al-
tro suono. Il cuore di Marianne batteva in maniera strana come aveva fatto la mattina in cui aveva udito il suo nome (il suo nome!) pronunciato dagli altoparlanti. Chiuse gli occhi perché non desiderava vedere le braccia e le gambe nude, chiare come latte, che galleggiavano come fosse un cadavere. I seni chiari e contusi, che galleggiavano. Gli orribili segni color prugna sull'interno delle cosce. Soprattutto non voleva vedere tentacoli di sangue. Gesù abbi pietà, Gesù fai che non mi accada niente. Sempre mantenere la dignità. Sei una Mulvaney, verrai giudicata in base a standard diversi. E in quel momento, nella tarda serata di una gelida domenica di febbraio, Marianne intuì che del proprio dolore si può fare un'offerta. Dell'umiliazione si può fare un dono. Capì che Gesù Cristo non ci manda nulla che non sia sopportabile perché persino le Sue sofferenze sulla croce erano state sopportabili. Non era morto. In dissolvenza, come in uno schermo televisivo sintonizzato su un canale senza immagini, si aprì davanti a lei quel vuoto perfetto.
Segreti In una famiglia, ciò che non viene detto è ciò che si cerca di sentire. Ma il rumore di una famiglia lo soffoca. Siccome Judson Andrew Mulvaney era l'ultimo dei Mulvaney, siccome ero Belfaccino, Fossette, Ranger, ero sempre l'ultimo a sapere tutto, le notizie buone o quelle cattive. E probabilmente c'erano tante cose che non ho mai saputo. Molto prima della crisi di Marianne, intendo. Quando ero un ragazzino dai ciuffi ribelli tutto occhi e orecchie, e se voleste immaginarmi come personaggio dei fumetti sarei stato una mosca con occhi sporgenti e antenne in perenne vibrazione. Per anni ho avuto un fisico minuto per la mia età, ed ero anche un tipino tranquillo così a volte, per compensare, mi mettevo a parlare a tutto volume dandomi una certa importanza a scuola, oppure, se ero solo con mamma, o con mamma e Marianne, a casa. Un ricordo che oggi mi imbarazza. E forse, inconsciamente, continuo ancora a comportarmi nello stesso modo. A imitazione di Mikey Junior che è stato il mio eroe finché sono arrivato alle superiori.
Mi eccitavano i segreti, le conversazioni segrete! Tutto ciò che, sapevo, non era cosa per le orecchie di Ranger. Quante volte ho origliato papà e mamma che parlavano appena al di fuori della portata del mio orecchio con quelle voci basse, da cospiratori, soprattutto papà, e mamma che mormorava quello che sembrava Oh! Oh sì! e ogni tanto Oh no! e il mio cuore si contraeva come un pugno: cosa non andava? Nessuna battuta? Nessuna risata? Papà e mamma che non ridevano? Il ricordo di quelle occasioni mi mette a disagio ancora adesso. Diciamo che papà e mamma erano di sopra nella loro camera da letto con la porta magari socchiusa, ma io avevo una paura folle di origliare, paura di essere scoperto. Oppure erano in cucina e la ventola sopra il fornello ruggiva e sbatacchiava per coprire la loro conversazione. (O almeno io pensavo avesse quello scopo.) Oppure si incontravano (per caso? improbabile) in una delle stalle o sul vialetto d'accesso, a una distanza strategica dalla casa e dagli edifici attorno, e parlavano, parlavano. A volte addirittura per un'ora. Discorsi seri da adulti. Una volta ero accucciato, a sbirciare da dietro la ringhiera del portico sul retro, e Patrick mi arrivò alle spalle e guardammo papà e mamma parlare, fuori portata d'orecchio, per parecchio tempo. Stavano sul vialetto d'accesso, vicino al furgone Ford di papà, in un torrido pomeriggio d'estate: mamma in jeans sporchi di letame e maglietta lurida e reggiseno a spalline, un disastrato cappello di paglia, macchie bianche di Noxzema sul viso ustionato dal sole; papà con il completo estivo da città, camicia sportiva a maniche corte, cravatta slacciata, impeccabili calzoni cachi con una cintura a treccia che gli stringeva la vita alla perfezione. Scuoteva le chiavi del veicolo in un gesto tipico (era appena rientrato da Mt. Ephraim? o stava per ripartire?) e parlava a mitragliatrice, e annuiva, senza sorridere per quanto non fosse esattamente imbronciato, e per Patrick e me era uno sconosciuto, uno di quegli adulti che in città o in televisione vedevi parlare con un altro uomo, o una donna, non come avrebbe parlato a un bambino o a una persona giovane ma in quel modo speciale, quasi usasse tutta un'altra lingua. A quei tempi papà era un bell'uomo, con un fisico da manzo (così gli dicevamo per prenderlo in giro), collo grande, torso solido, gambe un po' corte rispetto al resto; occupava sempre più spazio di chiunque altro; il suo parlare e gesticolare, anche quando era confuso, avevano un'aria d'autorità. Un uomo che era preferibile lasciare in pace. Un uomo a cui volevi piacere. Probabilmente stava discutendo di soldi con mamma: i problemi di soldi erano una delle principali categorie di quei discorsi riservati o magari, il che era all'incirca
la stessa cosa, si trattava di un veicolo o una macchina o un elettrodomestico che necessitava di riparazioni o di sostituzione («Tutto sta andando in pezzi in questa stramaledetta fattoria!» gemeva papà, e mamma ribatteva: «Non tutto, signor Mulvaney! Parla per te!» Una replica che a ripensarci non sembra tanto divertente, ma faceva piegare in due dalle risate chiunque si trovasse a sentirla); oppure, ed era l'eventualità che più ci innervosiva, parlavano di uno di noi. Quel giorno, sottovoce, chiesi a P.J. di cosa stessero parlando secondo lui papà e mamma, e lui mi disse con una scrollata di spalle: «Di sesso». Avevo nove anni. Troppo giovane per sapere cosa fosse il "sesso" o anche solo per immaginare ciò che poteva immaginare un quattordicenne come P.J. Guardai mio fratello, stupefatto. «Eh?» «Non lo sai, Belfaccino, che tutto ruota attorno al sesso? È la legge basilare della natura, quella che ci fa andare avanti.» P.J. era l'intellettuale di famiglia, nascosto per buona parte del tempo con libri di scienza e riviste e con i suoi "progetti"; aveva scoperto la biologia alle medie e riteneva che un certo Charles Darwin vissuto nel xx secolo avesse conosciuto "la risposta". Metà di ciò che diceva era, a bella posta, indecifrabile; non sapevi mai se fosse serio o se stesse solo facendo, come dicevamo noi, il Pizzicotto. Dissi: «Ci fa andare avanti? E come?». «Non so come» rispose altezzoso P.J. guardando sopra la mia testa. «So soltanto che è sesso. Tipo se un uomo e una donna litigano, o discutono, non è per soldi o perché bisogna fare certe cose o per quello che vuoi. È per il sesso.» Il che mi colpì, ma mi spaventò anche. Perché, come ho già spiegato, non si poteva mai dare per scontato che Pizzicotto dicesse cose serie, o nemmeno vere. Però c'era stata quella volta, anni prima, quando ero piccolissimo, forse tre anni. Svegliato di notte da un brutto sogno o dal vento che sbatteva qualcosa contro la casa, ero corso alla stanza accanto, ospite non invitato e inatteso nella camera da letto di papà e mamma, e la lampada sul comodino era accesa e io mi ero arrampicato a letto con loro, mi ero accoccolato contro di loro, talmente preso dalle mie paure infantili da non accorgermi di averli sorpresi, irritati o imbarazzati, nel mezzo di quello che all'epoca non avrei saputo definire un vigoroso rapporto sessuale. Ricordo solo la confusione, il cigolio delle molle e l'esclamazione di papà (credo sia stata «E che diavolo!») e mamma che in fretta e furia spingeva via papà, scac-
ciava le spalle e la schiena sudata, pelosa di papà, le natiche nude, le gambe muscolose, e tutti e due ansimavano come avessero corso. Mamma chiese in un sussulto: «Judd! Judd, amore, c'è qualcosa che non va?» e cercò di riprendere fiato, si coprì, nascose il seno nudo sotto il lenzuolo, mentre io cieco e uggiolante continuavo a raggomitolarmi contro di lei, e papà ricadde sulla schiena al nostro fianco con un avambraccio sugli occhi, imprecando con discrezione. Dissi che avevo paura, che non volevo stare solo, scalciai e mi agitai e ovviamente mamma mi consolò, forse mi rimproverò un poco ma le sue braccia nude erano calde e il suo corpo emanava un meraviglioso odore di lievito. Sopra la mia testa, sussurrò a papà: «Non avevi detto di avere chiuso a chiave la porta?» e papà rispose: «L'hai chiusa tu, hai detto» e mamma disse: «Judd si è spaventato, Michael, è solo un bambino» e papà disse: «Benissimo! Buonanotte. Io mi metto a dormire». E mamma prese a sussurrarmi cose, e mi fece smettere di piangere, e ridacchiammo assieme, e mamma spense la luce, e dopo un po' ci addormentammo tutti, in un caldo groviglio di sudore. E solo anni dopo mi resi conto di essermi introdotto a forza nell'intimità dei miei, e ormai era troppo tardi per provare imbarazzo. E se mi costringessi a rifletterci, forse dovrei ammettere di averlo fatto più di una volta, da piccolo. E ogni volta papà e mamma si interrompevano e mi accoglievano. È solo un bambino. (Corinne e Michael Mulvaney erano così romantici! Per tutti gli anni in cui noi figli siamo cresciuti, fino al momento di cui vi sto raccontando, quando le cose cambiarono. Mike pensava fossero imbarazzanti però abbastanza divertenti, ti costringevano a ridere, sempre a sbaciucchiarsi come giovincelli appena sposati o qualcosa del genere; P.J. restava chiaramente imbarazzato, e s'imbronciava, girava sui tacchi per uscire diciamo dalla cucina se si era imbattuto in mamma e papà che si baciavano oppure, come facevano a volte, improvvisavano passi di danza sulla musica trasmessa dalla radio, fosse adatta all'occasione o no: un sognante foxtrot o un ballo più veloce, meno coordinato, quello che chiamavano "jazz sfrenato", con il povero Piumotto in gabbia che cinguettava all'impazzata. Quando papà e mamma si incontravano in pubblico, anche se erano rimasti separati solo poche ore, e magari si ritrovavano il venerdì sera a una partita di football a scuola, in una ressa di un centinaio di persone, papà salutava mamma con un sorriso enorme e un «Ciao, amore!» dopodiché sollevava la mano di lei alle labbra e la baciava teneramente. Persino Marianne fremeva a quello spettacolo: troppo, troppo imbarazzante. Una volta, un'amica chiese a
mamma quale fosse il segreto suo e del marito, e mamma rispose, a voce bassa: «Oh, quell'uomo non è mio marito. Stiamo solo facendo un tentativo».) Segreti! Da bambino arrivi a vedere il mondo coperto da una grata di segreti che sono come onde elettromagnetiche, che forse lo tengono addirittura assieme. Ma non puoi sapere. Non puoi essere sicuro, come dicono i bambini. E se per caso inciampi in un segreto è come spalancare una porta in un punto dove credevi ci fosse soltanto un muro. Puoi sbirciare dall'altra parte, se sei abbastanza coraggioso o incosciente puoi persino entrare; correndo il rischio che ciò che scoprirai valga il prezzo che dovrai pagare. L'altra volta alla quale penso, quando Michael Jr. era all'ultimo anno di liceo, star della squadra di football, con la sua foto che appariva spesso sui giornali locali e il nome Mulo Mulvaney famoso nella contea, be', mi imbattei in un segreto, più o meno. Papà stava parlando con Michael e P.J. nella stanza per le riunioni di famiglia, a porta chiusa per evitare intrusioni (dovete sapere che la stanza per le riunioni di famiglia non aveva mai la porta chiusa, io anzi pensavo che non ci fosse nemmeno una porta), e io scesi la scala e sentii quanto bastava per stuzzicare la mia curiosità, qualcosa nella voce di papà, di solito allegra e ridanciana, un tono basso e intenso e vibrante d'emozione ed eccitante perché capivo che non era cosa per le orecchie di Ranger. Mi accoccolai davanti alla porta e premetti l'orecchio sul legno. Papà stava dicendo: «Non mi interessa chi sia la ragazza. Che reputazione abbia o cosa dica la gente. O che cosa ne pensi lei stessa. Nessun figlio mio verrà mai coinvolto in atti simili. Se qualcuno tratta in maniera rude una ragazza o una donna in vostra presenza, voi la proteggerete. Se significa mettervi contro i vostri amici, all'inferno gli "amici", chiaro?». La voce di papà si era alzata. Immaginavo la fronte corrugata, la mascella all'infuori, gli occhi che in momenti del genere parevano schioccare a mo' di frusta. Schioccare. Ti sentivi pungere il viso da quel tipo di sguardo, come da un pallino di carabina. Adesso so che papà, per giungere a tanta ira, doveva parlare di Della Rae Duncan. In città si era sparsa voce che metà della squadra di football di Mt. Ephraim aveva "avuto rapporti" con la ragazza ubriaca, dopo che i Rams avevano vinto il campionato delle superiori della contea di Chautauqua. Alla fine, ottenuta la parola, Mike implorò: «Ma io non ero con quei ragazzi, papà! Ho... ho saputo soltanto dopo». Papà chiese, scettico: «Ah, sì?
Quanto dopo?» e Mike disse: «Non... non so esattamente». «Un'ora? Cinque minuti?» «Dio, papà, no. Il giorno dopo, credo.» La voce di Mike era fiacca e spaventata, e secondo me mentiva. O forse papà lo aveva talmente spaventato che stava crollando. Per me era affascinante sentire mio fratello maggiore il Mulo rivolgersi a nostro padre nel tono di un bambino, il tono di me a dieci anni. Un pensiero si formò nella mia testa: Non cresciamo mai? Per qualche balorda ragione, era consolante. Parlarono ancora un po', papà e Mike, e alla fine papà si ammorbidi. «Va bene, Mikey. Ma se dovessi venire a sapere che sei stato coinvolto, o anche solo che al momento sapevi, ti spacco il culo. Ricevuto?» Mike mormorò: «Sissignore» con un tono quasi di gratitudine! P.J. doveva essere rimasto lì per tutto il tempo, allarmato e imbarazzato. Aveva appena quindici anni e non era quello che si sarebbe detto un soggetto "socialmente maturo" per la sua età; papà doveva avere deciso che fosse cresciuto a sufficienza per imparare certi fatti della vita, anche se al presente non lo riguardavano. Papà chiuse la seduta. «Okay, ragazzi! Per oggi, basta. Qualche domanda?» Mike e P.J. mormorarono un no. «Tanto perché sappiate che il vostro vecchio vi ama, eh? Tanto perché lo sappiate.» Corsi via, a nascondermi dietro un angolo, e dopo che papà fu uscito tornai in punta di piedi alla porta, e i miei due fratelli se ne stavano lì con l'aria di chi ha appena assistito a un incidente. Non mi videro, però io nemmeno cercai di nascondermi, esattamente. Mike si asciugava gli occhi, solenne ma eccitato, e scuoteva la testa. «Non si può mentire a papà. Pazzesco. Sì, ci puoi provare, ma non funziona. Pare quasi che lui sappia. Pare che riesca a sentire quello che pensi. Capisce sempre più di quello che gli dico e di quello che so.» P.J. si era tolto gli occhiali, stava pulendo le lenti sul lembo della camicia. Disse, petulante: «Io non ne so niente! Perché dà la colpa anche a me?». Mike disse: «Non ti è stata data nessuna colpa. La colpa di cosa? E nemmeno a me vengono date colpe, giusto? Non che me le meriti, di sicuro». P.J. disse: «Quelli sono amici tuoi, non miei. Non so nemmeno che cosa abbiano fatto». «Be', non lo so neanch'io.» «Sì, ci scommetto.» «Non lo so.» Mike camminava avanti e indietro, passandosi le mani nei
capelli. Visto da dietro, somigliava un po' a papà. Disse, in tono dolente: «È strano, sai sempre più di quello che dici. Succede a tutti. Quello che dici è sempre meno di quello che sai». «Sarebbe a dire?» «Quel che ho detto! Per esempio, se racconto di essere uscito con i ragazzi, e che ci siamo spostati dal punto X al punto Y, e dal punto Y al punto Z, be', dico la verità, però dico meno di quello che so.» P.J. era confuso. Come se Mike stesse dicendo cose del tipo che era la specialità di P.J. e P.J., trovandosi costretto a fare da ascoltatore, fosse in svantaggio. «Ma perché?» Mike ribatté, eccitato: «Perché dire una cosa è solo asserire un fatto. Se io dico "Mi chiamo Mike Mulvaney" dico molto meno di quello che so su me stesso, giusto? È impossibile dire chi io sia. Da dove cominciare? E dove finire? Così mi limito a dire il mio nome». P.J. disse: «Questo è vero per ogni nostra affermazione, no? Non diciamo mai tutto quello che sappiamo». «Giusto! Quindi mentiamo. Quindi quasi ogni nostra affermazione è una bugia. Non possiamo farci niente.» «Già. Ma alcune affermazioni sono più bugie di altre.» Quello, Mike parve non sentirlo. Aveva smesso di camminare e guardava in direzione della soglia, senza vedermi; aveva il viso lucido di sudore ma sorrise all'improvviso, quasi gli si fosse appena chiarito qualcosa. «Davvero strano, amico. Per me è come fare una scoperta. In sostanza, non dirò molto della verità per tutta la vita, non saprò nemmeno che cosa sia la verità. E di certo non potrò mai dire a papà qualcosa che lui non sappia già.» P.J. emise una risata sbuffante. Più tardi trovai mamma nel granaio delle antichità e le chiesi che cosa fosse successo, di cosa avesse parlato papà con i miei fratelli, e mamma disse che non ne aveva la più pallida idea. «Perché non lo chiedi a papà, Ranger?» Invece, chiesi a Marianne. Non lo sapeva, mi rispose in tutta fretta. Non sapeva niente di niente. La rivelazione «Cor-rinne! Ciao.»
Mercoledì mattina, una mattinata di frettolose commissioni, ed ecco la signora Bethune, la moglie del medico, avvicinarsi a Corinne con un sorriso e un cenno di saluto nell'ufficio postale di Mt. Ephraim. Non era una delle amiche di Corinne. Mantieniti in movimento, non attardarti e te ne libererai, ordinò a se stessa Corinne. Rivolse un sorriso vago alla signora Bethune e alzò la destra in un gesto ambiguo: un ciao o un addio frettoloso? Lydia Bethune apparteneva all'entourage ristretto del Country Club, del quale i Mulvaney facevano parte da tre anni; sempre vestita e agghindata alla perfezione, un esemplare della specie di donne attraenti e capaci la cui semplice esistenza pareva un rimprovero a Corinne. Per un mattino qualunque a Mt. Ephraim, Lydia non indossava calzoni di lana e una giacca a vento sporca come Corinne, ma una deliziosa morbida pelliccia di coniglio color ruggine, una di quelle indicibili pellicce "decorative", e costosi stivali in pelle che splendevano come fossero stati lucidati pochi minuti prima. I capelli, freschi di parrucchiera, erano di un biondo chiaro, con un taglio corto di gran classe; trucco impeccabile; sottili curve di sorriso si protendevano a raggiera dal rossetto rosa, come le vibrisse di Focaccina che sembravano vibrare d'emozione quando lui ti guardava. Lydia era una presenza familiare di Mt. Ephraim, attiva nelle associazioni benefiche, comprese ovviamente le ausiliarie dell'ospedale di cui faceva parte anche Corinne; sua figlia Priscilla era in classe con Patrick, una ragazza vistosa con un sorriso imbronciato: abbastanza carina, ammetteva Corinne, però grazie a Dio non era sua figlia. Le porte dell'ufficio postale si aprivano in continuazione, entravano clienti su clienti, a Corinne era preclusa la via di fuga. Si trovava praticamente costretta a fermarsi a chiacchierare con Lydia Bethune che era una brava donna, una donna per bene, ma aveva attorno a sé un'aura di profumata condiscendenza che faceva vibrare i nervi di Corinne. «Corinne, come va?» «Oh, be', sai. Ho molto da fare.» «Burt dice che vede spesso Michael al club, specialmente sul campo di squash, e io a volte pranzo lì, un giorno a settimana. Però non vediamo mai te.» Corinne mormorò una scusa vaga. Vero, andava di rado al Country Club di Mt. Ephraim, anche se Michael versava una cifra assurda per l'iscrizione annua, seicento dollari. Non giocava a golf nella stagione calda; non le interessavano i campi da tennis, le piscine coperte o scoperte; se voleva fare
ginnastica, bastavano ampiamente i lavori per la casa e gli animali. Soprattutto, non era una donna che "pranzava fuori"; l'idea la faceva sorridere. Vestirsi a puntino per andare a consumare pasti e bevande costose con donne come Lydia Bethune e le sue amiche! Non era proprio il suo stile. Ogni due o tre settimane, Michael pretendeva di uscire a cena il sabato sera con un'altra coppia o due, o magari andare a godersi un brunch domenicale con i figli, ma più di quello Corinne non accettava. E anche in quelle occasioni usciva a malincuore, come uno dei suoi figli adolescenti costretto a qualcosa che non voleva fare; si lamentava di non avere il vestito giusto da mettere, o di avere i capelli in disordine, o di non avere niente da dire a quella gente. Non essere ridicola, la prendeva in giro Michael. Anche noi siamo quella gente. Lydia Bethune chiacchierava, sorrideva, e il sorriso pareva tanto forzato da mettere Corinne a disagio. «Priscilla dice che Marianne era così carina al ballo. Ho visto le foto sul giornale...» «Oh, sì.» A Corinne ardevano le guance. Si identificava tanto con sua figlia, come poteva accettare simili complimenti? «Spero abbiate scattato fotografie.» «Be', sì.» «E...» Lydia era un po' scossa, ansante. «Come sta la tua famiglia?» «La mia famiglia?» Corinne rimase perplessa. «Per quello che mi risulta, stanno tutti bene.» Che incontro goffo. Corinne, povera, reggeva sotto un braccio un pesante sacco della spesa e sotto l'altro il suo borsone multiuso, pieno di libri della biblioteca pubblica. Il cappuccio della giacca a vento era scivolato di lato, per cui doveva piegare la testa per guardare Lydia Bethune; se avessero continuato la conversazione avrebbe dovuto toglierlo, per pura e semplice cortesia. Ma quanto desiderava fuggire! Lydia tirò fuori un altro argomento, una loro comune conoscente a cui avevano appena asportato una cisti da un seno, e Corinne mormorò che sì, Florence era fortunata che fosse benigna, e cercò di indietreggiare, di dirigersi alla porta. Diede un'occhiata all'orologio e lanciò uno strillo allarmato. «Mio Dio! Il parchimetro!» E così Corinne fuggì, probabilmente in maniera piuttosto scortese. Sentì Lydia Bethune urlare «Arrivederci» ma si limitò a sventolare una mano, senza girarsi. Ma cos'era successo? Scoprì di essere coperta di sudore sotto la giacca a
vento di nylon. Cerchi d'umidità grandi come una moneta d'argento da un dollaro si erano formati sui palmi delle sue mani. Non quel tipo di gente! Noi no! Tutto ciò e tutti coloro che avevano a che fare con il Country Club mettevano a disagio Corinne. E quando era a disagio diventava risentita, persino cattiva. Lei non avrebbe mai voluto iscriversi, naturalmente. L'idea era stata tutta di Michael Sr. Michael apparteneva già alla Camera di commercio di Mt. Ephraim, dove per anni era stato uno dei membri più giovani, vigorosi e attivi, e a un'associazione filantropica di ottime intenzioni per quanto non molto efficiente, gli Odd Fellows, e apparteneva allo Sportsmen's Club di Chautauqua per "motivi sociali e di lavoro", ma da più anni di quanti gli piacesse ammettere (almeno quindici) aveva desiderato con tutto il cuore essere invitato a entrare nel Country Club di Mt. Ephraim, il più "selettivo", il più "prestigioso", di certo il più costoso di tutti i club; di cui erano soci i più ricchi, eminenti e influenti abitanti del luogo, alcuni dei quali Michael Mulvaney considerava amici, o come minimo cordiali conoscenti: i Boswell, i Mercer, i Maclntyre, gli Spohr, i Lundt, i Pringle, i Breuer, i Bethune. Non c'erano molte famiglie di spicco nella contea di Chautauqua, ancora meno a Mt. Ephraim, ma Michael Mulvaney li conosceva, conosceva gli uomini; loro conoscevano lui e lo apprezzavano; non sarebbe stata un'esagerazione affermare che erano tutti pari. Era una sensazione che Michael avvertiva forte in cuore. Meritava di entrare a fare parte del Country Club. Meritava il privilegio di giocare a golf lì se avesse voluto, portare la famiglia al buffet del brunch domenicale, cenare nell'elegante salone panoramico affacciato sul campo da golf, fare una partita a poker con amici che la pensavano come lui, guardare i figli giocare a tennis, fare un salto dopo avere chiuso bottega per un drink, un sigaro, al bar Yankee Doodle del club. Una manovra strettamente d'affari sosteneva, ma Corinne capiva che quella era solo una parte delle motivazioni del marito, e di certo non la principale. Oh, avrebbe dovuto essere più comprensiva! Michael Mulvaney, figlio ripudiato di una famiglia della classe operaia di Pittsburgh, aveva ricostruito la propria immagine sotto le spoglie di un uomo d'affari di una piccola città americana con proprietà terriere, soldi e influenza, "noto" e "benvoluto" e "rispettato" nella sua comunità. Era stato un lupo solitario nella tarda
adolescenza, e adesso era un "padre di famiglia". Se anche non fosse mai diventato uno dei più ricchi cittadini di Mt. Ephraim e dintorni, aveva una buona probabilità di diventarne uno dei benestanti, "una specie di gentiluomo di campagna". O, se non proprio quello, almeno un amico, un caro conoscente, un pari sociale di quelle persone. All'inizio, con la sua tipica goffaggine, Corinne cercava di scherzarci su. «Amore, non ti bastiamo noi? La tua famiglia, i tuoi animali? High Point Farm e i suoi debiti?» Ma Michael rispondeva a smorfie, senza ridere. E il suo umore era tutt'altro che consolabile quando, anno dopo anno, fino ai primi anni settanta, attorno al 12 marzo, il comitato del club designato alle iscrizioni proponeva i nomi dei nuovi candidati da approvare, e Michael Mulvaney veniva regolarmente respinto. Corinne, intimamente sollevata e gratificata, commentava: «Quegli snob! Snob egoisti pieni d'importanza! Cosa te ne importa? Ti vogliamo bene noi». Michael scrollava le spalle, irritato, e se ne andava. Niente baci da Fischietto, niente abbracci e scherzi. Niente ringraziamenti. Dopodiché Corinne vedeva il marito fuori, in abiti da lavoro, portare balle di fieno, secchi d'acqua alla stalla dei cavalli. Addestrare i cavalli nel pascolo grande, assieme ai ragazzi. Si alzava presto per pulire i box dei cavalli, nutrirli e lavarli e spazzolarli: ovviamente, quei lavori duri, pesanti, che nessuno amava, erano responsabilità dei figli. Ma Michael andava a sfogare l'energia nervosa nei box. Com'è ferito, furibondo, pensava Corinne, scioccata. La colpiva al cuore, la lasciava debole, disorientata, l'idea che per Michael Mulvaney, a conti fatti, la famiglia non fosse sufficiente. Poi, nel marzo 1973, arrivò una telefonata dal club, seguita da una lettera, una raccomandata carica di strana solennità, e Michael Mulvaney venne accettato. (Non era un segreto che lo sponsor di Michael fosse un vecchio amico, un uomo con cui Michael aveva lavorato, un dirigente degli Odd Fellows, Morton Pringle. Mori, primo consulente legale della First Bank of Chautauqua, aveva affidato alla Mulvaney Tetti e coperture alcuni lavori che gli erano piaciuti moltissimo, e l'aveva raccomandata ai suoi amici benestanti. Un giorno Michael avrebbe appreso, per puro caso, che la sua candidatura al Country Club non aveva ricevuto un supporto unanime. Per rispetto a Mort Pringle, e perché in effetti Michael era una persona benvoluta a Mt. Ephraim, nessuno aveva votato contro di lui, però diversi soci, come risultava dal verbale, si erano astenuti.)
Corinne non fu lieta dell'invito, e ancora meno dell'eccitazione del marito all'averlo infine ricevuto. Dov'era il suo orgoglio? Dov'era il suo carattere? Perché doveva buttare soldi guadagnati con il sudore della fronte (duemilacinquecento dollari per "tasse d'ammissione", seicento dollari di quota annuale!) quando High Point Farm richiedeva esborsi continui, per non parlare dei ragazzi? Una famiglia con quattro figli che scoppiano di salute costa. «Siamo andati avanti per quasi vent'anni senza fare parte del Country Club di Mt. Ephraim. Perché iscriverci adesso? A chi importa?» chiese Corinne. Chiaramente, a Michael Mulvaney importava. Corinne, democratica e liberai, il tipo di protestante che non permetteva a nessuno di intromettersi tra sé e Dio, passò a sostenere che il club era antiamericano, anticristiano, immorale. «Solo per bianchi! E solo maschi! Le donne sono accettate soltanto come ospiti di mariti o parenti di sesso maschile!» «E con ciò?» chiese Michael. «E con ciò? Non capisci?» «Corinne, è un club privato. In sostanza si tratta di amici che stanno bene assieme e vogliono avere una sede dove ritrovarsi. Quando il club è stato fondato, nel 1925, c'erano solo dodici uomini. Erano amici. E con il tempo...» «Stop! Non credo a quello che sento! Tu, Michael Mulvaney, un bigotto. Un sessista. Uno snob.» «Ma che diavolo, Corinne? Non posso iscrivermi al Club femminile del giardinaggio o alla Lega delle elettrici. Non posso entrare in una confraternita di neri o nei Cavalieri di Colombo. Esistono country club riservati esclusivamente agli ebrei, club per italoamericani. Qual è il problema?» «È antiamericano, ecco qual è il problema!» «Al contrario, è molto americano. Ogni tipo di organizzazione, club privato, persino i club segreti. Si tratta di persone che decidono da sé quali amici vogliano avere.» «Amici? Il punto è anche escludere altra gente! È crudele, è discriminatorio. Pensa solo a come ti hanno fatto aspettare per anni. A quanto ti sei sentito ferito. A come hai tentato di riuscirci, alle campagne...» Michael si infiammò. «Lascia perdere il mio caso! Stiamo parlando di princìpi. Princìpi basilari. Il diritto di un gruppo di persone di...» «Di escludere gli altri per promuovere se stessi. Per scopi "d'affari". E per bere. Ho sentito certe storie sulle baldorie al club...»
«Corinne, tutti bevono. Chiunque voglia farlo, beve. I nostri amici bevono.» «I tuoi amici bevono...» «Sono anche amici tuoi! Non credo proprio che bere sia monopolio dei soci del club.» «Michael, questo ridicolo club discrimina due membri della tua famiglia! Marianne e io, essendo femmine, non possiamo nemmeno entrare dall'ingresso principale! Dovremmo passare da una porta laterale. L'ingresso per la famiglia. Lo sapevi?» Continuarono a discutere. Per giorni, per una settimana. La lite avvampava, poi si placava; come un insidioso incendio nella palude che sembra estinto, e invece ribolle sotto le ceneri. Corinne si incupiva, e Corinne era sarcastica, e Corinne era moralmente, spiritualmente sgomenta. Sapeva, sapeva di avere ragione! Ma i figli non erano ansiosi di prendere le sue difese. E restava in sospeso la domanda che Marianne le aveva posto un giorno con folgorante semplicità: «Mamma, non vuoi che papà sia felice? Noi, sì». Perché anche Marianne voleva appartenere al Country Club di Mt. Ephraim. Marianne soprattutto: tante delle famiglie delle sue amiche erano già iscritte. Così Corinne, che a conti fatti era un tipo sportivo, comperò un biglietto d'auguri con la scritta CONGRATULAZIONI! per Michael, lo fece firmare dai figli, mise le impronte delle zampe di cani e gatti, con i rispettivi nomi; e aggiunse un avvertimento tra parentesi: Una donna convinta contro la propria volontà resta sempre della stessa opinione. Firmò il biglietto TI AMO COME SEMPRE, FISCHIETTO e lo lasciò, assieme a una bottiglia di champagne, alla Mulvaney Tetti e coperture. Così, una sera del maggio 1973, Michael Mulvaney divenne socio del Country Club di Mt. Ephraim. E ne diventò ben presto un membro vivace, attivo, generoso con il proprio tempo, pronto a fare parte dei comitati, offrire consigli pratici su questioni come la manutenzione della sede, gli impianti idraulici, le relazioni pubbliche. «Verrebbe da pensare che vostro padre si sia candidato a un'elezione politica» commentò secca Corinne con i figli «si è trasformato in uno stringimani». Guardando l'affabile Michael Mulvaney che sorrideva, socievole, in blazer blu con bottoni nautici d'ottone e sgargiante cravatta a scacchi, che ai brunch domenicali si aggirava nel salone da pranzo a salutare amici, che veniva presentato a potenziali amici, stringeva mani, rideva, flirtava con donne che chiaramente lo adora-
vano, in maniera del tutto innocente, è ovvio (è ovvio!), Corinne dovette ammettere con un sospiro che il Country Club rendeva suo marito smagliante di felicità in un modo che High Point Farm, nonostante tutte le sue bellezze, non riusciva più a fare. Mi ha deluso? Oh, solo un pochino. Corinne ammirava il club, da lontano: l'edificio in pietra e immacolate assi bianche in stile coloniale, affacciato sul campo da golf, dolci colline verdi che parevano scolpite; il vialetto d'accesso in ghiaia, delimitato da abeti, con il minaccioso cartello all'inizio: MT. EPHRAIM COUNTRY CLUB PRIVATO RISERVATO A SOCI E OSPITI. Naturalmente, tra gli iscritti c'erano numerose ottime persone, persone che lei conosceva bene e che le piacevano molto, come lei piaceva loro, a prescindere dal club. Era solo che Corinne non riusciva a vincere i propri pregiudizi. Quando era lì non riusciva a rispettare, proprio non ci riusciva, le stesse persone che avrebbe rispettato fuori. Come avrebbe potuto Gesù Cristo ambientarsi lì? Sarebbe stato respinto come nuovo socio, anno dopo anno? Con il tempo, Corinne prese a recarsi al club sempre meno spesso, e alla fine solo quando Michael insisteva. «Mamma, tu non ci provi» obiettavano i suoi astuti figli. Ma perché Corinne Mulvaney avrebbe dovuto provarci? Chi pensava di impressionare, o ingannare? Vero, donne come Lydia Bethune erano abbastanza cordiali con lei, ma probabilmente (quasi certamente) per compassione; lei si sentiva strisciare addosso i loro sguardi, a soppesarla. Chi era Corinne Mulvaney, se non una goffa madre di campagna che tentava di spacciarsi per qualcuno che non era; una donna da tute da lavoro, jeans, calzoni o short di poliestere, non da abiti di cotone in tinte pastello, gonne di lino, scarpe nere eleganti con ridicoli tacchi e fibbie vistose? Al Country Club si deprimeva, la sua famiglia non riusciva a vederlo? Michael la metteva ancora più a disagio sostenendo che era una "donna maledettamente attraente", ma perché non si faceva tagliare e acconciare i capelli? perché non portava un po' di trucco, almeno il rossetto? perché non sorrideva di più? non si comperava qualche vestito nuovo? Marianne le diceva: «Mamma, sei bella quanto tutte le donne della tua età del club, anzi anche di più». Quando gli altri Mulvaney ridevano di quell'innocente insulto, Corinne più forte di tutti, Marianne avvampava e aggiungeva subito: «Volevo dire, mamma, che sei bella come qualunque altra donna. Davvero». I Mulvaney, una famiglia che amava ridere, emettevano risate ululanti all'idea.
Pensando quelle cose, sorridendo e facendo smorfie tra sé, Corinne non era preparata all'improvvisa apparizione (di nuovo!) di Lydia Bethune. Si fermò di colpo sul marciapiede, fissando la donna. Ma che cosa c'era sotto? Che diavolo poteva volere da lei la signora Bethune, la moglie del medico? Una presenza così imponente in pelliccia ruggine, capelli biondo chiaro, trucco lucido. Sorrideva nervosa a Corinne; sapeva benissimo che Corinne era a un solo passo dallo schizzare via. «Corinne, per favore. Posso parlarti di tua figlia?» Corinne fissò Lydia Bethune, battendo le palpebre. I suoi luminosi occhi azzurri adesso erano duri e senza espressione e opachi, e stringeva a sé i pacchetti e la borsa multiuso come nel timore che l'altra glieli potesse strappare. «Marianne? Cioè?» Lydia Bethune deglutì. «Non so esattamente» si scusò. «È solo una cosa che ha accennato Priscilla e poi io ho visto tua figlia, per caso, non a scuola. Però insomma nelle ore di scuola. Mi chiedo se ci sia qualcosa che non va.» Corinne chiese secca: «Dove hai visto Marianne?». «Alla chiesa di St. Ann. Sulla Bayberry. Ieri pomeriggio, quando ci ho fatto un salto. E oggi mi sembra... Be', l'ho vista entrare stamattina verso le undici.» Lydia tentò di sorridere a Corinne, da madre di un'adolescente a madre di un'adolescente, ma il sorriso a base di rossetto rosa si disintegrò come un fazzolettino bagnato. Le donne si scrutarono con sguardi inermi, perplessi. Corinne si morse il labbro. Cercando di bloccare il tremito nella voce, rispose: «Bene. Grazie, Lydia. Te ne sono grata». Mentre guidava verso la chiesa di St. Ann, Corinne pensò, calma Ecco come dovevo venirlo a sapere: da un'estranea. Bambini I ricordi si appannano, ecco il punto. Se la memoria non si appannasse non avremmo il coraggio idiota di fare, e rifare, e rifare le cose che ci straziano. Travaglio era il termine giusto. Certo si deve faticare. Come spingere in salita un carro carico di blocchi di cemento con tre ruote che non girano. Grugnendo, sudando, sforzandoti all'impazzata per mettere al mondo, come si dice. Si materializza un ruggito acuto, e poi una contorsione musco-
lare incredibile, come rivoltare te stessa, come fossi un guanto. E all'improvviso, dopo tante ore sembra sempre che accada all'improvviso, una corsa fuori dal tunnel verso una luce abbagliante, accecante. Arrivo, arrivo! Oh! Io! ARRIVO! Michael Mulvaney suo marito che sorrideva e stringeva i grandi denti, con goccioline di sudore che gli brillavano in viso come scarabei trasparenti. Oh i suoi occhi iniettati di sangue! Diciotto ore senza dormire! Spingi! spingi! spingi! uuuuhh! sollecitavano lui e l'infermiera, come cheerleader dementi. Sulla fronte del giovane marito sporgevano vene sul punto di esplodere. Corinne ti amo, ti amo ti amo, brava la mia ragazza bravaragazza! bravaragazza! SPINGI! Poi all'improvviso uscì da lei, finì tra mani guantate di gomma. Il bambino! Se n'era quasi dimenticata, era quello il succo della sua agonia, no? di tutto il caos. Il bambino, che si contorceva rosso e viscido come una creatura marina, assurdamente sollevato nell'aria aspra. Da dove venivano tanta potenza polmonare, tanto volume? Se si fosse messo a gemere con la stessa forza all'interno del ventre materno? Corinne rise all'idea, ebbra e stordita. Premette le nocche sbucciate contro i denti e rise, pianse nascondendosi dietro una mano. Oh Dio, ne sono degna? Sei certo di non avere commesso un errore? Corinne avrebbe messo al mondo quattro volte. Senza mai farsi furba. Anzi, ogni volta le sarebbe parso più assurdo: aveva fatto così poco e raccolto così tanto. Erano, lei e Michael Mulvaney, davvero tanto buoni, tanto forti, tanto intelligenti, tanto profondi che si potessero affidare neonati alle loro cure? Quella prima volta, all'ospedale di Rochester, nel marzo 1954, l'euforia le calò addosso come una droga. Il bambino rosso e scivoloso tra le sue braccia: un maschio! Un maschio! Michael Jr.! (In effetti, Corinne era sotto l'effetto di un farmaco che la drogava? Come si chiamava... Demerol? Coraggiosa e audace, aveva chiesto al medico di non darle sedativi, per favore no grazie, ma forse con la complicità di un marito ansioso il medico l'aveva messa ugualmente sotto sedativo senza dirglielo? intuendo che si sarebbe trattato di un lungo travaglio aveva sperato di mantenere le urla entro un livello rispettabile di decibel, era andata così?) E lì accanto c'era suo marito, il suo Michael Mulvaney che aveva sposato pochi mesi dopo averlo conosciuto, che amava più della propria vita, la vita che lei avrebbe lanciato in aria sicura che lui la avrebbe afferrata, sì, e per amore suo aveva messo al mondo quell'incredibile maschietto che scalciava e strillava.
Scherzando sotto le lenzuola appiccicose, sollevò il piccolo tra le braccia, perché loro non perdevano occasione di scherzare, erano un duo comico che faceva schiattare dalle risate le infermiere: «Guarda qui cosa mi hai fatto fare, Michael Mulvaney!». Erano sposati, era tutto legale. Ma Corinne si era tolta mesi prima la fede nuziale, un cerchietto di vecchio oro comperato a un banco dei pegni, nel timore di non poterlo più levare dall'anulare che si era gonfiato come le altre dita. L'unica puerpera del reparto maternità senza la fede, con dita nude. Così Michael non poté impedirsi una battuta, a voce tanto alta da essere udita all'esterno della stanza: «Immagino che adesso dovrò sposarti, eh, ragazza?». Le espressioni sulle facce di quegli sconosciuti. Quindi Corinne era una neomamma: leggermente toccata dalla follia delle neomamme. Sperava di nobilitarsi discorrendo con il medico (viene sempre voglia di far colpo su quella categoria: gli uomini d'autorità), in termini saggi, del riflesso di suzione, dell'attaccamento istintivo, e altri fenomeni clinico-antropologici simili. Voleva fare colpo su quell'uomo che conosceva appena, ma dopo tutto era stata una studentessa universitaria, anche se solo alla statale di Fredonia, che aveva lasciato tra il terzo e il quarto anno per sposarsi. Non era una ragazza immatura come certe altre ospiti del reparto maternità che avevano diciassette, diciotto anni, erano soltanto ragazzine. Lei, Corinne Mulvaney, era una giovane moglie matura quasi ventitreenne. Mentre il medico stava per procedere oltre, gli afferrò la manica del camice. «Dottore, aspetti! Una cosa!» e lui sorrise alla sua ansia. «Sì, Corinne?» e lei disse di corsa, inciampando sulle parole: «Lei... lei non pensa che Dio abbia commesso un errore, eh? Che possa cambiare idea e riprendersi il nostro bambino?». Marianne, la terzogenita, l'unica femmina, era destinata a essere la figlia miracolosa. Puoi avere un solo figlio miracoloso. Se sei fortunato. Però molta gente non lo è. (Quindi voi non dovete gongolare, è ovvio.) Corinne e Michael Mulvaney parvero capirlo subito, anche se erano ancora giovani genitori quando nacque la bambina; non avevano raggiunto la trentina. Accadde nel giugno 1959. Avevano già due maschi. Due maschi! Ma mentre Michael Jr. e Patrick Joseph erano stati urlatori e scalciatori sin dalla nascita, zucche dure, te-
stardi che passavano le notti a piangere in una sfida tra opposte forze di volontà («Tiratemi su! Coccolatemi! Lo so che ci siete!»), con ego maschili intransigenti e volitivi come i loro piccoli peni flaccidi, Marianne si rivelò dolce e amabile, un neonato angelo, un neonato amichevole. Un neonato, come osservò Michael Sr., che sembrava stare dalla loro parte. Due settimane dopo essere andata a vivere con gli altri a High Point Farm, quella bimba dormiva sette ore a notte, permettendo anche agli esausti genitori di riposare sette ore. Corinne e Michael si sorridevano. «Perché non abbiamo provato subito questo modello?» Non che non andassero pazzi anche dei maschi. Ne erano pazzi, ma in maniera diversa. Neonati maschi: imprevedibili fonti di energia animale anche nella culla. Capaci di maltrattare ed escoriare i seni di Corinne gonfi di latte. Con astuti occhi sdolcinati: Amami lo stesso! Quando dormivano, dormivano sodo. Specialmente Patrick nei primi sei mesi. Ma più spesso c'erano tonfi, cozzi, rumore di vetri infranti. Strilli infantili da lacerare le orecchie e fermare il cuore. Nel bagnetto, scalciavano e spruzzavano attorno l'acqua, rifiutavano il cibo, rifiutavano i pannolini: paonazzi in volto, si dimenavano come piccoli squali incagliati su una spiaggia. Mikey Junior, il primogenito, il neonato più grosso (quattro chili e un etto) sarebbe parso, con il tempo, il più distante: non era nato a Mt. Ephraim ma a Rochester; in un ospedale della "grande città"; era stato riportato a un bilocale in affitto in un quartiere degradato nei paraggi del centro, non a High Point Farm come gli altri. In retrospettiva, tutto questo sembrava proiettare su di lui una fosca luce urbana; tra rumori di traffico, frequenti sirene, urli isolati e misteriosi di sconosciuti nel cuore della notte. A volte pareva quasi che Mikey fosse nato a estranei, giovani genitori goffi, spaventati, che ancora non avevano deciso di preciso se volessero avere figli; se ciò che avevano messo in moto con la reciproca passione fosse davvero serio. Michael Jr., Mikey Junior, Ragazzone, destinato a essere chiamato un giorno Mulo e Numero Quattro: tutto maschio come un certo tipo di salsiccia si può definire tutta salsiccia. Singolare quanto somigliasse al suo giovane (ventisei anni, e spaventato) padre già in sala parto: naso rincagnato, mascella quadrata, occhi molto accostati di un caldo color cioccolata, riccioli rosso scuro che parevano trucioli di legno. La bocca belligerante che, baciata, si trasformava in zucchero. Entro il primo anno di vita Mikey era riuscito a incastrare la testa nella ringhiera della scala (nel bilocale in
affitto) al punto che il padre, terrorizzato, dovette togliere una delle barre di ferro per liberarlo. Aveva scovato e imprigionato nella mano un calabrone (sì, venne punto); abbrancato un giovane gatto che lo graffiò sopra l'occhio destro; sempre attaccato alla madre, tanto che Corinne aveva cominciato a pendere da un lato e soffrire di torcicollo cronico. Le sue prime parole, una comica imitazione degli ammonimenti dei genitori, furono Mikey! Piccolo! Nooo! Non appena gli spuntarono i denti, cominciò a usarli: mordicchiando giornali come un roditore affamato, azzannando le sbarre della culla, affondandoli nel cavo di un tostapane, che per fortuna al momento non era collegato a una presa. Portato per la meccanica come il padre, imparò molto in fretta ad accendere radio, televisore, lavatrice; a staccare la spina del frigorifero e dare il via allo scongelamento; a frugare nelle tasche della giacca del padre in cerca di monete che, tra strilli d'allegria, faceva rotolare e rimbalzare sul pavimento. Come attività più pericolose, imparò ad accendere forni e fornelli, ad avvicinare fiammiferi a una fiamma. Era comicamente aggressivo nel "proteggere" sua madre quando arrivavano ospiti. Dopo che i Mulvaney si furono trasferiti in campagna (che paese delle meraviglie per un bambino vivace, con tante stanze nella vecchia casa, gli edifici annessi, i campi, i boschi), coltivò l'abitudine di sfuggire alla sorveglianza dei genitori: si arrampicava fuori dal suo box e se ne andava in giro a fiutare come un cane, inesauribilmente curioso. Corinne strillava di continuo: «Mikey! Mikey dove sei?» e lo rincorreva. Una volta, a due anni, Mike seminò Corinne mentre lei lavorava nell'orto e scomparve per novanta minuti; per essere poi ritrovato dai genitori terrorizzati pacificamente addormentato in un angolo buio, caldissimo del fienile. Mikey Junior era schizzinoso con il cibo (scherzava Corinne) come un porcellino. In effetti, aveva uno stomaco d'acciaio: se non vomitava immediatamente dopo avere ingerito generi alimentari problematici (cibo per cani rancido per esempio), digeriva tutto senza effetti collaterali visibili. Sopravvisse a cadute, tagli, contusioni, punture di insetti, edere urticanti e querce velenose. Le furibonde crisi di pianto passavano in fretta come nubi spazzate via dal vento, subito dimenticate. Come un anfibio, pareva già conoscere l'arte del nuoto ancora prima di essere delicatamente accompagnato, all'età di tre anni, nelle acque più basse del lago di Wolf's Head, mano nella mano dal suo papà. A cinque anni si tuffava senza bisogno di assistenza nel lago, agile e scimmiesco nell'imitazione di Michael Sr. (all'epoca quasi snello, giovanile, con spalle forti, braccia e gambe muscolose che lo spingevano a testa avanti nell'acqua diritto come un siluro). Un bambino solare, mai pia-
gnucoloso, di buon carattere. «Però, diamine!» sospirava spesso Corinne. «Ci fa sudare sette camicie.» Invece Patrick, nato quando Mikey Junior aveva quattro anni, era un neonato agitato, nervoso. Del tipo che per esprimersi scalcia e si agita. I genitori ridevano deliziati. Quei piedi stranamente lunghi e stretti, come pinne. Quegli occhi azzurro chiaro, come quelli di Corinne, un poco sporgenti. I capelli castano chiaro che gli crescevano a piccoli ciuffi sulla testa a uovo, come pensieri profondi solo parzialmente formulati. Un bambino dagli standard elevati, si vantavano i Mulvaney. Un bambino che ti teneva sempre sul chi vive. Un cervello che pensava a raffica come il ticchettare di un orologio nel palmo della mano. Ma anche capace di tenerezze da sciogliere il cuore: quello era Patrick, il piccolo Pizzicotto. A undici mesi si reggeva più o meno in piedi da solo e sparava chiacchiere assurde a pieni decibel con l'aplomb di un piccolo Mozart, tra lo stupore dei genitori. Corinne era incantata, disorientata. Il suo piccolissimo bambino sapeva esprimersi con la stessa energia del marito, e dimostrava la stessa forza di volontà. Voleva che le cose andassero a modo suo però, un secondo dopo, si scioglieva in tenerezza e voleva solo essere abbracciato, rassicurato. Avrebbe potuto sentirsi schiacciato dal fratello maggiore Mikey ma nutriva per lui, presenza fisica tanto più imponente e forte, un reverente rispetto. Senza dubbio non riuscì a distinguere, per un certo tempo, tra mamma, papà e Mikey in quanto figure di autorità casalinga. Sin da piccolo Patrick possedeva un istintivo senso del giusto e del non giusto, e spesso metteva in imbarazzo i genitori aggrottando il visino onesto in smorfie davanti a gente che non gli piaceva, come in presenza di un cattivo odore. Si ritraeva con il corpo, sporgeva in fuori il labbro inferiore, puntava l'indice ed emetteva borbottii di disapprovazione. «Non piace, non piace» pareva dichiarare. Le donne troppo truccate o profumate lo disturbavano, e anche il reverendo Earkin (della prima chiesa battista di Eagleton Corners) che parlava in uno stridulo tono nasale, le persone che parlavano con troppa enfasi o ridevano troppo forte, o erano condiscendenti con lui, o si fermavano a High Point Farm per visite troppo lunghe. Negli anni in cui era ancora all'opera per stabilire la propria reputazione a Mt. Ephraim, Michael Sr. godeva dell'amicizia di diversi personaggi locali: Wally Parks, per esempio, che gestiva un piccolo aeroporto a Marsena, Haw Hawley che possedeva una taverna sul lago di Wolfs Head ed era corpulento e aveva una barba nera e fumava sigari scadenti dall'odore acre. Patrick trovava particolarmente sgradevoli quegli uomini e non nascondeva i propri sentimenti. «Per fortuna il ragazzo ap-
prova me» commentava secco suo padre. Poi giunse, inattesa, la terza gravidanza di Corinne. La terza! Così a ridosso della nascita di Patrick. Senza fiato, un po' stordita, Corinne disse ai due maschietti che Dio mandava loro una sorpresa perché erano bambini tanto bravi. Voleva produrre altri esemplari della loro specie da mandare a High Point Farm. Mikey ne fu eccitato, ma Patrick era troppo piccolo per capire. Quando, un giorno, la minuscola neonata venne portata a casa e presentata come "la vostra sorellina Marianne", lui la fissò, sporse in fuori il labbro inferiore e, a occhi sgranati, si mise a farfugliare con impeto. Anni dopo Patrick avrebbe sostenuto di ricordare quel giorno. Aveva pensato che la sorellina fosse una maialina. Così a High Point Farm arrivò la figlia miracolosa, la femminuccia Mulvaney. Corinne diceva scherzosamente che Dio aveva mandato Marianne un po' prima del previsto (sì, stavano praticando il controllo delle nascite, più o meno) per dimostrare che un figlio poteva essere, be', un'esperienza un po' diversa dal solito. Non era un'esagerazione. Marianne era una bambina bellissima, dolce, con occhi grigioazzuri, capelli scuri a riccioli, visino squisito da bambola di porcellana. Così deliziosa che Corinne restava china sulla culla a guardarla e guardarla. Una bambina che si addormentava e si svegliava con un sorriso. Che poppava calma dal suo seno e si lasciava lavare, avvolgere asciugata e imborotalcata nel pannolino e nei vestitini, con mormorii e gorgoglii di perenne sorpresa e piacere. Perbacco, la vita è divertente! Io ti amo! Le crisi di pianto erano infrequenti, le arrabbiature rare e brevi. (A differenza di Patrick, che aveva innalzato a nuove vette l'arte di esprimere ira.) Non appena qualcuno, compresi cani e gatti, entrava nel suo campo visivo, Marianne alzava le braccine, ansiosa di essere stretta o sollevata. Con grande imbarazzo di Corinne, donne più anziane, madri con figli cresciuti, scoppiavano in lacrime alla semplice vista di Marianne, come di fronte a ricordi tanto preziosi quanto inesprimibili. Quegli anni. I due genitori erano ancora giovani, e di certo apparivano a se stessi pasticcioni, umili, incerti, privi d'esperienza; si inventavano la vita di giorno in giorno. Voi Mulvaney! Quanto siete fortunati! era il ritornello. (Perché all'epoca Michael stava dando prova di sé anche come uomo d'affari di Mt. Ephraim; una dinamo d'energia alla guida della Mulvaney Tetti e coperture). Asserzioni del genere li lasciavano, Corinne in particolare, inquieti, inclini alle scuse e ai sensi di colpa. Sì, ma non ce lo meritiamo.
Giusto? La loro bellissima Marianne, i loro preziosi Patrick e Mikey: di già, come in un sogno, il loro amore aveva prodotto il raccolto di una famiglia. Coricata a fianco del marito a letto, la sera, mentre il respiro di lui decelerava e si faceva più profondo, Corinne cercava di dormire, perché era sempre esausta, ma non sapeva impedire alla mente di correre, volare, passare in rassegna i ricordi della giornata come si potrebbe frugare in un cassetto in cerca di un oggetto d'uso quotidiano; come in cerca di un indizio; e all'improvviso, sveglio nonostante tutto, Michael mormorava: «Di tutti loro...» (senza bisogno di preamboli, di spiegazioni, come stesse semplicemente dando voce alle preoccupazioni di Corinne, in un continuo flusso di pensiero che scorreva tra madre e padre, tra i genitori) «... è lei a meravigliarmi». Lei: la nostra bambina Marianne. Che dormiva nella sua culla a poca distanza. Più Corinne era a disagio, più leggero, giovialmente scherzoso diventava il suo tono delle ore piccole. Scrollando le spalle nel buio, Michael diceva: «Diavolo, è difficile da spiegare, è un po' folle immagino... come se Dio ci stesse affidando qualcosa che forse non siamo abbastanza buoni, abbastanza forti per meritarci». E Corinne rideva, faceva scivolare un braccio sul petto massiccio, caldo del marito, sentiva i peli ispidi sotto il sottile cotone della maglietta e gli si rannicchiava contro. «Michael Mulvaney, che cosa da dire! Come se Dio non sapesse quello che fa. È la cosa più stupida che ti abbia mai sentito dire.» Con gli occhi spalancati nel buio, le labbra ritratte sui denti. E che dire di Judson Andrew, in questa ricognizione sui figli Mulvaney? Mi ero quasi scordato di parlare di me. Mi è facile dimenticarmi! Mi dicono che ero un bambinetto "perfettamente adorabile", il che penso significhi "perfettamente ordinario": nessun tratto particolare, niente gesta memorabili. Una predilezione per lo stato di veglia, una devozione da cagnolino per i fratelli e la sorella. Esistono fotografie di noi tre, volevo dire noi quattro, in cui Mikey Junior, robusto ragazzino riccioluto, culla me, quasi neonato, tra le braccia, con uno sfolgorante sorriso all'obiettivo; esistono foto di noi quattro in posa con animali di casa, o accoccolati su staccionate, o su pony, con mamma o papà che tengono diritto il più piccolo, nascosti sul fondo. Una delle mie istantanee preferite, che ho rubato quando lasciai High Point Farm, ha sul retro la grafia di mamma, Cinciallegra & il piccolo Judd, Natale 1964; ritrae la mia bellissima sorellina di cinque anni, tutta sorriso e riccioli ribelli, in posa con me, mocciosetto strano e stu-
pefatto, in una tutina verde, in mezzo a una sfolgorante montagna di regali di Natale. Marianne era "mammina": dava una mano ad accudirmi, nutrirmi, lavarmi, vestirmi. Mamma dichiarava che "mammina" era brava quanto "mammona" in molte cose. Cambiare pannolini, addestrarmi all'uso dei servizi igienici. Sul vasino, il piccolo Judd era "pronto ad accontentare", e che cosa significasse di preciso quella frase non l'ho mai voluto sapere. Ovviamente ci sono meno foto di me da piccolo che degli altri figli nel traboccante album di famiglia; non l'ho mai visto come una mancanza di interesse per me personalmente (so che mamma mi amava, e molto) ma come una diminuzione di interesse per il soggetto dei bambini piccoli. Dopo tutto, chi potrebbe rimproverare qualcosa ai miei? Per annunciare la mia nascita, mamma spedì diverse decine di cartoncini a inchiostri colorati, preparati da lei stessa. Disegnò un vagone per il personale viaggiante in stile cartone animato in fondo a un lungo, sinuoso treno merci. JUDSON ANDREW MULVANEY 11 luglio 1963 3 chili e 300 grammi capelli castani, occhi castani, naso rincagnato SIA LODE A DIO L'ULTIMO VAGONE DEI MULVANEY È ARRIVATO! Una ragazza ferita Non sapevo, Dio mi aiuti. Non ho capito. Però penso che in parte debba essere stata colpa mia. Sono sua madre, deve essere stata in parte colpa mia. Aspetto. Dio, spero di capire. La chiesa cattolica di St. Ann, sul punto più alto di Mercer Avenue e sul retro un cimitero candido di neve, era una delle poche chiese di Mt. Ephraim in cui Corinne non avesse mai messo piede. Non soltanto era una chiesa cattolica (e Corinne, protestante fino alle punte dei capelli, provava una nervosa inquietudine nei confronti della fede cattolica), ma in tutta la parrocchia lei e Michael Sr. non avevano amici intimi che potessero invitarli a matrimoni, battesimi, funerali. Corinne si domandò: Marianne ha un'amica a St. Ann? Qual è il suo rapporto con questa chiesa?
Parcheggiò la station wagon di fronte alla chiesa, di fretta, con una ruota sul marciapiede, e nemmeno se ne accorse. Grazie a Dio, suo marito non era presente. Grazie a Dio, il parcheggio della chiesa era quasi vuoto, perché a quell'ora del pomeriggio non c'erano messe e in giro non c'era nessuno. O almeno così sperava Corinne. Si rallegrò al pensiero che le pesanti porte in legno fossero probabilmente sbarrate dall'interno. La chiesa di St. Ann era grande, per gli standard di Mt. Ephraim. Mattoni rosso scuro, smangiati dagli agenti atmosferici; vecchia, ma imponente; una svettante torre campanaria. Colombi selvatici svolazzavano sotto le grondaie e i loro escrementi erano lacrime cristallizzate che colavano dall'alto. La chiesa sorgeva in un ricco quartiere residenziale della zona nord, con attraenti vie alberate, case monofamiliari su lotti di terreno da un acro. Un quartiere dove vivevano molti soci del Country Club. Corinne provò una vampata di antico, automatico sdegno e dovette fare uno sforzo per controllarsi. Nella sua mente risuonò la voce ironica e scherzosa di Michael Sr.: Ragazza, guarda che anche tu sei una di loro. Si ricordò, con una certa disperazione, che i LaPorte abitavano a un solo isolato da lì, all'incirca. Trisha era la migliore amica di Marianne. Poteva essere quello il collegamento? Una vetrata istoriata, rosa, dava sul marciapiede. Corinne adorava le vetrate istoriate, soprattutto quelle vecchie. Così belle, se ben fatte, specialmente viste dall'interno di un edificio, con il sole dietro. Era quello che attirava Marianne in una chiesa cattolica? Cose da vedere? Vetrate, statue. Altari laminati in oro. Le sobrie chiesette di campagna con la struttura in legno, dove Corinne portava i figli (la prima chiesa di Cristo di South Lebanon era al momento il loro luogo d'adorazione), erano tutte così semplici e spartane e spoglie. Non offrivano molto all'immaginazione di un'adolescente. Ma non era proprio quello il punto, dopo tutto? Gesù è uno spirito in noi. Non un oggetto da ammirare. Corinne provò una delle porte massicce, con cautela. Si aprì. Il cuore le batteva a un ritmo doloroso. Entrò nel vestibolo fiocamente illuminato e un odore tra il dolce e il rancido le pizzicò le narici. Incenso. Un retroaroma di muffa. L'inconfondibile odore di un pavimento a mattonelle ormai talmente vecchie che è impossibile pulirle sul serio. Come stesse già provando l'approccio giusto per riferire quell'avventura, raccontarla in maniera sapiente per fare ridere gli ascoltatori. Pensò: Si capisce subito che non è una delle nostre chiese, è una delle loro! Fu un lampo: ma certo, si era accorta che sua figlia aveva qualcosa, negli
ultimi giorni. Qualcosa che non andava. Da domenica. Da quando aveva telefonato. Una madre sa sempre, non può non sapere. Ma Corinne aveva avuto talmente da fare che non si era messa a indagare. E non era sempre stata fiera di non essere il tipo di madre che "indaga", per principio? Voglio che i miei figli si fidino di me. Che mi considerino una loro pari. Un crudele contropensiero la sbeffeggiò: No, hai solo paura di quello che potresti scoprire. Una chiesa nuova è sempre inospitale e St. Ann, con il soffitto alto e gli ornamenti interni, non parve darle il benvenuto. Lungo le pareti erano disposte statue, statue che dovevano rappresentare Gesù, Sua madre Maria e altri santi: abbigliamenti ricchi, grandezza naturale, tratti caucasici. Da adorare come un pagano potrebbe adorare: l'occhio incollato all'oggetto, confuso su cosa realmente sia. E su quale spirito lo animi. Quasi sul fondo della chiesa c'era un altare laterale in miniatura, con candele votive dalle fiamme ondeggianti. Davanti a quell'altare era inginocchiata una donna anziana, a testa china. Sussurrava preghiere stringendo un rosario tra le dita. Allo sbocco del grande corridoio centrale c'era l'altare principale, sfarzoso come un palcoscenico, sfolgorante d'oro o dorature; coperto da un drappo di raso bianco, con molti ornamenti e vasi di fiori che cominciavano ad avvizzire. Sopra, una grossa croce alla quale era inchiodato Gesù Cristo, coronato di spine, chiazzato di sangue, un Salvatore con i capelli e la barba scura e gli occhi teneri, contorto in un'estasi di sofferenza. Corinne lo fissò. La meraviglia e l'orrore della crocifissione calarono di nuovo su lei. Gesù perdonaci poiché non sappiamo quello che facciamo. In realtà, St. Ann non era deserta. Tra le panche in legno erano disseminate diverse persone. Sull'estrema destra, sotto una rete sghemba di luce ambrata che colava da una vetrata, sedeva Marianne. Portava la giacca a vento azzurra, con il cappuccio abbassato; i capelli erano in disordine e la testa piegata in avanti, una mano sollevata sugli occhi. Sembrava che le sue labbra si muovessero in silenzio. Corinne la raggiunse in punta di piedi e si chinò. «Marianne?» mormorò, forzando la bocca a un sorriso. «Amore?» Fu come se le avesse urlato all'orecchio. Marianne sobbalzò, si ritrasse. Gli occhi erano lucidi, gonfi, e in quel primo istante non diede segno di avere riconosciuto la madre. «Amore? Sono soltanto io.» Marianne si alzò e dal grembo, rumorosamente, le cadde un libro sul pa-
vimento: la sua Bibbia, un regalo natalizio di Corinne di tanti anni prima. D'istinto Corinne si protese a toccare la figlia. Passò una mano tremante sui capelli arruffati di Marianne, li scostò dalla fronte. Adesso il suo cuore batteva con forza terribile. Sapeva, sapeva; ma che cosa? Avrebbe voluto stringere forte la figlia tra le braccia, povera bambina, povera bambina infelice, ma non osava. C'era gente a guardare. E Marianne, con un'astuzia da adolescente, la evitò chinandosi a raccogliere la Bibbia, poi i guanti, la borsa dei libri, la borsetta al suo fianco sulla panca. Osservando dall'esterno, si sarebbe potuto pensare che Marianne aspettasse che la madre arrivasse a prenderla e riportarla a casa, come faceva tanto spesso. «Bene. Magari dovremmo... andarcene?» sussurrò Corinne. Sorrideva con tale impeto che il suo volto, visto da dentro, le sembrava una di quelle facce ridicolmente felici. Mai implorare un figlio, aveva ammonito molto tempo prima la madre di Corinne. Mai. Che frase strana, inattesa, da Ida Hausmann alla propria figlia, e detta d'impulso. Come se lei, Ida Hausmann, non avesse mai implorato per qualcosa uno dei suoi figli. Eppure Corinne, confusa, speranzosa, implorava la figlia che la spaventava con lo sguardo vago, la pelle meno liscia del solito, i capelli gonfiati dal vento. «Andiamo a casa, amore? Sì?» Andare a casa, a High Point Farm: il rimedio di Corinne per ogni tristezza. Guidava la Buick su strade che appena intravedeva. Parlava in continuazione, allegra, nervosa. E la radio era accesa sulla sua stazione preferita, la YWEW-FM di Yewville. Inutile sconvolgere Marianne, o se stessa, così usava un tono dolce, ripeteva le semplici domande: Che cosa c'era? Era successo qualcosa? Perché Marianne non era a scuola? Cosa non andava? Rigida sul sedile al suo fianco, come un'estranea timorosa di essere toccata, Marianne pareva quasi non sentire. Aveva le labbra secche e screpolate; la pelle, sempre così fresca e liscia, era come coperta da un'ombra, una carnagione dal colore triste. Occhi gonfi: aveva pianto. Ma certo, pianto. E i capelli, i suoi deliziosi capelli crespi, spettinati, arruffati, sporchi. Come aveva potuto uscire di casa al mattino in quello stato senza che Corinne se ne accorgesse? Corinne era cieca? Alle domande, Marianne mormorava, quasi impercettibile, qualcosa che
sembrava Non lo so, mamma. Corinne si fece più audace. «C'è di mezzo l'ultimo weekend? Il ballo? È successo qualcosa al ballo, o dopo?» Marianne scosse la testa, non con forza, ma come si può scrollare la testa per schiarirsi le idee. Era ingobbita sul sedile, con la cerniera della giacca a vento alzata fino al mento. Una luce invernale, filtrata dalla sporcizia di un parabrezza che aveva un bisogno estremo di un lavaggio, la faceva apparire minuta, delle dimensioni di una bambina. In grembo, stretta fra entrambe le mani, c'era la Bibbia in finta pelle nera, la Bibbia di Cinciallegra farcita di santini multicolori e segnalibri. «Hai avuto una discussione? Hai litigato? Con una delle tue amiche?» insistette Corinne. «Amore, a me puoi dirlo.» Con una sensazione di sgomento, ricordò che la sera prima, anziché sedersi a tavola con la famiglia, Marianne aveva balbettato una scusa, emicrania, dolori allo stomaco, ed era salita nella sua camera con formaggio fresco e purè di banane, ma come poteva Corinne sapere se avesse davvero mangiato? E quel mattino, con la fretta dell'ultimo minuto, una colazione di corsa o forse niente di niente: chi poteva dirlo nel caos della cucina al mattino? E il giorno prima? Corinne era cieca? «Patrick lo sa? Che hai saltato la scuola e... e quello che non va, qualsiasi cosa sia?» Corinne perse lucidità, improvvisamente furibonda con suo figlio. Patrick che per cinque mattine a settimana saliva sull'autobus della scuola con la sorella, Patrick che avrebbe potuto accorgersi che Marianne non era a scuola. Anche se frequentavano classi diverse, lui avrebbe potuto saperlo. Maledetto Pizzicotto, così chiuso in se stesso! Se Marianne rispose, Corinne non sentì. Si stava avvicinando a un passaggio a livello. Frenò per evitare la collisione con un altro veicolo. Sussultò e, con un sorriso contrito, fece un cenno a qualcuno, un uomo (lo conosceva? il furgoncino le pareva vagamente familiare) che si era messo a strombazzare il clacson, irritato. «Oh! Scusa, cara.» Scoccò un'occhiata ansiosa a Marianne che aveva girato la testa, guardava fuori dal finestrino laterale senza vedere. Una ragazza ferita, una ragazza scossa. Una ragazza che Corinne non conosceva. Se solo si fosse girata verso di lei, se le avesse dato il minimo segno, l'avrebbe presa tra le braccia e stretta forte. Invece, Corinne continuò a guidare, sobbalzando mentre attraversava i binari della Chautauqua & Buffalo, avvicinandosi al margine scalcinato
del centro di Mt. Ephraim senza esattamente sapere dove fosse. Passò allo stile aneddotico di conversazione. «Lydia Bethune, sai com'è fatta! Mi ha accennato, ci eravamo incontrate all'ufficio postale, di averti vista in chiesa, quella che apparentemente frequenta lei, non a scuola, e io le ho detto "Deve esserci un errore. Sono certa che Marianne è a scuola. Non perde mai un giorno di scuola". E lei ha detto "Be', pensavo volessi saperlo, Corinne. Io vorrei saperlo se fosse mia figlia". Così le ho detto...» La voce di Corinne correva, precipitava. Come le fosse impossibile fermare il flusso di parole, come se il silenzio di Marianne fosse uno spazio che andava riempito; come se l'interno della station wagon (con il retro talmente intasato di detriti di famiglia da provare vergogna) andasse riempito. Sentì la propria voce che diceva, in tono ferito, di quelli che si potrebbero usare con una bambina molto piccola: «Che sorpresa è stata, Marianne. Venire a sapere una cosa così privata, insomma, dovrebbe essere privata, tenuta in famiglia, no? Da una perfetta estranea. Oh, non che Lydia Bethune sia una perfetta estranea, però...». E ancora e ancora, all'ultimo respiro. Tremante, con la lingua assurdamente intorpidita, intirizzita. Anche se il riscaldamento al massimo le soffiava in faccia. E armeggiava con la manopola della radio: la voce fortissima, falsamente eccitata dell'annunciatore che leggeva un messaggio pubblicitario (e l'annunciatore era Ted Wintergreen che lei aveva conosciuto alle superiori: in quei giorni un timido ragazzo di campagna dal colorito olivastro) la distraeva. Sotto lo scalcagnato cavalcavia e su per la ripida salita con il fondo pieno di buche, a superare il Blue Moon Café dove anni prima, quando aveva appena iniziato l'attività, a volte Michael andava a pranzo: lo Speciale del Blue Moon, scherzava, prendeva in giro Corinne dicendo che avrebbe potuto prepararlo lei in casa, un grande piatto di carne trita troppo unta e salata, con il ketchup, assolutamente delizioso. Il retro scalcinato del vecchio centro civico, in arenaria, destinato a essere raso al suolo e ricostruito con i fondi della contea. (Il costruttore era un amico e collega di Michael Mulvaney e il tacito accordo era che al tetto dell'edificio avrebbe provveduto la Mulvaney Tetti e coperture.) Cartelli VENDESI/AFFITTASI che spuntavano come erbacce. Tantissimi edifici invecchiati. Anche la sede degli Odd Fellows, una villa "storica" donata a fini fiscali, malconcia tra le montagnole di neve sporca. Corinne svoltò in una stradina laterale, una parallela della South Main. Superò sul retro (doveva essere in corso una consegna, eseguita da un camion color lamiera) la Mulvaney Tetti e coperture. Solo più tardi si rese
conto che non le era nemmeno passato per l'anticamera del cervello di chiedere a Marianne se volesse andare a trovare papà. Adesso sulla Fifth, l'Associazione della gioventù cristiana con la nuova elegante facciata, di fronte a un vecchio edificio in pietra degli anni quaranta. Corinne ricordò che una vita prima, quando era una giovane teenager, a volte andava a nuotare nell'acqua bluastra, fetida di cloro, della piscina dell'Associazione delle giovani cristiane di Ransomville, in una delle sue rare puntate in città. Se eri una ragazza di campagna, figlia di un agricoltore, ritenevi preziose quelle occasioni come nessun ragazzo di Ransomville avrebbe mai fatto. Ciò che eccitava te, un dono della provvidenza, per loro era solo routine, qualcosa di scontato. Addirittura noioso. Come diplomarsi alle superiori (Corinne Hausmann era stata la prima della sua famiglia), come insistere per poter andare all'università a Fredonia (che passo audace). Con una stilettata di affetto sentimentale e imbarazzato, Corinne si vide procedere di buon passo sulla via, ragazza alta magra dinoccolata, con le guance perennemente arse dal vento, gli occhi luminosi, il cuore che traboccava d'eccitazione per... oh, per tutto! Per la vita. Per l'amore. Innamorarsi. Sposarsi e avere figli. Tutte cose che nella sua timidezza, nei dubbi che nutriva su se stessa, Corinne Hausmann sapeva non sarebbero mai potute accadere a lei. Marianne aveva preso dalla borsetta un fazzolettino di carta terribilmente spiegazzato e, senza farsi notare, si soffiava il naso. Corinne si proibì di dire, con la pratica della madre rotta a tutto, prendi un Kleenex nuovo dalla mia borsetta, dài. Invece guardò Marianne con un sorriso accigliato, per non mostrarsi ansiosa. Per tutto il tempo che aveva continuato a chiacchierare, Marianne aveva anche vagamente ascoltato? «Amore? Per favore. Guardami. Che cosa c'è? Non stai bene? Hai l'influenza?» Si fermò, speranzosa. Quanto era pronta la sua mente a galoppare, galoppare su quella nuova, plausibile idea. «In città ha cominciato a girare un nuovo ceppo d'influenza, se non sbaglio. E un'infezione alla gola. Le infezioni alla gola sono pericolose. Vogliamo fare un salto dal dottor Oakley?» Il dottor Oakley era il medico di famiglia dei Mulvaney, un vecchio gentiluomo dal quale andavano da sempre. La semplice idea del dottor Oakley era un sollievo, no? Marianne mormorò subito: «Mamma, no». «Ma se non ti senti bene, amore? Di certo non hai un bell'aspetto. Insomma, non sei la solita.»
«Non voglio andare dal dottor Oakley.» «Ma...» Corinne ebbe la sensazione di affondare, annegare. «Cosa c'è?» Marianne scosse la testa con sorprendente testardaggine, si soffiò il naso con il fazzoletto malconcio. «E solo che... che non ho voglia di stare a scuola.» Ma non è da te. Conosco la mia Marianne e non è da lei. Corinne disse invece: «Ma agire così in segreto, andarti a nascondere in una chiesa cattolica, fra tutti i posti possibili!». Il tentativo di scherzare andò miseramente a vuoto. «Bene. Penso proprio che faremo un salto dal dottor Oakley prima di andare a casa. Credo sia la cosa migliore.» «Mamma, no. Ti prego.» Panico sul viso disfatto di Marianne. «Voglio... voglio solo andare a casa, mamma. Starò bene se... se potrò andare a casa.» «Sicura?» chiese dubbiosa Corinne. «Sì, mamma. Oh sì.» La mente di Corinne corse su quel nuovo pensiero: riportare la figlia a casa l'avrebbe fatta stare di nuovo bene. Così semplice? Continuò a guidare, canticchiando nervosamente tra sé. Forse non si accorgeva di canticchiare. O di toccarsi ripetutamente il mento, il naso. Il naso le prudeva! Il cielo era di un cupo blu scuro striato di nubi sfilacciate, a ragnatela: le fece venire in mente un certo angolo del granaio dell'antiquariato, dietro un accumulo di mobili, un angolo che da molto tempo non riusciva più a raggiungere per togliere le ragnatele. Il sole era brillante ma non emanava calore. Dalla radio uscì uno di quegli annunci di sadica onestà: stava per arrivare un "freddo più intenso" con venti di nordest provenienti dal Canada. Ci si aspettavano venticinque gradi sottozero e un fattore di congelamento dovuto al vento di meno trenta. Ma come sarebbero stati al calduccio i Mulvaney, a High Point Farm. Papà avrebbe acceso il fuoco nel grande camino in pietra del soggiorno, Marianne avrebbe potuto raggomitolarsi sul divano con un libro, Focaccina in grembo, Troy sdraiato sul pavimento davanti al camino. No: se Marianne aveva davvero l'influenza, era meglio restasse nella sua stanza. Al calduccio nella camicia da letto di flanella nel suo bel letto di rattan bianco sotto la trapunta cucita a mano che Corinne aveva trovato in un negozio di seconda mano di Chautauqua Falls. Una lavorazione splendida, finissima! Una trapunta fatta con decine di pezze di stoffa, quadrati, rettangoli e ovali, un arcobaleno di colori. Solo perché aveva un gran bisogno di un lavaggio a secco nessuno l'aveva comperata, probabilmente non l'avevano nemmeno guardata per bene, finché era arrivata Corinne Mulvaney occhio d'aquila. Avrebbe sem-
pre ricordato la sorpresa e il piacere di Marianne nell'aprire il regalo, per il suo tredicesimo compleanno: Oh mamma! È bellissima! Oh grazie! E un abbraccio e un bacio per mamma, e una domanda ironica e furbetta: L'hai cucita tu, mamma? Così l'intera famiglia aveva riso, mamma compresa. Un ricordo adorabile. Un ricordo prezioso. Sì, Marianne avrebbe pisolato nella sua stanza, con Focaccina al fianco. Corinne le avrebbe portato qualcosa di caldo (zuppa di pollo e granturco? deliziosa) e tortine al burro e un bicchierone di latte. Marianne non beveva più latte, non ingeriva più calcio a sufficienza, Corinne ne era certa. Poteva essere una parte del problema. Carenze vitaminiche. Era chiaro che la ragazza era arrivata alla spossatezza, aveva preteso troppo da sé. Quelle attività scolastiche! Il solo fatto di essere una ragazza pon-pon richiedeva quantità tremende di tempo. (La mente di Corinne lavorava ormai a pieno ritmo, costruiva una narrazione, un aneddoto. Lo avrebbe raccontato alle amiche al telefono per giorni.) Oh, e lo sai come sono fatte le teenager. Sempre a dieta. Così attente al proprio corpo, così desiderose di essere magre. Marianne non era mai stata magra, però era perfettamente normale in base alle tabelle mediche. Così si era lasciata indebolire, le sue capacità di resistenza si erano affievolite. Aveva preso l'influenza che girava in città. E l'eccitazione per essere stata eletta nella corte del giorno di san Valentino, unica studentessa non dell'ultimo anno. Sai che effetto può fare la celebrità al liceo? Ti riduce in pezzi! Perché non ho visto i segni? Sono stata cieca? Sono cieca? E quel Weidman, come si chiamava? un ragazzo goffo, pieno di buone intenzioni e di una cortesia inamidata, che aveva scritto a Marianne quella lettera patetica ma in qualche modo coercitiva, aggressiva: possibile che fosse innamorato di lei? Che facesse pressione sulla sua emotività? Marianne non era tipo da parlare di cose del genere; avrebbe temuto di tradire la fiducia del ragazzo. Ma se lui la stava corteggiando con molta più insistenza di altri in passato, Marianne doveva essere sottoposta a uno stress terribile. Nulla la turbava di più della possibilità di ferire i sentimenti di qualcuno. Ma come mai sembrava che Patrick non sapesse niente di tutto questo? Corinne si affidava al suo secondogenito per essere informata sulle "situazioni". Era da sempre suo alleato, in quel suo modo permaloso. Si era trasformato in una specie di adulto in miniatura, circondato da bambini e comportamenti infantili. (Sì, papà e mamma avevano spesso un compor-
tamento infantile. Quello era un fatto.) Corinne si chiedeva se in tutte le famiglie di una certa dimensione e un certo peso ci fosse chi, a prescindere dall'età, sapeva, e chi tirava avanti ignaro, felice, perché non sapeva. Il celeste benessere dei secondi dipende dalla complicità dei primi; ma se la complicità va in frantumi? Stava lasciando Mt. Ephraim, prendeva velocità. Il percorso familiare, rassicurante. Come per un cavallo che conosce la via di casa. Superò il centro commerciale Eastgate (dove avrebbe voluto fare compere, al Kmart e al T-J, ma non c'era tempo) e i ristoranti fast-food, le stazioni di rifornimento, l'autolavaggio. (Oh, aveva promesso alla famiglia di fare lavare la Buick, giusto? Be', un'altra volta.) Spohr, Officina Hendrick, la Città delle recinzioni Harvey. Country Club Lane e Hillside Estates: case costose che parevano scatole di cartone, con quegli appezzamenti di terreno innevato e quasi spoglio d'alberi. Nel cortile di una scalcinata fattoria vittoriana, un tempo di proprietà di amici dei Mulvaney, adesso affittata a sconosciuti, una berlina Old Cutlass rossa, con il cartello VENDESI! AFFARONE! somigliava a un modello più vecchio e malmesso dell'auto che aveva comperato Mike Jr., sborsando ogni mese una rata esorbitante, con sommo disgusto di suo padre. Grazie a Dio la Route 119 era ragionevolmente asciutta e pulita. Sarebbero arrivate a casa presto. Lì si poteva respirare! Campi innevati che si estendevano per chilometri come la tundra, con gli spuntoni dei gambi di granturco. Non ci si lascia mai alle spalle il panorama dell'infanzia, pensava Corinne. Ami di più, hai care le cose più antiche della memoria. Sperava di avere regalato ai figli, assieme a Michael, un paesaggio che li accompagnasse per l'intera vita. Un sollievo, una consolazione. Se mai avessero lasciato la valle di Chautauqua. Ma perché? Perché avrebbero dovuto andarsene? Corinne stava per chiedere a Marianne che tipo di zuppa volesse una volta a casa, c'era quella di pollo e granturco avanzata in frigorifero, che è sempre più deliziosa il giorno dopo, le poteva andare bene? Si girò verso Marianne con un sorriso, ma scoprì orrore sul volto della ragazza. Che cosa? Cosa c'era? Corinne intravide vagamente qualcosa guizzare davanti alla station wagon in cima a una salita, una forma grigia, pelosa, resa confusa dalla velocità, e prima che riuscisse a pensare di frenare le ruote anteriori del veicolo passarono sopra quella cosa con un tonfo, e al suo fianco Marianne si mise a urlare, urlare. Innamorati
Si erano conosciuti nell'estate del 1952, al lago Schroon, sui monti Adirondack. Corinne faceva la cameriera in un hotel, Michael aveva un lavoro estivo con un'impresa edile del posto. Non fu amore a prima vista, a dispetto di ciò che tutti e due avrebbero sostenuto in seguito. Forse Corinne diceva la verità: era arrossita e aveva preso a balbettare in presenza di Michael Mulvaney, quando erano stati presentati. Mio Dio, ma certo che l'ho capito! Come avrei potuto non capirlo? Michael avrebbe ricordato e narrato con zelo, in un'infinità d'occasioni, di avere posato gli occhi per la prima volta sulla futura moglie in mezzo a un gruppo di ragazze tutte risolini, lavoranti estive al lago Schroon, compresa la ragazza con cui "filava" all'epoca. (Il secondo "filarino" di Michael Mulvaney quell'estate, a dire il vero; e il primo luglio la stagione era appena iniziata.) Certo che l'ho capito! Un'occhiata, anche con quei suoi capelli, e ho capito. Ma in realtà si era accorto di lei? Una ragazza timida, goffa, che portava i capelli pel di carota raccolti in due minuziose trecce che le incorniciavano il viso, come la fanciulla di una favola dei Grimm. Troppo alta per i suoi gusti: quasi la sua stessa statura, un metro e settantacinque. (Gli uomini bassi cercano donne basse, e il perché non è un mistero.) Corinne Hausmann aveva vent'anni, studiava all'Università statale di Fredonia con una media di 3,7 (su 4), ma avrebbe potuto passare per quindicenne. Una quindicenne senza troppa esperienza o fiducia in sé. Slanciata e ossuta e con un seno deludentemente piccolo, coperta di lentiggini come se qualcuno per scherzo l'avesse spruzzata di vernice, specialmente su viso e avambracci. Non c'era proprio bisogno di chiederle se fosse una ragazza di campagna! Il suo sorriso era lento e timido come se avesse motivo di vergognarsi dei propri denti (c'era solo una lieve fessura tra i due incisivi) e dita e palpebre si muovevano in continuazione, la sua risata era ansante. Grandi occhi azzurri luminosissimi pronti a sfuggire se qualcuno, per esempio un giovane uomo, un bell'uomo dalla carnagione scura e sessualmente aggressivo come per esempio Michael Mulvaney, si avvicinava troppo o parlava in maniera troppo esplicita. Mi mettevi paura! Era più forte di me. Ehi, io avevo paura di te, la mungitrice vergine! E Michael rideva, rideva. Una risata da iena felice, non si poteva non adorarlo. La povera Corinne arrossiva fino alla radice dei capelli color carota. La verità era che Michael Mulvaney, quando conobbe la sua futura spo-
sa, era pazzo di una certa Donna di cui aveva scordato il cognome ma non le avventure selvagge vissute assieme: fare l'amore in qualunque posto e non appena possibile, spesso luoghi rischiosi come il sedile posteriore dell'automobile chic di uno sconosciuto, una stanza dell'hotel appena lasciata dagli ospiti, un angolo isolato di spiaggia. Non era l'epoca in cui le ragazze per bene o anche non troppo per bene cedevano alle pressioni sessuali dei maschi, ma Donna (di Glens Falls: "la capitale delle macchine da corsa dello stato di New York") era una notevole eccezione. Andava al college anche lei; era al terzo anno del diploma superiore per infermiere alla Cornell. Le piaceva bere e andare su di giri (andare su di giri, non sbronzarsi, brutto verbo) e sciogliersi nell'amore. Come poteva Michael Mulvaney ricordarsi della dolce timida Corinne Hausmann o anche, a essere franchi, tenere a mente il suo semplice nome, preso com'era da Donna? I fianchi armoniosi e la pelvi, le mani dedite ad audaci esplorazioni, l'incredibile bocca così ardente, addirittura al di là delle più perverse fantasie da ex ragazzo cattolico di Michael? Che era portato a cadere in uno stato di stupore a occhi sgranati nel bel mezzo del lavoro (i tetti furono la sua specialità sin dall'inizio: essere corto di gambe, agile, massiccio e muscoloso, con una notevole tolleranza al lavoro sotto il sole, ha i suoi vantaggi) perdendosi in Donna, nella notte precedente e nella notte che doveva venire. Aveva appena ventitré anni e viveva solo, senza genitori, senza famiglia, da cinque. La sua "vera" vita. Era un operaio veloce, affidabile, ma chiaramente troppo intelligente per restare un semplice operaio; veniva spontaneo dare a Michael Mulvaney più responsabilità che agli altri membri della squadra, più vecchi e più stupidi. Gli tornava comodo essere in eccellente forma fisica (nuotava, si tuffava, adorava esibirsi al lago) e potersi accontentare di quattro o tre, talora due, persino una sola ora di sonno, dopo una notte di bevute e d'amore con Donna per poi fare la doccia e radersi e vestirsi di fretta e iniziare la lunga, lunghissima (bisognava essere in cantiere alle sette e mezzo del mattino) giornata di lavoro. Doveva ammetterlo: il suo atteggiamento nei confronti delle femmine, soprattutto quelle che frequentavano l'università, era da predatore. Non solo perché erano gli anni cinquanta, ma soprattutto perché lui era Michael Mulvaney. Nutriva risentimento nei confronti delle varie sorelle per ragioni che non voleva spiegare, ancora di più nei confronti della madre di cui non parlava mai, quindi meglio non chiedere. Ma le universitarie! Non le poteva vedere, quasi come, in modo altrettanto ingiusto, non poteva vedere gli universitari, spregevoli ai suoi occhi come semplici ragazzi mentre lui,
alla stessa età, era un uomo. Ed era più che deciso a farsi strada senza avere bisogno di una laurea o di altra roba del genere. Quindi, nel luglio 1952, quando conobbe Corinne Hausmann, Michael Mulvaney non era innamorato di Donna comesichiama o di qualcun'altra. Era un uomo a sangue caldo, instancabile, anche dopo una giornata passata a ribattere e catramare tetti sotto il sole degli Adirondack (di una tale chiarezza cristallina da sembrare filtrato da una lastra di vetro fatta di lenti d'ingrandimento), una pompa selvaggia pronta a spruzzare seme, seme liquido, nella quantità necessaria per popolare una piccola città. Oh sì! In estate sugli Adirondack tutto è temporaneo: quale felicità nel temporaneo! A lui andava benissimo. Doveva solo stare attento a non mettere incinta una ragazza, per il resto aveva da prendere e godere, prendi quello che puoi finché puoi, niente rimpianti e non girarti mai a guardare, e dopo il Labour Day sarebbe stato a centinaia di chilometri di distanza da lì. Quello stronzo del suo vecchio non l'aveva forse buttato fuori a calci, non gli aveva chiuso la porta in faccia? E la madre e le sorelle, che lui aveva sempre pensato lo amassero, specialmente sua sorella Marian, minore di tre anni, e tutti quanti, a parte due fratelli, non avevano smesso di conoscerlo? Lo avevano cancellato come se non esistesse più, per ordine del vecchio? Non ci si può fidare, non ci si può fidare delle donne. Ce l'aveva più di tutto con loro, le donne. Gesù! Gli pulsavano le vene di rabbia al solo pensarci! Per cui ci pensava di rado, almeno da sobrio. E quando non era sobrio, Michael Mulvaney si trovava in presenza di femmine amorevoli per il novantanove percento del tempo, quindi ci pensava di rado anche in quello stato. In qualche modo accadde, anche se lui non riuscì mai a capire di preciso la connessione: la sua ragazza, Donna, era amica di un'amica di Corinne; oppure, se non amica, cordiale conoscente. (Una cosa che lasciava perplesso Michael, e forse la maggioranza degli uomini, era come diavolo fanno le donne a stringere amicizia così in fretta? a un livello tanto intimo?) Dopo avere rotto con Donna che aveva cominciato a stringerlo troppo da presso e a diventare decisamente tesa, ansiosa, a Michael capitò che una sera, di buon'ora, la ragazza alta pel di carota che lavorava all'hotel (Carol? Cora? Corinne?) si presentasse alla pensione dove lui alloggiava e gli portasse un messaggio da parte di tutte le ragazze, tranne Donna, che non ne sapeva niente. Gli disse: «È così ferita! Ti ama».
Michael restò sorpreso. Dovette indietreggiare di un passo. Balbettò: «N-no, non è vero». «Ma certo che ti ama! Dovresti sentirla parlare di te.» «Non voglio sentirla parlare di me. L'ho già sentita.» «Abbiamo paura che possa farsi del male. È un'infermiera, sa troppe cose!» Michael cominciò a sudare immaginando Donna morta: le ragazze dell'hotel che lo accusavano, la polizia che lo arrestava, la sua foto sui giornali. Recuperato un po' di controllo, ribatté: «Esagera lei ed esageri tu. Donna può immaginare di amarmi ma non mi ama. È troppo superficiale per l'amore». «Troppo superficiale per l'amore! Ma sentilo, che autorità!» Corinne era letteralmente senza fiato, le guance arrossate come le avesse truccate in fretta e disordinatamente. Tremava d'indignazione, le dita e le palpebre fremevano. Le ridicole trecce le incorniciavano la testa e il collo magro come una corona creata da un bambino demente, e nell'abbigliamento estivo per le ore di riposo (maglietta senza maniche da due soldi, calzoni a metà polpaccio di cotone blu e sandali di paglia made-in-Japan) somigliava a una bambina troppo cresciuta, eccitata e audace e... sì, pericolosa. Chissà che cosa potrebbe dire questa ragazzina! Michael la prese per il braccio, le afferrò l'avambraccio con dita salde e la portò via dalla pensione, con lei che ansimava e protestava, camminò con lei, diretto chissà dove: gli sarebbe piaciuto dirigersi a uno dei locali in riva al lago, dove avrebbero potuto sedersi, prendere una birra e discutere da creature razionali; invece finirono in un parco con una specie di laguna, e sulle rive c'erano famiglie a fare il picnic, il barbecue, bambini che correvano in giro, lanciavano molliche di pane e altre leccornie a uno stormo di anatre, oche canadesi, cigni con i loro piccoli; la vita scorreva sullo sfondo, il che accade quasi sempre quando si decide della tua vita senza che tu lo sappia; camminò con lei e si mise a parlare con la massima onestà, perché a ventitré anni, nel nucleo più profondo e segreto del proprio cuore, Michael Mulvaney era un giovanotto serio, non un predatore, anzi forse nemmeno un giovanotto come sembrava ma già al di là della gioventù, impaziente di iniziare la fase successiva della vita. Al terzo o quarto giro attorno alla laguna, la loro attenzione fu attirata da tremendi suoni rauchi e da un frenetico sguazzare: una grossa anatra bianca era rimasta impigliata in un filo da pesca di nylon, aveva zampe, piedi e persino il becco prigionieri, e Corinne urlò: «Oh, guarda! Quella povera anatra! Dobbiamo aiu-
tarla!». Senza la minima esitazione, come fosse già pronta all'emergenza, entrò nell'acqua disseminata di rifiuti che le arrivava alle cosce, dando per scontato che Michael, che conosceva appena, l'avrebbe seguita. Cosa che, accidenti, lui fece. Decine di anatre e di temibili cigni strillavano come ossessi, sibilavano, sbattevano le ali all'invasione del loro territorio da parie di quegli importuni. Ma non c'era scelta, giusto? Michael imprecò, barcollò nella scia di Corinne e afferrò l'anatra nei guai, che lo fissò con occhi fiammanti di panico, sbatté le ali come una girandola rotta, finché Michael riuscì a bloccargliele contro i fianchi; e Corinne dalle dita leste, più veloce e più forte di qualunque ragazza Michael avesse mai conosciuto, riuscì a sbrogliare il filo di nylon che era lungo forse un paio di metri, non un'impresa facile nelle circostanze; e, attirata dal frastuono, una piccola folla ammirata si raccolse in riva alla laguna a strillare incoraggiamenti ed esplodere in esclamazioni di gioia e applausi quando infine l'anatra venne liberata, e per metà nuotò per metà volò, tra anfibio e aeroplano, a raggiungere al lato opposto della laguna gli altri uccelli indignati, che ancora strepitavano e battevano le ali. Michael borbottò: «Bastarda. Non ci ha nemmeno ringraziato!». Corinne disse: «Ti ringrazierò io, Michael Mulvaney!». Non un bacio, come sperava lui, ma una stretta di mano. Una buona forte stretta di mano da uomo a uomo. Cominciò così: quello che lui non avrebbe voluto chiamare esattamente amore, almeno non tanto presto. Rabbrividiva al pensiero di apparire, o realmente essere, molle e sentimentale. Come ci siamo conosciuti? Davanti a un'anatra, Cristo santo! Nel mezzo di uno stagno per anatre! No, non scherzo. Doveva ammettere che quella strana grintosa per bene (e virginale) ragazza di campagna possedeva in abbondanza quello che si chiama carattere, di un tipo che non aveva mai incontrato in nessun'altra femmina di sua conoscenza; di certo non in ragazze facili come Donna la futura infermiera, o nelle sue pie sorelle cattoliche. E il carattere può essere sexy a modo suo, ragazzi! Di certo sollecita opposizioni, resistenze: niente di facile in Corinne, la ragazza lentigginosa di Ransomville, New York. Quante volte, per quanti anni Michael Mulvaney avrebbe scherzato e inventato battute sulla maledetta anatra, perché lui era il tipo che non molla mai, ma la realtà era che lo aveva colpito la decisione di Corinne di andare a salvare quell'anatra: non era stata capace, si capiva benissimo, di guardare dall'altra parte, di lasciare perdere come avrebbe fatto tanta gente. Ave-
va riconosciuto nella situazione la necessità di un immediato coinvolgimento morale. Lui, Michael Mulvaney, dopo la seconda doccia della giornata, con i pantaloni cachi puliti e stirati di fresco e la camicia sportiva e un nuovo paio di scarpe di tela con le suole di para, avrebbe potuto facilmente ignorare l'anatra. Forse non proprio facilmente, con sensi di colpa, ma insomma avrebbe potuto. Probabilmente lo avrebbe fatto. (Sarebbe andato in cerca di un agente di polizia, forse.) Seguendo questa linea di pensiero concluse che Corinne Hausmann gli era moralmente superiore, come ogni donna dovrebbe essere rispetto a un uomo; e che quel fatto un giorno gli sarebbe stato utile, come si può presumere che possa essere utile l'amicizia di persone ricche, chi lo sa esattamente perché. Così, a ventitré anni, mentre lavorava al lago Schroon con un buon stipendio estivo, senza avere in mente per l'immediato futuro pensieri che comprendessero una donna, e tanto meno il matrimonio, Michael Mulvaney si innamorò. Al diavolo, è stato un sollievo scoprire che era così facile, dopo tutto. Non mi ha fatto alcun male. Come ulteriore attrattiva, Corinne confessò di essere stata sul punto di fidanzarsi con uno studente della Fredonia. Michael avvampò all'istante. «Non dirmi niente di lui, Corinne! Nemmeno il nome.» Corinne ribatté, stupefatta: «Ma, Michael, non c'è molto da dire. Jerry è un ragazzo dolce, tranquillo, serio. Studia musica, suona il...». Michael la interruppe, angosciato: «Corinne, no. Basta che tu non abbia... che non sia andata a letto con quello... non voglio sapere altro». Corinne si sentì ferita. «Ma tu hai avuto ragazze, Michael. Io non mi aspetto che tu non abbia avuto ragazze!» A quel punto Michael era schizzato in piedi, passeggiava avanti e indietro tirandosi i capelli. Disse: «Amore, quello che fa un ragazzo, quello che fanno gli uomini, non ha niente a che vedere con quello che una ragazza come te, della tua qualità, sa o anche solo vorrebbe sapere. Credimi!». E aggiunse, eccitato, non appena la frase si materializzò nella sua mente: «Non giudicare e non sarai giudicato». Quando Michael le citava le parole di Gesù Cristo, Corinne diventava grave, radiosa, colma di meraviglia. (La prendeva in giro? Se così era, lei non se ne accorgeva mai.) Gli prese la mano e gli disse: «Comunque, non amavo Jerry, adesso lo capisco. Oh, lasciamelo dire! Ciò che provavo per lui non era un grammo di ciò che provo per te, Michael Mulvaney!». A Michael si gonfiò il cuore. Rispose, gioioso: «Una briciola, amore. Volevi dire una briciola. È molto meno di un grammo». Però Michael era implacabile. Testardo come una capra recalcitrante. Quando, dopo il loro fidanzamento, Corinne espresse il desiderio di vedere
un'ultima volta il suo vecchio ragazzo per spiegargli cosa fosse successo, Michael si oppose irremovibile: no. Corinne non gli aveva già scritto? Non gli aveva parlato al telefono? In autunno non sarebbe tornata all'università, che differenza avrebbe fatto? Lui aveva tagliato completamente con le sue ex ragazze, non aveva il minimo interesse a rivederne nemmeno una, mai più. Così, quando un'esitante Corinne suggerì di invitare Jerry al loro matrimonio, come gesto di buona volontà e amicizia (sarebbe stata una cerimonia semplice nella chiesa luterana di Ransomville, e quasi tutti gli ospiti dalla parte di Corinne), Michael oppose un veto immediato. La strinse in un abbraccio da orso talmente forte da toglierle il fiato, la baciò e le disse: «Tesoro, tu ami me. Michael Mulvaney. Ti dimostrerò che sono più che sufficiente per te». Non è andato perso nulla? si chiedeva Corinne. Ventiquattro anni più tardi, ripensando a quelle cose, in una stanza dell'ambulatorio del dottor Oakley, sentì risuonare nelle orecchie la voce ardente del suo giovane innamorato e rivide il fitto intrecciarsi di ombra e luce sulla parete della stanza (la camera di Michael alla pensione), la sagoma di un lillà davanti alla finestra che aveva fissato per sempre quelle parole nella sua memoria. Amami! Sono più che sufficiente. Imminente mortalità Corinne avrebbe voluto che lui non sapesse. Mai. Perché una volta che avesse saputo, una volta condivisa l'amara consapevolezza, non sarebbe mai più riuscito a guardarla nel vecchio modo. Con la cadenza dell'affetto giocoso. La cadenza del Ma come diavolo è successo? (Intendendo High Point Farm. I figli. Gli animali. Tutta la baracca, per usare un'espressione di Michael Sr. Più l'ipoteca.) Mai più senza che entrambi pensassero Nostra figlia! La nostra bambina! tra sguardi che s'incrociavano di soppiatto, impotenti, colmi di furia e indicibile sofferenza. Lo aspettò, non in casa, nella cucina dalla luce calda dove Patrick, Judd, gli animali l'avrebbero stretta d'assedio, ma nel granaio riconvertito. ANTICHITÀ HIGH POINT. Le stufe elettriche pulsavano eroicamente ma emettevano ben poco calore oltre il raggio di un metro o due, e le loro serpentine incandescenti sembravano radiografie di nervi scoperti. La lampadina nuda del soffitto evocava ombre sgradevoli che si protendevano all'in-
sù dalle assi del pavimento. Le sue dita intirizzite si muovevano torpide, verniciavano la poltrona in noce. I fumi della vernice erano talmente forti che aveva le guance solcate da lacrime. Tieniti occupata! Pensa solo a tenerti occupata. Saggezza degli Hausmann che erano stati agricoltori per secoli. Marianne era nella sua stanza, sotto sedativi, calma, forse addormentata. Stava bene, sarebbe stata bene. HEAD HEART HANDS HEALTH, TESTA CUORE MANI SALUTE la parola d'ordine del movimento americano 4-H TESTA CUORE MANI SALUTE e Marianne Mulvaney sarebbe stata bene. Corinne non era riuscita a pregare, non esattamente. Come se, facendolo, avesse potuto rimproverare Dio? rimproverare Gesù? per ciò che era successo a sua figlia? per ciò che era stato permesso che accadesse a sua figlia? Continuò invece a ripetere le parole TESTA CUORE MANI SALUTE come un'insegna al neon che non riusciva a spegnere. Michael era in ritardo. Era buio come mezzanotte alle 19.20 quando infine i suoi fari risalirono il sentiero gibboso. Corinne lo aveva chiamato in ufficio dallo studio del dottor Oakley ma Michael era fuori, aveva detto la sua segretaria, in un cantiere a chilometri di distanza, una farmacia ValuRight in un nuovo centro commerciale sulla Route 119 dove una squadra di cinque uomini stava isolando un tetto con il catrame. Era successo alle quattro e mezzo del pomeriggio. Corinne lo aveva richiamato da casa, ma lui era ancora fuori. Al mattino le aveva detto che avrebbe fatto tardi per cena, doveva incontrarsi con amici al club, al bar. Affari, aveva detto. Ma sarebbe rientrato al massimo per le sette. Lei non lo aveva chiamato al Country Club. Non voleva rischiare di irritarlo davanti agli amici. E adesso la situazione era sotto controllo, no? Marianne al sicuro a casa, nella sua stanza. Il dolce Focaccina con le sue fusa di gola acciambellato al suo fianco sopra la trapunta. Il vento spirava da nordest, stava prendendo forza. Un bagliore argenteo sui vetri della finestra, una cipria fine di neve che pareva sabbia soffiata sui vetri. E Michael apparve sulla soglia, con il cappotto buono di cammello e la fedora con la piuma di fagiano nella fascia, messa di sghimbescio. Era perplesso, preoccupato. «Amore, cosa diavolo ci fai qui? C'è qualcosa che non va?» Le guance di Michael erano rubizze, arrossate dal freddo e dai due o tre drink che aveva bevuto; gli occhi lesti, penetranti. Quegli occhi, diceva spesso Corinne con un brivido, come occhi a raggi X, capaci di vedere
quello che non avresti mai creduto potessero vedere. Il pennello le era scivolato dalle dita senza che se ne accorgesse. Era accoccolata davanti alla poltrona su un tappeto di giornali e si alzò. Avrebbe voluto sorridere però si era messa a piangere. Esattamente quello che aveva promesso di non fare. «Gesù, Corinne, che cosa c'è?» Lui le si avvicinò, lei cercò alla cieca la sua mano. La mano di Michael che, diceva scherzosa, aveva le dimensioni della zampa di un orso. E in quel momento lei mise a fuoco: quando c'erano brutte notizie per la famiglia (il terribile incidente di Patrick con il cavallo era stato il caso peggiore, ma se ne erano verificati altri, oh altri!) spettava a Corinne la madre informare Michael il padre. Come fosse giunta a occupare quel ruolo, ad acquisire quella crudele esperienza, era un mistero. Sottovoce, disse: «È Marianne, tesoro. Le è successo qualcosa». «Marianne? Cosa? Dov'è?» Lei strinse più forte la mano di Michael, per dargli sostegno. Non c'era modo per dirlo, ma avrebbe trovato un modo. «Adesso sta bene. È nella sua stanza. Non è in pericolo, e non è malata. Però le è successo qualcosa.» L'espressione sofferente, abbattuta sul viso di Michael Mulvaney. Era un uomo, sapeva. Il padre di una ragazza di diciassette anni. Sapeva. Dopo che le ruote anteriori della Buick di Corinne passarono sulla povera creatura, non le restò altro da fare che eseguire un'inversione di marcia d'emergenza, reimmettersi sull'autostrada e tornare a Mt. Ephraim di corsa, in cerca di assistenza medica per Marianne, che singhiozzava convulsamente, si sentiva soffocare, era isterica. Respirava affannosamente! Corinne era in un tale stato d'agitazione da non avere nemmeno visto che cosa avesse investito, e grazie a Dio non ebbe un incidente sull'autostrada dove sbandò di continuo mentre, allungando una mano alla cieca, tentava di consolare la ragazza che piangeva e si contorceva sul sedile accanto. Come chi vive un sogno rientrò in città premendo sull'acceleratore, pigiando il clacson se necessario per avere via libera. Nell'urgenza del suo bisogno, il bisogno di trovare aiuto per la figlia, avrebbe potuto scontrarsi contro altri veicoli, travolgere pedoni; avrebbe potuto uccidere se stessa e Marianne. Dio aiutaci, Dio prenditi cura di noi. Dio ci affidiamo alla tua misericordia.
Cosa aveva colpito sulla salita, un cane? Eppure le era parsa una creatura troppo piccola, e nemmeno della forma giusta. Un gatto? Non aveva nemmeno la forma di un gatto. Più probabilmente un procione, voluminoso e con la classica camminata a papera dei procioni, però era raro vedere procioni d'inverno, soprattutto con la luce del sole. Sulla Cassadaga Street, una via in salita appena oltre i confini della città, c'era la vecchia casa grigia, ad assi di legno, del dottor Oakley. Corinne parcheggiò e portò dentro la singhiozzante Marianne, in parte sostenendola e in parte spingendola, e spiegò alla stupefatta infermiera receptionist che sua figlia aveva bisogno di immediata assistenza medica. E ovviamente il dottor Oakley, vecchio amico dei Mulvaney, portò subito Marianne sul retro, sotto lo sguardo dei cinque o sei pazienti in sala d'attesa, muti, a occhi sgranati. (Corinne, accompagnando Marianne, non ebbe il tempo di prendere nota di quei testimoni; notò solo che una faccia o due le erano familiari, forse membri dell'Associazione genitori-insegnanti, conoscenti dei Mulvaney, senza dubbio. Sicché quell'episodio, Corinne Mulvaney che entrava di corsa nello studio del dottor Oakley con la giovane figlia isterica e in preda al pianto, sarebbe stato raccontato a sussurri, riferito, commentato al telefono e di persona come un notiziario elettronico diffuso simultaneamente in una miriade di direzioni a Mt. Ephraim prima che Michael Mulvaney ne sapesse qualcosa.) Nello studio del dottor Oakley, come Corinne avrebbe raccontato a Michael quella sera, Marianne diventò più calma. Era un posto noto, e il dottor Oakley la invitò a sedere, le offrì un fazzolettino, le parlò in tono rassicurante. Il viso di Marianne era rigato di lacrime che luccicavano come acido e la pelle non aveva più colore, e lei non riusciva a trovare il coraggio di guardare il dottor Oakley seduto alla scrivania, o Corinne. Con una voce esile, quasi impercettibile, disse che le avevano fatto "del male". «Del male, Marianne?» chiese il dottor Oakley. «In che modo?» L'altra notte, dopo il ballo. Molto tardi. Potevano essere le tre del mattino. «E dove è successo, Marianne?» Sull'automobile di un ragazzo. In un, non ricordava esattamente, un parcheggio da qualche parte. Sul retro di un edificio. Davanti a una fila di cassonetti per la spazzatura. Aveva bevuto, si era sentita male. I suoi ricordi erano confusi e non voleva raccontare cose errate. «Chi era il ragazzo, Marianne?» chiese pacato il dottor Oakley. «Cosa ti ha fatto?»
Dapprima Marianne non rispose poi, con la stessa voce quasi impercettibile, disse che non voleva fare il nome del ragazzo. Non pensava che ciò che era accaduto fosse colpa del ragazzo più di quanto fosse sua. Al party aveva bevuto, e mai in vita sua si era sentita tanto male. Aveva sbagliato a bere e riteneva che le amiche l'avessero avvertita ma non ricordava chiaramente. Non ricordava molto di ciò che era successo e persino il ricordo del ballo era ormai confuso come quello di un sogno che sai di avere fatto ma non riesci a rammentare. Esisteva, era reale, ma inaccessibile. E non voleva raccontare cose errate. Il dottor Oakley corrugò la fronte. «Però ti hanno fatto qualcosa, Marianne? Ti hanno fatto del male?» Aveva scoperto prove, rispose lenta Marianne, di lesioni. Sul proprio corpo. Aveva lottato con lui, il ragazzo di cui non voleva fare il nome, ma lui le aveva strappato il vestito, e forse l'aveva picchiata; a meno che lei non fosse caduta da sola, scivolando con i tacchi alti sull'asfalto ghiacciato. Mentre cercava di scappare dall'automobile. Faceva un freddo terribile e soffiava il vento, e lei non sapeva dove fosse il suo soprabito e stava male. Non si era mai ubriacata in passato ma pensava le fosse successo proprio quello: aveva bevuto qualcosa a base di succo d'arancia e l'avevano avvertita ma non era stata a sentire, o non ricordava di avere dato ascolto, e non ricordava chi l'avesse avvertita. Non voleva fare nomi e coinvolgere le amiche o qualcun altro perché pensava che non fosse colpa di nessuno, o al massimo soltanto sua. Forse era scappata dall'auto del ragazzo barcollando perché stava per vomitare. Si vergognava all'idea di stare male, di vomitare in macchina. Era convinta che si fossero fermati sul vialetto d'accesso dei LaPorte perché il ragazzo aveva detto che l'avrebbe portata là e invece dovevano essere da qualche altra parte e lei non sapeva dove. Dopo, lui l'aveva accompagnata dai LaPorte. Però Marianne non poteva riferire con certezza di nulla: se davvero il ragazzo avesse promesso di portarla da Trisha o se avesse frainteso lei. Negli ultimi giorni aveva pregato e meditato su cosa fare, e aveva deciso di non fare niente, perché era stata lei a commettere un errore e non il ragazzo, e non doveva testimoniare contro di lui. E Marianne ricominciò a piangere, disperata. E Corinne la strinse a sé, a sua volta in lacrime, sotto lo sguardo del dottor Oakley, e Corinne pianse, pianse come le si fosse spezzato il cuore. E Marianne rimase rigida ma senza opporre resistenza, si lasciò abbracciare dalla madre ma non restituì la stretta, e dopo un po', guardando il dottor Oakley, disse calma: «Adesso credo di essere pronta per una visita, dottor Oakley».
L'infermiera scortò Marianne in una sala per le visite e Corinne avrebbe accompagnato la figlia ma il dottor Oakley le suggerì che forse avrebbe fatto meglio ad aspettare lì. E Corinne aspettò, e dopo quello che le sembrò un tempo lunghissimo il dottor Oakley riapparve e la sua espressione era truce e partecipe. «Direi che sua figlia sia stata vittima di abusi sessuali.» Corinne balzò in piedi, angosciata. «Oh Dio. Oh Gesù. È stata... stuprata?» Il dottor Oakley fece una pausa. Si inumidì le labbra. I suoi pesanti occhiali a lenti bifocali, che gli lasciavano profondi segni sul naso, riflettevano una luce opaca. Alzò il foglio di carta che stringeva con mani tremule e lo scrutò accigliato, quasi perplesso dalla propria grafia. «Ho riscontrato prove di una penetrazione penica forzata, sì. L'imene è stato lacerato e ci sono lividi e contusioni nell'area pelvica e vaginale, e ci sono escoriazioni altrove, sulle cosce, sull'addome, sui seni. Sono passati diversi giorni dall'episodio per cui non possono restare... ne sono certo...» e lì il dottor Oakley, il più gentiluomo degli uomini di una certa età, esitò «... tracce di seme. Però ho fatto un tampone, e vedremo». «Stuprata? Marianne?» «Corinne, questo non lo ha detto. Non lo ha detto, cara, vede...» «Ma è chiaro che si tratta di questo, dottor Oakley! Stupro.» Il dottor Oakley scrollò la testa, visibilmente nervoso, scrutando il foglio che aveva tra le dita. Era un uomo dai modi cortesi, calorosamente cerimoniosi, che a volte potevano degenerare in goffaggine; era un medico generico di vecchio stampo, di un'era precedente a quelle che lui giudicava "terapie" psicologiche troppo alla moda. Disse, cauto: «Ho prescritto a sua figlia un antidolorifico e qualcosa che la aiuti a dormire. È una ragazza coraggiosa, e può darsi che lei, Corinne, e Michael dobbiate prima ascoltarla, senza...» un'altra pausa, un irritato passaggio della lingua sulle labbra «senza reagire d'impulso». Corinne riferì a Michael quelle cose nel tono più calmo e misurato che le riuscì. Temeva l'ira del marito, la sua terribile collera che eruttava di rado, ma con forza allarmante. Bastardo! Lo ammazzo, quel bastardo! Corinne aveva anticipato quelle parole per ore. Dimmi chi è, lo ammazzo! Ma all'inizio, e Corinne ne fu ancora più spaventata, Michael prese la notizia come si potrebbe prendere l'annuncio della propria morte imminente. Non la interruppe, non parlò affatto. Respirava a fatica e si teneva aggrappato alle mani della moglie, terreo in viso, con occhi da vecchio, umi-
di e increduli. Sembrava avere perso l'equilibrio: si inclinò di lato e barcollò, crollò a sedere su una cassa di legno. Uno dei suoi guanti era caduto dalla tasca del cappotto di cammello e la fedora color volpe era sulle assi del pavimento ai suoi piedi. Sollecita, implorante, timorosa che lui potesse avere un infarto o un colpo apoplettico (aveva la pressione alta, perché non se n'era ricordata?), Corinne disse: «Michael, amore, va tutto bene. Lei sta bene. Marianne è molto coraggiosa, e il dottor Oakley dice che ha bisogno di riposo... Non ha subito danni fisici gravi, credimi! Insomma...». Raggomitolata tra le braccia di Michael, un abbraccio goffo sotto le maniche del soprabito di cammello, il viso angosciato premuto contro quello di lui. Alzando gli occhi, videro Patrick a testa scoperta, rabbrividire sulla soglia del granaio. Li scrutava. Nella sua voce vibrarono toni di rimprovero e d'allarme. «Mamma? Papà? Cosa c'è? Perché voi due state qui?» Ogni battito del cuore! Quella volta sul nostro sentiero d'accesso, vicino al ruscello. Fermo sulla mia bici con gli occhi puntati sull'acqua. Acqua chiara, veloce, bassa, con argilla sul fondo, e molte foglie. Cielo color piombo e luce quasi esaurita per cui riuscivo a vedere del mio viso solo la forma scura di una testa che poteva essere la testa di qualunque ragazzo. Lì a ipnotizzarmi come fanno i ragazzini. I ragazzini solitari, o quelli che non si rendono conto di esserlo. Il torrente scorreva sotto di me da sinistra a destra (da est a ovest, però in pendenza) e io me ne stavo immobile appoggiato al parapetto (piuttosto marcio: dovevo dire a papà che bisognava rifarlo con nuove assi, potevamo lavorarci assieme) finché cominciò ad accadere come sempre accade: l'acqua rallenta e rallenta e l'unico che si muova un po' sei tu. Ragazzi! che strano! pauroso e da prurito all'inguine e mi sporsi sempre più dal parapetto scrutando l'acqua e mi muovevo, mi muovevo implacabilmente in avanti, pareva mi muovessi anche verso l'alto, mi sollevassi in aria, impotente, consapevole in quell'istante del mio cuore che batteva UNOduetre UNOduetre! pensando Ogni battito del cuore arriva e scompare! Ogni battito del cuore arriva e scompare! Mi sentii gelare, cominciai a tremare. Il clima non era caldo, potevamo essere già a novembre, con gli alberi quasi spogli. Soltanto i sempreverdi e alcune betulle avevano ancora un certo rigoglio ma è un fatto che quando le foglie gialle e secche (come per esempio sulle betulle) non cadono, l'albero è parzialmente morto. Un leggero strato di neve torbida sul terreno, più scura nei crepacci in cui ti saresti a-
spettato ombre, per cui era come il negativo di una pellicola fotografica. Ogni battito del cuore arriva e scompare! Ogni battito del cuore arriva e scompare! in una trance che era una trance di furia, d'ira scatenata: Morirò? perché non credevo che Judd Mulvaney potesse morire. (Anche se in una fattoria le cose vive muoiono, muoiono, muoiono di continuo, e molte hanno ricevuto un nome, e altre nascono a prenderne il posto senza nemmeno sapere di prendere il posto di quelle che sono morte.) Quindi sapevo, sapevo di non essere uno stupido, però in realtà non sapevo. A undici anni, o forse dodici. Lì a sporgermi dal parapetto marcio a guardare l'acqua ipnotizzato e spaventato e all'improvviso arrivarono papà e Mike sul furgone color fango (tanto vale comperare veicoli che abbiano già il colore del fango, si risparmia tempo, era la logica di papà) che risaliva di corsa il sentiero, sussultando sulle buche. Sulle portiere del furgone c'erano lettere dalle curve armoniose, dolci alla vista, MULVANEY TETTI E COPERTURE (716) 689-8329. Sarebbero passati talmente vicini alla mia bicicletta da poter assestare un colpo al parafango, così la scostai, la tirai di lato. Mike aveva abbassato il finestrino, si sporgeva in fuori e fingeva di volermi tirare uno scappellotto. «Ehi, Ranger, come ti butta?» Papà al volante sorrise e rise e un secondo dopo erano già passati, con il furgone a tutta velocità, risalendo il sentiero. E io restai a guardare quelle due persone tanto importanti per me, mio padre che non era come il padre di nessun altro e mio fratello maggiore che era, semplicemente, Mike Mulvaney, Mulo Mulvaney, e il più terribile dei pensieri entrò nella mia testa. Anche loro. Tutti quanti. Ogni battito del cuore arriva e scompare. Restò in me a lungo, forse per sempre. La consapevolezza che non solo io avrei perso le persone che amavo, ma loro avrebbero perso me, Judson Andrew Mulvaney. E loro non ne sapevano niente. (O forse sì?) E io, ragazzino tutto pelle e ossa, ultimo della nidiata a High Point Farm, dovevo fingere di non sapere ciò che sapevo. L'aggressione Ma Mort Lundt è un mio amico. Nel diluvio emotivo tanto violento da essere quasi insopportabile, fu quello il primo pensiero che si presentò alla mente di Michael Mulvaney Sr. Temerario e disperato, partì in auto quella sera, senza dare preavvisi ai Lundt, diretto a Mt. Ephraim, guidando su strade ghiacciate fino alla casa
dei Lundt, il ranch in pietra di Elmwood Lane, nei pressi del Country Club, dove era stato ospite una volta o due. Arrivò verso le nove e mezzo, sotto una leggera nevicata, e trovò sul sentiero un veicolo dello sceriffo della contea di Chautauqua. E c'era Eddy Harris, uno dei vicesceriffi, un vecchio amico, ad aspettarlo. Michael balzò giù dal furgone Ford senza chiudere la portiera, a testa nuda e senza soprabito, ed Eddy Harris saltò a terra dall'auto per corrergli incontro. Era imbarazzato, esitante. «Michael, ehi, come va?» «Cosa diavolo ci fai qui?» «Mi ha chiamato Corinne. Ha detto che potevi essere diretto qui. Hai un problema, eh?» Michael vide qualcuno dietro la porta dei Lundt. Una figura alta. Mort Lundt. Rispose, eccitato: «Non io. Sono i bastardi là dentro che hanno un problema». Spinse via Eddy che tentava di sbarrargli il cammino. «Farò una chiacchierata con loro.» Eddy si impossessò del braccio di Michael, disse: «Un minuto, Michael...» e Michael lo scrollò via, furibondo. «Ma tu da che cazzo di parte stai?» La porta si aprì e Mort Lundt urlò tremulo: «Non ho paura di parlare con lui, agente. Possiamo risolvere subito la questione». Michael Mulvaney Sr. balzò su per i gradini, ignorò la mano tesa di Mort Lundt. Quanto era strano che quei due uomini, abituati a strette di mano, saluti calorosi e addirittura espansivi, si incontrassero in circostanze tanto diverse, si soppesassero a vicenda! Michael Mulvaney era più basso di Mort Lundt di quattro o cinque centimetri però pesava una quindicina di chili in più, e per ogni altro verso era più imponente, più massiccio; l'adrenalina che pulsava nelle sue vene gli dava un'energia incandescente, rendeva il suo viso pallido e lucido. Avevano all'incirca la stessa età, erano vicini alla cinquantina, ma Mort Lundt con la sparuta capigliatura grigia e le lenti bifocali appariva più vecchio, più insicuro. Si ritrasse come temesse un pugno in faccia. Michael urlò: «Adesso! Immediatamente! E dov'è tuo figlio? Sono venuto a vedere lui». Mort Lundt balbettò: «Zachary non... non c'è al momento». «Un accidenti che non c'è! Vedremo.» Per un periodo tra i cinque e i dieci minuti i due continuarono a parlare l'uno sull'altro nell'atrio dei Lundt. Il vicesceriffo restò vicino, non si intromise nella conversazione ma ascoltò. Mort Lundt, che lavorava in una banca d'investimento, e per temperamento un uomo portato a un'eccessiva
cortesia, tentò di parlare in modo razionale, calmo, anche se gli si incrinava la voce; Michael parlò a volume alto e non sempre in maniera coerente come se, cosa che in seguito sarebbe stata detta, avesse bevuto. Mort ammise che sì, aveva saputo di alcuni particolari sgradevoli di un party dopo il ballo del weekend precedente, aveva sentito che qualche minorenne "aveva bevuto" e si erano verificati "comportamenti piuttosto sfrenati" e aveva interrogato il figlio e lo aveva punito: Zach sarebbe rimasto a piedi per un mese e mezzo, con il divieto di usare l'automobile e il coprifuoco alle otto. Michael lo interruppe: «Il tuo stramaledetto figlio ha fatto del male a mia figlia, la mia bambina, sabato notte. Le ha fatto del male! Ha abusato di lei! Tu lo sapevi, Mort? Il piccolo bastardo te lo ha detto?». Mort protestò: «Non chia-chiamare mio figlio in quel...». Michael circondò la bocca con le mani e urlò verso l'interno della casa: «Mi stai ascoltando, piccolo bastardo? Brutto stronzo! Porta il culo qui o vengo a prenderti io!». «Un minuto, Michael...» «Michael, aspetta...» Mort ed Eddy cercarono entrambi di fermare Michael e lui li spinse via, ansante, furibondo. Disse al suo amico Eddy: «Tu! Che ti fai chiamare uomo di legge! Dovresti arrestare il ragazzo per abuso sessuale. Violenza». Poco dopo quelle frasi, Zachary Lundt apparve sulla scala. Indossava jeans scoloriti, una felpa dei Grateful Dead. I capelli lunghi, lisci, gli cadevano sugli occhi. Se aveva intenzione di affrontare Michael Mulvaney con spavalderia, o addirittura con coraggio, risolutezza, ogni forza evaporò dal suo corpo quando Michael balzò sulle scale, lo afferrò per un braccio e cominciò a scrollarlo. «Bastardo! Porco! Che cosa hai fatto a mia figlia! Ti ammazzo...» Mort Lundt ed Eddy Harris intervennero. Michael li respinse entrambi. Colpì Mort di lato sulla faccia e gli fece volare via gli occhiali; nella lotta, Zachary Lundt scivolò, cadde, e sarebbe precipitato addosso a Michael, solo che Michael lo afferrò in una stretta da orso, spaccandogli diverse costole, e lo scaraventò contro una parete. Zachary si ruppe il naso, che prese a sanguinare. Era successo tutto così in fretta! In un'altra parte della casa, la signora Lundt stava facendo una frenetica telefonata alla polizia di Mt. Ephraim. La penitente
Le dissero: Raccontaci. Lei disse: Solo quello che so. Le dissero: Raccontaci! In modo che si possa fare giustizia. Lei disse: Avevo bevuto. È colpa mia. Non ricordo. Come posso testimoniare contro di lui! Quante volte Marianne Mulvaney avrebbe ripetuto queste parole. Ai genitori, a chiunque la interrogasse. Compresi due uomini della polizia di Mt. Ephraim quando, il mattino dopo il "comportamento distruttivo e tumultuoso" di Michael Mulvaney a casa dei Lundt, si presentarono a High Point Farm per interrogarla in presenza dei genitori. Avevo bevuto. È così difficile ricordare. Non posso giurare. Non posso essere certa. Non posso deporre il falso. Le molte ore in solitudine alla chiesa di St. Ann avevano conferito a Marianne Mulvaney una strana placidità testarda che le era nuova. Aveva letto i Vangeli, pregato. Aperto il cuore a Gesù come mai prima, oh mai! Lui le aveva insegnato la via della contemplazione, della resistenza all'impulso dell'ira, dell'accusa. E, in verità, ubriaca, in preda alla nausea, barcollante, confusa e spaventata com'era quella sera, non riusciva a ricordare esattamente che cosa fosse accaduto tra lei e Zachary Lundt. Questo Marianne disse agli uomini della polizia di Mt. Ephraim, sotto lo sguardo muto, afflitto dei genitori. (Michael Mulvaney era stato arrestato, la sera prima. Sul suo conto era "sospesa" un'imputazione per aggressione.) Tuttavia: che cosa si poteva provare a carico di Zachary Lundt, senza altri testimoni oltre a Marianne? La parola di lei contro quella di lui? Gli amici avrebbero fatto quadrato attorno a Zachary, Marianne lo sapeva. Non intendeva essere polemica ma lo sapeva. Le era chiaro, logico come una partita di scacchi nella quale vedi le future, devastanti mosse dell'avversario ma non sei in grado di prevenirle. (Una volta Patrick aveva cercato di insegnare a Marianne a giocare a scacchi, ma si era arreso in fretta: una ragazza troppo dolce, troppo poco aggressiva, incapace di competere con l'infido Pizzicotto.) Ripeté quieta, calma Avevo bevuto. Ci sono tante cose di cui non so rendere conto, che non ricordo. Come posso muovergli accuse. La colpa è mia quanto sua. Non posso deporre il falso. Come se quella litania fosse il più basilare, il più irriducibile dei fatti conoscibili. Come fosse il massimo che le potesse venire concesso di sapere. Come se, svegliandosi da un crudele incantesimo, si fosse trovata tra le mani una rete grande, lacera, consunta, una rete con enormi strappi e bu-
chi; e sua unica consolazione, sua unica speranza, fosse stata lanciare quella rete sconnessa una volta, e due, e tre, e ritirarla ansante e tremante cercando di scoprire quali verità contenesse. Ma erano sempre le stesse verità. Avevo bevuto. È colpa mia. Non ricordo. Come posso testimoniare contro di lui! Sapendo, anche, che se avesse rifiutato di accusare di violenza sessuale Zachary Lundt, Zachary Lundt e suo padre Morton non avrebbero accusato Michael Mulvaney di aggressione. Così era e doveva essere. Marianne aveva scrutato a fondo nella propria anima. Non l'aveva mai veramente esaminata fino a quel momento. Aveva fregato, fregato, fregato quell'anima come, nell'acqua calda, ustionante dei LaPorte aveva lavato la propria carne offesa. E se c'era dolore in quelle abrasioni, c'era anche soddisfazione. Persino una gioia attutita. Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, porgigli anche la sinistra. La voce di Gesù non era mai stata tanto vivida per lei, così rivolta in maniera speciale a lei. Osservate tutto ciò che vi ho ordinato; ed ecco, io sono con voi sempre, sino alla fine del mondo. Non tornò a scuola fino al primo lunedì di marzo. A quel punto aveva pensato, a lungo e intensamente, per quasi tutto il tempo trascorso in solitudine nella sua stanza, e si era guarita. Naturalmente, si era tenuta alla pari con gli impegni di studio: era diligente in quello, addirittura ossessiva. (Era Corinne a telefonare agli insegnanti di Marianne, praticamente tutti i giorni.) Faceva quasi tutti i suoi lavori in casa, ansiosa di seguire il PROGRAMMA OPERATIVO di mamma che a High Point Farm era l'essenza stessa della vita di famiglia. Compiti, lavori, come se tutto procedesse normalmente. Perché, a conti fatti, adesso che si era ripresa, e anche i lividi più cattivi stavano scomparendo, non c'era nulla che non andasse. Benedici chi impreca contro di te. Prega per coloro che ti usano disprezzo. I Lundt non sporsero denuncia contro Michael Mulvaney Sr. e Marianne Mulvaney non sporse denuncia contro Zachary Lundt. Quei fatti erano lontani, impersonali come voci della radio ora coerenti, ora incoerenti. Il regno di Dio è già in mezzo a voi. A ginocchia nude sulle assi del pavimento della sua stanza, le mani giunte, strette strette, e le lacrime che le colavano
dagli occhi chiusi. Gesù! Gesù! Gesù! Era stato un segreto sin dall'inizio. Dopo ciò che lui le aveva fatto, spingendosi dentro di lei, in profondità in lei, usando dita che ghermivano, scavavano, artigliavano, Puttana! stronza! non dirmi che non vuoi, stronza! spingendola in giù sul sedile posteriore della Corvette, con il rivestimento in pelle che odorava di nuovo, il tessuto freddo, e il viso di lui pallido furibondo che scendeva, lui che le apriva le gambe, le cosce, il vestito strappato, e lei troppo debole troppo terrorizzata per resistere, persino per mormorare No!; e dopo, arrivata dai LaPorte, entrare in silenzio di soppiatto con vergogna e sensi di colpa e poi nell'acqua caldissima bollente fregare il proprio corpo singhiozzando e sussurrando tra sé e persino ridendo, abbandonandosi a risolini, mordendosi il labbro per non fare troppo rumore, o avrebbe svegliato Trisha e i suoi. Un segreto, e una rivelazione. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Non poteva parlare della gioia che usciva da quella ferita, la portava a un eccitato stato di veglia nella notte, e scendeva dal letto, si inginocchiava sulle nude, dure assi, si rovesciava sull'orlo del letto e pregava, pregava. Una luna piena dal chiarore gelido sospesa in cielo come l'occhio sempre aperto di Dio. E il vento, il vento che non cessava mai a High Point Farm, sopra la valle, e si insinuava nei ventricoli stessi del suo cuore. Gesù! Ti ringrazio, sono viva. Ti ringrazio di questa vita, questo respiro. Perché Zachary avrebbe anche potuto strangolarla, dopo tutto. Avrebbe potuto trascinare fuori dall'auto il suo corpo inerte, sbatterle la testa sul terreno gelato. Non sarebbe stato possibile? Una minaccia mai detta, a meno che fosse stata pronunciata? Cullava quei segreti, quelle rivelazioni. Non osava parlarne con suo padre (così sconvolto, disperato, da spingersi da sé alla malattia) ma ne parlava a ellissi alla madre (che correva da Marianne come fosse stata chiamata, tanto era forte il legame tra loro, e assieme si inginocchiavano e pregavano, piangevano, a volte ridevano, si tenevano per mano come sorelle recitando la più semplice delle preghiere Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il Tuo nome sino ad avere le guance rigate dalle lacrime, e visi non più esangui). Perché da tanto dolore si poteva trarre conforto: Gesù lo aveva capito, sulla croce. Dalla vergogna e dall'umiliazione. Sapendo che ovviamente tutti dovevano parlare di lei, compiangerla, al liceo e in città. Nell'intera valle di Chautauqua. Zachary Lundt doveva averlo raccontato agli amici, essersi vantato; ma se anche non lo avesse fatto, le informazioni su Marianne Mulvaney e sull'intervento di suo padre, l'arresto, la polizia,
dovevano essersi diffuse, implacabili. Voi Mulvaney. Credete di essere pezzi di merda importanti, eh? Poche amiche di Marianne avevano chiamato per chiedere di lei. Anche se era rimasta assente da scuola per giorni. Nessun ragazzo aveva chiamato. Trisha, la sua migliore amica dalla quinta elementare, non aveva telefonato. Be', no: aveva chiamato, il martedì della seconda settimana in cui Marianne era rimasta a casa da scuola, e aveva risposto Corinne, ma quando Marianne aveva ritelefonato, ore dopo, Trisha non c'era. E la signora LaPorte aveva usato un tono così rigido, così strano. Quasi come non conoscesse Marianne. Marianne le aveva detto: «Dica a Trisha che mi spiace che in qualche modo sia rimasta coinvolta anche lei». Dopo una pausa esterrefatta, la signora LaPorte aveva ribattuto: «Coinvolta? Mia figlia? Mia figlia non è coinvolta in niente. Non ho la più pallida idea di cosa stai cercando di dire». Così lei pregò, e gradualmente guarì. Contusioni e abrasioni erano svanite, o quasi. Alla seconda visita dal dottor Oakley restavano solo macchie scolorite grandi come monete sull'interno delle cosce. I punti in cui Zachary l'aveva lacerata con dita furibonde, e palpata, e spinto il suo pene gonfio di sangue (ancora, ancora, ancora, ancora) erano guariti. In ogni caso, le perdite di sangue si erano interrotte. Marianne non avrebbe saputo per diverse settimane se il regolare ciclo mestruale sarebbe ricominciato, ma al momento non ci pensava. Avevo bevuto, è stata colpa mia. Se potessi rivivere quella notte ma non posso. Come posso testimoniare il falso contro di lui? Un giorno, mamma tolse il vestito del ballo, sporco e strappato, dal fondo dell'armadio di Marianne dove era nascosto. Non aveva avuto bisogno di chiedere a Marianne dove fosse. Lo trovò a colpo sicuro, ma non volle esaminarlo; lo arrotolò su se stesso e lo mise in una borsa di carta assieme ad altro ciarpame di casa. Aveva gli occhi lucidi ma non piangeva, e non piangeva neanche Marianne. Non disse una parola. Mattine invernali candide di neve a High Point Farm! Sarebbe stato l'ultimo inverno di Marianne lì, e lei sembrava saperlo. Per due mattine di seguito, nell'ultima settimana di febbraio, l'autobus non riuscì ad arrivare, così Patrick e Judd rimasero a casa. Quell'aria di eccitata attesa infantile, ad ascoltare la stazione radio WYEW-FM come avevano fatto per anni, anni, anni nelle mattine di tormenta, aspettando notizia della chiusura delle scuole di contea. Anche se Marianne era di sopra quando venne fatto il nome della scuola di Mt. Ephraim e P.J. e Ranger lanciarono strilli di gioia
all'unisono. Non che a P.J. piacesse troppo restare a casa («in quarantena», diceva) in mezzo a tanta neve e silenzio. Silenzio invernale. I suoi occhi che evitavano quelli di lei, il giovane viso stravolto da stupore, compassione, disgusto. (Quanto sapevano Patrick e Judd? Era presumibile che i genitori avessero detto loro qualcosa. E Mike, adulto, sapeva. Sin dall'inizio, dalla sera del giorno in cui Corinne aveva portato Marianne dal dottor Oakley.) Marianne aveva accettato di andare dal dottor Oakley un'altra volta, su sollecitazione di mamma. Sul lettino si corazzò contro il dolore, chiuse gli occhi Gesù! Gesù! Gesù! mentre goccioline di sudore si formavano all'attaccatura dei capelli, ma non ci fu dolore. Gesù l'aveva aiutata a bandirlo. Poi, quando si rivestì, gli indumenti le sfuggirono dalle dita intorpidite e incapaci di trasmettere sensazioni, come dita di un'estranea bizzarramente collegate al suo corpo. Sentì una voce maschile nella stanza accanto («... La decisione giusta, date le circostanze. Una prospettiva brutta, orribile...»), ma smise di ascoltare. C'era Michael Mulvaney Sr. Papà. Lei cercava di non pensare a papà. Dopo quella prima sera quando lui le aveva stretto la mano con tanta forza. E aveva pianto. Lo choc di vedere piangere papà! Marianne era terrorizzata, le si spezzava il cuore. Così aveva promesso di non pensarci più, con l'aiuto di Gesù. Perché non c'era niente da fare. Non poteva testimoniare contro Zachary Lundt perché non era in grado di ricordare con precisione la sequenza di eventi delle prime ore di domenica 14 febbraio e nemmeno se stessa in quel momento. Era come al cinema, quando succede qualcosa alla pellicola e le immagini continuano a scorrere rapide ma vaghe, confuse, sfuocate. E non poteva accompagnare suo padre come lui avrebbe voluto (dove? all'ufficio della Procura della contea di Chautauqua, a Chautauqua Falls?). Semplicemente, rifiutò. Non poteva, non poteva. Dio avesse pietà di lei, non poteva. E così quella divenne una casa di silenzio. Come dopo la devastazione di un'esplosione. Poco da meravigliarsi che sua madre tenesse la radio a volume tanto alto in cucina, e i fratelli tenessero sempre acceso il televisore; persino i cani abbaiavano alla minima provocazione: uno stormo di corvi rumorosi tra i peri del frutteto, un elicottero con le pale che vibravano! vibravano! vibravano! nell'aria, in un misterioso volo di inizio sera sopra la valle.
Marianne scoprì di non avere mai guardato, mai realmente visto, Michael John Mulvaney Sr. sino ad allora. Perché era sempre stato papà. O Capitano, o Ricciolo. (Anche se non era più Ricciolo da anni: uno dei nomi che si era lasciato alle spalle.) Lo vedeva adesso, papà, ma anche Michael John Mulvaney Sr., ora che non poteva più guardarlo direttamente, mai. Perché i suoi occhi guizzavano a disagio quando lei appariva. Se lei entrava in una stanza dove c'era papà, seduto o in piedi, lui se ne andava subito. A fronte aggrottata, con lo sguardo che correva qua e là, per non doverla vedere. Era invecchiato di un decennio in dieci giorni. Passi pesanti sulle scale, giri l'angolo, ed eccolo lì. Chi? Un orso d'uomo, con le spalle curve, a sfregarsi un occhio con le nocche della mano, ansante come un cavallo sfiatato in cerca d'aria. Il suo viso un impasto flaccido per il pane, ancora da cuocere. Papà mi dispiace tanto. Papà cosa posso dire. Non riesco a ricordare, non posso testimoniare. Papà mi vergogno tanto. Lei non voleva sentire ma a volte (per caso, nel bagno adiacente alla camera da letto dei genitori) sentiva. E c'era la voce di papà che si alzava nell'ira, nell'incredulità, e la voce di mamma più calma, implorante. La discussione si placava, si sarebbe creduto che fosse finita, però come un incendio di palude si era soltanto ridotta in braci e sarebbe presto avvampata di nuovo, un'altra sera. Il litigio era fatto di silenzi, di parole ingoiate, ma anche di parole dette. E all'improvviso Michael Sr. che era papà, il papà di Marianne, lasciava la camera come una furia infischiandosene di chi potesse sentirlo, lei, Patrick o Judd, scendeva scalini che rabbrividivano sotto il suo peso, usciva dalla porta sul retro, prepotentemente inseguito da un cane o due che raspavano le unghie sul linoleum della cucina. Pochi secondi dopo giungeva il rumore del furgone Ford che tornava alla vita, i colpi di tosse della batteria, le gomme che giravano sui cumuli di neve, e papà era già arrivato a metà del vialetto d'accesso prima di accendere i fari. Quei fanalini posteriori rossi: Marianne li vedeva dalla finestra della sua camera. Se si era alzata dal letto per guardare. Sempre più piccoli, come soli rossi in fuga (stelle nane, le chiamava Patrick) alla sua vista appannata di lacrime, finché svanivano. Strano: il fatto che quando una luce si spegne, immediatamente è come se non fosse mai esistita. La tenebra torna, completa.
Quei giorni in cui il telefono squillava tante volte di seguito (per papà, che prendeva le chiamate nello studio, a porta chiusa) e gli altri, più frequenti in cui papà era in città e il telefono non squillava mai. Oppure, se accadeva, mamma poteva urlare nel suo allegro jodel da bollettino generale per chiunque fosse in ascolto e potesse essere interessato: «Ha sba-gliato nu-me-ro!». Arrivavano poche telefonate, in quei giorni, per Corinne Mulvaney e per sua figlia. Che cos'era accaduto, tanto in fretta, alla loro popolarità? Posso contare le mie amiche sui pollici delle due mani, scherzava mamma. Anche se mamma non scherzava molto, in quei giorni. Fischiava di rado, fosse solo per chiamare il branco degli animali di casa a tavola. A volte, in un'aggrottata trance a occhi sgranati, passava davanti a Foxy, o a Stivaletti, o a Troy, o al tremulo Seta che la fissavano con quegli occhioni da cane e cominciavano a battere la coda in felice attesa; a volte entrava in collisione con uno dei gatti, in particolare Maschiaccio, che aveva l'aggressiva abitudine di sbarrarle il cammino in cucina per spingerla in direzione delle ciotole nell'angolo dei gatti. Sembrava che Corinne non vedesse più quelle creature, non a livello consapevole. «Oh, tu! Hai già fame? Non ti ho appena dato da mangiare?» E versava automaticamente il loro cibo in una ciotola, senza prestare alcuna attenzione al gatto o al cane che la fissavano in muta perplessità animale. Sì, e Piumotto poteva esplodere in un canto, sollecitato dal fischio della teiera, o dagli uccelli che cinguettavano davanti alla loro mangiatoia fuori dalla finestra, ma avrebbe cantato da solo. Con la sua meravigliosa voce da soprano che saliva e scendeva, ma avrebbe cantato da solo. Certe mattine, quasi non avresti detto che Corinne Mulvaney fosse in casa. ** Le avevano chiesto di Austin Weidman, infinite volte. E quanto si vergognava per Austin! E per Zachary Lundt. Non posso testimoniare il falso. Perché non ricordo. Se potessi rivivere tutto, ma non posso. Aveva giocato sulla sua vanità. Sul suo orgoglio. Con tanta astuzia. Sul fatto che lei sola, Marianne Mulvaney, più giovane di lui, più inesperta in
ogni senso, avesse comunque il potere di portare lui, un peccatore, Zachary Lundt, Zachary con i capelli scuri e i sognanti occhi dalle palpebre pesanti, a Gesù Cristo, loro Salvatore. È come se fosse il mio vero io, Marianne, che stare con te porta allo scoperto. Non lo stronzo idiota e cattivo che di solito sono. Chino come un serpente con la spina dorsale spezzata sul gradino sotto di lei, al party di Bobbi Krauss. Il viso bello e sottile, la carnagione pallida e lo sguardo intenso. Inquietante vedere giovani in smoking alla maniera degli adulti, e Zachary Lundt più di tutti, ma d'altra parte aveva due anni più di Marianne. Il cravattino tolto e infilato distrattamente in tasca, il colletto bianco inamidato slacciato. Beveva birra, e vodka liscia, lo Zachary Lundt che persino le ragazze dell'ultimo anno sbirciavano per quanto ispirasse timore: la sua reputazione, le storie che giravano su Zach e i suoi amici, un gruppo sfrenato, ragazzi benestanti e quasi tutti destinati all'università anche se avevano voti semplicemente medi e le loro attività scolastiche erano praticamente zero. Quella gang di cinque o sei ragazzi non era stata propriamente invitata a casa di Bobbi Krauss dopo il ballo, ma come no, Bobbi era rimasta lusingata, o quasi, quando erano arrivati: Zach sulla sua Corvette ultimo modello (però senza la sua dama, la povera Cynthia Slosson; l'aveva riaccompagnata a casa presto?) e Ike Rodman sulla Cadillac del padre con qualche amico. Avevano già bevuto, erano pronti a fare baldoria. E Zach aveva puntato subito Marianne Mulvaney, l'aveva fissata in quel certo modo che lei aveva già notato (impossibile non notare Zach), senza sorridere, a partite di basket e altre manifestazioni sportive in cui Germoglio Mulvaney e le altre ragazze pon-pon si erano esibite. E poco dopo qualcuno li vide immersi in fitto dialogo nel corridoio sul retro della casa dei Krauss, poi seduti sui gradini che portavano al primo piano, Marianne con il suo bellissimo vestito di raso color panna con il fragola dello chiffon sul terzo gradino, Zach su quello sotto, girato verso di lei a scrutarla, con il gomito appoggiato su un ginocchio. Come se vedesse in lei (nel suo viso surriscaldato che le sembrava gonfio? nei piccoli seni messi tanto in risalto dal corpetto che lui aveva sfiorato casualmente con il polso porgendole un bicchiere?) una via di salvezza. Di salvezza! Oh, come avrebbe potuto Marianne confessarlo a sua madre, a chiunque: un tale senso di vergogna. Eppure lo aveva creduto sincero. Che altro avrebbe potuto credere? A volte mi sveglio nel cuore della notte e ho una paura del diavolo, Marianne perché siamo qui sulla terra se dobbiamo morire?
E la sollecitava a bere il "cocktail al succo d'arancia" che aveva preparato per lei, delizioso screwdriver lo chiamava qualcuno e lei non aveva mai assaggiato niente del genere, meglio dello champagne, più dolce dello champagne che aveva bevuto diverse volte, molto più dolce delle birre di mamma e papà che aveva provato per curiosità, e la sua gola era secca dopo le ore di ballo, si sentiva così stordita, così felice! (Ma, un momento: era successo da Bobbi Krauss o forse da Glen Paxton? Erano poi andati da Glen Paxton? Non sarebbe mai riuscita a ricordare.) Austin Weidman gemeva che doveva andarsene a mezzanotte e mezzo per accompagnare Marianne dai LaPorte e rientrare a casa entro l'una, l'ora del suo coprifuoco (risero, risero di lui: coprifuoco all'una di notte per un ragazzo dell'ultimo anno delle superiori) e restò a indugiare sulla soglia della porta sul retro con il cravattino di sghimbescio, i capelli color topo arruffati anche se all'inizio della lunga serata erano ordinati e morbidi, e gli occhi carichi di rancore dietro lenti piene di ditate. Zachary disse cortese che avrebbe pensato lui a riaccompagnare Marianne dai LaPorte, dove lei avrebbe trascorso la notte con Trisha (che aveva già lasciato il party), e Marianne balbettò arrossendo perché non sapeva che cosa dire e sulla faccia di Austin Weidman c'era quell'espressione sconvolta, come avesse ricevuto un calcio al ventre e si stesse finalmente rendendo conto di non essere desiderato. Labbra che davano l'idea di essere state morsicate, occhiali con la montatura di plastica nera come quelli di suo padre. A guardarlo diritto in viso si vedeva che era un ragazzo per bene, ma chi voleva guardare diritto in viso Austin Weidman? Si era spalmato una specie di pomata color pelle su un foruncolo sul mento, e il sudore l'aveva fatta colare. Il suo fiato aveva un odore di medicinale, tipo otturazione dentale. Riteneva di essere innamorato di Marianne Mulvaney, anche se non aveva osato dirlo a lei o a chiunque altro. Aveva sperato di fare colpo vantandosi, nello stile di un adulto, dei propri "piani per il futuro": voleva diventare dentista come il padre, lì a Mt. Ephraim; l'insegna del loro studio avrebbe riportato i nomi di entrambi i Weidman, dentisti. Al ballo, aveva danzato goffamente con Marianne, sudando, scrutandola colmo di meraviglia e tenendola a una certa distanza, come temesse di calpestare le sue delicate scarpette numero trentasette con le sue pesanti Florheim in pelle nera numero quarantacinque, ma le aveva calpestate comunque. Marianne aveva trascorso la maggior parte del tempo a parlare e ridere con la cerchia delle sue amiche e Austin era rimasto lì vicino a sorridere, come un fratello maggiore. E naturalmente lei aveva ballato con altri ragazzi per tutta la sera. Tanti altri ragazzi.
Marianne! Ho bisogno del tuo aiuto, sei l'unica persona che possa aiutarmi. Le aveva sfiorato il ginocchio, le dita calde sulla liscia gonna di raso, dita leggere, come per sottolineare semplicemente le parole, dette con tanta urgenza, e una sensazione improvvisa le si era gonfiata come un palloncino in mezzo alle gambe. Mi bacerà? È questo che succederà adesso? Ma lui non la baciò. Forse qualcosa nel viso di lei, gli occhi stupefatti, lo dissuase. Si protese verso di lei, con il gomito adesso sul gradino a fianco di Marianne, la scrutò parlando calmo, onesto, mentre lei lo fissava trafitta senza osare parlare e nemmeno respirare. L'unica persona, l'unica persona che possa aiutarmi. Immediatamente dopo, o era passato molto tempo? Marianne aveva riso tanto che disdicevoli lacrime le colavano dagli occhi. La musica rock, la voce strepitante di Mick Jagger, era assordante, così forte che nemmeno si riusciva a sentirla. Un beat beat beat che si insinuava nel cuore come un parassita. Erano nella stanza dei giochi dei Krauss dove d'estate le porte a vetri si aprivano su una terrazza lastricata e una piscina affacciata sul campo da golf del Country Club. Marianne era stata a nuotare lì qualche volta, anche se non era amica intima di Bobbi Krauss, una delle affascinanti ragazze pon-pon dell'ultimo anno. Ora di andarsene, ora del party successivo. Dove? Amici di Zach tutti dell'ultimo anno, che Marianne non conosceva, ridevano raccontando che quello schifo di Weidman era tornato a casa sullo schifo di Dodge di suo padre, un'automobile che per qualche motivo incitava alla derisione. Le amiche di Marianne non c'erano più. Zach paonazzo perse il controllo e borbottò sottovoce Andate a farvi fattere, stronzi! quando gli amici ubriachi cercarono di trattenere lui e Marianne sulla porta, strattonando Marianne per il braccio, persino per i capelli e poi Zach, che li spinse via tra riso e ira. Ehi possiamo venire anche noi? Ehi Zach, per caso non ti dimenticherai degli amici eh? latrando come iene. La prima ondata di nausea assalì Marianne. Oh! oh Dio! Zach, bestemmiando a denti stretti, portò il soprabito di Marianne, la aiutò a raggiungere l'auto, e lei aveva le ginocchia così molli che lui quasi dovette sorreggerla. La aiutò a salire nell'auto gelata e non si accorse, o non gliene importava niente, della gonna che si impigliò nella portiera quando la chiuse con un colpo secco. Marianne inghiottì bile, si sentì soffocare, strozzare. Dov'era la borsetta a perline con i fazzoletti di carta? Qualcosa di caldo e acido le colò dall'angolo della bocca quando Zach accese il motore della
Corvette, sgommando via dal marciapiede. La testa di Marianne ruotava sulle spalle come un vaso di terracotta lanciato sul pavimento. Dopo, Marianne non ricordava. Voi Mulvaney credete di essere così maledettamente in gamba, eh? No. Non ricordava. Sempre mantenere la dignità. ** Lunedì sarebbe tornata a scuola, aveva deciso. Quel mattino era ancora febbraio. Marianne, a piedi nudi, nella camicia da notte di flanella, scese in silenzio la scala, attraversò la casa addormentata, attirata dal vento che fischiava piano, gelido. Per l'intera notte le erano piombati addosso sogni come valanghe di neve in montagna. Non prendeva le grosse pillole beige che il dottor Oakley aveva prescritto per aiutare il sonno e non prendeva le piccole capsule neroverde che il dottor Oakley aveva prescritto per ripristinare l'appetito (come mamma che "ripristinava" uno dei suoi pezzi d'antiquariato?), ma era il segreto di Marianne, uno dei suoi segreti. Sul retro della casa, alzò gli occhi a guardare. Sì, lo spazio dove di solito stava il furgone di papà, di fronte al garage, era vuoto. Sopra brillava una luce, che mamma aveva lasciato accesa per tutta la notte. Lui non era rientrato. (Ovviamente a volte Michael Mulvaney Sr. passava la notte a Mt. Ephraim per ottime ragioni, di solito alla sede degli Odd Fellows dove c'erano due o tre camere a disposizione dei soci. Strade pericolose: non aveva nevicato tanto la notte prima? Adesso nevicava, serpentine e brandelli di neve scaraventati contro le finestre, ammucchiati a ridosso del portico posteriore dove appena ieri Patrick e Judd avevano spalato.) «Papà, mi dispiace...» Le labbra di Marianne si mossero, ma lei non era certa di avere parlato ad alta voce. Aveva aperto il cuore a Gesù e Lui l'aveva consolata. Però era colpa di Marianne Mulvaney se era successo. Però non era colpa sua se non poteva testimoniare, deporre contro il ragazzo che le aveva usato violenza. Strano essere sveglia a quell'ora, e sola, a pianterreno. La grande vecchia fattoria scricchiolava nel vento. Quante persone erano vissute lì, morte lì. Dal 1849. Sono pensieri che si formulano in solitudine, prima dell'alba.
Prima che inizi la vita della casa. Adesso c'erano solo il vento, e il tic-tactictac di una decina d'orologi a indicare che il tempo è uno scherzo, non esiste. Eppure c'è bisogno di credere. La prima volta che Trisha aveva trascorso la notte a High Point Farm, quando ancora frequentavano la quinta elementare, aveva detto a occhi sgranati, rabbrividendo Oh! Ma è sempre così? Non ti mette paura, Marianne? come se il vento nel camino fosse uno spettro che ululava nella notte. Marianne aveva riso, si era sentita lusingata, superiore. Tutto a High Point Farm era speciale, lo sapeva anche una ragazzina di dieci anni. Era vero che sarebbe tornata a scuola. La settimana successiva. Tutto sistemato. Per prima cosa avrebbe dovuto vedere il signor Hendrie, il preside del liceo e la signora Langley, la consulente psicologica. Assieme ai genitori. Come minimo mamma, se papà si fosse rifiutato. Circolavano tante voci, aveva detto Hendrie alla mamma; si dicevano tante cose non verificate, inquietanti. Su Marianne e Zachary Lundt. E un gruppo di studenti dell'ultimo anno coinvolti in consumo di alcol, party a notte fonda, condotta sessuale deplorevole. Il signor Hendrie e la signora Langley speravano di discutere di tutto ciò prima che Marianne riprendesse la scuola e mamma sarebbe stata coinvolta, naturalmente. Marianne aveva idea che sua madre avesse già parlato a lungo con il signor Hendrie e la signora Langley al telefono, forse era addirittura andata da loro. Marianne non aveva chiesto e non sapeva. C'era anche la terapeuta Jill James raccomandata dal pastore della piccola chiesa di campagna di South Lebanon. Jill James (esigeva di essere chiamata così, senza formalità) era una terapeuta cristiana, una rarità in quei tempi secolari, con un dottorato in consulenza per adolescenti e famiglie dell'Università statale di Port Oriskany. Era dell'età di mamma, forse più vecchia, una donna robusta, dall'ossatura grossa, con un viso ampio che pareva colorato a pastello e una stretta di mano salda e calorosa come quella di papà. Il suo studio al centro commerciale Eastgate aveva colori vivaci, felci appese nei vasi e macramè alle pareti e una musica tranquillizzante in sottofondo. Marianne aveva visto Jill James una sola volta e doveva tornare da lei proprio quel giorno. Aveva preparato le parole che doveva dire, ripetere, offrire come piccole gemme semipreziose, tutto ciò che poteva dare. Non ricordo. La colpa è mia quanto sua. Avevo bevuto, mi vergogno tanto. Il mio orgoglio, la vanità. Non posso testimoniare il falso. Ovviamente, Jill James aveva parole sue da offrire. Perché è questo che fanno loro, gli adulti: pronunciano parole preparate in precedenza come tu
pronunci le tue. Camminare a piedi nudi nella neve poteva essere un test. Nel suo stato di rapito torpore era diventata invulnerabile! Ferma alla finestra, guardava fuori. Nevicava ancora, ma meno di prima. Il vento era calato. Dietro le stalle, il cielo a est si andava accendendo nella ramificata ragnatela delle mattinate invernali. Un sole torpido penetrava a stento le nubi. Marianne non vedeva da lì il monte Cataract, ma ne conosceva la posizione, la promessa. Una mano! Una mano levata nel saluto! Se si fosse incamminata verso il monte Cataract, distante quarantotto chilometri, fin dove sarebbe arrivata? Voi Mulvaney. Pezzi di merda pieni d'importanza. Tutti quanti. Doveva agire in fretta, prima che mamma si svegliasse. Prima che Patrick, Judd, Mike si svegliassero. Prima che iniziasse il giorno, il clamore e il caos del primo mattino a High Point Farm. Troy, il collie, bel cane, dormiva sdraiato sul tappeto disseminato di peli lungo una parete del soggiorno, vicino ai tubi dell'impianto di riscaldamento; ansimando piano, soddisfatto. Non si era affatto accorto di Marianne. Che cane da guardia. E su una poltroncina con il sedile infossato, a scrutare Marianne con imperturbabili occhi azzurri c'era il bellissimo Palladineve, di un bianco immacolato, con il musino rincagnato da persiano e le grosse zampe coperte di pelo. Aveva osservato Marianne sin dall'inizio, come non ci fosse nulla di strano in Marianne che a piedi nudi, in camicia da notte, si aggirava per la casa in penombra. Non posso. Non posso testimoniare il falso. Non capite! Avrebbe detto che sì, ovviamente sarebbe tornata a scuola il lunedì, e intanto attraversava il soggiorno, la cucina (lì c'era Piumotto sul suo trespolo, gonfiato alle dimensioni di un'arruffata palla gialla grossa il doppio di lui, la minuscola testa infilata sotto la minuscola ala), arrivava al corridoio posteriore dove erano disseminati stivali, striglie, mucchi di giornali, oggetti nella fase di transizione dall'utile al pattume, fino alla porta sul retro. L'avrebbe aperta senza fare rumore, sarebbe uscita. Gesù! Gesù! Lui la chiamava, l'avrebbe guidata. La stava guidando sin dal principio. Però aveva posato il piede su qualcosa, una cosa orribile, gommosa, delle dimensioni di un chicco d'uva. L'aveva calpestata con il piede destro, nudo, e si era ritratta, disgustata. Sapeva cosa fosse già prima di accendere la luce. Aagh! Inconfondibile, il cuore di un topo. Uno dei gatti l'aveva lasciato sul tappeto. Aveva catturato il sorcio e l'a-
veva divorato, tranne gli organi interni, sparsi in giro per casa come morbose offerte. Marianne avvertì una fitta di nausea nel momento stesso in cui pensò con calma È quello che fanno i gatti, la loro natura. Non glielo aveva spiegato mamma quando lei era tanto, tanto piccola? I gatti non sono volutamente crudeli, sono carnivori, cacciatori, è nella loro natura catturare topolini, ratti, persino conigli (soprattutto, a High Point Farm, cuccioli di coniglio) e uccelli. Se ami un gatto devi guardare dall'altra parte, accettare la sua natura e perdonarlo. Anche i cani, capaci talora della stessa crudeltà. Persino Troy, persino Seta. A caccia di cervi indeboliti dall'inverno nei boschi, ad accerchiare una cerva incinta e lacerarle il ventre con le zanne per farla cadere. Impaurita, sussultante. Una frenetica sete di sangue sulla neve. Musi bagnati di sangue. Marianne non aveva mai assistito a simili orrori, però aveva visto carcasse di cervi parzialmente divorate, sapeva. Cani che ami, che ti amano, spinti comunque dal bisogno selvaggio di artigliare, divorare, persino rotolarsi ebbri nelle carcasse di esseri un tempo viventi. Perché? aveva chiesto Marianne. Perché è così, aveva risposto mamma. Sì, ma perché? aveva insistito Marianne. Perché è la natura, amore, aveva detto mamma. E la natura non è malvagia. Palladineve, candido, elegante, con lo sdegnoso muso rincagnato e quel modo di fare sprezzante, aveva seguito Marianne e si attorcigliava attorno a una sua gamba, nella speranza di essere accarezzato. Marianne sussurrò: «Palladineve, sei stato tu? Non ti vergogni?». Il gatto bianco fiutò l'oggetto rosso e gommoso sul pavimento sfoggiando un'innocenza leggermente disgustata. Un altro gatto, lungo e snello, testa ossuta, E.T., saltò giù dalla postazione in cima al frigorifero per correre da loro. E.T. era un maschio castrato dalle fusa crepitanti, interrogative. «E.T. sei stato tu?» Anche E.T. fiutò il brandello di roditore come non avesse mai visto niente di simile in vita sua, ma non provasse alcun vero interesse. Come avrebbe fatto in quelle circostanze Corinne, la madre di casa, la custode della famiglia, Marianne sospirò. C'era un certo sollievo nella sua irritazione, quasi si fosse ridestata da una trance sgradevole. Aveva un compito da eseguire, per quanto ripugnante. L'idea di lasciare la casa calda, avventurarsi tra i venti gelidi nei boschi oltre il pascolo sul retro, era svanita. Con la carta da cucina raccolse il cuoricino dal tappeto sporco e indivi-
duò altre interiora parzialmente divorate nella confusione del corridoio, un pezzetto di coda, e portò tutto in bagno, a braccio teso in avanti. Non guardò quello che teneva in mano, lo lasciò cadere nella tazza del water e tirò l'acqua. Arrivò un'altra vampata di nausea, come un pugno che risalisse dalle sue viscere, e rivide il sedile posteriore in penombra della Corvette, il viso contorto in una smorfia, magro, e gli occhi rabbiosi di un ragazzo. Ma non cedette. Non lasciò emergere i conati, non si mise a vomitare. Stava bene. Non tutti i resti di roditore erano affondati, così tirò di nuovo l'acqua, sussultò ai rumori prodotti dalle tubature, i gemiti che somigliavano ad allegri sberleffi. Questa volta, grazie a Dio, tutto sparì per sempre nel flusso ribollente dell'acqua tinta di bluastro. Beati coloro che piangono, perché saranno consolati. Chiedi a papà Nessuno sarebbe stato in grado di dire che cosa fosse successo, o avrebbe desiderato dargli un nome: stupro era una parola che non si pronunciava a High Point Farm. Quali parole venivano pronunciate? Io ricordo abuso, violenza, approfittare di, fare del male. Parole che sentii, o captai di nascosto, per quanto nemmeno queste venissero pronunciate apertamente (in presenza di Patrick o mia), come non si poteva parlare apertamente di cancro, di morte. Lo stupratore, che era Zachary Lundt figlio di Morton e Cynthia Lundt, veniva sempre definito quello, lui. A meno che papà, in preda alla rabbia, non trascendesse. Il bastardo. Quel figlio di puttana. Lo stronzo. (Quando papà aveva bevuto, intendo. In altre occasioni, non parlava molto.) Con il tempo, ovviamente, sarei arrivato a scoprire che cosa fosse accaduto a Marianne, o almeno una certa sequenza di "fatti". Ma all'epoca, più piccolo fra tutti i Mulvaney, ero sempre l'ultimo a sapere. E comunque, i codici di conversazione della nostra famiglia erano talmente complicati che non riuscivo mai a sapere sul serio. Un mattino, nei box, chiesi a Patrick che cosa stesse succedendo e lui mi scrutò a occhi socchiusi dietro i suoi occhialini tondi, senza perdere il ritmo mentre spazzolava Prince, e mormorò: «Chi vuole saperlo?». (Un eufemismo Mulvaney per "Fatti gli affari tuoi".) Ribattei: «Lo voglio sapere io, accidenti. Che cosa succede, perché camminano tutti in punta di piedi, cos'ha Marianne?». Patrick girò attorno a Prince, il nobile castrato dal manto tra mogano e castano scrollò
la criniera, scrollò testa e coda e spruzzò un torrente di piscio caldissimo. «Sono uno di voi» dissi, ferito. «Perché non posso sapere?» Patrick mi scrutò da dietro il sedere tremolante di Prince. Portava un berretto di lana verde abbassato sulle orecchie che gli dava un'espressione di furia trattenuta, e il freddo gli aveva arrossato le guance. Borbottò cupo: «Credo che Marianne abbia avuto qualche guaio ma adesso sta bene». «Qualche guaio? Marianne?» Era così sorprendente per me. Non sapevo come reagire. Patrick scrollò le spalle. La sua faccia si chiuse a pugno. Da lui non avrei ottenuto altro. Lo sapevo: ultimamente Marianne non era andata a scuola e, almeno quando ero a casa io, stava nascosta nella sua stanza, con la porta chiusa. Pensavo fosse malata, ma mamma mi aveva assicurato con un sorriso rapido e sfolgorante: «Oh, no! Germoglio ha avuto l'influenza ma si sta riprendendo. Sai com'è questa famiglia...». Le dita di mamma, farfalle impazzite, svolazzavano nell'aria. «Ci ammaliamo in fretta e guariamo in fretta. Quindi, Marianne tornerà a scuola... uhm, domani. O domani l'altro.» Mamma indietreggiava. Cercai di trattenerla. «Mamma? Come mai anche papà si comporta in un modo così strano?» Ma mamma era in movimento. L'avevo intercettata nel cortile posteriore mentre chiudeva la cerniera della giacca a vento e infilava i piedi nel primo paio di stivali a portata di mano. Afferrò le chiavi dell'auto. Era in ritardo per... qualcosa. Si girò a strillarmi, con un sorriso preoccupato: «Ha avuto l'influenza anche papà. Capitan Mulvaney tornerà quello di sempre molto presto!». Alla fine bloccai Mike. Una sera dopo cena quando a tavola c'eravamo solo io, mamma, P.J. e Mike. Marianne era di sopra e papà fuori "per lavoro", come spiegò in termini vaghi mamma. La cena era stata nervosa, con la povera mamma che era schizzata due, tre volte a rispondere al telefono, ma non era mai la chiamata che aspettava, se davvero ne aspettava una. P.J., incupito per chissà cosa, fissava il piatto come fosse preso da uno di quei suoi concetti stravaganti: l'infinito. Mike spalava il cibo con robusto appetito, pareva. Quella sera aveva appuntamento con una delle sue ragazze e verso la fine della cena scrollava e dimenava le spalle, impaziente, come fosse rimasto seduto in panchina ad aspettare di essere chiamato in campo e l'attesa si fosse prolungata troppo. Non appena ebbe finito di mangiare saltò su borbottando: «Scusami mamma! Grazie!» e mamma re-
stò a guardarlo addolorata, l'espressione che ormai aveva sempre. Mike si rase per la seconda volta quel giorno; poi nella sua stanza si mise a correre in giro in cerca di qualcosa, si tolse una camicia e ne indossò un'altra, si pettinò con foga i capelli impomatati, si guardò nello specchio del cassettone e ciò che vide gli piacque, ma appena appena. Seta si strusciò contro le sue gambe, guardandolo con quegli occhi marroni colmi d'amore che solo i cani sanno avere, ma lui lo ignorò; io entrai nella stanza di Mike senza essere stato invitato, mi misi sul letto e coccolai Seta, il fratellino che indugia nella stanza del fratello maggiore. Ero troppo timido per fargli domande che potessero violare il codice. Per esempio, il fratello minore è già a rischio se inizia una conversazione con un fratello maggiore che chiaramente ha per la testa cose più significative. «Merda.» Mike lo disse sottovoce, ma con rabbia. Tolse la camicia che si era appena messo, cercò qualcosa d'altro nel cassetto. Si era raso con tanto vigore da avere macchioline di sangue sul mento. Gli occhi emanavano ombre giallastre. Dovetti chiedermi per quanto tempo mi avrebbe ignorato. Era quasi affascinante, come uno degli esperimenti di P.J. con le alghe dello stagno. Sulle pareti e sul cassettone e sui davanzali della stanza di Mike c'erano fotografie, ritagli di giornale, targhe, ogni sorta di memorabilia dei suoi quattro anni da atleta superstar al liceo. (I grandi lucidi trofei d'ottone erano esposti in soggiorno, è ovvio. In mostra permanente: MULO MULVANEY ATLETA DAI MIGLIORI RISULTATI, 1971, SERATA SPORTIVA DELLA CAMERA DI COMMERCIO DI MT. EPHRAIM. MULO MULVANEY MIGLIOR ATLETA DELLULTIMO ANNO, LICEO DI MT. EPHRAIM, 1972. E altro.) Da piccolo mi ero riempito di meraviglia davanti al mio fratellone Mulo in tenuta da football, pantaloni aderenti, numero quattro marrone sulla schiena, spalle imbottite. Il casco lucido che fa sembrare astronauti i giocatori di football. Noi ragazzini giovani sapevamo che in realtà i giocatori non possedevano quei fisici, erano imbottiti, però reagivamo come se li avessero: apparivano così forti, così sicuri di sé. Perciò vederne cadere uno all'improvviso sul campo e contorcersi nel dolore, come la volta che Mike venne abbattuto e si ruppe una caviglia, era uno spettacolo che ti metteva di umore terribilmente serio, una scena che avrei ricordato vivida per l'intera vita. C'erano urli, strilli. I fischi frenetici dell'arbitro. Papà che già si faceva strada tra la folla, scendeva dalle tribune, e mamma schizzata in piedi a gridare: «Oh Mikey! Oh no!». Mike Mulvaney era ritenuto uno dei due o tre migliori giocatori di foo-
tball mai usciti dalle superiori di Mt. Ephraim, però era opinione comune che il suo gioco fosse disordinato, imprevedibile. Perdeva di colpo controllo e capacità di giudizio, ed era allora che gli avversari gli facevano del male. Per fortuna buona parte dei suoi incidenti era di poco conto. Ciò che tutti dicevano di lui, sulla stampa e a voce, era che si trattava di un "grande sportivo". Non giocava mai sporco come alcuni degli altri, non lanciava mai accuse acide dopo una partita persa. Nelle interviste, Mike attribuiva benevolo il suo spirito sportivo agli "ideali portati avanti da mio padre e mia madre". Rendeva merito all'allenatore Hansen. Rendeva merito ai suoi insegnanti, al suo sacerdote. Si sarebbe detto che fosse uno dei "bravi ragazzi cristiani" ma il vero Mike era turbolento e irriverente. Quando i Rams di Mt. Ephraim perdevano una partita, il che era raro, era Mike a tirare su il morale agli altri, Mike che osava scherzare con l'allenatore, un torello indigeno con una spiccata tendenza a diventare cupo e imbronciato se le cose non andavano come desiderava. «Ehi, coach, allegria!» Una volta Mike gli strillò, in mia presenza: «Oggi ci siamo, domani non ci saremo, e che diavolo!». Come fosse una riflessione allegra. E l'allenatore e altri che stavano lì guardarono Mike e risero. All'ultimo anno di liceo, Mike ricevette offerte per borse di studio come giocatore di football dalle università di Michigan, Minnesota, Notre Dame, Colgate, nonché da tutte le università dello stato di New York. Non riuscì a decidersi per settimane e alla fine scelse la SUNY di Buffalo ma non tornò a studiarci dopo il primo semestre, sostenendo che il college non faceva per lui, il che includeva anche il football del college. Forse l'allenatore non lo apprezzava? Forse l'università era troppo grande? Forse i suoi voti in amministrazione aziendale non erano tanto buoni? Comunque fosse, Mike tornò a casa e cominciò immediatamente a lavorare alla Mulvaney Tetti e coperture con papà. Papà desiderava che Mike prendesse un diploma al college però, francamente, ammetteva di non riuscire a vedere che differenza potesse fare un diploma quando sai il fatto tuo nel tuo ramo d'attività e lavori meglio di chiunque altro. Era quella la formula del successo. La formula che aveva funzionato per Michael Mulvaney Sr. Alla fine Mike si decise a guardarmi, senza fulminarmi però nemmeno con il sorriso sulle labbra. Lo presi per un invito a parlare. Dissi: «È successo qualcosa a Marianne?». Mike stava chiudendo la cerniera del maglione di velour blu, un regalo della sua ragazza Trudi, e rispose veemente: «Sì, le è successo qualcosa. Qualcosa di molto brutto, cazzo». Si girò di
nuovo verso lo specchio, si studiò con aria critica. «Un figlio di puttana le ha fatto del male, uno del liceo.» Per me fu una tale sorpresa, un tale stupore, che bofonchiai: «Eh? Chi?» e Mike disse acido: «Uno della classe di P.J. Qualche succhiacazzo dovrà pagare». «Ma... cosa ha fatto?» domandai. Mike stava passando un'altra volta il pettine nei capelli riccioli, tra il rossiccio e il castano; poi lo infilò nella tasca posteriore dei jeans, come un'arma segreta. Disse, evasivo: «Chiedi a loro. Non vogliono che io ne parli. Con nessuno». «Ma chi è stato, Mike? Cos'è successo?» Ero eccitato, spaventato. Ero grande abbastanza da sapere che un ragazzo può fare del male a una ragazza in certi modi (sapevo che cosa fosse uno stupro, più o meno) ma mi era difficile comprendere che a mia sorella Marianne, la mia sorella che piaceva tanto a tutti, specialmente ai ragazzi del liceo, qualcuno potesse avere fatto del male in quel modo. Mike lasciò la sua stanza, andò a prendere una giacca a vento dal corridoio sul retro. «Mike, ehi, perché nessuno ne vuole parlare? Perché è un tale segreto?» chiesi. Mike infilò i piedi in stivali di pelle, tolse le chiavi dell'auto dalla tasca, impaziente di uscire. Sulla porta si fermò, mi guardò, rifletté su cosa rispondere. Aveva gli occhi socchiusi e umidi come quelli di mamma, quasi avessero fatto del male a lui, non a Marianne. Quale che fosse quell'oscuro e misterioso male. Disse: «Chiedi a papà». I ragazzi sono ragazzi! Una mattina di marzo, aula 209 del liceo di Mt. Ephraim: la lezione di Madame Lederer. Sul banco di Marianne Mulvaney, al primo anno di francese, era stato disegnato con un pennarello fosforescente rosso un curioso oggetto tubolare, lungo una decina di centimetri, definito L'OISEAU. La punta della cosa era gonfia come un pallone e sotto, a lettere più piccole, era scritto INSERIRE DA QUESTO LATO. Nessuno sapeva chi avesse disegnato L'OISEAU. (Ovviamente, qualcuno sapeva.) Le ragazze erano imbarazzate, non sorridevano; si rifiutavano di guardare in direzione del disgustoso banco e di certi ragazzi che si scambiavano occhiate, sorridendo, facendo sussultare le spalle, imbarazzati a loro volta ma più di tutto eccitati. Che cosa crudele, Dio. Non è divertente, gente. Ma chi poteva cancellare il disegno, con un preavviso così minimo? E con Madame Lederer già in aula, a scrivere sulla lavagna il compito per l'indomani? E, in ogni caso, chi voleva lasciarsi coinvolgere?
Disgustoso. Che stronzi. Ma magari non se ne sarebbe accorta. Forse Madame Lederer non se ne sarebbe accorta. I ragazzi sono ragazzi! Un secondo dopo la campanella, quando quasi tutti erano in aula e si sistemavano ai propri posti, Marianne Mulvaney entrò con quel suo nuovo stile misurato; non, come in passato, circondata da amiche, a sorridere e lanciare saluti, ma sola, e timida; incerta, come una convalescente uscita di casa un po' troppo presto, disorientata nel mondo delle persone sane e ansiosa di non darlo a vedere. Quella ragazza era Marianne Mulvaney, naturalmente, ma lo era davvero? Tranne Madame Lederer alla lavagna, con la schiena girata alla classe, tutti quanti osservavano di soppiatto, avidi. Povera Marianne! Che tristezza. Come potete essere tanto cattivi voi ragazzi? Si notò che il suo viso era stranamente triangolare, con un incarnato pallido, stravolto; gli occhi bassi erano troppo grandi nelle orbite; il sorriso rivolto a nulla di preciso era nervoso, con le labbra rigidamente ritratte sui denti. E guardatela: lo ha voluto lei. Andiamo! Mentre raggiungeva il suo banco in terza fila, quasi al centro dell'aula, Marianne inciampò nei piedi giganti di Ike Rodman, mormorò quello che parve: «Scusa» e Ike ribatté subito, rosso in volto all'istante: «Sì, certo». Tutti scrutarono Marianne che arrivava al banco, depositava sul piano la borsa dei libri; si accomodava sulla sedia senza vedere L'OISEAU, con quel modo di fare che aveva da quando era tornata a scuola qualche giorno prima, lo sguardo assente, sempre al rallentatore, però sempre anche con quel sorriso, quel sorriso patetico! come una smorfia perenne. Segni di sollievo generale, qualche risatina soffocata. Madame Lederer, una donna quasi sulla quarantina, robusta di petto, dall'abbigliamento sgargiante, che si credeva chic, si girò a salutare la classe del primo anno con i consueti gesti magniloquenti e il sorrisone tra il dolce e l'ammaliante. «Bonjour, mademoiselles et monsieurs!» La risposta fu quasi troppo urlata, venata di ironica simpatia: «Bon-jour, Madame Lederer!». Al suo banco in terza fila, al centro della stanza, Marianne Mulvaney armeggiò per aprire il libro di testo di francese, aprì un taccuino con il dorso a spirale, tirò fuori la penna e scrutò a occhi socchiusi la signora che gesticolava e sorrideva sul fondo dell'aula. Non c'era nient'altro da guardare, non il minimo interesse per Marianne: il misero dramma di quel mattino
era evaporato. Fase Quanto era diventata apprensiva agli squilli del telefono. Soprattutto di notte se Michael Sr. non era a casa. E da febbraio, tanto spesso, inspiegabilmente, lui non era a casa. Tanto spesso, in quelle settimane. Mentre l'inverno si arrendeva a passi lenti, testardi, alla primavera. La rigida primavera del Nord dello stato di New York, con il vento che sparava proiettili di neve, le facce gialle e scioccate delle giunchiglie incrostate di ghiaccio, i gambi spezzati, caduti. Così Corinne pensava: Nulla procede in linea retta, il percorso è più... be', embricato. Come quando si appronta un tetto e si mettono tegole, assi, l'una sull'altra di traverso, per ottenere solidità. Dove andava Michael, sotto l'incantesimo della sua ossessione? Ovviamente, Corinne poteva chiedere, e lui avrebbe risposto. Aveva sempre una risposta pronta. Vado a trovare qualche vecchio amico. Guido di qua e di là, per schiarirmi le idee. Con un pizzico del vecchio spirito scherzoso da ragazzaccio: Ehi, ma chi vuole saperlo? Oppure, strizzando l'occhio: Vieni con me, amore, e non dovrai più chiedere. (Come se la volesse con sé! Come se Corinne, sua moglie, e i figli a High Point Farm, non facessero parte delle cose da cui doveva fuggire.) Ma le risposte pronte non erano mai le risposte giuste, quelle date quando i loro occhi, gli occhi di Corinne e Michael, si incontravano, e lei sapeva che lui le stava dicendo la verità. La accoglieva nel proprio cuore. Nonostante il dolore, l'oltraggio, l'ira del cuore: perché non poteva più lasciarla entrare? Lei avrebbe voluto urlargli: Sono sua madre! Sono stata stuprata anch'io. Stava lasciando andare alla deriva la Mulvaney Tetti e coperture, quello Corinne lo sapeva. Ciò che Michael Mulvaney aveva costruito negli ultimi vent'anni con tanta instancabilità, dedizione, e speranze; il suo motivo di vita, oltre alla famiglia («Essere rispettato come il miglior esperto di tetti della valle di Chautauqua»), se lo stava lasciando sfuggire tra le dita come sabbia. Telefonate preoccupate del suo caposquadra Alex Flood: le otto del mattino e una squadra sul cantiere e dov'era il signor Mulvaney? Telefonate
preoccupate della segretaria Leah, metà mattina ed erano in corso consegne di materiale, arrivavano chiamate importanti, dov'era il signor Mulvaney? Allegra come una ghiandaia, Corinne sentì la propria voce cinguettare (nonostante i pugni serrati, le unghie affondate nei palmi): «Perché lo chiede a me? Conosco quell'uomo solo da ventitré anni». Con quella sua risata cavallina, ansante, di fronte a silenzi stupefatti. Durante una di quelle inquietanti telefonate (alle 16.40, e a chiamare era un cliente che si lamentava), Patrick entrò in cucina e sentì quel che diceva Corinne. Quando lei riappese, lui le sfiorò dolcemente il braccio. «Ehi, mamma. Ehi.» Stava piangendo? Non se n'era nemmeno accorta! Non esiste imbarazzo più acuto, più penetrante e doloroso, di quello di un adolescente in presenza dei genitori. Soprattutto un ragazzo di diciotto anni dai nervi saldi, sicuro di sé e dotato di un alto quoziente intellettivo, in presenza di una madre quarantacinquenne disfatta. Patrick, con un'allegria un po' tesa che a Corinne ricordò se stessa, disse: «Gli passerà. Conosci papà». «Oh, giusto. Questo lo so» ribatté subito Corinne. «Sta solo attraversando una...» Patrick sorrise, spinse gli occhiali all'insù sul naso. «Una fase.» Risero assieme. Solo un poco troppo forte. L'umorismo stava nel fatto che i Mulvaney genitori ripetevano di continuo che l'uno o l'altro dei Mulvaney figli, oppure tutti quanti, attraversavano una fase. «Giusto. È vero» disse Corinne, passandosi una mano sul viso surriscaldato. «Succede a tutti noi! Amen.» Con lo sguardo struggente dell'amante abbandonata, Corinne restò a guardare il figlio alto e bello, il suo misterioso secondogenito. Che, nella lercia giacca di pecora, uscì a svolgere i suoi incarichi nella stalla. Vuole allontanarsi da me. Non posso dargli torto. Patrick era coscienzioso nei lavori, come Marianne non si lamentava; molto più affidabile ed efficiente di quanto fosse stato Mikey Junior a quell'età. Il cuore di Corinne si gonfiò d'amore per Patrick: amore, e un senso di perdita talmente forte da tagliarle le gambe. Era peccato, Dio, provare una tale emozione per il proprio figlio? Nel vedere quanto alto e snello Patrick fosse diventato, più alto di lei di diversi centimetri, più alto persino del padre. Era un bel ragazzo, nonostante la fronte perennemente aggrottata, l'abitudine di socchiudere gli occhi, fissare, inumidirsi e succhiarsi le labbra. Però, naturalmente, non osa-
va toccarlo. Una delle sconcertanti scoperte della mezza età di Corinne era stata che, all'interno della propria famiglia, poteva struggersi al desiderio delle attenzioni di un ragazzo che era figlio suo! Quasi come, quando era una ragazza solitaria, ossuta e dinoccolata alle superiori, figlia di un agricoltore, aveva desiderato l'attenzione di ragazzi di quel tipo: alti, piacevoli, belli e distanti. Con occhi che la trapassavano senza riconoscerla. In quanto a Mikey Junior, il primogenito, aveva dovuto rinunciare a lui in senso emotivo, intimo, già da anni. Adesso lui addirittura sussultava se lei lo chiamava Mikey Junior e non Mike. Non solo aveva cominciato a sottrarsi con imbarazzo al tocco della madre ma, chiaramente, aveva iniziato quella che Corinne intuiva essere una vita sessuale segreta, una vita sessuale intensa, con così tante ragazze che se Corinne avesse tenuto il conto sarebbe arrivata alla nausea. Non che fosse una madre gelosa. Non in quel senso. Come certe sue amiche che confessavano di essere ossessionate dalle probabili vite segrete dei figli. Patrick, però. Patrick non aveva ancora scoperto il sesso. Corinne si chiedeva se fosse attirato dalle ragazze, se le sognasse. Grazie a Dio, di lui poteva fidarsi. Eppure: le sarebbe piaciuto un po' più di coraggio! Sedersi con Patrick, loro due soli. E parlare, per una volta, con franchezza. Come stai prendendo questo terribile episodio delle nostre vite? Tua sorella si è confidata con te? Cosa sai, da altre fonti, di quello che è successo? Cosa dice di noi la gente? (Ma voleva davvero saperlo? Il cuore le batteva rapido al pensiero, come in presenza del pericolo.) Però sapeva che non era possibile. Non più. Patrick aveva diciotto anni, e presto avrebbe lasciato la casa. A volte Corinne vedeva nelle lenti dei suoi occhiali paesaggi distanti. Ormai era raro che lui, o gli altri, indugiassero in cucina con mamma come un tempo. Tutto ciò era svanito, all'improvviso. Era tutto svanito, no? Corinne non se n'era resa conto. La chiassosa mezz'ora in cui tutti i figli, rientrati da scuola, si affollavano in cucina, ansanti ed eccitati, a scambiarsi le novità della giornata, prendersi in giro, scherzare, ridere, puntando al frigorifero, con i cani che abbaiavano in estasi, perché anche per loro era l'apice della giornata. (Di solito, i cani aspettavano l'autobus della scuola all'inizio del vialetto. I pomeriggi in cui Mikey Junior aveva gli allenamenti di football, il povero Seta restava a vigilare solo, mentre gli altri cani trottavano verso casa con gli altri ragazzi.)
Gli anni meravigliosi in cui Mikey era ancora alle superiori e Judd alle elementari. Mikey Junior, P.J., Germoglio, Ranger. E la cara vecchia mamma sfolgorante di piacere anche mentre, com'è tipico delle madri, rimproverava: «Ehi! Razziatori! Non rovinatevi l'appetito prima di cena!». Come se ragazzi in crescita potessero rovinarsi l'appetito. Quei ragazzi sempre affamati, a divorare panini al burro d'arachidi, biscotti con le scaglie di cioccolato, fette di formaggio, vecchi biscotti al burro e latte spalmati di marmellata. Mikey, che era Mulo e Numero Quattro, aveva l'appetito di un giovane manzo, mandava giù mezzo litro di latte in cinque o sei sorsate. Marianne che stava di continuo a "tenere sotto controllo il peso" si univa a loro con bevande dietetiche, sgranocchiava carote, sedano. Tutti quanti flirtavano con mamma. Bramavano l'attenzione di mamma, cercavano di fare colpo su lei. Come i cani sempre pronti a scodinzolare e i gatti che tenevano la coda ritta come micini. Ehi mamma, guarda me! me, me! Ora, tutto era cambiato. In modo irrevocabile? Corinne si era resa conto che i figli più grandi avevano cominciato da tempo a opporre resistenza ai suoi abbracci, ai baci, ai toni suadenti adatti a bambini piccoli. Non si lasciavano togliere i capelli dalla fronte, le macchie di sporco dal viso. La resistenza di un maschio alla madre pareva cominciare a cinque anni. Così giovani! A nove, undici anni, bisognava stare attenti, molto attenti, alle tecniche d'approccio. (La cosa più furba era aspettare che fosse il ragazzo a venire da te, cosa che avrebbe fatto nelle circostanze giuste. Costretto all'immobilità da un incidente sul campo da gioco, con la caviglia destra ingessata per settimane, a sedici anni, Mikey era quasi tornato all'infanzia, nei momenti in cui in giro a potersi occupare di lui c'era soltanto mamma. Corinne aveva adorato ogni singolo istante di quel periodo!) A tredici anni e oltre, però, non erano più bambini. Nemmeno ragazzi, in effetti: le voci cambiavano, modesti ciuffi di barba cominciavano ad affacciarsi. Michael Sr. diceva scherzoso di riuscire a fiutare gli ormoni di Michael Jr. per tutta la casa, mescolati all'odore ricco, pieno, del sudore di calzini e scarpe da ginnastica. Sta attraversando una fase. Non sta succedendo a tutti noi? Amen! Corinne pensò, ispirata: forse è proprio questo? Forse tutti quanti stavano attraversando una fase, l'intera famiglia Mulvaney, e presto ne sarebbero usciti? Soltanto una fase: le stesse parole ridavano improvvisa speranza. Non molto prima, Michael Sr. riusciva a dormire con un vento da burrasca; adesso aveva il sonno leggero, dormiva solo poche ore per notte. Ave-
va sviluppato una tale dipendenza dalle maledette sigarette da svegliarsi ogni tre o quattro ore e scendere a pianterreno a fumare. (Fingendo di dovere usare il bagno. Come se Corinne, che divideva il letto con lui, non sapesse.) A volte, all'alba, Corinne lo andava a cercare a pianterreno, per individuarlo prima che si svegliassero i figli. Il suo russare (raspante, gorgogliante, irregolare nel ritmo) la conduceva a lui nella stanza per le riunioni di famiglia, o in cucina, o nella stanza arredata al minimo e ingombra di cose che era il suo ufficio a casa. Lì, Michael Mulvaney Sr. era abbandonato su un divano o una poltrona, a volte addirittura sul pavimento, con la testa talmente piegata di lato da dare l'impressione di avere il collo rotto. Un uomo con le borse sotto gli occhi, terreo in viso, con basette grigio acciaio; le spalle muscolose, le braccia, la vita che tendeva a ingrossarsi. Ai suoi piedi erano sparse bottiglie di birra, magari una bottiglia vuota di whisky, Early Times, il suo preferito. Un posacenere traboccante di cenere e mozziconi. Che puzza! Corinne balzava a una finestra e l'apriva: più l'aria era fredda, meglio era. Quanto si sentiva ferita, e quanto astiosa! Uno dei cani, di solito Troy che dormiva in quella parte della casa, spuntava, dopo essersi posizionato per la notte nei pressi del padrone. Il muso angoloso di un collie, occhi umidi che si era spinti a credere intelligenti, consolanti. Non preoccuparti, è soltanto una fase! ** Una cosa Corinne sapeva: uno dei posti dove Michael sgattaiolava in segreto (sì, aveva scoperto una scatola di fiammiferi nei suoi calzoni; a quel livello di disperazione era giunta) era la locanda Wolfs Head al lago Wolf's Head, a trentadue chilometri da High Point Farm. Buon Dio, no. Non un'altra volta. Il proprietario del locale, o di un'ipoteca sul locale, era un vecchio amico di Michael, Haw Hawley. Il gruppo di Wolfs Head, gli amici più antichi di Michael nella valle di Chautauqua, conosciuti anni prima di intrecciare rapporti a Mt. Ephraim. Alcuni di loro appartenevano anche allo Sportsmen's Club di Chautauqua (Wally Parks, Rick Shires, Cobb Connor). Testardi nel fare partecipare Michael Mulvaney ai loro famosi weekend di caccia nella stagione della caccia al cervo, tra novembre e dicembre. Non soltanto i fucili terrorizzavano Corinne, che odiava comunque la caccia, ma le ripugnavano anche le lunghe notti di bevute, poker, gozzoviglie. Quando Michael tornava da una di quelle spedizioni tra le colline dietro il
lago Wolf's Head aveva i postumi della sbronza e un'appannata espressione di colpa negli occhi. Corinne dubitava che avesse mai ucciso un cervo, ma gli uomini inventavano storie per proteggersi a vicenda e farsi belli agli occhi delle donne di casa. (Nell'ufficio di Michael alla Mulvaney Tetti e coperture c'erano foto di lui e dei suoi amici di caccia in posa davanti a carcasse di cervi, i fucili fieramente eretti. Corinne non ne avrebbe mai ammessa una in casa anche se, essendo dotata di mentalità pratica, accettava di preparare bistecche e stufati di cervo.) Con il tempo, nel giro di qualche anno, Michael si era stancato delle battute di caccia. Non si era mai spinto ad ammettere che Corinne avesse ragione, moralmente o per altri versi, ma lei intuiva che gli stupidi spargimenti di sangue e il comportamento degli amici gli ispiravano ormai repulsione. Haw Hawley! I sentimenti di Corinne nei suoi confronti, e della moglie Leonie, erano complicati. Ammetteva che erano divertenti: turbolenti, volgari, avventati, vivaci. Mai un momento di noia alla locanda Wolfs Head, nei lunghi tramonti e nelle notti estive. Corinne sapeva quanto piacesse a Michael quel gruppo di forti bevitori, ma da parte sua non era mai riuscita ad apprezzarli troppo. Non si era mai sentita a proprio agio. Anche se, da giovane moglie ansiosa di accontentare il marito, ci aveva provato. Haw e Wally Parks avevano flirtato con lei quando Michael non era presente, e lei non aveva mai capito se facessero sul serio o stessero solo scherzando. (0 entrambe le cose.) Aveva scelto di interpretare quel corteggiamento come uno scherzo, anche se non ne aveva mai parlato con Michael. Haw era un alcolista dal ventre enorme e dalla barba arruffata che beveva con i clienti, Wally era un tipo inagrissimo, biondo, alla Presley, che dirigeva l'aeroporto di Marsena e si era costruito la fama locale di ex pilota di bombardieri in Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Alcolista anche lui; oh, perché usare eufemismi, erano tutti alcolisti e anche Michael Mulvaney si era avviato di buon passo su quella via negli anni in cui frequentava regolarmente la gang. Da giovane moglie, con i figli piccoli, Corinne soffriva di un incubo ricorrente: la visione del marito che adorava, il padre dei suoi figli, affondato fino alle ascelle nella fanghiglia nera della riva nord del lago Wolf's Head, che scompariva gradualmente alla vista. Buon Dio, ti prego, no. Non sono abbastanza giovane, o abbastanza forte, questa volta. Era convinzione di Corinne, mai condivisa con qualcuno, di avere dovuto lottare per l'anima stessa del marito, in quegli anni. La percorse un bri-
vido: quanto era giunta vicina a perdere Michael, ingoiato da quella poltiglia nera. Eppure, doveva ammetterlo, il lago Wolf's Head e la locanda possedevano un certo fascino squallido nei giorni in cui erano tutti giovani, e belli. Un sottofondo erotico praticamente in ogni scambio di battute tra un uomo e una donna che non fossero sposati tra loro. Il beat! beat! beat! sexy del jukebox nel bar. La locanda Wolf's Head era un locale di campagna costruito su un promontorio sopra il lago; a pianterreno c'era un'agenzia per il noleggio di barche. (Quanto piacevano ai piccoli Mulvaney quelle barche a remi scassate e ingombranti, come chiedevano di essere portati sul lago domenica dopo domenica! Il ricordo increspò gli angoli degli occhi di Corinne: il bagliore accecante del tramonto sul lago. Un dolore fantasma guizzò tra le sue scapole. Finché Mikey Junior non era stato grande abbastanza da potergli affidare una barca e i fratelli, toccava a mamma portare il branco a navigare, mentre papà beveva birra e giocava a carte con gli amici sulla veranda della locanda. Li si sentiva ridere e sbraitare come iene dal lago, a cento metri di distanza.) All'interno, la locanda era scarsamente illuminata anche nella giornata più luminosa. C'era un lungo bancone scalcinato che a Corinne, romanticamente, ispirava l'idea di una locomotiva. C'erano finestre con le zanzariere, sporche di cacca di mosca, affacciate sul lago, sul pavimento c'erano assi di legno ruvido cosparse, al termine della serata, di mozziconi di sigarette e pacchetti vuoti. E che puzza! Al ricordo le si serrarono le narici. L'odore pungente, unico, inconfondibile della birra, del fumo, di disinfettante e orina vecchia sul retro, dove le toilette per uomo e per signora si aprivano in una nicchia umida. Però la taverna possedeva uno charme decadente; a entrarci, il cuore accelerava. C'era una piccola pista da ballo, c'era un jukebox sempre sfolgorante. Quante monetine ci aveva infilato anche lei! Ogni due canzoni che sentivi, una era di Elvis Presley. L'Elvis giocoso-scalmanato (HoundDog), l'Elvis sognante-sdolcinato (Heartbreak Hotel), l'Elvis sexy-seduttore (Love Me Tender). Corinne era una sognante giovane moglie sui vent'anni, e come gli altri beveva birra finché le girava la testa e scoppiava a ridere alla minima provocazione. Una stretta delle dita di Michael sul polso bastava a provocarle una scossa elettrica all'inguine, oh, sì! Locanda Wolf's Head, lago Wolf's Head, N.Y.: scoprire la scatola di fiammiferi nella tasca dei calzoni di Michael, con il rozzo logo di una testa di lupo di profilo, riportò tutto alla mente di Corinne, con un brivido.
Certo, il lago era bello. Tutta la parte rurale della valle di Chautauqua era bella. Negli anni cinquanta c'erano relativamente pochi chalet, cottage, motel economici sul lago (lo sviluppo edilizio sarebbe arrivato, a tutto vapore, negli anni settanta) e si poteva passeggiare senza incontrare distrazioni sulla riva, nelle pinete, scrutare la placida superficie del lago sino ai fitti boschi sulla riva opposta, a un paio di chilometri, le colline ai piedi dei monti coperte d'abeti e le indistinte montagne blu ardesia dietro. Certo, i bambini lo amavano. Certo, era il loro posto preferito, in assoluto. Come lo era per Michael. Eppure a Corinne sembrava un luogo di sorprese e pericolo. Era una giovane madre, esagerava. Forse. Buona parte della riva era rocciosa e non era consigliabile nuotare; persino nei pressi della spiaggia principale, dove era attivo un servizio di sorveglianza, a volte si calpestava una fanghiglia ripugnante che dava l'idea delle sabbie mobili. I temporali potevano scoppiare in fretta, sollevando l'acqua in onde ribollenti; se ti trovavi in barca in mezzo al lago e il vento ti soffiava contro, il ritorno poteva essere angoscioso e spossante. Oppure, nelle giornate calde, afose, il lago assumeva un bagliore malato, come di plastica fusa. C'erano orribili mosche che pungevano, nubi di moscerini e zanzare ronzanti. Persino (grazie a Dio, Corinne non ne aveva mai visto uno, o non avrebbe mai più rimesso piede nell'acqua) serpenti acquatici, nelle insenature più abbandonate a se stesse. E la luce del sole al lago Wolf's Head non era più violenta che a casa? Tutti i Mulvaney avevano subito una scottatura prima o poi, persino Michael Sr., che si abbronzava tanto in fretta. Una volta, quando Germoglio aveva cinque o sei anni, aveva giocato sulla spiaggia e si era avventurata nell'acqua bassa per ore nel pomeriggio, e il cielo era cosparso di nubi, eppure, al termine della giornata, gemeva di dolore: le spalle e la schiena erano di un intenso color aragosta, e bruciavano a sfiorarle. E sulla spiaggia c'erano tanti bambini rumorosi, sgarbati, combattivi, che correvano e spruzzavano attorno acqua, lanciavano sabbia, ragazzi di dubbia educazione che infilavano una parolaccia ogni tre parole. E le ragazze! Giovani teenager in esili costumi da bagno che sfoggiavano i notevoli corpicini, occhiali di plastica e trucco pesante persino in acqua, precoci adescatrici che sbirciavano il Mikey Junior di Corinne persino quando non aveva più di dodici anni! Così come le loro madri e sorelle maggiori scrutavano senza reticenze Michael Sr, che era tanto attraente. Facendo infuriare Corinne con quel loro modo così esplicito di comunicare Ehi! Guardami, sono qui.
Al lago Wolf's Head, Corinne era stata costretta ad ammettere una verità che fino ad allora le era sfuggita: un conto è sposare un uomo, e un altro è tenerselo. Quella volta, una domenica sera sul tardi, con i bambini pronti a rientrare a casa da ore, e persino Mikey Junior insonnolito, che si stava addormentando sul sedile posteriore della station wagon, Corinne, esasperata, era rientrata nella locanda a recuperare Michael, solo per scoprirlo con quella pelle e ossa biondo platino di Leonie Hawley, tutti e due a ridacchiare sulla pista da ballo, praticamente pomiciando! Come in seguito Corinne avrebbe accusato Michael. Lui e Leonie avevano finto assoluta innocenza, ovvio. Ma Corinne sapeva, certo che sapeva. Tra suo marito e quella svergognata c'era un'evidente attrazione, lo sapevano tutti compreso Haw Hawley, che vergogna! Leonie con quei grandi occhi innocenti, Michael tra il colpevole e l'arrabbiato, il sangue che gli affluiva al viso. Tornando a High Point Farm, i Mulvaney anziani avevano litigato mentre i bambini dormivano, o fingevano di dormire, sul sedile posteriore della station wagon. Michael, con la voce impastata dall'alcol, aveva assunto un atteggiamento sempre più difensivo e irato. «La tua immaginazione lavora troppo, tesoro! E non mi piace essere spiato.» Corinne aveva detto: «Accidenti a te, Michael Mulvaney, mi prendi per un'idiota completa?». Una pausa per prendere fiato, senza sapere se fosse sul punto di esplodere in lacrime o in una risata. «O per un'idiota incompleta?» Una ruvida risata cavallina era uscita dalla sua gola ma Michael, cupo al volante, non rise. Dopo quell'episodio, Corinne tornò di rado al lago con i figli. Se lo faceva, era per una sola giornata: una nuotata, un giro in barca. Per un po' Michael continuò ad andare da solo, fermandosi alla locanda, poi gradualmente smise anche lui. Erano i primi anni di prosperità per la Mulvaney Tetti e coperture. I Mulvaney si fecero nuovi amici a Mt. Ephraim, una nuova classe di amici. Michael Sr. piaceva a tutti, e quasi tutti giunsero ad apprezzare Corinne, dopo essersi abituati ai suoi modi eccentrici, a quel bizzarro insieme di timidezza e sfrontatezza. Michael era una di quelle persone che quando entrano in un consesso inducono gli altri al sorriso: come accendere la luce in una stanza in penombra, diceva Corinne. Gli uomini gravitavano attorno a lui per stringergli la mano, le dita delle donne correvano ai capelli e le labbra formavano veloci sorrisi. Un uomo d'affari di Mt. Ephraim in ascesa che lavorava, a volte, dodici ore al giorno, correva a casa per fare una doccia al volo, radersi, indossare un completo scuro, camicia bianca e cravatta,
e poi scappare di nuovo fuori per una riunione alla Camera di commercio, alla United Way oppure, con Corinne, all'Associazione genitori-insegnanti. Una nuova avventura, e i Mulvaney prosperavano. Fu così che Michael giunse a vedere sempre meno di frequente gli amici del lago Wolf's Head. Aveva già smesso di andare a caccia, pur conservando i fucili e la tessera dello Sportsmen's Club. Un tempo vedeva Haw, Wally, Rick, Cobb e gli altri quasi tutte le settimane, ma ora li vedeva ogni due tre mesi, ogni sei mesi. Semplicemente, non aveva il tempo. Se i Mulvaney davano un grande party, per esempio il pranzo all'aperto di luglio, Michael invitava il gruppo del lago. A volte. (Corinne, saggia, non diceva una parola. La sua strategia era lasciare che Michael vedesse da sé che i vecchi amici non erano in sintonia con i nuovi.) Una volta, Michael raccontò a Corinne di avere incontrato Rick Shires in un negozio di articoli per l'agricoltura, e Rick gli era parso quasi intimidito all'idea di salutarlo, come temesse che lui potesse snobbarlo. «Mi sono sentito così in colpa, avrei dovuto invitarlo a bere qualcosa, però...» Cornine lo consolò: «Rick saprà che sei molto impegnato, amore. Sono certa che ha capito». Un'altra volta, solo pochi anni prima, Corinne non riferì a Michael di essersi imbattuta in Haw al Kmart sulla Route 119 e di essere rimasta scioccata nel vedere quanto fosse disfatto: sulla via della calvizie, radi capelli grigi, occhiali a lenti bifocali, la faccia da bevitore una ragnatela di capillari esplosi; però era stato insistente, ai limiti dell'importuno. Corinne gli aveva chiesto come stesse Leonie e Haw le aveva risposto sarcastico di chiederlo a lei: erano divorziati da cinque anni e non si vedevano più. (Forse Corinne lo aveva sentito dire, ma non se n'era ricordata! Che imbarazzo.) Dopo qualche impacciato minuto, Corinne se n'era andata, mormorando che avrebbe raccontato a Michael dell'incontro, magari quell'estate potevano ritrovarsi un giorno o l'altro, e Haw aveva praticamente sbuffato in tono di derisione, indicato Mt. Ephraim, e detto: «È da lì che arrivano i soldi, eh?». Con un sorrisetto, una strizzata d'occhi. Ferita come se Haw le avesse sputato in faccia, Corinne si era dileguata. Pensando trionfante: Se non altro ho salvato mio marito da te. Dal trasformarsi in te. Oppure aveva solo rimandato il lago Wolf's Head, nelle loro vite? La visione da incubo di Michael Mulvaney che affondava fino alle ascelle, fino al mento, irreparabilmente, nella lurida poltiglia nera. **
Quale ossessione era diventata per il povero Michael quella cosa. Quanto pesò quella cosa sulle vite di tutti loro nell'inverno e nella primavera del 1976. Anche se con la terapeuta Jill James e, in misura minore, con il suo sacerdote e sua moglie, e con un'amica o due (sì, avevano cominciato a riavvicinarsi, esitanti), Corinne riusciva a parlare di ciò che era successo a Marianne, o ciò che era probabilmente successo, non poteva, non voleva formulare la parola stupro; si rifiutava di pronunciarla anche nello studio del dottor Oakley. Ciò che era accaduto alla figlia era violenza, molestie, talora violenza sessuale. Per Michael, che aveva difficoltà a parlare in qualunque modo dell'episodio, e la cui resistenza a parlarne sembrava crescere con il trascorrere del tempo, l'unica espressione possibile era quella cosa. Come, era chiaro a Corinne, non si parla di morte in presenza di chi piange la scomparsa di qualcuno. Se proprio vuoi parlare con loro, devi trovare altre parole. A spaventare Corinne era il cambiamento di Michael. Mentre un tempo era totalmente affidabile, adesso era inaffidabile. Oh, forse raccontava la verità quando diceva di essere rimasto a lavorare fino a tardi; o forse no. (Tutto quello la stava trasformando nel tipo di moglie che controlla di continuo il marito: discrete telefonate al suo ufficio, domande poste in tono innocente, perquisizioni delle tasche. Come poteva accadere a una mente aperta come quella di Corinne Mulvaney?) I malinconici silenzi di Michael, le sue fughe notturne, la compulsione a bere e fumare. Le sue misteriose telefonate. L'irritabilità estrema con i figli. (Mai con Marianne. Con lei sorrideva rigido, cordiale e distante.) E la sua nuova tendenza al segreto: era quella ad allarmarla di più. Cosa aveva in mente? Dopo la terrificante sera dell'incursione a casa dei Lundt, dopo l'arresto, quando avrebbe potuto essere accusato di aggressione, multato o mandato in carcere (un episodio tanto simile a un incubo che Corinne quasi non riusciva a costringersi a ricordarlo), lei non sapeva scrollarsi di dosso la convinzione che dovesse accadere qualcosa di peggio. Cercava di non lanciare a briglia sciolta la fantasia, non voleva ammalarsi di preoccupazione. (Ovviamente, in certi giorni Corinne era davvero malata di preoccupazione. Però era intenzionata a tirare avanti lo stesso.) Ma le era impossibile, nei momenti di debolezza, non immaginare uno scenario alternativo: se Eddy Harris non fosse stato dai Lundt a frenare l'esplosione d'ira, Michael a-
vrebbe potuto fare molto più che rompere semplicemente le costole a Zachary Lundt e sbattergli la faccia contro il muro. Avrebbe potuto fare lo stesso anche a Mort Lundt. Mio marito non è un uomo violento, non è un assassino. Buon Dio, tu conosci il suo cuore. Aiutaci! Quella sera aveva chiamato Eddy Harris spinta dalla disperazione. Viveva nel timore di dover chiamare una seconda volta lui o qualche altro agente di polizia. Michael non accennò una sola volta, né per rimproverarla né per ringraziarla, a quella telefonata a Eddy Harris. Era come se se ne fosse scordato. Corinne lo aveva tradito, dal suo punto di vista? L'ho fatto solo perché ti amo, si era preparata a dirgli. Perché non siamo quel tipo di persone. Già immaginando la risposta di Michael: Non lo siamo? Chi lo dice? A turbarla in modo particolare, e sì, a farla infuriare, era la scoperta che Michael stava prendendo decisioni segrete che coinvolgevano tutti loro. Decisioni che comportavano soldi, sapeva Dio quanti! Senza dare il minimo avvertimento sulle proprie intenzioni, Michael incontrò diverse volte un avvocato di Yewville che si chiamava Costello. Corinne non lo aveva mai sentito nominare. Lo apprese per caso, origliando una conversazione telefonica. Quando lo affrontò, Michael rispose evasivo: «Ehi, Corinne, un avvocato può sempre tornare utile. Sono tempi litigiosi negli Stati Uniti d'America». Corinne disse, ansiosa: «Michael, che cosa hai in mente? Non una causa penale? Distruggerebbe Marianne, distruggerebbe tutti noi, rendere questa cosa di dominio pubblico più di quanto sia già. Immagina Marianne che testimonia in aula, che deve dire tutte quelle cose orribili, e che poi viene controinterrogata da un avvocato spietato, cattivo! Oh, Michael, promettimelo, ti prego. No». Lui scosse veemente la testa, indietreggiò, deciso alla fuga. Aveva lavoro da fare, telefonate. Era un uomo maledettamente impegnato. Non si girò a guardare la moglie distrutta che torceva le mani come ogni moglie distrutta in televisione, il viso solcato dalle lacrime. «Fidati di me!» le urlò. Si calcò in testa la fedora con la piccola piuma, corse fuori. Il vento gettava di sghimbescio contro le finestre una fredda poggia d'aprile. L'impermeabile cachi di Michael era spiegazzato sul retro come ci avesse dormito dentro.
Poi, circa una settimana più tardi, Corinne scoprì, di nuovo per caso, che Costello, chiunque fosse, non aveva "funzionato"; era stato licenziato. Ma anziché provare gratitudine, immenso sollievo, dovette trovare la forza di chiedersi: Assumerà qualcun altro? Quali sono i suoi piani? Corinne sapeva: Michael era a pezzi non solo per quella cosa, per ciò che era successo a Marianne, ma anche per quello che riteneva il tradimento dei loro amici di Mt. Ephraim. Una sera, a letto, coricato al buio, incapace di dormire, le disse amareggiato: «Tra Mort Lundt e me, ovviamente scelgono Lundt. Si schierano con lui. Perché il bastardo ha soldi e conoscenze, è uno di loro». «Non vederla così, amore» disse Corinne, non troppo sicura di sé. «Pensa che, be'... non vogliono lasciarsi coinvolgere. Lo sai com'è la gente.» «Probabilmente non lo sapevo» rispose Michael. «Però sto cominciando a capire come sono i nostri "amici".» Corinne immaginò la bocca del marito distorta in una smorfia. «Amici del cazzo.» Si sentì come schiaffeggiata. Non era da Michael Mulvaney usare parolacce in presenza di una donna. Michael sostenne che in città lo evitavano. Agli Odd Fellows, allo Sportsmen's Club, più di tutto al Country Club. (Oh, ma perché andare lì? avrebbe voluto protestare lei.) «Sono un lebbroso? Sono un morto vivente?» rise Michael. Appena lo vedevano, disse, guardavano altrove. Stringergli la mano sembrava un'impresa ardua, glielo leggeva nello sguardo. Lo sentiva nella stretta. Quel vecchio imbroglione ipocrita di Ben Thorsen, che aveva piagnucolato di non essere in grado di pagare in contanti le riparazioni al tetto di casa sua, e Michael gli aveva concesso pagamenti mensili senza interessi, era uno dei peggiori. «Ma Ben Thorsen non ti è mai piaciuto» obiettò Corinne, quasi fosse quello il punto. La Mulvaney Tetti e coperture non aveva ottenuto il contratto per la ristrutturazione del centro civico. Né per l'ampliamento dell'ospedale St. Matthew. Forse Michael avrebbe fatto ricorso: perché era stata accettata l'offerta di un certo concorrente, e la sua respinta? Forse! All'improvviso, Ben Breuer non aveva più tempo per una partita a squash con lui, o per un drink veloce. E nemmeno Charley MacIntyre, Jake Spohr. Se Michael si presentava a pranzo da qualche parte, in uno dei club o al Blue Moon Café dove tutti lo conoscevano, provava la nettissima sensazione di essere indesiderato, non voluto. Oh, naturalmente lo invitavano a sedere a un tavolo, se c'era posto, però era ovvio che la presenza di
Michael Mulvaney smorzava il buon umore. Le risate si fermavano, non c'erano più argomenti di conversazione a parte il clima, la politica, lo sport. Di cosa parlavano prima che arrivasse lui? Di cosa parlavano quando lui si scusava per andare alla toilette? «Gli altri hanno le loro vite» disse dolcemente Corinne, carezzando le spalle del marito. «Non pensano sempre a... come li percepiamo noi. Non esagerare la situazione, Michael. Lo sai che sei portato a...» Michael proseguì, sprezzante, come non l'avesse sentita. Raccontò che quel giorno, così, per il gusto di farlo, aveva fatto un salto alla Legnami Spohr per scambiare qualche parola con Jake. Se qualcuno sapeva del centro civico e del St. Matthew doveva essere Jake. E lui, Michael Mulvaney, non aveva sempre filato d'amore e d'accordo con Jake Spohr? Di certo non erano amici intimi, però si rispettavano, avevano quello che si poteva definire un rapporto reciproco, appena possibile spedivano clienti l'uno dall'altro, e Jake veniva da un retroterra simile a quello di Michael: si era trasferito a Mt. Ephraim da Buffalo, non aveva radici nella valle e non aveva studiato tanto, possedeva solo la reputazione di saper lavorare bene. Quindi Michael chiese a Jake, di punto in bianco: che cosa succede alle mie spalle? Mi stanno escludendo o cosa? E Jake scosse la testa come la domanda gli risultasse incomprensibile, e ogni risposta impossibile. Jake ammise che probabilmente dietro i contratti c'erano "politiche personali", ma non era sempre così? (La Legnami Spohr si era aggiudicata l'appalto per la nuova ala dell'ospedale, ma non per il centro civico.) A quel punto Michael chiese che cosa si dicesse di lui e della sua famiglia. Cosa si diceva di sua figlia? «E Jake mi ha guardato diritto negli occhi, Corinne, e ha detto "Niente di niente". E io sudavo come un cavallo ansante, avevo una paura del diavolo ma ho dovuto insistere, chiedergli se fosse sicuro, e c'è stata una pausa, e ho visto Jake deglutire, però mi ha risposto, continuando a fissarmi negli occhi come fossimo fratelli o qualcosa del genere, amici da tanto di quel tempo che non avrei potuto non fidarmi di lui: "Ma certo che sono sicuro, Michael. Se sapessi qualcosa te lo direi".» Nel buio, a fianco della moglie, Michael scoppiò a ridere; una risata rauca, singhiozzante, e il vecchio letto di vimini si mise a cigolare come ridesse a sua volta. Corinne restò immobile, costernata, incapace di condividere le risate. Certe notti dopo mezzanotte: rendersi conto che Michael lasciava il letto.
Lei sospirava, si girava, chiudeva gli occhi, fingeva di dormire, certo, dormiva per davvero, sepolta nel sonno come fosse la salvezza. Lo trovava nella stanza per le riunioni di famiglia. O in cucina. O nel suo ufficio. Se andava a cercarlo. Scopriva una bottiglia vuota di Early Times nel cestino della spazzatura, o il frigorifero senza birra. Se guardava. Probabilmente sul pavimento c'era anche un bicchiere rovesciato: Michael non si prendeva più il disturbo di coprire le proprie tracce. Era troppo arrabbiato e, siccome la rabbia spossa, troppo esausto. ** La paura peggiore di Corinne: che squillasse il telefono. Le 0.50, e Michael non era a casa. Era fine aprile, dopo Pasqua. Corinne a letto, i cuscini dietro la schiena, troppo ansiosa per dormire. Leggeva, o cercava di leggere, una delle riviste scientifiche di Patrick. Anche se ogni cellula e terminazione nervosa del suo cervello vibravano di vita cosciente, non riusciva a concentrarsi su uno solo dei passaggi che leggeva, rileggeva all'infinito.... Non esistono prove nel mondo vivente né oggi né in ere geologiche passate di una transizione continua di specie... ciò che in realtà troviamo sono specie separate e ben distinte... gli stadi intermedi tra una specie e l'altra che si dovrebbero rinvenire... non si riscontrano. I mondi degli organismi, viventi ed estinti, non rappresentano una continuità ma una discontinuità... Certe condizioni di stabilità esistono non solo per i geni individuali ma anche per i genomi... Una "specie" rappresenta uno stato nel quale si è stabilito un armonioso "equilibrio genetico", ossia... Pensava a Marianne, così terribilmente infelice a scuola. Anche se non ne parlava mai. La povera Marianne che adesso aveva pochissime amiche, riceveva poche telefonate, e tutti quegli scambi di visite tra ragazze a casa dell'una o dell'altra, all'improvviso, per Marianne erano cessati, come non fossero mai esistiti. Aveva lasciato le cheerleader, partecipava di rado a riunioni di club, anche alla Gioventù cristiana. I suoi voti si erano abbassati a una mediocre sufficienza, però ora sembravano stabilizzati. Il luogo che la rendeva più felice era la chiesa, o così pareva a Corinne. A cantare inni con la sua dolce voce da soprano: Rock of Ages, l'inno che Corinne preferiva da sempre, era anche il prediletto di Marianne. L'unico luogo pubblico in cui si sentisse a proprio agio: la Prima Chiesa di Cristo di South Lebanon, una chiesetta composta di un'unica stanza quadrata, con l'esterno coperto da assicelle di legno bianche,
distante chilometri da Mt. Ephraim; i fedeli erano quasi tutti gente di campagna; nessuno conosceva i Mulvaney se non come frequentatori relativamente recenti della chiesa, Corinne Mulvaney e i suoi tre figli. Corinne arrivava con la station wagon Buick sporca di fango e chiazzata di ruggine con l'adesivo del 4-H sul parafango posteriore, TESTA CUORE MANI SALUTE e, su un finestrino posteriore, una decalcomania sbiadita che diceva FUTURI AGRICOLTORI D'AMERICA 1974. Nessuno l'avrebbe giudicata la moglie di un prospero uomo d'affari o, magari, semplicemente la moglie di qualcuno. Se esisteva un signor Mulvaney, non era mai stato avvistato a South Lebanon, né si sarebbe visto in futuro. Uno dei canoni della Prima Chiesa di Cristo era non giudicare i fratelli e le sorelle in Cristo. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Giovanni 8,7. Corinne sapeva di trascurare i figli maschi. Specialmente il più giovane, povero Judd! Belfaccino, Fossette, Ranger. Lo amava ma praticamente non osava più abbracciarlo, adesso che aveva tredici anni. Un ragazzo tranquillo, positivo, sperso nella ferocia della vita di famiglia dei Mulvaney; aveva smesso di chiedere di Marianne, del padre. Solo una fase gli diceva Corinne. A volte Dio ci manda la tristezza per renderci più forti. Ci credo? si chiedeva. Ma certo. Devo crederci. Poi c'era Patrick. P.J. l'altezzoso! Il figlio meno simile ai genitori. Per Corinne era un mistero come mai Patrick continuasse ad accompagnarla alle funzioni religiose alla chiesetta di South Lebanon adesso che, a diciotto anni, era un giovanotto alto, irrequieto, incline allo scetticismo. "Monosillabi di saggezza": così Patrick, tra crudeltà e arguzia, definiva i sermoni dolcemente semplici del pastore. Chiamava i fedeli "il gregge": se conosci gli animali, sai che non c'è niente di più stupido, di meno attraente di una pecora adulta. Da ragazzino si era sforzato di partecipare al canto degli inni ma ora si limitava ad accennare le parole con le labbra, e intanto la sua mente era altrove. Era visibilmente imbarazzato quando si facevano avanti "testimoni di Cristo"; si avvicinava all'altare per la comunione strascicando i piedi, come un bambino stoico che deve prendere la medicina. La sua partecipazione alla "stretta di mano in Cristo" era visibilmente meno che entusiasta. Eppure, continuava ad accompagnare madre, sorella e fratello minore in chiesa; d'abitudine, era lui a guidare al ritorno, così Corinne poteva sedere tranquilla al suo fianco, le mani sugli occhi, persa in un suo viaggio, con l'anima quasi palpabilmente gonfia dell'amore di Gesù Cristo
che aveva di nuovo assorbito in cuore. Patrick, ipotizzava Corinne, faceva il bravo figlio. Il bravo figlio di mamma. Assolveva scrupolosamente i propri doveri, con una certa dose d'umorismo, e forse contava i giorni in attesa di partire da High Point Farm per il college e lasciarsi alle spalle la fede cristiana. Corinne ne era terribilmente preoccupata però, insomma, era una verità che conosceva. Si rifiutava di immaginare che cosa pensasse di quella cosa quel suo figlio tanto sensibile, sempre pronto a sentirsi offeso, quali esperienze subisse al liceo. Sapeva come possono essere gli adolescenti, di quanta crudeltà, volgarità, irrisione siano capaci nei confronti di chi percepiscono più debole, o estraneo. Sì, e anche le ragazze! La crudeltà del pollaio: le galline che beccano con implacabile ferocia la gallina malata, mettono a nudo la carne viva, cercano il sangue. Patrick doveva soffrire quanto Michael Sr. Probabilmente non poteva fare a meno di udire per caso frasi su Zachary Lundt e sua sorella; doveva vedere Lundt tutti i giorni. Il liceo di Mt. Ephraim era così piccolo, solo qualche centinaio di studenti. Eppure se la cavava bene, era calmo ma risoluto. Se condivideva con qualcuno i suoi pensieri più intimi, non lo faceva più con mamma. In quanto a Mike: il figlio maggiore, il primogenito, così cresciuto. Mikey Junior, che aveva compiuto ventun anni, no, ventidue, il mese prima. Corinne era rimasta stupefatta dalla sua brusca decisione di lasciare casa e andare a vivere a Mt. Ephraim, proprio all'epoca del suo compleanno. Ma perché? gli aveva chiesto. Per lei High Point Farm era il paradiso, e perché qualcuno dovrebbe voler lasciare il paradiso? Mike aveva risposto: È il momento. E Corinne, di nuovo: Ma perché? E Mike, sollevando e abbassando le spalle, stringendo e riaprendo i pugni, aveva detto: È sensato vivere dove si lavora, no? E Corinne aveva ribattuto: Sì, però potresti andare al lavoro con papà come facevi prima, invece di andarci da solo, che motivo sarebbe? E Mike aveva riso e detto: Mamma, tu proprio non afferri, e Corinne, ferita: È probabile. Nemmeno Michael Sr. approvava la brusca decisione. Perché diavolo Mike voleva trasferirsi in città, in un appartamento! Un semplice appartamento. E in un palazzo appariscente ma di poca sostanza nella nuova zona di Riverdale di Mt. Ephraim, dove i Mulvaney non conoscevano nessuno. Corinne aveva tentato un tono più lieve, si era messa a scherzare: come avrebbe fatto Mike a prepararsi da mangiare da solo? Perché Mike era il divoratore più robusto tra i Mulvaney, sempre affamato. Mike, con una scrollata di spalle, aveva risposto che avrebbe mangiato soprattutto al ristorante, e Corinne l'aveva dolcemente rimprove-
rato: I pasti dei ristoranti! Non sono molto nutrienti, e costano cari. E Mike, in quel modo di fare allusivo che usava con sua madre, come se la loro conversazione possedesse un sottotesto che lei non afferrava: Ehi, mamma, dipende tutto dal ristorante. Dipende tutto dal ristorante. Fu allora che, risvegliando Corinne dal sonno, il telefono accanto al letto squillò. Ma lei non si era mai addormentata, vero? Mentre tastava in cerca del ricevitore, con il palmo già umido di sudore da panico, seppe, seppe indiscutibilmente che dovevano essere brutte notizie. «Corinne? Ehi, scusa. Non ti avrò svegliata, eh? È per...» Una voce rauca, familiare. Corinne la riconobbe anche mentre si sforzava di capire che cosa le dicesse. Haw Hawley. Dal lago Wolf's Head. Chiamava per dire che Michael aveva avuto un "incidente". «Niente di troppo serio, però stanotte non dovrebbe guidare. Abbiamo pensato che fosse meglio informarti, per non farti preoccupare.» Corinne era già saltata giù dal letto. «È ferito?» «Ferito?» Come se l'idea non fosse nemmeno venuta in mente a Haw. «Be', non proprio. Insomma, più che altro dorme. Lo abbiamo messo a letto in una delle stanze.» «Vengo a prenderlo» disse Corinne. «Adesso? A quest'ora?» «Haw, ho detto che vengo a prenderlo.» Così Corinne partì per il lago, arrivò all'1.25, in jeans, maglione, mocassini senza calze indossati in fretta e furia. Non si era nemmeno data un'occhiata allo specchio, non aveva avuto il tempo di buttarsi un po' di acqua in faccia o passare un pettine nei capelli; era corsa fuori, strillando ai figli (che naturalmente si erano svegliati; o forse non si erano mai addormentati, in attesa come lei dello squillo del telefono?) che andava tutto bene, loro padre stava bene, era al lago Wolf's Head e lei andava a riprenderlo. Strano guidare sola di notte, arrivare sola nel buio. Edifici resi ignoti dalla notte, a luci spente. Com'era spenta la sbiadita insegna al neon LOCANDA WOLF'S HEAD. Nel parcheggio c'erano soltanto due veicoli; uno era il furgone di Michael. Haw aspettava sulla veranda, sotto una lam-
pada assediata dagli insetti: alto, tarchiato, nonostante l'aria di chi deve scusarsi non tentò nemmeno di stringere la mano a Corinne o toccarla per rassicurarla. Non era nel suo stile. «Michael si è messo a litigare con uno di qui» disse. «Avevano bevuto tutti e due e se le sono date. Ma niente di serio.» Corinne entrò nella locanda quasi buia, che sembrava tanto più piccola e malinconica senza clienti, e persino il jukebox era spento. Però, oh, quell'odore! Lo avrebbe riconosciuto ovunque. «Quanto è sbronzo?» chiese. «Completamente fatto? Da perdere i sensi?» Cercava di essere concreta. Cercava di non mostrarsi adirata e vendicativa, una moglie infuriata. Non era una donna di campagna, dopo tutto? Aveva un'enorme esperienza di emergenze. Si disse: L'importante è che sia vivo. Vivo. Sul retro del locale brillava una luce, dietro il bancone e la vecchia cucina scalcinata, oltre la nicchia puzzolente e Corinne corse in quella direzione senza aspettare che fosse Haw, a corto di fiato, a farle strada. Lui le barcollò alle spalle, guardandola dietro lenti sporche, e puzzava di birra, di sudore maschile e di birra. Disse: «Michael sembra conciato peggio di come in realtà sta. Non lasciarti spaventare». Ma quando Corinne vide il marito che russava riverso su un letto, con il viso gonfio, il labbro superiore gonfio e insanguinato, la camicia sporca e gli occhi chiusi, si mise a piangere. Ci mise un po' per svegliarlo e quando infine ci riuscì, accoccolata a fianco del letto in un atteggiamento di abnegazione e implorazione, a carezzargli il viso surriscaldato, ebbe l'impressione che gli occhi di Michael un po' la mettessero a fuoco e un po' no: l'infelice personaggio femminile di un cartone animato. La stanza aveva un arredamento minimo, scalcagnato e puzzava di insetticida e fumo stagnante. Però c'era anche il cubicolo di un bagno, e Haw fu tanto gentile da andare a prendere una rudimentale cassetta del pronto soccorso, e Corinne poté dedicarsi a Michael: gli lavò il viso, applicò tintura di iodio e cerotti sui tagli. Lui gemette, imprecò, si dimenò; profondamente vergognoso, disgustato di sé. Disse: «Non so cosa diavolo sia successo, amore. Un minuto ero okay e il minuto dopo...». Sollevò un braccio che ricadde inerte sul letto. Haw disse: «Sarà un piacere ospitare qui per la notte tutti e due. È ovvio. Andate a casa domani. Così non dovrete tornare a prendere il furgone di Michael». Si era fermato in corridoio, impacciato, contrito, però stava cercando un tono cordiale. Il tono dei vecchi amici che hanno visto anche di peggio. A Corinne tornò in mente il loro incontro al Kmart e provò una repulsione fisica, viscerale.
Rigida, ribatté: «Grazie, ma voglio riportare Michael a casa stanotte». «Ma...» «No! Stanotte.» Era quasi sul punto di coprirsi le orecchie con le mani, come uno dei suoi figli. «Corinne, e dài.» Haw si grattò la barba. «Odi tanto questo posto? Odi me?» Lei lo fissò, asciugandosi gli occhi. Le piovve addosso il senso di colpa: come poteva Corinne Mulvaney, una persona che per l'intera vita adulta si era sentita prediletta da Dio, ammettere di odiare qualcuno, tanto più quel vecchio amico triste, speranzoso, devastato in volto, solitario? Uno dei pochi uomini della sua esistenza che l'avevano desiderata come donna? «Va bene» rispose, placandosi. «Credo che tu abbia ragione. Però pagheremo la stanza.» «Corinne, che diavolo...» «Ho detto che ti pagheremo.» Sorprendente quanto riuscisse a essere dura, anche con i nervi scoperti. Si era quasi dimenticata quanto fosse piacevole la sensazione. Capace, efficiente, motivata come deve essere una madre, Corinne telefonò a casa per rassicurare i figli che era tutto sotto controllo. Patrick rispose al primo squillo. Chiese come stesse papà e Corinne disse che papà stava bene e Patrick insistette, che cos'era successo? E Corinne disse che niente era successo. «È solo che al momento papà non si sente di guidare. Ma domattina sarà in perfetta forma. Rientreremo tutti e due a metà mattina.» Però, in tono di rimprovero, Patrick chiese lo stesso: «Cosa c'è che non va con papà? Ho il diritto di saperlo». Corinne ribatté secca: «Ne parliamo domani, Patrick. Buonanotte!». L'importante è che sia vivo. Vivo. Affido entrambi a Te, Dio. Proteggici! Sdraiati l'uno accanto all'altro, esausti. Solo parzialmente svestiti, senza scarpe. Non sotto le lenzuola, ma sopra il letto che sapeva d'umidità ed era poco più di una brandina, in un angolo della stanzetta ingombra di cose. L'occhio sinistro di Michael, gonfio, si era quasi chiuso e prometteva di diventare nero. Aveva tagli sulla fronte; il labbro superiore era gonfio, del colore di una prugna troppo matura. Anche le nocche delle dita erano sbucciate e gonfie. Una singhiozzante sobrietà si era impossessata di lui
verso le tre del mattino, proprio mentre Corinne cominciava a scivolare nel sonno. «Gesù, amore, mi spiace tanto!» mormorò lui. Lei mormorò: «Bene». Lo stringeva come aveva fatto spesso, nei primi anni di matrimonio, dopo l'amore: il braccio sotto le robuste spalle di lui, la sua testa sulla spalla, il braccio di lui sul proprio corpo. Visti dall'alto, sarebbero parsi bambini storditi e disperati che si tenevano stretti. Con un'aria di stupita incredulità che sembrava molto sincera, Michael disse: «Non so cosa sia successo». Corinne, assumendo il tono che aveva usato con Patrick, ribatté: «Non è quello che è successo, Michael, è quello che hai fatto». Quella freddezza da insegnante era un modo per tenersi lontana da altre lacrime, o da qualcosa di peggio delle lacrime. L'adrenalina era corsa nelle sue vene per parecchio tempo e adesso cominciava a defluire, e Corinne sapeva che quando se ne fosse andata del tutto, se lei non fosse stata immersa nel sonno, si sarebbe sentita svuotata, disperata. Dio, proteggici! Anche noi siamo Tuoi figli. Sperò, desiderò che Michael si addormentasse. Si liberasse del senso di vergogna. L'orgoglio virile che gli gravava sulle spalle. Ma lui, in modo vago, incoerente, continuò a parlare. Corinne non aveva chiesto quale fosse stato il motivo del litigio con lo sconosciuto. Haw sosteneva di non saperlo e Corinne non pensava avesse a che fare con quella cosa: il lago Wolf's Head si trovava a una distanza notevole da Mt. Ephraim. Però preferiva non sapere, non avrebbe mai chiesto. C'era il sollievo della presenza in vita di suo marito. Quando il telefono aveva squillato, destandola da un sonno comatoso, si era sentita addosso l'istantanea, terrificante convinzione che Michael fosse stato ucciso, o avesse ucciso; che avesse trasgredito al di là della possibilità di tornare indietro. Ma così non era. Grazie all'amore di Dio, così non sarebbe stato. Poteva salvarlo, lo avrebbe salvato, se solo Dio le avesse mostrato la via. Adesso, il conforto del suo corpo caldo, sudato, contro il proprio. Il braccio che perdeva sensibilità sotto il peso di Michael. I suoi capelli umidi, la dura intransigente struttura ossea del suo cranio. L'odore del suo corpo e del suo fiato: birra, whisky, sudore. Un odore che lei assaporò come, da figlia di contadini, aveva imparato ad assaporare, bambina, gli odori della stalla, gli odori che significavano casa. Sì, d'accordo, a volte erano vere e proprie puzze. Esasperati da pioggia e umidità. Però erano familiari, significavano casa. Significavano ciò che è noto. Ciò che ci è dato conoscere. La luce nella stanza era spenta. A lato del letto c'era una finestra, senza
tende, per cui Corinne era consapevole del cielo stellato sopra il lago, della luna dal bagliore fioco che sembrava pulsare. A meno che a pulsare non fosse un'arteria del suo cervello. Confusa, la scambiò per... cosa? Un lampione. A modo suo, un'idea logica. Nel parcheggio di Haw Hawley c'erano lampade montate su pali, ormai spente, e quella era una del mazzo, solo che fluttuava in cielo. E c'era un lampione in un famoso dipinto di una giungla, una giungla onirica, un quadro francese del secolo precedente che Corinne aveva visto anni prima e al momento non riusciva a identificare, però ricordava la giungla piatta come carta da parati, chiaramente un sogno, e il pittore vi aveva inserito un lampione stradale perché è la natura dei sogni. Credeva che l'uomo trasudante raggomitolato contro il suo fianco dormisse, ma all'improvviso cominciò a parlare. Una voce bassa, dolorosa, sussultante. Impossibile sfuggirle. «Questa cosa che non ti ho detto, e nemmeno l'ho detta all'avvocato, in culo all'avvocato, in culo a tutti, pensano che non sappia che cosa dicono di me dietro le spalle? Si mettono in tasca i miei soldi e poi mi prendono in giro? Così ho fatto da me, ieri mattina sono andato dal procuratore distrettuale della contea e ho preteso che il figlio di puttana mi parlasse di persona, Birch in carne e ossa, un pezzo grosso dei democratici, ho votato per lui Cristo santo, così gli ho chiesto di incriminare il ragazzo che ha usato violenza a mia figlia, lei non è in grado di testimoniare quindi bisogna costruire un'accusa in base ai dati del suo medico, si può chiedere un mandato per i referti del dottor Oakley e si può costringere lui a testimoniare, no? Non lo dice la legge? Quando si commettono violenze su un minorenne? Un medico, un uomo che sa esattamente cos'è successo a mia figlia! Potrebbero obbligarlo a testimoniare, e lui dovrebbe dire la verità. E Birch ascolta, o finge di ascoltare. Poi dice che non gli sembra un caso "che si possa vincere ". Anche solo a portarlo davanti a un gran giurì, non è un caso "che si possa vincere". Se la vittima rifiuta di testimoniare. E io dico, e se la vittima fosse stata uccisa? Incriminereste l'omicida, no? Che razza di sistema giudiziario è questo, Cristo santo? E Birch chiede perché mia figlia non voglia testimoniare, ha reso una deposizione alla polizia? eccetera. Domande del genere. Domande del cazzo da avvocato! Fingendo comprensione. Mi dice: "In casi del genere la difesa sostiene il reciproco consenso. È praticamente impossibile convincere una giuria quando si tratta della parola di una femmina contro quella di un maschio perché la giuria deve valutare le prove e può condannare solo al di là di ogni ragionevole dubbio. A meno che la giovane donna abbia
subito gravi danni fisici e non sia in grado di testimoniare, e i danni siano documentati, e ci sia magari un'analisi del liquido seminale che identifichi il maschio. Solo in casi molto rari, magari se la vittima fosse ritardata e si rifiutasse di testimoniare o fosse giudicata incapace di farlo, un gran giurì concederebbe l'incriminazione. È una causa che non si può vincere, signor Mulvaney. Lei riuscirebbe solo a sottoporre sua figlia e la sua famiglia all'umiliazione pubblica. Se l'accusato non crollasse, e date le circostanze non avrebbe alcun motivo di farlo, il suo avvocato chiederebbe il rigetto dell'accusa, e un giudice probabilmente sarebbe d'accordo. Questa è la contea di Chautauqua". "Abbiamo fatto una fatica del diavolo per arrivare alla condanna di un uomo di Milford, forse ne ha letto sui giornali, che un po' di tempo fa ha picchiato e preso a calci la moglie incinta. Alle giurie non piace 'interferire' nelle questioni domestiche. Le faccende tra maschi e femmine. Specialmente se c'è di mezzo il sesso. Ricorda quel camionista che ha sparato alla moglie e al suo amante con un fucile da caccia? Il gran giurì lo ha incriminato solo di omicidio di secondo grado, e la giuria lo ha assolto. 'Non colpevole per temporanea infermità mentale.' Probabilmente lei non sa, signor Mulvaney, che casi di molestie e violenze sessuali e stupri ci vengono segnalati di continuo, compresi casi piuttosto brutali di stupro, ma è raro che arrivino in aula. Anche se un gran giurì decidesse per l'incriminazione, cosa che non credo, sarebbe impossibile per noi allestire un processo senza la testimonianza di sua figlia, e testimoniare la distruggerebbe" e io sto ad ascoltare tutte queste stronzate e a un certo punto non ce la faccio più e dico "Voglio che quel bastardo venga punito! Voglio giustizia! Vedo il ragazzo girare in città, mia figlia è costretta a vederlo a scuola, e anche un altro mio figlio. La sta facendo franca, con tutto il male che ci ha fatto". Probabilmente mi sono un po' eccitato. Ho cominciato a strillare a Birch: "Ci meritiamo di meglio da questa città, la mia famiglia e io!". Poi sono arrivati quegli agenti, le guardie...» Corinne stringeva Michael a sé, sentiva il cuore battergli in corpo. Pazzia! Era pazzo. Ma lo strinse a sé, e dagli occhi le colarono lacrime pungenti come acido. «Oh Michael, oh amore mio, oh no oh no» sussurrò, anche se lui non la udiva, non la sentiva, chiuso com'era nel suo dolore, fanatico e infantile. Che lo spinse a dire: «Dio ci aiuti, non so che altro fare. Se non sono capace di proteggere mia figlia. I miei figli. La mia famiglia. Se non fossi un vigliacco mi farei giustizia da solo. Non posso vivere così. Dovremo vendere la casa e andarcene. Siamo come lebbrosi. Siamo...». Corinne serrò le palpebre sugli occhi: vide High Point Farm in cima a
High Point Road, la discesa che scendeva ripida, pericolosa. Pensò: Cadremo, cadremo sul fondo e saremo persi. Michael, sottraendosi alle sue braccia, rizzandosi a sedere, passandosi la mano sul viso, sugli occhi gonfi, quasi singhiozzante, incredulo, disse: «Non è solo mia figlia. Siamo tutti noi. Non posso dare colpe a lei ma si tratta di tutti noi. Ho promesso di amarli tutti nella stessa misura. Ho tentato. Quando erano piccoli, ho tentato. Ma la bambina mi ha rubato il cuore. Non è colpa sua, ma è successo. Ho sempre pensato Ucciderei per lei, per la mia bambina. Però...». Corinne si tirò a sedere al suo fianco. «Michael, no! Non dire queste cose. È peccato dire queste cose.» «Non sono abbastanza forte. Sono un vigliacco. Come posso vivere sapendolo? Dio mi aiuti, Corinne, non sopporto più la vista di mia figlia.» Michael si mise a singhiozzare impotente, disperato, tra le braccia di Corinne. A lei parve di non potere stringerlo abbastanza, circondarlo a sufficienza; avrebbe voluto avvolgerlo nel proprio corpo come si può fare con un neonato, un bambino, e attirarlo in qualche modo dentro di sé, calmare la terribile agitazione dei suoi pensieri. Oh, se avesse potuto inghiottirlo! Salvarlo! «Vorrei tanto non essere mai più costretto a posare gli occhi su lei» mormorò Michael, orripilato da ciò che diceva. «Dio mi perdoni! Ma è così.» Corinne sussurrò in risposta, dopo un'esitazione di una frazione di secondo: «Lo so, amore». Cominciò a calmarlo, cullarlo. Il suo corpo caldo pulsante. Il suo essere uomo, la sua stessa mole. Quel peso si mutò in disperazione, divenne un fardello. Come aveva potuto essere tanto cieca così a lungo, in tutte quelle settimane? Come aveva potuto non capire? Era quello il suo primogenito, il suo primo amore. Gli altri, i figli nati dal suo corpo, persino Marianne, erano poco più che sogni, onde sulla superficie di un'acqua scura, impenetrabile. Da quell'uomo, da quel corpo, erano usciti quei corpi. Era lui il suo primo amore. «Tesoro, lo so» ripeté dolcemente Corinne, come fosse una ninnananna. E rivide l'anatra comicamente aggrovigliata nel filo da pesca di nylon, mentre sbatteva le ali, lottava disperata. Ma io ti salverò: con l'aiuto di Dio. Così Corinne e Michael Mulvaney si tennero disperatamente stretti in una stanza sul retro della scalcinata locanda Wolfs Head, sul lago Wolfs Head, alle prime ore di un giorno dell'aprile del 1976; finché, entrambi esausti, crollarono assieme sul piccolo letto che puzzava di umidità e dormirono, dormirono.
Se n'è andata Che mattinata di veloci, delicate trattative deve essere stata! Quante contrattazioni, offerte, implorazioni e coercizioni telefoniche! Perché quando Patrick e io rientrammo da scuola, nel pomeriggio, scoprimmo che nostra sorella Marianne se n'era andata. Semplicemente andata. Mamma, sulla Buick carica di tutte le cose di Marianne che la station wagon poteva contenere, l'aveva accompagnata a Salamanca, stato di New York, centosessanta chilometri a sudovest di High Point Farm. Lì, da quel momento in poi, Marianne avrebbe vissuto con una Hausmann, una cugina di mamma che, ci assicurarono, era una simpaticissima, dolcissima cristiana che non aveva mai avuto figli. Probabilmente noi due restammo a bocca aperta, perché mamma si affrettò ad aggiungere, come fosse un punto d'importanza cruciale, che naturalmente Focaccina era partito con Marianne: «Le stava in grembo e faceva le fusa». Ce lo disse con uno sfolgorante sorriso al neon. II Il cacciatore A uno a uno A uno a uno, ce ne andammo. È la storia delle fattorie americane e delle piccole città nella seconda metà del xx secolo: ce ne andammo. Il primo dei giovani Mulvaney, ancora prima che Marianne andasse a vivere con una cugina di mamma a Salamanca, fu mio fratello maggiore Mike: inizialmente andò ad abitare a Mt. Ephraim, continuando a lavorare alla Mulvaney Tetti e coperture, finché l'azienda non incontrò "difficoltà fiscali" (il termine di papà) e i rapporti tra padre e figlio divennero tesi, e poi più che tesi, e Mike partì e si arruolò nei marine. Doveva essere il novembre 1977. All'incirca un anno e mezzo dopo gli eventi che ho riferito. Dopo quella cosa. Quando Mike ebbe l'ultima brutta litigata con papà e uscì per sempre dalla Mulvaney Tetti e coperture sbattendo la porta, la sua vita era diventata, diciamo, complicata. Non era un operaio affidabile per papà: a volte ar-
rivava in cantiere tardi, oppure proprio non si presentava. Non andava d'accordo con alcuni colleghi e nemmeno con Alex Flood, che era il braccio destro di papà. La sera se la spassava con una gang di balordi, forti bevitori, tra cui alcuni dei ragazzi che conosceva dal liceo e come lui non erano andati all'università, o comunque non si erano laureati. Girava voce che qualcuno di loro vendesse droga, o avesse rapporti con spacciatori che agivano a Port Oriskany, Rochester, Buffalo. Mezzo sbronzo, a notte fonda, Mike venne fermato varie volte sulla sua Olds Cutlass dagli uomini della polizia o dello sceriffo di Mt. Ephraim, e lasciato andare con un semplice avvertimento: gli sbirri sapevano che Mulo Mulvaney era stato una star dei Rams di Mt. Ephraim, e conoscevano Michael Mulvaney Sr., lo trovavano simpatico o comunque provavano compassione per lui, erano profondamente addolorati per ciò che era successo a sua figlia. A Mike dicevano: «Non avrai voglia di ficcarti in altri guai, figliolo» e Mike rispondeva, passandosi una mano sul viso, come quando si rivolgeva all'allenatore del liceo: «Agente, certo che non voglio! Grazie di avermelo detto». Comunque, aveva due citazioni per guida in stato di ubriachezza quando sfasciò la Olds Cutlass, una piovosa sera d'autunno sulla Route 119; se la cavò con lievi traumi e tagli, ma la ragazza che era con lui subì danni gravi, clavicola e costole rotte, rotula in frantumi, lacerazioni facciali che la sfigurarono al punto di doversi sottoporre a una serie di operazioni di chirurgia estetica. Dodici giorni dopo l'incidente, Mike ruppe con papà, lasciò Mt. Ephraim, firmò in un centro di reclutamento dei marine di Yewville senza informare nessuno. Restammo tutti stupefatti: pensavamo che avesse confidato a Patrick quello che stava per fare, e invece no. A mamma si spezzò il cuore, ne fu profondamente ferita. Non aveva capito fino a che punto Mike e papà si fossero allontanati, anche se la turbava vedere quanto poco spesso Mike facesse un salto a casa a trovarci, nemmeno per i suoi piatti preferiti. A meno che non fossero più i suoi "piatti preferiti" e mamma non ne fosse stata informata. All'epoca, non sapevo quasi nulla di tutto questo. Capivo che le cose non andavano bene tra Mike e i miei e capivo che Mike stava tagliando i rapporti con la famiglia, fratelli inclusi. Pensavo che Mike provasse un senso di vergogna per ciò che era successo a Marianne perché significava che Mulo Mulvaney non contava più molto in certi giri di Mt. Ephraim. Zachary Lundt e i suoi amici Rodman, Breuer, Glover. Anche Phil Spohr era di quella cricca. Trattando Marianne in quel modo avevano mostrato di-
sprezzo anche per il suo fratello maggiore. O no? Qualche succhiacazzo dovrà pagare aveva promesso Mike. Ma era passato tanto tempo e nessuno aveva pagato. Certe settimane non vedevo del tutto mio fratello maggiore, a parte gli incontri di sfuggita in città, con lui di solito in auto: suonava il clacson, salutava, mi sorrideva e strillava: «Ehi Ranger!» ma non rallentava nel superarmi. Io restavo a guardarlo, salutavo con la mano, e il sorriso scompariva dalle mie labbra come un patetico personaggio dei cartoni animati che svanisce dallo schermo. Un pomeriggio di ottobre, uscito da scuola, lo incontrai in Meridian Street. Vidi un bel ragazzo alto con i capelli rossicci emergere da un 7-Eleven in maglietta nera e pantaloni cachi di cotone e scarponi da lavoro, con due confezioni da sei di Molson tra le mani e una sigaretta che gli penzolava dalla bocca e una delle sue adoranti ragazze in attesa sul coupé Cutlass rosso acceso che doveva essere l'automobile più dolce, più adorabile che qualcuno potesse mai desiderare guidare. «Ranger! Come va?» urlò Mike. Mi presentò alla ragazza come il suo fratellino e lei mi sorrise dal finestrino, una bionda graziosa dal viso minuto con capelli crespi e labbra truccate fino a sembrare succulenti lamponi. «Ranger è il tuo vero nome?» chiese, e Mike disse: «Diavolo, no. Il suo vero nome è Fossette. Sorridi per noi, ragazzo, e facci vedere perché». Il mio viso avvampò. Non sapevo se trovare delizioso o odioso quel modo di Mike di prendermi in giro che era duro, aggressivo, quasi cattivo, come quello di papà. In effetti, se in momenti del genere non guardavi e non vedevi che era Mike, la voce e l'atteggiamento somigliavano tanto a quelli di papà da poter giurare che fosse lui. La ragazza si chiamava Marissa King. Aveva diciannove anni, era figlia di un cliente della Mulvaney Tetti e coperture, un agricoltore che possedeva centinaia di acri nel Sud della contea di Chautauqua. Mike l'aveva conosciuta lavorando per il padre, riparando tetti di stalle per diverse settimane in estate; si era parlato, anche se nessuno di noi Mulvaney ne era informato, di un loro fidanzamento. Ma Marissa era la ragazza sulla Olds Cutlass di mio fratello la sera dello schianto sulla Route 119. E Marianne se n'era andata. A vivere a centosessanta chilometri di distanza, dall'altra parte delle montagne, con una cugina di mamma che nessuno di noi conosceva; nella città di Salamanca che nessuno di noi, a parte mamma, aveva mai visto. Passarono settimane, e mesi, e anche se mamma aveva promesso a Patrick
e me che presto saremmo andati a trovare Marianne, non partimmo mai. E papà non parlò mai di andarci, anzi non parlò una sola volta di Marianne, almeno in mia presenza. La cugina di mamma si chiamava Ethel Hausmann e non era sposata. Lavorava da sempre come receptionist e contabile di un podologo di Salamanca. Mamma ne parlava in termini vaghi, a un tempo scusandosi e dimostrando entusiasmo: «Ethel non è facile da conoscere davvero ma è una brava donna, profondamente spirituale. Io le affiderei la mia vita. Davvero». Dalla scomparsa di Marianne mamma era diventata ancor più nervosamente stravagante nei suoi discorsi, tra continue fluttuazioni di palpebre e dita. Ogni domenica alle otto di sera telefonava a Ethel Hausmann e parlava con lei per diversi minuti, poi con Marianne, in privato; dopo quindici o venti minuti chiamava Patrick, e poi me, per farci parlare con nostra sorella. «Una conversazione breve, per favore» sussurrava. «Non è una chiamata urbana.» Che strano parlare con Marianne al telefono. Potevo quasi credere che fosse uno dei nostri vecchi giochi. Il "gioco del telefono" quando ero molto piccolo, tre o quattro anni, e Marianne e io alzavamo le cornette e parlavamo e ridacchiavamo su piani differenti della casa, scimmiottando gli adulti. Ce lo potevamo permettere solo quando non c'erano mamma e papà. Quanto distante sembrava adesso Marianne, con una vocina esile, piatta. Perché ci sono in mezzo le montagne pensavo. Magari Marianne aveva pianto nel parlare con mamma (mamma assolutamente non piangeva: occhi luminosi, perfettamente asciutti), però si sforzava di essere allegra con me. Mi venivano in mente alcuni dei nostri inni che cantavamo a denti stretti come canti di un esercito in marcia. «Judd! Come stai?» chiedeva subito lei, e la domanda mi confondeva: non è di quelle che ci si scambiano normalmente tra un fratello e una sorella bambini. È una domanda da adulti, una di quelle fasulle. Solo che probabilmente Marianne diceva sul serio. Borbottavo, imbarazzato: «Sto bene, credo» scrollando le spalle quasi lei potesse vedermi, e Marianne strillava: «Oh, Judd! Quanto mi manchi! Non vedo l'ora di rivederti. Mamma dice...». Io non sapevo che cosa ribattere, restavo lì a stringere depresso il ricevitore perché mamma aveva intimato a me e Patrick di non discutere di piani per il futuro con Marianne: «Le daremmo speranze, e sarebbe crudele». Marianne chiedeva degli animali a uno a uno, partendo sempre da Molly-O. Come le mancava Molly-O! Sognava di continuo di cavalcare
Molly-O. Sognava che Molly-O era solo una puledrina, una cucciola appena portata a High Point Farm. E come stava Prince? Come stava Trifoglio? Come stava Rosso? E i cani: Foxy, Stivaletti, Troy, Seta? E i gatti: Maschiaccio, E.T., Palladineve, Marmellata? E Piumotto? Immaginava sempre di sentire Piumotto alle prime ore del mattino, quando si svegliava. E come stavano le capre Blackie e Mamie? E i gatti da granaio? E Capitan Marvel e la sua truppa? E le mucche, e le pecore? Riferiva sempre che lei e Focaccina stavano bene però sentivano la mancanza della famiglia; lì era così tranquillo e così piccolo. Assicuravamo sempre a Marianne che anche a High Point Farm tutti stavano bene. (In realtà, Seta era morto di tumore allo stomaco, ma nessuno di noi voleva dirlo a Marianne. Mike si era lasciato Seta alle spalle quando si era trasferito in città, aveva detto che nel suo condominio non erano permessi animali, e il povero Seta aveva continuato per settimane a piazzarsi all'inizio del sentiero d'accesso in attesa del ritorno di Mike, poi di colpo si era ammalato ed era morto e mamma, P.J. e io avevamo organizzato una piccola cerimonia di sepoltura, non lontano dal torrente dove, aveva detto mamma in lacrime, Seta avrebbe potuto aspettare Mike per sempre.) Infine, Marianne tirava un respiro profondo e chiedeva di papà, come se non avesse già chiesto a mamma e Patrick, e io cominciavo a sudare e le parole che avrei voluto urlare mi si strozzavano in gola e la voce di Marianne diventava tremula, implorante. «Judd? Papà non ha qualcosa, vero? Non è mai in casa quando mamma chiama.» Balbettavo che non sapevo, non mi sembrava, papà lavorava molto ultimamente. Marianne, che ormai sembrava quasi disperata, chiedeva: «Parla mai di me, Judd? Fa mai... il mio nome?» e io borbottavo che sì, certo, mi pareva proprio di sì, e lei domandava, nell'implorazione totale: «Quando posso tornare a casa, Judd? Tu lo sai?». Ma a quel punto mamma, che aveva indugiato lì vicino, nervosa come una gatta, prendeva la cornetta dalla mia mano e diceva nel giocoso tono di mamma: «Spiacente! Qui è il centralino delle interurbane e il suo tempo è scaduto». Patrick se ne andò per entrare alla Cornell all'inizio del settembre 1976 e non avrebbe mai più vissuto a High Point Farm, se non per brevi periodi. Il primo giorno del Ringraziamento, quando tutti aspettavamo di rivederlo, ci scioccò non facendosi vivo. «Troppo lavoro» spiegò secco. Corsi di laboratorio per biologia, chimica organica, fisica. E a Natale restò a casa per pochi giorni del lungo periodo di vacanze: non solo aveva troppo lavoro,
era anche stato preso come assistente del laboratorio di biologia. L'estate successiva rimase da noi due sole settimane, poi tornò a Ithaca a lavorare in laboratorio. (A papà non piacque per niente. Contava su Patrick perché facesse "la sua parte" nei campi. Aveva già dovuto assumere braccianti part-time, uomini non troppo affidabili come gli Zimmerman, padre e figlio, che abitavano più giù nella vecchia scuola ristrutturata.) Ma Patrick ormai aveva una vita sua, e di certo grandi progetti. Parlava solo di "aminoacidi", "genetica", "biologia cellulare". Aveva ben poco da dire sull'università in sé, sul conoscere gente nuova, fare amici: il suo comportamento era algido, cortese, distratto. Sopportava le chiacchiere a fiume di mamma e quanto poteva del suo affetto; il sorriso era il vecchio sorriso di Pizzicotto, con un angolo della bocca piegato all'ingiù, in un'espressione di dolore virtuale, ma era automatico, non significava niente. Non gli interessava affatto avere notizie di chi si era diplomato con lui nel '76 e non gli importava molto nemmeno della sua fotografia sul Mt. Ephraim PatriotLedger, con il suo nome e la didascalia: "Giovane della valle entra nella lista degli studenti della Cornell con i risultati più brillanti". Naturalmente, era stata mamma a fornire l'informazione al giornale. A differenza di Marianne, Patrick chiedeva di rado degli animali. Non aveva mai il tempo di andare a trovare Prince, tanto meno di cavalcarlo. Quando mamma borbottava cupa della voglia di papà di vendere Prince, Rosso, Molly-O, Patrick si accigliava ma non protestava. Maledetto, non ti interessa? Perché non ti interessa? avrei voluto urlare. Aspettavo sempre che Patrick trascorresse un po' di tempo con me, soltanto con me. Il suo fratellino che sentiva tanto la sua mancanza. Il suo fratellino che a High Point Farm si struggeva come il povero Seta, abbandonato e solitario. Una volta entrai nella sua stanza, dove lui (miseria, non era a casa nemmeno da tre ore) stava studiando una tabella intitolata L'ereditarietà umana secondo Mendel e gli chiesi se avesse parlato con Marianne, o l'avesse vista. E lui scrollò le spalle e assunse un'aria imbarazzata (che significava sì, l'aveva vista? oppure no?). «Perché papà odia tanto Marianne? Perché non vuole vederla o nemmeno parlarne?» chiesi, e Patrick aggrottò la fronte. «Papà non la odia. È solo che gli ricorda... be', lo sai.» Sollevò il braccio nel gesto tipico di papà che significava E che diavolo? Cosa ci si può fare? Aprì le dita, lasciò cadere il braccio. Dissi: «Ma non è colpa di Marianne!». Pensavo che avrei potuto odiare papà, se Patrick mi avesse dato un segno.
Ma Patrick, serissimo, guardandomi per la prima volta da che era tornato a casa, disse: «Non è nemmeno colpa di papà». Discorso di commiato Prima di lasciare Mt. Ephraim, Patrick Mulvaney ci diede qualcosa da ricordare. Dapprima aveva quasi deciso di non presentarsi il giorno della consegna dei diplomi al liceo, in giugno, anche se era stato scelto tra gli alunni che si diplomavano quell'anno e spettava a lui "l'onore" (come gli venne ripetutamente detto dal signor Hendrie, il preside, e dagli insegnanti) di tenere il discorso di commiato. I suoi voti alle superiori avevano veleggiato ai livelli più alti; varie volte aveva ottenuto il massimo in matematica, chimica, biologia, le sue materie preferite. I suoi test attitudinali raggiungevano le percentuali più alte e parecchie eccellenti università gli avevano offerto borse di studio. Dopo quella cosa, però, si era ritirato in se stesso più del solito, preferiva trascorrere il tempo solo, a casa, in una specie di laboratorio che aveva allestito in uno dei vecchi fienili. (Il laboratorio era vietato al suo fratellino Judd, il che non significa che io non ci abbia mai ficcato il naso, quando Patrick non c'era. Bicchieri con il beccuccio che contenevano strani liquidi saponosi, sostanze chimiche dall'aspro odore di limone, bottiglie tappate, fiale e flaconi. Sul tavolo da lavoro spiccava il microscopio che Patrick aveva ordinato per posta in scatola di montaggio e laboriosamente assemblato. Su una parete c'era il poster della "tavola periodica" degli elementi: per me, in terza media, esotica come una lingua straniera. Temevo molto le scienze del liceo, dove avrei dovuto imparare quelle cose, ma ancora peggio reggere il confronto con il mio brillante fratello maggiore.) Patrick non perdeva un solo giorno di scuola, sedeva tranquillo in aula, fissava accigliato gli insegnanti, che più che trovarlo simpatico lo ammiravano, ragazzo snello, dinoccolato, con un penetrante sguardo blu acciaio. Siccome il suo occhio sinistro era tanto debole, a volte lo socchiudeva sino a ridurlo a una fessura. Il raggio laser di Pizzicotto. Degli ottantanove studenti del liceo di Mt. Ephraim all'ultimo anno tutti, tranne una manciata, avevano sempre trattato con cautela Patrick Mulvaney: li metteva a disagio come un adulto travestito da ragazzo. Lo ammiravano e lo temevano, e non lo amavano molto; lui reagiva trapassandoli con lo sguardo, quando non poteva evitare di guardarli. Compresi i tre o quattro che un tempo si consideravano suoi amici.
Qualunque cosa i compagni di classe di Patrick pensassero di Marianne, ora misteriosamente scomparsa da Mt. Ephraim, e di Patrick che era suo fratello, Patrick non sapeva e non voleva sapere. Naturalmente, Zachary Lundt studiava con Patrick, si sarebbe diplomato con lui il 19 giugno; era sessantacinquesimo nella classifica del loro anno. E c'erano i soci di Zachary, la sua cerchia. Patrick sembrava non sapere nemmeno che esistessero. Persino quando entrava in mensa, o nello spogliatoio dei maschi, o scendeva le scale e sentiva per caso... che cosa? Frasi sussurrate, battute volgari. Risate soffocate. Parole dette perché Patrick Mulvaney le udisse, e in effetti avrebbe potuto udirle ma in qualche modo non le sentiva, ne era risparmiato, come se le sillabe sospese in aria potessero essere scacciate da un atto della sua superiore forza di volontà. Quando, a un'assemblea in maggio, il signor Hendrie annunciò orgoglioso che uno dei loro diplomandi era tra i vincitori del primo premio dell'annuale Fiera scientifica delle superiori dello stato di New York, e che quel diplomando era Patrick Mulvaney, ci fu una netta pausa, un inspirare collettivo prima che iniziassero gli applausi. Patrick, costretto ad alzarsi, arrossì terribilmente d'imbarazzo, o dispiacere. Sarebbe sempre stato uno di quegli uomini che vanno all'aggressiva ricerca degli onori, ma rifuggono il riconoscimento in pubblico. E adesso: il discorso di commiato. Doveva, o no? Conformarsi, o...? Dare loro qualcosa da ricordare, magari? Patrick, in perfetto stile Pizzicotto, rimuginò per settimane. Che onore era, per Dio, essere semplicemente il migliore dei diplomati del 1976 del liceo di Mt. Ephraim? Forse, non appena fosse salito sul podio e avesse iniziato a parlare, alcuni dei suoi compagni più scalmanati avrebbero mostrato noia e disprezzo: aveva il coraggio di offrire loro l'occasione di farsi beffe di lui? Forse, si crucciò, doveva rifiutarsi di tenere il discorso. Non c'erano precedenti al liceo per una tale ribellione, ma in che modo avrebbero potuto punirlo, a quel punto? Che cosa potevano fare Hendrie e gli altri, visto che la consegna dei diplomi era soltanto un rituale, e la vera acquisizione della maturità una questione di documenti statali, diplomi spediti per posta da Albany? E che rito assurdo: adolescenti in toga e tocco! «È una situazione da cartone animato, fondamentalmente» disse Patrick. «Partecipare può servire solo a umiliarmi.»
Con Pizzicotto non si poteva mai sapere fino a che punto fosse serio. Dopo tutti quegli anni, mamma ancora non riusciva a capirlo. Protestò: «Umiliarti! Patrick, come puoi dire una cosa simile? Siamo tutti così orgogliosi di te. Se non parteciperai alla cerimonia del tuo diploma mi spezzerai il cuore». Patrick mi strizzò l'occhio. «Quel mattino potrei marcare visita, mamma, e dire a Hendrie che ho la rabbia.» «Patrick, non è divertente» implorò quasi mamma. Il modo in cui a volte fissava mio fratello, adesso che Mike e Marianne se n'erano andati, il modo in cui i suoi occhi si aggrappavano a lui, come per trascinarlo: bizzarro da vedere. Mi metteva a disagio. Patrick disse: «Dirò che ho la rabbia ma voglio partecipare comunque alla cerimonia e tenere il discorso, prima di entrare in ospedale. Vedrai cosa dirà il vecchio Hendrie». In effetti, di recente nella valle c'erano stati diversi casi di rabbia, trasmessa agli esseri umani da procioni e animali domestici malati. Ma la battuta di Patrick significava che probabilmente avrebbe ceduto. Mamma rise, lo rimproverò del suo "morboso umorismo da Pizzicotto", si protese a scostargli dalla fronte una ciocca di capelli color sabbia. Disse: «Patrick, sai che tutta Mt. Ephraim sarà ansiosa di sentire il tuo discorso di commiato». La sera prima della consegna dei diplomi, Patrick ancora rimuginava sul discorso. Gli chiesi come procedesse e lui mi fulminò con gli occhi e chiese: «Chi vuole saperlo? Tu?». Il giorno della consegna dei diplomi era un lunedì, una giornata tiepida, ventosa, con sole a sprazzi. La cerimonia doveva iniziare alle undici del mattino a scuola e, con nostro sollievo, Patrick apparve a pianterreno in toga e tocco, e a quanto sembrava aveva preparato un discorso, su un lungo foglio di cartaccia gialla ripiegato alla meglio e infilato nella tasca dei calzoni. Mamma gli chiese come si intitolasse e lui scrollò le spalle. Poteva essere imbarazzato, o nervoso; sotto gli occhi aveva un'ombra scura, come se fosse rimasto sveglio per buona parte della notte. Emanava un odore aspro, acido, come se il suo sudore contenesse una qualche sostanza chimica che reagiva con il fittissimo intreccio di lana della toga, assurdamente lunga fino alle caviglie. Gli stava larga come una tenda sul corpo allampanato. Patrick pretese di arrivare a scuola un'ora prima di noi; disse
che doveva dare qualche aggiustatina dell'ultimo minuto al discorso. «Ma perché non possiamo andare assieme? Non siamo una famiglia?» gli strillò mamma, perplessa e irritata. Patrick partì sulla jeep Wrangler e un'ora più tardi il resto della famiglia lo seguì, sulla station wagon di mamma. Per il diploma di Patrick eravamo ridotti a tre Mulvaney: mamma, papà e io. Mike era con una squadra su in cantiere suH'Haggartsville Road. (Mamma aveva chiesto a papà se Mike non potesse avere la giornata libera per partecipare alla consegna del diploma di maturità a suo fratello, ma nessuno sentiva uno spasmodico desiderio della sua presenza, Mike compreso. E Patrick.) Di Marianne non si fece cenno. Qualche giorno prima avevo chiesto a mamma se fosse stata invitata e lei mi aveva risposto: «Ma certo, Marianne è stata invitata alla festa del diploma di suo fratello!». Poi aveva aggiunto, vaga: «Però mia cugina Ethel conta su di lei per darle una mano in casa e non andare a perdere tempo in campagna, per cui probabilmente non dovremo aspettarla». Siamo lebbrosi? Noi, i Mulvaney, lebbrosi? Salendo i gradini esterni del liceo di Mt. Ephraim, entrando nell'atrio, passando accanto alla bacheca dei trofei dove la foto di Mulo Mulvaney era ancora orgogliosamente esposta, vidi occhi posarsi su di me e poi ritrarsi, con tanta fluidità da credere si trattasse di un unico movimento. Mentre mamma chiacchierava allegra, sventolava la mano, chiamava: «Ciao! Salve!». La folla sembrava aprirsi davanti a noi. Affascinante: persone che conoscevano Corinne e Michael Mulvaney da vent'anni parevano non vederli oppure, incapaci di fingere una ragionevole cecità, sorridevano in maniera vaga, mimavano entusiasmo, poi si giravano a salutare altra gente, stringere mani e abbracciare. Una scena molto istruttiva per un tredicenne che un giorno sarebbe diventato giornalista. Ci dispiace per voi Mulvaney, però no, no! non venite a parlare con noi, non rovinateci questa lieta occasione, per favore. Fu una cerimonia di consegna dei diplomi come un'altra, suppongo, inizialmente. A parte il modo in cui noi Mulvaney venivamo ignorati, e forse in questo esagero, perché uno o due insegnanti di Patrick salutarono prima di entrare nell'auditorio, e forse avrebbero scambiato qualche altra parola con mamma mentre papà puntava in avanti occhi pietrificati, e sembrava non udire. Era in atto un robusto mulinare umano nell'atrio mentre, nel-
l'auditorio, la banda di Mt. Ephraim, per accelerare il nostro ingresso, suonava giubilante: l'inno della scuola, l'inno nazionale o una marcia di John Philip Sousa a tempo accelerato? Anche se dopo il rito si sarebbe tenuto un ricevimento, i diplomandi in toga e tocco ora venivano fotografati, gli uni con gli altri, con membri della famiglia, con insegnanti pronti a prestarsi, e con il signor Hendrie. Qua e là vidi, con dolore, alcuni miei compagni di classe con le famiglie: in quella situazione, facevamo tutti finta di non conoscerci. Che caos! Era come una riunione in palestra prima di un incontro sportivo, voci e risate che risuonavano sul pavimento, il soffitto, le pareti, e la musica assordante. E dov'era Patrick Mulvaney? Sua madre corse in giro a cercarlo, chiese a tutti quelli che incontrava, li conoscesse o no, se avevano visto suo figlio: maschere, insegnanti, genitori, il signor Hendrie stesso. «Patrick deve tenere il discorso di commiato, sa, ci ha lavorato su per giorni, è un tale perfezionista!» Mamma riusciva a lamentarsi e meravigliarsi a un tempo. I suoi occhi splendevano di un azzurro radioso, snervante, e la pelle dava l'impressione di essere stata sovraesposta al sole. Sarebbe stata una donna attraente, solo che aveva qualcosa di troppo ansioso, troppo famelico e quasi smarrito in viso, e quel suo modo di inclinarsi in avanti come una gru spingeva gli altri a ritrarsi. Non si era mai sentita a suo agio con i tacchi alti, ma in occasioni simili avvertiva il dovere di portarli: un paio di scarpe bianco abbagliante di vecchia foggia, con la punta arrotondata, che parevano sbiancate in candeggina, con tacchi di cinque centimetri. Quel mattino si era fatta uno shampoo talmente vigoroso che i capelli si sollevavano dalla testa in una arricciatura stupefatta, e il rosso carota si mischiava al grigio come il ventre di quelle dense nubi a strati che si chiamano cumulinembi. L'abbigliamento, scelto al mattino dopo molte ansiose riflessioni, era un abito a pois di seta che le stava largo, pois rossi grossi come biglie su fondo bianco; il corpetto era una massa di bottoni, la gonna lunga, frusciante. Era uno dei rari abiti "femminili" di Corinne Mulvaney, acquistato senza dubbio al negozio di articoli di seconda mano sponsorizzato dalle ausiliarie del General Hospital di Mt. Ephraim. (In uno dei suoi incubi ricorrenti, mamma immaginava che la proprietaria originaria di uno dei suoi stravaganti completi di seconda mano lo riconoscesse addosso a lei; eppure quella possibilità, piuttosto concreta in una comunità delle dimensioni di Mt. Ephraim, non la scoraggiava mai dall'indossare quei capi in città.) La sua stessa audacia aumentava il suo senso di giocosità, l'irrequieta vitalità. Per contrasto, mio padre era serissimo, non sorrideva tra la folla eccitata;
stava a testa leggermente abbassata, occhi velati e spalle chine, come sperasse, grazie a una furibonda compressione, di fare rientrare il proprio scheletro, e rimpicciolirsi. Doveva essersi raso in fretta, o in modo distratto: sotto il mento luccicava un taglio ancora umido di quattro o cinque centimetri. Indossava un completo blu scuro di serge che gli andava largo, come se il proprietario originale fosse stato un uomo più corpulento. Le scarpe erano in pelle marrone e non erano state lucidate di recente. La cravatta emetteva bagliori bronzei. Impacciati, lui e io ce ne stavamo vicini appena oltre l'ingresso, ignorati da tutti, ma testardi e immobili come rocce nel fiume di socialità che ci scorreva attorno, dividendosi alla nostra altezza. Era strano per me che Michael Mulvaney Sr., da sempre al centro dell'attenzione, fosse adesso un uomo invisibile. Eppure mi dava un amaro conforto! Lebbrosi! lebbrosi! noi Mulvaney. Lebbrosi! La bocca di papà era chiusa, sigillata, però io sentivo quelle parole, e le sentivo nel suo tono baritonale. Mentre mamma, con la scusa di cercare Patrick, si avvicinava audace agli altri a mano tesa, con l'allegro sorriso al neon. «Ehi, Lydia! Ciao!» la sentii strillare alla signora Bethune, che la guardò stupita. «Hai visto mio figlio Patrick? Deve tenere il discorso.» I Lundt erano all'estremità opposta dell'atrio. Stavano entrando nell'auditorio, parlando e ridendo con amici. Mort Lundt, sua moglie Cynthia, una coppia più anziana, forse i suoceri. Se Michael Mulvaney li vide, non ne diede segno, e non si mosse di un millimetro dalla sua posizione davanti a una vetrina di trofei. I diplomandi si stavano allineando per la processione in un corridoio sulla destra. Un fotografo del Patriot-Ledger scattava. Il membro del Congresso Harold Stoud apparve tra strilli ed esclamazioni di felicità. Gli altoparlanti davano ordini. Quasi tutta la folla era entrata nell'auditorio. Le file di poltrone si riempivano in fretta. O ci spicciavamo o saremmo arrivati tardi. Mamma aveva rinunciato a trovare Patrick ma finalmente lo individuò, già in fila, a metà del corridoio; lo salutò con la mano, gli spedì un bacio, sillabò con le labbra un messaggio che Patrick ignorò gelido: «Andiamo! Oh, ma perché voi due ve ne state fermi lì!» sospirò mamma, strattonando papà e me, recalcitranti come capre. Senza la minima variazione di ritmo o tono, la banda aveva attaccato Pump and Circumstance. Le maschere ci porsero i programmi, sollecitarono noi e altri ritardatari a muoverci. L'uomo di quarantotto anni che era Michael Mulvaney Sr. si guardò attorno battendo le palpebre come chi sta vivendo un sogno. È possibile che non sapesse esattamente dove fosse, o perché; oppure che, sa-
pendolo, avesse rinunciato a uno stato di totale coscienza persino mentre mamma, ansante ed eccitata, lo prendeva a braccetto, poi infilava l'altro braccio sotto il mio e ci guidava nell'auditorio. Sedemmo nella quarta fila dal fondo. Ci sentivamo circondati da una nebbia avvolgente che ci proteggeva. Se vicino a noi c'era qualcuno dei Lundt, o i genitori e parenti degli amici di Zachary Lundt che si erano schierati con lui, e avevano detto certe cose di Marianne Mulvaney, o qualcuno degli amici di amici di cui Michael Mulvaney aveva memorizzato nomi, facce, storie, i suoi nemici! i suoi nemici! la loro vista ci sarebbe stata risparmiata. Già i diplomandi in toga e tocco marciavano attorno a noi verso le prime file loro riservate. Altri lampi di flash. I bambini puntavano l'indice su fratelli e sorelle maggiori. «Ecco Patrick!» mormorò mamma. Mi tirò una gomitata, come fossi un pargoletto a cui occorreva ricordare il rapporto con il fratello. Papà sedeva teso, a occhi bassi, il programma arrotolato a cilindro tra le mani. L'inizio della cerimonia del diploma di Patrick sarebbe passato in maniera confusa davanti ai miei occhi, perché avevo la netta sensazione che dovesse succedere qualcosa e non aspettavo altro, e tutto ciò che precedette fu solo caos. Ci fu qualche ritardo. Il signor Hendrie, nel regale addobbo accademico, spuntò dal pesante sipario di velluto marrone ed esplosero beffarde urla di giubilo. Erano le 11.10. Alle 11.20 Hendrie riapparve, salutò con foga il pubblico e la banda passò all'inno nazionale, e ci alzammo in piedi e cantammo a voce alta e contenta, almeno alcuni, mentre altri rimasero muti, perché in mezzo a un allegro consesso c'è sempre qualcuno in attesa che tutto finisca, di qualsiasi cosa si tratti. Poi, un "momento di silenzio" gestito da un sacerdote della Chiesa unitaria. Poi l'inno del liceo di Mt. Ephraim, parole appiccicate alla vigorosa John Brown's Body, sotto la guida del direttore del coro della scuola. Di nuovo, ci unimmo al canto. Il signor Hendrie tornò al podio e presentò l'allenatore Hansen, una presenza popolare di Mt. Ephraim, che tra applausi, fischi e risate si mise a leggere i nomi dei vincitori di premi tra gli studenti dell'ultimo anno in varie categorie: numerosi vincitori, in numerose categorie. L'auditorio si era surriscaldato, la gente cominciava a farsi aria con i programmi. Vennero accesi ventilatori che sferragliavano e vibravano. Vidi che il viso color stucco di papà era fradicio di sudore. Il programma gli era scivolato tra le dita sul pavimento. Sedeva a lato della fila, con mamma tra noi due a fissare sul chi vive il palco, un sorriso fisso stampato sulle labbra. Non possiamo essere orgogliosi? Non ci meritiamo questo giorno di fierezza? È nostro figlio! Nostro figlio! Se non sbaglio, avevo udito quelle parole ore prima, in
casa; attraverso uno dei condotti di ventilazione. La voce smorzata, sibilante, di mamma e nessuno a risponderle. Nell'auditorio, papà forse borbottò qualcosa, parole all'orecchio di mamma prima di alzarsi su gambe traballanti e girare sui tacchi; e all'improvviso non c'era più, percorreva il corridoio e usciva da una porta sul retro e se n'era andato, la sua poltrona era vuota. (Andato dove? In bagno, e sarebbe tornato subito? Sui gradini fuori, per una sigaretta veloce? Sull'automobile nel parcheggio, dove forse teneva una bottiglia nascosta nel bagagliaio?) Mamma restò a sedere diritta, testa alta, profilo fiero, orecchini di perla, vestito di seta a pois, occhi sfolgoranti puntati sul palco a sfidare la brusca uscita di scena del signor Mulvaney. Era la madre del ragazzo incaricato di tenere il discorso di commiato del corso del 1976, e nulla avrebbe cambiato quel fatto. Parlò il presidente degli studenti dell'ultimo anno. Parlò un popolare insegnante di recitazione. Vennero annunciati altri premi: migliori risultati all'interno della comunità, migliori capacità musicali, migliori risultati scolastici, miglior lavoro scientifico. Patrick Mulvaney venne chiamato sul palco a ricevere attestati con la doratura non una volta sola ma due, in immediata successione; seguirono molti applausi, come se il vincitore avesse esercitato una qualche magia sull'annunciatore, fingendo di avere un gemello oppure, magari, che si trattasse di una coppia di gemelli che fingevano di essere lo stesso ragazzo. Mamma batteva freneticamente le mani, fischiava. Però il posto di papà restava vuoto. Apparve il membro del Congresso Harold Stoud e di nuovo si scatenarono grandi applausi. Il funzionario pubblico di maggior rilievo di Mt. Ephraim, la "voce del buonsenso ad Albany". Iniziò il suo discorso di commiato a quel corso del liceo, Affrontare il futuro da giovani americani, leggendo con voce florida un testo scritto e il tempo si dilatò e si piegò e cominciò a ritorcersi lentamente su se stesso come la striscia di Moebius che Patrick aveva preparato con carta da regali argentata, per poi appenderla al soffitto della sua stanza. Vedi, Ranger? L'infinito, nella mia mano. E Michael Mulvaney Sr., che era papà, non tornava al suo posto. Le parole del membro del Congresso si fecero pesanti e sabbiose e nell'aria dell'auditorio si addensò qualcosa, una strana cosa che mozzava il respiro, vagamente sporca, diffusa dalle ventole anche se il pubblico applaudiva, strillava, fischiava, batteva i piedi per fare scomparire dal podio il vecchio scorreggione garrulo il più in fretta possibile. E l'alto, bel diplomando che doveva tenere il discorso di commiato salì rapido sul palco, raggiunse il podio in toga e tocco. Postura, atteggiamento, passo suggerivano un paio di forbici animate e molto mobili.
E il posto di papà era sempre vuoto. Ma che accadeva? Il panico corse a onde tra il pubblico. L'aria! l'aria! veleno! un gas velenoso! un terribile soffocante puzzo di uova marce! Ci fu un istante di incredulità, stupore collettivo, un enorme trattenere il respiro all'unisono; poi eruzioni di tosse, singhiozzi, strilli di stupefazione e terrore. Al mio fianco, mamma aveva i conati di vomito, le colavano lacrime dagli occhi, eppure ebbe la presenza di spirito di afferrarmi per un braccio, tirarmi su dalla poltrona, e pochi minuti dopo barcollavamo in corridoio, fuggivamo senza fiato dall'auditorio prima del resto della folla, emergevamo di corsa nella chiara fresca aria di giugno. Oh, che cosa era successo? Quale terribile sabotaggio era stato architettato per mandare in frantumi la consegna dei diplomi del 1976 al liceo di Mt. Ephraim? Pochi minuti, e il verdetto fu: una bomba puzzolente. Qualche diplomando in vena di scherzi doveva avere lanciato una bomba puzzolente per sabotare la cerimonia. Possibile? Lì vicino, a pochi isolati di distanza, la sirena dei vigili del fuoco di Mt. Ephraim prese a gemere, e la prima autopompa uscì a tutta velocità dal garage per lanciarsi in direzione ovest sulla Fifth Street. ** Per fortuna, nessuna delle oltre cinquecento persone presenti nell'auditorio, tra cui bambini molto piccoli e anziani, restò ferita nel parapiglia della fuga. Le uscite d'emergenza vennero spalancate in fretta; file di individui che tossivano e si strozzavano si riversarono sul cemento o sull'erba, si ripresero nel giro di pochi minuti. I sintomi più gravi furono vomito e panico. La maggioranza delle vittime era semplicemente in preda alla nausea, riusciva a respirare, però provava ripugnanza per quell'aria schifosa. La concentrazione maggiore della bomba chimica (acido solfidrico, ingegnosamente sistemato nell'impianto di ventilazione nel seminterrato dell'edificio) colpì le prime file dell'auditorio, dove sedevano gli ottantanove diplomandi, i loro insegnanti e i funzionari del distretto scolastico. Quando il Patriot-Ledger pubblicò un articolo in prima pagina sul misterioso evento, due giorni più tardi, annunciando a caratteri cubitali BOMBA PUZZOLENTE INTERROMPE LA CONSEGNA DEI DIPLOMI AL LICEO DI MT. EPHRAIM, la teoria più accreditata era che lo scherzo non fosse da attribuire agli studenti dell'ultimo anno, nemmeno ai tipi più turbolenti e talora perfidi che potevano vagheggiare un risultato tanto brillante (i loro
insegnanti giurarono che proprio non erano in grado di mettere assieme quella bomba chimica, e tanto meno di farla astutamente detonare a cerimonia già iniziata, piuttosto che all'inizio), ma da diplomandi di un'altra scuola della valle con la quale esisteva una forte rivalità sportiva. Il liceo di Yewville, per esempio. Era corso cattivo sangue tra Mt. Ephraim e Yewville da quando la scuola più piccola, Mt. Ephraim, aveva vinto in primavera il campionato di basket della valle; graffiti osceni erano apparsi sulle facciate di entrambe le scuole, e c'erano state diverse scazzottate, e numerose minacce: più Mt. Ephraim ci rifletteva, più appariva ovvio che la bomba puzzolente doveva essere stata messa da Yewville perché, se no, da chi? Anche se nessuno aveva visto sconosciuti aggirarsi attorno alla scuola prima della cerimonia. E da Yewville non era giunta alcuna beffarda rivendicazione dello scherzo. C'erano altre teorie, meno convincenti, tutte prese in considerazione dalla polizia di Mt. Ephraim e dai dirigenti della scuola. Uno studente scontento, per esempio? Un diplomato amareggiato da votazioni basse, da una delusione romantica, dalla mancata ammissione all'università desiderata? Qualcuno a cui non piacevano i compagni di classe, gli insegnanti? Nel corso di settimane, mesi, addirittura anni, numerose teorie, ipotesi, sarebbero state discusse, perché la bomba puzzolente del 19 giugno 1976 alla cerimonia dei diplomi del liceo di Mt. Ephraim fu uno dei più famosi eventi di storia locale. Ma nulla fu mai dimostrato. Non c'erano prove incriminanti, non ci furono informatori. Nessuno si fece mai avanti a reclamare la paternità della bomba. «Oh mio Dio Judd! Stai bene? Oh dov'è Patrick?» Mamma batteva le palpebre nella luce del sole, mi stringeva forte la mano. Le risposi che certo, stavo bene, mi ero ripreso immediatamente; il gas nell'auditorio, qualunque cosa fosse, non era un veleno, solo un puzzo terribile. E buffo, no? Uno scherzo! La gente si riversava sull'erba al nostro fianco, tossiva, si sentiva soffocare, qualcuno cercava di non vomitare, si passava le maniche della camicia sulla faccia, qualcuno bestemmiava. Alcuni diplomandi, riconosciuto lo scherzo, si sbellicavano dalle risate. «Accidenti! Pazzesco! Incredibile!» si stupì Ike Rodman. Ai margini della folla spuntò mio fratello Patrick con lunghe falcate da cavallo da corsa, però senza fretta, in camicia bianca inamidata e calzoni di cotone, a testa nuda; si era già svestito, aveva lasciato toga e tocco su un marciapiede, accanto a
un ingresso posteriore della scuola. Ci avvistò, mamma e me, ignorò tutti gli altri, aggrottò la fronte come turbato. Il suo cipiglio da Pizzicotto, più un meditativo sguardo in cagnesco che una forte emozione. Oppure assumeva quell'espressione per non sorridere? Lo fissai esterrefatto ma lui rifiutò di incontrare i miei occhi. Mamma corse ad abbracciarlo e lui si lasciò stringere, rigido e imbarazzato, guardando oltre le sue spalle, con l'occhio sinistro quasi chiuso. Astuto Patrick Mulvaney! Doveva essere fuggito dal palco non appena l'odore virulento aveva iniziato a uscire dalle griglie, e per puro caso aveva a disposizione un fazzoletto da premere su bocca e naso, un fazzoletto bagnato a dire il vero, ed era corso immediatamente tra le quinte, raggiungendo l'esterno da un'uscita di sicurezza. Forse era stato il primo in assoluto a mettersi in salvo. Mamma esclamò: «Oh, Patrick! Grazie a Dio stai bene». Rise ansante, stringendo il figlio tra le braccia come se davvero avesse potuto trovarsi in pericolo. «Che catastrofe! Non sei riuscito a tenere il tuo discorso. Oh, però è divertente, no? A chi poteva venire in mente uno scherzo simile?» Patrick rispose, indifferente: «A un mio compagno di classe idiota, è ovvio». Mentre ci spostavamo al parcheggio a raggiungere papà, mi avvicinai a Patrick e gli assestai una gomitata di nascosto. Avevo palpebre gonfie e labbra tumefatte e livide come fossi stato preso a pugni. Spirali di nausea si avvoltolavano nelle mie viscere. Eppure provavo per lui abissale ammirazione, stupefazione. Sussurrai: «Gesù, P.J., hai...? Sei stato tu?» ma Patrick si limitò a un'occhiata fredda. «Chi vuole saperlo? Tu?» Come se la semplice idea lo divertisse. Fu il massimo che P.J. fosse disposto a confidarmi sull'episodio della bomba puzzolente. Sulla station wagon nostro padre ci aspettava, o comunque aspettava, seduto al volante ma girato di lato, a portiera aperta. Gambe accavallate, e un pezzo del polpaccio sinistro spuntava bianchissimo sotto i peli tra calzino e orlo dei calzoni. La sgargiante cravatta color bronzo era slacciata e la giacca blu di serge sbottonata. Papà fumava, rimuginava, batteva cifre su una calcolatrice tascabile e le scriveva su un taccuino. I suoi capelli, ancor più di quelli di mamma, erano striati di un grigio mica. Apparentemente non aveva bevuto, o per lo meno non si vedevano bottiglie, ma dal suo viso era svanita buona parte della tensione e le guance erano chiazzate di rosso. Quando ci vide apparire, il resto della sua famiglia, mamma che trottava in testa nelle scarpe bianche a tacchi alti, impaziente
di sparare novità a raffica, e Patrick di nuovo in abbigliamento casual, e me, Ranger pelle e ossa a chiudere la fila, papà batté le palpebre diverse volte, come chi ha perso gli occhiali. «Già di ritorno?» Neve dopo Pasqua Dannazione! Nonostante le migliori intenzioni, era in ritardo. Aveva cortesemente spiegato all'assistente del dottor Herring che doveva lasciare il laboratorio alle cinque in punto, che era comunque l'orario previsto dai termini del suo contratto, ma il giovane professore, appena uscito da Harvard, non faceva altro che trovargli nuovo lavoro; c'era sempre altro lavoro per Patrick Mulvaney, sterilizzare le attrezzature di laboratorio, incubare colture con molta attenzione, asciugare liquidi fuoriusciti e persino (quel pomeriggio!) passare lo straccio su un pezzo del pavimento. E dare una mano a registrare dati di una minuziosità spossante, riteneva Patrick; lo pensava spesso nel corso di quegli esperimenti che essenzialmente consistevano nel contare cellule microscopiche con un emocitometro d'alta tecnologia, quasi lui fosse un intruso in un mondo che, se solo vi fosse penetrato per una frazione di secondo, lo avrebbe rapacemente divorato, riducendolo a semplici composti chimici e a una pulsante corrente chiamata "vita". Mentre guardava nel potente microscopio, doveva alzare spesso gli occhi, per spezzare l'incantesimo; per sfuggire a una vertiginosa sensazione che era in parte timore, in parte desiderio. Aveva davanti il non umano. L'autobus di Marianne sarebbe arrivato nel centro di Ithaca alle 17.05. Patrick le aveva detto che lui avrebbe tardato di qualche minuto, inevitabilmente. Però adesso era molto in ritardo: non era riuscito a lasciare l'università prima delle cinque e mezzo, e poi c'erano stati altri otto minuti di corsa fino al parcheggio a prendere la jeep, e altri quindici per arrivare in centro, per vie a senso unico intasate di traffico. Avrebbe potuto piangere di rabbia. Rabbia nei confronti di se stesso, soprattutto, per non essere stato più deciso con l'assistente di Herring, a cui in ogni caso pensava di non piacere perché aveva solo vent'anni, non era ancora laureato, ma non si lasciava intimidire. Non crearti nemici! consigliò Patrick a se stesso, irrequieto. Ti servirà tutto l'aiuto possibile. Dopo avere studiato biologia a scuola, al secondo anno di università Pa-
trick aveva scoperto che cosa voleva essere: un biologo ricercatore. Non un insegnante. Non riusciva a vedersi in quel ruolo, non aveva la pazienza, la comprensione, la capacità di identificarsi con altri individui, versioni più giovani di se stesso. Dio, no! La prospettiva lo riempiva d'orrore. (Se non fosse arrivato al dottorato, se avesse dovuto accontentarsi, per esempio, di insegnare alle superiori.) Andare in cerca di verità di natura non emotiva, sostanzialmente inumana, nel silenzio e nell'isolamento del laboratorio, gli stava benissimo; o gli sarebbe stato bene non appena fosse diventato tanto indipendente da dirigere i propri, ambiziosi esperimenti. Lui non avrebbe trattato male i suoi giovani assistenti, soprattutto i poveri ragazzi non ancora laureati, anche se non sarebbe arrivato a conoscerli a livello personale. Non avrebbe evocato in loro la minima emozione. Che piani aveva Patrick! A volte non riusciva a dormire, a furia di pensare. Voleva studiare la storia evolutiva di una singola specie nel suo habitat naturale, nel corso dei millenni; lo sviluppo di un animale semplice. Oppure voleva studiare i rapporti tra certe specie e la loro ecologia, il processo dell'evoluzione darwiniana. (Figlio di una devota cristiana, era affascinato dalla teoria della "selezione naturale", a cui tutti gli scienziati sembravano credere con una convinzione molto simile a quella religiosa. Un processo non pianificato, senza uno scopo, meccanico, privo di significati, teologici o no!) Oppure voleva studiare la vita cellulare, le relazioni tra tipi di microbi. (Il lavoro del dottor Herring, sovvenzionato dal governo federale e dalla Fondazione scientifica nazionale, era un grande progetto per lo sviluppo di nuovi antibiotici.) Oppure voleva studiare un solo organo del corpo, per esempio l'occhio, la notevolissima struttura dell'occhio, in diverse specie. Patrick Mulvaney voleva più cose di quante riuscisse a dire! Talora si accorgeva di discutere con Corinne, e con Marianne, non in modo cosciente, coerente, ma con parecchia emotività. Da giovane irritato, furibondo davanti a tanta ignoranza. Ma non vi rendete conto di quanto sia ridicolo credere che l'uomo sia fatto a immagine e somiglianza di Dio? avrebbe voluto urlare ai loro volti stupefatti. Di quanto sia ridicola la fede di persone come voi? Corinne aveva ragione: uscito di casa Patrick, a diciotto anni, smise di frequentare le chiese, di qualunque confessione. Smise di essere cristiano, e nemmeno pensò con meraviglia o aggressività o soddisfazione Ho smesso di essere cristiano. Si scrollò semplicemente di dosso la religione, come
un pesante cappotto che un tempo gli offriva calore e riparo ma ora non serviva più. Alla fine di aprile del 1978 Patrick stava terminando il secondo anno alla Cornell, e la media dei suoi voti era inferiore solo dello 0,06 alla perfezione. Era fiero di vivere da solo a Ithaca, in una casa in affitto nell'eterogeneo quartiere noto come Collegetown, dove però non si sentiva mai, o quasi mai, solo; fiero di tenere a distanza i Mulvaney, il pensiero ossessivo della famiglia. Li amava tutti ma non desiderava vederli o parlare con loro di frequente. (Corinne avrebbe voluto che lui telefonasse tutte le settimane; Patrick aveva elaborato il compromesso di chiamare ogni due o tre settimane, mai alla stessa ora; temeva di cadere in uno schema fisso che presto sarebbe diventato un obbligo, un dovere, un rito. Visto che non aveva il telefono nel bilocale in cui viveva, e che sosteneva di non avere accesso ad altri telefoni, nessuno poteva chiamarlo.) Non vedeva Marianne dal giugno precedente quando (unico Mulvaney!) era andato alla cerimonia della consegna del suo diploma al liceo di Salamanca. Non vedeva i genitori e suo fratello Judd da quasi otto mesi: il Natale precedente, dopo avere scoperto con sommo disgusto che Marianne non era stata invitata a casa, aveva deciso di non andare nemmeno lui. Aveva telefonato e lasciato un messaggio gelido, per annunciare impegni eccessivi in laboratorio. Corinne, sull'orlo delle lacrime, gli aveva detto: «Oh, Patrick, ma come puoi?» e lui aveva ribattuto rigido: «Mamma, come puoi tu?». E Corinne aveva detto, fiaccamente: «Se alludi a tua sorella, è solo che tuo padre non è ancora pronto a rivederla. Mi sto concentrando molto in preghiera su questo, Patrick, voglio che tu lo sappia, e Marianne lo sa, e le ho detto di essere certa che tuo padre sarà pronto, sarà abbastanza forte, tra poco. Per Pasqua, magari. Patrick?». Patrick aveva risposto: «Arrivederci, mamma. E buon Natale». Aveva riappeso prima che Corinne potesse aggiungere un'altra parola. Al telefono con Marianne per più di un'intensa ora, la vigilia di Natale, Patrick avrebbe voluto consolarla per l'inesplicabile crudeltà dei genitori, ma come sempre Marianne aveva finito per consolare lui. «Patrick, non stare in pena per me, davvero! Sono felice. Certo, aspetto che mi richiamino a casa però, insomma, non è che io stia solo ad aspettare. Ho tante cose da fare. Vivo la mia vita e sono felice.» Patrick arrivò a crederle. Se non altro, finché rimasero al telefono. Strano: conoscere Ethel Hausmann, la cugina di Corinne che ospitava Marianne a Salamanca. "Zia Ethel" (aveva chiesto loro, con un sorriso for-
zato, di essere chiamata così) aveva l'aria di una seconda madre, non molto convincente, in una recita da dilettanti messa in scena da Corinne. Quasi avesse stretto in pugno la goffa Ethel Hausmann: Adesso, Ethel, interpreterai me. Ma certo che ce la puoi fare! Niente timidezze, per amor del cielo. Provaci. Zia Ethel era una donna dall'ossatura pesante, stoica, sui cinquantadue anni, con un viso grinzoso la cui espressione abituale era una triste, vacua speranza; un'espressione che portava con sé la piena attesa di delusioni che non l'avrebbero mai sorpresa perché erano del tutto previste. Anche lei sorrideva, e spesso, ma era un sorriso malinconico, un tale sforzo da sentirla quasi cigolare. «Perché è sempre così triste?» chiese Patrick, e Marianne sollevò l'indice alle labbra per zittirlo: «Oh, ma non lo è, Patrick, non questo weekend». Zia Ethel possedeva i tratti degli Hausmann che Corinne definiva "letali": mento lungo, naso lungo, denti cavallini, occhi sporgenti azzurro chiaro. (Somigliavano arcanamente a quelli di Corinne, solo che non avevano più luce.) Mentre, a dispetto della sua sciatteria, Corinne era una bella donna, Ethel era francamente bruttina. Busto piatto, corpulenta, emanava un odore di chiodi arrugginiti. Uno di quegli esseri soltanto sfiorati dalla vita, come fosse rimasta ferma sul marciapiede di fronte al suo "bungalow" rivestito in alluminio a Salamanca e avesse guardato sfilare una processione di affascinanti sconosciuti che non nutrivano il minimo interesse per lei, anzi neanche la vedevano. Niente marito, niente figli. A differenza di sua cugina Corinne, non era nemmeno una buona frequentatrice di chiese. Per l'intera vita adulta, tre decenni e più, zia Ethel aveva lavorato per il dottor Briscoe, un podologo del posto. «Preferisce non essere chiamato medico dei piedi.» Da come parlava, sulla difensiva ma orgogliosa, con un sottofondo di desiderio e dolore, Patrick capì che era innamorata di Briscoe, chiunque fosse. «Non devi ridere di zia Ethel» gli disse Marianne quando rimasero soli. «È una donna buona, generosa, come dice mamma. Mi ha lasciato tenere Focaccina!» «Molto generoso» commentò neutro Patrick. Per quanto poté capire in tre giorni e due notti come ospite non troppo contento di zia Ethel, tutto ciò che lei offriva a Marianne era una tetra stanzetta sul retro della tetra casa che puzzava (ma perché gli veniva quell'idea? non riusciva a scrollarsela di dosso) di chiodi arrugginiti. In cambio, Marianne era una serva allegra e instancabile e affidabile che non si
lamentava mai. O forse una schiava? «Oh, Patrick, no.» Gli occhi di Marianne si inumidirono quando lui suggerì quell'ipotesi, nel suo stile da Pizzicotto, esalandola maligno con l'angolo della bocca. Ethel Hausmann aveva parlato in termini vaghi della "speranza di dare una mano" per le spese universitarie di Marianne, ma alla fine, da quanto poté capire Patrick, da lei non uscì un cent. (E nemmeno i Mulvaney potevano essere di grande aiuto: nell'estate del 1977 la Mulvaney Tetti e coperture attraversava quello che Corinne definiva nervosamente un "cedimento temporaneo" e Michael Sr. sperava di vendere cinque o dieci acri di terreno «se fosse riuscito a spuntare un prezzo decente». Entro l'autunno del 1977 Rosso, Prince e Molly-O erano stati tutti venduti.) Adesso Marianne lavorava part-time, era una studentessa part-time all'università statale di Kilburn, una cittadina rurale nei pressi del confine con la Pennsylvania, trecentoventi chilometri a sudovest di Ithaca. Patrick voleva andarla a trovare da parecchio ma aveva sempre avuto da fare, preso dai propri impegni. Al telefonò rimproverò Marianne: «Ti meriti di meglio della Kilburn, Gesù santo» come fosse colpa di Marianne essere finita lì e non, per esempio, alla chic Cornell. Marianne assicurò di stare bene alla Kilburn; si era fatta amici e le piacevano tutti i professori e pensava di piacere a loro. E per favore bisognava ricordare che i suoi voti alla maturità non erano stati spettacolari. Alla Kilburn era stata assegnata a un programma di ricerche storiche e abitava in una cooperativa a diversi chilometri dal campus, per risparmiare. Mentre parlavano al telefono, Patrick udì voci energiche in sottofondo, l'abbaiare di un cane, un misto di rumori di cucina, musica da una radio. Dovette chiedere spesso a Marianne di parlare più forte, perché non sentiva. «Sembra una stazione ferroviaria» si lamentò. Quel che voleva dire era che sembrava una grande rumorosa felice famiglia. ** Quando arrivò alla stazione degli autobus, parcheggiò la jeep, ed entrò di corsa nella sala d'attesa della Trailways, erano quasi le sei. Come in uno dei suoi incubi, era terribilmente in ritardo! E aveva continuato a pensare a Marianne, inquieto, per l'intero giorno, anzi per diversi giorni, da che si erano accordati la settimana prima. Che cosa avrebbe pensato Marianne,
che in definitiva Patrick si era scordato di lei? Le aveva detto di non prendere un taxi, non spendere soldi, voleva andare lui ad accoglierla, ci sarebbe stato. All'ingresso in sala d'attesa, andò quasi a sbattere contro i passeggeri che uscivano. La voce nasale di un annunciatore declamò Albany! White Plains! New York City! Dov'era Marianne? Non la vedeva. Una ragazza si voltò: carina, con il naso all'insù. Non era sua sorella. Un'altra ragazza, una giovane donna con un neonato. Gli occhi di entrambe si illuminarono al vederlo, cordiali e curiosi. Ma Patrick era troppo preso per accorgersene. Si fermò al centro della sala affollata, si guardò attorno. Era ansante, eccitato, irritabile; immaginò (ma era solo immaginazione?) che le sue mani, persino i capelli puzzassero di laboratorio. (Sul lavoro, aveva l'abitudine di passarsi ogni tanto le dita nei capelli.) Gli occhiali erano un poco appannati. La vista periferica del suo occhio sinistro era debole, tanto più quando era esausto o teso, così si voltò inconsciamente verso sinistra, ruotò l'intero corpo, accigliato. Dov'era Marianne? Non era venuta a Ithaca? Il pensiero che non fosse venuta, la prospettiva di restare solo quella sera, colmò Patrick di sgomento. Oppure le era successo qualcosa? Alla Kilburn, o sull'autobus, o lì a Ithaca? Era stato lui a presentarsi con quasi un'ora di ritardo. L'interno della stazione degli autobus Trailways, nel centro di Ithaca, era un posto scalcinato, cadente, e c'era un ristorante annesso; l'odore prevalente era un misto di fumo, olio da cucina, lana bagnata (era stata una gelida, scura giornata d'aprile a base di pioggia e pozzanghere) e corpi umani non troppo lavati. L'odore di chi è stato lasciato indietro, dei perdenti d'America: ormai, chiunque se lo potesse permettere viaggiava in aereo. Oppure, anche se era un poveraccio come Patrick Mulvaney, guidava la propria auto. I passeggeri diretti all'autobus in partenza scivolarono via e rimasero pochi esemplari umani. Un vecchio nero che borbottava tra sé e tentava di aprire un armadietto metallico; un teenager pallidissimo con capelli a punta e gambe magre magre, appisolato su un sedile a ridosso di una parete; due ragazze nere dalla carnagione poco scura, che emettevano risolini e sussurri; una signora di mezza età con un figlio tarchiato, probabilmente ritardato, dell'età di Patrick; un marinaio con la sacca da viaggio sulle ginocchia, che fumava e lanciava occhiate furtive alle due ragazze, oppure al ragazzino che dormiva contro il muro e doveva essere sui dodici anni? Un uomo male in arnese, che puzzava di bucce d'arancia bruciate, si avvicinò a Patrick con, che cosa? una penna a sfera da vendere, ma l'astuto
Patrick girò sui tacchi, raggiunse la porta e uscì. C'erano panchine e qualcuno seduto, ma di Marianne nessuna traccia. Si rese conto di quanto volesse vederla, adesso che lei non si vedeva. Si rese conto di quanto dipendesse da quella sua visita, lui che aveva così pochi amici; nessun amico, per l'esattezza. Si aggirò nell'area di partenza, fece il periplo della stazione per controllare tutti gli autobus. Pensò di avere frainteso l'ora, forse Marianne sarebbe arrivata adesso, alle sei del pomeriggio? Ma non era lì, non era da nessuna parte. Scrutò tetro un autobus diretto a nord, in arrivo da Binghamton e in partenza per Syracuse, che scaricava passeggeri. Tutti sconosciuti. L'autobus per Erie, Pennsylvania, che transitava per Kilburn, era evidentemente arrivato e ripartito un'ora prima. Patrick vide un agente della polizia di Ithaca parlare con una guardia giurata e si avvicinò per chiedere se avessero visto Marianne, ma all'ultimo momento tirò diritto. Era confuso anche lui. Non riusciva a immaginare come descrivere sua sorella! La mente si era azzerata, e l'ultimo ricordo che aveva di lei era quello della ragazza ponpon dal sorriso radioso in gonna marrone e blusa a maniche lunghe di cotone d'un bianco immacolato, occhi fulgidi, crespi capelli castani che sobbalzavano nell'annuncio pubblicitario della felicità americana. Germoglio Mulvaney. Immortalata sulla bacheca di mamma. Solo che: quelle fotografie non erano state rimosse con discrezione, nascoste o distrutte? Due anni prima? Dalle porte basculanti rientrò in sala d'attesa e si avvicinò alla biglietteria. Chiese alla signora al banco, una donna di mezza età dal cipiglio severo, se per caso avesse visto arrivare, dopo le cinque, una ragazza scesa dall'autobus di Erie. Una ragazza sui diciannove anni. La donna rispose di no, per quanto ricordava, scrollando una sola spalla a indicare che non si stava sforzando troppo di ricordare, la domanda di Patrick era ingenua. «Be', forse sembra più giovane» disse Patrick, esitando. «Mia sorella. Però non somiglia molto a me, è una...» La mente gli si svuotò di nuovo. Come una lavagna cancellata per sbaglio, a mano. La donna della biglietteria scosse la testa, o per ribadire il no o per divertita compassione di Patrick, che sudava visibilmente, e gli occhiali gli scivolavano in giù sul naso. Erano le 18.07. Poi furono le 18.12. Patrick aveva il numero di Marianne alla Green Isle Co-op di Kilburn, New York, ma l'idea di telefonare non gli andava, perché come sempre avrebbe udito l'allegro frastuono dell'ora di cena, e chiunque gli rispondesse (non sempre riusciva a capire se si trattasse di un uomo o una donna) avrebbe strillato Mari-anne! Ehi Mari-anne!
Chi ha visto Mari-anne! Telefonata per Mari-anne! e lui avrebbe stretto forte gli occhi, terribilmente risentito con lo sconosciuto che chiamava il nome di sua sorella con tanta familiarità; resistendo all'impulso di immaginare la sua vita là, tra giovani uomini e donne presumibilmente attraenti, idealisti come lei, nella residenza della cooperativa che Marianne gli aveva descritto così: una grande vecchia locanda male in arnese con diverse serre, due acri di buon terreno dove coltivavano le loro verdure, automobili di proprietà comune e un furgoncino. L'edificio, in condizioni precarie, era stato acquistato dall'Università di Kilburn, poi affittato alla cooperativa per una cifra simbolica, cento dollari l'anno; i soci della cooperativa l'avevano riparato, ammobiliato, lo avevano fatto diventare "casa". No, al momento Patrick non voleva chiamare la Green Isle Co-op. Erano le 18.20. Patrick fece il giro della sala d'attesa, chiese a una donna di andare per favore a controllare se nella toilette per signore ci fosse sua sorella, ma naturalmente non c'era. Le sue labbra si muovevano mute. Marianne. Marianne! Avrebbe dovuto andare a scovare Zachary Lundt, tanto tempo fa, e ucciderlo. Nella sua fantasia, una fantasia da studente intelligente con il massimo dei voti, avrebbe costretto lo stupratore di sua sorella a bere veleno. Lysol: un'agonia di fuoco per bocca, esofago, stomaco, fegato. Sarebbe sembrato un suicidio! E nessuno sarebbe riuscito ad attribuire la responsabilità a lui come, per quanto gli risultava, non gli era mai stata attribuita la bomba puzzolente all'acido solfidrico, il progetto più brillante della carriera di Patrick Mulvaney al liceo. (No, Patrick non aveva indagato su chi potesse essere l'autore dello scherzo. È quello che i colpevoli fanno sempre: non sanno resistere. Ma Patrick, più furbo di un furbo, era capace di resistere, per l'intera vita. Basta stare a guardare!) Debole, senza fiato, si appoggiò alle file graffiate di armadietti, troppo scosso per continuare ad aggirarsi lì ma senza nemmeno la voglia di adagiarsi sui macilenti sedili in plastica e perdere il proprio vantaggio, che era il vantaggio dell'altezza. Però l'occhio sinistro, che lo tradiva sempre, si stava indebolendo per la spossatezza. Il giorno era iniziato tanto tempo addietro, in un crepuscolo piovoso, con sospetti di neve, prima dell'alba, con sogni in cui Marianne e il suo laboratorio di biologia degli organismi erano fusi assieme; Patrick non ricordava bene. Sveglio prima dell'alba nella stanza al secondo piano della casa di Cook Street, sveglio sotto le grondaie della camera da letto con il lucernario, come a High Point Farm, ridestato dal corpo nervoso vibrante che faceva le veci della sveglia. A volte in quello strano posto a Ithaca, distante centinaia di chilometri da casa, udiva nel sonno
un galletto cantare, e un altro gallo rispondergli. Adesso che era primavera, gli strilli di prima mattina degli uccelli dalle ali rosse, i cardinali. E Sveglia ragazzi! È ora di svegliarsi ragazzi! e il fischio amico di mamma. Profumo di pancetta fritta, perché mamma insisteva sempre su una colazione soda, solida, calda, non si accontentava di cereali versati in una tazza, la colazione è il pasto più importante di tutta la giornata, sostenevano mamma e papà. Sentiva le unghie dei cani grattare eccitate il pavimento della cucina mentre scendeva la scala, mamma fischiare a Piumotto che trillava e gorgogliava in risposta. E la maledetta stazione radio di Yewville, l'annunciatore a cui mamma era fedelissima, il suo preferito. E Marianne era già in cucina ad aiutare mamma a portare la colazione in tavola, e le due parlavano e ridevano, e pareva quasi che se Patrick avesse chiuso forte forte gli occhi sarebbe riuscito a vederla: la sua sorella perduta. L'uomo in sala d'attesa che Patrick aveva preso per un marinaio chiaramente non lo era: portava una giacca blu mare in stile nautico e stivali da motociclista, e i capelli scuri e unti scendevano a coprirgli il collo. Era sulla trentina, non rasato, con occhi che guizzavano rapidi e la bocca umida. Sotto gli occhi di Patrick, si alzò furtivamente, senza ergersi in tutta la sua statura, con la sacca da viaggio, e andò a piazzarsi a due sedili di distanza dal ragazzo immerso nell'oblio del sonno. Ma il ragazzo non era un ragazzo! Stupefatto, Patrick scoprì che era Marianne, sua sorella, i capelli cortissimi in un taglio crudele, il viso terreo e la bocca spalancata; talmente priva d'espressione, nel torpore del sonno, che non l'aveva riconosciuta. Era così giovane, così... bambina. Portava una sottile giacca di velluto a coste, sbottonata, e calzoni con una fascia elastica alla vita, e una maglietta di cotone bianco con una scritta verde, GREEN ISLE CO-OP; il seno sinistro, piccolo e apparentemente sodo quanto una pera acerba, era messo in rilievo dal tessuto bianco. Ai piedi, mocassini logori e niente calze. Sul sedile al suo fianco c'era una borsa di tela sporca, sempre con la stampigliatura GREEN ISLE CO-OP, piena zeppa di cose. Patrick, disgustato, vide l'uomo con la giacca nautica fissare sua sorella, e in quell'istante la vide attraverso gli occhi avidi dell'uomo: una ragazza-ragazzo, sessualmente eccitante perché sessualmente ambigua, vulnerabile, non protetta, provocante. «Marianne!» Le palpebre di Marianne striate di blu si spalancarono, come se non dormisse del tutto. Patrick la rimproverò alla Pizzicotto. «E che diavolo! È un'ora che ti a-
spetto in questa fogna! Cosa ci fai addormentata?» Cook Street, nell'eterogenea Collegetown, a un'estremità del gigantesco campus della Cornell, era una delle numerose strade in salita di Ithaca: Patrick stimava una pendenza di circa settanta gradi. Il suo bilocale al 114 era all'ultimo piano di una vetusta casa con la facciata a stucco, suddivisa molto tempo prima in "appartamenti" per studenti, in buona parte stranieri già laureati. Patrick si era trasferito lì l'estate prima, da un posto ancora più scalcinato di College Avenue. I suoi coinquilini erano giovani indiani, cinesi, pachistani che studiavano scienze o ingegneria; erano fanatici quanto lui di lavoro e quiete, timidamente cordiali ma non impiccioni; non molto reali per Patrick, come lui supponeva di non essere reale per loro. Gli sarebbe stato più comodo abitare in uno degli alloggi del campus, con le aule a portata di mano, ma amava la privacy, il relativo isolamento. E non riusciva a sopportare i comportamenti da ragazzini dei suoi coetanei, fracasso a tutte le ore, bevute folli, vomitate e risse, incessante musica rock. Il suo problema era, e sarebbe sempre stato: Odio i miei simili. I ripugnanti scarabocchi in pennarello rosso sulle pareti dei gabinetti, dentro i cubicoli, al liceo di Mt. Ephraim. Patrick Mulvaney, tremante d'ira e umiliazione, aveva cercato di cancellarli a mani nude. MM: MARYANN MULVANY. MMMMM SUCCHIACAZZI. Alla Cornell, nessuno conosceva il cognome Mulvaney. Ventimila studenti. Quando Patrick si era avventurato in auto nel campus per la prima volta, con Corinne al suo fianco sulla station wagon carica di cose, aveva provato stordimento ed euforia nel contemplare dimensioni, distanze, anonimato, mentre Corinne torceva le mani in grembo e gemeva come ogni madre Ma qui sarai sperso, oh Patrick qui sarai sperso, nessuno saprà chi sei! Davanti alla casa di Cook Street, Patrick parcheggiò l'auto a lato del marciapiede. Girò con mano esperta le ruote verso l'interno, tirò il freno a mano. Marianne, che aveva lanciato esclamazioni di gioia per il campus della Cornell (Patrick le aveva fatto percorrere la zona centrale, l'elegante East Avenue e giù per la lunga discesa fino a Central Avenue e poi via verso Collegetown, perché desiderava che vedesse le enormi colline ondulate dietro i vecchi edifici maestosi, battute dal vento, bellissime anche al tramonto sotto la pioggerella), alzò gli occhi sulla casa decrepita che era così brutta, malinconica e tozza, e restò senza parole. Patrick rise. «Non proprio una casa da sogno, eh?»
Marianne mormorò che di certo era un'ottima posizione, a pochi isolati dal campus. Entrarono, salirono le scale fino al secondo piano. Patrick portava sulla spalla la voluminosa borsa Green Isle di Marianne. Un odore denso, oleoso, di qualcosa che cuoceva saliva dalla cucina a pianterreno, sul retro. Su tutto gravava un aroma di muffa, topi, scarichi igienici, deodorante. Patrick sperava che in giro ci fosse l'uno o l'altro dei coinquilini, per potergli presentare Marianne, ma tutte le porte erano chiuse. La mia vita qui. La mia vita adesso. Non sono un Mulvaney, vedi? Potrei essere chiunque. Cittadino di qualunque paese. Da che si erano trovati e abbracciati alla stazione degli autobus, Patrick aveva continuato a ripetere a Marianne, quasi gloriandosi, quanto gli piacesse la Cornell. I corsi, i professori, il lavoro. I suoi risultati erano stati notati e lodati piuttosto spesso; la grande impersonalità del campus, che sconvolgeva tanto altri studenti, non impressionava lui. Anzi, gli andava a pennello. Dopo la claustrofobia da piccola città di Mt. Ephraim, sì, gli andava a pennello. Lì lavorava, lavorava. Si era infatuato del lavoro perché era significativo, era importante, reale. Un corso che si chiamava biologia degli organismi: così eccitante! Aveva trovato casa sua, si sarebbe potuto dire. Un luogo spirituale. Più si fosse concentrato sul lavoro, maggiore sarebbe stata la garanzia di essere premiato. Naturalmente, non lavorava per un "premio", non esattamente. Però riteneva esistesse una correlazione diretta. Che nella vita non c'è sempre. Tra ciò che fai e ciò che ti accade. Quello che meriti e quello che ottieni. Al sorriso perplesso di Marianne, Patrick si affrettò ad aggiungere che non lavorava sempre, ovviamente. Aveva qualche amico, era uscito con qualche ragazza. Nessuna di speciale, ma non lavorava sempre. A volte, se lo prendeva l'inquietudine, andava a correre, oltre Cascadilla Creek e per Central Avenue sotto la collina e poi fino a Fall Creek, al burrone (le avrebbe mostrato il burrone l'indomani: il famoso ponte sospeso da cui si gettavano gli studenti che volevano suicidarsi), poi attorno al lago Beebe e infine di ritorno a Cook Street. Non sapeva quanti chilometri fossero. Correva in una specie di trance, con la mente ferma. In movimento rapido, gli pareva che il corpo raggiungesse il ritmo del suo metabolismo, si sentiva bene. E il brutto tempo non gli dispiaceva. «Mi ricorda casa.» Certe sere andava in centro, a State Street, dove c'era un cinematografo a poco prezzo, vecchio e scalcinato e puzzolente di popcorn rancido, a vedere qualunque cosa proiettassero. L'ultimo spettacolo finiva dopo mezzanotte, e poi tornava a casa a lavorare magari per un'ora o due. Quando arrivava in fon-
do a State Street, il film era già svanito dalla sua consapevolezza. Adorava quanto fossero irreali i film, come certe persone. Marianne lo guardò stranita. «Persone?» Adesso erano nell'appartamento di Patrick, accendevano le luci. «Ma Patrick» disse Marianne «le persone sono reali.» «È quello che ho detto» protestò Patrick, con l'impazienza dei fratelli. «I film non sono reali come sono reali certe persone. Hai presente?» Mise la borsa sul tavolo, dove era stato sistemato un vaso con fiori freschi per l'arrivo di Marianne. «Troppo reali. Si prendono troppo sul serio.» Parlava con una veemenza giovanile che Marianne non sembrava capire. Però era felice, non avrebbe potuto esserlo di più. Che enorme sollievo: Marianne era lì con lui, e sana e salva. E sarebbe tornata a Kilburn il pomeriggio successivo. In vista della visita di Marianne, Patrick aveva trascinato l'aspirapolvere di casa per due piani di scale e meticolosamente ripulito le sue stanze. Aveva spolverato davanzali, paralumi, persiane. Fischiettando, aveva passato lo straccio sul pavimento. Di buonumore: vagamente apprensivo ma non ansioso. Oh Patrick non vedo l'ora, mi manchi tanto! Ma sei sicuro di avere tempo per me? Aveva lavato le numerose, vecchie finestre non solo all'interno, da cima a fondo, ma anche all'esterno, per quanto gli era riuscito con Windex e tovaglioli di carta, sporgendosi dai davanzali. (Si era detto di essere il figlio di un uomo che allestiva tetti: abituato a salire sui tetti, dare una mano a papà, non sapeva cosa significasse soffrire di vertigini.) Aveva grattato la cucina in miniatura con la paglietta e scopato, lavato, ripulito a fondo il bagno del secondo piano che Marianne avrebbe dovuto usare e che Patrick divideva con altri due inquilini. (In teoria, a tenere pulito il bagno provvedeva il custode, che viveva a pianterreno; in pratica era spesso sporco, indicibilmente lercio e Patrick non intendeva mostrarlo a sua sorella in quello stato.) Aveva lasciato le finestre socchiuse per aerare le stanze. Sei sicuro di avere tempo per me Patrick? so che lavori tanto. Però mi farebbe un piacere enorme vederti! Aveva riposizionato alcune delle artistiche decorazioni appese alle pareti e ne aveva aggiunte altre: fotocopie a colori di diapositive di cellule trattate con coloranti, ingrandite moltissime volte, forti colori primari e forme onirico-allucinatorie che si fondevano tra loro, splendide, agli occhi di Patrick, come tutto ciò che avevano dipinto Cézanne, Matisse, Picasso. Però erano solo diapositive di laboratorio di vita cellulare comune quanto i granelli di sabbia di tutti gli
oceani del mondo. La prima volta che aveva guardato in un microscopio, in seconda media, era rimasto scioccato e perplesso. Talmente bello da essere quasi doloroso. Ovviamente, sapeva che la bellezza non esiste. Non lo sapeva all'epoca, ma adesso sì. La bellezza è una questione di prospettiva, soggettività. Pregiudizi culturali. Occorrono occhi umani, un cervello umano, un vocabolario umano. In natura non c'è niente. Però la bellezza dà conforto. Chissà perché. Forse Patrick Mulvaney avrebbe scoperto la risposta, un giorno. Aveva tolto dal letto la trapunta fatta a mano, quadrati rossi bianchi e blu laboriosamente cuciti assieme in tessuti contrastanti (cotone, denim, velluto, taffetà, velluto a coste, mussola) che gli aveva dato Corinne; l'aveva ripiegata e nascosta nell'armadio. Perché non era certo che mamma avesse dato a Marianne qualcosa di altrettanto bello da portare con sé a Salamanca. A Druden Road, da un fiorista, aveva comperato un mazzo di fiori. Giunchiglie gialle, che sperava non ricordassero troppo a Marianne High Point Farm, dove crescevano in selvatica profusione, moltiplicandosi a ogni primavera, dai bulbi piantati da Corinne lungo il vialetto d'accesso, nel prato davanti a casa, vicino alla strada. E Corinne coltivava anche i giacinti, tagliava rametti da portare in casa che avevano un profumo dolce, così dolce. E narcisi dai petali delicati. Patrick sistemò quei fiori in un vaso di vetro che mise sul suo unico tavolo, per dare il benvenuto a Marianne. Per indurla a esclamare, non appena fosse entrata nella stanza: Oh Patrick, che pensiero dolce. Asciugandosi gli occhi. Tremava all'idea di vederla piangere. Lui non avrebbe pianto. Non piangeva mai. Non ricordava l'ultima volta che era successo. Quando Prince lo aveva calpestato, praticamente cavandogli un occhio? Facendo di lui un mostro per il resto della vita? Ma non era stata colpa del cavallo. In natura, nessuno ha colpe. «La neve dopo Pasqua. Non sembra giusto, vero?» Marianne girava un ricco minestrone in una pentola ammaccata sulla piastra del fornello di Patrick e intanto lui preparava la tavola. Marianne scrutò dalla finestra: nella luce del lampione, fiocchi di neve umida volteggiavano come falene agitate. Non aveva il tono di chi si lamenta, semmai di chi prova desiderio. Patrick, irritato, ribatté: «Non faccio più molto caso al clima. È una delle cose di cui mi sono liberato, adesso che non so-
no più un ragazzo che vive in una fattoria». Sul ragazzo che vive in una fattoria mise una leggera ironia. Perché i Mulvaney di High Point Farm non si erano mai limitati a gestire una fattoria. Marianne disse: «Io non cambierò mai, ne sono certa. Scrutare il cielo, cercare di indovinare che cosa ci aspetta». Patrick stava disponendo i piatti sul tavolo, un tavolo pieghevole al centro della stanza ingombra di libri che era il suo studio: i piatti, leggermente sbeccati, erano blu cobalto, prodotti da un'azienda americana molto nota. Corinne glieli aveva affibbiati a forza quando lui si era trasferito a Ithaca. Se devi mangiare in qualcosa, perché non in qualcosa di bello? Anche i tovaglioli in stoffa gialla ben ripiegati venivano da casa, come le posate in acciaio inossidabile con i manici in osso. Marianne, notandolo, aveva sorriso e mormorato qualcosa che Patrick non aveva afferrato. Lui stava dicendo, in tono alto, nasale, e con l'insopportabile prosopopea del fratello che si aggiudica punti con una sorella che sarà sempre più giovane di lui: «Ma perché te ne dovrebbe importare? Ormai siamo liberi. Da tante cose. Che arrivi la siccità o una pioggia talmente intensa da fare marcire i semi nel terreno. Che ci sia un'infestazione di bruchi nel frutteto, o di scarabei giapponesi. Non dobbiamo essere superstiziosi come primitivi. Dio, che sollievo vivere in un posto come questo, dove non ho rapporti, non sono responsabile, me ne posso andare via senza voltarmi a lanciare un'occhiata. Che sollievo non dover badare a chi sei». Marianne disse, esitante: «Ma, Patrick, ti deve importare...». «Cosa? Perché?» «Chi sei. Ti deve importare.» Patrick si spazientì. «Ho detto dove sei. È un sollievo non dover badare a dove sei. Tutto quell'orgoglio che avevamo a casa, e l'ansia. Di tenere in piedi una specie di, non saprei, di vita familiare modello. Non che ce ne rendessimo conto, nemmeno mamma e papà. Anzi, loro meno di tutti. Appena me ne sono andato ho scoperto quanto sia grande il mondo. Devi solo riposizionarti. Il dove è momentaneo. Ti sposterai.» Piccole prediche per una sorella perplessa. Probabilmente esagerava per il bene di Marianne. Insomma, non ti perdi molto. A me mancano? Probabilmente la presenza di Marianne in quell'appartamento striminzito dove era abituato a una deliziosa solitudine, dove in effetti pensava di rado a casa, a loro, a quella cosa, lo spingeva a dire stravaganti stupidaggini a cui in effetti non credeva.
Marianne però prendeva sul serio ogni sua frase. Patrick lo ricordava dal passato: anni, anni, anni a giocare al fratello maggiore più furbo e più cinico con la sorella adorante, incapace di metterlo in discussione. Ne era lusingato, a tratti irritato. Si sentiva spinto all'ira, in momenti imprevedibili, come l'ira calda pulsante che aveva provato alla stazione degli autobus vedendo sua sorella, la sorella che amava, attraverso gli occhi di un predatore sessuale. Marianne gli rispose lentamente: «È probabile che io sia diversa. Più letterale di te. Tutti i posti in cui mi trovo, come adesso qui, o la Coop, e la Kilburn, non riesco a immaginarli come provvisori. Anche se me ne andassi, continuerebbero a esistere. I posti. E le persone». Patrick lasciò cadere il discorso. Aveva informazioni incomplete sulla Green Isle Co-op; sapeva soltanto che forniva vitto e alloggio a Marianne all'esterno del campus della Kilburn e che, lavorando lì, lei riusciva a coprire il sessanta percento delle spese universitarie. Forse lo irritava il tono tenero della sorella nel parlare di quel posto e di compagni che conosceva solo da settembre ma evidentemente le piacevano molto. Erano per lei fratelli e sorelle, a quanto sembrava. Patrick conosceva i nomi: Abelove, Birk, Felice-Marie, Val, Gilb oppure Gelb. Un bastardino di spaniel che si chiamava Lacrima. Informazioni che gli parevano più che sufficienti. Quella sera avrebbe voluto portare Marianne fuori a cena, a un ristorante cinese di State Street, ma lei aveva insistito per cucinare durante la sua permanenza. Al telefono aveva dato l'impressione di tenerci tanto che lui si era arreso. «Però per te sarà un grosso impiccio portare il cibo in autobus. Non potremmo comperarlo qui?» «Oh, Patrick, no.» Quasi ferita. Con il tono di Corinne, se l'uno o l'altro dei figli non aveva appetito a tavola, o non aveva voluto trovare il tempo di sedersi a mangiare con il resto della famiglia. Così Marianne aveva portato con sé sull'autobus Trailways, nella borsa di tela, due litri di minestrone a base di pomodoro, verdure e maccheroni; due pagnotte che aveva preparato con le sue mani, aggiungendo alla farina integrale zucchine e noci; un barattolo di marmellata di lamponi Green Isle; persino, in una borsa di plastica, un'insalata mista. Mentre preparava la cena nel cucinotto (niente forno; un fornello a due piastre, un piccolo tozzo frigorifero Pullman sul pavimento, un modesto lavello d'alluminio, un piano d'appoggio e un solo armadietto) continuò a chiacchierare con lui, raggiante di piacere e felice di rendersi utile. Era quasi Germoglio Mulvaney.
Se Patrick non la guardava. Alla stazione degli autobus, Dio quanto era rimasto scioccato! Vederla era stata una pugnalata. Marianne? Possibile? Arrivati a casa, quando si era tolta la giacca. Da restare senza fiato per la magrezza. Braccia non più grandi dei suoi polsi. Clavicola sporgente e seni da dodicenne e chiunque potesse scrutare con desiderio quella bambina era malato, depravato, repellente. I capelli ritti, brutalmente tagliati dietro e sui lati. Ombre di vene blu alle tempie e occhi striati di rosso, come se di recente non avesse dormito. O avesse pianto. Altrettanto inquietante l'abbigliamento. Articoli da discount. Roba che nessuno degli studenti della Cornell avrebbe mai portato, nemmeno quelli che si definivano "eccentrici", "freak". La sottilissima maglietta di cotone bianco con spalline minuscole, larghe, e la scritta stampigliata a lettere verdi GREEN ISLE CO-OP sul davanti. Patrick aveva chiesto, sarcastico: «Sei travestita, Marianne? Da cosa?». Voleva essere divertente, ma lei lo aveva fissato confusa. Si era toccata nervosamente i capelli come per cercare di lisciarli. E a Patrick era venuto in mente che lei potesse non essere consapevole del proprio aspetto. Aveva letto delle vittime di stupro, aveva fatto ricerche nel metodico stile Pizzicotto, tra i testi di psicologia della Cornell. È comune per la vittima di uno stupro, femmina o maschio, evitare gli specchi e ogni confronto diretto con l'immagine del "sé". Come se, dove un tempo esisteva una persona, non esista più qualcuno. Si offrì di dare una mano a Marianne per la cena ma lei disse che non le serviva aiuto. Il minestrone era una sua ricetta, mai lo stesso due volte di seguito. Patrick mormorò che non era più abituato a essere servito, lo innervosiva, e qualcosa nella sua voce provocò Marianne, che rise, e scherzosamente gli chiese chi gli avesse preparato da mangiare di recente. Una ragazza? e Patrick arrossì e rispose: nessuno. Marianne sorrise. «No?» In un certo senso, era la verità. Nessuno aveva cucinato per Patrick lì, nel suo appartamento. Sedettero a tavola. Il minestrone di Marianne era il più delizioso che Pa-
trick avesse mai assaggiato: fumante nelle fondine di porcellana, denso, insaporito da basilico e origano freschi, con pezzi di sedano, pomodoro, carota, cipolla rossa, fagioli, piselli e maccheroni. Il pane di farina integrale era croccante, da masticare a lungo, delizioso a sua volta. E un'insalata mista con lattuga rossa e indivia, cetrioli, pepe, germogli di erba medica, un condimento di olio e aceto insaporiti con aneto. Patrick fu sorpreso del proprio appetito, della sua fame. Di solito si preparava pasti veloci a base di scatolette, cibo che versava in casseruola o friggeva in padella. Si metteva alla scrivania e mangiando lavorava, senza quasi sentire i sapori; mandava giù tutto con numerosi bicchieri di succo di frutta. Magro, snello, con lo stomaco piatto, Patrick aveva sempre avuto all'incirca lo stesso appetito di Mike, il fratello più robusto, ma nessuno se n'era accorto. Mangiava, mangiava, mangiava e sulle ossa si accumulavano soltanto muscoli. Marianne era sempre stata più piccola, con un'ossatura modesta; anche in quel momento, come sempre, mangiava poco, soddisfatta dall'appetito di Patrick e dalle sue reazioni alla cena. «Accipicchia. Fantastico. Veramente ottimo.» Marianne arrossì: come Corinne, i complimenti la mettevano a disagio. Disse, modesta: «Penso di avere messo troppo origano nel minestrone. Se si esagera con...». «Diavolo, no» ribatté severo Patrick. «È perfetto.» Marianne sorrise, rise nervosamente. Alla luce del lampadario i suoi occhi erano enormi, le occhiaie profonde. Patrick ribadì di essere felicissimo alla Cornell, dove tanto di rado si trovava solo. Il sorriso ansioso di Marianne parve chiedergli Ma io non ti manco? Lui non se ne accorse. Era in una fase di vanagloria, un ragazzo tranquillo lanciato a ruota libera, nello stile di quei giovanotti impettiti, schivi e vanitosi che si immaginano brillanti e così vengono percepiti dagli altri. Parlò in maniera calorosa per quanto vaga dei coinquilini della casa, studenti stranieri molto più seri di tanti studenti americani. La civiltà, per loro, era una faccenda parecchio diversa da ciò che è per gli americani, riteneva Patrick. Noi tendiamo a darla per scontata, esiste e basta. Tendiamo a pensare che sia per noi, che sia un regalo. Ma altri, soprattutto gli orientali, sanno qualcosa di più. «Quando parli con loro» disse, con sincero impeto «hai quasi l'impressione che vogliano estraniarsi da noi. Da un ragazzo come me, intendo. Il tipico ragazzo americano viziato.» «Oh, Patrick» rise Marianne, in un rimprovero da sorella minore «tu sei tutt'altro che tipico.»
Patrick disse altezzoso: «Non voglio esserlo. Però vedo il mondo attraverso il prisma della mia cultura, non attraverso occhi "obiettivi"». «Ma perché altri dovrebbero desiderare essere più "obiettivi"? Non capisco.» «Perché le loro civiltà sono più antiche, più fataliste. È come il caso imprevisto nella teoria evoluzionistica, la pura casualità. Sembra esista un disegno, e in effetti è un disegno ingegnoso, un semplice cervello umano non avrebbe mai potuto idearlo, sembra che si manifesti "intelligenza", ma si tratta solo dell'accidentale, meccanico accumularsi della "selezione naturale" in un periodo di milioni di anni. Nessun Dio, soltanto la natura. E il caso.» Patrick parlava con fare dogmatico, il tono del dottor Herring in aula. Marianne sedeva in mite raccoglimento a tavola, i gomiti ossuti sul piano, gli occhi bassi e la fronte aggrottata. Aveva praticamente smesso di mangiare. Timida, disse: «Il mio amico Abelove, è il suo cognome, si fa chiamare per cognome, il direttore esecutivo della cooperativa, dice che evoluzione e creazione si possono conciliare. Evoluzione tramite la natura e creazione tramite...». «Dio? Non essere sciocca.» Patrick sbuffò irridente. «Non so come spiegarlo...» «Certo che non sai!» «È solo che esistono modi diversi di percepire la stessa cosa» disse Marianne, incerta. «Non è così?» «Esistono modi scientificamente dimostrabili e modi superstiziosi, creatori di illusioni» ribatté secco Patrick. «Puoi scegliere gli uni o gli altri, ma non entrambi.» Marianne si alzò. Patrick pensò che volesse allontanarsi, invece andò a tagliare altro pane: lui aveva mangiato tutte le fette che c'erano in tavola. Quando tornò a sedere, Patrick si sforzò di parlare con maggiore moderazione. Non era uno spaccone, una testa calda! Più tardi, si sarebbe vergognato. Era l'istinto Pizzicotto a fargli assumere l'atteggiamento del moccioso viziato. Eccellenti ragioni inducevano sua sorella, e sua madre e la madre di lei, in effetti quasi l'intera specie umana, a credere in ciò che credevano, a dispetto della ragione stessa: credevano perché, come bambini, erano terrorizzati dal buio. Scambiavano la luminosità di una Verità inumana e implacabile per semplice oscurità. Alle superiori, Patrick aveva letto le grandi opere di Charles Darwin, Sull'origine delle specie, Il viaggio della Beagle. Poi La doppia elica di
James Watson che l'insegnante di biologia gli aveva regalato come riconoscimento del suo status speciale. Darwin il visionario, Watson e Crick gli arrivisti. Be', la scienza era entrambe le cose, no? Lui, Patrick Mulvaney, non intendeva separarle. Marianne lo ascoltò avidamente mentre raccontava dei corsi, dei professori, del lavoro; non gli chiese dei voti, ma la informò Patrick: tutti A, il massimo, per tre semestri di cinque corsi da tre crediti l'uno, tranne la maledetta chimica organica dove era riuscito a racimolare solo un A-, in mezzo a un branco di specializzandi in medicina che, a quanto si vociferava, avevano copiato all'ultimo test. Anzi, non solo all'ultimo. Ma Patrick, rosso in viso, indignato, non volle approfondire quella faccenda. Gli imbrogli, la disonestà, il cinismo, le bevute di birra, l'assunzione di droga, la promiscuità sessuale dei suoi compagni di corsi, non proprio tutti, ma una notevole percentuale, no, di quello non voleva discutere. Parlò invece a Marianne delle sue speranze di carriera: dopo il diploma si sarebbe iscritto al dottorato di ricerca, forse lì alla Cornell dove avrebbe potuto lavorare con Maynard Herring, uno dei più noti biologi viventi (che aveva già individuato in Patrick Mulvaney un elemento intelligente, promettente); avrebbe vinto una borsa di studio per ricercatori oppure, in alternativa, sarebbe diventato assistente; avrebbe completato il dottorato in tre anni, «se tutto andrà come previsto». Parlò a cuore aperto di certi misteri della scienza che lo intrigavano: perché i virus non possano replicarsi, per esempio, ma debbano invece inserire le proprie informazioni genetiche in un ospite e costringerlo a riprodurlo; come sia possibile che tante componenti così assolutamente disparate, microrganismi, sostanze chimiche, atomi, compongano un singolo essere umano, con una personalità unificata? E che cos'è una "personalità", data una tale galassia di componenti? Perché tante specie vegetali e animali si sono estinte? Più del novanta percento delle specie mai esistite. E che cosa significa in termini evolutivi il fatto che l'uovo materno sia molto più influente nella riproduzione di quello paterno, migliaia di volte più grande del paterno, e dotato di tutti i mitocondri cellulari? E come si è evoluto un organo straordinario come l'occhio, in tante disparate specie di creature, nel corso di milioni di anni, partendo dalla cieca materia indifferenziata? Marianne lo interruppe per chiedere, con sollecitudine da sorella: «Il tuo occhio, Patrick, va bene?». Lui la fissò. «Il mio occhio? Cosa?»
«Il tuo... Lo sai» balbettò lei. «Il tuo occhio menomato.» Patrick si accigliò, spinse in su gli occhiali. Era irritato, indignato. «Non stiamo discutendo del mio ridicolo occhio. Stiamo discutendo del fenomeno dell'occhio. È così sorprendente. Che un meccanismo tanto complesso e ingegnoso si sia evoluto dalla cieca materia. Chi poteva immaginare l'occhio, la vista, nel buio?» Marianne si era alzata discretamente per sparecchiare. Scosse la testa, con un debole sorriso. «Qualcuno con un'immaginazione ingegnosa» rispose sottovoce. «Hmm! Molto divertente, Marianne.» Patrick continuò a parlare con veemenza, senza sapere che cosa dicesse o perché, in quel momento, si sentisse spinto a dirlo; le parole da tanto soffocate, la solitudine della sua vita eruppero all'improvviso, in una passione che non sapeva di possedere. Marianne, discreta e sicura, finì di sparecchiare, lavò i piatti, continuò ad ascoltare Patrick mormorando frasi di assenso o sorpresa, talora sobbalzando trafitta da parole taglienti. Patrick aveva deviato dai grandi misteri della scienza al fallimento collettivo dell'umanità. Erano pensieri che aveva formulato numerose volte, anche al liceo, ma non li aveva mai tradotti in parole per un'altra persona. «È così maledettamente deprimente! Dopo tutto questo tempo, dopo tutto ciò che la scienza ha scoperto, la razza umana è così ignorante. Così superstiziosa e crudele. Rifletti: i nazisti hanno ucciso sedici milioni di uomini, donne e bambini. Stalin ne ha uccisi venti milioni. Molti altri milioni di persone, persino di più! sono caduti vittime dell'ideologia" comunista cinese. Soltanto nel xx secolo. Il nostro secolo civile. È questo il mistero, non la natura. Perché gli esseri umani siano tanto abietti.» Marianne si era bloccata a fissare Patrick, con occhi quasi spaventati. «Patrick, sembri così rabbioso.» «Non dovrei esserlo? Perché tu non lo sei?» Patrick si era alzato da tavola. Tremava. Non si rendeva conto di essersi arrabbiato tanto. Un pulsare furibondo gli batteva nell'occhio sinistro. Senza una parola, Marianne gli si avvicinò. Gli prese le braccia e in punta di piedi si strinse a lui, premendo la guancia fresca, scarna, contro la sua. Non esattamente un abbraccio, però dava conforto, consolazione. Ti voglio bene. Ci vogliamo bene. Basta questo. Voleva crederle quando lei sosteneva di essere felice. Era felice: la sua anima brillava negli occhi azzurri infossati.
L'ultima volta che Patrick aveva parlato al telefono con sua madre, accennando alla visita di Marianne a Ithaca, Corinne si era mostrata evasiva, in colpa: Oh, dille che le vogliamo bene! Se la cava benissimo in quel piccolo college, diventerà un'insegnante meravigliosa, ne sono sicura. Judd e io andremo a trovarla un weekend o l'altro, presto. Una pausa, poi una voce strozzata, implorante. Amore, fossi in te non interferirei con tua sorella e Patrick aveva ribattuto freddo Sì, però non sei me, mamma. E io non sono te. Quali segreti c'erano tra loro, tra mamma e Germoglio? Tra madre e figlia? Forse, nessuno. MMMMM SUCCHIACAZZI! Quella volta, all'inizio di una lezione di ginnastica, al liceo, girando attorno alla fila degli armadietti, Patrick aveva visto un amico cancellare qualcosa con il palmo della mano dallo sportello del suo armadietto, in fretta, con un'espressione disgustata. Aveva tirato diritto, fingendo di non avere visto niente. In seguito, non era più riuscito a guardare in faccia l'amico. Non ricordava se gli avesse più parlato fino al diploma. Sarebbe stato disposto a morire per Marianne? Sì, pensava di sì. Eppure: aveva mai affrontato Zachary Lundt o qualcuno del branco di ragazzi amici di Zachary e che, si diceva, "avrebbero coperto le spalle a Zach" se la polizia avesse indagato? No, non lo aveva fatto. Non era lo stile di Patrick. Non era lo stile di Pizzicotto. Distante e furioso e ferito in modo indicibilmente profondo. Non aveva affrontato nemmeno suo padre, con cui dal febbraio del 1976 non parlava quasi più. Tu vai per la tua strada e io andrò per la mia. Suo padre gli sembrava pazzo: era inutile parlare con lui, tanto meno litigare. Aveva bandito Marianne da casa e dalla propria vita per poterla escludere dai suoi pensieri. Molto semplice, e Patrick capiva. Capiva, ma non poteva perdonare. A Corinne aveva detto È crudele, è ridicolo, lo odio, tu come puoi non odiarlo? e Corinne aveva risposto irata Tu non odi tuo padre, Patrick! Lo sai. In quanto a Marianne, è felice e si è adattata, la fede la sostiene come sostiene me. Non interferire! Ma Pizzicotto avrebbe interferito, magari solo a distanza. Voleva crederle, se lei sosteneva di essere felice. Non voleva stare a fissarla cercando di immaginare che cosa fosse ora la
sua vita. La vita dopo il liceo: cheerleader, damigella della Reginetta. Non voleva interrogarla ma doveva chiedere: com'era andato il primo semestre alla Kilburn? E quando, più tardi, lei gli raccontò con entusiasmo da ragazzina, tirandosi i capelli cortissimi, quanto fosse felice al college, quanto avesse imparato dai corsi, soprattutto da quello di storia americana, centrato sul movimento abolizionista, per il quale aveva letto Thoreau, Emerson, Frederick Douglass, Patrick la interruppe per chiedere: «Ma cosa hai combinato in concreto, Marianne? Insomma, che voti hai?». Rude franco Pizzicotto. Marianne stava sorridendo, e il sorriso si incrinò. Le palpebre venate di rosso presero a battere, proprio come accadeva a Corinne. Esiste un gene che trasmette i modi di fare, oppure vengono solo appresi, sono condizionati dall'ambiente? A voce bassa, talmente bassa che Patrick quasi non udì, lei rispose: «Non... non ho esattamente completato due dei corsi. Non ho potuto presentarmi agli esami». «Perché?» «Be'...» Marianne si contorse, si tirò i capelli. «Sono successe cose. All'improvviso.» «Che tipo di cose?» «Un'emergenza alla cooperativa, subito dopo il Ringraziamento. Aviva, la vicedirettrice del negozio si è ammalata e...» «Negozio? Quale negozio?» «Oh Patrick, devo avertelo detto. O no? A Kilburn, in città, abbiamo un negozio Green Isle. Vendiamo conserve, prodotti freschi in estate, pane, biscotti. Il mio pane alle zucchine e noci è uno dei preferiti. Ho...» «E tu lavori in quel negozio? Quante ore a settimana?» Marianne abbassò la testa, sfuggì allo sguardo inquisitore di Patrick. «Non pensiamo in termini di ore... esattamente» disse. Era seduta sul divano di Patrick (che non veniva da High Point Farm, faceva parte dello scarno, scalcinato arredamento del bilocale); Patrick le sedeva di fronte, alla scrivania, in una posa piuttosto autoritaria, con la caviglia destra appoggiata sul ginocchio sinistro, in un atteggiamento a un tempo rilassato e aggressivo. Pensando alla Pizzicotto Ho il diritto di chiederglielo. Se non lo chiedo io, chi lo farà? «In quali termini pensate, allora?» «La Green Isle Co-op non è un'impresa gestita in modo formale, come
un'azienda. È più, be', più una famiglia. Tutti si aiutano a vicenda. Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità.» «Chi lo ha detto? P.T. Barnum?» «Oh, Patrick, no.» Marianne rise doverosamente all'umorismo adolescenziale di Patrick, com'è compito di una sorella. Per un istante si trovarono ad avere dodici e tredici anni, e Pizzicotto sfogava a tavola il suo umorismo acido. «È il motto della cooperativa. È di Abelove. Viene da un filosofo del XIX secolo, credo.» «Karl Marx.» «Chiunque sia.» Marianne sorrise ansiosa, a fronte aggrottata. Da quando Patrick l'aveva trovata alla stazione degli autobus, aveva continuato a tirarsi i capelli, in modo solo parzialmente consapevole; a carezzarsi la nuca come fosse contusa e dolorante; a controllare che le spalline della maglietta fossero al loro posto. C'era da chiedersi (Patrick se lo chiedeva) perché una giovane di diciannove anni dovesse portare una maglietta del genere, con niente sotto; perché, quando nel Nord dello stato di New York era soltanto aprile, e all'estate mancava molto. E perché quei calzoni dal colore smorto con la fascia elastica, di un tessuto talmente sintetico da non possedere ordito, liscio come una lastra di formica, calzoni che si potevano comperare in un negozio di abbigliamento per bambini a prezzi stracciati. Sono così piccola e insignificante, non ti arrabbiare con me. Ma Patrick era arrabbiato. Scoppiava di rabbia. Disse: «Da ciascuno secondo le sue capacità... Sicuro. Chi aiuta te?». «Ma Patrick...» «Fai la commessa in un negozio? Prepari il pane? Che altro?» «Patrick, sono miei amici. Devi venirci a trovare. Magari il weekend che verranno mamma e Judd, eh? Kilburn è un posto piccolo, sia la città che l'università, niente di paragonabile alla Cornell. Lì nessuno sospetta di qualcun altro. Per esempio, nessuno lì imbroglierebbe mai agli esami.» Patrick lasciò correre. Ascoltò in silenzio. Marianne gli raccontò di essere stata avvicinata da qualcuno della Green Isle al secondo giorno di università: vagava in libreria spersa e confusa, a dire il vero era quasi alle lacrime, i libri di testo costavano moltissimo, anche quelli usati, e la prima cosa che Felice-Marie e Birk le dissero fu Ehi non preoccuparti, probabilmente da noi abbiamo un po' di questi libri, c'è una biblioteca, potrai usare quelli. Parlò della casa "meravigliosamente vecchia" che un tempo era la locanda Kilburn e "risaliva all'epoca delle diligenze". Le serre che erano
state riportate in condizioni quasi perfette, i peri nel frutteto, i prati, il terreno fertile. «Mamma ne andrebbe pazza.» Parlò dei soci della cooperativa, al momento ventitré, diciotto dei quali vivevano nella casa. Avevano un unico conto corrente, mettevano in comune le risorse finanziarie, e se lavoravano all'esterno della cooperativa (come a volte faceva Marianne, che metteva in ordine i volumi della biblioteca universitaria) gestivano in comune anche quei guadagni. Green Isle era sinonimo di "regole d'onore". Green Isle era un'"oasi comunitaria nel deserto americano del consumismo capitalista" (parole di Abelove, citate con reverenza). Nei cinque anni da quando la cooperativa era stata fondata da Abelove, aveva acquisito un'eccellente reputazione a livello locale, e una clientela fedele per il negozio. In effetti, la stessa università era tra i loro clienti: Abelove aveva concluso un contratto con il settore forniture alimentari del college. Patrick soffocò l'istinto Pizzicotto e chiese di Abelove con fare casuale, cortese. E naturalmente Marianne parlò a lungo, calorosamente; descrisse quella "meravigliosa, altruista" persona con un "meraviglioso, dolce senso dell'umorismo"; musicista (chitarra, banjo); artista (sculture in argilla); agricoltore biologico (niente fertilizzanti artificiali o insetticidi); ma più di tutto un intellettuale, un teorico con dottorati in psicologia e antropologia. Abelove era un ex assistente della Kilburn disilluso dal "conformismo da camicia di forza" del mondo accademico; aveva lasciato l'università per fondare la Green Isle Co-op, una visione tutta sua che aveva partorito quando, da adolescente idealista, era andato in tenda da solo sul monte Katahdin, che si trova da qualche parte nel Maine. Patrick la interruppe per chiedere: «Quanti anni ha questa persona?». «Quanti anni ha? Non saprei. Sulla trentina o poco più, penso.» «Secondo me non è riuscito a ottenere un incarico fisso alla Kilburn. Per questo ha "lasciato il college". E dove ha ottenuto i suoi "dottorati", lo sai?» Marianne si tirò i capelli, cercò di ricordare. «Boston o dintorni, mi pare.» «Harvard?» La domanda aveva un tono molto lieve, ironico. Marianne non se ne accorse. «Sì, credo. Almeno uno. Però Abelove non ama parlare di se stesso. Si sanno certe cose di lui... se ne parla molto perché tutti lo ammirano... ma è raro che lui parli di sé.» Patrick chiese, rigido: «Green Isle non sarà un ridicolo centro di culto, eh? E Abelove non sarà un guru megalomane?».
«Oh, Patrick, no.» Patrick si succhiò il labbro inferiore. Harvard, e come no! Dubitava fortemente di un dottorato a Harvard. «Ma c'è di mezzo una religione? "Venerate" tutti assieme?» Marianne assunse un tono ferito. «Sai che io ho la mia religione, Patrick. Frequento una deliziosa chiesetta di Kilburn. A dire il vero è fuori Kilburn di qualche chilometro. La Chiesa degli Apostoli. I fedeli sono persone di campagna. Mamma adorerebbe il reverendo Hooker e sua moglie, una donna in stile "spirito libero", proprio come mamma in effetti. Ci...» Patrick la interruppe. «Marianne, cos'è successo ai tuoi corsi nell'ultimo semestre? Sei alla Kilburn per studiare e laurearti, no? Non per lavorare in quella cooperativa come una serva senza contratto.» «Ma devo dare una mano, se ci sono emergenze» ribatté Marianne, implorante. «È successo così all'improvviso. La povera Aviva ha avuto una specie di crollo. È scomparsa di casa, non sapevamo dove fosse finita, almeno all'inizio. Mi sono offerta volontaria per rilevare i suoi incarichi, e avevo già i miei, e i corsi è chiaro, e poi, be', le cose si sono complicate.» Fece una pausa, sorrise a Patrick; sedeva con le gambe raccolte sotto di sé, in quella che non doveva essere una posizione molto comoda. «Ho fatto solo quello che avrebbe fatto chiunque, Patrick, nelle medesime circostanze.» Patrick passò sopra. «Stai frequentando quei corsi adesso? In questo semestre?» «Non esattamente.» «Cosa significa? No?» Marianne abbassò la voce. «Mi iscriverò ai corsi estivi, tra due mesi circa. All'università sono stati molto comprensivi.» «Insomma al momento non segui le lezioni?» «Be', no. Non ho avuto tempo, con tante...» «Hai lasciato l'università? Dio, Marianne!» «Non ho lasciato. Non ti ho appena detto che mi iscriverò ai corsi estivi? Perché sei così arrabbiato, Patrick? Io non mi arrabbio con te.» «Aspetta. Per ora quei corsi sono segnati sul tuo libretto come insufficienze, giusto? Se non li stai seguendo.» Marianne restò zitta, si tirò i capelli. Patrick emise un profondo sospiro. Si tolse gli occhiali, si fregò gli occhi con energia. Ma che senso aveva arrabbiarsi? Non interferirei con tua sorella. Fossi in te.
Strano, pensò. Lui, Patrick Mulvaney, era il fratello di quella giovane donna; erano fratello e sorella sin dall'inizio delle loro esistenze coscienti; possedevano un legame genetico superiore a quello che l'uno o l'altra avessero con i genitori. Però lui riteneva di conoscere ben poco Marianne. La amava, ma la conosceva poco. I membri di una famiglia che hanno vissuto assieme nella surriscaldata intensità della vita familiare si conoscono poco. È una vita troppo diretta, a distanza troppo ravvicinata. È quello il paradosso. La contorta realtà che lascia perplessi. L'esatto contrario di ciò che ci si aspetterebbe. Perché ovviamente non stai mai a pensare a quei rapporti, mentre li vivi. Pensare, formulare pensieri, è una funzione della dissociazione, della distanza. Non puoi utilizzare la memoria finché non ti sei allontanato dalla fonte della memoria. L'immagine di una ragnatela spezzata, lucida e appiccicosa sulle sue nocche, si presentò alla mente di Patrick. Mentre camminava nell'erba alta dietro la stalla dei cavalli. Quando vedi una ragnatela in quel modo è troppo tardi. Non è più una ragnatela. Era tardi, le dieci passate. Non tardi in base ai consueti orari di Patrick, però la sensazione era che fosse tardi: la visita di Marianne aveva rubato tanta energia a entrambi. Eppure, imprevedibilmente, Marianne balzò giù dal divano e disse di avere una sorpresa per Patrick che aveva quasi dimenticato; anzi, due sorprese. Aveva portato il dessert da Kilburn, crostatine al limone, un'altra delle sue specialità. Patrick sostenne di non avere fame ma finì per mangiare tre tortine. Marianne piluccò la sua, mandò giù briciole e si leccò le labbra. La sua carnagione pallida brillò quando Patrick le fece i complimenti. «Non hai mai preparato niente del genere a casa, eh? Straordinarie.» E aveva un mazzo di fotografie di High Point Farm che Judd aveva scattato per lei e le aveva spedito a Pasqua. Foto di famiglia dei Mulvaney! In un momento simile. Patrick deglutì nervoso. Lo inquietava la prospettiva di guardarle con Marianne, ma come poteva rifiutare? Quelle istantanee di famiglia lo avevano sempre affascinato. Le uniche che lo facevano sentire a proprio agio erano quelle scattate da lui stesso: il fatto che lui, Patrick, non fosse presente nella foto aveva una ragione, una logica. Qualunque foto ritraesse anche lui rivestiva ovviamente un intenso interesse; anche se di solito, essendo vanitoso, e ai propri occhi bello, vedersi magrolino accigliato quattr'occhi gli ispirava il desiderio di strac-
ciarle; però una fotografia che non lo includesse scatenava un'ansia anche maggiore. Io dove sono? Non sono nato? È successo tutto senza di me? Si chiedeva se esistesse una regione del cervello, nella corteccia cerebrale, in particolare nella corteccia visiva sul retro del cervello, preposta a registrare ansia metafisica di fronte a quelle assenze. Quanto vicino siamo giunti, tutti quanti, a non nascere mai. Da quale insondabile infinità di possibilità esce l'esigua probabilità di un solo uovo fertilizzato da un solo spermatozoo. Era una cosa che Patrick non voleva prendere in considerazione. La ventina di Polaroid, scattate da Judd nell'arco delle ultime settimane, escludeva sia Marianne che Patrick, ovviamente. E Mike, che adesso era nei marine. Le dita di Patrick le strinsero a una a una, sudate e tremanti e Marianne, che senza dubbio le aveva già guardate un centinaio di volte, sospirava e si asciugava gli occhi. Esclamava di continuo: «Guarda! Oh, Patrick, guarda qui...» davanti a cose familiari ormai poco familiari, esotiche. C'era Troy con il muso stretto, intelligente, piegato in un modo strano, e fulgidi occhi marroni; c'erano due gatti sonnolenti maestosamente sdraiati su una delle coperte di mamma. «Non sapevo che Palladineve ed E.T. potessero andare tanto d'accordo, e tu?» commentò Marianne, come fosse un'immane rivelazione. C'era mamma, l'indomabile mamma, che faceva il clown nel portico sul retro in un vecchio giubbotto scozzese di Mike, stringeva in mano una stalattite di ghiaccio lunga una quindicina di centimetri che pendeva dal tetto e sorrideva all'obiettivo; sovraesposta nella luce del tardo inverno, mostrava rughe dure attorno alla bocca. Un'altra immagine di mamma in cucina, apparentemente ignara della macchina fotografica, impegnata in una vivace conversazione con Piumotto, una chiazza gialla nella gabbia. E poi papà a sua volta ignaro dell'obiettivo, a testa nuda, ingrigito, nel soprabito di cammello, visto attraverso una finestra della cucina mentre stava per salire sulla nuova automobile dei Mulvaney, d'argento scintillante. («Un'auto nuova? Credevo che la Mulvaney Tetti e coperture avesse problemi finanziari» aveva protestato Patrick con Corinne, al telefono, quando lei lo aveva informato che suo padre aveva concluso un affarone acquistando una Lincoln Continental del 1975 di seconda mano da un venditore d'auto di New Canaan che gli aveva commissionato un lavoro. «Lo sai che furbone è tuo padre. Mi ha fatto un'offerta che non ho potuto rifiutare.») C'erano bigi panorami di fine inverno fotografati dalla finestra della camera da letto di Judd, con le stalle, la banderuola, il monte Cataract in lontananza; interni di High Point Farm, un soggiorno deserto e
stranamente lungo, la scala ingombra di cianfrusaglie vista dal primo piano, con Stivaletti che guardava in su speranzoso al lampo del flash. E, nel suo box, il piccolo cavallo di Judd, Trifoglio, colto mentre mangiava, con il fieno che fuoriusciva dalla bocca umida. Gli altri cavalli non c'erano più, restava solo Trifoglio. Marianne lo sapeva? Ma certo, pensò Patrick, deve saperlo. Molly-O non c'è più. Molly-O, Prince, Rosso. La nostra infanzia. Nessuno dei due parlò dei cavalli. Una delle istantanee era di Blackie e Mamie, la bella coppia di capre, nel loro recinto: quanto erano perplesse le loro espressioni allo scatto della macchina fotografica. Un'altra, confusa, mostrava diverse mucche al pascolo in riva allo stagno. Un'altra era di mamma colta davanti a casa, da una finestra della cucina, in conversazione con... poteva essere papà? in giacca cachi? no, probabilmente uno dei lavoranti, forse Zimmerman che viveva più giù sulla strada. Patrick passò da una foto all'altra con un senso d'allarme sempre più forte. Il suo occhio sinistro dolorava. Mancava qualcosa, qualcuno. Asciugandosi gli occhi, Marianne disse, come se Patrick avesse parlato: «Vorrei che Judd avesse chiesto a mamma di scattare una foto a lui. È tutto così...». Una pausa: non sapeva che cosa volesse dire. «Strano e triste senza di lui.» Senza di noi, pensò Patrick. Senza tutti noi. Ma non aprì bocca. L'occhio sinistro lacrimava abbondantemente. Ovviamente portava gli occhiali, tirati all'insù sul naso delicato. Vide che Marianne tremava; pallida di tensione e spossatezza. Perché non metteva via le foto? Perché le aveva portate? Credeva che lui fosse ossessionato dai Mulvaney quanto lei? A bassa voce, Marianne disse: «Anch'io sono rimasta delusa che non ce ne fossero altre di mamma e papà. Judd non ha scattato nemmeno una vera foto di papà». Strano sulle sue labbra esangui: papà. Papà, papà. Chi è il tuo papà? Un padre è sempre un papà? Papà è un padre? Papà è un papà, o soltanto un padre? Patrick disse brusco: «Che parola ridicola, papà. A pensarci bene, tu l'hai mai sentita?». Rise, un suono secco come di un ramo che si spezza. Marianne stava rimettendo le foto nella busta, lentamente. «Patrick, io credo che papà mi farà tornare a casa presto.»
Patrick non era certo di avere sentito bene. Non chiese a Marianne di ripetere quelle parole. Marianne si mise a parlare, in modo non del tutto coerente, dell'ultima volta che Corinne le aveva telefonato, la domenica di Pasqua, di sera. Aveva chiamato alla cooperativa e proprio Marianne aveva risposto, che sorpresa, che meravigliosa sorpresa rispondere agli squilli di un telefono pensando Non può essere per me, non sarà mai per me, con una consapevolezza tranquilla, pacata, che non turba affatto, ed era Corinne, era mamma! Con un'aria appena percepibile, Marianne disse: «Abbiamo parlato a lungo. Quaranta minuti! E prima di riappendere, così, di colpo, mamma ha detto "Se papà fosse a casa adesso, Marianne, credo che forse gli farebbe piacere parlare con te". Non sapevo cosa dire, ero così... spaventata. Mamma ha chiesto: "Marianne, mi senti?" e le ho risposto di sì e lei ha detto: "Può darsi che sia la Pasqua o può darsi che sia semplicemente il momento giusto. Magari non dovrei dire certe cose, sto solo tirando a indovinare, ma è quel che penso". Così ho chiesto se potevo richiamare più tardi, quando papà sarebbe stato in casa. A che ora dovevo chiamare? E mamma si è messa a piangere, credo che piangesse, e anch'io piangevo...». Marianne rise, scosse la testa. Nei suoi occhi infossati brillavano lacrime. «Oh, Patrick, è stato così meraviglioso. Non sono riuscita a dormire per tutta la notte.» Patrick pensò: Non dire una parola. Si alzò, e quasi rovesciò la sedia. Marianne indietreggiò, vedendo qualcosa di terribile nei suoi occhi. «Papà! Come puoi chiamarlo papà! È cieco, egoista. È crudele. È pazzo. Il modo in cui ti ha trattata... Pazzo! Perché pensare a lui, o a lei? Lasciali perdere!» Uscì in un vortice dalla stanza, andò in camera da letto, alla cieca, senza sapere cosa stava facendo, incapace di credere alla propria ira. Era esplosa così all'improvviso, spuntata da dove? Si vergognò di se stesso all'istante. Perché spaventare Marianne, sua sorella? A quale scopo dirle cose simili? Dirle a lei, la vittima di quella cosa schifosa. Una terrificante possibilità si presentò alla sua mente: le nostre vite non sono nostre, altri le posseggono, i nostri genitori. Le nostre vite sono definite da voglie, capricci, crudeltà di altri. La rete genetica, i legami di sangue. La più antica maledizione, più antica di Dio. Sono amato? Sono desiderato? Chi mi vorrà, se non mi vogliono i miei genitori?
«No. Stronzate!» Regnava un grande silenzio. Pochi in quella casa ascoltavano musica, di rado si sentivano le conversazioni. Non c'era nemmeno l'incessante gemito del vento di High Point Farm. Patrick, scosso dai tremiti, crollò a sedere sul letto, sul materasso basso, gibboso; si tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi. Cercò di calmarsi. Non era il tipo che cede alle emozioni. Non era successo poco tempo prima che una ragazza lo aveva definito freddo come il ghiaccio e quelle parole gli avevano dato un fremito? Accidenti a te, Pizzicotto, perché interferire? Tua sorella ha Gesù Cristo. Non ha bisogno di te. Come lo aveva fissato Marianne, quando si era messo a urlare. Indietreggiando, facendosi piccola piccola. Il mazzo di fotografie era scivolato sul pavimento e lei non se n'era accorta. Aveva pensato di farla dormire nel suo letto, nella sua stanza; lui si sarebbe sistemato sul divano, per quanto scomodo potesse essere. Aveva cambiato le lenzuola, sprimacciato l'unico cuscino, che era di piume d'oca e veniva da casa. La stanza era poco più larga di un ripostiglio, c'era appena spazio per un letto, un cassettone, uno sgabello di vimini che aveva portato da casa, azzurro uovo di pettirosso. Sapeva di umidità, e di sera: aveva lasciato la finestra socchiusa di diversi centimetri. Quasi si aspettava che Marianne bussasse timidamente alla porta, ma non lo fece, e dall'altra stanza non giunse alcun suono. Patrick uscì e scoprì che sua sorella era appisolata sul divano, le braccia riverse, con la testa che cadeva in avanti e ondeggiava. La pelle del viso era bianca come cera e tesa come pelle di tamburo. La bocca era aperta, le palpebre sussultavano. Ma certo, la povera Marianne era esausta. Aveva viaggiato ore sull'autobus, aveva dovuto aspettare Patrick in stazione, aveva preparato la cena, sparecchiato e lavato i piatti; aveva sopportato per tutta la sera i discorsi pieni di sé del fratello. Alla fine, Patrick andò a recuperare la trapunta di Corinne, la tolse dal nascondiglio. Perché no? Teneva caldo, era bellissima, emanava il lieve profumo del pot-pourri di fiori secchi che Corinne metteva nei cassetti di casa, come una benedizione segreta. Coprì Marianne con la trapunta, gliela aggiustò attorno alle spalle. Spense la luce ma restò un po' a guardarla nella luce fioca che filtrava dall'altra stanza, come per farle la guardia. Il mazzo di fotografie era al suo fianco sul divano. Come poteva rimettere sua sorella sull'autobus Trailways alle 17.20 del giorno dopo? Come poteva abbandonarla a qualunque cosa ci fosse alla Green Isle Co-op di Kilburn? Eppure sapeva che lo avrebbe fatto.
Non hai scelta ordinò Pizzicotto a se stesso. Hai la tua vita. Il cacciatore Mio fratello Patrick vide per la prima volta la xilografia tedesca Il cacciatore quando aveva undici anni, frugando nella scatola di cose che mamma aveva portato a casa dall'asta di una fattoria della valle. Erano i giorni in cui noi ragazzi scavavamo contenti tra i "tesori" di mamma, e se qualcosa ci piaceva in maniera particolare, lei prometteva di non venderla. A volte ci portava con sé a mercati delle pulci, svendite, negozi dell'usato nella valle, persino alle aste. Per anni nei sabati d'estate si partiva, senza papà e di rado con Mike, ma sempre mamma, Patrick, Marianne e me. Non c'è nulla di più eccitante di un'asta, almeno per un ragazzino e per gente come mia madre che sia stata "contagiata dal morbo". Un banditore professionista che si muove su un palco, armato di microfono o megafono, con una voce rimbombante da predicatore di vecchio stampo, è capace di stuzzicare il vostro interesse per le cose più bizzarre, oggetti che non degnereste di una seconda occhiata in un milione di anni, solo che lui li ha scelti: una vecchia lavatrice manuale a manovella, per esempio, un velo nuziale ingiallito e stracciato di sessant'anni fa che scambiereste per una zanzariera solo che, per usare le parole del banditore, è una rarità di antiquariato americano autentica al cento percento. Un banditore astuto sa spingere la gente a combattersi a colpi di offerte, tanto che a volte quasi non importa più di quale oggetto si tratti, sei preso in una guerra di rilanci che può crescere come un incendio in una foresta. Venti dollari ho venti dollari ho sentito venticinque? ho sentito venticinque? Lui scruta il pubblico ed ecco alzarsi all'improvviso una mano. Venticinque! Ho venticinque ho sentito trenta? ho sentito trenta? Signore e signori ho sentito trenta? Uno, due... Ah, trenta! Ho sentito trenta! Per questo magnifico pezzo d'antiquariato americano ho sentito trenta! Ho sentito trentacinque? Ho sentito trentacinque? Signore e signori, ho sentito trentacinque? Eccetera. L'estate in cui avevo sei anni, mamma mi portò all'asta di una fattoria di Milburn e tra i vari pezzi c'era un cavallo a dondolo palomino, e io chiesi se potevo averlo, e mamma rispose che avremmo visto, così quando iniziarono le offerte mamma alzò per me la mia mano sussurrandomi Forza, Judd! Fagliela vedere, Piccolo! e di colpo mi trovai a gareggiare in un'asta! Il banditore sorrise nella nostra direzione, accettò la mia offerta e pro-
seguì; il prezzo balzò da 20 a 35 dollari in pochi secondi, e mamma alzò la mia mano per me un'altra volta, e un'altra volta il banditore accettò la mia offerta, adesso il cavallo a dondolo era a 40 dollari, nella folla ci sarà stata una decina di persone che facevano offerte per quel pezzo ma la cifra continuò a salire, 45 dollari, 50, 65, tutti si ritirarono tranne un'antiquaria di Yewville, una donna che mamma conosceva come cordiale rivale, e il sottoscritto, un Judd Mulvaney di sei anni alla sua prima asta. Quando il banditore latrava Ho sentito...? Ho sentito...? uno di noi due alzava la mano, finché, più in fretta di quanto il cervello avesse il tempo di recepire, la quotazione del cavallo a dondolo arrivò a 80 dollari, un'offerta mia. Mamma mi sussurrò all'orecchio e io feci scattare la mano in aria e la nostra "cordiale rivale" restò muta e immobile. Avevo vinto il cavallo a dondolo palomino! O almeno, ebbi la sensazione di avere vinto, una specie di ansiosa euforia. Mamma mi abbracciò e persone sorridenti sedute attorno a noi mi strinsero la mano. Avevo vinto! Quando portammo a casa il cavallo a dondolo e papà lo ispezionò, non sembrò quella grande meraviglia. Molta vernice si era scrostata e il legno era infestato di tarli, per cui la prima volta che provai a cavalcarlo il quarto posteriore sinistro si staccò. «Ottanta dollari per un ammasso di robaccia» commentò papà, scuotendo la testa sconsolato. Mamma difese il nostro operato dicendo che era stato un eccellente addestramento per un bambino. «Imparare a contrattare per quello che vuoi nella vita e a non lasciarti intimidire dagli altri.» Papà disse: «Certo, se quello che pensi di volere è davvero quello che vuoi. Non solo una merce impestata di tarli che qualcuno spera di affibbiare a un gonzo». Muso lungo e strizzata d'occhio a noi figli. Va bene! Mi arrendo. Vostra madre è pazza ma io la amo. Mi arrendo. Mentre crescevo, High Point Farm continuò a riempirsi di "tesori" che mamma aveva promesso di non vendere mai. Oppure se n'era innamorata lei stessa e non poteva venderli. Soprattutto orologi, di ogni tipo (mamma si definiva "pazza per gli orologi") ma anche bizzarri pezzi di servizi da tavola (una ceramica Colt Willow, reperto d'antiquariato americano del 1880 circa, era uno dei preferiti), acquerelli con i paesaggi della "zona di Chautauqua" di inizio secolo, porcellane Wedgwood spaiate, carillon che emettevano melodie gracchianti, rugginose (Tre topolini ciechi era la mia preferita), specchi che dai propri abissi rimandavano sottili distorsioni prospettiche. E ogni tipo di manuali ammuffiti e apparentemente utili: Le me-
raviglie delle farfalle, Vivere con i cavalli, Restaurare pezzi d'antiquariato per divertimento e profitto, Vado pazzo per i gatti! Quarant'anni di bird watching: un diario, L'agricoltura biologica per tutti, Astuzie canine II, Come migliorare il tuo vocabolario 365 giorni l'anno, Rimedi casalinghi: Il manuale della salute familiare del 1957. Marianne amava soprattutto le miniature: orologi in ceramica con quadranti dipinti a tocchi soavi e scampanii quasi impercettibili, bambole di porcellana, una casa di bambola in stile revival gotico, fermacarte in vetro e statuette. Patrick preferiva le carte geografiche, un mappamondo Atlas (copyright 1938), volumi spaiati dell'Encyclopaedia Britannica e Information Please!; un set di scacchi in avorio a cui mancavano solo pochi pezzi, una lente d'ingrandimento, una finta anatra da richiamo in legno, finemente intarsiata e ormai del tutto priva di vernice, una radio a batteria che funzionava a intermittenza. Nella sua stanza all'ultimo piano, con gli anni, entrarono e uscirono decine di vecchi oggetti, perché Patrick era difficile da soddisfare e anche volubile. L'istinto Pizzicotto era portato ad accettare quanto a rifiutare, e quando partì per la Cornell restavano solo pochi "tesori": un alto cassettone di ciliegio, lo sgabello di vimini azzurro uovo di pettirosso che faceva parte di un set dipinto da mamma e sparso per casa. Per molto tempo Il cacciatore rimase appeso alla parete a fianco della scrivania di Patrick e quando, all'ultimo anno di liceo, lui lo tolse di lì non lo buttò ma lo ripose in un armadio. Crescendo, se n'era distaccato, ma non era pronto a separarsene. Il cacciatore era la copia di una xilografia. Misurava circa trenta centimetri per quaranta, in una cornice di legno crepato, un vero affare sosteneva mamma, solo due dollari e novantanove! L'immagine era complessa, sorprendentemente minuziosa nei dettagli; sembrava molto reale. Ora potrei dire che l'ignoto artista sia stato influenzato da Dürer. C'era lo stesso tipo di intensità ad alto voltaggio, la stessa concentrazione nervosa. Cacciatore e preda attiravano l'occhio come una narrazione pronta a esplodere nell'azione, non come una semplice immagine statica da appendere al muro. Patrick non era Mike, non gli interessava possedere un fucile, però era affascinato dalla giovane figura del cacciatore su un rilievo roccioso, il fucile puntato contro un montone poco lontano, sul rilievo opposto. Il disegno era stato eseguito esattamente un attimo prima che il cacciatore premesse il grilletto, o così sembrava. Ma il cacciatore avrebbe davvero sparato? O forse stava solo ammirando il bell'animale, sul punto di cambiare idea e abbassare l'arma? Non sparare! veniva voglia di urlare. Era quel tipo di disegno: più lo studiavi, come faceva Patrick, distraendosi accigliato dai
compiti, più diventava un enigma. Il giovane cacciatore era biondo, senza barba, senza cappello, nell'abbigliamento semplice di un'epoca scomparsa; il montone era una magnifica bestia coperta da riccioli di lana nera, corna magnificamente arcuate, testa eretta. Cacciatore e montone erano definiti nella stessa maniera, ritratti nei minimi dettagli, all'incirca nell'identica posizione. Senza dubbio l'artista voleva rappresentarli come una sorta di gemelli, entrambi figure eroiche, molto virili. No, non sparare! veniva voglia di urlare. Ma la tensione era palpabile, quasi insopportabile. Ma c'era altro, molto altro da vedere nel Cacciatore. Il cielo era leggermente cosparso di nubi. Le cime montuose (le Alpi?) erano circondate da brandelli di nuvole. In primo piano, minuziosamente reso, un paesaggio boschivo, un bacino d'acqua che rifletteva la luce e alti giunchi, erba, felci. A guardare con molta attenzione, come mi aveva fatto notare Patrick, si poteva scorgere nell'angolo in basso a sinistra, non vista dal cacciatore, una lepre accucciata. E anche la lepre era così ben definita, così viva, da spingere a chiedersi quale fosse il punto di vista dell'artista: la vita nascosta e tremante, non individuata, che richiedeva pazienza e intelligenza per essere notata, finiva con il restare invisibile? Non appena ebbe scoperto Il cacciatore tra le cose di mamma, Patrick capì che doveva averlo. Chiese a mamma che cosa fosse e lei gli disse che per quanto ne sapeva era una xilografia tedesca. «A quanto pare, tutte quelle cose sono tedesche.» Esaminò il pezzo sul davanti e sul retro. Probabilmente solo una copia da poco prezzo prodotta in grandi quantità, una via di mezzo tra la vera arte e il kitsch, ma mamma non avrebbe mai denigrato qualcosa che aveva portato a casa. Patrick usò la lente d'ingrandimento per scoprire la data 1879, numeri sottili come capelli tra l'erba in primo piano. Per lui, Il cacciatore era vera arte. O, forse, qualcosa di più. Fu dopo la visita di Marianne a Ithaca, nell'aprile 1978, che Patrick cominciò a pensare alla xilografia. Era certo di non averci pensato per molto tempo. Come accade di ricordare, bruscamente, nettamente, un frammento del sogno della notte prima con la luce del giorno, ma già mentre lo ricordi prende a svanire. Non sapeva nemmeno di preciso dove fosse Il cacciatore, di quello era certo. Riposto da qualche parte a casa. In un armadio, in soffitta. Oppure lo
aveva portato nella bottega d'antiquariato di mamma e glielo aveva restituito? Non gli pareva. Ma non era sicuro. Romanticismo sdolcinato. Ovvio, era kitsch. Nobili figure stagliate contro il cielo. Il giovane cacciatore di un biondo germanico, il bel montone nero. Un giovane maschio cacciatore, guerriero, uccisore. Poco da meravigliarsi che la xilografia fosse eccitante, anche se rifiutavi la caccia come presenza atavica, residuo di comportamenti primitivi, crudele, spregevole, tutt'altro che pratica in termini contemporanei. Anche se temevi che il grilletto venisse premuto, se volevi che il montone si destasse dalla trance e schizzasse via, mettendosi al sicuro. Patrick sedette alla scrivania e guardò dalla finestra uno spazio a cui non sapeva dare nome che si andava colmando di una luminosa luce dorata. Ai lati di Cook Street c'erano alberi che mettevano i germogli, profumati e avvolti da nubi di polline. Era lì, a Ithaca, nella sua nuova vita; e, stranamente, era anche là, nel posto a cui non sapeva dare nome. Sono codificato anch'io per cacciare? Per uccidere? È la mia eredità di Homo sapiens maschio? Rise. Stronzate. Aveva vent'anni, non undici. Non viveva più a High Point Farm e non ci sarebbe mai più vissuto. Plastica Perché? Sperava di essere più normale. O almeno ciò che passava per normale nella sua generazione. In America, alla fine degli anni settanta. Era un esperimento, all'incirca. Un'immersione nel normale. Quando Patrick mi telefonò per dirmi che cosa voleva fare, con quel suo tono che non permetteva mai di giudicare se facesse sul serio o no, all'inizio non riuscii a crederci. Mi chiesi se fosse un altro scherzo balordo alla Pizzicotto. Non che Pizzicotto si prendesse più il disturbo di scherzare molto con me, anzi quasi non trovava il tempo di chiamare casa. Adesso era uno studente del terzo anno alla Cornell e io ero un sedicenne al secondo anno del liceo di Mt. Ephraim. (Era l'ottobre 1978. Papà, mamma e io quasi non avevamo visto Patrick in estate. Non ce n'eravamo ancora andati da High Point Farm, anzi nemmeno prendevamo in considerazione una mossa tanto disperata, per quanto ne sapevo. Certo, avevo paura: vendere la casa poteva essere il passo successivo. Tranne quattro acri, tutto il terreno della fattoria era stato venduto o affittato a lunga scadenza e quasi
tutte le mucche vendute e dei cavalli che avevamo amato restava solo il mio Trifoglio e i profitti della Mulvaney Tetti e coperture continuavano a diminuire. Ma che cosa progettassero in segreto, preoccupati, i miei, non lo sapevo.) Così Patrick chiamò per dire: «Indovina un po', Ranger. Venerdì prossimo vado a un concerto rock. La mia prima volta». E io risi: «E dài, P.J.! Stai scherzando». «No. Sono maledettamente serio.» Mi chiese se avessi mai sentito parlare di un gruppo che si chiamava Plastica e gli risposi che sì, tutti conoscevano i Plastica. «Ma non ti piacerà il loro sound.» Scossi la testa immaginando le smorfie sul viso snob di mio fratello mentre la musica dei Plastica gli si riversava addosso, il suo contorcersi sul suo posto fino a non poterne più ed essere costretto a scappare, con le mani sulle orecchie. Risi dicendo: «Be', buona fortuna». Patrick non apprezzò la risata, penso. Si arrabbiò. «È un esperimento, faccio sul serio. Vai all'inferno!» E riattaccò. Così! Pensate: Se non fosse andato a quel concerto rock, se non avesse visto chi gli sembrò di vedere. Tutto ciò che seguì a quella notte, il disperato comportamento criminale di mio fratello, e la mia complicità, non si sarebbe mai verificato. Questo, credo. Ma il 25 ottobre 1978, Patrick Mulvaney andò a sentire il gruppo rock dei Plastica che si esibì al campus della Cornell, con un clamoroso tutto esaurito di seimila spettatori. Molti dei fan erano ubriachi o fatti, o entrambe le cose, e anche Patrick era moderatamente sbronzo. Ruttava birra ed era seriamente deciso a divertirsi. Perché quella era, tra le tante, una cosa normale: il desiderio di un giovane maschio sano di divertirsi in mezzo a un vibrante, ribollente, estatico alveare di esemplari simili a lui. Nell'adattamento delle specie all'ambiente è il normale a sopravvivere, a trasmettere il DNA alla generazione successiva. Il normale prospera. Il normale entra nel regno dei cieli. Alcuni pensieri e sogni ossessivi degli ultimi mesi cominciavano a spaventare Patrick, e persino a distrarlo dal lavoro. Forse il punto era quello: aveva bisogno di essere normale. Non di sentirsi solo in colpa per Marianne. Perché provava sensi di col-
pa, abbondanti sensi di colpa, per lei. Poche settimane prima, una ragazza che a Patrick piaceva, una ragazza che ammirava, gli aveva detto che era "freddo come il ghiaccio". Dapprima ne era stato lusingato. Leggermente ferito ma lusingato nel suo ego maschile. Però più tardi, quando naturalmente ci aveva ripensato, e ci aveva ripensato parecchio, non si era più sentito tanto lusingato. È solo il modo di fare di Patrick. A casa si beava della propria reputazione: il Mulvaney che per qualche verso non era un Mulvaney, proprio così. Ma ora non ne era più tanto certo. La ragazza si chiamava Ariette. Aveva tre anni più di Patrick, una laureata che studiava per il dottorato in biologia e che lui rispettava quanto le persone migliori che conoscesse, e di certo, protestava dentro di sé, non era mai stata sua intenzione offenderla. Non aveva voluto ferirla o deluderla. Solo che adesso, con dispiacere, nella facoltà di biologia, in biblioteca, spesso per strada, vedeva con che fretta lei distogliesse lo sguardo, come se il suo profilo si irrigidisse. Non parlare con me. Non chiamare il mio nome. Ariette aveva cominciato a innamorarsi, e lui aveva frainteso? O non aveva voluto capire? Lontano da lei, cominciava a sua volta a sentirsi attratto; o forse era attratto dall'idea di lei. No, Patrick riteneva di volere proprio lei. Se solo tra loro fosse stato possibile più rilassamento, più risate, non tanta severa consapevolezza di sé! Toccandola, Patrick si sentiva pervaso da sentimenti di tenerezza, d'ansietà; pensava sempre a Marianne, al corpo violato, ferito di Marianne. Non voleva fare del male a nessuna ragazza, giusto? Mai. Ma come puoi toccare, come puoi fare l'amore, senza il rischio di ferire? Meglio non pensarci. Concentrati sul lavoro, dopo tutto sei all'università per questo. Ma come poteva non pensarci? Ariette era reale; per quanto lo evitasse, esisteva. Era una di quelle brillanti ragazze portate alla scienza che sono a un tempo schiette e timide; piuttosto nervosa in compagnia, con la tendenza, come Patrick, ad accigliarsi più che a sorridere. Avevano avuto lunghe eccitanti conversazioni dopo le lezioni di Herring (Ariette era andata alla Cornell proprio per studiare con Herring) ed erano usciti diverse volte e infine si erano toccati, certo con impaccio; si erano persino baciati, in via sperimentale, a quanto sembrava. Labbra così fredde e strette! Una tale consapevolezza di sé! Occhi chiusi in una specie d'orrore! Era evidente che
nessuno dei due aveva molta esperienza di quel tipo di cose. Le avventure romantiche non erano state il loro forte al liceo. A ventitré anni, Ariette sarebbe potuta essere una quindicenne. Osando molto, aveva invitato Patrick nel proprio appartamento di Quarry Street e gli aveva preparato una cena che lui aveva mangiato di gusto, e con gratitudine. E dopo, quando la loro conversazione aveva cominciato a languire... oh, il viso di Patrick avvampava al ricordo! Quanto avrebbe riso di lui Mike, della timidezza che non gli lasciava prendere l'iniziativa. Perché era troppo intimidito dal corpo femminile. Come un animale che si è allontanato da un territorio sicuro senza rendersene conto, Patrick si era lasciato prendere dal panico ed era scappato. «Freddo come il ghiaccio» lo aveva poi definito Ariette. Era una giovane intellettuale, laureata alla Barnard. Se voleva vendicarsi di lui, un ragazzo che apparentemente l'aveva rifiutata, doveva essere una vendetta di tipo intellettuale. Aveva battuto a macchina per lui un aforisma di un anonimo e glielo aveva infilato nel suo armadietto al laboratorio. Così freddo, così gelido, che su di lui le dita si bruciano! Qualunque mano lo tocchi avverte una scossa. Per questo qualcuno pensa che lui sia incandescente. Come no, lusinghiero. Un'attribuzione di grande importanza al vecchio Pizzicotto che in segreto se ne attribuiva pochissima. Da qui, la speranza di essere normale. Come diceva Mike, e papà ai vecchi giorni quando era allegro, sempre simpatico: Perché no? Per il gusto di farlo? Come aveva detto a Judd (si sentiva vicino a Judd anche se gli telefonava di rado) era un esperimento. Patrick Mulvaney si sarebbe comportato in modo normale e forse così avrebbe distolto la mente da altre cose che cominciavano a distorcergli i pensieri nello stesso modo in cui un bastone immerso nell'acqua appare distorto: sai che non lo è, però lo sembra. Quindi: il primo atto normale fu mettersi in fila, una fila sorprendentemente lunga, con altri studenti sconosciuti che volevano comperare un biglietto. Studiare i lividi manifesti psichedelici che urlavano PLASTICA! e in parte lo divertivano, in parte lo ripugnavano. Poi, sborsare venti dollari per un biglietto. Di un concerto rock! Patrick Mulvaney! Che ascoltava quartetti d'archi, trii di strumenti a fiato, suonate per pianoforte sulla stazione locale di musica classica, se e quando ascoltava musica. Di solito non lo faceva, lo distraeva dal lavoro. Dal suo progettare, da-
gli instancabili calcoli. Che informazione essenziale mi manca per vivere la mia vita come andrebbe vissuta? A calmare Patrick Mulvaney era la riflessione che tutto ciò che poteva essere, tutto ciò che sarebbe mai potuto essere, era già codificato nei suoi geni, e lo era dall'istante del suo concepimento; un insieme di geroglifici per lui illeggibili ma in teorìa decifrabili, così come ogni lingua, per quanto misteriosa, è in teoria leggibile se ne possiedi la chiave. La sera del concerto dei Plastica, fredda e piovigginosa, Patrick restò stupefatto dalle dimensioni della folla che premeva per entrare. Avendo comperato il biglietto con tanto anticipo, pensava che gli sarebbero state risparmiate altre attese. Quanto erano simili a insetti! a una particolare specie di scarafaggi che si accoppiano in grandi sciami promiscui! i fan del rock, tutti sui vent'anni o anche più giovani, a mulinare allegri nell'atrio, e poi nell'anfiteatro, sotto la supervisione di addetti alla sicurezza dall'aria truce. L'istinto avrebbe spinto Patrick ad andarsene disgustato, dare il suo biglietto a uno sconosciuto o, meglio ancora, stracciarlo. Non fa per me. Odio la mia specie. Ma aveva preso accordi per andare al concerto con un gruppo di studenti, ragazzi cordiali conosciuti alle lezioni, tutti tipi distaccati come lui; avevano cenato assieme in una rumorosa pizzeria di College Avenue e bevuto qualche birra, una cosa normale per un venerdì sera in una città universitaria. Dentro l'anfiteatro, però, cominciò ad avvertire il sapore del panico. Al solo trovare i loro posti in mezzo a tanti altri, in una fila sul fondo, all'estrema sinistra, a grande distanza dal palco. Musica rock registrata esplodeva da un altoparlante vicino. Perché sono qui? Sono così disperato? Da cosa cerco di fuggire? Quando il concerto iniziò, trentacinque minuti più tardi, la folla era scalmanata, rumoreggiante, sul punto di sfuggire a ogni controllo come onde ribelli. Nella testa di Patrick, il ronzio da emicrania provocato dalle birre che aveva bevuto si era intensificato, per quanto lui si sentisse, Cristo Santo, assolutamente sobrio. Acutamente consapevole della propria sofferenza. Non aveva mai provato il mal di mare, ma in quel momento lo stava sperimentando. La folla si mise a strepitare: urla, fischi, applausi e piedi battuti a tempo. Patrick si sporse in avanti sul suo posto e fece un debole tentativo di unirsi agli altri. Normale trovarsi in mezzo a un tale casino in un posto simile, un venerdì sera a Ithaca, se hai vent'anni, invece di stare come al solito nella tua stanza, chino su un libro, a prendere appunti come per salvarti la vita. Normale strillare con migliaia di altri ragazzi quando alla fine, in un vorti-
ce di luci abbaglianti e un suono di batterie lacerante come un martello pneumatico, i membri dei Plastica balzarono sul palco. Patrick strinse i denti in stupefatto disgusto davanti ai sei scheletrici esemplari maschili in ridicoli costumi di pelle nera, con i calzoni abbassati sotto la vita a mostrare l'ombelico, strettissimi all'inguine a delineare il profilo dei testicoli. Portavano fasce al braccio, clip alle orecchie, anelli ai capezzoli. Il cantante Traumeri era emaciato a livelli allarmanti; il petto di un pallore malaticcio, praticamente concavo, era coperto da una patina oleosa. Il viso ossuto, imbronciato, era dipinto di un bianco cadaverico, le labbra grosse di rosso scarlatto, e gli occhi vitrei da tossico erano inanellati da mascara nero; i capelli neri di tinta, raccolti in ammassi di lunghe treccine, gli svolazzavano attorno alla testa mentre si agitava sul palco con l'abbandono maniacale di un epilettico in preda a una crisi. Traumeri e altri del gruppo erano stati arrestati recentemente a Londra per possesso di droga, ed evidentemente la cosa faceva parte della reputazione del gruppo, era uno dei motivi che spingevano folle simili ad andare a vederli. Freak esibizionisti che i ragazzi e le ragazze della media borghesia della Cornell avrebbero snobbato se li avessero incontrati nella vita reale. Che rumore! Patrick quasi non riusciva a sentire. Batterie, micidiali accordi di chitarra amplificati mille volte, note pulsanti vibranti primitive ripetitive, voci latranti, un puro campo di forza, d'energia. Non vedeva come potesse resistere per più di cinque minuti. Con occhiate nervose, scoprì che gli spettatori su ogni lato, molti dei quali non sembravano troppo diversi da lui, al punto che qualunque estraneo avrebbe individuato la loro appartenenza alla sua stessa sottospecie, erano totalmente ipnotizzati dai Plastica. Nemmeno le rapite, ferventi congregazioni delle chiesette di campagna in cui Corinne portava i figli esprimevano tanta gioiosa estasi, un rapimento così totale. Normale, no? E trarsi in disparte, nel critico, scettico stile Pizzicotto: anormale? Quelle migliaia di giovani uomini e donne, i contemporanei di Patrick Mulvaney. Come neonati avidi al seno. Desiderò potersi perdere, anche soltanto per pochi minuti, nel pandemonio; perdersi nella folla, nell'alveare. Sentire che il remoto io Pizzicotto si fondeva e scorreva come mercurio tra gli altri io fusi l'uno nell'altro. E in tutto quello passava la corrente martellante pulsante così simile a una carica galvanica che animasse la materia. Cercò di ascoltare le parole che Traumeri sputava tra convulse spinte della pelvi, come se le parole potessero redimere il frastuono ammorbante. Lasciami essere lasciami essere il tuo salva-tore. Lasciami essere lasciami
essere il tuo Di-o. Lavato nel sangue baby lavato nel sangue ba-by lavato nel sangue ba-by dell'Agnello. Le parole venivano strillate però stranamente non avevano un tono d'esclamazione, come se Traumeri, galvanizzato dalla stessa corrente elettrica che pulsava tra il pubblico, stesse solo enunciando dati di fatto. Patrick non poteva credere di avere sentito bene. La grottesca parodia di un inno cristiano? Lasciami essere il tuo salva-tore. Lavato nel sangue dell'Agnello. Forse il background di Traumeri non era molto diverso da quello di Patrick Mulvaney. A meno che non avesse sentito male in quel caos. Oppure era ironia, autoironia? O un gioco, un gioco da bambini cattivi? Di quelli che sanno che nessuno li prende sul serio? Non aveva idea. Si chiese cosa avrebbe pensato Marianne di quelle parole. Sua sorella che non giudicava mai gli altri, o se stessa. Come si poteva vivere in quel modo? Era una forma di coscienza più alta, a imitazione di Gesù Cristo, o un'illusione, una debolezza fatale? Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, porgigli anche la sinistra. No, pensò Patrick. Non io. I Plastica passarono a un altro brano. Un loro grande successo, a giudicare dagli ululati e dal battere di piedi dei fan. Patrick smise di tentare di decifrare le parole, un significato. Quello che contava era il beat pulsante. Che gli rimbombava negli occhi, gli accelerava il ritmo del cuore come un'infezione virale. I virus, misteriosi microrganismi che, incapaci di riprodursi da sé, devono insinuarsi nei geni di ospiti-vittime. Chi può capire la natura? Coperti da rivoli di sudore, Traumeri e un chitarrista proiettavano le rispettive pelvi l'uno verso l'altro in movimenti da martello pneumatico. A Patrick venne in mente il corpo senza testa del maschio della mantide religiosa che copula con la femmina dopo che lei lo ha decapitato. Chiuse gli occhi. Si vide al sicuro in laboratorio, con il camice macchiato, ad avvicinare l'occhio buono al microscopio, a fronte aggrottata. Però il fanatico beat dei Plastica gli era entrato nel sangue. Un beat! beat! beat! idiota, una nenia infantile suonata battendo su un ceppo di legno. Serrò più forte le palpebre e pensò a Darwin; alla teoria evoluzionistica che era così bella nella sua semplicità, eppure così capace di generare confusione. Ogni cosa vivente è collegata da schemi di discendenza a tutte le altre cose viventi. Ma esisteva anche un regno del non essere. Le specie non viventi, mai realizzate. Creature ipotetiche che avrebbero potuto evolversi, in base alle leggi della probabilità. Della possibilità. Uccelli cornuti, rettili volanti, un Homo sapiens piumato? Un Homo sapiens con occhi su entrambi i lati del-
la testa, in modo che ogni occhio potesse trasmettere un'immagine diversa, un Homo sapiens con le meravigliose capacità di ecolocazione dei pipistrelli? Sorridente, testardo, Pizzicotto osava discutere con il giovane professore venuto da Harvard, assistente del dottor Herring. E se? Perché no? Non esiste la possibilità genetica? Forse era un difetto del suo carattere, ma non poteva impedirsi la curiosità. Sin dal liceo. Non solo curiosità, impetuosità. Ariette e alcuni altri studenti di biologia lo ammiravano. (Dicevano.) Altri no. Patrick Mulvaney non sapeva resistere alla tentazione di porre domande alle persone più anziane, scrutandole accigliato a occhi socchiusi. Aveva sempre un nuovo interrogativo, un dubbio. Al liceo, il signor Farolino sorrideva: «Sì, Patrick?» ancora prima che lui alzasse la mano per fare una domanda. Ma l'altra mattina, al termine della lezione del dottor Herring, Patrick aveva osato chiedere: «"Esistenza" non è una categoria inutilmente riduttiva, quando "possibilità genetica" è tanto vasta? Presumendo che l'evoluzione non abbia fine, o limiti? O obiettivi?». E il celebre biologo lo aveva fissato per diversi dolorosi secondi, in silenzio. Patrick aveva pensato, preso dal panico: Cristo santo Pizzicotto questa volta hai esagerato. Saboterai il tuo futuro. Alla fine, Herring si era limitato a dire, con un sorriso di cortesia: «La sua domanda è puramente teorica, signor Mulvaney, presumo». Cosa accadeva? Patrick aprì gli occhi, disorientato, come risvegliandosi da un sogno folle. L'assordante musica rock era cessata. Intervallo. Poteva scappare! Aveva tentato il normale; era stato un misero fallimento. Così si alzò, stordito e barcollante, con altri della sua fila diretti al corridoio centrale. Molti fan erano riusciti a introdurre birra nell'anfiteatro ed erano, come si dice, andati, persi. Patrick urlò ai suoi compagni: «Io me ne vado. Buonanotte!». Nel frastuono non fu chiaro se lo avessero udito. Cercò pazientemente, e poi non troppo pazientemente, di aprirsi un varco verso un'uscita laterale, e a un certo punto vide, nella folla davanti a lui, il profilo di un viso familiare, inquietante. Zachary Lundt! Possibile? Lì alla Cornell? Zachary Lundt? Una fiamma passò nel cervello di Patrick. Il beat beat beat dei Plastica lo spingeva avanti. Non aveva più visto lo stupratore di sua sorella dal giorno del diploma, e si rese conto di avere pensato a Zachary Lundt in maniera compulsiva, anche quando la sua mente era totalmente rivolta ad altre cose. Zachary Lundt. Lo stupratore. Che non ha mai dovuto pagare.
Chissà quali frenetiche dissonanze avrebbe tratto Traumeri da quella situazione: come avrebbe reagito lui? Patrick aveva saputo che Zachary si era iscritto all'Università statale di Binghamton nonostante i voti mediocri ed era entrato in una confraternita studentesca. Ovvio, era proprio il tipo. Probabilmente era venuto a trovare confratelli della Cornell. Una ragazza che studiava lì. Era con un gruppo di ragazzi casinisti; diversi erano chiaramente ubriachi. Patrick si fece strada verso Zachary a colpi di gomito, ignorando le imprecazioni. Il ritmo dei Plastica gli pulsava con furia omicida nella testa. Che cosa avrebbe fatto a Zachary se gli avesse messo le mani addosso? Stupratore! Figlio di puttana! Aveva fatto del male a Marianne, le aveva rovinato la vita! Strinse i denti, e doveva avere un'aria feroce, perché appena qualcuno lo vedeva in faccia faceva di tutto per schivarlo. Immaginava il naso del nemico, che a quanto si diceva suo padre aveva rotto, gli occhi del nemico martoriati dai suoi pugni, neri, contusi. E la bocca, quei denti scoperti nel sorriso: ebbe l'estatica visione di una zucca di Halloween che sputava sangue. All'uscita, si lanciò in avanti per afferrare il braccio di Zachary, spingendo via tutti. «Un momento! Fermati!» Poi vide, stupefatto, che in realtà quello non era Zachary Lundt. Mormorò, imbarazzato: «Oh, scusa. Ti ho preso per qualcun altro». Il ragazzo era alto all'incirca quanto Zachary, la statura di Patrick, e aveva i capelli lunghi e lisci e il viso stretto e affilato di Zachary, però era uno sconosciuto. Guardò Patrick, chiaramente spaventato. Anche a un concerto dei Plastica, dove vengono celebrate emozioni violente pulsanti prive di censure, non ci si aspetta di essere avvicinati da un folle. Patrick fuggì. Si mise a correre nel campus buio. Il suo cuore batteva beat beat beat. In seguito si sarebbe chiesto perché non si fosse vergognato, perché non fosse stato preso dal rimorso. In realtà si sentiva eccitato. Esaltato. Quel ragazzo spaventato non era Zachary Lundt ma questo non significava che Zachary Lundt non si trovasse da qualche altra parte, quella sera. Patrick era giunto così vicino a... che cosa, esattamente? Dignità Davanti alla rovina c'è l'orgoglio. Ma non era una questione d'orgoglio. Era una questione di semplice integrità. Dignità. Sei un uomo di cinquant'anni, padre di una figlia e di figli, e americano. Senza la dignità, sei
niente. Ed era stato indotto a credere che quegli uomini fossero suoi amici. Era stato indotto a credere che accettassero lui, Michael Mulvaney, come uno di loro. Lo avevano invitato a fare parte del Country Club di Mt. Ephraim. E aveva accettato, era stato uno dei giorni più felici della sua vita. Era stato dichiarato membro del club, aveva puntualmente pagato la tassa d'iscrizione e le quote, il primo di settembre di ogni anno. Michael Mulvaney era un socio sul quale si poteva contare, e lo sapevano. E lo sapeva lui. E sapeva di non sbagliarsi su niente di tutto quello, non era il tipo d'uomo da commettere errori nella vita; non si costruisce un'attività praticamente dal nulla se non si è acuti giudici del carattere altrui. È un fatto. Così un certo giorno, a una certa ora, ne ha abbastanza. Entra al bar del Country Club di Mt. Ephraim, poco dopo le sei del pomeriggio, un venerdì. Yankee Doodle Tap Room: solo uomini. Si toglie gli occhiali scuri per abituare gli occhi alla penombra. E si guarda attorno per vedere chi c'è, una quindicina circa di uomini al banco e nei separé, tutte facce familiari, ed ecco Ben Breuer in uno dei separé in pelle rossa, e Charley MacIntyre, e i due si scambiano una rapida occhiata stupita, un'occhiata d'avvertimento, di cautela, e c'è un terzo uomo girato di schiena, dapprima Michael non lo riconosce poi vede che è Gerry Kirkland, giudice della corte distrettuale federale. È sulla sessantina, fisico solido, un viso rosso e squadrato, increspato da una carriera di sorrisi a tutto spiano. I capelli, color peltro, si stanno diradando in una chierica esattamente come quelli di Michael Mulvaney. Michael conosce Kirkland soprattutto per averlo visto al club, quanto basta per stringergli la mano, scambiare cordiali saluti e informarsi sulle rispettive famiglie. Michael chiede sempre di Jeannette Kirkland e a sua volta Kirkland chiede di... Carol? Coralee? non riesce mai a ricordare il nome di Corinne Mulvaney, e perché mai? Stronzo. L'occhiata di avvertimento, cautela tra Ben Breuer e Charley Maclntyre, veloce come il piccolo lampo di una lucciola. E uno dei due ha mormorato qualcosa a Kirkland, per avvertire anche lui. Così non dovrà voltarsi a guardare chi è entrato. Michael li ignora e va al banco, si issa su uno sgabello. Sgabelli vuoti sui due lati. Conversazioni, risate. Il televisore sopra il banco. Insopportabile ruggito per le orecchie di Michael, ma non beve da ore. Il barista gli dice: «Salve, signor Mulvaney! Il solito?». Michael lo fissa. «Come sarebbe a dire, il solito? Prendo...» Una marca di birra che beve di rado. Imbarazzato, il barista mormora: «Mi scusi, signor Mulvaney» e sgattaiola via. Michael siede solo al banco, scruta a occhi socchiusi lo schermo del televi-
sore ma pare che non lo veda. Tamburella sul banco, con unghie spesse, sporche. Nervoso, impaziente. Si sente scrutato, ma sa che se si voltasse tutti distoglierebbero immediatamente lo sguardo. Quando è entrato, qualcuno ha fatto un cenno con la testa, un sorriso vago, però nessuno ha detto ciao, nessuno ha sorriso chiamandomi per nome, mi ha invitato a sedere. Arriva un bicchiere di birra schiumosa e Michael lo alza lentamente alle labbra. Come chi è perso nella contemplazione di una verità profonda, sfuggente. Non qualcuno dalla mano tremante, con rivoli di sudore che colano sotto i vestiti. Si gira, non sa resistere alla tentazione. Breuer, Maclntyre, Kirkland. Credete non vi abbia visti? Sentiti? Stronzi. Il bicchiere è già vuoto. Una birra talmente leggera da non avvertirne nemmeno il sapore. Ma ne ordina un'altra al barista. Una vampata d'ansia sotto i vestiti gli sale al viso. Quel mattino non ha avuto il tempo di fare la doccia. Voleva uscire prima che Corinne scendesse a cercarlo. E trovarlo dove aveva trascorso buona parte della notte, nella vecchia stanza di Mike Jr., con Troy. Capelli rigidi come piume d'oca, e non si rade da due giorni. Peli del colore della limatura di stagno, la barba di un vecchio. Gli portano la seconda birra coronata di schiuma e lui la sorseggia soddisfatto poi bruscamente solleva il peso del corpo dallo sgabello e si avvicina ai tre uomini nel separé che in maniera tanto risoluta non stanno guardando nella direzione di Michael Mulvaney. Michael Mulvaney in un soprabito spiegazzato di cammello, Michael Mulvaney che barcolla. Espressione furibonda, viso scuro di sangue. Sarcastico, dice: «Ciao, Ben, come va?» e Ben Breuer alza due occhi colpevoli, come se lo avesse appena visto. E Michael, con un largo sorriso: «Charley! Ma che piacere vederti». E Charley MacIntyre, esterrefatto, rivolge un sorriso fioco a Michael, quasi impaurito. «E, Gerry...» Michael lascia cadere la mano sulla spalla destra del giudice, un gesto apparentemente cordiale, però duro, pesante. E Kirkland si sottrae dicendo: «Scusa...». E Michael lo scruta e vede l'allarme, la disapprovazione, la repulsione chiarissimi sul volto di Kirkland, che è un socio anziano del Country Club di Mt. Ephraim e un eminente membro della comunità e non ha la minima voglia di reggere il gioco di Michael Mulvaney o di qualche altro ubriacone. E Michael dice: «Figlio di puttana del cazzo!». E versa in faccia al giudice Kirkland la birra rimasta nel bicchiere. Una preghiera alla rovescia
Ho bisogno del tuo aiuto, Judd. O forse disse Ho bisogno di aiuto, Judd. Le parole mi percorsero come corrente elettrica! Nessuno mi aveva mai detto qualcosa di simile in tutta sincerità. Finché non le avrete sentite pronunciare da qualcuno che amate, una persona con cui condividete legami di sangue e ricordi, non saprete quanto potenti, quanto eccitanti siano queste parole. Aiuto, ho bisogno di aiuto. Del tuo aiuto Judd. Quando Patrick ci chiamava a casa, era sempre per dirci nulla, per informarci di niente. La sua vita a Ithaca era privata e non dovevamo chiedere. Quasi timidamente, mamma domandava se Patrick sarebbe tornato a trovarci presto. O quando? E papà aveva imparato a essere cortese e impersonale con Patrick quanto Patrick lo era con lui. Se Patrick voleva farci sapere qualcosa, ne accennava appena prima di riagganciare, come un ripensamento: aveva vinto una borsa di studio per una ricerca estiva, la media dei suoi voti era al massimo, stava uscendo da un attacco di influenza invernale. Se gli facevi una domanda diretta, la dribblava; mormorava qualcosa che non riuscivi a sentire bene, forse sì, forse no, forse non si sa. Io mi ero quasi rassegnato: niente più fratelli. Un tempo avevo due fratelli maggiori, adesso non ne avevo più. Pensavo Comunque non è che poi Pizzicotto mi piaccia troppo. Vada al diavolo Pizzicotto. Dove un tempo mamma esponeva orgogliosa ritagli di giornale del bel Mulo Mulvaney, star del football, e dei suoi compagni di squadra dei Rams; dove per un po', tanto tempo prima che ormai pareva un'altra vita, aveva spiccato il necrologio del soldato scelto Dwight David Duncan Ucciso in combattimento al servizio del suo paese, sulla bacheca in cucina, adesso mamma attaccava i ritagli di giornale su Patrick. Era amica di Tweet Philco, una donna di Mt. Ephraim che si occupava del settore delle notizie regionali del Mt. Ephraim Patriot-Ledger, la parte di giornale dedicata a notizie su fidanzamenti e matrimoni e nascite e morti locali, pensionamenti, celebrazioni di anniversari e riunioni, attività e risultati studenteschi, vittorie atletiche, borse di studio, premi, viaggi all'estero: qualunque notizia, per quanto insignificante, fosse adatta a quelle pagine tanto lette che, come tutte le pagine simili di ogni quotidiano di piccole città, costituiscono una sorta di album di famiglia della comunità. Ovviamente, mamma passava a Tweet ogni atomo di novità positive sul figlio Patrick
che era andato alla Cornell ed eccelleva in modo tanto evidente in un ramo difficile e ambizioso di studio. Si sarebbe pensato, guardando la bacheca, che Patrick fosse il figlio preferito, forse l'unico figlio. La foto di Patrick ripetutamente usata dal Patriot-Ledger era quella dell'annuario del liceo, che dominava un angolo della bacheca: un Patrick rigidamente in posa, con un sorriso esile, i capelli pettinati all'indietro in modo innaturale. Patrick non parlava spesso al telefono con me, e quando accadeva di solito usava un tono leggero, canzonatorio, leggermente distratto, mi chiamava Ranger o ragazzino, ma sembrava che la sua mente fosse da un'altra parte. Io magari lo chiamavo P.J. Non spettava a me tentare un contatto più profondo. Se anche volevo chiedere di Marianne, sapere se lui le avesse parlato di recente, se l'avesse vista, la timidezza mi impediva di affrontare l'argomento. Dovevo aspettare il momento giusto e poteva essere che il momento giusto non venisse mai. Quella volta, però, quando Patrick chiamò, ed era tardi, le undici di sera passate di un giorno feriale, risposi al primo squillo (mi trovavo a pianterreno, nella stanza di famiglia a passare da un canale televisivo all'altro, a volume basso in modo che mamma a letto non sentisse), e lui fu serio dal primo istante. Niente show alla Pizzicotto. La prima cosa che chiese fu: «Pensi ci sia qualcun altro in linea?» e io resto sorpreso da schiattare, rispondo: «Cosa? Chi?» perché poteva trattarsi solo di mamma o papà, per quanto ne sapeva Patrick. (Non poteva sapere che papà era a Marsena per lavoro e avrebbe trascorso lì la notte.) Lui fa subito un po' di marcia indietro, dice che voleva solo accertarsi. E passa un secondo o due, soltanto silenzio; sto con la cornetta appoggiata all'orecchio e non sento niente. Mi domando se abbia riappeso. «Patrick? C'è qualcosa che non va?» La sua voce mi arriva bassa e cattiva, come fosse arrabbiato con me. «Ci sono molte cose che non vanno.» «Vuoi dire... per papà?» È passata una settimana da quando papà ha versato la birra in faccia al giudice. Di fronte a dodici testimoni al bar Yankee Doodle del Country Club. Ed è stato arrestato, e portato alla centrale di polizia di Mt. Ephraim, e incriminato per aggressione e condotta violenta e resistenza all'arresto (c'è stata una bella lotta quando gli agenti di polizia sono andati ad arrestarlo). E il giudice Gerald Kirkland non lascerà cadere le accuse perché è furibondo con mio padre e noi non sappiamo se papà andrà in carcere (potrebbe essere condannato fino a due anni); o se la sentenza verrà sospesa e gli daranno solo una multa; e se si tratterà di una multa, di quanto sarà. Il
lunedì mattina dopo l'arresto è stata recapitata a Michael Mulvaney Sr., a High Point Farm, una raccomandata che conteneva una notifica formale del Country Club di Mt. Ephraim, firmata da ognuno dei venti consiglieri del club: la revoca della sua iscrizione e per estensione di tutti i "diritti e privilegi" dell'iscrizione di cui godeva la famiglia di Michael Mulvaney Sr. La quota annuale di seicento dollari del socio espulso, pagata per intero per il 1978-79, gli è stata interamente restituita. Era nella stessa busta. Come ha detto amaramente mamma, non una volta sola ma parecchie, Cosa diavolo ce ne importa! E ora Patrick dice quelle parole che mi scuotono: «Ho bisogno del tuo aiuto, Judd!». Non è solo la parola aiuto a sorprendermi tanto, venendo da mio fratello. È il nome Judd, il mio vero nome, non Ranger o ragazzino; come se, per una volta serio, lui abbia dovuto infrangere il codice di famiglia. Come se, in questo istante, siamo pari. Sono cauto. Mi domando se ho sentito bene. «Che tipo di aiuto, Patrick?» È iroso, come se io dovessi sapere già. «Fare giustizia! Occuparci di... lo sai. Lundt. Zachary Lundt. Cioè, lo farò io.» Parla con una certa meticolosità ma le parole suonano sconnesse, come avesse bevuto. È il modo di parlare di papà quando ha bevuto, ammesso che parli con noi. «Ci penserò io. Però mi serve il tuo aiuto. Judd?» «Sì?» «Papà ha ancora i suoi fucili?» «I fucili?» «O Mike? Il calibro .22 di Mike? Chiuso a chiave nell'armadietto, hai presente?» Tengo in mano la cornetta e comincio a sudare. Mi sento male per paura ed eccitazione. Patrick dice: «Il calibro .22. Riesci a procurartelo?» «Procurarmelo?» «Cristo, Judd, sembri un pappagallo.» Patrick ride. Adesso è chiaro, e mi spaventa quanto ciò che ha detto, che ha bevuto. «Oh, merda. Lascia perdere.» «Patrick, aspetta...» «Scordati che abbia telefonato! È il momento sbagliato. È...» Un suono come se gli fosse caduta la cornetta e stesse cercando di riprenderla in mano. «Non è il momento giusto. Non ancora. 'Fanculo.»
Un istante dopo ha riappeso. E io sono seduto sul divano a fissare un angolo del soffitto. Ho il cervello intorpidito e vuoto di pensieri come se mi avessero colpito alla testa con un maglio. Tre giorni dopo, Patrick richiama. Verso l'ora di cena, o quella che un tempo era l'ora di cena a High Point Farm. Ma adesso che ci siamo solo mamma e io e non sappiamo di preciso quando potrebbe rientrare papà non sediamo esattamente a tavola perché mamma dice che ci innervosisce, e dice anche che è altrettanto facile mangiare in piedi o in una stanza che non sia la cucina. Sono circa le sei e mezzo del pomeriggio e il telefono squilla e mamma risponde velocissima e preoccupata come fa quando papà è fuori ma è Patrick! e la sento parlare con lui, parlare e ridere, per dieci, quindici minuti! Cerco di non origliare, mi aggiro in cucina con i cani e i gatti che strusciano la testa contro le mie gambe ed è sorprendente per me che mamma e Patrick riescano a parlare così, mamma tanto rilassata a raccontare a Patrick dei suoi piani per "espandere" l'Antiquariato High Point in modo che diventi una vera attività redditizia, adesso che papà sta trattando per vendere la proprietà a Mt. Ephraim e "riposizionare" la ditta a Marsena e naturalmente venderanno la fattoria, devono "riposizionarsi", e per caso Patrick ha sentito parlare del mercato delle pulci e dell'antiquariato nell'ente fieristico del posto, tutti i weekend di bel tempo? uno dei mercati più vecchi e più grandi della valle? Antiquari e clienti benestanti arrivano persino da Rochester, Port Oriskany, Buffalo. E... Non riesco a credere che mamma pronunci le parole vendere la fattoria in un flusso rapidissimo del discorso, come se non fossero più significative delle altre parole e tutte quante insieme fossero semplice aria, posa. Come se vendere la fattoria fosse solo l'occasione nuda e cruda per prendere in affitto un banco al mercato delle pulci e dell'antiquariato di Marsena. Come se vendere la fattoria fosse già un fatto al passato, una specie di storia da non mettere in discussione. Quando papà è stato arrestato, accusato e incriminato, il Patriot-Ledger ha pubblicato una sua fotografia sopra il titolo RESIDENTE DI HIGH POINT FARM ARRESTATO PER VIOLENZE AL COUNTRY CLUB. L'articolo non è uscito nel settore del notiziario regionale ma in prima pagina, in bella evidenza. La foto di papà veniva dall'archivio del giornale, immagino; lo ritraeva in giacca e cravatta a una qualche cerimonia di premiazione, alla Camera di commercio o al Tuscarora Club, forse una decina
di anni fa. Faceva un'ottima figura, era bello e felice anche se non sorrideva poi troppo, con il lampo del flash fissato negli occhi, strano come quando la luce si riflette negli occhi di un animale nel buio. Quella, mamma non l'ha ritagliata e non l'ha messa in bacheca. Ne avevo spedito una copia a Patrick, alla Cornell. Pensavo gli facesse piacere saperlo. Così ecco mamma che chiacchiera dei suoi piani. Io vorrei schizzare a nascondermi in una stalla, solo che mamma guizza avanti, mi afferra per il colletto come una mamma della televisione. È rossa in volto, occhi brillanti al neon. «Oh, Ranger! Dài un saluto a P.J.!» E Patrick mi dice, con il vento nella voce: «Allora come va, ragazzino?» e io scrollo le spalle come potesse vedermi, sto battendo le palpebre per cacciare le lacrime, mi sento da schifo, «Okay suppongo» e Patrick dice: «Va davvero così male lì? Come dice mamma? Venderanno la fattoria? Secondo te?» e io borbotto qualcosa forse sì forse no, e Patrick dice: «L'altra sera, Judd, quello che ho detto...» e c'è una pausa e io aspetto che lui mi dica scordatene, erano chiacchiere impazzite, e invece lo sento dire: «Parlavo sul serio, lo farò, farò giustizia. Non so quando ma... un giorno o l'altro. E ho bisogno di te, okay?» e io cerco di riprendere a respirare, cerco di sorridere, di comportarmi normalmente, perché mamma è lì vicino, al lavandino a fischiettare sottovoce. «Sicuro, Patrick. Quando vuoi.» E Patrick dice a voce bassa ansiosa: «Judd, sei l'unica persona al mondo di cui posso fidarmi». E io balbetto: «Okay, bene». E Patrick dice: «Devo solo mettere la cosa a fuoco. Al momento non sono pronto. La mia mente non... non è pronta, adesso». E io dico, con quel dolore allo stomaco, spaventato ma eccitato, tremante: «Okay, Patrick. Sono il tuo uomo». Dopo che ho riappeso, mamma, asciugandosi gli occhi, dice: «Tuo fratello non ha avuto un bel pensiero a chiamarci, Judd? Così dolce e attento. Non sa che l'ho spinto a chiamare per tutta la settimana, con il pensiero. Gli ho spedito piccoli messaggi per sfidarlo a non chiamare. Ci hai mai provato, Judd? È come una preghiera alla rovescia. E funziona». Il complice Fu così che diventai, a sedici anni, al secondo anno di liceo, complice del crimine premeditato di mio fratello Patrick. Ero quello che si definisce un complice prima e dopo il fatto. Ero quello che si definisce un compagno di cospirazione. Divenni un complice non al momento della nostra prima
conversazione, né al momento della seconda, quando Patrick mi confidò che ero l'unica persona al mondo di cui potesse fidarsi! ma nell'interini tra le due conversazioni. In una trance di diversi giorni, giorni e notti. A pensare Qualunque cosa voglia lo farò. Se vuole che sia io a premere il grilletto lo farò. Credevo di avere sempre saputo che Zachary Lundt andasse punito. Pensavo sarebbe accaduto con la velocità del fulmine, e che qualcuno avrebbe provveduto, mio padre o Michael Jr. Non pensavo che lo avrebbe fatto Patrick, o che io sarei rimasto coinvolto. Io, Judd! Ma non appena Patrick si confidò con me, capii che era l'unico Mulvaney capace di fare giustizia nel modo in cui andava fatta. Non con un atto improvviso, impulsivo di violenza, come un fuoco imprevisto che ci divorasse tutti, ma con un piano freddamente premeditato da cui il colpevole uscisse indenne. Perché niente meno della perfezione avrebbe soddisfatto Patrick. Nemmeno per una sola ora di tutte quelle che intercorsero tra la mia decisione ai primi di dicembre del 1978 e l'"esecuzione" vera e propria nel marzo 1979, pensai di non aiutare Patrick; di tirarmi indietro, dirgli che avevo cambiato idea, avevo paura, o disapprovavo. Pensavo Sarà pericoloso! Pensavo Potremmo subire conseguenze tutti e due! Ma non ho mai pensato No, non posso farlo, non lo farò. La vita lontano da High Point Farm era il sogno e la vita a High Point Farm e nei miei pensieri era la vita reale. Per esempio, anche adesso, tanti anni dopo, sono al mio posto di lavoro, in questo spazio designato come mio e alzo gli occhi, magari ho dimenticato l'ora se ho lavorato fino a tardi, è già buio, e penso di andare a casa, a casa: a High Point Farm. Al liceo di Mt. Ephraim, Judd Mulvaney era un ragazzo tranquillo, magrolino, con un senso dell'umorismo perfido. Al secondo anno, già coredattore del giornale della scuola e curatore dei testi dell'annuario. Forse bravo abbastanza per entrare nella squadra di basket, ma non ci tentò nemmeno; disse all'allenatore di avere troppo da fare a casa, il che era vero. I suoi voti erano alti in alcune materie (inglese, storia) e all'incirca medi in altre (matematica, scienze). L'abitudine di dileguarsi all'ora di pranzo, non mangiare in mensa e magari non mangiare affatto. L'abitudine di accigliarsi in aula, passarsi la mano sulla mascella, sulle labbra d'un rosso scuro. Capelli castani, occhi castano torbido. Probabilmente non ero poi brutto per la mia età, ma rifuggivo gli sguardi. Rifiutavo gli inviti alle feste in cit-
tà pensando che i miei compagni di classe, soprattutto le ragazze, non dicessero sul serio: perché interessarsi a me? Al tempo stesso ero terribilmente vanitoso, il mio cuore batteva d'ira per il fatto di non essere speciale come avrei meritato. Judson Andrew Mulvaney. Nell'atrio del liceo, nella grande vetrina dei trofei che è come l'altare di una chiesa, c'era ancora la fotografia di Mulo Mulvaney e dei suoi compagni di squadra, tutti imbottiti, campioni di football del torneo delle Tre Contee nel 1972. Ogni mio insegnante ricordava Patrick, come no, e mi stremava di domande su di lui. («Il ragazzo più brillante a cui abbia mai insegnato» ripeteva di continuo il signor Farolino, con una scrollata buffa del capo. «Però poteva essere una vera spina nel fianco!») Se i miei professori ricordavano Marianne, non chiedevano di lei. E non chiedevano di papà e mamma, come facevano un tempo. Dopo l'arresto di papà, e l'udienza, e i due anni di libertà vigilata, e una multa di millecinquecento dollari, e gli articoli sui giornali locali, non una parola. Dopo che mamma si dimise dall'Associazione genitori-insegnanti e smise di presentarsi alle riunioni, non una parola. Così avrei voluto urlare a tutti: Maledetti voi! Non compatiteci. Noi siamo i Mulvaney. Era vero, bisognava vendere High Point Farm. Però: a che prezzo? Chi l'avrebbe comperata? Per coprire i debiti di papà e tenere a galla la Mulvaney Tetti e coperture, i miei avevano venduto la proprietà a rate; restavano solo quattro acri. Oltre alla casa, che mamma definiva un "monumento storico", e gli edifici annessi, che in buona parte necessitavano di riparazioni. In una fattoria, tutto ha bisogno di continue manutenzioni. Edifici, macchine, frutteti, recinti. Lo stato di salute di una fattoria si può misurare dai suoi recinti. Quando le cose cominciano ad andare male, i recinti sono i primi a indicarlo. Erano passati da tanto i giorni in cui mamma organizzava una "squadra di ricognizione" di noi figli, che ci avventuravamo per i campi a controllare gli steccati e riparare il possibile. A quello che non riusciva a noi avrebbe pensato papà. E se nemmeno lui era in grado, trovava qualcuno che lo fosse. Adesso, persino lo steccato anteriore, quello che cingeva High Point Farm, stava crollando in diversi punti. Non era più bianco da anni. Aveva più il colore dei vecchi giornali umidi e ammuffiti, sepolto da grovigli di
rose selvatiche e rampicanti. La casa che sembrava così bella ai nostri occhi in realtà non lo era. Le persiane avevano cominciato a pendere di sbieco, i tetti andavano riparati. Il delicato color lavanda che mamma amava tanto non era adatto al nostro clima e sbiadì dopo due o tre anni. Dovevano essere trascorsi almeno cinque anni da che la casa era stata ridipinta e mamma era in ansia: come potevamo sperare di venderla per una cifra decente se si presentava male? D'altro canto, perché spendere soldi e tempo per una casa dove non avremmo vissuto a lungo? Potevamo davvero permetterci dai cinquanta ai settanta litri di costosa vernice a olio, indispensabile per il legno vecchio, secco? E la mano d'opera? (Erano passati da tanto anche i giorni in cui papà poteva reclutare una squadra di imbianchini Mulvaney, Michael, Patrick, me, e papà stesso come caposquadra, e dedicare un mese e mezzo d'estate a radicali migliorie per la casa.) I frutteti andavano potati, lo stagno dragato. Ognuna delle macchine agricole aveva qualcosa di rotto. Gli uomini del posto che papà assumeva per aiutarci erano inaffidabili, se non disonesti; rubavano utensili, secchi di grano e semi, persino uova dal pollaio. (Mamma giurava di avere colto in flagrante il vecchio Zimmerman con uova rotte nelle tasche della tuta da lavoro, il tuorlo che colava attraverso la tela. Diceva: Non ci si può fidare di quegli uomini, non lasciatemi sola con quegli uomini, bevono, picchiano la moglie, mi terrorizzano. Il che non era da Corinne Mulvaney, che in passato non aveva mai avuto paura di qualcuno, rideva all'idea di chiudere a chiave una porta, a qualunque ora. Adesso strillava di continuo: «Judd? Dove sei? Sei tu? Judd?».) Non mi addentrerò nella salute del bestiame. Se siete pratici di animali da fattoria, sapete già tutto. Nei mesi disperati in cui tentava (un fatto che io non avrei dovuto conoscere) di evitare il fallimento, mio padre non aveva tempo per i lavori alla fattoria; oppure si spazientiva fin quasi allo stato maniacale se era costretto a farli. Ansimava, sbuffava, fremeva di rabbia. Capelli ormai grigi come fili d'acciaio in completo disordine, rasatura approssimativa, un biancore agli angoli della bocca, tipo bava. Portava gli stessi vestiti sportivi chic di sempre però erano spiegazzati, come li avesse stropicciati con le sue stesse mani, e avevano bisogno di un bucato, un lavaggio a secco. Gli stivali erano lerci di fango, le scarpe andavano lucidate. Anche la sfolgorante Lincoln quasi nuova che guidava era imbrattata di fango. Lo sentivo accendere il motore, girare la chiave in un modo strano, che provocava strepiti di protesta, quasi avesse dimenticato i rudimenti della guida, o fosse distratto
da pensieri maligni. Una volta entrò come una furia in casa, dove io stavo facendo qualcosa in cucina, scaraventò le chiavi dell'automobile sul tavolo e disse, guardandomi con occhi feroci: «Prenditi quel mucchio di merda, è tutto tuo». Salì furioso al primo piano e mezz'ora dopo ridiscese furioso, ovviamente in cerca delle chiavi, che erano sul tavolo nel punto esatto in cui le aveva lanciate. Non le avevo toccate. Mentre in passato papà era sempre stato adorante con mamma, al punto di mettere in imbarazzo noi figli, adesso era indifferente, o sgarbato; o peggio. Non gli piaceva sentirsi rivolgere domande. Prese l'abitudine di interromperla a metà delle frasi. «No!» diceva, oppure: «Chi lo vuole sapere?». Una volta lo vidi spingere via mamma che aveva osato toccarlo, solo posargli le dita su un braccio. Un'altra volta lo vidi accostarsi a lei, avvicinare il viso infiammato a quello di mamma, e dirle qualcosa in un tono basso, sprezzante, che la fece sussultare come un calcio allo stomaco. (Se dopo episodi simili chiedevo a mamma che cosa fosse successo, mi rispondeva, ferita: «Non è successo niente. E ti sarò grata se non vorrai spiarci, giovanotto!».) Questa è una cosa che ricordo vividamente: vedere mio padre che raccoglie letame dietro casa, con il fare goffo e scoordinato di chi non ha mai usato un forcone in vita sua, e poi di colpo lanciare disgustato il forcone contro la parete del fienile, con tanta forza che per diversi fantastici secondi l'arnese, vibrante, restò sospeso in aria prima di cadere. Ero appena uscito dai box dei cavalli. Non potei fare a meno di applaudire. Probabilmente facevo lo stupido, a meno che non volessi fingere che un comportamento così brutale e futile da parte di mio padre fosse solo per suscitare quattro risate, come poteva essere ai vecchi giorni. Grande impresa, papà! Scommetto che non riesci a rifarlo! Ma papà non aveva sentito. Era già scomparso, salito sulla Lincoln per scappare a rotta di collo da High Point Farm e da tutto ciò che ormai significava per lui. Dissi a mamma: «Papà mi fa paura. Vorrei che se ne andasse da qualche parte da solo e ci restasse». Mamma, con gli occhi gonfi di lacrime, rispose: «Tu! Vattene tu, se non sei felice in questa casa». Riferivo incidenti del genere a Patrick, che mi aveva dato un numero di telefono segreto per chiamarlo. (In effetti era un numero del laboratorio. A volte c'era, a volte no, e se non c'era dovevo riappendere senza dire chi fossi.) «Papà mi fa paura» gli dissi, turbato. «Vorrei che se ne andasse da
qualche parte da solo e...» Patrick mi interruppe nel gelido stile Pizzicotto. «Senti, Judd, nostro padre è solo una vittima. È una di quelle rane che finiscono morte senza sapere cosa sia successo, dopo che la loro vita è stata risucchiata da un gigantesco ragno acquatico.» Michael Mulvaney Sr. riuscì a sfuggire al carcere maschile di Red Bank ma non sfuggì a quello che ormai definiva il proprio fato: essere trascinato pubblicamente nella merda, essere merda agli occhi altrui. Non credeva e non avrebbe mai creduto di avere commesso un reato quando aveva versato un po' di birra sulla faccia del giudice Kirkland, o tanto meno di avere commesso un reato quando, l'anno prima, aveva sbattuto Zachary Lundt contro un muro: erano reazioni "provocate" di cui non si pentiva affatto. Aveva pagato una multa di millecinquecento dollari, che però era solo quella che definiva una "mera frazione" del suo castigo. Perché si era messo ad assumere e licenziare avvocati come un ossesso: assumeva "l'errore iniziale", diceva, e ne licenziava "l'interesse composto". Però continuava ad assumerne, e per ogni nuovo avvocato che assumeva doveva pagare, pagare, pagare. Una settimana parlava in termini estatici di un certo Costello di Yewville, la settimana dopo di un Elder di Rochester; la settimana dopo, Costello ed Elder erano squalificati, ed era entrato in campo Fenwick, "un vero squalo". Gli avvocati terrorizzavano mia madre, perché secondo lei vivevano delle miserie altrui; era figlia di contadini e non poteva tollerare una professione che "non produce nulla, prende e basta". Lei, che non aveva pianto quando tre dei nostri cavalli erano stati portati via per essere messi all'asta (almeno, non aveva pianto davanti a me), pianse quando mio padre si gloriò con lei delle proprie strategie legali. Avrebbe intentato causa a quell'ipocrita di Kirkland! Avrebbe intentato causa al Country Club di Mt. Ephraim! Avrebbe intentato causa alla polizia di Mt. Ephraim per arresto ingiustificato! E al Patriot-Ledger per diffamazione! Ogni avvocato dava a mio padre la speranza di mettere una nuova medicazione alla sua terribile ferita; ma era una speranza letale come lo è il cibo solido per chi abbia lo stomaco ristretto dall'inedia. Per una settimana o più nel gennaio 1979 papà arrivò addirittura a promuovere una causa contro uno dei suoi ex avvocati, che accusava di incompetenza professionale, e in quel periodo i miei litigarono come mai li avevo sentiti litigare. Mia madre era furibonda nel vedere che mio padre buttava soldi per gli avvocati e mio padre sosteneva di poterli recuperare tutti, più altri: non aveva la giustizia dalla sua?
Al tempo stesso, papà sembrava non nutrire illusioni né speranze. Di giorno, sobrio, non sperava. Era un uomo che ne attaccava altri, un uomo disperato. Pareva essersi dimenticato del tutto di Marianne, di ciò che le era stato fatto, la radice di tutti i problemi; al centro della sua eccitata attenzione c'era un gruppo di individui di Mt. Ephraim che lo aveva trattato male, e continuava a farlo. Mi avvertì: «Appena ti trovi coinvolto nella macchina della legge, figliolo, sei fregato. Come un topo chiuso in un angolo dai cani. Innocente o colpevole, sarai punito perché dovrai assumere un avvocato, e appena assumerai un avvocato comincerai a pagare, pagare, pagare. Non importa che tu sia innocente e vinca. Hai già perso. Paghi, paghi, paghi». Alla fine, nella primavera del 1979, High Point Farm sarebbe stata venduta per migliaia di dollari in meno del prezzo suggerito dall'agenzia immobiliare, per pagare i debiti dei miei, dei quali trentaduemila dollari erano debiti con avvocati. ** Dopo Natale, mamma e io andammo a Kilburn a trovare Marianne. Ancora una volta, mia sorella non era stata invitata a casa per le feste. Sulla station wagon di mamma guidai quasi sempre io, e continuavo a sentire la voce di Patrick: Judd sei l'unica persona al mondo di cui posso fidarmi Judd sei l'unica persona al mondo di cui posso fidarmi oltre il nervoso chiacchierare di mamma. Tre ore e quaranta minuti di viaggio per Kilburn, nell'angolo più a sudovest dello stato di New York, per quasi tutto il tempo su strade di campagna a due corsie (a volte bloccati dietro spazzaneve che non superavano i trentacinque chilometri orari); all'incirca lo stesso tempo la sera, al ritorno. L'idea di passare la notte a Kilburn metteva ansia a mamma: «Di questa stagione, non si può prevedere cosa farà il clima». Un paesaggio innevato spazzato dal vento, aria luminosa e tersa nel gelo. Non erano previste nevicate immediate ma mamma ci vedeva bloccati dalle tormente a Kilburn, intrappolati fino al disgelo. Chissà se aveva detto a papà dove andavamo. Ammesso che lui si accorgesse della nostra assenza. Ammesso che lei e papà parlassero mai di Marianne. L'ex locanda, verde menta con finiture bianche, che era la Green Isle Coop non era cambiata molto dalla nostra ultima visita. C'erano decorazioni
natalizie a tutte le finestre e, nella stanza d'ingresso che era una combinazione tra salotto e ufficio, un sempreverde sbilenco con addobbi in carta, pezzi di stagnola e stoffa fatti a mano, nei colori primari. Il clima della cooperativa alle undici e trenta di un giorno feriale era indaffarato, vorticoso, addirittura frenetico: gente che correva in giro, su e giù per le scale, un telefono che squillava e un cane che abbaiava eccitato. Un'atmosfera accogliente per mia madre, che entrò sorridente, chiamando: «Marianne? Marianne?» finché qualcuno strillò: «Marianne! Visite!» e Marianne apparve dal retro della casa, asciugandosi le mani sul grembiule perché stava lavorando in cucina. Portava pantaloni cachi gonfi, una camicia scozzese rossa di flanella con le maniche arrotolate fino ai gomiti, un grembiule gigantesco e sporco. Quando lei e mamma si abbracciarono si misero a piangere silenziosamente, sembrava quasi ridessero; poi Marianne mi strinse, le sue braccia sottili ma sorprendentemente forti mi circondarono e io restai immobile, imbarazzato, un goffo ragazzo di sedici anni che non sapeva cosa fare. «Mio Dio, Judd, continui a crescere! Sei più alto di diversi centimetri!» esclamò ansante Marianne. Aveva ossa da passerotto e capelli più corti dei miei; la pelle era giallastra, granulosa. Ma gli occhi, che brillavano di lacrime, erano i bellissimi occhi di mia sorella. Quasi non riuscivo a sostenere quello sguardo. Marianne ci prese per mano e ci guidò nella sua stanza al secondo piano, parlando eccitata. Avevamo già visto la stanza però adesso lei aveva una nuova compagna, una ragazza che si chiamava Felice-Marie, che sorrise ma non pronunciò più di cinque o sei parole prima di scappare. «Che... bella ragazza» disse mamma, anche se Felice-Marie era in sovrappeso e aveva sopracciglia folte e scure, aggrottate. Marianne disse: «Oh, sì, Felice-Marie è una persona meravigliosa. Si sta laureando in terapia del linguaggio, ho imparato tanto da lei». Il radioso entusiasmo da liceo che rimbalza sulle superfici, abbagliante e febbrile e da non studiare a distanza troppo ravvicinata. La camera che Marianne divideva con Felice-Marie era più piccola di quella che aveva a casa. Una sola finestra, un tappeto color paglia sul pavimento, tende a rete, un insieme di mobili come quelli che vedi alle svendite casalinghe di vecchie cose disseminate su un prato. C'era un odore acidulo, non molto fresco. Vestiti su grucce appese a un'asta in un angolo. A parte qualche libro sparso qua e là, e un taccuino sul davanzale della finestra, non sembrava molto la stanza di due studentesse universitarie. E sul letto di Marianne, sulla trapunta fatta a mano, Focaccina ci scrutava bat-
tendo le palpebre, gli occhi tanè spalancati e luminosi. Marianne strillò: «Focaccina! Guarda chi c'è!». Mamma strillò: «Focaccina! Ti ricordi di noi?». Abbracciò il gatto, che aveva dato il via a fusa poderose. «Non è cambiato per niente, eh, Judd?» chiese mamma. Le brillavano gli occhi di lacrime e il sorriso era troppo ampio, a denti snudati, teso. In realtà, Focaccina aveva perso peso. Il pelo era di un bianco immacolato, colorato a chiazze, ma la pelle del ventre pendeva flaccida e la spina dorsale era sporgente. Mentre mamma e Marianne chiacchieravano, mi buttai sul letto a coccolare Focaccina, a carezzargli la pancia quando si rigirò facendo le fusa, senza smettere. Che conforto danno gli animali, pensai. Che rifugio sono. Focaccina si spinse con la testa contro di me, cercò di seppellirsi sotto il mio braccio. C'era qualcosa di frenetico nel suo affetto. Mi domandai se riuscisse a fiutare su di me Maschiaccio, il fratello perso, o qualcuno degli altri gatti. L'intero mondo di High Point Farm veniva evocato nel suo cervello felino dal mio odore, transitorio ed effimero come una bolla di sapone? Marianne non sapeva ancora che avremmo venduto la fattoria. O sì? La sentii chiedere timidamente come andassero "le cose a casa" e mamma mormorò: «Oh, lo sai, succede tutto d'un colpo!». E Marianne chiese di papà e mamma rispose all'istante: «Conosci Ricciolo! La sua sinistra non sa cosa faccia la destra, te lo giuro». Rise: amorevole esasperazione. Ricciolo! Nessuno chiamava mio padre così da anni. Patrick mi aveva detto di avere informato Marianne delle cose terribili che erano successe: l'arresto di papà al Country Club, la pessima pubblicità, gli avvocati; la condanna a due anni sospesa e la libertà condizionata e la multa di millecinquecento dollari. La famiglia Mulvaney rivoltata come un guanto ed esposta allo sguardo di tutti. Marianne ebbe un sorriso fiacco e mi scrutò, ma io stavo carezzando Focaccina sotto il mento. Non mi sarei messo in mezzo. Mamma cambiò opportunamente argomento, chiese a Marianne dell'università, e Marianne rispose in termini vaghi, disse che sì, imparava tanto, però aveva dovuto abbandonare uno dei corsi, storia americana, perché non riusciva a stare al passo. Ma il semestre successivo, giurò, non sarebbe rimasta indietro, in nulla. «Bene, ottimo!» disse giuliva mamma. «Non possiamo essere tutti come tuo fratello Patrick, un ragazzo prodigio che non deve nemmeno studiare per prendere sempre il massimo dei voti.» Marianne doveva correre sotto a finire di preparare il pasto di metà gior-
nata, come lo chiamavano lì, e ovviamente noi saremmo stati ospiti, ma prima che scappasse via mamma le spiegò impacciata che non ci saremmo fermati per la notte a Kilburn, e Marianne disse, addolorata: «Oh, ma credevo che questa volta voleste restare. C'è un concerto corale e alcuni di noi canteranno, alla mia chiesa. Ho detto al pastore che ci sarebbero stati mia madre e mio fratello e...». Mamma ribatté subito: «Sì, amore, ma il problema è il tempo. Non si sa mai cosa possa fare il clima di questa stagione. E, be'...». La voce le mancò, i suoi occhi cercarono quelli di Marianne. «Stasera ci aspettano a casa.» Marianne tentò di sorridere, si morse il labbro inferiore. «Va bene. La prossima volta che verrete a trovarci, allora.» «Assolutamente sì!» Mamma scrutò raggiante tutti, Focaccina compreso. A mezzogiorno in punto suonò un gong e mamma e io trottammo giù in sala da pranzo per un allegro, rumoroso, confuso pasto a un lungo tavolo con qualcosa come venticinque persone (il numero cambiava di continuo, tra arrivi e partenze). Marianne presentò mamma e me, e a uno a uno i membri della cooperativa seduti a tavola annunciarono il proprio nome e ci dissero: «Benvenuti!» e «Buone feste!». Ma già mentre quegli sconosciuti sorridenti, ragazzi e ragazze sui vent'anni, pronunciavano il proprio nome, io lo dimenticavo, conscio del mio essere impacciato. Erano così cordiali. Erano così curiosi. Mamma era nel suo elemento in quella turbinosa compagnia; saltava su ogni pochi minuti per accompagnare Marianne in cucina, pretendeva di aiutarla a servire il cibo, anche se altri strillavano: «No, no! Signora Mulvaney, lei è ospite». Mamma si beò delle attenzioni, ne godette ogni momento. Era chiaro che Marianne era molto amata dagli amici, però sembrava stranamente timida; sarebbe stato facile non accorgersi della sua presenza. Non per mamma, che annunciò alla tavolata: «Quando ero una giovane madre, i pasti a casa nostra... abbiamo una fattoria a Mt. Ephraim, forse Marianne ve lo ha detto... erano selvaggi, e intendo selvaggi. Nella stagione del raccolto avevo a tavola tante... tante persone come qui! Noi avevamo i bambini piccoli e gli ospiti arrivavano alla fattoria con i loro e ricordo una domenica con tre seggioloni a tavola... o erano quattro, Marianne?». Una risata, la mano battuta sulla fronte come un comico televisivo. «Oh, Marianne non può saperlo. Era uno dei bambini piccoli.» Morivo di fame e mangiai tutto quello che mi passarono. Una fumante zuppa di lenticchie con noci, pane al latte fresco di forno. Un formaggio
bianco come gesso che non aveva il minimo sapore e uno yogurt molto liquido che ne aveva anche meno. Maccheroni agli spinaci, pasticcio di riso e verdure. Mamma esclamava di continuo quanto fosse tutto delizioso. Chiese chi avesse preparato il pane (Marianne) e chi la zuppa di lenticchie (un ragazzo robusto che si chiamava Birk), e se i maccheroni agli spinaci fossero stati fatti lì (sì, da una certa Edie), e promise di mandare alla cooperativa certe sue marmellate di more, e un po' di pere Bartlett del suo frutteto. Parlò tanto, e con esuberanza tale, che quasi non toccò cibo, si limitò a rigirarlo nel piatto e in un momento strategico scambiò il piatto con il mio, che non solo era vuoto ma era stato ripulito a fondo con pezzi di pane al latte. (Una cosa che avevo visto mamma fare un'infinità di volte con il piatto di papà. Come ai nostri vecchi pranzi all'aperto del quattro di luglio, quando papà svuotava il piatto in cinque minuti, parlando e mangiando contemporaneamente, e mamma scambiava i piatti senza farsi vedere e papà continuava a mangiare e parlare, senza accorgersi della sostituzione e di avere ricevuto nuovo cibo.) Più mamma parlava, più recitava per la cooperativa, più io mi incupivo. Avevo sedici anni e per certi versi ero maturo per la mia età ma per altri ero ancora un ragazzino imberbe. Mi sembrava di vedere mamma con gli occhi di Patrick. È una vittima anche lei. È triste, patetica. Non bisogna darle colpe. Non che Marianne non fosse al settimo cielo. Lo era. Era ovvio che ci amava, la madre e il fratello minore. Non che mamma non piacesse agli amici di Marianne, era ovvio che piaceva, ridevano alle sue battute, la lusingavano con domande sulla fattoria. Mi aspettavo quasi che mamma si alzasse, le mani sui fianchi, e si mettesse a fischiare. Per la visita, indossava calzoni di lana e uno dei vecchi maglioni lavorati a maglia comperati in un negozio dell'usato, pesante come un maglione da sci, con spalle a coste e una decorazione a stelle arancio e verdi; a me ricordava la maglia da football di Numero Quattro. Per dare un tocco festivo aveva aggiunto orecchini turchesi e si era data un po' di trucco sulle guance. Finché continuava a parlare, a ridere, con l'entusiasmo della ragazzina in volto, sembrava giovane, ma quando si calmava il suo viso era solcato da rughe. Probabilmente era anche dimagrita. Il maglione pesante nascondeva le braccia sottili, il petto piatto. Guardandola con gli occhi di un estraneo, vidi che i capelli non erano più quel che si definisce pel di carota, ma avevano un colore smorto, tra grigio e castano. Gli occhi azzurro chiaro erano ancora sorprendenti però tendevano a non essere a fuoco, come se lei perdesse concentrazione a metà del discorso. Aveva anche una lieve
striatura violacea sulla mascella, e l'idea mi trapassò come una lama di coltello: È stato papà. Non era un pensiero a cui attaccarmi. Stavano sparecchiando per il dessert, venivano portati in tavola vassoi di biscotti ai datteri e nocciole (preparati da Marianne al mattino), tè alle erbe. E Abelove, il direttore della cooperativa, era appena arrivato di corsa, in ritardo, e non aveva il tempo di fermarsi a mangiare, però si era ritagliato uno spazio per stringere la mano alla madre e al fratellino di Marianne. «Benvenuti a Kilburn! È fantastico vedervi!» Pareva uno dei nostri insegnanti del liceo, un uomo giovane che trasudava "personalità". Poteva essere sui trentacinque anni, corporatura robusta, testa rotonda e collo forte e capelli biondo chiaro, barbetta e boccoli fino alle spalle come un Gesù Cristo biondo. Il tipo di persona che detesti con tutto il cuore finché non ti individua, non lascia cadere la mano sulla tua spalla (come fece con me, chiamandomi "Judd" quasi fossimo vecchi amici, e pari), e a quel punto ti sciogli e impazzisci per lui. Quando lodò mia sorella per "l'instancabile spirito di ottimismo" nella cooperativa, vidi gli occhi di lei colmarsi di lacrime di gratitudine. Non volevo nemmeno provare a immaginare quante ragazze della Green Isle Co-op fossero innamorate di quell'uomo. Di Marianne, Patrick diceva che non sapeva, o non voleva sapere, se venisse manipolata. Marianne non sapeva che cosa fosse il male. Non poteva saperlo perché perdonava troppo presto. Quando Patrick pronunciava la parola male, io rabbrividivo. Non capivo mai cosa intendesse esattamente. Che cos'è il male, a conti fatti? Gli avevo chiesto se credesse in Satana e lui, irritato, aveva risposto che no, non ci credeva, si era lasciato alle spalle Satana e il Dio cristiano. Gli avevo chiesto come potesse esistere il male senza Satana, e Patrick si era messo a ridere: secondo me chi aveva inventato Satana, se non gli esseri umani? Quel giorno, nella sala da pranzo della cooperativa di Kilburn, quell'Abelove alla Gesù Cristo in giacca a vento di nylon verde, petto robusto e sorriso smagliante e barba dai bagliori dorati mi fece pensare a quelle cose. Avrei preferito non farlo. Avrei anche preferito non pensare a mio padre che picchiava mia madre, la colpiva con un pugno, convinto, magari, che si trattasse di autodifesa. Procurandole un livido alla mascella che lei si sarebbe affrettata a giustificare con una spiegazione vagamente comica. Oh, ho sbattuto in una porta. I miei soliti sogni a occhi aperti! E non volevo nemmeno pensare a quello che mio fratello Patrick poteva escogitare, architettare di fare a Zachary Lundt. Fare giustizia! Che idea bizzarra, im-
probabile, in compagnia di tanta gente simpatica e sorridente alla Green Isle, allegri sconosciuti in mezzo ai quali ormai mia sorella viveva come fosse una di loro. Le cose che non dicevamo. Noi tre Mulvaney. Quella visita strana, insoddisfacente. Chi avrebbe immaginato che sarebbe stato, per mamma e me, l'ultimo incontro con Marianne a Kilburn? Era così lontana dalla laurea. Sapevo che cosa pensasse Patrick della Green Isle Co-op: completa disapprovazione. Avrei dovuto chiedere di più a Marianne sui suoi corsi, in cosa volesse laurearsi, cosa intendesse fare dopo la laurea. Insegnare? Alle superiori, alle medie, che cosa? Come aveva detto Patrick, sembrava dedicare la maggior parte del tempo al lavoro per la cooperativa. Mamma avrebbe dovuto insistere su quei punti, ma ovviamente non lo fece. Per l'intero pomeriggio parlò di argomenti generici, difese appassionatamente l'opposizione di Jimmy Carter al Congresso, annunciò a Marianne e a me che il presidente Carter era stato "pugnalato alle spalle" dal Partito democratico? il governo degli Stati Uniti era alla mercé di gruppi d'interesse, lobby come la National Rifle Association e l'American Medical Association, le industrie dell'automobile e del petrolio, ogni produttore di armi, come si poteva servire la democrazia? Che cos'è la democrazia? domandò mamma. Come possibile che il popolo americano venga ingannato in questo modo proprio dai legislatori che ha eletto? Il povero Jimmy Carter, praticamente l'unico uomo onesto di Washington! Mamma parlò, parlò. E all'improvviso fu il tardo pomeriggio, quasi il tramonto, quasi l'ora della nostra partenza. Accidenti, era quasi il Capodanno del 1979! Marianne, per parte sua, rise parecchio. Sorrise, si tirò i capelli corti, arruffati. Fu molto attenta a non fare domande rischiose, su papà, sulla fattoria. Chiedendo degli animali, scelse con cura le parole. A un certo momento, quando ci ritrovammo soli per qualche minuto, ripeté quanto fossi cresciuto, quanto stessi diventando "bello", e io levai gli occhi al cielo da buon fratello minore. È COSÌ che ci si comporta con una sorella. No? «Penso... Penso che mi manchi molto, Judd» disse Marianne, sottovoce. Sul suo viso c'era un'espressione quasi di paura. «Vorrei...» «Sì, lo so.» «Ma probabilmente quest'estate sarò di nuovo a casa. È quasi certo. Mamma me l'ha appena detto.»
«Grandioso.» «Focaccina adesso dorme raggomitolato qui.» Marianne mi indicò teneramente la zona tra collo e spalla. «Ha perso il peso in eccesso. È bellissimo, non ti sembra?» Focaccina, appollaiato sulla scrivania di Marianne, in mezzo a noi, spostava in fretta lo sguardo da Marianne a me e poi di nuovo su di lei. Il naso era rosa chiaro, le vibrisse lucide e immacolate. Gli occhi color bronzo con pupille nere, svegli, intelligenti. Pensai: Sente le cose che non diciamo. Marianne lo accarezzò, e le fusa diventarono il suono crepitante di un motore. Lei disse, felice: «Non dormiva più sul mio collo da quando era un micino. Per cui è un bene che abbia perso i chili in più». «Sta benissimo.» «È un gatto fantastico.» «Be'» dissi con una risata, improvvisamente depresso e ansioso di andarmene da Kilburn «tutti i gatti sono fantastici». Mamma volle parlare con Abelove prima che partissimo, nel suo ufficio a pianterreno. Voleva dirgli che eccellente impressione le avesse fatto la Green Isle Co-op: meravigliosi, giovani idealisti. Più di tutto, insistette perché Abelove accettasse di lasciarci pagare il pranzo. Gli infilò i soldi in mano con l'aria superiore e ansiosa della donna ricca che vuole sbarazzarsi di un po' di spiccioli. «La prego, accetti. È solo una cifra simbolica!» implorò. Come se Abelove dovesse essere placato, oltre che pagato. «Lei è stato così generoso a ospitarci alla sua tavola.» Abelove rispose, con quel suo enorme sorriso: «La famiglia di Marianne è la nostra famiglia. Sarete sempre benvenuti qui. Comunque... Grazie!». Prese i soldi di mamma e stese le banconote sul piano della scrivania. Doveva essere all'incirca una cinquantina di dollari. «Alla Green Isle fanno comodo tutte le donazioni degli amici. L'Università di Kilburn non offre alcun sostegno economico alla cooperativa, a parte affittarci la proprietà per cento dollari l'anno. Com'era conciato questo posto, quando siamo arrivati!» Mamma ebbe un sorriso complice. «Marianne me lo stava spiegando. Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo...» «... Secondo le sue necessità.» «Oh, ma qui avete fatto un lavoro così fantastico! Vivete in modestia e semplicità, mangiate cibo genuino e niente carne... vorrei riuscire a convincere mio marito a rinunciare alla carne... siete come i primi cristiani.
Prima che le sette si dividessero e si creasse tanta rivalità, tanti litigi. Credo che nel profondo del cuore lo sappiamo tutti. Non c'è bisogno di teologia. C'è tanta felicità in questa casa, un grande senso di... famiglia.» Mamma era eccitata; chiazze di colore acceso sulle guance. Poco prima, aveva parlato del presidente Carter nello stesso modo. «Mi sarebbe piaciuto avere un posto così accogliente in cui vivere quando ero all'Università statale di Fredonia, non una semplice casa per studenti. Mia figlia è tanto fortunata.» Per fortuna, Marianne non sentì. E mamma non si accorse di me che ciondolavo davanti alla porta di Abelove, in attesa. E alzavo gli occhi al cielo. Gesù, mamma. Fu allora che l'amichevole chiacchierata tra lei e Abelove prese una svolta disastrosa. Come accadeva spessissimo in quel momento delle nostre vite, le conversazioni con Corinne Mulvaney o Michael Mulvaney Sr. prendevano svolte disastrose a cui non eri mai preparato. Espansivo e raggiante come chi si è addestrato a sorridere sin dall'infanzia, Abelove stava accompagnando mamma alla porta. Si erano trovati in sintonia al cento percento: Abelove era chiaramente colpito dalla madre di Marianne, sorprendentemente vivace e gioviale, in calzoni e sgargiante maglione da sci, con i capelli in disordine però non priva d'attrattiva, e mamma aveva solo un pizzico di vertigini in presenza della robusta virilità di un uomo più giovane. Non si poteva parlare di un'energia sessuale, ma quasi. Poi Abelove commise l'errore di dire: «Signora Marianne, volevo dire Corinne, lei deve essere molto orgogliosa di Marianne. È una ragazza speciale. Noi la chiamiamo la nostra pacificatrice». «Davvero?» ribatté mamma, e il suo sorriso si indebolì. «Sì, mia figlia è sempre stata una persona... speciale.» «Sua figlia possiede una notevolissima purezza di cuore. Ha fede in Dio e nella specie umana, in ugual misura.» La voce di Abelove era radicalmente calda, come quella di un predicatore. «Ha solo bisogno di un po' più di fede in se stessa.» Marianne era ancora fuori portata d'orecchio; parlava con qualcuno più giù in corridoio. Mamma, premendosi una mano sul cuore, rispose tagliente: «Come? Non capisco». Si erse in tutta la sua statura, fissò diritto negli occhi lo stupito giovane. «Non ho l'abitudine di discutere di mia figlia con estranei, signor Abelove.» Abelove batté le palpebre, sorpreso. Tentò di sorridere di nuovo, di
sguinzagliare la cordialità. «Ma, signora Mulvaney, Marianne non è un'estranea per nessuno di noi.» «Lei è un estraneo per me, signor... Oh, quello sciocco nome inventato!» Le mani di mamma svolazzarono ai capelli. «Questa conversazione è durata abbastanza.» Ripartì a passo svelto, e passando mi afferrò il braccio. Abelove indietreggiò come un pugile centrato da un colpo duro, inatteso, allo stomaco. Mi guardò implorante, ma io gli restituii solo un'occhiataccia. «Addio! Grazie per il pranzo!» E mi avviai sulla scia di mia madre. In maglione nel vento esile, gelido, con lo sguardo che guizzava attorno, Marianne ci diede il bacio dell'arrivederci, ci strinse e pianse e ci fece promettere che alla visita successiva a Kilburn ci saremmo fermati per la notte: a quel punto, il clima sarebbe stato caldo. Io mi ero infilato al volante della station wagon di mamma che di recente non aveva un bell'aspetto, era chiazzata di ruggine, scalcinata, e aveva uno dei finestrini posteriori rattoppati con nastro isolante. Ero impaziente di lasciare Kilburn: in cielo si erano addensate macchie scure in continuo movimento, pareva un banco di ghiaccio sporco. Tempo di arrivare alle colline ai piedi dei Chautauqua e di affrontare l'infida High Point Road, e sarebbe già stata mezzanotte. Marianne chiedeva a mamma per l'ennesima volta di portare i suoi saluti a papà, e il suo affetto, e dirgli che pensava a lui di continuo; e lo stesso a tutti gli animali! E Focaccina aveva l'aria di stare bene? o era magari un po' troppo magro? E mamma rispose brusca: «Quando i gatti invecchiano, i reni cominciano a funzionare male, lo sai. C'è un accumulo di tossine e perdono l'appetito, anche quelli che hanno sempre mangiato tanto, e dimagriscono e dovrai essere realista, Marianne. Focaccina non è più un gatto giovane. Deve avere... quanto?». Colta di sorpresa, Marianne batté le palpebre. «Non so. Sei anni? Sette?» «Quel gatto ha almeno undici anni oppure non ha nemmeno un giorno» ribatté mamma, severa. «Dovrai solo essere realista, Marianne.» Io abbassai la testa. Non riuscivo a guardare in faccia mia sorella. Via in retromarcia sul sentiero d'accesso segnato da solchi profondi, una lieve sbandata su un punto di terreno gelato, e poi eravamo sulla strada, diretti a casa, e Marianne ci corse dietro sul sentiero e si fermò a fare cenni di saluto sfidando il vento, figurina solitaria che svanì presto nello specchietto retrovisore.
Fratelli «Quello che mi serve più di tutto da te, Judd, è uno dei fucili. Dall'armadietto di papà.» Mormorai Sì, va bene. «Uno è il Browning da caccia calibro .12 che non ho mai usato. Però una volta l'ho imbracciato. È pesante, letale. Due canne. A distanza ravvicinata potrebbe far saltare una testa. C'è anche il Winchester calibro .22 di Mike, te lo ricordi? Mi ci ha lasciato sparare qualche volta. Tiro al bersaglio dietro le stalle. Ricordo che Mike restò stupito perché avevo fatto centro. La fortuna del principiante, disse.» Non lo ricordavo. Dovevo essere troppo piccolo. I miei fratelli non avevano voluto che li seguissi. O forse non era mai successo? Avevo idea che, se avessi chiamato Mike alla base dei marine in Florida, avrebbe riso e negato. Cosa, Pizzicotto? Cieco da un occhio? Non riuscirebbe a colpire la parete di un granaio. Patrick aveva un tono di meraviglia. «È strano parlare di queste cose, no, Judd? Però a me sembra giusto. Mi sento più in pace da quando ho cominciato a pianificare che cosa bisogna fare. Altre cose che mi si affollavano nella mente, mi rendevano ansioso e mi tenevano sveglio, adesso hanno trovato la prospettiva giusta, hanno perso significato. Succede anche a te?» Mormorai Credo di sì. È giusto! Se lo dicevo ad alta voce, doveva essere vero. Patrick disse: «Non potrei andare avanti con la mia vita. La mia vita "normale". Finché giustizia non sarà fatta. Finché il nostro nemico non sarà punito». Ogni volta che Patrick mi parlò al telefono in dicembre, gennaio, febbraio, il suo piano per fare giustizia appariva più definito, elaborato. Era come se, a Ithaca, contemplasse su una tabella appesa alla parete i particolari di cui a me poteva solo accennare. Aveva stabilito l'esecuzione del piano per aprile, a Pasqua, quando presumeva Zachary Lundt sarebbe stato a casa a Mt. Ephraim. Il piano di Patrick era sorprendere Zachary con il buio, portarlo via sotto la minaccia delle armi, preferibilmente sull'auto di Zachary. Lo avrebbe costretto a guidare fino a un certo luogo (non era certo di volermi comunicare quale, non ancora; non voleva che venissi "incriminato" senza motivo) dove sarebbero rimasti isolati, e dove sarebbe accaduto ciò che doveva accadere. «Gli chiederò un'ammissione di colpevolezza. Sì, ha stuprato mia sorella. Sì, è uno stupratore e un bugiardo, è
malvagio e merita una punizione. Si può credere nel male a prescindere dal demonio. Non c'è Satana ma c'è il male. Il male è presente nel programma genetico della nostra specie, come la rapacità ai danni della natura, l'avidità e la superstizione e la stupidità. Intendo l'inclinazione a queste cose. Siamo liberi di scegliere se attivare o no il male che abbiamo dentro. Possediamo il libero arbitrio. Io posseggo il libero arbitrio, e anche Zachary Lundt. Lui ha scelto il male. Ha distrutto la mia famiglia e va punito.» Parlava con il tono di chi espone dati di fatto. Io ascoltavo, ipnotizzato da quelle parole tanto diverse dalle parole che mi erano mai state dette. «Non ho necessariamente intenzione di usare il fucile. Potrei essere costretto a farlo se rifiutasse di venire con me. Conosco i rischi. Di una o più pallottole si potrebbe individuare la fonte. Quindi, se si tratterà di una vera esecuzione, se si arriverà a questo» parlava in fretta, ma calmo «userò un coltello. Forse lo lascerò vivere sfigurato. Potrei castrarlo, come un maiale. Non sono sicuro. Non ho ancora deciso. Ho cloroformizzato e sezionato molti esemplari di laboratorio. Però mi servirà un fucile, diciamo quello di Mike, in modo che anche Mike abbia una parte in questo, perché secondo me gli piacerebbe, tu non credi? Zachary Lundt deve capire che faccio sul serio, nei primi secondi. È quello il momento cruciale. Potrebbe chiedere aiuto, o cercare di scappare.» Patrick si interruppe. Il vento di nordest che spazzava la valle e sembrava una cascata sui tetti e sui lati della casa era all'interno della linea telefonica, creava brividi ed echi nella voce di mio fratello. «Judd? Ci sei?» Risposi Certo. Certo, Patrick! Stringevo il ricevitore con tanta forza da avere le nocche bianche. «Mi procurerai il fucile di Mike, vero? Me lo porterai? E anche un po' di munizioni, se servissero? In un posto dove non ci vedano. Non devono vedere me. Dalle parti di Mt. Ephraim, intendo. Io dovrò essere in due posti contemporaneamente, perché non posso essere colto in flagrante e quello che farò non è ripetibile. Sarà un esperimento che si può eseguire una sola volta.» Patrick parlava a frasi misurate, meditate. Era a un tempo il mio fratello maggiore P.J. che adoravo e temevo e qualcuno che non conoscevo, un viso che non sapevo immaginare se non per l'occhio sinistro socchiuso e gli occhiali ben all'insù sul naso. «Dovrai aprire l'armadietto di papà con la chiave. Non puoi forzarlo. Se forzassi la serratura... No, non si può. Troveremo qualche altro modo di procurarci un'arma.» Io fissavo l'angolo in ombra della stanza che conteneva l'armadietto di papà. Uno degli "oggetti d'antiquariato" di mamma, con una vetrina sul
davanti; legno ricco di nodi che parevano occhi. Dissi a Patrick Sì. «Com'è il clima lì?» Il clima? Mi misi in ascolto: vento. Forse neve. Erano le 3.10 di mattina e io parlavo con Patrick, lontano centoquaranta chilometri, al telefono della stanza per le riunioni di famiglia, al buio, con la porta chiusa e Troy che dormiva e sbuffava soddisfatto ai miei piedi. Di sopra, mamma dormiva. Aveva fatto un lungo bagno caldo alle undici ed ero abbastanza sicuro che dormisse. Non sapevo, né esattamente né in maniera approssimativa, dove fosse papà, però ritenevo che se avesse risalito il vialetto in auto i fari lo avrebbero preceduto, e non avrei avuto problemi a rifugiarmi nella mia stanza di sopra. «Qui c'è una tormenta» disse Patrick. Sembrava compiaciuto. Ripeté che il suo piano per Zachary Lundt era quasi completo a livello di progetto ma esitava a darmi maggiori particolari perché voleva evitarmi di restare coinvolto più del necessario. Era certo che la polizia non lo avrebbe individuato, che Zachary Lundt vivesse o morisse lui non sarebbe stato individuato, però era ansioso di proteggere me, suo fratello. Disse, con aria di rimpianto: «Nessuna azione umana può essere prevedibile al cento percento. Il futuro non è qui, non si può predire». Deglutii a fatica. Gli dissi che non avevo paura. Avrei fatto tutto ciò che voleva, quando voleva. «È una semplice questione di coordinazione. Ti incontri con me nel posto X e mi consegni fucile e munizioni. Il calibro .22 di Mike, il fucile che mi porta fortuna. L'unico che abbia mai usato. Poi torni subito a casa e ci resti e non sei minimamente coinvolto. Quando mi risentirai, potrai andare a recuperare il fucile nel posto Y e riportarlo a casa. Non avrà sparato, ne sono certo. Se mi renderò conto di doverlo... uccidere, fargli del male, userò un coltello. Un comunissimo coltello da tavola. Ne comprerò uno con settimane di anticipo in un negozio di qui. Un semplice coltello. Una cosa che non lasci tracce. Però potrei anche non fargli del male. Ma potrebbe accadere. Si comporterà da vigliacco, implorerà di avere salva la vita. Non farà resistenza. Lo conosco. Conosco tutti loro, Zachary Lundt e i suoi amici. Avrebbero mentito su Marianne per proteggerlo. Mi piacerebbe punirli tutti ma non posso. Non solo i suoi amici ma anche suo padre. E gli amici di papà.» Il tono amarissimo in cui disse amici. Il modo di Patrick di pronunciare la parola, le labbra contratte nel disgusto, come quelle di papà.
Sussurrai il mio assenso. Mi tremava la voce. Sentivo un brivido che mi scuoteva tutto come quando ti innamori, la prima terribile volta in cui non sai che è amore. Pensai Ho un fratello! Sono un fratello! È questo che significa essere fratelli! Spesso, sul punto di riappendere, Patrick cambiava idea e saltava a un altro argomento. Come, in un incendio nei boschi, una scintilla può balzare di tre, cinque metri in un istante e dare il via a un nuovo focolaio. «Judd? Lo sai che per la teoria evoluzionista l'intelligenza non è una causa di natura, ma solo un effetto, un effetto accidentale? Un concetto difficile da accettare, intendo sul serio. Ne ho discusso ultimamente con i miei professori. Insomma, io ci credo, è ovvio, però...» Ero esausto. Cinque minuti di Patrick mi mettevano fuori combattimento. Peggio che spalare letame in cortile a trentacinque gradi. Peggio di dover mandare a memoria formule ed equazioni di chimica, fisica. Ero pronto a esplodere in una risata. Ero pronto a chiedere: perché non puoi credere in tutto quello che vuoi, questo non è un paese libero? Ma sapevo che sarebbe stata una reazione ignorante che avrebbe deluso mio fratello. Dissi Suppongo di sì Patrick. Dissi Non so. Ci fu silenzio all'altro capo della linea. Solo il vento che in qualche modo si era infilato nei fili del telefono. Immaginavo gli occhi socchiusi di mio fratello, la sua espressione di esasperata pazienza. Patrick voleva soltanto qualcuno, un fratello, che fosse degno di lui. Adesso lo capisco. Devo averlo deluso, a dispetto di tutte le buone intenzioni. Varcare il confine Hai stuprato mia sorella avrebbe detto. Avrebbe accusato Hai stuprato mia sorella, hai distrutto la mia famiglia. Tenendo sotto mira il nemico intimorito, piccolo piccolo Credevi di non venire mai punito? Quell'inverno, tranne nei giorni battuti da un vento estremamente gelido, Patrick corse, corse per chilometri. Era troppo inquieto per restare a lungo nella sua stanza, o per lavorare in laboratorio come faceva un tempo, perso nella sua concentrazione, a fissare il ribollente mondo ingrandito dei microrganismi. Si era stancato di quel mondo che aveva tanto poco a che fare con il suo. Di quell'anonimato privo di intelletto o scopo, salvo il replicarsi
all'infinito. I suoi coinquilini al 114 della Cook lo vedevano di rado, salvo gli incontri sulla scala o sul marciapiede, figura alta sotto il cappuccio della giacca di pecora, con la sciarpa di lana a coprire la metà inferiore della faccia. A Ithaca c'erano diversi fanatici della corsa: Patrick Mulvaney non si sarebbe considerato uno di loro; riteneva che le sue esplosioni podistiche, talora due al giorno, fossero solo estensioni della sua coscienza. Mentre non riusciva più a pensare con chiarezza nella sua stanzetta zeppa di cose, o nel laboratorio con le luci fluorescenti e odori che gli procuravano l'emicrania, riusciva a pensare con enorme chiarezza all'aria aperta, muovendosi. Quale piacere dal suo corpo! dal giovane snello agile corpo! dai muscoli duri di polpacci, cosce! e di braccia e spalle, dai movimenti a metronomo delle braccia! Il percorso era sempre lo stesso, così non doveva pensarci. E la mente era libera di pensare ad altro. Su per la ripida salita della Cook fino a College Avenue e poi verso nord sulla College fino a Central Avenue, attraversando Cascadilla Creek, poi in discesa fino a West Avenue e al ponte sospeso su Fall Creek, a est al lago Beebe gelato, lungo la riva completamente ghiacciata dove all'alba fringuelli e cinciallegre trapassavano l'aria con i loro strilli taglienti, perplessi, che a Patrick ricordavano gli uccelli selvatici di High Point Farm, il risvegliarsi alle stesse voci, i misteriosi dialoghi animali mescolati con il suo sonno infantile. Poi girare attorno al lago per chilometri, spingendosi a est fino alle piantagioni Farnell, e cominciare a tornare indietro passando per il villaggio di Forest Home che, con le case in legno addossate tra loro, le strade e i marciapiedi stretti, evocava per lui una vecchia zona di Mt. Ephraim dalle parti del liceo dove aveva passeggiato solo, spazientito per il trambusto della mensa nell'intervallo di pranzo, prima che accadesse quella cosa. Molto prima che quella cosa entrasse nelle loro vite. E sempre, quale sollievo dalla solitudine! Dal movimento ritmico del suo corpo! Passando per Forest Home seguiva la riva sud del lago, curvava in direzione del campus della Cornell in cui rientrava sotto il laboratorio Newman di studi nucleari, poi risaliva il campus che in quell'area era ricchissimo di edifici: la parte meno gradita della corsa, perché lì poteva vedere o essere visto da qualcuno che conosceva, e la sua identità di Patrick Mulvaney gli sarebbe stata rigettata addosso come una secchiata d'acqua in faccia. Ma lo sguardo d'acciaio, la testa alta e l'implacabile movimento scoraggiavano la cordialità dei saluti, se mai ce ne fossero stati. E via di nuovo a Cascadilla Creek e giù per la College fino alla Cook. A quel punto era sudato, eccitato ed esausto. E
colmo di speranza. Correre gli rivelava tante verità! Ogni momento del tempo è stato un momento di stupore e di timore e di inconsapevolezza. Alla fine di marzo, da un telefono pubblico di Ithaca Patrick chiamò i Lundt a Mt. Ephraim. Erano le cinque del pomeriggio di un giorno feriale. Una donna rispose al quarto squillo. Patrick si presentò come amico del liceo di Zachary, usando un nome (Don Maitland) che suonasse plausibile alla signora Lundt, perché in effetti alla periferia della cerchia di Zachary c'era stato un Don Maitland, e Patrick supponeva che i due non fossero in contatto, dopo tanti anni. Chiese indirizzo, numero di telefono eccetera di Zachary, e la signora Lundt gli fornì le informazioni senza problemi: sì, suo figlio era alla SUNY di Binghamton, sì studiava amministrazione aziendale, no non si sarebbe laureato quell'anno, si era preso un paio di semestri di libertà ma adesso faceva sul serio, lavorava sodo e lei e il marito si aspettavano che Zachary prendesse il diploma la primavera successiva. La signora Lundt aveva una voce cortese, e fu tanto gentile da chiedere a "Don Maitland" come stesse, che cosa facesse, e Patrick fornì una risposta plausibile. Anche "Don Maitland" aveva lasciato gli studi per un po', ma adesso li aveva ripresi, alla Oswego Tech, dove studiava ingegneria elettronica. Chiese: «Zachary sarà a casa per le feste di primavera? Attorno a Pasqua?» e la signora Lundt disse: «Sicuro, sì» e Patrick disse: «Grande! Allora noi ragazzi possiamo ritrovarci, come l'ultima volta» e la signora Lundt disse, con una pacata risata materna: «Sono certa che lo farete». A quel punto, Patrick avrebbe potuto salutare e riappendere. Ma udì la propria voce chiedere, con astuta ingenuità: «Come sta quella ragazza di Zach?». La signora Lundt si mise immediatamente in guardia. «Quale ragazza?» «Non ricordo di preciso il nome. Una della Tri-Delta, credo, a Binghamton. Bionda, abbastanza alta...» Ci fu un attimo di silenzio. Poi la signora Lundt disse, fredda: «Se è la ragazza che ho in mente, non so». Patrick, con giovanile ammirazione, disse: «Zach è sempre stato fortunato con le ragazze. Fin dal liceo. Quando le vuole, le ottiene. Quando non sa più che cosa farsene, scompaiono. Noi ragazzi lo prendiamo sempre in giro: cosa ha lui che non abbiamo noi?». La signora Lundt rise. "Don Maitland" la stava corteggiando? «Tu cosa sai di Zachary, Don, che io non so?»
Patrick disse: «Ehi, non voglio raccontare cose su Zach. Dimentichi quello che ho detto, signora Lundt». «Non conosco la vita privata di Zachary. Sono soltanto sua madre.» «Ehi, la stessa cosa che dice mia madre. Di me, ovvio.» Patrick e la signora Lundt risero assieme. Patrick disse: «Be', signora Lundt, grazie! Chiamerò Zach, e non vedo l'ora di rivederlo tra qualche settimana». «... Una di loro, una certa Joellen... La conosci o sai qualcosa di lei?» «Chi?» «Joellen qualcosa. Non ricordo il cognome.» «Può darsi. Di Binghamton? Di un'associazione femminile?» «Ha una bella faccia tosta. Ha chiamato qui e voleva parlare con me.» «Uh oh» commentò Patrick, comprensivo. «Quand'è successo?» «Circa un mese e mezzo fa. Cioè, è allora che sono cominciate le telefonate. Chiamava a qualunque ora. Le sette di mattina, le dieci di sera, una volta alle due di notte! Naturalmente, noi riappendevamo. Pensavamo di farci dare un numero riservato. Ma alla fine si deve essere scoraggiata. Ha smesso di telefonare. Joellen qualcosa. Sono sicura che non fosse una studentessa universitaria.» «Ha parlato con lei?» «Certo che no! A parte pochi secondi la prima volta. Quando ho capito chi era e cosa voleva.» «Cosa voleva?» «Raccontare bugie, malignità su mio figlio. Accusarlo. Con sua madre.» «Accusare Zach di cosa? Gesù.» «Oh, chi lo sa? Tu sai come possono essere le ragazze, un certo tipo di ragazze in caccia di maschi. Devi avere avuto anche tu lo stesso problema.» Patrick rise. «Signora Lundt, come le ho detto, io non ho la fortuna di Zach. Non sono esattamente bello come Zach. Lui ha qualcosa, basta che entri in una stanza...» La voce di Patrick svanì in un tono ammirato. La signora Lundt disse, cordiale: «Zachary ha preso da suo padre. Quando Mort era giovane, intendo. E aveva i capelli. Però Mort, buon Dio, non è mai stato come Zachary! Non aveva il suo modo di fare. Ma ovviamente oggi le cose in America sono cambiate. Dopo gli anni sessanta». «Già. Così si dice.» «È dalle medie che le ragazze corrono dietro a Zach. Lo chiamavano qui a casa. Ma pensaci, una ragazzina di tredici anni che chiama un ragazzo a
casa. Quando andavo a scuola io, fare una cosa simile ci avrebbe umiliate. Saremmo morte di vergogna.» Patrick ridacchiò, partecipe. «Sì. Anche mia madre.» «Alla fine abbiamo fatto mettere una linea solo per lui. Mort ha detto che era una questione di autodifesa.» «Ricordo una ragazza agli ultimi anni del liceo. Non era esattamente la ragazza di Zach, però...» «Oh, ce ne sono state tante. Noi non approvavamo sempre.» «Una cheerleader, mi pare...» «Alcune erano così sfacciate. Da non crederci.» «Questa ragazza ha fatto accuse pazzesche a Zach. Dopo un ballo.» «Non me lo ricordo.» «Eravamo tutti alla festa di Bobbi Krauss. Lei ha cercato di dire che noi non eravamo stati invitati, ma ci avevano invitati. E quello che è successo poi, dopo che la ragazza se n'è andata con Zach, non è stato troppo chiaro.» «No. Non ricordo.» La signora Lundt aveva preso un ritmo accelerato, ansioso. Stava per riappendere, e Patrick non voleva insospettirla, ma non poté fare a meno di continuare, furioso: «Il padre della ragazza era un agricoltore o qualcosa del genere. Non si è presentato a casa vostra? Zach ci ha detto di essersi preso una paura del diavolo. Però è stata lei a chiamare la polizia, signora Lundt...». Lei ribatté, a voce bassa e rapida: «Non... non ricordo esattamente. Un episodio confuso. Quell'uomo era ubriaco e violento e ha minacciato di uccidere mio marito e mio figlio...». Patrick disse: «Senta, noi ragazzi eravamo tutti dalla parte di Zach. Ci mancherebbe. Se si fosse arrivati a un processo, avremmo testimoniato per Zach». «Oh, sì. Lo abbiamo apprezzato tanto, Mort e io. Eravamo così sconvolti. Ma la ragazza mentiva, ed esagerava, e non se n'è fatto niente.» Patrick disse, irritato: «Zach ha sempre saputo di poter contare sui suoi amici. Non c'era bisogno che un avvocato parlasse con noi e ci spiegasse che cosa dire». A mezza voce, la signora Lundt disse: «Oh sì, Mort e io abbiamo apprezzato la vostra... lealtà. È stato un momento terribile, terribile...». Patrick disse: «E che diavolo, signora Lundt, se puoi contare su qualcuno sono i tuoi amici».
«Avevamo il terrore che quel pazzo, il padre, tornasse qui e facesse qualcosa di violento. La polizia ha detto che non poteva trattenerlo e lui non sentiva ragioni.» «Gesù. Che fine ha fatto? E la ragazza?» «La ragazza se n'è andata, grazie a Dio. La famiglia l'ha mandata via. Il padre, non so di preciso.» La signora Lundt aveva il respiro chiaramente accelerato. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Adesso credo che dovrò riappendere.» «Mi scusi se l'ho turbata, signora Lundt. Non volevo...» «Adesso riattacco. Arrivederci, Dan.» Patrick disse: «Grazie per il numero di Zach, signora Lundt. Ci vediamo!». Come avesse avuto il terrore di un ponte. Un ponte sospeso, per esempio. Paura di mettere piede su un ponte stretto, alto, ondeggiante, come quello al di sopra di Fall Creek. E, con stupore, scoprì che non era pericoloso, per nulla. Attraversare il ponte senza quasi rendersi conto di ciò che faceva e arrivare sano e salvo al lato opposto. Difficile credere che Patrick Mulvaney commettesse errori simili. Prima del giorno del Ringraziamento, aveva cambiato tre volte l'argomento di ricerca per la sua tesi dell'ultimo anno di biologia. Dapprima si era messo al lavoro su un problema di biogenesi delle membrane, poi su un argomento di genetica degli invertebrati, temi entrambi suggeriti dal suo relatore, il professor Herring. Ma non era riuscito a mantenere l'interesse iniziale. Ci aveva provato, con tutto se stesso. Capiva che un giovane biologo ricercatore deve lavorare sotto la guida degli anziani. Sei parte di una squadra, fai quello che ti dicono e non chiedi il perché. Ma Patrick si scoraggiò e perse la pazienza, buttò i suoi dati. Il terzo argomento era più teorico dei primi due, e avrebbe comportato massicce quantità di letture in aree per lui nuove, e meno lavoro di laboratorio. Si trattava di un'applicazione della teoria matematica dei giochi alla teoria darwiniana dell'evoluzione. Voleva analizzare il concetto di "mossa forzata" nel disegno dell'evoluzione: l'imperativo biologico per il quale, per sopravvivere, una specie deve adattarsi lungo una linea X e non lungo altre. (Esempi erano i parassiti che diventano dipendenti da un'unica specie ospite, il fenomeno di quei passeri che dipendono da aree ad alta densità di popolazione umana, la gestazione a breve termine in alcune specie, a lungo termine in altre, fenomeni strani come occhi su peduncoli, oppure occhi
incassati, esoscheletri, cervelli minuscoli.) La "mossa forzata" era una metafora presa dagli scacchi. Fai la tua mossa in quanto specie in crisi, una mossa brillante, disperata, fortunata o destinata a fallire; ma non hai scelta. In retrospettiva, se sopravvivi, dal punto di vista privilegiato del futuro si può ipotizzare che ti sia "adattato" a un ambiente alterato. Hai fatto ricorso alla "specializzazione" biologica. I dati potrebbero indicare, o si potrebbe sostenere che indichino, un disegno inconscio del DNA. Uno scopo, un'intelligenza. A meno che i dati non indichino casualità totale, accidentalità. Nel qual caso la sopravvivenza della specie non è un'essenza della specie ma puro accidente. Quando Patrick parlò di queste ipotesi con il professor Herring, nell'ufficio del docente a Lydall Hall, Herring lo guardò perplesso. Lo interruppe spesso per porgli domande a cui Patrick rispose con difficoltà. «È una delle cose che voglio sapere.» Herring era un uomo vigoroso di mezza età; nella facoltà godeva della reputazione di essere capriccioso e crudele, di sfruttare gli allievi più giovani, pronti a fare il lavoro pesante per i suoi protetti; però era un uomo brillante, generosamente sovvenzionato dalla National Science Foundation e dall'università, noto per essere molto gentile con alcuni studenti, stranieri quanto americani, però tutti giovani maschi che trattava in sostanza come figli. Per tre anni, Patrick Mulvaney era stato uno dei suoi allievi preferiti. Herring gli aveva fatto avere borse di studio per ricerche estive, fondi per studio e lavoro, aveva scritto per lui una lettera di raccomandazione molto convincente per farlo accedere alla scuola di specializzazione; ovviamente gli aveva sempre dato voti assai alti, anche se a volte lo aveva fatto oggetto di aspre critiche. «Lei può fare di meglio, signor Mulvaney. Lei può fare di meglio» gli diceva. E così Patrick faceva di meglio, senza fallo. Era grato a Herring, lo ammirava più di ogni altro professore, però in sua presenza si innervosiva. Come si innervosiva in presenza di uomini più anziani di lui, decisi ed espliciti e robusti nel fisico, che gli ricordavano suo padre. Fondamentalmente, provare gratitudine per qualcuno più anziano è una posizione snervante. Patrick non era affatto certo che gli piacesse. Mentre Patrick parlava durante quello che sarebbe stato il loro ultimo incontro, a gennaio, Herring dimostrò un disagio crescente. Patrick si era presentato all'ufficio di Herring con un fascio di fogli non numerati, battuti a macchina fitti fitti, con equazioni, diagrammi, grafici; non si era rasato, aveva occhi cerchiati di rosso e stanchi per mancanza di sonno. Si era but-
tato su un nuovo argomento collaterale prima di discutere con Herring il capitolo che aveva consegnato la settimana precedente. (Vedeva sulla scrivania di Herring, solcato da segni rossi, il lavoro già fatto, in attesa di essergli restituito. Oh, ma cosa gli importava di quello, ormai se n'era del tutto dimenticato.) Ciò che stava leggendo sulla teoria dei giochi lo eccitava enormemente, e si agitava e si dibatteva come chi stia affogando, però la teoria dei giochi era la chiave, ne era certo! Il punto di raccordo tra Darwin e John von Neumann e John Maynard Smith, ne era certo! Come mai esistono organismi così simili per struttura fisica ad altri da risultarne praticamente indistinguibili, eppure posseggono DNA del tutto diversi? E il ruolo dell'estinzione di massa nell'evoluzione? Qual è il rapporto tra "selezione naturale" e "adattamento"? Soprattutto, com'è possibile che la vita, un'attività biochimica altamente complessa, sia sorta dalla non-vita, che è la semplicità chimica? Che senso ha? La voce di Patrick echeggiava sotto gli alti soffitti dell'ufficio di Herring. Lungo le pareti erano disposti scaffali carichi di libri e diverse maschere tribali dai colori vivaci, con zanne e capigliature nere. Prive di occhi, fissavano Patrick con espressioni di vaga incredulità. Che cosa stai dicendo! Come osi parlare in questo modo! Che senso ha? Trafitto dall'imbarazzo, Patrick ricordò la storia che aveva fatto il giro del liceo: Marianne che alzava la mano a una lezione di biologia e chiedeva al signor Farolino perché Dio avesse creato i parassiti. Il professor Herring spinse sulla scrivania il capitolo di Patrick della settimana precedente, a segnalare la fine del colloquio. Il nuovo capitolo stava su un angolo della scrivania, non ancora toccato. Irritato ma ancora capace di produrre un sorriso, con un tono quasi dolce, di quelli che si potrebbero usare con un dodicenne intelligente e impetuoso, Herring chiese: «Perché presume, Patrick, che ci sia un "senso" da trarre in tutto questo? E soprattutto, di essere capace di trarlo?». Il giorno dopo, una segretaria di facoltà comunicò a Patrick che gli era stato assegnato un nuovo relatore per la tesi. Un professore associato dai capelli bianchi specializzato in filosofia della scienza, uno dei docenti "popolari" che gli scienziati seri della facoltà disprezzavano. ** Aiuto! Aiuto... Una notte dell'inizio d'aprile, quindici giorni prima di partire per Mt.
Ephraim ad affrontare Zachary Lundt, Patrick si svegliò terrorizzato da un incubo su... cosa? Sabbie mobili che gli risucchiavano le gambe, una schiumosa fumante fanghiglia nera che gli entrava nel naso, in bocca! Negli occhi! Balzò via dal letto, inciampò e cadde, con il cuore impazzito. Singhiozzava come un bambino. No, no. Aiuto! Cosa succede? Lasciatemi in pace... Aveva scambiato per fanghiglia nera le lenzuola umide, stropicciate. Gli sembrava che il letto fosse di fango nero. Liquido come catrame fuso, catrame per tetti, quello che usava suo padre, però vivo, un organismo vivente, ribollente, che risucchiava Patrick Mulvaney, bramoso di assorbirlo. Accese la lampada sul comodino con dita tremanti. Guardò la sveglia senza focalizzare subito l'ora. Le 4.35. E pioggia. La pioggia che batteva contro le finestre, uno spiffero gelido adesso che era aprile e Patrick aveva tolto il nastro isolante che aveva messo mesi prima. Si avvicinava l'arrivo ufficiale della primavera, e il padrone di casa del 114 di Cook Street era più avaro con il riscaldamento; la stanza di Patrick era fredda come fosse inverno. Eppure nel sonno aveva sudato, tanto era il terrore di finire soffocato. Si fregò gli occhi, immaginando palpebre sigillate dalla fanghiglia nera. Cristo, disgustoso! Dovevano essere i nervi, tutto lì. Eppure Patrick era certo di non essere affatto nervoso. Il suo piano per fare giustizia era completo, tranne qualche dettaglio secondario. Nulla poteva fermarlo. Aveva giurato di essere pronto a sacrificare la vita, se necessario, pur di fare giustizia nei confronti dello stupratore di sua sorella. Nulla poteva fermarlo. Andò nel bagno in corridoio, pisciò e si spruzzò in faccia manciate di acqua fredda. Gli occhi, solcati da sottili scie di sangue, più grandi del normale senza gli occhiali, lo fissavano dallo specchio sporco sopra il lavandino. Erano gli occhi di un ventunenne capace di uccidere? Patrick sorrise a se stesso nel dire: «Sì. Certo». Gli stava bene: aveva avuto un incubo. Dopo essersi vantato con Judd, ore prima, di quanto dormisse bene ultimamente. Un sonno profondo, riposante. Non pensava nemmeno al maledetto lavoro accademico che aveva trascurato, alle lezioni che aveva smesso di frequentare. Era stato provvisoriamente accettato per il programma di dottorato in biologia della Cornell, ma ovviamente bisognava prima vedere i suoi voti finali; si era lasciato sfuggire le date di scadenza, o aveva perso i moduli, per iscriversi all'Università di Chicago, del Michigan, di Berkeley, e un'altra università a cui
l'autunno precedente Herring lo aveva incoraggiato a presentare domanda. Però non perdeva il sonno su quelle cose. Nulla poteva fermarlo. Judd aveva detto, forse senza volere essere insolente, anche se Patrick l'aveva presa male: «Beato te». Patrick era avvampato all'istante. «Ehi, ragazzino, se vuoi tirarti indietro, fa' pure. Ce la posso fare da solo.» E Judd, subito: «No! Sono con te al cento percento». «Se hai paura, basta che lo dici.» «Certo che ho paura. Ma sono con te al cento percento.» «Se tu non pensi che me la possa cavare bene. Se ci stai ripensando.» «Ehi, P.J., no.» «Lascia perdere la stronzata del "P.J."!» Voleva essere una battuta, un tipo di battuta che solo un altro Mulvaney poteva capire, per il tono audace e ribelle, ma gli tremò la voce. In fretta e furia, aveva proseguito con l'intonazione da studente pedante che aveva sviluppato al tavolo di cucina dei Mulvaney, per fare colpo sulla famiglia con i suoi modi raffinati anche mentre spingeva tutti alle risate. «Non abbiamo avuto giustizia legale. Non ci è stato possibile. Papà ha tentato e ha fallito. Perché il sistema della giustizia legale è solo un'istituzione sociale, ed è inadeguato come espressione della morale. Il modo di procedere della "giustizia legale" è rivolgersi a una terza parte che sta al di sopra di "vittima" e "colpevole" e delle rispettive famiglie, una parte sanzionata dal popolo. Dallo stato. È lo stato ad amministrare la giustizia. Ma che cos'è lo stato? Solo un insieme di persone. Esemplari di Homo sapiens. E perché quegli esemplari dovrebbero stare al di sopra di altri? Perché dovremmo concedere a estranei un'autorità morale che va oltre la nostra? Ci ho riflettuto su molto, Judd. Non agisco in maniera impulsiva. Con una parte della mente vedo sempre Marianne, violentata, svilita, esiliata persino dalla sua stessa famiglia. Come fossimo una tribù primitiva, Cristo santo! Come se nostra sorella fosse diventata portatrice di un tabù! È ridicolo, è intollerabile. Io non lo tollererò. Non sono più cristiano però per Dio sono protestante. Un ribelle. Farò la mia giustizia perché so cos'è.» Una pausa, imbarazzo per il fervore appassionato del discorso. Parole dirette al suo fratellino. «Judd? Ehi, scusa. Sei ancora lì?» Judd doveva essere stato colpito dalle parole infervorate di Patrick. Aveva risposto, calmissimo: «Sono sempre qui, Patrick. Conta su di me». Di nuovo nella sua stanza, Patrick rimase per un po' alla finestra, timoro-
so di tornare a letto. Le lenzuola erano umide e stropicciate, sapevano di panico animale. L'inconfondibile odore di sudore. Pensò a Judd, un'altra vittima dello stupro di Zachary Lundt. Il povero ragazzo bloccato a High Point Farm nei giorni dell'agonia, della disintegrazione. Patrick e Mike avevano levato le tende, e Marianne era esiliata, e Judd, il cucciolo di famiglia, era rimasto indietro. Negli ultimi mesi, nelle conversazioni telefoniche della sera, Patrick si era avvicinato a Judd più che a chiunque altro al mondo, tranne forse Marianne. (Amava intensamente Marianne. Ma con lei non parlava direttamente, non poteva esprimere il tipo di verità che un fratello può esprimere al fratello.) Strano: crescendo con Judd, non lo aveva preso sul serio. Quasi non lo aveva mai considerato. Un fratello minore è solo qualcuno che c'è. Difficile pensare a un fratello minore come a un individuo con una vita sua, pensieri segreti, moventi. Ma adesso, a sedici anni, Judd non era più un bambino ed era diventato amico e alleato di Patrick. A Patrick piaceva, molto. E lo rispettava per l'integrità e il coraggio. Rispettare un fratello minore, che novità! Ma si chiedeva se, vivendo assieme a High Point Farm, faccia a faccia, sempre, come accade in ogni famiglia, in competizione per l'attenzione di padre e madre, sarebbero stati capaci della franchezza e intimità permesse dal telefono. Sedette alla scrivania, spinse via le carte. La testa, che pulsava di un dolore sordo, tra le mani. Dio, c'era mancato pochissimo. Per poco non finiva soffocato dal fango nero. Forse era catrame, catrame fuso, il catrame che aveva usato sui tetti nelle estati trascorse a lavorare con gli uomini di papà. (Che lavoro snervante, avvilente. Penare come schiavi per una paga a cottimo, a schiena nuda sui tetti.) Però era anche, gli sembrava di capire, una palude a lato della Route 58, in direzione di Yewville. La cupa zona dove un modesto torrente confluiva nel fiume Yewville a nord di Mt. Ephraim. Tife e rampicanti e fiori selvatici di un violaceo brillante (flox? lisimachie?) crescevano a profusione in estate ma quasi tutti gli alberi stavano morendo da anni con l'alzarsi del livello dell'acqua; la corteccia cadeva a brandelli dai tronchi. In ogni ora del giorno, banchi di una nebbia insalubre erano sospesi sulla palude. L'odore onnipresente di marciume, di rifiuti. Forse, i residui della lavorazione del maiale venivano scaricati direttamente lì da una grande cooperativa agricola che distava pochi chilometri. Da ragazzo, Patrick non aveva mai esplorato la palude, e nessuno che conoscesse lo aveva fatto. Era troppo lontana per arrivarci in bicicletta da High
Point Farm. Anche con il sole più luminoso conservava un'aria di sinistra desolazione. Con il clima caldo pullulava di uccelli, rane, bisce d'acqua, insetti, microrganismi in quantità imponderabili. Adesso, in aprile, con il disgelo primaverile, la fanghiglia nera, liquida, doveva tornare alla vita dopo la lunga ibernazione invernale. «Gesù!» Patrick rabbrividì, provò un'ondata di nausea. Fregò, fregò, fregò gli occhi, dove qualcosa si era incollato alle ciglia. La stretta di mano Magari non lo vorrà. Lo fa solo per mettermi alla prova? Mezzogiorno del 16 aprile, il sabato prima della domenica di Pasqua del 1979, i fratelli si incontrarono nel luogo scelto da Patrick: una parte non asfaltata della Stone Creek Road, vicino a un terrapieno della ferrovia, una quindicina di chilometri a est di Eagleton Corners. Era una zona di boscaglia, senza case. Nella stagione della caccia al cervo, le automobili riversavano uomini con pettorine fluorescenti color arancio che si disperdevano nella boscaglia, ma ora non era stagione di caccia al cervo. Quando Patrick arrivò sulla jeep scassata, infangata, Judd attendeva ansioso sul furgone Ford con il Winchester calibro .22, avvolto in una tela, sul sedile al suo fianco. Il suo cuore ebbe un balzo all'apparizione del fratello che non vedeva da un po'. Se era solo un test per mettere alla prova la sua lealtà e fede in Patrick, sapeva di avere ottenuto un buon risultato. Per quanto sapeva Corinne, Judd era a fare compere in un negozio di articoli per l'agricoltura di Eagleton Corners. Né Corinne né Michael Sr. avevano il minimo sospetto che Patrick fosse dalle parti di casa. Patrick rallentò ma proseguì oltre la svolta, dov'era parcheggiato il furgone. Eseguì un'inversione a U poi tornò indietro e si immise sulla stradina in retromarcia. Si fermò vicino a Judd, con l'auto puntata nella direzione opposta. Aprì la portiera mentre Judd apriva la sua ma nessuno dei due scese. In quei secondi veloci e confusi, Judd percepì un fatto significativo: la targa anteriore e quella posteriore della jeep di Patrick erano entrambe parzialmente oscurate dal fango. «Come va, ragazzo?» chiese Patrick. La voce non era la sua. In tante conversazioni telefoniche, Judd era arrivato a conoscere la voce di Patrick a fondo, come conosceva la propria, ma quella voce forte, aggressivamente allegra, era un'altra. Una gelida luce solare pioveva dall'alto, trapassava il parabrezza non troppo pulito della jeep e cadeva sul viso pallido, scavato di Patrick. Che sembrava più giovane,
quasi irriconoscibile. Portava occhiali da sole con la montatura in ferro e lenti talmente scure da avvicinarsi al nero, e dalla peluria avresti detto che non si radeva da circa una settimana. Indossava una giacca militare di fatica e i capelli erano completamente nascosti sotto un berretto di lana scura abbassato sulla fronte. Judd lo fissò affascinato. «Qualcosa non va, ragazzo? Non riconosci il vecchio Pizzicotto?» Patrick pareva soddisfatto. «Sembri un po' diverso.» «Era nelle mie intenzioni.» «Okay. Ti ho portato il... quello che volevi.» «Grande! Dammelo.» Stone Creek Road era priva di traffico in entrambe le direzioni, per quanto poteva vedere Judd. Passò a Patrick il fucile avvolto nella tela e Patrick lo esaminò tenendolo in grembo, seduto al volante. Carezzò il calcio lucido e passò lentamente le dita sulla canna lunga, sottile. Alzò il fucile alla spalla, lo puntò oltre la testa di Judd, guardò nel mirino a occhi socchiusi. Judd si preparò a vederlo premere il grilletto. Chi sapeva se il vecchio fucile di Mike fosse ancora in condizione di sparare, dopo tanti anni? Lui non aveva osato provarlo. Patrick gli aveva detto che preferiva non venisse usato, non restassero prove di un uso recente, se si poteva evitare. Bizzarro: Patrick con la barba. Quanto avrebbe riso mamma. Però avrebbe anche detto che gli stava bene. A ogni novità dei fratelli, per esempio quando Mike al liceo aveva cominciato a impomatarsi i capelli e pettinarli all'indietro, o quando Patrick si era comperato gli occhialini rotondi al posto di quelli che aveva scelto mamma, all'inizio Corinne protestava, diceva che non si sarebbe mai abituata, che spettacolo sconvolgente, ma dopo qualche giorno, colma di meraviglia, constatava quanto fossero belli i suoi figli, nonostante tutto. Come fosse stata lei a fare quelle scelte, non loro. E magari avrebbe ricordato di essere stata proprio lei. Osservando Patrick, Judd cominciò a riconoscere qualcosa. La barbetta ispida, castana. L'espressione a labbra serrate. Patrick gli ricordava uno dei profeti ebrei delle immaginette distribuite al catechismo! Ne avevano ricevute tante, da bambini, all'una o all'altra delle chiese dove Corinne li portava. La preferita di Judd da piccolo era quella di un certo Amos perché sull'immaginetta, a colori vivaci, Amos era alto, virile, con occhi acuti, fanatico tra barba fitta e abbigliamento da pastore, e la didascalia sotto l'immagine diceva Il Signore da Sion ruggirà. Amos 1:2. Disse: «Temevo di non riuscire a trovare la chiave dell'armadietto ma era nel cassetto della cucina. Mamma l'ha etichettata "Armadietto, stanza
di famiglia". Tipico di mamma». Patrick non rispose. Stava esaminando il fucile come un acquirente pignolo. Lo aveva aperto, guardava le pallottole; ne estrasse una, la alzò alla luce. Judd vide, o credette di vedere, che le mani di suo fratello tremavano leggermente. Patrick gli chiese: «Hai portato altre munizioni?». Judd se n'era scordato: aveva trovato in uno dei cassetti dell'armadietto una scatola con una ventina di pallottole, mai aperta. «Oh, sì. Tieni.» «Dubito che le userò, ma...» Patrick, prendendo la scatola da Judd, sorrise. «Non si sa mai. Il caso segue il disegno, ma non sempre e comunque.» «Il caso segue il disegno... Che cosa significa?» «Prepari piani accurati, e sembra che il "caso" ti favorisca. Vanno a modo tuo cose che a un osservatore neutrale sembrano pura fortuna. Ma è una fortuna che hai predisposto tu.» «Mi pare ottimo.» «Ma non sempre e comunque. Perché ogni disegno può crollare, per quanto meticolosamente sia stato preparato.» Patrick chiuse il fucile, lo coprì con la tela e lo depose sul sedile al suo fianco; mise la scatola di munizioni nel comparto portaoggetti della jeep. I suoi movimenti erano veloci, metodici. Si preparava a ripartire. Si erano incontrati da meno di cinque minuti. Judd sentì una fitta di panico: non c'era altro da dire, spiegare? Pensò Se è soltanto un test può finire adesso. Patrick fece il nome di un'altra località fuori mano, all'incirca equidistante da Mt. Ephraim e High Point Farm, dove Judd poteva recuperare il fucile il giorno dopo. Un vecchio cimitero abbandonato sulla Sandhill Road, circondato da un cadente muro in pietra; sul retro, sotto il muro, c'era una fessura in cui era possibile infilare il fucile. Patrick disse: «Andrai in chiesa con mamma? Potrai essere libero solo dopo una certa ora, ma vai a prendere il fucile appena puoi. Se ci saranno cambiamenti nel piano cercherò di chiamarti. Però a quel punto dovrebbe essere tutto finito». Con quale leggerezza ne parlava Patrick. Ma qual era l'esatto significato delle parole? Patrick sollevò gli occhiali scuri per guardare Judd. Aveva occhi sorprendenti, per nulla in armonia con la barba: giovani, curiosi, e attenti. «Come va la vendita della fattoria? Qualche buona notizia?» Judd scrollò le spalle. Parlarne lì, all'aria aperta, era troppo doloroso. «Mamma dice che prima o poi la potremo ricomperare. Lo dice almeno una volta al giorno.»
«Ma qualcuno è interessato ad acquistare?» «Sicuro. Di gente interessata ce n'è. L'altra settimana è venuto un dottore con la famiglia da Yewville. Se siamo in casa, l'agente immobiliare cerca di starci alla larga. Di solito non siamo in casa. Mamma fa di tutto per non esserci. È così strano vedere gente che non conosci, sconosciuti portati in giro per...» La voce di Judd si spense. Strano era un termine così immaturo e inadeguato per esprimere ciò che non si poteva esprimere ma solo sopportare. «Come l'ha presa mamma?» «Sta bene. È quasi sempre lei a trattare al telefono.» «Marianne lo sa già?» «Deve saperlo.» «Io non gliel'ho detto.» «Be', deve saperlo. Mamma dice sempre che Marianne deve essere "realista".» «E papà? Che cosa mi dici di papà? È "realista"?» «Sta trattando per trasferire l'attività a Marsena, a meno che non stia trattando per dichiarare fallimento. Non sta molto a casa, però quando c'è parla al telefono con avvocati.» «Beve molto? Come tratta mamma?» Judd pensò Come tratta me? Un paio di giorni prima, aveva chiesto a suo padre di non urlare con sua madre, e suo padre era arrivato vicino a prenderlo a schiaffi. «Senti, Patrick, qualche volta fai un salto a trovarci. Da Ithaca sono meno di centocinquanta chilometri, non stiamo sull'altra faccia della luna.» Patrick girò la testa. Disse, sottovoce: «Non ancora. Non per un po'». «Già. Me lo hai detto.» «Non riesco a perdonarli per Marianne. Lui, soprattutto. Non sarà mai più come prima e Mike la pensa nello stesso modo. Gli ho parlato un paio di settimane fa. La pensa nello stesso modo.» «Marianne li perdona. Non ci pensa nemmeno.» «Ma certo che ci pensa! Non essere ridicolo» disse Patrick, irritato. «Marianne non pensa ad altro.» Judd si arrabbiò di colpo. «Non hai detto che papà e mamma sono "vittime"? Perché prendersela con loro se trattano Marianne da schifo, se sono soltanto... com'era?... rane succhiate a morte dai ragni acquatici?» «Per lo stesso motivo per cui papà dà la colpa a Marianne. Provi una sensazione viscerale, non vuoi vedere molto una certa persona.»
«E io? Io vivo là.» «Tra un paio d'anni te ne andrai.» «Andrò dove?» «Al college. Da qualche parte.» «Ma è casa nostra. È dove viviamo, Cristo.» «Judd, di che diavolo stiamo parlando? Cosa ti prende?» Judd si fregò gli occhi. Stava perdendo Patrick, ma non poteva fare a meno di dire certe cose. «Non so cosa mi prende. Soltanto non vorrei... niente di tutto questo. Vorrei...» «Sicuro.» Patrick si protese a toccare il braccio di Judd. Fu un contatto straordinario, come materializzato dal nulla. «Dove andate in chiesa adesso, tu e mamma?» «In una chiesetta di campagna di Milford. La chiesa di Cristo risorto. Erano metodisti ma per qualche motivo non lo sono più. Brave persone, gente per bene. Mamma va alle funzioni e prega. Canta gli inni, a voce alta. Come fosse felice e volesse darlo a vedere. A volte piange un po'. Un inno come Tell Me Why può precipitarla in lacrime. Sembra quasi che abbia un crollo tutte le domeniche mattina, poi si soffia il naso e sorride e parliamo per qualche minuto con il pastore e sua moglie e qualcun altro e poi la riporto a casa e quella è la domenica.» «Be', domani è Pasqua.» «La domenica delle domeniche.» Judd voleva chiedere a Patrick del coltello, se lo avesse portato, ma non riusciva a trovare le parole. E in quel momento Patrick si sporse a stringergli la mano. La stretta fu forte, franca, senza esitazioni, però le dita erano fredde. Judd fu colto di sorpresa. Era la prima volta che uno dei due fratelli gli stringeva la mano. Si salutarono. Ripartirono in direzioni opposte: Judd tornò a Eagleton Corners, Patrick puntò verso l'estremità opposta di Stone Creek Road. Judd salutò da dietro il finestrino il fratello che scompariva. Si domandò che cosa avrebbe fatto Patrick tra quel momento e il buio; tra l'ora e la cosa. Si disse Era un test. Lo è! Ed è quasi finito. La palude Il caso segue il disegno. Voleva crederlo. Sembrava che così fosse, dopo molte settimane di febbrili preparativi.
Alle undici di quella sera, un sabato fulgido di luna, vigilia di Pasqua, sedeva sulla jeep in fondo all'affollato parcheggio del Cobb's Corner Inn dove Zachary Lundt e tre dei suoi amici del liceo si trovavano da quaranta minuti. Il motore della jeep era spento, come i fari. A fianco di Patrick, sul sedile del passeggero, nascosti sotto una pezza di tela nel caso qualcuno passasse tanto vicino da gettare un'occhiata dentro (ma nessuno passò, né sarebbe passato: Patrick aveva parcheggiato a distanza di sicurezza dagli altri veicoli, in parte sull'erba), c'erano il fucile Winchester calibro .22 di Mike, diversi metri di corda, un rotolo di nastro isolante nero, una potente torcia elettrica e un coltello da pesca a doppia lama (venti centimetri di lama) comperato in un negozio Sears a Whitney Point, stato di New York, settimane prima. Tranne il fucile, erano tutti oggetti anonimi, acquistati in posti casuali, senza essere riconosciuto. Non li userai sul serio, eh P.J. Il coltello o il fucile. Non sarai così crudele, o così disperato. Patrick scese dall'auto cinque o sei volte per sgranchirsi le gambe, passeggiare irrequieto sulla ghiaia bagnata. Il parcheggio pulsava d'attività: veicoli in arrivo, in partenza. Nessuno lo degnò di un'occhiata; sarebbe potuto essere chiunque. Più di ventun anni, probabilmente sulla trentina. La giacca militare aumentava la massa. La barba ispida non era una barba da universitario. Patrick era irrequieto ma per nulla ansioso. In certi momenti, forse, fischiettò persino tra sé, sottovoce. Fischietta mentre lavori! Essere allegri, ottimisti, è solo un consiglio pratico. Una fervida convinzione di mamma, e mamma era figlia di agricoltori, sapeva che devi perseverare con il sorriso sulle labbra finché non puoi più farlo e a quel punto non ha più importanza, hai finito. Non ci sei più. Ma fino a quel momento abbi fede. Patrick era sorpreso di tanta calma: i suoi pensieri galleggiavano su una superficie placida senza onde, senza dure correnti, senza urgenza. Sapeva che cosa avrebbe fatto anche se non sapeva ancora quando, quale sarebbe stata l'esatta successione dei suoi passi. Il caso segue il disegno. Uno stato di pura attesa, di sospensione, come prima di un esame per cui ti sei preparato con scrupolo e ora prevedi che verrai sottoposto a una prova meticolosa, ed eccellerai. Era una sera chiara, sorprendentemente luminosa. Profumo di erba umida, di ghiaia. Fumi di birra e odori di cibi grassi da una griglia d'aerazione sul retro della taverna. Prima, Patrick era sgattaiolato all'interno sulla scia di una compagnia di ragazzi schiamazzanti, si era sistemato vicino al banco in una posizione discreta e aveva cercato con gli occhi Zachary Lundt.
Gli prudeva il naso per gli odori di birra, fumo, salsa da barbecue, pizza. Un cartello annunciava COUNTRY & WESTERN DISCO ma quella sera non c'era disco music, solo il rock assordante del jukebox. I Plastica? si chiese Patrick, perplesso. Non era in grado di deciderlo. Non aveva mai più pensato ai Plastica. I gruppi rock gli sembravano tutti uguali, un frastuono pulsante martellante penetrante che ti si pianta nel cuore come una vite. Sapeva che Zachary Lundt era da Cobb. Un'ora prima aveva chiamato i Lundt per sapere dove trovare il suo amico Zach: Don Maitland appena arrivato da Owego (o era Oswego?), ansioso di unirsi agli amici per la serata, e la signora Lundt che aveva risposto al telefono con una voce da ragazzina sembrava ricordarsi di lui, o forse no, comunque aveva fornito l'informazione che occorreva a Patrick. Più tardi, forse per il resto della vita, lo avrebbe rimpianto. Chi avrebbe potuto saperlo al momento? Non abbiamo mai sospettato. Come potevamo sospettare! La signora Lundt gli aveva detto del Cobb's Corner alle dieci, gli aveva chiesto se sapesse dov'era, e Patrick aveva risposto: «Se so dov'è il Cobb's Corner? Diavolo, signora Lundt, lo sanno tutti». Si era messo non esattamente al banco; non un cliente ma qualcuno che era entrato in cerca di un amico. Con il berretto di lana abbassato sulla fronte e gli occhiali da vista, e il bavero della giacca militare alzato. Con la barba che lo faceva sentire come se avesse un cardo in faccia, con l'espressione gelida e fissa, si riteneva ben camuffato. In effetti, nessuno lo guardò per più dell'istante di una veloce occhiata, nemmeno uno dei baristi. Per quanto Patrick poteva vedere, nella taverna non c'era nessuno che conoscesse a parte, in un separé a ridosso della parete sul fondo, Zachary Lundt e i suoi amici. Bevevano birra, ridevano, fumavano. Era la prima volta che Patrick rivedeva Zachary Lundt dal liceo. Il giorno della consegna dei diplomi quando, incapace di non passare vicino allo stupratore di sua sorella, aveva puntato lo sguardo sulla fronte di Zachary, duro e freddo com'era adesso. Se l'altro era arrossito, o se gli aveva restituito un'occhiata di sfida, Patrick non se n'era accorto. Da ottobre, da quando quell'ossessione si era impadronita di lui, aveva immaginato Zachary talmente spesso che dovette fare uno sforzo per rendersi conto che no, non aveva più visto Zachary di persona, dopo il giugno 1976. E Zachary era lievemente cambiato: diverso taglio di capelli, mascella più snella. Ancora quell'espressione da volpe astuta negli occhi. Occhi dalle palpebre pesanti. Le ragazze lo trovavano attraente e Patrick pensava di poter
capire perché. Al di là del fatto che Zachary aveva l'aria di uno con la schiena rotta, con i gomiti appoggiati sul tavolo appiccicoso, mentre emetteva risate da iena con gli altri. Stava fumando una sigaretta, espelleva fumo dalla bocca sorridente. Patrick ricordò: non aveva centrato quei denti con un pugno, una volta? Non l'aveva fatta sanguinare? Forse no. Forse non era ancora successo. Ebbe un brivido d'eccitazione allo stomaco. All'inguine. Una sensazione che Patrick Mulvaney non aveva mai provato. Se non forse in sogno. Zachary Lundt. Adesso studente della SUNY a Binghamton. Amministrazione aziendale. Uscito a bere con i vecchi soci del liceo come Ike Rodman, Budd Farley, Phil Spohr. Avanzi di pizza erano sparsi sul tavolo davanti a loro, lattine di birra, bicchieri. Tovaglioli appallottolati. Meritavano tutti una punizione, non solo Zachary. Li avrebbe aspettati sulla jeep e non appena avessero lasciato il locale li avrebbe intercettati a uno a uno con il fucile. Giustizia. Calma, metodica. Irrevocabile. Patrick Mulvaney era capace di quell'atto? Una mossa forzata, una sola occasione. Impossibile saperlo finché non si faceva il tentativo, giusto? Un'altra volta, magari. E anche il padre, Morton Lundt. Anche la madre, la signora Lundt. Anche loro erano coinvolti. Anche loro erano colpevoli. Avevano difeso lo stupratore, infangato la vittima. L'ammissione a mezza voce: Mort e io abbiamo apprezzato la vostra... lealtà. Patrick si era scostato dal banco, non visto. Era uscito dal locale, ritornato alla jeep, ad attendere. Certo che non sospettassero nulla, i suoi nemici. Non avevano motivo di sospettare. Lui stesso non avrebbe saputo dire perché proprio adesso, perché tanta passione da parte sua adesso, dopo tutto quel tempo. I maschi dei Mulvaney erano sfuggiti alle proprie responsabilità, ecco cosa, e non se n'era mai parlato. Mike Jr. era scappato addirittura nei marines, e si vantava di essere un uomo nuovo, che presto sarebbe stato mandato in Medio Oriente. Michael Sr. era fuggito sapeva Dio dove. Ma c'era Patrick. Non era il Mulvaney dal quale ci si sarebbe aspettata vendetta ma non c'era nessun altro, e non aveva scelta. A mezzanotte e dieci, finalmente, Zachary e i suoi amici apparvero. Uscirono dalla porta laterale di Cobb. Sotto le luci di un passaggio pedonale in cemento delimitato da un rozzo muretto. Restarono a parlare e ridere prima di raggiungere le automobili. Patrick avrebbe potuto bloccarli a uno a uno. Non sospettavano nulla, ignari. Inconsapevoli del pericolo. Patrick pensò ai fantastici uccelli senza ali della Nuova Zelanda che avevano stuz-
zicato la curiosità del giovane Charles Darwin. Nessun mammifero predatore per millenni; un paradiso per gli uccelli, di innumerevoli specie. Come se l'intera creazione fosse composta solo di uccelli, però uccelli non uccelli: incapaci di volare, inermi di fronte ai predatori quando i predatori arrivarono. Prede facili. Zachary attraversò il parcheggio fino all'auto, una Corvette. Camminava concentrato, quasi per vincere l'impulso di barcollare. Aveva bevuto birra per ore, era ubriaco. I suoi amici partirono e Zachary restò a frugarsi in tasca, in cerca delle chiavi. No, estrasse e si mise un paio d'occhiali dopo che gli amici furono scomparsi. Allora aveva bisogno di occhiali per guidare. Allora la sua vista non era perfetta. Patrick accese la jeep, aspettò che la Corvette uscisse dal parcheggio e la seguì. Una svolta a sinistra, mezzo chilometro e una svolta a destra, in direzione della casa di Zachary nella parte nord di Mt. Ephraim, vicino al Country Club. Zachary guidava piano, sbandando all'interno della corsia. Non si era accorto di avere acceso solo le luci di posizione e non i fari. Patrick attese il momento strategico, quando Zachary svoltò in Depot Street e si venne a trovare in una zona di edifici deserti, invasi dalle erbacce, magazzini sbarrati da assi, prima di affiancarlo. Lo sorpassò sulla sinistra e gli bloccò la strada. La Corvette si fermò bruscamente. Patrick balzò fuori dalla jeep, con il fucile imbracciato e puntato alla testa di Zachary. «Non muoverti! Resta dove sei.» Come se, colto del tutto di sorpresa, la bocca spalancata in uno stupore da cartone animato, Zachary Lundt potesse fare qualcosa d'altro. Patrick girò attorno alla Corvette, aprì la portiera del lato passeggeri e salì, tenendo il fucile puntato sul viso di Zachary Lundt. In pochi secondi quel viso si era svuotato di sangue. Zachary era paralizzato. Gli occhi fissi, la bocca aperta, il corpo afflosciato su se stesso: era in stato di panico, totalmente disorientato. «Non spari, la prego non spari» implorò. «La prego non mi spari, può prendere il mio p-portafoglio, l'automobile, tutto quello che vuole... La prego non spari...» La voce si incrinò, si azzerò. Aveva preso a tremare in maniera convulsa, e Patrick sentì i tremiti di quel corpo come fossero del suo. Non sa fare o dire altro? Il pensiero lo trafisse come la lama di un coltello. Dopo tanto tempo, anni, è tutto qui? Non era un pensiero accettabile. Aveva un piano, una strategia. Non si sarebbe lasciato fermare.
Disse: «Riparti. Vedi quel sottopassaggio? Prima di attraversarlo, svolta a destra, prendi il viottolo e prosegui. Vai!». Per uno stordito momento, Zachary restò immobile. Patrick stava perdendo la pazienza. Cercò un tono ragionevole. «Avanti, parti. Non ti succederà niente se fai quello che dico.» La voce era profonda, gutturale, la più adatta alla barba, al berretto di lana, alla giacca militare. «E dài, Cristo, muoviti.» Zachary, battendo rapido le palpebre, sussurrò: «L-la prego non mi faccia del male, non mi spari, può prendere i miei s-soldi, l'automobile, l-la prego! Non lo dirò alla polizia, non lo dirò a nessuno, p-prometto...». Un acre odore d'orina. Zachary se l'era fatta addosso. «Vai dove ti ho detto!» ordinò Patrick. «Non essere così vigliacco.» Come un fratello maggiore disgustato, pungolò Zachary con la canna del fucile. Nel corso delle interminabili prove mentali dell'evento, non aveva mai dovuto ripetere gli ordini al nemico, e mai lo avrebbe toccato con il fucile; lo Zachary Lundt della sua immaginazione, astuto e veloce come una volpe, avrebbe afferrato la canna e strappato l'arma dalle mani di Patrick e gli avrebbe sparato a bruciapelo al volto. Ma quello era uno Zachary Lundt completamente diverso. Non pareva avesse riconosciuto Patrick. Gli occhi brillavano di lacrime dietro le lenti, non riuscivano a mettersi a fuoco sul volto di Patrick. «Ti ho detto di non essere così vigliacco!» «Mi lasci andare, la prego! Non...» «Raggiungi quel viottolo e svolta, subito.» Zachary armeggiò incerto con frizione e volante quasi avesse dimenticato come si guida. Singhiozzava sottovoce, respirava ad ansiti tremanti. Però riuscì a eseguire gli ordini di Patrick. A bassa velocità, imboccò con la Corvette il viottolo che si diramava da Depot Street verso un desolato ammasso di automobili abbandonate e altri detriti. Il chiarore lunare era vivido: la discarica sembrava un consesso improvvisato di creature fantastiche. Carrozzerie di automobili arrugginite, materassi parzialmente bruciati, divani sventrati e sedie e lampade rotte, frigoriferi rovesciati di lato con gli sportelli spalancati come bocche. A Patrick venne in mente la prima apparizione delle Galapagos al giovane Darwin, le bizzarre specie e sottospecie di animali che aveva visto quando aveva solo un anno più di Patrick. Cosa significa? Il caso mi ha scelto per queste visioni? Dietro la discarica c'era un terrapieno ferroviario. A mezzo chilometro circa di distanza, il serbatoio idrico fiocamente illuminato: MT. E-
PHRAIM a spettrali lettere bianche. Più vivide le scritte tracciate dai teenager, CLASSE DEL '78 in arancio fosforescente. Patrick si chiese se qualcuno della classe del '76, tanto sfegatato da scalare la torre, avesse lasciato dietro di sé un orgoglioso memento. Prima di quella sera, avrebbe potuto attribuire a Zachary Lundt e ai suoi amici exploit simili. Il suo piano iniziale per fare giustizia del nemico era agire lì. Qualunque cosa facesse a Zachary, l'avrebbe fatta lì. Poi aveva cambiato idea. Aveva un nuovo progetto, ancora incompleto. Però quel punto, nascosto dalla strada, in una parte di Mt. Ephraim scarsamente abitata, era l'ideale per lasciare l'auto di Zachary senza percorrere troppi chilometri. Con un po' di fortuna, la Corvette non sarebbe stata scoperta per un giorno o due. E l'avrebbero trovata solo perché sarebbero andati in cerca del proprietario. Fu come se Patrick avesse parlato ad alta voce. Zachary implorò: «Non mi faccia del male, la prego. Può prendere tutto quello che vuole, pprometto che non lo dirò a nessuno...». «Per amor di Dio stai zitto.» Patrick era a un tempo disgustato e imbarazzato. Gli pizzicavano le narici all'odore dell'urina. Il piscio umano è tanto più schifoso, aveva sempre pensato, di quello dei cavalli. «Spegni il motore» disse. Zachary obbedì e Patrick tolse le chiavi dal cruscotto e se le mise in tasca. Le avrebbe buttate da qualche parte, più tardi, a meno che non tornasse a prendere l'auto di Zachary per portarla in un posto abbandonato, magari dentro un lago o un fiume. Era uno dei suoi piani d'emergenza. «Va bene, scendi.» Tenendo Zachary sotto tiro, con la decisione di un soldato, lo fece tornare alla strada. Tra le ombre, sul viottolo dissestato, Zachary continuò a inciampare, a gemere. Pareva rimpicciolito, era più basso di diversi centimetri di quanto ricordava Patrick, spalle chine e testa ciondolante. Dava l'impressione che le gambe fossero sul punto di cedere. Somigliava a un invertebrato estratto dal guscio, nudo, vulnerabile, che si raggomitola su se stesso per sfuggire al coltello da dissezione. Era possibile, si domandò Patrick, che anche lui crollasse così in fretta, tanto vergognosamente, di fronte a un estraneo armato di fucile? Nessuno di noi è più forte di così, nonostante gli eroismi della televisione, del cinema? Non voleva pensarlo. Non voleva pensare che il suo nemico, Zachary Lundt, che per tanto tempo aveva disprezzato e in un certo senso temuto, fosse nulla più di quel ragazzo tremante e piagnucolante che se l'era fatta nei jeans.
Zachary continuava a implorare. «Non mi faccia del male, la prego.» Patrick lo zittì premendogli tra le scapole la canna del fucile. Erano sulla strada, deserta, nessuna luce a parte il chiarore lunare e solo a intermittenza, finché sulla faccia bianca della luna non passavano nubi sfilacciate mosse dal vento. A un incrocio non molto distante un'auto solitaria si fermò al semaforo. Patrick sperò quasi che svoltasse dalla loro parte: avrebbe scoperto subito come avrebbe affrontato le situazioni d'emergenza, nascondendo il fucile contro il corpo, ordinando a Zachary Lundt di comportarsi come se tutto fosse normale. Zachary avrebbe avuto il coraggio di scappare a chiedere aiuto? Poteva essere la sua unica possibilità di fuga. Però probabilmente non ne avrebbe avuto il fegato. Impotente, avrebbe guardato l'automobile passare, inerme davanti al potere che un altro aveva su lui. Ma l'automobile tirò diritto. La strada tornò vuota. Alla jeep, Patrick ordinò a Zachary di mettersi al volante. Avrebbe guidato lui. «Ne hai mai guidata una? Imparerai.» Zachary lo fissò, tremando. «D-dove andiamo? Cosa vuole da me?» Aveva il viso viscido di sudore e gli occhiali di sbieco sul naso. Guardava diritto Patrick ma non lo riconosceva; il terrore lo aveva accecato. «La prego mi lasci andare! Non mi faccia del male! I miei mi aspettano a casa! Le pagheranno tutto quello che vuole. La prego signore la prego...» Patrick ribatté sprezzante: «Ho altri piani per te. Stupratore». Quante, innumerevoli volte da ottobre in poi aveva udito le voci. La propria, e quella del nemico. Dillo: Sono uno stupratore. Sono uno... stupratore. Dillo: Merito di essere punito. Merito... di essere punito. Dillo: Merito la morte. A quel punto, Zachary Lundt lo avrebbe fissato senza parole. Consapevole di ciò che stava per accadere: la giusta punizione. Al di là di quello, però, la visione non era chiara. Patrick non era certo di cosa potesse portare. Il coltello. Occhio per occhio, dente per dente. Ma forse solo i pugni, non aveva mai usato i pugni contro un'altra persona, qualche volta per l'esasperazione aveva dato qualche forte spintone a suo fratello Mike che lo aveva spintonato per primo, ma mai pugni, non Patrick Mulvaney. Eppure avrebbe potuto, desiderava moltissimo colpire il
suo nemico, fracassargli la bocca. La maliziosa bocca sorridente che aveva visto con la coda dell'occhio un'infinità di volte nei corridoi del liceo, sulle scale, negli spogliatoi, Zach Lundt e i suoi amici, sì e anche altri, fare allusioni sfacciate a Germoglio in presenza di Patrick, tirandosi manate di esuberante allegria ai bicipiti, scoppiando in risate sfrontate. Quasi al di fuori della portata del suo orecchio le voci rauche Se l'è voluta lei, era sbronza marcia e stava addosso a Zach a implorarlo, ha avuto quello che si meritava, era sbronza e adesso cerca di dare la colpa a Zach ma noi c'eravamo, noi abbiamo visto, a meno che Patrick non le avesse immaginate, alto su di loro nella superiorità del suo orgoglio, del tutto indifferente alla presenza di quegli esseri, inferiori da ogni punto di vista a un Mulvaney. Però non aveva immaginato i disegni ributtanti e le lettere scritte in stampatello MM: MARYANN MULVANY. MMMMM SUCCHIACAZZI. Non le aveva immaginate, e nemmeno la profonda sterminata vergogna, lui che era stato scelto per il discorso di commiato del 1976, borsa di studio per la Cornell, premiato al concorso scientifico di stato, non siamo gente in gamba? mormoravano di lui i compagni di classe, ridendo con la bocca nascosta dietro le mani. Mulvaney, Mulvaney, guardalo, è un Mulvaney. In preda all'ira, nei sogni a occhi aperti cominciava a picchiare Zachary Lundt, e quando Zachary cadeva lo prendeva a calci, a calci con gli stivali, sentiva il crac delle ossa, della cartilagine del naso, vedeva il sangue rosso vivo, ma la visione svaniva immediatamente. Non appena toccava il nemico, la visione cominciava a svanire. Come un sogno della più feroce intensità che si dissipa al risveglio, svanisce anche se il sognatore cerca di trattenerlo con tutto il desiderio, tutta l'avidità. Mentre viaggiavano in campagna, verso nord sulla Route 58, seguendo il fiume Yewville, con uno Zachary Lundt terrorizzato al volante che guidava la jeep fra i cinquanta e i cinquantacinque chilometri orari, Patrick pensò a quelle cose. Fare giustizia. Finalmente. Si merita tutto ciò che posso infliggergli. Doveva fare forza su se stesso. L'ira nei confronti di Zachary Lundt sembrava evaporata. Quasi provava pietà per lui. Vinto, sconfitto! I jeans all'inguine scuri di piscio. L'odore dell'urina. La spina dorsale curva, i denti che battevano. Una voce avvertì Patrick È già stato punito, smascherato. Ma non era quello il suo piano. Non avrebbe abbandonato, giurò di non abbandonare il suo piano. Il piano era come un'opera d'arte che aveva creato traendola dalle proprie viscere, dall'angoscia del suo orgoglio di Mulvaney. Lui, Patrick, il pignolo P.J., l'intollerante non-mi-toccate Pizzicotto che la famiglia amava
prendere in giro, perso a fissare in rapita fascinazione la xilografia tedesca del cacciatore appesa a una parete della stanza. Il giovane alto bello virile biondo con il fucile appoggiato alla spalla, puntato contro un magnifico montone dal pelo nero con corna straordinarie. Le montagne finemente disegnate, nubi che parevano in qualche modo vive, erba tremula, la lepre nascosta in primo piano, l'intera natura a fare da sfondo al momento in cui il cacciatore avrebbe premuto il grilletto, o non lo avrebbe premuto. Con ardore adolescente, Patrick aveva guardato, guardato. Non aveva mai risolto l'enigma dell'immagine e non aveva mai capito perché gli stesse tanto a cuore. Cartelli esplodevano nel buio, illuminati dai fari della jeep. RALLENTARE CURVA 55 KM ORARI, SALITA RIPIDA CAMION MARCIA BASSA, YEWVILLE 105 KM. Erano circa una quindicina di chilometri a nord di Mt. Ephraim. Sulla destra il fiume Yewville era scuro, quasi invisibile dietro fitte file d'alberi. Una zona che Patrick Mulvaney non conosceva bene, però aveva ordinato a Zachary Lundt senza esitazioni di procedere in direzione nord sulla Route 58. Il caso segue il disegno. E con quanta più facilità di quello che aveva immaginato. Per tutte le settimane passate a correre a Ithaca, in un'aria così fredda da procurargli dolore ai polmoni, quasi per prepararsi a una straordinaria prova di forza, aveva creduto che il nemico sarebbe stato astuto, pericoloso, un avversario degno di lui. Non poteva immaginare che il rapimento fosse tanto facile. Zachary Lundt che aveva avuto un tale potere su lui, e su Marianne, al punto di rovinare la felicità delle loro vite, così remissivo! Come avvicinarsi a una porta, bussare forte, forte, e scoprire che la porta si apre. I due finestrini anteriori erano abbassati. Entrava un'aria fresca, gelida, a dissipare il puzzo di Zachary Lundt. Il fetore del panico, non solo urina ma anche sudore. Gocce oleose di sudore gli colavano sul viso. Però adesso tremava meno; era entrato in uno stato secondario di terrore, una sospensione della logica. Con obbedienza infantile al suo rapitore stringeva forte il volante, le mani serrate sulla parte alta, proteso in avanti, gli occhi socchiusi puntati sul parabrezza in una posa di ferrea totale concentrazione. Aveva eseguito senza esitare ogni singolo ordine di Patrick, era uscito da Mt. Ephraim per addentrarsi in campagna. Patrick sedeva con la schiena contro la portiera, il fucile sulle ginocchia, puntato alla testa di Zachary Lundt. Al viso spettralmente pallido, il naso a becco, il mento un poco sfuggente. Crede che se mi obbedirà non gli farò del male pensò Patrick. L'idea lo disgustò come fosse un'ammissione della propria debolezza.
Disse: «Di là. Quella strada sterrata, la vedi? Prendila». Zachary fece ciò che gli veniva detto. Frenò con calma, rallentò e mise la freccia per svoltare dall'autostrada in una strada con il fondo in ghiaia, piena di buche, poco più larga di un sentiero per mucche, che immetteva in una zona incolta. Dove pensava di venire portato? Che cosa poteva immaginare per sé che non fosse disastroso, in tanta desolazione, solo con un uomo armato? Eppure obbedì. Mormorando quello che parve Sì, sì signore. Come un animale ipnotizzato dal predatore, un roditore sul punto di essere ingoiato da un boa constrictor che non oppone alcuna resistenza al proprio destino. Quasi la pulsante vita protoplasmatica della preda sia già stata assorbita dal predatore, in obbedienza alla sua terribile fame. Patrick pensò Non sarò debole. Non mi lascerò fermare. La palude. Gli alberi moribondi denudati di foglie, cortecce squamate del colore dei giornali bagnati. Odore di marciume, di rifiuti. Era solo la metà d'aprile e quindi la ricca frenetica vita della palude non era ancora iniziata però c'era un'atmosfera di densità, di affollamento; come se forme invisibili, fameliche, tutte bocca e stomaco, incombessero tutt'attorno. Con quale rapidità si deve decomporre un corpo qui, pensò Patrick. Era la prima volta che formulava quel pensiero. «Sai dove siamo?» chiese, quasi con indifferenza. Non voleva che l'eccitazione indebolisse la sua profonda voce gutturale. Non voleva sembrare uno studente universitario, un ragazzo dell'età di Zachary Lundt. «Sai chi sono?» Ma Zachary parve non udirlo. Tutta la sua concentrazione era assorbita dalla guida. Sussultava quando la jeep, nonostante i pneumatici assorbiurto, sobbalzava e si scuoteva. «Io so chi sei tu. Zachary Lundt. Per questo sei qui.» La jeep proseguì, sempre più lentamente, finché la strada sterrata diventò uno sputo di terreno fangoso tra due rami della palude e Patrick disse, premendo la spalla di Zachary con la canna del fucile come per svegliarlo: «Spegni il motore, siamo arrivati». Zachary obbedì. Patrick mise in tasca le chiavi. C'era molta quiete adesso che il motore della jeep era spento e in quella quiete Zachary aveva ricominciato a piangere, piano. I fari della jeep erano ancora accesi, illuminavano un acquitrino strozzato dalle tife che si stendeva nel buio, interrotto da lame di luce riflessa dall'acqua. Patrick scese dalla jeep e accese la torcia elettrica. «Scendi. Non voltarti, Lundt. Cammina e basta.» Zachary lasciò incerto la jeep. Singhiozzava, si asciugava gli occhi con
la manica. Mormorò: «No, la prego... Non mi...». «Cammina. Se riesci ad arrivare dall'altra parte, potrai vivere.» C'era un'altra parte? I fari dell'auto, la torcia di Patrick, la luce sporca della luna illuminavano la stessa identica distesa di palude, replicata a perdita d'occhio. «P-perché? Perché mi fa questo? Io non la conosco...» «Mi conosci, come no.» «No, no. La prego...» «Stupratore. Hai stuprato mia sorella. Adesso sai.» «Sua sorella? Chi...» «Adesso sai!» «Io non ho mai... mai stuprato. Chi...?» «Sono state molte, eh? Tante ragazze?» «No...» Patrick si mise a urlare. «Cammina, Lundt. Figlio di puttana, bastardo schifoso, uno che rovina la vita degli altri, un vigliacco come te, uno schifoso come te, non meriti di vivere, sei sporco e il tuo posto è nella sporcizia, cammina ho detto.» Colpì Zachary tra le scapole con la canna del fucile, costringendolo ad avanzare nella palude, dove inciampò, gemette nell'ansia disperata della fuga. Fino alle caviglie nella soffice fanghiglia nera, poi fino alle ginocchia. Faceva freddo: il suo respiro si trasformava in vapore. Patrick urlò, imprecò. «Bastardo, non fermarti! Non voltarti o ti faccio saltare la testa.» Sotto i suoi occhi, quattro o cinque metri più avanti, mentre avanzava, Zachary cadde; e, come un animale preso dalla frenesia, tentò di strisciare in mezzo a cardi, canne, tife. Patrick sentì esplodere le bolle: il fango nero, riportato alla vita, risucchiava Zachary. Era possibile, come nel suo sogno? La palude aveva un fondo di sabbie mobili? La voce terrorizzata di Zachary era appena udibile. «Aiuto! Aiuto...» Patrick gridò, alzando il fucile: «Aiutati da solo, figlio di puttana! Stupratore!». Intorno, la palude era immota, muta. Un debole vento tra gli alberi, tra ciò che restava degli alberi. Carico dell'odore della putrefazione. In cielo la luna luminosa cominciava a inclinarsi, la luna abbagliante, con la faccia solcata a tratti da strisce di nubi. Patrick pensò Sa chi sono, senza dubbio. Patrick pensò Ho fatto giustizia. Patrick pensò Che modo orribile di morire. Cambiò idea in quell'istante, come una chiave fosse stata girata in una
serratura; abbandonò il suo piano anche se non lo capì immediatamente. Accoccolato sul terreno fangoso, era affondato fino ai talloni, e all'improvviso si accorse del vapore del proprio fiato, delle mani premute sulle orecchie per non dover udire le implorazioni del nemico. Lascialo morire lascialo soffocare nella sporcizia è quello che si merita: stupratore! Assassino! A palpebre serrate, dondolandosi sui talloni come a piangere la propria impotenza, il proprio fallimento perché l'oggetto del suo odio non era il giovane uomo che stava affondando nella palude ma il ragazzo del liceo di anni prima, tutto sorrisi maliziosi, privo di scrupoli, un codardo ignoto a se stesso, mai smascherato e arrogante. E quell'oggetto, quel nemico era irraggiungibile per Patrick. Dondolando sui talloni per l'angoscia come una volta, bambino di due o tre anni, aveva visto fare a suo padre in un inimmaginabile momento di estrema angoscia, di orrore inesprimibile, quando era stato costretto a sopprimere una puledra che si era spezzata le zampe anteriori in un incidente. Quel ricordo era talmente antico, riemerso da una distanza tanto enorme, un fossile dell'anima, che Patrick ne fu stupefatto: aveva dimenticato tanto, a dispetto dell'orgoglio per le proprie capacità mentali, superiori a quelle di tutti i Mulvaney? Pensò Amo mio padre, come posso odiarlo? La consapevolezza lo folgorò: non voleva che qualcuno morisse, nemmeno il suo nemico. Avanzò tra arbusti, canne acuminate e tife; si avvicinò dall'alto del terreno alla figura che si dibatteva. Zachary Lundt era un lumacone gigante, una creatura del fango che si contorceva debolmente, testa e viso sommersi dalla fanghiglia. Patrick raccolse da terra un ramo d'albero lungo un po' più di un metro e lo tese a Zachary. «Ehi! Lundt! Attaccati! Ti tiro fuori!» Zachary era talmente esausto, o stordito, che non reagì subito; Patrick continuò a urlare, e allora Lundt sollevò la testa con uno sforzo. Il viso pallido, chiazzato di fango, sembrava sul punto di dissolversi, come un fazzolettino di carta nell'acqua. Gli occhiali erano scomparsi e gli occhi, sotto le palpebre in continuo movimento, erano enormi e ciechi. Levò il braccio destro con grande sforzo, tentò di chiudere le dita attorno al ramo, ma mancò la presa per diversi centimetri. Patrick disse, disgustato: «Attaccati, Cristo santo! Dio ti maledica!». Ma Zachary non riusciva a fare presa, le sue dita si torcevano inutilmente, e Patrick non ebbe scelta, fu costretto a scendere nella palude. I piedi affondarono all'istante nel fondo morbido; portava stivaletti alle caviglie, e il fango gli arrivò a metà dei polpacci, un ripugnante fango freddo che si insinuava negli stivali. Borbottò: «Dio ti maledica! Dio
ti maledica! Brutto stronzo, Dio ti maledica!». Si protese per quanto osava, sapendo bene che il fondo della palude scendeva ripido; tremante, tese il ramo a Zachary che tentò di nuovo di raggiungerlo, troppo debole per sollevare il braccio per più di qualche secondo per volta. Singhiozzava, gemeva. Patrick avanzò di qualche centimetro. Il suo viso era contorto dall'ira, dal disgusto di sé. Non riusciva a credere a ciò che stava facendo! Lui, Patrick Mulvaney! Salvare Zachary Lundt! Dopo tutto quello che aveva giurato, il suo fiero piano per fare giustizia. Fu allora che scivolò e cadde pesantemente nella palude. Girò la faccia appena in tempo per evitare di ingoiare una boccata di fango. Un'indicibile orribile sporcizia, fanghiglia nera. Tossì, sputò. Per pura forza riuscì a rialzarsi, a tendere il ramo a Zachary, che finalmente lo strinse tra le dita, debolmente, poi con forza maggiore, la forza della disperazione, e cercò di risalire sul terreno compatto. Patrick tirò il ramo e Zachary, il peso morto di Zachary. Si immaginò affondare nella palude come nel suo incubo ed era ciò che meritava per aver tradito la sua promessa. Si mise a imprecare a ritmo serrato: parole che non sapeva nemmeno di conoscere gli uscivano di bocca come le avesse pronunciate per tutta la vita finché, dopo quello che parve un tempo lunghissimo ma in realtà doveva essere stato meno di dieci minuti, riuscì a trascinare Zachary tanto vicino a sé da afferrargli la mano, il braccio, la spalla e trascinarlo sulla riva. «Fatto! Bastardo.» Zachary, riverso a terra privo di sensi, tra conati e singhiozzi espelleva dalle viscere un liquido acido. Patrick strisciò via, si alzò. Dov'erano finiti i suoi occhiali? Si tolse fango dal viso, dagli occhi, dalle ciglia. Ripulì le mani dal fango nell'erba. Un odore schifoso lo copriva come una pellicola. Rabbrividiva nel freddo, batteva i denti. Furibondo come gli fosse stato giocato uno scherzo perfido. «Lundt, brutto stronzo. Non meriti di vivere, ma vivrai.» Cercò gli occhiali sul terreno, non riusciva a trovarli, poi li trovò, grazie a Dio non erano rotti. Li alzò al viso, appoggiò le asticelle sulle orecchie, spinse le lenti all'insù sul naso. Adesso vedeva di nuovo. Adesso sarebbe stato bene. «Ti lascio vivere, brutto stronzo. Avrei potuto lasciarti morire e ti lascio vivere. Ricordalo.» Zachary era immobile a terra, respirava a brividi e singhiozzi. Scrutò a occhi socchiusi Patrick, con quello sguardo cieco, impotente. «N-non lasciarmi qui, ti prego.» Patrick bestemmiò, lanciò a Zachary le chiavi della Corvette. Recuperò
il fucile da terra e la torcia elettrica, e risalì sulla jeep; inserì la chiave e avviò il motore. Ribolliva di furia, puzzava di fango, e non aveva alcuna voglia di fare altri piaceri a Zachary Lundt. Lo stupratore tornasse da solo a Mt. Ephraim, chiedendo un passaggio al mattino sulla Route 58. Inventasse una storia per spiegare quello che gli era successo, l'incredibile cosa accaduta a uno studente universitario che si era incontrato con amici del liceo per qualche birra al Cobb's Corner e il mattino dopo veniva ritrovato esausto e stordito e coperto di fetido fango nero a barcollare sulla Route 58, a una quindicina di chilometri dalla sua automobile parcheggiata in una discarica nella zona di Depot Street, Mt. Ephraim; oppure raccontasse la verità, se un tale vigliacco osava raccontarla. In fretta, prima che la compassione lo indebolisse di più, Patrick uscì a marcia indietro dalla palude e fuggì. La prospettiva di tornare e caricare Zachary sulla jeep e riportarlo a Depot Street alla sua automobile... no, no! Non lo avrebbe fatto, non lo avrebbe fatto. L'esperimento non era andato come previsto ma adesso era finito, era esterno a lui. All'improvviso, si sentiva bene. Si sentiva esultante! Com'era stato semplice dopo tutto, facile una volta iniziato. Sapeva cosa fare e lo aveva fatto e ormai era fatto e non si poteva revocare. Avrei potuto lasciarti morire e ti lascio vivere. Lui e il suo nemico Zachary Lundt avrebbero ricordato quelle parole per l'intera vita. III La pellegrina Lacrime Sentiva la voce eccitata di mamma. Adesso papà è pronto a vederti, amore. Oh, no. Mamma avrebbe detto senz'altro: Amore stiamo venendo a prenderti, non muoverti da lì. Focaccina avrebbe trottato eccitato nella stanza, sentendo la voce felice di Marianne. Lei lo avrebbe raccolto e baciato su naso, vibrisse e tutto quanto. E si sarebbe messa a correre nella camera che divideva con FeliceMarie preparandosi a lasciare la Green Isle Co-op (anche se adorava quel posto, le sarebbe mancato, le sarebbero terribilmente mancati gli amici) per tornare a High Point Farm. Marianne aspettava quella telefonata da mamma. Aspettava, e non era
impaziente. Vero, era ferita. In segreto. Non lo aveva mai ammesso con mamma, e di certo non con Patrick al telefono. Ogni tanto piangeva, anche dopo tutti quei mesi (quanti? meglio non contarli), più di quanto fosse salutare. Piangere è solo un'indulgenza infantile, piangere è soprattutto autocommiserazione, Marianne lo sapeva. Mamma non aveva mai avuto pazienza per "il pianto superfluo", come lo chiamava. Se hai speranza, e fede, e lavoro a sufficienza per tenerti occupato, non piangi. Così Marianne nascondeva le lacrime, e credeva che nessuno alla Co-op sapesse. Piangere in cucina in mezzo al caos mentre tagliava cipolle, decine di cipolle: una delle tattiche. Marianne Mulvaney si offriva sempre volontaria per tagliare le cipolle! Qualche volta fu vista piangere anche mentre preparava il pane, lavorando la pasta con tanta energia da spossarsi, per cui il pianto aveva una certa logica; e le sue lacrime salate cadevano nell'impasto, lo inumidivano, e si diceva che per questo il pane di Marianne Mulvaney (la sua specialità era quello con farina integrale, zucchine, yogurt e aneto) fosse il preferito di tutti. Un'altra tattica astuta per camuffare le lacrime, o almeno Marianne la riteneva astuta, era lavorare all'aperto il più possibile con il freddo. Preferibilmente quando soffiava il vento! Era logico che gli occhi dolessero per il freddo e scendessero lacrime sulle guance. Inevitabile. Eccola là, osservata da una finestra, a rastrellare furiosamente foglie o spargere concime nel gelido vento autunnale; oppure, il fatto più celebre, unica volontaria femminile della cooperativa per la Squadra rimozione neve, attiva ed energica nei mattini d'inverno candidi di neve a spalare sul marciapiede e sul sentiero d'accesso curvo e ridicolmente lungo assieme a un gruppo di maschi muscolosi. Marianne, in berretto di maglia azzurro a pezze blu e guanti in tinta, scambiava battute con i ragazzi come una sorella, stupidaggini e cordiali insulti. Sul viso le brillavano rivoli di lacrime anche mentre esplodeva nelle sue risate a fossette, poi si asciugava le guance con i guanti. Chi della Squadra rimozione neve era innamorato di Marianne Mulvaney, il membro più misterioso, più sfuggente della Green Isle Co-op? Lui, o loro, la scrutavano di nascosto, rispettavano la sua timidezza. Che persona disponibile era, anche mentre piangeva; non riusciva a stare alla pari nemmeno con il più lento dei ragazzi, però la neve volava in continuazione dalla sua pala e tutti si univano alle lodi: Per una che pesa una quarantina di chili, Marianne Mulvaney è il massimo. Però non ci fu molto da divertirsi un mattino di gennaio, quando il termometro all'esterno della finestra della cucina
segnava quasi venti gradi sottozero, e i rivoli di lacrime si congelarono sul viso terreo di Marianne, e due dei ragazzi insistettero per riportarla immediatamente dentro a scaldarsi il viso prima che si congelasse. Marianne ribatté sdegnosa: «Congelamento? Non è mai successo». E, in casa: «Congelamento? Io non sento niente». Ma così era: le lacrime che credeva segrete si erano trasformate in ghiaccio e tutti le vedevano. Non ebbe scelta. Dovette permettere alle sue amiche Felice-Marie, Amethyst, Val Allan di prendersi cura di lei, sotto la supervisione di Birk e Hewie. Le misero acqua tiepida sulle guance, che erano bianche e fredde come porcellana, la tamponarono con pezze umide senza fregare (potrebbe lacerare la pelle! avvertì Hewie) ma solo premendo, e nel giro di pochi minuti il sangue rifluì pulsante nei capillari e le guance ripresero colore e Marianne stava bene, anche se sussultava di dolore. E d'imbarazzo. Che rabbia! Sapeva di non essere debole, e tutti quanti le si affollavano attorno trattandola come se lo fosse. Disse: «Sono cresciuta in una fattoria nella valle di Chautauqua e un po' di neve e di freddo non mi spaventano». Più tardi, sola, venne però trafitta da un'improvvisa terribile paura. La Paura. La Paura che la prendeva dopo che qualcuno, con le migliori intenzioni, le dava troppa importanza. Soprattutto se si preoccupavano per lei e la toccavano. Una voce saggia la avvertiva Se accetti gentilezze che non meriti, ti succederà ancora di peggio. Quanto sapeva Abelove? si chiedeva Marianne. Che cosa gli aveva detto esattamente la mamma, in ufficio, poco prima di uscire come una furia dalla cooperativa, seguita da un Judd vergognoso? Si credeva, naturalmente non molto sul serio, ma la possibilità veniva presa in considerazione, che Abelove, fondatore e direttore della Green Isle Co-op, sapesse tutto ciò che c'era da sapere di ognuno dei membri. Potevi entrare nella cooperativa solo se Abelove ti approvava, dopo un'intensa conversazione privata (non un "colloquio"), e per quanto Abelove fosse stato discreto e gentile e per nulla insistente con Marianne, lei aveva avuto la sensazione che (oh, che sciocchezza, non ci credeva davvero) i suoi occhi grigioverdi potessero penetrare nei suoi, che lui potesse leggerle nel pensiero. Una volta, con estremo imbarazzo, era stata vittima di una crisi di pianto mentre lavorava nella serra, a spargere semi di lattuga (romana, foglie rosse) da piantare all'inizio d'aprile, dopo il disgelo. Un lavoro che adorava, ma una combinazione casuale di odori, il fertilizzante, il terriccio, il calore del sole amplificato dal vetro e proiettato su un lurido guanto da giardi-
niere identico a quello di mamma, le fecero tornare in mente High Point Farm e lei singhiozzò, e pianse, e rise, e si asciugò gli occhi sostenendo di non avere la più pallida idea! doveva essere un'allergia! ma la crisi non si fermò e non si fermò e il suo viso si sporcò, si imbrattò di terriccio nei punti in cui si era asciugata e infine Amethyst che lavorava con lei sgattaiolò a chiamare Abelove che stava supervisionando il versamento di ricco humus nero su un pezzo di terreno e immediatamente corse nella serra, sprizzando autorità e fregandosi le mani con l'aria di chi non vede l'ora di rimettere le cose a posto ed è certo di essere l'uomo adatto per farlo. Marianne sentì talmente vergogna che pianse ancora di più. Abelove si accoccolò al suo fianco, scherzò: «Ehi, Amie mi ha detto che stai facendo diventare fangoso il terriccio con le tue lacrime» indicando il terriccio nella vasca, che era effettivamente umido. «Cosa c'è, Marianne?» Abelove occupava sempre più spazio di quanto le dimensioni del suo fisico richiedessero. A qualche centimetro di distanza sembrava già toccarti. La sottile peluria sulle braccia nude di Marianne si sollevò come limatura metallica sotto una calamita. Abelove emanava un potente calore virile; la barbetta bionda non troppo curata e i lucidi capelli biondi lunghi fino alle spalle riflettevano la luce e Marianne, abbagliata dalla sua vicinanza, balbettò: «Oh, insomma, niente». E Abelove, guardandola con scherzosi occhi grigioverdi, disse nel suo tono più dolce, quasi si rivolgesse a una bambina: «Hmmm. Se "niente" può provocare tante lacrime, cosa potrebbe combinare "qualcosa" un giorno o l'altro?». Il che fece piangere Marianne ancora di più. Green Isle Aspettava, ed era paziente, ma nemmeno nelle preghiere poteva negare di sentirsi ferita. Però pensarci non le faceva bene. Sola nella stanza che divideva con Felice-Marie, quando Felice-Marie non c'era, la ferita pizzicava come il contatto con l'edera urticante e lei si trovava a muoversi alla cieca, a passeggiare sullo stretto pavimento, senza sapere dove fosse o che ora fosse, consapevole solo della ferita sussurrando: «Non mi amate? Credevo che tutti mi amaste» tra sciocche lacrime, pianto superfluo come diceva mamma, ricordando per la decimillesima volta gli errori che aveva commesso, uno-due-tre-quattro-cinque, dopo il ballo andare a quel party invece di tornare a casa di Trisha e accettare da Zachary Lundt il drink che non voleva, dopodiché le girava la testa, era confusa e subito dopo lei e
Focaccina venivano caricati sulla station wagon di mamma e trasportati a centinaia di chilometri di distanza al piccolo malinconico bungalow di zia Ethel a Salamanca. «Perché non riuscite a perdonarmi? Perché non posso tornare a casa?» Ma la vista del volto mogio e arrossato nello specchio del cassettone la faceva ridere. Stringeva Focaccina, che per tutto quel tempo era rimasto appollaiato sul cassettone a scrutarla preoccupato. «Oh, chi se ne importa? Giusto, Focaccina? Abbiamo del lavoro da fare.» Per lo meno, lo aveva Marianne: cinquanta (o sessanta?) ore settimanali per la cooperativa, in casa o all'aperto o in città, nel negozio che faceva grandi affari. E studiare e scrivere saggi per il suo corso, l'unico corso universitario che lei seguisse quel semestre. Be', si era iscritta al corso, comunque. Introduzione alla letteratura inglese. Obbligatorio per chiunque volesse ottenere l'abilitazione all'insegnamento. Ma tra un'emergenza alla cooperativa (la povera Val Allan, la ragazza con i capelli che le scendevano in faccia, era disperata perché avrebbe dovuto passare tutto il giorno a preparare decine di crostatine alle ciliege che erano state ordinate, e l'indomani aveva un esame alle otto del mattino, per cui ovviamente Marianne si era offerta volontaria per le crostatine anche se doveva consegnare un saggio entro quarantott'ore) e un'altra (Birk, l'assistente perennemente frenetico di Abelove, correva in giro in cerca di qualcuno che lo aiutasse a consegnare cassette di verdura fresca al Pennysaver Food Mart del centro commerciale di Kilburn; era successo qualcosa a chi doveva dargli una mano, era una situazione d'emergenza e ovviamente Marianne si offrì volontaria anche se si era riservata una preziosa mattina per lo studio, con cui era in ritardo di settimane), non sembrava molto probabile che lei riuscisse a completare il corso, o tanto meno ottenere un voto decente. Il professore l'aveva convocata per un colloquio, aveva espresso preoccupazione per le molte lezioni che Marianne aveva saltato, l'aveva avvertita che doveva prendere un "buon, solido A" nel test finale per arrivare a un C come voto complessivo, e Marianne aveva fissato il pavimento colma di vergogna, con la lingua paralizzata. Avrebbe voluto dire Oh mi creda non è da me. Al liceo non ho mai perso una lezione. Facevo tutto quello che c'era da fare e i miei voti erano solo A e B e nessuno mi ha mai rimproverata, mai. Mormorò invece una fioca scusa e se ne andò afflitta. Se Patrick avesse saputo! Non era necessario che Patrick sapesse. Patrick aveva standard così alti, impossibili. Non era semplicemente realistico aspettarsi altrettanto da lei.
A volte rientrava a casa, nella sua stanza, nel pomeriggio, così stanca! con la testa che girava! specialmente se aveva trascorso la giornata in città a lavorare in negozio, dove lo squillare continuo del registratore di cassa la spossava: sveglia dalle cinque e mezzo del mattino, esausta alle cinque e mezzo del pomeriggio, pronta ad addormentarsi in piedi, ma era una stanchezza normale pensava, una stanchezza sana che impediva ai suoi pensieri di volare nella direzione sbagliata. Nonostante il frastuono in casa a quell'ora, voci alte, passi robusti sulla scala, il telefono che squillava e il cane che abbaiava, Marianne raccattava Focaccina e si infilava a letto sotto la trapunta, si raggomitolava deliziata per dormire: le bastavano venti minuti, o solo dieci. Soltanto cinque! Stringeva il gatto dal pelo morbido tra le braccia e premeva la guancia contro il suo fianco, in modo che le fusa profonde e risonanti le entrassero dentro, pulsassero nei suoi nervi e li calmassero. Nel giro di pochi secondi cadeva in un sonno profondo e senza sogni. Marianne leggeva avidamente Charlotte Brontë. Non solo l'obbligatorio Jane Eyre che aveva già letto al liceo, che amava e la faceva piangere, ma anche Villette: che eroina inattesa, l'appassionatamente casta Lucy Snowe. E un'antologia delle lettere di Charlotte Brontë. Da cui copiò: Dall'oscurità sono uscita, all'oscurità posso facilmente tornare. Marianne era così felice alla Green Isle Co-op, dove era amata e rispettata da tutti, magari a volte qualcuno approfittava della sua natura fiduciosa ma comunque la rispettava. A volte si sentiva in colpa per il desiderio segreto di tornare a casa. Non che pronunciasse mai la parola casa. Aveva capito che alcuni suoi amici giudicavano strano che, praticamente unica fra tutti loro, Marianne non tornasse mai a casa per le feste e nemmeno in estate. A volte nei periodi di vacanza restavano solo due o tre membri della cooperativa, e Marianne era invariabilmente tra loro. Ma avevano imparato a non chiederle: «Oh, Marianne, tu non vai a casa?» per Natale, Pasqua, ogni occasione. Sapeva, con forte imbarazzo, che parlavano alle sue spalle; l'ultima volta che la domanda le era stata rivolta, da una ragazza che si chiamava Beatie e stava preparando le valigie all'inizio delle feste di Natale, Beatie si era portata la mano alla bocca e aveva fissato Marianne con orrore, come un bambino che abbia pronunciato ad alta voce una parola proibita. «Oh, mi
spiace. Scusami, Marianne.» Marianne aveva riso, anche se nel suo cuore si rigirava un ago. «Penso che per adesso non andrò a casa. Ho tanto da fare qui.» Una risposta comoda. C'era da sperare che Beatie la riferisse a chiunque nutrisse curiosità su Marianne. Quasi tutti i membri della cooperativa, maschi e femmine, dal più giovane che era diciottenne al più anziano sulla trentina, si lamentavano di casa. Era una moda diffusa tra gli studenti della Kilburn, notò Marianne, lamentarsi della casa, della famiglia. Gli insegnanti inventavano battute argute sui "rituali domestici americani" (il giorno del Ringraziamento, lo scambio di regali a Natale, le vacanze estive in famiglia) con tanta sagacia che tutti in classe ridevano; o quasi tutti. Marianne sentiva che essere senza famiglia in America significa essere privi non solo della famiglia ma di un intero arsenale di materiale allusivo dotato dello stesso potere di coesione delle alghe che coprono uno stagno. C'era la sua compagna di stanza, Felice-Marie, che giorno dopo giorno portava gli stessi informi calzoni da lavoro, maglione Green Isle e anfibi militari. Figlia di un medico di Amherst, nello stato di New York, e molto benestante. Fece giurare a Marianne di mantenere il segreto sul fatto che sua madre insisteva nel regalarle ridicoli vestiti di Laura Ashley, completi coordinati di cachemire. «Nessuno nel mondo reale porta completi coordinati! Nel 1979!» C'era la bella, sarcastica Amethyst che si stava diplomando in educazione fisica nonostante la madre fosse certa che non avrebbe mai trovato un marito in un ambito così ristretto. «Ha paura che diventi lesbica, non riesce nemmeno a pronunciare la parola ma è questo che pensa, non facciamo altro che litigare e per me è spossante!» C'era Val Allan, imbarazzata dai genitori perché erano tanto vecchi, l'avevano avuta nella mezza età e venivano sempre a Kilburn nella speranza di portarla fuori a cena, o a comperarsi una giacca nuova. «È così patetico che mi viene da piangere, mamma e papà non sanno accettare che io abbia rinunciato per sempre alla vita borghese, praticamente mi tocca urlare con loro e loro non sentono!» C'era Birk, il fascio di nervi, Birk sempre ridotto a uno straccio che veleggiava nell'Università di Kilburn da otto o nove anni e che aveva per padre un tenente colonnello della Guardia Nazionale dello stato di New York, un "seguace della disciplina neonazista". C'era Gelb, che aveva per madre una sovrintendente scolastica di Albany, un'altra "educatrice neonazista". Jill, Flann, Dwyer, Smith: tutti avevano case, famiglie che provocavano smorfie, risatine ironiche e occhi levati al cielo, o pietose scrollate di
testa e il mormorio di un sospiro: «Quella generazione crede ancora nel Vietnam, per l'amor di Dio non c'è speranza». Abelove, invece, non si lamentava mai della casa, della famiglia. Per lo meno, non che Marianne sapesse. Parlava raramente di faccende personali; raramente criticava gli altri, o li disprezzava. Era capace di perdere le staffe, di ribollire come diceva, spazientito dalla lentezza o dall'incompetenza nell'eseguire le sue richieste, ma rifuggiva dall'emettere giudizi categorici. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra.» Quando pronunciava quelle parole, pensoso, grave, carezzandosi i peli biondi della barba, era una presenza galvanizzante. L'unica persona che Marianne conoscesse capace di citare le parole di Gesù Cristo come fossero sue. Un giorno, alla fine dell'inverno del 1979 Birk, l'assistente di Abelove, scomparve. «È svanito dalla faccia della terra» disse Abelove in tono incredulo, ferito. Birk, a cui da tempo Abelove aveva affidato responsabilità cruciali, aveva fatto il giro di consegne del mattino ai negozi della zona, rilasciato ricevute e raccolto pagamenti, aveva riportato il furgone alla cooperativa ed era scomparso. A quanto pareva, non mancava nulla dalla sua stanza, che era un deposito di vecchi vestiti, libri di testo e scritti che risalivano a quasi un decennio prima. Non aveva lasciato messaggi d'addio. Nella casa si diffuse il caos quando girò voce che mancassero cinquecento dollari dai conti correnti della cooperativa, se non millecinquecento, ma Abelove sostenne che i soldi c'erano tutti. Al culmine dell'agitazione, Abelove indisse una riunione d'emergenza dei membri, si sistemò sulla scala e urlò per chiedere la calma: bisognava smettere all'istante di diffondere una diceria così deprimente quand'anche fosse stata vera, e non lo era; la tacita accusa che il loro amico e fratello Birk fosse un ladro era ingiusta nei suoi confronti, visto che lui non era presente per difendersi. Nei giorni successivi, Abelove si mostrò talmente depresso e distratto che Marianne trovò il coraggio di offrirsi volontaria per alcuni dei compiti di Birk. Abelove disse, con un sorriso esile: «Tu? Grazie davvero, Marianne, ma dubito che ne saresti capace». Vero, probabilmente Marianne non appariva capace. Non quel mattino, almeno. Nei soliti calzoni di cotone con la fascia elastica, un maglione di lana rossa divorato dalle tarme che aveva recuperato dal bidone comune della roba vecchia, scarpe da ginnastica minuscole sbiadite al grigio della sciacquatura dei piatti, e un cappello alla Buffalo Bill, anch'esso prove-
niente dal bidone, che le copriva quasi per intero i capelli corti. Marianne rise. «Abelove, non è giusto giudicare a priori!» Il fondatore e direttore della Green Isle Co-op arrossì, si grattò la barba. Se c'era una qualità che Abelove coltivava in pubblico era l'equità. Chiese subito scusa. Assegnò a Marianne, con un sorriso ottimista, alcuni compiti di Birk. Per esempio, lui e Birk "sbrigavano" le consegne al servizio mensa dell'università e ai cinque o sei negozi della zona che vendevano pane e dolci, cibi preparati e prodotti freschi della Green Isle. Molto del "disbrigo", scoprì Marianne, si effettuava per telefono, e un telefono era, cosa? un oggetto magico nella sua mano, come una bacchetta fatata o una maschera. Un portentoso megafono da ragazza pon-pon che ti permetteva di parlare con perfetti estranei con una voce che non era esattamente la tua, più forte, più chiara, più allegra, più sicura. La timidezza di Marianne Mulvaney evaporava non appena l'interlocutore all'altro capo del filo sollevava il ricevitore e diceva: «Pronto?». Nel giro di dieci giorni stupì Abelove aggiungendo un nuovo negozio alla loro lista, un negozio per agricoltori disposto ad accettare i prodotti da forno della Green Isle per vedere se i suoi clienti li avrebbero comprati. E Marianne se ne stava entusiasticamente "lavorando" un altro paio. Il compito che Birk aveva trascurato più di ogni altro era tenere aggiornato il ruolino degli incarichi nella cooperativa. Ogni membro aveva una sua area di responsabilità, ma a tutti toccavano anche altri incarichi a rotazione. Il "ruolino dei turni" era un grosso libro mastro su cui venivano elencati, a mano, nomi, incarichi, date e orari (cucina/preparazione dei pasti/pulizie/forno/lavori di casa/lavori esterni eccetera); i membri consultavano il ruolino, o avrebbero dovuto consultarlo, per vedere quali fossero i loro compiti. Dovevano firmare all'inizio e alla fine dei turni, come impiegati. Ma a Birk quel lavoro non piaceva, perché ovviamente a volte provocava attriti; era diventato sempre più negligente, e molti lavori non venivano svolti, o svolti a metà; oppure venivano fatti spontaneamente, come in una grande famiglia i cui membri responsabili, capaci, si fanno avanti mentre altri si tirano indietro. Non appena Marianne fu incaricata di occuparsi del ruolino, defenestrò il libro mastro. Noioso, brutto! Faceva sembrare i doveri all'interno della cooperativa... doveri! Pochi giorni dopo c'era un nuovo ruolino di marcia: su una bacheca in cucina, tra coloriti tocchi decorativi (fiori secchi, foto delle attività della Green Isle, nastri disposti a raggiera) c'erano sorridenti disegni a matita delle facce dei membri, e sotto le facce cartellini con l'indicazione dei vari compiti, fissati da puntine da
disegno.«Oh, Marianne! Lo hai fatto tu?» Ogni volta che Marianne sentiva ripetere lo stesso identico commento, non poteva fare a meno di ridere. Da un giorno all'altro, si stupirono tutti, l'accento era passato dagli incarichi alle persone. Il ruolino di marcia era stato trasformato in un'opera d'arte, o quasi. E non sarebbero stati tutti più contenti di fare il proprio dovere, con un ruolino di marcia tanto attraente? sormontato da un arco di visi sorridenti? Al pasto di mezzogiorno della prima giornata con la bacheca, quando Marianne arrivò di corsa in sala da pranzo, fu accolta dall'applauso di tutti gli amici. E Abelove, a capotavola, si alzò per brindare a lei con un bicchiere di vino di bacche di sambuco (analcolico) della Green Isle. «A Marianne Mul-va-ney. Regina del disbrigo.» Marianne si fermò appena oltre la soglia, paralizzata dalla timidezza. Abelove si avvicinò ad accompagnarla al tavolo, al suo fianco. La sua grande mano calda poggiava sulla spalla di Marianne come un uccello appollaiato. Abelove, Abelove! Era il suo vero cognome. Il nome era una cosa strana e goffa, Charlesworth, un vecchio nome di famiglia che lui non usava mai. Dove fosse la casa di Abelove, la sua casa originaria, nessuno sapeva di preciso. Lui non parlava mai di sé. Era un uomo d'idee e d'azione e viveva nel presente, non nel passato. Uno dei suoi motti preferiti era «Dio culmina nel momento presente, e non sarà mai maggiormente divino». Era di Henry David Thoreau? Sarebbe potuta essere la voce di Abelove. Il passato non è urgente, il presente sì. Il passato non si può cambiare, il presente è ancora in divenire. C'erano però voci. Marianne ne aveva sentita una subito dopo essere arrivata alla cooperativa: Abelove era sposato quando era giunto alla Kilburn come membro di facoltà, e aveva figli da qualche parte, forse era ancora sposato anche se separato da tempo dalla moglie. La voce che avesse avuto una relazione con una donna (sposata) della città. La voce che avesse avuto una "tragica" storia d'amore con una vasaia, adesso morta, che viveva appena oltre il confine, tra le morbide colline della Pennsylvania. La voce che Abelove fosse il figlio diseredato di un ricco uomo d'affari del New England. La voce che negli anni sessanta fosse stato seminarista dai gesuiti e poi si fosse lasciato ammaliare da attivisti carismatici, i fratelli Berrigan. La voce che fosse stato arrestato più di una volta a manifestazioni pacifiste e avesse trascorso un po' di tempo in carcere, forse. La voce... ma Marian-
ne rideva e si copriva le orecchie con le mani. Basta! Una volta, a tavola, Beatie la sfacciata, che da tempo era infatuata di Abelove, osò chiedergli di punto in bianco dove fosse casa sua, e Abelove rispose, accigliato: «Casa mia? Ovvio, qui. Dove dovrebbe essere?». Chiunque sentì, Marianne compresa, si illuminò di felicità e avrebbe voluto applaudire. Tenere a galla le finanze della Green Isle Co-op sulla scia di continue crisi (gli antiquati impianti idraulici di quella che era stata una vecchia locanda erano sempre rotti, la cantina che sembrava un mausoleo perdeva acqua in maniera imprevedibile come il tetto, i camini rimandavano giù il fumo e la caldaia andava sostituita e c'era un'invasione di formiche nere molto militaresche, e altro) era un lavoro a tempo pieno per il direttore. Derogando dalla natura del proprio temperamento, Abelove aveva dovuto lanciarsi in quello che chiamava sdegnosamente "capitalismo di ventura": farsi prestare soldi da una banca locale a tassi d'interesse assurdamente alti, investire in forni per pane e dolci, in un'enorme stufa da cucina con dodici piastre elettriche, in surgelatori tanto grandi da poter contenere un cavallo ciascuno. Investire in attrezzi agricoli, tonnellate di humus, semi e piante comperate dai vivai. Acquistare un nuovo furgone Ford! E c'era l'assicurazione sulla proprietà, sui veicoli. E la copertura sanitaria? Strano, ma alla cooperativa si verificavano spesso incidenti, certa gente combinava disastri incredibili. ' Nel 1976, Abelove aveva dovuto ingoiare il suo orgoglio («Come ingoiare una grossa mela, intera») e presentarsi alla comunità di Kilburn in cerca di donatori ("benefattori") che aiutassero la Green Isle Co-op a sopravvivere. Aveva imparato, diceva con un sorriso umiliato, a presentare la sua visione di Mount Katahdin come fosse un bene materiale degno di essere sostenuto da estranei. Almeno, aveva avuto una discreta fortuna; in effetti esisteva un albo, piccolo ma prestigioso, di benefattori della Green Isle, per la maggior parte vedove o coppie anziane benestanti. Il bel viso e il modo di fare franco di Abelove, i capelli di un biondo fulgido e lo sguardo sincero dovevano averli abbagliati. «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità.» Non erano le parole di Cristo, o quasi? A preoccuparlo, confessava Abelove, era la possibilità che cercare ricchi benefattori cominciasse a piacergli. Perché aveva scoperto di possedere il talento necessario. «Dove ci porta il talento a volte può essere pericoloso!» Dei numerosi anni in qualità di assistente di psicologia all'Università di
Kilburn parlava di rado, e solo con imbarazzo. (Birk, che era stato suo studente, diceva che Abelove era un insegnante meraviglioso. "Indimenticabile".) Aveva dovuto lasciare la sua posizione di privilegio quando gli era divenuto chiaro che il processo di valutare ("classificare") altri esseri umani era intrinsecamente crudele, un'estensione intellettuale della crudeltà della "selezione naturale" di Darwin, la sopravvivenza del più adatto, l'estinzione del debole. Credeva appassionatamente in quello che chiamava antidarwinismo: «Visto che siamo esseri umani, dotati di spirito in luogo del semplice appetito, possiamo reagire alla natura. Possiamo aiutare i deboli e così aiutare noi stessi. Tutto il bene ritorna. Non è un paradosso». Quelle parole risuonavano nella testa di Marianne, perché Abelove le diceva spesso. Tutto il bene ritorna. Non è un paradosso. Che profonda intuizione! Era certa di capire che cosa intendesse Abelove, ma quando aveva ripetuto quelle asserzioni a Patrick, lui ovviamente aveva subito ribattuto: «Cosa diavolo dovrebbe significare?». Scrutandola con il suo sguardo da Pizzicotto. E lei, balbettando impacciata, non era riuscita a spiegarsi. Tutto il bene sovrasta, non è un paradosso. Era vero, no? E Marianne era innamorata di Abelove, come tanti lì dentro? Quasi tutte le giovani donne della Green Isle Co-op, e parecchi dei maschi? A volte pensava di sì, a volte no. Era vero che le sobbalzava il cuore (letteralmente, assurdamente!) quando lui le sorrideva, posava gli occhi su lei, pronunciava il suo nome, Marianne. A volte come fosse una poesia che aveva appena creato, così melodiosa: Mari-anne Mul-va-ney. Solo che sorrideva a tutti nello stesso modo, almeno quando era in uno stato d'animo felice, e pronunciava i loro nomi in quel modo. Sorrideva a Lacrima, lo spaniel bastardo che bagnava sempre, in nervose esplosioni, i tappeti a pianterreno. «Lacrima! Uh oh! Forse dovremmo cambiarti nome, aggiungere qualcosa?» Sorrideva a Focaccina che miagolava nella sua direzione da tre o più metri di distanza, a coda ritta, orecchie alte, occhi di bronzo grandi e attenti. Che dolce spettacolo, Abelove che interrompeva il continuo correre per chinarsi a coccolare Focaccina. «Fo-cac-ci-na. Fo-cac-cina. Che bel micio!» Naturalmente, Focaccina adorava Abelove. Si gettava senza pudore ai suoi piedi, rotolava sulla schiena per offrire il ventre d'un candore totale alle carezze. Marianne guardava, mordendosi il labbro inferiore. La rendeva ansiosa, le dava una scossa ai nervi vedere il biondo, vi-
rile Abelove coccolare Focaccina, carezzare il mento sollevato del gatto con dita forti, agili. E come faceva le fusa Focaccina! C'era qualcosa di frenetico in quella felicità. Marianne guardava. Rideva di sé: una cotta da ragazzina, e non era più una ragazzina. Marianne Mulvaney era una giovane donna di vent'anni. E nemmeno più troppo giovane. La pellegrina Così, di casa e di famiglia, Marianne Mulvaney non parlava mai. Se gli amici della Green Isle Co-op facevano ipotesi su di lei e sussurravano di lei dietro le sue spalle, non poteva saperlo, no? Comunque, non pensava che l'argomento interessasse troppo a qualcuno. Dall'oscurità sono uscita. All'oscurità posso facilmente tornare. Però: un tardo pomeriggio del maggio 1979, quando entrò di corsa in casa, di ritorno da un turno di dieci ore al negozio Green Isle di Kilburn (era "direttrice facente funzione" finché Abelove non avesse trovato qualcuno a cui affidare l'incarico in via permanente), frenetica, per studiare per l'esame finale di introduzione alla letteratura inglese in programma di lì a due mattine, una Felice-Marie preoccupata le riferì che una sconosciuta aveva telefonato chiedendo di lei, non più di cinque minuti prima. «Ma respirava in modo così strano, e penso piangesse, e sembrava arrabbiata. Non ho capito molto di ciò che ha detto.» Marianne si fermò di colpo, si sentì gelare. «Una donna? Che piangeva? Chi?» «Non so proprio» si scusò Felice-Marie, sbirciando qualcosa che aveva scritto su un foglio. «Non credo fosse tua madre. L'ho conosciuta, non l'ho dimenticata, però era qualcuno di quell'età, all'incirca. Tea? Tea Eschl? Piangeva e pareva quasi arrabbiata. Sembrava convinta che io fossi te, anche se le avevo spiegato che non lo ero. Credo che magari qualcuno della tua famiglia sia...» Felice-Marie si interruppe, si succhiò il labbro. Non voleva dire morto. Marianne disse: «Zia Ethel. Ecco chi era». Con il cuore che le batteva contro le costole come un uccello dalle grandi ali alla disperata ricerca di una via di fuga, Marianne corse al telefono in soggiorno e fece il numero di Ethel Hausmann, e con sua delusione il telefono squillò, squillò. Per favore rispondi! Oh fa' che non sia... Nonostante lo stress della situazione, era abbastanza lucida da dedurre che se era morto
qualcuno non poteva essere Michael Mulvaney Sr., perché zia Ethel non avrebbe pianto per lui. Mamma. Dio santo, fa' che non sia mamma! Le calò addosso l'orribile consapevolezza di quanto avesse deluso Corinne: in ogni svolta della propria esistenza, dal giorno di san Valentino del 1976, aveva deluso sua madre, l'aveva profondamente ferita, e adesso... Se fosse stato troppo tardi per fare ammenda? Riagganciò, e con dita tremanti compose di nuovo il numero, che aveva imparato a memoria anni addietro e non avrebbe mai dimenticato anche se, nelle varie occasioni in cui aveva chiamato Ethel Hausmann dopo avere lasciato Salamanca, la donna si era mostrata cauta ed evasiva. Magari temeva che Marianne chiamasse per chiederle soldi? (E Marianne, per amore di diplomazia, non poteva iniziare una conversazione spiegando: «Zia Ethel, non voglio niente da te, sul serio! Chiamo solo per salutarti...». Lo aveva spiegato a Patrick, che però non era stato molto comprensivo: «Perché chiamare zia quella vecchia musona? Che cos'è per noi?». Con il tono irridente di Pizzicotto, quasi geloso del fatto che sua sorella telefonasse a qualcuno oltre a lui.) Il telefono squillò otto, nove volte. Al decimo squillo, il ricevitore venne sollevato e si udì la voce ansante, tesa di Ethel Hausmann. «Pronto? Che cosa? Sto uscendo di casa! È un'emergenza. Chi parla?» «Zia Ethel, sono...» «Chi? Cosa? Zia Ethel? Io non sono la zia di nessuno! Sto uscendo di casa! Non posso parlare adesso!» «Sono Marianne. Oh, cos'è successo?» «Marianne.» Ethel Hausmann si interruppe, ansimò nella cornetta. «Oh, sì. Ti avevo chiamata. Sto uscendo di casa, parto in auto per Ransomville, ma magari dovrei aspettare domattina? Tutta la famiglia è là, hanno bisogno di me, però non ho mai fatto il viaggio con il buio, soltanto di giorno, sarò sola al volante, e se l'automobile si rompesse? Il funerale è dopodomani, alle undici...» Ethel Hausmann aveva il tono alto, febbrile della zitella a cui non succede qualcosa da molto tempo. Marianne pensò, stordita: Ransomville. Non High Point Farm. Ebbe una fitta di sollievo, poi si sentì in colpa per il sollievo. Riuscì a interrompere Ethel Hausmann per chiederle chi fosse morto ed Ethel disse, con cupa soddisfazione: «Tua nonna Hausmann». Marianne mormorò: «Oh!». Gli occhi le si velarono di lacrime, perché per quanto lei e la nonna non fossero mai state vicine, Ida Hausmann era la madre di Corinne, e Corinne sarebbe stata senz'altro sconvolta. «Sì, è morta mia zia Ida» disse Ethel. «Settantanove anni! Un infarto, hanno detto. Stamattina! Stava scacciando un gatto randagio con
una scopa, e bum! Andata. Da un momento all'altro! Mia madre è morta nello stesso modo, così all'improvviso, cioè per molto tempo è stata una cosa lenta, però alla fine rapida come questa. Saranno dodici anni la settimana prossima. Adesso è come se fosse successo di nuovo, Marianne, però con sua sorella. Mia zia. E zio Will ormai è morto da anni. Tua madre mi ha telefonato e mi ha detto: "Quella generazione è quasi scomparsa, Ethel. Chi prenderà il loro posto?". Le prossime saremo noi, immagino. Oh, è terribile, crudele. All'inizio sei giovane, e dura per così tanto tempo che pensi vada avanti per sempre, poi di colpo non sei più giovane, e non ti ci abitui mai e, mio Dio, è quella l'unica via d'uscita.» Marianne ascoltò rispettosamente i discorsi a ruota libera di Ethel Hausmann. La interruppe solo con difficoltà, per chiedere della famiglia, e del funerale. Che choc: nonna Hausmann era morta! Marianne non l'avrebbe mai rivista! Ma in realtà non vedeva la nonna da anni, non le aveva nemmeno parlato al telefono da quando aveva lasciato High Point Farm. Aveva idea (be', Patrick glielo aveva detto senza mezzi termini) che la disapprovasse; disprezzasse ciò che Marianne aveva "fatto" con un ragazzo del liceo o ciò che "le era successo", comunque fosse. Una cosa imbarazzante, vergognosa, a cui non era stato dato un nome. Naturalmente, Marianne aveva spedito bigliettini d'auguri per Natale e per il compleanno a nonna Hausmann, anno dopo anno. Ma la nonna non aveva mai risposto. Un'altra persona che ho deluso. Non mi stupisce che mamma si vergogni tanto di me. Ida Hausmann. Moglie di Will. La vecchia fattoria di Ransomville. La generazione di immigrati tedeschi che si erano stabiliti nella valle di Chautauqua attorno al 1880. I nonni di Marianne si erano recati di rado a High Point Farm a trovare Corinne e la sua famiglia. «Troppa strada da fare per un pasto» dicevano. Ovviamente, non avrebbero mai preso in considerazione l'idea di fermarsi per la notte. Avevano una fattoria, dopo tutto. Si sa quali disastri possano succedere in una fattoria, se giri le spalle per cinque minuti. Così i Mulvaney erano costretti ad andare a Ransomville, per il pranzo della domenica, una volta o due l'anno. E sembrava che ciò dovesse accadere sempre più spesso. «Oh, già?» strillavano i bambini. Nonna Hausmann che nessuno chiamava "nonnina", che era la madre di Corinne, ma così diversa da lei! sorrideva di rado, rideva ancor più raramente, e quando lo faceva la risata aveva il suono di cardi che vengano spezzati. Le sue
mani sapevano di cipolla, e non aveva qualcosa di cipollino anche negli occhi? Si lamentava dell'artrite in tono di rimprovero, così capivi che era arrabbiata con te perché non l'avevi anche tu. Stupidamente, tristemente, la madre di Marianne le offriva una litania di dolori e fastidi, di raffreddori, di disastri per rallegrarla. Qual era il segreto di nonna Hausmann, che appariva tanto chiusa, rinserrata in se stessa? Anche lei credeva in Gesù come salvatore, però era un salvatore rabbioso, un supervisore dell'inferno. Guidando verso Ransomville, avvicinandosi alla fattoria degli Hausmann, Michael Sr. si metteva a fare il pagliaccio perfido. Si avvolgeva una sciarpa attorno al collo. «BIT! Ne avrò proprio bisogno!» Corinne gli tirava uno schiaffo, ferita, o fingendo di esserlo, e i bambini si scioglievano in risate: Marianne, Mikey Junior e P.J. sul sedile posteriore, Judd davanti stretto tra mamma e papà. Mamma strillava: «Michael Mulvaney, non è per niente divertente!» e papà strizzava l'occhio allo specchietto retrovisore per l'adorante pubblico che stava dietro. «Niente affatto divertente, amore. Brr!» Una volta, papà aveva indossato una sciarpa per l'intera visita, sostenendo in modo molto convincente di avere la gola infiammata. Oh, e che pranzo della domenica rigido, solenne, sorridi-e-cerca-disopravvivere. Andare a messa alla chiesa luterana a qualche chilometro di distanza non rallegrava mai la giornata agli Hausmann anziani. Marianne ricordava di avere mangiato orribili arrosti di maiale pieni di grasso, di avere cercato di ammorbidire purè grumosi coperti di una salsa densa, porosa. Fagiolini cotti fino a spappolarli. Zucche invernali. Con tutte le deliziose torte che si possono preparare, la preferita di nonna Hausmann era quella al rabarbaro. Però poi, nelle due lunghe ore del viaggio di ritorno a casa, che bello essere di nuovo soltanto loro, i Mulvaney tutti assieme! Ebbri di sollievo e felicità sull'auto guidata da papà! Papà dava il la al coro di Take Me Out to the Ball Game, con un ritornello ripetuto molte volte: Comprami noccioline e CRACKER JACK! Che m'importa se NON TORNERÒ PIÙ! Tranne mamma, che aveva spesso l'emicrania, tutti ridevano a squarciagola; persino Marianne che capiva che non è molto bello farsi beffe dei nonni. Papà non aveva misericordia, adesso che era libero di sfogarsi: «Da certe case bisogna andarsene per apprezzarle, eh?» e: «Il sapore del cibo
lesinato è inconfondibile, no, ragazzi?». Mamma tirava schiaffi a papà passando sopra Judd, poi alla fine cedeva ed esplodeva in risatine. «Oh, be'» sospirava. «È il modo di fare di una generazione più anziana, penso. Non è lo stile dei Mulvaney, grazie a Dio.» «Amen» concludeva papà a voce molto alta. Come premio per tutto ciò che avevano sopportato, papà entrava in città anziché andare direttamente a casa. Li portava a gelaterie come la TasterFreezer o la Royal Ice Cream Parlor vicino al cinema. Dal sedile posteriore si alzava un urlo giubilante: «Vivaaaapapààààà!». Una voce nasale chiese sospettosa: «Marianne? Ci sei?». «S-sì, zia Ethel.» Marianne stava piangendo con gli ansiti singhiozzanti che odiava. «Il funerale è giovedì alle undici, come ti ho detto. Alla loro chiesa.» Una pausa. Una profonda inspirazione. «Però tua madre non vuole che tu partecipi, temo.» «Scusa? Che cosa?» In tono formale, come costretta a dare pessime novità contro la propria volontà, Ethel Hausmann disse: «Corinne non vuole che tu vada al funerale di sua madre. Non chiedermi perché. Non sa nemmeno che ti ho telefonato. Però ho pensato di avere un obbligo morale. Dopo tutto, Ida Hausmann era tua nonna». Ci fu il rumore di un naso soffiato, un gorgoglio umidiccio. Marianne restò di sasso. L'unica cosa che le venne in mente di dire fu: «Oh». «Sì, ho pensato che dovessi saperlo. Tua nonna Hausmann è morta.» Un'altra densa pausa, un'inspirazione. Poi, con maggiore curiosità: «Tu hai un'altra nonna, Marianne? Una nonna Mulvaney?». Le parole nonna Mulvaney avevano un suono strano, surreale, dette da zia Ethel. Come l'improbabile nome di uno dei microrganismi di Patrick. Marianne balbettò, confusa: «Non... non so». «Non sai se hai una nonna? La madre di tuo padre! Accidenti, Marianne. Deve esserci dietro una storia triste, non ho dubbi.» Ethel Hausmann voleva rimproverare, ma era anche soddisfatta. «Adesso devo chiudere, Marianne. Non dire a tua madre che ti ho chiamata. Potrebbe obiettare al fatto che io interferisca con la sua preziosa famiglia.» «Sì?» «Be', non sto interferendo! A me pare solo una cosa da decente cristiana.»
«Grazie, zia Ethel. Ti...» «Io non sono realmente tua zia, Marianne. A voler essere precise, siamo solo cugine di secondo grado.» Ethel Hausmann riagganciò. Marianne soffocò un gemito che si mutò in una risata improvvisa e bizzarra come uno starnuto. Sarebbe andata al funerale! Sarebbe stata la benvenuta! Scappò via dal salotto, gli occhi colmi di lacrime, tanto da non vedere esattamente dove andasse, e così entrò in collisione con un giovane uomo accoccolato dietro la porta. Era Hewie, uno dei membri della cooperativa; stava riparando con chiodi e martello un gradino che aveva ceduto. Aveva origliato la conversazione di Marianne? La sbirciò mentre lei passava di corsa e disse: «Marianne, se hai bisogno di un passaggio da qualche parte, tipo a un funerale o altro, posso portarti io. Ho l'automobile». Il viso di Marianne era solcato da lacrime. Non aveva il tempo di riflettere sull'offerta di Hewie. O sul modo in cui lui la guardava. Rise e disse, a metà scala: «Oh, sì. Grazie!». ** Fu così che Marianne sgattaiolò via, alle sei di un grigio mattino di maggio, per essere portata a Ransomville, al funerale di Ida Hausmann a cui non era invitata, viaggiando con Hewie, il falegname della cooperativa, sulla sua vecchia scassatissima Dodge del 1969. Fu immaginazione? La vaga impressione di qualcuno che li scrutava da una finestra a pianterreno della casa. Sì, ovviamente Marianne avrebbe perso l'esame finale, Marianne non avrebbe completato il corso, non aveva pensato un solo istante all'esame. Addio a introduzione alla letteratura inglese! Pensò: Dall'oscurità sono uscita. Non era già una consolazione sufficiente? Lo era! Così verso le undici, all'incirca a metà di quello che sarebbe stato l'esame, si trovò a quattrocentottanta chilometri di distanza, nella città rurale di Ransomville, a ovest di Mt. Ephraim, nella valle di Chautauqua. Grazie a Dio, Hewie non era un chiacchierone! Non faceva domande! Era un giovanotto taciturno con intensi occhi scuri, le labbra cronicamente piegate all'ingiù, di solito non rasato; come il fuggiasco Birk, un membro della Green Isle che frequentava l'Università di Kilburn da anni ma ben lontano dalla laurea. Su di lui si sussurravano cose che Marianne non aveva sentito e
non voleva sentire. Non credeva alle chiacchiere. Aveva avvertito Hewie all'inizio del viaggio: «Potrei, oh non so, comportarmi in modo un po'... strano. È per la morte di mia nonna e questo funerale e... insomma. Spero che non mi giudicherai con troppa durezza». Hewie la fissò come non avesse sentito bene. Borbottò piano, la fronte corrugata: «Diavolo, io non ti giudicherei in nessun modo, Marianne!». L'insinuazione parve irritarlo. Entro le undici, il vento aveva sparso in cielo una vivida successione di nubi che sembravano lessate, e quel giovedì era diventato una mite, fragrante, stupefacente giornata di primavera. Per lo meno, Marianne era stupefatta. Fissava avida tutto ciò che vedeva, si fregava gli occhi per controllare di non avere la vista ottenebrata. Non andava a Ransomville da... quattro anni? Però la piccola città appariva immutata, la stessa stazione di servizio con due pompe, la drogheria che vendeva anche attrezzature per la pesca, il cartello sbiadito con la calligrafia di un ragazzino VERMI A PREZZI STRACCIATI! Lo stesso palazzo con ufficio postale e stazione dei vigili del fuoco volontari, la stessa ferrovia sopraelevata, diverse chiese in legno, terreni coltivati tutt'attorno. La strada a due corsie che portava in campagna, alla remota fattoria degli Hausmann, aveva più buche e crepe di quanto ricordasse. E dov'era la chiesa luterana? Non sorgeva a un bivio? Quanti chilometri oltre la città? Marianne cominciava a tremare. Sentiva nelle dita il bisogno di muoversi, tirare i capelli o, come accadeva a mamma, svolazzare nell'aria. Le strinse forte in grembo. Erano gelide. Sarebbe stata bene accetta al funerale di sua nonna come gli altri Mulvaney, no? Mamma avrebbe emesso un urletto e sarebbe corsa a stringerla, togliendole il fiato, no? Ransomville sorgeva in un angolo remoto della valle di Chautauqua, lontano dalla più popolosa Mt. Ephraim e dall'area più ricca, in continua espansione, di Yewville e della Route 58. Fino alla metà degli anni cinquanta, molte fattorie non avevano l'elettricità o impianti igienici interni. Un posto dimenticato dal tempo diceva Corinne, e Michael Sr. aggiungeva subito Giusto! E noi sappiamo perché. In effetti, il paesaggio era bellissimo e forse capace di intimidire un ragazzo di città. Le colline armoniose e gli improvvisi burroni creati dai ghiacciai, i veloci torrenti con il fondo di sassi, le svolte imprevedibili, i grandi cieli capaci di mutare in pochi minuti dal grigiore alla luminosità, dal bello al temporale, somigliavano molto al territorio più roccioso della High Point Road oltre la proprietà dei Mul-
vaney, dove l'asfalto diventava ghiaia. Gli esseri umani pensano sempre aveva detto una volta Patrick che al di là dei confini delle loro proprietà la civiltà finisca. Marianne non avrebbe saputo spiegare che cosa intendesse dire, ma pensava che potesse avere ragione. Strano e conturbante, Patrick. L'aveva chiamata subito dopo Pasqua, il mese prima, una telefonata a mezzanotte. Marianne, fuori combattimento per la spossatezza, era stata svegliata da Felice-Marie per la chiamata "d'emergenza" del fratello, e quasi non era riuscita a capire il concitato fiume di parole, o tanto meno il loro significato. Lui voleva informarla, aveva detto, che giustizia era stata fatta; che lasciava la Cornell prima della laurea, aveva deciso di non iscriversi per il momento al dottorato e aveva rimandato ogni decisione sul futuro. Avrebbe viaggiato, disse, forse nel Sudovest, le Montagne Rocciose. Marianne aveva ascoltato con orrore. Sì, ma Patrick non verrò alla tua laurea? Tutti i Mulvaney non verranno alla tua laurea? Ho già segnato il 30 maggio sul calendario, oh Patrick aspetta... Più tardi, la telefonata le era parsa un sogno bizzarro. Faceva sempre più spesso a sogni bizzarri adesso che aveva assunto tanti degli incarichi di Birk alla cooperativa e ogni sera crollava a letto esausta. Ma la cosa più strana della telefonata era che Patrick le era sembrato così felice, così sollevato, così non Pizzicotto. Eppure aveva dato notizie catastrofiche, no? Adesso che Hewie aveva svoltato sulla strada che portava dai nonni di Marianne, adesso che si avvicinavano alla chiesa luterana all'incrocio (eccola, all'improvviso: triste pietra grigia, spoglia e tanto più piccola di quanto lei ricordasse), Marianne cominciò a provare panico. Era quella paura, la sua paura speciale. Un sudore freddo le si raccolse sulla fronte e sotto le ascelle. Si sentì implorare in un sussurro: «Hewie, non... non posso». Il giovanotto, che guidava la Dodge al solito ritmo cauto, meticoloso, avvicinò un orecchio al suo viso. «Credo di non essere pronta.» Che choc vedere, tra la decina di veicoli parcheggiati davanti alla chiesa, la vecchia station wagon di Corinne, con l'adesivo del 4-H su un finestrino posteriore e uno, più sbiadito, sul paraurti che diceva ELEGGIAMO CARTER-MONDALE '76!!! Diverse persone vestite di nero stavano sulla soglia della chiesa. Una è mamma? Una è papà? Assurdo, tra le automobili e i furgoni tanto modesti, da agricoltori, un enorme carro funebre nero, fuori posto, come un grande stivale lucido prelevato dalla vetrina di un negozio alla moda. Ida Hausmann, la donna sempre cupa che puzzava di cipolla, con il suo sdegno per quelle che chiamava sfarzose vanità terrene, sarebbe stata trasportata
per l'ultima volta nella campagna attorno a Ransomville lì sopra! Marianne implorò, nascondendo il viso per non essere vista da nessuno: «Tira diritto, Hewie! Per favore! Non posso». Si aspettava che Hewie protestasse: avevano fatto tanta strada solo per correre via come fuggitivi? E una presenza maschile più anziana non era sempre destinata a metterla in discussione? Ma Hewie non profferì verbo. Era così anche alla cooperativa, occhi e bocca imbronciati, tanto da lasciare immaginare che coltivasse pensieri profondi, pensieri contrari, addirittura pensieri ribelli (Abelove, che presiedeva le riunioni, lanciava spesso occhiate inquiete a Hewie), però lui non creava mai grane, parlava di rado. Si accigliava, e la cosa finiva lì. Impossibile capire se il cipiglio fosse un segnale di sorriso, o se invece non segnalasse proprio niente, se fosse solo un tic nervoso. Aveva una sua bellezza da legno scolpito, con i capelli che gli scendevano ribelli dietro le orecchie. Un uomo simile è così frustrante! si lamentava Amethyst con un sospiro. Marianne era molto perplessa. Frustrante? Perché? In cima alla salita dietro la chiesa luterana c'era un sentiero per le mucche. Marianne chiese a Hewie di imboccarlo. Lui svoltò e si fermò dietro una fila irregolare di alberi. In uno stato di confusione tale da dimenticare che con lei c'era qualcuno che avrebbe potuto dubitare della sua salute mentale, Marianne balzò giù dall'auto, si avviò in un prato, tra le spine di rovi e cardi. Scese in direzione del retro della chiesa, fino al limitare del cimitero, e si accucciò lì in attesa dell'arrivo del funerale della nonna: la destinazione finale di Ida Hausmann era ovvia, un rettangolo famelico scavato nel terreno rossiccio e umido. Che spettacolo straziante! Non fosse stato per Gesù Cristo, e per il Suo amore, e per la Sua promessa del paradiso e della vita eterna, sarebbe stato insopportabile guardare. Era ben nascosta? Dietro un muro parzialmente crollato, fatto di sassi portati dai campi e cementati decenni prima, e dietro una delle lapidi più grandi del cimitero, un piedistallo in granito con un angelo di dimensioni umane, fornito di ali percosse dalle intemperie ma ancora svettanti. Tutt'attorno a lei ronzavano mosche e moscerini e giovani api. Hewie arrivò alle sue spalle, in scarpe da ginnastica, silenzioso quasi quanto un cervo. Marianne era consapevole di lui, e al tempo stesso inconsapevole: aveva chiuso gli occhi, giunto le mani, abbassato la testa in preghiera. Nella chiesa di pietra, un sacerdote intonava parole delle scritture sulla bara di nonna Hausmann. Comunque fosse strutturato il rito luterano, doveva consistere nella preghiera, nell'umile sottomissione alla volontà di Dio e all'amore di Gesù.
Ed ecco: io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo. Marianne si disse che se Corinne avesse saputo che lei era accoccolata lì, nascosta dietro il cimitero, non avrebbe potuto essere arrabbiata, o imbarazzata, purché gli altri non se ne accorgessero. Era sempre così con mamma: era Marianne a preoccuparsi, preoccuparsi, preoccuparsi per i progetti per il 4-H, a cucire a mano un orlo, e se non era perfetto toglieva il filo e ricominciava da capo, a preparare da zero i dolci per il forno senza mai, mai usare una base pronta, mentre mamma assumeva la posizione (sosteneva fosse la posizione del pragmatismo americano) che se le cose funzionano bene, che cosa importa sapere esattamente come funzionino, e in ogni caso non sono affari degli altri, no? Adoravano tutti il modo di cucinare disordinato di mamma, che era delizioso; non c'era bisogno di sapere che era corsa in cucina appena in tempo per strappare pezzi di pollo dalla bocca di un gatto, o che aveva raccattato dal pavimento, dove era caduta a formare una massa informe che però le sue mani avevano ristrutturato, una torta, o un budino, o un pasticcio di carne o una quiche. L'ultima volta che Marianne aveva parlato con sua madre, la sera della domenica di Pasqua, Corinne aveva schivato le timide domande della figlia sulla casa (era davvero in vendita? pensavano sul serio di trasferirsi all'altro lato della valle, a Marsena? però a Marsena non conoscevano nessuno, no?) e aveva fatto allegri, giulivi commenti sulla vita da trapunta di stracci di Marianne alla Green Isle Co-op, al punto di sembrare quasi invidiosa. Voi giovani! praticamente in una comunità hippie a divertirvi da matti, non come la mia generazione, io studiavo per diventare insegnante nella scuola pubblica e tuo padre lavorava, si manteneva con le proprie forze fin da quando aveva diciotto anni. Marianne aveva sussultato alle accuse, il termine "hippie" non le suonava giusto, corretto, perché lei e quasi tutti i membri della cooperativa lavoravano sodo, anche se non aveva grandi risultati accademici da sbandierare dopo cinque o sei semestri. Ma naturalmente non aveva obiettato, si era limitata a una risata nervosa e Corinne aveva continuato a chiacchierare. Vita da trapunta di stracci: a quello ammontava la sua esistenza, a giudizio della madre? Vita da trapunta di stracci. Forse era una metafora adatta. Però Marianne aveva fatto uno sforzo per migliorare il proprio aspetto, in occasione del funerale di nonna Hausmann. Corinne lo avrebbe notato e apprezzato, giusto? Si era fatta lo shampoo fino ad avere capelli lucidissimi, aveva fregato le mani e tolto la sporcizia da sotto le unghie spezzate, aveva fatto il bagno nella grande vasca con i supporti a forma di zampa al-
l'ultimo piano della cooperativa (non molto usata, perché per togliere le macchie residue dopo un bagno bisognava passare la paglietta, e tutti avevano tempo solo per una doccia), fino a essere pulita, pulita, pulita. Per la prima volta da molto tempo. (Anche se adesso, nervosa come una gatta, sudava abbondantemente; non doveva essere un bello spettacolo.) In testa, non proprio diritto, portava un cappello nero di paglia a tesa larga proveniente da un negozio di articoli usati di Kilburn, il Second-Time-'Round Shop; dallo stesso negozio era uscito il vestito a maniche lunghe, che le arrivava alle caviglie, di un tessuto morbido, crespo: un blu notte che poteva passare per il nero del lutto. Purtroppo era troppo largo per lei e aveva una scollatura ampia che lasciava vedere le clavicole sporgenti; così, in frettolosa ispirazione, Marianne aveva avvolto attorno alla gola una fascia di velluto nero con un pezzo di vetro color rubino al centro: un "tocco", sosteneva Amethyst, indispensabile al vestito. Ai piedi aveva un paio di scarpette nere senza tacco, e gambaletti di rete nera fino al ginocchio. Quel mattino, vedendo Marianne correre giù Hewie, che la stava aspettando, era rimasto esterrefatto. Le sue labbra piegate all'ingiù erano crollate del tutto, come se non avesse mai posato gli occhi su di lei. Marianne aveva mormorato, per scusarsi: «Sono... in lutto, Hewie. Non ci sono problemi, spero». E Hewie l'aveva fissata, muovendo le labbra, ma senza emettere parola. Come se la domanda l'avesse irritato, addirittura offeso. Era uscito ad avviare il motore dell'automobile. Dopo una quarantina di minuti, le persone presenti al funerale lasciarono la chiesa e si avviarono verso il cimitero. Marianne le spiò senza pudore, mordicchiandosi l'unghia del pollice, sbirciando da dietro la statua dell'angelo. Ogni tanto, un soffio di vento minacciava di farle volare via il cappello, così dovette premerlo sulla testa, schiacciandolo in alto. Hewie doveva essere accucciato alle sue spalle, a scrutare a sua volta in direzione del cimitero, ma Marianne si era scordata di lui. C'era il sacerdote che non sembrava il reverendo Schreiber, che era stato pastore della chiesa luterana di Ransomville per decenni, e c'erano quelli che portavano la bara, quattro uomini, che dovevano essere parenti degli Hausmann, anche se Marianne riconobbe solo il più giovane, un cugino di sua madre ormai calvo e con le spalle curve. La bara fu uno choc (è possibile che le bare siano sempre uno choc per l'occhio che non se le aspetta?): un nero lucidissimo, come il carro funebre. Tanta ostentazione, tanto lusso non erano nello stile di nonna Hausmann. E c'erano alcune parenti anziane che Marianne riconobbe, in-
stabili sul terreno soffice, e in mezzo a loro guizzava una donna alta, iperattiva, che riusciva ad assistere tutte e tre contemporaneamente, una donna in un lucido impermeabile di plastica nero e un cappello nero a tesa larga (di paglia?) legato sotto il mento da un nastro nero. Marianne la fissò: Corinne! Ma certo, Corinne, e alle sue spalle un ragazzo magro in abito blu scuro, dall'aria nervosa, con i capelli di un fulvo chiaro mossi dal vento. Judd. Marianne premette le nocche sulla bocca, emise un gemito lieve, inconsapevole, come il miagolio di un micino. Mamma! Mamma! Ma dov'era papà? Non c'era papà? Michael Sr. non era presente al funerale della suocera? Che cosa significava? Eppure era logico che suo padre non ci fosse. Marianne lo aveva dedotto vedendo davanti alla chiesa la station wagon della madre; se papà fosse andato, avrebbe preso la propria auto, non quella di mamma. Un'automobile acquistata da poco che Patrick le aveva descritto al telefono nei dettagli: una di quelle spudorate succhiabenzina troppo costose, una Lincoln Continental, Gesù. Non si sarebbe pensato che un uomo sull'orlo del fallimento, in quell'epoca di scarsità di benzina, avesse il buonsenso di non comperare un relitto simile? Patrick era andato avanti e avanti come se non soltanto avesse visto l'infame veicolo ma lo avesse anche provato, sebbene Marianne non pensava l'avesse fatto. Comunque, se Michael Sr. fosse stato presente, lì ci sarebbe stata quell'auto, non la vecchia scassata Buick di mamma. Marianne preferì non chiedersi perché suo padre non fosse al funerale. Una folata di vento le colpì il cappello; lei lo spinse giù con forza e scacciò ogni altro pensiero sull'argomento. Fissando Corinne, che era giunta alla fossa a testa bassa mentre il pastore proseguiva con le preghiere e Judd, il cuore di Marianne si soffuse d'amore per loro. Sua madre e suo fratello. Corri da loro! Corri, subito! Prima che sia troppo tardi! Oh, dov'era papà, dov'erano Patrick e Mike? Che strazio per Corinne, che imbarazzo, soltanto il figlio minore al suo fianco al funerale della madre; e alla presenza inquisitoria degli Hausmann di Ransomville, compreso il truce bulldog che era la cugina Ethel. Vai, corri! Mamma ti abbraccerà, mamma lo sai ti ama sul serio, quello è un amore che non si esaurisce mai. Lo sai, no, Germoglio? Ma ebbe abbastanza buonsenso da non farlo. Resistette alla tentazione, accoccolata dietro il muro di pietra in rovina, senza guardare la fossa, premendosi le nocche sulle labbra; e piangendo apertamente. Raggomitolata su se stessa come una ciambellina deforme. Il cappello cadde a terra e sa-
rebbe volato via se Hewie non lo avesse afferrato mentre rotolava nell'erba. Hewie doveva essere rimasto accucciato a poca distanza, ad aspettare. Senza offrire prevedibili parole di conforto, comprensione, commiserazione; lasciando che Marianne piangesse il dolore del cuore per tutto il tempo necessario. Quando alla fine lei osò sollevare di nuovo lo sguardo oltre il muro, vide che il cimitero era deserto. Persino Corinne, che probabilmente aveva indugiato sulla tomba, versando lacrime amare, se n'era andata. Da qualche parte, invisibile, un tordo sassello cantò: quattro note liquide, di gola. Resistere alla tentazione. Marianne non sapeva di essere forte a sufficienza, e invece sì, lo era. E nel pomeriggio fu ancora forte a Mt. Ephraim, dove chiese a Hewie di guidare lentamente in South Main Street. Troppo sconvolta per spiegare come mai si accoccolasse e si straziasse e nascondesse e celasse come una fuggiasca, prima al cimitero in campagna e ora in città. La sua voce era rauca e spezzata dal pianto, gli occhi gonfi; non avrebbe mai osato guardare la sua immagine riflessa in una superficie riflettente. Mentre un tempo (da cheerleader, da Germoglio Mulvaney) era stata la più stupida vanitosa vacua delle persone, adesso riusciva a stento a costringersi a guardare la propria immagine, non solo in uno specchio ma anche nell'impietoso occhio della mente. Una parte del centro era zona pedonale. Che bella idea! Intravide il vecchio Woolworth che pareva immutato, il Rexall Drugs all'angolo, e all'incrocio con la Fifth Street il cinematografo che proiettava Il cacciatore, un film non nuovo. Ebbe la vaga percezione di cose che non erano esattamente le stesse, una strada a senso unico che prima non esisteva, poi all'improvviso, bruscamente, apparve la Mulvaney Tetti e coperture! Il familiare edificio tozzo identico a come lo aveva visto l'ultima volta, con un gran bisogno di essere ridipinto, ma oh, che cos'era? Un orribile cartello giallo e nero con la scritta VENDESI o AFFITTASI. Marianne non era pronta a vederlo, anche se Patrick l'aveva avvertita. O forse Judd? Notando l'insegna MULVANEY TETTI E COPERTURE, Hewie rallentò a meno di dieci chilometri l'ora. Imperturbabile quando altri autisti spazientiti fecero strepitare i clacson scoccando occhiate ironiche alla grande vecchia Dodge. Marianne era scivolata all'ingiù sul sedile, si era calata il
cappello sulla fronte, e la falda le nascondeva quasi tutto il viso; scrutava timorosa dal finestrino, mostrando un solo occhio. Con il cuore che batteva alla follia. Goccioline di sudore appiccicoso in volto. E se? E se? Se papà uscisse e ti vedesse? L'avrebbe abbracciata, no? Avrebbe attraversato la strada di corsa e spalancato la portiera per abbracciarla forte, in lacrime, no? Marianne sussurrò a Hewie di fermare, se era possibile, parcheggiare a lato del marciapiede. Forse lo disse pianissimo, ma lui la sentì ugualmente. In una foschia di luce abbagliante, scintillante, lei fissò la facciata della Mulvaney Tetti e coperture. Aveva capito subito che gli uffici non erano aperti, ma nemmeno del tutto deserti. La porta d'ingresso era chiusa a chiave, aveva l'aria inconfondibile della porta chiusa a chiave, e non si vedeva nessuno. Dov'era Leah, la centralinista di suo padre? Leah che era stata tanto dolce con Marianne, aveva detto a Michael Mulvaney quanto le sarebbe piaciuto avere una bambina così bella. Marianne vide che anche nel parcheggio non c'era un solo veicolo. Nemmeno un camion? MULVANEY TETTI E COPERTURE a lettere bianche, curve. «Penso proprio che non ci sia nessuno. Penso...» Si tirò su cauta, aggiustò il cappello. Scrutò l'edificio, batté le palpebre. Correrebbe fuori, mi stringerebbe, mi vuole bene. Se solo potesse vedermi! Ma non c'era nessuno alla Mulvaney Tetti e coperture, non un'anima. Più avanti, al magazzino della ditta di spedizioni, c'era attività. Stavano caricando un camion. E veicoli passavano in strada in un flusso ininterrotto, singhiozzante. Se solo potesse vedermi. Dopo qualche minuto, sussurrò a Hewie: «Direi che... adesso puoi ripartire». Svoltarono in una via che all'inizio lei non riconobbe, gli occhi colmi di lacrime, però ecco lì il vecchio Blue Moon Café con un'insegna nuova, una luminosa luna blu al neon. La Third Street adesso era a senso unico, e la imboccarono nel senso sbagliato, e si trovarono davanti una donna che guidava una bella automobile. La madre di Suzi Quiggley? Marianne distolse subito gli occhi. (Aveva scritto a Suzi, e Suzi le aveva risposto. Era iscritta alla Wells. Si erano tenute in contatto per il primo anno, poi Suzi aveva smesso di rispondere alle lettere di Marianne e con il tempo anche Marianne non aveva più scritto. Ma in cuor suo sarebbe sempre stata amica di Suzi. E di Merissa, e di Bonnie. E di Trisha, soprattutto.) Sulla Fifth Street presero a scendere, superarono la bella chiesa episcopale della Trinità dove lei era stata una volta con un'amica, per la funzione domenicale,
che appariva immutata; e le pompe funebri Reynolds; e una grande casa in calcare rosa, che lei da piccola credeva un palazzo, occupata ora da un'agenzia di assicurazioni. E poi giù per la collina fino al liceo, erano obbligati a passarci davanti, lei già raggomitolata a denti stretti, e Hewie rallentò, intuendo il desiderio inespresso di Marianne come aveva saputo fare nei giorni felici l'adorata, perduta, Molly-O. Hewie sarebbe stato comunque costretto a frenare perché un gruppo di teenager stava attraversando a rotta di collo, ragazzi sorridenti che Marianne non conosceva. Nemmeno uno! Dovevano essere i fratelli e le sorelle minori dei suoi compagni di scuola, ma non li riconobbe. Le ragazze così giovani, e così carine (occhiate languide a Hewie): jeans aderenti, maglioni larghi, rossetto vivace, capelli con la permanente. I ragazzi erano così giovani; quello era ancor più sconvolgente. Ne vide uno che conosceva (no, somigliava solo al goffo, rozzo Ike Rodman) strascicare i piedi sul marciapiede, con un berretto da baseball all'incontrano in testa. Una jeep carica di ragazzi superò Hewie, strepitando con il clacson, ridendo; al volante, un giovanotto bruno dal profilo affilato che somigliava a Zachary Lundt. Le tempie di Marianne si misero a pulsare. Che stupidaggine, un errore del sistema ottico-neurologico. Come, appena arrivata all'Università di Kilburn, aveva continuato a vedere facce dolorosamente familiari finché le facce nuove avevano scacciato le vecchie, a cui comunque somigliavano poco. Probabilmente esisteva un termine per quegli abbagli visivi. Bisognava chiedere a Patrick. Ma aveva perso i contatti anche con Patrick. Lui le aveva parlato in termini vaghi della partenza per una "spedizione sul campo" con certi scienziati, o forse solo altri ragazzi che non avevano finito biologia? A Patrick potevi fare una domanda a bruciapelo e avere risposta, ma alla fine non sapevi molto più di quanto sapessi all'inizio. Mentre pensava al fratello, Marianne guardò un ragazzo alto, biondo, con gli occhiali, che trotterellava su un praticello stentato. Il passo del lupo solitario che scappa via: sarebbe quasi potuto essere Patrick Mulvaney. Disse, lenta: «Non è... strano, Hewie, che certe persone te ne ricordino altre? Volti che te ne fanno venire in mente altri? Come se nel mondo intero, più o meno, non esistessero facce a sufficienza...». Rammentò che in effetti Judd studiava al liceo di Mt. Ephraim, era al secondo anno; sarebbe uscito di scuola a quell'ora, solo che era a Ransomville con la madre. Soltanto Corinne e il suo figlio minore si sono fatti vivi, dei grandi Mulvaney. C'è dietro una storia triste. Disse: «Mio fratello Judd, il mio fratello minore, va a scuola qui. Forse lo hai conosciuto, Hewie? L'anno scorso, verso
Natale? È venuto a trovarmi con mia madre, abbiamo pranzato tutti assieme. Hanno parlato con Abelove...». La sua voce si spense. Se Hewie rispose, Marianne non riuscì a decifrare le parole. Poi, a distanza ravvicinata sul marciapiede, dal lato di Marianne, apparve il signor Farolino, che aveva insegnato biologia a tutti i figli dei Mulvaney, a turno; uno degli insegnanti più popolari del liceo di Mt. Ephraim, ammirato e temuto per il suo sarcasmo. Era a piedi; abitava tanto vicino alla scuola da non dover usare l'automobile. Portava una ventiquattrore ammaccata come un vecchio pallone da football. Com'era diventato calvo, anche se aveva solo l'età di Michael Mulvaney! Quanto era scavato il suo petto, sotto la camicia di nylon bianco a maniche corte, gonfiate dal vento! L'espressione era congelata in un sorriso fiero, lo sguardo puntato all'orizzonte, su qualcosa di invisibile; chiaramente, non voleva essere impicciato dagli studenti in uscita. Ma Marianne era affondata all'istante sul sedile, nel terrore di essere vista. E se il signor Farolino ti vedesse? Che importanza avrebbe? Non ti sei lasciata tutto alle spalle, la stupidità e la vanità assieme al resto? Povera Germoglio Mulvaney! La ragazza che dava per scontato che tutti la adorassero, sì dovevano per forza invidiarla, Germoglio Mulvaney e la sua ristretta cerchia di amiche, Germoglio Mulvaney di High Point Farm, i Mulvaney che a Mt. Ephraim tutti conoscevano e ammiravano, che tristezza non entrare nella loro cerchia di amici, che tristezza non essere loro, che compassione le ragazze insignificanti del liceo di Mt. Ephraim dove essere belle e popolari era di importanza tanto cruciale, che compassione le ragazze con la pelle foruncolosa, senza un boyfriend, senza un papà e una mamma dalla personalità extra, senza bei fratelli, ragazze che non vedevano mai pubblicata la propria foto sul giornale della scuola o sul Mt. Ephraim Patriot-Ledger. Ragazze come la povera Della Rae Duncan: la carnagione imperfetta, gli occhi spiritati. Ragazze di quel tipo. Che tristezza! Marianne si chiese che fine avesse fatto Della Rae. La famiglia viveva nel villaggio di roulotte sulla Haggartsville Road, suo fratello Dwight era stato ucciso in Vietnam. Della Rae aveva lasciato il liceo e poi? Scomparsa? Sposata? L'ultima volta che aveva chiesto di lei a Corinne, Corinne aveva mormorato di non saperne nulla, di non avere la più pallida idea. Marianne disse: «Oh, Hewie, è come se fossi stata lontana per cento anni. Come se fossi tornata e...». Hewie si era fermato a fianco del marciapiede, era proteso a scrutare accigliato la facciata del liceo. In pacata incredulità domandò: «Tu sei andata
a scuola qui, Marianne?». Era la prima domanda diretta di Hewie da ore, forse da tutto il giorno, e il tono era inconfondibile: Questo posto non è abbastanza buono per te. A High Point Farm, allora. Con la stessa bizzarra e fatale compulsione che porta l'acqua a essere risucchiata in uno scarico, come se ogni molecola e ogni atomo bramassero l'estinzione, Marianne fu invasa da un desiderio selvaggio: rivedere High Point Farm. Prima di partire, si era ordinata: No, non devi, sapendo già che avrebbe ceduto una volta arrivata con Hewie a Mt. Ephraim, a undici chilometri appena dalla fattoria. Soltanto per salutare Molly-O! Prometto che non ci sarà altro. Calcolando astutamente che Corinne e Judd dovevano essere ancora a Ransomville, e Michael Sr. non sarebbe stato a casa a quell'ora, per cui nessuno avrebbe saputo. Trasse un profondo respiro. «Hewie, ti spiacerebbe portarmi in campagna? Ti dirò io dove andare.» Felice di lasciare la triste costrizione delle vie di Mt. Ephraim come avesse provato in prima persona il dolore del suo passeggero, Hewie avviò immediatamente il motore. E così, e così accadde come in sogno, però un sogno non sgorgato dalla volontà di Marianne, che lasciassero Mt. Ephraim; una svolta, un'altra, il deposito ferroviario della Chautauqua & Buffalo, il serbatoio dell'acqua con le scritte fosforescenti, poi la Route 119, la Haggartsville Road, verso High Point Farm. Soltanto per pochi minuti. Nessuno lo saprà. Oltre il Country Club Lane davanti a cui le palpebre di Marianne batterono in uno spasmo nervoso e la Hillside Estates dove alcune sue amiche vivevano adesso nascoste da un armonioso schermo di pioppi cresciuti tanto in fretta, la Legnami Spohr che si era espansa quasi al doppio delle dimensioni che Marianne ricordava però lei non guardò, Spohr era uno degli uomini che avevano tradito suo padre ma lei non ci pensava, non al momento. Non dovresti conoscere certi segreti di famiglia, ma ovviamente li conosci. Si trovò a fissare in trance i binari ferroviari che correvano paralleli alla Route 119, perché i binari ferroviari sono terreno neutrale, non hanno identità e storia. Al punto in cui High Point Road si staccava dalla strada principale, Marianne mormorò: «Qui!». Le mancò il respiro e, incapace di parlare, toccò il braccio di Hewie, il braccio muscoloso, quasi fosse la prima volta che
toccava lui o uno degli uomini che conosceva al momento, dopo i mesi di rapporto formale alla cooperativa e dopo quelle ore particolarmente intense in automobile, e con ogni probabilità si trattò di un gesto automatico, solo per indicargli la strada. La Dodge imboccò High Point Road senza perdere velocità. Come fosse la cosa più naturale del mondo: Marianne che portava in visita a casa un amico del college. Se non che: una fragrante giornata di primavera spazzata dal vento. Il sole rifulgeva accecante da mille punti del cielo, come in uno specchio infranto. Quando presero a salire tra le colline, la vecchia auto di Hewie cominciò a tremare, sussultare nel vento. Perché qui non sei la benvenuta: Dio ti avverte. Hewie rallentò subito, perché era un autista attento, coscienzioso; non un ragazzo ma un giovane uomo di ventotto o ventinove anni; il pericolo lo mise in guardia, gli colorò di rosso il viso. Però passò spesso lo sguardo da un lato all'altro, scrutando il paesaggio: più severe della campagna attorno a Ransomville, le colline ai piedi delle montagne Chautauqua erano più alte, irregolari e discontinue. Marianne vide la valle con gli occhi di Hewie e provò un impaurito rapimento: i campi di maggio piantati a frumento, granturco, soia che digradavano dalla strada; affioramenti di granito sul lato opposto, collinoso, della strada, antiche ferite mai guarite. Precipizi improvvisi, panorami aperti dietro un guardrail assurdamente basso. Stavano attraversando la costa di una collina creata da un ghiacciaio. Hewie puntò l'indice: «Quello cos'è?». In lontananza, a una cinquantina di chilometri, il monte Cataract splendeva sotto il sole come una mano levata in un saluto. O un avvertimento. L'auto ondeggiò nel vento. Hewie passò in seconda. Adesso che aveva spezzato il silenzio tra loro, sembrava ugualmente riluttante a parlare, come se nessuna parola potesse eguagliare la santità di quell'intimo silenzio. La sua voce era densa, timida. «Ma dove siamo? Continuiamo a salire.» «Si chiama High Point Road.» Marianne rise nervosa, tirandosi i capelli sotto la tesa inclinata del cappello di paglia. «Per quanto sale? Non andremo là, per caso?» disse Hewie, indicando il fianco eroso di una collina che si alzava qualche chilometro più avanti. Dove chiaramente nessuno viveva, e non c'erano strade. «Là? Oh, no. Dobbiamo solo seguire la strada ancora per un po'.» «Tu vivevi qui?» Vivevi. Quanto era sensibile Hewie, nonostante la goffaggine. Quanto sottile. Ma Marianne, improvvisamente impacciata, come una ragazza
sgraziata, con ginocchia e gomiti sproporzionati, riuscì soltanto a ridere di nuovo. Alle sue orecchie, fu il suono di vetri che si rompono. «Be', sì. Così si potrebbe dire.» Le nocche serrate contro la bocca, per non piangere. Tornare a casa. A High Point Farm. Era possibile? Lo sai: impossibile. Oh, ma solo per un saluto! A Molly-O, e un abbraccio. Carezzarle il naso fresco e umido. Solo per pochi minuti, prometto. Chi lo saprà? Ricordò allora quante volte, nelle notti senza sogni e senza sonno, avesse fatto quel viaggio. Sulla High Point Road fino a High Point Farm. Su un veicolo fantasma, non un'auto identificabile dei Mulvaney. Nemmeno l'autista sapeva identificare, e nemmeno se stessa mentre fissava rapita la campagna in corsa, il paesaggio dell'infanzia inciso nella sua anima come essenza stessa dell'anima, indistinguibile dall'anima. E spesso in quei sogni a occhi aperti teneva Focaccina tra le braccia. Creatura recalcitrante, ansiosamente all'erta. Focaccina, che lei adorava quando era stato un grosso gatto morbido, e Focaccina che negli ultimi preoccupanti mesi aveva cominciato a perdere peso, era diventato sorprendentemente magro, coda lunga, spina dorsale sporgente. Era d'importanza cruciale riportare Focaccina sano e salvo a High Point Farm, ma ovviamente il pericolo, come può accadere anche con il più docile e affettuoso dei gatti, era che si lasciasse prendere dal panico improvviso, schizzasse via dalle sue braccia e dal veicolo, finisse sull'autostrada sulla quale correvano o addirittura precipitasse dal guardrail... Ma Marianne si svegliava sempre, madida di sudore, prima che accadesse. In lacrime, rabbiosa con se stessa per l'incapacità di portare il sogno a una conclusione felice. Oh, quante volte! Bruscamente, e come sempre duramente, High Point Road passò da un asfalto corroso a ghiaia e terriccio, e Hewie sì mise a guidare con maggiore concentrazione, diligenza. Alla Green Isle Co-op era uno dei lavoratori più pazienti, affidabili; uno dei membri "anziani"; se fin dal primo mattino aveva continuato a lanciare a Marianne, di tanto in tanto, timide occhiate di sbieco, in quel momento smise per mantenere il controllo della Dodge scossa dal vento: portare a destinazione la sua passeggera era il compito che gli era stato affidato, un sacro impegno e un privilegio. Non ci farai uscire di strada, mio Dio? Non Hewie, ti prego! Con le nocche ancora premute sulla bocca, anche se non avrebbe saputo dire se fosse per impedirsi di piangere o di ridere. Ridicolo immaginare anche solo per una frazione di secondo che Dio potesse essere così meschino e vendicativo; il Dio di tutti i tempi, creatore di ogni vita sulla terra e dell'intero grande u-
niverso, turbato come una vecchia zitella all'idea che Marianne Mulvaney disobbedisse ai più seri desideri dei genitori proprio il giorno del funerale della nonna. Oltre la fattoria degli Pfenning, oltre la scalcinata scuola riconvertita in abitazione dove viveva una famiglia con una frotta di figli, ancora gli Zimmerman? E, avvicinandosi a High Point Farm, Marianne cominciò a sentirsi mancare. Il suo scheletro si tese sotto la pelle trasparente, sul punto di esplodere. No, non oserai. Come osi! Non sei la benvenuta qui. Intrusa, ladra. Prima di poter capire cosa fosse, il suo occhio captò il cartello giallo e nero dell'agenzia immobiliare FATTORIA IN VENDITA che spiccava a lato del vialetto di ghiaia. Sì però lo sapevi, te lo avevano detto, eri stata avvertita. Patrick ti aveva avvertita e Judd te lo aveva detto non una ma diverse volte. E mamma con quel suo stile confuso, svolazzante te ne aveva accennato, Sai la fattoria è in vendita, papà tiene duro per incassare una cifra decente, come fosse un argomento già discusso, già acquisito. Un altro fatto neutro nella storia della famiglia Mulvaney. In una trance di panico venato di stupore, Marianne strinse le dita in gelidi pugni e scrutò, scrutò. Hewie aveva frenato sino a fermare l'auto (dopo avere visto MULVANEY sulla cassetta delle lettere?) e guardava a sua volta senza parole. C'era nell'aria un'eccitazione palpabile, portata dal vento, incendiata dal sole, la fragranza inebriante della primavera. Lillà selvatici appena oltre il massimo rigoglio e nel basso fossato a lato della strada una profusione di gigli tigrati ancora giovani, e verdi; a luglio il ciglio della strada ne sarebbe stato colmo, selvagge chiazze arancio acceso. C'era l'insegna scritta con tanta fierezza da Corinne, e ora leggermente sbiadita, HIGH POINT FARM 1849, e l'ancora più sbiadita ANTICHITÀ HIGH POINT AFFARI & MERAVIGLIE! La slitta antica con lo spaventapasseri curvo sembrava scivolata in giù di qualche metro. C'era il torrente, quasi nascosto dietro la massa di vegetazione selvatica, e c'era il piccolo ponte di assi. In cima alla collina, la casa che era in parte sassi e in parte lavanda, fluttuante come l'illustrazione a pastello di un libro per bambini. Hewie, l'uomo sempre pacato, fischiò tra i denti, si passò nei capelli la mano dalle grandi nocche. «Lì? È quella la casa della tua famiglia?» Marianne dapprima non riuscì a parlare. Aveva labbra gelide, intorpidite; temeva di svenire. La risposta fu quasi impercettibile. «Credo... di no. Cioè, la casa è quella, ma io non posso entrare. Ho commesso un errore.» Hewie si girò a fissarla. «Cosa? Perché?»
«Non... Non posso.» «Non puoi?» Hewie contorse il viso in una smorfia, non d'impazienza, nemmeno d'incredulità, o di dubbio; era più una sorta di perplessa partecipazione, come avesse immaginato da sempre quella risposta. «Sarebbe a dire che non puoi entrare? Non vuoi che arriviamo là ed entriamo?» «No! No, ti prego.» Cadde il silenzio. Marianne udì Hewie respirare, o era un sospiro? Lui aggrottò la fronte, si accigliò, non con Marianne che aveva smesso di guardare, ma forse con se stesso. Sarebbe stato logico aspettarsi che quel giovane uomo si mettesse a discutere con la passeggera angosciata, almeno per esprimere una certa disapprovazione per il misterioso comportamento autolesionista; forse era addirittura possibile che Hewie stesse contemplando nel cervello quella possibilità, saggiando parole e frasi, desiderando l'eloquenza di, diciamo, Abelove in circostanze simili, le certezze morali di Abelove, ma senza riuscire a trovarle; era un giovane uomo in cui riservatezza, timidezza e tetraggine si intrecciavano in modo inestricabile, non era abituato a discorsi di quel tipo. Intanto, arrossendo, Marianne balbettò: «Mi sono appena ricordata. Il mio cavallo che volevo rivedere, salutare, non è più qui. L'hanno venduto. Non c'è. Non c'è da anni. Ho commesso un errore. Hewie? Mi spiace tanto». Un raggio di sole primaverile, acido e tagliente, dietro la testa di Hewie. Si rifletteva anche sul cofano color prugna dell'automobile con una luminosità che infastidiva l'occhio. Cosa non stava vedendo Marianne in maniera tanto risoluta? L'orribile indicibile cartello giallo su nero FATTORIA IN VENDITA FATTORIA IN VENDITA FATTORIA IN VENDITA. Hewie inspirò per parlare, aprì la bocca; non disse niente. Si grattò vigorosamente la testa, guardò Marianne con quella perplessa partecipazione, persino con angoscia; pensando, pensando a pieno regime, emanando calore come un motore che vibra. E per la prima volta, Marianne avvertì il suo essere fisico, la sua presenza. Maschile. Un uomo. Sono uscita sola con un uomo. Sola per tutte queste ore con Hewie sulla sua automobile. La sua automobile! La rivelazione crebbe fino a diventare un urlo nella sua testa. La udì nella voce stupefatta e accusatrice di Corinne. Ma non hai imparato? Tu, Marianne Mulvaney! Come puoi essere stata così incauta, così sciocca? Proprio tu! Vero: Marianne quasi non conosceva quel giovane uomo a cui aveva sfrontatamente chiesto di accompagnarla in una serie di inutili cacce nella valle di Chautauqua. Hewie Miner, il falegname, uno
degli universitari di più lunga data della Green Isle Co-op, ancora ben lontano dalla laurea; e poi, in cosa si sarebbe laureato? Aveva seguito corsi di agricoltura, direzione d'hotel, educazione fisica, che non godeva del massimo rispetto, amministrazione aziendale, sociologia, educazione artistica. I suoi voti erano da fondo del barile e aveva lasciato a metà un'enormità di corsi. Appena trasferita alla cooperativa, Marianne aveva sentito l'inquietante voce che Hewie Miner fosse stato sospeso dall'università per un semestre, o un anno, per aver copiato; solo più tardi aveva scoperto che Hewie non aveva alcuna colpa, se non in senso strettamente tecnico: aveva prestato il suo taccuino di laboratorio di scienze della terra a un amico tanto incosciente da copiarlo parola per parola, errori compresi, e i due erano stati scoperti e puniti. Tipico di Hewie! commentarono tutti, scuotendo la testa. Marianne era una delle cinque o sei ragazze della cooperativa che spesso lasciavano bigliettini e piccoli regali anonimi a chi compiva gli anni, soprattutto alle persone di cui sarebbe stato facile scordare il compleanno. Bastava dare un'occhiata al registro dei membri nell'ufficio di Abelove, e Marianne si ricordava sempre del compleanno di tutti, anche di chi non conosceva bene come Hewie Miner, a cui aveva lasciato nella cassetta postale, sotto il velo dell'anonimato, un bigliettino preparato con le sue mani che diceva BUON COMPLEANNO A UN AMICO MOLTO SPECIALE e una cravatta all'uncinetto (verde smeraldo dato che il compleanno era vicino al giorno di san Patrizio, molto carina, però non l'aveva mai vista indossata da Hewie), e in qualche modo lui aveva scoperto la fonte dei regali e si era sentito profondamente commosso, imbarazzato, spinto al mutismo in presenza di Marianne, e Marianne aveva intuito solo dopo molto tempo che forse Hewie Miner, che le ragazze scrutavano in muto desiderio ma con la certezza che il desiderio non fosse ricambiato, poteva avere frainteso il gesto. Lo aveva interpretato come qualcosa di più personale di ciò che era? Ma quel pensiero, assieme all'allarmante consapevolezza della sua presenza fisica, della sua virilità, del fatto di trovarsi sola con lui in automobile in quel posto remoto, corse veloce nel suo cervello e non mise radici. C'erano troppe altre cose a cui pensare. Troppe altre cose che la assalivano. Con risate tronche da ragazzina, tirandosi i capelli, cercò di spiegarsi. «Il mio cavallo era una femmina e si chiamava Molly-O. La amavo tanto, era così bella, gli occhi, era di un rosso castano, un manto che adoravo spazzolare, una buffa chiazza bianca sul naso e quattro macchie bianche come calzini e un suo modo di parlarmi, di farmi domande. Tu lo sai come sono
i cavalli? Però, be', non c'è più. Non so dove sia finita. Mamma non ha voluto dirmelo, aveva paura che andassi a cercarla. Non sono quella che si dice una persona degna di fiducia.» Adesso che la verità era stata svelata, adesso che Hewie sapeva, Marianne si mise a parlare in fretta, in una cascata di parole. «Non sono quella che si dice una persona stabile, o affidabile. Niente di paragonabile a te. Commetto sbagli, errori di giudizio. Sono immatura, e sbadata. Deludo gli altri. Specialmente la mia famiglia. Mio padre e mia madre. Ho fatto loro del male e non posso fare molto per sistemare le cose, non ora. Però è inutile che ti racconti tutto e ti coinvolga, scusa! Vogliamo tornare indietro? A Kilburn? Per te va bene, Hewie? Possiamo fermarci da qualche parte a mangiare quello che ho preparato, ma non su High Point Road, dovremo fermarci su un'altra strada, a te sta bene? Hewie?» Implorante e contrita e piuttosto disgustata di sé per quel modo di parlare con Hewie Miner, un giovane uomo di grande integrità. Io, io, io, come se qualcuno potesse nutrire il minimo interesse per Marianne Mulvaney! Hewie, con un'occhiata di traverso, un lieve sorriso a labbra all'ingiù, cambiando marcia, preparandosi a svoltare sul sentiero di ghiaia ed erbacce e riprendere il viaggio verso ogni possibile direzione, rispose calmo: «Ma certo, Marianne. Non ti ho detto che ti avrei portata ovunque?». Si fermarono in un negozio a sud di Mt. Ephraim a comperare tre lattine di bibite frizzanti (una per Marianne, due per Hewie), e su una strada non asfaltata mangiarono il pranzo che Marianne aveva preparato alle prime ore del mattino. Panini di insalata di tonno pieni fino a scoppiare, con un pane integrale gustosissimo; carote, sottaceti, due arance della Florida, i biscotti speciali di Marianne. Lei riuscì a mangiare qualcosa. Hewie, naturalmente, era famelico: divorò due panini e mezzo, e tutti i biscotti. Nell'aria luminosissima, sul ciglio di un campo pieno di pannocchie di granturco dalle foglie verdi, con il monte Cataract in lontananza, tutto era delizioso. Marianne si era tolta il cappello nero a lutto e aveva buttato le scarpette rigide come cartone, affondando le dita dei piedi nell'erba. Senza pensare Come hai potuto! Se ti avessero colta in flagrante! Un'intrusa, una ladra! Senza ricordare il chiodo che le si era piantato nel cuore alla vista dell'atroce cartello FATTORIA IN VENDITA. Sorrideva, ascoltava attenta Hewie Miner che era diventato loquace come accade ai ragazzi timidi quando si lasciano andare. Stava dicendo: «I miei hanno vissuto in così tanti posti in tutto il paese che non ho mai potuto avere nostalgia di casa. Mio padre
era un cuoco dell'esercito. Con il tempo è arrivato a odiare il cibo, preferiva il whisky. Lo trasferivano di continuo su e giù per la costa, o da un lato all'altro del continente, dalla Florida al New Jersey, dalla Carolina del Nord al Texas, dallo stato di Washington al Michigan, il tempo di girare la testa ed eravamo di nuovo in Florida, stessa base, però personale completamente diverso. Anche la mamma partiva, da sola però, quando ne aveva abbastanza. Prendeva con sé mio fratello minore e me, quando eravamo piccoli, e partivamo in autobus. Il guaio era che non c'era un solo posto dove potessimo andare o, se c'era, come da una sua cugina a cui mamma era stata vicina da ragazza, o così credeva, be', quando finalmente arrivavamo... una volta ci spingemmo fino a Boulder, in Colorado...» un discorso talmente lungo e appassionato che alla fine Hewie ci si perse. Scrutava Marianne con i vividi occhi scuri in un modo che la metteva a disagio, perché era tanto familiare: il modo in cui a volte Corinne fissava Michael Sr. quando lui non guardava, o il modo in cui il povero Seta scrutava con occhi colmi di desiderio canino Mikey Jr., che lo ignorava completamente. «Quello che voglio dire, Marianne, è che esistono diversi tipi di nostalgia di casa, capisci? Per tipi diversi di famiglie.» A quella frase, rendendosi conto che lui voleva consolarla, anche se non sapeva e non presumeva di sapere perché lei avesse bisogno di consolazione, e non aveva intenzione di chiedere, Marianne esplose in una crisi di riso, e anche Hewie si mise a ridere. «Cosa c'è di divertente, Marianne? Però è divertente, eh?» Ma quella risata lo lasciò perplesso: a nocche poggiate sulla bocca, finché all'improvviso lacrime incandescenti le scesero sulle guance. A quel punto, lui l'avrebbe consolata, le avrebbe preso le mani o l'avrebbe abbracciata; ma lei girò di scatto la testa, gli comunicò che voleva essere lasciata in pace. A Kilburn, a conclusione di quel lungo, lungo giorno (quasi tredici ore assieme, ininterrotte!), Hewie disse a Marianne che sperava di rivederla più spesso, soprattutto quando lei voleva essere accompagnata da qualche parte, qualunque parte. Le disse, balbettando un poco, che era stato il giorno più felice della sua vita. Le disse che non voleva spaventarla, o imbarazzarla, o nient'altro. Si grattò vigorosamente la nuca, dove i capelli crescevano scuri e ispidi, come pelo di cane. Il viso soffuso di rossore, riuscì a dire con notevole calma: «Al diavolo, lo sai che ti amo, Marianne. Non importa che cosa fai, o che cosa hai fatto. O credi di avere fatto. O cosa
possa chiedermi di fare per te, sempre». Marianne udì quelle parole, o credette di udirle. Fissando il terreno davanti ai piedi di Hewie. Oh, come, perché? dopo che gli aveva confessato di essere inutile, di non valere niente? Aveva nelle orecchie un ruggito malato, come il vento a High Point Farm. Sul solido terreno del vialetto d'accesso alla cooperativa sentì tremare il suolo. Cercò nel suo cervello sconvolto una risposta decente, e fu come frugare in un cassetto di cucina pieno di cianfrusaglie, ma non trovò nulla di meglio di un ansante: «Oh, Hewie, grazie». La proposta Quella notte dormì tra rantoli d'annegamento e sobbalzi; si aprì varie volte la strada con le unghie per risalire da un buco scavato nel terreno. Avrebbe voluto urlare, chiedere aiuto, ma le parole le si strozzarono in gola. A un certo punto della notte, Focaccina si spostò con discrezione dal suo collo e dalla sua spalla per trasferirsi ai piedi del letto, a dormire meno disturbato, e quando lei si svegliò e si accorse che il gatto non c'era, che il suo calore familiare era svanito, in quell'istante il suo cuore si contrasse in una paura del futuro profonda quanto quella del passato. Non voleva pensare a Hewie Miner. All'idea terribilmente sbagliata che aveva di lei. I sensi di colpa la straziavano: qualcuno avrebbe potuto pensare che lo avesse deliberatamente ingannato, e lui era così dolce! Amethyst disse, piegando la bocca in un sorriso buffo: «Vuoi dire che Hewie ha davvero parlato con te? Pazzesco!». E il mattino dopo Abelove chiese a Marianne di recarsi nel suo ufficio; aveva annullato un appuntamento con un cliente in città. Era agitato come Marianne non lo vedeva dal giorno che Birk era scomparso dalla faccia della terra. Chiuse la porta dopo che lei fu entrata, la porta che non veniva mai chiusa, e si carezzò la barba mormorando: «Oh, Marianne!» in un sussurro allarmante che la mise a disagio, come udisse i pensieri più intimi di qualcuno. D'istinto, senza nemmeno sapere che cosa stesse dicendo, Marianne sussurrò: «Mi dispiace». Aveva saputo da Felice-Marie, Amethyst e Val Allan che Abelove aveva chiesto di lei per tutto il giorno precedente. Commentando, dolente, che
Marianne e Hewie se n'erano "andati assieme senza essere autorizzati", in segreto, senza informare qualcuno della loro destinazione; in ogni caso, senza informare lui. In realtà, Marianne aveva lasciato un messaggio per Abelove attaccato alla sua porta, spiegandogli di avere un'emergenza di famiglia. Era troppo scossa e aveva troppa fretta per aggiungere altro, anche solo dove andasse, o quando Abelove potesse aspettarla di ritorno. Quanti lavori aveva lasciato in sospeso, quante telefonate cruciali; come doveva aver deluso quell'uomo gentile, generoso, che le aveva affidato responsabilità tanto vicine alle proprie. Marianne non voleva nemmeno pensarci. Inciampò sulle parole mentre Abelove la fissava con occhi guizzanti, feriti, pieni di rimprovero, uno sguardo che lui non le aveva mai rivolto nemmeno nella sua immaginazione. «Abelove, ho... sono dovuta andare al funerale di mia nonna. Non potevo non esserci e non ho avuto il tempo di spiegarti. Temo di essere stata irresponsabile. Mi dispiace.» Avvertì una stretta improvvisa attorno al collo. Come una creatura tenuta alla catena, un cavallo, un cane, una capra; accorgendosi solo in quell'istante di quanto stringesse il collare. Abelove disse, solenne: «Be', è andata, è successo, inutile rimuginarci su. Mi spiace moltissimo sapere che è morta tua nonna, Marianne. Accetta le mie condoglianze». Sembrava sul punto di avvicinarsi, forse per prenderle le mani, e Marianne indietreggiò in maniera appena percepibile; così lui si fermò. Ci fu una pausa penosa. Marianne, scrutando la punta della sua scarpa da ginnastica che girava e girava attorno a una macchia color barbabietola sul tappeto di corda di Abelove, buttò all'aria il cervello per trovare qualcosa da dire. Ma nonna e io non eravamo molto vicine! Si vergognava di me, credo! A dire il vero, non mi è stato nemmeno permesso di partecipare al funerale! Abelove disse: «Sono solo preoccupato, Marianne, per ciò che questo può indicare per il futuro». «Il futuro?» «Il tuo futuro alla cooperativa.» Spaventata, Marianne fissò Abelove come si può fissare chi stringe in mano ogni felicità e ogni tristezza. Lui passeggiava nervoso, carezzando e tirando la barba. I capelli biondo chiaro lunghi fino alle spalle, la pensosa fronte corrugata. Portava una camicia quasi bianca a maniche lunghe che sembrava quasi stirata, jeans decentemente puliti, una cintura in pelle e sandali in pelle dai quali sporgevano le grosse, robuste dita dei piedi: il suo abbigliamento da città. Sbuffava come avesse camminato per un po' mentre preparava le parole da dire a Marianne. Lei temette che i suoi occhi
d'acciaio si posassero su di lei, scoprissero troppo. Era chiaro che la colpa le brillava negli occhi. Arrossati da quello che Corinne chiamava "il pianto superfluo": lacrime di autocommiserazione che spossano e non fanno alcun bene a nessuno. I capelli, che il giorno prima erano ben pettinati e lucidi, quel mattino erano ispidi e cespugliosi, cardi che le spuntavano dalla testa. La pelle del viso era talmente tesa da farle male. Che cosa vedeva Abelove? Marianne si era vestita senza nemmeno guardare cosa mettesse: i soliti calzoni, una maglietta sporca di vernice, scarpe da ginnastica fruste. «Devo sapere se posso fidarmi di te, Marianne. È questa la cosa principale.» «Oh, ma...» «Sei innamorata di lui?» «Lui?» «Hewie Miner. Sei innamorata di lui?» Lei restò così sorpresa che non seppe rispondere. Innamorata? Innamorata? Io sono innamorata di te! Vedendo lo stupore di Marianne, il suo ritrarsi da bambina spaventata, Abelove cambiò subito argomento. Disse con voce dolce: «Stavo pensando di invitarti a dividere più responsabilità con me, Marianne. A essere non solo la mia assistente personale, come Birk, ma qualcuno investito di maggior fiducia. Direttore associato, un nuovo incarico». Sotto il ruggito che le rimbombava nelle orecchie, Marianne sentì quell'uomo che tanto ammirava parlare di lei come se lei fosse importante: pronunciare parole con una sicurezza e un'intensità quasi visibili, come quando insegnava, con una forza di convinzione che nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in discussione o tanto meno contraddire. «Avresti accesso ai conti correnti della cooperativa, Marianne, come me. Saresti autorizzata a firmare assegni e incassarli. Trattare con i nostri distributori. Negoziare contratti. Per esempio, sta per scadere il contratto con la mensa dell'università. Vogliamo rinegoziare alcuni dei termini. Sì, e potresti venire con me a fare visita a potenziali donatori. Formeremmo un'ottima squadra, Marianne! Tu sei intelligente ed eloquente e, quando ti sforzi, attraente. Se magari portassi un vestito o una gonna? Calze e scarpe e... quel cappello di paglia nera?» Oh, Abelove l'aveva vista? Il giorno prima l'aveva tenuta d'occhio? L'aveva vista di prima mattina indossare il cappello e correre all'automobile di Hewie? «E ho pensato che la cooperativa dovrebbe espandersi, adesso che i profitti salgono. Tu hai un grande talento per il "disbrigo" degli affari. Ti
ho sentita al telefono! I nostri distributori chiedono di te! E qui a casa, naturalmente, piaci a tutti. Direi che chiunque ti abbia conosciuto si sia...» Abelove fece una pausa. La sua voce fu sul punto di spegnersi. «Innamorato di te. E soprattutto, loro... noi ci fidiamo di te.» Marianne era troppo sorpresa, troppo disorientata, e riuscì solo a fissare Abelove con un sorriso esile, immobile. Abelove le si avvicinò, il volto acceso dalle emozioni. Parlava con la passione e l'intensità che usava alle riunioni della cooperativa. «La nostra reputazione locale è eccellente, Marianne, come sai, e continuerà a esserlo. Però ci occorre maggiore visibilità. Dobbiamo metterci in mostra. Un giorno di apertura della Green Isle al pubblico, per esempio. Potremmo sponsorizzare una fiera di arte e artigianato e vendere i nostri prodotti. E, magari, offrire il nostro lavoro alle aziende locali. Imbiancare case, fare pulizie, falegnameria, giardinaggio. Pensa solo a tutti i mercati in cui non ci siamo espansi, Marianne! In questa zona siamo famosi per la qualità dei nostri prodotti e la simpatia. La signora Johnson, tra i nostri benefattori più generosi, l'altra sera a cena mi ha detto che sarebbe meraviglioso se la cooperativa potesse fornire il cibo per il matrimonio di sua nipote. Trecento invitati. A una cifra stimabile in novanta dollari a testa. Con qualche costo aggiuntivo, parliamo di circa trentamila dollari! Non potevo deluderla, le ho detto di sì. E adesso...» Marianne commentò, stordita: «Trecento persone? Mio Dio!». Sollecitata da Abelove, si era seduta; sull'orlo del divano; cercando di tenere dietro al rapido discorso di Abelove. Di rado lo aveva visto così animato, con una tale luminosità negli occhi. E continuava a guardarla con occhiate ansiose di sbieco (come Hewie?) che la innervosivano ancora di più. Bruscamente, vista la reazione di Marianne, Abelove cambiò argomento. Si mise a parlare di "direttive etiche", "princìpi filosofici basilari". Era sempre molto animato, ma più astratto, come non si rivolgesse solo a Marianne ma, tramite lei, a un vasto pubblico. «Studiando a Harvard sono diventato un neomalthusiano, però mi considero un neomalthusiano revisionista. Non vedo contraddizione tra i rigidi insegnamenti di Malthus e quelli di Cristo. Malthus era sacerdote della Chiesa d'Inghilterra, oltre che matematico; conosci la sua ipotesi: esiste un rapporto inevitabile, mortale, tra la quantità di cibo disponibile e le bocche che lo consumano. Lasciata a se stessa, riteneva Malthus, la popolazione crescerà sempre più rapidamente dei mezzi di produzione del cibo. Epidemie, carestie, siccità, infanticidi,
guerre sono i mezzi che storicamente hanno permesso la stabilizzazione della popolazione. Sembra quasi che Dio lavori attraverso la "sopravvivenza del più adatto"! La crudeltà della natura è solo la facciata della necessità matematica di Dio! Sostanzialmente, la cupa ipotesi di Malthus è corretta, come quella di Darwin; per esempio, ci si aspetta che la popolazione mondiale arrivi a sei miliardi di individui entro il 2000, e le cose non sono mai state più pericolose, mai è stato maggiore il rischio di guerre. Ma Malthus, nonostante il suo genio, non è riuscito a concepire la cooperazione della specie umana di fronte a queste minacce. Stranamente, non ha saputo immaginare i princìpi basilari del cristianesimo concretizzati grazie alla scienza. Io vedo la Green Isle Co-op come un microcosmo del mondo. Ciò che funziona per noi può funzionare per il mondo! Noi ci siamo consacrati al principio di trascendere competizione e lotta. Tutti sono "i più adatti". Però deve esserci leadership, e dedizione; lavoro duro; abrogazione dell'io. Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno...» «Secondo le sue necessità.» Ma Marianne lo disse automaticamente, quasi non udendo le proprie parole. Abelove smise di parlare, la raggiunse a passi rapidi e prese le sue mani tra le proprie. Le piccole gelide mani di Marianne dalle unghie rosicchiate nelle grandi calde mani di lui. Strano, e tanto improvviso essere toccata in quel modo, stretta! Per la sorpresa, Marianne non oppose resistenza. Con voce ora tremante, Abelove riprese: «Marianne, dalla prima volta che ti ho vista credo di avere capito che sei speciale. Non tento mai, mai approcci con le giovani donne della cooperativa. È un principio a cui mi sono attenuto sin dalla nostra fondazione, per ovvie ragioni. Però ho percepito la tua presenza, Marianne, oh sì! Il tuo viso, i tuoi occhi. La tranquillità, la pace, la purezza! Beati sono i puri di spirito poiché vedranno Dio. Sei una di loro, Marianne? Lo sei? Sento che hai sofferto». «Davvero? Non penso...» «L'unica persona realmente buona e pura è chi ha sofferto senza nutrire pensieri di vendetta, di rivincita. A me manca questa forza, anche se la riconosco in altri. Ma non ti chiederei mai spiegazioni, Marianne. Non vorrei mai introdurmi a forza nella tua anima.» «Ma...» Abelove si chinò su Marianne, la fronte corrugata, leggermente imperlata di sudore. I suoi occhi erano ansiosi. Il viso era chiazzato di rosa, come un oggetto insanguinato riflesso nell'acqua. «Credo... di amarti, Marianne. Io... noi... potremmo vivere assieme? Sposarci?» Stringeva le mani di Ma-
rianne con tanta forza che lei non riusciva a staccarsi; la tenevano immobile l'onestà di Abelove, la sua saldezza morale. Si vedeva bene che per lui dire una cosa simile era lo sforzo più enorme; non poteva prevedere se ci sarebbe stata una risposta positiva, tanto più da qualcuno che resisteva. Marianne disse piano: «Oh, Abelove, io penso... di no». Abelove non sentì. Afferrò le spalle sottili di Marianne, si chinò a baciarla. Le labbra calde asciutte dolci di Abelove premute sulle sue! Marianne lo spinse via, non con forza, più per sorpresa che per resistenza, gli occhi sgranati nell'allarme. Amore? Che cosa stava dicendo? «Devo essere onesto con te, Marianne» si affrettò ad aggiungere Abelove. «Non sono completamente libero. Moralmente, sì, ma non legalmente... Sono separato da una donna da anni e sì, ci sono figli, due, adolescenti, però le cose sono state sistemate in maniera equa, ritengo, e ci sono state altre donne, è ovvio, non molte, ma qualcuna. Mai qui alla cooperativa, te lo giuro. Mai prima d'oggi. Ho sempre cercato di essere aperto, onesto credo, come ho fatto con te, Marianne. Sei scioccata? Però tu provi qualcosa per me, non è vero? Il tuo modo di guardarmi, certe volte... Mi ami, un po'?» Marianne balbettò: «Sì, credo di sì. Voglio dire...». «Mi ami? Oh, Marianne...» Accoccolato in una posa goffa davanti a lei, Abelove cinse Marianne con le braccia forti e la baciò di nuovo, con maggior passione. Mi ama! Mi ama! Lui mi ama! Stupefatta, lei percepì il calore e il desiderio di quel corpo maschile, come in ogni creatura affamata d'affetto, come in lei stessa, forse. Abelove così vivo, così solido, compatto. L'autorità del corpo maschile contro il suo. Marianne avrebbe potuto essere spezzata come un ramo, invasa. Abelove avrebbe potuto costringerla ad aprire le labbra rigide, secche, spingerle la lingua in bocca, ma Marianne riuscì a scivolare via, veloce come un gatto. Senza fiato, contrita, disse: «Adesso... Adesso devo andare. Grazie di tutto quello che hai detto ma Felice-Marie e Amethyst mi aspettano nella serra. Abbiamo del lavoro da fare...». Assurdo: se Abelove guardava Marianne Mulvaney con tanta chiara emozione, e desiderio, perché le ricordava il povero Seta? Indietreggiò verso la porta. Abelove la seguì con aria quasi umile. «Mi ami un poco, Marianne? Non lo hai detto?» «Oh, sì» rispose nervosa Marianne. «Ma adesso devo...» «Non sei innamorata di Hewie? Sei sicura?» «Se sono... sicura?» «Non si è approfittato di te ieri, vero? Siete rimasti soli per tutte quelle
ore...» «Approfittare? Hewie?» Marianne era sconvolta, e furiosa. «Hewie è un uomo per bene e gentile, Abelove, quanto te.» Aveva aperto la porta, nell'ansia disperata di scappare prima che Abelove la convincesse a restare. A bassa voce, in modo che nessuno potesse sentire, una voce che era l'eco dei desideri più segreti di Marianne, lui disse: «Tornerai, Marianne, appena puoi? Ce ne andremo via da qui, da qualche parte, a parlare. Abbiamo tanto di cui parlare! Marianne? Io ti amo». Lanciata a capofitto nella fuga, Marianne era già fuori portata d'orecchio. O quasi. Dall'oscurità sono uscita. All'oscurità posso tornare. Vita da trapunta di stracci Chi avrebbe potuto prevederlo? Non Marianne Mulvaney. Prevedere che, il giorno dopo il tentativo di tornare alla valle di Chautauqua, il giorno della dichiarazione d'amore di Abelove, ciò che Corinne aveva saggiamente definito vita da trapunta di stracci sarebbe iniziato sul serio. Nessuno alla Green Isle Co-op sapeva immaginare il perché, e Abelove non intendeva offrire informazioni. Depresso, umiliato, stupefatto come quando era sparito Birk, nel tardo pomeriggio era andato in cerca di Marianne e aveva trovato nella loro stanza solo Felice-Marie, perplessa quanto lui. Dov'è Marianne? chiese Abelove, cercando di mantenere calma la voce, e Felice-Marie scrollò la testa. Non lo sapeva! Non aveva visto Marianne per tutto il giorno! Era evidente che Marianne aveva messo in valigia quasi tutte le sue cose, lasciando solo quelle più grosse, ingombranti (soprabito, stivali, un assortimento di libri di testo cartonati); aveva preso la trapunta, quasi tutti i libri in edizione economica e i pochi vestiti, che probabilmente aveva infilato in una sacca da viaggio. E, ovvio, aveva preso Focaccina. Dov'erano andati, senza essere visti da nessuno? Dov'erano andati, senza lasciare una spiegazione o un biglietto d'addio? "Svanito dalla faccia della terra": le parole di Abelove su Birk assumevano un cupo tono profetico. IV Un resoconto difficile
Un resoconto difficile Questo è un resoconto difficile per un figlio. Non so come iniziare. Come raccontare che anche Judd se ne andò. Ho lasciato mia madre quando aveva bisogno di me. Pensando Voglio la mia vita. Non sono soltanto un Mulvaney, sono Judd. Come dire che ho picchiato mio padre, e sono stato picchiato da lui. Buttato con il culo per terra sarebbe un modo più franco di esprimermi. Accadde a Marsena, nel nuovo posto dove andammo a vivere. Nella lunga umida estate del 1980. Io avevo diciassette anni; mi ero appena trasferito al liceo di Marsena per terminare il mio terzo anno di superiori. Il nuovo arrivato senza amici, e non ne volevo. Spalle chine, accigliato, l'abitudine di scrollare la testa come un cavallo infastidito dalle mosche. Se sorridevo, il che non accadeva spesso, era un rapidissimo torcersi delle labbra. Mamma scherzava, con un sospiro: «Judd, stai diventando una specie di tic ambulante». Guardando me, il più giovane dei Mulvaney, tutto ciò che restava in casa dei figli, come guardandosi in uno specchio. Quando dico che è un resoconto difficile intendo che è stato come fare sprizzare dense gocce di sangue dalle mie vene. Il semplice mettere su carta ciò che va raccontato almeno con una parvenza di ordine cronologico. Perché l'enunciazione di un fatto storico come High Point Farm venne infine venduta, nel febbraio 1980 o I Mulvaney rimasti, Michael, Corinne, Judd, due vecchi cani e tre gatti nervosi si trasferirono in una "casa rurale a livelli sfalsati", in un campo di granturco fuori Marsena, stato di New York o Per quanti prestiti abbia contratto per riaprire la Mulvaney Tetti e coperture a Marsena, mio padre fu costretto a dichiarare fallimento entro giugno suona alle mie orecchie una bugia, echeggia falsa. Ciò che accadde nella realtà fu molto più complicato. «Un uomo è la somma delle proprie sfortune» diceva papà, sorridendo assorto mentre apriva un'altra lattina di birra oppure, con estrema cura perché la mano non tremasse, versava in un bicchiere qualcosa di più forte e più scuro. Cercare di vendere High Point Farm quando il mercato immobiliare nella valle di Chautauqua era, dicevano le agenzie immobiliari, tutto a favore degli acquirenti, e i tassi delle ipoteche erano alti: sfortuna. E papà con i
suoi debiti. A contrarre prestiti, prestiti per saldare prestiti, non sempre dicendo a mamma cosa stesse esattamente per fare, e magari non sempre sapendolo lui stesso; cercare di formare una società con un collega di Yewville e finire con un nulla di fatto, e un secondo tentativo con un uomo d'affari di Marsena che si trascinò per settimane e si chiuse con un altro nulla di fatto: sfortuna. «È come se qualcuno, o qualcosa, avesse truccato i dadi a mio sfavore» diceva papà, con un sorriso e una scrollata di spalle a indicare di non essere molto sorpreso, solo leggermente incuriosito. Ai vecchi tempi, era sempre stato un uomo baciato dalla fortuna. Fu come la missione di salvataggio Delta in Iran, tra il tragico e la farsa, il disperato infelice tentativo del presidente Jimmy Carter di liberare i nostri ostaggi tenuti prigionieri nel centro di Teheran sotto le direttive dell'ayatollah Khomeini: in teoria, la strategia militare americana avrebbe potuto funzionare, ma nella realtà le cose andarono male. Malissimo. Mamma si mise a guardare ininterrottamente la televisione quando la terribile notizia esplose, il 25 aprile 1980. La nostra tv in un angolo del nuovo, non familiare soggiorno, con una ricezione spettrale che andava e veniva. Pianse per gli otto giovani militari americani che erano morti negli schianti degli elicotteri, uomini "scelti tra tutti i rami dei servizi armati", come dichiararono meticolosamente i capi di stato maggiore, e pianse per un Jimmy Carter terreo, terribilmente scosso, che somigliava sempre più a un uomo qualunque, un decente buon cristiano-caucasico-americano in balìa della marea della storia come chi, non sapendo nuotare, si trovi in un mare profondo, agitato. Che cos'era, se non sfortuna americana? Elicotteri schiantati, in fiamme, macerie dove avrebbe potuto esserci il trionfo, una missione ufficialmente "abortita" e una rapida goffa ritirata in Egitto. Nudi, esposti agli occhi del mondo intero: che vergogna. Mamma disse, asciugandosi gli occhi: «Oh, almeno Mike non era uno di loro! Oh, grazie, Dio, per questo almeno». Il semplice dire High Point Farm venne infine venduta non dà il vero senso di quel periodo informe delle nostre vite che si trascinò e trascinò. Devono essere stati almeno trenta o quaranta i "potenziali acquirenti" che vennero a vedere a bocca spalancata la proprietà, in compagnia di un agente immobiliare; molti altri presero un appuntamento e poi non si fecero vivi. Alcune delle persone che si aggirarono in casa nostra erano del posto e non avevano la minima intenzione di comperare. Non era possibile scartarli a priori, spiegò l'agente immobiliare a mamma. Il mercato è libero, la sua
casa è in vendita, in teoria chiunque può acquistarla. Come vendere l'anima. Quando hai deciso e firmato il contratto, non puoi più tirarti indietro. Vendere High Point Farm spettò soprattutto a mamma. Era sempre al telefono, o in preda alla frenesia delle pulizie; feroci colpi di spazzola ai capelli, un maglione o una giacca infilati per coprire la camicia sporca. Doveva interpretare il ruolo della "signora Mulvaney", della "padrona di casa", quando le automobili che aspettava, una o diverse, spuntavano sul vialetto d'accesso. Doveva essere cortese, sorridente, speranzosa e mai, mai tradire la disperazione che provava. Mai urlare in faccia a quegli estranei: «Tornate a casa! Andatevene! Questa è follia! Lasciateci in pace!». No, Corinne Mulvaney sapeva prendere con spirito sportivo la propria sfortuna. Michael Mulvaney Sr. aveva da fare altrove. Non possedeva il temperamento adatto per permettere a estranei di aggirarsi nella sua proprietà scrutando e soppesando, scuotendo la testa davanti a ciò che aveva "bisogno di riparazioni". Per papà, i potenziali acquirenti della fattoria erano "succhiasangue" oppure "succhiacazzi", secondo lo stato d'animo. In quanto a me, Judd, cercavo di stare alla larga da tutti. Se lavoravo nella stalla quando l'agente immobiliare arrivava con qualcuno, mi nascondevo finché non ripartivano; senza quasi respirare, la fronte premuta contro una balla di fieno. A volte afferravo brandelli di conversazioni non destinate alle mie orecchie: Oh è un posto in pessime condizioni no, però com'è attraente, ma quanto costerebbe rimetterlo in sesto, ma quanto lavoro, oh ma chi con un po' di sale in zucca vorrebbe, sì però qui è così bello, sì però qui è così isolato, è vero che la fattoria potrebbe essere venduta a un'asta, per fallimento? Non ci converrebbe aspettare? Una lama rigirata nel mio cuore. Non ti perdonerò mai, mai, pensavo. Senza sapere a chi mi rivolgessi. Nei molti mesi in cui la fattoria restò in vendita, il prezzo venne "ritoccato" di frequente, al ribasso. Sentivo mamma al telefono, la sua voce ferita, tremante: «Oh, ma non posso riferire quest'offerta a mio marito, mi spiace ma proprio non posso. Quest'offerta è un insulto. Non lo capisce che è un insulto?». E una volta, con furia improvvisa: «Ah, va bene! L'avevo avvertita! Affideremo immediatamente High Point Farm a un'altra agenzia! Non cerchi di ricontattarci!». Il telefono sbattuto giù, un brivido lungo la spina dorsale.
Brava mamma! Però alla fine, nel febbraio 1980, quando avevamo quasi smesso di sperare, un potenziale acquirente fece un'offerta che mamma osò riferire a papà. Solo duemila dollari meno del prezzo previsto. Papà scrollò le spalle e disse: «Sicuro. Entro quando?». Così, High Point Farm venne venduta. Così, nel marzo del 1980 estranei vennero ad abitare nella casa dove i Mulvaney avevano vissuto dal 1955. Soppiantando i Mulvaney come non fossimo mai esistiti. Gente dell'Hillside Estates, una famiglia di quattro persone più un nervoso bassotto tedesco. Lussuosa BMW metallizzata e station wagon Toyota giallo canarino. Gli adulti erano sulla mezza età ma giovanili, i figli, un maschio e una femmina, avevano dieci e dodici anni. Il padre era cardiologo al nuovo Chautauqua Medical Center; disse di non avere mai sentito parlare del dottor Oakley, che era andato in pensione. Sognava da tempo, raccontò a mamma, di allevare bovini Black Angus in una "fattoria da sogno" come High Point Farm. I due figli andavano "pazzi per i cavalli"; la bambina aveva già cominciato a prendere lezioni di equitazione. La moglie, orgogliosa, si descrisse come casalinga e madre a tempo pieno, portata a un perfezionismo "ai limiti della nevrosi". Indossava jeans firmati, pullover di cachemire dai colori luminosi, morbidi. Era quasi bella, in un modo che non era mai stato tipico di Corinne Mulvaney. Parò abilmente le chiacchiere nervose di mamma con astute domande sul drenaggio del terreno, sulla manutenzione della casa; chiese quali "interessanti" pezzi dell'arredo, orologi, tappeti, trapunte, oggetti decorativi mamma fosse disposta a vendere. Quando mamma tentò di stabilire un legame andando in cerca di amicizie o conoscenze comuni, con la tipica speranza femminile, la donna scosse la testa come se non avesse mai sentito quei nomi, sorrise gelida e riportò la conversazione ad argomenti puramente pratici. Non possiamo essere amiche? Siamo destinate a essere amiche se tu comperi questa fattoria che amo tanto, no? implorò mamma, di fronte a una donna che non concesse niente, che non aveva sentimenti da regalare a sconosciuti. Specialmente sconosciuti sfortunati a proposito dei quali si sussurrava l'orribile parola fallimento. Mamma si sentì respinta, ferita, addolorata. Ma dopo un po', essendo mamma, diventò filosofica, addirittura approvò. «La capisco, è ovvio! Ha paura che io possa essere il tipo di persona che vuole tornare a fare visita, cercare di stringere amicizia. Una qualche pazzia del genere. Non posso proprio darle torto!»
** Dopo tanti mesi di rinvii e frustrazioni, la vendita fu di una rapidità sconcertante. Venne conclusa nel giro di quindici giorni: il cardiologo e la moglie perfezionista non avevano bisogno di un'ipoteca, pagarono tutto. E ancora prima di vendere la casa e i cinque acri di terreno a Hillside Estates. Il giorno che ci trasferimmo nella nuova casa di Marsena, mamma disse con un sorriso: «Fatto! Grazie a Dio ce lo siamo lasciati alle spalle». Fece un gesto di congedo nella vaga direzione di ciò che ci eravamo lasciati alle spalle, qualunque cosa fosse. Ovviamente, la nuova casa era solo temporanea. Una vistosa "casa rurale a livelli sfalsati" con un rivestimento esterno in alluminio, bianco abbagliante, che dava l'idea della lamiera ondulata, finlture in "finta sequoia", "finestra panoramica", tettoia per le automobili su un appezzamento di due terzi d'acro. Il seminterrato a blocchi di cemento spiccava come gengive a nudo in una bocca gigantesca; attorno alla casa crescevano solo pochi cespugli stentati e sull'intera proprietà non dovevano esserci più di cinque alberi scheletrici. Eravamo appena all'esterno dei limiti della città di Marsena, a fianco di un'autostrada di campagna dove i camion viaggiavano a cento chilometri l'ora, a volte di più, scuotendo tutto ciò che non era cementato al proprio posto, anche se il limite di velocità era ottanta e, all'interno della città, cinquantacinque. Nelle vicinanze c'erano diverse piccole fattorie a un passo dall'estinzione; molte avevano sul davanti il cartello IN VENDITA. A poco più di mezzo chilometro di distanza c'era un grosso, affollato Kmart, una concessionaria Ford dall'aria prospera, un mini centro commerciale con un 7-Eleven, stazione di servizio Exxon, autolavaggio. Marsena era una cittadina di 3400 abitanti e avremmo vissuto lì per sempre, disse papà, però la casa era temporanea. Aveva agito di corsa, con poco tempo a disposizione, ed era stato costretto a decidere in fretta e da solo. Un piccolo anticipo in contanti e un contratto con cui si assumeva l'ipoteca del precedente proprietario senza che intervenissero avvocati. Solo per dare una casa provvisoria alla sua famiglia; poi, con i soldi ricavati dalla vendita di High Point Farm, avrebbe potuto riaprire la Mulvaney Tetti e coperture e guardarsi attorno in cerca di una casa più adatta. Farne costruire una, magari? Mamma, nella sua trance a occhi sgranati, sorridendo a ogni superficie della nuova casa, a ogni frase che le veniva rivolta, mormorò: «Oh, sì, Mi-
chael. Non è sempre stato il nostro sogno? Costruirci una casa». L'Antichità High Point non era stata esattamente abbandonata. Come la Mulvaney Tetti e coperture, si sarebbe trasferita a Marsena. Solo che mamma non aveva molto spazio per i suoi preziosi oggetti nella "casa rurale a livelli sfalsati" che era in sostanza un unico piano disposto a rettangolo, soggiorno/sala da pranzo/cucina/stanza dei giochi/tre camere da letto sul retro due delle quali erano piccole, adatte a bambini. Dietro la tettoia c'era un capanno grande quanto bastava per contenere la motofalciatrice Toro di papà, il trattore, gli attrezzi da giardinaggio eccetera, e c'era un seminterrato che si riempì all'istante dei mobili che non stavano sopra e di casse da imballaggio, cartoni, barili che non vennero svuotati e non lo sarebbero stati per parecchio tempo. C'era un solaio non più grande del locale dove mettevamo il granturco a High Point Farm, e anche quello era pieno zeppo di roba. Tutte le stanze della casa rigurgitavano fino a scoppiare di oggetti familiari che diventavano strani e inquietanti nel loro affollarsi e sovrapporsi in quell'ambiente nuovo, come un incubo goffo in cui un'intera esistenza sia stata rimescolata da uno spirito impersonale e malizioso. «È come l'interno di un cranio» si meravigliò mamma, con la sua risata oscillante. «Dobbiamo solo affrontarlo di giorno in giorno, di ora in ora. Dobbiamo solo restare calmi e mantenere il nostro senso dell'umorismo. Dovremmo considerarlo una specie di campeggio, una situazione non del tutto reale. Soltanto temporanea. Oh, ma quel seminterrato... Mi mette paura solo sbirciare.» Rabbrividì e rise. Però mamma sbirciò. E fece di più. Quando papà era fuori per lavoro e io a scuola, lei correva su e giù, dal pianterreno al seminterrato, a controllare se alcuni dei suoi adorati oggetti (lampada, acquerello, pendola, trapunta, calici di cristallo colorato eccetera) fossero stati imballati e portati lì. Un cane o due uggiolavano o abbaiavano alle sue calcagna. (Avevamo solo Foxy e Stivaletti, e dei gatti solo Palladineve, Marmellata e una micia da granaio completamente nera chiamata Peccato: mamma si era impietosita e l'aveva portata con sé a Marsena. I nuovi proprietari di High Point Farm erano stati vaghi sulle proprie intenzioni circa la cangiante, semiferale popolazione dei gatti da granaio, e mamma temeva il peggio: «E se assumessero il vecchio Zimmerman per farli ammazzare a fucilate? Se fosse quel vecchio perfido a suggerirlo? Non ne riterrei incapaci né lui, né loro. Però io non voglio sapere niente. Grazie a Dio ce lo siamo lasciati alle spalle». Aveva un modo di correre a palpebre abbassate, occhi quasi chiu-
si, i capelli ispidi di un grigio venato di rosso in stile parrucca di Halloween, e aveva un modo di fermarsi all'improvviso perché aveva dimenticato dove stesse andando; oppure, quando arrivava senza fiato nel seminterrato, nel solaio, nel capanno, nella camera da letto sul retro che le sembrava sempre di vedere per la prima volta, con la finestra che dava su un cortile vuoto, erbacce a parte, e un fossato in fondo... non ricordava più perché ci fosse andata. Scriveva elenchi di compere da fare in città (una delle voci era il sostituto del povero Piumotto, morto appena prima del trasloco) ma perdeva gli elenchi e li doveva riscrivere e poi smarriva anche la nuova versione, o la trovava appallottolata in tasca assieme alle vecchie, in una grafia illeggibile. Farmi nuove amiche! doveva aver scarabocchiato una volta su un pezzo di carta. Su un altro: Cercare un'altra chiesa (del posto!). Ovviamente toccò a lei prendere accordi con la compagnia telefonica per avere nuovi apparecchi, con l'azienda del gas e dell'elettricità, con la ditta che consegnava la nafta, con la direzione del liceo di Marsena, con l'ufficio postale. Con la First Bank di Marsena: conti correnti, libretto al portatore. Fare installare un impianto di sicurezza nella nuova proprietà dei Mulvaney al 193 di Post Road, Marsena, stato di New York. Correva fuori con l'intenzione di andare in città e invece si trovava diretta in aperta campagna, svoltava nella direzione sbagliata e si perdeva per mezz'ora; oppure, partendo per i discount a sud della città, finiva per percorrere i due isolati del centro di Marsena in cerca di vetrine familiari, quelle dei negozi in cui faceva spesa da vent'anni a Mt. Ephraim. Nel mezzo di tanta confusione, perché non portare gli animali a fare le iniezioni antirabbia e anticimurro, rimandate da troppo tempo? E la piccola Peccato stava maturando in fretta: perché non farla "sistemare"? Si sarebbero risparmiati problemi più avanti. Così, da sola, senza aspettare che Judd rientrasse da scuola per darle una mano, Judd che faceva sempre da assistente a mamma in quelle tumultuose spedizioni, portò Foxy, Stivaletti, Palladineve, Marmellata e Peccato da un nuovo veterinario, a una decina di chilometri di distanza; un'avventura che a cose fatte avrebbe richiesto una meticolosa pulizia dell'abitacolo impestato della station wagon, disinfettante e tre deodoranti! Be', oggi è stata una giornata notevole avrebbe riso mamma, sperando di divertire marito e figlio quando, e se, quella sera si sarebbero seduti tutti e tre a tavola per la cena. Guardate le mie ferite di guerra! tendendo le braccia per mostrare i graffi. Le espressioni di quei due! A volte squillava il telefono, e lei non riusciva a individuare un solo ap-
parecchio nel caos. Correva, inciampava: perché a chiamarla poteva essere Michael Sr., l'adorato marito a cui lei pensava di continuo, in preda a una preoccupazione ossessiva, come una madre separata dal suo neonato pensa ossessivamente al figlio anche quando la sua mente sembrerebbe del tutto presa, se non ossessionata, da altre faccende. O se fosse stato qualcuno che chiamava per darle notizie di lui? In quelle corse folli al telefono a parete in cucina non aveva tempo per cadere; con grazia e destrezza incredibili riportava il corpo in posizione eretta a metà della caduta e riprendeva a correre (con i cani che guaivano, abbaiavano isterici nella sua scia, i gatti che schizzavano via a occhi sgranati e coda ritta) prima che il telefono interrompesse i lamentosi trilli, anche se spesso, a dispetto degli sforzi, udiva solo un ironico segnale di linea libera. «Sì? Pronto? Chi parla? Qui è...» Per un istante di vuoto si chiedeva quale fosse il proprio nome, prima di riappendere depressa, come una ragazzina trascurata dalle amiche. Sono Corinne Mulvaney, per favore non dimenticatevi di me. Nelle settimane dopo il trasloco da High Point Farm, mamma dovette impedirsi una decina di volte al giorno di chiamare la donna che si era insediata là. Oh, quella donna! Quella sfruttatrice! Tanto astuta da vedere quanto Corinne Mulvaney fosse in trappola, con il patrimonio dell'Antichità High Point e tanti mobili e oggetti che non potevano stare in una "casa rurale a livelli sfalsati". Sapendo quanto Corinne fosse vulnerabile e quanto poco tempo avesse per vendere altrove le sue cose, quella donna si era offerta di "dare una mano", come se comperare un sofà in ferro battuto revival gotico del 1840 per centocinquanta dollari o un letto con la testata in porcellana decorata per duecento o lo squisito orologio da tavolo tedesco in ceramica della vecchia stanza di Marianne per sessanta fosse "dare una mano"! Oh, come odiava... ma no, ovviamente Corinne non odiava. Era cristiana dalla testa ai piedi, e fino alle più remote profondità dell'anima. Era riuscita a non odiare nemmeno i malvagi nemici di Michael Mulvaney, gli ex amici del Country Club di Mt. Ephraim che quasi lo avevano mandato in prigione. Era riuscita a non odiare persino i Lundt, Morton e Cynthia Lundt, Cynthia che un tempo era sua amica e non solo aveva negato il brutale atto compiuto da quello stupratore del figlio Zachary ai danni di Marianne, ma aveva difeso il ragazzo e insultato la figlia di Corinne: era riuscita persino a non odiare quelle persone. Negli ultimi mesi, Corinne aveva perso i contatti con Marianne. Aveva un suo indirizzo a Erie, Pennsylvania, a meno che non lo avesse smarrito nella confusione del trasloco. Non aveva un numero di telefono. Natural-
mente sapeva che Marianne non studiava più alla Kilburn e non viveva più alla Green Isle Co-op, o come diavolo si chiamava. Probabilmente era passata a un'altra università. C'era un'università a Erie, Pennsylvania? Doveva chiedere a Judd di controllare in biblioteca. L'Università di Kilburn non godeva di grande considerazione nemmeno all'interno del sistema scolastico dello stato di New York, e la cooperativa... Quel tizio, Abelove, con gli occhi umidi che stavano sempre a fissarti e l'aria da Gesù Cristo non era semplicemente degno di fede. Quindi, tanto meglio se Marianne se n'era andata. Corinne non era preoccupata, non molto; non aveva tempo di preoccuparsi per i figli cresciuti e dispersi qua e là più di quanto faccia una gatta con i cuccioli diventati grandi. Si diceva È nella logica della natura che se ne vadano, che lascino il nido, come un tempo aveva raccontato Patrick nelle lezioni che teneva alla famiglia a tavola È la strategia della natura per fare in modo che tra i mammiferi i parenti non si incrocino tra loro, indebolendo i geni. L'espulsione dal giardino dell'Eden, con uno scopo ben preciso, per cui lei non era realmente preoccupata per Marianne o per Patrick: l'avrebbero contattata al più presto, non aveva dubbi. Vite da trapunte di stracci, tutti e due! Non quello che ci si sarebbe aspettati. In quei giorni, Corinne quasi li invidiava. Poi c'era Mikey Junior. Ovviamente, non si poteva più osare chiamarlo così. Il marine scelto Mike Mulvaney Jr. Dove fosse lui, almeno, non era un mistero. Quando la gente chiedeva informazioni, nei giorni in cui ancora le chiedeva, i genitori rispondevano fieri, anche se nervosi considerata la situazione in Iran, che il loro figlio maggiore era un marine e aveva fatto un corso speciale di elettronica; avevano sue fotografie in uniforme da mostrare, notevoli fotografie di un bel giovanotto perfettamente rasato con un sorriso serio, un'aria di cospicua certezza e orgoglio. Oppure era l'uniforme, abbagliante nella sua bellezza? La prima volta che Mike era tornato a casa, dopo i tre mesi di addestramento a Parris Island, Carolina del Sud, gli era stato difficile abituarsi a quello che chiamava il mondo dei civili; era apparso a disagio con i genitori, addolorato dal bere e fumare e persino dagli atteggiamenti del padre, ansioso di tornare tra i marine. Corinne si era sentita così ferita! E scioccata! E l'aveva detto a Mike Jr. «Come fai a guardare i tuoi genitori come se non li conoscessi?» aveva chiesto, e Mike Jr. aveva mosso imbarazzato le spalle muscolose, aveva fissato la madre negli occhi in un modo nuovo per lui, un modo a cui probabilmente era stato addestrato al campo, quasi fosse sul punto di fare il
saluto militare, e aveva detto: «Mamma, credo di non conoscervi davvero, per quanto strano sia. È come se tutto fosse in codice e la chiave si fosse persa». A quel punto, era stata Corinne a guardare il figlio come avesse di fronte uno sconosciuto. Nell'ultimo anno, grazie a Dio, Mike Jr. era tornato in sé. Preoccupato per la fattoria e per ciò che gli aveva raccontato Corinne dei problemi economici del padre (gli aveva risparmiato le notizie sul bere, sul secondo arresto, sui guai con il vendicativo giudice Kirkland), Mike si era messo a telefonare più spesso, e persino a mandare cartoline. Non era mai stato un tipo da lettere, ma le cartoline andavano benissimo e arrivavano da posti esotici come Gibilterra, Il Cairo, Arabia Saudita. Firmate con un Mike scritto con molta cura, di solito. Anche se una volta, sul retro di una cartolina con un Mediterraneo di un brillante blu, aveva scritto Vi penso e vi voglio bene, Mike. Michael Sr., che da tempo dava l'impressione di non sentire la mancanza del figlio maggiore, fu molto commosso da quelle cartoline. Specialmente dal Vi penso e vi voglio bene, Mike. Allora Mike Jr. stava crescendo, maturando! Era un miracolo che i marine fossero riusciti a fare un uomo (sì, suonava maledettamente trito, ma pareva proprio così) di una testa calda immatura che riusciva ad andare d'accordo solo con i compagni di bevute. Se essere un uomo significa avere controllo di sé ed esserne fiero. Lui, Michael Mulvaney Sr., il padre del ragazzo, non aveva avuto la fortuna o la sfortuna di servire nell'esercito degli Stati Uniti. Avrebbero potuto arruolarlo per la guerra di Corea ("conflitto" dicevano a quei tempi), però si era sposato presto, aveva cominciato ad avere figli da giovane. Impossibile sapere che cosa avrebbe potuto imparare Michael Mulvaney. Ciò che non ti spezza può insegnarti qualcosa, giusto? Nel mezzo di tutte le preoccupazioni per la perdita della fattoria, per la chiusura dell'azienda, Michael chiese a Corinne di rintracciare il più vecchio degli album fotografici, che risaliva a... all'inizio. Si misero a sedere nella stanza di famiglia, sorseggiando birra, le lacrime agli occhi, a indugiare sulle prime foto di High Point Farm, loro due giovani sposi, Mikey Junior a una settimana d'età tra le braccia della madre raggiante, Mikey Junior robusto moccioso a bocca aperta davanti all'obiettivo, Mikey Junior a quattro anni in groppa al suo primo pony. Come si chiamava? Michael, con un sospiro, la mano calda e pesante sul ginocchio di Corinne, nel gesto delle coppie sposate da tanto tempo che significa Ci siamo arrivati assie-
me. «Corinne, pensi che tornerà mai? Che proverà a lavorare con me? Adesso non gli sarebbe troppo difficile. Ho esagerato con lui, temo. Dio, potremmo essere una grande squadra, Mike e io. Se lui volesse dare una seconda possibilità a questo vecchio.» Corinne adagiò la mano su quella di Michael. Sorrise: «Be', forse. Possiamo pregare». Pensava a quelle cose come fossero accadute anni addietro e non solo una settimana prima. Perché quando la vita comincia ad accelerare va sempre più veloce. Probabilmente, Patrick potrebbe spiegarlo in termini scientifici. Un'equazione a base di x, y, z. A volte si ritrovava seduta sui gradini di una scala per il seminterrato che non riconosceva. Non a High Point Farm... questo era un luogo diverso. Niente luce, e nessuno scopo nella sua presenza lì. Poteva avere in mano una tazza di caffè freddo, o un cacciavite o una spugna o un detersivo, quindi stava andando da qualche parte. Però al momento se ne stava seduta nell'ombra, una donna di cinquant'anni sotto choc da bombardamento, insicura, sorridendo al buio sotto di lei, dove minacciose forme di casse, barili, tavoli e sedie rovesciate le lanciavano richiami ingannevoli. Era entrata in un mausoleo? Si trovava nella Terra dei Morti? «Mamma, non ci sarai anche tu, eh?» Voleva essere una battuta, un coraggioso motto di spirito. Se Corinne Mulvaney riusciva a far ridere anche una sola persona, se stessa, be', allora tutto era sotto controllo. Oppure, ancora più strano, si trovava a rabbrividire in un cortile sul retro che non conosceva. Sotto una nebbia gelida o persino una leggera neve. Era il principio di primavera o stava cominciando l'inverno? Un rozzo posto di periferia, quasi senza alberi, ma come si fa a sopportare di vivere senza alberi? Si è così esposti al cielo. Sul davanti c'era un'autostrada di campagna, camion diesel che rombavano. Vicino c'era una costruzione, una casa rurale a livelli sfalsati, con una tettoia di lamiera per le automobili e un rivestimento esterno in alluminio bianco abbagliante, sull'altro lato di una siepe stentata. Foxy e Stivaletti, a pelo ritto, si sgolavano ad abbaiare a due pastori tedeschi psicopatici oltre la siepe. Corinne stava cercando senza successo di fare funzionare il maledetto trattore; voleva arare un po' di terreno per creare un orto, seminare fiori. Era aprile, a meno che non fosse ancora marzo, ma lei non vedeva l'ora di cominciare. Il desiderio di sentire il terriccio sbriciolarsi tra le dita. Al diavolo il trattore, probabilmente era senza benzina. Michael ultimamente non badava più a quelle cose. Poteva
usare una vanga, un badile, una zappa. Qualunque cosa. L'importante era smuovere, dissodare quel terreno duro. La lattuga si può piantare già dopo il giorno di san Patrizio, almeno in teoria. Tornavo a casa da scuola e trovavo mamma in quei posti. Posti assurdi come il cortile sul retro dove, sotto una neve lieve o una pioggerella fredda, tentava di vangare il terreno durissimo. Mamma in giacca a vento lercia e calzoni. Portavo la bici sotto la tettoia (la scuola distava due chilometri e mezzo, anche nel rigido vento di marzo quelle pedalate erano di solito la parte più felice della mia giornata) e tornavo indietro perché capivo che mamma parlava tra sé vedendola muovere le labbra in brevi sbuffi di vapore. La voce allegra di Judd chiamava: «Ehi, mamma! Che cosa fai?». Lei si girava stupefatta, e per un attimo mi fissava quasi non riconoscesse nemmeno me. «Oh, Judd. Già di ritorno da scuola? Così presto? Che accidenti di ora è?» E cercava un orologio che non aveva al polso. Abbi cura di mamma. Stai attento che non crolli. C'era una voce a darmi istruzioni, l'alta allegra voce di Judd Mulvaney nelle mie orecchie. Avevo gli occhi ben aperti, vedevo il precipitare di papà, il precipitare delle nostre vite. Come un autoarticolato impazzito su una ripida salita con un cartello che dice CAMIONISTI USARE LE MARCE BASSE ma ormai è troppo tardi per gli avvertimenti. E i freni sono consunti e non reggeranno. Così riponevo nel capanno gli attrezzi da giardinaggio di mamma e la facevo rientrare in casa. Se la trovavo seduta in trance sui gradini del seminterrato, scherzavo Facciamo un po' di luce sull'argomento! e accendevo la luce. E la riportavo su, in cucina. A quel punto, potevamo giocare alla mamma della tv e al figlio teenager appena rientrato da scuola. È tornato in bicicletta, è un ragazzo così bravo, pulito, un semplice ragazzo di campagna. «Allora!» diceva mamma, fregandosi le mani screpolate, e nei suoi occhi si accendeva un pallido neon azzurrino. «Scommetto che avrai una fame da lupo. Ti va uno snack?» Apriva il frigorifero e io frugavo dentro: magari un po' di latte, magari succo d'arancia, una fetta di torta alla gelatina di ciliege. «Ma non rovinarti l'appetito per cena, mi raccomando!» Sotto gli occhi attenti e sorridenti di mamma mi infilavo nell'angolo della colazione, con il piano in formica sbiadito dai gomiti dei proprietari precedenti. Divoravo la deliziosa merenda del dopo scuola perché era vero, avevo una fame da lupo.
La casa rurale a livelli sfalsati con il rivestimento in alluminio bianco abbagliante non era casa e non lo sarebbe mai stata. Lo sapevo io, lo sapevano gli irrequieti cani e gatti che continuavano ad aggirarsi e fiutare in cerca dei loro angolini perduti, che tentavano di mettersi giù per un sonnellino ma non erano mai del tutto a loro agio. Stivaletti era talmente nervoso che prese l'abitudine di fare l'atto di mordermi se gli tastavo la pelle floscia sotto il collo, come avevo sempre fatto. Foxy abbaiava, abbaiava, abbaiava a pericoli invisibili e impercettibili con lo stesso vigore con cui abbaiava ai ruggenti camion sull'autostrada. Non avevamo più un canarino; il povero Piumotto aveva raggiunto la venerabile età di sette anni e poi era spirato. Mamma voleva comperare un altro canarino, o magari un pappagallo (qualcuno con cui parlare, scherzava), ma non subito. «Meglio aspettare di esserci sistemati.» Un triste giorno, Marmellata scomparve. Mamma lo chiamò disperatamente, io pedalai per chilometri urlando il suo nome. «Marmellata! micino micino micino MICINO!» Ma il nostro vecchio amico arancione era svanito. Un altro triste giorno, facendo retromarcia sul sentiero d'accesso con la Lincoln, papà passò sopra qualcosa di piccolo e morbido, come lo definì lui: la povera Peccato. Aveva solo sei mesi ed era appena stata operata dal veterinario. Mamma pianse per Peccato più di quanto avesse pianto per Marmellata che aveva vissuto con noi tanti anni ma, visto che era scappato, si poteva considerare un disertore. «Non ha mai avuto una sola possibilità» disse mamma, scossa da un dolore tale che temetti potesse stare male. «Oh, perché siamo venuti qui! In questo posto terribile, terribile.» Seppellimmo la piccola nera Peccato che non aveva mai avuto una sola possibilità, creaturina dal pelo morbido che pesava meno di due chili, nel cortile sul retro, sotto l'unico albero di dimensioni decenti, un salice piangente: il tipo d'albero che papà odiava, per i problemi che dà e per la propensione a spezzarsi nel vento. Casa non era casa e non era molto reale, e a me quello stava bene. La scuola era anche meno reale. Un programma televisivo sul quale mi sintonizzavo, guardavo per pochi secondi, poi spegnevo. Stronzate. Quando rientravo dal liceo di Marsena escludevo immediatamente ogni ricordo di quel posto. Essendoci trasferiti nella seconda metà dell'anno
scolastico, in marzo, mi restavano meno di quattro mesi prima delle vacanze estive e avevo già cominciato a cercarmi un lavoro per il dopo scuola e i sabati, finalmente libero dagli impegni della fattoria, con la voglia e il bisogno di qualcosa da fare, di guadagnare un po' di soldi miei. Soldi miei! pareva una preghiera. Forse non essere più un ragazzo che vive in una fattoria non era negativo al cento percento. Ai vecchi tempi, quando probabilmente avevamo soldi, o comunque la Mulvaney Tetti e coperture prosperava, a papà piaceva ridere e scherzare su quanto costasse una fattoria come High Point, quanto costassero gli animali "abbondantemente inutili", e sulle "note spese" di figli e moglie; adesso che aveva davanti il fallimento non parlava mai di soldi, o tanto meno ci scherzava su. Non preoccuparti, papà, andrò a lavorare. Posso dare una mano. Se non andremo d'accordo, potrò andarmene anch'io. Stai a vedere! Diciassette anni, appena trasferito da Mt. Ephraim a Marsena, Judd Mulvaney veniva molto osservato, molto discusso al liceo di Marsena. (Bisogna sapere che posto dimenticato da Dio fosse Marsena per capire che Mt. Ephraim era considerata una città ampiamente "più sofisticata". Per dirne una, era grande circa il doppio.) Possedevo, in quel nuovo posto, l'arroganza di un certo tipo di adolescenti maschi dotati di cervello: non furbi quanto credono, ma furbi quanto basta per la concorrenza. Facevo i compiti con sprezzante facilità, compilavo i test in fretta e distrattamente. A volte prendevo voti alti, a volte no. Di rado mi offrivo spontaneamente per un'interrogazione, ma quando venivo chiamato sapevo dare risposte esatte e persino di grande effetto. Chiunque conoscesse Patrick avrebbe notato che avevo assunto alcuni dei suoi atteggiamenti pubblici: il modo di fare superiore che nascondeva la timidezza, il silenzio accigliato che intimidiva gli altri. Avrei quasi voluto portare gli occhiali per poterli spingere all'insù sul naso come Patrick. Fatti gli affari tuoi, Judd. Procedi a modo tuo. Qui nessuno conosce i Mulvaney. In quella prima primavera, quasi non ricordavo i nomi degli insegnanti, di certo non quelli dei compagni di classe. Una sensazione straordinaria, a essere onesto; come la scena finale di Alice nel paese delle meraviglie che mamma mi leggeva quando ero piccolo, prima che mi addormentassi, quando improvvisamente Alice scaraventa in aria i re, le regine, gli aspiranti boia che vorrebbero mandarla a morte e scopre che sono soltanto carte da gioco. Chi se ne importa di voi? Siete solo un mazzo di carte!
Mi era sempre piaciuta da bambino, e da diciassettenne trasferito da una vita a un'altra mi piaceva ancora di più. Abbi cura di mamma. Stai attento che non crolli. In quanto a papà, stagli alla larga. Non voglio dare un'immagine sbagliata di mio padre. C'erano giorni in cui non beveva molto, o comunque non mostrava gli effetti dell'alcol. Che per lui consistevano in uno sguardo d'ira anestetizzata, sull'orlo della belligeranza ma senza l'energia per varcare il confine. Tornava a casa esausto, troppo stanco per mangiare; apriva una lattina o due di birra e le scolava in qualche minuto, crollava sul letto e il mattino dopo era in piedi alle sei. In cuor suo era un brav'uomo ma spinto alla frenesia dalle difficoltà, come un animale colpito da lance che cerca di mantenersi in piedi, tremando in un angolo. Se ti avvicinavi troppo per consolarlo, o nella speranza di essere consolato, potevi restare ferito. All'epoca, credo di essermi indurito nei suoi confronti. È un ubriacone. Uno sciocco. Un idiota. Non gliene frega un cazzo di te o di mamma. Papà mi ordinava di fare qualcosa e io scrollavo muto le spalle e me la prendevo calma e papà mi dava uno spintone, oh, solo uno spintone! per dimostrare chi fosse il boss! e il mio cuore si allagava d'ira, l'adrenalina correva calda nel mio corpo ossuto, pronta a zampillare. Pensavo ai fucili da caccia, alle armi ora riposte nel seminterrato nel caos di cartoni, casse, barili, si però io so dove trovarle, e mi pareva la più naturale delle cose che un figlio possa uccidere il padre per proteggere non solo se stesso ma anche la madre. Sta aspettando di esplodere. Guarda cosa ha fatto a Marianne. L'ha cancellata come non fosse mai esistita. Cosa ti fa pensare che non farà una stronzata del genere anche a te? Mi mancava Patrick! Il fratello che amavo, il fratello che ero stato portato a considerare un amico. Avevo bisogno di parlare con lui per la sua intelligenza, la sua saggezza. Che cosa aveva detto dei nostri genitori, che erano vittime? Papà era una povera creatura a cui un predatore ha risucchiato la vita? In base a un piano della natura? Eppure Patrick sembrava dare comunque la colpa a papà. Non lo aveva mai perdonato. Quando telefonava, il che accadeva di rado, non lo faceva mai a un'ora in cui papà potesse essere in casa; c'eravamo solo mamma e io. E aveva detto di credere nel male. Avevo bisogno di parlare con Patrick di quello che ci accadeva e non
sempre capivo e non potevo tenere sotto controllo. Nemmeno nelle mie fantasie da ragazzo avevo il controllo. Gli affari che papà trattava di continuo e finivano sempre in niente. Le lunghe telefonate, le brusche partenze in auto; un'altra cena saltata, e nessuna spiegazione; lunghe ore di assenza spiegate da parole misteriose: getto le basi, collego i punti. Un giorno il vecchio braccio destro di papà, Alex Flood, era stato riassunto, sarebbe tornato a lavorare per lui trasferendosi a Marsena con la famiglia; qualche giorno dopo, Alex Flood aveva cambiato idea, o l'aveva cambiata papà, e Alex era "fuori, in via permanente". Un giorno c'era un rivenditore di coperture per tetti di Rochester a cui papà avrebbe concluso affari, qualche giorno dopo il fornitore era "fuori, in via permanente". A quanto pareva, a Marsena e dintorni papà si era già fatto un'ampia cerchia di conoscenze, uomini d'affari, rappresentanti, ma soprattutto uomini che lavoravano con le proprie mani, il tipo di uomini con cui avviava cordiali conversazioni nei bar, con cui si sentiva a proprio agio e che poteva "rispettare" come loro "rispettavano" lui. Ma al tempo stesso parlava in termini vaghi di gente della nuova città che non lo vedeva di buon occhio, non lo accoglieva a braccia aperte: «Non mi danno una possibilità. Non mi vogliono proprio, qui. È come se qualcuno avesse parlato di me con loro». Cauta, mamma chiese: «Michael, amore, chi dovrebbe parlare di te? Perché?». «Lo sai chi» rispose papà. «E sai perché.» ** Furono i mesi, poi gli anni, in cui mio fratello Patrick perse i contatti con la famiglia per lunghi periodi. Mi mancava tanto, e cercavo di indurirmi anche nei suoi confronti, ma non potevo. Proprio quando avevo finalmente creduto di avere un fratello e di essere un fratello, avevo perso Patrick! Dio lo maledicesse. Anche mamma ne soffriva. Mamma e Judd, due persone che lo amavano. Probabilmente ero l'unica persona sulla faccia del pianeta a poter capire perché Patrick fosse scomparso in quel certo momento. Sabotando quella che prometteva di essere una laurea summa cum laude alla Cornell. Deludendo gli insegnanti che avevano riposto tante speranze in lui. Ma nemmeno io capivo sul serio. Fare giustizia lo aveva fatto sentire bene: non avere ucciso Zachary Lundt, non avere fatto nemmeno troppo male al ba-
stardo. Diceva di sentirsi libero, e che mai più avrebbe provato il bisogno di punire una creatura vivente. E se Zachary riconobbe Patrick, per quel che risulta non lo raccontò ad anima viva. Però Patrick era scomparso. Ogni tanto ricevevamo cartoline da lui, rispedite dal nostro vecchio indirizzo. Con i timbri di California, Utah, Idaho. Vi penso e spero che lì vada tutto bene. Mi spiace di non tenermi in contatto ma telefonerò presto prometto. Per il compleanno di mamma se sarà possibile. Sinceramente, vi voglio bene, patrick. Lavorava con "bambini disabili in età scolare" a Oakland, California. Poi in una stazione per il controllo degli incendi a Glacier Park, Montana. Viaggio e imparo più di quanto abbia mai creduto possibile. Provo tanta VERGOGNA per il mio vecchio io. Tutto il mio amore nel mio ventiduesimo compleanno (mi spiace tanto che lo perdiate). Vostro figlio e fratello patrick. Era a Boulder, Colorado; seguiva corsi universitari di geologia e archeologia, era apprendista di una vasaia giapponese. Però poco dopo lavorava come inserviente all'ospedale di Denver, e poi, un mese dopo, a Fargo, nel North Dakota. Prometto di chiamare presto. Sono in buona salute e spero che da voi vada tutto bene. Sto prendendo accordi per tornare alla Cornell a laurearmi. Mi spiace avere interrotto i contatti e prometto di telefonare presto. Con amore, pj. Aspettammo altre notizie del suo ritorno alla Cornell, ma passò tanto tempo. Aspettammo una sua telefonata. E aspettammo. L'anno prima, la domenica di Pasqua avevo seguito alla lettera le istruzioni di Patrick. Rientrato a casa con mamma dalla chiesa, dopo un pasto frettoloso scappai via in auto, dicendo che andavo a trovare un amico. Arrivai al vecchio cimitero abbandonato di Sandhill Road e trovai il fucile dove Patrick aveva promesso di metterlo. Con una paura d'inferno, saltellavo come un coniglio immaginando la sorveglianza della polizia, qualcuno nascosto tra gli alberi. Ma tutto era muto, immoto, deserto com'è di solito la campagna, specialmente un cimitero sperso dove i nomi scolpiti dei morti sono quasi stati cancellati e le erbacce sono più alte della più alta lapide. In natura, diceva Patrick, l'energia non si perde mai, viene solo riconvertita, ma un cimitero ti dà da riflettere: tante persone, tante vite, e ognuno di loro un tempo pensava Eccomi qui, guardatemi! Sono qualcosa. Sì, già. Però c'era il Winchester calibro .22 di Mike ben avvolto nella stessa tela, infilato sotto sassi che si erano staccati. Senza togliere del tutto la tela, fiu-
tai la canna: non pareva che il fucile avesse sparato. Non aveva sparato! Patrick non aveva usato il fucile! Non avevo tra le mani un'arma del delitto! Naturalmente, era possibile che avesse usato il coltello. C'era quella terribile eventualità: Patrick poteva avere usato il coltello. Che cosa aveva detto, di cosa si era vantato mio fratello? Di essere abituato a "dissezionare" animali in laboratorio? Erano state quelle le sue parole? Riportai il fucile a High Point Farm, lo trasferii di soppiatto in casa e nell'armadietto di papà, poi lo chiusi a chiave. Avevo il bisogno disperato di sapere da Patrick che cosa fosse successo, però chiamò solo alle dieci di sera, da Ithaca; e disse soltanto, secco: «È finita. Giustizia è stata fatta». «Ma, Patrick, cos'è successo?» «Senti, Judd, meno ne sai, meno sarai coinvolto. È finita.» «Ma cosa significa? Hai...» «Non credo racconterà mai a qualcuno quello che è successo anche se mi avesse riconosciuto, e non sono convinto che lo abbia fatto, o forse sì... Mi segui?» Patrick parlava in fretta. «È finita e io ho chiuso e può darsi che per un po' non parli più con te o con mamma.» «Ma, Patrick...» «Adesso non posso parlare, Judd. Però grazie! E, ehi, ti voglio bene.» Riappese prima che io potessi balbettare una risposta. Così, nei mesi e poi negli anni a venire, avrei pensato Patrick mi vuole bene, valeva la pena correre quei rischi. Lo credo ancora, tutt'oggi. Fu all'inizio di giugno, appena prima dell'"incidente" (come lo avrebbe poi chiamato mamma) tra papà e me, e forse ebbe qualcosa a che fare con l'incidente, il fatto che Marianne si fece risentire. Chiamò una domenica sera come niente fosse, come non fosse svanita per mesi. «Oh, mio Dio, Marianne» esclamò mamma. «Ho risposto al telefono e... mio Dio, sei tu.» La mano premuta sul cuore, appoggiandosi al telaio di una porta. Marianne disse che stava bene. Viveva a Spartansburg, nell'angolo più a nordovest della Pennsylvania, a sud di Erie; il suo indirizzo era presso una certa Penelope Hagström, una poetessa, una filantropa, sulla sessantina, una persona meravigliosa di cui Marianne era "una specie di assistente tuttofare e amica". La signorina Hagström era confinata su una sedia a rotel-
le; era stata colpita dalla sclerosi multipla a ventinove anni. All'epoca era fidanzata ma il giovanotto se l'era squagliata e lei non si era mai sposata, non aveva figli, solo qualche parente lontano, con rapporti minimi. Una persona meravigliosa, ripeté Marianne, con alti standard di integrità, di comportamento. Mamma, cautamente compiaciuta, si augurò che Marianne stesse ancora seguendo qualche corso universitario e Marianne mormorò vaga sì, o comunque lo avrebbe fatto presto, in un college del posto. Mamma sperava che Marianne ricevesse una paga "decente" da quella signorina Hagström e non venisse "sfruttata in maniera criminale" come le era accaduto alla Green Isle Co-op o comunque si chiamasse quel posto. Raccontò che la nostra nuova casa era solo un po' piccola, e l'autostrada un po' più vicina di quanto si sarebbe sperato (quei maledetti camion! Tremava tutto, in pratica persino i denti di Corinne; doveva tenere una mano su un orecchio per parlare al telefono), e papà aveva qualche problema a trovare la posizione ideale per la sua attività, ma per il resto andava tutto bene, benissimo! Tutti godevano di perfetta salute! Marianne aveva numerose domande sulla casa: com'era fatta, quanto era grande, che cosa si vedeva dalle finestre, quali mobili erano in quale stanza, e quali opere d'arte erano appese alle pareti? Mamma ricordava il vecchio dipinto La pellegrina che a Marianne era sempre piaciuto tanto? Mamma rispose subito che era solo una stampa, non un dipinto, e non lo vedeva da anni; probabilmente era stato scartato assieme a una montagna di spazzatura quando avevano traslocato. E non c'era motivo di descrivere la nuova casa perché era solo una sistemazione temporanea, avevano in mente di fare costruire una casa progettata da loro. «Non appena tuo padre avrà rimesso in piedi la Mulvaney Tetti e coperture.» Tutte le volte che sentivo mamma dire questa frase a qualcuno, mi spuntava in faccia un sorriso strambo. Rimettere in piedi. Come si trattasse di un ubriaco o di qualcuno crollato a terra per infarto cardiaco. Al telefono con me, Marianne fu allegra, solare. Domande sulla mia nuova scuola, sugli amici che mi ero fatto, su Marsena. Riuscii a risponderle sullo stesso tono, dicendole cose che sembrassero plausibili. In sottofondo, dietro la voce di Marianne, si udiva un rumore come di piatti, posate lavate: immaginai mia sorella, ventun anni, con il ricevitore in equilibrio tra spalla e orecchio, china su un lavello nella cucina di qualcuno. Portava guanti di gomma? Aveva ancora i capelli tanto corti, più dei miei? Vedevo una cucina buia, soffitto alto, armadietti con maniglie di vetro e rivestiti all'interno di tela cerata; vedevo un grande fornello ammaccato, uno di quei
vecchi frigoriferi con le gambe e il motore che ronza, sopra, come un cappello. Altrove, in un'altra parte della casa, una donna dai capelli grigi, con il viso scolpito, stava su una sedia a rotelle, una coperta avvolta attorno alle ginocchia, in attesa di Marianne: si sbrigasse, corresse a portarla fuori in giardino prima che facesse troppo freddo. Il muro che racchiudeva il giardino era di mattoni antichi, marci, cadenti. Edera allo stato semiselvatico mordicchiata dagli afidi. Alti cespugli di rose con chiazze nere sui petali. Il gatto bianco, con chiazze multicolori, magro magro, tutto coda e spina dorsale che avanzava sui licheni era Focaccina? Focaccina era ancora vivo? Avevo paura di chiederlo. A bassa voce, di corsa come se il suo tempo stesse finendo, o qualcuno la chiamasse, Marianne disse: «Focaccina è in gran forma, Judd. Mi sono scordata di dirlo alla mamma. Glielo dici tu? Focaccina vi saluta. Gli mancate tanto». «Ciao a Focaccina, allora. Manca anche lui a noi.» «Qui gli piace moltissimo. C'è tanta più calma che alla cooperativa.» «Ho l'impressione che tu abbia parecchio da fare.» «Sapete qualcosa di Patrick?» «Oh, Patrick. È a Denver a studiare geologia, o... No, è a Fargo, North Dakota. Lavora in un ospedale per bambini...» «Sta bene? È felice?» «Sembra felicissimo. Non pare più Pizzicotto.» «Potete dargli il mio numero di telefono? La prima volta che chiamerà?» «Abbiamo il tuo numero?» In sottofondo ci fu un suono smorzato: un crepitio, qualcosa che girava. Una porta con cardini da oliare; a meno che non fosse una voce. «Santo cielo. Adesso devo riappendere. Judd, ti voglio bene! Mi manchi!» «Marianne, aspetta...» «Tutto il mio amore anche a papà, però se non vuole sentire non dirgli niente, d'accordo? Ciao!» E in un istante tutto svanì: i piatti nel lavello, il frigorifero che ronzava e vibrava, la signorina Penelope Hagström sulla sedia a rotelle, Focaccina che camminava nel giardino di un'estranea, mia sorella Marianne con la testa piegata per fermare contro la spalla la cornetta del telefono. Nemmeno il segnale di libero, solo una linea morta. Ovviamente, mamma non disse a papà che Marianne aveva chiamato, e di certo non glielo dissi io. E mamma non parlò molto di Marianne con
me, nemmeno per lamentarsi del fatto che non andasse all'università, non si preparasse per una carriera. Forse temeva che io potessi riprendere la conversazione in presenza di papà. E in quei giorni papà era di un umore tale, una continua altalena tra letargia e furia, che di sicuro non era il momento adatto per parlargli di Marianne. Ma qualche giorno dopo la telefonata, ecco apparire mamma con un libro. Aveva percorso centodieci chilometri per andare a comperarlo in una libreria di Yewville: Poesie scelte di Penelope Hagström. L'editore era un "vero" editore di New York e le poesie, disse mamma, erano difficili da capire ma molto belle, pensava. Profonde, in effetti. «Oh, sono così orgogliosa di Marianne» disse eccitata. «Sto pensando di chiamare qualche vecchia amica di Mt. Ephraim. Finalmente mia figlia è stata riconosciuta da una persona di qualità.» ** La sera dopo ci fu l'"incidente" tra me e papà. Per la cronaca, credo di sentirmi in colpa: da parecchio tempo si verificavano "incidenti" che avevo sopportato in silenzio. Intendo mesi, anni di mio padre che mi dava ordini, metà delle volte in tono sarcastico, come non aveva mai fatto con Mike o Patrick. Il che mi feriva quanto l'essere trattato da mio padre alla stregua di un cane. Anzi, peggio: papà aveva un debole per il povero Foxy, quasi cieco. Non avrebbe mai usato sarcasmo con Foxy! La sera dell'11 giugno, una giornata fatta di acqua e vento e vuoto, per coincidenza un mese esatto prima del mio diciottesimo compleanno, la vecchia scalcinata station wagon di mamma si ruppe in via definitiva e crepò. Era andata a fare commissioni a Marsena e il motore schiattò, per fortuna di mamma praticamente di fronte alla casa di Jimmy Ray Pluckett e di sua moglie Nanci, reverendo e reverenda della Nuova Chiesa del Cristo Guaritore di Marsena, stato di New York (i Pluckett avevano preso entrambi i voti e la chiesa era affidata a entrambi), e già prima che il motore della Buick smettesse di sputacchiare Jimmy Ray era corso fuori a offrire assistenza. Era un uomo alto slanciato cosparso di lentiggini, di un'età indefinibile tra i trenta e i cinquant'anni, in calzoncini cachi e maglietta senza maniche. Non solo chiamò immediatamente un carro attrezzi per mamma, ina quando il meccanico diede la brutta notizia che il motore era "impossibile da riparare", Jimmy Ray e Nanci riportarono mamma a casa, un
viaggio di otto chilometri; e Nanci, una donna bassa e grassottella con occhi vividi, si offrì di accompagnare mamma ovunque dovesse andare il giorno dopo, e quello dopo ancora; dicendo, con una franchezza infantile, che mamma aveva l'aria di non poterne più del collare che portava. «E io so cosa significhi un collare stretto stretto» disse Nanci Pluckett, carezzandosi il collo con aria meditabonda. «Devo confessare di essere già stata sposata. Non con un uomo cristiano.» Con grande imbarazzo dei Pluckett, mamma scoppiò in lacrime. Non era abituata a essere trattata con tanta sollecitudine, disse, da parecchio tempo. Poi, poggiando la mano sulle labbra, battendo palpebre stupefatte davanti a quei nuovi amici: «Oh mio Dio, che cosa ho detto? Non era quello che intendevo. È solo ridicola autocommiserazione». I Pluckett lasciarono a mamma il loro biglietto da visita, che li identificava come il reverendo e la reverenda, e le dissero di chiamarli, in qualsiasi momento. E di fare un salto alla chiesa del Cristo Guaritore, che stava sul lato opposto della strada rispetto al punto in cui era morto il motore di mamma. Quella sera papà saltò la cena, non telefonò per dare spiegazioni, arrivò a casa verso le dieci, truce e con il passo pesante e con nessuna voglia di sorprese. Ovviamente aveva visto che mancava la Buick dal vialetto e naturalmente non ne era contento. Lo sentii discutere del problema con mamma, all'inizio con una certa calma e poi con maggiore urgenza: la voce di papà si alzò di volume, al ritmo martellante dell'accetta che taglia la legna. Non ascoltare. Restane fuori. Non potrà davvero dare la colpa a lei, no? Ero nella "mia" stanza in un angolo sul fondo della casa, una stanza che aveva all'incirca le dimensioni della vecchia vasca con le zampe che avevamo alla fattoria, e avevo alzato il più possibile i vetri delle finestre, per cui la sera pareva essere entrata nella stanza. Sdraiato sul letto, ascoltavo la radio a volume basso e sfogliavo alcuni tascabili che mi ero portato ("presi in prestito") dal Miracle Mart dove lavoravo quattro pomeriggi a settimana: un manuale Con lo zaino sulle spalle tra le montagne - Un'odissea personale, una "biografia fotografica" di John F. Kennedy, Guida al college Lovejoy. Spesso leggevo in quel modo, tre o quattro cose per volta. Persino le riviste scientifiche e i libri di Patrick di cui mi ero appropriato, perché ero troppo irrequieto e la mia mente troppo disordinata per concentrarmi su una sola lettura. Avevo dato un'occhiata alla Poesie scelte di Penelope Hagström e avevo ammesso con mamma che erano difficili da capire, però forti e chissà, magari persino profonde.
Dopo un po' non mi fu più possibile fingere di non sentire. Mio padre, prepotente e ubriaco, che maledice mia madre perché lui è diventato un perdente, un fallito, è a un passo dalla bancarotta e l'intero mondo aspetta di saperlo. Così corro da loro talmente spaventato che tremo tutto e proprio allora papà deve avere spinto o colpito mamma, c'è il suo urlo di dolore: «Oh! Michael» e lei cerca di fuggire, esce dalla porta laterale dietro la tettoia di lamiera e papà la abbranca, le strappa una manica della camicia, le tira i capelli. «Dio ti maledica, stammi a sentire, per una volta sola mi starai a sentire!» ma mamma gli sfugge, e papà è alle sue spalle, e nascosti sotto l'angolo della colazione Foxy e Stivaletti abbaiano di terrore. Attraverso di corsa la cucina, esco. I miei genitori lottano avvinghiati, ansanti, mamma piange, io strattono papà per il braccio, non si tocca un uomo come Michael Mulvaney ma io gli sto tirando il braccio grosso, muscoloso: «Non fare del male alla mamma! Sei ubriaco! Lasciala stare!» e papà mi mostra i denti, una vena gli si è gonfiata sulla fronte, il suo viso rosso sudato sembra una maschera, una di quelle maschere demoniache della Polinesia che ho visto in un libro, e con un braccio come stesse caricando sul camion una cassa di tegole mi lancia via, mi scaraventa contro un lato della casa, e mamma implora: «No. No. No. No. Michael, no». Qualcosa ruggisce nelle mie orecchie ma mi butto contro papà, colpisco con pugni che non hanno la forza di opporsi a ciò che hanno di fronte, il semplice peso di mio padre, novanta chili così compatti, taurini. Ormai sono alto come papà, però peso una ventina abbondante di chili in meno, e lui praticamente ride di me, sprezzante, colmo d'odio. «Chi credi di essere! Stronzo! Non sei niente! Tu e i tuoi fratelli! Piantare in asso vostro padre! Insultare vostro padre! Tutti quanti voi, bastardi ingrati!» Il suo pugno pesantissimo sulla mia tempia, mi fischiano le orecchie, all'improvviso scivolo giù lungo la parete della casa, crollo sul pavimento in cemento della tettoia, mi tocco esterrefatto la faccia che è viscida di sangue. E mamma, china su di me, piange: «Oh Judd, oh amore, sei ferito?» e papà se ne va, disgustato. «Mi date il vomito, tutti e due. Mi sentite? Mi date il vomito. Prendi in trappola un uomo, come un topo in una tagliola, bloccagli la testa in una morsa, avvolgilo nel filo spinato del cazzo...» La sua voce si allontana, continuando a borbottare. Non tocca più mamma, per fortuna, perché non riuscirei a fermarlo. Potrebbe prendermi a calci, calci, calci e io non avrei nemmeno la forza di strisciare via. Invece fruga nelle tasche dei calzoni in cerca delle chiavi dell'automobile, gli ca-
dono, le cerca a tentoni sul cemento bofonchiando parolacce, si scaraventa sulla Lincoln e a marcia indietro, sbandando, si immette sulla strada, con i due pastori tedeschi psicopatici della casa accanto che abbaiano furibondi nella sua scia e alle spalle mie e di mamma, in cucina, i nostri cani uggiolano, in quel terrore canino implorante e impotente che sai già avrà l'odore del piscio, quando sarai abbastanza vicino. Solo Dopo quella sera, me ne andai. Avrei vissuto da solo a Marsena, dissi. Avrei portato con me Stivaletti, mi sarei preso cura di lui adesso che era vecchio. Sì ero forte abbastanza. Lo potevo fare. Mai più sotto lo stesso tetto con Michael Mulvaney Sr. In realtà mi sembrava che Michael Mulvaney Sr. fosse morto e un altro uomo ne avesse preso il posto. Non gli somigliava nemmeno troppo, e forse era un bene. Avevo il mio lavoro al Miracle Mart, e in seguito ne avrei avuto uno pagato meglio al Milk Jug, e ancora più tardi (per quanto all'epoca mi fosse impossibile prevedere tanta fortuna) un impiego part-time al Marsena Weekly Packet, dove il caporedattore era fratello dell'insegnante d'inglese del liceo con cui avevo fatto amicizia all'ultimo anno di scuola: mi misi a scrivere, a fare il reporter, e il nome Judd Mulvaney apparve stampato su carta, e mi pagavano addirittura. Al di là di questo, mi sarei diplomato con il massimo dei voti al liceo di Marsena, sarei andato all'università, sarei scomparso. Solo, all'età di nemmeno diciotto anni. Mamma pianse, pianse. Non fu un congedo facile come lo sto facendo sembrare. Perché non c'è nulla tra gli esseri umani che non sia complicato ed è impossibile parlare di esseri umani senza semplificare e procedere per approssimazioni. Mamma pianse ma mi aiutò a fare le valigie. Mi implorò di inginocchiarmi con lei e pregare assieme per chiedere a Dio se fosse la cosa giusta da fare e io, molto calmo, rifiutai. «Siamo al di là delle preghiere» dissi. «Siamo arrivati al di là delle preghiere molto tempo fa.» Pensai che avrebbe protestato, invece crollò a sedere sull'orlo del mio letto e cercò di sorridermi. Con voce rauca disse: «Sì, forse è meglio così. Finché lui non tornerà in sé. Un giorno sarà di nuovo lui. Tu lo sai, vero?». Mi fissai le punte delle scarpe. Che cosa sapevo? Ero un ragazzo arrogante e spaventato.
«Tuo padre ti ama, tesoro. Ama tutti voi, questo lo sai, no?» «Non so che cosa so.» Si dice che in una famiglia il figlio minore non ricordi molto bene se stesso perché ha imparato ad affidarsi ai ricordi di altri che sono più anziani e quindi hanno autorità. Se i suoi ricordi entrano in conflitto con i loro, vengono scartati. Ciò che ritiene la sua memoria è in realtà un ammasso di ricordi altrui, testimonianze incrociate di cose successe prima che lui nascesse, mischiate a cose accadute dopo la sua nascita, lui compreso. Quindi, Non so che cosa so non era un commento borioso. Era la pura verità. «È solo che a volte perde il controllo. Appena avrà rimesso in piedi la ditta e ricomincerà a lavorare, sai quanto gli piaccia lavorare, tornerà a posto. Il bere è solo momentaneo. È come una medicina per lui, come avesse un'emicrania terribile e dovesse anestetizzarsi, questo almeno lo puoi capire, no, Judd? Al posto suo potremmo fare lo stesso. È un brav'uomo, onesto, che vuole solo provvedere alla sua famiglia. Mi ha detto quanto gli dispiaccia, e lo direbbe anche a te, però... Sai com'è fatto, come sono fatti gli uomini. Ti ama qualunque cosa dica o faccia, questo lo sai, giusto? Ha subito tante pressioni che è come gli avessero stretto in una morsa la testa, il cranio. Una volta, molto tempo fa, ho letto un articolo su un italiano che aveva avuto un terribile, tragico incidente su un cantiere. Gli si era rovesciata addosso una colata di cemento... Mi pare che il titolo fosse Cristo tra i muratori. Oh, non ho mai dimenticato quell'articolo. Così vero, così terrificante. Quel pover'uomo intrappolato nel cemento che si induriva e lo stritolava a morte, gli spezzava il cranio e le ossa, e nessuno poteva fare qualcosa...» Mamma parlava sempre più in fretta, sempre più ansante, e io avevo voglia di prenderle le mani e tranquillizzarla. Pensando Cristo è chiunque e nessuno. Pensando Magari con il tempo l'amore si logora. Magari è un bene. Probabilmente mi misi a piangere anch'io. Ma non avrei cambiato idea. Feci promettere a mamma che mi avrebbe telefonato o sarebbe venuta da me la prima volta che papà si fosse ubriacato, o fosse uscito di testa, o l'avesse minacciata. Non aspettare che ti picchi, le dissi. Lei promise di farlo. Era convinta che non ci sarebbe stata una prossima volta perché quando lui era tornato si vergognava tanto, e aveva una tale paura di ciò che aveva fatto, comunque sì, promise. E alla fine mi inginocchiai con mamma, per un'ultima volta, e pregammo assieme in silenzio nella stanzetta soffocante sul retro della "casa rurale a livelli sfalsati" di Post Road, la nostra ultima casa comune, anche se non fu mai una casa. Foxy e Stivaletti si strinsero a
noi, premettero contro i nostri corpi i nasi umidi e ansiosi, implorando Anche noi! Anche noi! Non scordatevi di noi! Ma mamma non mi chiamò mai. Il 21 giugno, il primo giorno d'estate, papà presentò al tribunale civile del distretto l'istanza di fallimento. Aveva dovuto assumere un altro avvocato. Inevitabile. I beni dei Mulvaney vennero immediatamente "congelati", la nuova casa venne rimessa in vendita. Solo anni dopo avrei scoperto quali umiliazioni avessero dovuto subire i miei genitori. Anche il loro matrimonio cominciò a sgretolarsi, in modi che non conoscevo e non volevo conoscere. Perché all'improvviso potevo contare soltanto su me stesso! Avevo temuto di trovarmi solo, ma non c'era tempo per la solitudine nella mia nuova esistenza. Vivevo in un monolocale arredato (con gabinetto e doccia) al secondo piano, l'ultimo, di un vecchio grande edificio rivestito di assicelle di legno nella terra di nessuno del Sud di Marsena. Vicino al deposito ferroviario, nemmeno due chilometri dal liceo. Un tempo, tanto tempo prima, l'edificio era un hotel, il Marsena Inn. La maggior parte degli inquilini erano famiglie che tiravano avanti con il sussidio di sussistenza, negli appartamenti più grandi a pianterreno. Il rivestimento esterno era ormai del marrone dell'erba bruciata dall'inverno; strisce trasparenti di nastro adesivo, residui dell'inverno trascorso, penzolavano ancora da alcune finestre. Una veranda cadente per l'intera lunghezza della casa, con tetto e pilastri sepolti sotto un rampicante arancione infestato dagli insetti. Il custode viveva con moglie e figli a pianterreno; la moglie aveva messo sulla veranda vasi di gerani e una manciata di macilenti arredi in vimini, un tappeto. C'erano fili per il bucato dappertutto e panni sempre stesi ad asciugare, tranne nei giorni di pioggia. Uno degli inquilini più anziani allevava polli arruffati nel cortile sul retro. Erano tutti Red di Rhode Island però avevano un'aria malata, somigliavano a vecchi piumini per la polvere, spennacchiati sulla testa e sul dorso. Due galletti tozzi regnavano su una ventina circa di galline, ed entrambi avevano un aspetto disastrato: creste infiammate, zampe squamate. Nei giorni di pioggia, e quella fu un'estate molto piovosa, un puzzo terribile si alzava dal pavimento fangoso del loro pollaio dove becchettavano, becchettavano, becchettavano com'è tipico dei polli fino al tramonto; però a me non dava fastidio, ero un ragazzo di campagna abituato a quegli odori.
E ben presto sarei diventato amico del vecchio che allevava i polli. E gli sarei piaciuto. E avrebbe tenuto compagnia a Stivaletti quando io non c'ero. Mi chiamava Juddy boy, a volte Figliolo, quando non ricordava di preciso il mio nome. Il cavallo bianco Si era sposato giovane, era quella la sua storia. Non sai quale sarà la tua storia finché non ti giri a guardare indietro. Perché si era innamorato di una ragazza che aveva abbastanza forza da riuscire a farlo rimanere fedele. E da lei aveva voluto figli che facessero da zavorra, impedissero alla sua ondeggiante barchetta di perdere la rotta, trascinata via dal primo mare grosso. Un maschio, un altro maschio, una femmina e un terzo maschio. Le loro minuscole braccia e gambe calde, pulsanti, la pelle incredibilmente morbida, i visi gonfi d'amore per papà perché adesso lui era papà ecco cos'era, e li stringeva a sé, li proteggeva. Dio se li aveva amati! Quei figli. Il primo, battezzato con il suo nome, lo aveva un po' spaventato, tanto forte era stato l'amore, e anche l'amore per la donna, così potente che aveva sentito il panico toccargli la base della spina dorsale come le dita di un estraneo. Lo hai fatto tu, Mulvaney? È tuo figlio? Responsabilità tua per il resto della vita? Ma poi tutto si era sistemato. Era la vita. La vita americana. Guardati attorno, tutti si sposano giovani, c'è il boom economico, il mondo intero osserva stupito, gli Stati Uniti d'America dopo la Seconda guerra mondiale stanno crescendo, crescendo come il fungo della bomba atomica. Il cielo è il nostro limite! Quaranta milioni di bambini americani previsti per gli anni cinquanta. Era soltanto la vita, la vita normale, ed era bella. Come disse Dio scrutando la propria creazione nel giardino dell'Eden, era una cosa buona. E poi, scomparsi. I Mulvaney che portavano il suo cognome, non solo i maschi ma anche la femmina. (Anzi, era stato lui ad andarsene. Aveva levato le tende, gettato qualche cosa sull'automobile, si era trasferito a Yewville. A un certo punto, le situazioni diventano insopportabili.) La vita aveva cominciato ad accelerare, si era messa a correre sempre di più, e lui era stato colto di sorpresa. E non era nemmeno vecchio, maledizione, poco più di cinquant'anni. All'improvviso, la sua barchetta era finita in acque mosse, nemiche. Venti di tempesta, ondate giganti che gli avevano fatto perdere il controllo
dell'imbarcazione. E sopra, in alto, su un ponte sotto cui avrebbe dovuto passare, c'era suo padre, il padre che non vedeva da una vita. Il ponte era uno dei vecchi ponti di Pittsburgh sopra il fiume Allegheny; ne riconobbe la forma scura, gibbosa, il profilo incombente, e riconobbe il padre, stupefatto nel constatare che non fosse anziano ma avesse la sua stessa età. Suo padre urlava contro di lui, la voce era sconsolata ma rabbiosa, dopo tutti quegli anni ancora rabbiosa, e la mascella stretta nella rettitudine testarda inviolabile dei dannati, e il pugno era levato. Vai all'inferno, allora! Non sei figlio mio. La maledizione del padre! Michael Mulvaney Sr. aveva vissuto tutta l'esistenza adulta nell'eco della maledizione del padre. Così anche lui aveva cacciato la figlia, non con una maledizione ma in nome dell'amore. Ne era convinto, lo avrebbe giurato in punto di morte: era stato amore. E quanto è strano il tempo. Dopo essersi allontanato da riva, a navigare trasportato dalla corrente del fiume sotto il ponte e poi condotto a quello che sembrava mare aperto, come se in effetti non fosse stato l'Allegheny ma l'inizio di un ampio scuro mare coperto di nubi, un luogo che non sapeva riconoscere. Dove diavolo sono? Chi sta prendendo queste decisioni? Dopo trent'anni, di nuovo un'esistenza da scapolo. Però adesso il mondo non era più quello di uno scapolo. Non il mondo della prima età adulta di Michael Mulvaney, quando aveva mostrato il muso duro al vecchio, Vacci tu all'inferno! e aveva lasciato Pittsburgh per sempre. Adesso regnava una confusione di tempi, di luoghi. Era come passare da un canale televisivo all'altro: non sapevi mai di preciso dove fossi, o quanto tempo ci fossi rimasto. Quanto aveva pianto, pianto Corinne. Non era da lei, e lo aveva spaventato. Il primo giorno che tutti e tre avevano trascorso nella casa nuova di Marsena, dopo che Corinne si era lasciata alle spalle l'eccitazione maniacale dei preparativi del trasloco, il grande sforzo. Aveva pianto come una bambina inerme Dove sono i nostri alberi? Oh Michael, dove sono i nostri alberi? Quasi non se ne fosse accorta sino ad allora, non si fosse permessa di guardare, di capire che cosa fosse la nuova proprietà: un pezzetto di terra che non arrivava a un acro. Così lui si era completamente sbronzato, l'aveva lasciata là a piagnucolare. A cosa sarebbe servito che si mettessero a lamentarsi tutti e due come
vitelli malati? Pensava: Un uomo ha diritto a un po' di libertà, Cristo. Un congedo. Se voleva bere, avrebbe bevuto. Non ne poteva più di sentirsi colpevolizzato ogni volta che apriva una lattina di birra, o restava fuori e saltava un pasto, o pronunciava "invano" il nome del Signore facendo sobbalzare la moglie cristiana. Non era sua madre, Cristo. Il primo posto in cui visse fu un appartamento ammobiliato abbastanza ampio che dava su Outwater Park, a Yewville. Il secondo fu un appartamento più piccolo di Market Street, a New Canaan. Il terzo fu una stanza e mezzo di East Street, a Port Oriskany. Non sarebbe mai più tornato nella valle di Chautauqua; per lui ormai era una regione morta. Lavorava dove poteva. Quando poteva. In nero, a ore. Naturalmente, all'inizio ebbe grossi problemi relazionali, d'adattamento. Al suo nuovo status, non più datore di lavoro, com'era stato per quasi trent'anni, ma dipendente. La sensazione di entrare in ascensore e l'ascensore non c'è, c'è solo il pozzo. All'inizio, tentò di trovare lavori manageriali, posizioni di rappresentanza. Ma non c'erano posti di quel tipo disponibili, almeno per lui. L'espressione belligerante, le labbra dure, tese. Una volta si era intravisto in una finestra: sembrava un luccio. Nevrastenico. Impaziente, furibondo. Sorrisi forzati. Sogghigni da pesce predatore. Lo inquadravano molto in fretta: una sola occhiata a quell'aspirante manager che entrava in ufficio non del tutto rasato, con i vestiti leggermente spiegazzati, lo sguardo ferito imbronciato furioso, da luccio. Mi spiace signor Mulvaney, quell'incarico è già stato assegnato. Una volta, a Port Oriskany, un giovanotto con gli occhiali fece un sorrisetto furbo nel pronunciare quelle parole Mi spiace signor Mulvaney, quell'incarico è già stato assegnato, però Michael Mulvaney non scappò via come un cane preso a calci, si protese tremante d'indignazione sulla scrivania del tizio ed esibì alla faccia del bastardo la mascella cosparsa di peluria e i denti snudati. Sì? Assegnato a stronzi come te? Quella storia: quante volte l'avrebbe raccontata, per il resto della vita. In quanti bar, sempre provocando risate. Grasse genuine risate. Ridevano persino le donne, e lui era un uomo che adorava far ridere le donne. Gli aveva fatto bene vedere quel bastardo finocchio farsi piccolo piccolo, la veloce paura nei suoi occhi. Uno dei nemici. La rispostaccia non gli aveva procurato un posto in quell'ufficio o un lavoro altrove che gli per-
mettesse di portare camicia fresca di lavanderia, giacca e cravatta, lucide scarpe di pelle, ed essere chiamato "Signor Mulvaney". Lui, che un tempo tra beni e capitali arrivava quasi a due milioni di dollari. Però era stata salutare per la sua anima. Due anni, tre, cinque. Aveva perso il conto. Ronald Reagan era presidente degli Stati Uniti adesso e il povero triste Jimmy Carter era non solo in pensione ma dimenticato. Soppiantato come non fosse mai esistito. Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Lavorava dove poteva, dove lo assumevano. Leggeva sui quotidiani le colonne di CERCASI MANO D'OPERA MASCHILE. Alcuni datori di lavoro lo conoscevano, il che a volte era un bene, a volte un male. Era un operaio maledettamente in gamba però aveva un caratteraccio. Era bravo a dare ordini ma non troppo bravo a riceverli. Se non poteva essere caposquadra, le cose non sempre funzionavano. I colleghi per la maggior parte erano più giovani. Certi giorni non era al massimo della forma fisica. A tossire per le maledette sigarette che non riusciva ad abbandonare, il viso gonfio con un'aria lessa, la velata nebulosità di occhi che non erano disposti a svelare il beat beat beat dei postumi di una sbornia. E le articolazioni gli davano problemi: dita, spalle, ginocchia. E aveva bisogno di occhiali ma non si decideva mai a comperarli. Lavorava dove e quando poteva. Lasciava capire ai datori di lavoro di avere grande esperienza di tetti, rivestimenti esterni, edilizia, ma non entrava mai nei particolari. L'ultima cosa che vuoi far sapere al bastardo è chi sei. La tua vera identità. Nessuno vuole assumere qualcuno che, se al mondo ci fosse giustizia, meriterebbe di stare dietro la scrivania a decidere le assunzioni. Per un po' fu caposquadra per una ditta di Elmira che si occupava di tetti e rivestimenti: un lavoro pagato decentemente, e nessuno conosceva il cognome Mulvaney. Però c'erano "divergenze caratteriali" con il padrone, così Michael si spostò a Cheektowaga, a Batavia, a Rochester. Non poteva sperare di entrare nel sindacato; era troppo vecchio, e poi bisogna conoscere le persone giuste. I bastardi si tengono ben stretti i sindacati. L'esatto motivo che, da datore di lavoro, lo aveva spinto a odiare i sindacati. Lo rendevano furibondo, quei figli di puttana che dicevano a lui, Michael Mulvaney, cosa dovesse fare. Quali stipendi pagare, straordinari e assistenza medica e pensione e malattia e tutto il resto. Stronzate. Nessuno che sia dotato di integrità e orgoglio può tollerare simili intrusioni. Sapete che cosa sperava? Che Reagan facesse un culo così a tutti quanti.
A cominciare dai controllori di volo. Via tutti. Certo, credeva nel libero mercato, nella "deregulation", se era ciò che sembrava, ciò che diceva di promettere. La vita è cane mangia cane, perché non ammetterlo? Lo avevano privato dell'attività che aveva impiegato una vita a costruire, gli avevano preso la casa-fattoria, la famiglia. Lo avevano succhiato e buttato come un guscio vuoto. I suoi nemici avevano fatto quadrato contro di lui, lo avevano portato alla rovina. Beati i miti, beati i puri di cuore. Poveri cristiani talmente illusi che ti viene voglia di ridergli in faccia. Porgere l'altra guancia? Ti bastonano. Michael! Non lo pensi sul serio. Indurisci il tuo cuore a Dio, sai di non essere un uomo del genere. Proprio per questo l'aveva lasciata. Aveva buttato le sue cose sulla Lincoln ed era scappato. Una donna troppo buona per lui fin dall'inizio e l'amore che brillava nei suoi occhi non lo meritava e non lo aveva mai meritato e lo stress di portare avanti l'inganno era diventato eccessivo. Lui che era stato cacciato nel mondo dalla maledizione di un padre, a diciotto anni. Ti amo tanto, Michael. Vorrei poterti dare la pace, pace al tuo cuore turbato. Sì, sapeva che lei pregava per lui; praticamente sentiva le vibrazioni nell'aria. Avrebbe voluto premersi le mani sulle orecchie e gridare, in direzione di Marsena Basta! Smetti, arrenditi! Lasciami libero! Almeno, credeva che lei fosse a Marsena. Sperava ardentemente che non si fosse trasferita a Salamanca, a vivere con quella vecchia zitella bisbetica, sua cugina Ethel. Forse era andata a vivere con Marianne. Un'idea insopportabile, come un fascio di luce troppo forte puntato sugli occhi. High Point Farm. Il ricordo, la casa lavanda in cima a una collina alberata. Nemmeno quello sapeva affrontare. Fu a Rochester che la sua propensione al bere crebbe al punto da non essere mai quel che si direbbe sobrio e mai (riteneva) quel che si direbbe ubriaco. Se beveva solo fino a quel livello riusciva ad anestetizzarsi, e il rischio di lampi di ricordi di High Point Farm diventava minimo; ma se beveva troppo, se gli si rivoltava lo stomaco, se vomitava e si strozzava, il rischio esisteva. Dopo, la sensazione di qualcosa di spugnoso che gli si gonfiava in testa. Non poteva sopportarlo! La fattoria negli ultimi giorni. Il furgone era
stato venduto. L'aia era deserta. Le erbacce crescevano ovunque. La maggior parte dei capi di bestiame e di pollame non c'era più; i nuovi proprietari avevano detto di "diffidare" degli animali dei Mulvaney, preferivano popolare la fattoria con i loro. Non gli si può fare una colpa, diceva Corinne, hanno paura di... be', malattie. Però, Dio li dannasse all'inferno, Michael Mulvaney li riteneva colpevoli. Nel suo ultimo giorno a High Point Farm si era aggirato per la proprietà, solo. Aveva visto cinque o sei cervi brucare nel pascolo dietro, entrare nel frutteto. Lo stagno aveva un'acqua talmente bassa, era così strangolato da tife e giunchi, da essere ormai una semplice depressione nel terreno. E che schifoso odore di putrefazione emanava: era chiaro che dentro doveva esserci qualcosa di morto, magari un cervo abbattuto dai cani di cui restava solo una parte di carcassa. Però in realtà lui non lo sapeva, e non lo voleva sapere. Se ne occupassero quegli schizzinosi dei nuovi proprietari. A essere precisi, Michael Mulvaney si era trasferito tre giorni prima di Corinne e Judd, prima che arrivasse il furgone del trasloco. Non sopportava l'idea di essere testimone della fine. Aveva addotto la scusa di affari da sbrigare a Marsena; del trasloco vero e proprio, dei dettagli potevano occuparsi Corinne e Judd; lui si sarebbe dato da fare con i preparativi alla casa di Marsena. Nella nuova abitazione dormiva sul pavimento, in un sacco a pelo di uno dei suoi figli. Aveva portato con sé Foxy, per avere compagnia. Assieme a una bottiglia nuova da mezzo litro di whisky. Povero Foxy: uggiolava e rabbrividiva in quel posto nuovo, ignoto. Perché il suo padrone aveva un comportamento tanto strano? Perché il suo padrone era solo, a dormire sulle assi del pavimento? Il setter che Michael ricordava cucciolo e poi giovane, cane snello con occhi di un marrone liquido adesso si era appesantito, ci vedeva poco, perdeva spesso l'equilibrio; tendeva a usare poco la zampa anteriore destra, anche se secondo il veterinario non aveva niente che non andasse. Era solo un cane arrivato alla vecchiaia. La vita di un cane è una versione accelerata della nostra. Dopo un po', diventa difficile esserne testimoni. «È una vita da cane mangia cane, eh, Foxy? Tu sei un cane, ma fino a questo momento sei stato risparmiato.» Ti amo tanto, Michael, tesoro. Perché adesso ti è così difficile amarmi? Parole che venivano sussurrate, mai dette ad alta voce. E solo al buio. Quando, nella finzione del sonno, lui poteva fingere di non sentire. Però sentiva, e ne fuggiva; non voleva risentirle, e cominciò a dormire in
altre parti della casa. Una moglie diversa avrebbe potuto urlare Sei alla bancarotta! Fallito! Impotente! Ma mai Corinne, che gli aveva affidato la propria vita e di certo sarebbe stata disposta a morire per lui. Non aveva sacrificato la loro unica figlia alla sua cieca, rabbiosa indignazione? Così Michael smise di salire in camera da letto, di dormire in quel letto, settimane e anche mesi prima del trasferimento a Marsena. Molto prima di dichiarare ufficialmente fallimento. Forse non c'entravano nulla il crollo della Mulvaney Tetti e coperture e l'umiliazione pubblica, forse era il semplice logorarsi del loro matrimonio. Come uno degli orologi "d'antiquariato" di Corinne che un certo giorno smettevano di ticchettare. Spesso Michael si addormentava sul divano nella stanza di famiglia, o nella camera di Mike dove il letto era ben fatto, e ogni superficie libera da polvere, nel caso il loro figlio marine tornasse a trovarli. (Era tornato soltanto due volte in tre anni. Per brevi visite nei weekend.) Dormiva sopra le coperte, inalando un debole malinconico odore di cane: il povero Seta, una presenza spettrale. Veleggiava nel sonno in mezzo a lucidi trofei sportivi e targhe, fotografie in cornice della squadra firmate da tutti i ragazzi, ritagli di giornale plastificati, titoli cubitali consacrati a MULO MULVANEY. Nello stato quasi mistico di consapevolezza che accompagna il giusto grado di ubriachezza, Michael Mulvaney arrivò a capire una cosa: L'America è il mondo dei giovani, ma solo se sei un vincitore. Una volta si svegliò con i piedi impigliati nella coperta, sul chi vive, agitato. Confusamente convinto di essere Mulo Mulvaney. Oh, un ragazzo bellissimo, però così giovane. Uno stronzetto. Per rimettere al suo posto uno del genere ci vogliono un paio di pugni alla mascella. ** Sposato ma non più sposato. Marito e padre ma non più. Aveva portato con sé dalla casa di Marsena, distrattamente buttata in una scatola assieme a carte finanziarie e documenti, una manciata di fotografie prese dagli album di Corinne. Se era perfettamente sobrio non osava guardarle; se era ubriaco non aveva bisogno di guardarle. C'erano donne che nutrivano simpatia per lui, donne a cui offriva da bere raccontando, non con amarezza ma con stupore, la sua vita passata; che si poteva riassumere, per gli ultimi trent'anni, in una sola parola: tradimento. Esattamente in che modo era stato tradito? Erano affari suoi. Diceva, Io non discuto con nessuno la mia vita personale.
A Rochester, lavorò per la Tetti e Rivestimenti Ace, non con un impiego regolare ma quando lo chiamavano. La ditta era diretta da un tipo dedito a tattiche disoneste: barava sui preventivi, gonfiava i conti, ricorreva a materiali di qualità inferiore quando sapeva di potersela cavare. Michael Mulvaney vide, e vide che anche gli altri operai vedevano, ma non aprivano bocca. La Ace assumeva gente non iscritta ai sindacati, c'era da ringraziarla. All'epoca, Michael viveva in una strada della zona sud, sopra il ristorante (anche da asporto) cinese Pagoda d'oro dove a volte mangiava riso con maiale e "chow mein" che erano i piatti meno costosi del menù e beveva da una bottiglia in un sacchetto di carta, discretamente posata al suo fianco nel separé. Era un uomo sulla cinquantina che pareva reduce da un'insolazione con occhi socchiusi, profondi solchi sulle guance, spalle e braccia toniche e muscolose, una florida pancia che cresceva sopra la cintola come un grosso feto. Non indossava abiti da operaio ma camicie di rayon, calzoni di gabardine. Non un berretto con visiera ma un cappello di feltro. Fumava una Camel dopo l'altra; pollice e indice della destra avevano macchie color itterizia. Un rabbioso umore nero lo poteva assalire scoppiando come i temporali improvvisi di quella zona dello stato di New York a sud del lago Ontario, ma quando era di buon umore era di buon umore e lo comunicava al mondo. Sorrideva al timido cameriere cinese che doveva essere un ragazzino sui quattordici anni, e se aveva soldi gli dava mance generose: un biglietto da un dollaro discretamente nascosto sotto il piatto. Alla Pagoda d'oro, seduto nel suo solito separé, si sentiva piovere in faccia la luce calda pulsante, di un rosa sbiadito, dell'insegna al neon in vetrina: la benedizione di un Dio distante e in rapido allontanamento in quell'enorme terrificante universo di cui parlava sempre suo figlio Patrick, con atroce pedanteria da studente, una vita prima. Patrick. Uno di quelli che avevano tradito. A soli undici anni ti scrutava con un cipiglio irritante. Partito per la chic Cornell e mai più tornato. Un mese prima della laurea avevano ricevuto da lui una secca comunicazione battuta a macchina su un foglio di carta con l'intestazione UNIVERSITÀ CORNELL FACOLTÀ DI BIOLOGIA MEMORANDUM. Le prime parole, uno sputo in faccia. Quando leggerete questo sarò lontano mille chilometri. Corinne era quasi svenuta: a quelle parole si era convinta che il ragazzo si fosse suicidato. E poi c'era Judd. Maledizione, allucinanti gli sbagli che aveva commesso con il figlio minore, che era diventato testardo e testa calda come il padre,
aveva lasciato la casa di Marsena e rifiutava di parlare con Michael. Se ne andasse pure. Se ne sarebbe pentito. Forse aveva già cominciato a pentirsi. Gli stava bene. E c'era Marianne. Poteva parlare dei maschi, i figli che lo avevano tradito, ma mai della figlia. Una volta aveva fatto zampillare sangue dal naso di una donna che si era messa a frugare tra le sue cose e si era imbattuta nel mazzo di fotografie spiegazzate e strappate e gli aveva sventolato in faccia una foto di Marianne chiedendogli se fosse sua figlia. Avrebbe anche potuto ucciderla, se non fosse stato così sbronzo. Marianne che amava più di tutti. Che gli aveva fatto più male di tutti. Lo aveva tradito. Non sempre riusciva a ricordare perché, di preciso. Ma c'era una ragione. Michael Mulvaney ha sempre le sue ragioni. Oh, ma lasciamo perdere Marianne. Facciamoci un altro drink. Fu alla Pagoda d'oro che lui e Mike Jr. mangiarono assieme. Per la prima volta da anni, e sarebbe stata l'ultima. Fine agosto del 1986. Come avesse fatto Mike a rintracciare a Rochester un padre sfuggente, il padre sfuggente non sapeva e non chiese. Era una serata di un'umidità sulfurea. Quasi trentadue gradi e un solo antiquato condizionatore a vibrare sul fondo dello stretto tunnel del ristorante. L'espressione di Mike Jr. nel guardare quel posto dove il padre devastato dagli anni lo aveva portato, direttamente sotto casa sua! L'espressione di Mike Jr. davanti al padre vecchio, disastrato. Occhi sbarrati, improvviso deglutire. Senza parole per un attimo. Si erano stretti la mano. Non si fa così? Mike Mulvaney adesso era un sergente dei marine, un adulto, in abiti civili stirati alla perfezione, con un taglio di capelli talmente preciso da sembrare scolpito in testa. Però quelli erano occhi da ragazzo, occhi da figlio spaventato nel rivedere Michael Mulvaney dopo tanti anni. «Non è esattamente il Blue Moon, eh?» Il vecchio padre rise ansante, guidò Mike a uno degli appiccicosi separé in plastica. Nell'aria chiusa c'era l'aroma di qualcosa di bruciato. Sedettero, e iniziò lo sforzo. Il grosso della conversazione cadde sulle spalle di Mike Jr. Era arrivato in auto da... l'informazione volò via, si perse nello strepitio del condizionatore. Era fidanzato e stava per sposarsi con... il nome della ragazza era qualcosa di allegro e vivace che finiva per y. Il matrimonio era fissato per... un giorno o l'altro. Michael Mulvaney, che in quello sceneggiato televisivo interpretava la parte del vecchio padre disfatto dall'alcol, annuì e grugnì e alzò le
mani a coppa attorno alle orecchie. Colpa del maledetto condizionatore; ogni tanto gli sfuggiva qualche sillaba. Dovevano avere ordinato qualcosa dal menù bisunto, perché arrivò cibo. Mike Jr., spendaccione, prese manzo alla Szechwan e gamberetti in salsa all'aglio e pollo del Generale. Il locale non aveva la licenza per gli alcolici, così il vecchio padre aveva portato la solita bottiglia di vino Gallo nel sacchetto. Lo versò in una delle due tazze da tè, e Mike ne voleva un po'? Grazie, no. Poco prima aveva respinto con un istante di esitazione la proposta di comperare una confezione da sei lattine di birra in fondo alla strada, da bere a tavola. Aveva spiegato che quella sera lo aspettava un lungo viaggio al volante per tornare a... ovunque fosse. «Allora. È bello vederti, figliolo.» «È bello vederti, papà.» Quegli occhi così simili a ciò che un tempo erano i suoi. Occhi di ragazzo. Che scrutavano il padre tra pietà, compassione, incredulità. Papà? Il mio papà? Quello è il mio papà? Michael Mulvaney? Sul tavolo vennero allungate foto Polaroid al padre dalle mani tremanti, o magari era il condizionatore a far sembrare tutto così tremolante? Papà le prese, le rimise giù, socchiuse gli occhi e sorrise. Difficile vedere in quella luce incerta, la sua vista non era più affidabile. Nemmeno era chiaro perché gli venissero mostrate quelle istantanee di sconosciuti allegri, perché quella transazione fosse importante e quale risposta ci si attendesse da lui. Quanto si prendono sul serio gli esseri umani! La cosa diventa perfettamente evidente quando ti chiedono di guardare foto di ignoti. Mike identificò X, Y e Z. La ragazza con il nome che finiva per y e qualcun altro. Mike era già sposato e quella era la sua nuova famiglia? Una ragazza carina, con la faccia tonda e capelli color caramello e labbra vivide. Sorrideva con tanta felicità da farti temere che le si potesse crepare il viso. Vitino stretto e seni pieni in uno sfolgorante vestito rosso che pareva liquido solidificato sul suo corpo. E con quella ragazza voluttuosa c'era Mike Jr., il bel marine Mike: le braccia l'uno attorno ai fianchi dell'altro, il sorrisone di chi ha vinto la lotteria. Altre scene di quello che sembrava un barbecue, uomini, donne, bambini sconosciuti, alcuni con i capelli color caramello e le facce tonde, i sorrisi felici dei pazzi portati in gita domenicale. «Molto carina» disse il vecchio padre disfatto, con un sospiro. Spinse le foto in direzione del figlio, dopo un discreto intervallo dedicato a cercare di decifrarle. Figlio e padre dalle mani tremanti mangiavano, o mimavano l'atto di mangiare. Cibo salato e gommoso, il sapore di qualcosa di bruciato. Alla
Pagoda d'oro portavano sempre tè in una teiera di stagno, per quanto sarebbe stato preferibile bere piscio caldo. Mike parlava, e suo padre dava la netta impressione di ascoltare, chino in avanti, la pancia schiacciata contro il piano del tavolo. In realtà era distratto dal desiderio di mantenere il buon umore in quelle difficili circostanze. Il buon umore quel giorno era iniziato presto, appena lasciato il letto. Un antidoto all'altro umore, che non era buono e che aveva un sapore acre di catrame. Non lavorava da un paio di settimane, aveva quasi finito i soldi. Anzi, li aveva finiti. Aveva avuto un incidente, era scivolato e caduto da una scala sul cemento praticamente fracassandosi la rotula, procurandosi danni alla colonna vertebrale e al collo. Naturalmente avevano detto che aveva bevuto ed era colpa sua, i figli di puttana. E il dolore a tutte le articolazioni, pesantissimo con il clima umido. E la sensazione di spugnosità nella testa. Ma niente di tutto quello lo avrebbe depresso, togliendogli il buon umore che meritava. La serata con l'unico figlio nato dal suo matrimonio che probabilmente lo amava ancora, o almeno lo sopportava. E mantenere il buon umore richiedeva concentrazione. Un esercizio rischioso come l'esibizione di un acrobata su un filo sospeso in alto: il minimo sbaglio o anche una sola esitazione potevano essere fatali. Così doveva concentrarsi sulla suddivisione di cibo e vino, vino e cibo, vino, cibo, e vino, ingeriti in discreta alternanza e successione. Anche se l'unica cosa importante era il liquido: tiepido, brusco, mandato giù con reverenza, a scendere dalla gola in quella che gli pareva l'ampia cavità del cuore, deserta, cavernosa come il Grand Canyon, e bisognosa di essere riempita. Gallo, rosso. Lasciava un retrogusto aspro, un po' nauseante, però costava poco, un paio di dollari a bottiglia. Faceva il suo dovere. Poi saltarono fuori quelle parole, senza preavviso. Come gli era successo con il figlio minore, Judd, quando lo aveva afferrato e scaraventato contro un muro. «Ehi, figliolo, guardi tuo padre come fosse un cane o qualcosa di simile.» Però sorrideva, ridacchiava guardando la faccia del figlio. Perché Mike Jr., colto di sorpresa, aveva un'aria terribilmente colpevole. Mike si affrettò a dire: «No, papà! E che diavolo...». Il bel viso dall'ossatura grande si fece rosso, proprio come sua madre: quel rossore improvviso, l'ammissione di colpa. Scrollò le spalle, scrutò accigliato altri clienti del ristorante. «È solo che a volte mi è difficile stare in posti del genere, nel mondo dei civili intendo... Non si tratta di te, papà. Alla base ci si abi-
tua a un'atmosfera diversa. Fuori dalla base, le cose sono...» Fissò una coppia vicina: la donna obesa, carnagione giallastra, uno straccio sgargiante avvolto attorno alla testa, a ridere e pescare noodles da una ciotola; l'uomo in maglietta sporca di vernice, capelli increspati, petto a tacchino, gengive scoperte, ubriaco. Nel separé alle spalle di Mike, un cinese anziano tossiva in spasmi prolungati, con rapidi secchi latrati che facevano tremare il separé dei Mulvaney. «Gente in disfacimento, mi spiego? Non hanno scopo. Nessuno sa che cosa diavolo faccia, o perché. Nemmeno perché sia vivo.» Lo tradì la voce, intrisa di disprezzo. Il vecchio padre disfatto ridacchiò: «Tu invece lo sai, eh?». Bastava avere la bottiglia ben diritta di Gallo appoggiata alla coscia. Era in forma, poteva cavalcare l'onda di qualunque cosa accadesse. «Esatto, signore! Io lo so.» «Cioè?» «Un marine porta a termine le proprie responsabilità, fondamentalmente.» «Cioè?» «Su base quotidiana, i suoi incarichi.» «Cioè?» «Quello che il suo ufficiale superiore gli dice di fare.» «Un brindisi a questa risposta.» La risata si espanse all'insù nella carne del petto del vecchio padre disfatto, la fece tremare. Sollevò la tazza da tè con le dita tremanti. Vedendo l'espressione dura del figlio, la disapprovazione del marine, disse allegro: «Ho sempre saputo che avrei dovuto fare il marine. All'età di quando ti sei arruolato tu, avevo tutto il necessario. Un culo duro, una testa ancora più dura. Però mi sono sposato, e alla tua età di oggi c'ero dentro fino al collo». Fece correre un rude veloce indice sotto il mento. E all'improvviso si chiese quanti anni avesse adesso suo figlio maggiore. Buon Dio, trenta? Trentadue? Il figlio fece una smorfia a segnalare un'allegria fasulla, oppure choc e disgusto alle parole del padre. Aveva già leggermente scostato da sé il piatto di indecifrabili grumi di cibo su un fondo di riso gommoso, mangiato solo per un terzo; lo allontanò di un altro paio di centimetri, come per distanziarsi anche dal solo ricordo. Tono di semi-implorazione: «Papà? Come ti dicevo prima, sono appena stato a trovare mamma e...». Ma il vecchio padre astuto era già balzato via. «Senti, figliolo, tu sei uno di quelli che sono stati mandati a... dov'era? Beirut? Teheran? A salvare
quegli ostaggi? Te lo ricordi? Il povero Jimmy Carter che manda ordini dalla Casa Bianca, qualche fesso di capo di stato maggiore che manda ordini dal Pentagono. A migliaia di chilometri di distanza in un deserto dimenticato da Dio uno stupido innocente ragazzo americano in uniforme muore di una morte orribile su un elicottero in fiamme. Portava a termine il suo incarico, eh? Quello che l'ufficiale superiore gli aveva detto di fare? Tu ci saresti andato?» Parole impastate come fossero intrise di catarro, però il punto era buono. Che quel ragazzo spavaldo provasse a negarlo. Risposta: «Papà, quelle erano unità speciali. Certo che sarei andato, se fossi stato uno di loro, qualificato. Bisogna rompersi il culo per entrare in quelle unità, è un onore. Una missione segreta come quella, contro il nemico, è un onore». Mike parlava in fretta, quasi imbarazzato al dover spiegare una cosa tanto ovvia.«Cosa mi dici di mamma? Forse sai che è tornata a Mt. Ephraim, in città. Ha trovato un lavoro da...» «No, no. Non sfuggire, figliolo.» Il vecchio padre astuto aggrottò la fronte come fosse un dibattito pubblico, due candidati politici in televisione. Aveva alzato la voce e altra gente nel ristorante si girò a guardare. «Gli iraniani avevano diritto di essere incazzati neri, secondo me. Avevano fatto la rivoluzione e rovesciato un dittatore, un porco torturatore, come si chiamava... Lo scià. E quello fugge dal paese con milioni di dollari e finisce negli Stati Uniti e naturalmente noi lo proteggiamo. Siamo imbecilli! Esattamente come in Vietnam, siamo imbecilli! Gli iraniani vogliono solo che gli venga restituito quel porco dello scià, per un processo e un'esecuzione capitale, magari prima anche un po' di tortura, più i soldi che lui e quel bel pezzo di donna di sua moglie hanno rubato, in cambio degli ostaggi, giusto? Io direi che avevano un argomento valido, no?» Mike cercò di restare calmo. «Papà, gli iraniani sono nostri nemici. Non abbiamo rapporti diplomatici con loro. Hanno commesso un'azione da nemici, un atto di terrorismo internazionale. Hanno rapito cittadini americani nella nostra ambasciata! Non ci si arrende ai ricatti dei terroristi, papà.» «Sì, però senti qui, figliolo. Fin dall'inizio della storia i militari hanno spedito giovani a morire per una causa o per l'altra e non si può essere certi che si agisca sempre contro "nemici". Sicuro, sul momento è una cosa grossa, sacrificare la vita per il tuo paese, onori e medaglie e cerimonie funebri e tutto quanto, ma sotto sotto si tratta solo di politici che danno aria alla bocca, giusto? Lo puoi negare? Il nemico diventa alleato dopo qualche anno. Guarda il Giappone e la Germania. L'alleato è il nemico. Il caso dell'Iran! Magari deve essere così, ma se uno ha una sola vita, è idiota a but-
tarla come tirasse i dadi.» Con quanta passione parlava Michael Mulvaney, viso surriscaldato, occhi che sporgevano dalle orbite. Lui che poteva andare avanti per giorni senza emettere più di qualche frase di circostanza o ingiurie. Ma sprecò l'effetto afferrando subito la bottiglia di Gallo, versando vino nella piccola tazza e bevendo. Mike mormorò, disgustato: «Cristo, papà, sei ubriaco». «Questa sarebbe una risposta? Una confutazione? Tu la chiami una confutazione? Ronald Reagan potrebbe fare di meglio, improvvisando.» «Ma non vuoi sapere qualcosa di mamma, Cristo santo? Di tua moglie?» «Faccende private, figliolo. Personali. Io non discuto la mia vita personale con nessuno.» «Sai che non fa altro che pensare a te? Da tutti questi anni? Si tiene informata su di te? Prega per te?» «No, no! No.» Il vecchio papà disfatto con la camicia sportiva di rayon spiegazzata, la barba di tre giorni e i radi capelli lucidi di sudore, fece un gesto automatico, confuso, quasi sperando di alzarsi dal tavolo per pura forza bruta, solo che era in un separé e così ricadde sul sedile, sussultante, ansimante. «Sono in licenza da tutto quello» disse. Emise una risata strana, spaventata. «Papà, mio Dio! Cosa t'è successo?» Il pompelmo spugnoso dentro la testa. Il dolore allo sterno. La visuale ondeggiante che sperava fosse colpa degli occhi e non del mondo oltre le punte delle sue dita. La cena era finita? La bottiglia di Gallo era quasi vuota. Il che significava che il buon umore avrebbe cominciato a smorzarsi, presto. Il vecchio padre disfatto anticipò l'imbarazzo del figlio marine che, mosso a compassione, gli offriva soldi, e lui sarebbe stato moralmente obbligato a rifiutare, però non sarebbe stato bello rifiutare l'offerta di un drink, no? Ma gli era stato offerto? «Volevi andartene? Dove vuoi andare, figliolo?» «Andarmene? E dove?» «Non hai detto...» «Detto cosa?» Oh, troppo sforzo. Il semplice sollevarsi dal sedile in plastica appiccicosa del separé era uno sforzo eccessivo. Avrebbe quasi potuto abbassare la testa, mettere la faccia nel piatto di riso gommoso, e dormire. Invece sorprese se stesso, come faceva spesso. Per esempio con le donne: avviando una conversazione con una donna che non conosceva, in un
bar, o un parco, o persino in strada, sentiva la propria voce sorprendentemente fluida, addirittura giovanile. «Mikey, ricordi quel cavallo bianco che avevate voi ragazzi? Tanto tempo fa, molto bello, cavallo bianco, criniera bianca. Apparteneva a uno di voi, mi pare. L'altra sera stavo cercando di ricordarmi come si chiamasse.» Mike scosse la testa. «Un cavallo bianco? Non mi sembra.» «Sicuro! Sì che lo avevamo. Dài, fammi qualche nome.» Come fosse una domanda profonda e non un'altra goffa tattica diversiva. Mike si accigliò e puntò gli occhi sul soffitto sporco di cacca di mosca che pareva di cartoncino e recitò i nomi dei cavalli scomparsi da tanto tempo da High Point Farm e probabilmente dalla faccia della terra. «C'è stato Crackerjack, il mio pony, poi Junior Jones, poi...» I nomi volarono via, confusi nello sferragliare del condizionatore. Il padre di Mike aveva tutta l'aria di ascoltare con estrema attenzione; aveva lo sguardo intenso ma appannato dell'ubriaco che si attacca al buon umore come chi stia affogando potrebbe aggrapparsi al fianco di una barca rovesciata, ma sostanzialmente Mike viaggiava da solo. «Prince, Rosso, Molly-O, Trifoglio... Devi avere venduto il cavallo di Judd appena prima di vendere la fattoria, esatto? Chi lo ha comperato?» Il vecchio padre disfatto fissò il figlio a palpebre socchiuse, perplesso. «Come diavolo faccio a sapere chi lo ha comperato? Chiedi a tua madre.» Ora di dirsi buonanotte, addio. La cena era finita. Forse era in programma un drink lungo la strada, il padre non ricordava. Disse: «Cena fantastica, torneremo» al timido cameriere cinese fermo a qualche metro di distanza, in attesa di sparecchiare. Questa volta, contorcendo il viso nello sforzo, riuscì ad alzarsi e districarsi dal separé, barcollando di lato. Dio, che fitta di dolore dalla base del cranio a quella della spina dorsale. Era un uomo malato, malato. Mike balzò in piedi con alacrità militare, mantenne eretto il vecchio. «Papà? Ehi? Tutto bene?» Ma il vecchio si era già ripreso e borbottando tra sé, oscillando, si stava dirigendo alla porta. C'era la vaga sensazione di un pubblico, di sguardi puntati e del desiderio (forse solo immaginato?) di veder crollare sul pavimento il vecchio disfatto, ma tutto ciò si rifiutò di accadere. Il figlio dovette fermarsi a pagare il conto; sul marciapiede, nel brodo grigio dell'aria, asciugandosi il viso sulle maniche della camicia, fregandosi furiosamente gli occhi, il padre ebbe il tempo di riprendersi, o quasi. Ma, oh Dio, il buon umore scorreva via veloce, come piscio su una gamba dei calzoni. Non appena il ragazzo, come si chiamava, fosse tornato da dov'era venu-
to, be', sarebbe stato un sollievo. Davvero troppo spossante amarli, o anche solo tenerli sulla retta via. Mike trottò al suo fianco. Praticamente gli torreggiò sopra. Gli afferrò entrambe le braccia con dita d'acciaio. «Meglio che ti riporti a casa, eh, papà? Per essere sicuro che non ti succeda qualcosa.» Il padre ansioso scosse la testa, no grazie, non ce n'è bisogno. Si vergognava di quel porcile di stanza sopra il ristorante cinese e poi magari c'erano sparse in giro cose femminili e in ogni caso di che s'impicciava il figlio? Di che si impicciavano tutti, se lui voleva strisciare via come un cervo colpito al ventre e morire solo nel bosco? Per lo meno Mike Jr. non era in uniforme da marine, non dava l'impressione che lo stesse arrestando. C'erano già abbastanza stronzi per strada a fissarli a bocca spalancata. Così discussero per un po'. Le nove passate e il cielo era ancora striato di luci come pallidi capillari in una carne nera di contusioni. Il padre che era in realtà Michael Mulvaney, una persona autonoma indipendente e non solo il genitore di un branco di figli, borbottava che doveva incontrare un amico in fondo alla strada, se ne doveva andare, ma grazie per la cena, figliolo. «Dobbiamo vederci più spesso.» Mike si mise a ridere come fosse una battuta, una gag da telefilm. Aveva estratto il portafoglio, stava offrendo un po' di banconote al vecchio padre disfatto, e il padre protestava: «No! No, grazie, figliolo» in maniera quasi convincente. «Adesso sei un vecchio uomo sposato, presto ci saranno bambini e ti serviranno tutti i soldi possibili.» Si interruppe per tossire, quasi la tosse fosse un segnale di sincerità, però stringeva una sigaretta tra le dita e il fumo gli era andato di traverso e la tosse sfuggì del tutto al suo controllo. È così che morirai qualcosa lo informò. Vomitando i polmoni. Ma Mike insisteva che suo padre accettasse i soldi, e il suo bel viso era scuro di sangue e nei suoi occhi brillava desolazione. Forse lo avevano deciso prima? La vita è più complessa della televisione, tanto spesso vira nella direzione sbagliata, però a volte vira nella direzione giusta come per caso. Di certo quello era uno di quei casi, il vecchio padre disfatto non poteva negarlo, aveva bisogno di comperare qualche vestito decente, e anche scarpe, e farsi tagliare i capelli da un professionista, non dalle forbici strette nella mano tremante di una vecchia amica, sì, e fare un salto in una clinica, promesso? «Be', magari...» assentì, vedendo la logica dell'idea per lo meno dalla prospettiva del figlio. A quel punto si arrese e il figlio con l'alto muscoloso corpo da marine depositò i soldi nella mano timidamente aperta.
«Ma solo se è un prestito, Mike. Siamo d'accordo?» La sensazione di una risata nera e fuggente, come il vento nei camini di High Point Farm. Come si potesse venire risucchiati all'interno di un camino ed essere sparati nel cielo spazzato dal vento, perdendosi. Così alla fine Mike accompagnò il vecchio padre disfatto con le gambe di gomma su per scale incrostate di sporcizia fino alla stanza ammobiliata sopra il ristorante cinese Pagoda d'oro. Un porcile di stanza che era meglio non esaminare troppo da vicino. Il povero Mike si morse il labbro inferiore, si sentì pizzicare le narici. Tolse al padre le scarpe senza lacci, i pochi capi di vestiario inamidati dallo sporco, lo depositò sulle lenzuola lerce e spiegazzate e il vecchio cominciò subito a russare, sbuffare, ansimare, con la testa che gli ciondolava come quella di un'anatra con l'osso del collo spezzato. Si svegliò molto tempo dopo e scoprì di avere nella tasca dei pantaloni solo sei biglietti da venti: centoventi dollari, quando aveva nutrito la folle speranza che fossero almeno cinquecento. Così il vecchio disfatto si era umiliato agli occhi del figlio maggiore e ai propri per così poco, in definitiva. ** Il cavallo bianco. Tanto più vivo, vivido, di Michael Mulvaney che era soltanto fumo. Aveva trovato il coraggio ansante di salire sul dorso nudo, muscoloso del cavallo, stringere la criniera tra i pugni, i fianchi tra le ginocchia. All'improvviso si muovevano, balzavano via: oltre quello che sembrava il frutteto, fino a raggiungere il sentiero d'accesso. Sì, era chiaramente il sentiero. Il cavallo bianco sbuffò, scosse la testa, diede sgroppate, si impennò, scalciò. Stava cercando di disarcionare Michael Mulvaney? O lo metteva semplicemente alla prova, come fanno i cavalli con ogni nuovo, incerto cavaliere? I bambini galoppavano al suo fianco sui loro cavalli, tutti sellati, sotto gli alberi alti. Così belli sui loro animali, seri e sorridenti. C'era Mikey Junior che non aveva più di tredici anni, c'era Patrick all'incirca della stessa età, c'era Marianne, e in fondo, il viso confuso in lontananza, il figlio minore, Judd. Diavolo, erano anni che Michael non vedeva i suoi figli cavalcare. I suoi figli perfetti! Era stato messo al mondo per essere il padre di quei figli, all'improvviso gli era chiaro! E allo steccato Corinne che sorrideva e salutava, armata di macchina fotografica, la cara Corinne con il cappello di paglia che dava l'impressione di essere
stato mangiucchiato da una capra: anche se lui avrebbe giurato di averglielo rubato e sostituito con uno nuovo, identico. Non era un cavallerizzo come i figli, eppure eccolo lì, su quell'incredibile cavallo bianco, a galoppare al loro inseguimento sul sentiero. I tonfi, i rimbombi degli zoccoli! Il cavallo che sbuffava, dava sgroppate! Vide che i figli lo distanziavano, galoppavano verso le montagne. Il suo cuore era enorme nel petto, gli dava dolore. Stringeva la vaporosa criniera bianca del cavallo, stringeva i fianchi sussultanti con le ginocchia. Non avrebbe mollato. Non avrebbe mai mollato. Non si sarebbe lasciato disarcionare. Era lanciato all'inseguimento. Stump Creek Hill La sua vita era talmente casuale, talmente strutturata da impulsi improvvisi e cucita alla meglio come una trapunta di stracci, che per Marianne fu uno choc rendersi conto che, quattro anni e due mesi dopo il mattino in cui aveva percorso il viale che portava al Rifugio e clinica per animali Stump Creek Hill, con Focaccina malato tra le braccia, lei era ancora lì. Ovviamente, le era stato dato un lavoro alla clinica, le era stato assegnato un alloggio. E si era innamorata del veterinario che dirigeva la struttura, il dottor Whittaker West. E anche Whit West, come lo chiamavano tutti, sembrava molto affezionato a Marianne. Così era a Stump Creek Hill, pochi chilometri a sud della cittadina di Sykesville, Pennsylvania, situata circa centoventi chilometri a sud del confine con lo stato di New York, che Marianne viveva quando finalmente, a speranze ormai quasi deposte, Corinne telefonò per dire, con una voce che tremava di eccitazione e timore: «Oh Marianne! Amore! Tuo padre vuole vederti! Tra quanto puoi arrivare qui?». Marianne era schizzata al telefono, sudata e ansimante, avvertita mentre stava innaffiando Dalila e Sansone, i due vecchi elefanti africani. Esitò un solo attimo, premendo il palmo della mano sul cuore, e disse: «Arrivo subito, mamma! Parto immediatamente». Avrebbe guidato! Avrebbe preso il furgone Chevy dal parcheggio. Corinne disse: «Amore, aspetta. Siamo a Rochester. Alla clinica medica universitaria. Fai presto». Così Marianne seppe di cosa si trattava, di cosa doveva trattarsi. Fai presto. Fai presto. Fai presto.
Dopo dodici anni d'esilio. Fai presto! Era l'ottobre 1988. Un martedì mattina, e Whit West era a Washington, a meno che non fosse a Chicago, o a San Francisco? Marianne lo aveva aiutato a preparare il discorso per... le Società umanitarie associate? No, quello era stato la settimana precedente. Non importava. Whit non c'era e Marianne non aveva tempo di chiamarlo per spiegargli. Da quando High Point Farm era stata venduta, Marianne si era tenuta in contatto con Corinne in un modo che si poveva definire sporadico. Avrebbe voluto essere più affidabile, ma insomma erano successe tante cose. Non vedeva mamma da un po' (non voleva pensare quanto tempo fosse passato!) e non era tornata alla valle di Chautauqua dopo il terribile confuso giorno del funerale di nonna Hausmann. Quanto erano dense, frenetiche le loro esistenze! Il tempo sembrava scappare via, come un torrente dopo il temporale. Marianne doveva pizzicarsi per rendersi conto di avere ventinove anni. Non che avrebbe degnato quel fatto di un secondo pensiero, però amici e colleghi della clinica l'avevano sorpresa alla vigilia del compleanno, qualche settimana prima, con una delle torte speciali di Whit (pan di Spagna alla vaniglia senza zucchero, con bucce d'arancia), e sopra c'erano piantate tante candeline accese da strabordare quasi dalla torta. Marianne le aveva contate, stupefatta. «Mio Dio. Sono davvero così vecchia?» Whit aveva riso. «Vecchia? Hai appena cominciato, ragazza.» Whit era diventato piuttosto sensibile all'argomento dopo avere compiuto trentanove anni, e si autoesorcizzava a suon di battutine. Vero: per un po', dopo essere scappata da Kilburn senza dirlo a nessuno, famiglia compresa, Marianne aveva perso i contatti con Corinne se non per frettolose, casuali telefonate da stazioni degli autobus, da telefoni pubblici. «Mamma? Marianne, solo per darti un saluto.» Quando si era fermata a Spartansburg a lavorare per Penelope Hagström, aveva parlato con Corinne regolarmente, una volta o due al mese; ma, fuggita da Spartansburg dopo che le cose si erano fatte troppo complicate, di nuovo, per un periodo confuso e informe, non aveva più avuto contatti con i Mulvaney. Sapeva del crollo del matrimonio di Corinne e Michael, una cosa che proprio non poteva credere, e che Corinne insisteva a definire "momentaneo, in sospeso", e sapeva quel che c'era da sapere di Mike, Patrick e Judd. Ciò che sapevano di lei i fratelli era più incerto. Chissà come, Marianne aveva smarrito la narrazione di se stessa. Era diventata una ragazza che spuntava qua
o là, si fermava se riusciva a trovare un lavoro decente almeno a metà, ripartiva se non ce la faceva; stringeva amicizie, a volte molto intense, e poi senza preavviso, come nemmeno le venisse in mente che qualcuno potesse sentire la sua mancanza, partiva. Dai giorni della Green Isle Co-op aveva pensato di rado a Hewie Miner, o Abelove. Quanto sembrava tutto remoto! E probabilmente ormai Penelope Hagström si era scordata di lei. Almeno, Marianne lo sperava. Vero, a volte provava fitte di colpa. Scappare dalla signorina Hagström in quel modo. Solo un biglietto d'addio, nessuna spiegazione. Le sue cose riposte in una sacca da viaggio, e il povero esterrefatto Focaccina in una scatola di cartone, e lei non c'era più. Un anno si era sciolto nel successivo, e poi in un altro ancora, e lei aveva sentito le pareti della vecchia casa soffocarla. Il problema era che Marianne Mulvaney stava diventando troppo importante lì. Partire le aveva dato tristezza. L'alta casa dalla facciata chiara in una strada residenziale di Spartansburg ricca di alberi: a una prima occhiata appariva deprimente, persino brutta, ma possedeva una sua severa bellezza, come Penelope Hagström. E Focaccina era così felice lì, a pisolare nell'uno o nell'altro dei suoi posti preferiti: una cassetta per i fiori coperta di cinz sbiadito, sul tappeto sotto il pianoforte a coda Steinway in soggiorno che nessuno usava mai, più di tutto nel giardino sul retro, chiuso da mura, dove nei giorni caldi si sdraiava in tutta la sua snella, sorprendente lunghezza, guardando benigno le farfalle che gli svolazzavano attorno, persino i topini che schizzavano audaci nel suo campo visivo. A casa della signorina Hagström, quasi tutte le giornate erano simili tra loro, almeno a livello esteriore: il paradiso per un gatto! E Penelope Hagström era di certo una donna notevole, addirittura straordinaria. Una poetessa, una vera amante della poesia, capace di recitare Keats, Shelley, Dickinson, Yeats, Frost in un modo che dava i brividi a Marianne. (Era spesso invitata a dividere i pasti con la solitaria donna, ed era in quelle occasioni che Penelope Hagström recitava le poesie che riteneva "luminose, illuminanti per l'anima".) Poco più che sessantenne, la signorina Hagström era condannata alla sedia a rotelle da molti anni, anche se al momento la sua sclerosi multipla sembrava in remissione. Aveva un volto segnato, aggressivo, piuttosto nobile, con i capelli grigi divisi al centro e raccolti in una severa crocchia. «Il mio look alla Emily Dickinson, il meglio in cui possiamo sperare noi ragazze bruttine.» Il suo aspetto era sorprendentemente robusto dai fianchi in su, con seno ampio, braccia e spalle
forti; bastava non vedere le tristi gambe, rametti avvizziti. La voce alternava tra il melodico e lo stridulo, tra il dolcemente ragionevole e il dispotico. Altre "assistenti" avevano preceduto Marianne, ed era indubbio che ne sarebbero venute altre. La signorina Hagström sembrava affezionata a Marianne, e diverse volte chiese informazioni sulla sua famiglia («Ma devi venire da qualche posto e da qualcuno, cara. Succede a tutti!»), abitudine che Marianne scoraggiò con gentilezza; "promuoveva" di continuo Marianne e aumentava di qualche dollaro il suo modesto stipendio; incoraggiava Marianne a "coltivare amici della sua età" a Spartansburg, però era compiaciuta nel vedere che Marianne non si allontanava mai troppo da casa. Ma era anche una presenza esigente, dittatoriale, bisognosa d'aiuto in cose piccole (alzarsi da e sedersi su "questa maledetta sedia") e grandi (la riorganizzazione del suo studio, compresa la vasta corrispondenza che partiva dalla metà degli anni quaranta, e centinaia, o migliaia, di manoscritti di poesia. In quale stato di confusione era lo studio, la prima volta che Marianne l'aveva visto! Come ci fosse passato un uragano). Rimproverava sempre Marianne, esortandola: «Parla! Mi farai pensare di essere diventata sorda e non è vero» e anche il povero Focaccina, "nervoso come un gatto", e lui effettivamente lo era in sua presenza. Si dichiarava peraltro amante degli animali e faceva generose donazioni alla Società umanitaria. Si definiva "avversaria delle religioni organizzate" e risolutamente non offriva denaro alle chiese locali o alle organizzazioni benefiche legate alla chiesa: «Preghino il loro Dio onnipotente, se pensano di essere in rapporti tanto speciali con Lui». Rifiutava di vedere i visitatori che arrivavano senza preavviso, però si lamentava dell'esistenza solitaria a Spartansburg: «Mi danno l'ostracismo perché sono una "poetessa"». Diventava furibonda se la sua mattinata veniva interrotta (era il suo momento, dalle nove a mezzogiorno, per l'intenso lavoro di composizione poetica), eppure restava delusa come una bambina quando Marianne le portava la posta e non c'era niente di interessante, nessuna richiesta di interviste, visite eccetera, a cui avrebbe probabilmente opposto un rifiuto. Oppure se passava un intero giorno, e accadeva spesso, senza che arrivasse una sola telefonata o altro e Marianne doveva comunicare, scusandosi: «Niente, signorina Hagström. Nessuna chiamata». «Mmm! Non essere ridondante, Marianne» ribatteva secca la donna. Marianne andò a cercare "ridondante" sul dizionario, anche se pensava di avere intuito il senso. Superfluo, più di ciò che è necessario. Nell'uso britannico: senza occupazione, sospeso dal lavoro. Probabilmente, una de-
finizione piuttosto azzeccata per lei. E per Focaccina. Anche se in realtà Marianne era tenuta molto occupata dalla sua datrice di lavoro. Confinata sulla sedia a rotelle al pianterreno della grande casa antica, la signorina Hagström era indecisa se installare un montascala o un ascensore, perché preferiva di gran lunga la vista dai piani superiori. Ci furono settimane di telefonate e visite di tecnici, dispute su preventivi, termini, garanzie, il tutto supervisionato da Marianne, ma alla fine, all'improvviso, Penelope Hagström decise di non installare niente. Alla fine dell'inverno del 1983 ci fu un periodo in cui le giornate si susseguirono in una cupezza densa come melassa («Là fuori c'è la buia notte dell'anima») e la signorina Hagström incaricò Marianne di organizzare un viaggio di due settimane in Italia, il che comportò come ci si poteva aspettare, anche se la realtà si rivelò ancora più complicata delle attese, innumerevoli telefonate ad agenzie di viaggio di diverse città. Marianne, che di solito amava fare telefonate per conto della signorina Hagström, rivolgendosi a qualcuno nell'interesse di un'altra persona, si trovò progressivamente logorata dal progetto che doveva prevedere, ovviamente, "garanzie, ampie garanzie, per una portatrice di handicap" e che finì in nulla, come lei sospettava. Se Penelope Hagström si innervosiva all'idea di fare un viaggio fino a Pittsburgh, distante circa centocinquanta chilometri, in limousine (era stata invitata diverse volte da associazioni artistiche a leggere le sue poesie, e a partecipare a una cerimonia in suo onore), era improbabile che potesse spingersi a Roma, Firenze, Venezia e Palermo. Quando, un mattino, informò secca Marianne: «Ho deciso che non andremo. Annulla tutti i piani» Marianne doveva aver sorriso di sollievo, perché la donna aggiunse, con una strizzata d'occhi: «Mmm. Mi spiace deluderti, cara». Marianne rise. Ma lei non può deludermi! Io non la amo. Con lenta gradualità, si rese conto di essere stata assunta dalla signorina Hagström in parte per assorbire gli "umori da mistral" della poetessa ("mistral" era un'altra parola che dovette andare a cercare sul dizionario: forte vento, secco e freddo, proveniente da nord), visto che nessuno dei suoi parenti, i pochi che ancora restavano nella zona di Spartansburg, aveva la pazienza di sopportarli. A parte la madre morta da tempo, nessuno in famiglia "leggeva", di certo non poesia. All'interno della famiglia, e a livello locale, l'identità di Penelope Hagström non era quella di una poetessa americana ampiamente pubblicata e stimata, ma quella di una donna sfortunata, mai bella, però con un viso "interessante", che in giovane età era stata vittima di una sindrome misteriosa (SM, sinistro eufemismo) e aveva perso
il fidanzato, bello e benestante, in una fosca stagione che risaliva a più di un quarto di secolo addietro. Nessuno esattamente attribuiva colpe a Penelope per avere "perso" il fidanzato, come non le rimproveravano di avere contratto una sindrome misteriosa, però... C'era un'aria di sottile rimbrotto dietro le preoccupazioni degli Hagström per lei. Marianne, che parlava con i parenti della donna soprattutto al telefono, la percepiva e ne era infuriata. Le notizie sulle pubblicazioni di Penelope Hagström, sui saggi critici dedicati alla sua opera, persino un premio della Società poetica nazionale: niente di tutto ciò sembrava importare molto agli Hagström. I soldi di famiglia erano arrivati dalle miniere di carbone e adesso erano investiti per la maggior parte in proprietà immobiliari, per quanto sapeva Marianne; il loro era il regno del reale, e la poesia non vi aveva posto. Gradualmente, Penelope Hagström giunse ad aspettarsi sempre di più da Marianne. L'aveva lasciata stupefatta il modo in cui Marianne aveva organizzato i suoi voluminosi archivi di lettere, manoscritti, prime stesure («Hai fatto tutto tu, Marianne?») e l'aveva molto colpita la disinvoltura di Marianne al telefono, uno strumento che lei "aborriva". Cominciò ad attendersi da Marianne un coinvolgimento diverso, più qualitativo, nella sua vita e nel suo lavoro. La chiamava spesso di mattina e le leggeva le prime stesure di nuove poesie: «Adesso devi dirmi che cosa ne pensi, Marianne, senza equivoci. E guardami negli occhi». Gli occhi della donna erano luminosi, anche se talora un po' fanatici. Nella luce netta del mattino, la sua pelle dava l'impressione di una curiosa stratificazione, e sotto gli occhi era solcata da profonde rughe; il suo sorriso era veloce e duro e a volte non era affatto un sorriso. Quando leggeva le proprie poesie a Marianne, la voce diventava più profonda e assumeva una melodrammatica nota tenorile che distraeva Marianne. Perché la sua poesia era sempre così intensa? Perché tutto veniva elevato, reso tanto importante? Un verso poetico, un'unica parola, persino la punteggiatura: perché non ci si poteva limitare alla vita normale? Marianne intrecciava le mani in grembo, agitata, irrequieta, preoccupata all'idea che lo sguardo acuto della donna, così impaziente di fronte a ciò che definiva "imbroglio", potesse leggerle negli occhi e percepire i suoi indegni pensieri. Protestò: «Signorina Hagström, non può aspettarsi che io critichi la sua poesia. Ho soltanto il diploma delle superiori, ho lasciato l'università...». Penelope Hagström, regale sulla sedia a rotelle, sollevando il viso da rapace, disse: «Certo che me lo posso aspettare, Marianne, e me lo aspetto. Tu sei una giovane donna intelligente. Molto più intelligente, sono giunta a
capire, di quanto tu lasci intendere. Per chi credi stia scrivendo le mie poesie, se non per Marianne Mulvaney? Non per gli amati poeti defunti, spero. Non per la mia "archivista"». Così, a malincuore, Marianne espresse un'opinione: una poesia le piaceva molto anche se doveva ammettere di non capirla del tutto; oppure, non capiva del tutto un'altra poesia però le piaceva, molto. «Ma cosa pensi in realtà, Marianne?» chiese la signorina Hagström, sospettosa. «Ho la sensazione che tu stia pensando qualcosa di acuto e intelligente.» Marianne, seduta nello studio della vecchia con Focaccina semiaddormentato in grembo, protestò debolmente: «Ma signorina Hagström, perché avere un'opinione? La poesia non può semplicemente essere ciò che è?». Fredda, Penelope Hagström ribatté: «Nulla è, mia cara. È solo ciò che ne fanno le nostre opinioni». Sistemò i fogli dei manoscritti nella cartella che aveva sulle ginocchia, a indicare che la sessione di poesia era conclusa. Marianne fuggì sollevata, portandosi via l'insonnolito Focaccina. Le bruciavano le guance, il cuore batteva rapido. Pensò No! Non posso proprio crederci. Pensò Devo lasciare presto Spartansburg. È ora. Per quanto ammirasse Penelope Hagström, quella donna notevole. E per quanto fosse arrivata, quasi, a volerle bene. Ma la scambiava per una persona che non era e non sarebbe mai stata. La fine giunse brusca solo dodici giorni più tardi. La signorina Hagström le fece una sorprendente offerta di "promozione", del tutto inattesa: Marianne sarebbe diventata condirettrice della Fondazione Hagström, continuando anche a essere l'assistente personale della signorina Hagström, con uno stipendio notevolmente più alto. «Uno stipendio da dirigente, mia cara.» (La Fondazione Lydia Charles Hagström per le arti, che Penelope aveva creato dopo la morte della madre nel 1967, premiava con sovvenzioni fino a venticinquemila dollari organizzazioni artistiche, riviste letterarie, teatri senza scopo di lucro e affini, soprattutto nell'area di Pittsburgh. Il direttore era un avvocato di Pittsburgh con cui Marianne parlava di tanto in tanto al telefono ma che non aveva mai conosciuto.) Una proposta talmente allarmante che Marianne si sentì svenire. Nelle sue orecchie risuonò un ronzio come di risata smorzata. Si mise subito a scuotere la testa. «Signorina Hagström, mille grazie, però...» «Vai a rifletterci su, Marianne. Non decidere sui due piedi. Discutine con Focaccina, se vuoi. Sono certa che è dalla mia parte!» «Ma, signorina Hagström, non posso assumermi una responsabilità simi-
le! Non ho nessuna esperienza dirigenziale. Ho solo...» «Lo so, un diploma delle superiori» disse secca la signorina Hagström. «Ne abbiamo già discusso, mi pare. Vuoi smetterla di comportarti da ridicola scolaretta, Marianne? Non sei tu. Si dà il caso che io sappia che non sei tu.» Marianne fissò la donna, seduta sulla sedia a rotelle come su un trono, il viso devastato sollevato, gli occhi brillanti. «Chi... Chi sono, allora? Non capisco.» «Io di certo non capisco» disse la signorina Hagström. «Però l'argomento è la fondazione. Come saprai, riceviamo molte domande di sovvenzioni tutti gli anni, e siamo tenuti a valutarle attentamente. Il tuo incarico sarà organizzare l'archivio, e questo lo sai fare in maniera superba, e dare una mano nel processo di selezione. Ogni tanto potresti persino fare un viaggio a Pittsburgh a parlare con i candidati, o a vedere le attività che abbiamo sovvenzionato. Teatro, mostre d'arte, spettacoli di burattini per i bambini. Faresti la maggior parte del lavoro da questa casa, è ovvio, in un tuo ufficio. Diversamente, non voglio nemmeno sentirne parlare! Non voglio sentir parlare di perderti, intendo. Mi mancheresti troppo.» «Capisco» disse Marianne, confusa. «Mi spiace.» «Oh, non essere ridicola, mia cara! Vai a pensarci su e domattina dimmi di sì.» Marianne se ne andò. Ma non parlò mai più con Penelope Hagström. Di soppiatto, alle primissime ore del mattino dopo, infilò tutte le cose che le fu possibile nella sacca da viaggio, e con parole dolci convinse un Focaccina dubbioso a lasciarsi chiudere in una scatola di cartone letteralmente crivellata di fori. La governante che viveva lì avrebbe scoperto il messaggio che aveva lasciato per Penelope Hagström sul tavolo della sala da pranzo. Signorina Hagström, mi dispiace ma sento di dovermene andare, subito! Non c'è problema per il mio stipendio dell'ultimo mese, o quel che è. La ringrazio per la sua gentilezza e anche Focaccina ringrazia. Solo più tardi si sarebbe accorta di avere dimenticato di firmare. Be', ormai era fatta. Non vista, sgattaiolò via dall'alta casa con le persiane e la facciata chiara, e percorse a piedi due o tre chilometri fino al centro di Spartansburg, portando la sacca da viaggio e la scatola di cartone al cui interno Focaccina miagolava perplesso. Pensava di comperare un biglietto (due?) alla stazione degli autobus Trailways; poi la prese una preoccupazione: e se gli animali non fossero ammessi sull'autobus? Era ferma a un incrocio dove il
furgone di un agricoltore aspettava il verde, e l'agricoltore, un uomo di mezza età con la faccia gentile, la chiamò per chiederle se le occorresse un passaggio, e Marianne grata rispose di sì, e salì nella cabina del furgone, gettò sul retro la sacca da viaggio e tenne ben stretta sulle ginocchia la scatola di cartone. Partirono verso la campagna. Il contadino disse di essere diretto a Sykesville e Marianne disse che andava bene. Le era venuta l'emicrania a furia di piangere, e doveva avere un aspetto tremendo; però aveva fatto la cosa giusta, aveva impedito che si verificasse un terribile equivoco. Penelope Hagström le sarebbe mancata, non le era stato possibile mettere nella sacca nemmeno uno dei libri con dedica che la poetessa le aveva regalato, era imbarazzata da quel comportamento rude però anche eccitata: era una tiepida giornata d'aprile, tra sole e pioggia, e lei non aveva mai nemmeno sentito parlare di Sykesville. «Lì dentro ha un gatto, signorina?» chiese l'agricoltore. «Si chiama Focaccina» rispose Marianne. Aveva infilato le dita nei fori per l'aria e Focaccina le leccava con la sua lingua ruvida, fresca. Le faceva il solletico. A Sykesville, una città di campagna grande la metà di Spartansburg, Marianne prese in affitto su base settimanale un minuscolo bungalow di legno imbiancato a calce, con angolo cottura, presso il motel Wayside Motor Court; trovò un lavoro in un minimarket di frutta e verdura distante meno di due chilometri semplicemente entrando e chiedendo se ci fosse bisogno d'aiuto. Sarebbe stata contenta di sistemarsi a Sykesville, almeno per un po': aveva incontrato gente nuova, frequentava una nuova chiesa, aveva stretto qualche amicizia, compresa la meravigliosa Janie, proprietaria con il marito del minimarket, che non era molto più vecchia di Marianne ma aveva già messo al mondo diversi figli. E che bei bambini! C'era persino un giovanotto "interessato" a Marianne, anzi, due o tre giovanotti, però era raro che lei uscisse di sera, e per la maggior parte dei giorni lavorava al minimarket. E a metà dell'estate era sempre più preoccupata dallo strano comportamento di Focaccina. Quando rientrava a casa alle prime ore della sera, invece di correre a salutarla, Focaccina non appariva affatto. Marianne lo chiamava e a volte lui arrivava, a volte no. Una sera, la proprietaria del motel le disse di avere visto Focaccina scendere la collina dietro il bungalow, dove il terreno era roccioso, irregolare, e cosparso di lattine arrugginite e pattume; e dove Marianne si avventurò barcollando, chiamando «Focaccina? Focaccina?», cercando di non arrendersi ai timori, o peggio. In un boschetto stentato av-
vistò il gatto, che spiccava bianco nel tramonto, così stranamente immobile, e poco più consistente, da quattro o cinque metri di distanza, di un pezzo di carta. Perché non era corso da lei, udendo la sua voce implorante? Perché non si accorgeva nemmeno della sua presenza e la fissava con occhi imperturbabili? «Ma cosa ci fai qui? Oh, Focaccina.» Marianne disperse con la mano uno sciame di moscerini. Focaccina era seduto, o coricato, tra l'erba, nella posizione della sfinge, le zampe anteriori ripiegate sotto il petto, la coda avvolta attorno alle natiche magre. Lei lo raccolse dolcemente da terra e lo strinse a sé. Com'era magro! Ma com'era morbido e vellutato il pelo. Lui non oppose resistenza, però non le premette le zampe sul corpo come al solito, e non si mise immediatamente a fare le fusa. Nel bungalow, con dita tremanti, Marianne aprì una scatoletta di cibo per gatti al tonno, il preferito di Focaccina, ma Focaccina si limitò a fiutarlo triste; fiutò anche la ciotola dell'acqua e si sdraiò sul pavimento come fosse stanchissimo. «Ma devi mangiare, Focaccina. Se non mangi...» Lacrime negli occhi di Marianne. Che cosa aveva detto Corinne? Devi essere realista. Il giorno dopo, Marianne fu ansiosa e distratta al lavoro e quando rientrò a casa scoprì ciò che temeva: Focaccina era di nuovo scomparso, e non arrivò quando lei lo chiamò. Lo ritrovò nel boschetto, ancora più rintanato in profondità. «Oh, Focaccina. Che cosa ti succede?» Marianne era prossima alle lacrime. Raccolse teneramente Focaccina, lo strinse al petto. Così magro! Poco più che pelo e ossa. Quel giorno impiegò più tempo per mettersi a fare le fusa, e Marianne ebbe la netta impressione che le facesse solo per accontentare lei, per farle credere che le cose fossero com'erano sempre state. Nel bungalow, rifiutò ancora di mangiare. Fiutò il cibo come non ricordando più che cosa fosse. E tornò a buttarsi sul pavimento, con uno sguardo ripiegato in se stesso. Il giorno dopo, Marianne era talmente distratta al minimarket che Janie le chiese cosa diavolo le succedesse, e Marianne rise lieve e rispose: «Soltanto la vita, immagino». Janie aveva imparato a non insistere con le domande a Marianne, e non chiese altro. Tornata a casa, Marianne dovette di nuovo andare in cerca di Focaccina, più lontano che mai. E di nuovo lui rifiutò di mangiare, si staccò sdegnato dal cibo. Parve a Marianne che i suoi occhi, da sempre tanto belli, fossero diventati piatti, vacui. «Focaccina, non puoi provarci? Per favore, provaci.»
Naturalmente, sapeva da un po' che Focaccina non era "al cento percento", come diceva Corinne di una persona o un animale malati, però non aveva voluto indugiare sull'idea. Sapeva che Focaccina stava invecchiando, anzi era vecchio. Aveva quindici anni? Sedici? Le risposte del suo cervello erano vaghe. Se lo mise in grembo e lo coccolò e si chiese che cosa sarebbe successo e la sua mente continuò a restare nel vago, nascondendosi dietro mura di nebbia. Sorrise al ricordo di Focaccina e del gemello Maschiaccio, cuccioli mai svezzati, che mangiavano con una voracità e una frequenza da stupire tutti. Mettevi il cibo nelle loro ciotole di plastica, ti giravi per un momento e quando guardavi le ciotole erano perfettamente ripulite, e i micini stavano a fissarti a testa all'insù, ancora affamati. Papà si stupiva che quei due mangiassero più di lui, etto dopo etto. Patrick giurava che crescevano di giorno in giorno, di ora in ora. Quando mamma li aveva portati a casa, dopo averli trovati abbandonati su una strada di campagna, erano così piccoli da stare tutti e due sul palmo della sua mano; al fulgido apice della maturità felina, pesavano più di nove chili l'uno. Adesso probabilmente Focaccina non era più di tre chili. Due? Sii realista, Marianne. Sì, lo sapeva. Ma ci sarebbe stato tutto il tempo di essere realista quando non avesse più avuto alternative, giusto? Così decise di portare Focaccina al Rifugio e clinica per animali Stump Creek Hill. Ne aveva sentito parlare molto bene da quando era arrivata a Sykesville. Distava solo pochi chilometri e il mattino dopo, di buon'ora, ottenne un passaggio da un agricoltore del posto. Portava Focaccina non in una scatola ma in grembo. L'agricoltore si faceva scrupoli a lasciarla all'inizio del sentiero sterrato, dopo il cartello RIFUGIO E CLINICA PER ANIMALI STUMP CREEK HILL: la ragazza non voleva che lui tornasse a prenderla più tardi? Ma Marianne rispose che no, grazie, non c'era problema. Cominciò a percorrere i quattrocento metri del sentiero, con Focaccina tra le braccia. Tutti e due battevano le palpebre e si guardavano attorno. Strano posto. Una vecchia residenza di lusso, sembrava, adattata a clinica veterinaria; una grande villa in pietra e una rimessa per carrozze, entrambe logorate dalle intemperie come antiche lapidi, eppure ben curate, con persiane di un giallo vivace, e sul davanti un giardino ricco e complesso come una giungla, denso di gigli tigrati, verghe d'oro e carote selvatiche. C'erano diversi edifici annessi e capanni, e un parcheggio con il fondo in ghiaia che ospitava cinque o sei veicoli. Sul retro, un recinto di pali gialli e due cancelletti gemelli, con l'indicazione ENTRATA e USCITA, por-
tavano a quello che sembrava uno zoo. Il naso rosa di Focaccina cominciò a fremere nella sinfonia di odori animali. Si sentiva il suono di un grattare eccitato, borbottii a distanza. Un abbaiare smorzato. Marianne vide un uccello gigante, di un blu notte iridescente, squisitamente bello, con una tremula corona di piume e una lunga coda trascinata nella polvere (un pavone?), passeggiare nel parcheggio, e sulla sua scia un uccello più piccolo di un bianco immacolato: una pavonessa? Più avanti sul sentiero c'erano cervi, un piccolo branco di esemplari addomesticati. Marianne guardò: almeno due dei cervi erano giovani maschi, con tre sole zampe. Entrò nell'edificio principale passando da una porta con il cartello CLINICA VETERINARIA INGRESSO. Si trovò in una sala d'attesa con un macilento pavimento di linoleum e un bancone coperto da una tela cerata e diverse gabbie dalle vetrine leggermente sporche, con cartelli scritti a mano: ORFANI! ADOTTATELI! Nelle gabbie, numerosi gattini dormivano, giocavano, guardavano dal vetro. «Oh, guarda, Focaccina! Non sono dolci?» sussurrò Marianne. Ma Focaccina quasi non li degnò di un'occhiata, e anche a Marianne era difficile sostenere lo sguardo dei cuccioli. Una ragazza dai capelli lunghi e sottili, identificata come RHODA dalla targhetta sul petto, prese il nome di Marianne e le chiese quale fosse il problema, fissando Focaccina, e Marianne spiegò con tutta la chiarezza e l'allegria che le furono possibili, e le parve, a meno di non averlo immaginato, che la ragazza mormorasse «Uh oh» in tono scoraggiato. Non c'era nessuno prima di Marianne, ma il telefono squillava, squillava, squillava e Rhoda doveva rispondere. Dopo alcuni ansiosi minuti trascorsi a studiare un poster sbiadito dal sole, PROPRIETARI DI CANI, ATTENTI ALLA RABBIA! Marianne sentì chiamare il proprio nome e seguì Rhoda per diverse stanze che francamente puzzavano di stantio. In fondo a un lungo corridoio, all'aprirsi di una porta, risuonarono robusti latrati e uggiolati, poi la porta si richiuse. Marianne strinse forte Focaccina nel caso venisse preso dal panico, ma lui non si mosse affatto. In una delle sale per le visite c'era il dottor West, Whittaker West come si presentò, un uomo dall'aria impaziente di altezza media, con le spalle solo leggermente curve, in camice bianco sporco e calzoni cachi. Quasi non guardò Marianne e di certo non udì il suo nome, perché nei primi istanti i suoi occhi allenati si mossero sul povero, magrissimo Focaccina: esaminarono, valutarono, formularono un giudizio. «Il suo gatto è seriamente malato, temo. Quanti anni ha?» «Quanti anni? Non lo so» rispose incerta Marianne.
Il veterinario borbottò una replica scettica. Bruscamente tolse Focaccina dalle braccia di Marianne e lo depositò sul tavolo, gli studiò orecchie, occhi, bocca con un piccolo strumento dotato di lampadina; esaminò i denti; palpò l'addome per un certo tempo. Visitandolo, parlava con Focaccina non a parole ma a mormoni: Mmm? mmm? mmm? mmm? Marianne raccontò la progressiva perdita d'appetito di Focaccina, il recente, strano comportamento nel bosco. «Non ha mai fatto niente del genere, non è un gatto da vita all'aperto.» Il dottor West grugnì come avesse già sentito quella storia, o non ascoltasse. Marianne vide, scontenta, che non si era nemmeno preso il disturbo di mettersi guanti di gomma come tutti gli altri veterinari; aveva le dita coperte di morsi e graffi, cosparse di tintura di iodio. Le unghie erano grandi e tozze e coronate di sporco. I capelli, un po' radi in cima alla testa, erano spessi, flosci, piuttosto unti ai lati della testa, del grigio spento del manto invernale dei cervi. Marianne cercò di rendersi utile. «Credo abbia qualcosa più di dodici anni. Ha un pelo molto pulito e sano, no? Morbido.» Il tono era implorante. Il dottor West non rispose. «È difficile credere che sia malato, a parte la perdita di peso. Gli occhi sono limpidi. Fa ancora le fusa.» «Gli occhi tendono un po' al giallo» disse il veterinario in tono quasi distaccato. «Itterizia.» «Oh, no, ha sempre avuto gli occhi tra il tanè e il dorato. Per tutta la vita.» Di nuovo, il dottor West borbottò una risposta scettica e impercettibile. A Marianne parve di sentire Sii realista. Realista! Dietro il velo di lacrime vide che la visita era finita, a meno che fosse stata interrotta a metà. Il veterinario continuò a carezzare Focaccina con dita leste, pratiche e Focaccina, che per quanto docile e timido a volte era stato preso dal panico sotto le mani di altri veterinari, restò immobile, a zampe divaricate, sullo strato di carta che copriva il tavolo. Anche Marianne si protese a toccarlo, la testa ossuta, il pelo morbido che la copriva. Avrebbe voluto che Focaccina alzasse la testa, la riconoscesse, o semplicemente prendesse atto della sua presenza, ma non lo fece. Sembrava addirittura essersi alleato a quello sconosciuto, Whittaker West! C'era sotto una complicità maschile perversa e testarda, che la escludeva. Marianne chiese che cosa avesse Focaccina, e il dottor West scrollò le spalle. «È vecchio. Succede a tutti noi.» Marianne disse, con tenacia infantile: «Ma che cos'ha, esattamente? Deve avere qualcosa!». Il dottor West disse: «Posso fare un esame del sangue, un'analisi delle urine, ma è quasi certo che il suo gatto soffra di disfunzione renale. Il suo sangue si sta lentamente saturando di tossine. Il processo va avanti da mesi». «Oh, ma lei non può fare qualco-
sa?» chiese Marianne. «Io non posso fare niente, a Stump Creek Hill» disse West. Marianne ribatté subito: «Da un'altra parte, allora? Potrebbero aiutarlo da qualche altra parte?». Per la prima volta, il dottor West guardò Marianne. Lei non riuscì a sostenere il suo sguardo franco, indagatore; batteva le palpebre per scacciare le lacrime, temeva di crollare. Quanto si vergognava: mendicare per la vita di Focaccina come non avrebbe mai mendicato per la propria. Se Corinne l'avesse saputo, le avrebbe preso le mani, rimproverandola Sii realista, Marianne. Non te l'ho detto e ridetto? Whittaker West, lo sconosciuto che carezzava il pelo di Focaccina con tanta familiarità, gli grattava le orecchie e il sottomento come fossero vecchi, vecchi amici, la scrutò severo. «Un animale sa quando è arrivato il suo momento. Per questo... Focaccina?... si è messo a scappare nel bosco. Preferisce un posto tranquillo, buio, privato per morire. Lei non lo preferirebbe? Io sì. Ovviamente le vuole bene, ma la parte di lui che le vuole bene, o anche solo la conosce, sta svanendo. Riemerge il suo io felino, l'istinto. Perché non lasciargli seguire l'istinto? Non potrà riportarlo a casa per l'eternità, vero?» Marianne esitò, vergognosa della propria disperazione, ma insistente. «L'eternità è un tempo così lungo. Non c'è un modo per aiutare Focaccina solo per ora?» «Nella migliore delle ipotesi, probabilmente non vivrebbe per più di sei mesi» disse, riluttante, il dottor West. «E sarà costoso.» «Ho qualche risparmio» replicò subito Marianne. Sapeva di non apparire esattamente prospera, in maglietta e calzoncini di jeans e sandali, l'abbigliamento estivo per il lavoro al minimarket, però aveva con sé il portafoglio, gonfio di banconote. Lo estrasse, e le tremavano le mani. «Posso pagarla in anticipo, dottore. Oh, non lo lasci morire!» «Non posso procedere qui. Non abbiamo le attrezzature adatte. A Pittsburgh c'è una clinica che potrebbe farlo. È una specie di dialisi. Si ripulisce il sangue» disse il dottor West. E negli occhi di Marianne brillò la speranza. «Quando si può fare, dottor West? Oggi?» Ci fu un attimo di silenzio. Marianne sentì il veterinario serrare i denti. Alla fine, rispose con un sospiro, brusco: «Lei è fortunata, signorina. Si dà il caso che stamattina io debba partire per Pittsburgh con un furgone di animali malati e potrò portare Focaccina. La procedura richiederà non meno di quarantotto ore e non è garantita, questo è chiaro? Deve essere preparata a non rivedere più vivo il suo gatto». Marianne tentò un sorriso tremulo, incerto. «Oh, sono preparata» disse allegra. La gioiosità incerta e non genuina, sull'orlo della disperazione: come
somigliava a Corinne Mulvaney! Così diede l'addio a Focaccina, che quasi non reagì, e corse fuori. Solo dopo pensò che avrebbe dovuto lasciare un deposito, un anticipo: come faceva il dottor West a sapere di potersi fidare? Stordita, con un sorriso vacuo sulle labbra, Marianne ripercorse il parcheggio, nella speranza di rivedere il pavone e la sua femmina, e i cervi. C'erano faraone chiacchierine e un galletto dal passo fiero, c'era un gattone nero con orecchie mozzate a metà che prendeva il sole sul cofano di un vecchio furgone Chevy. Marianne lo accarezzò, audace (non si può mai dire, con un gatto sconosciuto), ma quello restò a guardarla, pigro e soddisfatto. Era un mattino d'agosto e il caldo stava aumentando, il tipo di mattinata che inizia umida e quasi fredda e a mezzogiorno è un forno. Un giorno felice, speranzoso. Al cancello d'ingresso non c'era nessuno a vendere biglietti, solo un contenitore di plastica arancio che diceva GLI ANIMALI DI STUMP CREEK HILL HANNO BISOGNO DI TUTTO QUELLO CHE POTETE DARE! così Marianne prese una banconota da cinque dollari dal portafoglio (sì, lavorando come assistente di Penelope Hagström aveva messo da parte parecchi soldi) e la infilò nella fessura. L'odore pungente degli animali la attirava. Letame e fieno, quell'aroma appena acido e tanto gradevole. Un odore più forte: che cosa era? Lo spray antisettico che usavano alla fattoria quando le mucche partorivano? Però quello era più dolce. E qualcuno aveva arato l'erba, un odore pungente di verde umido, mischiato con quello della cipolla selvatica. Il Rifugio e clinica di Stump Creek Hill era molto più grande di quanto Marianne avesse previsto. Doveva coprire acri. Cominciavano ad arrivare i visitatori, donne con bambini, coppie anziane di pensionati. Non uno zoo molto ricco, un po' malandato e trasandato. Erbacce spuntavano dai sentieri sabbiosi; c'erano alte querce che avevano un bisogno estremo di potatura. Sterco per terra lasciato dai cervi che giravano liberi, coperto di mosche. Marianne lesse un poster sbiadito dal sole: Quello di Stump Creek Hill è l'unico zoo degli Stati Uniti, con autorizzazione federale e statale, consacrato alla cura di animali selvatici e domestici malati, feriti, abbandonati. È stato fondato nel 1974 da Whittaker West. LE VOSTRE DONAZIONI SONO ENORMEMENTE APPREZZATE! Marianne passò da una zona all'altra, entusiasta. Non aveva mai visto un posto simile e non ne aveva mai sentito parlare. I genitori li avevano portati agli zoo di Port Oriskany e Rochester, ma erano diversissimi, talmente tristi che veniva voglia
di andarsene in fretta. Lo zoo di Stump Creek Hill era come casa. Ogni animale aveva non solo un nome ma anche una storia. C'era re Sheba, il leone di montagna, maltrattato da cucciolo in uno zoo safari in Florida e adesso "in pensione" lì: un gattone color sabbia, con testa grande, occhi sonnolenti, naso enorme, criniera arruffata. C'erano Masha, Irina e Olga, cebi cappuccini "abbandonati per strada" nella Carolina del Nord: fecero ressa contro la rete di recinzione, guardarono Marianne come se la riconoscessero. C'era Hickory, un pony ibrido cieco del New Jersey. C'era Big Ben, la tigre del Bengala "salvata" da un circo in Nuovo Messico, c'era Rocky, la volpe argentata con tre zampe dopo "la disavventura con una trappola da cacciatori" nel Maine, c'era Lena, la femmina di lama "donata" dal proprietario di un circo dopo che le era stata diagnosticata la cataratta a entrambi gli occhi: una creatura timida, bella, delle dimensioni di un cervo adulto, con chiazze bianche sul muso e il pelo spesso e ruvido di un orsacchiotto di peluche consunto. C'era Joker, il macaco, "unico superstite" di un istituto di ricerca del Nuovo Messico ormai chiuso. C'era Ragazzona, la scrofa vietnamita dal ventre gigante che era "diventata così grossa per l'affetto del proprietario" ed era stata donata allo zoo, un'enorme creatura grigia senza occhi visibili, grinzosa come uno zaino, sontuosamente sdraiata all'ombra. C'era Principessa, il giaguaro, una magnifica gattona maculata di nero scoperta "abbandonata e affamata" a lato di una strada del Minnesota. C'era Zuccherino, la lince rossa degli Adirondack priva di una zampa, c'era Hickey la iena, un altro ex ospite di circo maltrattato, c'erano Cenerentola e Svengali, gli "ex trottatori purosangue di Saratoga Springs". C'erano asini, pecore, capre chiusi in recinti e uccelli da cortile d'ogni tipo, liberi: galline, papere, anatre. C'erano i cervi domestici, timidissimi. L'attrazione principale dello zoo, oltre ai grandi felini e alle giocose, chiacchierone scimmie, erano Dalila e Sansone, gli elefanti africani destinati a essere "soppressi" dal proprietario dello zoo dell'Oregon che li ospitava se non si fosse trovata una nuova casa per loro, e in fretta. "La coppia di coniugi più amorosa che potrete mai trovare, e guardate le dimensioni di quei piedi!" Marianne rise. Chissà se lo aveva scritto Whittaker West. Chissà se l'intero zoo era suo: una sua idea, un suo progetto. Per tutto il giorno, ed era una giornata torrida e secca d'agosto, Marianne si aggirò per lo zoo. Diede una mano al personale a spargere il mangime per gli uccelli da cortile; aiutò una giovane ragazza nei guai, TRUDI diceva la targhetta, ad annaffiare elefanti e maiali. Al mattino si era scordata di fare colazione, così fece un pasto, salato e delizioso, a base di noccioline e
pop-corn presi da distributori con il cartello COMPERATE QUI PER NUTRIRE GLI ANIMALI! Li mandò giù con una Royal Crown tiepida. Arrivarono altri visitatori, altri bambini. A quanto pareva, lo zoo era un posto popolare. Marianne sedette per un po' su una panchina traballante, all'ombra di una grande quercia, e guardò gli inservienti dare da mangiare a Ezra, Fumo, ChaCha e Fleur, gli orsi neri. Gli inservienti erano teenager a petto nudo, e le ricordarono talmente i suoi fratelli anni prima che alla fine dovette chiudere gli occhi. Si spostò a un'altra panchina a guardare Bo, Peep, Louie e LaLa, pecore berbere selvatiche chiuse in un recinto, e poi si appisolò. Metà pomeriggio, tardo pomeriggio. Un'ombra striata di sole. Non aveva un posto dove andare. Aveva trovato la strada fin lì, e non aveva un posto dove andare. Ma no, certo che no. Si era scordata il piccolo bungalow di legno dipinto di bianco, il Wayside Motor Court, a... dove? Non Spartansburg. Aveva lasciato Spartansburg settimane prima. Il nome le sarebbe tornato in mente in un minuto. Non che avesse bisogno di un nome per ritrovare la via di casa. Non che importasse dove si trovava di preciso, visto che di lì a poco si sarebbe trasferita. Non appena le avessero restituito Focaccina avrebbe messo a fuoco i suoi piani. Pensò a quello strano zoo, quel rifugio per animali. Abbandonati, maltrattati, malati, storpi. Sopravvissuti. Che cosa ne avrebbe pensato Patrick? È ridicolo essere sentimentali con gli animali, avrebbe detto. L'individuo non esiste, c'è solo la specie. E magari nemmeno la specie resisterà a lungo: ogni giorno, ogni ora, ci sono specie che si estinguono. Molte delle quali, animali, uccelli, rettili, anfibi, non saranno mai note all'Homo sapiens. La religione è una fantasia tranquillizzante, diceva Patrick. Il cristianesimo più di tutte. Un'altra storia che la gente si racconta al posto della storia che non vuole udire. Marianne sentì qualcosa premerle sul gomito. «Oh, chi sei? Hai fame?» Era uno dei cervi. Un giovane maschio dalle corna vellutate, della stazza di un pony. Sembrava in perfetta salute, non gli mancava una zampa, non pareva cieco. Ridendo deliziata, lo nutrì con gli avanzi del popcorn, che il cervo mangiò dal palmo della sua mano. La sensazione umida di solletico, così familiare. Il dottor West, tanto impaziente con la ragazza che implorava di prolungare la vita a un vecchio gatto, le aveva detto di chiamare il mattino dopo per sentire come fossero andate le cose a Pittsburgh. Marianne aveva intenzione di lasciare Stump Creek Hill e tornare al suo piccolo bungalow
desolato, e poi al mattino telefonare, ma si trovò a indugiare allo zoo. Diede altro popcorn al cervo dalle corna vellutate e a cinque o sei suoi amici. Mentre stava dando da mangiare a un gruppo di anatre bianche a collo lungo, in un angolo più lontano dall'ingresso, un altoparlante annunciò che lo zoo avrebbe chiuso di lì a cinque minuti. Marianne finì in una toilette per signore, non esattamente per nascondersi ma certo non per mettersi in mostra. Riemerse solo al tramonto. Provava un immenso senso di pace, tranquillità. Adesso lì non c'era un solo Homo sapiens, a parte lei! Cenò con altre noccioline, popcorn, una bibita dei distributori; da una panchina si arrampicò su una biforcazione di rami di una quercia e da lì al tetto di un capanno dietro il recinto di Cenerentola e Svengali dove, alle primissime ore del mattino, venne scoperta al risveglio da un sonno torpido, comatoso. Da Whittaker West in persona, che la fissò in completo stupore. «Signorina Mulvaney, cosa diavolo ci fa qui?» Marianne balbettò un poco, anche se era la più semplice delle verità. «Ho pensato, ecco, che sarebbe stato più facile. Se non mi fossi allontanata troppo.» Focaccina venne riportato dalla clinica di Pittsburgh. Aveva la zampa anteriore sinistra rasata, perché lì era entrato l'ago. Avrebbe recuperato l'appetito e una parte del peso perso, e sarebbe vissuto altri tredici mesi. Quando morì, per la seconda volta parve quasi, Marianne si era unita a tempo pieno al personale di Stump Creek Hill e aveva vissuto lì per la maggior parte di quei mesi. Era il lavoro più meraviglioso, non smetteva mai di meravigliarsi, che avesse avuto in vita sua: rispondeva al telefono, era a un tempo impiegata e inserviente in ufficio; aiutò a preparare il nuovo opuscolo per la raccolta di fondi (Dodici buone ragioni per essere generosi con Stump Creek Hill, con inserti fotografici di dodici degli ospiti animali più graziosi e fotogenici); dava una mano nei recinti per cani e per gatti, dove c'erano animali di proprietà, visitatori temporanei e animali da adottare; aiutava nella manutenzione generale dello zoo, che era il suo lavoro preferito. Disse a Whit West che le sarebbe piaciuto avere studiato veterinaria all'università; e ovviamente Whit ribatté, con quel suo fare scorbutico: «Perché parli al passato? Niente ti impedisce di iscriverti adesso all'università». Marianne arrossì per la confusione e se ne andò: non era affatto quello che intendeva. Rhoda le disse: «Non lasciarti ferire da Whit. Non vuole essere scortese. È solo che lo sembra».
Il Rifugio e clinica per animali era stato creato da Whit in parte grazie a un'eredità e in parte grazie a numerose donazioni. La proprietà in sé, quindici acri e una villa in stile inglese un tempo elegante, era stata lasciata a Whit da un'anziana vedova a cui aveva curato per anni undici gatti siamesi. Bene, evidentemente. (Una delle clausole della vedova era che gli undici siamesi continuassero a vivere nella villa con lo stile a cui erano abituati, e per Whit non fu un problema accontentarla.) I parenti della vedova, oltraggiati, avevano impugnato il testamento e c'era stata una lunga causa legale, con parecchia pubblicità nella Pennsylvania occidentale. «In certi ambienti sono stato dipinto come un gigolò» si lamentava Whit. «In altri, come san Francesco d'Assisi.» Alla fine, lo zoo era uscito vittorioso al novanta percento. Il salone da ballo con il soffitto a dorature era usato per i canili; la serra dal soffitto di vetro era una voliera per uccelli feriti, convalescenti e "in pensione" (tra loro, un pappagallo grigio africano e un cacatua bianco come la neve, uccelli sorprendenti e molto intelligenti, di specie nuove per Marianne); un ex salotto, ancora arredato da sbiadite poltrone e divani imbottiti, ormai meravigliosamente sventrati, era la sede di "Micio City" (un rifugio che ospitava fino a cinquanta gatti, sovvenzionato da persone di buoni sentimenti che non volevano o non potevano portarseli a casa). Molte delle stanze più piccole della villa erano vuote; pochi membri del personale vivevano lì, gli altri facevano la spola da casa. Quando Marianne venne assunta, Whit la portò di sopra, spalancò le porte di stanze che probabilmente non vedeva da parecchio tempo. «Scegli la stanza che vuoi, se riesci a trovarne una che sia vivibile. E prendi mobili, tutto quello che vuoi. Usa l'immaginazione.» Whit abitava nella rimessa per carrozze annessa alla clinica. Era ossessionato da quel posto, ammetteva; forse sino alla follia. «L'idea di andarmene via, per esempio in vacanza, anche se solo per pochi giorni, mi dà il panico» diceva. Marianne gli rispondeva: «Oh, ma perché qualcuno dovrebbe volersene andare da qui?». Una prospettiva inimmaginabile. Negli anni tra il trasferimento alla villa, nell'agosto 1984, e l'improvvisa convocazione di Corinne a Rochester, nell'ottobre 1988, Marianne non si sarebbe mai allontanata da Stump Creek Hill per più di un giorno. Così, ispirata, Marianne mise assieme una stanza al primo piano della casa, con vista sulle alte querce dello zoo e sul recinto roccioso degli elefanti. Che rara delizia da donna di casa, arredare la stanza con gli strani mobili meravigliosamente traballanti ed eleganti sparsi in casa! Se solo
Corinne avesse potuto vedere! Ma Marianne esitò per mesi prima di chiamare la madre. E anche quando telefonò, provò riluttanza a confidare troppo a Corinne. Perché ciò che era tanto prezioso per lei, al punto di sembrare talora un sogno che aveva elaborato con Focaccina, non sarebbe parso tale a Corinne. «Vita da trapunta di stracci!» avrebbe sospirato pesantemente. Sottintendendo che la sua vita fosse invece così stabile, così affidabile, così definita. La "pulizia del sangue" fece meraviglie per Focaccina. Persino Whit West restò sorpreso. Non appena venne restituito a Marianne e installato nella nuova dimora, Focaccina cominciò a rimettersi. Nel giro di pochi giorni appariva normale, o quasi: la zampa rasata gli dava un'aria seria, che il pelo bianchissimo e le chiazze multicolori da clown non riuscivano a dissipare. Whit avvertì: «Sai che è una guarigione solo temporanea, vero, Marianne?». Lei mormorò di sì. Era pronta ad accettare la seconda morte di Focaccina, in qualunque momento. Pensava Sono temporanea anch'io. Non mi aspetto niente di più. A Stump Creek Hill, i giorni si fusero in altri giorni, le settimane in settimane e mesi in un'attività frenetica intervallata da oasi di relativa calma. "Noia terapeutica" la chiamava Whit. Noia! Nessuno dello staff condivideva il suo atteggiamento: erano felici della quiete, quando arrivava. Ma in un posto consacrato a tante creature inferme e anziane, con un servizio veterinario d'emergenza a cui la gente portava animali in condizioni disperate (investiti sull'autostrada, per esempio), c'era ben poca quiete. I canili in soggiorno rigurgitavano di creature uggiolanti, mugolanti, latranti; l'anticamera dell'inferno. Grazie alla pubblicità promossa da Whittaker West, lo zoo-rifugio era conosciuto per centinaia di chilometri, e grazie alle Società umanitarie associate nell'intero continente, e così il telefono squillava in continuazione, arrivava sempre gente con animali feriti, randagi, cucciolate di cani e gatti abbandonati, ex pulcini e coniglietti di Pasqua cresciuti alle indesiderabili dimensioni di adulti. (Ragazzona, la scrofa vietnamita di centotrenta chili, era stata regalata a un bambino quando era ancora piccola.) C'erano animali vittime di altri animali, cani e gatti morsi gravemente da cani, cervi maschi feriti in maniera terribile da altri cervi nella stagione degli amori, ma naturalmente per la maggior parte i colpevoli erano uomini. Denutrizione, maltrattamenti, vere torture. (Il boxer di Whit, Luther, da cucciolo era stato cosparso di cherosene e dato alle fiamme da ragazzi.) Dopo pochi giorni a Stump Creek Hill, Marianne imparò a non fare domande troppo precise. Quando qualcuno le diceva deciso: «Ehi, le convie-
ne non sapere» lei lo prendeva in parola. Quando era ancora una novizia del servizio telefonico, ebbe una conversazione con una donna distrutta che le disse di essere "condannata a morire" nonostante chirurgia, radiazioni e chemioterapia, e la cosa che la preoccupava di più era il destino dei suoi due gatti. «Mimì e Fifì hanno soltanto me. Non sono giovani. Che fine faranno? Appena me ne sarò andata io, che fine faranno?» La donna scoppiò in singhiozzi e Marianne dovette fare un grosso sforzo per non crollare a sua volta. Promise di occuparsi personalmente dei gatti. Senza dirlo a Whit, fece una quindicina di chilometri con il furgone Chevy per andarli a prendere: una coppia di snelli gatti neri con chiazze bianco marmo e lunghe code prensili come quelle di scimmie. La loro scheletrica padrona, che si sciolse in lacrime vedendoli partire con Marianne, non poteva avere più di quarant'anni. A Marianne ricordò Corinne: palpebre e dita fluttuanti, e dietro un carattere d'acciaio. «Non mi dispiacerà troppo morire se so che Mimì e Fifì saranno in buone mani» disse ansiosa, ed effettivamente afferrò tra le proprie le mani di Marianne. «Mi promette? Mi promette?» «Oh, sì» rispose Marianne, tra le lacrime. «Prometto.» Ripartì per Stump Creek Hill. Mimì e Fifì miagolavano sul sedile posteriore, in un contenitore di vimini. Dio ci aiuti, che mondo di sofferenze. Quando Whit apparve nel tardo pomeriggio trovò Marianne, terrea, inginocchiata sul pavimento di una stanza sul retro dell'ufficio. Stava cercando di fare uscire Fifì e Mimì, che si erano nascosti dietro le scatole di cibo per cani. Aveva pianto, e la sua aria era talmente desolata che Whit si risparmiò le battute sarcastiche che gli erano forse venute in mente. Le chiese cosa diavolo succedesse e Marianne gli raccontò della malata terminale e dei suoi gatti e gli disse anche di avere letto alcuni dei rapporti che lui aveva inviato alla Società umanitaria degli Stati Uniti e all'Associazione americana per la protezione del cavallo: le insopportabili crudeltà subite dai cavalli spediti al macello: non ne aveva mai sentito parlare e aveva avuto un cavallo che adorava e i suoi lo avevano venduto e non era certa di essere abbastanza forte e coraggiosa per quel lavoro, a conti fatti. E Whit la interruppe: «Marianne, noi siamo qui per servire quegli animali, non noi stessi. Ci impegniamo a rendere ragionevolmente felice quel che resta delle loro esistenze e se tu puoi fare anche poco, quel poco è di grande valore per gli animali. Giusto?». Marianne scrollò la testa in un sì, un no. Non era sicura. Aveva usato l'ultimo fazzolettino e le gocciolava parecchio il naso. Whit disse allegro: «Un giorno per volta! Vedrai».
Proprio allora Mimì e Fifì emersero dal nascondiglio e Marianne li portò di sopra nella sua stanza a vivere, più o meno in armonia, con Focaccina, e con il tempo anche Marianne giunse a condividere l'atteggiamento di Whit. O a capirne la logica. Era l'atteggiamento, la filosofia di tutto lo staff, almeno di quelli che non si stancavano subito e se ne andavano. Quanto erano tutti affascinati dal dottor Whittaker West, e ne erano intimiditi! Era una di quelle persone che sembrano nutrirsi di emergenze, tensione, "sfide" come le chiamava lui. Andava spesso a Philadelphia e Washington a promuovere leggi per "ridurre le sofferenze degli animali per mano dell'uomo". Aveva l'aspetto di un uccello impaziente, sgraziato (uno struzzo, una cicogna): dinoccolato, guizzante. Le sue ciglia erano ciuffi incolti, gli crescevano peli nelle orecchie e nelle narici. Gli avambracci, nudi quando indossava il camice bianco e sporco, erano grovigli di peluria scura. Aveva tratti del viso talmente mobili che non riuscivi a capire se fosse bello o insignificante; le sue maniere così spicce, lo sguardo talmente intenso, che era difficile riuscire a "vederlo". Aveva volto e braccia segnati da cicatrici per gli assalti subiti dagli animali nel corso degli anni; quella di maggiore spicco, una mezzaluna lunga cinque centimetri sopra l'occhio sinistro, era opera di una lince rossa con la rabbia. Marianne spesso non lo guardava, anche quando lui le si rivolgeva direttamente; come Penelope Hagström, Whit West era troppo reale. E il guaio di quel tipo di persone è che, per il semplice fatto di concentrare su di te la loro attenzione, ti danno l'impressione di essere a tua volta reale. Si diceva che Whittaker West fosse figlio di un uomo d'affari benestante di Philadelphia che possedeva cavalli purosangue ed era rimasto coinvolto in uno scandalo negli anni cinquanta: le sue stalle erano state incendiate, da un piromane prezzolato, per incassare i soldi dell'assicurazione su cavalli che nelle corse non davano i risultati voluti dal proprietario. Si diceva che Whit fosse rimasto terribilmente ferito e amareggiato da un matrimonio terminato da molto tempo: la sua ex moglie, che apparteneva a un'altra famiglia benestante di Philadelphia, aveva chiesto il divorzio per crudeltà mentale accusando il marito di preferire "l'amore degli animali" all'"amore della sua sposa". I media locali avevano dedicato molta attenzione al caso, e grande era stato l'imbarazzo di Whit. Era accaduto anni addietro e dell'attuale staff solo Irma, una donna sulla cinquantina, ricordava la signora West: una giovane signora avvenente, elegante, ben vestita, che non aveva mai approvato il lavoro del marito, e tanto meno la sua dedizione. All'epoca, comunque, Whit viveva con la moglie in una vera casa
e non nella villa di Stump Creek Hill. La signora West si presentava in visita di rado. Quando arrivava, trovava invariabilmente difetti nel personale, oppure le accadevano incidenti comici. Una volta aveva stupito Irma entrando di corsa, terrorizzata, in ufficio, barcollando su scarpe a tacchi alti, sostenendo che un pavone "gigantesco" si era messo a strillare e si era scagliato direttamente contro la sua testa. Era esangue, sul punto di svenire. Whit venne subito convocato. Si trovava sul retro dell'ufficio, e sulla guancia aveva un taglietto ancora sanguinante perché un pappagallo gli aveva dato una beccata. La signora West, vedendolo, emise un gemito strozzato e crollò sul pavimento. Oh, era divertente! Triste, ma divertente. Perché ovviamente alla fine fu Whit a soffrire. Però, insisteva Irma, era una storia notevole... Quando la signora West arrivava con la sua piccola Fiat coupé bianca i pavoni, sempre, lanciavano quel loro strillo particolare che potrebbe far esplodere i timpani. Uno dei micidiali gattoni maschi guizzava fuori a spruzzare orina sulla carrozzeria bianca e lucida della Fiat, e a volte sulle snelle caviglie della signora West. Se visitava lo zoo, le scimmie si mettevano a saltare senza pudore, addirittura le spruzzavano addosso acqua dalla bocca. Anche se di norma gli animali di Stump Creek Hill avevano superato l'età degli amori, o non ci pensavano per colpa delle loro infermità, accadeva che, se appariva la signora West, due degli animali più giovani si accoppiassero, e senza vergogna, bene in vista. Le antilopi erano le più terribili! Altri animali bisticciavano, lottavano; le capre e i galli più giovani stavano sempre ad azzuffarsi, fare a botte. C'era sempre troppo vento a Stump Creek Hill, oppure diluviava; oppure faceva caldo, e i pappataci mordevano, a meno che non fossero i tafani, o i moscerini della palude a poca distanza da Stump Creek. Se si verificava un'improvvisa epidemia di pulci (pulci che si potevano vedere, minuscoli segni d'interpunzione che dal terreno ti balzavano sulle gambe) la povera signora West arrivava infallibilmente prima che la situazione tornasse sotto controllo. Era sarcastica con le giovani donne dello staff, immaginava che avessero "progetti" sul marito; però era troppo vanitosa per immaginare che Whit, a sua volta, potesse essere attratto da una di loro. Un gruppo di ragazze sbrindellate, con i capelli flosci; povera spazzatura! Marianne chiese, cauta, perché non voleva mostrarsi curiosa: «Com'era esattamente la signora West?» e Irma rispose veemente: «Il classico aspetto da ragazza pon-pon. Molto bionda, sicura di sé. Miss Personalità Extra, tranne quando le cose non andavano a modo suo. Si vedeva benissimo che Whit l'aveva sposata per amore. Non avevano nient'al-
tro in comune». Marianne si vide riflessa in una superficie lucida: un viso bruciato dal sole più da ragazzo che da giovane donna, sopracciglia che forse avevano bisogno di essere sfoltite se avesse osato guardare meglio, capelli inselvatichiti che le erano cresciuti fino alle spalle, raccolti alla meglio a coda di cavallo. Anche le sue mani e gli avambracci adesso erano coperti da una rete di graffi per gli incontri con gli animali e segnati dai morsi di chissà quali insetti. Si mordicchiò il labbro e rise. Nessuno le avrebbe mai attribuito il "classico aspetto da ragazza pon-pon". Non avrebbe detto Sono innamorata di Whit West, ma semmai Se fossi innamorata, lo sarei di Whit West. Whit lo intuiva? Indovinava? Marianne avvampava d'imbarazzo quando lui la stuzzicava in quel suo modo spietato, chiedendole per esempio se volesse accompagnarlo a Washington per l'incontro con l'uno o l'altro congressista («Si metterebbe a sedere e a te darebbe retta») o a New York per uno dei suoi turbinosi weekend di raccolta di fondi: «Suite separate al Waldorf, promesso!». (Suite! Waldorf! Era uno scherzo. Whit riusciva a trovare i motel Eco-Inn ovunque andasse.) Marianne rideva nervosa, lasciava vagare lo sguardo, diceva: «Non adesso, Whit». Whit diceva: «Perché no, Marianne? Hai preparato tu tutta la documentazione». Marianne ribatteva, indietreggiando: «Insomma, non penso sia una buona idea». Whit, con una risata per mostrare che scherzava, diceva: «È evidente che non lo pensi. Ma perché?». Ma Marianne era già scappata a rispondere al telefono o ad andare incontro al proprietario di un animale che era entrato di corsa con l'animale in un qualche stato di crisi. Con Marianne, Whit non andava mai oltre quel tipo di battutine, che peraltro facevano parte dell'atmosfera di Stump Creek Hill. Il suo tono era sempre lieve, giocoso, gentile. Vedendo ciò che appariva sul viso di Marianne, un bagliore di panico, una fitta di terrore, aveva l'intelligenza di tirarsi indietro. Da ragazzo si era occupato di cavalli e sapeva riconoscere una creatura spaventata: agisci troppo in fretta e la farai scappare. Marianne, per parte sua, stava sempre in guardia. Era realmente rilassata (gli altri se ne accorgevano? sperava di no) solo quando Whit era via e non sarebbe tornato per un po'. Quando non c'era il rischio che lui spuntasse da una porta strillando: «Okay! La pausa è finita! Rimettiamoci al lavoro!» come se in sua assenza tutti stessero con le mani in mano. Quando non c'era la possibilità di imbattersi in lui nel salone-canile, dove il frastuono era tale che qualcuno poteva arrivarti alle spalle e chiamarti per nome e non
avresti sentito. E all'ora dei pasti, quando Whit mangiava spesso con i cinque o sei membri del personale che vivevano lì, pasti semplici in stile picnic attorno a un bel tavolo in mogano con le gambe intarsiate, un elegante residuo dei giorni di gloria della villa e lui, in un camice bianco spruzzato di sangue, con la barba di due giorni e unghie venate di sporcizia, metteva nei piatti la sua quiche speciale (fagioli neri funghi peperoncino) maledicendola di cuore come se, ogni volta che gli veniva "liquida come sciacquatura di piatti", fosse la prima volta, una assoluta sorpresa e umiliazione. Il tasso di risate a quei pasti messi assieme alla buona era tale che Marianne, per quanta timidezza le ispirasse il suo datore di lavoro, trovava difficile non guardarlo: come poteva evitarlo, con Whit impegnato a fare il clown con foga infantile? Il suo buon umore era esagerato e per certi versi contagioso quanto il cattivo. Marianne imparò ben presto a stare in guardia dal dottor Whittaker West che l'aveva assunta d'impulso, visto che si vantava sempre di assumere e licenziare come gli pareva a Stump Creek Hill (ma chi aveva mai licenziato, per quanto incompetente? A Irma non veniva in mente un solo nome), per potere stare alla larga il più possibile dalla sua dinoccolata presenza. Rhoda, Trudi, Irma, Gus, Steve, Wiggles le assicuravano di continuo: «Non dice sul serio. È solo il suo modo di fare». Lei sapeva che non diceva sul serio, però ciò che voleva realmente dire era nascosto in maniera tanto astuta in quello che diceva, come chicchi di grano nella paglia, e lei ne restava innervosita. C'era un che di erotico, di sensuale nel veterinario quando era presente lei, no? Oppure se lo immaginava? Quanto era più piacevole osservare Whit inosservata, da distanza di sicurezza: il suo modo di camminare, il leggero piegarsi di spalle e collo, il modo in cui portava uno dei suoi lerci berretti con la scritta STUMP CREEK HILL. SOSTENETELI!, tutto storto; i movimenti sussultanti di mani, braccia, gambe. La nuca. Marianne ammirava persino la sua ombra! Eppure trovava sgradevole guardare Whit in faccia quando lui le parlava. Temeva che scrutasse impudente nella sua anima e scoprisse la sua vera natura, come aveva fatto Penelope Hagström. Perché anche Whit era un poeta. Non della lingua ma dei gesti. Il suo modo di dare conforto ad animali tanto terrorizzati che vibravano come motori, tenendoli fermi con le mani dalle grandi nocche. Sussurrando e blandendo e persino scherzando con loro. Il modo di usare la siringa per iniettare un vaccino o estrarre sangue: la delicatezza, la ferrea saldezza. La tecnica, afferrando da sotto la mascella rigida di un animale, di mettergli una capsula sulla lingua in maniera che l'animale riuscisse a
inghiottirla senza sforzo, anche il più ombroso e terrorizzato. Quando Focaccina ricominciò a non stare bene, per la seconda volta, Whit volle insegnare la tecnica a Marianne, perché il gatto era soggetto a infezioni e doveva prendere antibiotici a varie ore del giorno. All'inizio, il tocco di Marianne era troppo esitante. Focaccina si liberava, si sottraeva alla presa in preda al panico e cercava di scappare. «Ho paura di fargli male» protestò Marianne. «Non essere sciocca. Non è così facile fare del male a un animale» ribatté Whit. Accarezzò deciso Focaccina per calmarlo, gli afferrò con mano esperta la mascella da sotto e gliela fece aprire. «Visto? Adesso tocca a te, Marianne.» Così Marianne, tremante, tentò, e tentò, e infine ci riuscì; e Focaccina inghiottì la capsula. «Gli animali sono essenzialmente selvatici» disse Whit, con aria d'approvazione. «Nei cani e gatti "domestici", solo il dieci percento visibile è addomesticato. Il resto è natura. Giusto, Focaccina?» Grattò le orecchie del gatto e Focaccina lo fissò battendo le palpebre. Marianne pensò Si capiscono. Ma che cosa capiscono? Quando infine Focaccina morì, pochi mesi dopo, magrissimo, con gli occhi tanè gialli d'itterizia, fu tra le braccia di Marianne, mentre Whit gli iniettava un farmaco che fermò il suo cuore all'istante. Si era indebolito in fretta, in qualche giorno. Aveva smesso di mangiare. Non era scappato via a morire in un bosco come temeva Marianne, non si era mai avventurato molto fuori in quel posto nuovo, intimorito dai numerosi gatti micidiali che vivevano lì; si appisolava per lunghe ore sul letto di Marianne, sulla vecchia trapunta logora. Di notte, dormiva stretto contro le gambe di Marianne, respirava appena, e di tanto in tanto si contorceva con una forza tale che Marianne, sveglia, si chiedeva se sarebbe vissuto fino al mattino. Quel giorno, Marianne disse a Whit: «Siamo pronti. Siamo preparati». Whit disse dolcemente: «Focaccina lo è, Marianne, ma tu?». Lei non rispose. Però quando Whit immerse l'ago tra le spalle ossute di Focaccina, e il gatto sobbalzò, e si irrigidì, e immediatamente dopo si afflosciò, privo di vita come una bambola di pezza, Marianne lo tenne stretto, e non ebbe un crollo. Oh mio Dio, è possibile? Può davvero accadere? Fissò esterrefatta il gatto morto tra le sue braccia, gli occhi spalancati, vuoti. Però non crollò, almeno non quella volta. Whit, seduto sul letto d'ottone di Marianne, carezzò il pelo di Focaccina che era così morbido e vellutato. Marianne non riusciva a guardare Whit, però vide un luccicore sulla sua guancia. Whit disse: «Focaccina non era il tuo unico amico, Marianne». Marianne rispose calma: «Questo lo so».
Whit disse: «Non era l'unico ad amarti, Marianne». «So anche questo» disse Marianne, ora lievemente esitante, come sull'orlo di un abisso, però con una certa calma. Terapia intensiva Quello era Judd? Il ragazzo alto, snello, con lo sguardo fisso che aspettava Marianne nel corridoio d'ospedale, per abbracciarla e guidarla al reparto di terapia intensiva? E quella era Corinne? Capelli di un grigio diffuso, un grigio come di sassi triturati, con un intenso rossore sulle guance magre. Corse verso di lei, la abbracciò con tanta forza che Marianne si trovò senza fiato. «Oh, Marianne! Grazie a Dio sei qui, amore! Papà si sta svegliando.» L'aria lì dentro era fredda come in un congelatore. Venivano ronzii da ogni lato. Marianne non riusciva a smettere di tremare. Lei e sua madre si fissavano a occhi sgranati stupefatti. Corinne sussurrò: «Non essere sorpresa, Marianne. Papà è stato operato per togliergli un polmone canceroso. Da ieri entra ed esce da periodi di delirio. Non è come lo ricordi tu». Marianne era spossata. Aveva guidato da Stump Creek Hill alla clinica medica dell'Università di Rochester, quattrocentottanta chilometri quasi senza sosta, più di sei ore sul traballante furgone Chevy, viaggiando per la maggior parte del tempo su strette strade di campagna, e a Rochester non sapeva dove fosse il centro medico così aveva dovuto fermarsi a chiedere indicazioni varie volte, intimidita da tanto traffico, da dimensioni e complessità di una città dove non era mai stata e dall'intreccio da incubo di strade sopraelevate, rampe d'accesso e d'uscita, vie a senso unico. Aveva pregato, con la voce di una bambina spaventata: «Caro Dio, caro Gesù, non lasciate morire mio padre» e adesso, come in un sogno in cui altri si fossero introdotti, appropriandosene, veniva guidata da sua madre, mamma che amava tanto! mamma che le era tanto mancata! mamma che stringeva entrambe le mani di Marianne nelle proprie, con dita fredde e ansiose! E Marianne si trovò non in una stanza ma in un cubicolo, a guardare una persona in un letto sollevato tra strumenti scintillanti che emettevano bip intermittenti. Ma non era qualcuno che Marianne conoscesse, no? Un uomo di un'età al di là degli anni, con la pelle del colore della cenere, occhi e guance infossate. I capelli erano sottili strisce color stagno sulla sommità lucida del cranio, solcata da vene; c'erano rughe scavate da artigli sulle guance, gli occhi sporgevano incredibilmente da orbite contuse. Un tubo trasparente gli entrava nella narice sinistra e altri tubi erano collegati alle
braccia raggrinzite e scomparivano sotto le lenzuola che coprivano un corpo piatto, ma voluminoso. Marianne guardò incredula mentre Corinne mormorava febbrile: «Michael? Amore? Guarda chi c'è! Ha fatto tanta strada! C'è Marianne». L'uomo che era Michael Mulvaney Sr., l'uomo che era papà, un papà tanto cambiato, scrutò Marianne a palpebre socchiuse, come accecato da una luce. Cercò di muovere la testa sul cuscino sollevato ma il tubo che gli entrava nella narice parve bloccarlo. L'occhio destro era iniettato di sangue e non metteva a fuoco. Nell'aria ronzavano il condizionatore, le macchine; uno schermo di computer mostrava nervose linee blu a zigzag. C'era un odore vago, come di arance marce, che Marianne aveva imparato a conoscere nell'ufficio di Stump Creek Hill e non volle identificare. Corinne la spinse avanti. Marianne osò prendere la mano del padre aggrappata alla ringhiera del letto, una mano così sottile, fredda! le ossa sembravano vuote! ma le dita si chiusero attorno alle sue con imprevista forza, urgenza. Michael tentò di parlare, fece uno sforzo enorme, ma emise un suono confuso, un gorgoglio come di chi anneghi, terribile da udire. Marianne si chinò sul letto, ansiosa ma sorridente. «Papà? Sono io.» Lui le abbrancò la mano come sperando di riuscire ad alzarsi con la semplice forza e liberarsi delle cose che lo tenevano fermo e sembravano confonderlo. Alla fine riuscì a borbottare parole coerenti, frasi. «Dove?... non volevo... così stanco... voglio... Dio aiuti... dov'è?... così stanco così stanco...» e di colpo la sua energia svanì. Ricadde sul cuscino e chiuse gli occhi, respirando rauco. La stretta sulla mano di Marianne si allentò; lei continuò a stringere forte. «Papà? Oh, papà, mi spiace tanto» disse, risoluta a non piangere, e per quello che parve un tempo lunghissimo loro tre aspettarono che Michael riaprisse gli occhi. Lui cominciò a scivolare nel sonno, ma non pacificamente, muovendo le labbra, con occhi che si agitavano dietro le palpebre. Sussultò, gemette, parve discutere con qualcuno. Era affondato sotto la superficie della coscienza come chi cade sotto la superficie dell'acqua e lì fluttua a raccogliere la disperata forza per riemergere, salvarsi. Quanto era vicina la superficie, ma quanto solida la membrana che lo intrappolava sotto! Un'infermiera entrò nel cubicolo e disse loro di aspettare fuori e i tre ubbidirono, e di nuovo Corinne afferrò le mani di Marianne, fissandola quasi con avidità. Marianne non aveva capito subito quanto fosse esausta sua madre, anche per il tono stranamente eccitato della voce. «Marianne, mio Dio, come sei cresciuta! non è vero Judd? e i tuoi capelli, oh amore i tuoi capelli, oh come sei bella Marianne, so che sei esausta, so
che questa è una sorpresa terribile, Marianne non sarai sposata vero? sei sposata amore? no? mi, mi chiedevo, insomma è stato tutto così confuso, mi spiace non essere stata una madre migliore, non so che cosa sia esattamente successo, è solo una cosa che è successa, no? nessuno ha mai deciso, io non ho mai deciso, ti amo tesoro, grazie di essere venuta, tuo padre vuole parlare con te, ce lo ha detto, non è vero Judd? oh che momento triste, terribile per noi, possiamo pregare, è l'unica cosa che possiamo fare, però è un momento triste, dobbiamo essere pronti, le infermiere ci hanno avvertiti. Sono state così dolci, così comprensive, non è vero Judd?» Occhi di un azzurro chiaro slavati dalla stanchezza, stranamente privi di ciglia, nudi nella forte luce al neon che pioveva dall'alto, e anche mentre Judd mormorava una risposta Corinne continuò con quel suo fare di incerta eccitazione: «Papà continua a svegliarsi e riaddormentarsi dopo l'operazione, lo sai che gli hanno tolto un polmone? un polmone canceroso rimosso, è successo nove giorni fa, immaginati! e ha quasi sempre riconosciuto me e Judd, ha detto alcune cose che siamo riusciti a capire e adesso lui riesce a sentirci e a capirci, non è vero Judd? però è arrabbiato, non sa perché sia qui, è arrabbiato anche con qualcuno che lo ha derubato, ha portato via soldi e fotografie dalla sua stanza, oh quella stanza orribile! Papà viveva in uno schifoso puzzolente hotel in centro, è crollato per strada ed è rimasto qui in ospedale per più di una settimana prima che qualcuno si prendesse il disturbo di guardare nelle sue cose e telefonarmi, e sono sua moglie! la persona più vicina a lui! Immagina un po'!». Si girò verso Judd, che scrollò le spalle come per imbarazzo e disse a Marianne: «Papà è "indigente", è alcolista, un cliente delle opere di carità, francamente credo sia una fortuna che lo abbiano curato tanto» e Corinne aggiunse subito: «Oh, sì, sia ringraziato Dio, hai ragione Judd, certo che hai ragione, grazie a Dio le sue cose non sono state buttate per strada, il mio nome e il mio indirizzo non sono andati persi, sono grata a chi mi ha telefonato dall'ospedale, sono grata ai medici che lo hanno ricoverato e operato anche se non riesco a trovare di preciso qualcuno con cui parlare, il chirurgo non c'è mai, non ho mai parlato con lui, però le infermiere sono dolci, così comprensive e gentili, e papà non ha più l'assicurazione medica, io sono coperta per le spese mediche dalla contea, lavoro lì, ma non papà, oh Marianne, hanno tolto un polmone ma dicono che è troppo tardi, il cancro si è diffuso al cervello, i reni sono in metasi...». E Judd disse, dolcemente: «Metastasi, mamma». «Metastasi, certo.» Corinne si era messa a piangere in silenzio, nel modo che Marianne ricordò per la prima volta da anni: un pianto materno, muto, soffocato, se-
greto, per non disturbare. Se piangi facendoti sentire da altri lo fai perché desideri farti sentire, ma il pianto materno è l'esatto opposto, piangere per non essere uditi. Ma adesso Corinne non poteva nascondersi ai figli adulti. Judd disse a Marianne, in tono spiccio, con il modo di fare che era anche di Whit tanto spesso, come se di fronte a verità dure e pesanti la miglior cosa da fare sia affrontarle di petto: «È disfatto, disfatto. Fegato e cuore sono stati logorati dagli anni di bevute. Il fumo gli ha provocato il cancro, ma è chiaro che non ha fatto altro che uccidersi per anni. Povero papà!». Corinne strattonò il braccio di Marianne e disse, veemente: «Oh, era un brav'uomo e ti amava, vi amava tutti, è solo che è stato portato fuori strada. Ha appena sessantun anni, Marianne. Immaginati! Non è un'età da vecchio». Marianne sentì la propria voce che diceva, senza nemmeno capire che cosa significassero quelle parole: «No, mamma, non è un'età da vecchio». Quel giorno, più tardi, tornarono al capezzale di Michael Mulvaney nel cubicolo gelido, ronzante, nell'andirivieni della terapia intensiva. E di nuovo Michael lottò e riemerse alla superficie della lucidità. Puntò l'occhio buono, quello che riusciva a mettere a fuoco, su Marianne, cercò di parlare. Marianne disse: «Papà? Ti voglio bene. Non stancarti, papà, riposa, papà, mi spiace tanto». Ma Michael le stringeva la mano, cercava di parlare con estrema urgenza. Da un intreccio di rumori emersero parole, come sassi nel letto di un torrente, e a Marianne parve di sentire il proprio nome, Marianne, a meno che non fosse Marian, comunque un nome molto simile al suo, quasi identico, e chiaramente suo padre la guardava, la fissava, l'aveva riconosciuta, lei, Marianne. No? Ci fu un ultimo, debole spasmo d'energia. Le dita del padre strinsero quelle della figlia. Poi il moribondo perse di nuovo il filo della coscienza e ricadde sul cuscino. In una delle pause d'attesa che erano come pieghe nel tempo, mentre Corinne restava nel cubicolo nel caso suo marito si svegliasse, Marianne e Judd, sul punto di svenire per la fame, mangiarono in fretta alla mensa dell'ospedale; e poi, lieti della reciproca compagnia come vecchi amici che si fossero dimenticati di stare bene assieme, uscirono a passeggiare per mezz'ora nell'aria luminosa e ventosa dell'autunno. Com'era stranamente vivido, vasto il mondo; il cielo ripido sopra di loro... semplicemente lassù. In una stanza gelida, piena di luci e ronzii, era facile dimenticare che mondo e cielo esistono. Esistono. Marianne disse, meravigliata: «Papà mi ha rico-
nosciuta, credo. È vero, Judd, no? Non me lo sto immaginando?». E Judd disse: «Sì, certo che ti ha riconosciuta». Marianne rise, imbarazzata, si mordicchiò un'unghia. «Mi ha chiamata Marian, mi pare. Hai sentito?» Judd si accigliò. «Ti ha chiamata Marianne. L'ho sentito bene.» Marianne disse: «Allora mi ha perdonata? Insomma, mi ama ancora, non si vergogna di me?». E Judd disse: «Papà ti ha sempre amata, Marianne. Non si è mai esattamente vergognato. È stata... come ha detto mamma, una cosa che è successa». Marianne ripeté lentamente: «È stata solo una cosa che è successa». Judd disse: «Le famiglie sono così, a volte. Qualcosa va per il verso sbagliato e nessuno sa come rimediare e gli anni passano e... nessuno sa come rimediare». Parlava in fretta, quasi combattivo. Marianne disse: «Papà mi ha vista. Ne sono certa». Judd disse: «Marianne, per amor di Dio, ha pronunciato il tuo nome. Lo ha sentito mamma e l'ho sentito anch'io». Marianne non rispose. Camminava veloce, a testa bassa, toccandosi la lunga coda di cavallo che fluttuava nel vento; e Judd, con l'indulgenza e l'impazienza del fratello, come si trattasse di una vecchia questione di famiglia tornata a galla anche se era stata sistemata tanto tempo prima, aggiunse: «Ha chiesto di te. È per questo che mamma ti ha telefonato. Ha chiesto di Marianne, l'ho sentito con le mie orecchie, giuro, e non ha chiesto di nessuno di noi, dei suoi figli, per nome. Mamma e io abbiamo cercato di capire quello che si sforzava di dire. Vuole rivedere anche Mike e Patrick, però non ricordava di preciso i loro nomi, o non riusciva a pronunciarli, questo è sicuro. Però il tuo nome, Marianne, lo conosceva. Non mi credi?». E Marianne decise che sì, gli avrebbe creduto. Scomparso Cremate il mio corpo e spargete le mie ceneri e sarà la cosa più gentile che possiate fare per me. Amen. Quel mattino ventoso d'ottobre. Il cielo pallido con strisce di blu vivido, come pennellate da imbianchino. Vento, vento. Un alto suono acuto. Scuoteva l'automobile mentre salivamo. Sul sedile posteriore dell'automobile di Mike, tra Marianne e me, l'urna che conteneva i resti di Michael Mulvaney Sr. All'incirca della forma e delle dimensioni di una cappelliera. Avevo sbirciato, dovevo sapere: c'erano frammenti non minuscoli di ossa, un tritume come di ghiaia, e "ceneri" in polvere finissima. Era il mattino dopo la cerimonia funebre a Rochester. Noi soffrivamo in
silenzio. C'era poco da dire che non fosse stato detto. Io non dissi, acido Dove diavolo è Patrick! Odio quel bastardo. Superammo High Point Farm sulla sinistra, ma io guardavo risoluto da un'altra parte e non vidi. O forse avevo gli occhi ben chiusi. High Point Road si restrinse di colpo e il fondo divenne più irregolare, costellato di solchi. D'inverno, gli spazzaneve non si davano molta pena per quel tratto. La polvere si alzava in rabbiosi mulinelli nella nostra scia. Mike d'istinto ci stava portando al luogo perfetto. Sapevo esattamente dove si sarebbe fermato. Niente case per chilometri, nessuno che potesse passare di lì e restare a guardarci a bocca spalancata. I Mulvaney? Sono tornati? Che diavolo ci fate qui? Un'alta, ventosa cresta di ghiacciaio affacciata su un precipizio quasi verticale di centinaia di metri, macigni segnati da cicatrici sparsi in giro, vivide chiazze scarlatte di sommacchi. Era autunno, un autunno che sapeva di freddo, con foglie che molto in fretta avevano assunto brillanti sfumature arancio, giallo, rosso ruggine, e presto sarebbero state strappate dagli alberi. La voce di papà scherzò alle mie orecchie. Stai attento ad avere il vento alle spalle, ragazzo! Non sbagliare in un momento tanto cruciale, non avrai una seconda occasione. Disperdemmo i resti terreni di Michael Mulvaney Sr. al vento. E con quale velocità il vento li azzannò, con quale vorace appetito. Un latrato da iena che saliva dalla valle. Mamma disse: «Sento ridere papà, e voi? Oh, è divertente, in un modo o nell'altro. Sarebbe d'accordo anche lui». Mike e io alzammo l'urna, scrollammo via le ultime particelle di tritume e cenere. E il vento le prese, ruvido. E lui scomparve. EPILOGO Riunione quattro luglio 1993 Il telefono squillò. Andai a rispondere ed era mamma, senza fiato ed eccitata come una ragazza: «Vieni alla cena all'aperto del quattro di luglio, Judd! Vieni alla riunione di famiglia dei Mulvaney! Vieni ad aiutare Sable
e me a festeggiare le Antichità Alder e l'Indipendenza!». Era metà giugno, mancavano settimane. Notevole per mamma, che di solito chiamava per invitarmi all'ultimo minuto. Risposi di sì, certo che sarei andato, mi pareva una grande idea dissi, ma che cos'è la storia della riunione di famiglia dei Mulvaney? Mamma sostenne che era vero: «Ci sarete tutti. Compreso Patrick». A quello risposi con il silenzio. Chiesi che cosa volevano lei e Sable che portassi. E mamma disse: «Solo te stesso, amore! E, insomma, se avessi una, una...». «Una ragazza? Ma non ce l'ho.» «Be', insomma.» «Magari da oggi ad allora mi farò una ragazza» scherzai. «Ti va?» «Porta te stesso e chi vuoi. Sarà la nostra prima riunione annuale della famiglia Mulvaney.» Devo avere sospirato. Riuscii a credere per una frazione di secondo che Patrick si sarebbe fatto vivo? Dopo quattordici anni? Marianne e Whit, certo; Mike e Vicky, sì, probabilmente; ma Patrick? Mai. Mamma mi rimproverò, come se avessi espresso il mio scetticismo ad alta voce: «Judd, questa volta ha promesso. Abbiamo appena parlato al telefono». Mamma e Patrick mantenevano contatti sporadici. Dalle ultime notizie di prima mano che avevo di lui, Patrick viveva a Berkeley, in California, e stava studiando per diventare un qualche tipo di terapeuta. Oppure insegnava ad altri a fare i terapeuti? Per quanto ne sapevo non aveva mai concluso gli studi alla Cornell. Non aveva contatti con noi all'epoca della morte di papà; per questo non era venuto al funerale e non ci aveva aiutati a spargere le ceneri, anche se forse non sarebbe venuto lo stesso. Per tutti quegli anni non si era mai spinto a est a trovarci, e se mamma si offriva di prendere un aereo per andare da lui, Patrick evaporava, svaniva. Avevo l'immagine di molecole in rotazione dove poco prima c'era una figura umana, dissolta nelle proprie componenti al punto di non poter avere un'identità. Comunque, mamma si era messa in testa che Patrick si sarebbe presentato per la riunione del quattro luglio. Sì, aveva promesso, e aveva addirittura in mente di portare un amico, anzi un'amica, riteneva mamma, per quanto fosse vaga sul punto, come senza dubbio era stato Patrick. Avrebbe percorso tutta quella distanza in motocicletta, campeggiando lungo la strada.
«Ma te lo immagini, Judd? P.J. su una motocicletta!» Mamma era incredula e speranzosa come una ragazzina. Le dissi: «Francamente mamma, no, non riesco a immaginarlo». A Chautauqua Falls, dove adesso vivo e lavoro come redattore capo del Chautauqua Falls Journal, uscii a fare la spesa il mattino del quattro luglio. Comperai una cesta di granturco a una bancarella, scegliendo le pannocchie a una a una, con cura. Andai al negozio di birra e vino del quartiere e acquistai confezioni da sei di birra chiara, birra scura, bibite frizzanti. Poi passai al negozio di alimentari e riempii il carrello di buste giganti di patatine e ciambelline salate, piccoli costosi contenitori di salse (fiesta messicana, piccante, autentico curry indiano). Mi sentivo generoso, eccitato, stordito e ansioso, e la ragazza alla cassa, che mi conosce, rise e disse: «Ho l'impressione che tu vada a un pranzo del quattro di luglio!». E io ribattei, orgoglioso: «Quasi esatto, sì. È anche una riunione di famiglia». Dalle mie dita, così misteriosamente intorpidite, una lattina scivolò e cadde sul pavimento. ANTICHITÀ ALDER AFFARI & MERAVIGLIE! La nuova casa che mamma divideva con la sua amica Sable Mills sorgeva sul fianco di una collina sulla New Canaan Road, circa nove chilometri a sud di Mt. Ephraim e una trentina di chilometri a sudovest di High Point Farm. Avevo già visto la nuova abitazione di mamma parecchie volte, dato che Chautauqua Falls distava solo una quarantina di chilometri, anzi l'avevo aiutata nel trasloco; avevo aiutato lei e Sable a rimettere in sesto la proprietà e dato consigli su chi assumere per la ristrutturazione. (Non che mi avessero molto ascoltato. E se avessero chiesto la mia opinione all'inizio, cosa che non avevano fatto, avrei sconsigliato l'acquisto della proprietà. Ho preso da mio padre, suppongo; guardo le scalcinate "pittoresche" fattorie della valle con un occhio maschile non sentimentale, non con lo sguardo romantico da ragazza di campagna di mia madre.) Però devo ammettere che il posto è attraente. La casa e gli edifici annessi e i pascoli, quello che se ne può vedere dalla stradina. Il piccolo allegro granaio dipinto di un blu accattivante, con l'insegna ANTICHITÀ ALDER in grande rilievo. «Il mio sogno» diceva mamma, con un lieve sottofondo ironico nella voce per lasciar capire che si prendeva in giro, per quanto parlasse terri-
bilmente sul serio. «Il desiderio del mio cuore. Basta che non andiamo in fallimento!» Oh, era solo una coincidenza, sosteneva mamma, che Alder Creek, il bell'Alder Creek, stretto e traditore con la sua acqua veloce, si trovasse a un chilometro e mezzo dalla proprietà, attraversasse la New Canaan Road; lo stesso Alder Creek che scorreva nella nostra vecchia proprietà di High Point Farm, a nord. L'Alder Creek della mia infanzia. Il trillo e il gorgoglio dell'acqua sui sassi; quel suono come di voci lontane, mormoranti, interrogative. Ma mamma insisteva: una semplice coincidenza. «Sable e io ci siamo innamorate della proprietà, abbiamo dovuto acquistarla» diceva, e Sable aggiungeva enfatica: «Amore a prima vista!». La casa era modesta, il tipo di fattoria davanti a cui mio padre avrebbe alzato gli occhi al cielo, dicendo che non valeva la pena installare un tetto nuovo. Ma mamma e la sua amica l'avevano comperata con un prestito della banca e avevano speso in ristrutturazioni tanto da renderla abitabile, dividendola "esattamente in due, con la cucina in mezzo". Vivevano con un cane, numerosi gatti e un paio di canarini che erano riuscite a far sopravvivere non per un solo inverno, ma due. La casa era a due piani, con un rivestimento di assi di legno piuttosto marce, un comignolo di pietra storto, verande cadenti davanti e sul retro. Una cantina umida con il pavimento in terra battuta. Il granaio, in condizioni abbastanza buone, era stato trasformato in negozio (ANTICHITÀ ALDER) e dipinto di un blu che cattura l'occhio, unico fra tutti i granai della New Canaan Road. Sul tetto c'era una fila di vecchi banchi di scuola, di quelli collegati l'uno all'altro da traverse, come un toboga. «Stavano smantellando la scuola di Ransomville, una sola stanza, dove sono stata per otto anni, figurati!» mi aveva detto mamma. «Così Sable e io abbiamo fatto un salto per l'asta, e siamo tornate con così tante cose meravigliose che abbiamo dovuto noleggiare un camioncino per trasportarle tutte.» Avevano comperato la bandiera americana quasi completamente sbiadita della scuola, la vecchia stufa a legna con il pancione tondo, antichi sussidiari sbrindellati e antologie di autori patriottici dimenticati da molto tempo. «L'unico lato negativo» ammise mamma «è che quando cominci ad amare quelle vecchie cose non sopporti l'idea di separartene.» Quando faceva bel tempo, a fianco della porta d'ingresso del negozio veniva piazzato un manichino da sarto con il corpo a clessidra, in un elegante abito da sposa di raso e pizzo con uno strascico da un metro e mez-
zo, 1910 circa, sbiadito al colore del tè vecchio. Di quell'oggetto, Sable Mills commentava secca: «Certo fa comodo non avere testa e inguine se stai per diventare una moglie». E mamma mormorava, arrossendo: «Oh, Sable! Hai ragione». La specialità di Corinne Mulvaney era restaurare mobili, ricoprire cuscini eccetera; la specialità di Sable era riparare vimini, rattan eccetera. Corinne era portata a occuparsi della casa, tenere in ordine; Sable preferiva la gestione della contabilità e degli affari. Una era tutta ansante dolcezza al telefono, l'altra sfoggiava uno staccato da mitragliatrice e una decisione da brividi. Sable era una bella donna, curata, sul metro e sessanta, capelli tinti color ottone, orecchini di classe, rossetto magenta, sgargianti vestiti sportivi, costosi stivali a tacco alto. Aveva avuto esperienze a intermittenza nel campo dei mobili e dell'abbigliamento "d'antiquariato" per oltre vent'anni. Anche lei aveva allevato figli, anzi persino diversi nipoti, e anche lei al momento non era sposata. Le piaceva innervosire mia madre dichiarando di non avere idea se i suoi ex mariti (sì, al plurale: tre) fossero vivi o morti, e di non nutrire grande desiderio di essere illuminata sull'argomento. «Quando chiudo con una persona, chiudo» si vantava, passandosi l'indice sulla gola. «Che quella sia d'accordo o no.» Mamma mi guardava, tremante. Pensavamo tutti e due a papà. Non so che cosa mamma abbia raccontato a Sable Mills di papà. Della nostra famiglia. Sono incline a credere che le abbia detto pochissimo. Quali sono le parole giuste per riassumere una vita, tanta affollata confusa felicità che si conclude con un atroce dolore al rallentatore? L'immagine del vento sopra High Point Road che disperde ossa, tritume, ceneri nell'infinito. Così mamma e la sua amica Sable Mills avevano fatto società per acquistare i tre acri della proprietà di Alder Creek, casa e fienile e qualche altro edificio traballante, nell'estate del 1991, e avevano dato vita alle ANTICHITÀ ALDER con i risparmi di Sable e un prestito della banca; se non avessero esagerato o fatto troppe ristrutturazioni avrebbero saldato l'intero prestito entro il 4 luglio 1993. «Il giorno dell'Indipendenza! Venite a darci una mano a festeggiare.» Ero fiero di mamma, e nutrivo speranze per lei. Dopo la morte di papà aveva vissuto un brutto periodo. Non era mai stata attivamente infelice, non si era mai lamentata, di certo non si era arresa alla depressione, però per molto tempo non era più stata lei. Fu in quel periodo che i suoi capelli presero il colore dell'argento. Bril-
lavano come mica e avevano perso l'ondulazione. Mamma li portava raccolti in una treccia che le scendeva tra le scapole. Era diventata una donna che fa colpo; la gente la scrutava ammirata per strada, chiedendosi Ma chi è quella? Devo avere osservato il cambiamento con una tale gradualità, come del resto rilevo i cambiamenti in me stesso, nel mio viso che non è più quello di un ragazzo (l'11 luglio avrei compiuto trent'anni!), da non avere mai realmente visto. Marianne e io parlammo di mamma al telefono. Feci notare quanto lontani, nel tempo e nello spazio, sembrassero i giorni in cui Fischietto pel di carota creava da sola un enorme caos in cucina. «Come chiamava giù tutti a colazione, te lo ricordi? SVEGLIA! ALZATEVI E FATE GRANDI COSE, RAGAZZI!» Ma Marianne, allattando Willy mentre parlava con me, rispose dolcemente: «Sai, Judd, forse adesso mamma non vuole essere "mamma". Forse si è concessa una pausa». Poi Sable Mills entrò come un uragano nella vita di mamma. Senza lasciarle il tempo di voltarsi indietro. Dopo che papà se ne fu andato e la banca si fu ripresa la casa di Marsena, mamma andò a vivere a Mt. Ephraim, dove la gente la conosceva e le voleva bene. Fece una serie di lavori tranquilli, sicuri e noiosi: alla biblioteca pubblica di Mt. Ephraim, in un asilo infantile, all'archivio della contea di Chautauqua dove con il tempo sarebbe stata promossa capo ufficio. Viveva in un condominio in centro e ovviamente ci stava malissimo: Corinne Mulvaney in un buco di appartamento senza giardino! E senza animali! Aveva molte amiche, e naturalmente aveva la chiesa (in effetti, la domenica continuava a tornare a Marsena, alla Nuova Chiesa del Cristo Guaritore, i reverendi Pluckett erano stati tanto buoni con lei nel momento del bisogno); sì, a volte si sentiva sola, quando si permetteva di pensare a ciò che aveva perso, però era cristiana, e adulta. Ottimista, figlia pragmatica di un agricoltore, sapeva che non si deve indugiare su quello che non si può cambiare. E c'era la sua anima "antiquaria". Andava sempre, con amiche o da sola, ad aste nella valle, a frugare tra vendite fallimentari, mercati delle pulci. Una volta guidò fino a Chautauqua Falls, centotrenta chilometri tra andata e ritorno, per partecipare all'asta degli arredi di un grande possedimento terriero, ma la maggior parte dei pezzi era ben al di là delle sue possibilità; la incontrai dopo l'asta e la portai a cena e lei, un po' scusandosi un po' ribellandosi, mi disse: «Judd,
lo so che disapprovi, che per te è uno stupido spreco di tempo, però io cerco. Non smetterò mai di cercare». Avevo sulla punta della lingua una domanda da figlio imbarazzato: Per amor di Dìo, mamma, che cosa cerchi alla tua età? Comperava poco, e sempre cose piccole, perché non aveva molto spazio nel suo buco d'appartamento; però in un angolo della mente continuava a fare piani, pensava a come riaprire un negozio. Accadde che lei e una donna tra i quarantacinque e i cinquantacinque anni, una con i capelli color ottone, un'amante dei cappelli a cloche più sgargianti, dei calzoni da cavallerizza aderenti, degli stivali in pelle di lucertola, si notassero a vicenda alle aste: Sable Mills offriva sempre più di Corinne Mulvaney per gli stessi pezzi, e Corinne guardava colma di desiderio il bottino della donna più giovane. Più gli oggetti erano scalcinati, più avevano un'aria derelitta (un ventaglio di seta sfilacciata a forma di farfalla, una pesante teiera di ceramica sulla cui superficie curva qualche malandrino, forse un bambino, aveva inciso le iniziali, un pacchetto di lettere d'amore spedite da un soldato della Prima guerra mondiale a una certa Samantha, un lercio cuscino ricamato a forma di testa d'elefante, con tanto di zanne pendule), più Corinne e Sable se ne sentivano attratte. A volte, per apparente gentilezza, Sable permetteva a Corinne di superarla nell'offerta; poi, a voce non troppo alta, con un sorriso malizioso, le comunicava dall'altro lato della stanza: «Wow! Grazie a Dio! Quale persona sana di mente potrebbe volere quel pattume?». Altri restavano scioccati, ma Corinne rideva. Le piaceva che si scherzasse con lei, persino che la si prendesse in giro: nessuno la trattava più in quel modo. Da quando era scomparso suo marito tutti, soprattutto i figli, la trattavano come una cosa vecchia e fragile, sul punto di andare in pezzi. Così Corinne Mulvaney e Sable Mills diventarono amiche. Uscivano per un caffè, un drink, una cena dopo una di quelle esilaranti spossanti frustranti aste, e parlavano per ore. «Mio Dio, abbiamo tanto in comune!» si stupiva Corinne. Da ragazze, lei e Sable avevano vissuto entrambe nell'area di Ransomville, Sable in città e Corinne in campagna; si erano sposate tutte e due giovani, avevano avuto figli da giovani, e adesso erano sole; i figli erano "cresciuti e sparsi in giro"; avevano nipoti (a quel punto Mike e Vicky avevano due figli, Marianne e Whit avevano appena avuto il primo) che adoravano ma vedevano di rado. La cosa più incredibile per Corinne era il modo in cui le loro vite si erano intersecate senza che loro se ne rendessero conto. Quando si conobbero, Sable aveva quarantanove anni a
fronte dei cinquantanove di Corinne: aveva studiato al liceo di Ransomville e aveva avuto alcuni degli stessi insegnanti di Corinne, il sabato era andata a nuotare all'Associazione della Gioventù cristiana dove una certa istruttrice aveva cercato di "fare i propri comodi" con le ragazze, poi c'era una bibliotecaria della biblioteca pubblica, una certa signorina Grimsley, che tutte e due ricordavano benissimo, autisti di autobus, negozianti, una miscellanea di persone senza nome che avevano avuto ruoli marginali nelle loro vite, mai notate all'epoca com'è naturale ma adesso, nel ricordo, così vivide. E anche luoghi, moltissimi luoghi in comune! Sable aveva vissuto a intermittenza a Mt. Ephraim e conosceva il paesaggio, come lo chiamava lei, come il palmo della propria mano. Proprio non capivo perché quelle "coincidenze" significassero tanto per mia madre e per la sua nuova amica. Da buon giornalista, però, avevo imparato in fretta a tenere una posizione neutrale: se hai un dubbio, non esprimerlo. Mamma spiegò eccitata, quasi lei e Sable avessero svelato un mistero della natura indagato da tanto tempo: «Sable e io ricordiamo cose identiche, come fossimo state la stessa identica persona in momenti diversi! La parte strana, vero, Sable? è che non abbiamo conoscenze in comune di importanza centrale per le nostre vite. Soltanto persone di sfondo, tipo le comparse di un film. Sable dice di avere sentito molte volte il cognome Mulvaney...». Sable la interruppe. «Per amor di Dio, Mulvaney è un cognome talmente noto da queste parti che bisognerebbe essere ciechi, sordi e muti per non averlo mai sentito.» Ma Corinne insistette: «Però Sable non aveva mai messo gli occhi su uno di noi. Per tutti questi anni». «Finché non sei apparsa tu, tesoro» disse Sable, con una strizzata d'occhi. Diede una pacca alla mano svolazzante di Corinne e tutte e due risero, risero. ** Quando arrivai ad Alder Creek non erano ancora le tre del pomeriggio e già automobili, furgoni, persino biciclette erano sparse dappertutto sul sentiero d'accesso e sul prato. Quante! Mamma aveva avuto il coraggio di parlare di una riunione di famiglia? Smamma, l'eccentrico beagle di mamma e Sable, mi corse incontro, abbaiando e fiutando eccitato, con la coda vi-
brante. Le prime persone che incontrai furono i Pluckett, che stavano portando su per il sentiero enormi cocomeri, Jimmy Ray e Nanci e i loro tre figli, ragazzini lentigginosi talmente identici che non riuscivo mai a distinguere l'uno dall'altro; ma i Pluckett, persone solari, generose, non si aspettavano che ricordassi i loro nomi, e mi urlarono, sorridenti: «Ciao, Judd! Buon quattro di luglio!». Le persone successive che incontrai furono la mia bellissima cognata Vicky, signora Mike Mulvaney, con i capelli color caramello, di nuovo molto incinta, e la piccola Chrissy, la mia prima nipotina, che faceva sempre sobbalzare il mio cuore. Vicky strillò: «Judd, ma che bel ragazzo!» e si alzò in punta di piedi a scoccarmi un bacio sulla guancia, con la pancia a pallone da basket che premeva contro di me, e io sollevai Chrissy tra le braccia con un finto grugnito: quattro anni, e se si fosse dimenticata dello zio Judd che non vedeva da un anno? Ma non si era dimenticata. E dov'era Mike? A giocare a softball, disse Vicky, nel pascolo delle capre. E poi ci furono i bacetti umidi, appiccicosi di Davy, due anni, l'altro figlio di Mike e Vicky, e poi mi corse incontro mia sorella Marianne con la maglietta gialla STUMP CREEK HILL e gli short, con la piccola Molly Ellen tra le braccia e Willy, tre anni, che le trottava dietro, e ci abbracciammo e baciammo, stringendoci come sempre, quasi che nella reciproca assenza avessimo entrambi immaginato catastrofi, fantasmi da respingere subito con il riso, da disperdere come brutti sogni alla luce del sole, e restammo per un minuto a scambiarci novità, e io vidi che Marianne era nel fulgore della sua giovane femminilità, la carnagione aveva ripreso colore, il viso era pieno, le linee di tensione si erano ammorbidite, il liquido desiderio nei suoi occhi si era placato, adesso che aveva trentaquattro anni ed era sposata, e aveva figli, e lavorava con tutta la sua dedizione al Rifugio e clinica per animali di Stump Creek Hill, e la sua vita era indipendente dai Mulvaney quanto poteva desiderare. E che marito aveva! Non andavo sempre d'accordo con Whit West, un tipo dalle opinioni molto decise, ma lo ammiravo immensamente. Chiesi: «Dov'è Whit? Non lo sento» e Marianne rise, mi tirò una gomitata di scherzoso rimprovero al petto e disse: «Sta telefonando. Non siamo qui nemmeno da un'ora, giusto, Willy? e Whit è già al telefono. Ieri sera ha fatto tardi per un'operazione d'emergenza a Fumo... Ti ricordi di Fumo? Uno dei nostri orsi neri. Un'appendicectomia. Oh, ma Judd» disse Marianne, ricordando di colpo «lui è qui, è davvero qui. E ha una ragazza». Puntò l'indice verso il pascolo, dove era in corso una rumorosa partita di softball. Non avevo bisogno di chiedere chi fosse lui.
Dissi: «Allora mamma aveva ragione». Marianne disse: «Mamma non ha sempre ragione? Quando parla sul serio». Tremante d'eccitazione, gettai la cesta piena di pannocchie di granturco e sacchetti e lattine sul tavolo da picnic più vicino, presi una birra da una tinozza colma di ghiaccio e corsi al pascolo dietro il granaio blu del negozio d'antiquariato. Effie ed Eddie, le due capre a pelo nero, stavano guardando la partita da un angolo in ombra. Mi arrampicai sullo steccato e mi sistemai al loro fianco. Dei quindici o sedici giocatori, tra adulti e ragazzi, all'inizio non riconobbi quasi nessuno. Provai una fitta di dolore, di delusione infantile: perché mamma aveva promesso una riunione di famiglia dei Mulvaney se erano stati invitati tanti estranei? Speravo che nessuno mi vedesse e mi chiedesse di andare a giocare. Il lanciatore era uno sconosciuto, o così pensai. Un parente giovane di Sable Mills? Occhiali scuri, snello, flessuoso, all'incirca della mia età, però più in forma di me, con muscoli di braccia e spalle sodi compatti, gambe muscolose pelose bronzee, capelli chiari che gli arrivavano alle spalle. Mio Dio potrebbe essere Patrick? Mio fratello? Il pensiero mi attraversò la mente, ma nell'eccitazione del momento non ne presi consapevolezza. Tutti gli occhi erano puntati sull'uomo che con una serietà quasi rituale, tra le battute, le risate, gli atteggiamenti da clown dei giocatori, lanciò la palla candida, dal basso verso l'alto, al battitore accucciato, che era Sable Mills, un fisico energico ed aggressivo, ma non particolarmente atletico. Sable, con i capelli color ottone adesso praticamente a spazzola, un orecchino d'argento su un lobo, pullover nero senza maniche e calzoni da cavallerizza semplicemente perfetti per il suo corpo, quasi ci fosse stata colata dentro come cera fusa. I lanci erano miti, e la palla pareva quasi dotata di una lentezza innaturale, come veleggiasse in una sostanza più solida dell'aria, però avvicinandosi alla base riusciva ad abbassarsi in un modo tanto astuto che Sable grugniva, tirava un colpo di mazza e la mancava, una volta e poi due, e l'arbitro urlò «Due strike!» (era un contadino dei dintorni, un vecchio con la barba di Padre Tempo e un'aria di spiccia autorità). Ma al terzo lancio o Sable o il battitore si erano abituati l'uno all'altro e lei riuscì a centrare la palla con la mazza, la scaraventò lungo la linea della terz.a base, una presa facile per un ragazzo allampanato (un mio secondo cugino, un Hausmann di Ransomville) che la acchiappò a mani nude e la lanciò all'uomo della prima base, un tizio massiccio con i baffi bianchi nel quale riconobbi il proprietario di un negozio d'antiquariato di Mt. Ephraim, ma
chiaramente non era un grande atleta nemmeno lui, perché tra gemiti e urla d'incitamento mancò la presa, la palla rimbalzò dalle sue mani goffe e rotolò via mentre Sable, in una marea di strilli, battimani, incitazioni, correva alla prima base e si fermava ansante, trionfante. Vidi mamma a centrocampo (impossibile confondersi con quei capelli d'argento luccicante), mamma in gonna pantalone a girasoli stampati e sandali, battere le mani e urlare: «Urrà, Sable! Facciamogliela vedere a quei ragazzini!». In effetti, per la sua età Corinne Mulvaney era una buona atleta, resistente e veloce e furba nel risparmiare le energie. Il mio sguardo si posò sull'uomo della terza base, che in realtà era una donna, una brunetta, una sconosciuta che ero certo di non avere mai visto prima, anzi non somigliava a nessuno che avessi mai conosciuto nella valle di Chautauqua: carnagione oliva chiaro, tratti del viso perfetti, berretto da marinaio greco inclinato sulla fronte, molto seducente, anche se come ogni teenager portava maglietta, jeans, scarpe da ginnastica senza calze. Poi andò alla battuta un ragazzo sui dodici anni, un altro mio lontano cugino con la faccia cavallina degli Hausmann, e pareva molto timido, così il lanciatore gli tirò palle lente, facili, per permettergli di colpire almeno la terza; e così fu; però purtroppo la centrò nel peggiore dei modi, la rispedì diritta al lanciatore, che la afferrò al volo. A quel punto ero entrato nello spirito del gioco, urlavo e battevo le mani a ogni fase della partita senza la minima discriminazione. (Avevo appena notato una faccia familiare tra gli spettatori: "zia" Ethel Hausmann? Capelli grigio acciaio, una sagoma sgraziata a forma di rapa, calzoni e camicia ampia; però sembrava allegra, decisa a divertirsi.) Accolto da un mormorio di eccitata attesa, alla base si presentò mio fratello Mike! Passò la lattina di birra a qualcuno, afferrò la mazza, la sventolò nell'aria, la bilanciò sul palmo della mano. Mulo Mulvaney assorbì la veloce bordata d'applausi; e, da vero gentiluomo, essendo probabilmente l'unico vero atleta sul campo, brandì la mazza come se fosse mancino. Il lanciatore spinse gli occhiali da sole all'insù sul naso. Aveva un viso abbronzato, snello. (Patrick? possibile? mio fratello che disprezzava tutti gli sport di squadra?) Studiò con freddezza il suo formidabile avversario. Dalla casa stava uscendo gente per guardare: Marianne con i figli, Vicky con i figli. Chrissy correva e strillava: «Pa-pà! PA-PÀ!» Persino Effie ed Eddie, che avevano continuato imperturbabili a brucare erba, si fermarono a guardare. Il lanciatore si avvolse su se stesso come un elastico, si srotolò e il primo lancio, per quanto dal basso verso l'alto, fu molto più veloce di quelli diretti ai predecessori di Mike, e Mike vibrò la mazza, con forza, e mancò la
palla, arrossì e rise di cuore, si chinò a sputare sul terreno nella parodia dello stile macho, appoggiò la mazza sulla spalla con uno sguardo deciso e di nuovo la palla gli arrivò velocissima, si abbassò traditrice proprio mentre passava sopra la base, e di nuovo Mike la mancò, Mulo Mulvaney ormai prossimo alla quarantina: com'era possibile? Aveva lasciato i marine diversi anni prima con il grado di sergente e adesso lavorava come ingegnere civile per lo stato del Delaware, viveva con la famiglia a Washington, padre e marito e, a quanto sembrava, cittadino americano di spicco; più o meno un estraneo per me, anche se ero andato qualche volta a trovare lui e la sua famiglia nel loro ricco quartiere residenziale, e lo vedevo almeno una volta l'anno in compagnia di mamma. Era ancora un bell'uomo (quello che le ragazze chiamano, con tanta poesia e tanta volgarità, un fusto), anche se gli si era un po' gonfiata la faccia e i capelli di un castano sbiadito cominciavano a recedere dalla fronte; non era pesante ma solido, con torso e addome taurini, come succede agli ex atleti che si avvicinano alla mezza età. Carnagione di un rosso acceso, bruciata dal sole, però cordiale, sorridente. Il lanciatore si avvolse di nuovo su se stesso, snello e sinuoso, e la palla partì. «Fuori! Lancio non valido!» annunciò l'arbitro. E anche il lancio successivo venne dichiarato non valido, e forse non lo era. E la palla successiva volò diritta verso la base, che era in realtà un piatto di carta da picnic, e Mike tirò un colpo di mazza impulsivo, cieco, e ci fu un crack! quando mazza e palla entrarono in collisione, e per una frazione di secondo la palla sembrò fermarsi a mezz'aria prima di mettersi a salire, salire, salire, mentre Mike cominciava a correre, per poi atterrare in mezzo a una macchia d'alberi al lato opposto del pascolo, dove bambini strillanti corsero a raccoglierla. Ci furono urla di giubilo maniacale, applausi mentre Mike si spostava a passo regale da una base all'altra, lanciando baci a tutti. Si fermò a prendere la mano di mamma e baciarla all'esterno del campo, poi trottò alla terza base, arrivò alla casa base, e i miei occhi si inumidirono quando pensai Sembra proprio papà! perché era come se Michael Mulvaney Sr., alle soglie dei quarant'anni, fosse apparso tra noi, o almeno il suo fulgido alone, l'aura incendiata dal sole, e dietro a sorridere trionfante c'era il volto di Mike Jr. Mike arrivò al trotto alla casa base, reggendo tra le braccia Chrissy che aveva raccolto alla terza base, e io fischiavo e applaudivo con gli altri, perché un'impresa tanto spettacolare nel pascolo delle capre di mamma e Sable era un'occasione speciale, dopo tutto. Mi schermai gli occhi per studiare lo sconosciuto lanciatore, sconfitto ma a sua volta sorridente, un altro ottimo sportivo, mentre Mike raggiungeva la
casa base con le mani sui fianchi, gli occhiali scuri che lanciavano riflessi di luce, e ovviamente il lanciatore era Patrick: chi, se non il mio fratello perduto? A quel punto mamma mi vide e strillò: «Judd! C'è Judd!» e Patrick si girò a guardarmi, e corse subito da me, e mi strinse in un abbraccio da orso che non era un gesto immaginabile in P.J., tanto meno in Pizzicotto, e mi disse, con voce strozzata dall'emozione: «Gesù, ragazzino! Come sei cresciuto». ** Il campanaccio suona! Sulla veranda sul retro della fattoria di New Canaan Road, con i capelli ormai del tutto del colore dell'argento che brillavano come mica, raccolti in una grossa treccia che penzolava tra le scapole, c'era Corinne Mulvaney, sessantadue anni! Rideva come uno dei nipoti, aveva le guance di un rosso acceso e tirava la corda del vecchio campanaccio a forma di zucca per convocare tutti a tavola, finalmente. Erano quasi le sei e mezzo del pomeriggio, però regnava ancora il chiarore di mezzogiorno, tranne per le ombre sotto gli alti castagni dove erano stati sistemati i tavoli da picnic; li coprivano vivaci sottopiatti con i colori della bandiera americana. Era il quattro di luglio, ma niente fuochi d'artificio, niente "aggeggi esplosivi", avevano preteso mamma e Sable. Solo tovaglioli rossi e bianchi e blu, striscioni. Piccole bandiere americane che sventolavano sulla veranda. Il cane Smamma, delirante di gioia alla presenza di tanti bambini, di tante affettuose attenzioni, portava al collo un fazzoletto a bandiera americana. Whit e Marianne, giocosi come sposini, supervisionavano la cottura di hamburger, hot dog e salsicce italiane alla piastra da barbecue e mamma e Sable si occupavano dei bocconcini di pollo spruzzati della salsa texana piccante di Sable, alla griglia portatile. Sul tavolo del buffet c'erano enormi ciotole di insalate, un vassoio colmo di verdure fresche belle come opere d'arte: peperoni, pomodori, cetrioli a fette, zucchine e zucche che venivano dall'orto di mamma. C'erano vassoi di pane appena fatto, focaccine, biscotti. Il prosciutto della Virginia di Ethel Hausmann, glassato all'ananas, che doveva pesare almeno otto chili. Una piccola gang, me compreso, scartocciò le pannocchie di granturco che avevo portato, e mia cognata Vicky e io le mettemmo a bollire in cucina, in immense pentole piene d'acqua sull'antiquato fornello a gas di mamma e Sable. Vicky mise il timer. «Cinque minuti esatti! Se cuoce troppo, il granturco si spappola.» Vicky aveva un'al-
legra tendenza a flirtare che avrei adorato, se fossi stato il tipo che s'innamora della moglie di un fratello maggiore. Mi disse, mentre aspettavamo lo squillo del timer, con l'aria di chi comunica un segreto: «Judd, non riesco a capacitarmi di tuo fratello Patrick! Non è per niente il tipo che mi aspettavo». Chiesi, incuriosito, che cosa si aspettasse, cosa Mike la avesse portata a prevedere, e lei rispose: «Be', probabilmente mi aspettavo qualcuno che non fosse tanto... Mulvaney». Le domandai: «Ma cos'è Mulvaney?» perché il concetto mi lasciava veramente perplesso. Vicky, carezzandosi il ventre teso e rotondo sotto il grembiule premaman giallo burro, guardandomi con l'aria di chi pensa che una domanda del genere sia uno scherzo, mi rispose: «Ovvio, voi. Tutti voi». Eravamo in ventisette, adulti, bambini, neonati su seggioloni e ginocchia, sotto i castagni dietro la casa di mamma e Sable. Il cielo sfolgorava di un ricco seppia, come lambito da fiamme dietro l'orlo delle nubi. Rondoni guizzavano e svolazzavano: nidificavano sotto le grondaie degli edifici, spiegò mamma, a decine, e né lei né Sable avevano il cuore di cacciarli. Whit West si alzò e propose un brindisi a Corinne Mulvaney e Sable Mills e a tutti i Mulvaney presenti (ci nominò a uno a uno, pretese che ci alzassimo rossi d'imbarazzo) e a tutti gli Hausmann presenti (cinque, no, sei: come era riuscita mamma a convincere gente tanto poco socievole a venire lì quel giorno?), e il brindisi comprese anche i parenti di Sable Mills (cinque o sei) e persone che arrivavano da molto lontano. Anzi, chi aveva percorso il tragitto più lungo? Whit West ci scrutò da affabile maestro di cerimonie, solo lievemente insistente, finché Patrick, con una risata, si offrì volontario. «Katya e io, penso.» Applaudimmo tutti. Poco da meravigliarsi se mi sentivo un po' sbronzo. Una giornata talmente rumorosa, vibrante! Cicale che ronzavano sugli alberi come un disturbo dell'orecchio interno. Pensai Ma come siamo arrivati a questo? Come ce lo siamo meritato? A fine ottobre sarebbero stati cinque anni dalla morte di papà. Cinque anni. Per i figli di Mike e Marianne, che non avevano mai conosciuto il nonno, un'intera vita. Qualcuno mi batté sulla spalla. Mi girai ed ecco mamma, Marianne, Vicky e Sable con torte con le candeline, e tutti cantavano Tanti auguri, e mi occorsero un istante o due per afferrare. Che accadeva? Protestai fiac-
camente che il mio compleanno era soltanto l'undici, ma nessuno mi diede retta. Che torte sorprendenti mi vennero presentate: una al cioccolato a tre strati, una alla carota-zucca-zenzero-yogurt (una ricetta speciale di Whit West), un pan degli angeli con un'impeccabile glassa bianca, e una torta gelato alla fragola in una scatola a forma di cuore. Su ogni torta ardevano candeline: trenta? Per un fantasmagorico totale di centoventi? «Dio, ma sono così vecchio?» gemetti. Molte risate, come fosse una battuta. Mi alzai dal tavolo, un po' barcollante, le guance infiammate per essere al centro dell'attenzione, stordito, disorientato. Non sospettavo nulla, niente di niente; non avevo rivolto il minimo pensiero all'imminenza del mio trentesimo compleanno, se non per una fitta di paura. In America, a trent'anni non sei più un ragazzo. Non ci sono più scuse! Partì una raffica di baci diretti al mio viso, Mulvaney e altri, con abbracci speciali per le nipoti e i nipoti. «Dite "Buon compleanno, zio Judd!".» «Dite "Ti voglio bene, zio Judd!"» e una successione di accecanti flash di Polaroid. «Per i posteri» disse Whit, proprietario della macchina fotografica «e per dimostrare che voi Mulvaney esistete tutti nello stesso continuum temporale.» Astuto Whit West! Come ci conosceva bene mio cognato. Fui all'altezza dei miei doveri, ma appena appena: spensi ognuna delle centoventi candele. Venni applaudito, acclamato. Mi fu imposto di parlare e mi alzai e restai muto e paonazzo e alla fine balbettai: «Grazie! Non lo dimenticherò mai, credo» e applaudirono lo stesso, come fossi stato brillante. Nella testa avevo il ronzio di un nido di vespe, un ruggito nelle orecchie che era felicità sul punto di trasformarsi in qualcosa d'altro: terrore, paralisi. Mamma doveva avermi letto in volto quella felicità quasi eccessiva per essere sopportabile, perché si alzò al mio fianco levando il bicchiere, con voce estatica. «Sono così, così contenta che tutti voi siate qui! Sembra talmente incredibile e meraviglioso, insomma un miracolo, ma immagino sia solo la normalissima vita, vedere che tutti andiamo avanti, no?» Si inceppò all'improvviso, e tirò su con il naso, e tutti risero e applaudirono di corsa e Sable balzò in piedi e levò il bicchiere e urlò: «Diglielo forte, tesoro! Sei tu la ragazza che sa». Era come Vicky aveva detto. Patrick era diventato un Mulvaney, nel suo lungo esilio da casa. O era stata la California a renderlo libero e contento? Gli aveva persino schiarito i capelli, che arrivavano incolti fino alle spalle. Era abbronzato, scuro come una noce, perché trascorreva tanto tempo all'aperto, disse, fa-
ceva escursioni tra le montagne nel Nord della California, gite a piedi lungo la costa di Monterrey. Lui e Katya erano partiti per l'Est sulla Honda 1988 di Patrick, seguendo un serpeggiante percorso attraverso il Nord del Nevada, lo Utah, il Wyoming meridionale; quindici giorni in tutto. Si era preso un mese di ferie dall'Istituto Berkeley per lo sviluppo infantile, dove era assistente del direttore; aveva ideato una tecnica per curare i bambini autistici, e a quanto capii aveva anche un diploma di fisioterapista. «Il nostro lavoro è sempre sperimentale, in continua evoluzione, non ha senso cercare di definirlo.» Katya era laureata in matematica e studiava per il dottorato a Berkeley; era nata in Russia, figlia di ebrei che erano stati autorizzati a lasciare l'Unione Sovietica alla metà degli anni sessanta, entrambi scienziati al Cal Tech. Quando Patrick me la presentò, lei sorrise timida da sotto il suo berretto da marinaio greco, mi guardò con deliziosi occhi dalle grandi ciglia e disse: «Oh, Judd! Ho sentito tanto parlare di te da Patrick». «Davvero? E che cosa hai sentito?» Katya si morse il labbro inferiore. Come una bambina che abbia attirato più attenzione di quanta volesse. Patrick rise. «E dài, Katya, diglielo. Cosa hai sentito?» Incredibile: la ruga Pizzicotto in mezzo alle sopracciglia di Patrick era svanita, come non fosse mai esistita. Mio fratello era più giovanile a trentacinque anni di quanto fosse a quindici. «Ecco...» Katya mi sorrise esitante, e corrugò la fronte, e si toccò uno dei minuscoli lobi dove brillava un bottoncino d'oro. «Ha detto che sei un buon fratello. Che ti vuole molto bene.» Risi, imbarazzato. «Perbacco.» Impossibile dire Patrick, ehi, ti voglio bene anch'io. Patrick sono incazzato nero con te, non ti perdonerò mai per averci abbandonati ma adesso che sei tornato, adesso che ti ho visto e toccato penso di volerti bene di nuovo, e questo è quanto. Patrick rise, lasciò cadere la mano sulla mia spalla. Da fratello, con affetto. Come avessi parlato ad alta voce. Adesso che era tornato da noi, era come se quel vecchio Patrick, e quelle vecchie tristezze, non fossero mai esistiti. Vidi quanto fosse forte, potentemente erotico, appassionato il legame tra mio fratello e la giovane russa: anche se parlavano con altri, i loro occhi non facevano che incontrarsi. La loro posizione preferita era fianco a fianco, con il braccio di Patrick attorno alla vita snella di Katya e le dita di lei infilate in serena intimità nella cintura dei calzoni cachi di lui. Ero geloso,
un poco? Invidioso? A cena, Katya sedette tra Patrick e Marianne, di fronte a me; io continuai a scoccarle occhiate di soppiatto. Era tanto tranquilla nel mezzo del frastuono generale che ci si sarebbe potuti scordare della sua presenza. Lei e Patrick si accostavano inconsciamente, le braccia nude si toccavano, carezzavano. Senza il berretto da marinaio greco sembrava ancora più giovane. Non doveva avere più di venticinque o ventisei anni. I capelli neri erano raccolti in treccine che le circondavano la testa; ne schizzavano fuori ciuffetti che parevano punti interrogativi. Al collo portava diverse catenine d'oro. Mi chiedevo da quanto stesse con Patrick, come si fossero conosciuti. Che novità inattesa: mio fratello innamorato. Katya si accorse dei miei sguardi e sorrise timida. «Judd? La vostra vecchia casa, High Point Farm... Spero di vederla domani. Patrick dice che dobbiamo andarci. A guardare.» «È cambiata. Non è più la stessa.» «Non è più la stessa?» «La casa è stata dipinta di bianco. Il cortile anteriore è stato "rielaborato" da un architetto. Alcune delle vecchie querce sono state abbattute.» Patrick mi sentì, e chiese: «Sei tornato là, Judd?». «Non proprio.» Mi imbarazzava l'acidità dei miei commenti. «Ci sono passato davanti un paio di volte, mi sono fermato sulla strada. Ma non di recente.» «E mamma?» Guardammo a capotavola, dove mamma stava sollevando tra le braccia una Molly Ellen stroncata dal sonno. La bocca della piccola, umida, sorrideva, e i suoi piedi nudi pagaiavano come zampe di rana. Il viso di mamma era soffuso d'emozione, tenerezza. L'ossuta, dinoccolata Fischietto era scomparsa, e chi ne aveva preso il posto? Una donna di sessantadue anni dai capelli argentei, con un collo cadente ma un viso sorprendentemente liscio per una donna che aveva trascorso tanto tempo all'aperto senza la minima cura per il proprio aspetto. «No.» «Non ha cercato di fare amicizia con i nuovi proprietari?» «Mamma ha cose più importanti da fare.» Per un po', Patrick rifletté in silenzio. Forse voleva cambiare argomento. Mike rifuggiva in modo molto ovvio dai discorsi sulla fattoria, perché stare a rivangare le vecchie ferite, e non aveva mai portato Vicky e i figli nemmeno nelle vicinanze di High Point Farm. Come Marianne, è chiaro: oh, i West erano sempre troppo occupati! Che dinamo d'uomo, uno che viveva
di continuo nel presente. Decisi di provvedere da me a cambiare argomento e chiesi a Katya come avesse conosciuto Patrick. Katya si incendiò di un bel rosa, perché era un ricordo piacevole e disse, nel suo inglese lievemente accentato di russo, qualcosa che suonò come: «A uno sciopero della fame». Appoggiai la mano a coppa attorno all'orecchio, perché non ero sicuro di avere sentito bene. «Un cosa?» Katya rise alla mia espressione. «Sì, uno sciopero della fame, a Oakland.» Patrick aggiunse: «Era più di uno sciopero della fame. Era anche una dimostrazione. La Coalizione di pace di Berkeley dimostrava per protestare contro le brutalità della polizia di Oakland sulle minoranze etniche, e alcuni di noi sono stati arrestati perché bloccavano la strada davanti al quartier generale della polizia, ed è così che Katya e io ci siamo conosciuti. Su un furgone della polizia». Patrick aveva un tono talmente tranquillo, normale, che risposi nello stesso modo, per dimostrargli di assorbire senza problemi un'informazione tanto bizzarra. «Lo sciopero della fame è servito a qualcosa?» e Patrick mi sorrise con la sua vecchia superiorità da Pizzicotto, un incresparsi appena percepibile del labbro superiore, giusto per lasciarti capire quali fossero i limiti della sua nuova tolleranza. «È servito per quanto puoi aspettarti da una povera azione umana in questa galassia che è un fiume di materia cieca che corre a seicentoquaranta chilometri al secondo verso il superammasso di galassie di Idra-Centauro.» Katya sussultò, si morse il labbro inferiore. Abbassò bruscamente lo sguardo. Come imbarazzata da me, all'idea che potessi fare una domanda simile a Patrick. «Oh! Oh, mamma!» Era il piccolo Willy, bambino irrequieto. Uno dei gatti di mamma e Sable, uno snello maschio color sabbia, Tigre, era schizzato sul tavolo con tutta la sua faccia tosta ad azzannare l'hamburger parzialmente mangiato che Willy aveva lasciato sul piatto, poi era saltato a terra prima che qualcuno potesse fermarlo. Willy, che più di ogni altro bambino doveva essere abituato agli animali, si strinse a sua madre e strillò: «Oh, mamma, il micio cattivo!». Marianne rise, lo baciò sulla fronte. «No, amore, tu sai come stanno le cose. Nessun micio è cattivo. E tanto tu non avresti finito l'hamburger.» Così, la discussione quasi accalorata che era in corso tra Patrick, Katya e Judd venne deviata, e abbandonata. Whit disse: «Darwin lascia senza risposta troppe domande cruciali. Naturalmente rispetto il suo genio, e capisco l'enormità del suo contributo alla
conoscenza, però la sua non è una teoria concisa, coerente, come quella di Einstein. Non si può testare, confermare o rifiutare. È pura astrazione, in sostanza» e Patrick disse, con aria incredula: «Astrazione? La teoria si basa su minuziose osservazioni!» e Whit disse, sventolando un indice: «Ma la minuziosità di mille osservazioni alla mille non riesce a concretizzarsi in un'unica equazione dimostrabile» e Patrick, che cominciava a spazientirsi, protestò: «La scienza non si può ridurre a un solo paradigma, la scienza può essere molte prospettive» e Whit, più eccitato, con la cicatrice a mezzaluna sulla fronte che spiccava come un terzo occhio, disse: «Un accidenti che non si può ridurre a un solo paradigma! Deve essere ridotta a un solo paradigma!» e Patrick, protendendosi sul tavolo, con la luce delle candele riflessa negli occhiali, obiettò: «Solo con Darwin è stata seriamente concepita una teoria della storia in cambiamento, in evoluzione, prima di Darwin l'intera storia era surgelata, le specie erano surgelate, la superstizione del "la Mente precede l'Essere", Dio precede la propria creazione, secoli di assurdità platoniche» e Whit disse eccitatissimo: «D'accordo, si illudevano! D'accordo, si sbagliavano quasi su tutto! D'accordo, il tempo non è ciclico, almeno in base alle nostre misurazioni! Questo non significa che non esista un'intelligenza guida dietro le forme della natura, che le forme straordinarie che scopriamo in natura non abbiano uno scopo» e Patrick controbatté, eccitato a sua volta: «Guarda, in natura c'è anche una grossa quantità di disordine!» e Whit, ridendo, guardandosi attorno per vedere fino a che punto gli ascoltatori apprezzassero la sua esibizione, disse: «Lo vieni a dire a me, ragazzo! Io sono il "dottor West". Sono il povero sciocco assediato che sa tutto del disordine» e Patrick incalzò: «Dove c'è un disegno c'è uno scopo, ma come è sorto quello scopo? Per puro caso, milioni di incidenti vantaggiosi sull'arco di milioni di anni» e Whit rispose: «Al diavolo. So che quella è la sacra tesi di Darwin ma si dà il caso che io aderisca alla convinzione di Hoyle. Sai chi è Hoyle, quello scienziato inglese tanto originale? "Mi riesce più facile credere che un jet 747 sia stato assemblato da un tornado passato sopra un deposito di robivecchi che credere che la 'selezione naturale' possa spiegare uno solo degli esemplari presenti in natura"» e Patrick, esasperato, passandosi la mano nei capelli che ormai avevano un'aria selvatica, scarmigliati com'erano dal vento, disse: «Whit, e dài. Questi sono solo pii desideri» e Whit sorrise, passò un braccio attorno alla spalla di Patrick, gli scompigliò ancora più i capelli, come fossero vecchi amici, cognati che litigavano nello stesso modo da decenni, per il divertimento delle famiglie, senza mai cedere di un millimetro, e disse: «È il modo migliore
di pensare, Patrick. Desiderare. Lo imparerai anche tu». Lucciole! I bambini guizzavano in giro ad acchiappare i piccoli insetti, stringerli tra le mani a coppa. Il sole era calato dietro l'avvampante linea d'alberi. Nell'erba alta, non rasata, al limitare del prato apparvero decine di lucciole. Lampeggiavano come remote galassie. Fu allora che Mike gridò dal tavolo accanto, in un'ironica cantilena che non si era mai lasciato alle spalle: «Ehi, mamma, ricordi? Lucciole» e mamma si guardò attorno, sorridendo perplessa. «Lucciole? E allora?» e Patrick disse, con l'aria del ragazzino saccente: «E dài, mamma, lucciole. Te lo devi ricordare» e Marianne emise uno strillo, portò la mano alla bocca e rise e disse: «Oh, mamma, certo che ricordi» e io mi unii alla risata, travolto dal ricordo: «Lucciole, mamma. Andiamo, non te lo puoi essere scordato» e mamma passava lo sguardo dall'uno all'altro di noi. Intuiva la presa in giro, ma era perplessa. «Ma no, che cosa?» e in coro noi Mulvaney figli strillammo: «Ransomville! La tormenta! Nonna Hausmann! La provvidenza!» e finalmente mamma ricordò, e probabilmente arrossì, anche se a lume di candela non potevamo vedere. «Oh, sì. Però è successo d'inverno. Non era estate come adesso.» E noi ridemmo ancora di più, non avevamo mai sentito qualcosa di più divertente, e anche mamma si mise a ridere, scossa dalle risate come da un forte dolore, e con il poco fiato che le restava, visto che Sable era fuori portata d'orecchio, stava salutando alcuni suoi parenti che se ne andavano, implorò: «Ma per favore non raccontatelo a Sable, mi prenderebbe in giro senza pietà fino alla fine dei secoli! Vi prego!». Ridevo da scoppiare, mi colavano lacrime dagli occhi. C'è il rischio di creparsi come vecchia, fragile porcellana. Fu più o meno allora che lasciai la festa. Avevo bisogno di qualche minuto di fuga. Non ero ubriaco, ma la mia testa risuonava come il campanaccio. Mi avviai alla cieca in quel luogo che sapevo essere la nuova casa di mia madre ma non riconoscevo alla perfezione, come in quei sogni in cui un paesaggio familiare risulta mutato in maniera sottile ma irrevocabile. Pensai Se questo è un altro tempo, chi sono io? Ero giunto a essere orgoglioso di me per la personalità che mi ero costruito pezzo per pezzo, come si copre un tetto tegola dopo tegola. Sovrapponendole in modo esatto, embri-
candole per prevenire i danni della pioggia. Non che permettessi a mamma di vantarsi di me in mia presenza: così giovane! già caporedattore di un giornale! E nemmeno attribuivo troppa importanza ai miei risultati professionali, fossero quel che fossero. Però mi ero costruito una personalità maledettamente robusta. Mi venisse un colpo se l'avrei smantellata. Oltre il granaio-negozio illuminato per i festeggiamenti serali, un'arca di luce che fluttuava nel buio. Oltre il pascolo delle capre dove gli animali sonnecchiavano in piedi. Oltre il prato dove scorreva un ruscello, un affluente dell'Alder Creek. Mi fermai lì per un po' a inalare grandi boccate d'aria, a riempire i polmoni della sobrietà della sera. Ci fu un movimento, un fruscio tra i cespugli. A sei metri di distanza vidi un cervo e due cerbiatti bere al ruscello. I cerbiatti nascono in giugno, quindi quelli avevano un mese o poco più: zampe snelle, fianchi screziati di bianco. Qual è lo scopo, in natura, di quei fianchi screziati? Qual è lo scopo, in natura, della coda di un cerbiatto che, rivolta all'insù nella fuga, spicca per il suo candore? È possibile un piano, un'intelligenza? Restai assolutamente immobile, senza quasi respirare, però il cervo si accorse ben presto di me, mi vide o mi fiutò o semplicemente sentì la mia presenza, e io sollevai la destra in un lento dolce muto riconoscimento della nostra affinità e cervo e cerbiatti mi scrutarono seri prima di girarsi, il cervo per primo, i cerbiatti immediatamente dopo, e scomparire nel sottobosco. Sentii passi alle mie spalle, una voce. «Judd?» Patrick. Mi raggiunse, e restammo per un po' in silenzio, a guardare il ruscello. Provai un'infantile fitta di soddisfazione all'idea che avesse lasciato Katya. Per un momento. Alla fine, con voce stranamente debole, implorante, dissi: «Temo di non esserci più abituato. Tanta gente». Patrick emise un grugnito per comunicarmi che capiva. Dissi: «È come felicità chiusa in un palloncino e in un modo o nell'altro il palloncino è la mia testa e lo gonfiano, diventa sempre più grande, e io ho una paura del diavolo che esploda e a me restino solo brandelli di gomma». Patrick era pensoso. «Sì, giusto. Provo la stessa identica sensazione.» «Essere rabbioso, risentito, è più facile, mi pare.» «Fino a un certo punto.» Mi resi conto che temevo di sentire da Patrick domande che andavano poste, ma non in quel momento. Gli avrei parlato l'indomani, il giorno dopo ancora, tutti i giorni del futuro! Non lo avrei più lasciato scappare e gli avrei detto tutto ciò che avevo nel cuore. Gli avrei detto che Marianne non
aveva mai saputo, mai indovinato. Ciò che era stato fatto per amor suo. Per amore dell'intera famiglia. Gli avrei detto che, per quanto mi risultava, anche Zachary Lundt aveva mantenuto il segreto; ammesso che avesse riconosciuto Patrick nel suo travestimento. Gli avrei detto che né mamma né io sapevamo più qualcosa dei Lundt, ce li eravamo lasciati alle spalle. Gli avrei detto che papà aveva insistito per la cremazione, era stata la sua ultima richiesta coerente. Nonostante le implorazioni di mamma. Le sue parole rauche e risolute Cremate il mio corpo e spargete le mie ceneri e sarà la cosa più gentile che possiate fare per me. Amen. Che alla fine, prima di precipitare nell'ultimo delirio, era stato deciso e persino nobile, il vecchio modo di fare da bulldog di Michael Mulvaney Sr. quando voleva completare un lavoro, chiuderlo per sempre. Ecco perché non esisteva una tomba, da nessuna parte. Non una lapide. Un monumento funebre. Tutto quello avrei detto a mio fratello. Con il tempo. Fu come se Patrick avesse udito i miei pensieri. «Dopo che me ne sono andato quel giorno, quella domenica di Pasqua, ricordi? Mi sono svuotato. Il veleno che avevo nel sangue è colato fuori. Come fossi stato malato, infetto, e non me ne fossi accorto finché il veleno è scomparso. Però non rimpiango nulla. Penso che la vendetta debba essere bella. I greci lo sapevano. Sangue chiama sangue. Credo che l'istinto della "giustizia" sia innato, presente nei nostri geni. Il bisogno di ristabilire l'equilibrio. Avrei potuto squarciargli la gola con i denti, più o meno. Però, insomma...» Scrollò le spalle. La sua voce si spense. Vidi tra gli alberi un movimento bianco, una chiazza che si spostava, e mi chiesi se il cervo fosse tornato, o stesse per tornare. Ma eravamo soli. Patrick rise. «Ci scommetto che non credevi che sarei venuto alla riunione di famiglia, eh?» Protestai: «Oh, no, Patrick, in realtà avevo la premonizione che saresti venuto». Tornando, Patrick mi portò al punto dove si era accampato con Katya, in una macchia d'alberi sopra una curva della New Canaan Road, a una cinquantina di metri dalla casa di mamma e Sable. La sua moto era parcheggiata sul fianco della collina, appena sotto. Estrasse di tasca quello che sembrava un coltello dell'esercito svizzero e accese la minuscola torcia elettrica incorporata per illuminare la Honda, un modello a due sedili del 1988, piuttosto male in arnese. «Sei mai stato su una di queste?» mi chiese, e quando risposi di no lui disse: «Domani, allora. Stanotte ti fermi qui, no?». Ribattei che non ero sicuro e lui disse: «Oh, andiamo, mamma ci
conta. Tutti i suoi figli sotto lo stesso tetto». Gli feci presente che lui non sarebbe stato sotto lo stesso tetto con noi e lui disse, con il fare scontroso di un tempo: «Ci sarò per colazione. Contaci». Con lo zelo del fratello maggiore, come fosse il caso di lasciare perdere tutte le complessità emotive da adulti, sollevò la zanzariera della tenda e mi fece entrare. Dovemmo chinare entrambi la testa, e poi accoccolarci: l'altezza massima della tenda non arrivava al metro e mezzo. Patrick parlò con orgoglio della tenda che era fatta di nylon "traspirante" con un palo pieghevole in fibra di vetro. La aveva comperata in un negozio di articoli della marina militare di Berkeley. «Un vero affare.» Lì dentro c'era una fragranza d'erba umida mischiata a qualcosa di delicato e dolce che volli pensare fosse il profumo di Katya, o addirittura i suoi capelli. Vidi i capelli di Katya sciolti, liberi e lucidi a circondarle il viso. Quasi di nuovo rispondendo ai miei pensieri inespressi, Patrick si mise a dire di avere introdotto Katya ai piaceri del campeggio e delle escursioni poco dopo che si erano conosciuti. La amava moltissimo, disse, era la prima donna che fosse mai riuscito ad amare, e solo a trentadue anni, e aveva avuto paura che non succedesse mai però era successo. Succede, con il tempo. Ci fu un momento di silenzio tra noi. Capivo che non dovevo parlare, dire una parola. Come avessimo vissuto così, a nostro agio l'uno con l'altro, per i quattordici anni in cui ci eravamo persi. Patrick mi mostrò, alla luce della torcia, un completo per il pronto soccorso tanto piccolo da stare nella tasca di una giacca. Candele impermeabili, una lanterna impermeabile. Tutto così meravigliosamente piccolo, compatto. Lui e Katya dividevano un solo sacco a pelo, di nylon, con un'imbottitura di flanella a cerniera che si poteva togliere, come ovviamente avevano fatto per l'estate. E guarda, disse Patrick, con il piacere nella voce: una radio tascabile che forniva, ventiquattro ore al giorno, i bollettini del tempo, aggiornati all'ultimo minuto, emessi dal Servizio meteorologico nazionale. Come fosse necessaria una dimostrazione, accese la radio, e all'istante una voce maschile intonò nel pulsare delle scariche statiche: «... venti prevalenti da nord-nordest da Saskatchewan, dai trentadue ai quaranta chilometri orari, all'aeroporto di Billings, Montana, temperature di diciotto gradi e barometro fisso su...». E Patrick sorrideva felice, accucciato nella tenda di nylon, mostrando al fratello minore una radio tascabile che era un miracolo della tecnologia, che sollievo avere accesso a dati dettagliati sul clima ventiquattr'ore al giorno per trecentosessantacinque giorni l'anno, basta premere un minuscolo interruttore per udire la litania così solenne e
ammaliatrice di fatti semplici ma indiscutibili, al di là di ogni umana soggettività, volontà, desiderio. Risi, diedi una gomitata al braccio di Patrick. Fui costretto a ridere alla sua espressione, la stessa espressione che aveva quando eravamo ragazzi, quando eravamo i Mulvaney. FINE