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IL MEGLIO DI IF 3 (The Best From «If» - Volume III, 1976) INDICE Mezzanotte sull'orologio di Morphy di Fritz LEIBER Il giocattolo di Larry NIVEN Una sera, volando di Bob SHAW Delizia a quattro mani di Jeffrey S. HUDSON & ISAAC ASIMOV Mefisto e l'esploratore ionico di Colin KAPP Seguendo quella stella lassù di Richard C. HOAGLAND Tripp in pericolo di Arsen DARNAY La cerva, il tempo di Craig STRETE Il punto di vista alieno di Richard E. GEIS La discesa dell'uomo di J. A. LAWRENCE Il dono dell'angelo di Raccoona SHELDON La biblioteca di Judy-Lynn DEL REY MEZZANOTTE SULL'OROLOGIO DI MORPHY (Fritz Leiber) Questa è una storia del futuro e del passato. Per quanto riguarda il presente... Essere il campione mondiale di scacchi (incoronato o meno) costa più stress che fare il Presidente degli Stati Uniti: ne abbiamo un esempio proprio in questi giorni, sotto i nostri occhi. Per oltre dieci anni l'attuale campione è stato il più gran giocatore del mondo, ma ha anche esibito un comportamento così ostinato e autolesionistico - rifiutando di partecipare a gare cruciali, o abbandonandole per ragioni pretestuose anche se stava vincendo, e nutrendo la paranoica convinzione che esistesse un complotto a livello mondiale per impedirgli di raggiungere la vetta - che molti esperti, informati, gli hanno scritto per sfidarlo e contendergli gli onori. Perfino i più ardenti sostenitori hanno conosciuto il morso del dubbio, finché egli ha azzittito i rivali e ripagato la fiducia degli amici con la splendida vittoria nella sfida cruciale svoltasi su una fantastica isola polare. Ora, anche giocatori di calibro minore - ossessionati dal demone del titolo mondiale, o anche solo dai propri sogni - possono sperimentare di tanto
in tanto il terribile stress dei maestri. Certo, questo accade solo in circostanze straordinarie, a volte spaventose... Stirf Ritter-Rebil si stava dedicando a uno dei suoi numerosi hobbies creativi: passeggiare senza mèta per l'amato centro della sua San Francisco, con le vertiginose strade laterali in salita, le piccole piazzette e i vicoli elusivi, e il caleidoscopio di insegne di negozi e ristoranti che cambiano sempre, misti ai pochi che resistono nel tempo come pietre miliari. Il suo sguardo era attratto dai visi orientali e dai visi neri che si scorgevano in mezzo a quelli bianchi, e lo spettacolo era appena disturbato dalla marea del traffico che minacciava di sommergere le erte laterali. Il cielo era d'un grigio argentato, come il visone di una prostituta che coprisse un abbigliamento bizzarro o la semplice nudità; c'era perfino un po' di nebbia, la benedizione di Bay Area. Si vedevano banchieri e hippies, truffatori e poliziotti, tipi strani di tutte le specie, mendicanti e fannulloni, assassini e santi (almeno, così li catalogava l'immaginazione sbrigliata di Ritter). E si vedevano belle donne in ogni sorta di confezione: le belle donne sono il succo della folla. Quanto al resto, per quel che ne sapeva Ritter, nelle strade di San Francisco potevano nascondersi benissimo marziani e viaggiatori del tempo. La passeggiata aveva assunto un carattere più sognante e imprevedibile del solito, e a Ritter pareva quasi di avvertire l'anticipazione del mistero, la sorpresa, l'avventura erotica e preziosa in agguato dietro l'angolo. Spesso gli capitava di pensare al suo secondo nome in relazione al gioco degli scacchi, di cui era un appassionato ma ormai sporadico giocatore (in questo periodo, per esempio, stava vivendo un ritorno di fiamma). Ritter, parola tedesca, corrisponde all'inglese knight, il pezzo che noi chiamiamo cavallo. I tedeschi tuttavia non chiamano il cavallo Ritter, ma usano un altro termine che vuol dire corridore, saltatore (forse a causa del suo tipico modo di muovere): il che è fonte di inesauribili speculazioni filologiche, storiche e socio-razziali. Ritter, oltretutto, era un profondo e devoto studioso di storia scacchistica, sia per quanto riguarda gli aspetti teorici sia per quelli aneddotici. Era un uomo alto, dai capelli bianchi e piuttosto magro, che un'inquieta virilità e una scintilla di curiosità giovanile ma scaltra, cordialmente cinica, in fondo allo sguardo salvavano dal sembrare un vecchio (almeno quando non sognava a occhi aperti); a quest'impressione contribuiva anche il portamento, discretamente ma sostanzialmente teatrale.
Nella passeggiata odierna si era perso più del solito dietro ai suoi sogni, benché fosse vividamente consapevole delle cose fluttuanti, spaventose, bellissime o solo grottesche che gli turbinavano intorno. Più tardi rammentò che doveva essere arrivato abbastanza vicino alla Portsmouth Square e che non doveva esser stato lontanissimo dall'incrocio di California e Montgomery; comunque, alla fine si ritrovò a guardare la vetrina di un negozio di oggetti usati che non ricordava d'aver mai notato prima. Doveva essere nuovo, perché lui conosceva tutti i bazar della zona... eppure aveva la polvere e l'oscurità dei posti vecchi, come se il padrone si fosse trasferito senza dare nemmeno una spolverata alla merce, e senza riassortire il catalogo. C'erano cose deliziose, dalle vere e proprie antichità alle imitazioni moderne: alla prima occhiata, e con crescente piacere, notò una sciabola della Guerra di Secessione, un modellino promozionale dell'astronave Enterprise, un fiammante mazzo di tarocchi, una vera testa rimpicciolita - simile al muco nero dalla narice di un gigante -, delle fantasiose pinze per insetti, un bricco argentato per la panna dall'aria invitante, un registratore Sony, una caraffa da whisky a forma di funicolare, una manciata di patacche con la foto di Nixon e Gene McCarthy, un faro Lucas «King of the Road» proveniente da una Rolls Royce Silver Ghost, uno spazzolino da denti elettrico, una radio degli anni Venti, una copia arretrata di «Phoenix» e tre scacchiere di plastica da quattro soldi. Poi, di colpo, tutto questo fu come spazzato dalla sua mente; la nebbia divenne lontanissima, il traffico caotico sembrò scomparire, e così la babele di lingue che s'intrecciava nelle strade di Chinatown, il riflesso nella vetrina di una ragazza con un vestito antiquato che vendeva fiori e gli ombrelli che si aprivano sotto le prime gocce in arrivo dalla nebbia. Ogni atomo di Stirf Ritter-Rebil si concentrò sulla figurina che cercava di mimetizzarsi fra gli altri pezzi della scacchiera di plastica. Era una statuina d'argento che raffigurava un guerriero barbaro, ma Ritter sapeva che si trattava di un pezzo degli scacchi, un pedone, e, cosa più importante, sapeva a quale famosissima collezione appartenesse, perché ne aveva vista una uguale in una rara foto scattata dalla polizia e ottenuta tramite un amico portoghese, giocatore anche lui. Si rese conto che stava per vivere un'esperienza unica. Col cuore che gli martellava, ma col viso composto in una maschera soave, scivolò all'interno del negozio: in situazioni come questa è essenziale non far capire al mercante ciò che vi interessa, o addirittura che siete interessati a qualcosa.
L'interno scuro viveva del riflesso della vetrina: sparpagliate un po' dappertutto c'erano le stesse cose venerabili esposte all'esterno, ma anche alcuni cofanetti che evidentemente contenevano gli oggetti più scelti. Dietro uno di essi stava un uomo anziano, magro eppure ben piantato, nel quale Ritter individuò il proprietario. Fece finta di niente, ma i suoi pensieri erano così concentrati sul pezzo di cui doveva impadronirsi che si trovò a meravigliarsi una seconda volta, e ancora più grandemente, alla nuova scoperta, un altro oggetto rarissimo contenuto nel cofanetto dietro al quale stava il proprietario. Era un vecchio orologio d'oro da panciotto, ma le ore, anziché essere segnate in numerali romani (come c'era da aspettarsi in un simile cimelio) avevano la forma dei pezzi degli scacchi come si raffigurano nei diagrammi del gioco, ed erano d'argento e d'oro. Attaccata all'orologio con un filo c'era una piccola chiave d'oro esagonale. Ritter ci restò quasi secco: questo era mille volte più prezioso del piccolo guerriero barbaro! Era una delle supreme rarità nel mondo del collezionismo scacchistico, e il suo valore era quasi certamente ignoto al padrone del negozio. Si trattava nientemeno che dell'orologio d'oro di Paul Morphy, l'uomo che era passato come una meteora nel mondo degli scacchi americani e ne era stato il signore, anche se per brevissimo tempo. L'orologio gli era stato regalato da un pubblico delirante a New York il 25 maggio 1859, dopo la tournée trionfale a Londra e Parigi che lo aveva consacrato come il massimo genio scacchistico di tutti i tempi. Ritter si diresse casualmente verso il cofanetto, con aria pigra, fingendo di osservare un'anfora d'argento opaca che si trovava molto lontana dall'orologio. Si fermò come un sonnambulo davanti al proprietario e dopo quello che gli sembrò un giusto intervallo fece una domanda fuorviante a proposito dell'anfora. Sperava che l'altro non sentisse i battiti del suo cuore. Il mercante rispose a sua volta in modo casuale, ma aprì il cofanetto e ne trasse l'oggetto per mostrarlo al cliente. Ritter lo esaminò per un momento, poi scosse la testa e cominciò a fare pigre domande su un altro pezzo, poi su un altro ancora, avvicinandosi insidiosamente all'orologio di Morphy. Il proprietario gli rispondeva con voce bassa, un po' annoiata, ma ogni volta zelantemente estraeva l'oggetto e lo mostrava a Ritter. Era un uomo molto vecchio, dai lineamenti duri di slavo. Gli ricordava vagamente qualcuno.
Finalmente si decise a chiedere informazioni su un vecchio orologio ferroviario accanto a quello su cui tuttora evitava di posare lo sguardo, poi passò a un vetusto cipollone sul cui complicato quadrante minuscole finestrelle indicavano il mese e le fasi della luna. Quest'ultimo si trovava di fronte a quello che gli faceva battere il cuore. Il trucco funzionò: fu lo stesso proprietario che alla fine prese l'orologio di Morphy e gli disse pacatamente: «Ecco un vecchio pezzo che potrà interessarle. È molto curioso, guardi, e la cassa è d'oro massiccio. Le piace, vero?» Solo allora Ritter si permise una seconda occhiata divoratrice. Che confermò la prima: al di là di ogni dubbio si trattava della reliquia che aveva popolato le sue fantasie per due terzi della vita. Ma tutto ciò che disse fu: «D'accordo, è strano. Ma che sono quelle figurine che ha al posto delle ore?» «Pezzi degli scacchi,» spiegò l'altro. «Vede, sulle sei c'è un Re, sulle cinque un pedone, sulle quattro un Alfiere, sulle tre un Cavallo, sulle due una Torre, sull'una una Regina e sulla mezzanotte un altro Re. Poi tutto si ripete, dalle undici alle sette, sull'altra metà del quadrante.» «Perché ha detto mezzanotte e non mezzogiorno?» chiese stupidamente Ritter, che lo sapeva benissimo. L'unghia ritorta del proprietario indicò una finestrella poco sopra il centro del quadrante: vi si vedevano le lettere PM, post-meridiane. «È un'altra specialità dell'orologio» spiegò. «Me ne sono capitati pochissimi in grado di distinguere il giorno dalla notte.» «Ah, e suppongo che le caselle su cui sono collocati i pezzi, e che formano due cerchi completi e un semicerchio intorno al quadrante, siano una specie di pediniera.» «Scacchiera» corresse l'altro. «Tra parentesi, sono proprio 64 caselle, il numero giusto.» Ritter annuì. «Suppongo che chieda una fortuna, per questo gingillo.» Lo disse senza vero interesse, tanto per parlare. Il mercante si strinse nelle spalle: «Solo mille dollari.» Il cuore di Ritter perse un colpo: lui aveva dieci volte tanto, nel conto in banca. Un'inezia, considerato il valore dell'orologio. Comunque, per salvare le apparenze, contrattò un poco e a un certo punto osservò: «E poi, quell'affare non cammina». «Ma ha ancora le lancette» disse il vecchio dalla strana faccia familiare. «E gli ingranaggi sono tutti al loro posto, come può vedere dal peso. Può
farlo riparare, immagino. Una volta è stato revisionato in Francia. Guardi, la chiave per dargli corda è quella lì.» Finalmente si misero d'accordo su settecento dollari. Lui estrasse i cinquanta che si portava sempre dietro e firmò un assegno per il resto. Dopo una telefonata alla sua banca l'affare fu concluso. Il negoziante infilò l'orologio in una scatola imbottita di cotone e Ritter se la mise nella tasca della giacca, che abbottonò. Stentava a crederci: l'orologio di Morphy, il cimelio che il campione aveva portato per tutta la sua breve esistenza, nonostante il crescente odio per gli scacchi, l'orologio che aveva lasciato per testamento all'ammiratore francese e avversario favorito Jules Arnous de Rivière, l'orologio che un giorno era misteriosamente scomparso, l'orologio per eccellenza, adesso era suo! Si sentiva leggero e stordito, e quando s'incamminò per la strada gli parve di vedere solo macchie confuse. Se ne stava andando quando notò nella vetrina qualcosa che aveva dimenticato: staccò un altro assegno per l'ammontare di cinquanta dollari e acquistò il pedone d'argento a forma di barbaro senza contrattare. E finalmente si ritrovò in strada, sentendosi all'apice della gioia e della stanchezza. Facce e ombrelli gli passavano accanto come macchie e la pioggia gli tamburellava in faccia senza che nemmeno se ne accorgesse. Ma era tormentato da una fitta d'ansia. Si fermò e con infinita precauzione trasferì la pesante scatoletta e il pedone avvolto in un pezzo di carta nella tasca dei pantaloni, dove li strinse nella mano sinistra. Solo allora, sentendosi sicuro, chiamò un taxi e diede l'indirizzo di casa. Finalmente il mondo intorno a lui sembrò tornare nitido: riconobbe il ristorante italiano «Rimini's», dove aveva ripreso a giocare a scacchi dopo cinque anni che se n'era privato, ritenendosi troppo vecchio. Uno dei cuochi, un appassionato, incoraggiato dal proprietario aveva organizzato un torneo. I partecipanti erano soprattutto giovani: una ragazza alta e d'umor nero che lui aveva battezzato mentalmente la Zarina (una che giocava molto bene) e un giovane avvocato ebreo dalla voce tonante che aveva battezzato Rasputin. Quest'ultimo era bravo nel gioco e ancor più bravo con la lingua. Ritter si era iscritto al torneo d'impulso, e d'altra parte l'impegno era minimo, sicché gli pareva di non aver rotto il divieto che si era imposto. Poi la sua vecchia abilità si era fatta strada e adesso occupava un onorevole terzo posto, subito dopo Rasputin e la Zarina.
Ma ora, con l'orologio di Morphy... Perché diavolo si metteva a pensare che il possesso della vecchia reliquia dovesse renderlo più abile? Se lo chiese con una certa durezza, perché la considerava una sciocchezza da creduloni: come credere alle reliquie dei santi. Nella mano che la stringeva la scatola dell'orologio si mise a vibrare come se contenesse un grosso insetto vivo, un'ape o uno scarafaggio. Ma naturalmente era tutta immaginazione. Stirf Ritter-Rebil (nome adatto, pensò, a un giocatore di scacchi, alla cui categoria appartiene gente con appellativi tipo Euwe o Znosko-Borovsky, Noteboom e Duz-Chotimirski) viveva in una stanza con bagno a cinque isolati da Union Square; le pareti, dovunque restasse un centimetro di spazio, erano tappezzate di libri, schedari e dipinti della moglie morta, dei genitori e di suo figlio. Adesso che si era fatto vecchio gli piaceva avere sott'occhio tutte le chiavi della sua esistenza. A ovest, oltre un mare di tetti, si godeva una bella vista del Pacifico e del Golden Gate. Su un tavolo ingombro ma ordinato spiccavano due scacchiere coi pezzi in posizione. Ritter fece un po' di spazio accanto a una di esse e depositò la scatola e il pacchetto. Dopo una breve pausa - come per una preghiera propiziatoria, si disse - prese cautamente l'orologio di Morphy e la statuina d'argento, ora liberata dalla carta, e si preparò a ispezionarli. Si dedicò a quest'operazione con l'aiuto degli occhiali e di una lente d'ingrandimento e compì un'indagine approfondita. Il bordo esterno dell'orologio era circondato da un anello o ruota di 24 caselle, dodici chiare e dodici scure, alternate. Le sagome dei pezzi che indicavano le ore stavano sulle caselle chiare, secondo l'ordine che il vecchio aveva illustrato. I pezzi del Nero andavano da mezzanotte alle cinque ed erano d'argento tempestato di minuscoli smeraldi o pezzetti di giada, come confermò la lente d'ingrandimento. I pezzi del Bianco andavano dalle sei alle undici ed erano d'oro, con schegge di rubino e d'ametista. Ritter ricordò di aver letto nelle descrizioni dell'orologio che le figure erano «colorate». All'interno del primo veniva un secondo anello di 24 caselle chiare e scure. Finalmente, all'interno di questo, un cerchio completo per due terzi presentava 16 caselle sotto il centro del quadrante. Nello spazio corrispondente, ma sopra il centro, stava la finestrella con le lettere PM.
Le lancette si erano fermate alle 11,57: tre minuti prima di mezzanotte. Con un tagliacarte Ritter aprì attentamente la cassa dell'orologio, su cui erano incise in bei caratteri le lettere PM, che stavolta naturalmente stavano per «Paul Morphy». Sulla piastra interna, pure d'oro, che proteggeva gli ingranaggi, erano incise le parole «France H&H» (il vecchio slavo aveva avuto ragione un'altra volta), mentre appena scalfiti, tanto che dovette usare la lente d'ingrandimento, c'erano alcuni gruppi di cifre, e i sette avevano il caratteristico trattino europeo: le note di un prestatore su pegno. Arnous de Rivière, o un successivo proprietario europeo, aveva impegnato quel tesoro? Oh, be', i giocatori di scacchi sono un branco di squattrinati. Infine Ritter notò il buco attraverso cui, infilando la chiave esagonale, si poteva caricare l'orologio. Provò a caricarlo, ma ovviamente non accadde nulla. Chiuse la cassa e rimirò il quadrante. Le 64 caselle - 24 più 24 più 16 formavano una fantastica scacchiera circolare. Una delle molte varianti degli scacchi che lui aveva giocato una volta era cilindrica. «Les échecs fantastiques» citò. «È una cinica allegoria della follia, col suo Re vacillante, la Regina vampira, i Cavalli malefici, gli Alfieri venduti, le Torri d'assalto e i pedoni impotenti la cui massima aspirazione è cambiar sesso e dividere il letto del vecchio monarca rimbambito.» Con un sospiro di rimpianto alzò lo sguardo dall'orologio e prese la statuina d'argento: ecco un piccolo ma feroce guerriero, pensò, avvicinando la figuretta agli occhiali. Teneva la spada snudata vicino al petto, la punta in basso, la calotta di ferro abbassata sulla fronte e un'espressione spietata come la Morte. Chissà com'erano i piccoli legionari d'oro? Poi anche l'espressione di Ritter si fece cupa, e decise di fare ciò che aveva desiderato fin dal momento in cui aveva scorto la statuina nella vetrina del negozio. Allungò un braccio ed estrasse uno schedario; dopo aver scartabellato brevemente scelse un involucro con su scritto: «Morte di Alekhine». La luce era fioca, ormai, per cui accese una grande lampada da tavolo. Sotto i suoi occhi stava una fotografia singolarmente vuota: riproduceva una vecchia poltrona senza occupante con una scacchiera sistemata sul bracciolo di legno. Dietro la scacchiera si vedeva una figuretta che, con l'aiuto della lente d'ingrandimento, Ritter identificò per l'esatta gemella di quella che aveva comprato poco prima. Nell'involucro c'era anche una lettera, scritta su carta sottile e in grafia straniera: metà delle «C» avevano la cediglia e metà delle «A» la tilde.
Gliel'aveva scritta il suo amico portoghese, spiegando che la foto era una copia di quella che si trovava negli archivi della polizia di Lisbona, e che ritraeva la poltrona su cui Alexander Alekhine era stato trovato morto per attacco cardiaco, all'ultimo piano di una casa dove affittavano stanze, nel 1946. Alekhine aveva strappato il titolo mondiale a Capablanca nel 1927 e aveva detenuto il record per il maggior numero di partite giocate simultaneamente e alla cieca: 28. Nel '46 si stava preparando per un incontro ufficiale col campione russo Botvinnik, benché durante la seconda guerra avesse giocato dalla parte dell'Asse. Sebbene quasi psicotico, veniva considerato il migliore e il più profondo attaccante della storia degli scacchi. Anche lui, si chiese Ritter, era stato uno dei fortunati possessori dell'orologio e dei pezzi d'oro e argento di Morphy? Si allungò verso un altro schedario e estrasse l'incartamento relativo alla «Morte di Steinitz». Stavolta trovò un dagherrotipo ingiallito che mostrava uno stretto lettuccio d'ospedale, vuoto, dall'aria antiquata. Sul tavolino accanto al letto si vedevano una scacchiera e dei pezzi, fra cui la lente di Ritter individuò un altro degli inconfondibili guerrieri. Wilhelm Steinitz, definito il padre degli scacchi moderni, aveva detenuto il titolo mondiale per 28 anni, finché era stato sconfitto da Emanuel Lasker nel 1894. Steinitz aveva avuto due episodi psicotici in conseguenza dei quali era stato chiuso in ospedale per gli ultimi anni della sua vita; nel secondo caso aveva creduto di poter muovere i pezzi con l'energia elettrica e aveva sfidato Dio, concedendogli il vantaggio del pedone e della mossa iniziale. Il dagherrotipo era stato scattato dopo quest'episodio, e Ritter lo aveva acquistato molti anni prima dal vecchio Emanuel Lasker. Ritter si tirò su dal tavolo, si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi stanchi. Era più tardi di quanto avesse immaginato. Pensò a Paul Morphy, che si era ritirato dagli scacchi a ventun anni dopo aver battuto i più importanti giocatori del mondo e dopo aver lanciato una sfida, mai accettata, di battersi con tutti i maestri offrendo il vantaggio del pedone e della prima mossa. Dopo il trionfo del 1859 aveva trascorso i venticinque anni successivi in cupo isolamento, per la maggior parte nella casa familiare di New Orleans, uscendone solo per una passeggiata pomeridiana e per recarsi all'opera, di cui fu regolare frequentatore; in entrambi i casi si imbacuccava fino all'inverosimile. Soffrì di crisi paranoiche durante le quali sospettò che i familiari volessero rubargli le sue proprietà, e più specificamente i suoi indumenti. Non parlò mai più degli scacchi né vi
giocò, salvo qualche partita occasionale con l'amico Maurian, cui concedeva il vantaggio della mossa e del Cavallo. Venticinque anni passati a meditare in solitudine e senza la consolazione del gioco, ma con i suoi celebri pezzi e il celebre orologio al fianco, a testimonianza del suo magistero. Ritter si chiese se tali circostanze (perché Morphy doveva aver costantemente pensato agli scacchi, ne era sicuro) non fossero ideali per la trasmissione delle sensazioni e delle vibrazioni del pensiero agli oggetti inanimati: nel caso specifico ai pezzi e all'orologio di Morphy. Quegli oggetti erano stati rivestiti per 25 anni dei pensieri di una delle più grandi menti scacchistiche, e poi, per uno strano caso (ma era davvero un caso?) erano passati nelle mani di due altri campioni, periodicamente sfiorati dalla psicosi; le fotografie in suo possesso, con la prova della statuina, rendevano quest'ipotesi più che sostanziosa. Forse era solo un'assurda fantasia, si disse Ritter, ma comunque lui ci aveva dedicato buona parte della vita. E ora quegli oggetti vibranti si trovavano nelle sue mani. Che effetto avrebbero avuto sul suo modo di giocare? No, gingillarsi con quei pensieri era doppiamente assurdo. Un'ondata di stanchezza si impossessò di lui: mancava poco a mezzanotte. Si scaldò una piccola cena, la consumò, tirò le tende che proteggevano la finestra e si spogliò. Scostò la coperta dell'ampio letto che stava vicino al tavolo, spense la luce e s'infilò tra le coltri. Era sua abitudine addormentarsi immaginando l'apertura di una partita; come ogni buon giocatore poteva facilmente sostenere una partita alla cieca, anche se non vedeva l'intera scacchiera e doveva talvolta contare le mosse casella per casella, specialmente quando si trattava degli Alfieri. Scelse il gambetto di Breyer, uno dei suoi favoriti, e fece una mezza dozzina di mosse. Poi, all'improvviso, l'intera scacchiera s'illuminò nella sua mente, come se ci avessero acceso sopra un riflettore. Fu costretto ad aprire gli occhi per accertarsi che la camera fosse ancora immersa nel buio: lo era, ma la scacchiera nella sua testa splendeva come non mai. La paura iniziale cedette il posto a uno sfrenato piacere. Muoveva i pezzi con grande rapidità, eppure vedeva con estrema chiarezza le possibilità di ogni posizione. In lontananza, come sullo sfondo della scena che lo interessava, udì l'orologio di una chiesa su Franklin battere i dodici rintocchi della mezzanot-
te. Dopo un po' annunciò scacco matto in cinque mosse da parte del Bianco. Il Nero studiò la posizione per un attimo circa, poi rinunciò. Disteso sulla schiena Ritter inspirò più volte, e a fondo; non aveva mai giocato una così bella partita alla cieca (non aveva mai giocato una partita così bella in assoluto). E che fosse una partita contro se stesso non aveva importanza, la sua personalità si era perfettamente scissa in due giocatori. Osservò le posizioni finali per l'ultima volta, rimise i pezzi a posto e riposò un momento prima di cominciare un'altra partita mentale. Fu allora che sentì il tic-tac, un rumore nervoso e cinque volte più veloce dell'orologio della chiesa. Si portò all'orecchio il cronometro da polso: sì, anche lui ticchettava rapidamente, ma il suono che aveva udito era diverso, più forte. Si mise a sedere in mezzo al letto, si piegò sul tavolino e accese la luce. L'orologio di Morphy, ecco da dove veniva il tic-tac. Le lancette indicavano le dodici e dieci e la finestrella segnava AM. Rimase immobile per un lungo momento: muto, incapace di trovare una spiegazione, stupito, impaurito e soprattutto immerso in sogni che nessun mortale aveva mai sognato prima. Vediamo, Edgar Allan Poe era morto quando Morphy aveva 12 anni e sconfiggeva suo zio Ernest, allora considerato il campione di New Orleans. Sembrava impossibile che un vecchio orologio fermo, dagli ingranaggi più che centenari, dovesse mettersi a camminare all'improvviso. Doppiamente impossibile che dovesse farlo all'ora giusta: fra il suo orologio da polso e quello di Morphy non c'era più di un minuto di scarto. Dunque gli ingranaggi si trovavano in condizioni migliori di quanto il vecchio mercante avesse immaginato; e in fondo gli orologi si fermano e si mettono a camminare capricciosamente. Le coincidenze restano coincidenze. Nonostante queste spiegazioni si sentiva profondamente inquieto. Si dette un pizzicotto e fece tutti gli altri infantili test della realtà. Disse forte: «Io sono Stirf Ritter-Rebil, un vecchio che vive a San Francisco e gioca a scacchi; ieri ho scoperto un'insolita curiosità. Ma a parte questo, tutto è perfettamente normale...». Eppure continuava ad avvertire l'agghiacciante sensazione di essere pedinato da un leone in caccia: era una forma infantile del terrore, ma in certe occasioni aveva ancora la meglio su di lui. Per circa un minuto tutto sembrò fin troppo immobile, nonostante il tic-tac; poi il fremito delle tende
davanti alla finestra lo fece rabbrividire e le mura gli sembrarono infinitamente sottili, del tutto incapaci di proteggerlo. Ma a poco a poco il terrore del leone assassino che si aggirava appena oltre la sfoglia di mattoni cessò e i suoi nervi si calmarono. Spense la luce, la vivida scacchiera mentale tornò e il tic-tac assunse un ritmo rassicurante anziché minaccioso. Cominciò un'altra partita contro se stesso, giocando per il Nero la classica difesa alla Ruy Lopez, un'altra delle sue favorite. La partita procedette spedita e brillante come la prima volta, ma adesso, nella penombra mentale, vedeva un lucore sottile, a forma di sagoma umana, dall'altra parte della scacchiera. Dopo un po' la sagoma divenne amorfa e meno luminosa, quindi si scisse in tre. Ritter comunque se ne preoccupò assai poco, e quando alla fine annunciò scacco matto in tre mosse per il Nero provò gran soddisfazione e profonda fatica. Il giorno dopo si sentì di ottimo umore, e la luce del sole unita al quotidiano lavoro di scrittore bandì ogni traccia di preoccupazione notturna. Di tanto in tanto si accertava di poter ancora visualizzare la scacchiera mentale con quell'insolita ed eccezionale chiarezza e si concedeva un attimo di riflessione sullo storico mistero che gli toccava risolvere. Il tic-tac dell'orologio di Morphy sembrava sottolineare questo stato d'animo con una nota eccitata, impaziente. Nel tardo pomeriggio si rese conto che non vedeva l'ora di andare al «Rimini's» a dar prova della sua nuova abilità. Tirò fuori una vecchia catena d'oro, l'assicurò all'orologio di Morphy (che caricò con mille premure una seconda volta), lo mise nella tasca del panciotto e si diresse al «Rimini's». Era una magnifica giornata: fredda, vividamente illuminata dal sole e mossa dal vento; lui camminava spedito, senza pensare agli strani avvenimenti della notte, ma solo agli scacchi. Si dice che un uomo possa perdere la moglie e dimenticarla quella notte stessa, giocando a scacchi. Il «Rimini's» era un buon ristorante, scuro, odoroso d'aglio, con annesso un bar dove si servivano sostanziosi assaggini di pasta e dove per l'occasione si svolgeva il torneo. Ritter entrò nella lunga stanza a forma di L e guardò con piacere la fila di scacchiere, i pezzi allineati e le facce intente, perlopiù giovanili, chine su di essi. Rasputin gli rivolse un ghigno calcolato e l'apostrofò amichevolmente: stasera toccava a loro. Scelsero una scacchiera e si sistemarono, mentre accanto a loro la Zarina stava affrontando a sua volta una partita cruciale; la ragazza aveva la faccia cupa e reclinata, come se le avessero spezzato il collo, i polsi piegati in prossimità del mento e le lunghe dita che indicava-
no ora un pezzo ora l'altro per calcolare le conseguenze delle varie mosse; in realtà sembrava una strega che vi gettasse un incantesimo. Ritter si accorgeva a stento di lei, perché la vivida scacchiera mentale della notte scorsa era tornata, sovrapponendosi a quella vera che aveva davanti. Le più complesse combinazioni gli si presentarono senza difficoltà e batté Rasputin come un bambino. La Zarina se ne rese conto, sbirciando con la coda dell'occhio, e approvò con un borbottio. Anche lei stava vincendo: la vittoria di Ritter su Rasputin la piazzava automaticamente al primo posto. Rasputin rimase silenzioso per un po'. Un giovanotto coi baffi neri aveva seguito attentamente le mosse di Ritter: era il campione della California, Martinez, che al «Rimini's» aveva giocato una simultanea vincendo quindici partite, perdendone nessuna e pareggiando solamente con la Zarina. Ora propose a Ritter un'amichevole, e l'altro annuì con fare distratto. Si affrontarono due volte: la prima Martinez sfoderò un'impeccabile Difesa Siciliana cui Ritter reagì con un selvaggio attacco, avanzando con tutti i pedoni davanti al Re arroccato; la seconda vide una Ruy Lopez, sempre da parte di Martinez, cui Ritter rispose con la Difesa Classica, riuscendo perfettamente a conservare l'Alfiere del Re. Non solo la scacchiera mentale continuava a sovrapporsi a quella reale, ma sembrava a Ritter di vedere un alone, un'aureola intorno al pezzo che gli conveniva muovere di più o che doveva catturare. Con sua gran sorpresa Ritter vinse tutt'e due le volte. Un gruppetto di osservatori si era stretto intorno alla scacchiera. Martinez guardava strabiliato il suo avversario, come per chiedergli: «Ma di dove salti fuori, vecchio, con tutta la tua scienza? Non mi ricordo di aver mai sentito parlare di te». La felicità del vincitore sarebbe stata completa se non fosse stato per la sottile figura di un uomo giovane, seminascosto dalla folla dei ficcanaso, e il cui viso era sempre in ombra quando Ritter lo guardava. Lo vide in tre punti differenti del locale, ma mai per più di un secondo e mai in movimento. Era come se ci fosse un osservatore di troppo, e questo turbò l'anziano giocatore, che lasciò il «Rimini's» con un'espressione vaga e preoccupata per immergersi nelle strade crepuscolari, bagnate da una pioggerella sottile. Dopo un isolato si guardò intorno, ma per quanto poteva vedere nessuno lo seguiva. Tirò dritto verso casa passando davanti ai luoghi di Dashiell Hammett, Sam Spade e Il falcone maltese. E a poco a poco, grazie alla benedizione delle goccioline di nebbia, il
suo umore passò dalla tetraggine all'esaltazione. Aveva appena disputato due splendide partite, era nel bel mezzo di un fantastico mistero scacchistico, un mistero che aveva sempre desiderato svelare, e in qualche modo l'orologio di Morphy lo influenzava beneficamente... Ne poteva sentire il ticchettio soffocato, che saliva dal taschino fino all'orecchio. Quella sera la sua stanza gli parve un rifugio particolarmente accogliente, il suo posto, quasi un'estensione della mente. Mangiò e poi, con un ghigno alla Sherlock Holmes, ripassò quello che aveva battezzato Lo strano caso dell'orologio di Morphy. Desiderò che ci fosse un dottor Watson a raccogliere la sua esposizione: innanzitutto c'era il vetusto segnatempo, quest'oggetto che aveva fatto la sua prima comparsa quando Morphy era tornato a New York sul Persia nel 1859. Nei lunghi anni di paranoia il campione l'aveva imbevuto di energia psichica e di una vasta esperienza scacchistica. Ovvero - annoti questo, Dottore - aveva posto le condizioni che avrebbero indotto i successivi proprietari a pensare che avesse fatto una cosa del genere. In fondo il soprannaturale non è la nostra specialità, Watson. L'orologio era quindi passato nelle mani di de Rivière, poi in quelle di Steinitz. Quest'ultimo, entratone in possesso, si era sentito autorizzato a sfidare Dio ed era morto pazzo. Dopo un certo intervallo l'orologio era passato al paranoico Alekhine, che aveva escogitato le più strabilianti strategie d'attacco, tali da superare lo stesso Morphy, ma che non gli avevano impedito di compiere mille perfidie e di morire solo in un miserabile appartamento di Lisbona, la scacchiera poggiata sul bracciolo della poltrona e la statuina rivelatrice accanto al cadavere. E finalmente, dopo uno iato di trent'anni (che ne era stato dell'orologio nel frattempo? Chi l'aveva custodito, insieme ai pezzi d'argento e d'oro? E chi era il vecchio negoziante?) il vetusto cimelio e uno di quei fantastici pedoni erano giunti in suo possesso. Un caso unico, mio caro Dottore. Non c'è paragone neppure coi fatti di Praga del 1863. La nebbia notturna premeva contro la finestra e di tanto in tanto si sentiva uno scroscio di pioggia. San Francisco era diventata Londra e aveva anche lei il suo grande detective: uno degli hobbies di Dashiell Hammett erano stati gli scacchi, anche se non c'è notizia che Sam Spade vi abbia mai giocato. Di quando in quando Ritter osservava l'orologio di Morphy, che brillava e ticchettava sul tavolo dove lui l'aveva depositato. La finestrella indicava PM, l'ora era... Re Nero tempestato di smeraldi e Regina Bianca con riflesso di rubino. Voglio dire mezzanotte e cinque, Dottore. L'ora delle streghe,
come dicono i superstiziosi. Ma adesso andiamo a letto, andiamo a letto, Watson. Abbiamo molto da fare, domani (e, paradossalmente, stanotte). Ritter si sentì veramente felice quando il buio gli nascose lo scintillo d'oro dell'orologio, anche se il ticchettio continuava, e si rannicchiò nel letto cercando di concentrarsi. La scacchiera mentale apparve una volta ancora e lui cominciò a giocare. Per prima cosa si ripassò le migliori partite della sua vita (non erano moltissime) scoprendo la possibilità di varianti che non si era nemmeno sognato. Poi ripercorse con gli occhi della mente le partite storiche che prediligeva: dalla MacDonnell-La Bourdonnais alla FischerSpasski, senza dimenticare la Steinitz-Zukertort e l'Alekhine-Bogoljubov. E gli si rivelarono molto più ricche di quanto avesse sospettato, perché la scacchiera mentale andava molto a fondo. Finalmente il suo cervello si sdoppiò di nuovo e sfidò se stesso a una simultanea alla cieca in otto partite. Nero contro Bianco. Contro ogni aspettativa il Nero s'impose con tre vittorie, due sconfitte e tre pareggi. Ma la notte non portò solo i piaceri dell'immaginazione e del raziocinio: per due volte ci fu un silenzio arcano, misterioso, che il ticchettio dell'orologio fece ancor più risaltare, nel quale tornò la sensazione di essere fiutato da un leone. I capelli gli si rizzarono sulla testa, e di nuovo ebbe la sensazione che dall'altra parte della «scacchiera» ci fosse una forma indistinta, luminescente, vagamente umana. E non solo non se ne andava, ma, quel ch'è peggio, venne presto raggiunta da altre due sagome luminose, anch'esse umane: una bassa, tarchiata e zoppicante, l'altra piuttosto alta, massiccia e irrequieta. Questi intrusi turbarono Ritter non poco: chi erano? E poi, se ne stava formando a poco a poco un quarto... Si rammentò dell'osservatore con la faccia in ombra che aveva notato durante le partite con Martinez e si chiese se ci fosse un nesso. Era turbato, e l'apprensione aumentava al pensiero della sua mente spaccata, frantumata dall'infernale ticchettio, simile al fuoco di un mitra; la sua mente, che stendendosi su scacchistici fili viaggiava da un pianeta all'altro, e dovunque trovava una partita in corso... Fu veramente felice quando, verso la fine del match contro se stesso, il cervello cominciò a velarglisi e a rallentare il ritmo. L'ultima cosa che ricordò fu che stava cercando di inventare un gioco adatto a disputarsi sulla scacchiera circolare dell'orologio. Ci era quasi riuscito quando sprofondò nell'incoscienza. Il giorno dopo si svegliò inquieto e impaziente, con la sensazione che tre delle quattro figure indistinte avessero passato tutta la
notte vibrando intorno al letto al ritmo dell'orologio di Morphy. Il caffè non fece che aumentare il suo nervosismo. Si vestì rapidamente, attaccò il cimelio alla catena e se lo mise nel taschino insieme alla statuina d'argento; poi uscì, deciso a ritrovare il negozio dove li aveva acquistati. In un certo senso non lo trovò più, anche se percorse palmo a palmo Montgomery, Kearny, Grant, Stockton, Clay, Sacramento, California, Pine, Bush e tutte le altre strade della zona. Il risultato di tante ricerche non fu che una vetrina incredibilmente polverosa, ma identica - ne era sicuro - a quella in cui l'altro ieri aveva comprato l'orologio e il pedone d'argento. Solo che adesso la vetrina era vuota, e così pure il negozio, tranne per un negro alto e magro con un'eccezionale capigliatura all'africana intento a dare una scopata. Ritter riuscì ad attaccar bottone con l'uomo, e poco a poco, conquistatasi la sua fiducia, venne a sapere che era uno dei soci che avevano deciso di aprire un bazar specializzato in articoli d'importazione africana. Dopo aver preso un fumante secchio d'acqua e sapone e essersi messo a cancellare con uno strofinaccio la polvere che aveva permesso a Ritter di riconoscere il posto, il negro si fece confidenziale. «Sssì» disse, «in effetti c'era un tipo strano che gestiva un negozio di roba usata, proprio qui, fino a ieri. Vendeva le cose più pazze che puoi immaginare, e alcune erano delle gran porcherie, ma altre tiravano sul serio. Poi ha schiaffato tutto in due camioncini, in gran fretta, con me che gli soffiavo nel collo perché avrebbe dovuto farlo il giorno prima. «Oh, era un tipetto straordinario» continuò il negro mentre lavava via le ultime penisole e gli arcipelaghi della mappa di polvere. «A un tratto mi fa: "Scusami, devo riposare un poco" e accidenti, tu non ci crederai, ma se ne va in un angolo e si mette a testa in giù e piedi per aria, immobile. Ci devi credere, uomo, l'ha fatto, che mi possano sbudellare vivo. Ho pensato: ora gli prende un colpo, e infatti era diventato tutto viola in faccia, ma esattamente dopo tre minuti, l'ho cronometrato, si rimette in piedi fresco come un pulcino e riprende il lavoro due volte più veloce di prima, ispezionando tutta la mercanzia come un falco. Gulp, quello sì che è stato un avvenimento!» Ritter se ne andò senza fare commenti: aveva trovato l'indizio rivelatore per smascherare l'identità del vecchio mercante, cioè la quarta sagoma che stava prendendo corpo a poco a poco intorno alla scacchiera mentale. L'esercizio di rilassamento, l'affermazione «Questo forse può interessarle»... Ma certo, non poteva trattarsi che di Aaron Nimzovich, il giocatore
più eccentrico del mondo e padre degli scacchi ultramoderni; era stato il più pericoloso sfidante di Alekhine, da questi sempre evitato. Ed ecco perché Ritter aveva avuto l'impressione di conoscerlo già: il vecchio negoziante era un Nimzovich invecchiato. Naturalmente la storia tramanda che Nimzovich morì nella città natale di Riga, in Unione Sovietica, negli anni Trenta, ma che cos'era la vita, l'anelito, di fronte alle forze con cui Ritter si stava misurando adesso? Gli sembrò che quattro vaghe figure lo seguissero, come leoni, nelle strade di Chinatown, e a dispetto dei rumori e della folla poteva sentire benissimo il tic-tac dell'orologio nel taschino. Si rifugiò al «Danish Kitchen» dell'hotel St. Francis e ordinò parecchie tazze di caffè e due portate di Eggs Benedict, mentre la scacchiera mentale gli lampeggiava nel cervello come una luce stroboscopica. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a buttare l'orologio di Morphy nella baia, liberandosi la mente dall'influsso che stava distruggendo il suo senso della realtà. Ma verso sera il desiderio degli scacchi si fece sempre più imperioso, finché uscì e ancora una volta si diresse al «Rimini's». C'erano Rasputin e la Zarina e anche Martinez, e quest'ultimo era accompagnato da un gentiluomo dai capelli d'argento che Martinez presentò come il campione sudamericano Pontebello; disse che lo aveva portato per farlo sfidare da Ritter. Di nuovo la scacchiera gli sembrò scintillare, mentre quella mentale si sovrapponeva a quella reale; di nuovo vide un'aureola intorno ai pezzi che gli conveniva muovere o catturare, e vinse come se si trovasse davanti un dilettante. A quel punto la febbre del gioco s'impossessò completamente di lui: propose di giocare quattro partite simultanee alla cieca contro i due campioni, Rasputin e la Zarina, pregando Pontebello di fare contemporaneamente da arbitro. Gli altri lo guardarono increduli, ma lui aveva vinto contro Martinez due volte, e adesso aveva sconfitto Pontebello, così la sfida fu accettata; Ritter insisté perché lo bendassero, mentre gli altri giocatori si affollavano per osservare. La simultanea cominciò: adesso nel cervello di Ritter splendevano quattro scacchiere, e ormai non gli importava più delle quattro vaghe sagome profilate dietro ciascuna di esse; giocò con brillante professionismo, mentre le mosse e contromosse ribollivano nella sua mente, e non faceva mai un tratto sbagliato. Batté rapidamente Rasputin e la Zarina: con Pontebello
ci volle un po' più di tempo, mentre con Martinez finì patta per stallo. Quando si tolse la benda c'era silenzio, nella sala del «Rimini's», e le facce dei presenti mostravano il più puro sbalordimento; alle loro spalle s'intravedevano quattro volti in ombra. Ritter sperimentò la gioia dell'assoluta invulnerabilità; l'unico suono che udiva era il tic-tac dell'orologio di Morphy, che gli sembrava un tuono. Pontebello fu il primo a parlare: «Si rende conto, maestro, di quello che ha fatto?». E a Martinez: «Hai i punteggi delle quattro partite?». Poi di nuovo a Ritter: «Mi scusi, ma mi sembra un po' pallido, come se avesse visto un fantasma». «Quattro» lo corresse Ritter senza scomporsi. «Quelli di Morphy, Steinitz, Alekhine e Nimzovich.» «Date le circostanze, più che appropriato» commentò Pontebello mentre Ritter cercava i quattro volti nella penombra. Erano ancora là, ma avevano cambiato posizione e si erano ulteriormente ritirati nelle tenebre del «Rimini's». Mentre si parlava di organizzare un'altra esibizione e di scrivere una lettera firmata da tutti alla Federazione Scacchistica Americana (per tacere delle insistenti richieste di Pontebello sul passato di Ritter) il vincitore si fece largo tra la folla e uscì nelle strade buie, certo di essere seguito da quattro fantasmi. Non poteva ignorare il richiamo delle partite che l'attendevano nel buio della sua camera. Non dimenticò neppure un secondo di quella notte, perché non dormì affatto. La scacchiera lucente era un faro nel suo cervello, un mandala che l'assorbiva completamente. Rigiocò tutte le più importanti partite della storia, scoprendo nuove mosse; giocò per due volte contro se stesso, poi sfidò una volta ciascuno Morphy, Steinitz, Alekhine e Nimzovich; vinse contro i primi due, pareggiò col terzo e perse per un punto col quarto. Solo Nimzovich parlò, e gli disse: «Io sono sia morto sia vivo, come certo hai capito. Prego non fumare, né tentare di farlo». Mise insieme otto scacchiere e giocò due partite tridimensionali: il Nero vinse tutt'e due le volte. Viaggiò fino ai confini dell'universo, trovando scacchi dovunque andasse, e disputò una lunga partita, molto più difficile di quella tridimensionale, da cui dipendeva la sorte del cosmo. Pareggiò. E per tutta la notte i quattro fantasmi rimasero con lui e il leone antropofago lo spiò dalla finestra, con una maschera bianca e nera sul muso e la criniera d'argento. E l'orologio di Morphy ticchettava come il tamburo dei condannati al patibolo. Quando l'alba arrivò strisciando i fantasmi svanirono, ma la scacchiera mentale rimase senza dar segno di voler scomparire.
Era luminosa e brulicante di mosse, e Ritter si sentiva sfinito, la mente disintegrata, come in punto di morte. Sapeva quello che doveva fare: prese una scatoletta e vi impacchettò il barbarico pedone, debitamente protetto da cotone; insieme al cimelio accluse la vecchia foto, il dagherrotipo e un foglietto su cui scribacchiò solamente: Morphy, 1859-1884 de Rivière, 1884-? Steinitz, ?-1900 Alekhine, ?-1946 Nimzovich, 1946 a oggi Ritter-Rebil, 3 giorni Per ultimo impacchettò l'orologio, che smise di ticchettare; le lancette si fermarono e finalmente la scacchiera mentale svanì. Diede un'ultima avida occhiata al grottesco quadrante d'oro, poi chiuse la scatola, l'avvolse in carta da pacco, mise lo spago e scrisse: «Al campione mondiale di scacchi», aggiungendo l'indirizzo appropriato. Lo portò all'ufficio postale di Vas Ness e lo spedì per raccomandata. Poi tornò a casa e dormì come un morto. Non ricevette mai risposta, ma il pacco non tornò indietro; adesso qualche volta Ritter si domanda se gli strani avvenimenti accaduti al campione non abbiano qualcosa a che fare col suo dono. In più rare occasioni si chiede che sarebbe accaduto se avesse accettato la sfida della morte e si fosse lasciato sbranare la mente... ammesso che dovesse succedere questo. Ma nel complesso è soddisfatto: qualche risposta vaga è bastata a dileguare la curiosità di Martinez e degli altri, e lui continua a giocare al «Rimini's»; una volta ha perfino battuto Martinez, che era impegnato in una simultanea contro ventitré avversari. IL GIOCATTOLO (Larry Niven) L'uomo è la creatura più intelligente e più evoluta dello Spazio Conosciuto. Ma naturalmente lo Spazio Conosciuto non è ancora estesissimo...
I bambini giocavano a saltarello, passando da una casella all'altra del diagramma esagonale tracciato nella sabbia quando la sonda entrò nell'atmosfera sopra le loro teste. Avrebbero dovuto accorgersene subito, perché l'attrito la fece riscaldare sensibilmente, ma a nessuno venne in mente di alzare gli occhi. Pochi secondi più tardi si accesero i retrorazzi. Una pioggia gentile di luce infrarossa bagnò le sabbie di limonite e su centinaia di miglia quadrate di deserto marziano i grandi ammassi di erba nera srotolarono le foglie per afferrare e tesaurizzare il calore. Piccole cose sessili seppellite sotto la sabbia sollevarono i loro specilli a forma di ventaglio. I bambini non l'avevano ancora notato, ma le orecchie cominciarono a vibrare. Erano orecchie fatte per captare il calore piuttosto che il suono e, a meno che non fossero intente a ricevere un messaggio calorico, restavano avvolte come fiori d'argento sulla testa dei bambini. Adesso si drizzarono, simili a un fiore che sboccia, mettendo in mostra la nera parte centrale. Tremarono, si orientarono, finché un bambino si girò e lo vide. Un puntino di luce bianca a oriente, che scendeva lentamente. I bimbi si scambiarono impressioni eccitate, espresse sotto forma di impulsi termici in codice. Bastava aprire la bocca e mostrare la calda cavità interiore. Ehi! Che cos'è? Andiamo a vedere! Saltarono sulle dune di limonite, dimenticando il saltarello, per correre incontro alla cosa che pioveva dal cielo. Quando arrivarono aveva toccato il suolo, urlante di calore. Era una sonda grande, grande come un'abitazione, un grosso cilindro con un tetto rotondo all'estremità superiore e una bocca bollente a quella inferiore. Era dipinta a scacchi bianchi e neri, e questo le dava l'aspetto di un immenso giocattolo. Riposava su tre gambe metalliche comicamente allargate che terminavano in piedi circolari. I bambini cominciarono a sfregarsi contro la superficie di metallo, lampeggiando di contentezza all'assorbimento del calore. La sonda tremò. All'interno si era mosso qualcosa. I bambini si allontanarono con un salto, guardandosi l'un l'altro, ciascuno pronto a correre se lo facevano gli altri. Ma nessuno voleva essere il primo, e poco dopo fu
troppo tardi: un'intera parete curva della sonda si staccò e cadde sulla sabbia. Uno dei bambini strisciò da sotto il portello, sfregandosi la testa e fiammeggiando parole che uno della sua età non avrebbe dovuto conoscere. La ferita sul cocuzzolo emise un po' di vapore prima che le estremità si ricomponessero. Il piccolo sole bianco, in fase calante, gettava ombre nere e opache nell'apertura della sonda. E nell'ombra qualcosa si mosse. I bambini guardavano, intimoriti. LAB si fermò un attimo sulla soglia, poi usò la lastra del portello come uno scivolo e si calò al suolo. LAB era un ammasso di plastica e congegni metallici montato su una bassa piattaforma e sospeso fra sei pneumatici. Quando arrivò sulla sabbia esitò, come incerto sul da farsi, poi rotolò incontro a Marte, cercandosi una strada. Il bambino che era stato travolto dal portello fece un salto, per dare un calcio a quell'affare in movimento. LAB si fermò di botto, e il bambino arretrò. Improvvisamente apparve un adulto. RAGAZZI, CHE STATE FACENDO? Niente, rispose uno. Giochiamo, disse un altro. BE', STATE ATTENTI A QUELLA COSA. L'adulto sembrava il gemello dei sei bambini, ma il suo palato era più caldo del loro; tuttavia l'autorità che traspariva dalla sua voce non era solo un fatto quantitativo. CHI HA COSTRUITO L'OGGETTO DEVE AVER FATTO MOLTA FATICA. Si, signore. In qualche modo domati, i bambini si raccolsero intorno al Laboratorio Biologico Automatico e osservarono la porticina che si apriva sul contenitore a forma di tamburo che costituiva metà del corpo di LAB. Una bocca all'interno della cavità sparò una fune munita di un peso. Per poco quell'affare mi colpiva. Così impari. La fune, coperta di sabbia e polvere, cominciò a ritirarsi pian piano nel fianco di LAB. Uno dei bambini la leccò e scoprì che era coperta di una sostanza appiccicosa ma insapore. Due bambini si arrampicarono sulla piattaforma in lento movimento, poi sul cilindro. Si alzarono e agitarono le braccia, tenendosi in equilibrio precario sui piatti piedi triangolari. LAB scartò all'improvviso verso un am-
masso d'erba nera e i bambini ruzzolarono sulla sabbia. Uno si alzò in un baleno e si mise a correre per salire di nuovo. L'adulto studiava la scena con occhio critico. Un secondo adulto apparve al suo fianco. SEI IN RITARDO. AVEVAMO UN APPUNTAMENTO DA XAT BNORNEN CHIP, TE NE ERI DIMENTICATO? SÌ. I BAMBINI HANNO TROVATO QUALCOSA. CAPISCO. E COSA FA? PRENDE CAMPIONI DEL SUOLO, FORSE SPORE. ADESSO SEMBRA INTERESSATO ALL'ERBA. MI CHIEDO SE HA STRUMENTI VERAMENTE PRECISI. SE FOSSE UN ESSERE SENZIENTE AVREBBE MOSTRATO INTERESSE PER I BAMBINI. PUÒ DARSI. LAB si fermò. Una porticina sulla parte anteriore si aprì liberando un braccio telescopico che filmò una panoramica del paesaggio. Abbracciò la linea bassa e oscura del Mare Acidalium con le sue elevazioni, sull'orizzonte nordorientale, e compì un giro completo, fino a inquadrare il vuoto deserto arancione di Tracus Albus, alle spalle del veicolo. A questo punto la lente si trovò a faccia a faccia col bambino in vena di fare l'autostop. Il bambino fece marameo, svariate boccacce, gridò parole senza senso e tirò fuori la lingua. QUESTO DOVREBBE DAR LORO QUALCOSA A CUI PENSARE. CHI CREDI CHE L'ABBIA MANDATO? LA TERRA, SUPPONGO. OSSERVA IL DISCO DI SILICATO DELLA CINEPRESA: È TRASPARENTE ALLE FREQUENZE LUMINOSE CHE VEROSIMILMENTE PENETRANO LA SPESSA ATMOSFERA DI QUEL PIANETA. SONO D'ACCORDO. La bocca sparò ancora nell'erba nera e la fune cominciò ad arrotolarsi su se stessa. Si aprì un altro sportellino e l'autostoppista ci guardò dentro fra l'ammirazione dei compagni rimasti a terra. Un adulto gridò: SCENDI SUBITO, RAZZA DI CERVELLO VEGETALE! Il bambino gli fece marameo, ma in quel momento LAB sparò un sottile raggio laser color rubino a un centimetro dal suo orecchio. Rimase visibile per un secondo, un infinito tubo al neon profilato contro il blu notte del cielo.
Il bambino si precipitò a terra e cominciò a correre per mettere in salvo la pelle. MA LA TERRA NON È IN QUELLA DIREZIONE, osservò un adulto. EPPURE QUEL RAGGIO ERA UN MESSAGGIO, NON C'È DUBBIO. FORSE PUNTAVA A UN OGGETTO IN ORBITA. I due adulti guardarono il cielo, e finalmente misero a fuoco il destinatario. SULLA LUNA INTERNA. LO VEDI? SÌ. È ABBASTANZA GROSSO... MA CHI SONO QUEI MOSCERINI CHE GLI SCIAMANO INTORNO? QUELLA NON È UNA SONDA AUTOMATICA, È UN VEICOLO. CREDO CHE RICEVEREMO VISITE. AVREMMO DOVUTO INFORMARLI DELLA NOSTRA PRESENZA MOLTO TEMPO FA. UN LASER A GRANDE FREQUENZA SAREBBE ANDATO BENISSIMO. MA PERCHÉ DOBBIAMO FARE TUTTO NOI QUANDO LORO HANNO I METALLI, LA LUCE DEL SOLE E TUTTE LE RISORSE? LAB aveva finito con l'erba nera e si stava dirigendo verso un basso muro circolare. I bambini gli sciamarono dietro. Il laboratorio sparò un'altra fune appiccicosa che si posò al suolo e cominciò ad arrotolarsi su se stessa, incrostata di campioni. Un bimbo la sollevò e la tirò: il laboratorio biologico e il marziano impegnarono una silenziosa battaglia che terminò quando la fune si ruppe. Un altro bambino allungò un dito lungo e fragile nella cavità e lo ritirò bagnato. Prima che il liquido evaporasse se lo mise in bocca e provò una gradevole sensazione. Allora ficcò la lingua nel buco, nel brodo preparato per ospitare i microrganismi marziani. FERMATI! L'OGGETTO NON TI APPARTIENE! Ma la voce dell'adulto rimase inascoltata. Il bambino tenne la lingua nel brodo biologico, correndo insieme al laboratorio. Intanto gli altri avevano scoperto che se si mettevano davanti a LAB la macchina deviava per non urtare l'«ostacolo». FORSE GLI ALIENI SI ACCONTENTERANNO DI TORNARE A CASA CON LE INFORMAZIONI RACCOLTE DALLA SONDA. SCIOCCHEZZE. LE CINEPRESE HANNO VISTO I RAGAZZI, ADESSO SANNO CHE ESISTIAMO. VUOI DIRE CHE RISCHERANNO LA VITA IN UN ATTERRAGGIO SOLO PERCHÉ HANNO VISTO DITHTA? DITHTA È UN BRAVO RAGAZZO, E GUARDA, TE LO DICO IO CHE FORSE SONO IL SUO GENITORE.
GUARDA CHE STANNO COMBINANDO, ADESSO. Muovendosi a destra e a sinistra del laboratorio, formando continui «ostacoli» semoventi, i bambini stavano pilotando LAB verso una scarpata. Uno di loro sedeva ancora in cima, illudendosi di guidarlo a suon di calci nei fianchi metallici. DOBBIAMO FERMARLI. LO ROMPERANNO. SÌ... MA CREDI VERAMENTE CHE GLI ALIENI MANDERANNO UN VEICOLO ABITATO? È OVVIO. È IL PROSSIMO PASSO. ALLORA SPERIAMO CHE I BAMBINI NON DECIDANO DI IMPOSSESSARSI DI QUELLO. UNA SERA, VOLANDO (Bob Shaw) Dedicato a ogni agente del traffico che compirà mai un volo di ronda. Il poliziotto morto andava alla deriva verso la zona di controllo di Birmingham a un'altezza di tremila metri. Era una notte d'inverno e le temperature glaciali che prevalevano a quell'altitudine gli avevano irrigidito le membra e incrostato il corpo di ghiaccio nero. Il sangue che scorreva dall'armatura fracassata si era gelato nelle sembianze di un granchio, le cui chele abbracciavano il petto del cadavere. Il corpo, che fluttuava in posizione eretta, beccheggiava delicatamente sotto l'impeto di correnti casuali, eseguendo una strana danza aerea. Alla vita una lucina rossa grande come un pisello si accendeva e si spegneva, si accendeva e si spegneva, ma a poco a poco il suo splendore si attenuò sotto una crosta di ghiaccio che si faceva sempre più spessa. Il sergente della Polizia Aerea Robert Hasson si sentiva molto più stanco e sfibrato di quanto avrebbe dovuto, dopo otto ore di servizio. Era rimasto alla centrale fin dall'ora di colazione, dettando o firmando rapporti, compilando moduli e cercando di estorcere all'ufficio cassa un rimborso che ormai gli dovevano da due mesi. Poi, quando stava per andarsene a casa disgustato, era stato chiamato nell'ufficio del capitano Nunn per un ennesimo confronto sul caso degli Angeli di Wellwyn. I quattro fermati - Joe Sullivan, Flick Bugatti, Denny Johnston e Toddy Thorns - sedevano uno accan-
to all'altro e indossavano ancora le tute di volo. «Vi dico io che cosa mi disturba in tutta questa faccenda» stava dicendo Bunny Ormerod, l'avvocato, con preoccupazione tutta professionale. «È la totale indifferenza della polizia. È il cinismo con cui gli agenti che hanno proceduto all'arresto hanno accettato la morte di un ragazzo.» Ormerod si avvicinò ai quattro Angeli, protettivo, identificandosi con loro. «Come se fosse un fatto di tutti i giorni.» Hasson scrollò le spalle. «Praticamente lo è.» Ormerod spalancò la mascella e si girò, in modo che la spilla-telecamera che portava sulla maglia di seta fosse puntata esattamente in direzione di Hasson. «Vuole ripetere quello che ha detto?» Hasson fissò l'occhio della telecamera. «Praticamente ogni giorno, o ogni notte, qualche testa calda s'infila l'equipaggiamento AG e si mette a volare a cinque o seicento chilometri all'ora, credendosi Superman. Immancabilmente sbatte contro un pilone o grattacielo, e a me non mi frega un chiodo. Che vadano a spiaccicarsi, se gli pare.» Hasson vide che Nunn diventava nervoso, ma continuò implacabile. «È solo quando sbattono contro dell'altra gente che comincia il mio lavoro. Allora li inseguo.» «Li insegue e li arresta.» «Precisamente.» «Come ha fatto con questi ragazzi.» Hasson esaminò i quattro Angeli freddamente. «Non vedo nessun ragazzo. Il più giovane della banda ha sedici anni.» Ormerod indirizzò un sorriso compassionevole ai suoi protetti vestiti di nero. «Viviamo in un mondo complesso e difficile, sergente. Sedici anni non sono poi tanti per sapercisi orientare.» «Balle,» commentò Hasson. Guardò di nuovo gli Angeli e indicò un tipo barbuto, ben piantato che sedeva alle spalle dei suoi compari. «Tu, Toddy... vieni fuori un minuto.» Gli occhi dell'interpellato ammiccarono brevemente. «Per fare che?» «Voglio mostrare al signor Ormerod i tuoi distintivi.» «No, non voglio. E poi, sto meglio qui.» Hasson sospirò, si avvicinò al gruppo, prese Toddy per il bavero e lo mostrò a Ormerod, come se tenesse in mano solo la tuta di similcuoio. Sentì alle sue spalle bestemmie e maledizioni, e il rumore delle sedie cadute al passaggio di Toddy in mezzo allo schermo protettivo dei suoi compagni. L'opportunità di tradurre i suoi sentimenti in azione, anche se in forma limitata, diede a Hasson una sorta di soddisfazione terapeutica.
Nunn fece per alzarsi in piedi: «Che cosa crede di fare, sergente?» L'altro lo ignorò, rivolgendosi direttamente all'avvocato. «Vede questo distintivo? La vede la "C" con le ali che c'è sopra? Sa che cosa significa?» «Sono interessato di più a quello che significa il suo straordinario comportamento.» Con una mano Ormerod ostruì il campo visivo della telecamera: all'apparenza era un gesto casuale, ma in realtà ben studiato. Hasson sapeva che ciò dipendeva dalle nuove leggi, che non accettavano come prova valida un filmato ammenoché non venisse esibita tutta la bobina. E Ormerod non voleva un'inquadratura del distintivo. «Gli dia un'occhiata.» Hasson ripeté la descrizione del distintivo a beneficio della colonna sonora. «Significa che questo bravo ragazzo ha avuto esperienze sessuali in caduta libera e ne è orgoglioso. Vero che lo sei, Toddy?» «Signor Ormerod...» Gli occhi dell'Angelo imploravano quelli dell'avvocato. «Per il suo bene, sergente, credo che farebbe meglio a lasciare il mio cliente» disse Ormerod. Teneva la mano sottile ancora davanti alla telecamera. «Ma certo.» Hasson gli strappò la spilla, facendo un buco nella maglia dell'avvocato, e piazzò l'occhio elettronico davanti alla serie di patacche dell'Angelo. Dopo un attimo spinse da un lato Toddy e restituì la telecamera a Ormerod, profondendosi in scuse sfottenti. «Questo è stato un errore, Hasson.» I lineamenti aristocratici di Ormerod mostravano rabbia genuina. «Adesso è chiaro che ha del risentimento personale contro il mio cliente.» Il poliziotto scoppiò a ridere. «Toddy non è suo cliente. Lei è stato assunto dal vecchio di Joe Sullivan per tirarlo fuori dall'accusa di omicidio colposo. Il buon semplice Toddy si trova per caso nella stessa barca.» Joe Sullivan, che sedeva in mezzo agli altri due Angeli, aprì la bocca per replicare ma cambiò idea: aveva fatto le prove meglio degli altri. «Così mi piace» gli disse Hasson. «Ricordi sempre quello che ti hanno detto: lascia che parli la bocca dell'avvocato.» Sullivan si agitò, risentito, ma poi abbassò gli occhi sulle mani dalle nocche blu e restò in silenzio. «È chiaro che così non se ne esce» disse Ormerod a Nunn. «Chiedo di potermi ritirare a conferire in privato coi miei clienti.» «Avanti, lo faccia» s'intromise Hasson. «Gli dica di strapparsi i distintivi. La prossima volta potrei trovarne uno ancora migliore.» Attese impassibile che Ormerod e due agenti scortassero gli Angeli fuori della stanza.
«Non la capisco» disse Nunn appena furono rimasti soli. «Che cosa crede di aver ottenuto? Adesso a quel ragazzo basterà testimoniare che lei l'ha malmenato.» «Quel ragazzo, come lei lo chiama, sa dove si trova il Pompiere. Lo sanno tutti.» «Lei è stato troppo duro.» «Perché lei non lo è stato.» Hasson sapeva di essersi spinto oltre i limiti ma era troppo cocciuto per rimangiarselo. «Che cosa vuol dire?» Nunn strinse le labbra, con gesto femmineo ma non per questo meno pericoloso. «Perché devo parlare a quel branco di canaglie nel suo ufficio? Cosa c'è che non va nella sala degli interrogatori al piano di sotto? Devo presumere che quella va bene solo per chi non ha tutti i soldi di Sullivan?» «Vuole insinuare che ho preso del denaro da Sullivan?» Hasson rifletté un momento. «Non credo che farebbe una cosa del genere, ma allora si comporti di conseguenza. Le dico che quei quattro hanno volato col Pompiere. Se mi lasciasse mezz'ora solo con uno qualsiasi di loro io...» «Lei si metterebbe nei guai. Lei non sembra capire come stanno le cose, Hasson. È un poliziotto del cielo, e questo già la qualifica agli occhi della gente. Non ci vogliono fra le scatole. Cent'anni fa la gente andava in automobile e detestava la polizia stradale perché la costringeva a seguire poche regole di buonsenso; adesso tutti possono volare meglio degli uccelli, ma ecco che si ritrovano in cielo gli stessi poliziotti che controllano le loro mosse. Per questo ci odiano.» «Non mi preoccupo.» «Non credo che si preoccupi nemmeno del suo lavoro, Hasson. Non quanto vuol far credere. A lei piace correre da una nuvola all'altra come questo mitico Pompiere, solo giocando il ruolo opposto.» Hasson capì che Nunn stava per arrivare a qualcosa d'importante, e sentì una fitta d'ansia. «Il Pompiere è reale... io l'ho visto.» «Che lo sia o no, ho deciso di assegnarla al servizio di terra.» «Non può fare questo» scattò l'altro istintivamente. Nunn lo osservò con interesse: «E perché no?» «Perché...» Hasson stava cercando le parole adatte, qualunque parola, quando la sfera di comunicazione sul tavolo di Nunn s'illuminò di rosso, segnalando un messaggio con priorità assoluta. «Sentiamo» disse Nunn alla sfera.
«Signore, abbiamo ricevuto una chiamata d'emergenza automatica» replicò il comunicatore, con voce maschile. «Un corpo alla deriva a tremila metri, fuori controllo. Pensiamo che si tratti di Inglis.» «Morto?» «Abbiamo interrogato il suo com, signore. Nessuna risposta.» «Vedo. Aspettate che sia passata l'ora di punta e mandate su qualcuno a prenderlo. Voglio un rapporto completo.» «Sissignore.» «Vado su io, e adesso» disse Hasson, dirigendosi alla porta. «Non può cavarsela con tutto il traffico che c'è a quest'ora. E poi lei è in servizio di terra, non mi ha capito?» Hasson si fermò un attimo, conscio di aver già sfruttato ai limiti l'indulgenza speciale di cui godevano i membri della Polizia Aerea. «C'è Lloyd Inglis lassù, e io vado a prenderlo... adesso. Se è morto, sarò io stesso a consegnarmi al servizio di terra. Per sempre. Va bene?» Nunn scosse la testa incerto: «Vuole ammazzarsi?» «Forse.» Hasson chiuse la porta e si diresse alla stanza delle tute. Si alzò dal tetto della centrale di polizia in un cielo che fiammeggiava di convergenti fiumi di fuoco. Gli stanchi pendolari che venivano dal sud rappresentavano la corrente principale del traffico, ma c'erano affluenti minori che arrivavano dai punti più disparati dell'area di controllo di Birmingham. Le luci di posizione di migliaia e migliaia di volatori - alcune applicate a una spalla, alcune alla caviglia - ammiccavano e brillavano, e il cambio di prospettiva formava curiosi effetti ottici nella fiumana luminosa. Colonne luminose verticali dividevano il flusso del traffico, dando un'impressione di ordine perfetto. Ma, Hasson lo sapeva, le apparenze erano in un certo senso ingannevoli; chi andava di fretta tendeva a spegnere le luci per evitare di essere identificato e correre diritto al punto che lo interessava, senza seguire i corridoi aerei obbligatori. Le probabilità di scontrarsi con un altro viaggiatore irregolare erano infinitamente piccole, pensavano i trasgressori, ma il fatto è che non erano solo i venditori in ritardo a qualche appuntamento a sottrarsi alle regole: c'erano gli ubriachi e i drogati, gli antisociali, gli incoscienti, i suicidi, i cercatori d'emozioni e i criminali... Tutta una gamma di tipi umani che in realtà non erano preparati alle responsabilità del volo individuale. Nelle loro mani una cintura antigravitazionale poteva diventare uno strumento di morte. Hasson regolò le sue luci speciali al massimo e salì cautamente, il fucile
colorante pronto all'uso, finché le luci della città sotto di lui diventarono una ragnatela geometrica scintillante. Quando le teleinformazioni proiettate sulla superficie interna del visore gli rivelarono che si trovava a un'altezza di duecento metri cominciò a prestare particolare attenzione al radar. Questa era l'altezza a cui i pirati dell'aria erano più numerosi. Continuò a salire, dominando un certo nervosismo, ma era una reazione più che normale: era sospeso nel buio, e dal buio, senza preavviso, poteva piombargli addosso un altro uomo a velocità letale. Adesso il flusso aereo dei viaggiatori gli appariva come una serie di livelli separati che scivolavano l'uno sull'altro come una specie di nebbia luminosa. I livelli superiori si muovevano più in fretta. Ottocento metri più in alto Hasson cominciò a rilassarsi e a concentrarsi sul problema di abbordare Inglis, quando l'allarme suonò e il radar sull'elmetto rilevò un corpo in avvicinamento. Hasson si girò per guardare nella direzione indicata: nell'alone delle sue luci segnaletiche speciali si materializzò un uomo che viaggiava «al buio», e alla massima velocità. Veterano di migliaia d'incontri del genere Hasson ebbe il tempo di calcolare che la traiettoria dello sconosciuto l'avrebbe mancato di circa dieci metri. Nella frazione di secondo che gli rimaneva puntò il fucile e sparò una nuvola di vernice indelebile. L'altro ci passò attraverso - il viso pallido, tirato, e gli occhi scuri che non vedevano - e sparì con la velocità di una raffica. Hasson chiamò la centrale e fornì i dettagli dell'incidente, aggiungendo la sua opinione che il pirata era anche sotto droga. Con più di un milione di persone che volavano in quel momento nel settore era improbabile che lo prendessero, ma la sua tuta e il suo equipaggiamento erano stati marchiati per sempre, e cambiarli non gli sarebbe costato poco. A tremila metri Hasson regolò i comandi ad «altezza stabile» e puntò un rivelatore sulla frequenza del segnale di Inglis. Poi cominciò un volo lento, orizzontale, sondando con lo sguardo le tenebre davanti a lui. Le sue luci illuminavano la nebbia intorno, ponendolo al centro di un alone lattiginoso che gli rendeva difficile vedere qualunque cosa al di fuori. Si trovava ai limiti della fascia in cui era possibile volare senza unità termiche supplementari e cominciò a sentire il freddo che lo mordeva, cercando un punto debole nelle sue difese. La corrente del traffico, molto più sotto, procedeva al caldo e al sicuro. Pochi minuti dopo il radar di Hasson individuò un oggetto dritto davanti a lui. Si avvicinò finché le luci non gli permisero di vedere il corpo di Lloyd Inglis che eseguiva la sua grottesca danza nelle correnti di tenebra.
Hasson capì immediatamente che l'amico era morto, ma si tenne lo stesso a distanza di non-collisione fino a quando vide il buco aperto nella piastra pettorale di Inglis. Sembrava la ferita inferta da una lancia... Una settimana prima Hasson e Inglis stavano facendo il servizio di ronda ordinario sopra Bedford quando avevano scoperto otto viaggiatori senza luci. Inglis aveva sparato un minirazzo, che si era acceso sotto il gruppo, delineandolo per un momento, e i due poliziotti avevano visto la sagoma affusolata di una lancia. Il trasporto di qualunque oggetto solido da parte di una persona che indossava una cintura AG era illegale, perché costituiva un pericolo per gli altri viaggiatori aerei e per chi si trovava al suolo. Il trasporto di armi, poi, era raro perfino fra i pirati più incalliti. Sembrava proprio che si fossero imbattuti nel Pompiere... Tendendo le reti e i lazo che avevano in dotazione si erano lanciati all'inseguimento. Nel corso della caccia, che si era svolta a livelli relativamente bassi, due persone erano morte; una di esse era una giovane donna, anche lei viaggiante a luci spente, che si era scontrata con uno della banda. Il secondo era stato uno dei delinquenti, che si era quasi spaccato a metà contro un pilone della radio. E alla fine della corsa tutto quello che i due poliziotti erano riusciti ad agguantare erano quattro membri minori della banda degli Angeli. Il Pompiere era riuscito a mettersi in salvo e a nascondere la sua identità. Ora, osservando il cadavere del compagno, Hasson si disse che il Pompiere si era voluto vendicare. E il bersaglio gliel'aveva indicato il telegiornale, quando aveva raccontato i particolari dell'arresto di Joe Sullivan. Imprecando d'amarezza e di dolore Hasson impresse una spinta orizzontale alla forza ascensionale della cintura AG. Sfiorò il cadavere congelato e gli strinse le braccia intorno; immediatamente i due corpi cominciarono a cadere, perché i campi antigravitazionali si annullavano a vicenda. Non disabituato alla caduta libera Hasson assicurò con efficienza una corda a un occhiello della cintura di Inglis e spinse il morto lontano da lui. Quando l'interferenza fra i campi cessò, la vorticosa corrente d'aria che li aveva avviluppati diminuì gradualmente. Hasson controllò sull'informatore e vide che non era caduto per più di cento metri. Assicurò saldamente la fune alla propria vita finché il cadavere non si trovò a una distanza conveniente da lui, poi volò verso ovest, cercando un punto dove sarebbe stato facile scendere tra le fasce di pendolari. Molto più sotto, il traffico della zona di Birmingham roteava come una galassia dorata, ma Hasson - al centro del proprio universo sferico di luce lattiginosa - ne era come isolato, imbozzolato nei suoi pensieri.
Lloyd Inglis, il bevitore di birra, l'amante dei libri, l'economo, era morto. E prima di lui erano morti Singleton, Larmor e McMeekin. Metà della squadra originaria di Hasson era caduta facendo il suo dovere negli ultimi sette anni. E per che cosa? Era impossibile irreggimentare un'umanità alla quale le cinture AG avevano regalato la libertà completa, la libertà tridimensionale. Eliminare la gravità con un colpo di judo, usare la forza d'attrazione della Terra contro se stessa si era rivelato l'unico modo di volare. Era facile, poco costoso, divertente... E impossibile da regolamentare. C'erano ottanta milioni di volatori solo in Gran Bretagna, e ognuno si riteneva un superuomo intollerante del minimo richiamo alla sua abilità di seguire la curva del tramonto. Gli aerei erano spariti dal giorno alla notte, e non perché non ci fosse bisogno della loro insuperata capacità di trasporto, ma perché era troppo pericoloso farli volare in un cielo già tanto affollato di pedoni distratti. Il transvolatore pirata, quest'Icaro notturno, era l'eroe più popolare del momento. A che serviva, si chiese Hasson, fare il poliziotto del cielo? Probabilmente il concetto di polizia, di corpo responsabile della sicurezza altrui, non reggeva più. Forse il prezzo inevitabile della libertà era una lenta pioggia di corpi sfracellati che precipitavano sulla Terra quando le batterie si consumavano e... L'attacco colse Hasson di sorpresa. Fu così rapido che l'allarme nel suo casco e l'urlo dell'aria attraversata dall'attaccante esplosero quasi simultaneamente. Hasson si girò, vide la lancia nera, scartò per evitarla e ricevette un colpo rapido, feroce che lo fece roteare nel vuoto. E tutto nel giro di un secondo... La caduta causata dalla momentanea interferenza dei campi era stata trascurabile. Spense le luci di riconoscimento e di volo e cercò di liberarsi il braccio dalla fune che teneva il corpo di Inglis, che nel movimento rotatorio gli si era avviluppata intorno. Quando fu riuscito a stabilizzarsi rimase perfettamente immobile e cercò di sondare la situazione. L'anca destra gli doleva per l'urto, ma per quanto ne sapeva non aveva niente di rotto. Si chiese se l'attaccante si sarebbe accontentato di quel colpo a sorpresa, o se non fosse l'inizio di un duello. «Sei stato svelto, Hasson» disse una voce dalle tenebre. «Più svelto del tuo socio. Ma non ti servirà a niente.» «Chi sei?» gridò Hasson, aspettando il prossimo segnale radar. «Lo sai chi sono. Sono il Pompiere.» «Questa è musica.» L'agente parlò a voce alta mentre preparava la rete e
il lazo. «Qual è il tuo vero nome? Quello che dai al tuo psichiatra, voglio dire.» Le tenebre risero. «Molto bene, sergente Hasson. Prendi tempo, cerchi di farmi incazzare e vuoi sapere il mio nome. E tutto in una volta.» «Non mi serve prendere tempo. Ho già trasmesso la richiesta di rinforzi.» «Quando arriveranno ti troveranno morto.» «Perché faresti una cosa del genere?» «E perché tu dai la caccia ai miei amici e li porti a terra?» «Perché sono una minaccia per se stessi e per gli altri.» «Solo quando tu li costringi a volare all'impazzata. Stai mentendo a te stesso, Hasson. Tu sei un poliziotto del cielo e ti piacerebbe dare la caccia alla gente, fino alla morte. Ma io ti restituirò alla terra una volta per tutte, e le tue reti non ti serviranno a niente.» Hasson aguzzò gli occhi in direzione della voce, ma invano. «Reti?» Ci fu un'altra risata e il Pompiere cominciò a cantare: «Posso vederti nel buio, perché il Pompier io son... Posso volare con te, senza fartelo saper...» Le parole familiari risuonarono più forti al suo orecchio mentre la loro sorgente si avvicinava e all'improvviso Hasson vide la sagoma di un uomo imponente illuminata dal flusso di traffico sotto e dalla luce delle stelle sopra. Imbacuccato nell'imbracatura di volo aveva un aspetto pauroso, inumano. Hasson desiderò avere un'arma da fuoco, ma da sempre la tradizione della polizia britannica era di non possederne. Poi notò qualcosa: «Dov'è la lancia?» «A che mi serve? L'ho buttata via.» Il Pompiere allargò le braccia e anche nel buio, anche in assenza di punti di riferimento spaziali, fu evidente che era un gigante, un uomo che non aveva bisogno di altre armi oltre a quelle fornitegli dalla natura. Hasson pensò alla pesante lancia che piombava a velocità folle su un suburbio affollato, tremila metri più in basso, e un odio congenito gli attraversò il corpo, facendogli desiderare l'imminente battaglia, qualunque ne fosse l'esito. Quando il Pompiere si portò a tiro Hasson cominciò a roteare la rete in lenti cerchi, regolando la cintura per bilanciare l'effetto rotatorio. Alzò le gambe, pronto a sferrare un calcio, e si trovò perfettamente allineato alla fune che reggeva Inglis, macabro spettatore del duello. Si sentiva teso e nervoso, ma non particolarmente spaventato, ora che il nemico aveva buttato la lancia. Il combattimento aereo non è un fatto istintivo, biso-
gna impararlo e praticarlo, e quindi il professionista ha sempre la meglio sul dilettante, a prescindere dall'abilità o dalla volontà di quest'ultimo. Per esempio il Pompiere aveva commesso un grave errore a consentire che Hasson assumesse l'attuale posizione, perché le sue cosce erano in grado di vibrare un calcio violentissimo. Ignaro del pericolo che correva il Pompiere si avvicinava sempre di più, dirigendo la forza ascensionale della cintura con piccoli movimenti delle spalle. È un buon volatore, pensò Hasson, anche se non ne sa molto sulla strategia, e... Il Pompiere arrivò veloce, ma non tanto veloce quanto avrebbe dovuto. Hasson sperimentò una specie di orgasmo al pensiero di avere tutto il tempo che voleva per colpire nel punto prescelto. Scelse la zona vulnerabile proprio sotto il visore, si preparò alla brusca caduta che sarebbe seguita all'interferenza dei campi e fece partire un calcio capace di spezzare il collo di un uomo. In un modo o nell'altro il Pompiere riuscì a spostare la testa e afferrò la gamba di Hasson. I due cominciarono a precipitare, ma a velocità diversa, perché Hasson era ancorato a Inglis, il cui campo era troppo lontano per risentire della collisione. In un attimo, prima che si separassero, il Pompiere applicò tutta la forza delle sue braccia e spezzò la gamba del poliziotto. Il dolore e la sorpresa offuscarono la mente di Hasson, svuotandolo di tutta la forza e di tutta la risoluzione. Fluttuò nelle tenebre per un periodo imprecisato, muovendo incerto le braccia, il volto distorto in un urlo silenzioso. La grande nebulosa sotto di lui continuava a ruotare, ma una forma oscura si stagliava contro di essa e Hasson si disse che non c'era tempo per abbandonarsi alle imprecazioni. Ormai sul piano fisico era chiaramente inferiore, e se la vita doveva continuare bisognava applicare l'intelligenza. Ma come faceva a pensare ora che il dolore gli aveva invaso il corpo come un esercito ostile e sparava micidiali colpi di mortaio al suo cervello dilaniato? Tanto per cominciare, si disse, devi liberarti di Lloyd Inglis. Ruotò verso il corpo del compagno, con l'intenzione di sganciarlo, ma il Pompiere parlò da pochi metri di distanza. «Che te n'è parso, Hasson?» La voce era trionfante. «E quello era solo per dimostrarti che posso batterti al tuo stesso gioco. Ma adesso comincia il mio.» Hasson cercò di tirare la fune più in fretta che poteva e finalmente il corpo di Inglis gli si avvicinò al punto che i due campi si annullarono. I
due agenti cominciarono a cadere, ma il Pompiere si tuffò su di loro in un lampo, stringendo un braccio intorno a Hasson. Caddero in tre, mentre un vortice di fuoco cominciava a spandersi sotto di loro. «Questo è il mio gioco» cantava il Pompiere verso la fiumana luminosa sempre più vicina. «Posso mandarti a terra quando voglio, perché il Pompier io son...» Hasson conosceva la «tattica del pollo». Cercò di scacciare il dolore dalla gamba martoriata e si allungò verso l'interruttore principale della cintura, ma esitò. Quando si fa questo gioco in due il primo uomo spegne il suo campo AG: in questo modo quello dell'altro torna a funzionare, causando una spinta differenziale che tende ad allontanare verticalmente un rivale dall'altro. A questo punto la contromossa standard, da parte del secondo uomo, consiste nello spegnere istantaneamente il suo campo, in modo che i due corpi continuino a precipitare insieme verso il basso finché i nervi di uno dei due non cedono e lo costringono a riattivare la cintura. Nell'attuale partita di morte, tuttavia, c'era un elemento imprevisto: Inglis, il compagno silenzioso che aveva già perduto. Il suo campo avrebbe continuato a negare quello degli altri due senza curarsi di ciò che essi facevano, a meno che... Hasson liberò un braccio dall'amplesso derisorio del Pompiere e attirò il corpo di Inglis più vicino a sé. Cercò l'interruttore dell'amico, ma trovò solo una liscia placca di sangue congelato. L'orizzonte ingioiellato sorgeva tutto intorno a loro, adesso, e le correnti circolari del traffico si schiudevano come una pianta carnivora. L'aria vorticava e sibilava a velocità tremenda, assordante. Hasson lottava per rompere la crosta di ghiaccio sulla cintura di Inglis, ma in quel momento il Pompiere gli passò un braccio attorno al collo e gli tirò indietro la testa. «Non cercare di sfuggirmi» gridò all'orecchio di Hasson. «Non cercare di fregarmi al gioco del pollo... Voglio vedere come salti bene.» Continuarono a cadere. Hasson, impacciato dalla rete e dalla fune che tratteneva l'amico, cercò il gancio alla quale questa era assicurata; fece per aprirlo con le dita intirizzite, ma poi si rese conto che ci avrebbe guadagnato ben poco. Un esperto del gioco del pollo aspetta sempre l'ultimo minuto prima di interrompere l'interferenza fra i campi, in modo che l'avversario, anche con la cintura riattivata, colpirà comunque il suolo a una velocità inimmaginabile. Probabilmente il Pompiere intendeva spingersi al limite, questa volta, lasciando Hasson completamente incapace di evitare lo sfracellamento. Liberarsi
del corpo di Inglis non avrebbe fatto differenza. Erano caduti per quasi duemila metri, e in pochi secondi sarebbero piombati negli affollati livelli dei pendolari. Il Pompiere cominciò a uggiolare dall'eccitazione, afferrandosi a Hasson come un cane in fregola. Allora, reggendo Inglis con la mano sinistra, Hasson usò la destra per formare un cappio con la fune e accalappiare la coscia del rivale. Quindi fece il nodo. Mentre compiva quest'operazione piombarono in mezzo al flusso del traffico. Le luci lampeggiarono tutto intorno, e un attimo dopo la lenta galassia turbinante fu sopra di loro; ormai si vedevano i lampioni nella strada. E questo, Hasson lo sapeva, era il momento in cui il Pompiere doveva lasciarlo se voleva riguadagnare abbastanza velocità. «Grazie per la corsa» gli gridò, allontanandosi nel flusso luminoso. «Ti lascio, amico.» Hasson accese le sue luci e tirò violentemente la fune, finché il Pompiere finalmente se ne accorse. Si guardò la coscia legata e fece un movimento convulso, paralizzato dalla scoperta che era lui, e non Hasson, a essere agganciato al cadavere di Inglis. Un poliziotto morto può essere ancora mortale. Respinse Hasson con violenza e si aggrappò alla fune. Hasson fluttuò nel vento, finalmente libero, sapendo che la corda avrebbe resistito anche alla forza esaltata del Pompiere. Quando sentì il suo campo AG distendere le invisibili ali si voltò a guardare: vide due corpi, uno dei quali lottava freneticamente con una fune, uscire dalla portata delle sue luci e dirigersi all'impatto mortale con la terra. Non perse tempo in riflessioni filosofiche: dopotutto anche lui stava per atterrare, e gli ci sarebbe voluta tutta la sua abilità ed esperienza per uscirne vivo, ma fu lieto di scoprire che la morte del Pompiere non gli dava alcun piacere. Nunn e gli altri si sbagliavano sul suo conto. Anche così, pensò, negli ultimi secondi prima dell'impatto, ho cacciato come un falco per troppo tempo. Questo è il mio ultimo volo. E si preparò, senza timore, al cieco abbraccio della terra. DELIZIA A QUATTRO MANI (Jeffrey S. Hudson e Isaac Asimov) Ecco una vera Curiosità Letteraria, e molto semplice: la prima e probabilmente unica - collaborazione del dottor A. con un autore sconosciuto.
(Prologo) Caro Isaac, ti accludo un raccontino che penso troverai divertente. Naturalmente la soluzione è un po' scontata, ma... be', se tu, Dr. A., revisionassi gli ultimi tre paragrafi, contribuiresti a: a) aiutarci a creare una Vera Curiosità Letteraria; b) spingere un vero appassionato tra le file degli Scrittori Pubblicati e c) far schizzare gli occhi del suddetto appassionato fuor delle orbite! Renderesti me, inoltre, un curatore molto felice. A proposito: il tuo Forum per il «Galaxy» di luglio è ancor più perfetto di quel che mi aspettassi! Coi più cari saluti, (firmato) Jim Baen Caro Jim, okay, eccoti la roba che mi avevi mandato, completa di nuovo finale. Forse avresti potuto farlo scrivere anche da Bob Silverberg, ma comunque accertati che non s'incavoli troppo. (Non si è incavolato. Nota di Baen.) Inoltre, 'accertati per cortesia che il giovane J. S. Hudson approvi questa nostra modifica. Ovviamente non desidero alcun pagamento: se pubblicherai il racconto manda tutti i soldi a Hudson. Tuo, (firmato) Isaac Asimov Caro Jeff, ti dispiace se pubblichiamo la tua storia come una collaborazione con Isaac Asimov? Cordiali saluti, (firmato) Jim Baen Caro Jim, MA TU STAI SCHERZANDO!!! SÌ!!! Incoerentemente tuo (firmato) Jeff Hudson (Fine del Prologo)
Le acque della Baia di New York ribollirono, la nebbia turbinò e si dissolse, rivelando una gran curva di metallo che sporgeva dall'acqua. Pochi metri più avanti le onde si agitarono e un grande oggetto bianco e levigato fluttuò in superficie. La Marina, la guardia costiera e il Dipartimento di polizia si affannarono a investigare. Quando l'ultima bruma scomparve l'aviazione e le reti televisive scattarono molte foto dall'alto. La curva di metallo lucente parve emergere fino a una certa altezza, poi s'inabissò di nuovo nella baia, con un piccolo fremito. Sembrava sempre più una gobba. Le acque continuarono a ribollire, spruzzando ogni tanto il cielo, mentre l'oggetto bianco manteneva la sua posizione angolare. Il Pentagono non ci capiva un'acca, ma assicurò la popolazione che non era un'arma dei russi. Infine la cosa accadde. Come se dal basso qualcuno l'avesse mollata, la curva emerse nell'aria libera, rivelandosi per un basso arco... ma no, all'estremità non c'era niente. Poi emersero i due segnamargini, e di colpo l'intero marchingegno risultò visibile. L'acqua si riversò dal rullo, finì nel carrello, ruscellò come una cascata fra i tasti... e l'immensa macchina per scrivere brillò al sole. I bracci metallici delle varie lettere descrivevano grandi archi nel cielo e si abbattevano sulla carta, il tasto incolonnatore era premuto e il rullo volava nell'aria, sbattendo contro la Statua della Libertà. Sul retro della Grande Macchina si leggeva la scritta: «O il più prolifico del mondo, o morto!». Dietro i tasti, intento a battere con furia maniacale, c'era il dottor Isaac Asimov. Il Presidente ne fu offeso. L'editore estasiato. Il pubblico diventò isterico. Nel frattempo il Buon Dottore continuava a battere su un infinito foglio di «carta» largo cento metri che pareva materializzarsi dall'interno stesso della macchina. Del resto nessuna parte della macchina sembrava aver mai bisogno di sostituzioni: era come se si rigenerasse da sé. (Se è per questo, anche il dottor Asimov.) L'unico indizio sull'alimentazione dell'ordigno era un lungo cavo elettrico che si estendeva nell'Atlantico. Isaac sfornava il suo messaggio ventiquattr'ore al giorno. L'enorme manoscritto aveva già ingolfato mezzo porto di New York e si stava ammucchiando adesso sulla spiaggia, avvoltolandosi intorno ai moli, incartando i grattacieli e pavimentando le strade. Oltretutto la «carta» sembrava indistruttibile. Le lettere non si chiazzavano né sbiadivano e intere folle cam-
minavano sull'asfalto bianco leggendo affascinate. Non si trattava di un'unica opera, ma di diversi tomi su ogni soggetto immaginabile. Scienza: una nuova Teoria della Relatività. Umorismo: la città di New York per poco non crepò dal ridere. Narrativa: una nuova trilogia (di fantascienza, naturalmente). Il sindaco remò in una barchetta fino alla macchina di Asimov per cercare di parlargli, e Isaac l'ascoltò, sparando una G, una Y, U, I e finalmente una O. Gli raccontò perfino una barzelletta, poi si rimise al lavoro sul serio. Vari altri funzionari si spinsero fino a lui supplicanti, ma senza nulla ottenere. Amici e parenti, colleghi scienziati e scrittori, tutti tentarono di dissuaderlo, ma senza successo. Gli offrirono immense somme di denaro, ma egli non batté ciglio. L'Associazione degli Scrittori Americani di Fantascienza minacciò di estinguere la categoria, dando le dimissioni in massa; non servì a niente. Al Congresso Mondiale di SF gli offrirono un Hugo speciale come «Più grande e più prolifico scrittore, nonché Ragazzo più simpatico del cosmo». Briciole, disse Asimov. Nel frattempo il manoscritto mostruoso si era esteso nello Stato di New York in un'immensa marea bianca (l'effetto più interessante si produsse alle Cascate del Niagara), aveva attraversato il Lago Erie (se non lo fermava quello, chi avrebbe potuto?) e circondato letteralmente Detroit. Circa nello stesso momento nella Baia di San Francisco si udì un gran boato, si produsse un'ondata colossale e un'altra macchina per scrivere gigante emerse dall'oceano. Quando i marosi si chetarono apparve la figura di Robert Silverberg, scura in volto e l'occhio di falco puntato a est, la barba e i lunghi capelli tutti sgocciolanti. In una mano reggeva una lunga pertica: spiegò - offrendo una dimostrazione immediata - che facendo il salto con l'asta fra i tasti pensava di superare Asimov. E così un'altra tastiera cominciò a gracchiare ventiquattr'ore al giorno; un altro interminabile manoscritto, lungo miglia e miglia, prese a srotolarsi. Stavolta ne fece le spese il Bay Bridge. La Grande Corsa era cominciata; Hank Aaron fu dimenticato nel giro di una notte e gli americani, che sono un popolo sportivo, cominciarono a fare il tifo per l'uno o per l'altro. I tentativi di rappacificarli furono abbandonati, perché quale titolo supremo può mai essere consegnato ex-aequo?
Tuttavia i riconoscimenti minori piovvero, per mostrare l'affetto e la devozione del pubblico all'uno o all'altro. Silverberg venne eletto Scrittore di Fantascienza Meglio Vestito; Asimov rifiutò un invito presidenziale. Nessuno dei due degnava le cose del mondo di più d'un'occhiata distratta, ma entrambi continuavano a pestare i tasti a velocità supersonica. Asimov, al fine di incrementare la produzione, ideò un sistema tarzanesco che gli permetteva di volare su una liana da un tasto all'altro. Ma nel far ciò perse parecchio tempo a favore di Silverberg, il cui salto con l'asta era impeccabile. Intanto il manoscritto di Asimov aveva oltrepassato il Mississippi e stava seppellendo il monte Rushmore. Quello di Silverberg, dopo qualche difficoltà iniziale nel Grand Canyon, si stava srotolando per le Grandi Pianure. Poi, per ragioni che rimarranno eternamente ignote agli uomini, i due manoscritti cambiarono direzione e si posero in rotta di collisione. Divenne evidente che il benedetto evento si sarebbe verificato nello Stato del granturco, il Nebraska. Si fecero moltissime scommesse sui risultati di questo scontro di cervelli. La Grande Domanda era: «Qual è più forte?» Gli editori si buttarono nell'orgia pubblicitaria, stampando e ristampando le opere che i librai ripuliti chiedevano senza posa. Si formarono vasti club di appassionati che offrivano barbe posticce e parrucche (proprio come quella di Silverberg!), o che - nel caso tenessero per Asimov - si travestivano da robot e si mettevano finte orecchie da Mule per le riunioni informali. FINALE RISCRITTO DAL DR. ASIMOV Venne il gran giorno. I due serpentoni di carta si avvicinarono, alzarono la testa e si strinsero in una spirale. Rimasero in quella posizione, tremanti, per un'intera giornata, mentre altra carta si ammassava sotto quella doppia elica. Poi le due spire si separarono, si allontanarono e ciascuna formò una nuova spirale di carta sfruttando le molecole dell'aria circostante. Dove un attimo prima si era vista una doppia elica, ora ne esistevano due, in replica perfetta. Ai reporter cascarono i microfoni. Agli agenti del governo cascarono gli apparecchi d'intercettazione. Al pubblico americano cascò la collettiva mascella inferiore. Un altro giorno e di nuovo le due doppie eliche si strinsero tremando
l'una all'altra, si separarono... e diventarono quattro. Nell'Atlantico e nel Pacifico i due interminabili rotoli di carta si strapparono dalle rispettive macchinone con un'orrenda lacerazione. Le due tastiere rombarono un'ultima volta, poi tacquero. Asimov si riversò all'indietro, delirando. Silverberg si accasciò in avanti, gemendo. Nel Nebraska i serpentoni di carta continuarono a dividersi e a sdoppiarsi. Il mostro non aveva più bisogno dei suoi Frankenstein. La NASA stima che in meno di due mesi tutta la Terra sarà carta. Forse, allora, la «cosa» si metterà in marcia per la Luna. MEFISTO E L'ESPLORATORE IONICO (Colin Kapp) Provate a cavalcare una vampa di sodio nel cuore d'una tempesta ionica... Il vostro spirito si fonderà allora con l'enigma di Mefisto. Alzò gli occhi, mentre una delle assistenti di volo gli si avvicinava. Sapeva già perché era venuta. «Dottor Lisbon?» «Sì?» «Il comandante la riceverà adesso.» Dall'espressione era ovvio che aveva un po' paura di lui. Non tutti gli uomini sono tanto importanti da costringere una nave interstellare a uscire dall'iperspazio per permettergli di non mancare a un appuntamento. Anche se si tratta di un rendez-vous d'emergenza. Inoltre tutti nello spazio conoscevano la sua fama di «esploratore ionico». Peter Lisbon posò tristemente il libro di poesia sullo scaffale e la seguì. Finora era stato un viaggio piacevole, ma sfortunatamente lui aveva un appuntamento con la paura. Sperò che il terrore dentro di lui non trasparisse. Nella cabina del comandante fu presentato agli ufficiali della nave. Furono tutti felici di stringergli la mano, ma nessuno fece parola della missione che lo aspettava. Fu condotto cerimoniosamente al portello oltre il quale un rozzo ma efficiente rimorchiatore spaziale lo aspettava per condurlo all'osservatorio orbitante intorno a Mefisto. Quando si avviò lo salutarono come se fosse un eroe, e lui si sentì doppiamente infastidito, perché in realtà era un codardo. Mentre attraversava lo stretto passaggio stagno gli sembrò di essere
giunto più che alla fine di un viaggio: stava tornando a un sistema di vita che aveva sperato morto per sempre, cancellato dalla sua strada e sepolto nel passato. Per un anno non aveva fatto altro che fuggire da scene come questa e dalle loro conseguenze. E nel frattempo, sospettava, aveva perso quel po' di sangue freddo che gli era rimasto. Nel rimorchiatore non c'era posto per i comfort: sicurezza ed efficienza erano i soli criteri. Fu sistemato in una rozza imbracatura che somigliava a una ragnatela, come un qualunque fagotto di strumenti elettronici, e gli fu detto di starsene buono. L'avvertimento non era superfluo: la manovra del rimorchiatore richiese una serie di scrolloni da rompere le ossa quando si staccò dal gigantesco scafo interstellare e quando decelerò per inserirsi nell'orbita più bassa dell'osservatorio spaziale. Benché si fosse trovato in situazioni analoghe centinaia di volte Lisbon non aveva imparato a non detestarle. In nessun luogo meglio che in un rimorchiatore si sperimenta il contatto brutale, quasi fisico con lo spazio, e questo lo atterriva e lo umiliava. Nutriva un'ammirazione incondizionata per gli uomini che passavano la vita in quelle condizioni pericolose e poco remunerative. Finalmente un membro dell'equipaggio gli si avvicinò e lo salutò. «Dottor Lisbon, lei ha priorità di sbarco. Prego, si rechi a rapporto al controllo missione non appena verificate le chiusure stagne.» «D'accordo» disse Lisbon senza entusiasmo. Si liberò dall'imbracatura, odiando la sensazione di gravità zero. Il richiamo dell'addetto era stato inutile: aveva seguito perfettamente l'entrata in orbita del rimorchiatore e l'allineamento con l'osservatorio. Per spiacevole che fosse stato il viaggio, ora lo rimpianse, non osando pensare a ciò che lo attendeva. Aveva assaporato ogni momento dell'entrata in orbita, cercando di dilatare mentalmente i secondi, per guadagnare un po' di tempo prima che la grande sfida cominciasse. Karl Reinspringer, capo controllo missione, lo aspettava nell'osservatorio. Si conoscevano da molto tempo, e il loro era un rapporto basato sul rispetto reciproco. Una volta Reinspringer era stato anche lui un uomofiamma, e sapeva le paure che si agitavano dietro l'apparente flemma di Lisbon. Questa consapevolezza costituiva il vero legame tra gli uominifiamma. Era qualcosa che chi non fosse passato personalmente attraverso la barriera ionica non poteva capire. «Allora hai ricevuto il mio messaggio, Peter.» Il sollievo di Reinspringer
alla vista di Lisbon era addirittura patetico. «Tirar fuori una nave dall'iperspazio e imporle un brusco cambio di rotta significa già di per sé guai, senza bisogno di messaggi. Ma non posso aiutarti, Karl. Mi hanno tolto dalle liste un anno fa.» «Ci sono uomini-fiamma buoni e uomini-fiamma eccezionali.» Il cranio calvo di Reinspringer rifletteva la luce verde dei pannelli e sembrava sormontato da una calotta di vetro di bottiglia. «Quelli buoni di cui disponevo non sono stati all'altezza di Mefisto. Ora me ne occorre uno eccezionale per vedere di tirarli fuori.» «Te l'ho detto, Karl, mi hanno ritirato. Messo fuori.» «Le mie orecchie ti hanno sentito, ma non il mio cervello. Ho due dei miei uomini migliori in stato ionico sulla superficie. Si sono messi nei guai, e ho perso tutti e quattro i membri della spedizione di soccorso. Adesso ci sono sei persone laggiù, Peter, e può darsi che qualcuno sia ancora vivo. Non mi frega un accidenti che non sei più in lista, ho bisogno che tu vada laggiù e salvi i sopravvissuti.» «Che ti fa pensare che riuscirò dove la tua squadra ha già fallito?» «La sopravvivenza nello spazio ionico non è solo una cosa che hai imparato. È un istinto, per te. Ecco perché sei potuto diventare il più anziano uomo-fiamma sulla piazza.» «Ma sai perché mi hanno messo in pensione?» «Hanno detto che cominciavi a fare delle brutte "entrate". Guarda, Peter, io ho lavorato con te per anni, quindi so che hai fatto sempre delle brutte entrate. Ma non è questo il punto. Quello che conta è come uno ne esce fuori... L'abilità di ritornare.» «Parlami di Mefisto» disse Lisbon infelice. La prima veduta che Lisbon ebbe di Mefisto fu un colpo. Attraverso le finestre dell'osservatorio la grande sfera dell'astro appariva sospesa nello spazio e avvolta in lingue fiammeggianti. Anche da quella distanza sembrava riempire la maggior parte del cielo. Pendeva immenso, odioso ed enigmatico come un gigantesco tizzone dello spazio. Guardando quella fornace era difficile capacitarsi di non sentire il calore, né il crepitio delle fiamme, e questa sensazione toccava una corda profonda negli istinti più primitivi dell'uomo. Ma la realtà dello spazio ionico sembrava fatta apposta per dimostrare che perfino i terrori più superstiziosi erano inadeguati di fronte alla sua natura. Troppo caldo per essere un pianeta, di gran lunga troppo freddo per esse-
re una stella, Mefisto era un mistero cosmologico. Non c'era posto, per lui, nel diagramma di Hertzsprung-Russell, non si adattava a nessuna classificazione né per il tipo né per la natura delle sue reazioni. Forse era il superstite di uno stato della materia antecedente la nascita dell'universo, o forse un esempio d'evoluzione stellare, al di là della condizione di stella nana o stella al neutrone. «So che cosa stai pensando, Peter» disse Reinspringer alle sue spalle. «Ti stai chiedendo perché diavolo abbiamo mandato della gente laggiù.» «Ho visto inferni peggiori» disse Lisbon, «ma almeno la fisica delle reazioni era ben nota prima che qualcuno andasse a pasticciarci. Perché la tua squadra è andata laggiù così impreparata?» «A esser sinceri non avevamo nessuna risposta da dar loro. Mefisto è un enigma. Per quattro anni siamo stati qui seduti a guardarlo e a fare teorie. Alla fine bisognava che qualcuno si arrischiasse a scendere, anche in quel covo di misteri.» «E chi erano i membri della prima spedizione?» «Andre Beriov e Loya Tremain.» «Beriov è un esperto. Un fisico teorico di prima qualità, ma non credo che valga altrettanto come uomo-fiamma. Per quanto riguarda Loya... credevo di averle insegnato che è meglio conoscere tutti i lati del problema, prima di affrontare rischi simili.» «È specializzata nel lavoro sulle vampe solari: questo non la rende abbastanza adatta?» «C'è una bella differenza fra le vampe solari e la broda ionica che avete qui su Mefisto. Quando si lavora con le stelle non c'è bisogno di cambiare identità ionica per potersi muovere. E la squadra di soccorso? Era gente più esperta, spero.» Reinspringer si morse le labbra. «Tutte facce nuove mandate dal CEI. I migliori laureati, con un po' di lavoro solare come esperienza.» «È quest'insistenza sul lavoro solare che mi dà fastidio. Qualunque cosa sia, Mefisto non è un sole.» Reinspringer aggrottò le ciglia, pensieroso. «Vuoi dire che ho mandato la gente sbagliata?» «La gente è giusta, Peter. È Mefisto che è sballato.» Lisbon agitò il braccio, come per abbracciare il grande globo che pendeva nel cielo. «Ho studiato l'interazione fra alcune di quelle vampe. La maggior parte delle reazioni sono comprensibili ma altre hanno una chimica particolare. Una chimica che non è nei libri, Peter.»
«Ecco perché Mefisto ci interessa tanto.» «Sicuro, ma che succede se un uomo-fiamma per aprirsi una strada imbrocca uno di questi elementi parachimici e ne assume l'identità? Che tipo di chimica dovrà usare per venirne fuori?» Reinspringer era impressionato dalla velocità con cui Lisbon aveva afferrato il nocciolo. «Era un rischio calcolato. Sfortunatamente sembra che i nostri calcoli non abbiano funzionato a dovere.» Adesso il nodo allo stomaco di Lisbon era così forte che gli si imperlava la fronte di sudore. Sapeva per istinto quando un rischio era inaccettabile, e nello spazio ionico l'istinto gli aveva salvato la pelle molto più che non l'allenamento o l'esperienza. Era nel progetto fin dall'inizio, ed era sicuro che in quel limbo ionizzato non avrebbe trovato anima viva. Con una conoscenza dell'ambiente tanto approssimativa lui non si sarebbe mai fatto convincere ad andare giù. A questo punto, tuttavia, qualcuno aveva preso la decisione per lui. A prescindere dal rischio, e se anche la vita persisteva su Mefisto solo in forma ionica, il tacito credo degli uomini-fiamma lo obbligava ad andare e a offrire l'aiuto che poteva. Era strano pensare che quella semplice prospettiva gli avesse procurato incubi per anni, e che gli incubi gli avessero fatto commettere gli errori che avevano indotto il CEI ad allontanarlo. Lui se n'era rallegrato, perché sebbene gli incubi fossero continuati, almeno non avevano nessuna possibilità di diventare reali. E poi Reinspringer l'aveva tirato fuori da una nave che filava nell'iperspazio, e gli aveva chiesto di aiutarlo in quell'emergenza... Quando chiese tre tamburi, gliene portarono tre senza ribattere, avvolti nelle confezioni speciali. Ogni tamburo valeva più di quanto Lisbon avrebbe mai guadagnato nella sua vita. Nell'asettica e sterile sala dei preparativi lui prese i begli strumenti ottagonali e li esaminò attentamente. Erano veraci, infallibili, e le sue dita si mossero amorevolmente sui diaframmi, tastandone la sensibilità. Oltre la tripla parete di vetro della sala di controllo Reinspringer era preoccupato per tutti quei maneggi, ma non osava interferire. Finalmente Lisbon sembrò soddisfatto e annuì la sua approvazione. Reinspringer stampò nella camera di ionizzazione l'analisi spettrale del gas che l'uomo-fiamma aveva scelto per la sua prima identità: argon blu-verde a cinque-quattordici nanometri. Lisbon si distese nella nera morbidezza del lettino, i preziosi tamburi a portata di mano. Era pronto ad andare, come
sempre. Ma si stava avvicinando il momento che aveva imparato a temere di più: l'entrata nello stato di identità ionica. La metamorfosi era relativamente facile: era l'adattarvisi, quello che lo faceva rabbrividire. «Come ti senti?» La voce di Reinspringer risuonava metallica dall'interfono. «Di merda!» disse Lisbon. «Che ti aspettavi?» La battuta non aveva niente di ironico, ma entrambi sogghignarono, e la tensione calò per un minuto. Lisbon s'irrigidì, sperando di non rendere troppo manifesto che non credeva più di avere la fibra adatta a sopportare tutto quello stress. Una volta superata la barriera ionica sano e salvo ed essersi imposta cieca fiducia nei suoi dogmi sapeva che si sarebbe sentito meglio, più capace di affrontare i problemi che gli venivano posti. Guardando la cosa in retrospettiva tutto gli sarebbe sembrato una grande sfida, ma in prospettiva... Quando le gabbie elettriche scesero intorno a lui si chiese per la milionesima volta perché avesse scelto di fare l'uomo-fiamma, ma come sempre era una domanda inutile. La prima volta che si era trovato in condizione d'identità ionica aveva visto panorami così enormi schiuderglisi davanti che non aveva avuto altra scelta. Una volta provato, sarebbe stato impossibile rinunciarvi. Profondamente radicati nella psiche c'erano fattori che trovavano solo pallida corrispondenza nel mondo molecolare: sfida, eccitazione, e coinvolgimento completo con l'ambiente erano solo parole e non rendevano giustizia alle esperienze degli uomini-fiamma. Non c'era modo di spiegare la totalità di sensazioni che ogni esploratore ionico conosceva così intimamente. Ma questo non cambiava il fatto che un viaggio nell'ion-spazio fosse una pericolosissima avventura. E Mefisto prometteva di essere la più pericolosa di tutte. Perfino due esploratori allenati come quelli che Reinspringer aveva mandato giù per primi non ce l'avevano fatta. E la lista dei pericoli noti era lunga abbastanza per formare un peso di piombo nello stomaco di Lisbon. Quanto ai pericoli ignoti, era meglio non pensarci nemmeno. Alla fine i preparativi furono ultimati e dalla sala di controllo Reinspringer segnalò l'okay finale. Come accadeva sempre quando la pressione dell'aria veniva ridotta i suoni nella stanza si attutirono curiosamente, non lasciando altro che l'acuto sibilo delle pompe. Lisbon si strinse le braccia intorno al corpo e attese che la transizione cominciasse. Si augurò che non
lo stessero guardando, perché il primo stadio della trans-ionizzazione è sempre un po' come un'esecuzione. Per fortuna il periodo di transizione fu breve. Una volta che il campo ebbe raggiunto il massimo non rimase niente di lui che fosse capace di trasmettere il dolore o di riceverlo; in un frenetico psicosecondo venne completamente distrutto e poi ricostruito, trasformato in plasma gassoso dal separarsi degli elettroni e l'accoppiarsi degli ioni. Disorientamento... il trauma della distruzione e della ricreazione... vertigine. Soprattutto vertigine. Pochi secondi prima si trovava sul lettino nero, e adesso il lettino era sparito. Anche l'osservatorio che conteneva il lettino si trovava molto lontano: migliaia di chilometri sopra di lui. Fra lui e la fornace nel cielo non rimaneva più niente. Non aveva corpo, era puro plasma alla deriva nel vuoto, e il fascio di microonde concentrate non riusciva a trarne ancora il più piccolo barlume di radiazione visibile. Stava cadendo... Cadendo in modo più terribile di quanto avvenga negli incubi. E non c'era nessun cuscino su cui svegliarsi quando la paura avesse raggiunto limiti insopportabili. Avrebbe continuato a cadere... Lo afferrò il panico, e lo combatté come aveva fatto tante altre volte prima di questa. Ma stavolta sapeva di aver perduto la vitalità di una volta, e non c'era niente dentro di lui capace di controllare la situazione. Continuava a cadere verso le fiamme sotto di lui, per diventare un componente minore e insignificante della fornace aliena. «Avanti, Peter, falla finita!» Era la voce di Reinspringer, che gli arrivava tramite il fascio di microonde. Lisbon si chiese se avesse urlato, o se il capo controllo non avesse semplicemente dedotto il suo stato d'animo. Quest'ultima ipotesi era la più verosimile. Lisbon si aggrappò disperatamente al suo legame col mondo, e lo fece con normalità. Grazie al cielo sentì la padronanza di se stesso riaffluirgli dentro. Ce l'aveva fatta! «Va tutto bene, Karl. Solo una brutta entrata.» «Ti dirò una cosa, va bene? La tua entrata non è stata peggiore di quella degli altri, quando hanno visto quello che li aspettava là sotto.» Lisbon non rispose. Sotto di lui la distesa infernale di Mefisto richiedeva tutta la sua attenzione. E le continue assicurazioni di Reinspringer avevano per lui meno importanza, adesso, delle micro-tracce di elio che cominciava
a distinguere ai bordi dell'alta atmosfera. Si allungò per sentire i tamburi e scoprì che erano confortevolmente vicini. L'adozione di un'identità ionica faceva parte del training classico e veniva insegnata in ambienti simulati. Tutt'altro era però attraversare lo spazio per cadere dritti in una fornace come quella di Mefisto. Lisbon dovette ricordare a se stesso che, trovandosi in un particolare stato ionico, la forza d'attrazione del pianeta (o era una stella?) non rappresentava per lui un abisso gravitazionale invincibile. D'altra parte, gli era impossibile dimenticare che nemmeno gli scienziati riuscivano ad accordarsi sulla vera natura dell'astro. Sentì la leggera «gomitata» del fascio di onde e corresse la traiettoria. Nell'osservatorio sospeso nello spazio la mano di Reinspringer ai controlli gli ricordava costantemente l'assoluto bisogno di mantenersi obbiettivo. Non doveva dimenticare neppure per un momento che lui era una creatura la cui normale identità era molecolare (la cosiddetta mol-identità). La ionidentità era uno stato transeunte e artificiale, la cui virtù consisteva nel fatto che gli permetteva di ficcare il naso in luoghi dove un essere molecolare non avrebbe mai potuto sopravvivere. L'inconveniente era che la coscienza ionizzata tendeva facilmente a confondersi col resto dell'Universo. Ben presto raggiunse le bande radioattive dell'atmosfera esterna di Mefisto. Adesso era essenziale mantenere la compattezza del suo essere, per evitare la dispersione di ioni vitali. Per fortuna conosceva il mestiere e riuscì a darsi sufficiente plasma-coesione per attraversare senza pericolo la cintura radioattiva. Non s'indebolì eccessivamente, ma sotto c'erano altre fasce, anche se non così difficili o pericolose. Passati gli strati M1 e M2, non c'era serio rischio di trovarsi coinvolti in incontrollabili reazioni fotoniche. Mentre cavalcava il fascio di microonde nella crescente densità dell'alta atmosfera la sua capacità di ionizzazione cominciò a mostrarsi più tangibilmente: Lisbon notò i primi segni di radiazione visibile che caratterizzavano se stesso e i tamburi. L'intensità del fascio gli permetteva di identificare inoltre alcuni atomi rarefatti presenti nel vuoto. D'ora in poi doveva stare attentissimo, perché avrebbe avuto bisogno di tutte le informazioni che poteva raccogliere: solo così poteva sperare di tornare al laboratorio. Lisbon era un conservatore: l'esperienza e l'età gli avevano insegnato che la cautela pagava, sicché aveva sacrificato la mobilità ionica a favore delle caratteristiche inerti dell'argon. L'aumento della ionizzazione induceva un
plasma blu-verde che, per quanto non potesse rivaleggiare con lo splendore dello ione sodio, era però abbastanza tipico da permettere ai telescopi dell'osservatorio di seguire il suo passaggio. La conoscenza delle lunghezze d'onda della propria luminosità gli dava inoltre un punto di riferimento in base a cui stimare la risposta spettrale delle altre sostanze cui era interessato. In assenza di strumentazione, simili stime erano la sua specialità, e in molte occasioni gli avevano salvato la vita. Il suo passaggio nella densa ionosfera di Mefisto fu un tripudio di splendore. Le microonde concentrate dei maser dell'osservatorio gli «spianavano la strada», e adesso lo posero in una vampa che localmente era più brillante della stessa radiazione di Mefisto. Per un momento sperimentò la più pura euforia mentre precipitava bruciando dal cielo. Quando colpì lo strato M1 le cose presero una piega decisamente più brutta. Reinspringer, che seguiva la sua traiettoria allo spettroscopio, gli mandò immediatamente un avvertimento. Alle attuali lunghezze d'onda il fascio di microonde generato dai maser dell'osservatorio rischiava di attenuarsi gravemente, causa l'assorbimento dovuto a crescenti nuvole di gas. Le comunicazioni avrebbero potuto continuare, a intermittenza, anche a livello minimo, ma per mantenere il potenziale di ionizzazione Lisbon avrebbe dovuto prendere l'energia direttamente dalle fonti disponibili su Mefisto. E questa fu la prima indicazione sicura che la missione di salvataggio avrebbe avuto i suoi guai. Lisbon era tutt'altro che felice. L'assunzione di ioni e fonti di energia locali era un espediente comune ma non consigliabile, e certo non tale da raccomandarsi nelle prime fasi della missione. Era conveniente solo se l'uomo-fiamma aveva una conoscenza approfondita della sequenza di reazioni chimiche ioniche che gli avrebbero permesso di passare alle identità alternative. Normalmente tali sequenze venivano pianificate e ripetute molte volte, così che l'uomo-fiamma era in grado di identificare la sua rotta solo grazie al colore delle vampe; nel caso che le chiavi d'identificazione fossero fuori della portata della vista umana la via veniva tracciata dagli spettroscopi dell'osservatorio. Ma nella situazione attuale sulle comunicazioni con la base non si poteva fare molto affidamento: nel caso migliore sarebbero state intermittenti, nel peggiore del tutto assenti. Benché Lisbon fosse abbastanza fiducioso di poter identificare la maggior parte degli elementi le cui linee spettrali si trovavano fra i quattrocen-
to e i settecento nanometri, restava un ampio margine esposto all'errore, visto che non c'era possibilità di conferma da parte degli spettroscopi. La portata dello spettro visibile, quindi, era di gran lunga troppo limitata per dargli più che una guida parziale. La prospettiva peggiore era che Mefisto contenesse composti - e perfino elementi - sconosciuti alla Terra. Gli astrofisici lo ritenevano possibile, e avevano potuto addirittura «intravedere» un'intera nuova serie di elementi dal nucleo stabile oltre il mitico «mare d'instabilità» che caratterizza i limiti degli elementi noti e di quelli prodotti dall'uomo. Qualcuno aveva perfino alluso alla possibilità che esistesse un'altra tavola periodica, speculare rispetto a quella conosciuta e costituita di una serie parachimica le cui proprietà andavano al di là di ogni immaginazione. Allo strato M2 le paure di Reinspringer furono ampiamente confermate: la parziale ionizzazione dei gas in ascesa diede luogo a fantastici effetti aurorali, che i campi magnetici di Mefisto plasmarono a guisa di cortine. La fluttuazione di questi strati instabili determinò una casuale attenuazione del fascio di microonde. Lisbon poteva sopperire alla scarsezza di comunicazioni, ma la perdita di energia da parte del fascio, e nello stadio iniziale della missione, era veramente pericolosa. Per penetrare nella chemiosfera ci voleva un forte potenziale di ionizzazione per mantenere la coesione del plasma da cui dipendeva la sua identità. Se il fascio di microonde falliva nel momento in cui lui toccava la chemiosfera, correva il serio rischio di vedere i suoi ioni diluirsi intorno al globo, al di là di ogni speranza di salvezza. L'ostacolo maggiore era la zona degli ossidrili: in essa Lisbon si rivelò previdente come al solito e adottò un'identità-argon: l'argon non ha un radicale ossidrile di cui valga la pena preoccuparsi. Passò attraverso la chemiosfera approfittando di un'ondata di massima intensità del fascio, ma quella momentanea fortuna fu seguita da un drastico calo di potenza solo pochi secondi dopo che vi era penetrato sano e salvo. Da questo punto in poi fu costretto a scegliere la sua identità in base agli ioni locali della bassa atmosfera, e a ricavare il potenziale di ionizzazione dalle energie di Mefisto. Libero dalle limitazioni del fascio di microonde, ora poteva abitare qualsiasi elemento mostrasse uno stato idoneo a ospitare i requisiti d'identità e intelligenza. Sarebbe stata una grande liberazione dello spirito. In quest'occasione, tuttavia, era anche la più pericolosa delle trappole tecnologiche. Senza una conoscenza sicura delle sequenze chimiche progressive
che entravano in ballo, poteva trovarsi in completa balìa delle ondate ioniche sconosciute. Se questo fosse accaduto, non ci sarebbe stato alcun modo di tornare indietro. Lisbon decise di fermarsi e di fare il punto della situazione. Il flusso ascendente di energia radiante era sufficiente a mantenere intatta la sua identità nonostante le periodiche interruzioni del fascio di Reinspringer. La vista sotto di lui era spaventosa: giganteschi pennacchi di fiamma multicolore proiettati per dozzine di chilometri nell'atmosfera. Sotto questi pennacchi ribolliva un vero oceano di fuoco, nel quale si mescolavano furiosamente i colori più strani, secondo un misterioso schema di reazioni interne. Quando il potere del fascio di microonde era forte, lui mandava a Reinspringer un resoconto di ciò che vedeva, descrivendo e classificando i fantastici abissi e le montagne di fuoco sottostanti. Dove possibile aggiungeva l'eventuale identificazione degli elementi in reazione, ricavata dai colori dei loro spettri ionizzati. Ma era consapevole della ristrettezza di campo cui l'occhio umano è costretto. Quando l'energia del fascio veniva meno si domandava come sfruttare al meglio le sue limitate risorse, per un'operazione di soccorso che ormai certo sarebbe fallita. Alla fine decise che era venuto il momento di fare una mossa. Reinspringer aveva registrato tutti i dati utili, quindi non c'era motivo di aspettare ancora. Usando il fascio come sentiero-guida Lisbon si diresse in basso, verso l'ormai abbandonato «accampamento». Si trattava di un altipiano di roccia solida lungo circa trecento metri e largo cinquanta. Il termine accampamento era un mero eufemismo: in termini di spazio molecolare aveva una temperatura sufficiente ad arrostire un uomo al calor rosso, e dai crepacci nella superficie uscivano grandi fiamme d'idrogeno incandescente. Per gli uomini-fiamma tuttavia era sempre stato un utile punto d'appoggio e d'incontro, e una base da cui mandare i rapporti. «Com'è la situazione sulla superficie, Peter?» La voce di Reinspringer era indebolita e distorta dalle interferenze del fascio di microonde. «Orribile!» disse Lisbon. «Da dove mi trovo ora le fiamme sono alte come montagne. Non so se il verbo bruciare è un'appropriata descrizione del processo, ma i fuochi non sono nucleari, almeno non come noi intendiamo il termine.» «Puoi vedere la base delle fiamme?» «No, è troppo più in basso, e c'è troppa luce in superficie. L'accampa-
mento deve essere la vetta di qualche catena montuosa sommersa, ma vedo fiordi profondi anche cinque chilometri. Ti dà una strana sensazione.» Ebbe le vertigini e si ritirò dal cornicione precario su cui si trovava, maledicendosi per temere una caduta di pochi chilometri quando nella transizione dall'osservatorio era già precipitato per cento volte quella distanza. Si rendeva conto che era una sciocchezza, ma non riusciva a farci niente. «Non ti è ancora chiara la meccanica delle reazioni?» insisté Reinspringer. «Te l'ho detto, Karl, non c'è niente nella mia fisica che spieghi Mefisto. Ma se proprio cerchi una spiegazione, pensa alla separazione chimica delle fiamme. Dev'esserci un meccanismo all'opera che separa ciò che in superficie si associa. C'è una fiamma di calcio puro alta almeno venti chilometri, e resiste da quando ho lasciato l'osservatorio. Come te la spieghi una fontana di ioni di calcio puro da una mistura di tanti reagenti diversi?» «Una specie di spettrometro di dimensioni cosmiche?» Reinspringer azzardava un'ipotesi. «Incaricherò i ragazzi del settore teorico di pensarci su. Ma i miei esploratori? Riesci a vederne una traccia?» Per tutta risposta Lisbon raccolse i tamburi, batté un richiamo pulsante e rimase ad ascoltare. Non ci fu risposta. Senza perdersi d'animo lui continuò a intervalli, ogni volta fermandosi ad ascoltare. Rannicchiato come un demonio sullo spuntone rovente di un fiume infernale, batté le dita sul tamburo, che emise un richiamo attutito dalle furie sibilanti intorno a lui, ma che aveva ugualmente una potente risonanza. «Pam... Pam... Pam...» Le sue dita inviavano un segnale regolare, fatto di un sol colpo. Nessuna risposta. «Pam... Pam... Pam...» Poi silenzio. Forse in lontananza c'era una debole eco mentre le sue dita esitavano sui diaframmi infinitesimali? «Pam... Pam... Pam...» Non c'era dubbio, ora. «Pam... Pam... Pam...» Da qualche parte, in quel terribile deserto di fuoco, un altro tamburo vibrava in risposta. «Pam... Pam... Pam...» Amplificata un milione di volte dalla risonanza, la risposta confermava che il suo messaggio era stato ricevuto. «Ho un contatto» disse Lisbon. «Distante ma definito.» «Così dunque almeno uno di loro è vivo!» Nella voce di Reinspringer si sentiva la gratitudine, già solo per questo piccolo passo. «Tieni il fascio puntato sull'accampamento» disse Lisbon. «Probabil-
mente dovrò muovermi, e mi farà comodo un punto di riferimento. Dubito che tu possa seguirmi col fascio in mezzo alle fiamme. Lascerò due tamburi al campo, e comunicherò con te tramite quelli.» «Ricevuto.» Lasciati due tamburi sullo sperone di roccia, Lisbon prese il terzo e rivolse la sua attenzione all'esterno. Le sue dita esperte batterono una serie d'impulsi interrogativi, poi accostò la membrana all'orecchio e aspettò la risposta. «Chi è?» chiese il controllore. «Andre Beriov. Si trova su una sporgenza a circa due chilometri dal campo. Ha cambiato identità a favore di qualcosa che credeva fosse quattro-trenta nanometri di ferro, poi ha scoperto che non lo era. E non riesce a scambiarsi chimicamente con nessun altro elemento locale; si trova in una sacca di gas statico. Devo andare laggiù e vedere che cosa posso fare.» «Stai attento, Peter» disse Reinspringer gravemente. «Non possiamo permetterci di perdere anche te.» Battendo regolarmente il tamburo Lisbon percorse il perimetro dell'«accampamento»; le orecchie affinate e l'assoluta precisione dello strumento lo misero in grado di distinguere la particolare direzione da cui veniva la risposta di Andre Beriov. Qui una fontana d'idrogeno incandescente formava una barriera impenetrabile davanti allo spuntone di roccia. Raccogliendo tutto il potenziale di ionizzazione che poteva Lisbon si diresse attentamente verso quel ciclone rosso e rovente, e fu lieto di scoprire che la sua velocità era così scarsa che lui poteva facilmente discenderla. Una scalata nell'ion-spazio, nell'uno o nell'altro senso, non richiede lo stesso sforzo fisico che nello spazio molecolare, ad esempio sulla Terra. Il peso è un fatto relativo, che dipende principalmente dal grado di concentrazione del plasma nell'involucro di energia che contiene l'identità dell'esploratore. Lui poteva attraversare grandi distanze in relativa sicurezza a patto di mantenere una bassa velocità. Il termine di una scalata era sempre critico, tuttavia, perché gli effetti inerziali avevano buon gioco contro i suoi tentativi di mantenere intatta la propria identità, è anzi potevano sopraffarli. Se le forze fisiche o termiche diventavano troppo grandi, potevano strappare gli atomi dal loro fragile guscio d'energia e spargerli ai quattro venti. Si muoveva quindi con grande precauzione, sfruttando piccoli appigli per sostenere il suo corpo quasi senza peso, esattamente come farebbe uno scalatore dello spazio molecolare. Circa due chilometri più in basso, con la colonna di fuoco che torreggia-
va sopra di lui come un muro verticale, vide finalmente Andre. C'era una nicchia nella roccia, e là stava intrappolata una fiamma viola. Andre Beriov era là, stretto al prezioso tamburo e intento a guardare all'esterno. Sulla faccia aveva un'espressione di debolissima speranza, ma quando vide Lisbon provò un immenso sollievo, e fu una cosa meravigliosa da vedere. «Grazie a Dio sei venuto, Peter! Ho temuto di restare qui per l'eternità.» «Sta' calmo» disse Lisbon. «Come c'è una via d'entrata, così ci dev'essere una via d'uscita da quell'identità.» «Credimi, non sarei qui se l'avessi trovata.» «Credevi che fosse quattro-trenta nanometri di ferro?» «Ci avrei scommesso la vita.» Ancora calato nell'identità-argon Lisbon saggiò i contorni della sacca di gas viola e il punto in cui le sue perdite si mescolavano con l'idrogeno incandescente. Quando tornò aveva un'espressione di asciutto divertimento dipinta sul volto. «Preparati a tornare a casa, Andre!» «Vuoi dire che hai trovato una pista?» «Sì, tu non sei affatto in un'identità di ferro. Ti ha fregato la tua stessa precisione nell'analisi spettrale. Sicuro, ti trovavi nella zona quattro-trenta nanometri, ma l'elemento è il calcio, non il ferro. Guarda quei bordi rossi. È calcio a sei-diciotto nanometri. Il ferro non ha bande utili più vicine del verde a cinque-ventisette. C'è idrogeno, fuori. Puoi passare nell'idrogeno e cavalcare la fiamma fino all'accampamento. Il fascio di microonde è puntato sull'accampamento, perciò da là puoi tornare nell'osservatorio.» La semplicità della trappola che gli era quasi costata la vita sbalordì momentaneamente Beriov. Cominciò a protestare, poi preferì seguire le indicazioni di Lisbon, concedendosi un sorriso di sollievo. «Grazie, Peter. Adesso so perché ti chiamano l'Esploratore Ionico. Vieni su anche tu?» «Non ancora. Da qualche parte in questo inferno ci sono altri cinque da salvare. Quando tu e Loya spariste mandarono una squadra di recupero; con un po' di fortuna potrò trovarne uno o due in condizioni non più disperate della tua. Tu non li hai visti?» Beriov era preoccupato. «Niente di niente, temo. Solo Loya e io eravamo quaggiù quando io sono finito in trappola.» Lisbon seguì Beriov con lo sguardo mentre attuava la transizione nel rosso di un'identità-idrogeno sei-cinquanta sei e, agitando la mano, salì lungo la grande fiamma verso la superficie. Se Beriov voleva continuare a
fare questo mestiere doveva sottoporsi a un corso d'aggiornamento di un paio d'anni prima di poter partecipare a una nuova spedizione. Le dita di Lisbon tamburellarono un messaggio a beneficio di Reinspringer, che sarebbe stato ripetuto dai tamburi lasciati al campo. «Beriov sta venendo su. Ma potrebbe essere l'unico fortunato.» Fatto questo, si dedicò nuovamente al compito di individuare gli altri membri della missione. Per ore le note del suo tamburo si diffusero in quel reame di fuoco senza ricevere una sola risposta. Stava seguendo una rotta precisa lungo la faccia della parete alla cui sommità si trovava l'accampamento. Finalmente arrivò alla fine della montagna assediata dalle fiamme e poté vedere nuovi territori. L'idrogeno costituiva anche qui l'elemento principale, ma c'erano abbondanti e brillanti vampate di sodio, potassio e altri elementi rari sulla Terra. La preponderanza di questi ultimi ricordò a Lisbon che la distribuzione degli elementi su Mefisto non era affatto tipica rispetto agli altri corpi galattici. Mefisto era una cosa a parte, e indubbiamente avrebbe riservato parecchie sorprese. Nulla di ciò che si vedeva in superficie costituiva una prova sicura della sua natura. Le prove visive, per quanto sicure, qui non bastavano. All'estremità opposta del monte-accampamento Lisbon ottenne un nuovo contatto. I suoi messaggi si erano fatti più urgenti e infatti ottennero un'inattesa risposta, che lui si affrettò a confermare. Il rapporto che fece a Reinspringer fu lapidario. «Kem Radshorn ritiene di essere intrappolato in un'identità parachimica. Prognosi di salvataggio dubbia.» I nuovi segnali provenivano da una zona ben al di là della confortevole solidità della montagna. Per attraversare la nuova regione Lisbon capì che doveva sacrificare la sua preziosa identità-argon e adottarne una locale. Prese questa decisione con grande riluttanza a causa della reattività degli ioni locali disponibili e della forte probabilità di trovarsi invischiato in una reazione chimica irreversibile. Mancandogli un appoggio fisico, tuttavia, non c'era altra scelta. Finalmente optò per idrogeno blu a quattro-ottanta-sei nanometri, che gli sembrò la via più sicura a disposizione. Lo scambio argon-idrogeno tuttavia non era facile. Dovette salire in alto nell'atmosfera, dove la densità ionica era bassa, e fare lo scambio d'identità praticamente una molecola per volta. Nel flusso sottostante una manovra del genere non sarebbe stata possibile: con le pressioni parziali così alte l'energia necessaria a effettuare il
delicato passaggio non sarebbe stata sufficiente a preservare anche la sua identità. Era passato molto tempo dall'ultima volta che Lisbon aveva fatto parte di una grande fiamma d'idrogeno. Nell'addestramento invece era stato uno dei suoi piaceri principali, grazie anche alla grande mobilità di una vampa del genere. Adesso scoprì tuttavia che la mobilità poteva essere imbarazzante, se non addirittura pericolosa. Solo grazie a un attento controllo della sua forma plasmica riuscì a compiere la traversata verso il successivo superstite. Dopo aver percorso un chilometro vide un pennacchio di ioni gassosi di singolare bellezza: il blu, il verde e l'arancio dei suoi componenti guizzavano in un insieme la cui magnificenza oscurava la relativa trasparenza dell'idrogeno. Ed era da questa colonna che venivano i battiti di tamburo. Lisbon si avvicinò e immediatamente si rese conto che c'era qualcosa che non andava. E benché la sua vista potesse cogliere solo una parte limitata dello spettro, l'intuizione gli diceva che un elemento simile non avrebbe dovuto esistere. Apparteneva a una chimica ignota all'esperienza umana. Nuotando nel mare d'idrogeno incandescente Lisbon descrisse un ampio arco intorno al singolare pennacchio, esaminandolo da tutte le parti. Trovò tracce di diluizione, ma non d'interazione con l'idrogeno, e non riuscì a scoprire molto sui tre flussi colorati che sfumavano l'uno nell'altro. Cercò di mettersi in contatto con Reinspringer per ottenere l'analisi spettrale della regione, ma evidentemente scelse un momento di blackout del fascio di microonde, perché non ebbe risposta. Del resto era probabile che nemmeno il suo messaggio avesse raggiunto l'osservatorio. Pieno di incertezza Lisbon cominciò una discesa a spirale intorno al pennacchio, cercando segni dell'uomo-fiamma intrappolato nelle lingue dell'emanazione aliena. Dovette scendere per quasi un chilometro prima di trovarlo. Kem Radshorn, uno dei componenti la squadra di soccorso, apparteneva alla nuova generazione di uomini-fiamma appena usciti dal CEI. La sua preparazione era stata accurata e scientifica, e aveva fatto tesoro dell'esperienza dei vecchi maestri come Lisbon. Lisbon mise a suo credito il non essersi abbandonato al panico, rischiando così la dissoluzione, ma di essersi concentrato sull'unico scopo di mantenere intatto il suo guscio energetico mentre cercava una strada fra gli elementi intrattabili che lo tenevano prigioniero.
Radshorn guardò Lisbon dalla prigione di fuoco con evidente incredulità: a differenza di Beriov e Loya, che avevano lavorato con lui in passato, per il giovane esploratore Lisbon era solo un nome nei libri di testo; e se aveva abbandonato le speranze di essere salvato da uno del suo stesso gruppo, l'improvvisa apparizione di quello sconosciuto dovette sembrargli un miracolo. Avvicinandogli il tamburo, Lisbon disse: «Come sei finito in quell'identità?» Radshorn indicò il basso. «Laggiù... ho sentito il tamburo di Loya e le sono andato dietro. Pensavo che questo fosse mercurio multi-spettrale, ma evidentemente non è niente del genere.» «Ci sei entrato, quindi devi poterne uscire.» «C'è stata una vampa di sodio, quando è successo. Credo che Loya fosse da qualche parte laggiù e che abbia disturbato qualcosa. Sono passato dritto dall'identità-sodio a questa, poi la vampa è finita e io non sono potuto uscire. Non ho trovato nessun punto inter-reattivo.» «Vado giù a investigare» disse Lisbon. «Se Loya ha interferito col sodio probabilmente io posso fare lo stesso. Se vedi una sola opportunità, afferrala. Non aspettarmi.» «Attentò! Ma chi sei, tanto per sapere?» «Peter Lisbon.» L'uomo-fiamma non diede altre spiegazioni: da qualche parte sotto di lui aveva udito il battito di un tamburo. «Pam...» Solo un colpo, e avrebbe potuto essere accidentale. Se c'era un tamburo, comunque, doveva esserci un altro esploratore non molto lontano. Forse Loya... «Pam...» Se aveva visto giusto il tamburo era andato a sbattere contro qualcosa di solido, non era stato colpito da una mano. Rispose rapidamente, ma non ci fu replica. Nuotò in profondità ma con cautela, perché non sapeva quanto in basso poteva spingersi prima di colpire il fondo. E in ciò fu saggio, perché dopo soli duecento metri arrivò nella foresta scarnificata. Fu una vista così sorprendente e inattesa che Lisbon dovette fermarsi a riprendere fiato. Si trovava in una valle ai piedi di due vaste formazioni rocciose, una delle quali era quella su cui sorgeva l'accampamento. L'atmosfera era costituita principalmente da idrogeno incandescente, ma ciò
che popolava la valle era una specie di foresta di alberi scheletrici e simili a spugne, le cui superfici bianco-cenere risplendevano debolmente di ogni colore dello spettro. Il suo primo pensiero fu che si trattasse di faglie rocciose che la rimozione dei materiali circostanti a opera dell'idrogeno aveva lasciato spoglie e solitarie. Tuttavia la regolarità delle sagome lo indusse a cercare un'altra spiegazione. E gli venne la strana idea che si trattasse di piante vive e riproducentisi. La scoperta che esisteva una vita locale, nonostante le condizioni proibitive, lo preoccupò. Poi pensò che probabilmente si «duplicavano» come cristalli piuttosto che non riprodursi alla maniera degli organismi viventi, ma si chiese se esistesse una differenza fondamentale tra questo sistema e quello per cui è il seme che definisce le caratteristiche del frutto. Il confine tra vita e non-vita è veramente tenue. Staccando un pezzo di spugna rocciosa mentre passava accanto a un albero notò con sorpresa che nel punto in cui la superficie cinerea era stata rotta si sprigionava una vampa di neodimio a quattro-sessanta-tre nanometri. Interessato, provò un altro albero, e ottenne il verde del cerio a cinquecento e venti nanometri. Cominciò a sospettare che le piante si nutrissero di microparticelle trasportate dal flusso d'idrogeno, e che fossero capaci di assorbimento selettivo degli ioni che poi adottavano come loro specialità. Questo fattore non costituì per lui una grande sorpresa: sulla Terra c'erano piante e batteri capaci di fissare l'azoto atmosferico, e molte specie viventi, incluso l'uomo, fissavano il carbonio, il calcio e molti altri elementi tratti dall'ambiente. Perfino certe resine, nello scambio di ioni, mostravano determinate preferenze in ciò che sceglievano dall'ambiente. La divisione fra vita e non-vita era sottile come un capello, e spesso soggettiva. Intanto il suono di tamburo non si era più ripetuto. La fiamma in cui era imprigionato Radshorn sembrava aver origine da una fessura rocciosa vicino all'altipiano dell'accampamento. Lisbon usò questo crepaccio come punto di partenza della sua indagine, e vi girò intorno attraverso la foresta scarnificata per cercare la prova che un altro uomo-fiamma era stato lì. Dopo un po' trovò un indizio: da ognuno degli alberi intorno a cui passava era stato strappato un piccolo pezzo, e le rispettive fratture emettevano ancora una fiamma caratteristica: rosso litio, blu europio, verde cerio, e un magnifico viola olmio. Non era sicuro se quella specie di segnali lungo il cammino fossero deliberati o se non fossero il frutto della semplice curiosità dell'esploratore che aveva attraversato la zona prima di lui, ma comunque costituivano un'ottima pista.
Sul declivio del secondo ammasso roccioso, quello di fronte all'accampamento, la natura della vegetazione cambiava considerevolmente. Qui le spugne erano più grandi e formavano isole dai contorni incerti, come mele cotte fossili. Anche le loro preferenze ioniche erano diverse: il primo albero presentava una frattura da cui usciva una fiamma di calcio color rossoviolaceo. Un po' più in alto si vedeva una pianta dalla cui ampia ferita scaturiva una fiammata scarlatta di potassio. La natura del danno, che pareva deliberato, e la posizione di quell'elemento nella tavola periodica indussero Lisbon a fermarsi e a riflettere. E improvvisamente seppe quello che stava cercando: un albero di sodio. Quando lo trovò si rese conto che non si poteva definire propriamente un albero: un'ampia fetta d'ella superficie di roccia incandescente era coperta dagli scheletri bianchi di spugne isolate, ma una di esse era andata quasi completamente in frantumi. Significativo, inoltre, era che nel turbine d'idrogeno si muovesse lentamente un tamburo ottagonale. Lisbon provò a colpire un frammento della spugna e ottenne una magnifica fiammata di sodio. Allora prese il suo tamburo e si rivolse all'uomo-fiamma prigioniero della vampa aliena, più in alto. «Kem, sei in contatto?» «Ti ascolto.» «Riesci a stabilire la tua posizione rispetto al mio tamburo?» «Affermativo.» «Ho trovato una sorgente di sodio. Penso di riuscire a trasformarla in una fiamma, e allora tu devi provare a entrarci. Dev'esserci una possibilità, col sodio. Sei pronto?» «Affermativo. La fiamma si sprigionerà nel punto in cui ti trovi ora?» «A qualche metro.» «Dammi un minuto per mettermi in posizione. Ti dirò quando sono pronto. Hai idea di quale sia la via migliore?» «Se riesci a trovare abbastanza ossigeno la via più sicura è quella dell'ossidrile. Altrimenti passa per l'idrato di sodio. Ma qualunque cosa tu faccia, cerca di arrivare al più presto all'identità-idrogeno.» «Ricevuto! Sono pronto, adesso.» Guardando l'albero di sodio semifrantumato Lisbon decise che non rimaneva abbastanza materiale integro per ottenere una fiamma energica. Un po' più in là, tuttavia, c'era una spugna ancora più grande che, come scoprì assestandole un calcio, conteneva sodio a sua volta. Questa prometteva risultati ancora migliori, e per fortuna si trovava più vicina al pennac-
chio da cui doveva uscire Kem Radshorn. Questo riduceva al minimo le probabilità che la fiamma si trovasse oltre la portata di Radshorn. Quando vide l'uomo-fiamma intrappolato nel pennacchio verde-arancio, Lisbon si buttò contro l'albero di sodio e cominciò a distruggerlo a furia di calci. Fu una cosa più facile da ideare che da fare: la bassa densità dava appena la forza di sgretolare i cinerei frammenti di spugna, per fragili che fossero; comunque riuscì a sbriciolarne quel tanto che serviva a generare una larga e alta fiamma di ioni di sodio, che lingueggiò intorno a lui in una vampa giallo vivo e sfiorò vorace la base del pennacchio non identificato. Il contrasto radiante fu tale che Lisbon non riuscì a vedere i progressi della sua missione di salvataggio, ma pochi momenti dopo vide con grande sollievo Ken Radshorn, finalmente padrone di una normalissima identitàidrogeno, nuotare in basso verso di lui. «Ha funzionato! Ha funzionato!» Il sollievo di Radshorn era estatico. «Ti devo la vita, Peter.» «Dimenticalo!» disse Lisbon. «Il modo migliore per sdebitarti è non cacciarti nei guai la prossima volta che fai un giro. E adesso voglio che ritorni all'accampamento e te ne vada dal pianeta, prima di finire intrappolato in qualche altra diavoleria.» L'espressione di Radshorn crollò. «Con tutto il rispetto, potrei rendermi più utile se ti aiutassi a cercare gli altri.» «No, mi saresti d'impiccio. Il tuo addestramento è stato troppo scientifico, e in questo posto ci sono un sacco di cose sconosciute. L'unico modo per spuntarla su Mefisto è saper interpretare il mal di pancia che ti dà questo posto. Ma non credo che possano avertelo insegnato, nell'addestramento.» «Sicuro!» Radshorn si rassegnò alle obiezioni dell'altro senza lamentele. «Suppongo che abbiamo tutti un mucchio da imparare.» Quasi immediatamente il tamburo cominciò a vibrare: c'era un messaggio dal controllo missione. «Grande lavoro, Peter! Andre Beriov ha salvato altri due membri della squadra di soccorso. Si trovavano in shock da disorientamento non molto lontani dall'accampamento. Adesso su Mefisto restano solo Loya e Ray Lockett, uno dei soccorritori.» Shock da disorientamento! La notizia divertì cupamente Lisbon: sapeva che quella particolare condizione patologica si verificava spesso, fra i novizi, quando nell'ambiente fittizio dove si svolgeva l'addestramento incon-
travano per la prima volta i turbinanti flussi ionici. Era un rischio calcolato, che chiunque volesse imparare a conquistarsi un'identità ionica sapeva di dover correre. Ultimamente, tuttavia, l'addestramento si svolgeva in ambienti più sofisticati e «umani», e lo shock da disorientamento non capitava quasi più. Ma dal punto di vista di Lisbon ogni uomo-fiamma destinato a svolgere un lavoro utile in un vero ambiente ionico si sarebbe imbattuto un giorno o l'altro nel disorientamento che produce la molteplicità delle alternative: molto meglio, quindi, essere preparati ad affrontarlo nella relativa sicurezza dell'ambiente artificiale che nel mortale e sconosciuto mare di Mefisto. L'informazione, comunque, gli offrì un nuovo appiglio per proseguire le ricerche. Nello shock da disorientamento l'uomo-fiamma non è capace di rispondere al richiamo del tamburo, e per questa ragione non può essere individuato con le procedure d'emergenza standard. Il posto più probabile per trovare un membro «disorientato» della squadra di soccorso era la fiamma d'idrogeno intorno all'accampamento. E infatti, Beriov aveva trovato là due dispersi. Grazie a un vecchio trucco che si faceva coi tamburi Lisbon sperò di rintracciare l'ultimo rimasto. Permise alla grande fiamma d'idrogeno di sollevarlo verso la superficie, riducendo cautamente la densità del suo plasma per ottenere una ragionevole velocità di salita. Arrivò in superficie in una grande cintura di fiamme che rapidamente decrebbe. Una volta gli avrebbe fatto piacere essere in una lingua di fiamma che guizzava libera nell'atmosfera, ma adesso trovava l'esperienza pericolosa e irritante. Se gli esseri umani fossero stati fatti per vivere come fiamme, pensò, allora il Creatore li avrebbe fatti nascere direttamente in identità ioniche. L'assunzione deliberata della condizione ionica faceva parte della grande impertinenza dell'uomo, che pensava di poter ingannare gli dèi. Ma il guaio era che l'uomo non si rendeva minimamente conto di quanto fosse ignorante rispetto all'universo. Usando l'accampamento come centro delle sue attività Lisbon cominciò a esplorare le vampe in un raggio di tre chilometri. Poi cominciò a muoversi in un vasto cerchio che aveva l'accampamento come centro. Per tutto il tempo tenne il tamburo vicino all'orecchio e batté col dito un solenne segnale. «Pam... Pam... Pam...» Il tamburo che era rimasto al campo gli restituiva il segnale chiaro e forte.
«Pam... Pam... Pam...» In questo modo continuò ad attraversare il cerchio, scivolando sui grandi pendii di fiamma per risparmiare quanta più energia poteva. Quand'ebbe percorso circa metà del perimetro udì quello che stava aspettando: un tamburo, fra lui e il campo, rifrangeva il segnale e quindi tradiva la sua posizione. «Pam-am... Pam-am... Pam-am...» Preparò metodicamente un piano di ricerca a zig-zag, tornando verso il campo. Trovò il tamburo un chilometro più avanti. L'uomo-fiamma si trovava a cinquanta metri dal suo strumento. Anche lui era sotto shock da disorientamento, ma per fortuna il guscio energetico della sua identità-azoto era rimasto intatto. Usando il tamburo per comunicare con Reinspringer, Lisbon dispose che il fascio di microonde venisse diretto sulla sua attuale posizione. L'ordine fu eseguito rapidamente, e ben presto quel concentrato d'energia si aprì una splendida via luminosa attraverso il cielo. Dato che il suo uomo era ancora in stato d'incoscienza Lisbon capì che avrebbe dovuto accompagnarlo almeno fino alla ionosfera, prima di affidarlo al fascio da cui l'avrebbe recuperato più tardi. Prese la decisione con grande riluttanza, perché sapeva che dopo aver superato gli strati alti dell'atmosfera sarebbe stato molto restio a tornare indietro di nuovo, ma non c'era niente da fare: il tamburo di Loya si trovava nella foresta scheletrica in fondo al mare d'idrogeno, e se il tamburo era là lei non poteva trovarsi molto lontano. E non c'era nemmeno da pensare di abbandonare una donna-fiamma esperta prima di aver fatto tutto il possibile per tirarla fuori. «Karl, ho qui Ray Lockett. Privo di coscienza come gli altri. Dovrò portarlo nella ionosfera, ma non intendo rientrare all'osservatorio. Devo dare un'altra occhiata per Loya.» Il solito disturbo attenuò brevemente la potenza del fascio, e Reinspringer non parlò finché non fu sicuro di poter contare sulla piena efficienza. «Sono d'accordo con te, Peter, ma Radshorn è in forma e chiede il permesso di aiutarti. Lo manderò giù, così potrà prendere in consegna Lockett.» «Buona idea! E prepara una bomba da piazzare sotto il sedere dei dirigenti del CEI: tre uomini su quattro in una squadra di soccorso vittime di shock da disorientamento! È poco meno che criminale. La teoria non basta, è l'animale umano che dev'essere messo in grado di sopportare lo
stress!» «Farò di più. Chiederò un'inchiesta su vasta scala per disastro. Quei teorici da tavolino, sulla Terra, non hanno idea di come si lavora nello spazio profondo. È arrivata l'ora di levare il tappeto da sotto i piedi di qualcuno di quei signori.» Raddolcito, Lisbon cominciò a studiare i problemi dell'ascesa. Dal momento che era incosciente non c'era mezzo di far cambiare a Lockett la sua identità, e quella attuale di azoto era piuttosto rischiosa. L'azoto sarebbe stato indicato solo nel caso che il fascio di microonde si mantenesse abbastanza forte da preservare l'identità del soggetto alle alte temperature e basse pressioni degli strati alti dell'atmosfera. L'ideale sarebbe stata un'identità da gas inerte, ma ovviamente non c'era nulla da fare. Anche l'identità d'idrogeno di Lisbon era un fattore rischioso, e nel complesso la zona di ossidrili rappresentava il pericolo maggiore. Se il fascio s'indeboliva al momento sbagliato rischiavano la dissoluzione totale. Eppure, non c'era alternativa. Ebbero fortuna. Per un capriccio del caso i periodici indebolimenti del fascio coincisero quasi esattamente col loro progresso nelle regioni meno critiche. Attraverso le bande maggiori l'energia si mantenne forte e potente. In meno di venti minuti raggiunsero un'altitudine alla quale erano al sicuro dalla maggior parte degli effetti dipendenti dal pianeta. Nella bassa ionizzazione di questo strato rarefatto Radshorn era quasi invisibile. L'unica cosa che Lisbon riuscì a scorgere fu il sorriso d'intesa quando s'incontrarono, e la preoccupazione che lo sostituì quando prese in consegna il membro svenuto della squadra di soccorso. Lisbon fu compiaciuto nel notare che il giovane aveva adottato un'identità-argon: era un ragazzo con molta voglia d'imparare, e si era ricordato del trucchetto del maestro. L'Esploratore Ionico provò un lampo d'ottimismo sul futuro del loro mestiere. Alleviato dal suo carico, si preparò ad affrontare la discesa sulla superficie di Mefisto per la seconda volta. Ma ora fu meno fortunato: la sua identità-idrogeno mal si adattava a un fascio di microonde così instabile, e pili di una volta rischiò la dissoluzione totale. Solo il capriccio del caso lo salvò, e Lisbon, profondamente insoddisfatto della discesa, abbandonò il fascio alla prima occasione e attinse avidamente alle benedette riserve d'energia dei fuochi di Mefisto.
La situazione critica lo spinse ad abbandonare l'abituale cautela: quando trovava l'energia la usava, e con essa alimentò il rosso plasma dell'idrogeno di cui era costituito, senza preoccuparsi degli sprechi e precipitando verso la roccia dell'accampamento come una torcia. Attraverso il fascio gli giunse il fischio di Reinspringer: non c'era bisogno d'altro commento. Sapevano entrambi che l'avanzata di Lisbon nell'oceano alieno non era di tipo convenzionale, e che a dettarla era un motivo più forte di una normale missione di soccorso nello spazio ionico. All'accampamento l'esploratore si inginocchiò accanto ai suoi tamburi. «Pam... Pam... Pam...» Inviava inutilmente il suo richiamo, nella debole speranza che ci fosse una risposta. «Pam... Pam... Pam...» Ma nessuno rispondeva. Né c'era ragione di supporre che l'avrebbe fatto. Prese il tamburo e si spinse ai limiti del campo, guardando in basso, in direzione della foresta scarnificata dove aveva trovato il tamburo di Loya. «Pam... Pam... Pam...» Se un dito, battendo su un diaframma, poté mai ricavarne una nota di angoscioso richiamo, questo fu il caso in cui avvenne. Alzò lo strumento e se lo portò all'orecchio, ma non si aspettava di ricevere niente. Invece, udì un singolo battito pulsante. «Pam...» Era impossibile, eppure l'aveva sentito. Forse il tamburo della ragazza si era mosso di nuovo nel turbine d'idrogeno, urtando contro qualcosa di solido. Forse... Lisbon sapeva che non aveva molta scelta: doveva calarsi di nuovo nell'abisso, doveva andare nella foresta scarnificata a cercare con tutta l'astuzia, l'abilità e l'immaginazione che solo anni e anni del suo mestiere potevano sviluppare. In un mare infinito come quello le speranze di ritrovare Loya erano molto basse, specie ora che lei non aveva più il tamburo, ma lui si sentiva in dovere di scoprire ciò che le era accaduto, e perché. Una donna-fiamma come Loya non si può perdere così. Il pennacchio che aveva intrappolato Radshorn bruciava ancora in tutta la sua brillantezza, e la vampa di sodio che Lisbon aveva fatto sprigionare ai suoi bordi si era ormai esaurita. Eseguì una discesa ampia, a spirale, intorno al pennacchio, immergendosi ancora più a fondo della prima volta nella fiamma d'idrogeno e si fermò solo quando vide le bianche ossa porose della foresta scheletrica sotto di lui.
I due alberi frantumati restavano a muta testimonianza del passaggio dell'uomo, e nel modo in cui avevano accettato il loro destino, pur cercando già di riparare il danno, c'era come un muto rimprovero. La velocità con cui quella crosta sbriciolata si rinnovava lo indusse a fermarsi sbalordito: in pochi giorni tutte le ferite si sarebbero rimarginate. Ma se tutto il sodio veniva estratto dalle tracce presenti nel turbine d'idrogeno, allora lui aveva giudicato male sia la concentrazione del sodio atmosferico sia la capacità del processo d'assorbimento, che ricreava la forma solida dell'elemento anche in un ambiente così ostile. A parte il tamburo, non c'erano altre tracce della presenza di Loya. Che cosa le era accaduto? Il danno agli alberi si arrestava a quel primo arbusto di sodio distrutto. Nella vana speranza di aver seguito la pista che conduceva all'indirizzo sbagliato, Lisbon ripercorse il sentiero fino al punto in cui era sceso la prima volta, e cominciò a seguire la direzione opposta. La nuova pista lo condusse su un crinale e poi in un luogo dove la valle sprofondava in un largo burrone. La foresta degli alberi-scheletro era stata un luogo di meraviglie, ma questo nuovo abisso superava ogni immaginazione. Da una parete all'altra ogni centimetro disponibile era coperto di fiori scheletrici, ma così grandi, ben proporzionati e illuminati da un etereo bagliore che Lisbon non sarebbe riuscito a immaginare un luogo più bello. Qui, sotto un oceano d'idrogeno incandescente, c'era la prova che la vita era possibile in condizioni molto più strane di quelle che avrebbe mai creduto possibili. Non aveva il minimo dubbio che si trattasse di forme di vita «organiche», ma allora il concetto di organicità andava allargato, perché non era riferibile soltanto alla chimica del carbonio, come sulla Terra si è sempre ritenuto. Sotto i suoi occhi c'era l'esempio di una forma di vita versatile, che si era adattata alle condizioni sotto cui si era evoluta. Che cosa desse alle piante il potere selettivo di assorbire solo gli ioni di un singolo elemento, lui non lo sapeva, ma sospettava che avesse a che fare col rivestimento inerte e cinereo. Se aveva visto giusto, probabilmente ogni pianta aveva la capacità di scegliere perfino i singoli isotopi di un particolare elemento, giungendo a una purezza di concentrazioni quale sulla Terra non ci si sognava nemmeno. In tali condizioni, dove si alternavano costantemente il flusso impetuoso degli elementi e il paziente raffinamento operato dalle piante, non c'era da meravigliarsi che fiorissero nuove chimiche; la pressione costante delle forme viventi che lottavano per conquistarsi una nicchia nell'ecologia del
pianeta poteva condurre a bizzarre forme di specializzazione. Il riciclaggio e il raffinamento degli elementi, che in quell'ambiente avveniva costantemente, favoriva la concentrazione casuale dell'unico atomo su cento milioni che sfuggiva alle ingenue regole della nostra tavola periodica. Su Mefisto avvenivano più reazioni chimiche in un secondo di quelle che l'uomo avrebbe potuto produrre in mille anni. Se Loya era passata di qui, non aveva lasciato tracce: a differenza che nella foresta scarnificata in questa valle aliena non c'erano segnali luminosi da seguire; naturalmente era sempre possibile che lei avesse risalito la fiamma d'idrogeno per esaminare la scena dall'alto, e per esaurire anche questa possibilità Lisbon nuotò in su, toccando il tetto della strana «vegetazione». La sua varietà lo affascinava, ma non gli fu di alcun aiuto per rintracciare la ragazza scomparsa. Poi lo stesso concetto di varietà cominciò a preoccuparlo: da qualche parte, sotto di lui o nelle nuove foreste che cominciava a distinguere sui declivi lontani, c'era una pianta o un gruppo di piante capace di assorbire selettivamente ogni elemento che un uomo-fiamma poteva usare come identità. L'unica probabile eccezione era l'idrogeno, il contenente di quel mondo «sommerso». Senza dubbio quelle piante sapevano estrarre l'elemento prescelto dal rispettivo composto. E se avessero avuto la capacità di estrarre i loro ioni preferiti da un'identità ionica? Maledicendosi per non averci pensato prima, afferrò il tamburo e mandò un messaggio urgente a Reinspringer. «Devo conoscere l'ultima identità ionica di Loya.» Reinspringer rispose prontamente: «Ricevuto, controlliamo subito.» Lisbon si era già avviato verso il basso, seguendo i limiti del burrone con espressione corrucciata. Aveva già intuito la risposta: l'identità preferita di Loya era la classica e sfolgorante luminosità del sodio; il suo più grande piacere consisteva nel precipitare dal cielo bruciando luminosa come un faro. E il plasma sodico era così netto che si potevano distinguere perfino i fili dei suoi capelli, mentre scendeva come una dea d'oro. Lui aveva sempre sospettato che scegliesse il sodio non tanto per le sue proprietà ioniche quanto per la meravigliosa luminescenza che produceva. Quindi Loya era stata catturata da un albero al sodio... La voce di Reinspringer si fece risentire improvvisamente. «Loya è andata giù in un'identità di sodio a cinque-ottantanove nanometri. Andre è stato l'ultimo a vederla, ed era ancora nel sodio.» «Me l'ero immaginato» disse Lisbon. «Se non ha cambiato identità non
ho più molte speranze.» «Messo a verbale. Stai attento, Peter.» Lisbon aveva già risalito metà del burrone quando vide un fatto davanti a cui la preoccupazione di Reinspringer diventava un'arida espressione di circostanza. Senza il minimo avvertimento una potente colonna d'idrogeno surriscaldato lo colpì dal basso con la violenza di un ariete. La velocità del colpo fu tale che venne scagliato come un fuscello nella corrente e dovette lottare per conservare intatto il prezioso guscio energetico che racchiudeva la sua identità. Ma il peggio doveva ancora venire. Dopo l'ondata d'idrogeno venne una grande fiammata giallo-verdastra che Lisbon immediatamente identificò per boro a cinque-quaranta-otto nanometri. Davanti a una simile pressione ionica lui lottò e quasi perse la battaglia per rimanere nell'idrogeno. Una concentrazione simile era eccezionale anche in un ambiente come quello, e indicava che qualcosa d'insolito era accaduto in profondità. Poco prima lui era passato sui tranquilli e meravigliosi campi di fiori, e, una volta riconquistato il suo equilibrio, si diresse alla sorgente di quel ciclone per cercare di scoprirne le cause. Fu una decisione che gli costò quasi la vita. Mentre costeggiava i bordi della fiamma di boro fu inghiottito da una seconda vampata, questa volta di ossigeno, che andava dal rosso al porpora e che reagì esplosivamente con l'idrogeno in cui Lisbon nuotava. Per fortuna si trovò fuori dell'occhio dell'esplosione, ma la violenza fu tale da dargli uno scossone e mandarlo alla deriva, privo di sensi, verso il fondo della valle. L'atterraggio sulla roccia solida lo aiutò a tornare in sé; guardandosi intorno scoprì con stupore che quelli che poco prima erano stati declivi coperti di fiori erano stati devastati da un'incredibile reazione. Snervato, aveva paura perfino di fare ipotesi, per non parlare del mettersi a esplorare. Dove prima erano stati i fiori adesso c'era il nudo suolo, e solo la cenere bianca, inerte, che si vedeva sulle rocce, faceva ricordare la presenza delle piante. Gli elementi concentrati che formavano la «vegetazione» si erano liberati nell'esplosione che l'aveva distrutta. L'incidente era rivelatore di nuovi fatti: la vita delle piante era affascinante, su Mefisto, ma la loro morte era traumatica. A un certo punto dello sviluppo si verificava un'inevitabile reazione tra gli elementi che costituivano la vegetazione e i componenti dell'atmosfera o delle piante vicine. Il risultato era la distruzione catastrofica, che probabilmente coinvolgeva an-
che le piante dissimili dell'area circostante. Ecco che cosa produceva le brillanti vampe ioniche che caratterizzavano la superficie di Mefisto e che avevano creato l'enigma. Adesso lui aveva assistito alla morte di alcune piante fantastiche. Gli sarebbe piaciuto rimanere per vedere da quale seme misterioso ricominciasse il ciclo. Probabilmente la molla di tutto risiedeva in qualche catalizzatore primario delle ceneri sparse dall'esplosione: quello era il «grilletto» che faceva partire la nuova generazione di piante. Le neonate sarebbero cresciute e avrebbero dato frutti assumendo dal turbine d'idrogeno gli elementi preziosi che solo quel particolare seme era programmato a ricevere. Qui la Natura era all'opera non meno meravigliosamente che sulla Terra, né meno misteriosamente, ma nel capire l'universo s'imparava anche un'altra lezione: che la conoscenza di ciò che forma la vita, da parte dell'uomo, era ancora ai primordi. «Va tutto bene, Peter?» La voce di Reinspringer era ritrasmessa dal tamburo. «Abbiamo visto delle nuove vampe nella tua direzione.» «Ho avuto fortuna» disse Lisbon. «Parte della vegetazione locale è esplosa. Farò rapporto in seguito. Ma credo di sapere che cosa rende Mefisto così turbolento.» «Ancora nessuna traccia di Loya?» «Stavo andando proprio dove ho trovato il suo tamburo. Ho una teoria su quello che può esserle successo e cercherò di verificarla.» Attraversando la vallata si rese conto che circa un terzo della vegetazione era andato distrutto nell'esplosione. Poteva solo fare ipotesi sulla reazione che l'aveva provocata, ma era chiaro che non si trattava di un fatto isolato: faceva parte del ciclo vitale. Oltre la vallata, nella foresta scarnificata, le cose erano rimaste inalterate. Reattivi solo nella misura in cui lo erano i loro elementi-base, gli alberi-spugna non erano stati sfiorati dagli avvenimenti accaduti oltre il crinale. Al contrario, i due alberi di sodio danneggiati stavano facendo rapidi progressi nella restaurazione. Lisbon prese il tamburo di Loya e lo scagliò contro il primo albero danneggiato. L'oggetto atterrò su una superficie leggermente convessa e si mosse dolcemente nella corrente d'idrogeno. «Pam...» Poi lui raccolse il suo tamburo e mandò un ultimo disperato appello. «Pam... Pam... Pam...» Ricevette in risposta un singolo battito. Lasciò lo strumento di Loya dov'era caduto, si girò tristemente e attra-
verso il mare d'idrogeno fece ritorno all'accampamento. Non c'era nient'altro da fare. Loya era stata assorbita dall'albero, oppure si era dissolta al contatto della fiamma che aveva intrappolato Radshorn. In qualunque caso, per la sua identità non c'era niente da fare. Al campo prese uno dei due tamburi rimasti, ma lasciò il terzo in una fessura dove le lingue di fiamma d'idrogeno non l'avrebbero spazzato via. Sapeva che era un gesto irrazionale, ma una volta anche Reinspringer era stato un uomo-fiamma, e avrebbe capito il motivo. «Missione abbandonata» segnalò al controllo. «Qui non c'è nient'altro da fare.» «Capisco» disse Reinspringer tramite il fascio di microonde. «Stai attento mentre risali la chemiosfera. C'è un tempesta ionica, lassù.» Lisbon aspettò finché il fascio fu al massimo, poi cominciò il viaggio di ritorno per le vie del cielo, pronto a reintegrarsi nella sua identità molecolare. Scalando le immense fiamme di Mefisto si guardò indietro, ma non provò paura. Ora gli sembrava solo una sfida fra le tante di una lunga carriera. «E Loya?» chiese Reinspringer. Conosceva già la risposta, ma doveva sentirsela dire. «Perduta. Non c'è nessuna speranza.» Il capo missione incontrò gli occhi di Lisbon con aria cupa, poi tornò ai suoi rapporti. Quando dovette registrare il destino della ragazza le mani gli tremarono. E questo fu il solo segno esterno di tensione, perché accettò la menzogna senza discussioni. Ma in realtà condivideva i dubbi che affollavano la mente di Lisbon. Reinspringer si allungò verso il contenitore dei certificati di morte e cominciò a compilare il documento fatale. A metà strada le dita tremanti lasciarono cadere lo stilo, e il controllore si guardò le mani con l'aria del colpevole. Lisbon se ne andò. Non c'era niente che potesse fare per aiutare Reinspringer, e in ogni caso aveva già i suoi fantasmi da tenere a bada. La morte nell'ion-spazio era una fola per tener buono il pubblico. In realtà, in condizioni simili non si moriva: la fine era costituita dalla diluizione, dalla dispersione degli ioni che formavano l'identità in un tal volume di diluenti che diventava impossibile reintegrare l'identità. L'uomo o la donna-fiamma diventavano letteralmente parte della turbolenta atmosfera che circondava la stella o il pianeta alieno che avevano tentato di esplorare. Ma che cos'avveniva della coscienza? Morivano davvero, i più fortunati?
Le convenzioni imponevano che non appena l'operazione di soccorso venisse giudicata impossibile fosse stilato un certificato di morte. I teorici postulavano che la coscienza sbiadisse proporzionalmente al grado di diluizione. Ma con più esperienza nell'ion-spazio di ogni altro uomo, Lisbon non ne era troppo sicuro. A volte, mentre si trovava rannicchiato in qualche «accampamento» alieno per una missione di salvataggio e teneva i tamburi sotto le mani, era certo di poter udire le voci di uomini-fiamma diluitisi molto tempo prima. E a volte altre dita battevano un ritmo esitante sul diaframma dell'uomo, dita aliene, pionieri d'altre razze e d'altri tempi intrappolati nella stessa diluita eternità. Nell'incessante danza delle fiamme, nell'urlo angoscioso degli uragani, nella serenità dei grandi cieli, Lisbon poteva sentirli. Il destino di Loya sarebbe stato ancora più complesso: come l'araba fenice, eternamente rinnovata dal fuoco, la sua identità-sodio sarebbe stata estratta e concentrata dagli alberi della foresta. Poi, nella furia della tempesta aliena, i suoi ioni sarebbero stati liberati per cominciare daccapo la fantastica danza con le fiamme di un pianeta che non era un pianeta. E così per sempre. Era per questo motivo che Lisbon aveva lasciato il tamburo che le era appartenuto accanto all'albero di sodio, e un altro all'accampamento. Da qualche parte laggiù su Mefisto, era certo che Loya fosse ancora viva: dissolta al di là di ogni speranza, ma senziente. O era stato il vento a sbattere il suo tamburo contro l'albero? Erano pensieri come questi che, all'inizio di ogni nuova missione, lo facevano «entrare» male... SEGUENDO QUELLA STELLA LASSÙ (Richard C. Hoagland) Quando «If» sospese le pubblicazioni Dick Hoagland stava mettendo a punto un nuovo tipo di articolo scientifico, che affiancava alla parte didattica una parte narrativa. Un'idea veramente azzeccata! L'alba. Laggiù in basso, piegato a nord e sud, un nembo cumuliforme brillava di luce rossa contro la notte, ai bordi del disco del pianeta. Una muraglia di nuvole rade disegnava un arco nel cielo e si affrettava incontro alla stella che stava per sorgere: veniva da pensare a una ronda di sentinelle scarlatte che facessero la guardia lungo l'incerta linea che separa il gior-
no dalla notte, e la tinta vermiglia scivolava sui fianchi del banco, ingialliva, tendeva al bianco, finché un magnifico squadrone di armati scintillanti fu pronto a rendere omaggio al nuovo giorno. Era una scena che si ripeteva da tre miliardi di anni. Murdoch l'aveva già ammirata centinaia di volte, ma non se ne sarebbe mai stancato. Per quanto ripetitivo fosse il processo, ogni nuova alba vista da lassù era uno spettacolo indimenticabile. La lenta, diafana illuminazione di un cumulo temporalesco mentre le linea dell'alba lo attraversava da occidente, il lampeggiare blu-elettrico della luce artificiale che cedeva il posto a quella incomparabilmente più brillante di una stella distante centocinquanta milioni di chilometri, i colori riflessi dai ghiacciai, la proiezione verticale dell'arcobaleno... tutto ciò era bello. Era una tela che non cambiava mai, sfiorata da un pennello di luce: colore puro diffuso sul mondo dal fuoco termonucleare del sole, modellato dalle proprietà di rifrazione dell'atmosfera e goduto da un osservatore solitario che si preparava al suo lavoro. Murdoch era un astronomo, e al momento stava per cominciare la sua giornata. Alla stessa ora, pensò con secco umorismo, i suoi colleghi sulla Montagna si preparavano a staccare. Oh, be', si disse, io almeno le guardo dall'alto quelle nuvole. Qui le nuvole erano l'ultima preoccupazione dell'astronomo. Quando la navetta che trasportava Murdoch passò sull'ellittica che gli avrebbe permesso di abbordare il GTS, orbitante a quasi mille chilometri sopra i cumuli e i cirri della Terra, i pensieri dello scienziato ripercorsero il cammino dell'astronomia dalle sue origini sotto le nuvole all'illimitato futuro che l'attendeva nel suo elemento naturale: il vuoto stellato dell'Universo, lontano dai filtri dell'atmosfera. Abbiamo fatto passi da gigante, si disse Murdoch, eppure, in un certo senso, dobbiamo ancora cominciare. Il GTS era il primo strumento astronomico decente che l'uomo avesse posto in orbita; discendente del pionieristico OAO, questo mostro era un telescopio degno di un vero osservatorio: 120 pollici di specchio in un ambiente incomparabile. Mi domando se Evans ha ottenuto i suoi spettri della 3C-95, pensò pigramente Murdoch. C'era stata minaccia di perturbazione, e perfino un po' di ghiaccio sottile poteva rovinare un'esposizione durata ore e ore, quando l'oggetto cui si puntava era così elusivo. Ecco perché questo bebè (cercò di alzarsi sul sedile, nonostante le cinture che lo trattenevano, per dargli un'occhiata dal finestrino) è così prezioso. Per ogni ora che ci avvantag-
giamo quassù, pensò, ne sprechiamo tre sulla Terra a causa del tempo, della luna o di qualche altro banale accidente d'osservazione. Se si riparava gli occhi dalla luce riflessa e diffusa del sole, forse poteva scorgere le stelle più brillanti. In effetti la luce diffusa era un problema, nello spazio, e questo era un punto a favore degli astronomi terrestri, che avevano la protezione di dodicimila chilometri di pianeta fra se stessi e il sole, e un'enorme ombra in cui nascondersi e da cui osservare. Là fuori, invece, bisognava esser cauti e usare filtri, e mai puntare l'occhio del telescopio in prossimità del sole, o il calore l'avrebbe mandato a pallino. Era un bel lavoro dover pianificare tutte le osservazioni col computer, e magari un giorno o l'altro qualche buontempone si sarebbe dimenticato le precauzioni e avrebbe puntato il maledetto affare dritto nel sole. Tuttavia, questo svantaggio veniva ampiamente compensato da altri fattori positivi: non c'erano praticamente problemi di visibilità; le stelle se ne stavano lì ferme e non tremolavano, e si sarebbe potuto pensare che fossero buchi in un enorme velo nero, come in uno dei vecchi planetari. In quell'istante il comandante della navetta chiamò Murdoch all'intercom. «Dottore?» «Sì, Ben?» «Ci siamo. Houston ha mandato il segnale cinque minuti fa, la gita è finita. L'osservatorio è in vista.» La NASA era molto cauta quando si trattava del GTS: a parte l'incomparabile valore scientifico quel gingillo costava un quarto di miliardo di dollari. E da Houston ci tenevano a dirigere personalmente le operazioni di rendez-vous, dal momento che la navetta emetteva (fra le altre cose) considerevoli quantità di ossigeno, vapore acqueo, azoto, idrocarburi e perfino una traccia di ozono. La NASA inviava un segnale che sigillava tutte le aperture ottiche del telescopio e lo orientava in modo che la navetta potesse avvicinarvisi da sotto o da tergo. Murdoch vedeva ancora mentalmente lo scudo solare dello Skylab che ballava sotto la spinta dei reattori della navicella Apollo. Il danno che quegli scarichi potevano causare al grande specchio primario da quarantacinque metri lo faceva rabbrividire. No, finché la navetta si trovava vicino al gigantesco occhio le sue «palpebre» sarebbero rimaste chiuse, i congegni vitali protetti dalla contaminazione che i creatori terrestri si portavano dietro anche quassù. E questa era la ragione per cui, pensò Murdoch tristemente, gli uomini non avrebbero mai potuto guardare di persona attraverso un telescopio spaziale. Perfino le minime
perdite di una perfetta tuta spaziale avrebbero potuto danneggiare irreparabilmente la squisita geometria di cristallo e alluminio dello strumento. Dobbiamo accontentarci, pensò, delle fotografie e dei filmati. E con quell'ultimo, quasi amaro riconoscimento delle necessità di un'arte qual era l'astronomia spaziale, Robert Murdoch, dottore in filosofia, si preparò a indossare il casco e ad attraversare la breve distanza che separava l'immobile telescopio dalla navetta di collegamento. Il suo compito: ritirare i filmati di due settimane consecutive di osservazione, inserire nuova pellicola e sostituire un monitor guasto con uno funzionante. Mille chilometri più in basso il sole aveva conquistato un'altra fila di sentinelle scarlatte alla mano della notte. Questa scena, o una molto simile, si verificherà all'incirca nei primi anni Ottanta. Per quell'epoca la NASA prevede di collocare su una media orbita terrestre il più grande telescopio che lascerà mai il nostro pianeta. Sarà il quarto del mondo, in ordine di grandezza, dopo quello russo in Crimea (236 pollici), quello di monte Palomar (200 pollici) e quello di Kitt Peak (150 pollici). In realtà sarà molto più potente di tutti loro. Il Grande Telescopio Spaziale (in inglese, Large Space Telescope, come verrà chiamato) permetterà all'uomo di estendere la sua vista fino ai limiti dell'Universo. Avrà una visuale molto più dettagliata e un'efficienza di molto superiore anche al più grande dei confratelli terrestri. Tutta la gamma delle radiazioni stellari sarà a sua disposizione, non più filtrata dall'atmosfera della Terra. Avrà un specchio parabolico di 120 pollici di diametro capace di individuare artifatti anche molto piccoli, come ad esempio una nave da crociera vista alla distanza della Luna! Il che vuol dire... praticamente, niente. L'astronomia, come scienza, ha sempre dovuto lottare per ricavare il meglio da una situazione di base poco favorevole. Tanto per cominciare, gli oggetti che osserva sono al di là della nostra portata, e questo significa che, fatta eccezione per i pianeti, nessuno potrà mai raggiungere l'oggetto dei suoi studi, prenderne un pezzo e verificare se ciò che aveva pensato osservandolo da lontano era vero o falso. Certo, forse un giorno verranno costruite le navi interstellari, ma chi ha voglia di aspettare? Per aggirare questo problema fondamentale gli astronomi hanno studiato tutta una serie di strategie d'indagine, decifrazione e decodificazione. Il compito di queste tecniche ingegnose è ricavare informazioni dal principa-
le messaggero di eventi così lontani: la luce. I primi astronomi usarono i loro occhi (che altro, se no?). L'occhio umano non è affatto cattivo come strumento d'indagine, ed è in grado di dare una sorprendente varietà di risposte agli stimoli luminosi. Lo stesso occhio che ammira tranquillamente il panorama su un'assolata spiaggia dei Caraibi può individuare, dopo opportuno adattamento al buio, una stella relativamente debole di quinta grandezza. Le stelle di quinta grandezza sono le più deboli che un uomo può vedere a occhio nudo, benché se ci si mette in una zona limpida e desertica si possa fare di meglio. L'occhio nudo, tuttavia, si rivela completamente inane quando si tratta di individuare sottili dettagli. Può distinguere due oggetti di uguale luminosità, ma a patto che siano separati da circa 60 arco-secondi. Quindi, all'occhio umano, i pianeti appaiono simili a stelle, anche se molti di essi (Giove, Saturno, Venere, perfino Marte) presentano talvolta un diametro apparente di 60 arco-secondi nel momento di massimo avvicinamento alla Terra. I crateri sulla Luna dovettero aspettare il cannocchiale di Galileo prima di essere scoperti, giacché la vista dell'uomo, benché capace di notare le ampie chiazze di Copernico e Tycho, non era in grado di distinguere a sufficienza i particolari e appurarne la vera natura. Gli stessi problemi dell'occhio si ripresentano anche nel caso degli strumenti astronomici. La storia dell'astronomia, e in particolare l'idea che ci troviamo su un pianeta che orbita intorno a un sole, e non viceversa, avrebbe potuto prendere una piega completamente diversa se l'occhio fosse stato in grado di distinguere anche i piccoli particolari. Fu l'incapacità di scoprire gli errori nelle posizioni planetarie, determinata dalla limitatezza dell'occhio umano, che ritardò per secoli una corretta interpretazione della meccanica celeste. Affermare dunque che il GTS potrà individuare oggetti grandi quanto una nave o aventi un diametro di sessanta metri alla distanza della Luna non rende adeguatamente l'importanza che questa nuova capacità di discernimento avrà per l'uomo. Sarebbe come dire: potremo vedere una monetina in cielo e capire che è una monetina. Ma chi usa i telescopi per cercare monetine, o per individuare navi da crociera sui mari di Selene? Lo scopo principale del GTS sarà sondare i confini dell'Universo, a miliardi di anni luce da noi. Il telescopio ci fornirà immagini, registrerà gli spettri luminosi e prenderà le misure di oggetti che oggi sia i telescopi terrestri, sia il nuovo Osservatorio Astronomico Orbitante (OAO) vedono male a causa di limitazioni tecniche e strumentali. La capacità di vedere finalmente l'Universo senza distorsioni potrebbe rivelarsi tanto fondamenta-
le da condurci a una nuova cosmologia, come avvenne ai tempi di Copernico, quando fu necessario pensare a un nuovo assetto del cosmo per spiegare errori che erano diventati più grandi della stessa limitatezza dell'occhio umano. Nelle condizioni d'osservazione ottimali che si trovano nello spazio il GTS studierà le quasar che il riflesso e il filtraggio operato dall'atmosfera terrestre hanno finora reso impossibile vedere. Decine e forse centinaia di ore d'esposizione mostreranno dettagli che la varietà di fonti luminose presenti anche nel cielo notturno della Terra non lasciano speranza di vedere, ma che senza il riflesso dell'aria, le luci artificiali e l'alone lunare finalmente si riveleranno. L'assenza di masse d'aria in movimento, che agiscono come lenti nell'atmosfera e disturbano il piano visuale del telescopio, esalterà tali dettagli e renderà possibile uno studio particolareggiato della struttura delle quasar, permetterà di individuare la posizione di oggetti che si pensa siano quasar nel nucleo di galassie lontane miliardi d'anni luce, e infine ci fornirà l'immagine di quasar le cui lunghezze d'onda sono troppo lunghe o corte per arrivare fino agli osservatori terrestri. E se le quasar risalgono veramente all'alba della creazione il GTS ce lo rivelerà. Ma anche altri oggetti, si spera, riveleranno i loro segreti all'indagine di questo telescopio senza precedenti; i loro nomi appartengono tutti al Who's Who della nuova astronomia: pulsar, stelle al neutrone, resti di supernovae, sorgenti infrarosse, sorgenti di raggi X e buchi neri. Oggi possiamo a malapena renderci conto del salto di qualità rappresentato dall'uso di un telescopio capace di vedere oggetti mille volte più piccoli e un milione di volte meno luminosi di quelli che l'occhio umano ha mai visto. Se saremo in grado di studiare le immagini delle pulsar che illuminano le nebulose di gas loro vicine (come quella famosa del Granchio, residuo di una supernova risalente al 1054 d.C), o di vedere le immagini ultraviolette del misterioso componente del Cigno X-l, oggi invisibile (ma che si sospetta essere il primo buco nero «scoperto»), o ancora studiare la struttura di una gigante rossa secondo lunghezze d'onda separate (cosa che ci permetterebbe di vedere per la prima volta il disco di un sole rosso gigante), allora potremo dare risposta a una quantità di domande assillanti che riguardano la natura fondamentale di tali oggetti. E naturalmente, per ogni risposta che otterremo ci si presenteranno dieci nuove domande. Murdoch fluttuava in prossimità del gigante. Nelle sue mani, legato a
una corda di sicurezza di nylon, c'era il pacco di videocassette raccolte nel grande telescopio. (Sogghignò, pensando a come fosse facile, prima dell'adozione di quella semplice precauzione, perdere i preziosi materiali appena recuperati.) Nel telescopio, pronte a entrare in azione, aveva piazzato le pellicole fresche, nonché il nuovo monitor; il vecchio l'aveva portato con sé per la revisione. Il GTS sorgeva nel mezzogiorno locale, il sole a sud della sua orbita; sotto, la costa dell'Europa occidentale era immersa nell'estate. Murdoch cercò, e immaginò di vedere, le spiagge affollate della Riviera, e molto più a nord il canale della Manica. Come sarebbe stata diversa la storia, pensò, se quell'isola avesse fatto parte del continente, o se il livello dell'oceano, da quando era cominciata la storia conosciuta, fosse stato più basso. Da lassù le Isole Britanniche sembravano un pezzetto del continente europeo che si fosse rotto e avesse cominciato a navigare nel mare. Era un posto veramente curioso per costruirci il primo osservatorio del mondo! Aguzzò la vista immaginando di scorgere l'antico circolo di megaliti che campeggiava nella piana di Salisbury: un osservatore che fluttuava nello spazio, sotto un osservatorio inimmaginabile, ne cercava con gli occhi un altro, a mille chilometri e cinquemila anni di distanza... I nostri antenati devono essere stati molto più consapevoli di noi delle (grandi) forze cicliche dell'esistenza: i giorni e le stagioni della Terra. Dovevano esserlo, perché tutto dipendeva dalla conoscenza e dall'adattamento a quei cicli. Non è sorprendente, quindi, che Alexander Marshack, un divulgatore scientifico poi divenuto antropologo, abbia trovato la prova che i popoli antichi vivevano vite del tutto scandite da ritmi precisi; ciò che sorprende è la scoperta dell'antichità di queste conoscenze e la loro base astronomica. Marshack esaminò un piccolo manufatto d'osso appartenente a un'oscura cultura nordafricana e ebbe la brillante intuizione che alcuni segni fatti sull'antico oggetto (età stimata: ottomila anni) e fino ad allora ritenuti «decorativi», fossero invece collegati a qualche fenomeno periodico che si verificava in quell'ambiente. Fu la natura dei segni a condurlo all'affascinante scoperta: sembravano susseguirsi in gruppi di cinque, cui seguiva una sequenza di otto; quindi si ripetevano nell'ordine inverso. Dopo aver cercato la spiegazione nei vari cicli possibili (anni di pioggia sufficiente o di siccità, stagioni di buona caccia ecc.), Marshack fu lentamente ma inesorabilmente portato a convincersi che un sol ciclo conveniva
perfettamente ai suoi segni sull'osso: quello della Luna. Qualcuno, millenni prima dell'invenzione della scrittura, prendeva accuratamente nota delle fasi lunari, dal primo quarto alla luna piena, che veniva rappresentata da tre segni quasi uguali (è abbastanza difficile, infatti, stabilire esattamente in quale notte la luna è piena; provateci, qualche volta, senza esservi informati prima); seguivano quindi le fasi decrescenti. Anche i giorni d'«invisibilità», dovuti all'eccessiva vicinanza di Selene al sole, erano accuratamente indicati. Il costante ripetersi dei cicli sull'oggetto d'osso rivelava inoltre la mancanza dei rispettivi segni per quelle notti che evidentemente erano state troppo nuvolose per effettuare l'osservazione. Colpito dalla sua scoperta Marshack si dedicò alla ricerca delle reliquie di altre culture che avevano attraversato come meteore la storia del pianeta ed erano state poi inghiottite dal tempo. Visitò i musei d'Europa, esaminando utensili e manufatti che erano stati catalogati e messi da parte come «cerimoniali» e «decorativi» e scoprì che la luna era stata seguita fin da tempi remotissimi dai dimenticati artigiani che avevano intaccato corna di cervi, artigli d'aquila e zanne di mammut pur di registrarne le fasi. Del resto, anche sulle pareti di molte caverne si trovano dipinti che rievocano lo stesso ciclo. Il nostro ricercatore scoprì una linea ininterrotta che collegava, in base al comune interesse per le fasi lunari, culture diverse come quelle del Mesolitico Aziliano, del Magdaleniano e dell'Aurignaciano. E ogni artefatto sembrava dimostrare che la coscienza sviluppata dall'uomo verso i problemi astronomici fosse più antica; Marshack poté risalire lungo il sentiero dell'evoluzione fino al Paleolitico Superiore, circa 40.000 anni prima dell'inizio della storia scritta: quattrocento secoli di osservazioni, annotazioni e fedele interessamento allo strano ciclo di una delle due grandi luci del cielo, testimoniavano l'attenzione prestata dall'uomo ai fenomeni celesti fin dalle nevi dell'era glaciale. Quest'antica scoperta ha permesso di ricondurre l'origine delle arti, del simbolismo, della religione, del potere politico e perfino dell'agricoltura (di cui diremo meglio fra poco) alla consapevolezza dei problemi astronomici, cioè al costante interscambio di forze che muovono la Terra intorno al sole e la Luna intorno alla Terra, e che determinano la lunghezza del giorno e la durata delle stagioni. Si è capito improvvisamente che l'uomo preistorico, l'uomo vissuto decine di migliaia di anni fa, non era un selvaggio ignorante che ai primi segni del buio si accucciava nella caverna, ma il possessore di un intelletto e di una curiosità che lo inducevano a osservare
pazientemente i movimenti della faccia ombrosa di Selene nel cielo notturno e a lasciare una registrazione dei primi tentativi di comprensione del cosmo. Ogni anno, ogni generazione, nello spazio di migliaia di vite che separa il Paleolitico dal Neolitico, quelle osservazioni si fecero più precise, più sofisticate e grandiose, e un nuovo complesso architettonico fece la sua comparsa sulla scena, certo molto diverso dai suoi lontani discendenti, ma come loro legato alla stessa dipendenza dal cielo: l'osservatorio astronomico. Dapprincipio si trattò di un semplice cerchio nel terreno che rappresentava un orizzonte artificiale sul quale erano piantati alcuni paletti per marcare il sorgere e il tramontare del sole nelle diverse stagioni; era l'inizio dell'osservazione sistematica dei fatti astronomici, e le sue conseguenze sarebbero state incalcolabili. È da questi prosaici predecessori che nasce la meraviglia del Neolitico, incarnazione delle migliaia di osservatori solitari che giorno e notte fino ad allora avevano scrutato il cielo: il complesso di Stonehenge. Questo vero e proprio monumento al bisogno di conoscenza da parte dell'uomo crebbe, pezzo dopo pezzo, lungo l'arco di un migliaio d'anni, quando le piramidi erano ancora argilla informe lungo le sponde del Nilo. E intorno alle immense pietre che sembravano pendere dal cielo stesso, la piana di Salisbury vide fiorire il commercio, evolversi grandi culture e la storia mutare il suo corso quando dall'età della pietra si passò a quella del bronzo. Non ultimo fattore, quelle terre assistettero alle mescolanze razziali fra gli antichi abitatori della regione e i popoli del continente. Il complesso megalitico di Stonehenge fu il massimo prodotto delle menti e delle culture che avevano portato avanti la sua costruzione per un millennio, e si può giustamente dire che questo grande osservatoriocomputer dell'antichità sia stato eretto sui pezzi d'osso e gli artigli d'aquila che migliaia di precedenti «astronomi» avevano adoperato per registrare i loro dati. Secondo un inesorabile schema geometrico, come la Terra ruotava sul suo asse e si muoveva intorno al sole, come la sua notturna compagna, Selene, scivolava nello spazio tra la luce della stella e l'ombra del nostro pianeta, così Stonehenge osservava e registrava i fenomeni del cielo, e i suoi segnali di granito erano eterni come il cosmo stesso. E i suoi costruttori potevano raccogliere il popolo tra il fasto e la pompa e vantarsi di aver potere sugli stessi dèi, perché il circolo di pietre erette sotto la volta del cielo, usato come un calcolatore, era in grado di prevedere le eclissi, e tutti
potevano accertarsene. Stonehenge rappresentò il culmine di un processo avviato già da trentacinquemila anni; nelle sue pietre colossali è racchiusa tutta la conoscenza del cielo e della terra accumulata nel Paleolitico e nel Neolitico. Era uno strumento ma anche un simbolo, utile e significativo per la sua epoca come lo è l'Apollo per la nostra. Ma per giungere alla sua creazione e per saperla usare adeguatamente l'uomo dovette apprendere quanto egli stesso dipendesse dal cielo. Conquiste come l'agricoltura, la piantagione sistematica e il raccolto, il raffinamento dei prodotti alimentari che servirono al fabbisogno delle nascenti città e alla diversificazione delle attività, furono rese possibili solo dalle conoscenze astronomiche. E il grande arazzo dell'arricchimento culturale, fatto di mille fili che s'intrecciano, corre parallelo all'indipendenza che la produzione alimentare sistematica assicurò a capi, re e imperatori; furono le conseguenze di questo benessere materiale a rendere possibile il sostentamento di artisti, scrittori, musicisti, e che rese possibile la costruzione delle grandi meraviglie architettoniche del mondo. Murdoch finì di scattare l'ultima serie di fotografie veleggiando parallelo al GTS. Sfiorò i controlli del minirazzo che portava sulla schiena e si mosse lentamente lungo il grande tubo sigillato del telescopio. La nuova verniciatura anti-raggi ultravioletti si era rivelata provvidenziale, e le sue foto avrebbero dimostrato che non c'erano più bolle sulla superficie dello strumento. «Ho quasi finito, qui» comunicò alla navetta. Volteggiava sul telescopio, rivolto alla falce di Terra. «Adesso scatterò la serie del tramonto, poi datemi luce che rientro.» «Come vuole lei, dottore. È la sua missione. Il nostro compito è stare appesi e aspettare». La voce laconica del tenente Ben Crowder, pessimo umorista, gli rintronò nelle orecchie, ora che si trovava così vicino alla navetta. Murdoch ridusse il volume. Il sole toccò l'orlo del pianeta e il GTS cominciò a ruotare: lentamente ma con più decisione di quello che si era aspettato. La sua forma allungata, un cilindro tozzo e bianco contro il fondo dello spazio, si trasformò rapidamente in un sigaro brunito, che qualche momento dopo cambiò ancora colore e slittò verso il verde. Volavano; lui scattava foto con la sua Hasselblad e il sofisticatissimo telescopio, crogiolandosi tra gli ultimi raggi del sole nascosto. Adesso somigliava a una bacchetta magica color blu elettri-
co... e di nuovo verde, gialla, e giallo-aranciata...! Mentre la pellicola a colori scorreva tra le sue goffe mani guantate, Murdoch vide un'altra luce sorgere sul disco panoramico della Terra e sotto il telescopio vivente: era la Luna piena, ma il suo aspetto familiare era incredibilmente distorto dai cambiamenti di colore determinati dal passaggio dietro i vari strati dell'atmosfera. Click... Wh-r-r-r... Click... Immaginò di poter udire il ronzio del grande telescopio, proprio come sentiva fra i guanti isolanti le vibrazioni della macchina. Adesso la Luna era una lanterna gialla, e i mari familiari sorridevano a una distanza di quasi quattrocentomila chilometri. Contro di essa, intento a raccogliere gli ultimi raggi di una stella che stava scomparendo, il GTS era una verga color rubino. Per un momento Murdoch vide perfettamente allineati nell'obbiettivo il telescopio - sopra a tutto, puntato verso l'infinito - la Luna e il disco della Terra. Fece la foto e considerò che il telescopio e la Luna formavano un bel punto esclamativo. Sorridendo, chiuse la macchina e cominciò il breve viaggio verso casa. Stasera (la sera in cui scrivo, non quella in cui mi leggete) fanno giusto cinque anni dal primo sbarco dell'uomo sulla Luna. È la stessa Luna che altri uomini osservarono, adorarono e seguirono fin dal remoto passato, fin dalla lontanissima era glaciale, rendendo così possibile quello sbarco. «Come un cerchio in una spirale, come una ruota dentro una ruota...» Lo studio della Luna ha reso possibile una sua miglior conoscenza, e quindi l'allunaggio, che a sua volta ci ha permesso di studiare con più cognizione lo spazio esterno, l'Universo. Il GTS, come del resto l'astronomia, avrà come compito ricavare le migliori informazioni da una situazione fondamentalmente avversa. Tanto per cominciare, il telescopio sarà fabbricato sulla Terra; lo specchio verrà fuso e modellato in condizioni di gravità «normale» e la progettazione e costruzione dell'intero strumento sarà guidata dalla considerazione che dovrà essere lanciato brutalmente in orbita da un grande vettore tipo Saturno: quindi soggetto ad accelerazioni, distorsioni e vibrazioni quasi sacrileghe per un apparato da cui ci si aspetta una formidabile precisione. Anche dopo essere stato piazzato in orbita il GTS subirà nuove vessazioni ambientali, a causa della sua posizione in orbita terrestre. L'alternarsi del giorno e della notte ogni 45 minuti circa (l'orbita in totale durerà 90 minuti) creerà tensioni termiche in determinati punti dello strumento, in taluni specchi e piani di fuoco. La gravità eserciterà una trazione maggiore
alla base del telescopio che non alla punta, se non altro perché questa sarà più lontana dal centro della Terra (almeno in certi casi), e ciò non mancherà di far sentire i suoi effetti sulle lunghe esposizioni; sarà necessaria un'estrema accuratezza d'orientamento, e già sono allo studio le contromisure per bilanciare questi negativi effetti ambientali. Aggiungete a ciò il pericolo delle radiazioni, le non facili tecniche per combattere la luce diffusa, la costante interruzione di ogni osservazione prolungata per 45 minuti a ogni orbita quando l'oggetto verrà coperto dalla Terra, la necessità di rifornire continuamente le riserve di gas stabilizzante (usato per scaricare l'eccessiva quantità di moto cui un oggetto tende quando viene posto in un ambiente senza peso, in presenza di molte sorgenti di energia e nessuno scarico disponibile), e comincerete a capire il prezzo che l'uomo dovrà pagare per godere di un telescopio spaziale. Non sorprende, quindi, immaginare che i discendenti del GTS verranno costruiti sulla Luna. È là, sicuramente ancorati alla crosta lunare, che telescopi sei volte più grandi dei loro maggiori fratelli terrestri diventeranno fattibili. La gravità lunare, più bassa di quella terrestre (è pari a circa un sesto), semplificherà il lavoro di costruzione sia per quello che riguarda le strutture vere e proprie sia per quello che concerne i problemi ottici degli specchi. Sembra ragionevole ipotizzare che su Selene si potranno fabbricare enormi telescopi anche da mille pollici. Invece dei quarantacinque minuti di oscurità ottenibili in orbita terrestre (dove lo strumento è ancora sottomesso allo strato d'idrogeno più esterno dell'atmosfera), un telescopio lunare avrebbe due settimane - quattordici giorni - di assoluta tenebra, la notte più oscura che si possa immaginare a questa distanza dal Sole, avendo l'accortezza di sistemarlo sulla faccia nascosta del satellite. Questo significa due settimane di osservazione ininterrotta con un ordigno capace di una potenza 100 volte superiore a quella del GTS, e in condizioni di vuoto altrettanto buone (se non migliori, dato che si troverebbe lontano anche dall'ultimo alone d'idrogeno terrestre). Le due settimane di notte (e, naturalmente, di giorno) permetteranno di fronteggiare meglio i problemi derivanti dagli sbalzi termici, e quindi dall'espansione e contrazione. Pezzi dai diversi coefficienti d'espansione (di vetro e plastica, per esempio) avranno parecchie ore disponibili per potersi stabilizzare prima che comincino le osservazioni. Inoltre, a seconda del luogo dove verrà costruito, sarà forse possibile circondare il telescopio di un deflettore stratificato che lo manterrà nell'ombra perpetua: un'isola di notte eterna e perfetta anche durante l'abbacinante giorno lunare.
Da una posizione così vantaggiosa, e con un diametro di mille pollici, che cosa potrebbe permetterci di vedere questa meraviglia astronomica? Abbiamo accennato brevemente, nelle pagine precedenti, agli interrogativi cosmologici cui il GTS cercherà di rispondere. Naturalmente anche il telescopio lunare si interesserà agli stessi problemi, ma vediamo di usare lo spazio che ci rimane per delineare le ricerche originali che strumenti tanto potenti potranno compiere: ad esempio la ricerca della vita nell'Universo, che diventerà legittimamente un capitolo dell'astronomia stellare, proprio come la stessa ricerca, ma nell'ambito del sistema solare, lo diverrà a breve scadenza in seguito alle missioni Viking. L'astronomia è cominciata con l'osservazione della Luna, nel tentativo di comprendere un'entità che sembrava viva, una dea, e di sfruttare il suo influsso sulla vita della Terra. È molto giusto, quindi, che da un osservatorio su quella stessa Luna l'uomo possa ottenere le prove astronomiche dell'esistenza di una vita tra le stelle. Perché sia possibile la vita come noi la conosciamo, devono aversi dei pianeti orbitanti intorno a una stella stabile per miliardi di anni, il tempo necessario all'evoluzione; perché sia possibile vederli essi devono trovarsi relativamente a portata di mano (astronomicamente parlando). I pianeti, perfino quando sono dei veri e propri giganti come Giove (dieci volte le dimensioni della Terra), brillano solo di luce riflessa e sono quindi molto «fiochi» se paragonati alle stelle. Quindi solo i pianeti delle stelle più vicine (diciamo entro un raggio di venti anni luce dalla Terra) potrebbero essere scoperti dal supertelescopio lunare descritto prima. Il problema è: scoprire il debole lumicino di un pianeta intorno a una sorgente di luce cinquecento milioni di volte più brillante! Detto così sembra impossibile. Anche se ruotasse intorno alla stella più vicina, e cioè a 4,3 anni luce da noi, un pianeta grande come Giove (un Giove, naturalmente, non è una Terra, ma scoprirlo sarebbe utile lo stesso, perché si ritiene che in ogni sistema solare i grandi pianeti di tipo gioviano debbano essere accompagnati da corpi più piccoli, ed eventualmente di tipo terrestre) sarebbe solo un puntino di luce, nemmeno un disco, di magnitudine approssimativa 25. Senza volerci perdere in sottigliezze tecniche diremo che questo è l'oggetto meno luminoso che il più grande telescopio del mondo riesce a vedere oggi, e anche così solo se si sa esattamente dove guardare. A rendere le cose più difficili nel caso dei pianeti c'è naturalmente la loro velocità di movimento, per cui una ricerca che li riguardi diventa pratica solo se si dispone di un telescopio così grande che una stella di ma-
gnitudine 25 rientri di dieci o venti volte nei suoi limiti di osservazione. Il telescopio lunare da 1200 pollici dovrebbe avere una potenza 100 volte superiore a quella dell'osservatorio di monte Palomar (200 pollici) o del GTS. Il GTS, abbiamo detto, vedrà molti più dettagli di qualunque strumento ottico terrestre, grazie al fatto di trovarsi in orbita. Il telescopio lunare vedrà dieci volte più chiaro del GTS... Così, cominciando col GTS, l'uomo si avventurerà in un'era in cui diventerà possibile vedere i pianeti delle stelle vicine (posto che ve ne siano). Un Giove, perfino una Terra orbitante intorno a un sole non remoto dovrebbe essere visibile al GTS, certamente al telescopio lunare. Quanto al problema di trovarli - piccoli punti di luce che si muovono intorno a un altro punto, milioni di volte più splendente - è relativamente semplice: basta creare un'eclissi artificiale. Nascondendo la stella relativa dietro un disco (o facendo in modo che la sua luce piova attraverso un foro sulla lastra fotografica, o cinescopio, nel vuoto: invenzione mia, R.C.H.) sarà possibile vedere i pianeti di altre stelle sia col GTS sia col telescopio lunare. Ma come scoprire la vita, ad anni luce di distanza? A questo scopo, dopo aver fornito le prime prove visuali dell'esistenza di altri pianeti (molto importanti, perché oggi solo i calcoli matematici permettono di ritenere che certe anomalie gravitazionali siano dovute a pianeti invisibili ruotanti intorno a determinate stelle) il GTS si rivelerà probabilmente insufficiente. Solo il telescopio lunare potrà tracciare lo spettro dei nuovi pianeti: e se in esso troveremo ossigeno, metano, forse anche strani idrocarburi, avremo la prova che esiste un altro mondo come la Terra dove l'ossigeno viene prodotto dall'attività biologica, al pari del metano. Se la ricerca venisse condotta con sufficiente ingegnosità si potrebbe altresì appurare l'esistenza di una civiltà tecnologica sul nuovo mondo, supponendo che essa fosse alle prese con problemi ambientali simili ai nostri. Individuare civiltà più avanzate (quelle la cui tecnologia avesse superato lo stadio dei problemi ecologici) richiederebbe invece altre tecniche. Informazioni su una branca completamente nuova dell'astronomia stellare - la scoperta, catalogazione e descrizione di pianeti di altri sistemi solari - saranno perfettamente ottenibili, grazie alle nuove tecnologie astronomiche e ai telescopi spaziali. Perfino la scoperta dei componenti atmosferici prodotti inequivocabilmente dall'attività biologica diverrà possibile col telescopio sulla Luna. E sempre nell'ambito delle scoperte possibili rientra,
come abbiamo visto, quella di una tecnologia aliena che abbia modificato il suo ambiente, e quindi di un'altra razza intelligente. Ma come sempre nella storia, da quando ha cominciato a prender nota su un pezzo d'osso delle fasi lunari, l'uomo non si accontenterà di scoprire gli altri mondi che sono fra le stelle, non avrà pace finché essi saranno per lui solo puntini luminosi. E mentre i suoi vascelli si prepareranno al lunghissimo viaggio egli costruirà i discendenti ottici del pur mostruoso ordigno lunare. Così nella debole luce del Sole, che illumina ma non riscalda ciò che esiste «là fuori», a sei miliardi di chilometri dalla Terra, l'uomo costruirà sull'orlo dell'abisso il telescopio definitivo. Un'enorme lente con un diametro di decine di chilometri, e uno specchio capace di accendere una fiamma al suo fuoco con la luce raccolta dalle stelle! Una creazione simile, capace di mostrarci nitidamente i pianeti di stelle lontanissime, e di scrutare oltre l'inizio del tempo, avrà poco in comune col suo antenato di granito, così lontano nel tempo e nello spazio sulla piana di Salisbury. E come Stonehenge una volta cercò di capire l'influenza che la Luna aveva sugli uomini, col risultato che l'uomo estese la propria influenza fino alla Luna, così, forse, questa vasta creatura di cristallo fluttuante al bordo della notte eterna che separa il sistema solare dall'abisso interstellare vedrà un giorno l'epoca in cui la nostra specie estenderà il suo dominio alle stelle. TRIPP IN PERICOLO (Arsen Darnay) Un raccontino terribile... Lard Grasson Tripp, Eccellentissimo Ghiottone, era appena tornato dalla Conquista del Cappone, ma non sazio delle vittorie di Zuppa Tortù e Filetty Mignon se ne stava ritto nella sala cavernosa di Castel Gnam, sul Colle Affamato, in mezzo alla Pianura degli Insaziabili. «No, no, no, mia cara signora» disse alla pallida, smunta Lady Diet, le cui suppliche petulanti aveva sopportato troppo a lungo. «Lasciateci andare. Vuota e snervante è la vita comoda. Ho bisogno di fresca battaglia, e il mio cuore virile ha già l'acquolina.» E con queste parole si trascinò fuori a fatica, le gambe larghe, perché
non lo chiamavano per nulla Lard Grasson Tripp. Le braccia corte e grassocce si protendevano da un tronco meravigliosamente rotondo, e dalle labbra dischiuse gli usciva un breve respiro affannoso. Le dita ossute della smunta signora strapparono il fazzoletto inzuppato di lacrime in un accesso di rabbia. «Mascalzone, mascalzone» gli sibilò dietro con le labbra livide e serrate, mentre in fondo alle occhiaie incavate le spuntavano due fuochi. «Non sopporterò più le tue scappatelle, i tuoi tradimenti. Stavolta, mylard, avrai la mia vendetta!» E si ritirò, pallidissima, in camera sua. Rovistò furibonda tra magiche pillole e pozioni. Ammazza-calorie e pani di segatura si rovesciarono dallo stretto tavolino. Poi, con un grido di trionfo, alzò due fiale di vetro sigillato alla luce della candela, gli occhi sfolgoranti di gioia velenosa. «A me, Razziatori della Vendetta, a me» sibilò. Poi, correndo nel suo laboratorio, versò il contenuto delle fiale in una coppa di terracotta e mormorò un incantesimo. Nuvolette di bollicine acidule si mescolarono a un fuoco liquido, e nel loro manto di tenebra fumosa apparvero i Terribili Gemelli evocati dalle magiche parole. Si materializzarono, e la loro similitudine apparve manifesta. «Chi osa chiamare il Doppio Flagello del Continente Colombiano?» dissero con una voce sola. «Sono io, Lady Diet, immune al vostro pestifero operato. Vi libererò a patto che tormentiate mylard Tripp finché non si sarà ravveduto. Adesso, per esempio, si accinge a scalare il monte Deliz, nella piana di Kosher, per mettere alla prova l'ardore del Grande Manz.» «Allora di' la parola magica, signora» gracchiarono i due all'unisono. E lei sussurrò: «McDonalds». Con un urlo di furia demoniaca i due si slanciarono dalla finestra ad arco e sfrecciarono verso la luna maliosa. Alcuni corvi famelici svolazzarono spaventati sulla Quercia dell'Inedia. Nel cortile deserto del castello sedici paggi sollevarono Lard Grasson Tripp e lo sistemarono sulla schiena di Menù, il suo fido destriero. Gli accomodarono il mistico Tovagliolo sotto il triplo mento e assicurarono alla venerabile rotondità del suo ventre la cintura di guerra. Qui nel
suo fodero di cuoio pendeva la temibile Golador, un'arma tutta d'oro. Qui, allacciata a un cappio di seta, faceva mostra di sé la Tazza Mi Riempio da Me. «Bon apetit» gridarono i paggi, e Menù partì sulle sue gambe barcollanti, dolorosamente provato dalla superba stazza di Lard Grasson Tripp. La sera fece giustizia dell'ultimo spicchio di giorno e l'orizzonte s'illuminò di rosa, come una fettina di primo taglio. Uno sciame di locuste, i familiari di Lard Grasson, turbinò al suo seguito sulla nuda terra nera. Ed egli ruppe in questo forte canto di battaglia: «Selvaggina, pollo, carne e salmon Oh che grande pranzon! Leccornie, prosciutto e tenero vitello Facciam onore all'onesto fornello, Passami il burro, la foca affetta, Fai di patate una bella pastetta. Mangiate, amici, mangiate, E voi, orsù, masticate: A chi importa se fa caldo in cuu-ci-na! Hamburger, hotdog, sale e pomodòr Oh che glorioso pranzon! Cipolle, sottaceti, patatine a non finir Frittelle e sfilatini, c'è da morir, Ma ciò per la bestia è solo un'inezia (Passami, da bravo, un po' della tua spezia). Mangiate, gente, mangiate, E voi, orsù, masticate: A chi importa se fa caldo in cuu-ci-na!» Cantò così a lungo e con tale fervore che non sentì il grido dei Gemelli del Malanno, né il loro cachinno, lassù nel cielo buio. E i suoi occhietti adagiati tra cuscini di carne non videro la maligna fosforescenza che si profilava contro le stelle. Sulla piana di Kosher, contea dell'Aglio, il monte Deliz si staglia mae-
stoso. E il Palazzo delle Conserve lo domina orgogliosamente. Grandi colonne di salame reggono il tetto di crackers, e il succo di barbabietola scorre rosso nel fossato. A Lard Grasson Tripp venne l'acquolina, facendolo sentire desolatamente vuoto. Menù si accorse di questa levità e partì al galoppo; attraversarono la Strada della Zolletta, lasciandosi dietro una nuvola di polvere bianca. Un gruppo di paggi si fece avanti per bloccarli, ma Grasson Tripp se ne sbarazzò mandandoli lunghi distesi sul dolce pavimento. I superstiti se la diedero a gambe, perdendo zucchero, e lo sciame di locuste li inseguì furibondo. Sfoderata l'aurea Golador, Lard Grasson balzò dalla sella, mentre un difensore che chiameremo Findus cominciava a sollevare il ponte levatoio. «Arrendetevi!» gridò Tripp brandendo la possente Forchetta. «Arrendetevi, vi dico, squisiti abitanti di Deliz. Niente mi tratterrà dal raggiungere il Grande Manz, che amorevolmente custodite sotto una campana portavivande. Golador ha già avuto ragione di molti nemici, e se volete saperlo sono reduce da una sfida vittoriosa contro le succose insidie del colonnello Cappone; Zuppa Tortù mi ha già reso omaggio, e ho conquistato Filetty Mignon.» Ma le guardie di Manz, gli uomini di Deliz, sorrisero facendosi schermo con le mani. Si sapevano al sicuro, perché i Terribili Gemelli erano venuti in loro soccorso, e si erano nascosti per intervenire al momento giusto. Grasson Tripp non avrebbe più devastato le campagne, rovinando i budini e facendo tremare le crème caramel. «Vattene via, trippa profana» lo ammonirono. «Via, via.» «Ahimè» sospirò Lard Grasson, «vedo che non vi arrenderete pacificamente. Mi fate compassione, perché assaggerete tutti i denti di Golador.» E con queste parole si tuffò nel fossato prosciugandolo con un sol gigantesco slurp. Il magico Tovagliolo si arrotolò da solo per pulirgli le labbra. Golador, guidata dal braccio infallibile di Lard Grasson, compì prodigi di valore: punse, tagliò, tranciò, abbatté Findus sotto i suoi colpi; tagliolini freschi ebbero la disavventura di capitarle sotto i denti e ne vennero arrotolati e consumati. La selvaggina fu squartata per la più rapida ingestione. La Forchetta lavorava come sette forchette, e benché Deliz vomitasse sempre nuovi guerrieri, i tranci e gli affondi di Tripp non mancavano un sol avversario. Il Tovagliolo si agitava pazzamente per pulire la bocca e il mento del suo padrone, il cui valore era testimoniato dal sangue e dal sugo che ne macchiavano la superficie.
Combattevano lentamente, Lard Grasson Tripp e la fida Golador, per conquistarsi il premio dei premi, il gigantesco Manz nel palazzo delle delizie. Ed eccolo, infine, vincitore, mentre l'ultima guardia si ritira timorosa all'ombra dei salami. Il nostro eroe sta a gambe larghe, il braccio teso sul manico di Golador e un sorriso di trionfo sulle labbra deliziate. Il grande Manz era grasso come una palla. Guardava Grasson Tripp con occhi sonnacchiosi, appena velati di minaccia, e continuava a cullarsi nel suo bagno di ricco brodo nutriente, perché sapeva ciò che Tripp ignorava: Quei Due erano nascosti nel buio, pronti ad agire. «Finalmente ti ho intrappolato, pallone d'un Manz. Esci da sotto quella campana, e preparati allo scontro finale. Come vedi la Forchetta d'oro e io abbiamo fatto a polpette i tuoi guardiani, e adesso nessuno ti protegge.» «Ti sbagli!» gorgogliò quell'ammasso in brodo. «Ti sbagli, mio valoroso Tripp, perché la tua battaglia è appena cominciata, e stavolta verrai sconfitto.» Poi con strida infernali la Potente Coppia si slanciò sull'impareggiabile Tripp, uno da sinistra e uno da destra della campana di vetro. Lard Grasson arretrò sotto la spinta di quell'attacco, gli occhietti sbarrati dalla sorpresa. «Gassosus Indigestus!» Barcollando puntò Golador contro l'assalitore, una furia maligna dagli occhi a spillo che spruzzava bollicine d'acido verso di lui. «Cosciotto Bruciato» gridò ancora Grasson, mentre il secondo nemico, una fiammeggiante replica della romantica parte anatomica testé menzionata, gli lanciava addosso lingue di fuoco. Poi gli accoliti di quei due flagelli sciamarono da tutte le parti, assediandolo coi loro infernali liquidi e gas. Ancora una volta Golador tranciò e addentò (i suoi denti d'oro erano immuni alle bollicine acidule, ma si scioglievano al fuoco), senza tuttavia spuntarla. Nessuno poteva avere ragione della Diabolica Coppia, e Lard Tripp cominciò ad arretrare disperato. «Stregoneria!» urlò spaventatissimo. «Torneo sleale! Il mio onore virile è oltraggiato. Sono perso.» E proprio in quel momento, com'è tipico della fortuna, mentre Gassosus e Cosciotto si preparavano a finirlo, mentre perfino il mistico Tovagliolo s'arricciava, bruciato dall'acido, il Capo delle Locuste saltò in spalla a Grasson Tripp che piangeva come un bambino e nella lingua gracchiante
dei familiari gli ricordò la sua risorsa segreta. Ciò che disse esattamente fu: «Crrrp-twrrrp, crrp-twrrrrp, crurrp». Il che vuol dire: «Fruga nella tua cintura, mylard, e ricordati del tuo invisibile amico... Vedrai che troverai di che difenderti dalla stregoneria grazie all'aiuto della scienza e della natura». Gli occhi di Lard Tripp s'illuminarono. Poi si passò un dito grassoccio sulle labbra chiuse ed emise un suono di risposta. «Buwlbuwlbuwlbuwlbuwlbuwlbuwl». Che vuol dire: «Sentiti ringraziamenti, Capo delle Locuste, perché mi hai ricordato la mia superiorità su ogni genere di sortilegio; invero mi credevo spacciato, quando invece ho la salvezza sotto le dita». Durante questo scambio di battute Golador naturalmente aveva continuato a combattere e parare, guidata dall'eccellente braccio di mylard, e se non fosse stato per la suprema perizia della Forchetta d'oro Lard Grasson Tripp avrebbe avuto partita persa, perché gli serviva un momento di respiro per organizzare il contrattacco. Per fortuna, Golador tenne a bada Gass e Cosciotto il tempo necessario. Già certo della nuova vittoria Tripp urlò: «Non ancora, amici! Non ancora avete ragione di me, maledetto flagello della Terra di Colombo!». E con queste parole prese la coppa che teneva allacciata al cappio di seta. «Coppa, riempiti» sussurrò il coraggioso, ma nulla accadde nel fondo argentato del boccale. Gli occhietti di Lard Grasson si spalancarono dallo stupore, ma una volta ancora il Capo delle Locuste ronzò la risposta e mylard ricordò la formula esatta: «Riempiti, coppa» sussurrò questa volta e, oh meraviglia!, il recipiente si riempì d'acqua sorgiva. Il nostro campione prese allora dalla cintura due compresse del colore e la forma della luna piena. Frizzarono nella coppa con magico abbandono, e tra lo scorno e la costernazione della Coppia Indigesta la bianca apparizione di Alka Sell emerse dalla coppa fatata, tenendo sei frizzanti tacchini all'estremità di un guinzaglio. Alka Sell li liberò e essi cominciarono a far strage di nemici; nessuna delle vantate tavolette-che-si-prendonosenz'acqua avrebbe potuto fare altrettanto, e i veri ghiottoni lo sanno. Poi Grasson Tripp cominciò a massaggiarsi lo stomaco con un movimento circolare, e di nuovo gl'Indigesti cacciarono un grido d'angoscia, perché riconoscevano il gesto e ne capivano il pericolo. Rutthin - più insidioso, più tremendo dei suoi fratelli a bocca spalancata - si sarebbe allungato nell'aria verso di loro, arrestando il fiato coi suoi artigli gassosi.
I demoni fuggirono attraverso il tetto di crackers tra gemiti e lamenti d'impotenza, lasciandosi dietro un vago alone fosforescente. Alka Sell e Rutthin finirono gli ultimi accoliti, mentre Grasson Tripp allungava lo sguardo alla campana portavivande. Ma il Grande Manz era scappato dal suo brodo. Tripp lo vide rotolare flaccidamente fra le colonne di salame, verso il ponte levatoio. Era proprio un bocconcino delizioso, pensò Lard Grasson Tripp, ed estrasse la Forchetta d'oro per la resa dei conti. LA CERVA, IL TEMPO (Craig Strete) Era vecchio e giovane allo stesso tempo. Per lui, presente, passato e futuro erano una cosa sola. Il vecchio guardava il ragazzo, il ragazzo guardava la cerva. La cerva era contemplata da tutti e due e dal Grande Spirito lassù. Il vecchio ricordava quando era ragazzo e suo padre gli mostrava le motociclette nei parcheggi. Il ragazzo ricordava la sua seconda moglie con una punta di rimpianto, ma non rimpiangeva affatto la prima. Martedì mattina il traffico del lunedì era già vecchio di tre giorni. Il vecchio sedeva sul cofano di un'automobile, in un box, e guardava il ragazzo. Il ragazzo guardava la cerva. La cerva era contemplata da tutti e due e dal Grande Spirito lassù. Il ragazzo aveva resistito quando suo figlio, su insistenza di quella puttana della moglie (una bianca!) aveva cercato di farlo rinchiudere in un ospizio. E adesso guardava la cerva sul lato della strada. E qualcuno lo guardava a sua volta. Il vecchio doveva andare da qualche parte. Un posto importante, ma aveva dimenticato quale. Però, sapeva che doveva andarci. La cerva era attesa dai suoi congiunti, e benché non volesse dare un dispiacere al ragazzo che non smetteva di contemplarla, doveva andare. Si scusò, scuotendo la testa. Il vecchio la seguì mentre si allontanava. Sapeva che anche lei aveva un posto dove andare, un posto importante, e sebbene non lo conoscesse si rendeva conto che non poteva restare. Il vecchio avrebbe fatto tardi. Tutto quello che aveva da fare era attra-
versare la strada, e bisognava che si avviasse, o avrebbe fatto tardi al suo funerale. Così, stava andando da qualche parte. Ma non riusciva a ricordare dove. «Gli hai fatto mettere l'orologio? Se ha l'orologio dovrà pure...» «È solo un vecchio, cara! La sua mente perde colpi» disse Frank Toro Possente. «Il dottor Amber ci aspetta! Ma cosa crede, che possiamo pagare per ogni appuntamento che perde?» ringhiò Sheila, passandosi le dita fra le punte scomposte dei capelli. «Ma è possibile che non sia mai puntuale?» «Lui vive secondo la concezione indiana del tempo. Essere in ritardo è semplicemente qualcosa che ci si deve aspettare da...» Lei troncò i suoi tentativi di spiegazione. «Indiano qui, indiano là! Sono talmente stufa delle tue maledette scuse che potrei vomitare!» «Ma...» «Dimentichiamolo e basta. Non abbiamo tempo da perdere. Dobbiamo essere all'ufficio del dottore fra venti minuti, e se usciamo adesso possiamo ancora evitare l'ora di punta. Spero solo che tuo padre sia lì, quando arriveremo.» «Non preoccuparti. Ci sarà» disse Frank, con aria dubbiosa. Ma la cerva non si decideva. Si allontanò un poco e poi tornò indietro. E il vecchio seppe che era tornata perché il ragazzo sapeva come guardarla. E il ragazzo fu felice, perché la cerva voleva fargli piacere. E la vide per quello che era: grande, dorata e veloce, splendente di bellezza. La cerva capì che lui la giudicava bella, poiché questo era il suo proposito quel mattino: essere bella agli occhi di un ragazzo. E il vecchio, che doveva andare da qualche parte, fu grato alla cerva e un po' invidioso del ragazzo. Ma lui era tutt'uno col ragazzo, e anche con la cerva, e tutti e tre appartenevano al Grande Spirito lassù. Quindi non fu vera invidia, ma solo il gran desiderio che la vecchiaia prova della giovinezza. «Quel figlio di puttana!» grugnì Frank Toro Possente. «Il bastardo mi ha tagliato la strada.» Passò dalla quarta alla terza e l'ago del tachimetro andò sul rosso. La Mustang scartò, evitando per un pelo la macchina straniera che le era sbucata davanti. «Oh Cristo, faremo tardi!» borbottò Sheila, girandosi sul sedile per
guardare dal retro. «Mettiti sulla corsia di sorpasso.» «Ma scherzi? Con questo traffico?» Poi Frank strinse il volante come se fosse un'arma. Alzò la mano destra e ingranò la marcia. La Mustang fece un balzo selvaggio. Girando tutto a sinistra tagliò la strada a un camioncino che frenò a un millimetro da lui; premette l'acceleratore a tavoletta e la macchina rispose. Raggiunse la macchina sportiva che prima gli aveva tagliato la strada e quando la sorpassò fece un gesto osceno. Sheila era deliziata: «Vai, vai!» esclamò. Il vecchio si era preso molte libertà, nella sua vita. C'erano cose che gli piaceva ricordare e altre che voleva dimenticare. Era stato sposato due volte. La prima la odiava. Gli occhi di lei l'avevano accecato, e le mani del vecchio avevano avuto ragione di lui. Non aveva interrogato il suo cuore, e così, senza sapere, aveva lasciato decidere al corpo. Se ne sarebbe sempre pentito. Quell'estate era libero come un'aquila. Accoppiarsi nell'aria. Non toccare mai terra. Non guardare mai indietro. Quell'estate. Le sue mani che la toccavano erano ali, e lui volava, e le piume coprivano le cicatrici che erano apparse dove i corpi si erano toccati. Lui apparteneva all'aria e lei alla terra. E in un certo senso lei infangava i suoi sogni, perché aveva corpo di donna, ma non spirito di donna. Per i ciechi una stella è una pietra. Guardava a lui attraverso occhi taglienti. Lei possedeva. Lui condivideva. Non c'era vita fra loro. Lui vedeva le stelle e le contava una per una nella mano di lei, come fanno tutti gli innamorati. Lei vedeva pietre. E così guardava da un'altra parte. Lui era libero perché desiderava. Lei era prigioniera perché voleva. E un giorno se ne andò. E lui piegò le ali e la terra gli piombò in faccia, e si ritrovò a essere un vecchio con un bambino da crescere. Visse come in una gabbia, e passò tre anni come morto. Suo figlio fu una speranza che si dissolse presto, perché in realtà era figlio di sua madre. Glielo poteva leggere negli occhi, e questo l'amareggiava. Ma la cerva, e il ragazzo, ecco che cosa avrebbe ricordato sempre con piacere. Il dottor Amber non fu comprensivo. «Maledizione! Non posso firmare la richiesta d'internamento se non lo vedo almeno una volta.» Sheila cercò di fare un sorriso accattivante. «Arriverà, vedrà. Abita in
una stanza d'albergo proprio dall'altra parte della strada. Frank lo troverà, non si preoccupi.» «Ho altri pazienti! Non può pretendere che un vecchietto che fa le bizze mi tenga qui immobilizzato» scattò Amber. «Solo qualche minuto» disse Sheila. «Dovrà pagare due visite, signora. Non posso permettermi di fare della beneficenza. Ogni minuto che non lavoro, io perdo del denaro.» «Pagheremo» disse Sheila cupamente. «Pagheremo.» Il mondo era grande e la cerva doveva portare la sua bellezza attraverso il mondo. E per un ragazzo, quel mattino, era già stata bella; adesso doveva andare da qualche altra parte. Si girò e si lanciò nei boschi, preceduta dalla sua bellezza. Il ragazzo si mise in piedi. Col cuore che batteva forte, i piedi che volavano come il vento, le corse dietro con l'abbandono della giovinezza che ama. Andava a caccia di bellezza nel mondo e sparì alla vista del vecchio, inghiottito dalla foresta. E il vecchio cominciò a sognare che... Frank Toro Possente gli teneva una mano sulla spalla e lo scuoteva, nient'affatto gentilmente. Il vecchio guardò nella faccia di suo figlio e ciò che vide non gli piacque, ma gli permise di condurlo all'ufficio del dottore. «Finalmente» disse Sheila. «Dove diavolo si era cacciato?» Il dottor Amber fece il suo ingresso con un sorriso sfottente. «Ah, finalmente il signore elusivo si degna di apparire! Come va, oggi?» «Noi stiamo bene» disse il vecchio aspramente. Poi si strappò lo stetoscopio dal petto. «Ribelle, eh?» osservò il dottor Amber. «Vediamo di farla finita» disse Sheila. «È durato già troppo.» «Non malato» disse il vecchio. «Voi lasciate me solo.» Fece i pugni e arretrò dal dottore. «Quanti anni ha?» chiese Amber, guardando la faccia rugosa e i capelli bianchi del vecchio. «Più di ottanta» rispose il figlio. «Non ci sono certificati, e lui non se lo ricorda.» «Più di ottanta, dice. Be', allora già questo è un motivo sufficiente» disse Amber. «Permettetemi di dargli un'occhiata, solo una formalità, poi firme-
rò le carte per l'ospizio.» Il vecchio rilasciò i pugni. Guardò suo figlio con gli occhi che gli bruciavano. Non si sentì né tradito né ingannato. Provò solo un senso di tristezza. Si permise una lacrima, una sola lacrima, ed era per suo figlio che non aveva il coraggio di guardarlo. E per la prima volta da quando suo figlio l'aveva sposata, gli occhi del vecchio caddero sulla moglie di lui. Sembrò farsi più piccola sotto il suo sguardo, ma lo sostenne, e il vecchio vi lesse cose nere. Quei due erano privi d'importanza, non facevano veramente parte della sua vita. Il vecchio sì che ne aveva viste di cose importanti: aveva visto il ragazzo, e il ragazzo aveva visto la cerva. E la cerva era stata veduta da loro due e dal Grande Spirito lassù. Il vecchio si allontanò da loro finché la sua schiena fu contro il muro. Allora si mise la mano sul petto e sorrise. Era morto prima che il corpo toccasse il pavimento. «Attacco alle coronarie,» disse il dottor Amber all'uomo dell'ambulanza. «Ho appena firmato il certificato di morte.» «Quelli sono parenti?» chiese l'uomo, indicando con un pollice la coppia seduta in silenzio su due sedie contro il muro. Il dottor Amber annuì e l'uomo andò verso di loro. «È stato meglio così» disse Sheila. «Un uomo vecchio come lui, senza ragione di vita, senza...» «Dove volete che porti il corpo?» chiese l'uomo dell'ambulanza. «Pompe Funebri Vale» disse Sheila. Frank Toro Possente guardava dritto davanti a lui. Non sentiva niente, ma i suoi occhi erano pieni di cose luminose e oscure. «Dove si trova?» chiese l'uomo. «Dove si trova che?» fece il dottor Amber. «Il corpo. Dov'è il corpo.» «Stanza accanto. Sul tavolo.» Il dottor Amber uscì da dietro la scrivania e prese il braccio dell'infermiere, facendolo allontanare dalla coppia. «L'aiuterò a metterlo sulla barella.» Il vecchio che guardava la cerva. Nei suoi sogni aveva sognato la seconda moglie. L'aveva sognata, ma lei era stata reale. Era venuta quando lui si era sentito al colmo del vuoto e dell'amarezza, quando le piume della sua giovinezza gli erano state strappate dalle ali. E gli aveva restituito il sogno.
E in quella seconda metà della sua vita, lontano dal figlio e dalla prima moglie, lui aveva ricominciato daccapo; aveva volato, aveva visto il mondo, e i suoi occhi avevano apprezzato le cose verdi, le sue labbra apprezzato le cose dolci, e la sua vecchiaia era stata calda. Tutto si muoveva, correva ed era luccicante; era una seconda vita, che avevano vissuto senza bambini e senza dèi. Si erano trasformati loro stessi in bambini e in dèi. Ed erano cresciuti, invecchiati nel corpo, ma la morte sembrava più un vecchio amico che un'interruzione. Era come il sonno: e una notte lei si era ammalata. Le era venuta la febbre, e se l'era portata via tranquillamente, mentre dormiva, e lui non aveva pianto né l'aveva seguita. Perché lei l'aveva fatto tornare giovane, e i giovani non capiscono la morte. «L'aiuterò a metterlo nella barella.» Aprirono la porta. Il vecchio guardava il ragazzo e non capiva la morte. E il ragazzo guardava la cerva e capiva la bellezza. E la cerva era contemplata da tutti e due e dal Grande Spirito lassù. Il ragazzo vide la cerva per ciò che era, e come lei divenne grande, aureo e veloce. E il vecchio cominciò a sognare che... La mano di Frank Toro Possente, la mano di suo figlio, gli stringeva la spalla, nient'affatto gentilmente. Aprirono la porta: ma il corpo non c'era più. L'ultima volta che lo videro, il corpo stava inseguendo una cerva che spandeva la sua bellezza nel mondo, e si sottraeva alla vista di un vecchio nel profondo della foresta. IL PUNTO DI VISTA ALIENO (Richard E. Geis) Confrontatevi con l'Alter: quando lui avrà finito, voi non sarete più gli stessi! Dialogo «If» n. 1 Venite con me nel mio scantinato. Seguitemi nei tortuosi corridoi di pie-
tra, sentite sgocciolare l'umidità... drip, drip... Ascoltate l'eco dei nostri passi. E non dimenticate il vostro respiro affannoso, atterrito. Ecco la porta. Faccio scorrere lentamente i pesanti chiavistelli, premo sui cardini arrugginiti. La grande porta di legno fasciata di ferro si apre. Entriamo. Tengo alta la lampada... Lui è là, ingobbito in un angolo su un mucchio di vecchi «Amazing». E mastica le ossa e i tendini di uno sconsiderato autore. Voi gridate, con voce strozzata: «M-ma quello è il t-tuo alter-ego, Geis?» Annuisco cupamente. «Non è un bello spettacolo, ma cose del genere raramente lo sono.» Alter alza la testa e butta un osso di Alan Dean Foster in uno stretto corridoio fiancheggiato da scaffali strapieni. I suoi orribili occhi scintillano, lo sguardo famelico vi fruga, anche se sta parlando con me. «La mia prossima vittima, Geis?» Ha una voce mostruosa, demoniaca, penetrante. «No, Alter, questo è un lettore, un osservatore. È uno di coloro che noi serviamo.» «Allora è così che sono! Credo che abbiamo perso del tempo.» «Non essere cinico, i lettori sono sacri. Sono una specie in via di estinzione e noi dobbiamo proteggerli.» «Credo fermamente nella sopravvivenza del più forte. Lasciali morire, se non sono capaci di cavarsela in questo mondo. Devono farsi furbi, o se no estinguersi.» «Ma dove andremmo a finire, noi, senza i lettori?» «Andremmo a scrivere le didascalie in grassetto per i rotocalchi: "Qui vedete il senatore Bla-Bla. Sta votando per delle buone leggi, perché è un brav'uomo".» «Va bene, Alter. Che consiglio daresti ai lettori per sopravvivere?» «Devono trovarsi roba buona da leggere. Devono smetterla di sorbire le fregnacce che i curatori gli propinano. Che scrivano lettere, che pestino i piedi per avere una dieta migliore.» «E naturalmente tu sai tutto su quello che i lettori vogliono veramente.» «Sì, Geis, ma non fare il sarcastico. Io sono un alter-ego, e me ne sto qui al buio, ma guarda che l'Id prima o poi può perdere le staffe.» «Stammi a sentire. Il signore qui è un lettore specializzato. Un lettore di fantascienza. Quello che lo affascina sono le idee, il senso del meraviglioso, il...»
«Appunto. E qui sta il guaio. Ho letto roba di quel genere fino a farmi bruciare gli occhi, candela dopo candela, porcheria dopo porcheria, mattone dopo mattone, anno dopo anno; te l'ho detto e ripetuto, Geis, la fantascienza è pur sempre narrativa, e la narrativa è una forma di espressione artistica che si basa sulle emozioni. O almeno, così dovrebbe essere. Ma la maggior parte degli scrittori di fantascienza si comportano come se emozione" fosse una parolaccia!» «E io continuo a ripeterti, Alter, che la fantascienza è letteratura di idee!» «Stupido troglodita! Ecco perché i lettori diminuiscono, e i lettori di sf in particolare. Alla fantascienza manca il principale ingrediente della buona narrativa; le idee e il senso del meraviglioso sono fatti intellettuali, e quindi è un saggio la forma che gli si addice di più. Ma la narrativa è dramma, conflitto emotivo, coinvolgimento del lettore nei problemi dei personaggi... Il lettore deve vivere la storia, esserci dentro. Quando è stata l'ultima volta che il personaggio di una storia di fantascienza è stato vivo, per te? Quando è stata l'ultima volta che ti sei minimamente preoccupato se era vivo o morto, o di come andava a finire il racconto?» «Be'...» «Guarda il lettore che mi hai portato. Vedi com'è affamato? Eppure, che cosa gli dànno? Cartone, perdio, storie scombinate senza nessuna conclusione. Come fa un lettore a sopravvivere a una dieta come quella?» «Ma le idee...» «Le idee sono quello che determina la forma della torta, il profumo, il colore, se vuoi, ma le emozioni sono le uova, la farina e il lievito.» «A volte le tue analogie, Alter...» «Sta' zitto, Geis. I lettori sono avidi di emozioni genuine, ma la maggior parte degli scrittori hanno paura di dargliele. O non sanno come trattarle.» «Sei sempre stato un sanguinario. Hai sempre teso...» «Vuoi stare zitto? Quello che voglio...» «Me l'immagino! Tu vuoi racconti "vietati ai minori" nelle riviste di fantascienza!» «Hai perfettamente ragione! Voglio storie - non tutte, ma qualcuna - che facciano l'effetto di un uncino nelle budella del lettore, e che gli lascino la cicatrice per tutta la vita!» «Pretendi troppo.» «Perché? Come lettore ho diritto di calarmi in un personaggio che si preoccupi di qualcosa. Ho diritto di provare dei sentimenti. Non voglio
leggere le avventure di gente senza carattere, senza passioni, senza nome... Figurine di cartone che non hanno nemmeno un corpo.» «Senti, lo sai che il sesso...» «Non è il sesso quello che voglio. Voglio che nella narrativa che leggo ci sia gente che suda, che puzza, che fa le scorregge, che di tanto in tanto fa qualche cattivo pensiero, che mangia troppa torta e ama giocare a pingpong, che guarda con desiderio o indifferenza l'altro sesso, che deve prender nota di tagliarsi i capelli perché se no se lo scorda... E che si comporta in modo eroico e competente (o incompetente) verso i futuri problemi della vita e della morte. Ma in modo realistico. Questo è tutto.» «Non piangere, Alter. Non posso soffrire gli alter-ego disperati.» «Se questo è chiedere troppo, Geis, allora do fuoco a questi Archivi. Io...» «Ehm, d'altra parte ogni tanto c'è della narrativa adatta ai tuoi gusti, nelle riviste.» «Dimmi tre titoli.» «Be', Morire dentro di Robert Silverberg, Project 40 di Frank Herbert...» «Uh-uh. Continua.» «Ebbene... Mmmm... Ray Nelson non ha mica paura di scrivere di veri esseri umani. E qualche volta anche Richard Lupoff e Phil Farmer, e io stesso una volta...» «Non sto parlando di pornografia, Geis. Avanti, dov'è il terzo?» «Ellison! Harlan Ellison si sta facendo una reputazione proprio grazie alle sue fantasie violente, visuali, dirompenti.» «Sì, A Boy and His Dog, dove il ragazzo e il cane alla fine mangiano la ragazza. O Bleeding Stones, dove certe creature di pietra prendono vita in una chiesa a causa dello smog e altri inquinanti e fanno un macello tra una folla di giovani fanatici religiosi. Veramente ironico, veramente importante. Ma quello è realismo brutale, macelleria. Quello che voglio io è realismo onesto, e... Oh, basta. Preferisci che bruci questa robaccia dall'A alla Z o viceversa?» «Be', potresti dare una bruciacchiatina a Stanislaw Lem... NO! Alter, se tocchi uno solo di quei preziosi libri, di quelle sacre riviste, giuro che ti getto nel Buco.» «No, quello no!» (fremito). «Una cosa del genere non la farebbe nemmeno Ted White a Harry Harrison!» «Okay, ci siamo capiti. Comunque non hai niente da temere se ti com-
porti bene. Ricordati sempre una cosa: sono IO il padrone. Tu puoi grugnire e sbocconcellare qualche autore disgraziato qua e là, ma il nostro Dovere è servire e proteggere la fantascienza e la fantasy.» «Aaarghh! La tua abnegazione non è normale, Geis. Mi sa tanto di meccanismo di fuga.» «Non venire a parlare di psicologia a me, Alter. Sai benissimo che posso reprimerti quando voglio.» «Vai avanti. Vorresti reprimermi, eh? Benissimo, accomodati, ho proprio bisogno di una buona vacanza. Niente mi farebbe più piacere che tornare alla mia vecchia collezione di sinapsi. Sono in arretrato di anni col lavoro di catalogazione.» «Passerai ancora un sacco di anni qua dentro prima che mi stufi di te. E adesso finiscila con le tue stupide lamentele sul Vero Realismo in fantascienza! Ne ho piene le scatole.» «Ti odio, Geis, ti odio di un odio che...» «Va bene, finirò io per te. Tu credi che l'eroe, o l'eroina, può portare benissimo a compimento la sua missione e arrivare a una conclusione soddisfacente del racconto pur senza essere un inverosimile campione d'ideali e di virtù.» «Qualcosa del genere. Naturalmente per scrivere una cosa così ci vuole un certo tipo di mente, una certa abilità, mentre il 99% della fantascienza e della fantasy è scritto attualmente da incompetenti...» «Che sacrilegio è questo?» «...Inoltre per qualche strana ragione, Geis, è difficile creare un personaggio onesto, completo, con poche parole, e fargli vivere un'attendibile avventura fantascientifica. Di solito le due cose non vanno d'accordo... Ficcati in testa che se uno sa curare bene un certo particolare della storia non può permettersi di trascurarne un altro. Dev'essere, insomma, un bravo scrittore.» «Ma...» «Perché un bravo scrittore, tuttavia, dovrebbe sprecare il suo tempo con la fantascienza, che paga così poco, o con la fantasy, che paga pochissimo?» «Noi abbiamo dei buoni scrittori!» «Buoni, sì. Dei buoni scrittori pretenziosi, dei buoni pennivendoli, qualche buon compilatore di messaggi umanitari, perfino degli scrittori specializzati. Ma solo due o tre capaci di riunire tutte le qualità e dare qualcosa di veramente consistente.»
«Alter, basta! Stai scioccando il lettore. Guardalo, ha gli occhi larghi e emette piccoli suoni inconsulti.» «Deve pur guardare in faccia la verità, ogni tanto. E la verità è che la buona fantascienza, la fantascienza eccellente, viene scritta solo per caso. Capita che un buono scrittore ogni tanto riesca a raggiungere la vetta e scrivere un capolavoro... o che un giovane talento passi nel nostro genere come una cometa mentre s'invola verso mercati più profittevoli e la fama.» «Ma se questo è vero... perché io colleziono tutta quella narrativa di serie B? Perché non la brucio? È possibile che tu abbia ragione? Ho sprecato le nostre vite? Oh, perché mi hai fatto questo?» «Non fare così, Geis. Odio fare del male, ma so che nemmeno una bomba atomica potrebbe scuotere te. Ti sei scavato una nicchia, in questo ambiente, che dà senso e significato alle nostre vite. Ecco perché lo fai, ammettilo.» «Ti stai spingendo troppo oltre. Bada, ti avverto...» «Okay, okay, ritiro le mie ultime affermazioni. Ma chiudi il Buco, farò solo un paio di osservazioni finali.» «Continua!» «Bene, sono stufo del vuoto realismo - realismo da rotocalco - che è emerso nella fantascienza e in fantasy in questi ultimi anni. È puramente formale, automatico, e insincero: una manciata di imprecazioni che dovrebbero essere colorite, ma che sono pre-censurate, qualche allusione anatomica e un po' di sesso senza erotismo.» «Ma, Alter, le vecchie signore in scarpette da tennis sono pronte a balzare addosso a qualunque editore che pubblichi roba pornografica.» «Geis, razza d'imbecille, io non voglio la pornografia! Voglio solo persone reali, nella fantascienza! Voglio... Voglio Richard Nixon, nella fantascienza! Silenzio scioccato. «Voglio delle vere donne, e veri bambini... e culture credibili, e società future complete. Voglio...» «Andiamo via, lettore. È andato in tilt un'altra volta. Gli succede un paio di volte all'anno, e dopo diventa vanesio e balbuziente. Poi si mette a piangere. Detesto vederlo piangere.» Richiudo la porta e faccio strada verso il piano terra. Sorrido, spengo la lanterna. Adesso conoscete il mio segreto. Forse un giorno o l'altro vi porterò di nuovo a visitare Alter, se promettete di non credere a una parola di ciò che dice.
UNA MISSIVA GRADITA, CHE SIETE I PRIMI A LEGGERE. L'altro giorno (8 maggio, per essere precisi) Philip K. Dick mi ha scritto una lettera e desiderava che gliela pubblicassi. Pensava che l'avrei inserita nella posta di «The Alien Critic», ma qui ha un pubblico più ampio, per cui mi piace ospitarla in questa rubrica. «Caro Dick, «volevo segnalarti che in Inghilterra la rivista di fantascienza "Foundation" sembra seguire le tue orme nel proporsi come foro di tutti i tipi di commenti significativi (e insignificanti, se è per questo) sul mondo della fantascienza, quale ne sia la provenienza. "Foundation" ammette che per fare una cosa del genere ci vuol un certo coraggio: io credo che tu lo abbia, e voleva dirtelo. «Ci sono persone in Inghilterra che citano "The Alien Critic" come la rivista su cui si può leggere questo e quest'altro, quindi continua pure sulla tua strada. Secondo me stai facendo un grosso lavoro, e "Foundation" fa o farà la stessa cosa per gli inglesi. «Già che ci sono potrei parlarti del nuovo romanzo che ho in mente di scrivere: tratta dell'industria discografica, con cui ho avuto a che fare per circa sette anni (nel senso che vendevo i dischi). Credo che sarà un romanzo di fantascienza e che lo ambienterò nel futuro. I solchi della mia memoria, per esprimermi così, non hanno dimenticato niente di quel periodo: bustarelle, veri e propri furti e come al solito le grandi catene di vendita all'ingrosso che divorano il piccolo dettagliante. «Provvisoriamente chiamerò la casa discografica Dogshit Records, Inc. (Merda di Cane Spa): in sigla DRI, come EMI, RCA, MCA eccetera. Sto cercando di cristallizzare nella mia testa la storia di un androide il cui agente è un altro androide, e nessuno dei due sa che l'altro è un invasore. (C'è una sorta di finale a sorpresa, ma la cosa più importante è mostrare al lettore come funziona dall'interno una certa industria, usando il genere narrativo che io tendo a scrivere di solito e che lui tende a leggere.) L'agente musicale dell'artista si chiama (sei pronto?) Skim Morewithit, e così via. Si parla di imbrogli sui diritti d'autore, e di tutte le altre amenità che oggi come ieri fanno parte dell'industria discografica. Quanto all'ambientazione, non ho ancora deciso. Magari su Giove, perché sarà (ahem) un romanzo pesante.»
Il mio commento. «Foundation» è una rivista che migliora continuamente, minacciata come un topolino dal gatto che sono i suoi lettori e finanziatori accademici, e dalla trappola della popolarità, del bisogno di abbonamenti, che possono venirle solo dai fans e dai lettori abituali di fantascienza, i quali di solito danno un'occhiata al suo contenuto dottorale e scappano via. L'attuale curatore della rivista è Peter Nicholls, uomo colto e acuto che sta cercando di trovare una sua strada a metà fra le analisi tipicamente accademiche e quelle troppo «popolari» che si trovano altrove. Ora come ora trovo «Foundation» troppo pomposa e schifiltosa, ma è noto che io ho una testa così piccola che la gente stenta a vederla. Gli abbonamenti a «Foundation» costano sei dollari per quattro numeri, 10 dollari per posta aerea. Indirizzo: The Administrator, The Science Fiction Foundation, North East London Polytechnic, Longbridge Road, Dagenham, Essex RM8 2AS, Inghilterra. Quanto al progettato romanzo di Phil (che io spero scriva, ma temo che sia tutto uno scherzo) invita a divertenti speculazioni sul titolo; personalmente suggerisco Giù nella disco-babele, $ 5,95 RPM' o Episodio discorale (senza doppi sensi). «Dall'inizio della storia» disse Orlo, «il mondo è stato dominato da circa il 5% dei suoi maschi. Aggiungeteci un altro quindici per cento tra sostenitori e collaboratori, non è questo il fattore determinante. Del restante 80%, il 7 o l'8% sono "diversi". Resta più del 70% di persone, e costoro rappresentano la grossa fetta di uomini normali, laboriosi, che si sposano, mettono su famiglia e non divorziano che per buone ragioni. Ora, si è scoperto che questo settanta per cento accetta sostanzialmente l'immagine pubblica e visibile del governo.» (da Dittatura 2200 di A. E. van Vogt). THE WI(ZARD) OF (OZ) = PARLIAMO DI ZARDOZ Sono proprio sfortunato. Un vecchio amico mi è venuto a trovare, l'altra sera, e per non essere costretto a giocare a scacchi con lui e ascoltare i suoi infiniti guai (che non mi sono stati risparmiati comunque) ho proposto di andare a vedere Zardoz, il film di sf tanto reclamizzato che davano al TriCinema di Jantzen Beach. Così ci siamo incamminati lungo la piana che costeggia il fiume, coperta
di nuove costruzioni, case mobili, alcuni motel e centri-acquisto multimilionari (ma che succederà uno di questi anni se una gran massa di neve si scioglie e provoca un'inondazione? Io dico che sarà il disastro totale, col fiume Columbia che non aspetta altro; e non chiedetemi se una casa mobile 20 X 60 saprà restare a galla). Abbiamo fatto il tragitto nella vecchia Bechsmog Eight del mio amico e pagato i due dollari e mezzo alla cassa. (Uno dei motivi per cui scrivo questa recensione è che potrò farmi rimborsare i soldi come spesa di lavoro. Tanto mi deve il destino.) Zardoz è stato scritto, prodotto e diretto (non ha proprio scuse) da John Boorman. Ed è un pasticcio tremebondo, repellente e pretenzioso. Ho apprezzato le veloci inquadrature di ambienti fantascientifici, che denotano familiarità col nostro armamentario, ma il guaio è che Boorman è riuscito ugualmente a sprecare tutto. La storia si snoda e vacilla attraverso una serie di gratuiti omicidi, stupri, assalti, un certo asettico nudismo (tutte le donne hanno le tette piccole), rapporti fasulli, buffe scene che trattano i problemi dell'erezione maschile e una scienza che sconfina nella magia. In breve, si racconta di un piccolo gruppo d'immortali (gli Eterni) che vivono in un futuro lontano da noi 300 anni e che si sono appartati in una sorta di cittadelle paradisiache fortificate, intorno alle quali si stendono lande selvagge e desolate. Gli Eterni si autodefiniscono depositari della civiltà, e infatti si tramandano la scienza, le arti e la letteratura, unici testimoni del mondo scomparso in un gigantesco olocausto. Tra le altre cose fanno uso di una grande testa di pietra, che chiamano Zardoz, per comandare un gruppo di assassini dell'Esterno che obbediscono alla testa come a un dio. Gli assassini vengono condizionati a uccidere i miserabili superstiti delle antiche città, i quali potrebbero rappresentare un pericolo per gli Eterni. Un assassino mutante (Sean Connery) si introduce clandestinamente in Zardoz durante una delle sue periodiche visite per distribuire armi, rinforzare il condizionamento e prendere in cambio un carico di grano. Zed (Connery) e i suoi compagni mutanti sono arrabbiati a causa del recente ordine di Zardoz di non uccidere più i superstiti, ma di farli schiavi per obbligarli a coltivare il grano. Gli Eterni infatti non sono in grado di far crescere tutto il cibo necessario nelle loro cittadelle (che vengono chiamate vortex). Zed, introdottosi nella testa di pietra, uccide l'Eterno che la comanda e atterra insieme con Zardoz in un vortex (anche senza pilota il dio di pietra
può essere teleguidato da un computer). Qui viene catturato dagli Eterni, che non vanno certo per il sottile: verrà sottoposto a esperimenti, esaminato («Che bestia interessante»), ma a sua volta li condizionerà, imprimendo alla loro fragile società uno sconosciuto afflato anarchico. A complicare le cose c'è un computer nascosto, e autocosciente, usato da tutti i vortex e chiamato Tabernacolo. È in grado di dispensare qualunque tipo di conoscenza scientifica tramite una serie di magici anelli. Tra gli Eterni c'è una specie di odio/amore per la morte. Per ogni colpa commessa, o peccato, i membri di questa società vengono processati e fatti invecchiare un poco, ma non è loro mai permesso morire. Potrei continuare a descrivere gl'intricati elementi collaterali della trama, come ad esempio la mancanza d'impulso sessuale negli Eterni a causa della noia e dell'ultra-intellettualismo, o la loro capacità (grazie all'aiuto del computer e allo sviluppo dei poteri psi) di ricreare se stessi se accidentalmente uccisi o feriti, o ancora la loro considerazione di qualunque abitatore dell'Esterno come un semplice animale intelligente... In ogni caso, alla fine Zed scopre il computer nascosto, lo «uccide» e spalanca le porte ai suoi amici assassini. In un'orgia di sangue i mutanti massacrano tutti gli Eterni, meno un gruppo sparuto. E questo dimostra che gli Eterni hanno avuto finalmente ciò che inconsciamente e filosoficamente volevano, perché erano stati essi stessi a creare nei mutanti i semi della loro distruzione. I vortex, Zardoz e il Tabernacolo erano il male, non appartenevano più all'umanità. Tuttavia Zed e la sua Eterna favorita sfuggono alla carneficina, e in alcune sequenze di stop-motion tipo 2001, che mostrano lo scorrere del tempo, allevano un bambino, si fanno vecchi e muoiono. Molto simbolico e artistico. Zardoz è goffo, copiato, stupido e inetto. Probabilmente è il miglior candidato al titolo di Peggior Film dell'Anno. Se lo andate a vedere avrete vergogna di voi stessi quando uscirete dal cinema. L'uomo immaturo ride della dabbenaggine altrui. L'uomo maturo ride di se stesso. Il saggio sorride del mondo, ma l'uomo superiore strumentalizza l'immaturo, il maturo e anche il saggio. Se sapessi come terminare questa rubrica, lo farei.
LA DISCESA DELL'UOMO (J. A. Lawrence) L'uomo, l'orgoglioso uomo rappresenta il culmine di migliaia d'anni di evoluzione... Quello che a Mellett piaceva di Knabe era il suo aspetto archetipale: fronte sporgente, vaghi occhi blu, abiti casuali, raccogliticci; tutto proclamava il suo genio. E, quel che più conta, lo era davvero. Le sue invenzioni gli avevano fruttato denaro sufficiente per permettersi un laboratorio personale in casa, completo di autoclave, refrigeratore con freezer, microscopio elettronico, un'officina, un'assistente qualificata, e, come se tutto questo non bastasse, un generatore autonomo, che il professore si era fatto installare quando si era stufato delle interruzioni casuali nella rete di Springfield. I giovani laureati di Springfield raramente giungevano a tanto, e Mellett era onorato dell'amicizia di Knabe. Sfortunatamente Knabe aveva dimenticato di provvedersi di un'adeguata Bella Figliola; per fortuna la sua assistente Miss Lockwood era un magnifico sostituto, anche se un pochino raggelante. Mellett bussò due volte e spinse la porta che conduceva al laboratorio nel seminterrato. «Salve, Eschsholzia» disse timidamente. La bella testa-rossa dal camice immacolato alzò gli occhi dal microscopio, sorrise e con la mano gli indicò la porta interna. Mellett sospirò. A volte pensava che avrebbe trovato perfino il coraggio d'invitarla a cena, se solo lei gli avesse lasciato il tempo di farlo. Ma era eternamente occupata, e oggi non era diverso dagli altri giorni. «Knobby è qui?» domandò, rassegnato. «Sul retro» gli rispose lei, tutta assorta, mentre con una mano prendeva appunti e con l'altra regolava lo strumento. «Ci vediamo dopo.» Aha! Le cose stavano migliorando, allora. Si fece strada con passo leggero verso la porta del laboratorio, scansando tavoli ingombri di carte polverose, storte, alambicchi, astrolabi, elettro-encefalografi e altri detriti scientifici. «Hai portato i potenziometri transtemporali che ti avevo chiesto?» Mellett cercò lo scienziato con lo sguardo, e alla fine lo vide sepolto sotto una matassa di fili che riempivano un'estremità della stanza. «Non li hanno ancora inventati, Knobby» rispose lui mortificato. «Sono spiacente.»
«Inferno e dannazione. Oh, be', suppongo che posso... Sì, collego questo, quest'altro, e... Là. Aspetta un minuto... Sì, dovrei farcela. Dannazione, ma perché fanno dei cacciavite così schifosi? Guarda qua, il manico si è allentato. Fatto, comunque!» Sgattaiolò da sotto l'Invenzione e si diresse verso Mellett. Oggi aveva calze più strane del solito: in effetti una delle caviglie era nuda. «Non mi dici che cos'è?» disse Mellett. L'ultima era stata il (D)emolitore (E)lettro-(C)inetico di (I)mpulsi (D)istruttivi (E) (T)erribili a (E)ffetto (VI)brante, che, trasmesso su una frequenza di onde corte, aveva indotto tutti i paesi del mondo a firmare un trattato di pace eterna e a gettare tutte le armi nel sole. L'unico effetto collaterale negativo era stata una lieve interferenza col ciclo delle macchie solari, durato del resto solo trenta secondi. Prima di quello c'era stato il Modulatore Alimentare Neo-Nutriente Autorizzato, in grado di produrre un delizioso alimento dai rifiuti di plastica. Mellett, quindi, non stava nella pelle. «Siamo pronti, finalmente. C'è voluto molto più tempo di quello che mi aspettassi, ma alla fine dopo sei mesi di duro lavoro ci siamo. Tsk-tsk.» Il grande scienziato aggrottò le sopracciglia. «Lo so. Contavo i minuti.» «Ehm, Robert, non farlo mai se non hai sottomano un (O)mologatore (R)egolamentare (O)steo-(L)infometrico a (O)nde (G)eo-(IO)niche. Te ne ho mai dato uno?» Si grattò la pelata lucente. «Sì, Knobby.» Mellett ripensò con un brivido all'enorme macchinario nell'elegante custodia di tek che occupava la maggior parte della sua camera da letto. Registrava il tempo soggettivo e non conteneva alcun tipo di suoneria. Lui ci teneva sopra il suo Baby Ben e le spazzole per capelli. «Bene, è arrivato il gran momento» disse Knabe con semplice orgoglio. «Dov'è quella ragazza? Non è mai in giro quando la cerco. RAGAZZA!» «Sta lavorando. Posso aiutare io?» «No, no, adesso dobbiamo festeggiare. Miss Cosa... ehm, Miss Jones!» Mellett disse in tono di rimprovero: «Oh, Knobby, ma il suo nome è Lockwood. Eschsholzia Lockwood. Dovresti saperlo, dopo tre anni». «Ma perché credi che paghi quella ragazza?» disse lo scienziato, suscettibile. «È compito suo rammentarmi i dettagli... ah!» «Sì, dottor Knabe?» I capelli di rame brunito, il volto d'alabastro si affacciarono alla porta. «Brindiamo. È finito.» «Finito?» Era immobile, i begli occhi verdi spalancati. «E... e funzio-
na?» «Certo che funzionerà. Tutte le mie invenzioni lo fanno. Portaci qualcosa da bere, brava ragazza.» Mellett si sforzò di restare calmo, nonostante quei modi insopportabili: trattare così una ragazza intelligente quant'era bella, una dottoressa in filosofia che si era adattata a fare la segretaria, la centralinista, l'assistente e l'inserviente! Lui aveva notato il lampo di risentimento, subito controllato, nei grandi occhi di smeraldo. Lo notava ogni volta che Knabe si faceva arrogante. Eppure era una ragazza straordinaria, che si prendeva cura del laboratorio e lo teneva sempre rifornito di tutto ciò che poteva servire allo scienziato, prima ancora che questi lo domandasse. Il vecchio riteneva che tutto gli fosse dovuto. A volte Mellett credeva vagamente di capire che cosa voleva il Movimento di Liberazione della Donna... d'altra parte, Knabe non era un uomo. Era un genio. Lei tornò con un carrello su cui poggiavano tre bicchieri di liquido schiumante. «Etanolo caldo» disse la ragazza, passandolo in giro. Non era male. Quand'ebbero brindato ai successi dell'ammasso di fili, Mellett disse: «E allora, non vuoi dirmi di che cosa si tratta? A quanto pare Miss Lockwood è già informata». «Non l'ho detto ancora a nessuno.» Knabe trasse un profondo sospiro e reclinò la testa. «Tu sai che il cervello umano non è finito. Che milioni di sentieri neurali aspettano la definitiva evoluzione dell'uomo. Si tratta di un potenziale illimitato, ma ora finalmente saremo in grado di scoprire qual è la vera potenza della nostra mente. «Questo» e indicò con la mano ossuta l'intrico di fili, «è il prototipo del Bioencefalografo Operativo Hertziano: aprirà all'uomo le porte del completo sviluppo cerebrale!» Mellett era impressionato. Eschsholzia ruppe il silenzio. «Ne è sicuro, dottor Knabe?» «Certo che sì.» «Allora mi offro volontaria.» «Tu?» «Io. Perché no?» Già, perché no, pensò Mellett ammirato. Che donna straordinaria! Che forza di carattere! Knabe andò sulla difensiva. «Veramente avevo pensato di... ehm, usare un cervello che avesse già raggiunto il possibile optimum... In realtà non
volevo... Senza offesa, credimi...» Mellett esplose: «Che ti prende, Knobby? Che pretendi di più? Miss Lockwood ha tutto quello che ci vuole: bellezza, intelligenza, buon senso, equilibrio... Non potresti provare di meglio!». «Oh, ehm, grazie» . disse Eschsholzia, arrossendo. «Va bene, va bene. Ma... vediamo, potremmo fare giovedì?» La sua segretaria confermò l'appuntamento. Mentre uscivano Mellett disse: «Posso invitarla a cena?» «Ne sarei felice» disse la ragazza. A cena lui fu audace. «Ci ho pensato, sai. Non credo che dovresti farlo.» «E perché no?» chiese lei, sorpresa. «Potrebbe essere pericoloso, danneggiarti il cervello.» Eschsholzia rise. «Sciocchezze. Era pronto a sperimentarla lui stesso, e non credo che Knabe sia tipo da rischiare la testa. No, sono stanca di essere sempre la seconda in tutto. Una donna deve fare il doppio della fatica per arrivare a metà strada rispetto a un uomo, e ... aspettavo un'occasione come questa.» «D'accordo, ma non mi piace» insisté Mellett, testardo. Lei sospirò. «Suppongo che dovrei chiederti perché non vuoi che subisca il cambiamento.» «Be', in effetti. Vedi, ora sei una donna già perfetta, ma che possibilità avrei se...» «Potresti fare anche tu il trattamento.» «Io...» Si fermò. No, lui non aveva il suo fegato. «Vedi?» disse lei. «Alcuni di noi non hanno niente da perdere. D'altra parte che cosa potresti offrirmi tu che valga l'opportunità di sviluppare fino ai limiti estremi la mia mente? Oh, non prendertela. Volevo solo dire che nessun rapporto sentimentale potrebbe competere con quello.» Guardava il caffè con gli occhi sfolgoranti. «Come sarà, mi domando? Le funzioni del cervello sono così complesse, e il futuro dell'evoluzione così misterioso...» Quando gli elettrodi furono rimossi dalla testa parzialmente rasata di lei, Mellett lasciò cadere il ricciolo rosso che aveva stretto per l'apprensione. «L'hai uccisa. Oh Dio, chiamiamo un dottore...» «Sta' calmo, va tutto bene. Mi chiedo se quei potenziometri... No, ecco che rinviene.»
La sistemarono sul decrepito divano di Knabe per aiutarla a riprendersi. Lei si stiracchiò e Mellett cercò ansiosamente sul suo volto il minimo segno d'animazione, mentre Knabe tirava tranquillamente qualche boccata di pipa. «Si muove» disse Mellett. «Sì. Mmmm.» «Oh, Eschsholzia, come ti senti?» Mellett cadde in ginocchio su una matassa di cavo attorcigliato. «Tutto bene... La mia testa. È divertente. Lasciatemi sola un minuto. Ugh!» Si stiracchiò. «Ma che cos'ha? È malata, Knobby, chiama un dottore!» Poi lei disse debolmente: «Che cos'è questa puzza?». I due uomini non sentivano altro che i soliti odori: tabacco, etere, disinfettante, ozono. Ma lei boccheggiò: «Aria! Aprite la finestra!» Knabe le si avvicinò, mentre Mellett pasticciava con la finestra della cantina e rompeva la chiusura nello sforzo di aprirla. Aria fresca - e fuliggine - si riversarono dentro contemporaneamente; la ragazza inalò a fondo e cominciò a tossire. «Portiamola di sopra, qui c'è veramente un'aria viziata.» Mellett la sollevò, ancora ansimante, e la portò in salotto, dove fu possibile adagiarla su un sofà. Poi aprì la finestra a doppio battente. «Va meglio?» Adesso respirava più normalmente. Disse: «Oh, quest'orribile puzza. Non potete fare qualcosa?» A Mellett l'aria sembrava fresca e pulita, e non c'era nemmeno molto traffico in strada. «Hmmm, un effetto a cui non avevamo pensato ma in realtà prevedibile» disse Knabe con interesse. Eschsholzia sembrava tranquilla, benché il suo naso incantevole fosse arricciato dal disgusto. Se non altro, aveva smesso di tossire. «Vuoi bere qualcosa?» «Un po' d'acqua, per favore.» L'acqua, inghiottita avidamente, le provocò uno spasmo. «Ha lo stesso sapore' della puzza. Voglio dire... credo che l'esperimento mi abbia alterato i nervi olfattivi.» «Sì, certo» disse Knabe, «tutte le connessioni nervose sono state alterate. Dovrai rimanere qui qualche giorno, per permetterci di prendere gli appunti del caso.» «Oh, no» replicò lei debolmente. «Non potrei proprio.»
«Va tutto bene, credimi, Knobby sa quello che fa» s'intromise Mellett. Lei gli scoccò un'occhiata d'impazienza: «Oh, per l'amor del cielo, ma non capisci? Non sopporto questa puzza, e il sapore dell'acqua. Devo andare nella mia casa di campagna, quella che mi ha lasciato mio fratello... Ma deve proprio fumare?» Knabe mise via la pipa che aveva appena estratto da sotto il cuscino della poltrona. «In tal caso verrò con te» disse. «Credi di poterti alzare, ora?» Lei si mise a sedere lentamente. «Sì, va tutto bene. Mi sento la testa ovattata, e mi fa male, ma devo assolutamente andarmene da quest'odore.» La macchina di Mellett, naturalmente, non le rese le cose più facili. Il giorno dopo, quando Mellett arrivò con una bottiglia di vino per vedere come stava, trovò Knabe immerso nel suo secondo quaderno di appunti, e seduto al tavolo di cucina. «Affascinante, affascinante» gli disse, agitando una mano. «Che cos'hai scoperto? Lei sta bene?» «Oh, sì, un esemplare in perfetta salute. Gli effetti iniziali stanno sparendo: mi aspetto grandi cose!» «Dov'è adesso?» «Là sopra.» Knabe fece un gesto vago a indicare il soffitto. Presumendo che volesse dire la camera da letto al piano superiore Mellett si diresse verso la scala. «Ehi, Bob!» Si guardò intorno. «Quassù!» Si lasciava penzolare per le ginocchia dalla buonagrazia in legno delle tende. «Che ci fai lassù?» chiese Mellett, deglutendo nervosamente. Lei indossava un bikini verde. «Stavo schiacciando un sonnellino, naturalmente.» Venne giù, atterrando graziosamente sulle braccia e sulle gambe. «Un sonnellino sulle tende?» «Mmm, è molto più riposante.» «Ah... e il problema dell'olfatto?» «Oh, è ancora spaventoso, ma ho imparato come evitarlo respirando in un certo modo. A parte questo mi sento piuttosto bene. Vedo e sento molto meglio.» Si diresse a piedi nudi verso la cucina. «Ti preparerò qualcosa di buono da bere. È una cosa che ho appena scoperto.» Mellett seguì con ammirazione il tragitto del bikini verde. Di colpo lei fece un salto e si volse alla finestra, dando la schiena alla
parete. «Che succede?» chiese Mellett, strabiliato. Lei si era piegata in avanti, in una posizione marziale, ma adesso si rilassò. «Oh, niente, ma è passato un aeroplano. Mi dispiace, torno fra un minuto.» Quando lui entrò in cucina Knabe disse: «Non aspettarti alcool. Non lo approva». La bevanda era in effetti a base di latte: latte molto cremoso. «Non è una delizia?» fece lei. «Oh, Knobby, di nuovo quell'effetto caudale!» «Effetto caudale?» Mellett si augurò di non aver sentito bene. «Continuo a desiderare di muovere la coda, specialmente quando voglio intensamente qualcosa, come quella bevanda» gli spiegò candidamente. «Stammi a sentire, che diavolo le hai fatto?» chiese Mellett allo scienziato. «Che accidenti ha a che fare la... la sua coda con l'espansione cerebrale?» «È ancora troppo presto per dirlo» ammise Knabe. «Ma sta bene, molto bene, e io prendo nota di tutto.» «E poi mi diverto. Non mi sono mai sentita così in forma» disse Eschsholzia. Sedette, un movimento quasi fluido, piegando le gambe sotto di sé. Mellett scoprì che quella combinazione di latte, fatti di cui non capiva nulla e Eschsholzia quasi nuda lo rendeva nervoso. Lei sembrava intelligente come al solito, ma nella sua prestanza fisica c'era qualcosa di diverso. Poco dopo se ne andò, promettendo di rifarsi vivo quanto prima. La volta successiva le portò delle rose. «È fuori, in giardino» disse Knabe che gli aveva aperto la porta. Aveva uno sguardo preoccupato, e una ruga profonda gli segnava la fronte. «Non mi vergogno ad ammetterlo, Bob, ma non capisco quello che sta succedendo.» Per fortuna il giardino era riparato: Eschsholzia era fuori, come aveva detto lo scienziato, ma del bikini non c'era più traccia. Era... «Mamma!» disse Mellett con ammirazione. «Già, già» fece Knabe. «Be', va' e parla con lei.» Si stava rotolando nell'erba, sulla schiena. Mellett deglutì e cercò la porta laterale. «Non credo che potrei. Non sono abituato... Ma non potrebbe mettersi qualcosa?»
«Non vuole. Sono due giorni che disdegna i vestiti. Dice che la irrita: be', fortuna che è estate.» In un inutile tentativo di appannare quella visione raggiante Mellett inalberò un paio di occhiali da sole. Se non altro non si sarebbe visto il suo sguardo imbarazzato. Lei era una rossa naturale. «Salve!» gridò, mettendosi a sedere. Con una torsione spettacolare si spazzolò l'erba rimasta attaccata alla spalla. A Mellett caddero gli occhiali da sole. «Ti sei fatto tutto rosso» osservò Eschsholzia. «Hai già preso troppo sole? Maledizione, ho beccato una spina!» Si portò il piede alla bocca e succhiò coi denti, premendo con le dita sul graffio. Mellett pasticciò con gli occhiali (non riusciva a districare le stanghette) e finalmente se li sistemò sul naso sudato. «Ahem... salve. Come va?» «Va...» (addentò il dito) «... magnificamente. Aah, fatto.» Diede un'ultima leccata al piede e lo mise giù. «Ma Knobby è tutto sossopra, a lui non piace.» «Non gli piace cosa?» chiese Mellett cauto. «Quello che è successo, il funzionamento della macchina, non so.» Si stese supina e strappò un filo d'erba; una farfalla le si posò sulla coscia, ma la pelle tremò e l'insetto volò via, seguito dagli occhiali da sole. «Tu sai che non ha funzionato, allora?» disse Mellett, cercando di tenere gli occhi chiusi. «Oh, sì. Per una volta ha sbagliato, ma lui non lo ammetterà mai: dice che è colpa dei potenziometri transtemporali, ma questa è una scusa.» Aperti gli occhi, dato che lei si stava massaggiando i capezzoli con l'erba, Mellett mormorò: «Che cos'è andato storto, allora?» «Tutte le parti del cervello che non usiamo... non sono potenzialità che metteremo a profitto in futuro, sono gli scarti dell'evoluzione. Attualmente io posseggo i riflessi, i sensi, gli istinti che abbiamo perduto nel corso di migliaia d'anni d'evoluzione. Posso sentire l'odore delle persone a un isolato di distanza. Credo che sarei capace di pescare con le mani nude. E naturalmente posso muovermi a velocità maggiore: guarda!» Si mise a sedere, le sue mani volarono nell'aria e si richiusero. Le avvicinò a Mellett, che stavolta fu costretto a guardare, e quando le aprì ne uscì un moscerino. «Ma questo significa...» «Povero Knobby, sì. Il cervello dell'uomo si è già evoluto al massimo, abbiamo raggiunto la fine del percorso. Peccato. Ma tant'è... Che strani a-
nimali sono i maschi! Comunque adesso non sono in calore, perciò dimenticalo.» Mellett si sentì avvampare, diventò scarlatto e dovette correre via. Nel cottage Knabe guardava con aria sconsolata il bicchiere di latte cremoso. Chiese: «Te l'ha detto?» Detergendosi il volto in fiamme Mellett rispose: «Sì. Ma dice che tu non ci credi». «E come potrei? È impossibile. Il cervello è fatto per svilupparsi molto più di... di questo...» Guardò tristemente Mellett, senza trovare le parole. «Forse non è tanto male, dopotutto. Non mi sembra che lei ne soffra, e in fondo non ha perso niente.» «Oh, lei sta bene: un animale pieno di salute. Non mi preoccupo di lei...» Abbassò la voce: «Ho sempre pensato che le donne avessero capacità corticali limitate, per questo volevo che il primo soggetto fosse un uomo. Se fosse stato un uomo si sarebbe visto che avevo ragione». Mellett guardò di nuovo dalla finestra: Eschsholzia era stesa al sole, la schiena arcuata per ricevere meglio il calore, assolutamente desiderabile... «Io» disse con fermezza. «Io sono la tua possibilità. Andiamo.» Knabe batté gli occhi, gridò a Eschsholzia che si allontanava un po' ma che sarebbe tornato presto, e sotto l'energica stretta di Mellett che gli teneva il gomito si lasciò trasportare al laboratorio. «Mi fa male la testa, e sento una terribile puzza» disse debolmente Mellett. «Per l'amor di Dio, metti via quella pipa. Etcì!» Bisognava cambiare aria, o si sarebbe sentito male. Poi capì che c'era un sistema per escludere il tremendo odore. Cominciò a respirare con la gola, bloccando le narici. Adesso andava molto meglio, ma parlare in quelle condizioni era difficile. Riposò una mezz'ora, poi Knabe disse: «Non posso lasciare Miss Jones sola tanto tempo. Dobbiamo tornare da lei». Sorridendo, Mellett disse: «Benissimo, andiamo pure». Si alzò con cautela, notando lo spaventoso disordine del posto: il Bioencefalografo Operativo Hertziano tutto aggrovigliato sul pavimento, polvere, rifiuti, impronte d'insetti sulle pareti e sul soffitto... Ugh. Eschsholzia venne alla porta avviluppata in un asciugamani. «Ah, siete voi» disse, buttando l'«indumento» su una sedia. Con molta cautela Mellett riaprì le narici super-sensitive. Lei era fantastica. Stranamente notò che i suoi sentimenti erano di calore, tenerezza, ammi-
razione, senza la tensione del desiderio. E questo perché lei non era in calore. Due giorni più tardi dissero a Knabe: «Siamo spiacenti, Knabe, ma è proprio vero. Le porte che volevi aprire alla mente si aprono, ma danno sul passato. L'Homo Sapiens, nudo o coi calzini, è proprio l'ultima tappa». Knabe raccattò i diciotto fitti notes di appunti e una calza in condizioni pietose, poi disse cupamente: «Tutto a causa dei potenziometri, lo sapevo. Ma d'ora in poi niente più improvvisazioni: dovrò prima inventarli, e poi ricominciare tutto daccapo». Uscì, borbottando, e chiamò un taxi. Mellett e Eschsholzia gli fecero ciao. «Forse avremmo dovuto parlargli dell'acqua.» «No» disse lei. «Sarebbe stato troppo poco cortese. Ah, quanto ci divertiremo! Mi sono sempre chiesta che effetto fa essere un anfibio!» «Pensa, avremo una vita magnifica! Quel gruppo di ricerca sui delfini ci pagherà qualunque somma!» «Lo credo bene. Non troverebbero una coppia come noi in nessun altro posto al mondo.» Risero, poi corsero in giardino, leccandosi il sale l'uno sulla schiena dell'altra. Era bello stare al sole. Quando Mellett le rotolò addosso e le morse il lobo di un orecchio, lei sussurrò: «Sai, credo... credo che sia arrivata la stagione calda». IL DONO DELL'ANGELO (Raccoona Sheldon) Tutto ricade sempre sulle spalle dei bravi ragazzi. Fu quasi una coincidenza se, quando un alieno finalmente arrivò sulla Terra, si imbatté in un bravo ragazzo. L'alieno era intento a ripiegare il suo veicolo comprimibile nei pressi della casa di Martin Brumbacher Senior quando il giovane Marty sbucò da dietro un gruppo di ontani e lo vide. «Ciao» disse Marty un po' incuriosito, guardando il casco giallo dell'alieno, le speciali tasche sulle gambette smunte e la massa di materiale comprimibile sul terreno. «Sei qui per un rilevamento?» «Como sta Usted?» disse l'alieno. «Ich bin ein Berliner. Mukka hai!» Poi si diede una botta sul copricapo. «Ah, finalmente! Sì, diciamo che so-
no qui per un rilevamento. Ti dispiace tenere questo lembo?» Passò un'estremità dello strano materiale che sembrava un telo a Marty, e fece qualche passo indietro per tenderlo, stringendo l'orlo fra i suoi denti da umanoide. Per piegarlo dovette tirare un calcio nella parte centrale del telo: lui non era molto più alto di Marty. «Sicuramente avrai qualche macchina potente» disse Marty, tenendo stretto il suo lembo, «che assomiglia a un disco volante». «'on 'i sopravvalutare.» L'alieno si liberò la bocca e scosse la testa. «Non danno molto affidamento.» Finalmente prese anche l'estremità di Marty. «Il nostro frullatore si guasta tutte le volte» disse Marty con simpatia. Poi guardò da vicino la mano dell'alieno e strabuzzò gli occhi. L'alieno pigiò il telone compresso in una specie di vescica che subito diventò un bozzo, vi ficcò qualche altro oggetto personale e vi si sedette sopra, fissando Marty con gli occhi castani di sopra i baffi a spiovente. Il bozzo si sgonfiò gemendo leggermente. Marty guardò da un'altra parte. «Bel posticino, qui» osservò l'alieno respirando a pieni polmoni. «E c'è un sacco di fremth. Quelle le chiamate vacche, giusto? Credevo che fossero estinte.» «No, quelle sono Ayeshire.» Marty deglutì un paio di volte. «Ehm... Benvenuto sulla Terra. Suppongo.» «Ehilà, grazie!» L'alieno sogghignò e gli tese la mano. Aveva un bel modo di sorridere, e Marty gliela strinse: era abbastanza «normale», solo più calda. «Immagino che tu voglia vedere il Presidente o qualcuno del genere.» «Oh cielo, no, sono qui in viaggio di piacere. Nessuna formalità, prego.» L'alieno guardò Marty con occhio indagatore, poi si rilassò e sorrise, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco. «Vedo che tu sei uno dei bravi ragazzi.» «Che vuoi dire?» «Ho solo dato una controllatina al mio Vibremecum Etico.» Si indicò il cappello. «Hai un punteggio veramente alto. Sei onesto, coraggioso, gentile, dici la verità... insomma, vai bene su tutta la linea. Buon per me. Voglio dire, c'è un mucchio di gente ostile agli stranieri.» Scrollò le spalle, come per scusarsi. «E io non ho nessun raggio segreto o roba del genere.» A guardarlo, Marty non stentava a crederci. «Già, non sarebbe stato altrettanto piacevole se fossi atterrato vicino alla taverna di Matt. O sotto il naso dello sceriffo.» L'alieno annuì, un po' triste. Ma si rallegrò presto: «Noi abbiamo un det-
to: ogni bravo ragazzo conosce almeno un altro bravo ragazzo. Voglio dire, mi piacerebbe avere qualche scambio mentre sono qui, se conosci qualcun altro disposto ad accettarmi». Marty ci pensò un momento. «Be', credo che Whelan ti accetterebbe. Ho visto la sua macchina vicino al torrente, ma lui non è uno importante, è solo il guardacaccia.» L'alieno ammiccò. «Sta pure scritto: i bravi ragazzi non sono arufapoppòl. Portami dal tuo amico.» Così Marty condusse l'alieno verso il torrente, facendogli al tempo stesso milioni di domande sul posto da cui veniva eccetera; l'altro rispondeva come poteva, non essendo l'astronomia il forte del ragazzino. Vicino all'ingresso del pascolo c'era un vecchio trabiccolo fangoso. E un uomo infangato, dall'aspetto possente, stava uscendo dal ruscello portando qualcosa. L'alieno si fermò. «Whelan, ehi, Whelan!» Marty gli si precipitò incontro, e quando l'ebbe raggiunto gli raccontò tutto. Whelan continuò a camminare senza darsi pensiero. Quando arrivò alla macchina aprì la parte posteriore e vi buttò dentro una trappola N. 2 legata a una catena. Poi si allungò all'interno, prese una zampa mutila e la gettò tra i cespugli. «Bastardi» disse. «Ammazzano qualunque maledetta cosa.» Si pulì le mani sui calzoni e si girò a guardare l'alieno. «Che posso fare per lei, signore? Mi chiamo Whelan.» «Come sta, Sir Whelan?» L'alieno fece un sorriso incoraggiante. «Il mio nome è... ah, Joe Smith. Vengo da un po' lontano, e speravo di poter incontrare un po' di voi gente e... be', parlare.» Si diede una manata sul copricapo, aggrottando la fronte. «Sì?» «Già, veramente da lontano.» L'alieno colpì di nuovo il suo copricapo, stavolta più duramente. Da una fessura uscì una nuvoletta di vapore. «Dannazione» disse. «È un extraterrestre!» disse Marty. «Te l'ho detto.» «Sì?» Whelan sorrise e si spinse il cappellaccio polveroso sul naso. «Lo sono veramente.» L'alieno cercò di studiare lo sguardo di Whelan, per quello che era possibile sotto il cappello. «Vedo che lei conosce la struttura corporea, Sir Whelan. Forse se le mostro...» Tese le mani, mostrandogli le parti extra. Whelan smise di sorridere. «E c'è di più» disse timidamente il visitatore, cercando la zip. Poi si ricordò di Marty: «Forse se ci appartassimo un momento dall'altra parte dell'auto...»
«Ehi» disse Marty indignato. Ma i due si ritirarono in un punto nel quale lui non poteva vedere nulla, se non la schiena dell'alieno. Quando tornarono il cappello di Whelan gli pendeva dal collo, e l'uomo si sfregava nervosamente la fronte. «Ascolta, questo è troppo per me. Credo che dovresti vedere il Presidente o qualche altro pezzo grosso. Anzi, ti porto dal giudice.» «Oh, no, per favore.» L'alieno gli strinse la mano. «Non possiamo farci solo una chiacchierata tra amici?» «Gli ho parlato dello sceriffo» disse Marty. Whelan annuì, senza distogliere gli occhi dal piccolo alieno. «Di che cosa vuoi parlare?» I baffi dell'altro tremarono. «È tutto molto informale, Sir Whelan. Due parole. Noi abbiamo notato che qui avete qualche problema. Non che sia colpa vostra, per carità!» Fece un sorriso speranzoso. «Così ho pensato di venire giù a offrire un po' di aiuto, persona per persona. Cioè, se voi lo volete, naturalmente.» «Hai detto: abbiamo notato. Chi sarebbero gli altri?» domandò Whelan. «Oh, oltre me due amici molto stretti. Stavamo venendo qui; per un viaggio di piacere... niente di ufficiale, te lo garantisco.» «Che genere di aiuto? Qui, Marty.» L'alieno fece un gesto imbarazzato. «È una cosetta da niente. Potreste non volerla affatto.» «Provala su di me.» «Volentieri, ma...» L'alieno scrutò intensamente Whelan. «Presumo che tu conosca i pericoli che possono derivare dall'immissione di un elemento totalmente alieno in un dato ambiente... Le conseguenze, insomma?» Whelan annuì. «Se fosse possibile riunire un gruppetto, ebbene, di persone comprensive. Come ho detto a Marty, di bravi ragazzi. Potrei illustrare la cosa a questo gruppo, voi potreste discuterne e decidere se vi sembra desiderabile.» «Mi pare sensato» disse Whelan lentamente. «Lui dice che ogni bravo ragazzo conosce un altro bravo ragazzo» intervenne Marty. L'alieno annuì con enfasi. «Sir Whelan, non puoi aiutarci a risparmiare un po' di tempo? Vedi, posso rimanere qui soltanto qualche ora, anche se mi è difficile spiegare perché. Il fatto è che non lo capisco bene nemmeno io. Non puoi condurci da qualcuno che conosca un certo numero di persone fidate, anziché cercarle una per una?»
«Voi chiedete, Whelan esegue» rispose l'uomo, con un sorriso semplice. «Sicuro, perché no. Qualcuno in cui io ho fiducia e che conosca un sacco di gente? Be', c'è mia moglie, ma adesso è a scuola. Il dottor Murrey? Parla troppo. Aspetta. E se andassimo da Marion Legersky su alla clinica? Lei conosce un milione di persone e sa tenere la bocca chiusa.» «Ma se blatera sempre!» obiettò Marty. «Già, però non dice niente. Lei va bene.» «Oh, grazie!» disse l'alieno. «Viaggeremo in questa?» Si fecero largo tra le trappole per pesciolini d'acqua dolce, cesoie, pile, coperte, catene e tutto l'armamentario dell'auto. «Tieniti forte, Marty» disse Whelan. «Tuo padre sa dove sei?» «Glielo griderò quando passiamo.» «Fallo.» Whelan avviò il motore. Quando passarono davanti alla porta dei Brumbacher in cima alla collina Marty cacciò la testa fuori e gridò. Non ebbe risposta. «Avete veramente dei bei posti, qui» sospirò l'alieno. «È un fantastico fremth. È terribile pensare che potreste rovinare tutto.» Whelan grugnì. «Che cos'è il fremth?» «Oh, una condizione dovuta alla configurazione elettromagnetica generale. Le qualcosa di Van Allen, non ci ho mai capito molto. Certi pianeti ce l'hanno, altri no. Personalmente mi piace.» Si strinse nelle esili spallucce. Whelan fece una curva brusca. «Andate sempre così forte?» chiese l'alieno, che era andato a sbattere contro una portiera. «Qualche volta lui va anche più forte, eh, Whelan? Lui deve acchiappare i bracconieri» disse Marty all'alieno. «L'hai poi acchiappata quella carogna, il peggiore di tutti?» «Non parlare di queste cose, Marty. Senti, amico, non puoi darmi una piccola idea dell'aiuto che ci vuoi offrire?» L'alieno sembrava piccolo come un giocattolo, ma Marty si rese conto che non aveva più paura della velocità. «Che cosa vorresti, tu?» «Oh, Cristo, non rifarmi il verso. Be', tanto per cominciare... vai indietro un paio di secoli e metti un avviso fiammeggiante nel cielo con scritto che chiunque inquina qualsiasi posto deve mangiare i suoi sporchi rifiuti. E che chiunque mette al mondo più di due figli deve farsi castrare. E che il petrolio può essere estratto solo nelle notti senza luna dalle vergini mancine... Non so, questo tipo di cose.» «E fa che la Germania non perda la guerra» s'intromise Marty. «Ehi, Joe,
puoi farlo? Puoi farlo?» I grandi occhi neri dell'alieno erano tristi, e i suoi baffi tremarono. «Cari amici, spero di non aver suscitato false speranze. Non posso fare cose di questo genere, anche se lo vorrei. Il viaggio nel tempo...» «Tutto quello che voglio è che salvi il pianeta prima che sia troppo tardi» borbottò Whelan. «A tutte le donne che portano una pelliccia naturale dovrebbero tagliare il naso.» «Cielo.» L'alieno deglutì nervosamente. «Sì, ti capisco, ma temo che quello che ho da offrirvi sia molto più insignificante.» Passarono davanti all'impianto di surgelamento e girarono in Maple Street. «Eccoci arrivati.» La clinica era una scatola di mattoni a un piano, con un po' d'erba intorno. Quando uscirono dall'auto la porta principale si aprì e ne uscì volando un soprabito con una ragazza mezzo dentro. «Marion! Ehi, Miss Legersky!» «Whelan!» La ragazza si girò di scatto. «Ciao, Marty! Sentite, scusatemi, ma ho un appuntamento. Paul mi ha chiamato per portarmi ai giochi a Green Bay! Ecco l'autobus, addio!» Infilò l'altro braccio nel soprabito, rischiò di perdere il suo libro tascabile ma lo afferrò al volo, correndo. L'autobus della Greyhound era in fondo all'isolato, davanti alla Taverna di Matt, e sbuffava odori nauseabondi. All'interno della clinica il telefono cominciò a suonare. Miss Legersky si fermò come se l'avesse colpita una freccia, e l'avesse fatta girare. «Brenda, dove sei? Oh, Dio, è in ritardo...» Tornò di corsa nella clinica, e quando arrivarono anche loro sentirono che stava dicendo: «Sì, signora Floyd... No, signora Floyd... Lo dirò al dottore appena arriva, signora Floyd, arrivederci... Come? Oh, sì, signora, non mancherò». Fuori, il bus aveva cominciato a gracchiare. «Perfetto. Sì, signora Floyd! Arrivederci!» Si precipitò alla porta. Videro tutti e quattro il bus che partiva. Miss Legersky si tolse lentamente il soprabito. «Poteva essere una chiamata d'emergenza.» Sospirò e guardò il terzetto, la bocca leggermente aperta. Aveva una bellissima pelle. «Che c'è, con voi altri?» Ci fu prima un attimo di silenzio, poi tutti cominciarono a parlare contemporaneamente.
«Cosa? Cosa?» La ragazza guardò di qua e di là, e alla fine si concentrò sull'alieno. «Cosa?» «Falle vedere» gridò Marty, tirandolo per una manica. «Già, farai meglio a dare un'occhiata, Marion» disse Whelan. «Sei un'infermiera, dopotutto. I denti» disse all'alieno. L'alieno aprì la bocca: la sua testa era un po' più in basso di quella di lei. Marty si mise dietro Marion e cominciò a sbirciare. I denti davanti dell'extraterrestre presentavano una strana linea verde e nera a zigzag. «Le dispiace se tocco qui?» disse debolmente Miss Legersky. «Mi laverò le mani.» «Quelli davanti sono artificiali» rispose l'alieno. «Che temperatura!» gridò Marion. «Lei scotta!» «È normale.» L'extraterrestre sembrava un po' imbarazzato, poi Whelan cominciò a parlare alla ragazza delle «altre cose». Quando il visitatore si fu un po' rilassato Miss Legersky fece uno strano sorriso, come se un cagnolino si mettesse a ridere. «E ho anche... ehm... un terzo occhio.» L'alieno si batté la fronte. «Non fa niente se ve lo mostro dopo? Non è piacevole staccare la protezione.» «L'ho visto atterrare!» sbottò Marty. «Be', quasi. E ha un disco volante, solo che l'ha fatto rimpicciolire. È vicino al deposito di ghiaia.» Lo strano sorriso sulla bocca di Miss Legersky era sempre più accentuato. «Lei... tu... tu vieni dallo spazio! Ma è proprio vero? E da dove?» «Be', è dalle parti dell'Ammasso Hillihileviano, ma non so come lo chiamate voi. Da quella parte» indicò, ridacchiando a sua volta. Adesso ridevano tutti. «E perché? Perché sei venuto? Sapevi della nostra esistenza? Aspetta, ma non vuoi vedere il Presidente, o qualcuno dell'ONU o roba del genere?» «Oh, no, per favore!» Tutti glielo spiegarono contemporaneamente. «E così vuoi che io ti presenti un bravo ragazzo, eh?» Si passò una mano fra i capelli. «Be', è già un inizio. Ma chi, chi? Oh, diavolo, il mio vecchio capo istruttore andrebbe benissimo, ma lui è a Detroit. Chi?» «Forse c'è qualcuno con cui ti consigli, quando hai un problema» tentò l'alieno. «I miei problemi? Cavoli. Be', ci sono tre famiglie che non ricevono il latte da gennaio; la signora Riccardi mi ha dato un po' di latte in polvere, ma quella è una svampita. Problemi... Whelan, hai sentito che lo sceriffo ha buttato la signora Kovacs fuori dalla fattoria? E ha ottant'anni, ed è cie-
ca. Un momento! Cleever. Cleever!» Afferrò il telefono. «Se solo è in casa, se non è uscito o roba del genere... È il nuovo avvocato» spiegò al terzetto. «Parlo con la procura? Mary? Senti, Cleever è lì? Ascolta, digli di aspettare, per piacere, è urgente! Vengo subito da voi, okay, Mary?» Riattaccò. «Oh, Dio mio, Brenda... ma dove si sarà cacciata?» «Ehi» disse una voce dall'ingresso, «mi dispiace di aver fatto tardi, ma lo smalto non si asciugava. Che succede? Voglio dire, ciao» aggiunse mentre i quattro le passavano davanti correndo e si sistemavano nella macchina di Whelan. Whelan fece un giro vizioso per non passare davanti alla taverna e sfrecciò davanti all'officina di Ray, prendendo la statale C. Marion continuava a ripetere: «Oh, ma è proprio vero? Puoi aiutarci veramente? Puoi farlo?» «È solo una cosetta» rispose umilmente l'alieno. «E forse non la vorrete nemmeno.» «Se la vogliamo? Oh, senti, io non... Whelan, ma è reale tutto questo?» «Può darsi» disse il guardacaccia cautamente. «Andiamo alla procura, giusto?» «Che bellezza, il fremth» sospirò l'alieno. «Non potete immaginarvelo, è stupendo.» «Il fremth sono le fasce di Van Allen,» spiegò Marty. «Lui ci va matto. Ehi, Joe, ma com'è questo tuo pianeta? Va bene se ti chiamo Joe? Fate parte della Federazione Galattica?» «Che roba è?» chiese l'alieno. «Oh, sì, chiamami Joe.» «Salve, Joe, io sono Marion. Guarda, Whelan, quelli sono i Moeller; la previdenza nicchia sempre, con loro. Senti, la prossima volta che confischi un po' di carne non puoi...?» «Hanno maledettamente troppi figli» disse Whelan. «E poi è illegale. Comunque, okay.» Il carrozzone di Whelan passò sul vecchio ponte, superò la fabbrica di cellulosa Hecker-Giodano, i capanni della Foxy e la Formaggi Frigo all'estremità della città. Il tribunale aveva una torre color pizza. Whelan girò in un vicoletto laterale e parcheggiò fra due autobus scolastici arrugginiti. «Andiamo.» Scesero tutti e quattro e passarono a passo di carica davanti ai bus, poi attraversarono il parcheggio del tribunale e il portico posteriore dell'edificio. Fiancheggiata dai contenitori della spazzatura si vedeva una porta con su scritto: Edgar Cleever Jr., Pubblico Difensore.
«Cleever!» Marion li spinse tutti dentro e cominciò le presentazioni. Cleever era un giovane Chippewa alto e color del tè, con un'espressione non facilmente decifrabile. Disse un «Come va» generico, che accompagnò con un sorriso imparziale. «Oh, Cleever, tu non ci crederai, ma Joe viene dallo spazio. Voglio dire, non è di questa Terra. Ed è venuto per aiutarci, non è incredibile?» Cleever strinse gli occhi e fissò l'alieno. «L'ho visto atterrare» disse Marty. «Ci ha dato le prove, Cleever. Voglio dire, gli credo!» Cleever spostò gli occhi su Whelan, che si schiarì la gola. «Così sembra» disse. Adesso gli occhi dell'avvocato erano due sottilissime fessure, e al centro della loro attenzione c'era di nuovo l'alieno. «Non parla? Dov'è il traduttore interstellare?» «Per la verità non ce l'ho» disse timidamente l'alieno. «Non è indispensabile.» «Ah, un debole accento inglese» disse Cleever. «Come avete detto che si chiama?» «Joe Smith» rispose Whelan a disagio. «Be', in realtà mi chiamo Sorajosojojorghtha, o così suonerebbe alle vostre orecchie. Ma Joe Smith mi è sembrato più facile. Così faccio la parte di Smith.» «Amico, che cosa vendi? Non è la giornata buona per scherzare con me.» Cleever raccolse alcune carte, ma un orecchio era ancora sintonizzato sull'alieno. «Oh cielo,» disse l'extraterrestre. «È chiaro che devo provarti innanzitutto che vengo dallo spazio.» «Buona idea.» «Bene, ci sono naturalmente certe piccole differenze fisiche...» L'alieno tese le mani e ne mostrò la parte esterna. «Ma vedo che questo non basta.» «No» disse Cleever brevemente. «Lo temevo.» L'alieno cominciò a sbottonarsi la lampo, e Marty riuscì solo a intravedere certe cose nere e umide prima che Whelan lo portasse via. Marion arretrò di due passi, strabuzzando gli occhi. Cleever si limitò a guardare in silenzio. La sua bocca prese una piega esasperata. Sbatté gli occhi due volte e scosse lentamente la testa: «Mi dispiace. Mi dispiace veramente, ma ancora non...» L'alieno sospirò, tirando su la lampo. Poi si prese la fronte tra le mani, e
lamentandosi debolmente cominciò a «sbucciare» una striscia di pelle. Giusto sopra il naso si vedeva una chiazza gelatinosa. «Ehi, quello non è un vero occhio!» protestò Marty indignato. L'alieno teneva una protezione di plastica sulla fronte; piegò la testa all'indietro e la scosse un paio di volte. Quando si rimise dritto tutti poterono vedere. «Oooh!» ansimò Marion. Non somigliava agli altri due occhi, ma era piuttosto come un soffice, lucente animaletto che guardava avidamente la scena, e in particolare Cleever. Anche gli altri occhi dell'extraterrestre guardavano Cleever. L'avvocato restituì l'occhiata con terribile determinazione, battendo secchi colpetti sulla scrivania. E finalmente il terzo occhio lo lasciò, scrutando uno a uno gli altri. Poi ammiccò. Cleever si schiarì la gola una volta, due. Poi tese una mano all'alieno, che annuì e si piegò sul tavolo. Con molta cautela Cleever toccò l'occhio, che sembrò ritrarsi. L'avvocato ritrasse la mano e espirò, guardandosi torvo in giro. «E va bene. E va bene, almeno per il momento. E adesso che farai? Qual è il copione? Non vorrai darci l'ultimatum, per caso?» «Oh bontà celeste, no» disse l'alieno. «No, no! Questa è solo una visita amichevole. Sentite, non vi dispiace se metto a riposo questo? È un po'...» «Vai avanti. Per conto di chi sei venuto a trovarci? Gli ultimi "alieni amichevoli" che ci è capitato d'incontrare non si sono rivelati tanto un buon affare.» «Dice che vuole darci qualcosa» spiegò Whelan. «Aha» sbuffò Cleever. L'alieno ripiegò la testa, e rimise la gelatina sul terzo occhio. «Noi» cominciò, poi s'interruppe. «Voglio dire, i miei due compagni e io, stavamo passando da queste parti e non abbiamo potuto fare a meno di notare che le cose non vi andavano troppo bene. Anzi, tutt'altro. Si stavano facendo pericolose.» Risistemò la striscia di pelle al suo posto. «Così va meglio? Ahimè, anche noi abbiamo avuto i nostri guai, così mi sono ricordato di qualcosa - una cosetta da niente, capite - che si potrà rivelare utile e ho pensato di scendere a offrirvela, nel caso voleste tentare.» «Quanto costa?» domandò Cleever. «Oh, Cleever» protestò Marion. «Non sta cercando di vederci niente. Vuole solo aiutarci.» «È vero,» disse l'alieno con enfasi. «Abbiamo un detto, da noi: i bravi
ragazzi devono unirsi.» «Bravi ragazzi. Ma che significa? Non mi piacciono i damerini coi capelli a spazzola.» «Sì, scusatemi, ho usato un'espressione di gergo. Ma come dire?» L'alieno si tirò su uno dei grandi baffoni. «Bene, in situazioni come la vostra si tratta di trovare quelle persone (e sono poche, accidenti) che cercano di rendersi utili, di aiutare anziché inseguire il potere, lo status sociale, o il...» «Continui a dire: rendersi utili, aiutare. Ma che significa, in realtà? Tutti credono di rendersi utili, il generale Custer credeva di rendersi utile!» «Naturalmente.» L'alieno gli scoccò un'occhiata ansiosa. «Quello che intendo è... Non aiuterebbe il mondo una coalizione - se così posso dire - di persone che sentono realmente il dolore sofferto dagli altri? Tutto il dolore, capisci? Empatia, è questa la parola. Be', queste persone potrebbero... ehm, provare a fermare il dolore.» «Questo è molto bello» disse Marion. «Okay, okay» grugnì Cleever. «E allora tu che vuoi?» «Farvi la mia modesta offerta d'aiuto.» «Falla.» L'alieno si guardò intorno, li contò. «Avevo sperato in qualche presenza in più... per i diversi pareri...» La voce gli si smorzò timidamente. «Vuole fare una specie di conferenza, e ci dev'essere un po' di gente» spiegò Whelan. «Per decidere se quello che lui propone non creerà un casotto.» «E chi vorresti? Ralph Nader? Margaret Mead? Billy Graham? Bella Abzug?» «Vuole solo il tuo bravo ragazzo!» disse Marty. L'alieno annuì. «Non potresti condurci da qualcuno, ebbene, in grado di valutare le varie implicazioni etiche? Ma non un funzionario del governo, per favore. Qualcuno a cui ti sentiresti di confidare un grande segreto.» «Oh, cavoli!» disse Marion. «Le varie implicazioni etiche.» Cleever scosse la testa, guardando duro l'alieno. «Be', forse. Ammesso che tutto questo sia reale, cosa di cui dubito. Fammi pensare: il giudice Ball è quello che mi ha fatto gli esami, e lui conosce tutte le implicazioni possibili. Credo di fidarmi di quel vecchio bastardo. Mi piace guardare la sua faccia...» Cleever stava cercando qualcosa sulla scrivania, poi si fermò. «Sentite, se salta fuori che questo è uno scherzo vi faccio a pezzettini. È chiaro?» L'alieno ricominciò: «Oh, ti assicuro...»
«Be', vi ho avvertiti.» Prese il telefono. «Oh, accidenti, niente da fare. È a Denver fino alla prossima settimana. Non puoi ripassare?» «Cielo, no, deve essere fatto subito. Oggi stesso. I miei amici si sono raccomandati.» «Mi sembra di stare dando il cervello all'ammasso» fece Cleever all'alieno. «Ma perché non te ne vai a salvare il mondo da qualche altra parte?» «Ehi!» intervenne Marion. «Il dottor Lukas. E se andassimo da lui? Ho fatto il suo seminario, ho piena fiducia in lui. Si è dimesso dall'ospedale perché... tu lo sai, Cleever, te l'ho detto.» «Lukas? Non è consulente scientifico di qualcosa, adesso?» «Adesso fa un lavoro statale, giù a Pike River. Sono solo sessanta chilometri.» «Telefonagli.» «No, non posso» protestò lei. Ma quando Cleever ebbe chiamato la segretaria di Lukas e gliel'ebbe passata Marion andò all'apparecchio, spiegò di essere un'ex studentessa del dottore e disse che un avvenimento di incredibile portata scientifica era avvenuto in città. Potevano avere quindi dieci minuti del suo tempo? La segretaria si consultò col dottor Lukas, tornò al telefono e disse sì. Cleever attaccò alla porta un cartello con la scritta: Andato a caccia e saltò insieme con gli altri sul carrozzone di Whelan, con le trappole per la pesca di frodo e tutto il resto. «Che cos'è che ti dà tanta fiducia in Lukas, Marion?» chiese Cleever mentre imboccavano la nazionale 101. Era una meravigliosa giornata, e l'alieno teneva la mano fuori del finestrino chiedendo continuamente a Marty il nome delle cose. «Oh, non lo so» sorrise Marion. «Il fatto che non mette la testa nel sacco, suppongo.» «Che vuoi dire?» «Lo sai, che voglio dire. Tu senti le notizie alla TV e dopo un po' diventi indifferente; ti rendi conto che quello che succede è orribile ma continui a fregartene. Venti milioni di bambini muoiono di fame da qualche parte, ma tu metti la testa nel sacco. I vecchi vengono maltrattati ogni giorno negli ospizi puzzolenti, e rimetti la testa nel sacco. Il governo stanzia ottanta miliardi per le nuove superbombe? Sacco, sacco, sacco! Di' la verità, Cleever: metti la testa nel sacco, tu?» «I Chippewa non mettono la testa nel sacco» scattò Cleever. Poi disse: «Oh, merda».
Una sirena cominciò a ululare alle loro spalle. «È lui. Oh, no!» Accostarono al lato della strada e aspettarono. Ci fu un rumore di stivali, poi il finestrino di Whelan fu riempito da una montagna color kaki. Una montagna con le mostrine e il cinturone. «Salve, gente.» «Salve, sceriffo» fece Whelan senza un'intonazione particolare. «Devo parlarti, ragazzo mio. Che razza di merdata hai cercato di fare, a Charlie Orr? Pardon, signorina.» La grossa faccia dello sceriffo si abbassò per vedere a chi appartenevano le gambe. Quando la vide smise di ridere, il che tutto sommato fu un miglioramento. «Orr aveva otto carcasse di cervo, e altri pezzi macellati, in quel trabiccolo» disse Whelan. «Lui dice che hai cercato di buttarlo fuori strada a quasi duecento all'ora.» «Be', non voleva fermarsi. Avevo acceso le luci, e gli ho dato solo un piccolo spintone. Una gomitata...» «Maledetta guida pericolosa. Questo tuo carrozzone ammazzerà qualcuno, prima o poi.» Lo sceriffo era sempre piegato, e li fissava tutti coi tondi occhi blu. «Devi finirla di girare in quest'affare, Whelan, è illegale. Ti sei stufato di stare dalla parte della giustizia? Dovrò farti rapporto, ragazzo mio.» Whelan non disse niente. «Bel gruppetto, vedo. Di', tu sei il figlio di Brumbacher. Tuo padre lo sa che te ne vai in giro con questa gente?» «Gliel'abbiamo detto» disse Marty. «Sì? Be', penso che andrò a ridirglielo. Lei...» indicò col mento l'alieno. «Lei è forestiero?» «Oh, sì, signore! Veramente!» Poterono sentire l'alieno rabbrividire. «Sono solo di passaggio, lo giuro!» «E allora passi. Quello è il suo avvocato?» «Oh, povero me! No, io...» Clever gli diede una gomitata e l'alieno si azzittì. «Santissimi numi» grugnì lo sceriffo, ritirando la testa. «Ti voglio nel mio ufficio domani mattina, Whelan, intesi? E porta con te questo... veicolo.» «L'accusato è Orr» gli ricordò Whelan. «Sicuro, sicuro.» Lo sceriffo ridacchiò e diede una manata sul tetto della
macchina. In quell'istante l'alieno fece uno starnuto, o il suo equivalente. E un anello luminoso color lavanda uscì dal finestrino e si disperse nell'aria. La faccia dello sceriffo si abbassò di nuovo: «Avete dei fuochi d'artificio, qua dentro!» «Oh, no, no!» gridarono tutti meno Cleever. Lo sceriffo picchiò di nuovo sul tetto della macchina, ma con più forza. «Va bene, tutti fuori.» Si scansò mentre Marion apriva la porta. «Che cosa vuole?» disse Cleever. Lo sceriffo arricciò le labbra e sputò un pezzo di gomma. «Con la mia autorità di sceriffo della contea le ordino di assistere un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni. E segnatamente, di aiutarmi a entrare in possesso di fuochi d'artificio non autorizzati. Fuori.» Strinse il braccio di Marion. Cleever cominciò a districarsi a sua volta. «La lasci stare, Claude.» «Guardate!» gridò l'alieno puntando davanti a loro. Una macchina avanzava a tutta velocità nella loro direzione: sembrava una specie di saponetta montata su ruote. Dalla sommità sporgeva un mucchio di teste capellute. «Augh!» disse lo sceriffo, lasciando perdere Marion. La strana macchina fece una brusca deviazione sul sentiero di ghiaia che costeggiava la nazionale, sollevando una pioggia di pietruzze, poi si rimise in carreggiata all'altezza dell'auto dello sceriffo. Pin-n-g! Lo sceriffo sacramentò e corse verso la macchina, mentre i ragazzi sparivano in una nuvola in fondo alla strada. Sul retro del loro macinino c'era scritto qualcosa a grandi lettere. L'auto dello sceriffo fece una curva ad U e si lanciò all'inseguimento, spargendo ghiaia da tutte le parti. Whelan mise in moto e si allontanò dal punto caldo. «Mai visti prima» disse. «Ma che cos'era, una Volkswagen truccata?» «C'era scritto "Amore"» cinguettò Marion. «E in rosso. Oh, cielo, l'ha fatto ammattire. Spero che non li prenda.» «Non è vero» fece Marty, «c'era scritto "Claude Mangia Forfora"». «Io l'ho visto. Era "Amore."» «Per la verità a me sembrava che fosse "Uomo Bianco Crepa"» intervenne Cleever. «Quanto al modello, era una Pontiac del '67.» «Mi dispiace» disse l'alieno. «È difficile farlo con tanta gente. Mi sono confuso.» «Uh?»
«Vuoi dire che l'hai fatto tu?» disse Cleever. L'alieno sorrise modestamente. «Be', credo... spero che andasse bene.» «Ma era perfetto! Uaaa!» Marion sembrava al settimo cielo. «Vuoi dire che non c'erano, che... Ehi!» Marty fece un salto per guardare in faccia l'alieno. «Fallo un'altra volta! Fai qualche mostro!» «Oh, non sono molto pratico di quella roba. Dev'essere qualcosa che uno ha in testa ben chiara, capisci?» Si tirò i baffi di nuovo. «Ah, Miss Legersky...» «Marion.» «Marion, devo scusarmi. Quella chiamata al telefono, la signora Floyd, ero io.» «Che vuoi dire? Io la sentivo!» «No, in realtà no. Non ha mai telefonato nessuno. L'ho fatto io nella tua testa, e mi dispiace.» «Vuoi dire che la Floyd non ha mai chiamato? Ma... Ma... perché?» «Dovevo essere sicuro di te» spiegò l'alieno mortificato. «Il... mio apparecchietto qui aveva smesso di funzionare.» «Vuol dire il suo vibratore etico» spiegò Marty. «Ce l'ha sotto il cappello. Ho visto che usciva del fumo, Joe.» «Sì, un ferro vecchio. Così mi sono detto, facciamo un esperimento. Vediamo che cosa le importa veramente. Sono terribilmente mortificato.» «Volevi vedere se avrei risposto.» Si scompigliò i capelli, guardando senza vederlo il paesaggio che si svolgeva dietro il cartellone gigante del Wonderbread. «Cleever, capisci, io stavo uscendo, perché Paul mi aveva chiamato... Be', credo che l'avesse fatto.» Diede un'occhiata in giro, l'alieno annuì. «Comunque, Brenda aveva fatto tardi, e poi è arrivata questa chiamata della signora Floyd... Ma non era la signora Floyd. La voce e tutto, però...» «Sono così mortificato.» I grandi occhi scuri dell'alieno luccicarono. «Il tuo rituale d'accoppiamento...» disse, sentendosi un verme. «Oh, Joe, non importa.» Gli strinse la mano. «Non mi sarei voluta perdere tutto questo per niente al mondo. E poi, tu stai cercando di aiutarci.» «Spero che non resterai delusa. È una cosa così insignificante.» «Hai dei begli occhi, Joe.» Gli mise una mano sulla spalla, e lui s'illuminò. «E così l'hai messa alla prova» disse Cleever. «Ma non ricordo niente del genere, con me. Perché no? Cortesia professionale?» «Oh, ma io ti ho guardato,» disse l'alieno timidamente.
«Vedo.» Cleever aveva stretto nuovamente gli occhi. «Forse è giusto che anche noi facciamo qualche piccolo test. Tanto per cominciare, vedete tutti questo signore come lo vedo io? Whelan, ti dispiacerebbe dirci com'è il nostro Joe?» Cominciarono tutti a descrivere l'alieno, a controllare e discutere, mentre superavano il vecchio deposito d'olio, lo spezzone di ferrovia di Soo, il campo roulottes di Earl e finalmente il ponte che portava a Pine River. «Oh, Cleever, ma che importano i lobi delle sue orecchie?» stava dicendo Marion. «Lo vediamo tutti, com'è. Rallenta, Whelan, quello è il campus.» «Non lo so» fece tetro Cleever mentre avanzavano nel parcheggio sotto un gruppo d'aceri. «Vorrei che fosse qui mio nonno, che era un esperto di fantasmi.» L'alieno rabbrividì. «Scienze Biologiche, ha detto la segretaria.» Marion indicò un edificio. «Quello che sembra un motel, laggiù.» Entrarono nel palazzotto e videro una porta con su scritto T.H. Lukas, Ph. D., M.D. Dietro la porta c'era un piccolo ufficio a dieci gradi sotto zero. «Il condizionatore» starnutì la segretaria. «Entrate pure.» «Oh, è magnifico» la rassicurò l'alieno. «Permette veramente di godersi il fremth.» Poi seguì gli altri nel cubicolo personale di Lukas, rabbrividendo piacevolmente. Lukas era un ometto robusto con un ciuffo bianco sulla fronte, come un cavallo da circo equestre. «Comincia tu, Marion» disse Cleever. «Oh, ehm...» fece Marion, e cominciò il racconto. Aveva appena detto «extraterrestre» quando la porta si aprì e la segretaria fece capolino portando un foglio di carta giallo. «Scusatemi.» Lukas l'apri e cominciò a leggere. Mentre leggeva s'inchinò indietro sulla sedia, finché a un certo punto urtò contro il muro. Il foglio gli tremava nelle mani, e il volto era impallidito. Marty tirò su col naso e Whelan gli diede una pacca sulle spalle. «Devo mandare una risposta?» Anche la segretaria sembrava agitata. «No... Oh, sì, naturalmente, Miss Timmons. Ehm... "Caro Harry. Sinceri... no, vive congratulazioni per la tua nomina. Hai tutto il mio appoggio. Firmato. Theo".»
«Dottor Lukas, sono così... dispiaciuta.» Lui fece un gesto vago. «Grazie, Miss Timmons. Che vuol farci, speriamo che la consapevolezza del potere lo migliori...» «Credo di sapere che cosa farà la consapevolezza del potere a lui.» Miss Timmons uscì. Lukas fece un sorriso forzato e si riavvicinò alla scrivania. «Voglia scusarmi, Miss... Legersky, è così? Continui pure.» Aveva appena cominciato a parlare quando l'alieno mormorò qualcosa e scivolò fuori della porta. «Oops» disse Cleever, che lo seguì. Marion continuava a parlare. Quando l'alieno e l'avvocato rientrarono Lukas era in piedi. «Lei...?» Diede un'occhiata all'extraterrestre, scuotendo la testa bianca e facendo uno stanco sorriso. «L'occhio» suggerì Cleever. «Faglielo vedere.» «Non è necessario, stavolta» disse l'alieno. I baffi gli si erano drizzati. «Capisco. Allora fai in fretta a dirglielo, se no la segretaria spedisce quel cablo.» «Non c'è pericolo, controllo il telefono» gli confidò. Poi divenne triste. «Dottor Lukas, le debbo delle scuse. Il telegramma che lei ha ricevuto non esiste.» «Cosa?» «Oh, Joe!» gridò Marion. «Sul serio. Guardi sul suo tavolo, dove l'aveva messo. Non c'è più.» Infatti, non c'era. Lukas cercò dappertutto, mentre le sopracciglia gli arrivavano sempre più in alto dallo stupore. «È il suo modo di fare» spiegò Cleever. «Ci saggia. Dice che per metterci alla prova usa la cosa peggiore a cui possiamo pensare.» «Solo in casi d'emergenza» disse l'alieno. «È molto stancante anche per me. Per favore, scusatemi tutti.» «Strabiliante!» Lukas sbatté gli occhi e cominciò a sorridere. «Perdinci, questo è certo un punto a suo favore, Mr. Joe, ma purtroppo non posso accettarlo come prova, ehm...» «Purtroppo» convenne l'alieno. Così gli fecero vedere tutto, e Lukas diventò sempre più eccitato. Quando arrivarono all'occhio le sopracciglia del dottore si erano quasi ricongiunte col ciuffo bianco sulla fronte. Tirò fuori una lente e cominciò a studiare l'alieno centimetro per centimetro. «Cos'è, un equivalente della ghiandola pineale? Impossibile, guardate le
strutture ancillari... Oh, ma questi non sono veri peli...» L'occhio faceva le fusa, come se si divertisse un mondo. «Sentite, è ora di arrivare al punto» disse Whelan. «Devo vedere questa cosa che ha da offrirci.» «Riabbottonati, Joe, potrebbe venire qualcuno.» «Bene, bene, bene!» ripeté Lukas mentre l'alieno si rimetteva a posto. «Bene! E adesso, chi informiamo per primo?» «No, no, no!» esplosero tutti in coro. L'alieno spiegò che si trattava di una cosa privata e che lui intendeva offrire il suo dono solo a un piccolo gruppo. Sceglieva le parole con molta accuratezza, guardando ogni tanto Cleever. «... persone che possiedano, come definirlo? un temperamento altruistico, che non siano di carattere dominatore né sottomesso. Che non cerchino l'affermazione a tutti i costi.» Lukas sembrava perplesso. «Leggo nella sua mente il termine "comportamento non-competitivo". Ha capito cosa voglio dire?» «Ah» replicò Lukas, «vuol dire i bravi ragazzi!» Marion emise un gridolino di puro piacere. «Ma è fantastico! E si offre di aiutarci? Veramente?» «Nel mio piccolo.» L'alieno cominciò a frugarsi nei vestiti. «Voglio dire, se voi...» Aggrottò la fronte, cercò da un'altra parte. Lukas aveva lo sguardo perso sulle teste degli altri. «Cos'è che ci darà? Un condizionamento che ci impedirà di ucciderci gli uni con gli altri? Come quello che Lorenz - generosamente, ma infondatamente - crede di aver scoperto fra i lupi? Ah, ma per noi ci vuole qualcosa di pili forte che per i lupi.» Si sfregò un tatuaggio sul braccio con aria assente. «Ma è possibile una cosa del genere?» chiese ansiosamente. «Può impedire all'uomo di distruggere l'uomo?» «Ne va di tutto il pianeta» disse Whelan. La faccia dell'alieno era sconfortata. «Dottor Lukas, mi dispiace. Ciò che voi desiderate è possibile, in un certo senso. Ma richiederebbe... Be', tanto per cominciare un progetto ufficiale, una vasta organizzazione, fondi, autorizzazioni, coordinamento, studi particolareggiati... Vedo che mi comprende.» Cleever sbuffò. «Sì», rispose Lukas, respirando lentamente. «Comprendo.» «Mi dispiace per la sua famiglia» disse dolcemente l'alieno.
«Ma legge veramente nel cervello?» «Quando si tratta di un pensiero così evidente, sì.» «Immagino che non può riportare indietro i morti. Ne sono certo. O... può?» Poi l'espressione di Lukas cambiò. «No, scusatemi. Ma allora, vediamo! Che cosa vuole offrirci?» L'alieno tirò fuori un pacchetto tutto gualcito e ripiegato, che si gonfiò immediatamente. «Non si è danneggiato» disse. «Ora, il punto è...» Qualcuno bussò velocemente alla porta, poi Miss Timmons fece il suo ingresso. «Dottore, posso usare il suo telefono? La mia linea è bloccata.» «Oh,» disse l'alieno. «Dottor Lukas!» «Stava facendo questo, dunque» disse Cleever. «Signore, penso che lei debba informare la sua segretaria circa quel telegramma.» «Già. Miss Timmons, non sarà necessario mandare la risposta. Ho appurato che il messaggio che abbiamo ricevuto era un... uhm, errore.» «Uno scherzo» aggiunse Cleever, spietato. «Ma che pessimo gusto, che razza di idiozia...» «Già, già, infatti.» Lukas le fece un sorriso. Lei li fissò uno per uno e tornò nel suo ufficio. «Dovrei ripararle il telefono» disse l'alieno. «Dopo, per il momento non vogliamo essere disturbati.» «Giusto. Bene, come stavo dicendo, il punto è la fatica.» «Fatica?» chiesero gli umani, tutti sbalorditi. «Sì, da parte dei bravi ragazzi. Noi abbiamo un detto: tutto ricade sempre sulle spalle dei bravi ragazzi.» «Sono d'accordo» disse Whelan. «Abbiamo un altro detto: i bravi ragazzi sono troppo stupidi per preoccuparsene. Così continuano a macinare. Ma siccome sono in pochi continuano a soffrire, a essere sconfitti e a beccarsi tutta la fatica. Questo provoca in loro un terribile stress. Si stancano.» Si guardò intorno, ma nessuno annuì: non ce n'era bisogno. «In questo modo si sfiancano, s'indeboliscono. Non sono più capaci di reagire. La società ne soffre, l'errore e il male trionfano. Così ho pensato di portarvi un tonico per i bravi ragazzi.» «Droga» grugnì Cleever. «Che schifo!» «Oh, no!» L'alieno era scioccato. «Ditemi, non avete mai sperimentato il
desiderio di andare via per un po'? di potervi rifugiare in un posticino segreto dove il male e la cupidigia non arrivano?» Scoccò un'occhiata a Marion. «Com'è la parola? Idilliaco? Senza rompiballe? Quello che voglio dire è un posto dove regni la simpatia e la comprensione, e il cervo e l'antilope giochino felici.» «Ooohhh» ansimò Marion. «Vuoi dire, come nelle vacanze?» Poi il sorriso scomparve. «Sono stata a Yellowstone. È una delusione.» «Un agente di viaggio.» Cleever mostrò i denti. «Oh, per favore! Vi ho già detto che è un dono. Un dono molto modesto, debbo aggiungere. Ma, vedete» fece l'alieno con enfasi, «anche noi abbiamo attraversato la vostra fase. E abbiamo imparato che se una persona riesce ad allentare lo stress per un po' di tempo, poi torna rinfrescata. Rinnovata! Capace di andare avanti, di raggiungere nuovi traguardi, di fiorire come un albero verde.» «Ehi, Joe, dov'è questo posto? Dove andiamo?» «Guardate, per favore.» L'alieno sollevò un orlo del pacchetto. Ne venne fuori un oggetto, ma lui disse: «No, un momento; cultura sbagliata.» Lo rimise a posto e provò con un altro. «Sembrava un pettine africano,» disse Marion. Tutti erano tesi dall'impazienza. «Spero che vi piacerà.» L'alieno tirò fuori una cosina scintillante. «Le chiavi di una macchina?» «Serve a non dare nell'occhio. Oggetto comune che tutti possiedono, vero? Ora, se vi togliete dal centro della stanza... Così, così, benissimo. Guardate. Io tengo la chiave dritta e ci batto sopra dodici volte.» Fece come aveva detto. «OOOhhhh!» «Aaahhhh!» Al centro della stanza si vedeva una bolla leggermente brillante, grande all'incirca come un grosso frigorifero. «Questa è la porta. Ora, per entrare...» «Aspetta un minuto» disse Whelan. «Cosa c'è là dentro?» «Per il momento niente. Guardate, è pressoché vuota.» L'alieno entrò nella bolla e ne uscì, agitando le braccia. «Serve a sincronizzare due punti. Voi entrate qui ma uscite là. Il nome tecnico l'ho dimenticato: annullatore dimensionale crono-qualcosa. Li fabbrica la nostra industria dei trasporti.» «E funziona?» disse Marty. «Certo. Non hanno dovuto sostituirne una per secoli.»
«Pensavo che fossi venuto qui in un disco volante» disse Cleever. «Oh, certo. Ma a me non serviva un corridoio perenne col vostro pianeta. Capisci, sarebbe stupido costruire un'autostrada solo per un...» «Okay.» «E dove porta? Lo voglio provare,» dissero insieme Marty e Marion. «No.» Cleever e Whelan avevano parlato come un uomo solo. Lukas avanzò verso la bolla e vi infilò una mano. «Io sono il più vecchio. Sono sacrificabile; la proverò per primo.» «Oh, no, dottor Lukas...» Ma l'alieno gli stava già mostrando come fare. «Quando è lì dentro, batta la chiave in questo modo.» Diede tre colpi lenti, tre veloci e altri tre lenti. «Per rientrare, e per ogni emergenza, si rimetta nella bolla e faccia la stessa cosa.» Diede le chiavi a Lukas. «Per favore, torni presto. I suoi amici qui sono preoccupati. Be', spero che gli piaccia» disse l'alieno mentre Lukas avanzava nella bolla. Videro il ciuffo bianco sollevarsi leggermente, come un cespuglio mosso dal vento. Il dottore alzò la chiave e batté i colpi. Non successe niente. L'alieno mise la testa nella bolla e disse qualcosa. Cleever sbuffò. «Deve battere un po' più forte» disse l'alieno come per scusarsi quando riemerse dalla bolla. «È un modello usato, ma perfettamente sicuro. Ve lo garantisco.» «Sicuro, sicuro» disse Cleever. Videro Lukas che batteva più forte. E di colpo lui e la bolla sparirono. «Santa madonna» disse Whelan. «Ma sta bene?» chiese Marion senza fiato. In quel momento si aprì la porta e entrò Miss Timmons. «Va tutto bene, dottore? Dottor Lukas? Ma dov'è?» «È uscito a fare una passeggiatina» disse Marty. «Ah, ah, ah!» Whelan dovette tenerlo buono. «L-lei non l'ha visto uscire? Ha detto che sarebbe tornato subito» fece Marion. Il telefono nell'altro ufficio cominciò a squillare. Miss Timmons si guardò di qua e di là esterrefatta, poi decise che comunque doveva andare a rispondere. Quando fu uscita Cleever chiuse la porta e ci si appoggiò contro. «Avanti, amico. Fallo tornare» ringhiò Cleever. «Oh, ma non posso.» L'alieno diede un'occhiata preoccupata all'avvocato e andò a nascondersi dietro Marion. «Per favore, non...»
In quella la bolla e Lukas ricomparvero dal nulla in mezzo alla stanza. Lukas ne uscì lentamente, una strana espressione dipinta sul volto. «Vergine...» disse all'alieno. «È un pianeta vergine, è vero?» Annusò come per sentire un particolare odore, poi riprese: «Non mi ero mai accorto che l'aria qui da noi è così nauseabonda. Eppure è così solitario, laggiù...» Si volse agli altri. «Vi ritrovate in un grande, un grandissimo padiglione. E godete la vista di un mondo vergine. Praticamente vuoto.» «La reception l'abbiamo costruita noi,» disse l'alieno. «Le è piaciuto?» «Io, io» cominciarono gli altri. «Ma certo!» L'alieno distribuì chiavi a tutti. «Posso consigliarvi di andare in coppia? Le bolle comunque devono trovarsi in punti diversi. Magari, spostando la scrivania...» Mentre la spostavano Miss Timmons bussò alla porta. Lukas alzò la testa: «Elvira, non si preoccupi. Va tutto bene, ma stiamo lavorando a qualcosa». Sì girò appena il tempo per vedere Marion e Cleever che «bollavano». Un attimo dopo anche Marty e Whelan erano andati. Lukas si piegò sulla scrivania, ansimando un poco. «Non credi» chiese all'alieno, «che Elvira, Miss Timmons...? Dopotutto è stata con me per anni.» «Oh, ma io voglio che ci portiate gli amici!» L'alieno era raggiante. «E i vostri amici porteranno amici, in modo che possa ritemprarsi quanta più gente possibile. Ma, dottor Lukas, quello che sto per dirle è molto importante. Quando io me ne sarò andato dovrete convincere chiunque porterete con voi che la soglia è solo per i bravi ragazzi. Capisce, c'è un dispositivo, non so come funzioni, che analizza le emozioni. Se una persona che emana odio, crudeltà o arrivismo tenta di usare le bolle, sparisce nel nulla. Ffft!» Fece un gesto eloquente. «Chiavi, persona, scompare tutto. Vede dunque perché ho dovuto essere così prudente e scrupoloso nell'esaminarvi.» «La cruna dell'ago» disse Lukas stupito. «Dio del cielo, è la cruna dell'ago.» Diede un'occhiata penetrante all'alieno. «Oh, no, no!» fece l'altro, arretrando un poco. «Sono un essere del tutto ordinario, e quella è soltanto una macchina.» «Vedo.» Lukas si grattò il braccio con aria assente. «Be', se porto con me Elvira non ho niente da temere. Ma com'è che avete trovato quel pianeta vuoto? Sembrava un paradiso.» «Non c'è fremth» spiegò l'extraterrestre. «Ce ne sono moltissimi, così, è il vostro che è un'eccezione. Questione di campi magnetici.» Era intento in
questa spiegazione quando Marion e Cleever tornarono nella stanza. Si misero a parlare contemporaneamente. «Vi è piaciuto?» chiese l'alieno con una certa ansia. Marion continuava a dire: «Oh, oh, oh.» Cleever inspirò profondamente. «Sì. Ma quando arrivano i coloni?» «A quanto pare, mai.» Lukas cominciò a riassumere quello che gli aveva detto l'alieno, quando Marty e Whelan ricomparvero a loro volta. «Uomo» disse Whelan. «Hai visto quelle montagne? Uno non tornerebbe mai.» «E il grande lago!» gridò Marty. «È quello l'oceano? Ehi, Cleever, scommetto che ci sono i bufali, laggiù!» «I Chippewa non cacciano il bufalo» gli disse l'avvocato. Stava sulla punta dei piedi. «E i fiori, il sole» sospirò Marion. «Scommetto che puoi far germogliare le cose buttando semplicemente i semi per terra.» «Un momento» disse Whelan. «Come facciamo a sapere che per noi quella terra non è velenosa? O l'acqua, per esempio?» «È del tutto compatibile» lo rassicurò l'alieno. «Abbiamo fatto qualche esperimento, e noi e voi siamo molto simili. Comunque, siate prudenti. Io una volta ho mangiato un po' di frutti, ed erano deliziosi!» «Tu ci sei andato?» «Quando abbiamo fabbricato i padiglioni. E ora, ditemi: vi è piaciuto? Servirà a ristorarvi nei momenti di stanchezza Vi sarà d'aiuto, insomma?» «Oh, sì, sì, sì!» Sorridevano tutti, perfino Cleever. Marion toccò il piccolo alieno. «Hai fatto una cosa bellissima per noi, come potremo mai ringraziarti?» L'alieno s'illuminò, poi si tirò la punta dei baffi. «Oh, ma non è niente. Io vi ho dato lo stucco, ma quelli che dovranno mettere il tetto siete voi. Cielo!» Diede un'occhiata a Whelan. «É tardi. Puoi riportarmi alla nave?» «La nave! Ecco una cosa che non posso perdermi!» Il dottor Lukas all'improvviso alzò la voce e chiamò: «Miss Timmons! Elvira! Cancelli tutti gli impegni di oggi, e mi aspetti!» Uscirono tutti insieme, frettolosamente, ammassandosi nel carrozzone di Whelan fra le trappole e gli altri ammennicoli del guardacaccia. Mentre sfrecciavano sulla 101 l'alieno disse: «Non devo dimenticare le ultime raccomandazioni». E ripeté anche agli altri quello che aveva già detto a Lukas: potevano portare gli amici ma dovevano stare attenti. «Ma ci pensate?» disse Marion. «Un intero pianeta pieno solo di bravi
ragazzi!» «Be', che non sia troppo pieno» fece Whelan. «Posso portare il mio procione?» chiese Marty. «Stiamo attenti all'equilibrio ecologico» disse Whelan, sorridendo. «I procioni sono bravi ragazzi!»1 «Prima di dare un giudizio etico sui procioni, vediamo se Joe ha qualcos'altro da dirci» osservò Cleever. «Stavo per dimenticarmene» disse l'alieno. «Ma nel padiglione, vicino alle docce, c'è uno stanzino con le chiavi di riserva. Credo che fareste bene a tenerne due, nel caso una si perdesse.» «Che succede se una chiave viene trovata dalla persona sbagliata? Voglio dire, da uno che non ne sa niente.» «Oh, non è molto probabile che scopra per caso il codice esatto. Ma se dovesse accadere, temo che questo sarebbe la fine di tutto.» «Ehi» disse Marion, «perché non ne diamo una allo sceriffo?» L'alieno la guardò, e sotto i suoi occhi fissi la ragazza cominciò a scuotere la testa. «Era... era solo una sciocca idea.» «Be', stai attenta alle tue idee» disse Cleever. «Non volevo contaminare il nostro posto!» disse indignata. «Oh, non posso aspettare. Devo andare a cogliere un po' di quei frutti per la signora Kovacs.» L'alieno fece un sospiro di sollievo. «Sono così felice. Speriamo che alla prossima tappa mi capiti gente come voi.» «Dove? Chi?» chiesero tutti in coro. «Ci siamo detti che bisognava trovare un gruppetto di bravi ragazzi in ogni grande area del globo. Adesso vado a sud... Brasile, si chiama così? E poi in un altro posto ancora, e sarà l'ultimo.» «Questo spiega i pettini all'africana» mormorò Cleever. «Dopotutto non soffrirà la solitudine, dottore.» «Ma sono sempre bravi ragazzi» gli ricordò Marion. «Mi è sembrato di notare uno strano movimento, quando siamo partiti» disse Whelan. «Credo che stia succedendo qualcosa, in città.» «Davvero? Oh, meraviglioso! Questo vuol dire che uno dei miei amici ha trovato un gruppo adatto. Buone notizie. Eravamo preoccupati, sapete?» Poi fece un sorriso, come per dimostrare che aveva ritrovato tutto il suo coraggio. «Noi siamo abbastanza... ehm, vulnerabili. E voi avete un aspetto aggressivo, davvero.»
Marion gli dette un'altra pacca e poi continuarono a chiacchierare, chi parlava prima, chi parlava dopo. Alla fine ebbe la meglio il silenzio dell'eccitazione, e intanto Whelan li pilotava sulla nazionale e poi prendeva la scorciatoia per la fattoria di Marty. «Ci morderemo le mani, quando te ne sarai andato, perché ci sono un milione di cose da chiederti» disse Cleever mentre filavano sull'ultima collina. «Oh Gesù. Guardate nel cortile.» Stavano superando la fattoria dei Brumbacher, e la macchina dello sceriffo era parcheggiata vicino al pollaio. «Vai, vai!» disse Marty. «Quel dannato non è in vista.» «Ci verrà dietro e ci prenderà in quattro e quattr'otto» disse Whelan, senza togliere gli occhi dallo specchietto. «Eccolo! Sta uscendo dal granaio.» «Presto» biascicò l'alieno, che si stava frugando dappertutto e stava tirando dei tubicini dal suo costume. «Fammi scendere nel punto dove ci siamo incontrati. Userò il mio induttore d'invisibilità.» Tirò fuori una specie di griglia. «Spero, almeno.» «Non puoi fare un mostro?» chiese Marty mentre rombavano giù per la collina. L'alieno sistemò i suoi strumenti freneticamente. «Sono così stanco... Ma questo dovrebbe funzionare.» Dietro di loro la macchina dello sceriffo. Vrooomm. «Ma così non vedremo la nave» disse Lukas sconfortato. «E non vedremo più te! Mai più!» gridò Marion. «Oh, Joe, Joe caro! Per favore, ritorna!» L'alieno si era ficcato una parte del marchingegno in bocca. Tuttavia ruotò gli occhi e cercò di fare un cenno affermativo con la testa. Whelan stava spremendo tutta la velocità, e ormai erano arrivati al torrente. Il vrooomm si fece più forte. «Arriva! Corri, Joe, corri!» L'alieno si buttò fuori dalla macchina. Il suo coso dell'invisibilità era un ammasso di fili attorcigliati sulle minuscole spalle. Lui si mise ritto e provò un bottone dopo l'altro, ma non successe niente. «Corri, Joe, corri!» L'alieno aveva gli occhi fuori delle orbite per lo sforzo, pasticciava e trafficava febbrilmente per mettere in funzione il congegno, e nel frattempo aveva superato l'ingresso del pascolo. Sulla sommità della collina cominciò a suonare una sirena.
«Guardate, è diventato tutto luccicante! Sta scomparendo!» «Oh, addio, addio! Caro Joe, grazie!» La macchina dello sceriffo andava a tutto spiano, con luci e sirene spiegate. «Buona fortuna, Joe! E grazie!» «Ehi, il suo piede!» L'alieno si era dissolto in una specie di nebbiolina nell'aria tranne per un piede, che terminava in una nitida macchia rosata. Il piede scalciò un paio di volte, poi sentirono una debole vocina, che a quanto pareva stava sacramentando. Proprio quando la macchina dello sceriffo si affiancò a quella di Whelan il piede cominciò a saltellare sul prato. «Marty, è meglio se esci» disse Whelan fra i denti. «Stavo solo riportandolo a casa!» gridò allo sceriffo. Cercavano tutti di non guardare il piede solitario che saltellava attraverso il pascolo. «Ci vediamo dopo» dissero a Marty mentre scendeva e prendeva la strada di casa. La faccia dello sceriffo si abbassò sul finestrino. «Lei, il tipo dei fuochi artificiali. Fuori.» «Sono il professor Theodore Lukas, del dipartimento di biologia dell'università statale» fu la secca risposta. «Professore, eh?» Lo sguardo blu dello sceriffo si spostò in giro; poi, senza che nessuno se lo aspettasse, si mise dritto e picchiò sul tetto. «Forza, muovetevi. Muovetevi, state bloccando la strada.» «Eh, già, è in ritardo per l'osteria,» spiegò Whelan senza farsi ripetere l'invito e avviando l'auto. «Oh, cielo. Sapete che farò? Dopo aver portato il professore a casa andrò a fare un po' di spesa e andrò a prendere Helen. Nessuno troverà la macchina: ci prenderemo un weekend in paradiso!» «Non sarai solo» risero gli altri. «Spero solo che queste chiavi funzionino meglio del suo trabiccolo dell'invisibilità» disse Cleever. «Dovremo vedere che non succeda niente a Marty.» Marion tirò su col naso. «Mi chiedo se tornerà mai. Era una persona così dolce.» «Stavo pensando» disse Cleever, «che lui non ha mai usato il marchingegno...». «Oh, Cleever!» Nel pascolo l'alieno fischiettava allegramente espandendo i moduli della
piccola nave. Pensava al ritorno, ma di tanto in tanto si fermava e rabbrividiva, godendosi il fremth. Quando ebbe preparato tutto aprì i circuiti del comunicatore tenendo d'occhio una giovenca Ayeshire che lo guardava incuriosita. Gli rispose una voce eccitata. «Non ci crederai» gracchiò la voce nel loro linguaggio nativo, «ma ho trovato un'intera città piena di tipi arrendevoli! Incredibile. La città si chiama Ginevra, e non parlano che di disarmo. Uno dei tizi che ho contattato sta già pensando di trasferirsi con tutta la famiglia. Ehi, come va con te? Il fremth è buono, dove sei tu?» «Fantastico» disse l'alieno conosciuto come Joe. «Il mio gruppo ha accettato di buon grado, veramente delle brave persone. Sono sicuro che loro e i loro amici decideranno di lasciare questo pianeta per sempre, dopo un po' di visite.» «Anche i miei» ridacchiò la voce. «E come noi diciamo sempre, quando tutti i bravi ragazzi se ne sono andati, addio pianeta. Come va con Shushli? Se ha avuto la nostra stessa fortuna avremo la piazza pronta in men che non si dica.» «Qui Shushli» disse una terza voce. «Sto andando a gonfie vele, ho quasi esaurito le chiavi. Il posto si chiama Siberia. Patetico, no? È addirittura troppo facile. Ve lo dico io, non resterà una sola mente sana sul pianeta in un paio delle loro generazioni. Che sono ridicolmente brevi, tra parentesi.» «Già» disse Joe, contento. «Spero solo che i mattoidi che resteranno non rovinino troppo l'ambiente, prima di scannarsi tutti, a vicenda. Be', adesso devo andare. Sciò! No, non dicevo a voi, ma a un animale.» Joe si mise in piedi e si godette un ultimo brivido. «Ragazzi, faremo meglio a cominciare a pensare agli opuscoli di vendita. E ricordatevi di mettere il sigillo ufficiale sui rapporti, d'accordo? Sapete com'è, nessuno vorrà credere che abbiamo trovato il fremth.» 1
Poiché procione in inglese si dice «Raccoon» la battuta diventa un gioco di parole sul nome dell'autrice. (N.d.T.) LA BIBLIOTECA (Lester del Rey) Questa è l'ultima puntata della mia rubrica di recensioni per «If», e benché mi dispiaccia per la sorte della rivista, che non avrà più un'esistenza
indipendente,1 credo che mi farà bene sospendere per un po' questo tipo di attività.2 Ho fatto recensioni per più di cinque anni, e inevitabilmente una parte dell'entusiasmo iniziale è sparito col ripetersi degli sforzi. Ho il sospetto, ad esempio, di non usare più abbastanza vetriolo contro quei libri che considero tanto cattivi da meritare il pubblico ludibrio, e di non adulare a sufficienza i migliori, quelli che vorrei fossero letti dal pubblico al quale mi rivolgo. È l'eterno problema di chi tenta di rivolgersi per professione a un uditorio che non ha un interesse professionale nel campo: le impressioni tendono a formalizzarsi in una specie di codice, e a volte il codice diventa meno flessibile di quello che dovrebbe essere, sicché le impressioni anche più nuove e più fresche non possono reggersi da sole ma devono in qualche modo trovare una sistemazione in quel corpo codificato. Si può essere perfettamente consapevoli che i codici non sono altro che una somma di impressioni, ed essere al tempo stesso incapaci di aprire con facilità la mente alle impressioni nuove. Naturalmente c'è una gran differenza fra la critica e le recensioni, e anzi lo scopo del recensore è opposto a quello del critico. Il critico analizza un lavoro per trovare nuove prospettive a beneficio di un pubblico che in genere ha già letto l'opera; egli va al di là della prima impressione, paragona l'opera ad altre opere e al limite la collega all'intero sviluppo del campo di cui si sta occupando. Il recensore dovrebbe essere definito piuttosto «previsore», perché il suo compito è fornire una prima lettura il più accurata possibile, e comunicare le sue impressioni a coloro che non hanno letto l'opera. Se è onesto egli dovrà informare il pubblico dei suoi standard e metri di giudizio, in modo che i lettori possano fare la debita differenza coi propri e decidere in che misura possono seguirlo. Poi, nei limiti del proprio gusto, dovrà dire al pubblico se è il caso o meno di leggere quel determinato libro. Ho cercato di attenermi a questo codice sfruttando i «cappelli» che precedono la maggior parte delle mie recensioni; in queste introduzioni tracciavo i criteri (per quanto io stesso ne fossi consapevole) che determinano la mia reazione di fronte a un libro. Ho cercato di avvicinarmi a ciascun libro senza pregiudizi, come fa il lettore qualunque. Ma inevitabilmente il fatto che li leggessi per farne la recensione s'infiltrava nel mio giudizio. Come lettore casuale posso permettermi il lusso di ignorare un certo passaggio, come recensore no, e questo solo perché magari da quel passaggio posso ricavare un ottimo spunto per la recensione. E
se andando avanti mi accorgo che il punto che intendevo sottolineare è già stato sottolineato in passato, comincio a sviluppare un interesse professionale orientato molto più verso la recensione e il modo di risolverla che non verso il libro in sé. Così, dopo cinque anni di letture, credo che un buon periodo di riposo e il ritorno alle sane abitudini del lettore normale sia più che auspicabile. Ho detto quasi tutto quello che desideravo dire, ed è tempo di fermarmi. In realtà credo che avrei fatto meglio a fermarmi un anno o due fa. Fare le recensioni, come scrivere o leggere, dovrebbe essere un atto di puro entusiasmo, temperato solo dalla corretta misura del giudizio. Quando il giudizio - e questo vale per ogni campo - sorpassa l'entusiasmo, il risultato ne soffre. Mi dispiace tuttavia che la causa del mio ritiro debba essere la fine di questa rivista, che io ho ammirato per più di vent'anni. Ci restano ormai ben poche riviste, e la perdita di una di esse è un fatto molto doloroso. Naturalmente le cose non andavano allo stesso modo quando «If» cominciò le pubblicazioni nel marzo 1952. Era l'epoca del più grande boom che le riviste di fantascienza abbiano mai conosciuto. Non ricordo esattamente quante ce ne fossero, ma credo trenta o quaranta. Molte di quelle nuove erano puramente avventuristiche, questo è chiaro, pagavano poco e i curatori spesso non capivano un'acca di fantascienza (o di editoria toutcourt). C'erano riviste che venivano lanciate solo perché i distributori volevano «roba d'azione» e consigliavano gli editori a cimentarsi anche con la sf. Il boom interessò anche me. Dirigevo contemporaneamente quattro riviste di fantasy e fantascienza; nella casa editrice nessuno aveva idea di come si facesse una rivista di narrativa, e una rivista di fantascienza in particolare, ma il distributore le voleva ed era disposto addirittura ad anticipare il denaro. James Quinn, l'uomo che fondò «If», ammetteva di intendersi poco di fantascienza, ma a differenza dei molti editori avventuristi aveva una lunga esperienza nel campo dei pulp magazines. Rispettava i lettori e preferiva acquistare un buon racconto di uno sconosciuto piuttosto che una porcheria sfornata da una grande firma, e che magari era già stata rifiutata da tutti i curatori avveduti. Era un uomo onesto, consapevole della sua ignoranza del settore ma deciso a fare una buona rivista, e a trattare degnamente i suoi autori (l'ho incontrato una volta sola, ma tanto bastò a far nascere uno
stretto legame basato sul rispetto). Se Jim Quinn avesse cominciato in un periodo meno inflazionato (dopotutto i soldi che i lettori possono spendere sono limitati, come limitato è il numero di buoni racconti sul mercato) credo che avrebbe fatto di «If» una delle migliori riviste del nostro campo. Eppure, nonostante le difficoltà del momento, riuscì a fare molto meglio dei tanti epigoni di «Fantasy & Science Fiction» o «Galaxy». Pagava tariffe onorevoli, acquistava buoni racconti (anche se pochi veramente memorabili, e questo perché essi andavano alle tre «grandi») e nel complesso riuscì a fare della sua rivista una delle più interessanti del settore. Le sue copertine double-face del 1953 restano tra le più belle mai viste; lui personalmente cominciò a nutrire nuovo amore e nuova comprensione per la fantascienza. Probabilmente fu una sfortuna che egli si sentisse ancora «complessato» per l'inadeguata conoscenza del genere; per rimediare a ciò si rivolse ad altri che avrebbero dovuto conoscerlo meglio. Mi chiese di assumere la direzione, e io feci il mio più grande sbaglio nel decidere di non lasciare l'editore per il quale lavoravo allora. Quinn si rivolse dunque a Larry Shaw, che era un vecchio appassionato con una considerevole capacità di giudizio editoriale. Questa soluzione avrebbe dovuto funzionare, ma non fu così e per due ragioni: la prima fu che di colpo l'American News, la maggior distributrice di riviste del tempo e forse di tutti i tempi, abbandonò il campo della distribuzione, lasciandosi alle spalle una confusione e un'incertezza che avrebbero afflitto la fantascienza per anni. Questo evento uccise molte riviste e minò seriamente il successo di «If». La seconda ragione è un'opinione personale, ma che ritengo abbastanza valida. Larry Shaw vedeva la rivista in modo abbastanza diverso da Jim Quinn. Mentre Quinn era semplicemente in cerca di buoni racconti, che giudicava secondo il criterio dei pulp, Larry sentiva il bisogno di una narrativa diversa, di prestigio, che accendesse discussioni tra i fans, demolisse i tabù del genere e si prestasse comunque al dibattito. In effetti riuscì a ottenere alcuni racconti di questo tipo; ad esempio Malice in Wonderland, che presentava un mondo futuro dominato dalle droghe in un'epoca in cui i lettori non sapevano niente della droga (solo dieci anni dopo il soggetto sarebbe diventato sfruttatissimo). Presentò poi Guerra al grande nulla, storia complessa e ben congegnata costruita su un problema religioso e che io
avevo respinto perché Jim Blish non aveva pronto un seguito da collegare al suo finale filosofico, che era solo parzialmente risolto nel racconto. Questo genere di «racconti polemici» andavano benissimo, di per sé, ma i lettori che avevano seguito la rivista affezionandosi ai criteri di Quinn non apprezzarono il «genere Shaw», mentre i lettori nuovi attratti dalla politica non conformista restarono perplessi di fronte alle storie convenzionali che in fondo «If» continuava a pubblicare. I due diversi orientamenti avrebbero potuto anche conciliarsi, col tempo, ma per il momento il salto era troppo brusco. Finalmente Shaw venne sostituito da Damon Knight, ma anche lui vedeva le cose in maniera diversa da Jim Quinn. E quando il mercato cominciò a calare, «If» si trovò in difficoltà; cambiò periodicità (era stata mensile, per un breve periodo, tra il 1954 e il 1955) e nel febbraio 1959 sospese le pubblicazioni. Tuttavia era vissuta molto più a lungo di tante rivali del periodo del boom, e restava ancora fondamentalmente una rivista interessante. Robert Guinn vide tali potenzialità; egli era da parecchi anni editore di «Galaxy» e sentiva l'esigenza di una seconda rivista che si rivolgesse al pubblico da un'angolatura diversa. Anche il suo curatore, Horace Gold, voleva uno spazio dove piazzare i buoni racconti che non riteneva idonei a «Galaxy». Così «If» non morì: perse solo un numero (bimestrale) e tornò nelle edicole con la data del luglio 1959 quale sorella di «Galaxy». Giudicando col senno di poi è facile dire che Gold non diede alla rivista una fisionomia autonoma. Si era in un periodo nel quale la maggior parte delle riviste avventurose - perlopiù indirizzate ai giovani, come «Planet Stories» - erano scomparse dal mercato. Allora sembrò che questo tipo di pubblicazioni non fosse più gradito ai lettori, mentre il senno di poi ci dice che «If» avrebbe potuto caratterizzarsi proprio come la rivista che colmasse quel vuoto: in effetti la fantascienza si stava facendo carente del genere di racconto che attrae i nuovi appassionati, e che tanti lettori le aveva portato alle origini. In ogni caso Gold non riuscì a trovare il «sentiero parallelo» che cercava, e si limitò a usare «If» come la piazza dove sistemare i racconti il cui livello non gli sembrava abbastanza alto per gli standard di «Galaxy». D'altronde Gold era un uomo malato, e il lavoro editoriale gli era sempre più gravoso; nel 1962 diede finalmente le dimissioni e le riviste passarono
sotto la mano di Frederik Pohl. Pohl diede a «If» una spinta nuova, cercando di ravvivarne la fisionomia. Una delle innovazioni fu quella di pubblicare almeno un racconto di autore nuovo per numero. Questo portò alla scoperta di nuovi talenti e di ottimo materiale, e la loro fedeltà nei confronti di Pohl elevò ulteriormente lo standard delle riviste. Pohl riuscì anche a tornare alla periodicità mensile verso la fine del '64. Questo pose «If» nuovamente tra le riviste più importanti del settore: si pensi solo al fatto che i romanzi a puntate si avvantaggiano enormemente di una maggiore frequenza d'uscita, e che la qualità dei romanzi è uno dei fattori determinanti nel contribuire alla popolarità delle riviste. I risultati della direzione Pohl sono testimoniati del resto da un semplice fatto: «If» vinse il premio Hugo come miglior pubblicazione professionale nel 1966, 1967 e 1968: tre anni consecutivi. E strappò il titolo a riviste che ormai da tempo venivano considerate le sole possibili candidate al premio. Frederik Pohl aveva puntato a fare di «Galaxy» la miglior rivista possibile, così il successo di «If» dovette meravigliare lui per primo: Dal suo punto di vista, «If» era fatta per un pubblico più giovane e meno sofisticato, e ora gli toccava scoprire che perfino i lettori sofisticati amano il puro relax, il semplice divertimento. In un modo o nell'altro la rivista aveva trovato finalmente la sua fisionomia, e Pohl se ne rendeva conto; i lettori ovviamente ne erano compiaciuti. Poi «Galaxy» e «If» vennero vendute: ma non fu, come molti lettori credettero, per un calo di vendite, quanto per le complicazioni legali sorte a causa della posizione azionaria di Robert Guinn. La nuova proprietaria delle due riviste era la UPD. Alla lunga lista di coloro che avevano già servito «If» si aggiunse un nuovo curatore, Ejler Jakobsson, che lavorava già alla UPD e che aveva una certa esperienza per aver diretto altre riviste di fantascienza durante il periodo del boom. (Fu in quell'occasione che decisero di non farmi più continuare la rubrica di scienza che avevo curato fino a quel momento ma di passarmi alle recensioni.) Inevitabilmente il carattere della rivista cambiò: nessun curatore onesto deve cercare di imitarne un altro, o la rivista ne risentirà; chi subentra a una gestione precedente deve cercare piuttosto di portare avanti la sua politica, e al meglio delle possibilità. All'epoca di questo cambio della guardia le riviste del gruppo diventaro-
no quattro. Oltre a «Galaxy» e «If», infatti, si sarebbero pubblicate regolarmente «Worlds of Tomorrow» e «Worlds of Fantasy», con una quinta che minacciava di aggiungersi in futuro. Per un sol curatore fare tutto questo lavoro è veramente troppo, specie se, come nel caso di Jakobsson, si è costretti a farlo in ufficio, con tutti i problemi di una grande casa editrice che premono continuamente. (Più tardi egli ottenne di lavorare a casa, ma ormai l'impronta alle riviste era stata data.) Cercare di dare a quattro riviste un «carattere» diverso è una cosa veramente difficile, come so per esperienza, e non credo che possa essere fatto contemporaneamente; penso invece che ognuna dovrebbe avere il tempo di svilupparsi autonomamente prima di pensare a crearne un'altra. Suppongo quindi che fosse inevitabile, per «If», tornare a essere la sorella minore di «Galaxy», che nella mente dei lettori rimaneva la più prestigiosa (anche quando poi davano l'Hugo a «If»!). Ho il sospetto, a questo proposito, che quello che molti lettori si sentono in dovere di apprezzare e quello che apprezzano veramente non sia la stessa cosa; è un peccato, perché ciò che piace loro di più è molto spesso anche il meglio. Data l'impossibile mole di lavoro del curatore e la fretta con cui era avvenuta la transizione, «If» dovette diventare di nuovo la piazza per i manoscritti non adatti a «Galaxy». Intanto veniva presa la decisione di riportare «If» alla periodicità bimestrale, nonostante un lieve incremento nelle vendite. Questo la fece apparire di nuovo come una rivista minore, sia che lo fosse veramente oppure no. Personalmente ritengo che meritasse una sorte e un trattamento migliori. Jakobsson era insoddisfatto per l'eccessiva mole di lavoro e desiderava ritirarsi; «If» passò così nelle mani di Jim Baen, che ne era stato consulente amministrativo. Giudicando sempre col senno di poi potrei dire: era auspicabile che quel cambio avvenisse prima. Credo che Baen fosse il direttore che ci voleva, e l'inizio per lui non fu affatto facile. Dovette leggere un mucchio di manoscritti «scartati» da «Galaxy», e fare affidamento per un certo tempo solo su di essi. Ma ebbe la giusta intuizione che «If» andava trattata come una rivista potenzialmente buona, a prescindere dalle parentele. Voleva farne un periodico diverso dalle testate «sofisticate», voleva riempirlo di storie divertenti e recuperare quel sapore che il genere sembrava aver perduto da troppi anni (solo ultimamente si è registrata un'inversione di tendenza). Si mise dunque al lavoro su «If» con la massima volontà e ne «disegnò»
il carattere. Le diede uno stile più fresco, con nuovi disegnatori per renderla varia, e lavorò insieme con gli scrittori per ottenere il tipo di materiale che desiderava. Non credo che sia riuscito pienamente nei suoi scopi, ma da quello che lui stesso mi ha detto e dai commenti dei lettori sui risultati della rivista credo che stesse cominciando a farcela davvero. E proprio adesso la vita indipendente di questa testata finisce. Una fine determinata dai problemi di un'editoria schiacciata tra il folle aumento dei prezzi e una sempre più cattiva distribuzione. Ed è triste chiudere così, per una rivista che ha contribuito vivacemente al nostro campo per ventidue anni, e che avrebbe potuto darci tante altre sorprese ancora. Ma non voglio cedere alla malinconia. Ho sentito dire che ormai è la fine dell'epoca delle riviste, eppure non ci credo; ci sono troppi elementi che solo sulle riviste possono essere pienamente valorizzati, e la loro importanza è tale che i lettori non vorranno certo lasciarle sparire a una a una. Spero di rivedere un giorno «If» nelle edicole, e spero che quando questo avverrà assieme ai vecchi scrittori ce ne saranno di nuovi, e assieme ai nuovi artisti i vecchi amici. Mi farebbe piacere riincontrare gli alieni di Vega e magari una fantastica principessa di Fomalhaut sulle braccia di uno spaziale abbronzato e villoso! Mi piacerebbe riascoltare i campanellini che le donne indossavano fra i canali di Marte, nelle vecchie città. E infine, mi piacerebbe trovare racconti che non so immaginare, che non posso descrivere finché un nuovo autore non li ha plasmati dal nulla. Per quanto mi riguarda, sono lieto di aver avuto la possibilità di farvi conoscere la mia opinione sulle novità librarie e sulla fantascienza in generale. Sono grato a quanti mi hanno scritto per esprimere le proprie opinioni, e doppiamente grato a Ejler Jakobsson e Jim Baen per avermi lasciato esprimere in piena libertà, senza contestare il mio punto di vista. Fare le recensioni è stato divertente, finché è durato, e un giorno o l'altro potrei provarci ancora. Ma per il momento, permettetemi di sedermi in biblioteca come tutti quanti voi. Ora, dove ho messo l'ultimo romanzo di Leigh Brackett? RACCONTI PUBBLICATI NEL PRESENTE VOLUME MEZZANOTTE SULL'OROLOGIO DI MORPHY, di Fritz Leiber. Titolo originale: Midnight by The Morphy Watch. Pubblicato per la prima volta in «If», agosto 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore e dell'agente dell'autore,
Robert P. Mills Ltd., 156 E. 52nd Street, N.Y., N.Y. 10022. IL GIOCATTOLO, di Larry Niven. Titolo originale: Plaything. Pubblicato per la prima volta in «If», agosto 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore e dell'agente dell'autore, Robert P. Mills Ltd., 156 E. 52nd Street, N.Y., N.Y. 10022. UNA SERA, VOLANDO, di Bob Shaw. Titolo originale: A Little Night Flying. Pubblicato per la prima volta in «If», agosto 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore e della Scott Meredith Literary Agency, Inc., 845 Third Avenue, New York, N.Y. 10022. DELIZIA A QUATTRO MANI, di Jeffrey S. Hudson & Isaac Asimov. Titolo originale: Half-Baked Publishers Delight. Pubblicato per la prima volta in «If», agosto 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. MEFISTO E L'ESPLORATORE IONICO, di Colin Kapp. Titolo originale: Mephisto & The Ion Explorer. Pubblicato per la prima volta in «If», ottobre 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore e dell'agente dell'autore, E. J. Carnell Literary Agency, 17 Burwash Road, Plumstead, London SE18 7QY, England. SEGUENDO QUELLA STELLA LASSÙ, di Richard C. Hoagland. Titolo originale: Following Yonder Star. Pubblicato per la prima volta in «If», dicembre 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. TRIPP IN PERICOLO, di Arsen Darnay. Titolo originale: Gut in Peril. Pubblicato per la prima volta in «If», dicembre 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. LA CERVA, IL TEMPO, di Craig Strete. Titolo originale: Time Deer. Pubblicato per la prima volta in «If», di-
cembre 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. IL PUNTO DI VISTA ALIENO, di Richard E. Geis. Titolo originale: The Alien Viewpoint. Pubblicato per la prima volta in «If», ottobre 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. LA DISCESA DELL'UOMO, di J. A. Lawrence. Titolo originale: The Descent of Man. Pubblicato per la prima volta in «If», dicembre 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore e dell'agente dell'autore, Robert P. Mills Ltd., 156 E. 52nd Street, New York, N.Y. 10022. IL DONO DELL'ANGELO, di Raccoona Sheldon. Titolo originale: Angel Fix. Pubblicato per la prima volta in «If», agosto 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. LA BIBLIOTECA, di Lester del Rey. Titolo originale: Reading Room. Pubblicato per la prima volta in «If», dicembre 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. FINE