Nick Drake Tutankhamon La vita di Rahotep, capo della polizia di Tebe, sta per diventare molto complicata. Nelle ombre ...
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Nick Drake Tutankhamon La vita di Rahotep, capo della polizia di Tebe, sta per diventare molto complicata. Nelle ombre che invadono le strade della città vengono ritrovati i corpi di alcuni giovani brutalmente mutilati. Il sospetto è che siano atti violenti quale chiara minaccia per il regime, già precario a causa della corruzione dilagante e dell'impoverimento provocato da guerre interminabili. E a corte le cose non sembrano andare meglio: il giovane Tutankhamon, erede di un impero che dovrebbe essere al culmine della sua gloriosa storia, è vittima di strani incidenti che fanno pensare a una cospirazione contro di lui. Rahotep viene, così, convocato a palazzo dalla regina, che gli affida il compito di scovare il traditore. E ciò che l'uomo scoprirà sarà destinato a cambiare per sempre la sua vita...
Nick Drake, poeta, sceneggiatore e commediografo inglese, è nato nel 1961 e vive a Londra. Presso Longanesi è apparso inoltre Nefertiti (disponibile anche in TEA). In copertina: © Getty Images Grafica Rumore Bianco Narrativa / Mystery
TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Copyright © Nick Drake 2009 Nick Drake has asserted his right under the Copyright, Designs and Patents Act 1998 to be identified as the author of this work © 2010 Longanesi & C., Milano Edizione su licenza della Longanesi & C. Titolo originale Tutankhamun Prima edizione TEADUE luglio 2011 ISBN: 978-88-502-2610-8 Finito di stampare nel mese di luglio 2011 per conto della TEA S.p.A. da Reggiani S.p.A. - Brezzo di Bedero (VA) Printed in Italy TEADUE Periodico settimanale del 13.7.2011 Direttore responsabile: Stefano Mauri Registrazione del Tribunale di Milano n. 565 del 10.7.1989
TUTANKHAMON
PERSONAGGI Rahotep - Indagatore di Misteri, investigatore capo del Medjay di Tebe
Familiari e amici di Rahotep Tanefert - moglie Sekhmet, Thuyu, Nedjmet - figlie Amenmose - figlio piccolo Thot - babbuino Khety - collega poliziotto Nakht - nobiluomo Minmose - servitore di Nakht
Famiglia reale Tutankhamon - Signore delle Due Terre, «Immagine vivente di Amon» Ankhesenamon - regina, figlia di Akhenaton e Nefertiti Mutnodjmet - zia di Ankhesenamon, moglie di Horemheb
Autorità Ay - reggente e «Padre divino» Horemheb - generale degli eserciti delle Due Terre Khay - capo degli scribi Simut - comandante delle guardie di palazzo Nebamon - capo del Medjay di Tebe Maia - nutrice di Tutankhamon Pentu - capo dei medici di Tutankhamon
Quando venni incoronato re, i templi degli dei e delle dee, da Elefantina fino alle paludi del Delta, cadevano in rovina. Pareva che i santuari non fossero mai esistiti, erano diventati terra infestata dai canneti, le entrate ridotte a sentieri di terra battuta. Il paese, abbandonato dagli dei, era nel caos. Un esercito fu inviato nella Siria settentrionale per estendere i confini del regno, ma non riportò alcuna vittoria. Se ci si prostrava per chiedere il favore di un dio, egli taceva. Se si rivolgeva una supplica a una dea, questa non veniva ascoltata. Il cuore degli dei era svanito dalle statue divine. Si era distrutto ciò che era stato costruito. Dalla Stele della Restaurazione, eretta nel complesso del Tempio di Karnak nei primi anni del regno di Tutankhamon.
PARTE PRIMA
Conosco te, conosco i tuoi nomi Testi dei sarcofagi Formula 407
Capitolo 1 Anno decimo del regno di re Tutankhamon, Immagine vivente di Amon Tebe, Egitto Tre brevi colpi. Mi misi in ascolto del silenzio che seguì, col cuore in tumulto. Poi, con sollievo, sentii l'ultimo colpo, breve e familiare, dei tre convenuti. Espirai lentamente. Forse stavo invecchiando. Era ancora buio, ma ero già sveglio: il sonno mi aveva tradito di nuovo, come succede spesso nelle malinconiche ore che precedono l'alba. Mi alzai dal giaciglio e mi vestii velocemente, lanciando uno sguardo a Tanefert. Mia moglie posava elegantemente il capo sul poggiatesta, ma i suoi bellissimi occhi mi osservavano con preoccupazione. «Torna a dormire. Ti prometto che sarò a casa presto.» La baciai dolcemente. Si raggomitolò su se stessa come un gatto, guardandomi mentre me ne andavo. Scostai le tende e osservai per un attimo le mie tre figlie, Sekhmet, Thuyu e Nedjmet, addormentate nei letti della camera gialla che condividevano, stracolma di abiti, vecchi giocattoli, papiri, tavolette, disegni infantili e altri oggetti di cui mi sfugge il significato. La nostra casa è troppo piccola per loro, ormai cresciute. Per un istante ascoltai il rantolo del respiro pesante di mio padre, che dormiva nella camera sul retro. Ci fu una lunga pausa, poi, nel suo vecchio corpo si fece faticosamente strada un altro respiro. Infine, come faccio sempre prima di uscire di casa, sostai accanto al mio figlio più piccolo, Amenmose, pacificamente addormentato, le gambe e le braccia aperte, come un cane davanti al fuoco. Lo baciai sulla testa coperta da un velo di sudore. Non si mosse. Presi il lasciapassare notturno, dato che era ancora in vigore il coprifuoco, e mi chiusi la porta alle spalle senza far rumore. Thot, il mio intelligente babbuino, mi venne incontro a grandi falcate dal suo giaciglio nel cortile, la coda corta e arricciata con il ciuffetto, e si
alzò sulle zampe posteriori per salutarmi. Gli lasciai annusare il palmo della mano e lo accarezzai passando le dita nella folta criniera bruna. Accennai un gesto di libagione verso la nicchia del piccolo dio domestico, il quale sa che non credo in lui. Poi aprii la porta e uscii nelle ombre della viuzza, dove mi aspettava Khety, il mio assistente. «Allora?» «Hanno trovato un corpo», disse in tono pacato. «E mi hai svegliato per questo? Non potevi aspettare l'alba?» Khety sa che sono di pessimo umore quando mi disturbano troppo presto. «Aspetta e vedrai», rispose. Ci avviammo in silenzio. Thot tirava il guinzaglio, eccitato di essere fuori casa al buio e impaziente di esplorare tutto ciò che avrebbe trovato. Era una notte chiara, bellissima: la torrida stagione del raccolto, shemu, era finita e con l'apparizione del segno di Sirio, la Stella del Cane, era arrivata l'inondazione. Il Grande Fiume era straripato, inondando i campi con il fertile limo, fonte di vita. Ancora una volta era tornato il tempo della festa. Negli ultimi anni era accaduto spesso che il livello dell'acqua non si alzasse a sufficienza oppure, al contrario, che il fiume uscisse troppo dall'alveo e causasse ampie distruzioni, ma questa volta tutto era andato alla perfezione portando gioia e sollievo a una popolazione repressa, e forse depressa, nei tempi bui del regno di Tutankhamon, sovrano dell'Alto e del Basso Egitto. La faccia illuminata della luna proiettava la sua luce sul nostro cammino come se avessimo avuto una lucerna. Era quasi piena, con un flusso di stelle che l'attorniavano come un manto: la dea Nut, che secondo i sacerdoti vedremo con gli occhi dei defunti quando, sdraiati nelle barchette della morte, saremo trasportati attraverso l'oceano nell'Aldilà. Ci avevo pensato mentre giacevo insonne nel letto. Sono uno che vede ovunque l'ombra della morte: nei volti vivaci dei miei figli, nelle vie sovraffollate della città, nella vanità dorata di palazzi e uffici, e sempre, in un modo o nell'altro, con la coda dell'occhio.
«Secondo te, che cosa vedremo dopo la morte?» domandai. Khety sa che deve assecondare le mie estemporanee riflessioni filosofiche, e non solo quelle. È più giovane di me, e nonostante gli spettacoli raccapriccianti di cui è stato testimone durante gli anni di lavoro nel Medjay, il suo viso ha mantenuto freschezza e sincerità, e i suoi capelli, a differenza dei miei, sono rimasti neri come la notte. È ancora in forma come un cane da punta ben allenato, e con la stessa passione per la caccia, diversamente da me, che sono pessimista per natura e spesso demotivato. In effetti, più invecchio, più la vita mi sembra solo una sequela di problemi da risolvere, non di ore da godere. «Non sono divertente, negli ultimi tempi», ammisi. «Secondo me, vedremo campi verdi dove tutti gli aristocratici pieni di boria saranno schiavi e tutti gli schiavi saranno diventati aristocratici pieni di boria, e per tutta la giornata non dovremo far altro che andare a caccia di anitre nei canneti e bere birra per brindare ai nostri grandi successi.» Non raccolsi la sua provocazione. «Se dobbiamo vedere qualcosa, perché gli imbalsamatori infilano cipolle nelle orbite? Cipolle! Il bulbo delle lacrime...» «Forse nell'Aldilà si vede solo con gli occhi della mente...» replicò. «Che sagge parole», gli dissi. «E intanto, chi è nato ricco ozia tutto il giorno, gode di ricchezze e amori, mentre io sono qui a lavorare come un cane senza ricevere un soldo...» «Questo è un mistero ancora più grande.» Ci inoltrammo nel labirinto dei vecchi, angusti vicoli, aggirandoci tra case fatiscenti, costruite senza criterio. Di giorno, il quartiere sarebbe stato rumoroso e affollato ma, di notte, con il coprifuoco, tutto taceva: i negozi di lusso, con le loro merci costose, erano protetti dalle grate come oggetti funerari in una tomba, i carretti e le bancarelle del viale della Frutta avevano sgombrato per la notte, i laboratori del legno, del cuoio e del vetro erano deserti e immersi nell'ombra; persino gli uccelli tacevano, nelle gabbie appese sotto il
chiaro di luna. In questi giorni oscuri la paura tiene tutti a freno. Il disastroso regno di Akhenaton, dopo lo spostamento della corte reale e dei templi da Tebe alla nuova città sacra di Akhenaton nel deserto, era crollato dieci anni prima. I potenti sacerdoti di Amon, destituiti e privati delle loro ricchezze sotto il regno di Akhenaton, si erano visti restituire la loro autorità, le terre smisurate e le incalcolabili ricchezze. Il cambiamento, tuttavia, non aveva riportato la stabilità; i raccolti erano scarsi, la peste uccideva migliaia e migliaia di persone e i più ritenevano che tali calamità fossero la punizione per i gravi errori commessi durante il regno di Akhenaton. Inoltre, quasi a confermare questa ipotesi, i membri della famiglia reale erano morti uno a uno: lo stesso Akhenaton, cinque delle sue sei figlie e infine Nefertiti, la bellissima regina, i cui ultimi giorni rimangono un mistero aperto a molte interpretazioni. Tutankhamon ereditò il regno delle Due Terre all'età di nove anni e divenne immediatamente lo sposo di Ankhesenamon, l'unica figlia di Akhenaton e Nefertiti che fosse sopravvissuta. Era un'alleanza strana ma indispensabile, visto che erano entrambi figli di Akhenaton, benché nati da due diverse madri; essendo gli ultimi superstiti della loro grande dinastia, chi altri poteva essere incoronato? Poiché erano solo due bambini, fu Ay il reggente, il «Padre divino», come recitava il suo titolo ufficiale, a governare da allora con mano implacabile, imponendo il dominio del terrore tramite funzionari che sembravano fedeli soltanto alla paura. Uomini irreali. Il nostro è un mondo pieno di sole, ma viviamo in un luogo oscuro, davvero in tempi bui. Giungemmo a una casa non molto diversa dagli altri edifici di quel quartiere: un alto muro semidiroccato di mattoni di fango essiccato la proteggeva dallo stretto vicolo, l'accesso consisteva di una sola porta semiaperta di legno vecchio e deformato, e al di là di essa si vedeva la semplice casa di mattoni di fango: svariati piani di nuova costruzione accatastati l'uno sull'altro in equilibrio precario. Non c'è spazio da sprecare nella sovraffollata Tebe. Legai Thot a un palo nel cortile ed entrammo. Difficile definire la vera età della vittima; i tratti del viso
allungato, a mandorla, erano delicati ed eleganti, vecchi e giovani allo stesso tempo, e il suo era il corpo di un bambino, ma con un che di decrepito. Avrebbe potuto avere dodici anni, oppure venti. Da vivo le sue povere ossa dovevano essere state deformate, contorte e ripiegate su se stesse nella postura innaturale del corpo di uno sciancato. Alla fioca luce della lampada a olio collocata nella nicchia del muro, si vedeva che gli avevano spezzato le ossa in molti punti per poi ricomporle come i pezzi di un mosaico. Gli sollevai un braccio con cautela. Era leggero come uno stelo di canna spezzato; le ossa rotte lo rendevano contemporaneamente puntuto e floscio. Sembrava una strana bambola fatta di stoffa leggera e sassi aguzzi. Era stato composto come per un funerale, le gambe sciancate erano state raddrizzate, le sottili braccia diseguali incrociate, le mani, rattrappite come gli artigli di un falco, erano state aperte a forza e poi sovrapposte. Gli occhi erano coperti da foglie d'oro e contornati in verde e nero dall'Occhio di Ra. Spostai delicatamente le foglie. Gli avevano asportato entrambi i bulbi oculari. Fissai il mistero delle orbite vuote e rimisi a posto le foglie. Solo il viso non era stato risistemato, forse perché era così contorto nella sua smorfia abituale pensate a quanti muscoli occorrono per fare un sorriso - che neanche i martelli, le tenaglie e gli altri strumenti usati per ricomporre il suo corpo imperfetto erano riusciti nell'impresa. Quella smorfia costituiva una piccola vittoria su tanta efferatezza ma, naturalmente, non riusciva nell'intento. La pelle era slavata - segno che non gli era stato permesso di uscire molto spesso alla luce del sole - e fredda. Sulle dita, lunghe e sottili, le unghie accuratamente tagliate non erano state toccate. Le mani contorte non dovevano essergli servite molto da vivo, né avevano lottato contro quel destino assurdo. Strano a dirsi, non si notavano segni di legacci sui polsi, sulle caviglie o sul collo. La ferocia e la crudeltà delle mutilazioni che gli erano state inferte implicavano una forza fisica considerevole, oltre a una serie di conoscenze e competenze anatomiche che però non sarebbero bastate a ucciderlo. Una volta mi ero imbattuto in una vittima delle guerre di banda che si svolgono nelle periferie povere. Il giovane era stato avvolto in una stuoia di canne, con la testa fuori, perché vedesse meglio la sua punizione, che consisteva nell'essere bastonato
a sangue. Ricordo ancora lo sguardo di terrore impresso sul suo viso, mentre la stuoia impregnata di sangue veniva lentamente srotolata rivelando il corpo fracassato; solo allora morì. La maggior parte dei morti ammazzati racconta la storia della propria fine negli atteggiamenti, nei segni e nelle ferite inferte al corpo. Talvolta anche l'espressione è rivelatrice nella fissità quasi d'argilla della morte: panico, shock, terrore. Tutto viene registrato, e ne resta qualche traccia anche quando l'uccellino dell'anima, il ba, se ne è andato. Quel ragazzo, tuttavia, sembrava insolitamente calmo. Come mai? Ipotizzai che l'assassino potesse averlo sedato con un narcotico, il che implicava nozioni di farmacopea, o la disponibilità di farmaci. Aveva usato la foglia della cannabis, o magari il fiore del loto in un infuso di vino? Nessuna delle due sostanze avrebbe indotto altro che un lieve effetto soporifero. L'estratto di radice di mandragora è un sedativo più efficace. Il livello della violenza, però, e la raffinatezza della sua ideazione suggerivano qualcosa di molto più potente. Forse il succo del papavero; per procurarselo, bastava conoscere la persona giusta. Conservato in vasi a forma di capsula di papavero rovesciata, giungeva nel paese solo per vie segretissime. La maggior parte era coltivata e prodotta nei territori dei nostri nemici del Settentrione, gli ittiti, con i quali siamo impegnati da tempo in una guerra di logoramento per il controllo delle terre, vitali dal punto di vista strategico, che si trovano sui confini dei nostri imperi. Era un prodotto di lusso, proibito ma molto diffuso. La stanza della vittima, al piano terra, dava direttamente sul cortile ed era anonima come l'interno di un magazzino. I pochi ricordi della breve vita del ragazzo consistevano in alcuni rotoli di papiro, un sonaglio e poco altro. Un semplice sgabello, di legno, era collocato in una posizione riparata. Forse da lì, attraverso lo schermo dell'ingresso, aveva osservato la vita che scorreva nella strada. E attraverso quello stesso schermo il suo assassino poteva essersi introdotto facilmente nell'oscurità della notte. Le stampelle erano appoggiate al muro, vicino al letto. Il pavimento di fango
secco, pulitissimo, era stato spazzato con cura e non restava traccia dei sandali dell'assassino. A giudicare dalla casa e dalla sua ubicazione, i genitori appartenevano alla burocrazia di infimo livello e avevano tenuto il figlio nascosto, con tutta probabilità, per sottrarlo agli occhi critici e superstiziosi del mondo. C'era chi riteneva che quel tipo di infermità indicasse l'abbandono e il ripudio degli dei, mentre altri lo consideravano un segno della grazia divina. Khety avrebbe interrogato i servitori e avrebbe raccolto le dichiarazioni della famiglia, ma sapevo già che non sarebbe approdato a nulla: l'assassino non era certo incorso in errori banali, aveva troppa immaginazione e troppo stile. Rimasi seduto in silenzio a studiare lo strano rompicapo disposto davanti a me sul lettino, disorientato e confuso dalla deliberata stranezza dell'atto. Compiendo quei gesti, l'assassino intendeva esprimere qualcosa: un'intenzione, forse la volontà di lasciare un commento «scritto» sul corpo. La crudeltà dell'atto era un'ostentazione di potere? O indicava forse disprezzo per le imperfezioni della carne e del sangue, evocando un bisogno profondo di suprema perfezione? Oppure, ipotesi più interessante, suggeriva una specifica connessione fra l'apparente somiglianza del ragazzo con il re e le sue infermità che, fui costretto a rammentare, erano solo dicerie? Perché gli avevano dipinto il viso come Osiride, dio delle ombre? Perché gli avevano cavato gli occhi? E perché, stranamente, tutto mi ricordava l'antico rituale dell'anatema con cui i nostri antenati maledicevano i nemici, distruggendo prima le tavolette d'argilla con i loro nomi e titoli, per poi ucciderli e seppellirli, dopo averli decapitati, a testa in giù? Ero davanti a un'opera raffinata, intelligente, carica di significato, ma scritta in una lingua che non riuscivo ancora a decifrare. Allora vidi qualcosa. Intorno al collo, nascosta sotto la veste, c'era una striscia di un tessuto di lino straordinariamente sottile su cui erano stati tracciati geroglifici scritti con un inchiostro molto bello. Sollevai la lampada. Era una formula magica di protezione, una sorta di amuleto che avrebbe accompagnato il defunto nel suo passaggio notturno fino all'Aldilà a bordo della Barca del Sole. Terminava con le parole: «Il tuo corpo, oh Ra, è immortale grazie all'incantesimo».
Sedevo immobile studiando lo strano oggetto, quando Khety tossì con discrezione all'ingresso della stanza. Nascosi la striscia di stoffa nella mia veste. L'avrei mostrata al mio vecchio amico Nakht, nobile per ricchezza e carattere, esperto di saggezza e magia, e di molte altre cose. «La famiglia è pronta a incontrarti», disse. Aspettavano nella stanza accanto, illuminata dalle candele. La madre si dondolava e gemeva piano il suo dolore; il marito le era accanto in un silenzio disorientato. Mi avvicinai e porsi le mie inutili condoglianze. Feci un cenno discreto al padre, che mi accompagnò nel piccolo cortile. Ci sedemmo sulla panca. «Mi chiamo Rahotep. Sono ispettore capo nella divisione di Tebe del Medjay. Khety, il mio assistente, dovrà interrogarvi più a fondo. Mi dispiace, ma è necessario, anche in un momento come questo. Dimmi, hai sentito o visto qualcosa di strano, stanotte?» Scosse la testa. «No. Non abbiamo guardie per la notte, qui tutti ci conoscono, e non siamo ricchi. Siamo persone normali. Dormiamo al piano di sopra perché fa più fresco, però nostro figlio dormiva qui, al piano terra. Per lui era più facile così, poteva muoversi meglio, e gli piaceva osservare quello che succedeva in strada, l'unico scorcio che vedeva della vita qui in città. Se di notte aveva bisogno di noi, ci chiamava.» Fece una pausa, come in ascolto, nella speranza di sentire la voce del figlio morto. «Che razza di uomo può aver fatto una cosa simile a un ragazzo tanto semplice e gentile?» Mi guardò, ansioso di ottenere una risposta. Mi resi conto che in quel momento non avevo niente da dirgli che potesse aiutarlo. Nel suo sguardo l'intenso dolore si era improvvisamente trasformato nella lucida furia della vendetta. «Quando l'avrete preso, consegnatemelo. Lo ucciderò io, lentamente e senza pietà. Imparerà il vero significato della sofferenza.»
Non ero in grado di prometterglielo. Distolse lo sguardo e cominciò a tremare. Lo lasciai alla solitudine del suo dolore. Ci fermammo nella viuzza. A est l'orizzonte stava passando velocemente dall'indaco al turchese. Khety sbadigliò a bocca spalancata. «Sembri un gatto delle necropoli», gli dissi. «Sono affamato come un gatto», replicò quando ebbe finito di sbadigliare. «Prima di pensare alla colazione, dobbiamo pensare al ragazzo.» Annuì. «Terribile...» «Ma orchestrato in modo strano.» Annuì di nuovo, contemplando l'oscurità ai suoi piedi che pareva cambiare a vista d'occhio, come se potesse fornirgli un indizio. «È tutto sottosopra e a rovescio di questi tempi. Ma non fino al punto di mutilare e ricomporre ragazzi sciancati e indifesi...» Scosse la testa sconcertato. «E proprio oggi, il giorno della grande festa...» feci notare in tono pacato. Per un attimo lasciammo aleggiare il pensiero fra noi. «Fatti dare informazioni dalla famiglia e dai servitori. Controlla meglio la stanza, vedi se nel buio ci è sfuggito qualcosa... fallo ora che il delitto è recente. Scopri se i vicini hanno visto qualche persona insolita nei paraggi. L'assassino ha scelto il ragazzo con cura. Qualcuno può averlo visto gironzolare qui intorno. Poi va' alla festa e divertiti. Ci vediamo più tardi al quartier generale.» Fece un cenno di assenso e rientrò nella casa. Tenendo Thot al guinzaglio, mi allontanai percorrendo la viuzza e svoltai nella strada. Il dio Ra era appena apparso all'orizzonte, rinato nel nuovo giorno bianco-argentato dal grande mistero dell'Aldilà della notte, e diffondeva la sua immensa luce brillante. I primi raggi mi accarezzarono il viso, scaldandolo all'istante. Avevo promesso di tornare a casa dai miei figli entro l'alba, ed ero già in
ritardo.
Capitolo 2 All'improvviso le strade si animarono. La gente arrivava dai diversi quartieri, dalle ville della classe agiata nascoste dietro alte mura e inviolabili cancelli, o dalle misere stradine laterali e dai vicoli cosparsi di immondizia. Quel giorno, e solo quel giorno, i muli della città con i loro carichi di mattoni di fango, di macerie, di frutta e verdura, non erano in giro per le strade, e gli operai immigrati, di solito affaccendati in qualche lavoro ingrato, si godevano un raro giorno di riposo. I rappresentanti dell'élite burocratica, con le vesti bianche a pieghe, si tenevano stretti nel sedile posteriore dei piccoli cocchi trainati dai cavalli, che sobbalzavano e sferragliavano lungo le strade della città, a volte accompagnati dalle guardie del corpo che correvano loro accanto. Gli uomini delle gerarchie inferiori camminavano con servitori e parasole, accanto ai figli dei ricchi e ai loro sorveglianti, e alle signore splendidamente vestite che si stavano recando a far visita a qualcuno di buon mattino insieme alle cameriere emozionate; si dirigevano tutti, come al ritmo di un tamburo invisibile, verso il Tempio meridionale, ai margini del territorio urbano, per assistere alle cerimonie della festa. Tutti volevano presenziare all'arrivo delle barche sacre che avrebbero trasportato gli altari degli dei e, cosa più importante, desideravano dare un'occhiata al re che li avrebbe accolti pubblicamente. Poi sarebbe entrato nel sacrario più segreto e inviolabile del tempio per comunicare con gli dei e ricevere la divinità dentro di sé. Un tempo, tutti si sarebbero preoccupati di far sì che la famiglia fosse ben vestita, con abiti alla moda e ben pasciuta, per far colpo il più possibile. Ora, nei giorni dell'obbedienza imposta, la meraviglia e il timore reverenziale erano stati sostituiti da incertezza e inquietudine. Le feste non erano più quelle della mia infanzia, quando il mondo sembrava una favola senza fine; non c'erano più le processioni e le visitazioni, una stazione dopo l'altra, delle divine immagini nei loro altari d'oro, trasportate da grandi barche dorate, che si svelavano e sfilavano in parata, apparendo alle folle sudate
come grandi immagini su un rotolo di papiro vivente. Entrai nel cortile di casa e sciolsi Thot dal guinzaglio. Saltò subito sul suo giaciglio dove si accucciò per osservare con la coda dell'occhio una delle gatte che, impegnata nella sua raffinata toeletta, si leccava l'elegante zampa anteriore sollevandola in aria. Sembrava l'amante civettuola di un vecchio gentiluomo che facesse le moine al suo pubblico. Dentro casa regnava il caos. Amenmose era seduto a gambe incrociate davanti al tavolino come un piccolo re e batteva i pugni chiusi seguendo una melodia gioiosa che risuonava solo nella sua mente, mentre il latte della ciotola si spandeva sul pavimento, pronto a essere leccato da un altro gatto. Le ragazze correvano di qua e di là per farsi belle. Si accorsero a malapena della mia presenza. Gridai: «Buongiorno!» e mi risposero in coro qualcosa che somigliava a un saluto. Tanefert mi diede un rapido bacio mentre passava. Così mi sistemai a tavola con mio figlio, che mi osservò con lieve curiosità per un attimo, come se non mi avesse mai visto prima. Poi, d'improvviso, mi onorò di uno degli ampi sorrisi con cui dimostrava di avermi riconosciuto e continuò a pestare il piatto per farmi vedere quant'era bravo. È il figlio adorato che non ci aspettavamo, sorpresa e gioia dei miei anni maturi. Alla sua età, crede ancora a tutto quello che gli dico, perciò gli racconto solo il meglio. Ovviamente, non capisce una parola. Cercai di divertirlo imboccandolo e, come se fosse un'occasione speciale, bevve il suo latte con solennità. Mentre lo osservavo, pensai al ragazzo morto e alle sue miserevoli condizioni; la sua immagine grottesca si presentò d'improvviso come un'ombra al tavolo della vita. Non poteva essere una coincidenza che fosse stato ucciso in quel modo proprio nel giorno della festa. Non poteva essere assolutamente una coincidenza che i difetti fisici della vittima ricordassero quelli del nostro giovane re. Naturalmente, anche se nessuno osa menzionare in pubblico le sue (presunte) infermità, corre voce che Tutankhamon sia tutt'altro che perfetto nel suo aspetto terreno. Poiché lo si vede di rado in pubblico - e anche in quelle occasioni è sempre sul cocchio, o seduto su un trono - nessuno può stabilire con certezza quale sia la verità. È risaputo, tuttavia, che non ha mai esercitato il potere in prima
persona, anche se ormai è maggiorenne. In passato avevo incontrato diverse volte suo padre nella città di Akhenaton. In una di quelle occasioni avevo intravisto il ragazzo che sarebbe diventato re, anche se solo nominalmente; ricordavo il toc, toc, toc del suo bastone nei corridoi riecheggianti di quel palazzo tragico, fastoso, e ora sicuramente in rovina. Ricordavo il suo viso carismatico, affilato, con un mento piccolo e sfuggente. Sembrava un vecchio nel corpo di un giovane. E ricordavo quello che mi aveva detto il mio amico Nakht a proposito del ragazzo, che a quei tempi si chiamava Tutankhamon: Quando il tempo di Aton sarà giunto alla
fine, Amon sarà ristabilito. E forse il ragazzo assumerà un altro nome. Tutankhamon. Così era stato. Akhenaton, impazzito, era
stato confinato nel suo palazzo, nel polveroso aldilà della sua città di sogno in disfacimento. Dopo la sua morte, tutti i grandi templi aperti e la moltitudine di statue del re e di Nefertiti avevano iniziato la loro inevitabile trasformazione in rovine; si diceva che persino i mattoni della città costruita frettolosamente stessero tornando a essere la polvere con cui erano stati fabbricati. Dopo la morte di Akhenaton il culto di Aton era stato abbandonato in tutto il territorio delle Due Terre d'Egitto e dei suoi domini. L'immagine del disco solare con le tante mani che discendevano per benedire il mondo impugnando Xankh, il simbolo della vita, non era più scolpito sulle mura dei templi in nessuna delle nostre città. A Tebe la vita era proseguita come se tutti si fossero messi d'accordo per fingere che non era accaduto nulla. Ovviamente, i ricordi personali non si cancellano così facilmente dalla storia; la nuova religione aveva avuto molti fedeli devoti, e molti altri ancora, nella speranza di una promozione terrena, avevano legato la propria sussistenza e il proprio futuro al suo trionfo. In privato, molti continuavano a opporsi agli straordinari poteri terreni dei sacerdoti di Amon e, in particolare, all'autorità assoluta di un individuo: Ay, un uomo non propriamente e non del tutto umano, dotato di sangue freddo e di un animo determinato e indifferente come il gocciolio regolare di un orologio ad acqua. Ai giorni nostri l'Egitto è uno dei regni più ricchi e potenti che il mondo abbia mai conosciuto, eppure nessuno si sente al sicuro. La paura, quel nemico potente e inconoscibile, si è impossessata di noi come un segreto esercito di
ombre. Ci incamminammo tutti insieme affrettandoci, perché come al solito eravamo in ritardo. L'intensa luce dell'alba aveva lasciato spazio al forte, accecante calore del mattino. Amenmose sedeva a cavalluccio sulle mie spalle, batteva le mani e strillava di gioia. Avanzai a spintoni, gridando alla gente di farmi largo. Le insegne del Medjay facevano meno effetto, a quanto pareva, dei versacci di Thot, che contribuivano ad aprire un varco nella massa eccitata di corpi sudati che sgomitavano alla ricerca di aria e di spazio, affollando i vicoli, stretti e tortuosi, e i passaggi in direzione del Grande Fiume. La musica degli strumenti a corda e delle trombe rivaleggiava con grida, canti e schiamazzi, mentre la gente si lanciava richiami allegri o insulti fantasiosi. Le scimmie, legate, schiamazzavano e gli uccelli nelle gabbie emettevano strida. I venditori ambulanti elogiavano sbraitando mercanzie e vivande. Un pazzo, dalla faccia scavata e gli occhi stralunati, annunciava l'arrivo degli dei e la fine del mondo. A me e a mio figlio tutto questo piaceva immensamente. Le ragazze ci seguivano vestite con gli abiti più belli, i capelli lucenti di olio di loto e moringa. Alle loro spalle, Tanefert si assicurava che nessuna si smarrisse e che nessuno si avvicinasse loro. Le mie bambine stanno diventando donne. Come mi sentirò quando le tre grandi gioie della mia vita, una volta adulte, mi lasceranno? Le ho amate ancor prima che si affacciassero al mondo urlando nel sentirsi chiamare per nome. Il pensiero del loro allontanamento cominciava a far male e mi girai per dar loro un'occhiata. Sekhmet, la maggiore, sorrideva dolcemente; la studiosa di famiglia dice che mi legge nel pensiero, il che è allarmante, considerata la quantità di sciocchezze che rimugino. «Padre, dovremmo affrettarci.» Come al solito, aveva ragione. Il momento dell'arrivo degli dei si stava avvicinando. Trovammo posto negli stalli ufficiali all'ombra degli alberi che crescevano sulle rive. Lungo la sponda orientale erano stati eretti i
banchi delle offerte e gli altari, e si erano radunate grandi folle, piene di aspettative, in attesa dell'apparizione della nave. Salutai con un cenno le tante persone che conoscevo. Nell'area sottostante la nostra, i giovani agenti del Medjay riuscivano a fatica a controllare la folla, ma è sempre andata così durante la festa. Mi guardai intorno: il numero dei soldati era incredibilmente elevato. La sicurezza è diventata l'ossessione dei nostri tempi. Poi Thuyu gridò e additò la prima delle chiatte in arrivo da nord; contemporaneamente sulla riva apparvero le squadre che a fatica tiravano l'Userhet, la Grande Barca del dio Amon. A quella distanza l'imponente e famoso tempio galleggiante d'oro era solo un bagliore sulle acque luccicanti. Ma allorché si avvicinò e virò verso riva, le teste di ariete a prua e a poppa si illuminarono, il fulgore pieno del sole colpì i dischi solari che le sormontavano e una luce accecante si spandé sulla vasta distesa di acque verdi e scure, mandando bagliori sulla folla. Le ragazze erano senza fiato e si alzarono in piedi, salutando e gridando. Sull'albero della nave e sul remo posteriore garrivano al vento vessilli dai colori accesi. Al centro si ergeva il tempio d'oro che celava il dio nascosto; il rituale voleva che fosse trasportato in mezzo alla folla per la breve distanza che separava l'attracco dall'entrata del tempio. I rematori a poppa e le squadre sulla riva fecero accostare con precisione il vascello alla grande banchina di pietra. Ora si vedevano bene i fregi dei cobra a protezione dell'altare, le corone sulle teste degli arieti e i falconi d'oro sui loro posatoi. Amenmose si era azzittito, con la bocca aperta, stupefatto da quella visione ultraterrena. Poi, con un boato enorme, assordante, che spinse il bimbo a rifugiarsi impaurito fra le mie braccia, l'altare del dio fu issato sulle spalle dei sacerdoti. Faticarono a tenere in equilibrio il peso di tanto oro massiccio, e avanzarono lentamente e con prudenza lungo la passerella che scendeva sulla banchina. La folla premette contro la barriera formata dalle braccia delle guardie. Dignitari, sacerdoti e rappresentanti delle potenze straniere si inginocchiarono in segno di omaggio. Il tempio non era lontano dalla sponda del fiume. L'altare del dio avrebbe fatto una sosta rituale in una stazione prestabilita per ricevere le offerte e da lì, attraversata un'area scoperta, sarebbe stato
trasportato all'ingresso del tempio. Era ora di muoversi, se volevamo avere una buona visuale dell'arrivo dell'altare.
Capitolo 3 Ci facemmo largo tra la folla per giungere alla grande residenza urbana di Nakht, situata vicino al viale delle Sfingi, a nord dell'ingresso del tempio. Qui sorgono solo le case delle famiglie più ricche e potenti della città, la ristretta cerchia di cui fa parte il mio vecchio amico Nakht, benché lui non somigli minimamente ai personaggi arroganti, spocchiosi e grotteschi che formano gran parte della nostra cosiddetta élite. Avvertii per l'ennesima volta il profondo disprezzo che nutrivo per quella gente, e cercai di prepararmi agli inevitabili convenevoli che la festa avrebbe comportato. Con indosso le sue vesti più raffinate, Nakht attendeva dietro la porta principale di accogliere i numerosi ospiti ricchi e famosi. I lineamenti netti e delicati si erano fatti più pronunciati col passare del tempo, e gli occhi inconsueti, screziati, color topazio, sembravano osservare la vita e la gente come una parata affascinante, ma lievemente remota. È l'uomo più intelligente che io conosca e ama sopra ogni altra cosa la vita della mente e lo studio razionale dei misteri del mondo. Non ha una compagna, e sembra non sentirne il bisogno, poiché la sua esistenza è piena di interessi e di buone compagnie. In lui c'è sempre stato un che di rapace, come se stesse solo appollaiato qui sulla terra, pronto a volare nell'empireo come un falco con un veloce colpo d'ala della sua mente straordinaria. Non so perché siamo amici, ma ha sempre apprezzato la mia compagnia, almeno in apparenza. E di sicuro adora la mia famiglia. Appena vide i miei figli, il viso gli si illuminò di gioia; loro lo adorano. Li abbracciò, baciò Tanefert — che secondo me lo adora un po' troppo - e ci spinse tutti verso l'imprevedibile tranquillità di una bellissima corte, piena di piante e uccelli insoliti. «Salite sulla terrazza», disse, distribuendo gli speciali dolcetti della festa a ciascuno dei miei figli, come un benevolo stregone. «Siete quasi in ritardo, non voglio che vi perdiate una sola battuta di
questa giornata speciale.» Prendendo in braccio la raggiante Nedjmet, e tallonato dalle altre due ragazze, fece di corsa l'ampia scala che portava alla terrazza sul tetto, insolitamente spaziosa. A differenza di molti, che utilizzano il minuscolo tetto delle case urbane per far seccare frutta e verdura, o per far asciugare il bucato, Nakht usa il suo vasto spazio per scopi più affascinanti: per esempio, per osservare il transito delle stelle nel cielo notturno, poiché questo è il mistero che lo appassiona di più. E lo sfrutta per le sue famose feste, a cui invita gente di ogni condizione sociale; in quel momento vi si aggirava una gran folla che beveva il suo vino eccellente, assaggiava bocconcini di cibo squisito posti sui tanti vassoi sparsi ovunque e chiacchierava protetta dal tendone mirabilmente ricamato, o sotto i parasole sorretti da servitori pazienti e sudati. La vista era una delle migliori della città. I tetti di Tebe si estendevano in tutte le direzioni, un labirinto color terracotta e terra bruciata, ravvivato dai gialli e dai rossi dei raccolti messi a essiccare, affollato di mobili e ceste abbandonate e scartate, di uccelli in gabbia e di capannelli di persone riunite su quelle piattaforme panoramiche che sovrastavano il caos delle strade. Mentre osservavo il panorama, mi resi conto di quanto si fosse ampliata la città negli ultimi dieci anni. Tutankhamon aveva voluto dimostrare la rinnovata fedeltà e munificenza della famiglia reale nei confronti di Amon, il dio della città, e dei sacerdoti che possedevano e amministravano i suoi templi, costruendo nuovi monumenti e edifici sacri ancora più ambiziosi e magnifici. Per questo servivano ingegneri e artigiani in gran numero e in particolar modo operai, che occupavano le catapecchie e gli insediamenti che si erano moltiplicati intorno ai templi, allargando i confini della città a scapito dei campi coltivati, soprattutto a nord e a est. Guardando a nord, vidi gli antichi, ombrosi vicoli dei mercati, le porcilaie, i laboratori e le casupole dell'ingovernabile cuore della città, tagliato in due in modo innaturale dalla linea retta del viale delle Sfingi, costruito prima della mia nascita. A ovest si snodava il serpente d'argento scintillante del Grande Fiume e ai suoi lati i campi rilucevano accecanti, come uno specchio frantumato ad arte, là dove erano stati allagati dall'inondazione.
Molto più lontano, sulla riva occidentale, oltre le fasce coltivate, si estendevano nel deserto i grandi templi funerari di pietra, e ancora più in là le tombe segrete, sotterranee dei re, nella loro valle nascosta. A sud dei templi si ergeva il Palazzo reale di Malkata, con gli agglomerati di uffici e di case dei burocrati e, dinanzi, la grande distesa stagnante del lago Birket Habu. Fuori della città e del suo territorio passava il confine ultimo fra la Terra Rossa e la Terra Nera; si può stare con un piede nel mondo dei vivi e con l'altro nel regno della sabbia e della polvere, dove il sole svanisce ogni sera, dove mandiamo le anime dei defunti e i criminali a morire, e dove vagano i mostri degli incubi, perseguitandoci nella vasta oscurità desolata. Davanti a noi, fra le grandi città-tempio di Karnak e del Tempio meridionale, correva da nord a sud il viale, vuoto come il letto di un fiume in secca, fatta eccezione per gli spazzini che lavoravano alacremente a rimuovere ogni minima traccia di polvere e di sporcizia, assicurandosi che tutto fosse perfetto. Davanti alla grande parete dipinta di mattoni di fango essiccato del Tempio meridionale si erano schierate in silenzio le falangi dell'esercito tebano nei loro ranghi e le moltitudini dei sacerdoti vestiti di bianco. Dopo il vivace caos del porto, qui tutto era irreggimentato con ordine e disciplina. Gli agenti del Medjay fecero arretrare le folle, che si accalcavano in ogni angolo della zona scoperta e su entrambi i lati del viale, poi le dispersero in lontananza in una visione sfocata e baluginante. Quanta gente era accorsa, spinta dal sogno di dare uno sguardo propiziatorio al dio in quel Giorno Supremo! Nakht comparve al mio fianco. Per un momento restammo soli. «È la mia immaginazione, o c'è qualcosa di strano nell'aria?» domandai. Annuì. «Non c'è mai stata tanta tensione.» Le rondini, nella loro gioia solitaria, ci sfrecciavano intorno. Estrassi l'amuleto con circospezione e glielo mostrai. «Che mi dici di questo?» Lo guardò sorpreso e lo lesse in fretta. «È una formula magica per i defunti, lo sai persino tu. Ma è una formula speciale. Si dice sia stata scritta da Thot, dio della scrittura e
della saggezza, per il grande Osiride. Perché la formula sia efficace sul piano rituale, l'inchiostro deve essere di mirra. Oggetti come questi sono riservati alle cerimonie funebri delle persone in cima alla scala sociale.» «Per esempio chi?» domandai sconcertato. «Alti sacerdoti. Re. Dove l'hai trovato?» «Sul cadavere di un ragazzo, uno storpio. Non era di certo un re.» Ora toccò a Nakht mostrarsi sorpreso. «Quando?» «Questa mattina, all'alba», replicai. Rifletté su quelle stranezze e scosse la testa. «Non riesco proprio a venirne a capo», concluse. «Nemmeno io. Però non credo alle coincidenze.» «Per coincidenza si intende il riconoscimento di una connessione fra due eventi, di cui non si comprende il significato», rispose in modo succinto. «Le tue affermazioni sono sempre molto precise, amico mio. Hai il dono di trasformare la confusione in epigrammi.» Sorrise. «Sì, ma lo faccio a mio danno, l'eccessiva precisione non fa bene. La vita, come sappiamo, è soprattutto caos.» Lo osservai mentre studiava la striscia di lino e la sua strana formula magica. Stava pensando a qualcosa che non voleva esprimere a voce alta. «Ecco, è un mistero. Adesso andiamo», disse col suo tono perentorio, «questa è una festa, ci sono molte persone che voglio farti conoscere.» Mi prese per un gomito e mi condusse in mezzo alla gran folla vociante. «Sai che non sopporto i ricchi e i potenti», gli sussurrai. «Oh, non fare lo snob al contrario. Qui oggi ci sono molte persone che nutrono interessi e passioni notevoli - architetti, bibliotecari, scrittori, musicisti, nonché qualche uomo d'affari e alcuni
finanzieri -, sai bene che l'arte e la scienza hanno bisogno di robusti investimenti. Come possiamo migliorarci e crescere culturalmente se non mettiamo in comune le nostre conoscenze? E in quale altro luogo un funzionario del Medjay come te potrebbe frequentarli?» «Sei come le tue api, svolazzi da un fiore all'altro assaggiando il nettare qua e là...» «Bella analogia, davvero, solo che mi fa sembrare un dilettante.» «Amico mio, mai e poi mai ti accuserei di essere un dilettante, o un superficiale. Sei una specie di filosofo e al tempo stesso un avventuriero delle profondità dello spirito.» Sorrise soddisfatto. «Mi piace, suona bene. Il nostro mondo e l'Aldilà sono pieni di curiosità e di misteri. Ci vorrebbe più di una vita per capirli tutti. E, purtroppo, pare che ne abbiamo una sola...» Prima che potessi eclissarmi con garbo, mi presentò a un gruppo di uomini di mezz'età che stavano conversando tra loro sotto il tendone. Erano vestiti con opulenza e indossavano abiti e gioielli della migliore qualità. Mi esaminarono con curiosità, come un oggetto interessante e bizzarro che forse avrebbero comprato a un prezzo di favore. «Vi presento Rahotep, un mio vecchio amico. È ispettore capo qui a Tebe, ed è specializzato in delitti e misteri! Fra noi c'è chi pensa che avrebbe dovuto essere nominato capo del Medjay di Tebe quando se n'era presentata l'occasione.» Cercai di gestire al meglio la sua pubblica adulazione, anche se odiavo ritrovarmi in situazioni del genere, come Nakht sapeva bene. «Di certo già conoscete le capacità retoriche del mio caro amico. Riesce a trasformare il fango in oro.» Annuirono tutti insieme, come se la cosa li divertisse. «La retorica è un'arte pericolosa. È la manipolazione della differenza, si potrebbe dire della distanza, fra verità e apparenza», disse un ometto grasso con una faccia che sembrava un cuscino da divano, gli occhi azzurri e apprensivi di un bambino, e in mano una coppa già vuota.
«Di questi tempi, quella distanza è diventata il mezzo con cui si esercita il potere», disse Nakht. Scese un silenzio inquieto. «Signori, questa riunione sta prendendo una piega sovversiva», dissi per alleggerire la tensione. «Ma non è forse sempre andata così? La retorica esercita un potere persuasivo fin da quando l'uomo ha iniziato a parlare, cercando di convincere l'avversario delle proprie buone intenzioni...» disse qualcun altro. Ridacchiarono tutti. «Verissimo, ma quanto più raffinata è oggigiorno! Ay e i suoi compari ci vendono parole come se fossero verità. Ma le parole sono traditrici e inaffidabili. Se non lo so io!» disse pomposamente l'ometto dagli occhi azzurri. A questa affermazione, parecchi di loro risero, alzarono le braccia e agitarono le mani raffinate. «Hor è un poeta», spiegò Nakht. «Allora conosci l'arte dell'ambiguità delle parole. Padroneggi il loro significato nascosto. Un dono molto utile di questi tempi», affermai. Batté le mani deliziato e rise sguaiatamente. Mi resi conto che era un po' ubriaco. «Verissimo, questi sono tempi in cui nessuno può dire quello che pensa veramente. Nakht, amico mio, dove hai trovato questa creatura pregevole? Un funzionario del Medjay che si intende di poesia! Chi saranno i prossimi, soldati ballerini?» Tutti risero ancor più sonoramente, un'atmosfera leggera e piacevole.
decisi
a
mantenere
«Sono sicuro che a Rahotep non dispiacerà se rivelo che da giovane anche lui ha scritto dei versi», disse Nakht, come per appianare le sottili increspature che iniziavano ad affiorare nella conversazione. «Erano davvero brutti», replicai, «e non ne è rimasta traccia.»
«Come mai, che cosa ti ha indotto a rinunciare?» domandò premurosamente il poeta. «Non ricordo. Penso che la vita abbia preso il sopravvento.» Il poeta si rivolse alla compagnia, spalancando gli occhi divertito. «'La vita ha preso il sopravvento', che bella espressione, devo prenderla a prestito.» Gli altri annuirono con benevolenza. «Attento, Rahotep, conosco questi scrittori, dicono 'prendere a prestito' ma vogliono dire 'rubare'. Fra non molto leggerai le tue parole su qualche raccolta di nuove poesie che circolerà privatamente», dichiarò uno di loro. «E, se conosco Hor, sarà una piccola satira maligna, non una poesia d'amore», disse un altro. «Nel mio mestiere ci sono ben poche cose che si possono scrivere in una poesia», affermai. «Ed è per questo che sono interessanti, altrimenti tutto è artificio, di cui ci si stanca quasi subito», replicò il poeta, porgendo la coppa vuota a una servetta di passaggio. «Datemi ogni giorno il sapore della verità», proseguì. La ragazza si avvicinò e riempì di nuovo le coppe con un sorriso tranquillo che attrasse l'attenzione di parecchi, anche se non di tutti, gli uomini presenti. Pensai a quanto poco sapesse della realtà quell'uomo. La conversazione riprese. «Il mondo è molto cambiato in questi ultimi anni», disse qualcuno. «E, nonostante i progressi fatti in campo internazionale, i risultati ottenuti nella costruzione dei nuovi edifici, e le ricchezze di cui molti di noi godono...» «Bla bla bla», lo schernì il poeta. «...Non tutti i cambiamenti hanno migliorato le cose», concordò un altro. «Io sono contro il cambiamento. È sopravvalutato. Non migliora niente», sentenziò Hor. «Avanti, questa è un'idea assurda e contraria al buon senso. È solo un segno dell'età: dal momento che invecchiamo, pensiamo che
anche il mondo peggiori, che le buone maniere scompaiano, che i principi della morale e i livelli del sapere si impoveriscano...» disse Nakht. «E che la vita politica diventi sempre di più un'orribile farsa...» interruppe il poeta, svuotando di nuovo la coppa. «Mio padre se ne lamenta di continuo, io cerco di discuterne con lui, ma senza risultato», buttai lì. «Cerchiamo almeno di essere onesti l'uno con l'altro. Il gran mistero è che ci troviamo a essere governati da uomini di cui conosciamo a malapena i nomi, che ricoprono incarichi per noi imperscrutabili, sotto il dominio di un vecchio, un megalomane che non ha nemmeno un titolo regale, e che a mia memoria da sempre allunga la sua ombra raccapricciante sul mondo. Per l'ambizione del grande generale Horemheb siamo invischiati in una guerra lunga, e finora inutile, contro i nostri nemici storici, mentre di sicuro una buona attività diplomatica avrebbe prodotto risultati migliori e ci avrebbe risparmiato un drenaggio infinito di ricchezze. E per ciò che riguarda i due giovani membri della stirpe reale, non hanno mai avuto il permesso di crescere e di prendere il posto che gli spetta nel cuore della vita delle Due Terre. Come è potuto accadere? E per quanto tempo si andrà avanti?» Hor aveva espresso l'indicibile verità; nessuno ebbe il coraggio di replicare. «Guardiamo in faccia la realtà: i membri della nostra cerchia se la passano molto bene. Abbiamo ricchezza e lavoro, belle case e servitori. Forse per noi è un buon compromesso. Però immagino che tu sia testimone di un altro aspetto della vita», osservò un gentiluomo alto ed elegante, facendo un inchino e presentandosi a me come l'architetto Nebi. «O forse vedi le cose come veramente sono nell'atroce realtà da cui noi, che viviamo nel cerchio magico delle nostre comode esistenze, siamo risparmiati», aggiunse il poeta con un tono lievemente sprezzante. «Perché una notte non venite con me a vedere con i vostri occhi?» proposi. «Potrei mostrarvi le viuzze e le catapecchie dove persone
oneste ma sfortunate sopravvivono con la spazzatura che noi tutti gettiamo senza pensarci. E potrei presentarvi alcuni grandi criminali, esperti di efferatezze e crudeltà, che trafficano in esseri umani come se fossero merci. Molti di loro hanno lussuosi uffici in città, bellissime mogli e figli sistemati in stupende case tra gli agi della nuova periferia. Danno cene sontuose. Comprano terre. Ma le loro ricchezze grondano sangue. Posso mostrarvi il volto autentico di questa città, se vi interessa.» Il poeta si portò le mani grassocce alle tempie con un gesto teatrale. «Hai ragione. Lascio a te la realtà. Non riesco a sopportarla più di tanto, ma chi ce la farebbe? Lo ammetto, sono un vigliacco. La vista del sangue mi fa svenire, odio i poveri e i loro vestiti orrendi, e se per strada qualcuno mi sfiora incidentalmente strillo per paura di essere derubato e picchiato. No, preferisco rimanere in compagnia di parole e rotoli ben educati, tranquilli, nella mia comoda biblioteca.» «Forse nemmeno le parole sono tanto sicure di questi tempi», disse un uomo che si era messo in disparte, approfittando dell'ombra del tendone. «Ricorda che siamo di fronte a un funzionario del Medjay. Il Medjay è parte di questa città e non è immune alla corruzione e alla decadenza di cui stiamo parlando.» E mi guardò con freddezza. «Ah, Sobek. Vuoi unirti a noi?» domandò Nakht. L'uomo a cui si era rivolto era nella tarda maturità e aveva i capelli corti e grigi senza un'ombra di tintura. I suoi occhi erano di un grigio-azzurro sorprendente, e sui suoi lineamenti si leggeva un che di rabbioso nei confronti del mondo. Ci inchinammo l'un l'altro. «Non ritengo che parlare sia un crimine», dissi prudentemente. «Anche se qualcun altro potrebbe non essere d'accordo.» «Ma davvero? Così il crimine dipende dalla sua messa in atto, non dall'intenzione o dalla formulazione?» domandò. Gli astanti si scambiarono un'occhiata. «Sì, certo, altrimenti saremmo tutti criminali, e tutti dietro le sbarre.» Sobek annuì pensieroso. «Forse il mostro è l'immaginazione umana», disse. «Ritengo che
nessun animale soffra i tormenti dell'immaginazione. Soltanto l'uomo...» «L'immaginazione può estrarre il meglio e anche il peggio dagli uomini», concordò Hor, «e io so bene quel che la mia vorrebbe fare a certe persone.» «I tuoi versi sono già un tormento sufficiente», lo canzonò l'architetto. «Ed è per questo che la vita civile, la morale, l'etica e tutto ciò che le è affine sono importanti. Siamo illuminati per metà, e per metà siamo mostri», disse Nakht con fare assertivo. «Dobbiamo costruire la civiltà sulla ragione e sull'aiuto reciproco.» Sobek levò la coppa. «Alla salute della tua ragione. Le auguro ogni fortuna.» Fu interrotto da un boato proveniente dal basso, dalle strade. Nakht batté le mani e gridò: «È arrivato il momento!» Tutti corsero verso il parapetto del terrazzo e si dispersero alla ricerca della visuale migliore. Sekhmet comparve al mio fianco. «Padre, padre, vieni, o ti perderai tutto!» E mi trascinò via. Un'esplosione di giubilo, forte, assordante, risuonò come un tuono lungo il viale e si ripeté fra la folla stipata nel cuore della città. Vedevamo perfettamente lo spazio aperto davanti alle mura del tempio. «Che cosa succede?» domandò Thuyu. «Nel tempio, il re e la regina aspettano il momento giusto per apparire e accogliere gli dei», spiegò Nakht. «Cosa c'è nel tempio?» «Un mistero, che contiene un mistero, che contiene un mistero», disse. Lei lo guardò di traverso, seccata. «Non vuol dire assolutamente niente», commentò, e a ragione,
tutto sommato. Lui sorrise. «All'interno c'è una costruzione nuova, stupenda, la Sala delle Colonne. È stata appena terminata, dopo molti anni di fatiche. Non c'è niente di simile sulla Terra. Le colonne arrivano fino al cielo, e sono tutte scolpite e dipinte con meravigliose immagini del re che porge le offerte; il soffitto è costellato di innumerevoli stelle d'oro che circondano la dea Nut. Al di là c'è l'ampia Corte del Sole, circondata da numerose colonne alte e slanciate. E ancora oltre, un portale dopo l'altro, i pavimenti si alzano e i soffitti si abbassano, le ombre si infittiscono, e si arriva al cuore di ogni cosa: il tempio recintato dove il dio viene svegliato all'alba, nutrito con i cibi più squisiti, vestito con gli abiti più raffinati e messo a dormire la notte. Solo pochissimi sacerdoti e il re possono entrarvi e nessuno di loro può riferire quello che ha visto. E tu non devi raccontare a nessuno quello che ti ho appena detto, perché è un grande segreto, e i grandi segreti comportano grandi responsabilità.» La guardò con severità. «Voglio vederlo.» Thuyu sfoggiò un sorriso furbo. «Mai», disse all'improvviso Sekhmet. «Sei solo una ragazza.» Nakht stava pensando a una risposta quando le trombe squillarono con una fanfara assordante; a quel segnale le schiere dei sacerdoti si inginocchiarono all'unisono nella polvere perfettamente spianata, e i soldati si irrigidirono sull'attenti, con le punte delle lance e delle frecce che scintillavano sotto il sole implacabile. Dalle ombre delle mura di recinzione emersero due figurette, assise sui troni trasportati dai funzionari e attorniate dai cerimonieri e dai loro assistenti. Nel momento in cui abbandonarono le ombre per il sole, le vesti e le alte corone catturarono la luce abbagliante, e le due figure scintillarono accecanti. Un silenzio assoluto scese sulla città. Anche gli uccelli tacevano. Era cominciato il momento più importante del rituale. Per qualche attimo non accadde nulla, come se i due fossero arrivati in anticipo a una festa e nessuno sapesse come intrattenerli. I servitori che reggevano i parasole creavano ombre che
proteggevano le figure reali in un cerchio oscuro. Un boato distante annunciò il dio portato a spalla nel suo altare d'oro, mentre la processione svoltava con lentezza e fatica e compariva in un lampo di luce. Le figure reali attesero, sedute come bambole in costume, piccole e rigide. Il dio si stava avvicinando, preceduto dai sacerdoti d'alto rango che salmodiavano preghiere e formule magiche, circondato da acrobati e musicisti e seguito dal bianco toro sacrificale. Finalmente il re e la regina si alzarono in piedi: Tutankhamon, Immagine vivente di Amon, e al suo fianco Ankhesenamon. «Ha l'aria spaventata.» Abbassai lo sguardo su Sekhmet, e poi sulla regina. Mia figlia aveva ragione. Sotto i paludamenti del potere, la corona e le vesti, la regina sembrava nervosa. Con la coda dell'occhio vidi, stagliate sulla fitta folla che si proteggeva con i parasole dall'intensa luce solare, diverse figure sollevate da altre figure, come sulle mani unite degli acrobati, poi una serie di movimenti veloci, braccia che scagliavano qualcosa: piccole palle scure che descrissero un'inesorabile traiettoria ad arco sulle teste della folla e puntarono sulle figure in piedi del re e della regina. Il tempo si dilatò e rallentò, come negli ultimi istanti prima di un incidente. Vivaci spruzzi rossi apparvero improvvisamente sulla polvere immacolata e sugli abiti del re e della regina. Il re perse l'equilibrio e ricadde seduto sul trono. Il silenzio provocato dalla violenta emozione lasciò tutto in sospeso per un lungo istante. Poi il mondo esplose in migliaia di frammenti di rumore, gesta e urla. Temetti che Tutankhamon fosse morto, ma alzò lentamente le mani per l'orrore o il disgusto, riluttante a toccare il liquido rosso che colava dagli abiti regali formando una pozzanghera nella polvere. Sangue? Sì, ma non quello del re: era troppo e scorreva troppo veloce. Il sacrario del dio ondeggiò perché i sacerdoti che lo trasportavano, non sapendo che fare, aspettavano istruzioni che non giunsero. Ankhesenamon si guardava intorno in preda alla confusione; poi, come risvegliate da un sogno al rallentatore, all'improvviso le file dei sacerdoti e dell'esercito ruppero i ranghi.
Mi accorsi degli strilli e dei pianti delle ragazze, di Thuyu che mi si raggomitolava addosso, di Tanefert che stringeva a sé le ragazze e della breve occhiata di Nakht che mi comunicava impressione e sbalordimento per l'azione sacrilega. Sulla terrazza uomini e donne si guardavano, portandosi le mani alla bocca, o facendo appello al cielo in quel momento di sventura. Nelle strade sotto di noi scoppiò un tumulto, con la folla che si era fatta prendere dal panico, si agitava in preda alla confusione e spintonava le schiere di guardie del Medjay, cercando di riversarsi nel viale delle Sfingi, dove tutti si diedero a una fuga precipitosa allontanandosi dalla scena del delitto. Di rimando, le guardie del Medjay caricarono la folla, prendendo a bastonate tutti quelli che si trovavano davanti, afferrando per i capelli innocenti spettatori, scaraventando a terra uomini e donne alcuni vennero travolti - e imbrancando quante più persone possibile. Guardai il punto da cui erano state lanciate le palle e notai il viso di una giovane donna, teso e preoccupato; era certamente tra coloro che le avevano lanciate, e vidi che si guardava intorno per controllare se fosse stata notata, dopodiché si allontanò e raggiunse un gruppo di giovani che si raccolse intorno a lei quasi a proteggerla. Doveva esserle venuto in mente qualcosa, perché alzò gli occhi e vide che la osservavo. Sostenne il mio sguardo per un attimo e poi, nascostasi sotto un parasole, si allontanò rapidamente nella speranza di scomparire nel caos delle strade. Vidi un gruppo di guardie del Medjay riunire la folla col gesto con cui i pescatori tirano le reti, e la ragazza rimase intrappolata insieme a molti altri. Con una fretta sconveniente, il re e la regina erano già stati portati sui carri al sicuro delle mura del tempio, seguiti dal dio nascosto nel suo sacrario d'oro, e dalle torme dei dignitari che se la filavano a passi precipitosi, in preda alle loro ansie private. Tutti sparirono dietro le porte del tempio, lasciandosi alle spalle un pandemonio mai visto nel cuore della città. Alcune vesciche di sangue - rivelatesi armi più potenti degli archi più raffinati e delle frecce migliori e più rapide - avevano cambiato tutto. Guardai sotto di me la terra compatta, affollata da persone che si aggiravano vorticando in ondate di panico, e per un attimo tutto ciò che sembrava sicuro si trasformò in un abisso di ombre oscure, entro
le quali vidi il serpente del caos e della distruzione, che giace segretamente avvolto su se stesso sotto i nostri piedi, aprire i suoi occhi dorati.
Capitolo 4 Lasciai i miei familiari e dissi loro di rimanere nella residenza di Nakht fino a quando le sue guardie private non avessero potuto scortarli sani e salvi a casa. Presi con me Thot e uscii con prudenza dal portone affacciandomi sulla strada. Gli agenti del Medjay avevano fatto sgombrare quel che restava della folla, facendo alcuni prigionieri e incatenando i sospetti. Da lontano echeggiavano grida e urla nell'aria densa e fumosa. Il viale aveva assunto l'aspetto di un lungo rotolo di papiro su cui la vera storia dell'accaduto era stata registrata dalla sabbia calpestata, scarabocchiata con i segni delle impronte lasciate dalla folla che, fuggendo, aveva abbandonato migliaia di sandali. Rifiuti vagavano senza una meta. Folate di aria rovente si raccoglievano in spirali rabbiose, per morire in un vortice di polvere. Piccoli gruppi si erano radunati intorno ai morti e ai feriti, piangendo e lamentandosi con gli dei. I resti di tutti i fiori della festa, schiacciati e maciullati, offrivano un tributo propiziatorio quanto incongruo al dio di tanta devastazione. Esaminai le macchie del sangue schizzato, ormai appiccicoso e rappreso in pozze nere sotto il sole. Thot le annusò cautamente, sbattendo gli occhi nella mia direzione. Le mosche si disputavano con furia quel nuovo tesoro. Raccolsi con molta attenzione una delle vesciche e la esaminai nel palmo della mano. Non era un'arma sofisticata, come non era stato raffinato il gesto di lanciarla. Era tuttavia radicale nella sua originalità e nella rozza efficacia della sua dissacrazione: gli esecutori avevano umiliato il re come se l'avessero appeso a testa in giù e l'avessero imbrattato di sterco di cane. Passai sotto l'immagine di pietra scolpita del nostro emblema, il Lupo, Colui che apre la via, ed entrai nel quartier generale del Medjay. Fui subito assalito dal caos. Uomini di qualsiasi rango correvano di qua e di là, urlando ordini e contrordini, tanto per far mostra del loro grado e darsi una parvenza di efficienza. Nella folla intravidi Nebamon, capo del Medjay di Tebe. Mi fissò, evidentemente seccato dalla mia presenza, e con un gesto brusco mi
indicò il suo ufficio. Sospirando annuii. Chiuse con un calcio la porta dall'intelaiatura malferma, e Thot ed io ci sedemmo pazienti dal nostro lato del tavolo, che era basso e non molto pulito, ricoperto di rotoli di papiro, cibo lasciato a metà e lampade a olio sporche. Il suo faccione, sempre ombreggiato da una barba ispida, sembrava più scuro del solito. Nebamon guardò con disgusto Thot, che ricambiò l'occhiata senza scomporsi, mentre spostava qua e là i vari documenti con le mani tozze, inappropriate per un burocrate. Era un uomo del popolo, non un uomo da papiri. Avevamo evitato di parlarne direttamente, ma avevo cercato di dimostrargli che non nutrivo risentimenti per la sua promozione. Non desideravo il suo posto, nonostante la delusione di mio padre e i desideri di Tanefert. Mia moglie avrebbe preferito sapermi tranquillo in ufficio, ma sa che odio sentirmi intrappolato in una stanza afosa, impantanato nella noia e nell'assurdità della politica interna. Buon per lui. Ma adesso aveva potere su di me, e lo sapevamo entrambi. Malgrado tutto, qualcosa mi bruciava dentro. «Come va la famiglia?» domandò, senza molto interesse. «Bene. E la tua?» Fece un gesto vago come un sacerdote annoiato che scaccia una mosca fastidiosa. «Gran brutta rogna», disse scuotendo la testa. Decisi di tacere su quello che avevo visto. «Chi c'è dietro, secondo te?» domandai con aria innocente. «Non lo so, ma quando li troveremo, e li troveremo, ho intenzione di staccargli lentamente la pelle a striscioline e impalarli nel deserto sotto il sole di mezzogiorno, dandoli in pasto alle formiche e agli scorpioni. E io starò a guardare.» Sapevo che non aveva a disposizione risorse sufficienti per svolgere indagini accurate. Negli ultimi anni il finanziamento del Medjay era stato ridotto sempre più a favore dell'esercito, e al momento troppi ex agenti del Medjay erano disoccupati o lavoravano altrove - per uno stipendio assai più elevato - in qualche operazione di sicurezza privata per conto di ricchi clienti e delle loro famiglie, nelle abitazioni o nelle tombe colme di tesori di costoro.
Non era il momento giusto per gestire le forze di polizia. Pertanto Nebamon si sarebbe comportato come faceva sempre quando si trovava di fronte a un problema concreto: avrebbe arrestato un po' di presunti sospetti, per poi montare delle accuse contro di loro e mandarli a morte in modo da dare l'esempio. Così funziona la giustizia ai nostri tempi. Si abbandonò contro lo schienale e notai quanto gli fosse cresciuta la pancia dopo la nomina a capo della polizia. Il grasso, con le sue implicazioni di agi e ricchezza, sembrava far parte della sua nuova identità. «È passato un po' di tempo dall'epoca dei tuoi grandi progetti, eh? Ti stai dando da fare per entrare a far parte dell'indagine...» Il modo in cui mi squadrò mi fece venir voglia di andarmene. «Per niente. Mi godo la vita tranquilla», risposi. Fece una faccia offesa. «E allora che accidenti ci fai qui? Il turista?» «Ho esaminato un cadavere stamattina. Un ragazzo, giovane, e le circostanze della sua morte sono piuttosto interessanti...» Non mi lasciò finire. «Chi se ne frega di un ragazzo morto. Scrivi un rapporto, depositalo... e fammi un favore, vattene. Oggi non c'è niente per te. Forse la settimana prossima ti troverò qualcosa da raccattare, quando gli altri avranno finito. Bisogna lasciare spazio ai funzionari più giovani.» Mi sforzai di sorridere, ma il risultato fu un'espressione simile a quella di un cane rabbioso che scopre le zanne. Se ne accorse. Sogghignò, si alzò, girò attorno al tavolo e con finto zelo mi aprì la porta. Uscii. La porta fu sbattuta alle mie spalle. Fuori, centinaia di sfortunati, uomini e donne di tutte le età, pigiati nel cortile, urlavano la loro innocenza e le loro richieste, o si insultavano reciprocamente a gran voce. Molti offrivano tutto quello che avevano al momento - gioielli, anelli, abiti, persino qualche messaggio scarabocchiato su una scheggia di sasso - per cercare di guadagnarsi la libertà. Nessuno gli dava retta. Sarebbero stati
trattenuti arbitrariamente per il tempo necessario. Gli agenti del Medjay, metodici e spietati, legavano a tutti polsi e caviglie. Varcai il basso e buio ingresso della prigione e avvertii immediatamente il fetore caldo, animale, della paura. Nelle celle anguste si torturavano i prigionieri incatenati, a cui venivano torti mani e piedi, o inferte percosse, mentre i loro confessori ripetevano con calma le stesse domande, più e più volte, come un padre che interroghi un bambino bugiardo. Dei lamenti e delle implorazioni dei prigionieri non si teneva conto. Nessuno poteva sopportare un dolore simile, né la paura del dolore; pertanto, molto prima che si ricorresse ai coltelli, e le loro lame affilate fossero mostrate alle vittime, i prigionieri avrebbero confessato qualunque cosa. La vidi nella terza cella di detenzione. Era accucciata sulla terra fetida in un angolo buio. Entrai nella gabbia. I prigionieri mi fecero spazio, impauriti, come se temessero di essere presi a calci. Nascose il viso sotto i capelli scuri. Restai in piedi davanti a lei. «Guardami.» C'era qualcosa nel suo viso, quando lo sollevò - forse orgoglio, forse rabbia, forse l'estrema giovinezza - che mi colpì. Mi interessava conoscere la sua storia, sentivo che la sua vita era stata marchiata da qualche ingiustizia. «Come ti chiami?» Rimase in silenzio. «La tua famiglia ti starà cercando.» Si ritrasse leggermente. Mi inginocchiai per avvicinarmi a lei. «Perché l'hai fatto?» Ancora niente. «Lo sai che ci sono uomini che possono farti dire tutto quello che vogliono?» Adesso tremava. Sapevo che dovevo denunciarla, ma in quel momento mi resi conto che non potevo. Non potevo consegnarla
viva nelle mani dei torturatori. Non avrei sopportato il rimorso. Girò il viso, aspettando che si decidesse il suo destino. La guardai fisso. Cosa dovevo fare? La sollevai con rudezza e la portai fuori dalla cella. Ero abbastanza conosciuto da non dover mostrare un'autorizzazione alle guardie e mi limitai a fare un cenno, come per dire «è mia». La spinsi davanti a me lungo il corridoio fetido. Svoltammo ed entrammo nel mio ufficio dove, temendo il peggio, incominciò a dibattersi. «Stai calma e stai ferma», bisbigliai in fretta. Tagliai velocemente le corde che la legavano mani e piedi. Sul suo viso si dipinse uno sguardo di grato stupore. Stava per parlare, ma le feci cenno di rimanere in assoluto silenzio. Le pulii il viso come potei, con uno straccio immerso nel bacile dell'acqua, e nel frattempo la interrogai. «Parla sottovoce. Chi ha ordinato l'azione?» «Nessuno, abbiamo agito da soli. Qualcuno doveva protestare contro l'ingiustizia e la corruzione dello stato.» Scossi la testa di fronte a tanta ingenuità. «Pensavate di cambiare le cose scagliando del sangue contro il re?» Mi guardò con disprezzo. «Qualcosa è cambiato. Chi aveva mai avuto il coraggio di prendere posizione prima d'ora? Nessuno dimenticherà quel gesto. È solo l'inizio.» «E siete pronti a morire per questo?» Annuì, convinta dei suoi ideali. Scossi la testa. «Credimi, il vero bersaglio non è il ragazzo vestito d'oro. Ci sono altri, molto più potenti, che meritano la vostra attenzione.» «So benissimo che cosa combinano in questo paese gli uomini ricchi e potenti in nome della giustizia. E tu? Tu sei un funzionario del Medjay. Fai parte del problema.» «Grazie. Perché lo fate?» «Perché dovrei dirtelo?»
«Perché se non me lo dici, non farò quello che ho in mente di fare e non ti lascerò andare.» Mi guardò sbalordita. «Mio padre...» «Vai avanti.» «Mio padre era uno scriba negli uffici del re. Ad Akhenaton. Quando ero piccola, traslocammo tutti nella nuova città. Diceva che il nuovo regime gli avrebbe offerto stabilità e forse una promozione, e così fu. Vivevamo bene. Avevamo le belle cose che lui aveva sognato di darci. Possedevamo un pezzetto di terra. Quando tutto crollò, fummo costretti a rientrare a Tebe senza niente. Gli tolsero il lavoro, la terra, tutto quello che aveva, era un uomo distrutto. Poi, una notte, bussarono alla porta. Quando andò ad aprire, trovò i soldati ad aspettarlo. Lo misero in catene. Non ci permisero neppure di dargli un bacio d'addio. Se lo portarono via. Non l'abbiamo più rivisto.» Si interruppe non riuscendo a proseguire, ma ciò che vidi era rabbia, non dolore. «Ogni sera mia madre continua a mettere in tavola un piatto anche per lui. Dice che non lo farà più quando saprà che è morto. Sono stati gli uomini del re a farci questo. E ti chiedi perché lo odio?» La storia non mi era nuova. Molti uomini del vecchio regime avevano subito lavori forzati, spoliazioni e, in alcuni casi, erano spariti. Figli, mariti, padri erano stati arrestati e portati via in ceppi, in silenzio, e nessuno li aveva più visti. Avevo sentito parlare anche di cadaveri smembrati che erano venuti a galla a nord nel Grande Fiume. Di corpi a cui avevano cavato gli occhi, di cadaveri in decomposizione pescati dalle reti, di unghie, lingua e denti strappati. «Mi dispiace.» «Non importa.» Per lo meno, ora aveva un aspetto decente. La condussi nel cortile. Correvamo il grosso rischio di attirare l'attenzione ma, approfittando del caos generale, sgattaiolammo fra la folla, uscimmo dall'ingresso sotto il lupo scolpito, e ci trovammo nella strada movimentata.
«Capisco come ti senti. L'ingiustizia è una cosa tremenda, ma pensaci bene: la vita vale più di un bel gesto. È già abbastanza breve. E tua madre ha subito lutti a sufficienza. Va a casa da lei adesso, e restaci», le sussurrai. Pretesi che mi desse nome e indirizzo, nel caso mi fosse utile in futuro. Poi la lasciai andare, come se fosse un animale selvatico. Sparì nella città senza mai guardarsi indietro.
Capitolo 5 Era tardi quando tornai a casa. Io e Thot entrammo dal portone. Invece di dirigersi a grandi falcate verso il giaciglio nel cortile, si fermò con la coda ritta, intento ad ascoltare. La casa sembrava stranamente tranquilla. Forse Tanefert e le ragazze non erano ancora tornate dalla residenza di Nakht. Ma nella stanza d'ingresso, dove non stiamo mai, la lampada a olio era accesa. Arrivai alla porta della cucina, l'aprii senza fare rumore e varcai la soglia. Nella nicchia alla parete era accesa un'altra lampada, ma non c'era traccia delle ragazze. Mi spostai verso la porta che si affacciava sulla stanza d'ingresso. Tanefert era seduta su uno sgabello accanto ai dipinti murali che in tutti questi anni non siamo mai riusciti a finire per mancanza di soldi. Non mi aveva ancora visto, e sembrava tesa. Avanzai ancora e vidi un'altra ombra disegnarsi sul pavimento. Il braccio dell'ombra si mosse, scivolai veloce nella stanza e afferrai il braccio dell'uomo, torcendoglielo dietro la schiena. Un calice si frantumò al suolo, e il vino si spanse formando una pozza. Mi trovai a fissare il viso sussiegoso di un personaggio dell'aristocrazia d'età matura, abbigliato con vesti costose, che parve sorpreso, ma ancora padrone di sé. Tanefert si alzò in piedi, in atteggiamento vigile. Forse i nervi mi avevano ingannato. «Buonasera», disse l'uomo, in tono leggermente ironico. Lo lasciai andare. Si risistemò il ragguardevole Collare d'onore d'oro - veramente eccezionale - e si accorse di essersi macchiato l'abito di vino. Guardò con disappunto la macchia rossa. Forse era la cosa peggiore che gli fosse capitata da molti anni a quella parte. «Questo gentiluomo ti aspetta... da un bel po'.» Mia moglie era seccata. Immaginai che non ci fosse stata una gran conversazione. Sparì in cucina, da dove tornò con uno straccio e dell'acqua, facendomi gli occhi dolci. «Vorrei scusarmi per essere comparso così, senza preavviso, inatteso ospite», disse lui con una bella voce bassa.
«E senza dare spiegazioni...» aggiunsi. Si guardò intorno, ma niente di quel che vide lo interessò, e infine il suo sguardo tornò a posarsi su di me. «Non so come procedere in questa conversazione. Mi trovo in imbarazzo. Un dilemma...» «Un brutto frangente.» «Se preferisci. Un brutto frangente. E il dilemma è questo: non posso rivelarti perché sono qui. Posso solo chiedere se sei disposto a seguirmi per incontrare una persona.» «E non puoi dirmi chi è.» «Vedi? Questo è il mio dilemma.» «È un mistero.» «Si sa che sei una specie di esperto in misteri. L'Indagatore di Misteri. Non avrei mai pensato di incontrare una persona simile, e invece eccomi qui.» Mi onorò di uno dei suoi sguardi più raggelanti. «Potresti almeno dirmi il tuo nome e i tuoi titoli», obiettai. «Sono Khay. Capo degli scribi, Sorvegliante della Real Casa. Al momento, è tutto quello che posso dirti.» Che cosa ci faceva nella mia anticamera un funzionario di altissimo livello, che proveniva dal cuore della gerarchia di palazzo, in quella strana giornata di presagi e di sangue? Mi scocciava sentirmi così coinvolto. Versai il vino nei calici. Gli diede un'occhiata, assai dubbioso circa la sua qualità; lo bevve comunque, come se fosse acqua. «Dovrei seguirti subito?» Annuì con fare svagato, ma vidi che aveva assolutamente bisogno di me. «È tardi. Perché dovrei lasciare la mia famiglia senza sapere con certezza dove vado e quando tornerò?» «Posso farmi garante della tua sicurezza, ovviamente. O meglio, posso farmi garante del mio impegno a garantirti la sicurezza, il che,
ritengo, non è proprio la stessa cosa. Posso garantirti con sicurezza che tornerai a casa prima dell'alba, se vuoi.» «E se rifiuto?» «Ah... le cose si complicherebbero...» La voce si affievolì. Frugò nelle vesti ed estrasse un oggetto da un sacchetto di pelle. «Il mio cliente mi ha chiesto di mostrarti questo.» Era un giocattolo: un uomo di legno con un grosso cane dagli enormi occhi rossi, manovrati da corde e pulegge. C'era un piolo. Sapevo che, ruotando il piolo, le braccia dell'uomo si sarebbero levate per difendersi dal cane di legno che si sollevava per attaccarlo. Lo sapevo perché l'avevo già visto, molti anni prima, nella stanza dei bambini della famiglia reale. Quando la giovane regina, che quel giorno era stata imbrattata di sangue, era piccola. Spiegai ogni cosa a Tanefert, in cucina. Le ragazze erano sgattaiolate fuori dalla stanza e si erano riunite sotto il cerchio sicuro creato dalla luce della lampada. «Chi è quell'uomo?» domandò Thuyu. «È un alto funzionario.» «Un alto funzionario di che genere?» bisbigliò Sekhmet, elettrizzata dall'arrivo in casa nostra di un vero rappresentante dell'élite burocratica in carne e ossa. Tanefert le zittì, convincendole a tornare nelle loro stanze. Nedjmet, la Dolce, si fermò, quasi senza guardarmi. La sollevai e la baciai, promettendole che sarei tornato in tempo per la colazione. «Dove vai? È buio.» «Fuori, a trovare una persona.» «Per lavoro?» «Sì. Per lavoro.» Annuì con gravità. La consegnai a Tanefert che mi lanciò uno dei suoi sguardi. «Lascerò Thot di guardia.»
Mi baciò amorevolmente, e si ritirò nella nostra camera. Arrivammo ai moli, là dove partono i traghetti. Di giorno sono affollatissimi di barche e navi di tutti i generi, dalle zattere di canne, ai traghetti per i passeggeri, alle grosse navi da carico del regno, alle chiatte per il trasporto delle pietre. Il commercio che arricchisce la città e la rifornisce di merci di lusso, di materiale da costruzione e di provviste alimentari passa di qui; qui si concludono o si svelano gli affari, si contrabbandano o si importano le merci. Di notte è un luogo tranquillo. In queste ore non c'è traffico perché è pericoloso navigare il Grande Fiume dopo il crepuscolo; i coccodrilli, invisibili, vanno in perlustrazione celando la loro predatoria minaccia nelle correnti e nei gorghi che si creano nell'acqua scura. Per rovesciare la bellissima, raffinata imbarcazione su cui salimmo, tuttavia, ci sarebbero volute schiere di coccodrilli; ci sistemammo nella cabina protetta dalle tende e trascorremmo in silenzio il breve tragitto. Khay mi offrì del vino, che rifiutai. Si strinse nelle spalle, se ne versò un po' e si sedette per berlo. Mi gingillai con il giocattolo girando la ruota, cosicché il cane di legno, il dorso dal pelo irto appena sbozzato e le zanne rosse, si alzò più volte ad attaccare l'uomo. E pensai alla bambina che molti anni fa mi aveva detto: Guarda! Questo sei tu...! Non avevo intenzione di riaprire la scatola sigillata di quei ricordi. Non ancora. Contemplai i bassi tetti e le bianche mura di Tebe illuminati dalla luna, mentre veleggiavamo verso la riva occidentale. Gran parte della moltitudine di persone che affollava la città dormiva per prepararsi a riprendere le perenni fatiche dell'indomani; solo i ricchi e chi disponeva a piacimento del proprio tempo potevano stare ancora alzati, bere vino e godere dei piaceri delle feste, spettegolando degli eventi della giornata, della politica e delle sue conseguenze. Non attraccammo direttamente alla banchina occidentale, ma superammo la postazione delle guardie e risalimmo un canale lungo e oscuro fra alberi e campi, dove ferveva la vita notturna. Il canale, costruito secondo le linee rette tanto care agli ingegneri, si apriva d'improvviso nel grande bacino a T del lago Birket Habu. Schiere di uccelli notturni bisticciavano sulla sua superficie immota e piatta. Gli
strapiombi di roccia appena sbozzata che dovevano proteggere gli edifici contro l'inondazione nascondevano il paesaggio. Ma sapevo bene cosa c'era oltre i contrafforti: il Palazzo di Malkata, un vasto assembramento di edifici dove avevano dimora, ben sorvegliati dalle guardie, i membri della famiglia reale e le migliaia di funzionari, soldati e servitori che rendevano possibile la loro strana vita. Era noto come il «Palazzo della Gioia», ma la costruzione buia che cominciavamo a intravedere presentava ben poche caratteristiche che suggerissero un nome tanto ottimistico. Era famoso per la sua tortuosità, oltre che per quanto era costato, all'epoca del nonno di Tutankhamon, e per il notevole impianto idrico che correva voce rifornisse i bagni, le piscine, i giardini fino al cuore del palazzo. Si diceva che i letti fossero intarsiati d'ebano, d'oro e argento. Si diceva che gli stipiti fossero d'oro massiccio. Insomma, le solite cose che dice la gente su palazzi da sogno che non vedrà mai. Attraccammo al vasto pontile che si estendeva per tutto il fronte del lago. Ciotole di rame per l'olio, appoggiate a elaborati sostegni, erano accese e diffondevano una luce gialla e arancione, forte e inquietante. Le guardie di palazzo fecero un profondo inchino quando io e Khay scendemmo dalla barca. L'ampiezza della riverenza testimoniò esplicitamente l'importanza dell'uomo, che in ogni caso li ignorò come sempre fanno le persone d'alto rango. Ci incamminammo per una lunga via processionale illuminata dalle lampade e dalla luna, familiare e ben accetta, dirigendoci verso la sagoma bassa e lunga del complesso del palazzo - il cuore sospinto dal mistero che ci aspettava, i piedi dal destino - ed entrammo in una grande oscurità.
Capitolo 6 Il Sorvegliante della Real Casa prese una lampada a olio accesa da una nicchia. Tutto taceva negli splendidi arredi, impenetrabili al mondo esterno. Per tutta la lunghezza del corridoio che percorremmo in fretta, vidi statue e sculture meravigliose appoggiate ai piedistalli. Mi chiesi che cosa succedesse in quelle stanze defilate; quali riunioni, quali discussioni, quali decisioni fossero prese e con quali ripercussioni a cascata sulle gerarchie e sul mondo esterno, inconsapevole e privo di potere. Continuammo a camminare, girando ora a destra, ora a sinistra, attraversando grandi saloni dai soffitti alti e pieni di echi, dove sparuti gruppi di funzionari confabulavano e stazionavano le guardie, inoltrandoci sempre più nel cuore del complesso. Era un labirinto di ombre. Ogni tanto passavano un servo o una guardia a testa china, che cercavano di non farsi notare mentre tenevano accese le lampade a olio. Una sala dopo l'altra, apparivano e sparivano alla luce della lampada gli stupendi dipinti murali che raffiguravano i piaceri e i divertimenti dell'aristocrazia: uccelli nei canneti, pesci nelle acque limpide. Sarebbe stato difficile trovare la strada del ritorno. I miei piedi facevano il rumore sbagliato, portando un elemento di disordine in quella quiete amplificata. Khay si muoveva silenzioso nei suoi sandali costosi. Decisi di fare ancora più rumore, tanto per dargli fastidio. Si guardò bene dal voltarsi per degnarmi di una sola occhiata. Ma scoprii che si può capire l'espressione di una persona dalla sua nuca. Oltrepassammo veloci un posto di blocco, visto che a Khay bastò un cenno alle guardie scelte del quartier generale, e fui condotto nelle stanze più segrete che si affacciavano su un altro corridoio altissimo; ci fermammo infine davanti a una grande porta a due ante di legno scuro, che era intarsiata d'oro e d'argento e sovrastata dal fregio di uno scarabeo alato. Khay bussò con decisione e, dopo una pausa, le porte si aprirono consentendoci di entrare in un vasto salone.
Superfici e mobili sfarzosi erano rischiarati da grandi ciotole di ferro battuto, sistemate lungo le pareti, in cui la fiamma brillava ferma e chiara. Mobili e arredi erano di una sobrietà impeccabile. Qui, pareva dicesse la stanza, si può vivere con calma, coltivando sentimenti elevati. Ma il salone aveva anche l'aspetto di uno scenario teatrale: come se dietro le facciate meravigliose si celassero le macerie dei muratori, i pennelli dei pittori e qualche lavoro non finito. Una giovane donna entrò in silenzio dalla corte che si estendeva oltre le porte aperte e si fermò sulla soglia, fra la luce delle lampade nelle grandi ciotole e le ombre che circondavano ogni oggetto. In lei c'era qualcosa di entrambe. Ankhesenamon avanzò nella luce e si fece più vicina. Il suo viso, splendente di gioventù, era seducente e fiducioso. Portava una parrucca alla moda, lucente, con le trecce, che ne incorniciava i lineamenti, una gonna di lino a pieghe che, annodata sotto il seno destro, scolpiva la figura elegante con il suo taglio fluido, e un largo collare d'oro, formato da innumerevoli file di amuleti e perle. Ai polsi e alle caviglie bracciali rigidi e braccialetti oscillavano e tintinnavano con eleganza al suo incedere. Anelli d'oro e di elettro scintillavano sulle dita delicate. Rotondi orecchini dorati sfavillavano alla luce della lampada. Aveva dipinto accuratamente il contorno degli occhi con il kajal, disegnando le linee nere con uno stile un po' fuori moda. E mentre mi osservava con un lieve sorriso sulle labbra, mi accorsi che intenzionalmente faceva di tutto per somigliare a sua madre. Khay chinò subito la testa, e io lo imitai aspettando che fosse lei a iniziare la conversazione, come richiedeva il protocollo. «Non so se mi ricordo di te, o se ricordo semplicemente quello che mi è stato raccontato.» La sua voce esprimeva padronanza di sé e curiosità. «Vita, prosperità e salute. Eravate molto giovane, maestà.» «In un'altra vita. In un altro mondo, forse.» «Le cose sono cambiate», dissi. «Solleva lo sguardo», disse lei quietamente e con un bagliore enigmatico negli occhi scuri si girò, aspettando che la seguissi.
Entrammo nella corte. Khay non si ritirò, ma ci seguì con discrezione tenendosi a distanza, in modo da udire le nostre parole senza darlo a vedere. Una fontana gorgogliava da qualche parte nell'oscurità. L'aria tenebrosa era profumata e fresca. La regina camminò per un sentiero ornamentale illuminato da lampade più tremolanti, inoltrandosi nell'oscurità sognante. Mi sovvenni della bambina petulante e frustrata che avevo conosciuto anni addietro. Adesso eccola: una giovane donna elegante e di belle maniere. Persino il tempo aveva voglia di prendermi in giro. Dove erano finiti gli anni? Forse era cresciuta di colpo, troppo in fretta, come succede alle persone giovani quando un cambiamento devastante si abbatte sulle loro vite. Pensai alle mie figlie, così a loro agio con se stesse e con i naturali cambiamenti dell'esistenza. Grazie agli dei della buona sorte, non avevano bisogno di strategie e apparizioni di quel genere. Anch'esse, tuttavia, stavano crescendo e si dirigevano a poco a poco verso il futuro che le attendeva. «Allora ti ricordi di me», sussurrò mentre camminavamo. «Avevate un nome diverso a quei tempi», risposi prudentemente. Distolse lo sguardo per un istante. «Non ho potuto scegliere il mio destino. Ero una bambina scontrosa e infelice e, a differenza delle mie sorelle, non mi comportavo come una principessa; ora che sono tutte morte, mi tocca occupare un posto molto più importante. Ho una nuova identità, ma non mi sento ancora degna del ruolo per il quale sono stata... designata. È questa la parola? O destinata?» Sembrava che parlasse di un'estranea, non di se stessa. Giungemmo a una lunga piscina d'acqua scura al centro della corte, con lampade a olio in ogni angolo. La luna vi si rifletteva, ondeggiando lenta nel sogno dell'acqua. Il luogo aveva qualcosa di romantico e segreto. Passeggiammo lungo il bordo della piscina. Sentivo che ci stavamo avvicinando al cuore del problema. «Mia madre mi disse che se mi fossi trovata in pericolo avrei dovuto rivolgermi a te. Mi assicurò che saresti venuto.» «Eccomi qui», risposi a bassa voce. Avevo sigillato il ricordo di sua
madre in una scatola che avevo riposto in un angolo della mente. Il ricordo era troppo potente, e senza speranza, perché potessi fare diversamente. E anche se ormai era morta, non cambiava nulla, perché continuava a vivere nei miei sogni dove non avevo il potere di controllarla. «Dato che mi avete fatto chiamare, e considerata la mia presenza qui, il pericolo deve essere grave.» Un pesce ruppe la superficie immobile, formando nell'acqua anelli concentrici che si infransero silenziosi sulle sponde della piscina. Il riflesso della luna si spezzò e lentamente si ricompose. «Sono preoccupata dai segni. Dai presagi...» «Non credo molto ai segni e ai presagi.» «Così ho sentito dire, ed è importante. Io e mio marito ci lasciamo spaventare con troppa facilità. Abbiamo bisogno di una persona meno superstiziosa, afflitta da meno paure. Credo di essere una donna moderna che non si lascia spaventare da cose inesistenti, ma sotto sotto non è così. Forse questo palazzo non aiuta. È così grande e senza vita che l'immaginazione lo popola dei propri timori. Un soffio di vento arriva dalla direzione sbagliata, dalla Terra Rossa, e io avverto immediatamente la presenza di spiriti malvagi che muovono le tende. Queste camere sono troppo grandi perché vi si possa dormire tranquillamente. Tengo le lampade accese tutta la notte, mi affido alla magia, stringo gli amuleti come una bambina... è ridicolo, perché non sono più una bambina e non posso cullarmi nelle paure infantili.» Guardò lontano. «La paura è una nemica potente, ma anche un'utile amica.» «Questa è una tipica affermazione maschile», replicò divertita. «Forse dovreste dirmi di che cosa avete paura», dissi. «Mi dicono che sai ascoltare.» «Non è quello che sostengono le mie figlie.» «Già, hai delle figlie. Una famiglia felice...» «Non è sempre così semplice.» Annuì. «Nessuna famiglia è semplice.»
Fece una pausa, pensierosa. «Ho sposato mio marito quando eravamo entrambi molto giovani. Io avevo qualche anno più di lui, ma eravamo due bambini, che lo stato ha unito per via delle sue alleanze di potere. Nessuno ci ha chiesto se lo volessimo. Adesso ci esibiscono come statue nelle cerimonie pubbliche. Eseguiamo i rituali. Compiamo i gesti previsti. Ripetiamo le preghiere. Poi ci riportano a palazzo. In premio per la nostra obbedienza, abbiamo lusso, privilegi e piaceri. Non mi lamento, è tutto quello che ho. Da molti anni, questo luogo sacro e bellissimo mi fa da casa: non ne ho mai conosciute altre. È una prigione, ma l'ho sempre sentita come casa mia. È strano che la pensi così?» Scossi la testa. Fece di nuovo una pausa, pensando alle parole che stava per dire. «Ultimamente, però, non mi sento al sicuro, nemmeno qui.» «Perché?» «Per una serie di motivi. In parte, forse, perché avverto dei cambiamenti nell'atmosfera che si respira. Questo palazzo è un mondo molto controllato e disciplinato. Perciò, quando le cose cambiano, me ne accorgo subito: oggetti che non sono dove dovrebbero essere, o che appaiono dal nulla. Cose che non hanno senso e che, tuttavia, considerate sotto una luce diversa, potrebbero implicare qualcosa di misterioso... e poi, oggi...» Le mancarono le parole. Si strinse nelle spalle. Aspettai che riprendesse. «Parlate di quello che è successo durante la festa? Il sangue...?» Scosse la testa. «No. Parlo di qualcos'altro.» «Me lo potete mostrare?» «Certo. Ma prima devo dirti ancora una cosa.» Mi fece sedere su una lunga panchina tra le ombre e parlò in tono più prudente e sussurrato, come una cospiratrice. «Quello che sto per confidarti è un segreto, di cui sono al corrente, oltre a me, solo pochi uomini fidati. Mi devi dare la tua parola che manterrai il silenzio. Le parole hanno potere, e anche il silenzio ne ha. Sono poteri che mi appartengono, vanno rispettati e
osservati. Se non lo farai, lo verrò a sapere e sarai punito.» Mi guardò con espressione solenne. «Avete la mia parola.» Annuì sollevata e inspirò profondamente. «A breve Tutankhamon annuncerà la sua incoronazione e ascensione al trono. Avrebbe dovuto farlo oggi, dopo aver comunicato con gli dei. Non è stato possibile, ovviamente. Questa volta ce lo hanno impedito, ma non ci faremo fermare. È in pericolo il futuro del regno.» Mi guardò, in attesa delle mie reazioni. «È già il sovrano», commentai con prudenza. «Solo di nome, perché Ay è il reggente, e detiene tutto il potere. Il suo governo è l'autorità che domina il paese. Rimane invisibile e, con quella copertura, fa quel che vuole, mentre noi siamo soltanto i suoi burattini. Dobbiamo prendere il potere adesso. Siamo ancora in tempo.» «Sarà molto difficile. È molto pericoloso.» «Certo. Adesso sai perché ti ho fatto chiamare.» Sentivo le tenebre del palazzo infittirsi intorno a me a ogni parola che pronunciava. «Posso fare una domanda?» Annuì. «Siete certa che Ay non voglia dare il suo appoggio al re?» Di colpo Ankhesenamon assunse l'espressione più malinconica che avessi mai visto in una donna. Fu come se la porta del suo cuore si fosse improvvisamente aperta per una folata di vento, e in quell'attimo capii che non ci sarebbe stato ritorno da quella strana notte, né fuga dal lugubre labirinto di quel palazzo. «Se sapesse, ci annienterebbe entrambi.» Nei suoi occhi lessi determinazione e paura al tempo stesso. «Siete certa che non sappia?» «Non posso esserne sicura», disse, «ma non ne ha dato segno. Tratta il re con disprezzo e lo tiene in una condizione infantile di dipendenza ormai superata. La sua autorità deriva dalla nostra arrendevolezza, ma parte da presupposti sbagliatissimi: ci sottovaluta. Mi sottovaluta. Non lo sopporterò ancora a lungo. Siamo i figli di nostro padre. Io sono la figlia di mia madre. C'è lei dentro di me, che mi chiama, mi incoraggia, mi infonde sicurezza
contro le mie paure. È giunta l'ora di far valere i nostri diritti dinastici. Credo di non essere la sola a ripudiare un mondo governato da un uomo dal cuore tanto duro.» Dovevo riflettere attentamente. «Ay ha molto potere. È anche straordinariamente intelligente e spietato. Vi serve una strategia efficace e fuori dell'ordinario per sconfiggerlo», risposi. «Ho avuto molto tempo a disposizione per studiare lui e gli stratagemmi della sua mente. L'ho osservato a lungo, mentre credo che lui, al contrario, non mi abbia mai preso in considerazione. Sono una donna, quindi non si cura di me, non mi vede neanche. Ma... mi è venuta un'idea.» Per un attimo sembrò molto fiera di sé. «Conoscete la posta in gioco, vero?» dissi con prudenza. «Anche se riusciste a proclamare l'ascensione al trono del re, Ay manterrebbe saldamente le redini del governo. Controlla molte fazioni e molti potenti.» «La crudeltà di Ay è nota, ma noi non siamo privi di alleati e a lui non mancano nemici importanti. E poi c'è il suo amore ossessivo per l'ordine. Si farebbe tagliare a pezzi piuttosto che rischiare di far ripiombare il mondo nel caos.» «Preferirebbe, sempre e comunque, far tagliare a pezzi mille altri prima di lui.» Per la prima volta sorrise. «La preoccupazione maggiore di Ay è una minaccia alla sua supremazia che proviene da tutt'altra parte. Il generale Horemheb sta aspettando l'occasione, lo sanno tutti. E, ricorda, abbiamo un altro vantaggio su Ay, forse il più importante...» «Quale sarebbe?» «Il tempo. Ay è vecchio. Gli dolgono le ossa. Ha male ai denti. Il tempo, il distruttore, l'ha scovato e si sta prendendo la sua rivincita. Noi siamo giovani e il tempo è nostro alleato.» Rimase seduta in tutta la semplice bellezza della sua giovane età, vestita con l'oro del dio sole, e sorrise a quel pensiero. «Il tempo è anche un emerito traditore e ci tiene tutti alla sua mercé.» Annuì.
«Sei saggio a riconoscerlo, ma questo è il nostro momento. Dobbiamo cogliere l'attimo, per la nostra salvezza e per la salvezza delle Due Terre. Se non ci riusciamo, prevedo tempi bui per tutti noi.» «Posso fare un'ultima domanda?» Sorrise. «Ho sentito dire che ti piacciono le domande. Devo riconoscere che è vero.» «Tutankhamon quando annuncerà la sua incoronazione?» «Nei prossimi giorni. È stata fissata un'altra data per la cerimonia di inaugurazione della nuova Sala delle Colonne. In quel giorno il re entrerà nel sacrario segreto e sarà il momento più propizio al cambiamento.» Era intelligente e sveglia. Il re avrebbe fatto visita agli dei e, dopo un simile evento, l'annuncio sarebbe stato perfetto, sancito dall'autorità divina. Sentii un fremito di emozione alla prospettiva di un cambiamento: una sensazione che non provavo da tempo. Poteva funzionare. Sapevo, tuttavia, che il mio ottimismo era pericoloso, poteva trascinarmi nell'imprudenza; per ora, eravamo ancora nel mondo delle ombre. «Avete detto che volevate mostrarmi qualcosa.»
Capitolo 7 Era un intaglio di piccole dimensioni che raffigurava Akhenaton, Nefertiti e le figlie maggiori, in adorazione di Aton, il disco solare, il grande simbolo della loro rivoluzione. Dal disco scendevano numerosi raggi, ciascuno dei quali terminava con una mano divina che offriva Xankh, il sacro simbolo della vita, a strane figurette umane con le braccia alzate nell'atto di ricevere le benedizioni divine. Benché le membra fossero rappresentate nella forma allungata e fluida tipica dello stile del periodo, si trattava certamente di un ritratto di famiglia. Non avendo erosioni o screpolature ai margini, causate dal vento e dal tempo, la pietra non doveva risalire a molti anni addietro. Proveniva senz'altro dalla città di Akhenaton. Presentava alcune caratteristiche inquietanti. In primo luogo, i geroglifici del nome di Aton erano stati cancellati. I nomi hanno potere e quella era una profanazione voluta, una minaccia all'anima stessa di Ra. In secondo luogo, il disco del sole, il grande cerchio simbolo della vita, era stato asportato. Nessuna delle due manomissioni, tuttavia, era un fatto inconsueto poiché, dopo l'abolizione della religione, gli atti di iconoclastia erano comuni. Ma la cosa peggiore era che gli occhi e i nasi di tutti i membri della famiglia reale fossero stati asportati con uno scalpello, sicché nell'Aldilà non avrebbero più potuto utilizzare vista e olfatto. Notai che erano stati cancellati anche i nomi regali di Ankhesenamon: una profanazione mirata. La pietra intagliata era stata rinvenuta in una scatola quel mattino, all'interno degli appartamenti reali, mentre si svolgeva la festa. Un cartiglio offriva in regalo il contenuto al re e alla regina. Nessuno ricordava che fosse stata consegnata, e alle guardie reali di sorveglianza al cancello non risultava alcuna registrazione del suo recapito. Sembrava comparsa dal nulla. La scatola in sé e per sé non aveva nulla di speciale. Era una scatola intagliata, forse di legno d'acacia, di stile e fattura tebana. Rovistai tra la paglia in cui era stata avvolta. Nessuna annotazione. Nessun messaggio. La pietra
intagliata era il messaggio. Entrarne in possesso non doveva essere stata un'impresa da poco, poiché Akhenaton, la Città dell'Orizzonte, benché non del tutto disabitata, stava lentamente tornando a essere polvere e quasi nessuno vi si recava più. Aveva fama di essere un posto abbandonato e maledetto. Studiai l'enigmatico oggetto insieme a Khay. «Pensate possa esserci un collegamento tra la pietra e quello che è successo oggi al tempio e che i due episodi costituiscano una minaccia alle vostre vite?» domandai. «Ciascuno di essi, preso separatamente, di per sé sarebbe allarmante. Due in un giorno solo...» rispose. «Quello che è accaduto oggi non deve essere per forza collegato alla comparsa di questa pietra», dissi. «Come fai a esserne sicuro?» replicò subito Ankhesenamon. «L'evento pubblico è stato un'azione di dissenso di matrice politica. Questa pietra è più intima, personale.» «Mi sembra un po' vago», disse Khay in tono frivolo. «Il primo è stato un gesto rozzo, compiuto da un gruppo di persone che non avevano altro modo di manifestare opposizione e rabbia. Non avrebbero potuto accedere al potere costituito se non scagliando qualcosa contro il re nel corso di una cerimonia. Nonostante la drammaticità dei suoi effetti, non è l'azione di persone potenti. Si tratta di esclusi, emarginati, che non esercitano alcuna influenza. Questa pietra è diversa: è più efficace, più significativa e raffinata. Implica la conoscenza della scrittura, del potere dei nomi e degli effetti dell'iconoclastia. Ha richiesto una preparazione notevole e una conoscenza dall'interno delle misure di sicurezza in vigore negli appartamenti reali. Possiamo dedurne che è opera di un membro dell'aristocrazia, forse di qualcuno che fa parte della gerarchia.» «Che cosa stai insinuando?» domandò Khay, irrigidendosi. «Che arriva dall'interno del palazzo.» «Assolutamente impossibile. Gli appartamenti sorvegliati ininterrottamente e con molta diligenza.»
reali
sono
«Eppure, eccola qui», dissi. Sollevò il mento appuntito. Si inalberò con legittima indignazione come un uccello molestato. Seguitai prima che potesse interrompermi: «Inoltre, chi ha perpetrato il crimine era molto sicuro del fatto suo, perché l'oggetto mira a insinuare la paura là dove crea più danno. Nella mente del re e nelle persone a lui più vicine». Mi fissarono sconcertati. Forse avevo parlato troppo, attribuendo al re debolezze umane, ma ormai era troppo tardi per la correttezza e il rispetto del protocollo. «... o forse il colpevole sperava di produrre un effetto simile. Posso dare per scontato che nessuno ne è al corrente?» Khay assunse l'espressione di chi ha appena mangiato un frutto acerbo. «Ay ne è stato informato. Vuole sapere tutto quello che accade negli appartamenti reali.» Per un istante nessuno parlò. «Sai quello che sto per chiederti», disse Ankhesenamon con voce pacata. Annuii. «Volete che trovi chi ha inviato l'oggetto e ha commesso questa dissacrazione piena di ostilità.» «Ci sono persone malevole che hanno accesso agli appartamenti reali e vanno scovate, ma io ho bisogno di qualcosa di più: voglio che ti occupi di me e di mio marito come nostro... protettore privato. Voglio che tu sia il nostro guardiano, la persona che ci sorveglia in incognito...» «Avete le guardie di palazzo», obiettai. «Non mi posso fidare di loro.» Ogni frase di quella conversazione mi faceva sentire sempre più in trappola. «Sono un uomo solo.» «Sei il solo uomo. Per questo ti ho fatto chiamare.» L'ultima porta che avrebbe potuto farmi uscire e tornare alla vita che avevo scelto si chiuse in silenzio. «Qual è la tua risposta?» Nella mia mente se ne affollarono molte e tutte in conflitto tra
loro. «Per me sarà un onore adempiere alla promessa che feci a vostra madre», risposi infine. Mi si strinse il cuore pensando alle conseguenze di quelle parole. Sorrise sollevata. «Tuttavia, non posso abbandonare la mia famiglia...» «Forse è anche meglio. Deve rimanere un segreto fra noi. Farai la tua solita vita, poi...» «Ay mi conosce. Altri saranno informati della mia presenza. Non posso restare qui in segreto. Il mio compito diventerebbe impossibile. Dite semplicemente che avete assunto al vostro servizio anche me, oltre alle guardie di palazzo, per le minacce che avete ricevuto. Dite che sono qui per fare una verifica indipendente dei sistemi di sicurezza interni.» Lanciò uno sguardo a Khay, che soppesò le opzioni e infine fece un solo cenno col capo. «Accordato», disse lei. Il pensiero della doppia vita che mi aspettava mi rese ansioso e, se devo essere sincero, eccitato. Avevo promesso a Tanefert che non avrei abbandonato la famiglia. Ragionando, mi dissi che non ero venuto meno alla promessa, perché non avrei dovuto lasciare la città per inseguire quel mistero. E, sotto il controllo di Nebamon, non mi rimaneva molto da fare al quartier generale del Medjay. Mi chiesi perché stessi cercando di autoconvincermi. Khay mi stava facendo capire con opportuni rumori che era giunta l'ora di andarsene. Salutammo in modo formale. Ankhesenamon mi prese le mani fra le sue, come se con quel gesto volesse sigillare i segreti che ci eravamo scambiati. «Grazie», mi disse con gli occhi traboccanti di una sincerità di circostanza. Poi sorrise, un sorriso aperto e caldo questa volta, nel quale intravidi per un istante il viso di sua madre; non la bellissima maschera pubblica, ma la donna vera e palpitante. Le grandi porte a due battenti si aprirono silenziose alle nostre spalle e indietreggiammo, inchinandoci, fino a quando le porte si
richiusero e ci ritrovammo nel lunghissimo corridoio ovattato, con le sue tante porte tutte uguali, come nella scena di un incubo. Dovevo urinare e volevo verificare se le voci sul sistema idrico fossero vere. Khay mi condusse in un corridoio laterale. «Terza porta a sinistra.» Arricciò il naso. «Ti aspetterò davanti alla camera della regina.» Si girò. Entrai. Lo spazio era lungo e stretto e sul pavimento di pietra erano state dipinte pozze d'acqua dove nuotavano pesci dorati. Una grata lasciava entrare i profumi freschi della notte. Alcune candele ondeggiarono per lo spostamento d'aria provocato dal mio ingresso. Feci quel che dovevo. Nel silenzio totale, quasi religioso, il rumore fu eccessivo. Mi sentii come se stessi pisciando in un tempio. Mi lavai le mani in un bacile versando l'acqua da una brocca. Nessun miracolo di idraulica in quel luogo. Mi stavo asciugando le mani quando avvertii qualcosa - i capelli si rizzarono sulla nuca, un'ombra confusa apparve sulla superficie levigata dello specchio di rame - e mi girai all'istante. La donna mi guardava attenta, con gli occhi intelligenti che scintillavano nella luce fioca, i capelli neri legati stretti dietro la nuca, il viso angoloso e scarno, con le vesti che facevano pensare agli abiti delle ombre. «Mi conosci?» disse con voce bassa e pacata. «Dovrei?» Scosse la testa, delusa. «Sono venuta a dirti il mio nome.» «In un gabinetto?» «Mi chiamo Maia.» «Il tuo nome non mi dice niente.» Schioccò la lingua, seccata. Terminai di asciugarmi le mani. «Ero la balia del re. L'ho nutrito dal giorno della sua nascita. Mi sta a cuore come a nessun altro.» Doveva aver vissuto nella città di Akhenaton, assistendo in prima persona alle vicende della vita di Akhenaton e della famiglia reale. Si sapeva che il re era figlio di Kiya, una consorte del re rivale di Nefertiti. Kiya era scomparsa. E in seguito Tutankhamon, figlio di
Kiya, aveva sposato Ankhesenamon, figlia di Nefertiti. I figli delle due rivali, entrambi discendenti di Akhenaton e ultimi superstiti della loro linea ereditaria, erano diventati marito e moglie. Un'ottima alleanza, dal punto di vista politico, ma una vita d'inferno, per loro. I figliastri raramente si amano, tanto meno quando entrano in gioco enormi poteri e ricchezze. Annuì, come se avesse seguito il filo dei miei pensieri. «Che cosa vuoi dirmi?» Si guardò intorno circospetta, malgrado il luogo. «Non fidarti di quella ragazza. Ha il sangue di sua madre.» «È la regina, come lo era sua madre. Perché non dovrei fidarmi di lei?» «Con tutti i tuoi poteri, non sai niente. Non vedi quello che ti sta davanti. Ti fai abbagliare dall'oro come uno sciocco.» Mi sentii prendere alla gola dalla rabbia. «Uomo orgoglioso. Uomo vanitoso. Pensaci! Sua madre si liberò della sua rivale, Kiya, la madre del mio re. Non bisogna dimenticarlo. Non bisogna perdonare. Kiya deve essere vendicata. E adesso arrivi tu come un cane in attesa davanti alla sua porta.» «Mi sembri una cantastorie da mercato. Non hai nessuna prova di quello che sostieni, e se anche tu avessi ragione, è successo tanto tempo fa.» «La prova è quello che ho visto. E vedo lei per quello che è, la figlia della sua dinastia. Nulla cambia. Sono venuta a metterti in guardia. A lei non interessa il marito. Si preoccupa solo di se stessa.» Mi accostai a lei, che si strinse nelle vesti. «Potrei farti arrestare per quello che hai detto.» «Arrestare Maia? Il re non lo consentirebbe. È il mio bambino e parlo per amor suo. Nessun altro lo ama. Senza di me, sarebbe solo in questo palazzo. Inoltre, so i loro nomi. Conosco i nomi delle ombre.» «Che cosa vuoi dire?» «Le ombre hanno potere», replicò, e con quelle parole
enigmatiche scivolò lungo la parete oscura e svanì.
Capitolo 8 Sul pontile, Khay mi consegnò il lasciapassare in papiro che mi avrebbe consentito di tornare al Palazzo di Malkata e di chiedergli udienza in ogni momento. Mi disse che viveva negli appartamenti reali e che avrei potuto rivolgermi a lui ogni volta che l'avessi ritenuto necessario. Il suo discorso mi confermò che aveva accesso a tutte le porte: la sua parola era legge e ogni suo bisbiglio arrivava alle orecchie del potere. Stavo per andarmene, quando mi porse una borsa di pelle. «Che cos'è?» «Consideralo un piccolo anticipo.» Guardai all'interno. Conteneva un anello d'oro di buona fattura. «Perché è così piccolo?» «Ritengo che sia sufficiente.» Le sue parole fecero l'effetto della sabbia tritata da una macina. Si girò e se andò, senza aspettare una risposta da parte mia. Rimasi a poppa a guardare dietro di me i rematori allontanarsi dalla riva, fino a quando il palazzo con la sua regina triste e il suo strano, giovane re clandestino sparì dietro i contrafforti a difesa del grande lago. La barca mi lasciò in un angolo lontano e appartato della darsena. Passai accanto alle centinaia di imbarcazioni lì ormeggiate con i loro occhi dipinti che, dondolando, si urtavano sulle scure correnti di superficie del fiume, le vele ammainate, gli equipaggi e i portuali addormentati sui ponti e all'ombra delle cataste di merci, avvolti nei loro sogni come corde arrotolate. Mi accorsi che all'altra estremità della darsena stavano sbarcando il carico di due navi. Le operazioni si svolgevano senza la luce di una torcia, ma forse poteva bastare il chiaro di luna. Gli uomini lavoravano in silenzio, con efficienza, e trasferivano contenitori d'argilla in un convoglio di carri. Vidi camminare tra loro un uomo alto e magro, che dirigeva le
operazioni. Contrabbandieri, probabilmente; nessun altro avrebbe osato navigare al buio tra i pericoli del fiume. Be', non era affar mio, avevo altre preoccupazioni. Camminare è la mia cura contro la confusione, l'unica attività che a volte mi fa ritrovare un equilibrio mentale. Ripresi la via del ritorno nelle strade deserte e la città mi apparve come un teatro vuoto, una costruzione di papiro, ombre e sogni. Esaminai con cura gli avvenimenti che mi aveva riservato quella giornata straordinaria. Le cerimonie della festa e la loro atmosfera stranamente tesa, lo sconvolgente atto sacrilego, la ragazza nella cella e la sua rabbia che, fermentando come il vino, aveva prodotto un sentimento oscuro e potente, il convegno notturno con la sovrana del regno ansiosa e impaurita, l'incontro con la nutrice del re, e l'avvenimento forse più impressionante di tutti: il ragazzo morto con le membra crudelmente fracassate e ricomposte con orribile perfezione, e la maledizione sulla striscia di lino. Qual era il filo che univa gli eventi della giornata? Forse non avevano nulla in comune, ma io ho l'abitudine di vedere una trama anche dove non esiste. Avvertivo qualcosa, tuttavia, un'intuizione sfuggente, quasi alla periferia della mente, simile al margine scintillante di un frammento che lampeggia per un attimo fra le rovine, ma poi sparì. In quel momento niente quadrava. Mi piace pensare che gli elementi più disparati possono essere legati tra loro in modo inatteso, più simile al sogno o alla poesia che alla realtà. I miei colleghi mi prendono in giro, e forse hanno ragione, ma ritengo che il mistero che si cela nel cuore degli esseri umani non sempre si possa sondare con la logica, come pensano loro. Però, adesso, a che mi serviva questa convinzione? Ripensai all'intaglio sulla pietra. A un'analisi superficiale, esprimeva ostilità verso il sistema politico che aveva messo al centro Aton e di cui il re era l'erede, il superstite e (come aveva reso esplicito con dichiarazioni e atti pubblici, e facendo costruire i nuovi edifici) l'attuale distruttore. Il gesto iconoclasta non era anomalo e la domanda da porsi era: perché avevano recapitato la pietra in quel modo così studiato, addirittura intimo? A un'analisi più sottile, si trattava di una grave minaccia: la cancellazione del simbolo rappresentava la cancellazione della realtà. Il re era anche il sole. L'obliterazione del sole e, peggio ancora, dei nomi reali,
rappresentava la cancellazione del re e della regina nella vita ultraterrena. C'era dell'altro: la furia selvaggia con cui erano stati inferii i colpi di scalpello parlava di una rabbia profonda, quasi folle, come se ogni colpo fosse diretto all'anima immortale dei sovrani. Ma perché, e chi l'aveva fatto? Guardai la luna sospesa sui tetti e i pilastri del tempio, simile alla falce di luce nell'occhio sinistro di Horus; all'improvviso rammentai che ai bambini raccontiamo un'antica favola in cui quella falce è il frammento mancante dell'occhio distrutto del dio, che Thot, signore della scrittura e dei segreti, ricompose. Adesso ne sappiamo di più; le nostre osservazioni ci hanno fatto conoscere le azioni e i movimenti dei corpi celesti, il nostro calendario stellare riporta il loro moto perpetuo, il loro ripresentarsi nel corso dell'anno e nell'immensità temporale. Improvvisamente pensai: e se la pietra avesse un significato più banale? Se comunicasse la parola eclisse? Alludeva forse a un'eclisse vera e propria? Magari l'eclisse del sole vivente era soltanto una metafora. E se invece non lo fosse stata? Sembrava un collegamento ragionevole e, non so dire perché, l'idea mi piacque. Ne avrei parlato a Nakht, che sapeva tutto sull'argomento. Mi incamminai per la mia strada, spinsi il cancello e l'aprii, entrando nel cortile. Thot mi aspettava all'erta, ritto sulle zampe posteriori, come se sapesse del mio arrivo e si fosse preparato per presentarsi al meglio. Qualche anno prima Tanefert aveva insistito nel farmelo comprare perché le strade della città erano diventate ancor più pericolose per un uomo del Medjay come me. Diceva di volerlo perché restasse di guardia alla casa, ma il suo vero scopo era che avessi più protezione durante il lavoro. Avevo acconsentito per farle piacere. Ora, però, ero quasi disposto ad ammettere che amavo l'animale per le sue caratteristiche: intelligenza, lealtà e dignità. Fiutò l'aria intorno a me, come per indovinare che cos'era accaduto, e mi guardò negli occhi con il suo solito sguardo di dolce sfida. Gli passai la mano tra il pelo, e lui mi girò intorno, pronto a ricevere altre attenzioni. «Sono stanco, vecchio mio. Tu sei stato qui a pisolare, mentre io ero al lavoro...» Tornò al suo posto e si accucciò, con gli occhi color topazio che
scrutavano vigili il buio. Richiusi la porta esterna ed entrai silenziosamente in cucina. Mi lavai i piedi, bevvi una coppa d'acqua dalla caraffa d'argilla e mangiai un pugno di datteri. Percorsi il corridoio e tirai la tenda della nostra stanza cercando di fare meno rumore possibile. Tanefert era girata su un fianco, il profilo delle spalle e dei fianchi un elegante tratto sinuoso su un rotolo scuro, rivelato dalla luce della lampada. Mi spogliai, mi stesi accanto a lei, deponendo la borsa di pelle vicino al giaciglio. Sapevo che era sveglia. Mi avvicinai di più, passai le braccia intorno al suo corpo tiepido, adattando la mia forma alla sua, e baciai la sua spalla liscia. Si voltò verso di me, per metà divertita e per metà seccata, mi baciò nel buio ed entrò nel mio abbraccio, morbida e tranquilla. Questo mi faceva sentire a casa più di ogni altra cosa. Baciai i suoi capelli neri e lisci. Che cosa avrei dovuto raccontarle degli eventi di quella notte? Sapeva che parlavo poco del mio lavoro e comprendeva la mia reticenza. Non se ne era mai risentita, perché sapeva che avevo bisogno di tenere separate le due cose. In ogni caso, riesce sempre a sapere tutto: si accorge subito dalla mia espressione, o dal modo in cui entro in casa, se c'è qualcosa che non va o che mi preoccupa. Non potevano esserci segreti, e così le raccontai. Ascoltando mi accarezzava il braccio, come per calmare la propria ansia. Sentivo battere il suo cuore, l'uccello dell'anima nell'albero verde della vita. Finito il racconto, rimase immobile per un po', ponderando con calma ogni cosa, guardandomi e, in un certo senso, guardando oltre me, con l'intensità con cui si guarda il fuoco. «Avresti potuto rifiutare.» «Avrei dovuto, secondo te?» Il suo silenzio era eloquente, come sempre. «Domani lo restituirò.» Sollevai la borsa e feci cadere l'anello d'oro sul palmo della sua mano. Gli diede un'occhiata e me lo restituì. «Non chiedermi di dirti quello che devi fare. Sai che lo detesto. Non è corretto.»
«Allora, cosa c'è?» Si strinse nelle spalle. «Cosa c'è?» «Non so. Ho una brutta sensazione...» «Dove?» Allungai la mano verso di lei. «Non fare lo stupido. So che ogni giorno è pieno di pericoli, ma cosa può venirne di buono da questa storia? Intrighi di palazzo, attentati alla vita del re? Brutto affare. Ho paura. Ma guardati: ti brillano di nuovo gli occhi...» «Solo perché sono stanchissimo...» Sbadigliai in modo esagerato, per fare effetto. Per un po' restammo in silenzio. Sapevo che cosa pensava. E lei sapeva che cosa pensavo io. Poi mia moglie parlò. «Abbiamo bisogno di quell'oro», disse. «E tu non puoi farci nulla. Adori i misteri.» Sorrise con tristezza nel buio alle implicazioni delle sue parole. «Adoro mia moglie e i miei figli.» «Ma siamo abbastanza misteriosi per l'Indagatore di Misteri?» «Tra non molto le nostre figlie ci lasceranno. Sekhmet ha quasi sedici anni. Com'è successo? Per me è un gran mistero come abbia fatto il tempo a passare così in fretta da quando andavano a quattro zampe, rigettavano il pasto e sorridevano fiere con i loro musini sdentati. E adesso, guarda...» Tanefert fece scivolare la sua mano nella mia. «Guarda noi. Una coppia di mezz'età che ha bisogno di dormire.» Così dicendo, si sistemò sul poggiatesta e chiuse gli occhi eleganti. Mi chiesi se quella notte il sonno mi avrebbe fatto visita. Ne dubitavo. Dovevo pensare a come affrontare quel nuovo mistero al sorgere del sole, di lì a poco. Mi sdraiai e fissai il soffitto.
Capitolo 9 Arrivai negli uffici della tesoreria poco dopo l'alba. Un uomo delle pulizie lavorava con una scopa e un secchio muovendosi a ritroso sul grande pavimento, spruzzando acqua fresca con movimenti abili e spazzando fino a far brillare le pietre di fronte a sé. Lavorava impassibile, con metodo, a testa china, mentre cominciavano ad arrivare sul posto di lavoro i primi burocrati e funzionari; uomini vestiti di bianco che guardarono di sfuggita me e Thot con un accenno di curiosità, ma passarono accanto all'uomo delle pulizie come se non esistesse, lasciando le impronte dei sandali sporchi di polvere sul suo pavimento immacolato. L'uomo continuava a ripulire con infinita pazienza. Quell'uomo non avrebbe mai camminato su un pavimento di pietra pulito e scintillante. Non guardò mai l'estraneo seduto in attesa sulla panchina, con un paziente babbuino al fianco. Infine, un funzionario d'alto livello, l'incaricato del tesoro, mi fece entrare nel suo ufficio con una sfumatura di ansia malcelata sotto l'aspetto competente e affabile. Conoscevo il tipo: leale, consapevole e fiero dei suoi meriti, in grado di apprezzare la giusta ricompensa alla sua professione, gli agi procurati da una bella villa, fertili terreni e fedeli servitori. Lasciai fuori Thot legandolo. Ci accomodammo su due sgabelli, l'uno di fronte all'altro. Sistemò i pochi oggetti sul tavolino basso - statuette, vassoi, l'astuccio con i pennelli di giunco, la tavoletta, i dischetti degli inchiostri rosso e nero - e recitò la lunga litania dei suoi titoli, dal principio della sua vita professionale fino a quel momento. Solo allora mi chiese in che cosa poteva essermi utile. Gli dissi che volevo chiedere udienza ad Ay. Finse di essere sorpreso. Gli porsi il papiro con l'autorizzazione di Khay. Lo srotolò, e scorse in fretta i caratteri. Poi mi guardò con un'espressione diversa. «Va bene, puoi attendere un attimo?»
Annuii. Scomparve. Rimasi ad ascoltare i suoni scarsamente interessanti che provenivano dal corridoio e il lontano coro degli uccelli sul fiume. Lo immaginai bussare alle porte, una dopo l'altra, una scatola dentro l'altra, e infine giungere sulla soglia del sacrario più riposto. Quando ricomparve, sembrava che avesse camminato a lungo. Era senza fiato. «Se vuoi seguirmi...» Passammo per le fitte ombre e gli angoli di luce che il sole proiettava sui corridoi. Le guardie alle porte alzarono le armi in segno di rispetto. Il funzionario mi lasciò sull'ultima soglia. Non era autorizzato a proseguire. Un assistente spocchioso e nervoso - uno dei tre di servizio che sedevano rigidi fuori dell'ufficio - bussò alla porta come uno scolaro agitato, e rimase in ascolto. Doveva aver udito qualcosa, perché aprì e mi fece entrare. La stanza era vuota. L'arredamento era ridotto all'essenziale: due divani di fattura straordinaria, posti uno di fronte all'altro. Un tavolo basso, di una bellezza assolutamente funzionale, era posto esattamente al centro, equidistante dai divani. Le pareti non erano decorate, ma rivestite di una pietra così fine che la venatura non si interrompeva per tutta la superficie. Persino la luce che entrava nella stanza era ridotta al minimo, calma e perfetta. Quell'ordine assoluto mi diede sui nervi. Solo per dispetto spostai il tavolino, in modo da alterare l'impeccabile allineamento. Sulle opposte pareti c'erano due porte, piazzate come due pedine su una scacchiera. Senza che me ne accorgessi, una delle due si era aperta silenziosamente. Ay era apparso sulla soglia di quella scura e la sua veste bianca risplendeva alla luce proveniente da un'alta finestra. Sembrava un sacerdote. La sua espressione era difficile da decifrare. Chinai la testa. «Vita, prosperità e salute», dissi secondo la formula di rito, ma quando alzai lo sguardo rimasi sorpreso nel constatare che, come mi aveva detto Ankhesenamon, dall'ultima volta in cui ci eravamo visti tanti anni prima e nonostante il suo grande potere, Ay aveva iniziato a cedere sotto i colpi devastatori del tempo. Si
muoveva con circospezione, con rigidità, come se non si fidasse delle sue ossa. Era evidente che soffrisse di malaria, malgrado si sforzasse di nasconderlo. I suoi occhi da rettile, tuttavia, avevano mantenuto tutti i loro poteri di concentrazione e attenzione. Mi osservò con intensità, come un esperto che soppesa un oggetto dal valore incerto. La bocca sottile espresse l'inevitabile delusione e disapprovazione. Ricambiai il suo sguardo. Aveva la fronte solcata, gli occhi gelidi segnati dalle rughe, la pelle tirata sui lineamenti; quegli occhi erano infossati, quasi come quelli di un cadavere. Erano rimasti i segni rossi dei comedoni strizzati. Sentivo il profumo della pasticca che teneva sotto la lingua: chiodi di garofano e cannella, la cura per il mal di denti, maledizione della vecchiaia. «Siediti», disse con molta pacatezza. Eseguii, notando con quale difficoltà si abbassava per prendere posto su uno dei meravigliosi divani. «Parla.» «Saprai che ho...» «Basta.» Alzò la mano destra. Rimasi in attesa. «Se la regina avesse osato chiedere la mia opinione, le avrei proibito di mandarti a chiamare.» Mi squadrò dall'alto in basso. «Non mi piace che il Medjay interferisca con l'amministrazione e gli affari del palazzo.» «Mi ha fatto chiamare per motivi personali.» «Sono perfettamente al corrente della natura e delle vicende del tuo coinvolgimento con la famiglia reale», disse in tono pacato. «E se non dovesse rimanere una faccenda del tutto privata, puoi star certo che non avrei pietà né di te né della tua famiglia.» Annuii senza replicare. «A ogni modo, ho deciso che quella pietra non ha nessun significato. È da distruggere e da dimenticare.» La sua mano, ossuta e coperta di macchie scure, tremò appena
quando afferrò l'impugnatura del bastone da passeggio. Mi guardai intorno, osservando l'ordine perfetto della stanza. La vita e il suo naturale disordine erano completamente assenti. «E, tuttavia, ha messo in allarme il re e la regina.» «Sono dei bambini, e i bambini hanno paura delle cose irreali. Il fantasma nella tomba. Lo spirito malvagio sotto il letto. È superstizione. Non c'è spazio per la superstizione nelle Due Terre.» «Forse non è superstizione, ma immaginazione.» «Non c'è nessuna differenza.» Per te forse, testa vuota, pensai. Proseguì: «Nondimeno, questo rappresenta una falla nell'ordine. Le guardie del palazzo avrebbero dovuto scoprirla. Il fatto che abbia superato le mura è segno di grave negligenza e non sarà tollerato». «Ci saranno sicuramente delle indagini e si porrà rimedio alle carenze.» Non si curò del tono di disprezzo nella mia voce. «L'ordine è la priorità del potere. Dopo le catastrofi dovute all'arroganza del passato, il glorioso regno di Tutankhamon rappresenta il trionfo dell'ordine divino universale di maat per volontà degli dei. Abbiamo riportato l'ordine in queste terre. Nulla dovrà minacciarlo. Nulla.» «Poco fa, l'hai definito un bambino.» Mi guardò fisso e per un momento pensai che mi avrebbe cacciato. Non lo fece, e proseguii. «Perdonami se insisto sull'argomento, ma quando la folla comincia a lanciare sul re il sangue di un maiale sgozzato, davanti a tutti, nel momento culminante della festa di Opet...» «Un incidente isolato. Sono elementi di dissenso senza importanza e saranno eliminati.» Notò che il tavolino era fuori allineamento, aggrottò la fronte e lo ricollocò nella sua posizione originale. «Ed ecco che compare la pietra scolpita. Trovata nello stesso giorno? Nella gerarchia del palazzo c'è qualcuno che sta complottando contro il re. Se si tengono presenti le voci che corrono sul fallimento delle guerre contro gli ittiti e la lunga assenza del generale Horemheb...»
Avevo toccato un nervo scoperto. Il bastone da passeggio si abbatté sul tavolino che ci divideva. Una statuetta di vetro cadde frantumandosi. Abbaiò: «Il tuo compito è far applicare la legge, non fare domande sulla morale o sulla pratica della sua applicazione». Cercò di calmarsi. «Non hai nessuna autorità per parlare di questi argomenti. Perché sei qui a farmi perdere tempo? So che la regina ha chiesto di te. Perché dovrei preoccuparmi se vuole compiacere le sue ridicole manie di paura e protezione? E in quanto a te: ti consideri l'eroe di un romanzo di verità e giustizia. E invece chi sei? Altri sono stati promossi al posto tuo. Vivacchi in una posizione mediocre, snobbato dai colleghi, senza soddisfazioni. Pensi di essere complesso e sottile, con il tuo interesse per la poesia, quando invece eserciti una professione piena di pericoli che esalta la violenza del braccio della legge. Ecco chi sei, in poche parole.» Silenzio. Mi alzai. Rimase seduto. «Come dici tu, sono un personaggio da racconto sentimentale: assurdo, vecchio e fuori moda. La regina mi ha convinto. Non posso farci niente se ho un debole per le signore in difficoltà. Qualcuno grida la parola 'giustizia' e io appaio, come un cane.»
«Giustizia... che cosa c'entra adesso la giustizia? Niente...» Il tono
canzonatorio in cui quel vecchiaccio schifoso pronunciò la parola mi fece pensare a tutto quello che non era giusto. Mi mossi verso la porta. «Suppongo di avere la tua approvazione per continuare a indagare su questo mistero, senza badare a dove mi porterà.» «L'autorizzazione della regina è sufficiente. Appoggio il suo volere in tutto.» Naturalmente voleva dire: «Da me non avrai nessuna autorizzazione». Sorridendo aprii la porta, lasciandolo con le sue ossa doloranti nella sua stanza perfetta. Per lo meno avevo definito il mio ruolo nella situazione. E sapevo un'altra cosa importante: non sapeva nulla del progetto di Ankhesenamon.
Capitolo 10 Tornai al mio squallido ufficio in fondo alla parte sbagliata dell'ultimo corridoio, dove la luce cede le armi per la delusione e gli uomini delle pulizie non si prendono la briga di arrivare. Nessuna traccia di potere lì dentro. Naturalmente Ay aveva ragione. Non avevo nessuna prospettiva, come una foglia caduta che galleggia lenta in una pozza d'acqua stagnante. Il fascino dell'incontro della notte prima lasciò il posto alla cruda luce del giorno, e mi resi conto che non sapevo nemmeno da dove cominciare. In giornate come quella mi sento, come si suol dire, peggio del letame di avvoltoio. Thot mi precedeva scartando di qua e di là; conosceva la strada, così come sa tutto quello che importa sapere. Khety mi stava aspettando. Quando ha un mucchio di notizie da dare, ha un modo di comportarsi che riesco a sopportare solo nelle giornate in cui sono in buona. «Siedi.» Esitò per un attimo, sconcertato. «Parla.» «Ieri sera...» «Basta.» Si interruppe a bocca aperta, guardando prima me e poi Thot, come se l'animale potesse spiegare il motivo del mio cattivo umore. Restammo seduti come un trio di cretini. «Tu credi nella giustizia, Khety?» Parve un po' stordito dalla domanda. «Che cosa vuol dire, credi..?.» «È una questione di fede che va oltre l'esperienza, no?» «Ci credo, ma non penso di averla mai vista con i miei occhi.» Annuii per la bontà della sua risposta, e cambiai argomento.
«Hai delle informazioni.» Annuì. «Qualcosa che hai visto con i tuoi occhi», proseguii. Annuì di nuovo. «Hanno trovato un altro corpo.» «Che delusione», dissi con voce pacata. «Quando l'hanno scoperto?» «Stamattina, all'alba. Ti ho cercato a casa, ma eri già uscito. Questo è diverso.» Doveva essere stata stupenda. La notte prima era ancora una giovane donna, sui diciotto o vent'anni, prossima a diventare una bellezza perfetta. Adesso, però, al posto del viso e dei capelli aveva una maschera di foglia d'oro. Con la lama del coltello sollevai con cautela un angolo appiccicoso e vidi che sotto l'oro non c'era più il viso, solo il teschio, i tessuti sanguinanti e la cartilagine. Qualcuno, con un'abilità raffinata e raccapricciante, le aveva tolto la pelle, davanti e dietro, asportando il viso e gli occhi. Rimaneva una traccia netta dei suoi lineamenti nei contorni della maschera, dove il foglio era stato premuto sulle sue forme. L'avevano fatto prima di massacrarla; poteva servire a identificarla. Intorno al collo, sotto la veste di lino bianco, c'era un amuleto, un ankh, appeso a una delicata catenina d'oro; un bellissimo prodotto di oreficeria che prometteva protezione, poiché quello è il simbolo con cui scriviamo la parola «vita». Lo staccai e tenni il freddo oro nel palmo della mano. «Non è mai appartenuto alla ragazza», disse Khety. Guardai la stanza spoglia dove l'avevano trovata. Khety aveva ragione. L'oggetto era davvero troppo prezioso. Un piccolo tesoro, magari lasciato in eredità da una famiglia molto ricca. Avevo un'idea a proposito dell'identità del proprietario. Ma se avessi avuto ragione, il mistero della sua comparsa avrebbe peggiorato moltissimo le cose. «Ha un tatuaggio. Guarda...» disse Khety mostrandomi il disegno
di un serpente attorcigliato sull'avambraccio. Era un'opera rozza, di scarsa qualità. «Si chiamava Neferet e viveva sola. Il padrone di casa dice che lavorava di notte. È ragionevole dedurre che lo facesse in un locale notturno, o nei bordelli.» Osservai il bellissimo corpo. Perché, anche in questo caso, non si notava alcun segno di violenza o di lotta? Nessuno avrebbe sopportato quella sofferenza atroce senza dibattersi, mordersi la lingua e le labbra, lottando per sopravvivere nel tentativo di spezzare le corde che dovevano aver legato polsi e caviglie. E invece niente. Era come se tutto fosse stato portato a termine in un sogno. Mi aggirai nella stanza alla ricerca di indizi, ma non vidi nulla. Tornando al nudo giaciglio, la luce del sole filtrò dalla finestrella illuminando il corpo della ragazza. Fu solo allora che notai, sulla mensola accanto al letto, catturata di sbieco dall'intensa luce del mattino, la leggerissima traccia di un cerchio nella polvere; l'impronta di una tazza, che era stata posata ed era sparita. Una tazza fantasma, una tazza di sogni. Ripensai alla mia prima impressione, quando avevo immaginato che il ragazzo sciancato fosse stato narcotizzato dal suo assassino con il succo del papavero, o con qualche altra potente droga che lo aveva sedato mentre veniva sottoposto all'orrenda tortura. Il segreto che nella nostra epoca si cela nelle Due Terre - dietro i nuovi, grandi edifici e templi, le potenti conquiste, le scintillanti promesse di ricchezza e successo ai fortunati che vengono qui a faticare, a servire e a sopravvivere come possono - è che, per un numero sempre maggiore di persone, le tribolazioni opprimenti, le sofferenze quotidiane e le infinite banalità della vita sono rese sopportabili dall'illusione delle droghe. Un tempo, era il vino il mezzo per raggiungere la felicità artificiale; ora è tutto molto più sofisticato e uno dei maggiori segreti della medicina è diventato per molti l'unica gioia della vita. È irrilevante che l'euforia sia illusoria, almeno fino a quando l'effetto non svanisce lasciando il consumatore della droga in compagnia delle stesse miserie che lo avevano spinto a fuggire dalla realtà. I figli delle famiglie aristocratiche alleviano così le tensioni e le cosiddette
pressioni delle loro vite ricche e insensate. E chi, per una ragione o per l'altra, ha perso la rete di sostegno della famiglia, si trova ben presto a scendere la scala delle ombre che porta al mondo sotterraneo dove la gente vende i suoi ultimi beni - il corpo e l'anima - per un istante di felicità. Nella nostra epoca, il commercio in tutte le sue forme ha esteso le rotte e gli itinerari agli angoli più remoti e sconosciuti del mondo. Così, insieme alle merci essenziali al potere economico del regno legname, pietre, minerali, oro, forza lavoro - arrivano fin qui i nuovi prodotti di lusso, per terra, per mare e per fiume: pellicce rare, scimmie intelligenti, giraffe, boccali d'oro, tessuti, profumi nuovi e raffinati... la sconfinata serie dei desiderabili prodotti alla moda. E, naturalmente, i traffici segreti; la mercanzia dei sogni. Sacerdoti e medici hanno sempre usato le parti di alcune piante per la loro efficacia; alcune, come il papavero, sono così potenti che ne bastano poche gocce diluite in un boccale d'acqua per narcotizzare il paziente prima di un'operazione particolarmente dolorosa, per esempio un'amputazione. Ricordo che la dilatazione delle pupille è uno degli elementi che ne rivelano l'impiego. Lo so bene perché, nella vita notturna della città, le prostitute aumentano il loro fascino assumendo questa sostanza per far brillare gli occhi stanchi color della giada. Tutto sta nel dosaggio. Se è troppo elevato, gli occhi fioriscono nella luce strana e irreale della droga, chiudendosi per sempre nella morte. Illustrai la mia idea a Khety. «Perché mai l'assassino non uccide la vittima con la droga e non ricompone il corpo subito dopo?» domandò. Bella domanda. «Per lui, a quanto pare, è importante che il 'lavoro' sia eseguito quando la vittima è ancora viva. È il fulcro della sua ossessione. La sua fissazione...» «Questa parola mi fa accapponare la pelle...» sbottò Khety. «Dobbiamo scoprire dove lavorava la ragazza», dissi. «Le ragazze che arrivano in città a fare quel mestiere provengono da un sacco di posti. Cambiano nome, non hanno famiglia e non riescono più ad
andarsene.» «Vai nei locali notturni e nei bordelli. Vedi se trovi qualche traccia. Qualcuno potrebbe aver notato la sua assenza.» Gli mostrai la maschera d'oro. Annuì. «E tu?» «Tu fa' quello che ti ho chiesto, io seguirò un'altra pista.» Mi guardò con un mezzo sorriso. «Qualcun altro penserebbe che non ti vado più a genio.» «Non mi sei mai piaciuto.» Sogghignò. «Mi nascondi qualcosa...» «Deduzione corretta. I lunghi anni che abbiamo trascorso insieme non sono passati invano.» «Allora perché non ti fidi di me?» Mi toccai l'orecchio per confermare che sarei rimasto in silenzio, e gli indicai Thot. «Chiedi a lui. Sa tutto.» Il babbuino ci guardò con la sua espressione serissima. Ci recammo in una locanda tranquilla, lontana dalle zone indaffarate della città. A metà mattina erano tutti al lavoro e il posto era deserto. Ci sedemmo sulle panche in fondo al locale per bere una birra e mangiare un piatto di mandorle. Dopo aver fatto l'ordinazione al proprietario, silenzioso ma attento, sporgendomi verso Khety in modo da non farci sentire gli raccontai tutto quello che era accaduto la notte e il giorno precedenti, gli parlai del misterioso Khay, di Ankhesenamon, della pietra scolpita. Ascoltò attentamente, ma non disse nulla, chiese solo informazioni sull'aspetto del palazzo. Non era da lui. Di solito, Khety ha un'opinione ben fondata su qualsiasi cosa. Ci conosciamo da molti anni. Avevo brigato per fargli ottenere un posto da agente del Medjay a Tebe e far uscire da Akhenaton sia lui sia la moglie. Da allora è sempre stato il mio assistente. «Perché non parli?» «Sto pensando.» Bevve la birra a lunghe sorsate, come se pensare gli facesse venire
sete. «Quella famiglia è solo fonte di guai», concluse. «Dovrei ringraziarti per questa perla di saggezza?» Fece una smorfia. «Voglio dire: non ti far coinvolgere. Brutta faccenda.» «È quello che ha detto mia moglie. E secondo te che cosa dovrei fare? Lasciare la ragazza al suo destino?» «Non sai qual è il suo destino. E non è una ragazza, ma la regina. Non puoi accollarti la responsabilità di ogni cosa. Devi pensare alla tua famiglia.» Mi sentii vagamente irritato. Khety mi guardò. «Tu invece ti senti responsabile, non è così?» Mi strinsi nelle spalle, vuotai il boccale di birra e mi alzai, pronto ad andarmene. Thot stava già tirando il guinzaglio. Uscimmo nel calore e nella luce, con Khety che trotterellava per stare al passo con me. «Adesso dove vai?» mi domandò mentre scansavamo la folla. «Vado a trovare il mio amico Nakht. E tu cerca di scoprire tutto quello che puoi sulla sparizione della ragazza. Sai da dove cominciare le ricerche. Poi vieni da me.»
Capitolo 11 Andare a far visita al mio vecchio amico nella sua casa di campagna significa passare dal caos rovente della città a un mondo diverso, più tranquillo e razionale. Si è servito di una cospicua ricchezza per assicurarsi una vita lussuosa e piacevole, creando un piccolo regno di arte e sapienza nella sua residenza cintata da mura fuori città. La sua fama di coltivatore di fiori e allevatore di api gli ha guadagnato un titolo nuovo e inconsueto: «Sovrintendente dei giardinieri di Amon». Le migliaia di mazzi di fiori che decorano i templi nelle festività, e quelli che vengono offerti agli dei - per ricordare loro la vita ultraterrena — vengono coltivati sotto la supervisione di Nakht. Mi allontanai a piedi dalla periferia passando per l'ingresso meridionale e proseguii lungo il sentiero che conduce a casa sua. Il sole era alto nel cielo e la terra scintillava nel calore meridiano. Non avevo un parasole con me, ma le palme che fiancheggiavano la via mi offrirono un riparo sufficiente. Camminando osservai i raccolti abbondanti e ben curati nei loro filari, che si estendevano in ogni direzione. Qua e là il luccichio dei canali, pieni d'acqua per l'avvenuta inondazione, rifletteva in lunghe strisce l'azzurro chiaro del cielo. Incontrai poche persone, visto che tutti i braccianti stavano consumando il pasto di mezzogiorno e bevendo birra, oppure sonnecchiavano in file ordinate dovunque ci fosse un po' d'ombra, sotto i carretti, sotto le palme, di fianco alle case e ai granai, con i volti coperti dalle sciarpe. In alto sopra di noi, i falchi allargavano le ali bronzo scuro nelle correnti termiche e veleggiavano roteando mentre scrutavano il mondo sottostante. Mi sono chiesto spesso come appaia il mondo dal loro punto di vista privilegiato, che nessun uomo, condannato a camminare sulla terra con due gambe, potrà mai condividere. Immagino il serpente luccicante del Grande Fiume che scorre da un'estremità all'altra del mondo e i disegni dei campi coltivati, verdi e gialli, disposti a ventaglio sulle sue rive. Al di là si stende la sconfinata Terra Rossa, dove le famiglie reali
costruiscono le loro tombe di pietra eterna e i templi annessi ai margini della distesa selvaggia, il deserto, luogo della grande solitudine. Forse scorgono quello che a noi non è concesso vedere: il cammino del sole quando scende sotto l'orizzonte irraggiungibile del mondo conosciuto. Esiste davvero un vasto, infido oceano oscuro, popolato di divinità e di mostri, in quel grande, ineffabile regno dove il sole percorre la sua rotta notturna a bordo della propria imbarcazione, attraverso i pericoli della notte? È questo che ci raccontano gli uccelli da preda con le loro acute strida che somigliano a urla di avvertimento? Entrai nella prima corte della villa lunga e bassa di Nakht. Il suo servo, Minmose, uscì di corsa a salutarmi e mi fece entrare svelto, tenendomi premurosamente un parasole sulla testa. «Il cervello vi si cuocerà nel cranio come un uovo d'anatra, padrone, con il caldo che fa a quest'ora. Vi avrei mandato incontro un servo con un parasole se avessi saputo che ci avreste onorato di una visita.» «Ho deciso all'ultimo momento», gli spiegai. Si inchinò. «Il mio padrone è impegnato con gli alveari in fondo al giardino», disse. Si offrì di accompagnarmi. Era ansioso, lo sapevo, di udire notizie dalla città; pur a così breve distanza, la campagna è remota quasi come un altro mondo. Ma conosco bene il posto; sono anni che ci vengo, da solo o in compagnia delle ragazze. Sgusciò in cucina a preparare i rinfreschi, silenzioso come sempre. Attraversai la seconda corte, fermandomi un momento a gustare la stupenda veduta che mi si presentò. In città viviamo stipati come animali. Qui, nel lusso dello spazio e fra le alte mura a protezione della proprietà, tutto è pace; è come camminare su un rotolo di papiro vivente che illustri la bella vita ultraterrena. Seguii il bordo di pietra della lunga piscina ombreggiata dagli alberi; colma di fiori di loto bianchi e azzurri, fornisce l'acqua alle aiuole e agli orti e ospita la collezione di pesci ornamentali di Nakht.
Giardinieri alacri, vecchi e giovani, lavoravano con calma e attenzione, dedicandosi alle piante e agli alberi, innaffiando, strappando erbacce, potando e tagliando, visibilmente contenti del loro coscienzioso lavoro. Tralci rampicanti allungavano le spire ombrose sulle pergole. Piante e fiori insoliti ed esotici crescevano rigogliosi. Gli uccelli in libertà potevano approfittare di tutto quel che c'era e cantavano di piacere. Gli uccelli di palude si tuffavano e se la godevano all'ombra fresca dei papiri che crescevano nella lunga piscina. Il giardino era così bello da rasentare l'assurdo, tanto sembrava lontano dalla grandiosità, dalla miseria e dalla sporcizia della città. Trovai Nakht fra i suoi alveari, intento a fumigare le api per farle uscire dai cilindri d'argilla. Mi tenni a distanza di sicurezza, visto che non sono un patito delle api e dei loro pungiglioni, e mi sedetti all'ombra su uno sgabello per divertirmi a sue spese. Sembrava il sacerdote delirante di un culto del deserto e si muoveva a passo di danza, spingendo il fumo verso la nuvola gonfia di insetti impazziti. Trasferì con attenzione i favi nei contenitori e dopo poco ne riempì un vassoio. Allora si scostò, sollevò il cappuccio di protezione e si accorse della mia presenza. Mi salutò con un cenno della mano e si avvicinò, offrendomi un contenitore di miele. «Per i tuoi figli.» Ci abbracciammo. Un servitore gli porse una ciotola e un telo, poi arrivò Minmose con vino e spuntini, che dispose su un tavolino basso. Nakht si lavò il viso, sudato ma sempre elegante. Sedemmo all'ombra sugli sgabelli e mi versò del vino. Sapevo che sarebbe stato eccellente. «Che cosa ci fai qui in un giorno lavorativo?» domandò. «Sto lavorando.» Mi guardò attentamente, libò agli dei e bevve una lunga sorsata del suo vino. «Su cosa stai indagando? L'incidente durante la cerimonia?» «In parte.»
Sembrò incuriosito. «Ho l'impressione che il palazzo stia impazzendo più delle mie api...» «Qualcuno sta senz'altro frugando con un bastone nell'alveare reale...» Annuì. «Tu cosa ne pensi? È una cospirazione di palazzo?» domandò speranzoso. «Non credo. Penso che si tratti solo di un'anomalia. Nella peggiore delle ipotesi, un membro della gerarchia ha spinto un branco di ragazzi sconsiderati a compiere un gesto di violenza ingenuo e irresponsabile.» Sembrò quasi deluso. «Forse, ma l'effetto è stato di grande potenza. Ne parlano tutti. Sembra che abbia catalizzato il dissenso che covava sotto la superficie da anni. La gente mormora persino che sia imminente un colpo di stato...» «Ispirato da chi?» ribattei. «Mi viene in mente una sola persona. Il generale Horemheb», disse con una certa soddisfazione. Sospirai. «Non sarebbe un miglioramento rispetto al regime attuale», obiettai. «Sarebbe molto peggio, perché Horemheb ha una visione del mondo improntata alla vita militare. Non possiede la benché minima umanità», replicò, «ma siamo comunque nei guai perché quel gesto ha fatto sembrare vulnerabile il re. Quale sovrano può permetterselo? Il nostro re non ha mai avuto la stoffa del guerriero. È come se la dinastia si fosse indebolita ed estraniata sempre più con il succedersi delle generazioni. E adesso il re non ha nessun potere...» «Ed è sempre più esposto ad altre influenze», dissi. Nakht annuì. «Non è mai riuscito a far valere la sua autorità, in parte perché dopo Akhenaton nessuno l'avrebbe permesso, e in
parte perché è cresciuto all'ombra spaventosa di Ay. Che si è rivelato un tiranno. Non c'è da meravigliarsi che il ragazzo non riesca a esercitare il potere.» Ci piaceva condividere il nostro odio privato, ma profondo, nei confronti del reggente. «Stamattina sono andato a far visita ad Ay», dissi scrutando in viso Nakht. Parve sbalordito. «E perché mai?» «Non perché me l'abbia chiesto, ma ho dovuto.» «Che strano», disse il mio amico, sporgendosi per versarmi ancora un po' del suo vino eccellente. «Ieri sera ho incontrato Ankhesenamon», dissi dopo una pausa a effetto. «Ah...» Annuì lentamente, cominciando a mettere insieme gli indizi che gli fornivo un po' alla volta. «Ha mandato uno dei suoi a prendermi.» «Chi?» «Khay. Il capo degli scribi», risposi. «Sì, lo conosco: cammina come se avesse un bastone d'oro nel sedere. Che cosa ti ha detto la regina?» «Aveva qualcosa da mostrarmi. Una pietra. Proveniva da Akhenaton. Un'incisione di Aton.» «Interessante, ma non particolarmente degna di nota.» «No, finché non mi sono accorto che avevano rimosso il disco di Aton, le mani che reggono gli ankh, i nomi reali e quelli divini, i nasi e gli occhi delle figure reali», spiegai. Nakht diresse lo sguardo sul quadro idilliaco del suo giardino di colori e ombre. «Immagino che serpeggi un po' di iconoclastia, specialmente a palazzo.» «Proprio così. Sono tutti terrorizzati perché non sanno cosa
significa.» «Tu cosa pensi?» domandò. «Potrebbe trattarsi semplicemente di qualcuno che, covando un vecchio rancore, ha perso tempo a inventare un sistema con cui inviare un messaggio sgradevole alla famiglia reale.» «Ma la coincidenza...?» mi incalzò. «Lo so. Noi non crediamo nelle coincidenze, vero? Crediamo nei collegamenti. Il ragazzo morto con le ossa fracassate, l'amuleto dell'aristocrazia e, adesso, una ragazza morta con una maschera d'oro al posto del viso.» Nakht sembrò inorridito. «Che cosa tremenda! Una vera barbarie. È vero, dunque, che i tempi stanno peggiorando.» Annuii. «C'è qualcosa nella raffinatezza e nella coerenza stilistica di questi episodi che mi fa pensare a un nesso con l'oggetto lasciato a palazzo; mi sono chiesto se l'abrasione del disco solare possa avere un significato specifico...» «Quale?» chiese dubbioso. «Un'eclisse», suggerii. «Questa sì che è un'idea interessante», commentò, assorto nelle conseguenze della mia ipotesi. «Il sole in battaglia è distrutto dalla forza del buio, gli viene restituito il suo posto e rinasce... il simbolismo è potente. È molto adatto alla situazione attuale...» «Più o meno», risposi. «Perciò ho pensato di consultare l'uomo che conosce le stelle meglio di tutti.» «Ebbene, è un'allegoria», sorrise riscaldandosi, nel suo elemento. Non capii che cosa intendesse. «Dimmi di più.» «Camminiamo.» Passeggiammo per uno dei sentieri fra le aiuole fiorite, mentre Nakht cominciava a spiegare. Con lui le cose vanno sempre così: lo ascolto senza capire tutto, perché so che interrompendolo e ponendogli nuove domande arrivano altre digressioni, altrettanto meravigliose, ma infinitamente sconcertanti. «Pensa alla nostra interpretazione dei misteri del mondo che ci
circonda. Ra, dio del sole, naviga nell'azzurro oceano diurno sulla Nave dorata del giorno. Al tramonto, il dio sale sulla Nave della notte e sparisce nell'Aldilà. Compare l'oscuro oceano notturno con le sue stelle luminose - la Lucente che brilla più delle altre, le cinque stelle di Horus e le stelle di Osiride, il Sentiero delle stelle lontane nell'alto dei cieli, e la stella viaggiatrice dell'alba - ed esse navigano sulle acque oscure seguendo il sole, il cui corso notturno, con i pericoli che incontra e le prove che deve superare, non potremo mai vedere, ma solo immaginare. Nel Libro dei Morti lo paragoniamo al viaggio dell'anima dopo la morte. Fin qui ci sei?» Annuii. «E a proposito di...» «Ora la faccenda si complica. Ascolta e concentrati. Il pericolo maggiore, il più misterioso, è l'unione del sole con il corpo di Osiride nel punto più buio della notte. Il Sole riposa in Osiride, Osiride riposa nel Sole", come si suol dire. È il momento più segreto, quello in cui il sole torna a discendere nelle acque primordiali e nelle forze del caos. In quel momento oscuro riceve nuove facoltà vitali e Osiride rinasce. I viventi non potranno mai essere testimoni dell'evento, che resta celato alla nostra vista nella parte più remota dell'Ignoto. Possiamo, tuttavia, immaginarlo, con un grande sforzo mentale. All'alba, il sole torna, visibile e rinato, poiché Ra è il creatore di se stesso e di tutto quello che esiste. La forma del dio che si ripresenta la chiamiamo khepri, lo scarabeo, colui che si evolve, che passa dal non essere all'essere. Così ha inizio un nuovo giorno! E tutto si ripete, giorno dopo giorno, anno dopo anno, vita dopo vita, morte dopo morte, rinascita dopo rinascita, in perpetuo ed eternamente.» Sapevo che gli piaceva moltissimo parlare di quelle cose. Il fatto è che a me sembrava soltanto una bella storia. E come tutte le storie che raccontiamo a noi stessi e ai nostri figli, per spiegare come accadano le cose e perché siano come sono, non potranno mai essere oggetto di dimostrazione. «Ma cosa c'entra con quello che ti ho chiesto?» domandai. «Esiste un momento in cui i viventi possono essere testimoni dell'unione divina.»
«Durante un'eclisse?» «Per l'appunto. Naturalmente, esistono diverse interpretazioni dell'evento, a seconda dell'autorità che consulti o che accetti come vera. Secondo alcuni, Hathor, la dea dell'Occidente, copre il dio con il suo corpo. Una sorta di unione divina tra luce e buio. Altri sostengono invece che un potere oscuro di cui non conosciamo il nome e di cui non possiamo parlare, ha la meglio, ma la luce si riprende e trionfa nella battaglia divina del cielo.» «Per nostra fortuna.» «Ben detto. Senza luce non ci sarebbe vita. Il regno dell'oscurità è la landa delle ombre e della morte. Ci sono cose, tuttavia, che continuiamo a non capire. Credo che in futuro le nostre conoscenze saranno in grado di spiegare tutto l'esistente.» Si fermò accanto a un melograno e giocherellò con i fiori rosa l'ultima moda - strappando alcuni boccioli sfioriti, come per dare una dimostrazione dei suoi poteri semidivini sulla propria creazione. «Una specie di Libro del Tutto...» suggerii. «Proprio così. Ma le parole sono imperfette e il nostro sistema di scrittura, per quanto meraviglioso, è limitato nelle sue capacità di descrizione del creato in tutta la sua gloria, visibile e invisibile... dovremmo inventare un altro modo di descrivere i fenomeni.» «E cioè?» «Ah, be', questa è la domanda, ma la risposta non sta nelle parole, bensì nei simboli; nei numeri, in realtà...» A quel punto la mia mente incominciò a vacillare, come spesso mi capita quando parlo con Nakht. Ha una smania di filosofare che talvolta mi fa venir voglia di dedicarmi a qualcosa di pratico e insulso, come spazzare il cortile. Sorrise, alla vista della mia espressione sconcertata. Riportai la conversazione sul mio argomento. «A questo proposito so che coi calendari stellari si possono predire l'arrivo dell'inondazione e l'inizio delle festività. Ma le eclissi appaiono nelle carte astronomiche?» Rifletté sulla domanda prima di rispondere. «Non credo. Ho compilato i miei calendari basandomi sull'osservazione, ma non sono stato così fortunato da essere testimone di un'eclisse di sole, perché sono eventi davvero
rari. Ho osservato dal mio terrazzo un'eclisse di luna. Sono incuriosito e sconcertato dall'elemento sistematico della circolarità, sia per la ricorrenza degli eventi cosmici sia per le implicazioni delle curve che le ombre proiettano sulla faccia della luna, perché presuppongono un intero cerchio, così come lo percepiamo nel sole e nella luna e come lo vediamo in un'eclisse totale. Fa pensare che il cerchio sia la forma perfetta del cielo, sia sul piano ideale - perché il cerchio rammenta l'infinito ritorno - sia nella realtà.» Grato di una pausa in quel torrenziale, inarrestabile flusso filosofico, fui lesto a domandare: «Come possiamo saperne di più? Potresti accompagnarmi agli archivi astronomici?» «Quelli all'interno del Tempio di Karnak? Dove io ho accesso ?» Sorrise. «Quanto sono fortunato a poter contare sull'intima amicizia di un uomo che ha una posizione tanto elevata.» «Il tuo sarcasmo è così... perbenista», replicò divertito.
Capitolo 12 Thot e io seguimmo Nakht che procedeva con passo autoritario e con la sua solita andatura veloce ed elegante, e superammo le postazioni delle guardie di sorveglianza al pilastro principale del Tempio di Karnak. Alzai lo sguardo sulle grandi pareti di fango essiccato che torreggiavano sopra di noi. Ci immergemmo nelle ombre del «Luogo eletto», un mondo nel mondo, proibito e segreto, dove non può entrare chi non fa parte dell'aristocrazia sacerdotale, un antico enigma di pietra composto da sale a colonnati e templi oscuri, ricoperti da un'infinità di rilievi indecifrabili, che circonda un labirinto di sacrari senza sole. Lì, nel cuore profondo dell'oscurità silenziosa, le statue degli dei sono curate, risvegliate, onorate, vestite, nutrite, rimesse a dormire e sorvegliate durante la notte. Uscimmo in una zona scoperta. Tutto intorno a me, personaggi dell'aristocrazia, con i loro abiti di lino di un bianco purissimo, eseguivano senza alcuna fretta i loro rituali esoterici. Il lavoro dei sacerdoti non sembrava molto impegnativo. In alcuni momenti dell'anno già stabiliti, e in cambio di una quota dell'enorme reddito del tempio, si ritirano al suo interno per un periodo di servizio, tenuti a rispettare le antiche regole del rituale di purificazione - il bagno all'alba nel lago sacro, la rasatura di tutto il corpo, le vesti di lino bianco - e a celebrare con accuratezza e senza varianti le funzioni e i riti del culto secondo le istruzioni. Tutti i templi, però, dal più piccolo sacrario di un riarso avamposto commerciale sui confini meridionali, ai luoghi più antichi e divini delle Due Terre, sono vulnerabili alla consueta gamma delle attività umane: dissolutezza, corruzione, furto, malversazione e ogni altra nefandezza, dagli scandali dei riti abbreviati al furto di cibo e reliquie sacre, fino alla violenza e all'assassinio. Più grande è il tempio, maggiore è la ricchezza che controlla. La ricchezza è potere. E Karnak è il tempio più grande. La sua ricchezza e il suo potere hanno rivaleggiato a lungo con quelli della famiglia reale, e ora hanno prevalso.
Il grande spazio chiuso fra le mura conteneva quella che ai miei occhi parve un'accozzaglia di vecchio e nuovo: pilastri, obelischi, viali, statue, cappelle e strutture inaccessibili dalle grandi colonne a papiro e le sale ombrose. Alcuni edifici sembravano di recente costruzione, altri erano tuttora in fase di realizzazione, molti erano stati smantellati e altri ancora ridotti in macerie. C'erano anche magazzini, uffici e abitazioni per i funzionari e i sacerdoti. In effetti, era una piccola città, imponente e caotica al tempo stesso. I sacerdoti sciamavano dentro e fuori portali e pilastri, seguiti da un numero ancora maggiore di servitori e assistenti. Di fronte a noi un pilastro conduceva ad altri pilastri, e infine agli antichi santuari nel cuore del tempio. «Oltre le corti c'è il lago sacro», disse Nakht, puntando a destra. «Due volte al giorno e due volte a notte i sacerdoti devono fare abluzioni con l'acqua e sciacquarsi la bocca con un po' di natron.» «Che vita dura», commentai. «Puoi anche fare dell'ironia, ma ai sacerdoti è proibita qualsiasi attività sessuale per tutto il periodo in cui si dedicano alle funzioni nel perimetro del tempio, e sono sicuro che tu, tanto per dire, lo troveresti un divieto impraticabile», rispose con la sua solita schiettezza. «I sacerdoti, naturalmente, sono solo di passaggio. Ci sono i cantanti che officiano all'altare, gli scribi, i lettori sacri, i sacerdoti che fanno rispettare gli orari precisi dei riti... ma sono i funzionari, i servitori, i tessitori, i cuochi e gli addetti alle pulizie che si accollano in concreto gli obblighi della corretta esecuzione dei rituali. Si può dire che il dio Amon occupa più persone del re.» «In pratica, è un grande ministero...» dissi. «Per l'appunto. Ci sono persone che sorvegliano ogni aspetto della gestione del tempio: le proprietà, la contabilità, i soldati, il personale, i campi, il vestiario, i granai e il tesoro...» Si fermò davanti all'ingresso di una serie di edifici imponenti. «Questa è la Casa della Vita, dove si trovano lo scriptorium, le biblioteche, gli archivi e gli uffici dei lettori sacri.» Entrammo. Di fronte a noi, dietro una porta a due battenti, si apriva una grande stanza silenziosa.
«Quello è lo scriptorium», bisbigliò Nakht, come se si rivolgesse a un bambino; vidi al lavoro uomini di varie età, che copiavano meticolosamente i testi dai vecchi rotoli di papiro a quelli nuovi o li mettevano a confronto. Nella biblioteca l'atmosfera era sonnolenta; essendo metà pomeriggio, alcuni tra i frequentatori più anziani non lavoravano con particolare attenzione, bensì sonnecchiavano davanti ai rotoli aperti. Le cellette di legno addossate alle pareti contenevano un numero infinito di papiri, un rotolo dopo l'altro, come se tutto il sapere fosse lì, in forma scritta. La luce del sole entrava obliquamente nella stanza dalle finestre a lucernario, catturando le infinite particelle di pulviscolo che scintillavano e sparivano fluttuando nell'aria, come minuscoli frammenti di idee o simboli sbriciolatisi dai rotoli, ormai insignificanti senza i testi da cui provenivano. Nakht proseguì bisbigliando. «Sono gli archivi più antichi che esistano. Molti testi conservati qui provengono dall'alba del nostro mondo. Il papiro è molto resistente, ma alcuni rotoli sono così antichi che restano nei loro astucci di pelle, inaccessibili alla lettura. Altri potrebbero essere srotolati, ma si teme che il minimo raggio di sole possa far svanire l'inchiostro superstite ed è possibile consultarli solo alla luce delle candele. A dire il vero, c'è chi li consulta alla luce della luna, ma penso che sia solo superstizione. Molti sono scritti con simboli ormai incomprensibili e non sono altro che un miscuglio insensato di segni infantili. È un pensiero tremendo: un intero mondo di conoscenze che ha perso significato. Questo è un grande palazzo del sapere, di cui, ahimè, la gran parte è incomprensibile. Sapere perduto... Libri perduti...» Sospirò. Percorremmo un corridoio su cui si aprivano numerose porte. «Qui si conservano i trattati di mitologia e di teologia, i racconti e gli originali delle iscrizioni da cui sono stati copiati con esattezza tutti i rilievi nelle pareti dei templi e degli obelischi. Ci sono studi in cui si copia su commissione il Libro dei Morti. Ci sono le stanze dedicate all'insegnamento e all'apprendimento e le aree in cui sono conservati testi che trattano di molti argomenti, quali la scrittura, l'ingegneria, la poesia, la legge, la teologia, gli studi di magia, di medicina...»
«E di astronomia», aggiunsi. «Certo. Ecco qui.» Ci accolse un uomo anziano vestito di bianco con la fascia di lettore sacro, in piedi davanti a una porta a due battenti che era stata legata con una corda e sigillata. Ci scrutò con sguardo minaccioso sotto le magnifiche sopracciglia bianche. «Sono Nakht», disse il mio amico. «Benvenuto», lo salutò il sacerdote con un tono che indicava l'esatto contrario. «Vorrei esaminare alcuni rotoli nella sezione di astronomia», spiegò Nakht. Il sacerdote lo fissò, socchiudendo gli occhi mentre soppesava la richiesta. «Chi è il tuo compagno?» domandò sospettoso. «Si chiama Rahotep. È ispettore capo del Medjay di Tebe.» «Che bisogno astronomiche?»
ha
un
poliziotto
di
esaminare
le
carte
«Ha una mente avida di sapere e io mi sforzo di soddisfare le sue curiosità», replicò Nakht. Il sacerdote non riuscì a trovare un motivo valido per impedirci di entrare e, muovendosi come un ippopotamo che esce dal fango, emise un profondo sospiro, ruppe brontolando il sigillo e slegò la corda. Aprì la porta e con un gesto brusco delle mani ci fece segno di entrare. La stanza era molto più grande e più alta di quanto mi aspettassi. Le pareti erano rivestite di scaffali fino al soffitto, e nello spazio centrale erano disposte a spina di pesce alte casse da imballaggio. Su ogni scaffale erano collocati numerosi rotoli di papiro. Non avrei saputo da che parte cominciare, ma Nakht esaminò velocemente i cartellini alla ricerca di qualcosa. «Il mondo pensa che l'astronomia sia in funzione della religione. Finché sapremo quando appaiono le stelle importanti, in modo da far coincidere i giorni, le feste e le festività con le carte lunari, tutti saranno contenti. A nessuno è venuto in mente che la regolarità, lo schema ricorrente delle stelle immortali, implica un universo
immenso e ordinato, che sfugge alla nostra comprensione.» «Prenderebbe il posto delle vecchie storie che ci hanno raccontato dall'inizio dei tempi, secondo cui gli dei e le dee hanno avuto origine, come ogni altra cosa, dalla palude di papiri della creazione, e il mondo notturno è il luogo della vita eterna...» «Certo», sussurrò Nakht, «le stelle sono la vita eterna, ma forse non nel modo in cui abbiamo sempre pensato. Eresia, naturalmente», disse con un risolino divertito. Aprì diversi rotoli sui bassi tavoli sistemati fra le casse e mi mostrò colonne di simboli e numeri sulle carte stellari, scritte con inchiostro rosso e nero. «Guarda: trentasei colonne che elencano i gruppi di stelle in cui si divide il mondo della notte. Noi le chiamiamo decani.» Feci scorrere lo sguardo sui simboli nelle colonne, continuando ad aprire l'antico rotolo. I simboli sembravano proseguire all'infinito. Nakht mi ammonì con impazienza. «Sta attento; bisogna maneggiarli con delicatezza. Con rispetto.» «Perché le informazioni sono annotate in questo modo?» «Ciascuna colonna mostra le stelle che sorgono sull'orizzonte prima dell'alba ogni dieci giorni l'anno. Guarda, questa è la Stella del Cane, che sorge esattamente all'epoca dell'inondazione, all'inizio dell'anno solare. E questa è Sah, l'anima gloriosa di Osiride, la stella lucente che sorge all'inizio di peret, il periodo della primavera... conosci il detto, ovviamente: 'Io sono la stella che percorre le Due
Terre e naviga davanti alle stelle del cielo sul ventre di mia madre Nut'?» Scossi la testa. «A volte penso che sei proprio ignorante», disse. «Questo non è il mio campo. Ma l'eclisse?» gli ricordai.
Nei minuti successivi consultò molte altre carte, srotolandole e riarrotolandole. Ognuna di esse pareva più antica e più fragile della precedente. Infine scosse la testa, rassegnato.
«Non c'è nessuna documentazione. Speravo di sì.» «Un vicolo cieco.» «Era un'idea interessante e, se non altro, adesso hai appreso qualcosa in materia», disse col suo tono più professorale. Lasciammo la stanza dell'archivio e il sacerdote si piegò a fatica per rifare il nodo e sigillare di nuovo la corda. Uscendo, riflettei ad alta voce: «Dove tengono i libri segreti?» Nakht non riuscì a celare la sua apprensione. «Di che cosa parli? Quali libri segreti?» «I Libri di Thot, per esempio.» «Andiamo, sono una leggenda, non una realtà. Come molti altri libri cosiddetti segreti.» «Ma è vero o no che esiste un certo numero di testi sacri di cui sono a conoscenza soltanto gli iniziati?» domandai. «'Iniziati' a che cosa? E i testi, di quali argomenti segreti tratterebbero?» «Ma, per esempio, la geometria divina», risposi con indifferenza. «Non ne ho mai sentito parlare», fece lui irrigidendosi e guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno ci potesse sentire. «Ma certo che ne hai sentito parlare, amico mio», dissi in tono pacato. Mi fissò irritato. «Cosa intendi dire?» «Sapevi che in quei rotoli non avresti trovato niente che mi interessasse. Apprezzo che tu abbia perso tempo per dimostrarmi che non c'era nulla. Ma ti conosco troppo bene e sono certo che mi nascondi qualcosa.» Ebbe il buon gusto di arrossire. «Talvolta le cose importanti non si possono discutere con superficialità.» «Quali sarebbero queste cose importanti?» «Ti detesto quando applichi su di me le tue tecniche di interrogatorio. Cercavo soltanto di aiutarti», disse senza scherzare nemmeno un po'. «Allora ti dirò quello che penso. Penso che esistano libri segreti di
astronomia, e di molti altri argomenti, e penso che tu sia fra gli iniziati, che tu li abbia visti e che tu sappia dove sono conservati.» Mi guardò dritto negli occhi, con uno sguardo gelido che non gli avevo mai visto. «Possiedi una fervida immaginazione...» E si allontanò. Lo seguii nella luce e nel calore del tardo pomeriggio e camminammo insieme in silenzio. D'improvviso si fermò e mi attirò in una zona d'ombra vicino a un tempio antico. «Non posso mentirti, amico mio, ma non posso rivelarti il contenuto dei libri. Ho giurato solennemente.» «Ti ho chiesto soltanto se esistono o no.» «Nemmeno questo si può rivelare. La loro esistenza vera o presunta va tenuta nascosta. I libri segreti sono messi al bando in questi tempi bui. Il sapere occulto è tornato a essere pericoloso. Come tu ben sai, chiunque li possieda, o possieda anche soltanto la copia di alcune loro parti, può essere punito con la morte.» «Esistono, tuttavia, e sono condivisi da una cerchia ristretta di persone, perciò sono conservati da qualche parte. Dove sono?» domandai senza giri di parole. «Non posso dirlo.» Guardai gli edifici racchiusi nel perimetro del tempio. Mi resi conto che dentro quella città segreta avrebbe potuto esserci un'altra città. Ogni segreto ne contiene un altro. Mi guardò di traverso, sinceramente arrabbiato. «Chiedi troppo alla nostra amicizia.» In quello strano momento ci fronteggiammo. Mi inchinai per allentare la tensione. «Ti chiedo scusa. Il lavoro non dovrebbe mai mettersi in mezzo fra due vecchi amici.» Annuì, abbastanza soddisfatto. Sapevo che non avrei ottenuto altro da lui in quel momento di pressione emotiva. «È il compleanno di Sekhmet, o te lo sei dimenticato, con tutte le tue idee di eclissi e libri segreti? Sono a cena da te con la tua famiglia stasera», mi rammentò. Mi colpii la fronte col palmo della mano. Non me ne ero dimenticato, perché Tanefert me lo aveva ricordato
prima che uscissi, ma avevo ancora un sacro dovere familiare da compiere. «Essendo mia la responsabilità della festa, sarà meglio che vada a comprare gli ingredienti segreti - che non dovrò mai rivelare, pena la morte - prima che i sacri ed esoterici venditori del mercato chiudano le loro bancarelle.» Riuscì a sorridere e passammo insieme sotto al grande arco che ci ricondusse alla vita della città; poi ci separammo, lui verso casa sua, io verso il mercato, a comprare carne, spezie e vino.
Capitolo 13 Ciascuno di noi ha uno sgabello su cui si siede abitualmente intorno al basso tavolo: mio padre a una estremità, Sekhmet e Thuyu su un lato insieme a Khety e a sua moglie, Tanefert e Amenmose sull'altro, vicino a Nakht e a Nedjmet la Dolce, a cui piace sedersi accanto al mio amico e mettergli le braccia al collo. Ci guarda mentre inscena il suo gesto di affetto. Dove ha imparato a lusingarlo in quel modo? Avevo preparato il nostro piatto preferito gazzella al vino rosso - riservato alle occasioni speciali. Sekhmet aveva un aspetto sereno e fiducioso nel suo nuovo abito a pieghe e sfoggiava gli orecchini che le avevamo regalato per il suo compleanno. La timidezza dell'adolescenza sta lasciando il posto a una nuova padronanza di sé. Ha letto molto più di me e ha un'ottima memoria. Sa ancora recitare le poesie un po' assurde che avevamo composto quando era piccola. Per lei, la conoscenza è tutto. Una volta mi disse, seria seria: «Non posso essere un'atleta e una studiosa». E così aveva fatto la sua scelta. Quando sono insieme alla famiglia e agli amici in serate come questa, con un buon pasto sulla tavola, le lampade a olio accese nelle nicchie, mi chiedo che cosa ho fatto per meritare tanta felicità. Nei momenti più brutti temo che il mio lavoro possa mettere tutto a repentaglio. Se dovesse capitarmi qualcosa, come vivrebbero? Mi chiedo anche: perché questa vita non mi basta? E come me la caverò, quando mio padre sarà morto, le ragazze sposate e trasferite in altre case, Amenmose altrove a studiare, forse a Menfi, e io e Tanefert soli, nell'insolita quiete dei nostri ultimi anni? «Padre, mi chiedevo perché le ragazze non abbiano occasioni di studio e di carriera nella nostra società.» Sekhmet prese un boccone di gazzella, osservando gli effetti della sua dichiarazione. «A proposito, è deliziosa», bofonchiò. Nakht, Khety e mio padre mi lanciarono un'occhiata, divertiti.
«Tu hai avuto molte occasioni.» «Solo perché Nakht mi ha insegnato cose che nessun altro avrebbe potuto spiegarmi...» «E lei è un'allieva eccezionale», aggiunse Nakht orgoglioso. «A me sembra di aver avuto meno opportunità dei ragazzi, essendo una femmina, perché in questa società tutto gioca a favore dei maschi. È assurdo. Siamo in un mondo moderno. Il fatto che io abbia il seno non vuol dire che non possieda un cervello.» Mio padre tossì come se gli fosse andato qualcosa di traverso. Nakht gli diede dei colpetti sulla schiena, ma lui continuò a tossire, con le lacrime agli occhi. Sapevo che erano lacrime di divertimento, ma non voleva mettere in imbarazzo Sekhmet. Gli strizzai l'occhio. «Hai proprio ragione», dissi, «se decidi di raggiungere un risultato, devi essere determinata.» «Ho deciso. Per ora non voglio sposarmi, ma studiare. Voglio diventare un medico.» Lanciò un'occhiata a Tanefert. Capii subito che ne avevano discusso. Guardai Tanefert, che ricambiò il mio sguardo con una preghiera silenziosa perché facessi attenzione. «Carissima, amatissima figlia...» dissi sperando che Nakht venisse in mio aiuto in quel difficile frangente. «Sì, carissimo, amatissimo padre?» Mi sforzai di trovare le parole adatte. «Le donne non diventano medici.» «Invece sì, se proprio vogliamo dirla tutta», disse Nakht dimostrandosi di nessun aiuto. «Che importanza ha se in passato non era possibile? E quello che voglio fare. C'è tanta sofferenza al mondo e vorrei cambiare le cose. C'è anche tanta ignoranza. La conoscenza può dare sollievo alla sofferenza e all'ignoranza. Se non volevi che diventassi un medico, perché mi hai chiamata Sekhmet?» «Perché l'avete chiamata Sekhmet?» domandò Nedjmet, cogliendo l'opportunità di partecipare alla conversazione. «Perché significa colei che è potente», spiegò Tanefert.
«Sekhmet, la dea leonessa, può inviare le malattie, ma può anche richiamarle a sé», disse Sekhmet. «Vedo che hai imparato molto dal tuo brillante padrino», commentai. «Ho discusso con lui.» Per una ragione che non saprei spiegare, mi sentii come l'unico pezzo sulla scacchiera che non si era spostato oltre la prima mossa. Inaspettatamente mio padre prese la parola dall'altra estremità del tavolo. «Sarà un bravissimo medico. È calma, metodica e molto bella. Niente a che vedere con quei medici anziani, puzzolenti e intrattabili, che sventolano erba fumigante in aria e ti fanno bere l'urina. Conterò su mia nipote per farmi accudire quando sarò vecchio e malato.» Sekhmet mi guardò, sorridendo con aria vittoriosa. «Ti sei guadagnata il primo paziente», dissi, «ma hai un'idea di che cosa comporti?» Annuì con espressione seria. «Comporta anni di studio e la necessità di essere brava il doppio degli altri, dal momento che sarò l'unica femmina in mezzo a tanti maschi. Dovrò combattere l'ostilità del sistema, e le offese meschine dei professori di idee arretrate. Ma ce la farò.» Non mi venne in mente nessun argomento da opporre al suo desiderio e, per la verità, ero fiero della sua risolutezza. A trattenermi dall'appoggiarla incondizionatamente era soltanto la consapevolezza delle battaglie che avrebbe dovuto affrontare quelle, e la probabilità di un fallimento - e non per una sua manchevolezza, ma per il possibile rifiuto da parte delle gerarchie. Stavo per dire qualcosa, quando improvvisamente Thot gridò nel cortile. Un colpo energico ci fece ammutolire. Mi alzai e andai alla porta. Un tipo alto, massiccio, poco amichevole, nella divisa ufficiale delle guardie di palazzo mi stava aspettando. Dietro di lui, c'erano le guardie con le spade che scintillavano alla luce della lampada a olio sistemata nella nicchia vicino all'ingresso.
«So perché sei qui», dissi pacatamente prima che aprisse bocca. «Aspetta un momento, per favore.» Tornai nella stanza. La famiglia mi fissò. Tanefert afferma che c'è sempre una scelta, ma qualche volta si sbaglia. Chiesi a Khety di accompagnarmi e a Nakht di rimanere e continuare i festeggiamenti. Sekhmet uscì con me dalla cucina. Sbirciò le guardie in attesa e annuì. «Non preoccuparti, padre. Il lavoro è importante, quello che fai è importante. Ti capisco. Saremo tutti qui quando tornerai.» Sorrise e mi baciò sulla guancia.
Capitolo 14 Riattraversando il Grande Fiume - Khety seduto di fronte a me, Thot accovacciato ai miei piedi, perché non si fida delle barche e dell'acqua, che ritiene ingannevoli - osservavo il nero oceano della notte che riluceva per le misteriose stelle. Pensai a una vecchia sentenza che mi aveva riferito mio nonno: non contano le innumerevoli stelle, ma la straordinaria oscurità che le circonda. Gli antichi papiri sbiaditi che Nakht mi aveva mostrato quel pomeriggio, con le loro colonne e i loro simboli, mi sembrarono una raffigurazione umana molto rudimentale di quei grandissimi misteri. Esperti rematori ci condussero al pontile del palazzo, dove l'acqua scura si frangeva dolcemente sulle pietre inargentate dalla luna. Khay ci stava aspettando. Nel riflesso del fuoco acceso nelle ciotole di rame sbalzato, il suo viso ossuto era trasfigurato da un'ansia malcelata. Gli presentai Khety, che restò a rispettosa distanza e a capo chino, come mio assistente. Khay lo squadrò e fece un cenno. «Sei responsabile della sua condotta e della sua incolumità», disse. Ho sentito dire che alcuni tornano a rivivere in sogno le stesse situazioni e i medesimi dilemmi. Notte dopo notte si ripresentano le immagini tormentose delle paure e degli orrori che li assillano: inseguimenti da incubo lungo tunnel senza fine, le rapide increspature prodotte da coccodrilli invisibili ma ben presenti nell'acqua nera e profonda, l'apparizione di una persona amata e morta, irraggiungibile in una moltitudine di figure indistinte. Infine il sognatore tormentato si sveglia coperto di sudore e piange, senza riuscire a controllarsi, per via della cosa o della persona che continua a perdere in quell'Aldilà visionario. Il palazzo, con i suoi lunghi corridoi, le numerose porte chiuse e i vestiboli silenziosi, mi suggerì l'analogia. Immaginai che ciascuna camera chiusa contenesse il proprio sogno, il proprio incubo. Non ne avevo paura: ero di nuovo in preda alla morsa splendida e terribile dell'eccitazione. Era
accaduto qualcosa di inatteso ed ero al colmo della felicità. Superammo la postazione di guardia ed entrammo negli appartamenti reali. Una porta sbatté da qualche parte nel buio e la voce acuta di un giovane impartì un ordine con voce tremante. Qualcuno cercò di calmarlo sussurrando in tono suadente. Un'altra porta sbattuta e tutto ripiombò in un silenzio sepolcrale. Khay, attento al significato di ogni segno ed evento inaspettato, si precipitò sui suoi sandali perfetti e costosi e ci trovammo nuovamente di fronte alla grande porta a due battenti della camera di Ankhesenamon. Khety mi lanciò un'occhiata con le sopracciglia alzate, divertito dalla situazione in cui eravamo finiti. La porta si aprì di colpo e ci fecero entrare. Non era cambiato nulla. Le lampade bruciavano nella stessa posizione. Le porte, che si affacciavano sulla corte e sul giardino, erano aperte. Ankhesenamon, sorvegliata da un soldato, era seduta immobile e fissava, come ipnotizzata, una scatoletta di legno, chiusa, appoggiata su un basso ripiano all'altra estremità della stanza. Quando entrammo, si voltò lentamente a guardarci, le mani strette in modo convulso, gli occhi scintillanti. La scatola aveva all'incirca le dimensioni di un contenitore per parrucche. Era legata con una cordicella annodata secondo un intreccio complesso. Sembrava che il nodo non avesse uno scopo pratico, bensì magico. L'enigma che racchiudeva - la fascinazione per gli indovinelli insolubili e dementi di chi l'aveva creato - ricordava in modo allarmante i misteri degli ultimi giorni. Invece di slegare il cordoncino - che costituiva un indizio, di cui forse Nakht avrebbe potuto decifrare il significato -, lo tagliai. Avvicinai la testa al coperchio della scatola e colsi un rumore leggerissimo; all'interno qualcosa si muoveva a fatica, appena udibile pur nel silenzio della stanza. Scambiai un'occhiata con Khety e Khay e alzai il coperchio con molta cautela. Un fetore dolciastro di carne in putrefazione si diffuse nella stanza. Tutti fecero un balzo all'indietro portandosi alle narici un lembo della veste. Mi feci forza e guardai all'interno. Larve bianche brulicavano nelle orbite, nel naso, nelle orecchie e nelle mandibole di una testa
umana. Vidi un paio di clavicole, alcune vertebre annodate insieme da un altro tratto di corda e alcuni teschi molto più piccoli di uccelli o di roditori. Ossa di ogni genere - animali e umane - erano state mescolate per comporre la disgustosa maschera di morte. Di solito le maschere funerarie sono fatte di prezioso oro perché rappresentino i defunti davanti agli dei; questa, invece, era stata composta come una sorta di contromaschera, assemblata con gli avanzi di un macellaio. C'era un pezzo d'oro, tuttavia, una collana con un nome inciso nel cartiglio reale. Lo estrassi con un paio di pinze che avevo trovato lì accanto. Il geroglifico diceva: Tutankhamon. Esaminai la scatola; intorno al coperchio, sia dentro sia fuori, erano stati intagliati e dipinti di rosso e di nero strani simboli, curve, falci, punti e linee nette, come una sorta di scrittura insensata. Non ne venivo a capo. Sembrava il codice di una maledizione. Pensai che non mi sarebbe piaciuto sentir pronunciare quelle parole a voce alta e nemmeno conoscere l'uomo che parlava quella lingua. Me lo raffigurai come un mostro. Sotto al coperchio, e intagliata al centro, c'era un'immagine che riconobbi immediatamente: un cerchio nero, il sole distrutto. Tenendo una pezza di lino sulla bocca e sul naso con aria disgustata, Khay si avvicinò riluttante, lanciò uno sguardo al contenuto della scatola e se la squagliò come se il pavimento fosse improvvisamente diventato instabile. Il soldato marciò verso la scatola con decisione e guardò all'interno con l'autodisciplina di un militare. Si scostò per fare spazio ad Ankhesenamon. Khay tentò di dissuaderla dal guardare, ma lei insistette. Si mise accanto a me, lottando per non soccombere al fetore, e coraggiosamente gettò un'occhiata ai resti miserevoli contenuti nella scatola. Non riuscì a resistere più di qualche istante. Le grandi porte si aprirono di colpo e, con un grido di frustrazione, irruppe nella stanza un giovane dal viso bellissimo di forma allungata, quasi a mandorla, e dai lineamenti minuti e delicati. Zoppicava leggermente e per aiutarsi si appoggiava a un elegante bastone da passeggio. Dalle spalle snelle pendeva un abbagliante pettorale d'oro. Abiti di finissimo lino vestivano il suo corpo snello, ma arrotondato in vita.
«Non mi farò trattare come un bambino!» gridò Tutankhamon, Signore delle Due Terre, Immagine vivente di Amon, alla stanza che si era azzittita. Khay e il soldato si pararono davanti alla scatola, cercando di impedirgli di avvicinarsi, ma senza osare anche il minimo contatto con il corpo del re. Malgrado la sua infermità, tuttavia, fu troppo svelto per loro; si mosse veloce e imprevedibile come uno scorpione. Osservò gli intagli, e abbassò lo sguardo sulla figura putrefatta. All'inizio parve affascinato da ciò che vide, dalla sensazione di corruzione che emanava. Ma quando cominciò a interpretarlo, la sua espressione cambiò. Ankhesenamon gli prese le mani tra le sue e, parlandogli con dolcezza e circospezione, forse più come una sorella maggiore che come una moglie, lo convinse ad allontanarsi. Mi guardò e vidi che aveva gli occhi di suo padre, uno sguardo quasi femminile, ma con un'espressione al tempo stesso apertamente innocente e potenzialmente, sia pure di riflesso, malvagia. Vide la collana con il nome reale e me la strappò di mano. Abbassai subito gli occhi, rammentando di dovergli mostrare rispetto, secondo il protocollo. Aspettavo con lo sguardo a terra, pensando a quanto fosse più interessante visto da vicino. Da lontano era parso inconsistente come un fuscello, ma a un esame ravvicinato possedeva carisma. Aveva la pelle splendente di chi si espone di rado all'aria aperta, alla cruda luce del sole. Sembrava una creatura lunare. Le mani erano perfette, delicate. Un non so che nella forma allungata delle membra si armonizzava all'eleganza levigata del collare, dei gioielli e dei sandali d'oro. In sua presenza mi sentivo una creatura terrestre; il re, al contrario, sembrava appartenere a una specie rara, la cui sopravvivenza era garantita unicamente da un ambiente protetto con cura, fatto di ombra, segreti e lusso estremo. Non mi sarei sorpreso se avessi visto un paio di bellissime ali piumate ripiegate sotto le scapole, o minuscoli gioielli fra i denti perfetti. Non mi sarei stupito se avessi saputo che sorseggiava solo l'acqua di una sorgente divina. E non mi sarei sorpreso neppure se mi avessero detto che viveva in una stanza infantile con le porte ermeticamente chiuse per difendersi dal mondo esterno, di cui si rifiutava di conoscere le esigenze. Vidi subito quanto fosse atterrito; capii che l'artefice di quei
«regali» doveva conoscerlo molto bene. Tutankhamon scagliò la collana in un angolo. «Questo abominio deve essere subito allontanato dalla nostra vista e gettato nel fuoco.» Il tono della sua voce, anche se scosso, era modulato con grazia e con un timbro delicato. Al pari di molte persone che parlano piano, lo fece deliberatamente, sapendo di creare una situazione in cui tutti avrebbero dovuto sforzarsi per udire ogni sua parola. «Con tutto il rispetto, maestà, ne sconsiglierei la distruzione. È una prova», dissi. Khay, massimo esperto di etichetta, rimase a bocca aperta per la mia audacia. Mi chiesi se il re avrebbe inveito contro di me. Al contrario, parve cambiare idea. Annuì e si sedette su un divano incurvando la schiena. Sembrava un bambino braccato. Mentalmente vidi il mondo dal suo punto di vista: era solo, in un palazzo pieno di ombre e terrori, minacce, segreti e strategie in conflitto tra loro. Mi venne la tentazione di compatirlo, ma non sarebbe stato opportuno. Mi fece cenno di avvicinarmi. Mi presentai a lui con gli occhi abbassati. «Tu saresti l'Indagatore di Misteri. Guardami.» Obbedii. Il suo era un viso inusuale: lineamenti e ossatura delicati, ampi zigomi su cui spiccavano occhi grandi e scuri, gentili ma fermi. Labbra piene e sensuali su un mento piccolo e appena sfuggente. «Tu hai servito mio padre.» «Vita, prosperità e salute, signore. Ho avuto quest'onore.» Mi osservò attentamente, come per assicurarsi che non facessi dell'ironia. Fece cenno ad Ankhesenamon di raggiungerlo. Si scambiarono tacite occhiate d'intesa. «Non è la prima minaccia alla mia vita. La pietra, il sangue, e adesso questo...» Girò lo sguardo sui presenti, sospettoso, e si chinò verso di me. Sentii sul viso il suo alito caldo, da bambino, mentre bisbigliava: «Ho paura di essere perseguitato e braccato dalle ombre...»
In quel momento la porta a due battenti tornò a spalancarsi e Ay fece il suo ingresso nella stanza. L'atmosfera sembrò raggelarsi in sua presenza. Avevo notato che tutti trattavano il re come se fosse un meraviglioso bambino, ma Ay gli rivolse un'occhiata sprezzante che avrebbe pietrificato un sasso. Poi esaminò il contenuto della scatola. «Avvicinatevi», disse pacatamente al re. Questi si diresse verso Ay con riluttanza. «Non è nulla. Non attribuitegli un'importanza che non merita.» Tutankhamon annuì, incerto. Veloce come un falco, Ay afferrò la maschera di morte che brulicava di larve e trasudava vermi e la porse al re che fece un balzo all'indietro per il terrore e il raccapriccio. Ankhesenamon si avvicinò come se volesse proteggere il marito, ma Ay alzò la mano con gesto autoritario. «Non farlo», disse quietamente la regina. Il vecchio la ignorò e tenne lo sguardo fisso sul re, con la testa putrefatta sul palmo della mano. Lentamente, con riluttanza, il giovane re allungò la mano e, facendosi coraggio, prese la disgustosa forma. La stanza rimase sospesa in un silenzio teso, mentre il re osservava le orbite vuote e la carne guasta. «La morte non sarebbe altro che vuote ossa e un ghigno orrendo, assurdo?» sussurrò. «Allora non abbiamo nulla da temere. Ciò che resterà di noi è assai più grande.» Lanciò di colpo il teschio ad Ay, che cercò di afferrare la massa scivolosa come un ragazzo solitario incapace di giocare a palla. Il re rise di gusto e la sua audacia mi piacque. Fece un cenno a un servitore perché gli portasse una ciotola e un asciugamano per lavarsi. Gettò a terra l'asciugamano davanti ad Ay con un gesto deliberato e uscì dalla stanza. Ay, ansimando di rabbia, lo seguì con lo sguardo senza parlare. Lasciò cadere il teschio nella scatola e si lavò le mani. Ankhesenamon fece un passo avanti.
«Perché manchi di rispetto al re in presenza di altre persone?» Ay la aggredì. «Deve imparare il coraggio. Quale re non riesce a sopportare la vista della rovina e della morte? Deve imparare a resistere e ad accettare queste cose, senza paura.» «Ci sono molti modi per imparare il coraggio e la paura non è il migliore dei maestri, bensì probabilmente il peggiore.» Ay sorrise mostrando i denti marci fra le labbra sottili. «La paura è un argomento curioso e di vasta portata.» «In questi anni ho imparato moltissimo sulla paura», replicò la regina. «Ho avuto un insegnante molto preparato.» Si fissarono a lungo, come due gatti pronti a sfidarsi. «Questa insensatezza deve ricevere il disprezzo che merita, non essere enfatizzata da menti deboli e vulnerabili.» «Sono perfettamente d'accordo, ed è per questa ragione che ho incaricato Rahotep di investigare. Adesso vado dal re e vi lascio mettere a punto un piano che prevenga simili gesti in futuro.» La regina uscì dalla stanza. Mi inchinai ad Ay e la seguii. Nel corridoio buio le mostrai l'amuleto con Xankh che avevo trovato sul cadavere della ragazza. «Scusate se ve lo mostro. Posso chiedervi se lo riconoscete?» «Se lo riconosco? È mio. Me lo diede mia madre. Perché ricordava il mio nome e perché mi offrisse protezione.» L'ankh, Ankhesenamon... avevo intuito correttamente il collegamento. E ora, mentre consegnavo l'oggetto alla sua proprietaria, mi sembrò che l'atto stesso rientrasse nei piani dell'assassino. «Dove l'hai trovato?» Era arrabbiata e mi strappò l'amuleto di mano. Cercai di inventarmi una spiegazione che non la mettesse in allarme. «È stato trovato. In città.» Si voltò per affrontarmi. «Non mi nascondere la verità, voglio sapere. Non sono una
bambina.» «È stato trovato su un corpo. Una giovane donna, assassinata.» «Come è stata uccisa?» Esitai, riluttante. «Scotennata. Le hanno asportato il viso e cavato gli occhi. Al loro posto, hanno messo una maschera d'oro. Indossava l'amuleto.» D'improvviso trattenne il fiato. Studiò in silenzio il gioiello che teneva in mano. «Chi era?» chiese quietamente. «Si chiamava Neferet e penso che lavorasse in un bordello. Aveva la vostra età. Per quel che vale, penso che non abbia sofferto. E scoprirò perché il vostro amuleto si trovava sul suo cadavere.» «Qualcuno deve averlo rubato dalle mie stanze private. Chi può averlo fatto? E perché?» Percorse il corridoio a lunghi passi, ansiosa. «Avevo ragione. Non siamo al sicuro da nessuna parte. Guarda questo posto, è pieno di ombre. Adesso mi credi?» Sollevò l'amuleto, che si torse scintillando nel corridoio buio. Vidi che aveva le lacrime agli occhi. «Non potrò mai più indossarlo», disse e si allontanò in silenzio. Quando rientrai nella stanza, Ay mi aggredì. «Non pensare che tutto questo giustifichi la tua presenza qui. Non è nulla. Una cosa senza significato.» «Può darsi, ma ha raggiunto lo scopo che il suo ideatore si era prefisso.» Sbuffò. «E sarebbe?» «Trarre vantaggio da un clima di paura.»
«Un clima di paura. Come sei poetico.» Avrei voluto ucciderlo schiacciandolo come una mosca. «Il 'regalo' è riuscito anche questa volta ad arrivare fino al re. Come è successo?» proseguì. Tutti gli sguardi si rivolsero al soldato.
«È stato trovato negli appartamenti della regina», ammise quest'ultimo riluttante. Persino Ay fu colto di sorpresa. «Com'è possibile?» domandò con veemenza. «Che ne è stato della sicurezza negli appartamenti reali?» «Non lo so spiegare», disse il soldato arrossendo di vergogna. Ay stava per insultarlo ma, imprecando, si afferrò la mandibola, come se avesse un attacco di mal di denti. «Chi l'ha trovato?» proseguì, appena la crisi fu cessata. «Ankhesenamon in persona», interloquì Khay. Ay esaminò la scatola per un momento. «L'episodio non deve ripetersi. Sai qual è la punizione, in caso contrario.» Il soldato fece il saluto militare. «Propongo che tu e il grande Indagatore di Misteri lavoriate insieme. Forse due idioti sono meglio di uno solo, anche se per esperienza so che succede il contrario.» Fece una pausa. «Non ci devono essere altri turbamenti alla sicurezza del palazzo. Voi due portatemi le vostre proposte per l'incolumità del re prima che si apra la cerimonia di inaugurazione della Sala delle Colonne.» Se ne andò. La tensione che aleggiava nella stanza si attenuò. Il soldato si presentò come Simut, comandante delle guardie di palazzo. Dopo i dovuti gesti di rispetto e i convenevoli di rito, mi guardò come se vedermi cadere in disgrazia potesse colmarlo di gioia. Stavo invadendo il suo territorio. «Chi ha accesso a questa stanza?» domandai. «Le dame della regina... il re, i suoi servitori, i domestici che si occupano di questa stanza e nessun altro», disse Khay. «Ci sono guardie a ogni ingresso degli appartamenti reali», spiegò Simut. «Tutti quelli che entrano devono avere un lasciapassare.»
«Pertanto l'oggetto è stato recapitato da qualcuno che ha libertà di accesso e si trova a suo agio negli appartamenti reali», replicai. «Immagino che, superate le postazioni di controllo, non ci siano altre guardie e non avvengano perquisizioni, per salvaguardare l'intimità della famiglia reale, è così?» Khay annuì, a disagio. «La competenza delle guardie di palazzo non è in discussione, ma è evidente che una grave falla ha permesso a questa scatola, e alla pietra scolpita, di comparire qui. Sono certo che sarete d'accordo con me sull'assoluta necessità di attuare misure di altissima sicurezza per il re e la regina, sia all'interno degli appartamenti reali sia durante gli eventi pubblici. Quando avverrà la celebrazione della Sala delle Colonne?» domandai. «Fra due giorni», disse Khay. «Domani si terrà una riunione del Concilio di Karnak, a cui deve partecipare il re.» «Domani?» disapprovai. «Mi sembra inopportuno.» Khay concordò. «'Inopportuno' è il fatto che questi 'turbamenti ' non potevano verificarsi in un momento peggiore», replicò. «Non è un caso», cantilenò Simut con piglio militare e senz'ombra di ironia. «Se ci trovassimo in una situazione convenzionale, in una battaglia, potrei vedere in faccia il nemico. Qui è diverso; il nemico è invisibile. Potrebbe essere uno di noi. Potrebbe trovarsi nel palazzo in questo momento. È evidente che ne conosce bene la planimetria, il protocollo e le gerarchie.» «Allora siamo nei guai, perché immagino che tu non possa interrogare gli uomini dell'aristocrazia senza prove inoppugnabili», dissi. «Proprio così, ahimè», rispose stancamente Khay, come se tutta l'energia l'avesse improvvisamente abbandonato. «Nondimeno, ciascuno di loro è un sospetto. Cominciamo a stilare un elenco di nomi. Qualche semplice domanda sui loro spostamenti potrebbe fornirci un quadro della situazione. Dobbiamo sapere chi c'era questa sera negli appartamenti reali e chi non
possiede un alibi», suggerii. «Al tempo stesso, non dobbiamo rivelare alcuna notizia sugli oggetti. È assolutamente necessario mantenere il più rigoroso silenzio sulla faccenda», disse Khay, in preda al nervosismo. «Il mio assistente sarà lieto di aiutarti a raccogliere le informazioni e a condurre le inchieste preliminari», replicai. Khay diede un'occhiata a Khety, e stava per accettare quando Simut intervenne. «La sicurezza degli appartamenti reali rientra nei miei doveri. Farò raccogliere immediatamente le informazioni.» «Molto bene», ribattei. «Ne deduco che includerai le tue guardie nell'elenco delle persone che hanno accesso all'area.» Stava per rispondermi seccato, ma lo interruppi. «Credimi, non ho motivo né intenzione di dubitare dell'integrità dei tuoi uomini. Sono sicuro che concorderai con me sul fatto che non possiamo permetterci di trascurare nessuna evenienza, per quanto inverosimile o inaccettabile.» Annuì, acconsentendo malvolentieri. Detto questo, ci lasciammo.
Capitolo 15 «Che spettacolo!» disse Khety gonfiando le guance. «Quel posto mi fa pensare a una scuola particolarmente violenta. Come al solito ci sono i grandi e i piccoli, quelli che usano i pugni e quelli che usano il cervello. Ci sono i despoti, i guerrieri, i diplomatici e i servitori. E, come al solito, c'è un ragazzo particolare, fuori dagli schemi, che prende di mira e tormenta lentamente, fino alla morte, un altro poveretto. Quello è Ay.» La terra illuminata dalla luna ci sfilò accanto mentre veleggiavamo nel canale verso il Grande Fiume. Guardai l'acqua scura scomparire sotto la chiglia prima di rispondergli. «Hai notato i segni sotto il coperchio? Soprattutto il cerchio nero? È una specie di linguaggio...» Khety scosse la testa. «Ho notato l'orrida immaginazione dell'autore, il suo gusto per il sangue e le frattaglie», disse. «Ma è colto, molto abile e fa sicuramente parte dell'élite. È affascinato dal sangue e dalle frattaglie, come dici tu, perché significano qualcosa per lui. Sono simboli, non oggetti puri e semplici.» «Vallo a raccontare alla ragazza senza volto, o al ragazzo con le ossa fracassate, oppure al nuovo uomo del mistero a cui manca la testa», rispose con scrupolosità. «Non è la stessa cosa. Secondo te è possibile che si tratti della stessa persona in tutti e tre i casi?» gli domandai. «Be', pensa ai collegamenti, alla scelta dei tempi e allo stile», rispose. «L'ho fatto. L'uomo utilizza le stesse metafore. Compare la medesima ossessione per il decadimento e la distruzione. Percepisco in tutti i suoi gesti anche un amore per la bellezza e la perfezione. C'è una sorta di dolore nelle sue azioni. Una specie di grottesca pietà
per le vittime...» Khety mi guardò come se fossi impazzito. «Sono contento che non ci sia nessuno ad ascoltare quello che stai dicendo. Che dispiacere vuoi che provi uno che asporta il viso a una bella ragazza? Vedo solo una crudeltà orribile e perversa. In ogni caso, ci è di qualche aiuto?» Rimanemmo in silenzio. Ai miei piedi, Thot osservava la luna. Khety aveva ragione, naturalmente. Forse, quella che ci trovavamo di fronte era solo follia. Immaginavo schemi ripetitivi là dove non ne esistevano? Tuttavia, percepivo qualcosa. Sotto gli omicidi e la brutalità, sotto le minacce di iconoclastia e distruzione, c'era qualcosa di più profondo e più oscuro: una specie di ricerca, di visione. Se avevamo ragione e un solo uomo aveva perpetrato tutte quelle azioni, dovevamo rispondere a una domanda incalzante: perché? Perché lo faceva? «Penso che, chiunque sia, vuole farci sapere che agisce dall'interno, per aumentare la potenza delle sue minacce. Rientra nel suo gioco farci capire che ci sta osservando», proseguì Khety. Mentre pronunciava quelle parole, mi resi conto all'improvviso che i regali e le morti avevano un altro elemento in comune: Rahotep, Indagatore
di Misteri.
Avevamo appena raggiunto il pontile e, invece di comunicargli la mia idea, decisi di relegare in un angolo della mente quel pensiero assurdo. Mi sembrò troppo inconsistente, sciocco e vano per poterlo esprimere. Salutai Khety e mi avviai verso casa lungo le strade silenziose per il coprifuoco con Thot che mi zampettava davanti. Lasciai il babbuino nel suo giaciglio ed entrai nella casa buia. Il suo silenzio era un rimprovero per la mia assenza. A volte ho la sensazione di non far parte di questa casa popolata da giovani donne, vecchi e bambini. Rimasi per un po' in cucina prima di coricarmi. Alla luce della lampada a olio sistemata nella nicchia, che Tanefert aveva lasciato accesa per il mio ritorno, mi versai una coppa di buon vino rosso dell'oasi di Kharga, e misi fichi secchi e mandorle in un piatto. Sedetti sulla panca al mio solito posto, sotto la statuetta del dio domestico che sa che non credo in lui, e pensai alle famiglie. A volte
penso che sia lì che nascono tutti i guai e tutti i delitti. Nelle nostre storie antiche, sono i fratelli ad ammazzarsi fra loro per gelosia, le mogli inferocite a evirare i mariti e i figli infuriati a vendicarsi dei genitori, colpevoli o innocenti che siano. Rammentai che le mie ragazze passavano ancora in un istante dall'affetto più tenero alla furia omicida, dall'accarezzarsi i capelli allo strapparseli a mani nude per motivi così futili che persino loro arrossiscono di vergogna quando li confessano. È così anche nei matrimoni. Il nostro è un buon matrimonio. Se ho deluso Tanefert perché non ho fatto carriera, è stata brava a dissimularlo. Dice che non mi ha sposato per il successo e mi scocca uno dei suoi sorrisi d'intesa. So, tuttavia, che tra noi ci sono argomenti intangibili su cui manteniamo il silenzio, come se le parole li rendessero troppo dolorosamente reali. Forse è così per tutte le coppie che convivono da molti anni; le influenze impercettibili dell'abitudine, i pericoli della noia domestica. Anche la conoscenza del corpo dell'altro, che in passato era oggetto di un desiderio ossessivo, porta alla voglia innegabile di farsi sorprendere da una bellezza sconosciuta. L'attrattiva e la ripulsa della consuetudine... è questo ciò a cui desidero sfuggire, quando gioisco per l'eccitazione che mi procura il mio lavoro? Non è un pensiero di cui vado fiero. Sono un uomo di mezz'età, che forse si trova a metà di qualsiasi cosa... perché non riesco ad accontentarmi di tutto quello che mi ha concesso il dio domestico che sta sopra la mia testa? Se è così per la gente comune come noi, quanto più strano sarà essere nati in una famiglia che ha come scopo la vita pubblica, la cui intimità deve essere difesa e sorvegliata di continuo, come se fosse un terribile segreto? Malgrado la ricchezza e il potere, i membri della stirpe reale e di molte famiglie dell'aristocrazia sono allevati in un'atmosfera priva di calore umano. Di che cosa parleranno a pranzo? Degli affari di stato? Delle buone maniere durante i banchetti? Dovranno ascoltare più e più volte le storie eroiche del nonno Amenhotep il Grande, le cui gesta sanno di non poter mai eguagliare? Se le mie figlie litigano per la proprietà di un pettine, come sarà la lotta tra fratelli per il possesso del tesoro, del potere, e delle Due Corone? Tuttavia, avevo visto due fratelli che non sembravano in lotta per
il potere. Mi erano sembrati vicini, mi pareva che si sostenessero a vicenda, forse legati dalle angherie subite sotto il tallone di Ay. Il loro affetto mi era sembrato assolutamente sincero. Il piano di Ankhesenamon, nondimeno, aveva un difetto: Tutankhamon non era un re guerriero. Forse aveva doti intellettuali, ma nessun coraggio fisico. Purtroppo il mondo chiede ai suoi re di mostrare una virile vitalità nelle parate, nelle affermazioni solenni e nelle avventure del potere. Certo, si potevano scolpire eroiche statue di pietra, e rilievi imponenti nei templi, che raccontassero le gesta e le campagne di Tutankhamon e il ritorno alle antiche tradizioni e agli antichi poteri. Anche la linea dinastica di Ankhesenamon poteva giocare un ruolo dal momento che, pur essendo giovane, la regina portava con sé molte tracce della madre: la sua bellezza, la popolarità e l'indipendenza intellettuale, e lei stessa aveva dato prova di notevole capacità di ripresa quella sera, quando aveva tenuto testa ad Ay. Restava, tuttavia, il fatto incontestabile che al cuore del grande dramma del potere di stato c'era una falla: l'immagine del dio vivente era un giovane intelligente, ma spaventato, e fisicamente tutt'altro che eroico. Era questo che rendeva vulnerabili il re e la regina. Chiunque stesse tormentando il sovrano con la paura lo sapeva bene. Tanefert era in piedi sulla soglia buia e mi guardava. Mi spostai per farle spazio. Si sedette accanto a me e sgranocchiò una mandorla. «Ci sarà mai una sera in cui saprò con certezza che nessuno busserà alla porta per chiederti di seguirlo?» La cinsi col braccio e l'attirai a me, ma non era questo che voleva. «Mai», disse. «Mai.» Non mi venne in mente una sola parola di conforto. «Penso di esserci abituata. Lo accetto. So che è il tuo lavoro. A volte però, come stasera, quando festeggiamo, vorrei che tu fossi qui, vorrei sapere che non te ne andrai. È impossibile. Perché la gente commette crimini, crudeltà e spargimenti di sangue, e avrai sempre più lavoro. Ci saranno sempre più colpi alla porta durante la
notte.» Distolse lo sguardo. «Vorrei restare sempre, sempre con te», balbettai. Si voltò a guardarmi negli occhi. «Ho paura. Ho paura che un giorno non tornerai da me. Potrei non sopportarlo.» Mi baciò con tristezza, si alzò e si allontanò nel buio del corridoio.
Capitolo 16 Quando il corteo reale entrò nella gran sala del consiglio di Karnak, il rumore e le grida svanirono in lontananza, come all'inizio di un'opera teatrale. La luce intensa della tarda mattinata che filtrava dai lucernai splendeva accecante nella sala di pietra. Il brusio delle persone lì riunite echeggiò a lungo fra i grandi pilastri e infine si acquietò. Tutankhamon e Ankhesenamon salirono sul palco, calpestando coi piccoli piedi regali le figure dei nemici del regno dipinte sui gradini. Si girarono e sedettero sui troni in un cerchio di luce intensa. Sembravano piccoli dei, ma al tempo stesso apparivano così giovani. Le mani perfette si chiusero sulle zampe di leone scolpite nei braccioli del trono, come se volessero dimostrare il loro dominio sulla natura selvaggia. Notai che Ankhesenamon toccò per un attimo la mano del marito, in un gesto di incoraggiamento. Vestiti di bianco, ciascuno dei due con un meraviglioso pettorale raffigurante la testa e le ali spiegate di un avvoltoio, rilucevano di gloria. Che galleria di grottesche figure formavano i membri del consiglio! Vecchi, curvi, sorretti dai servitori, tanti anni prima dovevano aver visto giorni migliori, ma ora avevano le facce pingui, segnate dal lusso e dalla venalità della loro classe, e un'espressione beffarda di superiorità incisa nei lineamenti, che fossero le rughe dei vecchi o le vacue certezze dei giovani. Mani mollicce e stomaci prominenti. Guance grasse, tremolanti sotto le bocche effeminate, e riempite, non c'è dubbio, dalle radici dei denti guasti. Erano i membri delle commissioni, che si scambiavano occhiate veloci e furbesche, valutando i continui sommovimenti della politica e le possibili mosse della partita a tante facce che giocavano tra loro. Poi venivano i despoti: prepotenti, di corporatura massiccia, minacciosi e sempre alla ricerca di una vittima, di qualcuno da attaccare e da condannare. Mi accorsi che uno di costoro aveva lo sguardo fisso su di me. Era Nebamon, capo del Medjay di Tebe. La mia presenza in quella riunione aristocratica sembrava farlo infuriare. Gli feci un
cenno col capo in segno di rispetto, sperando che cogliesse la profonda ironia che lo permeava. Poi mi voltai a guardare il re. Infine, quando tutti fecero silenzio, Tutankhamon parlò. La sua voce era acuta e sottile, ma si propagò con chiarezza nel silenzio della grande sala. «La costruzione della Sala delle Colonne in onore di Amon-Ra, re degli dei, è stata finanziata in ugual misura da questo tempio e dal nostro tesoro personale. È un segnale di unità di intenti. Questo monumento splendido fu iniziato per ordine di mio nonno, Amenhotep III. Sarebbe fiero di vedere che il progetto intrapreso molti anni fa è stato portato a magnifico compimento da suo nipote.» Fece una pausa, ascoltando il silenzio carico di aspettative della sala. «Le Due Terre sono anch'esse una grande costruzione, un vasto edificio, eterno. Stiamo costruendo insieme un nuovo regno; e questa nuova sala, la più alta e maestosa che esista e sia mai esistita sulla faccia della terra, è testimonianza dei nostri trionfi, delle nostre ambizioni e della nostra prossimità agli dei. Invito voi tutti, membri del consiglio di questa grande città e del regno delle Due Terre, a unirvi a noi nella celebrazione, poiché avete partecipato alla sua creazione e vorremmo stringervi tutti in un abbraccio nella sua magnificenza.» Il discorso solenne risuonò amplificato nel silenzio della sala. Molti annuirono con cenni di intesa, approvando il modo in cui li aveva inclusi nella sua visione. «Invito Ay, nostro reggente e padre divino, che ci rese grandi servizi, a parlarvi in nostra vece delle questioni di stato.» Forse non ero l'unico ad aver individuato un accenno di tensione, nuovo e interessante, nell'uso ingegnoso del passato remoto. Doveva essersene accorto anche Ay, con la sua capacità di cogliere le più sottili sfumature, ma non ne diede segno. Avanzò lentamente dalle ombre, cercando di mascherare il dolore che gli rodeva le vecchie ossa come un cane, e prese il posto che gli competeva, un gradino sotto il re e la regina. Fece scorrere lo sguardo imperioso sui volti che aveva di fronte. Il viso era scarno, ma gli occhi spietati e
risoluti. Poi, con una voce pressoché incolore, pronunciò una replica formale, esauriente e gelida, al re e al consiglio. Mi guardai intorno; tutti si sporgevano per non perdere nemmeno una parola, affascinati non dal significato del discorso quanto dalla calma irresistibile dell'uomo, assai più efficace di un vuoto clamore a effetto. Poi passò ai veri problemi all'ordine del giorno. «In seguito agli eventi ignobili e intollerabili accaduti durante la cerimonia, la nostra polizia urbana ha svolto indagini a tutto campo con celerità ed efficienza.» Scrutò la folla finché il suo sguardo non trovò Nebamon, a cui fece un cenno. Anche chi gli stava intorno chinò la testa con rispetto e Nebamon si gonfiò d'orgoglio. «I capi della banda di criminali hanno confessato e sono stati impalati, insieme alle mogli, ai figli e a tutti i membri delle loro famiglie. I loro corpi sono stati esposti alla pubblica vista sulle mura della città. Benché non esista castigo sufficiente per punire un simile delitto, abbiamo dato l'esempio e il problema è stato sradicato.» Fece una pausa e scrutò i consiglieri come per sfidarli a criticare il suo rapporto sul corso della giustizia e la conseguente punizione. «Il capo del Medjay mi ha persuaso che non si verificheranno altre azioni pubbliche di quello stampo. Mi fido della sua parola. La sua efficienza nelle indagini sui disordini, la sua disciplina e la determinazione dimostrata nell'arresto e nell'esecuzione dei colpevoli sono state esemplari. Vorrei che altre persone lavorassero con la stessa alacrità. Pertanto gli conferiamo, come apprezzamento dei risultati ottenuti, il Collare d'onore d'oro e garantiamo, a partire da oggi, il raddoppio dei finanziamenti concessi al Medjay sotto il suo comando.» Nebamon si fece largo fra la folla ammirata, ricevette approvazioni e acclamazioni, cenni e pacche sulle spalle, e si fermò davanti al vecchio macilento, chinando il capo. Mentre Ay poneva il collare sul collo grasso del mio superiore, provai il desiderio di farmi avanti a passo di marcia e strapparglielo. Chi, fra i presenti, era al corrente delle ingiustizie e delle crudeltà di cui si era macchiato ai danni di persone innocenti, solo per amore di quel momento, di quell'oro? Il disgusto mi fece rivoltare lo stomaco. Nebamon alzò lo
sguardo, fece un gesto di gratitudine verso Ay, il re e la regina, e tornò dai suoi compari. Nel farlo mi lanciò un gelido cenno di vittoria. Sapevo che avrebbe utilizzato gli onori ricevuti per rendermi la vita ancor più difficile. Ay proseguì: «L'ordine è tutto. Abbiamo riportato maat nelle Due Terre. Non permetterò che alcun elemento criminale, alcuna forza ribelle disturbi la stabilità e la sicurezza del nostro regno». Parlava come se le cose avvenissero in virtù della sua autorità e che lui solo fosse l'artefice dell'ordine. «Ora possiamo occuparci delle guerre contro gli ittiti. Abbiamo ricevuto rapporti che parlano di successi in battaglia, di nuove conquiste di territori, del rafforzamento delle difese delle città e delle rotte commerciali, del miglioramento della sicurezza. Ci aspettiamo di ricevere una proposta di negoziazione da parte degli ittiti. Il vecchio nemico delle Due Terre è in ritirata!» A tale affermazione senza fondamento seguì un applauso ossequioso, ma poco convinto. Tutti sapevano che le guerre non erano state affatto vinte. Le battaglie con gli ittiti, nient'altro che le schermaglie più recenti nell'infinito attrito sulle terre di confine e negli stati che si interponevano fra i due regni, non si potevano risolvere così facilmente. Ay proseguì: «Se non ci sono altre questioni di cui discutere con gli stimati amici e colleghi, propongo di concludere e dirigerci al banchetto». Guardò l'assemblea con occhio torvo. Il silenzio regnava sovrano e capii che nessuno osava contraddirlo. Si prostrarono tutti con lentezza e scarsa convinzione, come un branco di vecchie scimmie ammaestrate, mentre Ay scendeva dal palco seguito da Ankhesenamon e da Tutankhamon. Nella sala esterna, i numerosi vassoi erano stati appoggiati sui piedistalli. Ciascuno di essi era carico di cibo: pagnotte, panini e dolci appena usciti dal forno, tranci di carne arrosto, uccelli arrostiti in gelatina, zucche e scalogni arrosto, favi di miele, olive luccicanti d'olio, pingui grappoli di uva scura, fichi, datteri e mandorle in
quantità impressionanti. Tutti i buoni prodotti della terra, accatastati a mucchi. Il seguito fu uno spettacolo istruttivo. Quegli uomini, che non avevano mai lavorato la terra sotto il sole di mezzogiorno o macellato un animale con le loro mani, si avventarono sul cibo come le disperate vittime di una carestia. Sgomitarono senza ritegno né pudore, si spinsero e si urtarono per raggiungere le fragranti montagne di leccornie di quel banchetto. Manicaretti preparati con gran dispendio di tempo e fatica scivolarono dai piatti strapieni per finire a terra, calpestati. Gli uomini erano talmente avidi da servirsi da soli, invece di attendere che qualcuno li servisse. Benché vi fosse da mangiare in quantità quasi sconvolgenti, quali la maggior parte della popolazione non si sarebbe mai sognata di vedere, si comportarono come se fossero stati terrorizzati dall'eventualità che il cibo non bastasse. O come se, per quanto ne avessero davanti, temessero che non sarebbe mai bastato. Forse era ingenuo da parte mia paragonare il lusso disgustoso della scena alla povertà e alla mancanza d'acqua, di carne e di pane che perseguitava chi viveva fuori da quelle mura privilegiate, ma era inevitabile. Il rumore mi fece pensare ai maiali al trogolo. Frattanto, con il procedere dell'abbuffata, il re e la regina, seduti su un altro palco, davano udienza a una lunga coda di alti funzionari e delle persone al loro seguito, ciascuno in attesa di ossequiarli e di presentare le ultime petizioni, senz'alcun dubbio per ottenere vantaggi personali. Nakht mi raggiunse. «Che spettacolo ripugnante», dissi. «Il vero volto dei ricchi: una parabola edificante sull'avidità.» «Rovina senz'altro l'appetito», concordò per educazione, anche se sembrava meno disgustato di me. «Cosa pensi del discorso di Ay?» chiesi. Nakht scosse la testa. «Mi è sembrato pessimo. L'ennesima parodia della giustizia. Che razza di mondo! Se non altro, dimostra che persino i despoti fanno fatica a mantenere il potere, oltre certi livelli. La verità è che qualche
esecuzione capitale non risolverà i problemi immensi dello stato. E se pure nessuno lo confesserebbe nemmeno sotto tortura, lo sanno tutti: si tratta di millanterie, ed è un indizio interessante, perché significa che l'uomo ha dei grossi problemi.» Ebbi una rapida apparizione di Ay circondato dai cortigiani; vidi la meschina rappresentazione dell'arroganza e della condiscendenza dell'uomo, e dei sorrisi servili, falsi e orribili di chi lo omaggiava. Con lui c'era Nebamon, che lo guardava come uno stupido cane in adorazione del padrone. Ay si accorse che lo stavamo osservando; registrò l'informazione e le espressioni delle nostre facce nella fredda tomba del suo cervello. Annuì a qualcosa che gli stava dicendo Nebamon e sembrò che l'uomo del Medjay stesse per chiamarmi e pormi le paternalistiche domande che temevo. Ma in quel momento, mentre il rumore del festino, delle grida e delle discussioni raggiungeva il culmine, tutti furono azzittiti dall'improvvisa fanfara di un'unica, lunga tromba militare d'argento; le bocche piene si spalancarono per la sorpresa, le quaglie e le zampe d'oca rimasero a mezz'aria fra il piatto e la bocca, e tutti si voltarono a guardare un giovane soldato che marciava solitario al centro della sala. Ay sembrò colto di sorpresa. Negli occhi da rettile scintillò qualcosa di ben diverso dalla sicurezza. Non era stato preavvertito dell'arrivo di quell'uomo. Un araldo del tempio si fece avanti e lo annunciò come il messaggero di Horemheb, generale degli eserciti delle Due Terre. Il silenzio si infittì. Il soldato eseguì le prostrazioni di rito e pronunciò le formule di elogio dovute a Tutankhamon e ad Ankhesenamon. Non registrò la presenza di Ay, come se non sapesse nemmeno chi fosse. Passò in rassegna la sala silenziosa e la sua folla di ingordi con l'arroganza morale della gioventù, visibilmente disgustato dalla loro avidità. Un accenno di vergogna fece capolino sulle facce di molti di coloro che si stavano ancora ingozzando. Vi fu un leggero rumore di ceramiche raffinate e piatti di pietra scolpita che venivano velocemente appoggiati sui vassoi. Gli onorevoli consiglieri deglutirono, asciugarono le labbra grasse e ripulirono le dita unte. «Ho l'onore di recapitare e leggere un messaggio al consiglio di
Karnak da parte di Horemheb, generale degli eserciti delle Due Terre», disse a gran voce e con orgoglio. «Ascolteremo il messaggio in privato», disse Ay, che si fece avanti in fretta. «Ho ricevuto l'ordine di rivolgere il messaggio a tutto il consesso del consiglio di Karnak», replicò il messaggero con determinazione, in modo che tutti potessero udirlo. Il vecchio ringhiò. «Sono Ay, il tuo superiore, e il superiore del tuo generale. La mia autorità non si discute.» Il soldato assunse un'aria incerta. Allora Tutankhamon parlò, con voce chiara e solenne. «Noi vogliamo udire ciò che il nostro esimio generale ha da dirci.» Ankhesenamon annuì con aria innocente, ma lessi nei suoi occhi il piacere per il dilemma in cui si era venuto a trovare Ay, che non ebbe altra scelta se non accondiscendere, in pubblico, al volere del re. Esitò e si inchinò con ostentazione. «Allora, che parli subito», disse Ay voltandosi, con una voce che conservava ancora un tono di minaccia. Il soldato fece il saluto militare, srotolò un papiro e iniziò a leggere le parole scritte dal suo generale. A Tutankhamon, Immagine vivente di Amon, Signore delle Due Terre, e alla sua regina, Ankhesenamon, e ai signori del consiglio di Karnak. Quando è la diceria a parlare, da migliaia di bocche escono i bisbigli della paura, i mormorii delle congetture e i balbettii dei sospetti. La verità, invece, parla delle cose così come sono. Nulla cambia nella sua bocca. Quando io, che conduco campagne militari nelle pianure di Kadesh, sento dire che il re è stato aggredito in pubblico, nella grande città di Tebe, che cosa devo pensare? È frutto di dicerie? O l'incredibile è diventato realtà? Il messaggero fece una pausa, a disagio. Era nervoso. Non lo biasimavo.
Le Due Terre sono sotto il comando supremo di Ay, che governa in nome del nostro signore, Tutankhamon. Pertanto, perché dovrei allarmarmi? Ma allora è la diceria o la verità che mi parla di altre cospirazioni contro la persona del re nel perimetro sicuro del palazzo? Sconvolti dalla nuova, esplicita accusa, tutti guardarono Ay e la coppia regale. Ay stava per rispondere, quando il re, con inattesa autorità, alzò la mano e zittì il suo reggente. Gli astanti seguirono con grandissima attenzione i nuovi, stupefacenti sviluppi. Il re fece un cenno al soldato che, consapevole del contenuto rischioso e pervaso di minacce dello scritto che era costretto a leggere, continuò implacabile, accelerando il ritmo. Se ne deve concludere che abbiamo nemici all'esterno e all'interno. Di recente gli ittiti hanno rinnovato i loro assalti ai ricchi porti e alle città della confederazione di Amurru, comprese Kadesh, Sumur e Biblo, e facciamo fatica a difenderle. Perché? Ci mancano le risorse, le truppe, le armi sufficienti. Ci troviamo nella spiacevole situazione di non poter aiutare e sostenere i nostri alleati, essenziali nella regione. Mi vergogno a confessarlo, e tuttavia la verità me lo impone. Si dice che ultimamente gli affari esteri del regno siano stati trascurati a favore della costruzione di grandi strutture nel nome degli dei. Nondimeno, rivolgo al re e al consiglio l'offerta della mia presenza e dei miei servigi nella città di Tebe nell'attuale momento di crisi. Se è fondamentale che io ritorni, ritornerò. Contrastiamo il nemico sui nostri confini, ma i nemici interni sono una minaccia assai maggiore, e forse si sono insinuati nel cuore stesso del governo. Che altro rappresentano le minacce al re, il nostro grande simbolo di unità? Come possiamo essere così deboli da consentire simili attacchi senza precedenti? Il mio messaggero, la cui incolumità affido alle vostre mani, mi consegnerà la vostra risposta. Tutti puntarono gli occhi su Ay. Il suo viso aristocratico non mostrò alcuna reazione. Schioccò le dita con gesto autoritario a uno degli scribi, che si precipitò con la tavoletta d'avorio e le penne per
la scrittura, e mentre Ay parlava iniziò a scrivere. Siano benvenute le notizie dell'onorevole generale. Che ascolti la nostra risposta, nel nome di Tutankhamon, Signore delle Due Terre. Primo. Tutte le truppe e le armi richieste per questa campagna di guerra sono state assegnate. Perché ciò non è stato sufficiente? Perché il generale non è ancora tornato in vittoriosa parata, con i prigionieri in catene, i carri carichi delle mani mozzate dei nemici uccisi, e i comandanti sconfitti appesi nelle gabbie alle prue delle navi, da offrire al re? Secondo. Il generale profferisce accuse infondate sulla competenza della città e del palazzo nella gestione degli affari interni. Egli ha ascoltato le dicerie e dato credito alle menzogne. Ciononostante, con motivazioni dubbie si è offerto di abbandonare la sua prima responsabilità, quella di mantenere la propria posizione nella battaglia per la riconquista di Kadesh. La sua offerta è sciocca, irresponsabile e non necessaria. Potrebbe essere definita, anche se esito a esprimermi in questi termini, un atto di abdicazione di responsabilità e di slealtà. L'imperativo è la vittoria, ma il generale non è stato all'altezza del suo compito. Forse per tale ragione la sua offerta ci giunge proprio in questo momento. Gli ordini impartiti da Tutankhamon, Signore delle Due Terre, sono di rimanere al posto di combattimento, lottare, e vincere. Il generale non deve fallire. Nella sala si udì solo il rumore della penna dello scriba che scorreva sul papiro annotando la risposta di Ay. Lo passò ad Ay perché lo sigillasse. Questi lo lesse velocemente, lo arrotolò, lo legò e appose il suo sigillo al cordoncino, prima di porgerlo al soldato, che chinò la testa prendendolo e consegnando nel frattempo quello che aveva portato con sé. Ay si chinò verso il soldato e gli parlò all'orecchio a bassa voce. Nessuno udì le parole, ma l'effetto che produssero sul viso del soldato fu chiarissimo: sembrò che gli avessero comunicato la minaccia di una condanna a morte. A quel punto mi era diventato simpatico. Fece il saluto militare e uscì dalla sala. Mi chiesi se sarebbe riuscito a sopravvivere tanto da consegnare la risposta.
Le parole di Ay, tuttavia, per quanto veementi, non riuscirono a ricomporre ciò che era stato spezzato. Il messaggio del generale aveva causato un effetto dirompente sull'illusoria stabilità politica. E il clamore appena soffocato delle discussioni animate e sgomente, che ebbero inizio non appena il soldato fu uscito dalla sala, fu il rumore dei suoi edifici che crollavano in un cumulo di macerie. Vidi Ankhesenamon toccare con discrezione la mano del marito e Tutankhamon alzarsi inaspettatamente in piedi. Per un attimo sembrò incerto sul da farsi. Poi si ricompose, diede un ordine ai trombettieri, la cui fanfara fece tacere nuovamente l'assemblea, e parlò. «Abbiamo udito quello che il generale ci ha confidato. Egli si sbaglia. La Grande Proprietà è forte e sicura. Un regno prestigioso, sublime ed eterno come le Due Terre attira invidia e inimicizia, ma tutti gli attacchi saranno respinti con rapidità e fermezza. Non sarà tollerato alcun dissenso. Per quanto riguarda la 'cospirazione' a cui allude il generale, non è altro che un turbamento di minore importanza. I responsabili sono già sotto inchiesta e saranno eliminati. Abbiamo riposto la nostra fiducia in quest'uomo.» Di colpo, tutti si voltarono a guardarmi, l'estraneo in mezzo a loro. «Vi presento Rahotep. È ispettore capo del Medjay di Tebe. Noi gli conferiamo l'incarico di svolgere indagini sulle accuse che il generale rivolge in merito alla nostra sicurezza personale. Ha ricevuto gli ordini, e ha il potere che noi gli conferiamo, di eseguire le sue indagini, ovunque lo conducano.» Nella sala il silenzio era assoluto. Il re sorrise e proseguì: «Ci sono molte questioni di stato da portare a termine. Il lavoro della giornata è appena iniziato. Mi aspetto di vedervi tutti quanti all'inaugurazione della Sala delle Colonne». Per la seconda volta nella giornata Ay fu preso alla sprovvista. Ankhesenamon gli rivolse appena uno sguardo. Qualcosa in lei sembrò aver preso coraggio in quei brevi attimi, e i suoi occhi lo rivelavano. Si era accesa una scintilla di determinazione che era rimasta latente per troppo tempo. Uscendo dalla sala, mi lanciò un'occhiata con un accenno di sorriso sulle labbra. Poi sparì, avvolta
dalla schiera delle guardie che la riportavano al Palazzo delle ombre. Nebamon non perse tempo e mi venne incontro a grandi passi. Era sudato. I vestiti erano fradici e le venuzze rosse negli occhi annebbiati tremavano impercettibilmente. Gli mancò il respiro quando mi puntò in faccia il dito piccolo e tozzo. «Qualsiasi cosa tu stia combinando, Rahotep, ascoltami bene: tienimi informato. Voglio sapere tutto quello che succede. Non importa quanto potere ti abbia conferito il re, fallo, oppure, credimi, quando tutto sarà finito, e il tuo piccolo incarico privato si sarà concluso - ammesso che tu riesca ad arrivare da qualche parte, del che dubito - dovrai venire da me. Dovrai venire a vedere che cosa ti resta da fare nel Medjay di Tebe.» Sorrisi e mi inchinai. «Ogni gloria è di breve durata e la strada è lunga se si parte dal basso. Avrò molto da fare. Ti farò un rapporto scritto.» Girai i tacchi e me ne andai in fretta, con la consapevolezza di aver rischiato il mio futuro per il gusto di una risposta sprezzante, ma lo odiavo troppo per preoccuparmene.
Capitolo 17 Appena lasciai i cancelli del tempio, dalla folla assiepata dietro i cordoni di sicurezza sbucò Khety. «Vieni subito», mi disse senza fiato. «Un'altra vittima?» Annuì. «Questa volta l'assassino è stato disturbato. Sbrigati.» Esitai. Avrei dovuto assistere insieme a Simut agli interrogatori di tutti coloro che avevano accesso agli appartamenti reali, ma sapevo di non avere scelta. Corremmo tra la folla per raggiungere la casa, che si trovava in un quartiere distante. Cose e persone si muovevano con troppa lentezza; la gente si girava o si fermava proprio davanti a noi, i muli carichi di mattoni di fango essiccato, di macerie o di verdure bloccavano gli stretti passaggi, e sembrava che tutti gli anziani della città ci mettessero un'eternità ad attraversare la via, così li scansavamo, correvamo, gridavamo per farci largo, spingendo e buttando da parte perditempo, operai, funzionari e bambini, lasciandoci alle spalle ondate di recriminazioni e di agitazione. Il ragazzo giaceva sul suo letto. Aveva più o meno la stessa età del primo e un'infermità simile alla sua. Le ossa erano state fracassate allo stesso modo. La pelle era orrendamente tumefatta per i colpi ricevuti. Ma questa volta, sulla sua testa l'assassino aveva adattato lo scalpo di capelli lunghi, neri e opachi, e la faccia ora distorta, come una maschera di pelle deformata dal grande calore, che erano appartenuti alla ragazza. I bordi di pelle del viso erano stati cuciti intorno al volto del ragazzo con grande perizia, ma non c'era stato il tempo di portare a termine l'orrendo lavoro. Le labbra della ragazza morta, rinsecchite e arricciate all'insù, si aprivano intorno alla piccola cavità scura che doveva essere stata la sua bocca. Vi appoggiai l'orecchio con cautela. Lo sentii: un respiro debolissimo, leggero come il tocco di una piuma sul mio viso. Con grande cautela e delicatezza, e il più velocemente possibile,
usando il coltello per tagliare i punti, tolsi al ragazzo l'orribile maschera. Fluidi appiccicosi e tracce di sangue avevano fatto aderire il volto della ragazza al viso del ragazzo, e dovetti asportarli: le due facce si separarono a fatica. Quella del ragazzo era molto pallida, quasi cerea, e trapunta di macchie di sangue là dove l'assassino aveva eseguito le sue cuciture. La cosa peggiore fu che, al posto degli occhi, c'erano due orbite vuote e sanguinanti. Passai il viso della ragazza a Khety poiché, pur nelle sue condizioni deplorevoli, raffigurava un'identità, qualcosa da cui procedere. D'improvviso il ragazzo tirò un sospiro leggero, quasi un lamento. Cercò di muoversi, ma le ossa frantumate non glielo permisero, e un'ondata di dolore lo pervase. «Cerca di non muoverti. Sono un amico. Chi ti ha conciato così?» Non riuscì a parlare, perché anche le ossa della mandibola erano fratturate. «Era un uomo?» Si sforzò di capire quel che dicevo. «Un uomo giovane o vecchio?» Cominciò a tremare. «Ti ha dato una polverina, un succo da bere?» Khety mi toccò la spalla. «Non può capire le tue parole.» Il ragazzo cominciò a gemere ed emise un suono basso, luttuoso, come un animale in preda a un'angoscia profonda. Il ricordo di ciò che gli era stato fatto gli procurava sofferenza. Trarre un respiro era diventato all'improvviso un'azione che comportava un dolore insopportabile. Istintivamente gli toccai una mano, ma il gemito si trasformò in un lamento acuto. Tentando disperatamente di strapparlo alla morte, gli inumidii le labbra e la fronte con un po' d'acqua. Sembrò riaversi. Aprì la bocca quasi impercettibilmente, come per implorare ancora acqua, e gliela diedi. Poi svenne. Terrorizzato, mi chinai accostando di nuovo l'orecchio alla bocca e sentii - siano ringraziati gli dei - un debolissimo respiro. Era ancora vivo.
«Khety. Ci serve un medico. Subito!» «Ma io non ne conosco», balbettò. Mi lambiccai il cervello e trovai la soluzione. «Presto, dobbiamo portarlo a casa di Nakht. Non ci resta molto tempo.» «Ma come...?» cominciò, gesticolando senza senso. «Sul suo letto, idiota, come se no?» lo rimbeccai gridando. «Voglio che sopravviva e Nakht può aiutarlo.» Tra lo stupore della famiglia del ragazzo, gli coprii il viso con un telo di lino come se fosse già morto, e insieme sollevammo il letto piuttosto leggero, e al quale il gracile corpo del ragazzo non aggiungeva molto peso - facendoci largo nelle strade. Precedevo il corteo urlando a chiunque che facesse largo, cercando di ignorare le facce incuriosite della gente, che spingeva per dare un'occhiata al trasporto e alla causa di tanta agitazione. Vedendo il telo sul corpo, pensavano che stessimo trasportando un cadavere e indietreggiavano, perdendo subito interesse. Nakht reagì in modo completamente diverso, quando in sua presenza sollevai il telo dal corpo torturato. Io e Khety eravamo fradici di sudore e smaniavamo per poter bere qualcosa di fresco; ma il ragazzo aveva la precedenza. Per strada non avevo osato verificare le sue condizioni, ma solo pregato che gli scuotimenti e gli urti inevitabili del letto durante il trasporto non gli procurassero troppo dolore. Speravo che fosse svenuto, ma che non si trovasse già nell'Aldilà, per grazia divina. Nakht ordinò ai servitori di trasportarlo in una delle camere e lo esaminò accuratamente. Io e Khety osservavamo nervosi. Non appena ebbe finito, si lavò le mani in un bacile, poi ci fece un cenno severo perché lo raggiungessimo all'aperto. «Devo confessarti, amico mio, che questo è il regalo più strano che abbia ricevuto da te. Che cosa ho fatto per meritarlo? Il corpo di un ragazzo storpio, con le ossa fracassate, la faccia bucherellata da un ago e gli occhi cavati? Sono perplesso, davvero molto perplesso, e non capisco che cosa ti abbia spinto a portarmelo qui, come un gatto che porta a casa i resti delle sue prede...» Era arrabbiato, e mi resi conto che lo ero anch'io. «A chi avrei potuto portarlo? Senza cure esperte morirà. Devo proteggerlo fino a quando non guarirà. È la mia unica pista. Lui soltanto può dirmi chi
l'ha conciato così. Potrebbe essere in grado di aiutarci a identificare il suo aggressore. Si riprenderà?» «Ha una mascella fratturata, le braccia e le gambe spezzate in più punti. Sono preoccupato per le possibili infezioni ai tagli sul viso e nelle orbite oculari. A prescindere dal mistero delle crudeltà inflitte con tanta precisione sul suo corpo, perché ha i segni degli aghi sul viso?» Estrassi il volto della ragazza dalla borsa e glielo mostrai. Distolse lo sguardo, disgustato. «L'abbiamo trovato cucito sul suo viso. Appartiene a un altro corpo che abbiamo rinvenuto. La faccia apparteneva a una ragazza di nome Neferet.» «Mettila via, per favore. Non riesco a parlare con te, se mi agiti davanti i resti di un volto umano», esclamò. Ero d'accordo con lui. Passai la faccia a Khety, che la prese con riluttanza e con fare schifato la ripose nella borsa. «Possiamo parlare adesso?» Annuì. «Non sono abituato come te alle azioni più efferate della nostra specie. Non sono mai stato in battaglia, non mi hanno mai aggredito o derubato, e non ho mai preso parte a una rissa. Detesto la violenza, come ben sai, il solo pensiero mi fa star male, quindi mi scuserai se quello che per te è lavoro quotidiano per me è uno shock tremendo.» «Ti perdono. Ma dimmi: lo puoi salvare?» Sospirò. «È possibile, se non sopravviene un'infezione. Le ossa si possono sistemare. Il sangue non si può guarire.» «Quando potrò parlare con lui?» «Amico mio, questo ragazzo è stato letteralmente fatto a pezzi. Ci vorranno settimane, forse mesi, perché le ferite guariscano. La mandibola è messa male. Se sopravvivrà, gli occorrerà del tempo per guarire dalle ferite agli occhi, e ci vorrà altro tempo, come minimo un mese, prima che possa parlare. E tutto questo dando per scontato che la sua mente non abbia subito danni dopo una simile esperienza, e che sia ancora in grado di parlare e di comprendere.»
Abbassai lo sguardo sul ragazzo. Era la mia unica speranza. Mi chiesi che cosa avrebbe potuto dirmi e se, dopo un mese, non sarebbe stato troppo, davvero troppo tardi. «Adesso che cosa facciamo?» domandò Khety a bassa voce, mentre eravamo fermi davanti alla casa di Nakht. Aveva un'espressione sconvolta. «Hai qualche indizio su dove lavorava Neferet?» «Ho ristretto l'elenco a un paio di posti. Dovremmo farci una visita», rispose. Mi mostrò un elenco. «Bene. Quando?» «Sarebbe meglio dopo il tramonto, quando sono affollati.» Concordai. «Troviamoci al primo della lista. Portati quella», dissi, riferendomi alla faccia che aveva riposto nella borsa di pelle. «Cosa farai ora?» domandò. «Avrei voglia di andarmene a casa, bere una bottiglia di buon vino rosso e dar la cena a mio figlio, ma devo tornare a palazzo. Oggi pomeriggio si sono svolti gli interrogatori delle persone che hanno libero accesso agli appartamenti reali e avrei dovuto essere lì.» Guardai il sole del pomeriggio che stava declinando a ovest. Probabilmente mi ero perso tutto. «Vuoi che venga con te?» Scossi la testa. «Vorrei che tu andassi dalla famiglia del ragazzo a spiegare che lo stiamo curando. Di' loro che è vivo e che abbiamo buone speranze. E soprattutto accertati che il ragazzo sia posto sotto sorveglianza, metti un paio di guardie all'ingresso della casa di Nakht, giorno e notte. Non vogliamo che qualcuno faccia ancora del male al ragazzo, non possiamo permetterci di perderlo.» «Se dovesse morire?» domandò Khety a bassa voce. «Non lo so», replicai. «Preghiamo gli dei che sopravviva.» «Ma tu non credi agli dei», replicò. «Questa è un'emergenza. Ho deciso di rivedere il mio punto di vista.»
Capitolo 18 Mi diressi verso gli appartamenti reali, che ormai sapevo raggiungere a memoria, senza mettermi a correre. Di giorno, notai, il luogo era molto più affollato: gruppi di funzionari, ministri stranieri, delegati e monarchi a colloquio nelle diverse sale. Mostrai il lasciapassare alle guardie, che lo esaminarono accuratamente prima di consentirmi l'ingresso. Per lo meno, la sicurezza era migliorata. «Portatemi da Simut. Subito», ordinai. Mi aspettava nell'ufficio di Khay. Appena entrai, mi guardarono acidi. «Scusate. Un'altra emergenza.» «Esiste un'emergenza più impellente di questa?» si chiese Khay con aria svagata. Simut mi porse in silenzio un papiro. Osservai l'elenco, che conteneva solo una decina di nomi: i capi della real proprietà, i visir del Nord e del Sud, Huy il Cancelliere, il Sovrintendente capo, il Ciambellano, il Portatore del ventaglio della mano destra del re... «Ho convocato e interrogato tutte le persone che sono entrate negli appartamenti reali negli ultimi tre giorni. Peccato che tu non ci fossi. Non hanno gradito l'attesa né gli interrogatori. L'unico risultato è un aumento della sensazione di incertezza all'interno del palazzo. Temo di non avere nessuna prova contro di loro», disse. «Vuoi dire che tutti vantano un alibi?» domandai irritato da lui e dalla mia stessa ansia per la mancanza di progressi. Aveva ragione. Avrei dovuto esserci. Annuì. «Naturalmente li stiamo controllando tutti e ti farò avere un altro rapporto in mattinata.» «Adesso dove sono?» «Ho chiesto che rimanessero qui fino a quando non avresti potuto parlare con loro. Cos'altro potevo fare? Ormai è buio, sono
inferociti perché non possono tornare a casa dalla famiglia. Sostengono già di essere tenuti prigionieri negli appartamenti reali.» Sbuffò. «Considerata la posta in gioco, mi sembra la minore delle nostre preoccupazioni. Chi sono questi uomini? Voglio dire, a chi sono legati?» Khay mi rimbeccò all'istante. «Sono legati al re e alle Due Terre. Come ti permetti di fare delle insinuazioni?» «Certo, questa è la versione ufficiale, lo so. Quali, fra loro, sono uomini di Ay?» Si scambiarono un'occhiata incerta. Fu Simut a rispondere: «Tutti». Quando entrai, i grandi uomini della real proprietà si voltarono simultaneamente interrompendo le loro discussioni per osservarmi con aperta ostilità, ma rimasero seduti per esprimere il loro disprezzo. Vidi che davanti a loro erano stati posti cibo e vino in abbondanza. Khay, come al solito, si lanciò in una presentazione confusa; lo interruppi appena possibile. «Non è più un segreto che qualcuno, non sappiamo come, stia lasciando alcuni oggetti all'interno degli appartamenti reali il cui scopo è allarmare e minacciare il re e la regina. Siamo giunti alla conclusione che questi oggetti possono essere stati lasciati all'interno del palazzo, malgrado l'eccellente servizio di sicurezza, perché qualcuno che dispone di ampia libertà di movimento ve li ha depositati. E temo, miei signori, che ciò significhi uno di voi.» Per un attimo calò un gelido silenzio; di colpo si erano alzati tutti in piedi e urlavano la loro indignazione contro di me, Khay e Simut. Khay fece il gesto di voler calmare le acque agitate con le sue mani diplomatiche, come se stesse acquietando dei bambini. «Signori, vi prego. Ricordate che quest'uomo ha il plauso pubblico del re in persona. Sta solo facendo il proprio dovere in suo nome e, se ben ricordate, può seguire le sue indagini, come ha detto il re, 'ovunque lo conducano'.»
Le sue parole fecero effetto. «Mi dispiace recarvi disturbo. Mi rendo conto che tutti voi avete una vita impegnativa e ruoli molto importanti, e senza dubbio una famiglia in ansia che vi attende a casa...» proseguii. «Almeno non farla tanto lunga», sbuffò uno di loro. «Mi piacerebbe potervi dire che è arrivato il momento di ringraziarvi, aprirvi le porte e lasciarvi andare. Purtroppo non è così. Purtroppo dovrò parlare con ciascuno di voi separatamente e interrogare anche tutti i funzionari e il personale collegato al lavoro che svolgete qui a palazzo...» Le mie parole furono accolte da un altro boato di indignazione, durante il quale divenni a poco a poco consapevole che qualcuno bussava con forza alla porta della stanza. Il rumore mise gradatamente a tacere i presenti per la seconda volta. Mi diressi a grandi passi verso la porta, furibondo per l'interruzione, e vidi, con mio grande stupore, Ankhesenamon che teneva un piccolo oggetto nel palmo della mano. La statuetta magica, non più grande della mia mano, era stata avvolta in un pezzo di stoffa e lasciata fuori della camera del re. Si sarebbe potuta scambiare per un giocattolo, non fosse stato per l'aura ignobile e malvagia che emanava. Modellata nella forma di una figura umana con la cera scura, non presentava caratteristiche specifiche e pareva un feto incompiuto proveniente dall'Aldilà. Nella testa erano stati conficcati aghi di rame che l'attraversavano da un orecchio all'altro e dalla nuca alla fronte passando per gli occhi, le trafiggevano la bocca e le trapassavano il cranio dalla sommità del capo in giù. Nessun ago trafiggeva il corpo, come se la maledizione fosse diretta solo alla testa, sede del pensiero, dell'immaginazione e della paura. Alcuni ciuffi di capelli umani, neri, erano stati inseriti nell'ombelico per trasferire l'essenza della vittima designata nella materia inerte della statuetta. Mi chiesi se fossero i capelli del re, perché in caso contrario la maledizione non sarebbe stata efficace sul piano magico. Sulla schiena, i nomi e i titoli del re erano stati incisi con cura nella cera. La maledizione rituale avrebbe portato sciagura e morte sulla persona e i suoi nomi, pertanto la distruzione del suo
spirito si sarebbe estesa alla vita ultraterrena. Le statuette di quel tipo erano magie antiche e potenti per chi credeva nella loro forza. Era un altro tentativo di spargere il terrore, ma la minaccia era assai più intima delle altre, persino della maschera mortuaria, poiché malediceva lo spirito immortale del re. Dietro alla statuetta era stata premuta nella cera una striscia di papiro. L'estrassi e la srotolai con cura: recava piccoli segni vergati con l'inchiostro rosso, simili a quelli intagliati sul bordo della scatola che conteneva la maschera di morte. Naturalmente poteva darsi che non significassero nulla. Spesso le maledizioni si esprimono con un linguaggio senza senso, ma avrebbero anche potuto essere i simboli di un'autentica lingua magica. Ankhesenamon, Khay e Simut aspettarono impazienti che terminassi l'esame dell'oggetto. «Non si può continuare così», sbottò Khay, come se le parole potessero modificare la realtà. «È una catastrofe immane...» Non commentai. «L'intimità del re è già stata violata tre volte. Per tre volte è stato messo in allarme...» proseguì belando come una capra. «Dov'è adesso?» lo interruppi. «Si è ritirato in un'altra stanza», rispose Ankhesenamon. «Il suo medico si sta occupando di lui.» «Come l'ha presa?» «È... agitato.» Mi diede un'occhiata, sospirò e proseguì: «Quando ha trovato la statuetta letale, gli si è fermato il respiro e gli si è stretto il cuore come se fosse una corda annodata. Ho temuto che morisse di terrore. E domani c'è l'inaugurazione della Sala delle Colonne a cui deve presenziare. Non poteva accadere in un momento peggiore». «La scelta del momento è voluta», dissi. Tornai a guardare la statuetta. «Chiunque l'abbia modellata è riuscito ad attaccarvi i capelli del re.»
La mostrai a Khay, che la guardò con disgusto. «In ogni caso», disse Simut, con la sua voce bassa e potente, «sembra che nessuno si sia accorto che i cosiddetti sospetti erano riuniti in una stanza nel momento esatto in cui è stata trovata. Non è possibile che l'abbia consegnata uno di loro.» Ovviamente aveva ragione. «Ti prego, torna nella stanza e lasciali liberi, e porgi loro le mie scuse. Ringraziali per il tempo che hanno perduto.» «Che cosa devo dire, esattamente?» piagnucolò Khay. «Di' che abbiamo promettente.»
un
nuovo
indizio.
Un indizio
molto
«Magari fosse vero», ribatté aspramente. «A quanto pare siamo impotenti contro il pericolo. Il tempo sta scadendo, Rahotep.» Scosse la testa e se ne andò, facendosi accompagnare da Simut perché lo proteggesse. Avvolsi la statuetta letale in un pezzo di stoffa e la riposi nella borsa per mostrare i simboli a Nakht, nel caso che riuscisse a identificare il linguaggio. Io e Ankhesenamon restammo nel corridoio. Non sapevo cosa dire. Di colpo mi sentii una creatura in trappola che si stava arrendendo al suo destino. Poi notai che le porte della camera da letto del re erano socchiuse. «Posso?» chiesi. Annuì. La stanza mi fece pensare alla camera in cui un bambino avrebbe fantasticato di poter giocare e sognare. C'erano centinaia di giocattoli riposti nelle scatole di legno, sugli scaffali o nei cesti intrecciati. Alcuni erano molto vecchi e fragili, come se fossero appartenuti a generazioni di bambini, ma per la maggior parte erano quasi nuovi, fabbricati senza dubbio su commissione: trottole intarsiate, collezioni di biglie, una scatola di giochi con un'elegante tavola da senet sul coperchio e un cassetto con le pedine di ebano e avorio, il tutto appoggiato su raffinati sostegni e mensole di ebano. C'erano molti animali di legno e di ceramica con gli arti e le mandibole mobili, tra cui un gatto con una corda infilata nella
mascella, una collezione di locuste intagliate con le ali che riproducevano alla perfezione l'intrico di quelle vere, un cavallo con le ruote, un picchio dipinto con una gran coda, in perfetto equilibrio sul petto rotondo, i colori sgargianti ormai sbiaditi per l'uso prolungato. C'erano paffuti nanetti d'avorio collocati su un largo basamento e collegati alle corde che potevano farli ballare da una parte all'altra. Accanto al letto, con il poggiatesta di vetro azzurro dorato e una scritta magica di protezione, c'era una scimmia intagliata, con una faccia tonda e sorridente, quasi umana, e lunghi arti mobili per dondolarsi da un albero immaginario all'altro. E inoltre, tavolette con gli intagli pieni di pigmenti. In mezzo agli animali c'erano lance per la caccia, archi e frecce e una tromba d'argento con un boccaglio d'oro. E nelle gabbie dorate sulla parete in fondo alla camera minuscoli uccelli dai colori vivaci svolazzavano e sbattevano le ali contro le sbarre sottili dei loro elaborati palazzi di legno, corredati di stanzette, torri e piscine. «Dov'è la scimmia del re?» domandai. «È con lui. Quella creatura gli dà molto conforto», rispose Ankhesenamon. Proseguì, come per giustificare l'infantilismo del re: «Mi ci sono voluti anni per incoraggiarlo a eseguire il nostro piano e domani lo porteremo a compimento. È necessario che lui trovi il coraggio, malgrado tutto. Devo aiutarlo». Ci guardammo intorno osservando la stanza e il suo contenuto bizzarro. «Tiene più a questi giocattoli che a tutte le ricchezze del mondo», spiegò tranquillamente e con un tono di voce rassegnato. «Forse ha dei buoni motivi», replicai. «Li ha, e io lo capisco. Sono i tesori della sua infanzia perduta. Ma è tempo di mettere da parte queste cose. La posta in gioco è troppo alta.» «Forse l'infanzia è sepolta in ciascuno di noi. Forse determina il disegno del nostro futuro», suggerii. «In questo caso, la mia mi ha già condannata», disse senza ombra di autocommiserazione. «Forse no, se ne siete consapevole», obiettai.
Mi guardò con diffidenza. «Non parli come un funzionario del Medjay.» «Parlo troppo. Sono famoso per questo.» Sorrise appena. «E ami tua moglie e i tuoi figli», replicò, chissà perché. «Senza dubbio», risposi con sincerità. «È questo il tuo punto debole.» La sua osservazione mi lasciò di stucco. «Perché?» «Possono distruggerti colpendo altre persone. A me hanno insegnato una sola cosa: a non voler bene a nessuno, perché la persona a cui vuoi bene potrebbe essere condannata dal tuo amore.» «Questo è sopravvivere, non vivere. Ed è un modo di impedire agli altri di volervi bene. Forse non avete il diritto di farlo. Quanto meno, non avete il diritto di decidere per loro», dissi. «Forse», convenne. «Ma nel mio mondo è una necessità. Che io desideri il contrario non modifica la sostanza delle cose.» Camminava nervosa per la stanza. «Ho detto delle stupidaggini. Perché le dico quando sono con te?» proseguì. «Sono onorato dalla vostra franchezza», replicai con cautela. Mi guardò a lungo come per soppesare l'educata ambiguità della mia risposta, ma non parlò. «Posso fare una domanda?» dissi. «Certo. Spero di non essere fra i sospettati», rispose, accennando un sorriso. «Chiunque lasci quegli oggetti può muoversi a suo piacimento negli appartamenti reali. Come potrebbe essere altrimenti? Devo sapere chi ha accesso a questa stanza. Ovviamente gli assistenti, le cameriere e la nutrice...» «Maia? Certo. È in grande intimità con il re, per via del suo ruolo. E mi disprezza. Dà la colpa a mia madre di qualsiasi cosa. Pensa che
io abbia tratto beneficio dai crimini commessi prima della mia nascita e che adesso dovrei pagare.» «È solo una domestica», osservai. «Sussurra il suo odio alle orecchie del re. Gli è più vicina di una madre.» «Il suo amore per il re è fuori discussione...» dissi. «È famosa per la sua lealtà e il suo amore. Non ha altro», rispose in tono quasi svagato, aggirandosi per la stanza. «Chi altri ha accesso a questa stanza?» Prese in mano la figuretta della scimmia e la squadrò con freddezza. «Io, naturalmente... ma ci vengo di rado. Non ne ho motivo. Non mi piace trastullarmi con i giocattoli. L'ho incoraggiato a occuparsi di altre questioni.» Rimise la scimmia al suo posto. «In ogni caso non posso essere tra i sospetti, dal momento che sono stata la prima a chiederti di indagare. Capita che chi dà inizio all'indagine finisca per essere il colpevole?» «Qualche volta, sì. Credo che altri, al vostro posto, potrebbero approfittarne per fare quello che vogliono. Qualcuno potrebbe dire, per esempio, che volete inchiodare vostro marito alla paura per assumere direttamente il potere.» I suoi occhi si spensero di colpo, come una pozza quando il sole si allontana. «Alla gente piacciono le congetture. Non posso farci nulla. Io e mio marito siamo legati da qualcosa di più forte della necessità reciproca. Abbiamo una storia in comune. È tutto ciò che mi resta di quella storia e non gli farei mai del male, anche perché, al di là di altre considerazioni, se lo facessi la mia sicurezza personale non migliorerebbe di certo. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra, per restare in vita e avere un futuro, ma siamo anche legati da affetto e devozione...» Fece scorrere le unghie curatissime lungo gli intagli di una delle gabbie, tamburellandole con tocco delicato. All'interno, un uccello la osservò di sbieco e svolazzò il più lontano possibile. Tornò a rivolgersi a me. Aveva gli occhi scintillanti. «Vedo pericoli
ovunque, nelle pareti, nelle ombre; è come avere milioni di formiche nella mente, nei capelli. Hai notato che mi tremano sempre le mani?» Le allungò verso di me. Le guardava come se fossero traditrici. Riprese a confidarsi. «Domani sarà un giorno che cambierà la vita di noi tutti. Vorrei che fossi presente alla cerimonia.» «Nel tempio sono ammessi solo i sacerdoti», le ricordai. «I sacerdoti sono solo uomini vestiti in un certo modo. Se ti radi la testa e ti vesti di bianco, passerai per un sacerdote. Chi saprà che non lo sei veramente?» disse, divertita all'idea. «A volte sembri un sacerdote. Un uomo avvezzo ai misteri.» Stavo per rispondere, quando entrò Khay. Si inchinò con ostentazione. «I signori della real proprietà se ne sono andati. Minacciosi e indignati, potrei aggiungere.» «È il loro modo di fare, ma gli passerà», replicò Ankhesenamon. Khay si inchinò una seconda volta. «Rahotep ci accompagnerà all'inaugurazione di domani», continuò la regina. «Dovrà essere vestito adeguatamente in modo che la sua presenza non provochi alterazioni del protocollo.» «Molto bene», disse Khay nel tono secco di chi sta solo obbedendo agli ordini. «Vorrei incontrare il medico del re», dissi all'improvviso. «Pentu è impegnato con il sovrano», ribatté Khay. «Sono sicura che vorrà dedicare qualche istante del suo tempo a Rahotep. Chiediglielo come mio favore personale», disse Ankhesenamon. Khay si inchinò una volta di più. «Adesso devo andare dal re. Ci sono tante cose da fare e così poco tempo», replicò la regina. E aggiunse in tono pacato: «Puoi rimanere negli appartamenti
reali stanotte? Il pensiero della tua presenza mi sarebbe di conforto». Mi ricordai l'appuntamento con Khety. «Ahimè, devo tornare in città stanotte per seguire un'altra indagine. È assolutamente necessario, purtroppo.» Mi guardò. «Povero Rahotep. Stai cercando di vivere contemporaneamente. Vieni da noi domani mattina.» Mi inchinai. Quando rialzai lo sguardo, era scomparsa.
due
vite
Capitolo 19 Pentu camminava su e giù, con le mani strette dietro la schiena e il viso spigoloso e altero teso per l'ansia. Non appena entrai e la tenda si chiuse dietro di noi, mi squadrò con aria professionale, come se fossi un paziente importuno. «Perché volevi vedermi?» «So che hai da fare. Come sta il re?» Guardò Khay, che con un cenno gli comunicò che avrebbe dovuto rispondere. «Ha sofferto di un attacco d'ansia. Non è la prima volta. La sua mente è sensibile e facilmente influenzabile, ma gli passerà.» «Come lo curi?» «Ho combattuto la malattia recitando la potente preghiera di protezione di Horus contro i demoni della notte.» «Ha fatto effetto?» Aggrottò le sopracciglia e il suo tono lasciò intendere che non erano affari miei. «Certo. Ho convinto il re a bere anche l'acqua curativa. Adesso è molto più calmo.» «Che tipo di acqua curativa?» domandai. Si offese. «Per avere un effetto magico, l'acqua deve passare sopra una sacra stele, per poi essere bevuta dopo che ha assorbito il potere delle incisioni.» Mi guardò fisso, sfidandomi a porre altre domande. Ci fu una pausa. «Grazie. Il mondo della medicina mi è sconosciuto.» «È evidente. Ora, se questo è tutto...» disse esasperato, accennando di volersene andare, ma Khay lo tranquillizzò con un gesto e Pentu rimase. Era tempo di esporre il mio punto di vista. «Concedimi di parlar chiaro e di arrivare al dunque. Finora, per tre volte, qualcuno è riuscito a infiltrarsi nel cuore degli
appartamenti reali. Ogni volta ha lasciato un oggetto che minacciava il re, sia fisicamente sia, almeno nelle intenzioni, da un punto di vista metafisico. Ho anche ragione di credere che questo qualcuno, chiunque sia, possieda conoscenze di farmacopea...» «Che cosa vuoi insinuare?» gridò Pentu. «Quest'uomo sta dicendo che sospetta di me o dei miei assistenti?» Guardò Khay con astio. «Perdonami se ho parlato in modo avventato. La ragione per cui nutro questi sospetti deriva da alcuni eventi accaduti fuori del palazzo. Dico anche, però, che dovremmo dare priorità assoluta a quanto accaduto oggi e alle sue conseguenze sulla salute mentale del re. Se l'autore dei misfatti ha raggiunto il suo obiettivo con tanta facilità, sino a che punto può spingersi?» Ci guardammo in silenzio. «Perché non ci sediamo?» disse Khay diplomaticamente, cogliendo l'attimo. Ci sedemmo su alcune panche basse, sistemate lungo la parete. «Per prima cosa, visto che a parer mio il nostro uomo conosce la medicina, mi sarebbe utile capire come sono organizzati i medici di palazzo e chi ha accesso diretto al re», spiegai. Pentu si schiarì la gola. «Come capo dei medici del Nord e del Sud, io solo ho accesso diretto al re. Nessun altro medico può rimanere in sua presenza senza di me. Io autorizzo le prescrizioni e le cure. Naturalmente ci occupiamo anche della regina, degli altri membri della famiglia reale e di tutti coloro che vivono negli appartamenti reali, compresi i servitori.» «Hai nominato gli altri membri della famiglia reale. Chi sarebbero, a parte la regina?» Pentu lanciò un'occhiata a Khay. «Intendevo dire i membri delle famiglie al servizio del re e della regina», rispose con una singolare indifferenza. «Quanti sono i medici affiliati al palazzo?» «Tutti i medici delle Due Terre rispondono alla mia autorità. Solo pochissimi dispongono della suprema competenza relativamente a tutti gli aspetti dei misteri, ma ci sono specialisti dell'occhio destro e
del sinistro, dello stomaco, dei denti, dell'ano e degli organi più nascosti; tutti possono essere convocati subito, in caso di necessità.» «Da quanto ho capito, ci sono distinzioni fra le diverse gerarchie professionali.»
« È ovvio che ci siano. Non credi che sia importante distinguere
fra i segaossa da mercato e chi di noi ha studiato e conosce i libri, e quindi può somministrare cure adeguate con le piante e la magia?» sibilò. «Sono affascinato da questi libri», dissi. «Puoi anche esserne affascinato, ma sono libri segreti. E questo è tutto.» Sorrisi con aria affabile.
«Chiedo scusa. Il re è attualmente sottoposto a qualche trattamento? A parte l'acqua curativa?» «Fisicamente è forte e gode di ottima salute, ma gli ho prescritto anche una pozione per dormire. Ha subito uno shock notevole. Deve riposare fino a domani senza che nessuno lo disturbi. Gli rimarrò accanto tutta la notte.» Questa volta Simut si era dato da fare perché il servizio di sicurezza garantisse l'inviolabilità degli appartamenti. A ogni svolta del corridoio stazionavano un paio di guardie, e quando arrivammo alla stanza ne trovammo due a ciascun lato della porta e altre due di fronte a loro. Le porte erano chiuse, ma Pentu le aprì silenziosamente e mi fece cenno di gettare un rapido sguardo all'interno. La provvisoria stanza da letto del re era illuminata da lampade a olio sistemate nelle nicchie del muro, sul pavimento e in numero ancora maggiore intorno al letto. Il sovrano sembrava un giovane dio in una costellazione di luci. Le candele erano state accese per allontanare dal re l'oscurità del mondo circostante, ma apparivano deboli contro forze tanto minacciose e pericolose. Ankhesenamon teneva la mano del marito fra le sue e gli parlava dolcemente. Colsi la loro intimità e vidi che lei, la più forte e la più coraggiosa dei due, lo faceva sentire al sicuro, tranquillo. Non riuscivo però a immaginare come una coppia tanto fragile potesse, l'indomani,
arrogare a sé il potere a scapito di demagoghi e dittatori ambiziosi come Ay e Horemheb. Sapevo, tuttavia, che avrei preferito veder prevalere Ankhesenamon. Era intelligente. L'avevano sottovalutata. Aveva osservato e imparato dal loro esempio e forse aveva assimilato un po' della spietatezza indispensabile a sopravvivere in quel labirinto di mostri. Alzarono lo sguardo per un attimo e mi videro inquadrato sulla soglia. Chinai la testa. Tutankhamon, Signore delle Due Terre, mi fissò con freddezza e agitò la mano in gesto di congedo. Pentu mi chiuse la porta in faccia.
Capitolo 20 Mi precipitai all'incontro con Khety nel quartiere della città dove si recano gli uomini dopo le giornate di duro lavoro negli uffici della burocrazia. Ero già molto in ritardo sull'ora dell'appuntamento; nelle strade e nei vicoli la sola luce proveniva dalle finestrelle delle case dove erano state accese le lampade a olio. Gli stretti passaggi erano ingombri di uomini ubriachi, burocrati e operai, alcuni dei quali si affrettavano furtivi e silenziosi, mentre altri gridavano e si chiamavano in gruppi vocianti barcollando. Ragazze dai seni scoperti, ragazzi magri e guardinghi, e altre creature di cui era difficile distinguere il sesso si infilavano tra i passanti, strusciandosi addosso agli uomini e dandosi un'occhiata alle spalle quando varcavano le soglie ombrose che conducevano alle stanzette chiuse dalle tende, dove svolgevano il loro commercio. Una di loro si accostò a me. «Posso insegnarti dei giochetti che nemmeno te li immagini», disse con voce stanca. Trovai l'entrata, bassa e anonima, in un lungo muro di mattoni di fango essiccato che si allontanava dalla via principale. Oltrepassati il massiccio portiere e la massiccia porta, avanzai lungo il corridoio. Di solito questi posti sono dedali di stanzette basse, senz'aria, con i soffitti sporchi per le tante notti di fumo nero di sego, ma questo era diverso. Mi ritrovai in una sequela di stanze e cortili. Tutto era lussuoso: pitture murali di alta qualità, opere d'arte e i migliori arazzi appesi alle pareti. Il posto aveva la patina rilucente del successo ed era affollato di uomini arrivati, alla moda, accompagnati dai loro accoliti e dalle loro assistenti, che bevevano e chiacchieravano. Un boato di voci, risate e scherno su boccali di birra, calici di vino e piatti carichi di squisite vivande. I volti entrarono e uscirono dal mio campo visivo: una donna molto truccata e con abiti costosi che ragliava come un asino, gli occhi eccitati; un uomo più anziano, dalla faccia arrossata e la bocca aperta come un neonato che strilla; e il profilo spigoloso, duro e untuoso di un uomo giovane, nascosto in
un angolo, in attesa della sua occasione. Una iena al banchetto. Sulle pareti era raffigurato ogni genere di accoppiamento: uomini con donne, uomini con uomini, uomini con ragazzi, donne con donne. Tutti avevano dipinta in viso la stessa smorfia di piacere, tratteggiata con poche linee rosse e nere. Sporgevano falli eretti di dimensioni inaudite. Erano state ritratte penetrazioni d'ogni tipo. Mi ero già imbattuto in simili immagini guardando i papiri confiscati, ma mai ne avevo viste riprodotte su così vasta scala. Khety mi stava aspettando. Ordinai una brocca di vino al servo di mezz'età il cui incarnato pallido e chiazzato sembrava non aver visto la luce del sole da molti anni. «Ho bevuto molto, molto lentamente», mi disse per rammentarmi che ora fosse. «Complimenti vivissimi per l'autodisciplina, Khety.» Trovammo un angolo e voltammo le spalle alla folla, per evitare che la nostra presenza fosse registrata più del necessario. Nessun funzionario del Medjay può circolare impunemente in posti del genere. Li frequentano molti uomini ricchi che gestiscono affari tutt'altro che ortodossi, a cui forse avrebbe fatto piacere trovarsi faccia a faccia con due guardiani della legge, come me e Khety, in un posto dove potevamo contare su pochi amici. Arrivò il vino. Come m'aspettavo, era troppo costoso e non di mio gusto. Cercai di mettere a fuoco la strana prossimità dei due mondi: il Palazzo di Malkata, con i suoi corridoi silenziosi di pietra e i suoi personaggi aristocratici che mettono silenziosamente in scena la rappresentazione del potere e del tradimento, e il terreno di gioco della rumorosa vita notturna. Pensai che nei due luoghi accadevano le stesse cose: la domanda notturna del desiderio maschile e il suo appagamento. «Qualche altro indizio?» domandai. «Ho chiesto un po' in giro. È dura, perché adesso i ragazzi arrivano da tutto il regno. Alcuni sono schiavi o prigionieri, altri sono solo dei disperati che scappano da un qualsiasi posto dimenticato e infestato dalle mosche che chiamano casa, per fare carriera nelle strade dorate della città. La maggior parte arriva per le
lusinghe di un reclutatore di zona, ma molti sono venduti dalle famiglie. Babilonesi, assiri, nubiani... se sono fortunati finiscono a Tebe o a Menfi.» «Oppure, se sono sfortunati, in un posto meno romantico, una città di frontiera come Bubasti o Elefantina», dissi. «Non resistono molto da nessuna parte. Hanno solo bellezza e freschezza da offrire e quando queste svaniscono... loro finiscono nel mucchio dei rifiuti umani.» Mi guardai intorno e vidi nei giovani volti i danni inflitti dal dover soddisfare, notte dopo notte, ogni richiesta dei clienti. Facce solari e disperate, che sorridevano troppo, troppo di proposito, cercando di piacere in tutti i modi; belle ragazze e bei ragazzi seduti come bambole viventi sulle ginocchia di uomini dall'aspetto repellente che potevano permettersi carne fresca ogni settimana, o una volta l'anno. Tutti sembravano eccessivi e sfrenati. Una giovane donna con gli occhi malati ci passò accanto: le avevano asportato il naso. Sembrava che si muovesse tirata dai fili invisibili manovrati da un burattinaio nascosto. Si perse nella folla. «La cosa interessante è che molti di loro portano droghe proibite oltre confine o lungo il fiume, come parte dell'accordo. La consegna è senz'altro a buon mercato. Tutti sono a conoscenza del traffico, ma i quantitativi sono troppo scarsi per preoccuparsene; le guardie di frontiera sono corrotte, oppure si fanno una sveltina invece della mazzetta e se qualcuno dei corrieri viene preso, tanto per far scena, il profitto resta sempre più elevato della perdita.» «Che mondo meraviglioso», dissi. Khety ridacchiò. «Bisognerebbe dargli una sistemata.» «Non fa che peggiorare», dissi cupamente. «Lo dici sempre. Se succedesse qualcosa di buono, non sapresti più cosa dire», replicò con il suo solito ottimismo irritante. «Sei più deprimente di Thot, che è uno stupido animale.» «Thot non è deprimente, e non è affatto più stupido della maggior parte delle creature a due zampe che abbiamo intorno. È un filosofo.» Bevvi il mio vino. «Chi è il proprietario?» Khety si strinse nelle spalle.
«Uno qualunque dei grossi proprietari del quartiere. Probabilmente un membro di una delle grandi famiglie che hanno legami con i templi e si prendono una larga fetta dei profitti.» Annuii. Era ben noto che le enormi ricchezze dei templi derivavano da investimenti in imprese diversificate e molto remunerative sia in città sia nelle province del regno. «Chi dobbiamo incontrare?» «La direttrice. È una donna abile.» «Sono sicuro che ha un cuore d'oro.» Ci facemmo largo fra la folla berciante, passammo accanto ai musici ciechi che strimpellavano i loro strumenti benché nessuno li stesse a sentire, e ci infilammo in un corridoio silenzioso illuminato da poche lampade a olio. Sul corridoio principale si aprivano altri passaggi dove le tende eleganti celavano spazi sufficienti a ospitare un comodo materasso. Vecchi grassoni si ritrassero nei cubicoli per evitare di incontrarci, ragazzine e ragazzetti sgusciarono ridacchiando come stupidi pesci ornamentali. Malgrado l'incenso bruciasse ovunque, l'aria era stagnante, greve di sentori umani: sudore, alito fetente, piedi e ascelle puzzolenti. Da qualche parte qualcuno ansimava e gemeva, in un'altra celletta una ragazza faceva le moine e ridacchiava, da una terza proveniva la voce di una donna impegnata in un amplesso, dai toni bassi e appassionati come una cantante di corte. Udii un po' più in là uno scroscio d'acqua e delle risate. In fondo c'era una porta e al suo ingresso erano piazzati due bestioni grossi, inespressivi e brutti come statue appena sbozzate. Ci perquisirono senza parlare. «Qualcuno sente puzza di cipolla?» domandai cogliendo un refolo di respiro rancido. Il bestione che mi stava passando al setaccio si fermò un attimo. La sua faccia mi ricordava una pentola ammaccata. L'altro bestione appoggiò la manona sulla spalla larga del collega come per calmarlo e, silenziosamente, con un cenno del capo, lo convinse a non far caso al mio sarcasmo. Il bestione sbuffò come un toro e mi puntò un
dito tozzo in mezzo agli occhi. Sorrisi e lo spinsi da parte. L'altro tizio bussò alla porta. Entrammo. La stanza era piccola e bassa, ma ingentilita da un vaso colmo di fiori di loto freschi posato sul tavolo. La direttrice ci salutò educatamente e con aria distaccata. Portava una lunga parrucca biondo ramato, all'ultima moda, ma il suo bel viso dai lineamenti scolpiti era immobile, quasi congelato, come se avesse dimenticato da tempo come si fa a sorridere. Ci offrì sgabelli e cuscini. Si sedette elegantemente di fronte a noi, il mento appoggiato alla mano, e attese. «Mi puoi dire il tuo nome?» «Takherit», rispose con voce chiara. Dunque, era siriana. «Io mi chiamo Rahotep.» Annuì e aspettò. «È solo un'indagine. Non hai motivi per preoccuparti in prima persona.» «Infatti non ne ho», rispose freddamente. «Stiamo indagando su una serie di omicidi.» Alzò le sopracciglia nella parodia di un gesto di trepidazione. «Che cosa emozionante.» «Le uccisioni sono state particolarmente efferate e inusuali. Nessuno merita di morire come sono morti quei giovani. Sto cercando di impedire che capiti ancora», replicai. «In questi tempi bui è preferibile distogliere lo sguardo da ciò che non si vorrebbe vedere», disse evasiva. Aveva un tono così incolore che non riuscii a capire se parlasse con molta o con nessuna ironia. «Vorrei farti capire la gravità della situazione.» Gettai sul tavolo il viso della morta, con la sua corona opaca di capelli neri. Rimase impassibile, ma qualcosa cambiò nel suo sguardo; una reazione, finalmente, ai fatti nudi e crudi. Scrollò i capelli rossi. «Solo un mostro può aver fatto questo a una donna.» «È una crudeltà, ma quasi certamente non senza significato. Non è
un atto impulsivo, di violenza o di passione. Quest'uomo uccide per ragioni e con modalità che, quanto meno per lui, hanno un senso. Il nostro problema è che dobbiamo scoprirle», dissi. «In tal caso, non ci sono mostri.» «No, solo persone.» «Non so se il pensiero mi faccia sentir meglio o peggio», disse. «Sono d'accordo», commentai. «Dobbiamo scoprire chi era questa ragazza. Pensiamo che possa aver lavorato qui.» «Può darsi. Molte ragazze lavorano qui.» «Ne è sparita qualcuna in particolare?» «Qualche volta le ragazze svaniscono, punto e basta. Succede spesso, ma nessuno se ne preoccupa. Ce ne sono sempre tante.» Mi chinai verso di lei. «Questa ragazza è morta in modo orribile e il minimo che possiamo fare per lei è darle un nome. Aveva un serpente tatuato sull'avambraccio. Il suo padrone di casa ci ha detto che si chiamava Neferet.» Guardò la faccia, poi me, e annuì. «Allora sì, la conoscevo. Lavorava qui. Non sapevo molto di lei. Non possiamo dar retta a tutte le storie che ci raccontano. Lei, però, mi aveva colpito per la sua aria innocente e fiduciosa. Aveva uno strano sorriso triste, che la rendeva ancora più attraente per alcuni nostri clienti. Sembrava appartenere a un altro mondo, migliore di questo. Diceva di essere stata sottratta alla sua famiglia, che l'amava, ed era certa che un giorno sarebbero tornati a riprenderla...» «Non aveva detto da dove veniva?» «Un villaggio agricolo a nord di Menfi, credo. Non ricordo il nome.» «Possiamo presumere che abbia incontrato qui il suo assassino. Quindi un cliente, un uomo anziano, un aristocratico. Una persona colta, forse un medico.» Mi fissò. «Sai quanti uomini di quel tipo frequentano con discrezione posti come questo? In ogni caso, i miei dipendenti hanno l'ordine di non
fare nessuna domanda sulla vita privata dei clienti.» Ovviamente, aveva ragione lei. Tentai di spostare il piano dell'indagine. «Ci sono clienti o dipendenti che assumono droghe in questo locale?» «Che tipo di droghe?» domandò con aria innocente. «Droghe soporifere. Papavero da oppio...» Fece finta di riflettere. «Qui non sono ammesse persone che ne facciano dichiaratamente uso. Cerco di evitarlo in tutti i modi. Gestisco un locale pulito.» «Queste droghe circolano ovunque...» «Non sono responsabile del comportamento privato e delle tendenze dei miei clienti», rispose con fermezza. «Devono pur acquistare la droga da qualche parte», obiettai. Si strinse nelle spalle, evitando il mio sguardo. «Ovunque ci sono trafficanti, spacciatori e fornitori. È così per ogni tipo di commercio, soprattutto se c'è da guadagnare dell'oro.» Lanciai un'occhiata a Khety. «Mi sono sempre chiesto come si riesca a soddisfare una domanda tanto diffusa. Voglio dire, non si arrestano poi molti giovani alla frontiera e sono in tanti a farcela e ad arrivare in posti come questo in qualunque città. È un canale di rifornimento diretto, a buon mercato, e poco rischioso. Sappiamo che i ragazzi che vengono qui a lavorare sono dei corrieri, eppure, se anche fossero migliaia, non riuscirebbero a trasportare un quantitativo sufficiente a soddisfare la domanda di una merce di lusso così fortemente richiesta. Per me è un mistero.» Abbassò lo sguardo. «Te l'ho detto, non mi immischio in queste faccende.» La osservai attentamente. Mi accorsi che aveva le pupille dilatate, e lei colse il mio sguardo. «Ci metterei un attimo a far arrivare una squadra di agenti del Medjay per una perquisizione. Dubito che molti tuoi clienti apprezzerebbero tanta pubblicità», dissi.
«E io dubito che tu ti renda conto dello scarso apprezzamento che riceverebbe il tuo intervento. Secondo te qui chi ci viene? I nostri sono clienti d'alto rango. Non permetterebbero mai a un funzionario di basso livello come te di creare problemi.» Scrollò la testa, si alzò in piedi e suonò una campanella. La porta si aprì e i due bestioni fecero la loro comparsa, senza un sorriso. «Questi due signori se ne stanno andando», disse la donna. Ci eravamo avviati tranquillamente, ma una volta usciti, i bestioni si scambiarono uno sguardo d'intesa e quello che avevo schernito mi sferrò un fortissimo pugno. Sapeva picchiare e mi fece male. Anche l'altro colpì Khety, ma con meno violenza, tanto per essere equo. «Come sei permaloso», dissi strofinandomi la mascella quando sbatterono la porta. Sostammo nella strada, squallida e improvvisamente molto silenziosa. «Non azzardarti a dire che me la sono andata a cercare», dissi a Khety. «Va bene, non lo dico», replicò lui. Ci avviammo nell'oscurità. «Allora», disse Khety, «tutta quella roba come fa a entrare nelle Due Terre? Non è possibile che il traffico sia in mano a ai ragazzi.» Scossi la testa. «Penso che i ragazzi, i corrieri, siano una falsa pista. Non sono rilevanti. Il trasporto e la spedizione devono avvenire in quantità assai più elevate. Se la droga arriva per nave, i funzionari marittimi sono corrotti, e se arriva via terra le guardie di frontiera prendono mazzette.» «Da qualche parte c'è qualcuno che sta accumulando una fortuna», disse. «Chiunque sia, deve essere molto potente e avere ottime relazioni.» Sospirai. «Certi giorni mi sembra che il nostro lavoro sia come tenere a bada le acque del Grande Fiume a mani nude.»
«Ci penso quasi tutte le mattine», replicò Khety. «Poi mi alzo e vado a lavorare. E, naturalmente, mi trovo a passare il tempo con te, che non è male come compensazione.» «Sei un uomo molto fortunato, Khety», gli dissi. «Ragiona: per lo meno si stanno chiarendo i collegamenti. In ciascun omicidio le vittime sono state drogate. La ragazza lavorava qui. Molto probabilmente i corrieri consegnano la droga in questo locale. Da posti come questi viene distribuita in tutta la città. È già qualcosa.» «Ricordati che l'assassino ti tiene in bilico fra due mondi», disse Khety sorridendo sardonico. Se avevamo ragione e lo stesso uomo si era macchiato dei due generi di crimini, stavo saltando da un indizio a un altro come un cane all'inseguimento di una traccia di cibo, gli occhi fissi a terra, senza vedere oltre. Augurai la buonanotte a Khety, e me ne andai esausto, questa volta diretto a casa mia.
Capitolo 21 Lo sguardo fisso e terribile del sole accecante della tarda mattinata non risparmiava niente e nessuno. La città sembrava arrostita e prosciugata, marrone, gialla e bianca nella calura. Alzai gli occhi e vidi un falco allargare le ali scure entrando e uscendo di slancio dalla luce abbagliante, per poi farsi trasportare con leggere correzioni di rotta dalle correnti termiche dell'aria rovente del deserto. Era Horus, con l'occhio destro del sole e l'occhio sinistro della luna. Che cosa vedeva, quando guardava il nostro strano, piccolo mondo di statue e mostri, folle e processioni, templi e tuguri, ricchezze e porcili? Che cosa pensava del gruppo cerimoniale di minuscole figure protette da fragili parasoli, che si snodava lento e ieratico verso il Tempio meridionale lungo il viale delle Sfingi, con i suoi alberi potati alla perfezione? Si accorgeva di me, vestito come un attore negli abiti bianchi di un sacerdote? Ci vedeva, tutti quanti, nel nostro mondo verde di campi e alberi, che doveva la propria esistenza al serpente scintillante del Grande Fiume ed era circondato dagli spazi infiniti dell'immortale Terra Rossa? Che cosa scorgeva oltre l'orizzonte? Lo osservai librarsi a lungo sopra di noi e, ignorandoci, inclinarsi in direzione del fiume e sparire sopra i tetti delle case. Avevo dormito male per l'ennesima volta. Avevo sognato il ragazzo. Nel sogno aveva il volto di Neferet, la ragazza, che mi sorrideva con aria di mistero. A poco a poco e con molta attenzione mi mettevo a staccarle il viso, ma continuava a sorridere. Quando riuscivo a toglierlo, sollevandolo sulla sommità del capo, al di sotto vedevo solo una maschera di tenebra e avvertivo il fetore dolciastro della decomposizione. Mi ero svegliato all'improvviso con il cuore in tumulto. Forse il vino scadente della sera prima era peggiore di quanto avessi pensato. Al mattino Tanefert non si era mostrata affatto comprensiva e quando ero tornato dal barbiere che mi aveva rasato il cranio, si era limitata a scrollare il capo. «Come sto?» le avevo domandato, passandomi la mano sulla testa
liscia. «Sembri un bambino cresciuto», aveva commentato, senza far nulla per venirmi incontro. «Non sembro un sacerdote del tempio?» Va detto, a suo credito, che era scoppiata in una risata. «Non mi par proprio... e non tornare a casa finché non ti sono ricresciuti.» Lungo il viale delle Sfingi la folla ben indirizzata sostava in un silenzio ordinato nell'ardente immobilità dell'aria, levando grida di elogio al re e alla regina mentre passavano sul cocchio. Tutankhamon portava la Corona azzurra ed era circondato prudentemente da una fitta schiera di guardie di palazzo, con le piume dei copricapo che ondeggiavano luminose, gli archi e le frecce lustri e scintillanti. I soldati dell'esercito tebano presidiavano il viale in tutta la sua lunghezza. Simut aveva lavorato bene e utilizzato ogni risorsa a sua disposizione. Ay seguiva nel suo cocchio. Io e Simut viaggiavamo insieme. Osservava ogni cosa con sguardo penetrante, attento al minimo dettaglio fuori posto, al minimo accenno di turbamento. Seguiva una lunga processione che avanzava a passo strascicato, formata da molti altri funzionari di palazzo e sacerdoti, fra i quali Khay, tutti vestiti con l'identico abito bianco, ciascuno accompagnato da servitori sudati che reggevano il parasole sui padroni. Notai un cane randagio che correva di fianco alla processione insolitamente tetra, gironzolando fra le ombre degli alberi e i soldati in marcia. Abbaiava in continuazione, scoprendo i denti come se avesse visto l'ombra di un nemico o di un intruso. All'improvviso un soldato tebano lo trapassò con una freccia e lo uccise. La folla si voltò spaventata, ma nessuno fu preso dal panico e la processione continuò. Quando il corteo arrivò all'ingresso del tempio, il sudore mi colava lungo la schiena. Un tendone da sole era stato eretto di fronte al portone a due battenti, decorato d'oro e d'argento, che portava alla nuova Sala delle Colonne. Era stato il nonno del re a iniziarne la costruzione, quando ero giovane, con il progetto
ambizioso di sostituire il labirinto dei piccoli santuari antichi con una grande struttura moderna, scura, composta da colonne di pietre torreggianti e tanto ampie da poter ospitare una moltitudine di persone sulla sommità. Doveva essere una meraviglia universale e avrei goduto del privilegio eccezionale di vederla con i miei occhi. L'area antistante il tempio era affollata da migliaia di sacerdoti in abito bianco, così numerosi che, quando si prostrarono, l'immenso spazio si trasformò in un lago bianco. I musici del tempio attaccarono un ritmo e una melodia nuovi. Lo sguardo di Simut era ovunque: prendeva nota di ogni evento, controllava la posizione degli arcieri sul perimetro delle mura, l'assetto preciso delle guardie che affiancavano il re e la regina per proteggerli, e scrutava tutto e tutti con i suoi occhi scuri. Questa volta non dovevano esserci errori, sanguinose sorprese, o panico di massa. Finalmente, al suono di fanfara delle trombe del tempio, levate e scintillanti nella luce, varcammo il portone, passammo sotto le enormi pietre scolpite delle mura esterne ed entrammo nel vasto colonnato. La mia prima impressione fu di trovarmi nel regno delle ombre. Colonne perfettamente scolpite, con una circonferenza maggiore di quella di qualsiasi palma - forse l'equivalente di dieci alberi - si elevavano nell'aria fresca, buia e misteriosa. Erano quattordici, disposte su due grandi file, alte ciascuna almeno trenta cubiti, e sorreggevano il tetto massiccio simile a una colossale arcata di pietra sotto un cielo notturno di granito. Sottili raggi di luce scendevano in diagonale dagli alti lucernai in lampi e guizzi di luminosità intensa; infinitesimali particelle di polvere danzavano e ondeggiavano per un breve istante di gloria. Ogni volta che la luce intensa toccava la pietra, risaltavano i dettagli dei rilievi dipinti che ne ricoprivano l'intera superficie. Il lungo corteo dei dignitari e dei funzionari ci seguì a fatica, ammassandosi, spingendo e protestando per trovar posto sotto le grandi colonne. La solenne architettura della sala li faceva sembrare tutti più piccoli, meno importanti. Sembravano un branco di capre che respirava rumorosamente, tossiva, bisbigliava e commentava sbalordito sottovoce, contemplando per la prima volta la nuova meraviglia. Eppure erano gli uomini che controllavano il potere e la gloria del regno. Gli uomini della real proprietà, della burocrazia e
dei templi; tutti coloro che avevano perso potere e ricchezza sotto Akhenaton, il padre del re, e che ne erano rientrati in possesso affermando di aver ripristinato maat nelle Due Terre. Naturalmente, a essere state ripristinate erano la loro autorità implacabile e la licenza di controllare e sfruttare le infinite risorse e le occasioni di fare affari con le terre, a beneficio del loro patrimonio personale. Lo stesso re, per quanto in modo passivo, era l'icona della restaurazione. In un altro luogo sacro, il Tempio di Karnak, al principio del suo regno aveva ordinato - o meglio, Ay aveva ordinato in suo nome - che fosse eretta una stele di pietra, su cui era stata incisa un'affermazione storica che tutti conoscevano: « La terra
fu messa sottosopra e gli dei le avevano voltato le spalle. Dopo molti giorni la mia maestà si elevò al trono di suo padre e governò il territorio di Horus, assumendo il controllo della Terra Nera e della Terra Rossa». E così sembrava, poiché ciò che era stato lasciato incompiuto dal nonno era stato completato in presenza del nipote; e lo strano interregno di Akhenaton era ormai dimenticato, i suoi edifici abbandonati, le sue immagini ignorate, il suo nome taciuto, la sua memoria senza onori, come se non fosse mai esistito. Rimaneva solo il ricordo della sua illuminazione religiosa e del tentativo di strappare il potere ai sacerdoti tradizionali, tentativo fallito ma ancora importante per molti.
I reali furono invitati a esaminare i rilievi murali che decoravano per intero le nuove pareti perimetrali. I sacerdoti sollevarono le torce, o si riunirono a gruppi, con le bianche vesti che riflettevano e accentuavano la luce obliqua, per illuminare i dettagli dei rilievi dipinti a vivaci colori nei punti in cui rimanevano immersi nell'oscurità. Alla luce delle fiammelle tremolanti, le figure colorate sembravano vive. Sgomitai per mantenere la mia posizione vicino al re e alla regina, anche perché ero curioso di vedere quelle meraviglie. Proprio accanto all'ingresso, un raggio intenso di luce solare, per coincidenza o volutamente, illuminò la figura in rilievo del re. Lo osservai porsi davanti alla propria immagine scolpita nella pietra e porgere omaggio al dio del tempio. Tutankhamon in carne e ossa, con le sue paure infantili e il viso dai lineamenti delicati, valutò il suo riflesso di pietra che aveva le spalle larghe e i gesti autoritari,
decisi, di un re. Devo confessare che non erano affatto simili, a parte la somiglianza, resa con accuratezza, del profilo e delle orecchie. Tutti avanzarono lentamente lungo la parete occidentale. Qui c'erano i rilievi che descrivevano la processione sull'acqua degli dei verso Karnak durante la festa di Opet. C'erano gli agili acrobati e le chiatte con il sartiame minuziosamente raffigurato, i musici ciechi con i loro strumenti. Ciascun volto sembrava il ritratto di un individuo che avrei potuto riconoscere in mezzo alla folla. Mi chiesi se fra loro ci fossero anche il mio ritratto e quelli della mia famiglia. Poi, fra spinte e tensioni, i reali attraversarono il tempio circondati da funzionari e servitori e si diressero alla parete opposta, dove proseguiva il racconto della festa. Tutankhamon e la regina camminavano a passo lento lungo la parete, guardando con attenzione le immagini e ascoltando il Sommo Sacerdote e i suoi chierici, che si chinavano rispettosamente verso di loro sussurrando lodi e informazioni, alludendo sicuramente ai costi sbalorditivi e alle caratteristiche notevoli della grande opera di glorificazione delle immagini del re e degli dei compiuta dal tempio. L'avvenimento procedeva nei modi stabiliti. Tornarono all'ingresso e furono invitati a esaminare gli ultimi segni dei rilievi murali d'angolo in cui era raffigurata la scena più importante - il momento in cui il re era ammesso alla presenza del dio all'interno del sacello - ma a quel punto accadde qualcosa. Tutankhamon stava leggendo le iscrizioni di quel momento sacro sotto la direzione del Sommo Sacerdote quando, all'improvviso, fece un passo indietro, allarmato. Il Sommo Sacerdote, profondamente scosso e in preda alla vergogna, si coprì gli occhi con le mani, come davanti a un'orribile profanazione. Le guardie di palazzo si disposero in formazione difensiva attorno ai reali, sfoderando i pugnali ricurvi. Alle mie spalle, la gente allungava il collo per vedere cosa stava succedendo. Mi feci largo fra le guardie. Ay stava già esaminando il rilievo che gli indicava il Sommo Sacerdote con il bastone. Mi consentì di avvicinarmi a lui per esaminarlo. In uno dei cartigli, i nomi del re erano stati completamente cancellati. Ay prese in mano la situazione. Parlò con calma a un Tutankhamon tremante, mentre Ankhesenamon cercava di fargli
bere un po' d'acqua. Ordinò che il rilievo profanato fosse nascosto e intimò a tutti coloro che l'avevano visto di non parlarne, pena la morte. I nomi sarebbero stati subito incisi per la seconda volta. Ankhesenamon sussurrò all'orecchio di Tutankhamon, e infine il re fece un cenno d'assenso. Poi, fingendo che tutto procedesse secondo il programma, i reali proseguirono il percorso. Passandomi accanto, la regina mi lanciò uno sguardo, ma non riuscimmo a parlare. Riattraversammo in fretta la sala passando fra le grandi colonne e avanzammo verso la Corte del Sole, dove si era radunata una gran folla di sacerdoti che si prostrarono davanti al re e alla regina nel sole di mezzogiorno, abbacinante dopo la solenne oscurità. La processione rimase sotto l'ombra fitta delle grandi colonne a papiro che correvano lungo tre lati. Percorremmo il perimetro della Corte in uno strano silenzio. Tutti sapevano che era successo qualcosa di preoccupante, ma la cerimonia proseguì come se niente fosse. Da lì entrammo nella parte antica del tempio. Mi ritrovai in una tenebra arcaica. L'immagine a rilievo del vecchio re Amenhotep che faceva offerte ad Amon-Ra, dio del tempio e della città, era onnipresente. La comitiva reale passò nella stanza a colonne delle offerte. Lungo le pareti, scolpito nell'eternità della pietra, Amenhotep guidava i sacri armenti e compiva le offerte rituali di fiori e incensi là dove la barca d'oro del dio era adagiata durante la cerimonia. Avevo sentito dire che, superato quel luogo, oltre il santuario divino si trovavano molte piccole cappelle e, sulle pareti laterali, si aprivano anticamere ancora più esigue che accoglievano le raffigurazioni d'oro degli dei, avvolte nelle ombre profonde. Nessuno avrebbe potuto oltrepassare quel punto. Soltanto il re e i sacerdoti di rango più elevato erano ammessi nel santuario di Amon, nel cuore buio del tempio, dove la sua statua dalle sembianze umane era adorata, nutrita e vestita. Era giunto il momento in cui Tutankhamon avrebbe dovuto entrare solo nel mistero del santuario. Ankhesenamon poteva accompagnarlo fino all'anticamera, ma non oltre. Appariva nervoso, ma cercò di farsi coraggio. Ankhesenamon e il re avanzarono e scomparvero insieme, dopodiché scese il silenzio. Ampie folate di incenso e sudore si levarono per la calura dai
tanti corpi ammassati nella piccola camera e nella Corte del Sole alle nostre spalle. Le file dei sacerdoti intonarono le preghiere scuotendo i sistri tintinnanti. Le cantanti del tempio innalzarono gli inni. Il tempo sembrò dilatarsi... vidi Ay sollevare appena il capo, come per chiedersi se tutto procedesse al meglio. All'improvviso riapparvero il re e la regina. Il re aveva sostituito la Corona azzurra con la Doppia Corona dell'Alto e del Basso Egitto. L'avvoltoio e il cobra sfolgoravano sulla sua fronte, offrendogli la protezione divina. La regina portava l'alta Corona con la doppia piuma che aveva indossato sua madre, Nefertiti, dichiarandosi con quel gesto regina e dea. Ben lungi dall'apparire timoroso o spaventato, Tutankhamon guardò con alterigia oltre la folla stupita dei sacerdoti e dei dignitari raccoltisi nel vestibolo e nella Corte del Sole. Attese e parlò con voce calma e vigorosa. «Gli dei si sono rivelati a Tutankhamon, Immagine vivente di Amon, nel Tempio del dio. Possiedo gli appellativi reali: il nome di Horus, Toro vigoroso, Più perfetta delle forme create, Re dell'Alto e del Basso Egitto, Possessore delle forme di Ra, Sovrano della verità. In nome dei miei appellativi reali, indosso la Doppia Corona e stringo il pastorale del governo e il flagello di Osiride. Dichiaro di essere re di nome e di fatto da questo giorno.» I nomi hanno potere. Portano a compimento ciò che esprimono. Quella era la dichiarazione di una nuova politica di indipendenza. Una nuova incoronazione. Un fremito di meraviglia e timore fece seguito alla sconvolgente, inaspettata enunciazione. Non so cosa avrei dato per vedere la faccia di Ay mentre ascoltava quelle parole, ma la sua testa ossuta rimase china. Il re proseguì: «Che si proclami ovunque nelle Due Terre. Dichiaro che celebrerò questo giorno con una nuova festa nel sacro nome di Amon-Ra. Che si annoti per sempre negli scritti divini, e che queste parole siano diffuse per iscritto in tutte le province delle Due Terre affinché ogni suddito della Grande Casa venga a conoscenza della verità». Gli scribi ufficiali si precipitarono con le tavolette e sedettero a gambe incrociate, con i gonnellini tesi sulle ginocchia quasi a formare dei tavoli, e scrissero rapidi ogni cosa.
Mi resi conto che dovevano aver provato a lungo la scena: Ankhesenamon si alzò, raggiunse Tutankhamon e si presentarono uniti, mentre la folla assorbiva a poco a poco la rivelazione e le implicazioni delle sue parole, e si piegava sulle ginocchia prostrandosi. Mi chiesi come avrebbe reagito Ay a una mossa tanto audace nel gran gioco del potere. Si rivolse alla moltitudine di volti, pronti a scommettere che non avrebbe accettato la retrocessione senza combattere. Avevano sottovalutato la sua intelligenza. Parlò dopo una lunga pausa ponderata, come se il destino delle Due Terre fosse in mano sua. «Gli dei sono onniscienti», disse. «Noi, che abbiamo operato tutta la vita per sostenere e fortificare la Grande Casa e riportare le Due Terre all'ordine perduto, onoriamo questa proclamazione. Il re ha assunto il suo ruolo. Possano gli dei fare di lui un grande re.» Gli scribi annotarono anche questo e, a un segnale di Ay, passarono velocemente i rotoli di mano in mano. Gli assistenti li presero in custodia per farli copiare sui rotoli e sulle stele di pietra scolpita, da distribuire ovunque nel paese e nei suoi domini. Infine Ay guidò la folla, prostrandosi per primo davanti alla coppia reale come un mostro anziano davanti ai suoi figli, lento e rigido, con la pericolosa ironia che lui solo era in grado di insinuare in tutto ciò che faceva. Ankhesenamon e Tutankhamon avevano scommesso tutto su quel momento e sul successo della loro dichiarazione. I giorni seguenti avrebbero stabilito se avevano vinto o perso.
Capitolo 22 Il re e la regina uscirono dal complesso del tempio, attraversarono la Corte del Sole, dove i sacerdoti si prostrarono sul terreno perfettamente spazzato, passarono per il colonnato e raggiunsero il cocchio sul quale si allontanarono in fretta in un bagliore dorato. Prima di seguirli e salire sul cocchio di Simut, guardai dietro di me la zona affollata davanti alla Sala delle Colonne, e nel bel mezzo vidi Ay che osservava la nostra partenza, immobile come una roccia. Ondate di agitazione e di fervide ipotesi sembravano frangersi e ampliarsi dalla moltitudine intorno alla sua persona. La notizia sarebbe stata ben presto comunicata in ogni angolo della città, alle amministrazioni, agli uffici, nei granai e nelle tesorerie; la proclamazione ufficiale avrebbe avuto successivamente luogo a Tebe e sarebbe stata recata dai messaggeri nelle città e cittadine più importanti: Menfì, Abido, Eliopoli e Bubasti, Elefantina a sud e nelle città di frontiera della Nubia. Seguimmo il cocchio reale fino al fiume dove si era riunita una gran folla che gridava e acclamava, e fummo imbarcati in fretta sulla nave reale per la traversata. Il re e la regina rimasero nell'area a loro riservata, con le tende tirate. Mentre salpavamo e nei moli le grida si affievolivano, li udii parlare a bassa voce; le parole non erano comprensibili, ma colsi il tono della voce di lei, rassicurante e incoraggiante, e quello di lui, più querulo. All'attracco, la coppia reale sbarcò e fu subito circondata e protetta da una falange di guardie di palazzo. Si affrettarono a entrare, come se anche la luce del sole nascondesse un pericolo. Khay accompagnò me e Simut, parlando in tono concitato. Una volta tanto, pareva in preda all'eccitazione. «Ay sarà furibondo!» bisbigliò entusiasta. «Non se lo aspettava.» «Tu invece sì», dissi. «Sono lusingato di poter affermare che sono stato il beneficiario
delle confidenze della regina. Non avrebbe potuto fare questa mossa nel gran gioco senza aver predisposto una rete di appoggio fra coloro che le sono più vicini.» Ne avrà bisogno, pensai. Ay teneva per la gola le Due Terre: dominava la classe sacerdotale, la burocrazia e la tesoreria. Horemheb controllava l'esercito. «Siamo stati a un passo da un'altra catastrofe. Come è accaduto? Bisogna indagare immediatamente. Per fortuna, ciò non ha impedito al re di fare la sua proclamazione», disse Khay. Simut si inalberò. «Proprio ora interrogarlo.»
stanno
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«E tu, Rahotep, sei ben lontano dall'aver scoperto il colpevole, che sembra libero di muoversi non solo negli appartamenti reali, ma ora addirittura nella Sala delle Colonne, all'interno del sacro tempio!» esclamò Khay, volendo spartire equamente le colpe fra noi. «Stiamo combattendo contro un'ombra», dissi. «Non significa un bel niente», mi schernì irritato. «Ciò che importa è capire come ragiona quest'uomo. Tutto quello che fa è un indizio che porta alla sua mente. Dobbiamo interpretare attentamente ogni evento, cercare di capirlo e decifrarne il significato. C'è un problema: tutti i nostri sforzi per controllare la situazione sono indeboliti dalla spaccatura che alimenta fra noi. Per lui è un gioco elegante. Ci sfida a comprenderlo, a capire le sue motivazioni e a catturarlo. Finora abbiamo fallito su tutta la linea. Abbiamo appena iniziato a prenderlo sul serio. O forse lo abbiamo preso troppo sul serio, perché se lo ignorassimo, che potere avrebbe?» «Parli come un guerriero che ammira il suo nemico», ribatté Khay in tono sarcastico. «Posso rispettare la sua intelligenza e la sua abilità senza per questo ammirare o rispettare l'uso che ne fa.» Ankhesenamon e Tutankhamon ci aspettavano in una sala da
ricevimento, seduti sui troni di stato. L'atmosfera era eccitata ed euforica, ma si percepiva una tangibile venatura d'ansia, poiché non tutto era andato alla perfezione. Io, Khay e Simut profferimmo le congratulazioni di rito. Tutankhamon ci scrutò intensamente. «Chinate la testa davanti a me», gridò all'improvviso, alzandosi. «Com'è possibile che abbia dovuto subire un'umiliazione simile ancora una volta? Perché non posso sentirmi al sicuro neppure nel mio tempio}» Restammo tutti in attesa con le teste chine. «Consorte», disse in fretta Ankhesenamon. «Consideriamo le alternative a nostra disposizione. Facciamoci consigliare da questi uomini fidati.» Tornò a sedersi sul piccolo trono. «Alzate la testa.» Obbedimmo. «Nessuno di voi è stato in grado di proteggermi dai pericoli. Ho avuto un'idea. Penso che sia ottima. Potrebbe risolvere i problemi una volta per tutte.» Aspettammo, con un'espressione di sentimenti contrastanti dipinta sul viso. «Qual è il modo, venerato dal tempo, con cui il nuovo re afferma il suo coraggio e il suo potere, se non con la caccia al leone? Noi ci siamo proclamati re. Quale mezzo migliore per dimostrare al popolo le nostre capacità, se non recarsi nella Terra Rossa, cacciare, e tornare con un leone come trofeo?» proseguì. Khay parlò per primo. «Un colpo da maestro, certo», iniziò con molta cautela. «Creerebbe un'immagine molto positiva nella pubblica opinione. Ma, signore, avete considerato il grave pericolo a cui vi esporrebbe?» «Dov'è la novità? Qui, nei miei stessi appartamenti, che dovrebbero essere sicuri, o così si presume, si annidano pericoli anche maggiori», disse il sovrano in tono petulante.
Ankhesenamon posò delicatamente una mano su quella del re. «Posso parlare?» domandò. Annuì. «Ritengo che il successo della regalità dipenda in gran parte dallo sfoggio accuratamente programmato dei suoi poteri e dei suoi valori, incarnati nella persona del re. Parate vittoriose, cerimonie di trionfo e manifestazioni simili sono i mezzi con cui presentiamo al popolo la gloria della regalità. Pertanto, se il re fosse ben protetto, una caccia simbolica, condotta in una delle nostre grandi riserve, potrebbe risultare vantaggiosa in questo frangente», disse. «Uno splendido compromesso», si sbrigò a dire Khay. «L'evento può essere organizzato in tempi brevi, nei confini sicuri di una riserva di caccia. Un leone, magari anche qualche cervo...» continuò speranzoso. La faccia del re si rabbuiò. «No. Il rituale non è sufficiente. Bisogna dimostrare il coraggio. Che dignità c'è nell'uccidere un leone che è già stato catturato e non può fuggire? Devono vedermi mentre uccido un leone e la caccia deve aver luogo nelle aree selvagge in cui abita. Devono vedermi affermare l'autorità regale sulla terra del caos. Non deve esserci nulla di simbolico», replicò. Con questo, mise a tacere tutti. Toccò a Simut parlare, e fu meno diplomatico. «Nella riserva di caccia possiamo controllare l'ambiente. Possiamo garantire la vostra sicurezza. Nel deserto il pericolo è grande.» «Ha ragione», disse Ankhesenamon. «Quel che importa è solo lo spettacolo.» Tutankhamon scosse la testa. «Tutti sapranno che ho ucciso un animale già in trappola. Non è il gesto adeguato con cui iniziare il mio regno. Sono un buon cacciatore, e lo dimostrerò. Noi andremo nel deserto.» Khay fece un altro tentativo. «Vostra maestà ha considerato che, per raggiungere i terreni di
caccia a nord-ovest o a nord-est, dovremo passare per Menfi? Forse non è del tutto... auspicabile. Menfi è la città di Horemheb, dove ha sede il suo esercito», mormorò, non molto sicuro di poter dire quanto aveva appena detto. Tutankhamon si alzò di nuovo, appoggiandosi al bastone d'oro. «Una visita del re a Menfi è assolutamente auspicabile in questo momento. Vogliamo avvicinare Horemheb al nostro cuore. È un vecchio alleato, e nel caso qualcuno di voi se lo fosse dimenticato, è stato il mio tutore a Menfi. È impegnato da troppo tempo nelle guerre contro gli ittiti. Viaggeremo con la dovuta ostentazione. Devo farmi vedere là, ora più che mai, proprio perché è la città di Horemheb. Devo rendere esplicite la mia presenza e la mia nuova autorità. Quando tutto sarà finito, tornerò a Tebe in trionfo, sfilerò vittorioso nei viali della città e tutti sapranno, e dovranno riconoscere, che Tutankhamon è re non solo di nome ma anche di fatto.» Le conseguenze e le complicazioni di quel progetto si moltiplicarono nelle nostre menti. Ankhesenamon parlò di nuovo: «Il re ha ragione. Deve mostrare di essere il sovrano e comportarsi come tale. È assolutamente necessario e va fatto. Noi, tuttavia, abbiamo una richiesta importantissima da fare. È una mia richiesta personale...» Mi guardò direttamente. «Rahotep, accompagnerai il re? Tu e Simut sarete entrambi responsabili della sua sicurezza.» Come avevo fatto a rimanere con la pagliuzza più corta in mano? Come avevo fatto a invischiarmi tanto in quella situazione da non poter fare altro che andare avanti? Ripensai al primo appello di Ankhesenamon, quando mi aveva mandato a chiamare per necessità e per paura. Decisi di non pensare per il momento alle recriminazioni, né alle conseguenze familiari. Chinai la testa. Simut mi lanciò un'occhiata e annuì, in segno di assenso. «Avremo bisogno di una squadra ben allenata e fidatissima, ma piccola, senza ostentazioni inutili né esagerazioni: un cuoco, i
battitori, i domestici e un manipolo di guardie scelte. Tutti dovranno essere vagliati sia dagli uffici del palazzo, per sicurezza, sia dalla tesoreria. E con questo intendo Ay in persona», dissi. «Mi sembra un buon suggerimento», disse Ankhesenamon, «poiché in questo modo coinvolgiamo il reggente nell'organizzazione, invece di escluderlo; sarebbe più pericoloso se lo lasciassimo da parte.» Khay si rese conto di poter solo acconsentire. «Organizzerò insieme a Simut il necessario per rendere sicura la visita a Menfi», disse. «Molto bene», concluse Tutankhamon. Batté le mani. Mi accorsi, per la prima volta, che sembrava davvero felice.
Capitolo 23 Arrivai a casa, ma mi parve deserta. Mi accorsi quanto fosse rara la mia presenza lì durante la giornata; mi sentivo un estraneo, come capita spesso agli uomini nell'ambito domestico. Salutai ad alta voce, ma solo Thot reagì a quel suono e mi venne incontro con la coda alzata. Trovai Tanefert che innaffiava le piante sul tetto. Rimasi in silenzio in cima alle scale, sotto il portico, e la osservai muoversi fra i vasi, calma e assorta. Ha qualche ciocca d'argento nei capelli nerissimi, ma si rifiuta a buon diritto di tingerli o strapparli. Stiamo insieme da tanti anni, più di quelli che ho trascorso prima di conoscerla. So di essere stato fortunato. La vita che conducevo prima di incontrarla mi pare il sogno sbiadito di un altro mondo; e gli anni trascorsi da allora in poi sono una storia nuova che ci ha visto insieme alle ragazze, ormai quasi giovani donne, e a nostro figlio, la sorpresa degli anni maturi. Appoggiò a terra l'innaffiatoio e si stirò la schiena: i numerosi braccialetti scintillarono scivolando sul braccio e tintinnarono sulla pelle liscia. Per un momento pensai che corrispondevano agli anni trascorsi insieme, perché a ogni anniversario di matrimonio gliene avevo regalato uno. Si accorse della mia presenza. Sorrise con aria interrogativa alla mia insolita comparsa a quell'ora. Mi avvicinai a lei. Restammo vicini, fianco a fianco, il mio braccio intorno alla sua spalla, a guardare il panorama della città, senza parlare. Era il tardo pomeriggio, il sole aveva attraversato il Grande Fiume e ora splendeva sulla riva occidentale. Da lì vedevamo tutti i tetti del nostro quartiere, stipati di biancheria appesa ad asciugare, di verdure messe a seccare sui graticci, di mobili scartati o riutilizzati, di gabbie di uccelli. «Le tue piante sono rigogliose», iniziai, tanto per rompere il silenzio.
«A loro servono solo acqua e sole, e un po' di cura...» Mi lanciò uno dei suoi espressivi sguardi, ma non aggiunse altro. Mi aveva già letto in viso, come sempre, ma non voleva che me la cavassi a buon mercato. Aspettò, giocherellando con una foglia scura e arricciata. Mi chiesi come arrivare al dunque nel migliore dei modi. «Devo andarmene per qualche giorno.» Continuò a guardare l'orizzonte, godendosi la fresca brezza leggera che spirava da nord. Sciolse i bei capelli neri, li scrollò e li fece spiovere sul viso un momento prima di lisciarli, tirarli indietro di nuovo e stringerli in un nodo lucido. La attirai a me con dolcezza e la tenni stretta, ma rimase rigida fra le mie braccia. «Non cercare di rendere le cose facili. Ho paura.» La strinsi ancora di più e si rilassò un poco. «Non c'è niente al mondo che mi stia più a cuore di te e dei nostri figli. Khety ha l'ordine di badare a voi e di aiutarti in caso di necessità.» Annuì. «Per quanto tempo sarai lontano?» «Forse dieci giorni... quindici al massimo.» «L'ultima volta hai detto la stessa cosa. E avevi promesso di non farlo più.» «Mi dispiace. Credimi, non ho scelta.» Mi lanciò uno dei suoi sguardi più tristi. «C'è sempre un'altra possibilità.» «No, ti sbagli. So di non avere scelta. Mi sento preso in trappola da una situazione che non riesco a controllare. Ogni mio passo, in qualsiasi direzione, mi stringe sempre di più nella morsa.» «Ho paura dei colpi alla porta. Ho paura di aprirla e trovarmi davanti un tetro messaggero del Medjay con la faccia di circostanza, che si prepara a darmi la brutta notizia», ribatté. «Non succederà. So badare a me stesso.» «Non si può mai sapere. Questo è un mondo troppo pericoloso. So anche che ti senti vivo come non mai quando sei in mezzo ai pericoli.» Non potei ribattere. «Dove andrai?»
«A caccia.» Si mise a ridere, suo malgrado. «Parlo sul serio. Accompagno il re nei terreni di caccia, a nord di Menfi.» Il suo viso tornò a oscurarsi. «Perché?» Scendemmo le scale e ci sedemmo nell'ombra silenziosa del nostro piccolo cortile. Thot ci osservò dal suo angolo. I rumori del mondo i venditori ambulanti, i bambini che gridavano, le madri che urlavano a loro volta - ci giungevano attutiti. Le raccontai ogni cosa. «Ankhesenamon...» «Sì?» «Ti fidi di lei?» Esitai, e lei se ne accorse. «Sii prudente», disse. Stava per aggiungere qualcos'altro, quando la porta che dava sulla strada si spalancò di botto e udii Thuyu e Nedjmet lungo il vialetto che litigavano per qualcosa di estremamente importante. Nedjmet si gettò con tutto il peso su Thot che sonnecchiava, ma l'animale aveva imparato a sopportare i suoi goffi abbracci. Thuyu ci abbracciò entrambi e si dondolò contro le mie ginocchia mangiando un frutto. Ammirai la sua grazia snella e i suoi capelli lucenti. Tanefert andò a prendere l'acqua per le bambine. La seconda delle mie figlie mi disse in poche parole quello che aveva in mente. «Non sono sicura di volermi sposare.» «Perché no?» «Perché so scrivere, pensare e badare a me stessa.» «Questo non vuol dire che tu non possa incontrare qualcuno e amarlo...» «Perché scegliere di amare una persona sola quando ce ne sono tante?» Le accarezzai i capelli.
«Perché l'amore è una decisione, mia cara.» Ci pensò su. «Dicono che invece abbia un potere irresistibile.» «Quello è l'innamoramento. L'amore vero è un'altra cosa.» Aggrottò la fronte dubbiosa. «Perché è diverso?» A quel punto Tanefert tornò con la brocca dell'acqua, ne versò quattro coppe e rimase in attesa della mia risposta. «L'innamoramento è romantico e meraviglioso ed è un periodo straordinario della vita. Quando sei innamorato, non ti importa di nient'altro. Ma il dono autentico è vivere amando, anno dopo anno, in una vera unione.» Thuyu ci guardò, alzò gli occhi al cielo e disse: «Mi sembra una roba da vecchi». Scoppiò a ridere e bevve l'acqua. La domestica portò fuori Amenmose che si era svegliato dal sonnellino pomeridiano, perché godesse l'aria della sera che iniziava a rinfrescare. Sporse le braccia, mezzo addormentato e scontroso, per farsi prendere in braccio; lo issai sulle spalle perché potesse sbatacchiare il suo bastoncino sulle gabbie degli uccelli. In men che non si dica li aveva scatenati in un frastuono di canti inviperiti. Lo rimisi a terra e gli diedi un pezzetto di dolce al miele e un po' d'acqua. Ritornò anche Sekhmet, che ci raggiunse e prese sulle ginocchia il fratellino per giocare con lui. Tornò a casa anche mio padre, dopo il torneo pomeridiano di senet con gli amici. Ci salutammo e andò a sedersi al suo solito posto sulla panca, guardandoci dall'angolo in ombra col suo viso rugoso. Le ragazze gli sedettero accanto chiacchierando. Tanefert iniziò a pensare alla cena e diede istruzioni alla domestica, che si inchinò e sparì nella dispensa. Presi un piatto di fichi e versai una piccola coppa di vino dell'oasi di Dakhla per me e per mio padre. «Un'offerta agli dei», disse alzando il bicchiere e sorrise con i saggi occhi dorati, osservando la quieta tristezza di Tanefert. Mi guardai intorno, osservando la famiglia riunita nel cortile di casa in una sera qualsiasi, e alzai a mia volta la coppa in offerta agli dei che mi avevano fatto dono di tanta felicità. Mia moglie aveva ragione. Perché rischiare il mio presente, qui e ora, per il gusto
dell'ignoto? Eppure mi chiamava e non seppi dirgli di no.
PARTE SECONDA
Ieri appartiene a me, conosco il domani Il Libro dei Morti Formula 17
Capitolo 24 Il sole era scomparso dietro ai tetti piatti del Palazzo di Malkata e l'ultima luce del giorno abbandonava le valli. L'altopiano del deserto occidentale, lungo e basso, brillava di rosso e oro alle nostre spalle. Il grande lago, calmo in modo innaturale, nero argentato come ossidiana levigata, rifletteva il cielo scuro, agitandosi solo di tanto in tanto in languide increspature per il tonfo di un pesce gatto. Simile allo scafo arrotondato di una barca bianca, la luna calante era sospesa sul paesaggio nel cielo indaco che si andava scurendo, mentre cominciavano ad apparire le prime stelle. I servi accesero lampade e torce sulla darsena, facendola risplendere di chiazze indistinte di luce arancio. Gli oggetti indispensabili al viaggio reale furono caricati con laboriosa lentezza sulla nave di stato, la Diletta di Amon. Le curve lunghe, eleganti dell'imbarcazione culminavano nella prua decorata e negli ornamenti intagliati della poppa dalle splendide proporzioni; le scene particolareggiate che abbellivano i padiglioni mostravano il re che calpestava i nemici in battaglia, le grandi vele erano ammainate, i lunghi remi, rovesciati nell'attesa, erano appoggiati agli alloggiamenti, i falchi reali che sormontavano l'albero aprivano le ali dorate alla luce argentea della luna. L'intera costruzione sembrava in perfetto equilibrio sulle acque immobili del lago. Ormeggiata lì accanto, vi era una seconda imbarcazione altrettanto bella, la Stella di Tebe. Erano due splendide navi, mezzi di trasporto che superavano le imbarcazioni progettate da qualunque altra civiltà, dotate di ogni raffinatezza, costruite con le profonde conoscenze dell'arte navale per trarre vantaggio dagli elementi immutabili del vento e dell'acqua: le correnti fluviali che sospingono perennemente verso il delta, o, al ritorno, gli affidabili venti settentrionali che ci riportano a casa. Ero preoccupato. Il viaggio che, nelle mie speranze, sarebbe stato un episodio rapido e di dimensioni relativamente ridotte, era
diventato un esercizio di arte della politica e delle apparenze. Avrei dovuto immaginare che non sarebbe stato facile. C'erano stati incontri confidenziali, accompagnati da discussioni e da una fitta corrispondenza tra gli uffici reali, il reparto della sicurezza e pressoché ogni altro dipartimento governativo, in merito a qualunque aspetto del viaggio, dall'allontanamento del re dai doveri e dalle esibizioni del potere alle lunghe dispute tra i diversi ministeri sulla lista dei passeggeri, le scorte, l'indispensabile mobilio e il programma ufficiale. Ogni punto era stato oggetto di controversia. Ay si era occupato di tutto quel caos. Non lo vedevo dalla proclamazione nel tempio, ma pareva fosse favorevole all'idea della caccia. Era stato stabilito che Ankhesenamon restasse a Tebe a rappresentare gli interessi del re nella conduzione del governo. Sarebbe rimasto anche Ay. Ogni sua azione, fino a quel momento, lasciava pensare che fosse favorevole alla proclamazione del re. Ero preoccupato anche per il ragazzo. Nakht mi disse che migliorava lentamente e che non avrei dovuto aspettarmi di più. «Accetta il peggio, accontentati del più piccolo progresso, tratta il successo come un impostore», mi aveva detto in tono sentenzioso, quando avevo fatto una sosta nella sua residenza urbana per conoscere le condizioni del ragazzo. Immobilizzato dalle stecche e dalle bende di lino con cui il mio vecchio amico cercava di sanare le sue spaventose ferite, sembrava quasi mummificato. Mi ero accorto che, per fortuna, i segni dei punti sul suo viso stavano facendo la crosta ed erano in via di guarigione. Naturalmente non mi vide ma, quando gli parlai, capii dal suo viso che mi aveva riconosciuto. «Ti ricordi di me?» gli domandai con tono tranquillo. Annuì. «Devo andare, ma ti lascio alle cure di questo gentiluomo. Si chiama Nakht. Si occuperà di te fino al mio ritorno. Non aver paura. È una persona perbene. Quando tornerò, parleremo. Mi capisci?» Era riuscito, infine, ad annuire ancora, lentamente. Non potevo far altro ma, a dispetto di ogni previsione, era ancora vivo. Il richiamo acuto, lamentoso e sdegnato delle anatre, dei polli e
delle capre che venivano condotti, eccitati e in preda al panico, per essere caricati vivi sulle navi, mi riportò al presente. Squadre di schiavi trasportavano una cassa dopo l'altra di provviste, già macellate e conservate sotto sale nelle ceste e nelle scatole. Portavano intere carcasse, ossa bianche, opache nei tranci di morbida carne scura. Scorte di frutta e verdura, sacchi di cereali, vasellame placcato d'argento, pezze di fine tela di lino, calici e coppe... pareva che stessimo partendo per andare a trovare l'eternità. Un sorvegliante sovrintendeva le operazioni avanzando con passo imperioso tra le squadre dei lavoratori, spuntando le voci su un lungo papiro dove era stato elencato con cura tutto ciò che sarebbe potuto servire. Mi presentai e gli chiesi di illustrarmi tutto quello che veniva caricato. Annuì e mi fece cenno di seguirlo nei magazzini. «Le provviste sono solo per il re e il suo seguito. Quelle per le truppe e la schiera di inservienti le stanno immagazzinando su un'altra nave da trasporto che precederà le navi reali e predisporrà ogni sera il necessario per l'arrivo del re», disse. Si girò bruscamente tra due guardie ed entrò in un magazzino dove le provviste formavano alte cataste. «E questo è l'equipaggiamento reale.» Si piantò con le mani sui fianchi ed esaminò il tutto con occhio esperto. I servi entrarono in silenzio, e con il suo permesso, e dietro sue istruzioni, cominciarono a portar fuori ogni cosa. C'erano quattro carri e un vasto assortimento di armi: casse con intarsi di legno e oro piene di frecce, archi, spade, pugnali, giavellotti, fruste. E l'occorrente per il benessere reale: ventagli, sedie, sgabelli da viaggio, letti, scatole, troni, baldacchini, lucerne e coppe di alabastro, calici d'oro, corredi di vesti ufficiali, biancheria da cerimonia, gioielli, collari, trucco, unguenti e oli. I tanti pezzi erano decorati con i materiali più preziosi, o foggiati con i legni più pregiati. Ma, accatastati sulla banchina, al buio, illuminati solo dalle torce che tremolavano alla fresca brezza della notte che ora spirava dalla Terra Rossa, sembravano più che altro gli accessori di un dio senza dimora. Quanta roba per un viaggio così breve; non c'era da meravigliarsi che Ankhesenamon si sentisse soffocata dai gravami
della regalità, e dalle pretese di tanto oro. Li lasciai al loro lavoro. Tornai alla nave per veder accompagnare a bordo, tenuto alla catena, il giovane leone addomesticato del re che fiutava l'aria sconosciuta della notte e dava strattoni al guinzaglio tanto corto. L'animale era splendido, le spalle e la testa oscillavano sinuosamente mentre si muoveva a passi felpati sul ponte verso la comodità della gabbia lussuosa che gli avevano preparato a poppa. Si sistemò leccandosi le morbide zampe e gettando uno sguardo serio al vasto mondo notturno, così vicino, eppure inaccessibile oltre le sbarre impenetrabili. Sbadigliò, come se accettasse l'ineluttabilità della comoda prigione, e sistemò la testa per assopirsi. Ma poi drizzò le orecchie e si voltò a guardare quel po' di trambusto che si era creato sulla banchina. Seguì un breve squillo di tromba. La figura snella, elegante del re apparve alla testa di un seguito di guardie e funzionari. Alle sue spalle c'era Ankhesenamon a capo coperto. Si scambiarono pubblicamente un garbato addio e vidi Ay piegarsi per sussurrare qualcosa all'orecchio del re. Khay rimase riguardoso in disparte, come se sperasse che ci fosse bisogno di lui. Poi Simut, in alta uniforme, invitò il re a salire a bordo. Accompagnato dalla scimmietta dorata, Tutankhamon percorse con attenzione ed eleganza la passerella, esile e circospetto nel suo abito bianco, simile a un ibis che si apra un varco tra le canne della palude. Salito sul ponte, si voltò e fece un gesto in direzione di chi era rimasto a terra. Fu uno strano momento in cui sembrò che volesse tenere un discorso o salutare come un bambino. Tutti rimasero in silenzio, in attesa di qualcosa. Poi, come se non gli venisse in mente altro, fece un semplice cenno con il capo e scomparve in fretta negli alloggiamenti. Ankhesenamon mi fece cenno di avvicinarmi, mentre Ay era impegnato in una discussione con il capitano della nave. «Occupati di lui», disse pacatamente, facendo ruotare senza sosta gli anelli d'oro sulle dita delicate e curate alla perfezione. «Mi impensierisce la vostra incolumità a palazzo. Con Ay...»
Mi lanciò un'occhiata. «Sono abituata a star sola. E, a quanto pare, Ay ha deciso di appoggiare ciò a cui non si può opporre», mormorò. «Davvero?» «Mi fido di lui quanto mi fiderei di un cobra. È quasi più sconcertante averlo come alleato di facciata che come nemico dichiarato. Ma è appoggiato dai ministri e dai sacerdoti. Secondo me, crede di poterci ancora manovrare secondo i suoi grandi disegni.» «Non è altro che un uomo pragmatico. Deve aver capito all'istante che opponendosi, invece di collaborare, avrebbe reso le cose più difficili. Detiene ancora molti poteri, tuttavia...» dissi pesando le parole. Annuì. «Non commetterò l'errore di sottovalutarlo o di fidarmi di lui. Adesso però c'è un certo equilibrio. L'espletamento pubblico dei suoi poteri deve essere mediato dal re. D'altro canto, io e lui abbiamo un nemico in comune.» «Horemheb?» «Lui in persona. Il re è ancora senza malizia nei confronti del generale. Sono sicura che dovunque si trovi, starà ideando la prossima fase della sua campagna per la conquista del potere. Fa' attenzione a Menfi, perché quella è la sua città, non la nostra.» Ero sul punto di replicare quando Ay, un vero maestro nell'arte di comparire nei momenti in cui la sua presenza era meno auspicabile, ci interruppe. «Hai l'autorizzazione e i documenti?» domandò col suo fare imperioso. Feci un cenno affermativo. «Il re ha pronunciato il suo proclama e i fedelissimi hanno appoggiato le sue ambizioni. Adesso è indispensabile che la caccia reale abbia un esito positivo. Sarebbe assai deludente se non tornasse con un leone come trofeo», proseguì in tono più confidenziale. La sua voce era asciutta come la sabbia.
«Non so come si cacciano i leoni. Il mio dovere è vegliare sulla sua incolumità e il suo benessere, riportarlo qui e assicurargli un futuro», dissi. «Farai quanto ti è stato ordinato. Se fallisci, pagherai un prezzo molto alto.» «Cosa intendete?» «Non credo che le mie parole possano essere fraintese», replicò, forse sorpreso dall'innocenza della domanda. Senza aggiungere altro, si inchinò e propose ad Ankhesenamon di prepararsi alla partenza della nave. I rematori, una sessantina, impugnarono i remi appoggiati alle falchette e, tra il rullo dei tamburi, cominciarono, a prezzo di grandi sforzi, ad allontanare la nave dalla banchina. Nella distanza che a poco a poco ci separava vidi Ankhesenamon assistere insieme ad Ay alla nostra partenza. Senza un saluto, scomparve nel palazzo scuro come una figura evanescente che ritorni al mondo sotterraneo. Ay rimase a guardare finché non scomparimmo alla vista. Abbassai gli occhi sull'acqua nera, che mulinava e girava vorticosamente, spinta da segrete correnti, come se un mago rimescolasse gli strani casi della sorte e le tempeste del fato.
Capitolo 25 Simut mi raggiunse a poppa della nave dorata mentre la città scompariva. Tebe, dov'ero nato e avevo vissuto, scura sotto il cielo notturno, con le ombre dei sobborghi e dei tuguri, le alte mura a precipizio dei templi e i pilastri di un bianco immacolato là dove si offrivano alla luna; malgrado le tante vite che conteneva, mi sembrò vuota, in equilibrio precario, fatta di canne e papiro, come se un alito di vento maligno bastasse a farla crollare. L'immaginazione vince la distanza, mi resi conto; ma il cuore no. Pensai ai bambini addormentati, a Tanefert che, sveglia nel nostro letto, la candela ancora accesa sul tavolo accanto, mi vedeva con gli occhi della mente mentre mi allontanavo sulla nave dorata. Avevo deciso di lasciarle Thot perché di notte facesse la guardia alla casa. Sembrava che la mia partenza l'avesse sconfortato, quasi sapesse che l'abbandonavo per un po' di tempo. «Hai una famiglia?» domandai a Simut. «Non ce l'ho. Quando cominciai a prestare servizio, feci una scelta. Da piccolo non ho avuto una vera famiglia e quel poco che avevo non mi è stato di nessun aiuto. Capii che da adulto non ne avrei sentito la mancanza. L'esercito è stato la mia famiglia. Tutta la mia vita. Non ho rimpianti.» Non mi aveva mai parlato tanto a lungo. Dopo una pausa, come se avesse valutato se arrischiarsi a fare una confidenza anche più intima, disse: «Penso che sarà più difficile proteggere il re durante questo viaggio. A palazzo avremmo avuto la situazione sotto controllo. Avremmo potuto regolare gli ingressi, garantire la sicurezza... quaggiù può succedere di tutto». Ero d'accordo con lui, eppure eravamo lì, travolti da eventi che non potevamo controllare. «Hai saputo qualcosa dall'Architetto capo del tempio riguardo alla profanazione dei rilievi?» domandai. «Mi ha detto che nelle ultime settimane dei lavori regnava il caos.
Erano in ritardo, i rilievi procedevano con lentezza e lui ha dovuto assegnare l'incarico a nuovi artigiani, scelti su segnalazione dell'artista incaricato di realizzare l'opera. Per la fretta, sono saltate alcune procedure di controllo, molti operai e artigiani non sono stati registrati e adesso, ovviamente, nessuno si assume la responsabilità dei rilievi... non deve essere stato difficile per una canaglia intrufolarsi nel cantiere...» Guardò biecamente lo scuro fogliame sulle rive, come se dietro ogni palma fossero appostati assassini invisibili. «Nemmeno io sono contento di questa missione. Menfì è un nido di serpi...» «Lo so bene. Mi hanno addestrato lì. Per fortuna, ho degli alleati in città», disse. «Cosa pensi di Horemheb?» domandai. Fissò il fiume scuro. «Come soldato, penso che sia un ottimo generale. Non potrei dire la stessa cosa delle sue qualità umane...» Proprio allora si avvicinò un sottufficiale che, fatto il saluto a Simut, si rivolse a me: «Il re ha chiesto di vederti». Fui ammesso negli appartamenti reali. Per rendere ancor più riservato lo spazio destinato alle udienze, erano state tirate delle tende pesanti. Non c'era traccia del re né della sua scimmia. Lo spazio, illuminato da profumate lampade a olio, era stato abbellito con ricchezza ed eleganza. Osservai lo spiegamento di tesori, ciascuno dei quali sarebbe bastato a mantenere una famiglia per tutta la vita. Presi un calice di alabastro a forma di loto bianco. Le iscrizioni in caratteri geroglifici erano nere e terse. Le lessi ad alta voce:
Viva il tuo ka e possa tu trascorrere milioni di anni, amante di Tebe,
col viso rivolto al fresco vento del Nord in contemplazione della felicità. «È una bellissima poesia», disse il re con la sua voce lieve, acuta. Era entrato senza che me ne rendessi conto. Rimisi a posto il calice con attenzione. Mi inchinai e gli augurai pace, salute e prosperità.
«' Viva il tuo ka...' Un'espressione enigmatica e bellissima. Ho
sentito dire che in passato anche tu scrivevi poesie. Secondo te, che cosa significa?»
«Il ka è la forza misteriosa che anima il tutto, che vive dentro ciascuno di noi...» «E ciò che ci distingue dai defunti e dalle cose morte. Ma in che modo si vive fino in fondo il proprio ka?.» Riflettei. «Penso che sia un'invocazione a vivere nella conoscenza di quella verità e, in tal modo, se dobbiamo credere alla poesia, ottenere la felicità, vale a dire la felicità eterna. 'Milioni di anni..'» Sorrise, scoprendo i piccoli denti perfetti. «È davvero un gran mistero. Io, per esempio, sento di star vivendo finalmente e sino in fondo il mio ka. Questo viaggio e la caccia sono il mio destino. Ma tu credi ai sentimenti che esprime la poesia?» domandò. «Ho dei problemi con la parola felicità. Sono un funzionario del Medjay. Non mi capita di assistere a molte manifestazioni di felicità. Ma, forse, la cerco nei posti sbagliati», replicai con cautela. «Il mondo ti sembra duro e pericoloso.» «È così», ammisi. «La ragione è dalla tua parte», replicò, «ma io continuo a credere che potrebbe essere diverso.» Si sedette sull'unica sedia della stanza. Come ogni altro oggetto non era una sedia qualsiasi, ma un piccolo trono d'ebano, rivestito parzialmente di foglia d'oro e con intarsi geometrici di vetro e pietre colorate. Fui sorpreso nell'intravedere, prima che si sedesse, che il trono era sormontato dal disco di Aton, simbolo del regno e del
potere del padre, proibito ormai da tempo. Sistemò le pantofole sul poggiapiedi intarsiato e sulla raffigurazione dei nemici dell'Egitto che vi compariva, i prigionieri in ceppi, e mi fissò con insolita intensità. «Sei sconcertato da questo trono?» «È un oggetto magnifico.» «L'hanno fabbricato per me all'epoca di mio padre.» La scimmia gli salì in grembo e mi guardò con occhi umidi e nervosi. Schiamazzò quando il re le carezzò la testolina. Le diede una noce. Tastò il bell'amuleto di protezione appeso con una catena d'oro al collo dell'animale. «Quel simbolismo non è più consentito», commentai, pesando le parole. «No. È proibito. Ma non tutti gli elementi della rivelazione di mio padre erano sbagliati. Sei l'unico con cui abbia voglia di parlarne, non è strano? Sono stato allevato secondo i dettami della sua religione e, forse, per questo mi sembra vera, se non alla lettera almeno nello spirito; legittima quanto la verità che serbiamo nel cuore.» «Ma siete stato voi a metterla al bando, signore.» «Non avevo scelta. Le correnti della storia si erano volte a nostro sfavore. Ero solo un bambino. Ay ebbe la meglio e, a quei tempi, aveva ragione lui. Come avremmo potuto altrimenti riportare l'ordine nelle Due Terre? Ma nel segreto del mio cuore e della mia anima, venero ancora l'unico Dio, il Dio della Luce e della Verità. So di non essere il solo.» Quella dichiarazione sorprendente non era senza conseguenze. Il re confessava la sua adesione a una religione illegale, benché in suo nome ne fossero state distrutte le icone e allontanati i sacerdoti. Mi chiesi se la stessa Ankhesanamon fosse coinvolta. «Permettimi di dirti, Rahotep, che sebbene la sconfitta e l'uccisione di un leone, il più nobile degli animali, rientri tra i doveri di un re, personalmente non nutro alcun desiderio di compiere un'azione simile. Perché dovrei uccidere una creatura tanto meravigliosa, con uno spirito così indomito? Preferirei osservarne la potenza e la grazia e imparare dal suo esempio. Mi capita, in sogno, di avere il corpo
possente di un leone e la testa saggia di Thot con cui riflettere. Al mio risveglio, però, rammento chi sono. E, solo un attimo dopo, ricordo di essere il re e che quello è il mio dovere.» Si fissò le membra come se non gli appartenessero. «Un corpo vigoroso è privo di senso se non è energica la mente.» Sorrise quasi con dolcezza, come se avesse apprezzato il mio goffo tentativo di adularlo. D'improvviso mi venne la strana idea che potessi piacergli. «Parlami di mio padre», disse indicandomi uno sgabello basso dove avrei potuto sedermi ai suoi reali piedi. Ancora una volta mi aveva colto di sorpresa. La sua mente si muoveva lungo percorsi insoliti, a scatti repentini e imboccando vie oblique, per associazione, come un granchio. «Che cosa volete sapere?» replicai. «Il suo ricordo si attenua ogni giorno che passa. Mi tengo strette certe immagini, ma sono come un vecchio telo di lino ricamato: il colore sbiadisce, il ricamo è sfilacciato e temo che ben presto mi abbandonerà.» «Penso che fosse un grand'uomo con una nuova visione del mondo. Per fare quello che fece serviva molto coraggio e volontà politica. Penso, tuttavia, che avesse un'opinione troppo elevata delle capacità umane di perfezionarsi. Fu questo il difetto della sua rivelazione», dissi. «Non credi neppure nella perfezione?» Scossi la testa. «Non in questa vita. L'uomo è per metà dio, ma per metà anche animale.» «La tua è una visione scettica. Gli dei hanno tentato molte volte di creare un'umanità perfetta, ne sono rimasti sempre scontenti e hanno buttato via la loro opera abbandonando il mondo al caos. Credo che a mio padre sia successa la stessa cosa. Ma c'è dell'altro. Ricordi? Il dio Ra, dalle ossa d'argento e la pelle d'oro, i capelli e i denti di lapislazzuli, e l'occhio dalla cui visione è nata l'umanità, vide la perfidia nel cuore degli uomini e inviò Hathor, nella forma di
Sekhmet la vendicatrice, perché trucidasse chi tramava contro di lui. Dentro di sé, tuttavia, Ra provava pietà per le sue creature. Allora cambiò parere. Ingannò la dea, creò la deliziosa birra rossa divina, e Sekhmet si ubriacò senza capire che non era il sangue dell'umanità a macchiare il deserto; fu così che, grazie alla compassione di Ra, sopravvivemmo alla vendetta di Sekhmet.» Carezzò la scimmia personificazione di Ra.
come
se
fosse
l'umanità
e
lui
la
«Ti stai chiedendo perché ti ho raccontato questa storia», continuò con pacatezza. «Forse me la raccontate perché non siete vostro padre. E forse perché pur desiderando la perfezione, egli portò questo mondo sull'orlo di una terribile catastrofe. E forse perché, nella vostra compassione, voi invece desiderate salvarlo dalla sventura», dissi. Mi fissò. «Probabilmente è quello che avevo in mente. Ma che cosa pensi di Hathor e del suo amore per il sangue?» «Non saprei», risposi con una buona dose di sincerità. «Credo che a ogni evento segua un castigo. Un delitto genera un delitto e questo, a sua volta, genera un altro delitto, fino alla fine dei tempi. Come facciamo a rompere la catena, questo labirinto di vendetta e sofferenza? Con un gesto di insolito perdono... ma gli esseri umani sono capaci di mostrare tanta compassione? No. Non sono ancora stato perdonato per i delitti commessi da mio padre. Forse non lo sarò mai. E se le cose stanno così, dovrò dimostrare di essere migliore di lui. Siamo qui che viaggiamo nelle tenebre, circondati dalla paura, perché io possa riportare trionfante un leone selvaggio. Forse allora sarò re per il mio valore e non in quanto figlio di mio padre. È un mondo strano. E tu sei qui per proteggermi, come l'Occhio di Ra.» Frugò tra le vesti e ne estrasse un anello, adorno di un piccolo Occhio di protezione di squisita fattura. Me lo diede. Lo misi al dito e mi inchinai per ringraziarlo. «Ti dono l'Occhio onniveggente affinché la tua vista sia penetrante come quella di Ra. I nostri nemici viaggiano con la
rapidità delle ombre. Sono sempre con noi. Devi imparare a vedere nel buio.»
Capitolo 26 Le forti correnti ci fecero avanzare spingendoci sempre a nord, verso Menfi. Simut e la sua guardia vegliarono dandosi il cambio. Ero inquieto, incapace di dormire, e su quelle acque mi sentivo preso in trappola. Ogni volta che il re usciva a prendere aria, il che non accadeva spesso, facevamo in modo di trovarci lontano dai villaggi. Eppure, ogni campo, ogni palmeto celava un possibile pericolo per noi, che costituivamo un bersaglio vistoso. Vidi villaggi poverissimi, stretti sotto l'ombra delle palme da dattero, dove bambini nudi e cani sciamavano per le strade di fango, storte e anguste, e le famiglie si accalcavano l'una sull'altra insieme ai loro animali in alloggi di una sola stanza, che non erano molto meglio delle stalle. Nei campi le donne, nelle loro vesti miracolosamente luminose e pulite, coltivavano le file, di purissimo verde e oro, dell'orzo e del grano, delle cipolle e dei cavoli. La scena era pacifica e idilliaca, ma nulla è come sembra: quelle donne avrebbero lavorato dall'alba al tramonto solo per pagare la tassa sui cereali che dava loro il diritto di lavorare la terra, presa probabilmente in affitto da una famiglia dell'aristocrazia che viveva tra gli agi in una proprietà lussuosa e riccamente arredata di Tebe. Dopo tre giorni di navigazione, ci accostammo alla città semideserta di Akhenaton. Mi misi a prua per osservare le falesie rosse, grigie e accidentate alle spalle della città. Qualche anno prima quello era stato il luogo del grande esperimento di Akhenaton: la nuova capitale, bianca e scintillante, del futuro; alte torri, templi aperti dedicati al sole, uffici e aree residenziali di ville sontuose. Ma da quando era morto il padre del re, i funzionari a poco a poco erano tornati a Tebe o a Menfi. Poi era arrivata la peste, come una calamità provocata dalla vendetta, e aveva ucciso a centinaia coloro che erano rimasti, ormai privi di lavoro e senza un altro posto dove andare. Correva voce che la peste avesse ucciso le altre figlie di Akhenaton e Nefertiti, scomparse dalla vita pubblica. Si diceva che la
città, a parte alcuni funzionari di stanza, fosse perlopiù in stato di abbandono e stesse cadendo in rovina. Ma con mia grande sorpresa, e interesse, Simut mi informò del desiderio del re di visitarla. Fu così che all'alba del mattino seguente, non appena i primi uccelli cominciarono a cantare e la foschia del fiume si spostò fredda e incorporea sulle sinuose correnti dell'acqua scura, e mentre le ombre della notte si allungavano ancora sulla terra, scendemmo dalla nave ancorata - accompagnati da una schiera di guardie - e mettemmo piede sulla terra arida della storia. Il re era in abito bianco, con la Corona azzurra e un bastone da passeggio d'oro culminante in un pomo di vetro. Davanti e dietro aveva un plotone di guardie corazzate che impugnavano armi lucenti per far fuggire dallo spavento qualsiasi contadino fosse rimasto abbacinato dall'inattesa visita proveniente da un altro mondo. Ci avviammo verso il centro della città passando per i sentieri deserti che, solo qualche anno prima, erano stati vie di intenso traffico. Superati i confini della città, vidi con un colpo d'occhio lo stato di abbandono in cui versava: le mura, un tempo dipinte di fresco, erano scolorite in un polveroso grigio e marrone. I giardini eleganti, così curati in passato, erano ricoperti di erbacce e le piscine dei ricchi erano vuote e incrinate. I pochi funzionari e servi si recavano ancora al lavoro per le strade deserte, ma pareva che si muovessero in modo disordinato, e si fermarono di colpo a fissarci sbalorditi, per poi cadere in ginocchio quando il re passò loro accanto. Imboccammo la strada reale. I raggi del sole avevano superato l'orizzonte e fece caldo all'istante. Quella che era stata la via cerimoniale, spazzata alla perfezione per l'arrivo di Akhenaton e della famiglia reale sui cocchi d'oro, adesso era una strada vuota popolata da spettri e dalla polvere trasportata dal vento. Arrivammo al primo pilastro del Grande Tempio di Aton. Le altissime mura di mattoni di fango si stavano sgretolando. I lunghi stendardi vivaci che avevano garrito al vento del Nord erano a brandelli e la forza del sole li aveva sbiancati e privati di ogni colore. L'alto portone di legno penzolava dai cardini arrugginiti. Una delle guardie ne aprì con forza le ante, che emisero il riluttante scricchiolio del legno stagionato. Attraversammo l'ampia corte. Un tempo
doveva essere stata stipata da centinaia di tavoli per le offerte e frequentata da migliaia di adoratori vestiti di bianco lucente che, in obbedienza al nuovo rito del sole, tenevano le mani alzate reggendo frutta e fiori, e persino neonati che esponevano ai raggi della sera. Le tante statue di pietra di Akhenaton e Nefertiti fissavano ancora l'ampio spazio, ma da vedere non c'era altro che abbandono, il fallimento della loro grande visione. Qualche statua era caduta e giaceva a faccia in giù o in su, fissando senza occhi il sole. Il re avanzò facendoci capire che voleva rimanere solo per qualche istante. Restammo indietro, cercando di sorvegliare il luogo, e Simut sussurrò: «La città sta ridiventando polvere». «Credo che lo sia sempre stata.» «Manca solo l'acqua», fu la sua cupa battuta. La sua arguzia inattesa mi fece sorridere. Aveva ragione. Bastava aggiungere un po' d'acqua per ottenere il fango, far seccare i mattoni al sole, unire intonaco e pittura, legno e rame dell'isola di Alashiya, oro delle miniere nubiane e anni di fatica, di sangue e di sudore e di morte, provenienti da ogni dove. Emira: l'immagine del cielo sulla terra. Ma il tempo e le ricchezze non erano bastati a scolpire la visione nella pietra eterna e ora la città tornava a essere la polvere con cui era stata edificata. Il re era immobile davanti a un'enorme statua del padre. I lineamenti spigolosi dell'effigie erano stati scalpellati dalle ombre; quelle strane fattezze incarnavano tutte le caratteristiche del potere. Un tempo erano state l'epitome della regalità. Adesso anche lo stile della statua, con le sue insolite, ambigue forme allungate, era tramontato. Il re aveva un'espressione enigmatica mentre sostava, piccolo, fragile e umano davanti alla possanza del padre di pietra, tra le rovine disabitate della sua grande visione. Rimanemmo a osservarlo, chiedendoci se dovessimo unirci a lui. Ma nessuno del suo seguito sembrava disposto a farlo. Poi compì un gesto inatteso: cadde in ginocchio e venerò la statua. Mi avvicinai e gli tenni un parasole sulla testa. Quando alzò lo sguardo, vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime.
Visitammo i palazzi della città e ci imbattemmo nelle tracce singolari dei loro occupanti: sandali spaiati e impolverati, brandelli di tela sbiadita, giare rotte e orci per il vino il cui contenuto era evaporato da tempo, piccoli oggetti domestici quali tazze e piatti ancora intatti, ma riempiti da mucchietti di polvere e sabbia. Vagammo per le alte sale decorate che avevano ospitato opulenza e musica raffinata, e ora accoglievano uccelli nidificatoti, serpenti, ratti e tarli. I pavimenti ai nostri piedi, con i loro raffinati dipinti di giardini con vasche e fontane, pieni di pesci e di uccelli invetriati, erano scoloriti e incrinati dall'attrito incurante del tempo. «Mi tornano in mente episodi che avevo dimenticato. Ero un bambino allora. Sono cresciuto nel palazzo della riva settentrionale, ma ora ricordo che mi portarono in questa stanza.» Eravamo nella sala del grande palazzo vicino al fiume e il re parlava con voce pacata. I lunghi raggi del sole mattutino entravano di sbieco, intensi e pieni di pulviscolo. Una moltitudine di graziose colonne sorreggeva l'alto soffitto ancora vivacemente decorato dall'indaco del cielo notturno e dall'oro brillante delle stelle. «Mio padre parlava poco. Mi metteva soggezione. A volte celebravamo insieme i riti. Ogni tanto mi portavano in sua presenza da solo. Avveniva nelle grandi occasioni. Mi vestivano di tutto punto e mi trasportavano per tanti corridoi silenziosi pieni di brutti vecchi, cupi e inquietanti, che si inchinavano profondamente davanti a me, ma non parlavano mai. Poi venivo introdotto alla sua persona. Spesso mi lasciava in piedi ad aspettare prima di degnarsi di notare la mia presenza. Non osavo muovermi. Ero spaventato.» Non sapevo bene come reagire a quella confessione inaspettata. Decisi di ricambiare l'omaggio. «Anche mio padre era un uomo silenzioso. Mi ha insegnato a pescare. Da bambino, quando veniva il crepuscolo, andavamo per ore alla deriva lungo le sponde su una barca di canne, dopo aver gettato le lenze in acqua, e nessuno dei due parlava; ci godevamo il silenzio.» «È un bel ricordo», disse. «Era una vita semplice.» «' Una vita
semplice..'»
Ripeté le parole con aria nostalgica ed ebbi la certezza che non
aveva mai vissuto una vita semplice. Forse era la cosa che desiderava di più; mentre i poveri anelano alle ricchezze, i ricchi, nella loro tremenda ignoranza, credono di desiderare la semplicità dell'indigenza. Il re fissava la finestra delle apparizioni da cui il padre, sovrastando il suo popolo, aveva porto doni di valore e collari onorifici. Sulla finestra c'era il rilievo del disco di Aton e i tanti raggi del sole si irradiavano come esili braccia, alcuni dei quali terminavano con una mano delicata che offriva Xankh della vita. Ora la finestra era vuota e non c'era più nessuno a ricevere quelle benedizioni. «Ricordo questa sala. Ricordo una gran folla di uomini, e un lungo silenzio. Ricordo che tutti mi fissavano. Ricordo...» Si fermò, incerto. «Mio padre non c'era. Rammento di averlo cercato. Al suo posto c'era Ay. Fui costretto a farmi largo tra la folla insieme a lui ed entrammo in quella camera.» La indicò. «Poi che cosa accadde?» Avanzò lentamente sulle scene fluviali sbiadite dell'ampio pavimento e si diresse verso una porta dai rilievi elaborati con cui avevano banchettato le termiti. L'aprì. Lo seguii all'interno di una lunga stanza. Era stata svuotata dei mobili e di tutto ciò che conteneva. Rimbombava, come tutti i luoghi non abitati da tanto tempo. Rabbrividì. «Dopo quell'episodio, niente fu come prima. Vidi mio padre ancora una volta e quando si accorse della mia presenza, si mise a gridare come un pazzo. Prese una sedia e cercò di fracassarmela in testa, poi si mise seduto a terra, pianse e gemette. Fu l'ultima volta che lo vidi. Capisci? Era impazzito. Si trattava di un terribile segreto, ma io ne ero a conoscenza. Fui portato a Menfi. Ricevetti un'istruzione e vissi con la nutrice; Horemheb divenne il mio tutore. Con me tenne un atteggiamento paterno. Nessuno pronunciò più il nome di mio padre. Era come se non fosse mai esistito. Mio padre non era più una persona. Mi prepararono per l'incoronazione. Avevo nove anni. Mi fecero sposare Ankhesenpaaten. Ci furono
attribuiti nuovi nomi. Io, che per tutta la vita ero stato chiamato Tutankhamon, assunsi il nome di Tutankhamon. Lei divenne Ankhesenamon. I nomi hanno potere, Rahotep. Perdemmo la nostra identità per assumerne un'altra. Eravamo come due piccoli orfani, confusi, smarriti, infelici. Mi era stata data in moglie la figlia della donna che dicevano avesse rovinato mia madre. Ma il destino aveva ancora in serbo una sorpresa, perché lei mi piacque. Siamo riusciti a non odiarci a causa del passato. Sappiamo di non avere colpe. Se vuoi sapere la verità, al mondo non c'è quasi nessun altro di cui possa fidarmi.» Gli luccicavano gli occhi per l'emozione traboccante. Decisi che non potevo rimanere in silenzio. «Chi era vostra madre?» «Il suo nome, come quello di mio padre, è diventato polvere che il vento ha portato con sé.» «Kiya», dissi. Fece un lento cenno d'assenso. «Sono lieto che tu abbia sentito parlare di lei. Se non altro, da qualche parte il suo nome continua a vivere.» «So come si chiamava. Non so nulla della sua sorte.» «Scomparve. Il pomeriggio era ancora lì. La sera era svanita. Ricordo di essere andato di corsa nelle sue stanze, di essermi nascosto in uno dei suoi bauli rifiutandomi di uscire, perché l'odore che serbavano i vestiti era tutto quello che mi restava di lei. Li conservo ancora, benché tutti abbiano provato a convincermi di sbarazzarmene. Non lo farò. Mi capita ancora di cogliere un vago sentore del suo profumo. È confortante.» «Non avete mai scoperto che cosa le accadde?» domandai. «Chi vuoi che mi racconti la verità? Ora i depositari del segreto sono morti. A parte Ay... che non ne farà parola. Mi resta solo il mistero. Mi capita di svegliarmi di notte perché mi ha chiamato in sogno... ma non sento mai cosa dice. Al mio risveglio, l'ho perduta di nuovo.» Un uccello cantò chissà dove tra le ombre. «Non pensi, Rahotep, che i morti continuino a vivere nei sogni? La loro eternità è qui.
Fintanto che viviamo.» Si diede dei leggeri colpetti sul cranio, fissandomi con i suoi occhi dorati.
Capitolo 27 Due giorni dopo, le correnti profonde del Grande Fiume ci portarono nei pressi dei territori meridionali della città di Menfi. Le necropoli antiche, erette ai margini del deserto sopra i coltivi, e il tempio e la piramide di Saqqara, le prime costruzioni eterne edificate nelle Due Terre, erano nascosti nel cuore dell'altopiano. Simut ci parlò di altri monumenti situati ancora più a nord, che dalla prospettiva del fiume non riuscivamo a vedere; le bianche piramidi scintillanti di Cheope e delle sue regine, il tempio di più recente costruzione dedicato a Horus dell'Orizzonte, la grande Sfinge che Tutmosi IV, nella Stele del Sogno, aveva giurato di sgombrare dalle sabbie che la invadevano se fosse diventato re. Avvenimento che ebbe luogo, benché le sue pretese al trono non fossero legittime. Tutto a un tratto Tebe parve un insediamento di piccole proporzioni a paragone della grande metropoli che si dispiegava lentamente davanti ai nostri occhi; veleggiammo a lungo, osservando i tanti siti dei templi lontani dal cuore della città, gli ampi cimiteri che costeggiavano il deserto a ovest, le aree residenziali e le zone abitate dai poveri, quei bassifondi dell'umanità che si sparpagliavano nei caotici quartieri di casupole verso il verde sconfinato dei campi, e ovunque, sovrastando le case, le bianche mura che recingevano i templi. Entrammo nel porto principale attorniati dalle barche e dalle chiatte ufficiali e dalle imbarcazioni grandi e piccole dei privati. La banchina era intervallata dai tanti ormeggi dove i mercantili e le navi delle flotte straniere scaricavano enormi cataste di legname pregiato e cumuli di minerali, pietre e granaglie. Migliaia di persone affollavano le lunghe strade lastricate che correvano parallele al Grande Fiume. I pescatori si fermarono a fissare la magnificenza della nave reale con le reti appena raccolte gocciolanti tra le braccia, mentre i pesci color oro e argento si dimenavano e si dibattevano ancora in fondo alle piccole imbarcazioni. Gli scaricatori impolverati,
immersi fino alle ginocchia nelle grandi quantità di granaglie, o in equilibrio sulle lastre di pietra grezza provenienti dalle cave, ci scrutarono dalle barche da carico. I bambini sorretti dai genitori ci salutarono dai traghetti stipati. Attirati dal rumore, dalle botteghe, dai magazzini e dai negozi comparvero i curiosi. Tutankhamon apparve davanti alla tenda del suo alloggio. Mi fece cenno di raggiungerlo. Si aggiustava nervosamente l'abito. Era abbigliato con la bianca veste reale e indossava la Doppia Corona. «Come sto?» domandò, quasi con timidezza. «Devo fare una bella figura. Sono passati molti anni dall'ultima volta che ho fatto visita a Menfi. E anche da quando ho incontrato Horemheb. Deve capire che sono cambiato. Non sono più il bambino affidato alla sua tutela. Sono il re.» «Signore, non c'è alcun dubbio che voi siate il re.» Annuì soddisfatto, poi, come un grande attore, parve concentrarsi prima di uscire alla luce del sole e, sotto le corone, il suo viso si improntò all'assoluta certezza che solo pochi attimi prima gli era mancata. L'intensità e le esigenze del momento fecero scaturire il meglio da lui. Sbocciò alla prospettiva di avere un pubblico. Sarebbe stata la sua migliore esibizione. L'accompagnatore gli cedette il giovane leone tenuto al guinzaglio e, avanzando, il re penetrò nella luce di Ra tra un boato di acclamazioni. Lo vidi adottare la postura rituale del potere e della vittoria. Con perfetto tempismo, il giovane leone ruggì. La folla, non vedendo che, per farle emettere l'eroico ruggito, la bestia era stata pungolata dal suo diligente custode con la punta acuminata di una lancia, gridò con entusiasmo anche maggiore, come se non fosse composta da singoli individui, ma da un solo, enorme animale. La scena che ci accolse sulla banchina fu un'esibizione attentamente orchestrata e volutamente schiacciante della potenza militare della città. Stendendosi a vista d'occhio, in schiere innumerevoli perfettamente addestrate, sfilarono nell'area a passo di parata una divisione di soldati dopo l'altra. Ciascuna recava il nome del nume tutelare del distretto da cui erano stati reclutati i coscritti e gli ufficiali. Tra le file c'erano migliaia di prigionieri di guerra, ammanettati e legati l'uno all'altro per il collo, insieme alle donne e
ai bambini: libici avvolti nei mantelli, con i riccioli ai lati del collo e il pizzetto, nubiani con i gonnellini e siriaci con le lunghe barbe appuntite, tutti indistintamente costretti ad assumere la postura della sottomissione. Centinaia di bei cavalli, bottino di guerra, danzavano sugli zoccoli eleganti. Gli inviati delle nazioni soggiogate caddero in ginocchio invocando clemenza, affinché fosse risparmiata la vita dei loro popoli. Là, al centro di tutto, vi era una sola figura, in piedi sotto il sole accanto a un trono vuoto, come se ogni elemento di quello spettacolo gli appartenesse. Horemheb, generale degli eserciti delle Due Terre. Lo riconobbi perché era in attesa, dritto come un fuso, immobile come una statua scura. Tutankhamon prese tempo, come un dio, tenendo in attesa i presenti e continuando a godere delle acclamazioni della moltitudine, mentre gli anziani ambasciatori vacillavano nella calura, le masse boccheggiavano alla vista dei venditori d'acqua e di frutta, i funzionari sudavano negli abiti da cerimonia. Infine, accompagnato da Simut e da una falange di guardie reali, il re si degnò di scendere sulla passerella. Le folle rinnovarono le loro grida di giubilo e fedeltà e i dignitari compirono i gesti rituali di rispetto e ossequio. Per parte sua, il sovrano non diede segno di compiacersene o di reagire, come se ai suoi occhi tutta quella parata fosse qualcosa di irreale e ininfluente. A un segnale silenzioso di Simut, le guardie si aprirono a ventaglio, disponendosi come danzatori con le braccia e gli archi ben in vista, mentre il sovrano scendeva sulle pietre bollenti della città. Io e Simut scrutammo le masse e i tetti alla ricerca di un eventuale pericolo. Horemheb attese il momento giusto e, con rispetto, offrì il trono al re. Ma il suo gesto fu arrogante: il sovrano sembrò il meno potente dei due uomini. Nell'espressione fredda di Horemheb c'era un non so che capace di tenere lontane persino le mosche. Si rivolse all'arena acquietata. Si diffuse un silenzio di obbedienza. Parlò con voce stentorea a ogni uomo di quelle migliaia di astanti. «Parlo a sua maestà, Tutankhamon, Signore delle Due Terre. I capi di tutti i territori stranieri, che a lui consegno, implorano che sia risparmiata loro la vita. Questi abietti stranieri, che non conoscono
le Due Terre, depongo ai suoi piedi per sempre ed eternamente. Dalle lontane distese della Nubia alle più remote regioni dell'Asia, sono tutti agli ordini della sua grande mano.» Horemheb appoggiò cautamente il ginocchio a terra, chinò il capo lucente con arrogante umiltà e attese che il re facesse un cenno di riscontro della sua formula rituale. Tutankhamon lo lasciò chino il più a lungo possibile nell'atteggiamento di pubblica deferenza mentre i minuti passavano con la stessa lentezza con cui l'acqua gocciola in un orologio. Ne fui impressionato. Il re stava prendendo il comando della situazione. La folla rimase in silenzio, attenta a quell'abile confronto recitato con il linguaggio delle apparenze e del protocollo. Infine, cogliendo il momento giusto con grande tempismo, il re depose il dono di cinque magnifici collari d'oro attorno al collo del generale. Riuscì a farli sembrare tanto un omaggio elargito per rispetto, quanto il fardello delle responsabilità che pesavano sul generale. Quindi lo fece alzare e lo abbracciò. Il re poi avanzò per ricevere il benvenuto e gli inchini degli altri funzionari come previsto dal protocollo. Infine ascese al trono salendo sulla pedana e portandosi sotto al baldacchino che regalava un po' di sollievo dal calore bruciante del sole sulle pietre. A un comando di Horemheb, ogni divisione, ogni schiera di prigionieri di guerra, fu fatta sfilare davanti a lui. Ci vollero ore. Ma il re mantenne la postura rigida, lo sguardo distante, anche se il sudore colava da sotto le corone inumidendogli la tunica. Ci recammo nell'area centrale della città a bordo dei carri. Io e Simut precedemmo Tutankhamon, affiancato dalle guardie che correvano con le armi lampeggianti nel sole a perpendicolo. Mi accorsi che gli edifici e le sedi amministrative somigliavano a quelli di Tebe, ma li superavano per numero: per mancanza di spazio, le residenze urbane erano state costruite in senso verticale, e nei vicoli c'erano le umili dimore di chi prestava servizio nell'esercito, l'istituzione predominante della città; sulle strade caotiche si aprivano le stanze che erano al tempo stesso luoghi di lavoro, stalle e abitazioni. La gente era stata allontanata dalle strade reali e dalle superfici lastricate delle vie sacre, fiancheggiate da sfingi, obelischi e
cappelle, e ci dirigemmo rapidamente al Palazzo di Menfi. Sovrastando il rumore secco che producevano le ruote sui solchi, Simut indicò i siti famosi: a nord, l'antica, ampia costruzione di mattoni di fango della Cittadella vecchia, le Mura Bianche che davano il nome al quartiere e, a sud, il Grande Tempio di Ptah, con le mura della recinzione. Il canale del tempio scorreva a sud fino all'area sacra alla dea Hathor, che sorgeva in una zona periferica. Al nostro passaggio balenarono altri canali che collegavano il fiume e il porto al cuore della città. «A Menh si celebrano per io meno quarantacinque culti diversi, e ciascuno ha il proprio tempio», gridò con orgoglio. «Laggiù, a ovest, c'è il Tempio di Anubi.» Immaginai gli imbalsamatori, i fabbricanti di tombe, i produttori di maschere e di amuleti, i copisti del Libro dei Morti, tutti artigiani specializzati che si raggruppavano nell'area per svolgere le attività complesse dettate dal potente dio, il guardiano che protegge necropoli e tombe dai malfattori. Ma non ci sarebbe stato il tempo per una visita che soddisfacesse il mio desiderio di conoscenza. Simut era ansioso di giungere prima del re; le enormi folle, desiderose di avere uno scorcio del suo arrivo nel grande Palazzo di Menfi, non avendo ricevuto il permesso di avvicinarsi alla spianata di fronte alle torri d'ingresso si erano già riunite negli spazi ristretti dei vicoli e delle strade. Ciononostante l'area, gremita di dignitari locali e stranieri, di funzionari e rappresentanti dell'élite, era un incubo sul piano della sicurezza. L'avanguardia di Simut prese posizione in silenzio. Gli uomini ordinarono ai presenti di allontanarsi per creare un passaggio sicuro al re. Sapevano cosa fare e si muovevano all'unisono secondo uno schema che dovevano aver provato e attuato molte volte. I modi bruschi e impeccabili non fecero dubitare nessuno, neppure le guardie di palazzo, della loro autorità. Seguirono gli arcieri reali, con i grandi archi tirati e puntati sui tetti. All'arrivo del re, circondato da altre guardie, squillarono dalle mura le trombe del tempio. Il loro omaggio, il clamore della folla e gli ordini sbraitati dai comandanti rompevano i timpani; ma, d'improvviso, il corteo reale passò dal calore e dalla luce pieni di pulviscolo, e dalla cacofonia delle strade, alla frescura silenziosa della
prima sala da ricevimento. Tutto a un tratto eravamo in una situazione di relativa sicurezza. Ad attendere l'arrivo del re c'erano funzionari di grado ancor più elevato. Era la prima volta che lo vedevo da vicino in un contesto ufficiale. Talvolta, a palazzo, aveva avuto l'aria di un bambino smarrito, ora, invece, si comportava da re: la postura eretta e dignitosa, il viso elegante, calmo e composto, l'espressione di chi non cerca approvazione con qualche sorriso ansioso e non esprime il proprio potere con altezzosa arroganza. Possedeva un carisma che gli veniva dall'insolito aspetto, dalla giovane età e da un'altra caratteristica che ricordavo di aver notato quand'era bambino: l'anima di un vecchio nel corpo di un giovane. Persino il bastone da passeggio d'oro che portava sempre con sé accentuava la sua personalità. Simut mi aveva avvisato che l'ufficio del generale Horemheb aveva esercitato forti pressioni politiche affinché il re trascorresse la notte a palazzo durante la sua visita ufficiale. L'ufficio di Ay aveva, al contrario, insistito che il sovrano presenziasse alle indispensabili funzioni e tornasse alla nave con cui sarebbe partito a tarda ora. Fu una saggia decisione. Menfi era pericolosa. La città era il cuore dell'amministrazione delle Due Terre, ma ospitava anche il quartier generale e le caserme dell'esercito; disgraziatamente non ci si poteva fidare sino in fondo della sua fedeltà, soprattutto se a comandarlo era Horemheb. Il salone rimbombava per il rumore delle centinaia di diplomatici, funzionari stranieri, facoltosi uomini d'affari, ufficiali d'alto grado: i rappresentanti dell'élite che, pieni di boria, si vantavano, sbraitavano e parlavano a vanvera gli uni con gli altri, mentre si destreggiavano tra la folla facendo del proprio meglio per accostarsi o parlare ai superiori, o far colpo su di essi, oppure denigrare gli inferiori o i pari grado. Mi feci largo tra la moltitudine chiassosa e mi tenni vicino al re. Ebbe un cenno di assenso per ogni persona presentatagli da due ufficiali, si occupò di tutti i postulanti e di ogni dignitario, perfettamente padrone di sé durante i brevi istanti del colloquio, rispondendo con garbo alle lodi e alle offerte e dando a ciascuno la sensazione di essere importante e la certezza che non sarebbe stato dimenticato.
All'improvviso mi accorsi della presenza di Horemheb nell'ombra proiettata da una delle colonne. Dava retta a un ufficiale vanesio che con tutta evidenza lo annoiava a morte, ma il suo sguardo era concentrato sul re e aveva la prontezza immobile di un leopardo. Per un istante parve un cacciatore con la preda. Ma quando il re colse il suo sguardo, Horemheb si affrettò a sorridere. Poi avanzò verso il sovrano e il suo viso, sorpreso da un fascio di luce a effetto, si mutò nel bianco del marmo. Accompagnato dal giovane ufficiale che, a Tebe, aveva declamato la sua lettera, attraversò la ressa. Mi avvicinai un po' di più. «È un onore ricevere di nuovo vostra maestà a Menfi», disse cerimoniosamente il generale. Tutankhamon restituì il sorriso, mostrando un affetto mitigato dalla prudenza. «Serbo molti bei ricordi di questa città. Sei stato un amico buono e fidato.» Il re aveva un aspetto fragile, pareva esile accanto al generale più anziano, ben piantato e sicuro di sé. Chi era presente al dialogo, compreso il giovane segretario, attese che Horemheb lo proseguisse. «Sono felice che questo sia il vostro pensiero. Mi furono concessi i titoli di vicetutore e addestratore militare. Ricordo che mi consultavate su molte questioni di stato e sulle scelte politiche, e che ascoltavate i miei consigli. Si disse che ero io la persona che avrebbe potuto portare la pace nel palazzo... io e nessun altro.» Sorrise a denti stretti. Il re gli restituì un sorriso ancora più guardingo. Aveva avvertito la corrente di ostilità nel tono di voce di Horemheb. «Ahimè, il tempo passa. Le cose di cui parli sembrano così lontane...» «Eravate un bambino, allora. Oggi rendo onore al re delle Due Terre. I nostri titoli, i nostri beni, sono nelle mani del vostro potere reale.» E si inchinò bruscamente. «Abbiamo in grande stima il tuo affetto. Lo abbiamo molto caro. Desideriamo onorare tutte le tue opere e le tue gesta...»
Lasciò morire la frase. «Avrete notato che a Menfi ci sono stati molti cambiamenti», continuò Horemheb imprimendo un'altra direzione al dialogo. «Abbiamo sentito dire che hai molti progetti. Abbiamo udito che stai costruendo una nuova, grande tomba nella necropoli di Saqqara», replicò il re. «È soltanto una piccola tomba privata. La sua costruzione e le decorazioni interne mi distraggono nelle rare ore libere da impegni. Sarebbe un onore mostrarvela. I rilievi alle pareti sono molto belli.» Fece un sorriso sardonico, come per una battuta nota a lui solo, ma lo sguardo era distante. «Che cosa ritraggono i rilievi? I tanti trionfi militari del generale Horemheb?» «I rilievi illustrano le gloriose campagne nubiane portate al trionfo da vostra altezza», replicò il generale. «Ricordo la gloria e il trionfo delle campagne che hai condotto in mio nome.» «Forse vostra maestà dimentica il proprio insigne contributo alla loro gloria.» «Non dimentico nulla», replicò il re in modo molto diretto. Seguì un breve silenzio durante il quale Horemheb ponderò la risposta. In lui c'era qualcosa che ricordava il coccodrillo; gli occhi che affioravano sempre sul chi vive, il corpo nascosto nell'oscurità più in basso. «Il re deve avere fame e sete dopo il suo viaggio. Deve nutrirsi bene prima di partire per la reale battuta di caccia», disse, quasi adottando il tono con cui di solito ci si rivolge a un bambino. Batté le mani e all'istante comparvero i servitori con pietanze squisite servite su bellissimi piatti di ceramica. Gli furono offerte con rispetto sui vassoi, ma il re le ignorò e mi resi conto di non averlo visto bere o mangiare alcunché a Menfi. Horemheb emanò un ordine perentorio al giovane ufficiale. Questi scomparve e aspettammo; né Horemheb né il re ruppero il silenzio che si era creato in quella situazione di stallo. Mi chiesi che
cosa pensasse Tutankhamon dell'uomo che aveva definito un buon padre. L'ufficiale tornò portando un prigioniero siriano di alto rango, con le mani serrate dietro la schiena, e lo costrinse a inginocchiarsi nella postura tradizionale del nemico catturato. L'uomo, che versava in condizioni misere, aveva il capo rasato senza riguardi, segnato da terribili tagli, e le membra magre allampanate, fissò il pavimento con la furia dell'umiliazione nello sguardo orgoglioso. L'ufficiale prese una delle pietanze e la porse a Horemheb, che aprì a forza le mascelle del prigioniero come se fosse un animale. L'uomo era spaventato, ma sapeva di non avere scelta; e, in ogni caso, stava morendo di fame. Masticò guardingo, poi, pieno di timore, ingoiò il boccone. Aspettammo per vedere se si sarebbe piegato in due crollando a terra per l'effetto del veleno, o della cattiva cucina. Ovviamente, non accadde nulla del genere, ma Horemheb gli fece assaggiare ciascuna delle pietanze offerte al re. Infine fu allontanato e costretto a rimanere in piedi faccia al muro, affinché il re vedesse se si manifestavano in lui gli effetti di un veleno ad azione lenta. Ma l'impatto che produsse quella strana esibizione fu notevole, perché Horemheb diede a tutti la sensazione che il prigioniero alimentato a forza avrebbe potuto essere il sovrano. «Siamo edotti dei pericoli e delle minacce dirette alla persona del re nel suo stesso palazzo. Ora potete, se lo desiderate, partecipare con piena fiducia a questo banchetto», disse il generale con enfasi. E tutti osservarono il re prendere con circospezione una porzione minuscola di carne d'anatra, mangiarla lentamente, fare un sorriso e dire: «La nostra fame è appagata». Il piccolo, insolito episodio si rivelò una schermaglia di minore importanza in preparazione dei discorsi che fecero seguito. Il salone si azzittì non appena Horemheb salì su una pedana. I commensali inghiottirono il boccone, si ripulirono le dita unte nei lavamani e i servi scomparvero. Il generale fissò i presenti. Il bel viso, che pareva non si fosse mai concesso il lusso di esprimere la personalità del generale, assunse le fattezze dell'autorità: il mento appena proteso e uno sguardo composto, imperturbabile e superiore. Attese che il
silenzio fosse assoluto. Allora parlò, non in modo spedito, ma con energia e convinzione, sottolineando il discorso con gesti assertivi che risultavano goffi e artefatti e, di tanto in tanto, con un umorismo quasi beffardo che, avvertii, avrebbe potuto trasformarsi in crudeltà nel giro di un istante. Diede ufficialmente il benvenuto al re e al suo seguito e offrì in pegno alla sua sicurezza, durante quella che chiamò una «breve visita» prima della battuta reale, tutto l'aiuto che le risorse della città potevano elargire, enumerandole, con pedanteria, tanto per rammentarci tutti i poteri e le ricchezze su cui poteva contare. Riuscì a far diventare il discorso una lagnanza, piuttosto che un omaggio e osservai in viso il re per vederne la reazione. Ma il sovrano continuò a guardare fisso davanti a sé. Proseguì Horemheb: «In questa epoca di crescente insicurezza, l'esercito rimane la forza capace di garantire ordine e giustizia nelle Due Terre, di difendere i valori, grandi ed eterni e le tradizioni del nostro regno. Perseguiamo con successo i nostri interessi territoriali nelle terre degli amorrei. Le guerre sono necessarie per conservare prestigio e autorità nel mondo e per estendere i nostri confini. È mio compito vincere le guerre. La perfezione dell'ordine e della giustizia, di cui il nostro stato costituisce un esempio, deve essere alimentata costantemente. Pertanto, chiediamo umilmente al re e ai suoi consiglieri di stanziare altri fondi per questo nobile scopo, al fine di ingrossare le file dell'esercito e garantire il glorioso successo che ripagherà certamente e con dovizia l'investimento che chiediamo ora». Fece una pausa. Lasciai scorrere lo sguardo nel salone. Tutti erano attentissimi e aspettavano la risposta del re. Il pubblico gli concesse un silenzio assoluto, per udire ogni sua quieta parola. «La guerra è lo stato naturale dell'umanità», disse infine. «È una causa grande e nobile. Appoggiamo e manteniamo l'esercito delle Due Terre. Acclamiamo il suo generale. Il suo obiettivo è il nostro obiettivo: il trionfo del nostro ordine tramite l'equo esercizio del potere. Abbiamo continuato a dare il nostro appoggio durante lunghi anni di battaglia, accordando piena fiducia al generale che continua a garantirci la conclusione vittoriosa di queste guerre. Ma, ovviamente, il nostro tesoro è oggetto di altre richieste. È compito del re e dei suoi consiglieri soppesarle, poiché spesso sono in
conflitto tra loro. Maat è l'ordine divino dell'universo, ma nelle città e nelle campagne l'ordine divino si conserva con i mezzi finanziari adeguati, secondo i contributi che vengono richiesti a ogni suddito. Chiediamo pertanto al generale delle Due Terre di spiegare e giustificare, davanti a tutti coloro che si sono riuniti qui, perché ora l'esercito chieda ulteriori sussidi, considerato il nostro sostegno già molto generoso.» Horemheb avanzò, dando l'idea di aver previsto quella mossa. «La nostra richiesta non è dettata soltanto dalla conclusione vittoriosa delle guerre che combattiamo nei paesi stranieri. Il suo scopo è rafforzare la presenza e il potere dell'esercito in patria. È evidente ormai che nella nostra stessa società sono all'opera forze disgreganti. Dai rapporti che ci sono giunti sappiamo che tali forze sono penetrate non solo nel cuore dei templi e degli uffici governativi, ma persino nel palazzo reale. Ci domandiamo come abbiano potuto verificarsi simili atti di tradimento.» Il pubblico trattenne il fiato, poiché le implicazioni del discorso di Horemheb puntavano dritte al cuore dell'autorità reale. Tutankhamon non ne fu turbato. «Per loro stessa natura, gli uomini sono vulnerabili alla slealtà e all'inganno. Ci saranno sempre persone che aspirano al potere per i propri fini: uomini dal cuore infido e dalla mente sediziosa. Sii certo, tuttavia, che trionferemo sempre su costoro, poiché la loro meschina ostilità non ha potere sulla nostra dignità regale. Gli dei si vendicheranno di quelle persone.» La sua calma era impressionante. Fissò Horemheb con uno sguardo che non dava adito a dubbi. Il generale avanzò ancora. «Le parole hanno potere. Ma le azioni ne hanno ancora di più. Preghiamo per l'incolumità del re e gli rammentiamo che un grande esercito attende, a sua disposizione, di difendere le Due Terre tanto dai nemici al suo interno, quanto dalle ostili forze esterne ai suoi confini.» Tutankhamon chinò lentamente la testa elegante. «In considerazione della tua lealtà, impegneremo altre risorse in queste guerre, per il sostentamento delle divisioni e in previsione della
grande vittoria. Sollecitiamo il generale a far ritorno al campo di battaglia, poiché qual è il posto di un comandante se non al fianco delle truppe che combattono?» I presenti compresero che quel passaggio del discorso reale richiedeva un inneggiamento a gran voce; esultarono rumorosamente e parve che a trionfare fosse stato il re. Ma gli ufficiali dell'esercito rimasero ai margini e osservarono la scena come sciacalli pronti ad avventarsi sulla preda, facendo sembrare il pubblico plaudente un branco di scimmie.
Capitolo 28 Partimmo quel pomeriggio. Il cielo era opalescente per il calore e la folla esigua e mogia. Le correnti ci trasportarono veloci oltre i confini estesi della città. Eravamo sopravvissuti ai potenziali pericoli della visita di stato. A bordo della nave reale in navigazione sul Grande Fiume, mi sembrava di poter controllare meglio la situazione. Più a nord, nelle paludi immense del delta, il fiume avrebbe cambiato aspetto diramandosi in innumerevoli bracci che, in seguito, si sarebbero divisi fino a formare un ampio ventaglio intricato e non navigabile che sarebbe sfociato nel mare. A sera avevamo ormeggiato in un punto prescelto per la sua lontananza da qualsiasi città; persino i villaggi sorgevano a una certa distanza. Piantammo le tende di buonora preparandoci a trascorrere la notte. La carovana che si mise in marcia il mattino seguente prima dell'alba era di dimensioni non trascurabili. Ne faceva parte una delegazione di diplomatici, di rappresentanti del popolo e di funzionari che avevano l'incarico di tenersi a disposizione del re in caso di bisogno, ma soprattutto di testimoniarne e documentarne le gesta, poiché ben presto le dichiarazioni scritte delle feroci prede uccise dal sovrano e del coraggio che aveva dimostrato sarebbero state commemorate nelle iscrizioni degli Scarabei della caccia, da distribuirsi nelle Due Terre. E, naturalmente, facevano parte della squadra le guardie reali in uniforme, i battistrada con il compito di proteggere la carovana, gli aurighi, gli armieri che trasportavano le lance, le frecce, le reti e gli scudi del re, il Maestro di Caccia e i suoi aiutanti, i custodi del cane e del ghepardo; infine i battitori e i loro assistenti, dai quali, conoscendo costoro le abitudini e le tane degli animali, dipendeva in buona parte l'esito della caccia. La carovana reale comprendeva anche me, Simut e Pentu, il medico. All'alba l'aria era fredda e cristallina, la luna bassa sull'orizzonte e le stelle si andavano spegnendo. Sulle acque ombrose vagavano banchi di foschia e, invisibili, i primi uccelli si misero a trillare come
se con il loro canto volessero evocare Ra in persona. Malgrado l'ora antelucana, tutti sembravano desti e ispirati dalla bellezza della scena, perfetta come un dipinto murale, e dalla prospettiva di partecipare all'avventura della caccia. I cavalli scalpitavano liberi dalle pastoie e il fiato di uomini e animali si addensava nella fredda oscurità. I campi verde e nero erano ancora immobili e silenziosi quando il nostro insolito corteo passò per le strade sconnesse; soltanto i contadini più mattinieri e qualche stupefatto bambino scalzo, giunto nella sua striscia di terra prima del sorgere del sole per approfittare del proprio diritto di utilizzare l'acqua, vide lo spettacolo di sfuggita. Ci guardarono e ci additarono come se fossimo stati un sogno meraviglioso. Giunti al margine dei coltivi, ci fermammo. Davanti a noi si stendeva la Terra Rossa. Fui colpito, come sempre, dall'immenso silenzio del suo vuoto apparente, più sacro, per me, di qualsiasi tempio. Il sole si era appena levato sull'orizzonte e mi voltai per godere del calore, gradito e repentino, dei suoi primi raggi sul mio viso. Il re si mise in piedi sul cocchio e alzò le mani verso Ra, il suo dio. Era a petto nudo, indossava un gonnellino e aveva una stola sulla spalla. Per un istante il corpo e il viso parvero risplendere. Tenne il giovane leone tirando il corto guinzaglio di cuoio, e si sforzò di assumere l'immagine di un re, malgrado la piccola statura e il bastone da passeggio d'oro. Dalle squadre dei cacciatori e dei soldati si levò un clamore e un lungo ululato che avevano lo scopo di celebrare l'inizio della caccia ed emettere un grido di avvertimento agli spiriti malvagi del deserto. Poi, completato il rituale, il re fece avanzare il cocchio e, a quel segnale, valicammo il confine eterno tra la Terra Nera e la Terra Rossa. Ci dirigemmo a ovest e il sole nascente proiettò proprio davanti a noi le ombre oblique delle nostre forme in marcia. Eravamo preceduti dai battitori e da metà delle guardie, che calcolavano la direzione. L'aria ronzava per la calura mentre salivamo lentamente sull'altopiano desertico. Il crepitio degli assali di legno, lo sporadico incespicare di un cavallo sul terreno ghiaioso e poco compatto,
l'ansare dei trasportatori e dei muli mi giunsero nitidi e ravvicinati nell'aria secca. Pensiamo che il deserto sia disabitato, ma non è vero. È solcato da antiche piste e dagli itinerari aperti da uomini e animali nel terreno ricoperto dalla boscaglia. Avanzando nel calore mattutino, ci imbattemmo di tanto in tanto nei mandriani e nei pastori, nomadi smilzi e angolosi in perenne movimento: i volti ispidi, i capelli tagliati cortissimi, i gonnellini infilati tra le gambe, trasportavano sulla schiena fagotti di provviste e qualche tegame, con i lunghi bastoni da passeggio nelle mani ossute, avanzando perennemente con lo stesso lungo, languido passo. I loro animali, magri e resilienti, rosicchiano tutto quello che trovano e procedono alla stessa, lenta andatura verso una pozza d'acqua nascosta in luoghi lontani, scintillanti di calore e di luce. Talvolta, con l'avanzare del mattino, i battitori emettevano strane grida simili ai richiami degli animali o degli uccelli, per segnalare di aver avvistato un piccolo branco di gazzelle o di antilopi del deserto, di struzzi o di linci, che rimanevano immobili a osservarci da una distanza di sicurezza, fiutando il vento, per poi scomparire all'improvviso sollevando un turbine di polvere. Quando il sole si avvicinò allo zenit, ci fermammo ad allestire il campo. I battitori trovarono un luogo che beneficiava della protezione di un promontorio a picco - durante la notte, da nord sarebbe spirato un vento freddo - e tutti si affrettarono a svolgere i compiti loro assegnati con perfetta disciplina. In tempi brevi l'accampamento comparve come sbucato dal nulla. I trapani furono manovrati con mano esperta e, quando la stoppa prese fuoco, le scintille si trasformarono rapidamente in fiamme; gli animali furono macellati e in men che non si dica l'aroma intenso della carne messa ad arrostire riempì l'aria del deserto. Il re sedeva sul suo trono da viaggio, nel lusso di un bianco baldacchino ombroso; si sventolava per tenere lontani la grande calura del giorno e le mosche e osservava l'allestimento del campo. Accanto alle casse e agli arredi dorati da viaggio, in quel mondo privo di pareti, pareva un dio sceso per una breve visita sulla terra. Tutto sembrava procedere per il meglio.
Decisi di arrampicarmi sul rilievo più vicino per dare un'occhiata alla zona. Mi schermai gli occhi per difendermi dalla luce abbagliante. Da qualunque parte guardassi, non c'era nulla da vedere, salvo l'aridità grigia e rossa del deserto, punteggiata qua e là da qualche tenace cespuglio. I cavalli, i muli da soma, le pecore dalle lunghe corna e le capre dal pelo corto, legati agli spessi pioli di legno, masticavano il foraggio che era stato portato per loro. Le anatre liberate dalle gabbie avanzavano dondolando e beccavano furiosamente la terra del deserto che non prometteva nulla di buono. I cani da caccia e i ghepardi, che latravano e ansavano per il caldo, erano tenuti in disparte, sorvegliati dai loro guardiani. Le tende erano state erette quasi al completo. Il re stava al centro dell'accampamento, dove avrebbe avuto la massima protezione. Il palo centrale, culminante in una palla d'oro, splendeva al sole. I carri da caccia erano disposti in fila, puntellati dai sostegni. Nel complesso, era una visione di civiltà. Quando tornai a guardare lontano in ogni direzione, assorbii però la vastità vuota e disumana del deserto. Eravamo in quel luogo per divertimento e per svago, ma le nostre piccole tende colorate avevano l'aspetto di giocattoli infantili collocati in una sconfinata terra desolata. Allora vidi, lontano, una scia di figure che proiettavano un'ombra lunga, minuscole come insetti, e mi resi conto che la loro traiettoria nel deserto portava al nostro accampamento. Sudando per il bagliore del sole pomeridiano, tornai di corsa al campo e misi in allerta le guardie. Simut mi raggiunse trotterellando. «Cosa c'è?» «Sconosciuti in avvicinamento: potrebbero essere mandriani, ma non hanno animali.» Le guardie si misero in marcia e condussero gli uomini alla nostra presenza, pungolandoli con le lance scintillanti. Fu come l'incontro tra due mondi; il nostro, con le sue vesti bianche, linde e le armi lucenti, e il loro, nomade e poverissimo, i miseri abiti vivaci nei colori e nei disegni arditi, le teste rasate, i grandi sorrisi senza denti. Erano raccoglitori di miele che abitavano ai margini delle lande deserte. Il loro capo avanzò, chinò la testa in segno di rispetto e offrì in dono un vasetto.
«Un regalo per il re, che è Signore delle api.» Era un uomo del delta e l'ape rappresentava non soltanto la sua sussistenza, ma anche il simbolo della terra che abitava. Il miele selvatico è molto apprezzato, più della varietà estratta dai favi d'argilla degli orti urbani. Si dice che la sua fragranza sia intensa come le lacrime di Ra perché le api bottinano i fiori rari, di precoce schiusura, del deserto; quegli uomini passano la vita a inseguire le passeggere fioriture stagionali ai margini del deserto. Pensai che non costituissero un pericolo: erano magri come i loro bastoni da passeggio, scuri per l'uso e per l'età, cosa avrebbero potuto opporre alla potenza delle nostre armi? Ordinai che fosse offerto loro da mangiare e da bere e lasciai intendere che avevano il permesso di continuare per la loro strada. Retrocedettero, inchinandosi con rispetto. Soppesai il vasetto di miele tra le mani. Il grezzo contenitore era stato sigillato con cera d'api. Fui sul punto di aprirlo, ma ci ripensai. «Che cosa ne facciamo?» domandai a Simut. Si strinse nelle spalle. «Forse dovresti regalarlo al re», propose, «tutti sanno che ha un debole per i dolci...» Fui annunciato ed entrai nella tenda del sovrano. La chiara luce del deserto filtrava accendendo i disegni dei teli di lino alle pareti. Gli accessori reali erano stati disposti in modo da creare un palazzo temporaneo: divani, sedie, oggetti di grande valore, stuoie e così via. Faceva caldo lì dentro. Un uomo reggeva con discrezione il ventaglio alle spalle del re, spostando l'aria calda con sguardo assente. Il re stava mangiando. Mi inchinai offrendogli il vasetto, e a un tratto vidi la mia ombra sulla tenda: sembrava una delle figure che nei rilievi dei templi porge un'offerta sacra al dio. «Che cos'è?» domandò allegro, sciacquando le dita in una ciotola e porgendole a un servo perché le asciugasse. «Miele selvatico raccoglitori.»
di
fiori
del
deserto.
Lo prese tra le mani finissime e lo esaminò.
L'offerta
di
alcuni
«Un dono degli dei», disse sorridendo. «Vi consiglio di riporlo; quando saremo tornati a Tebe, vi rammenterà la battuta di caccia.» «Sì, buona idea.» Batté le mani e un servo venne a portar via il vasetto. Mi inchinai indietreggiando, ma il re insistette che restassi a fargli compagnia. Mi fece sedere su un divano di fronte a sé. Sembrava molto più allegro e pensai che, dopo tutto, forse avevamo fatto bene ad affrontare quel viaggio. Lontano dal Palazzo delle ombre, il suo umore era molto migliorato. Bevemmo del vino e furono portate altre pietanze a base di carne. «Questa sera andremo a caccia?» domandò. «I battitori sono sicuri di riuscire a trovare qualcosa. C'è una pozza d'acqua, non lontano da qui. Se ci avviciniamo in silenzio e sottovento, al tramonto ci saranno molte creature di diverse specie. I battitori mi dicono però che di questi tempi i leoni sono molto rari.» Annuì, deluso. «Li abbiamo cacciati portandoli quasi all'estinzione. Saggiamente, si sono ritirati nel cuore del loro territorio. Chissà, forse uno di loro risponderà al mio richiamo.» Mangiammo in silenzio per un po'. «Mi accorgo di amare il deserto. Perché consideriamo selvaggio e pauroso un luogo che possiede tanta semplicità e purezza?» disse di punto in bianco. «Gli uomini temono l'ignoto. Forse hanno bisogno di attribuirgli un nome pensando di riuscire a controllarlo. Ma le parole non sono quello che sembrano», replicai. «Che vuoi dire?» «Voglio dire che sono ingannevoli. Una parola può cambiare significato in un istante.» «Non è quello che sostengono i sacerdoti. Secondo loro le parole sacre hanno più potenza di qualsiasi altra cosa al mondo. Sono il
linguaggio segreto della creazione. Il dio parlò e il mondo venne in essere. Non è così?» Mi guardò fisso come sfidandomi a contraddirlo. «E se le parole fossero state create dagli uomini e non dagli dei?» Per un attimo parve sconcertato, poi sorrise. «Sei un uomo strano, e piuttosto insolito per essere un funzionario del Medjay. Quasi quasi viene da pensare che secondo te gli dei sono una nostra invenzione.» Esitai a rispondere. Se ne accorse. «Sta' attento, Rahotep. Sono idee sacrileghe.» Mi inchinai. Mi lancio una lunga occhiata, ma senza nessuna traccia di antagonismo. «Andrò a riposare.» Fui congedato dalla presenza reale. Uscii dalla tenda. Il sole aveva oltrepassato lo zenit e il campo era quieto poiché tutti, a parte le guardie di sorveglianza ai margini, ciascuna sotto il proprio parasole, si erano ritirati, soggiogati dalla calura pomeridiana. Non avevo più voglia di pensare agli uomini, agli dei e alle parole. D'improvviso sentii che mi avevano stancato. Ascoltai il grande silenzio del deserto e mi parve di non udire da tanto tempo un suono così bello.
Capitolo 29 Accompagnato dal capo dei battitori, il Maestro di Caccia mi fece cenno di avanzare. Procedendo tra gli arbusti nani, mi avvicinai più silenziosamente possibile al basso crinale da cui tenevano d'occhio la pozza d'acqua. Sbirciai attentamente dal margine segnato della scarpata e mi si presentò alla vista uno spettacolo straordinario. Nella luce morente, si facevano avanti in silenzio branchi di gazzelle, di antilopi e qualche bovino selvatico, che bevevano a turno e scrutavano guardinghi l'orizzonte della savana, diventato color oro, oppure abbassavano la testa elegante per brucare. I battitori avevano scavato di buonora la pozza per allettare quanti più animali possibili; alcuni fiutavano a disagio la terra scura, avvertendo la presenza umana, ma erano spinti a bere dal bisogno. Il Maestro di Caccia sussurrò: «L'acqua ha funzionato. Adesso la preda è abbondante». «Non ci sono leoni in vista.» «Possono resistere a lungo senz'acqua. E sono rari di questi tempi. Una volta ce n'erano in quantità, insieme ai leopardi, che non ho mai visto.» «Diamo la caccia a quegli animali, o aspettiamo ancora?» Rifletté sulle alternative. «Potremmo uccidere un'antilope e lasciarla dov'è per vedere se un leone viene a mangiarsela.» «Come esca?» Annuì. «Se siamo così fortunati da incontrarne uno, serve molta abilità, un grande coraggio e anni di pratica per cacciare e uccidere un leone selvatico.» «Allora è positivo che tra noi vi siano cacciatori esperti che possono sostenere il re nel momento del suo trionfo.»
Per tutta risposta mi rivolse uno sguardo scettico. Il battitore silenzioso, che non aveva mai distolto lo sguardo penetrante dalla pozza d'acqua popolatasi all'improvviso, di punto in bianco parlò: «Questa sera non ci saranno leoni. E neppure le prossime sere, ritengo». Il Maestro di Caccia si disse d'accordo con lui. «La luce della luna ci potrebbe essere d'aiuto, ma forse rimarremmo ad aspettare per ore senza che accada nulla. Meglio tenere occupato il re e i suoi cacciatori con le prede a disposizione. Tutto è predisposto; andiamo a caccia. Sarà un buon allenamento. C'è sempre domani. Ci addentreremo nelle zone selvagge.» Ci avvicinammo da sud e da est tenendoci sottovento alla fresca brezza di settentrione che si era appena levata. Il tramonto tingeva d'oro, d'arancio e di blu il firmamento. Gli invitati alla caccia, aristocratici nelle loro tenute alla moda e cacciatori di professione, si misero in posa sui carri, allontanando con i ventagli le inevitabili mosche e placando silenziosamente i cavalli impazienti. Gli arcieri esaminarono archi e frecce. C'era tensione nell'aria per l'attesa. Attraversai il gruppo dirigendomi verso il re. Montava un carro semplice, flessibile e pratico. Le ruote di legno erano resistenti e la struttura leggera, aperta, si adattava al territorio aspro. I due bei cavalli bardati, abbelliti dai copricapo di piume, i paraocchi dorati e le gualdrappe magnifiche, erano pronti. Il re si ergeva su una pelle di leopardo che copriva le corregge di cuoio sul fondo del carro. Un telo di lino bianco gli drappeggiava le spalle e il lungo perizoma era stato legato per garantirgli incolumità e flessibilità nei movimenti. Aveva indossato i guanti di protezione che avrebbero consentito alle sue mani sensibili di reggere gli sforzi e le tensioni delle briglie di cuoio. Gli erano stati posati accanto un ventaglio d'oro con l'impugnatura d'avorio e splendide piume di struzzo, e il suo bastone d'oro. Poco più in là c'era un arco magnifico, e le tante frecce infilate nella faretra erano dove dovevano essere, pronte per l'uso. Sembrava eccitato e nervoso. «Nessuna traccia?»
Scossi la testa. Non saprei dire se fosse deluso o sollevato. «C'è un assembramento di gazzelle, antilopi e struzzi, perciò non tutto è perduto. Dobbiamo avere pazienza.» I cavalli nitrirono e si slanciarono, ma il re tirò le redini con provata esperienza. Alzò la mano per attirare l'attenzione dei cacciatori, la tenne sollevata a lungo, poi l'abbassò. La battuta ebbe inizio. Gli uomini a piedi si sparpagliarono rapidi e silenziosi a est predisponendo archi e frecce. I carri attesero prima di avanzare da sud. Presi posto sul mio carro. Ammirai la lieve tensione ronzante della sua struttura. I cavalli fiutarono l'eccitazione nell'aria che si andava rinfrescando. Sospesa sull'orizzonte, era apparsa sulle nostre teste la luna piena. La sua pallida luce ci illuminò facendoci somigliare ai disegni di una pergamena che illustrasse una fiaba intitolata La caccia notturna. Guardai in viso il re; sotto la corona, con il cobra sospeso sulla fronte, sembrava così giovane. Ai tempo stesso, però, era orgoglioso e determinato. Si accorse del mio sguardo e si voltò verso di me sorridendo. Gli feci cenno prima di chinare il capo. Partimmo, le ruote scricchiolarono sul terreno ghiaioso e irregolare e i carri da caccia si disposero su un'area aperta grande quanto un'arena. Non appena fummo in posizione, il Maestro di Caccia diede il grido abituale agli arcieri che si erano schierati a est. In quella lontananza popolata di ombre distinguevo a malapena gli animali ignari che bevevano alla pozza, pure e semplici sagome che risaltavano nella luce morente. Molti di loro alzarono nervosamente la testa nell'udire quello strano grido. Poi, a un segnale del Maestro di Caccia, i battitori sbatterono le asticelle di legno producendo una spaventosa cacofonia e, in un istante, i branchi di animali caricarono spaventati, correndo verso i carri, come voleva la strategia della caccia. Udii il lontano rimbombo degli zoccoli che venivano verso di noi. Ogni uomo prese le redini e, guidati dal re - che riceveva istruzioni dal Maestro di Caccia -, i carri avanzarono sfrecciando con un gran frastuono. Eravamo in battaglia. Cani da caccia e ghepardi si precipitarono verso le bestie in arrivo, gli uomini sui carri tennero le lance issate sulle spalle o, se
disponevano di un auriga, gli archi in equilibrio e puntati... ma i branchi terrorizzati fiutarono improvvisamente il pericolo che li attendeva e sterzarono all'unisono a ovest, costringendo i nostri carri a sparpagliarsi; ora la caccia avveniva sotto lo splendore della luna e la sua luce consentiva di vedere ogni cosa in dettaglio. Guardai di traverso e vidi il re che, concentrato sulla preda, incalzava i cavalli a procedere. Fui sorpreso nel vedere che era un ottimo auriga. Lo seguii, tenendomi più vicino possibile, e vidi Simut fare la stessa manovra, cosicché formammo una sorta di recinto di protezione. Temevo che accidentalmente, se così si può dire, una delle frecce o delle lance, che trapassando l'aria ci fischiavano sulla testa per atterrare davanti a noi, lo colpisse nel bel mezzo della caccia. Per confonderci, i branchi in preda al panico sollevarono nuvole di polvere fastidiosissima per gli occhi e la gola che ci fece sterzare lievemente a nord, mentre continuavamo a galoppare a tutta velocità per avere una visione più nitida. Gli animali più lenti si stavano già fermando, soprattutto gli struzzi; guardai il re prendere la mira e colpire con precisione un grosso esemplare. Un cane da caccia afferrò per il collo l'uccello caduto e cominciò a trascinarlo ringhiando e lottando con l'enorme mole. Il re, eccitato, mi fece un gran sorriso. Le prede più grosse, però, correvano ancora veloci davanti a noi. Spronammo i cavalli perché aumentassero l'andatura. I carri sferragliarono sul terreno accidentato; sbirciai gli assali e pregai che i miei tenessero. Sentivo battere i denti nel cranio e tremare le ossa nella carne. Avevo un ronzio costante nelle orecchie. Mi sarei messo a gridare come un bambino per l'emozione. Il re riuscì a incoccare un'altra freccia nell'arco sollevandolo per prendere la mira. Decisi che era venuto il momento di agire e lo imitai. Vidi più avanti un'antilope che procedeva a rapidi balzi e la scelsi come bersaglio. Tirai le redini, deviai a destra e forzai l'andatura del cavallo, quando d'un tratto ebbi la bestia nella mia visuale; scoccai la freccia nel varco che si era momentaneamente aperto tra i fianchi degli altri animali. Per un istante non accadde nulla, poi vidi l'antilope rompere il passo, inciampare e schiantarsi al suolo. Il branco si precipitò in avanti e attorno alla bestia caduta, e molti carri continuarono l'inseguimento. D'improvviso calò un grande silenzio. La freccia aveva trafitto
l'animale di lato, e il sangue denso e nero pulsava e scorreva sul fianco fumante. Gli occhi erano spalancati, ma non vedevano nulla. Le mosche, eterne compagne della morte, già ronzavano intorno alla ferita, nella loro disgustosa eccitazione. Provai al tempo stesso orgoglio e pietà. Un momento prima quell'ammasso di carne e ossa era un essere vivente che esprimeva una grazia e un'energia magnifiche. Sono avvezzo ai corpi dei morti, ai cadaveri straziati, sventrati, squartati, e al fetore dolciastro e marcescente della carne umana in decomposizione. Ma la morte di quell'animale, ucciso nel giubilo della caccia, sembrava appartenere a un altro ordine di trapassi. Con gratitudine e rispetto, recitai la preghiera con cui ci offriamo di onorare lo spirito di un animale. Il re si avvicinò sul suo cocchio, accompagnato da Simut montato sul proprio. Si fermarono e aspettammo alla luce della luna; il fiato caldo dei cavalli somigliava a squilli di tromba nella fredda aria notturna del deserto. Il re si congratulò con me. Simut osservò l'animale e ne apprezzò la qualità. Arrivò il Maestro di Caccia, che aggiunse il suo rispettoso encomio e istruì gli aiutanti a prelevare l'animale insieme alle altre prede uccise durante la battuta. La carne non sarebbe mancata. Di ritorno al campo, le torce accese ardevano in cerchio attorno a un falò. Il macellaio, nella sua postazione ai bordi del campo, brandendo accetta e coltelli, tagliava con mano sicura il ventre tenero, vulnerabile delle carcasse appese. Buttò con noncuranza in un cumulo gli zoccoli mozzati e raccolse enormi bracciate scivolose di visceri prima di gettare in un calderone le parti migliori. Diversi arcieri si erano messi di guardia ai margini in penombra dell'accampamento per proteggere carne e macellaio dalle iene e dalle volpi del deserto. La preda uccisa dal re, lo struzzo, gli era stata consegnata. Fece scorrere le dita tra le magnifiche piume bianche e marrone. «Possiedo molti ventagli», disse distrattamente, «e con queste ne farò confezionare espressamente uno per te, Rahotep, che ti dono in ricordo di questa bella battuta di caccia.» Mi inchinai. «Ne sarei onorato.»
Bevemmo l'acqua, assetati, e il vino fu versato da un'alta brocca nelle nostre coppe d'oro. Ci servirono la carne della selvaggina appena cotta su piatti di metallo intagliati con ricercatezza e che mangiammo seduti sulle stuoie di paglia. Scelsi un coltello da un assortimento di posate di bronzo. Il re mangiò appena, valutando ogni pietanza che gli fu posta davanti nei piatti da portata d'oro e assaggiandone con circospezione un pezzettino. Malgrado le fatiche della caccia, non aveva molto appetito. Io, al contrario, morivo di fame e godetti ogni boccone di quella carne aromatizzata alla perfezione, più saporita e tenera di qualsiasi trancio si potesse acquistare dai macellai della città. «Non vi piace l'antilope?» domandai. «Mi fa una strana impressione aver visto l'animale vivo che correva per salvarsi la vita e ritrovarmi in mano questo pezzo... di carne morta.» Per poco non mi misi a ridere per la sua sincerità infantile. «Tutti si mangiano a vicenda. Più o meno...» «Lo so. Cane mangia cane. Questo è il mondo degli uomini. Eppure l'idea mi sembra, in un certo senso, barbara.» «Quando i miei figli erano piccoli e in casa ammazzavamo un'anatra o un coniglio, imploravano misericordia per l'animale, ma non appena le bestie erano state, per così dire, svestite delle penne, della pelliccia e della pelle, e i bambini avevano asciugato le lacrime, insistevano nel volere vedere il cuore e conservare la zampa portafortuna. Dopodiché mangiavano lo stufato senza conseguenze nefaste di alcun genere e ne volevano una porzione in più.» «I bambini non sono sentimentali. O forse insegniamo loro a esserlo perché non sopportiamo la loro franchezza. O la loro crudeltà.» «Vi hanno insegnato a essere sentimentale?» «Sono stato allevato in un palazzo, non in una casa. Mia madre me l'hanno portata via, e mio padre era indifferente al pari di una statua. Per compagni avevo una nutrice e una scimmia. È strano che abbia riversato il mio amore sugli animali? Se non altro, loro mi amavano e io potevo contare sul loro amore.» Con dolcezza allungò un pezzo di carne alla scimmia e si lavò
delicatamente le dita nella ciotola. In quel momento fummo interrotti da un'ombra che comparve sulle pareti di lino all'entrata della tenda. Abbassai la mano per afferrare il manico del pugnale che tenevo nascosto sotto la veste. La luce dei fuochi accesi all'esterno fece sembrare l'ombra in avvicinamento più grande di quella proiettata da un uomo. Il re le diede a gran voce il permesso di entrare. Era il suo assistente privato. Portava un vassoio di dolci al miele appena sfornati e un favo disposto su un piatto. Gli occhi del re si illuminarono per il piacere. L'assistente si inchinò e depose il vassoio davanti a noi. Il cuoco doveva aver deciso di preparare una leccornia per la cena di caccia del re. Le dita delicate del sovrano guizzarono rapide verso i dolci; ma d'improvviso, e d'istinto, gli afferrai il polso. «Come osi toccarmi?» gridò. «Perdonatemi, signore, ma non posso essere certo...» «Di che cosa?» urlò con petulanza, alzandosi in piedi. «Che il miele sia sicuro. Non ne conosciamo l'origine. Preferirei non correre rischi...» Fu allora che la scimmietta dagli occhi furbi e scintillanti scese sfrecciando dalla sua spalla, pizzicò un pezzo di favo dal piatto e sgattaiolò in un angolo. «Ecco, hai visto che cos'è successo?» gridò il re infastidito. Si accostò alla scimmia vezzeggiandola teneramente, ma questa si mostrò sospettosa e saettò lungo la parete della tenda portandosi nell'angolo più lontano, dove prese a sbocconcellare il suo tesoro, sbattendo ansiosa gli occhi. Il re provò di nuovo a seguirla, mentre mi avvicinavo dall'angolo opposto con un movimento a tenaglia. La creatura era troppo veloce per noi e si allontanò sfrecciandomi tra le gambe e cercando di azzannarmi con i dentini, per poi filare dall'altra parte della tenda dove si accovacciò masticando e ciarlando finché non ebbe consumato il favo. Il re le si accostò di nuovo e adesso, che non aveva nulla da perdere, la scimmia trotterellò verso di lui di sua spontanea volontà, forse nella speranza di arraffare altre prelibatezze. Tutto a un tratto, inciampò come se
avesse dimenticato come si cammina, si aggomitolò stretta stretta torcendosi e rivoltandosi, dimenandosi ed emettendo gridolini di agonia. L'urlo angosciato del re fece accorrere Simut e le guardie. Nessuno poteva farci nulla. Misericordiosamente, la scimmia morì in fretta. Ero felice solo del fatto che non fosse stato il re a finire nella morsa del veleno. Tutankhamon sollevò con precauzione la creatura morta e l'avvicinò dolcemente a sé. Si voltò a fissarci. «Che cosa avete da guardare?» gridò. Nessuno osò parlare. Per un attimo pensai che stesse per gettarmi addosso il corpicino. Ma si girò e lo portò nel segreto della camera da letto. La luna era bassa sul nero orizzonte. Faceva molto freddo. Le guardie del re battevano i piedi e, ripresi i turni di sentinella, camminavano avanti e indietro, cercando di tenersi svegli e al caldo accanto al braciere che ardeva come un piccolo sole intrappolato in una gabbia nera. Le faville rosse salivano nella notte per spegnersi subito dopo. Per poter rimanere soli, io e Simut oltrepassammo il limite dell'accampamento. Lontane dalla luce del fuoco, le terre desertiche, vaste e argentee, si stendevano all'infinito; sotto la grande oscurità del cielo notturno erano assai più belle di quanto fossero alla cruda luce e al calore del giorno. Alzai lo sguardo e mi parve che i cieli sfavillassero più che mai per la luce delle stelle che a milioni rifulgevano eternamente nell'aria perfetta. Lì sulla terra, invece, eravamo di nuovo nei guai. «A quanto pare, non è al sicuro in nessun luogo», disse infine Simut. «Sembra che nessuna delle nostre misure riesca a garantirgli la sicurezza.» Avevamo interrogato l'assistente, e il cuoco, che si era sbrigato a spiegare come fosse stato Tutankhamon in persona a chiedergli di cuocere dolci con il miele. I due uomini erano terrorizzati per la parte avuta nell'incidente e temevano di essere ritenuti complici. «Il re ha un debole per i dolci. Vuole sempre che gliene serviamo uno alla fine del pasto», spiegò il cuoco torcendosi le manone
sudate. «Io non sono mai stato d'accordo, ma ogni suo desiderio deve essere esaudito», aggiunse l'assistente in tono sdegnoso, rivolgendo uno sguardo nervoso al cuoco. Potevo testimoniare in prima persona la loro versione e non c'era dubbio che, chiunque avesse inviato il miele, sapeva altrettanto bene quanto piacessero i dolci al re. «Se catturassimo quei raccoglitori di miele, potremmo interrogarli. Non ci metterebbero molto a confessare chi ha consegnato loro il miele», dissi. Ma Simut scosse la testa. «Ne ho già parlato con il Maestro di Caccia. Mi ha spiegato che cercare di rintracciarli sarebbe impresa vana, soprattutto al buio. Conoscono bene il deserto. Secondo lui, se non vogliono farsi trovare, all'alba saranno scomparsi senza lasciare traccia.» Valutammo le alternative. «Il re è ancora vivo, e questo è l'importante», dissi. «Certamente. Ma chi sono costoro che hanno un raggio d'azione così ampio», con un gesto indicò l'immensità delle innumerevoli stelle e della notte nel deserto, «da tentare di avvelenarlo?» «Credo che solo due persone siano in grado di farlo», replicai. Mi guardò e annuì. La pensavamo allo steso modo. «Sai chi sceglierei come candidato più probabile?» domandò con voce pacata. «Horemheb?» Fece un cenno d'assenso. «Siamo sul suo territorio e per lui non sarebbe stata un'impresa seguire le nostre tracce. Se il re fosse morto lontano dalla sua corte, ne avrebbe tratto molti vantaggi, perché il caos provocato dalla morte del sovrano sarebbe stato un campo di battaglia perfetto per contendere il potere ad Ay.» «È tutto vero, ma si potrebbe obiettare che, essendo il sospetto numero uno, forse non avrebbe agito in modo così... scontato.» Simut borbottò. «Ay, invece, è abbastanza astuto da architettare qualcosa e far
ricadere l'ombra del sospetto su Horemheb», proseguii. «In ogni caso, entrambi avrebbero benefici dalla morte del re.» «In ogni caso, sono uomini che hanno un'influenza e un potere immensi. Ay non può controllare l'esercito, ma ne ha bisogno. Horemheb non può controllare la burocrazia, ma ne ha bisogno. Tutti e due aspirano ai domini reali. Sto cominciando a pensare che il re sia semplicemente un ostacolo che si frappone alla loro grande battaglia», dissi. Annuì. «Secondo te, che cosa dovremmo fare?» domandò. «Penso che dovremmo rimanere dove siamo. L'uccisione del leone ha la precedenza. La caccia servirà a ridare sicurezza al re e a confortarlo.» «Sono d'accordo. Se tornassimo senza, sarebbe un segnale di incapacità. Il re ha alzato molto la posta. Non dobbiamo fallire.» Tornammo al braciere per scaldarci. «Veglierò tutta la notte insieme alle guardie», si offrì Simut. «Io vado a vedere se il re ha bisogno di qualcosa e, se me lo chiederà, dormirò nella sua tenda.» Ci separammo.
Capitolo 30 Tutankhamon fissava il nulla seduto sul suo trono da viaggio, tenendo in grembo la scimmia morta come se fosse stata un neonato. Chinai il capo e attesi che parlasse. «Mi hai salvato la vita», disse dopo un po', con voce incolore. Rimasi in silenzio. «Sarai ricompensato», proseguì. «Alza la testa.» La sollevai, e vidi con sollievo che in lui si era prodotto un cambiamento importante. «Ti confesso che gli avvenimenti delle ultime settimane mi hanno spaventato a morte. Ci sono stati momenti in cui ho avuto paura per il solo fatto di essere vivo. Sono stato dominato dalla paura. Ma il re delle Due Terre non deve avere paura. È giunto il tempo di vincerla, di non cederle più il controllo. Altrimenti sarei vittima delle ombre.» «La paura è un sentimento umano, signore», dissi pesando le parole, «ma è da saggi conoscerne gli inganni e i poteri per dominarli e sconfiggerli.» «Hai ragione. Imparerò i trucchi di chi ha usato la paura contro di me, servendosi delle immagini di morte per terrorizzarmi. Se non mi lascerò soggiogare dall'idea della morte, non sarò soggiogato neppure dalla paura. Non è così, Rahotep?» «È così, signore. Ma la paura della morte è comune a tutti gli uomini. È una cosa normale.» «E tuttavia, non posso più permettermi di vivere nella paura.» Guardò la scimmia morta e le accarezzò il pelo con mano delicata. «La morte è soltanto un sogno dal quale ci risvegliamo in un luogo più sublime.» Non essendo d'accordo con lui, rimasi in silenzio. «Ormai ti conosco abbastanza, Rahotep, da accorgermi che non dici quello che pensi.»
«Non mi è facile affrontare il tema della morte.» «Eppure, nel tuo lavoro hai sempre a che fare con la morte.» «Forse avete ragione, signore, ma non ne sono attratto.» «Immagino che, avendola toccata con mano troppo spesso, tu ne sia rimasto deluso», osservò con molta acutezza. «Sì, mi ha deluso, ma nello stesso tempo l'ho trovata straordinaria. Guardo i cadaveri e penso che fino al giorno prima vivevano, parlavano e ridevano, commettevano delitti da poco, godevano delle loro storie d'amore, e che cosa si sono lasciati alle spalle se non un sacco inerte di sangue e viscere? Che cosa è successo? Se penso a cosa si prova a essere morti, nella mia mente c'è il vuoto.» «Io e te ci somigliamo; pensiamo troppo», disse sorridendo. «Di notte è anche peggio. Capisco che la morte si avvicina ogni giorno di più. Temo la morte delle persone che amo. E temo la mia. Penso alle cose buone che non ho fatto, all'amore di cui non mi sono curato, al tempo che ho sprecato. E quando la smetto di tormentarmi con i rimorsi inutili, penso al vuoto della morte. Che cosa significa non esserci. Non essere da nessuna parte...» Per un istante non parlò. Forse mi ero spinto un po' troppo in là. Infine batté le mani e rise. «Sei una magnifica compagnia, Rahotep! Che ottimismo, che allegria...» «Avete ragione, signore. Le mie figlie mi dicono sempre che dovrei tirarmi su di morale.» «Ne hanno tutto il diritto. Ma tu mi preoccupi. Non ho sentito una sola parola sugli dei nel tuo discorso.» Aspettai prima di rispondere perché il terreno su cui si era spostata la conversazione era sottile come il papiro. «Lotto con la fede. Mi sforzo di credere. Forse è il mio modo di avere paura. La fede dice che il nostro spirito non morirà mai. Ma, per quanto ci provi, non riesco a crederci.» «È la vita a essere sacra, Rahotep. Il resto è mistero.»
«Proprio così, signore. A volte, mentre sono sdraiato a rimuginare inutili pensieri, capita che arrivi di soppiatto la luce; giunge l'alba, i bambini si svegliano, le strade si riempiono di persone e di attività, come ovunque, in ogni strada, in tutta la città, in ogni città della nostra terra. Mi rendo conto che ho del lavoro da svolgere. E mi alzo.» Non disse nulla per un po'. «Hai ragione. Il dovere è tutto. Una grande opera deve essere portata a termine. Tutto ciò che è accaduto negli ultimi tempi non ha fatto altro che rafforzare in me la determinazione a compiere i miei doveri di re, seguendo le orme dei miei antenati. Quando torneremo a Tebe, istituirò un nuovo ordine. Il dominio delle tenebre sarà abolito. È tempo di portare luce e speranza nelle Due Terre, nel nome glorioso dei sovrani della mia dinastia.» Chinai di nuovo il capo di fronte a quelle parole coraggiose. E lasciai che si insinuasse in me il dubbio di come sarebbe il mondo se, dopo tutto, la luce avesse la meglio sulle ombre. Versò il vino in due calici, me ne offrì uno e volle che mi accomodassi su un sgabello accanto a sé. «So chi desidera la mia morte. Horemheb è ambizioso e vuole il potere. Mi considera solo un intralcio alla sua dinastia. Ay si opporrà al nuovo ordine perché non riconosce la sua autorità. Io e Ankhesenamon ci occuperemo anche di lui.» «La regina è un elemento prezioso», dissi. «Ha un'inclinazione per la strategia, io per le apparenze. È una combinazione fortunata. Ci fidiamo l'uno dell'altra. Io dipendo da lei e lei da me sin da quando eravamo bambini, all'inizio per necessità, ma ben presto quel sentimento si è mutato in reciproca ammirazione.» Si interruppe. «Parlami della tua famiglia, Rahotep.» «Ho tre splendide figlie e un maschietto, per grazia di mia moglie.» Fece un cenno col capo. «Sei veramente fortunato. Io e Ankhesenamon non ci siamo ancora riusciti e per noi è indispensabile allevare dei figli che ci succedano. Abbiamo fallito due volte; i bambini sono nati morti. Femmine, mi hanno detto. La loro perdita ci ha molto colpito. Mia
moglie si è sentita... frustrata.» «Siete ancora così giovani. C'è tempo.» «Hai ragione... c'è tempo. Il tempo è dalla nostra parte.» Nessuno dei due parlò. La tenue luce del braciere danzò sulle pareti della tenda. Mi accorsi di essere stanco. «Questa notte dormirò fuori dalla vostra tenda», annunciai. Scosse la testa. «Non c'è bisogno. Non avrò più paura del buio. Domani andremo di nuovo a caccia e forse la sorte ci darà quello che cerchiamo: un leone.» Mi alzai e chinai il capo. Stavo per fare un passo indietro e uscire dalla tenda quando, inaspettatamente, riprese a parlare. «Rahotep, desidero che, quando torniamo a Tebe, tu diventi la mia guardia del corpo.» Lo stupore mi impediva di parlare. «Sono onorato, signore, ma è Simut a ricoprire l'incarico.» «Desidero nominare qualcuno che si occupi esclusivamente della mia sicurezza. Di te posso fidarmi, Rahotep, ne sono certo. Sei un uomo d'onore e hai dignità. Io e mia moglie abbiamo bisogno di te.» Il mio sconcerto doveva essere visibile. Il re continuò: «Riceverai un generoso compenso per le tue mansioni. Sono certo che la tua famiglia ne trarrà molti vantaggi. E non dovrai più preoccuparti di fare carriera nel Medjay». «Mi fate troppo onore. Possiamo riparlarne al nostro ritorno a Tebe?» «Sì, ma non rifiutare la mia offerta.» «Vita, prosperità e salute, signore.» Annuì e io, inchinandomi, arretrai. Prima che uscissi dalla tenda, mi chiamò. «Mi piace parlare con te, Rahotep. Non mi è mai piaciuto tanto parlare con qualcuno.» Uscito dalla tenda, guardai la luna e pensai alla bizzarria del destino, al concorso di circostanze che mi avevano condotto in quel luogo, in quella landa deserta, in quel momento. Mi resi conto che, malgrado tutto, stavo sorridendo. Non soltanto per la singolarità dei
miei colloqui con l'uomo più potente del mondo, che per altro era ancora un bambino, ma per l'imprevedibilità della sorte, o del caso, che mi offriva qualcosa che mi era sembrato impossibile ottenere. Una promozione. Lasciai libero corso a una sensazione rara, deliziosa, al pensiero del trionfo su quello zuccone del mio capo, Nebamon. Avrei gustato la sua rabbia dicendogli che non avevo più bisogno di lui.
Capitolo 31 Quella sera uno dei battitori tornò con una notizia. Aveva trovato le tracce di un leone. Ma le aveva avvistate molto lontano, nel cuore della Terra Rossa. Ci riunimmo nella tenda di Simut. «È un animale errante», disse il battitore. «Che cosa significa?» domandò Simut. «Non fa parte di un branco. I giovani maschi vivono soli nel deserto, fino a quando si uniscono a un branco per mettere al mondo dei cuccioli. Al contrario, le femmine cacciano sempre insieme e restano nel branco in cui sono nate. Dobbiamo seguirlo sul suo territorio.» Concordammo di smontare il campo e trasferirlo dove erano state trovate le tracce. Nel nuovo accampamento avremmo avuto tutto il tempo di seguire le orme del leone e scegliere il momento opportuno per dargli la caccia. Le provviste ci sarebbero bastate almeno per una settimana. E se il leone si fosse addentrato ancora di più nel deserto, avremmo potuto raggiungere, se necessario, le oasi più lontane e rifornirci di cibo e acqua. Rimasi a guardare mentre levavano per la seconda volta le tende. Caricarono sui carri i mobili d'oro, le attrezzature della cucina e gli animali nelle gabbie. Le capre furono legate di nuovo insieme. Ganci, coltelli e calderoni del cuoco furono issati sui muli. La tenda del re fu smontata per ultima, il palo centrale fu calato insieme alla palla dorata e le lunghe pezze di stoffa furono piegate e riposte. Sulla vastità del deserto avevamo lasciato una traccia così effimera che sembrava non ci fossimo mai stati. Non restavano che una confusione di impronte e il cerchio di cenere nera lasciato dal braciere che il vento leggero di settentrione stava già sfaldando. Schiacciai le braci con un piede e mi venne in mente il cerchio nero sul coperchio della scatola trovata nel Palazzo delle ombre. Era il segno che mi aveva tormentato di più. Non ne conoscevo ancora il significato.
Quando ci addentrammo nella Terra Rossa il sole aveva già superato lo zenit. L'aria scintillava nel paesaggio spoglio e desolato; avanzammo lentamente su un ampio letto di scisto e arenaria circondato da bassi rilievi, che nei tempi antichi doveva essere stato un grande fiume. Di tanto in tanto il vento e gli spostamenti della sabbia avevano portato alla luce le ossa di strane creature acquatiche. Ma gli dei e qualche evento catastrofico avevano trasmutato in polvere, pietre grigie e rosse, arroventate dalla fornace del sole, ogni elemento di quel mondo. Gli immensi e lenti mari di sabbia, di cui mi avevano narrato i viaggiatori nei loro racconti, dovevano essere molto più a ovest. Cavalcavo accanto a Simut. «Forse la buona sorte ci ha finalmente degnato della sua attenzione», disse a bassa voce, poiché nell'aria silenziosa i suoni si trasmettevano con molta nitidezza. «Non dobbiamo fare altro che seguire le tracce del leone.» «Poi dobbiamo fare il possibile per aiutare il re a ottenere il suo trionfo», ribatté. «È risoluto a ucciderlo da solo, ma un conto è ammazzare un struzzo in un branco di animali terrorizzati, tutt'altra cosa è affrontare e abbattere un leone del deserto», osservai. «Sono d'accordo. Dovremo mettergli intorno i cacciatori più esperti della squadra. Forse, se riescono a farlo cadere a terra, si accontenterà di assestargli il colpo decisivo. Sarà comunque il re ad abbatterlo.» «Speriamo.» Continuammo a cavalcare senza scambiarci una parola. «Sembra che si sia ripreso bene dalla morte della scimmia.» «Se non altro, ha reso più salda la sua decisione.» «Quella creatura patetica non mi è mai piaciuta. Le avrei torto il collo tanto tempo fa...» Rise a bassa voce. «La sua sofferenza mi ha fatto pena, ma la scimmia si è dimostrata utile alla fin fine.»
«Come assaggiatrice senz'altro, e a causa della sua avidità è andata incontro a una fine disgraziata come il personaggio di una favola a sfondo morale», ribatté con un sorriso sardonico, raro in lui. Dopo aver attraversato per ore ad andatura lenta l'oceano desolato di ghiaia e polvere grigia, giungemmo infine in un paesaggio diverso, insolito, selvaggio, dove la maestria del vento aveva ricavato forme fantastiche da colonne di roccia incolore, ora accese di gialli e arancio nella gloria del tramonto. In men che non si dica il braciere fu sistemato, le tende rialzate e, dopo poco, intensi aromi di cucina si diffusero nell'aria pura. Il re apparve all'ingresso della sua tenda. «Vieni, Rahotep, camminiamo prima che faccia buio.» Passeggiammo tra le bizzarre formazioni rocciose, godendoci il fresco. «È un altro mondo», disse. «Quanti altri fenomeni, forse ancora più singolari, si trovano nel cuore della Terra Rossa?» «Forse il mondo è assai più vasto di quel che sappiamo, signore. Forse la terra abitata dai vivi non finisce con la Terra Rossa. Si narra che esistano terre di neve e terre dove tutto è verde, sempre», replicai. «Vorrei essere il re che scopre e descrive strane terre e nuove genti. Sogno che un giorno la gloria del nostro impero si propaghi in mondi sconosciuti, in un futuro ancora incerto. Chi può dire se le nostre opere sopravvivranno al tempo? Perché non dovrebbero? Siamo un grande popolo che possiede oro e potere. La parte migliore di noi è improntata a bellezza e verità. Sono lieto di essere venuto qui, Rahotep. Ho avuto ragione a impormi. Lontano dal palazzo, da quelle mura e da quelle ombre, mi sembra di rinascere. Da tanto tempo non sentivo più di essere vivo. È un bene. Ora la fortuna mi arriderà. Avverto la bontà del futuro che mi attende e invoca che io lo realizzi...» «È un appello importante, signore.» «Sì, lo è. Lo sento nel cuore. È il mio destino di re. Gli dei attendono che io lo adempia.»
Mentre parlavamo, nel vasto oceano della notte erano apparse le stelle brillanti in tutto il loro splendore e mistero. Là sotto, alzammo la testa per guardarle.
Capitolo 32 Il giorno seguente partimmo con i carri, armati e approvvigionati di tutto punto, non appena il sole iniziò a tramontare. I battitori avevano perlustrato il terreno e trovato tracce fresche. Pareva che il territorio del leone avesse al centro le basse rupi ombrose non lontane dal campo. Non c'è dubbio che offrissero un rifugio alle forme di vita capaci di sopravvivere in quel luogo inospitale. Per attirare il leone, portammo con noi la carcassa di una capra appena macellata. Aspettammo con i carri disposti ad ampio ventaglio e osservammo da una distanza di sicurezza, mentre il battitore attraversava il grigio scenario con l'animale morto, lo depositava e si ritirava. Il battitore prese posizione accanto a me. «Sarà senz'altro molto affamato. Quaggiù le prede sono scarse e noi gli abbiamo preparato un bel banchetto. Spero che abbocchi all'amo prima che faccia buio.» «E se non abbocca?» «Riproveremo domani. Sarebbe insensato avvicinarsi alla bestia nell'oscurità.» Aspettammo in silenzio mentre il sole continuava a calare. Le ombre proiettate dalle rupi si allungarono impercettibilmente e, come la marea quando sale lenta, raggiunsero la carcassa, quasi volessero consumarla. Il battitore scosse la testa. «Siamo arrivati troppo tardi», sussurrò. «Torneremo domani.» Proprio in quell'istante, entrò in tensione, come un gatto. «Guarda. Eccolo...» Scrutai il panorama che si stava oscurando, ma non vidi nulla, finché, proprio all'ultimo, notai il movimento impercettibile di un'ombra che si stagliava contro le ombre. Tutti si erano accorti della reazione del battitore e una spinta repentina si trasmise nella schiera di uomini e cavalli. Il battitore alzò una mano per farci rimanere in
silenzio. Aspettammo con i sensi all'erta. Allora la sagoma avanzò furtiva, strisciando verso la carcassa. Alzò la testa per scrutare il terreno, quasi si stesse domandando da dove poteva essere arrivato quel festino bell’e pronto, poi, soddisfatta, si accinse a banchettare. «Che facciamo?» bisbigliai al battitore. Rifletté attentamente. «È troppo buio per cacciarlo e quasi certamente ne perderemmo le tracce. È un terreno impervio. Adesso, però, sappiamo che accetta le nostre offerte; domani torneremo più di buonora e lo alletteremo con altra carne fresca. Un giovane maschio come quello ha un appetito enorme e probabilmente non mangia da molto tempo. Domani saremo ben preparati e ci disporremo in modo che sia più semplice circondarlo.» Simut fece un cenno di assenso. Ma tutto a un tratto, senza preavviso e senza nessun appoggio, il cocchio del re avanzò sobbalzando e acquistò velocità sul terreno accidentato. Tutti furono colti di sorpresa. Vidi il leone alzare la testa, disturbato dal rumore lontano. Io e Simut spronammo i cavalli e ci slanciammo all'inseguimento del sovrano. Poi vidi il leone trascinare la carcassa verso le rupi, dove non lo avremmo mai trovato. Guadagnai terreno sul cocchio del re e gli gridai di fermarsi. Si voltò e mi fece un gesto come se non potesse, o non volesse, starmi a sentire. Il suo viso era animato dall'eccitazione. Scossi violentemente la testa, ma si limitò a sorridere come uno scolaretto e si girò. Le ruote del cocchio cigolarono in modo allarmante, le assi sbatacchiarono e gemettero mentre la struttura di legno sobbalzava per via del suolo irregolare. Alzai lo sguardo e per un brevissimo istante vidi il leone fermo e intento a fissare. Il re era ancora lontano e l'animale non sembrava particolarmente allarmato. Il re avanzò a precipizio. Lo vidi che cercava di controllare il carro e disporre contemporaneamente una freccia nell'arco. Allora il leone si girò e le lunghe falcate divennero una corsa a velocità incredibile e con tutto il corpo disteso verso il riparo delle rupi oscure. Frustai il cavallo e arrivai alle spalle del re. Ero certo che si sarebbe reso conto dell'impossibilità di cacciare il leone in quelle condizioni, ma a un tratto il suo cocchio balzò in aria, come se avesse colpito un masso, e
ripiombò a terra. Nella caduta, la ruota sinistra si fracassò e si staccò, i raggi e il cerchione andarono in pezzi e volarono via, e il cocchio si ribaltò sulla fiancata sinistra. I cavalli, presi dal panico, lo trascinarono sul terreno. Vidi il re aggrapparsi alla fiancata del cocchio in preda al terrore; ma un istante dopo, il suo corpo volò come una bambola di pezza e atterrò violentemente, rotolando su se stesso, fino a fermarsi nell'oscurità. Tirai a freno il cavallo e il mio carro si fermò sbandando. Accorsi accanto al corpo. Non si muoveva. Caddi in ginocchio vicino a lui. Tutankhamon, Immagine vivente di Amon, emetteva suoni inarticolati che si sforzavano, senza riuscirci, di diventare parole. Sembrava non riconoscermi. Una pozza di sangue, nera e luccicante, si allargò sulla polvere del deserto. La coscia sinistra sporgeva con un'angolatura impressionante. Staccai con cura dalla pelle la veste di lino appiccicosa per il sangue. Dalla carne e dalla pelle lacerate protrudevano schegge di ossa frantumate. Nella ferita orribile, profonda, c'erano pietrisco e terriccio. Il re emise un gemito terribile per l'intenso dolore. Versai l'acqua della mia fiasca e lavai il sangue, nero e denso, dalla ferita. Temetti che sarebbe morto lì, nel deserto, sotto la luna e le stelle, con la testa tra le mie mani come un calice di incubi. Arrivò Simut che diede un'occhiata all'orribile ferita. «Vado a cercare Pentu. Non muoverlo», gridò allontanandosi. Restai insieme al battitore accanto al re, che si era messo a tremare violentemente per lo shock. Strappai la pelle di pantera dal fondo del cocchio e lo coprii più delicatamente possibile. Cercava di parlare. Abbassai la testa per discernere le parole. «Mi dispiace», continuava a ripetere. «La ferita è superficiale», dissi cercando di rassicurarlo. «Sta arrivando il medico. Guarirete.» Mi fissò dalla lontananza della sua agonia e capii che si rendeva conto di aver udito una menzogna. Arrivò Pentu ed esaminò il re. Controllò innanzitutto la testa, ma
a parte il gonfiore dei lividi e i lunghi graffi su un lato del volto, non c'erano versamenti di sangue nel naso o nelle orecchie, e decretò che il cranio non era fratturato. Era già qualcosa. Poi esaminò la ferita e l'osso spezzato alla luce delle torce. Alzò lo sguardo verso di me e Simut, e scosse la testa. Non era un buon segno. Ci mettemmo in disparte per non farci udire dal re. «È una fortuna che l'arteria non sia stata tranciata. Ma perde moltissimo sangue. Dobbiamo ricomporre immediatamente la frattura», disse. «Quaggiù?» domandai. Annuì. «È indispensabile non spostarlo fino a quando non avremo finito. Avrò bisogno del tuo aiuto. Non è facile ricomporre una frattura tanto grave e considera che la coscia e la gamba hanno una muscolatura potente. Le epifisi frammentate potrebbero accavallarsi, ma non possiamo muoverlo fino alla fine dell'operazione.» Valutò l'angolatura delle ossa spezzate. Gli arti del re sembravano i pezzi di una bambola mutilata. Pentu gli mise un pezzo di tela arrotolata tra i denti tremanti. Mentre gli tenevo fermo il busto e l'attaccatura della coscia, e Simut l'altro lato del corpo, Pentu spinse velocemente in basso il femore e, con una mossa esperta, ricompose le epifisi frammentate. Il re urlò come un animale. Quel rumore di cartilagine mi fece venire in mente che, ogni tanto, in cucina, spezzo il cosciotto di gazzella e con una torsione stacco le ossa della zampa dall'acetabolo. Quello era un lavoro da macellai. Il re vomitò e perse conoscenza. Pentu si mise all'opera alla luce tremolante delle torce, cucendo la brutta ferita con un ago ricurvo di rame che estrasse da una custodia fatta di ossa di uccelli. La spalmò con olio e miele e la legò stretta con le bende di lino. Infine, per affrontare il viaggio di ritorno al campo, immobilizzò il più possibile la gamba con una stecca imbottita di lino che fu tenuta in posizione dai nodi. Il re fu trasportato nel suo alloggio. Aveva la pelle viscida e slavata. Ci riunimmo per un rapido consulto a bassa voce.
«La frattura non potrebbe essere peggiore di così, un po' perché l'osso si è frammentato invece di spezzarsi di netto, un po' perché la pelle si è lacerata rendendo la carne vulnerabile alle infezioni. C'è stata una perdita di sangue. Se non altro, la frattura è stata ricomposta. Preghiamo Ra affinché gli passi la febbre e la ferita guarisca», disse Pentu in tono grave. Un terrore inespresso si era impadronito di noi. «Adesso dorme, e questa è già una buona cosa. Il suo spirito andrà a implorare gli dei dell'Aldilà perché gli concedano più tempo e più vita. Preghiamo affinché si lascino persuadere.» «Che cosa possiamo fare?» domandai. «La cosa più sensata, dal punto di vista medico, sarebbe trasportarlo in tutta fretta a Menfi», disse Pentu, «dove potrei curarlo in modo adeguato.» Simut lo interruppe: «A Menfi sarebbe circondato da nemici. È probabile che Horemheb sia ancora là. Io dico che dobbiamo riportarlo a Tebe in tutta segretezza e il più rapidamente possibile. L'incidente deve essere tenuto segreto fino a quando non avremo concordato con Ay la versione ufficiale degli eventi. Se il re - che gli siano concesse vita, prosperità e salute - è destinato a morire, è meglio che muoia a Tebe, in mezzo al suo popolo e vicino alla sua tomba. Dobbiamo vigilare sul modo in cui sarà interpretata la vicenda. Naturalmente, se vivrà, riceverà le migliori cure nella sua casa». Quella notte smontammo il campo e iniziammo il viaggio dolente sotto le stelle, riattraversando il deserto in direzione della nave lontana e del Grande Fiume che ci avrebbe riportati a casa, nella città. Cercai di non pensare che cosa sarebbe stato di noi e delle Due Terre se il re fosse morto.
Capitolo 33 Per tutto il viaggio di ritorno a Tebe, vegliai ogni notte al capezzale di Tutankhamon che continuò a contorcersi e a rivoltarsi nell'agonia della febbre. Il cuore gli batteva forte in petto, fragile e ingabbiato come un uccellino. Pentu gli somministrò dei purganti per impedire che l'insorgenza della putrefazione nelle viscere diffondesse la patologia al cuore. Lottò con la ferita nella gamba, annodando e riannodando le stecche di legno, cambiando regolarmente l'imbottitura di lino, perché le ossa frammentate avessero qualche possibilità di rinsaldarsi. Aveva fatto di tutto per tenere pulita la ferita; al principio vi aveva legato carne fresca, poi aveva applicato impiastri di miele, grasso e olio. Ma ogni volta che cambiava le bende e spalmava la resina di cedro, mi accorgevo che i labbri tardavano a rimarginarsi, e ora un'ombra nera si spandeva nella carne, sotto la pelle, in ogni direzione. Emanava un odore disgustoso di carne in decomposizione. Pentu le provò tutte: decotto di corteccia di salice, farina d'orzo, la cenere di una pianta di cui non volle rivelare il nome, mescolata ad aceto e cipolla, e un unguento bianco ricavato da minerali estratti nelle miniere delle oasi. Nessun rimedio fece effetto. La seconda mattina del viaggio, con il permesso di Pentu, parlai al re. La nuova luce del giorno che entrava nel suo alloggio parve calmarlo e rincuorarlo dopo la lunga notte dolorosa. Era stato lavato e vestito con indumenti puliti. Ma era già zuppo di sudore e aveva lo sguardo opaco. «Vita, prosperità e salute», dissi a bassa voce, rendendomi conto della feroce ironia della formula. «Nessun livello di prosperità, nessuna quantità d'oro o di tesori può ridare vita e salute», bisbigliò. «Il medico confida in una completa guarigione», dissi, sforzandomi
di mantenere un'espressione incoraggiante. Mi fissò come un animale ferito. Sapeva che non era vero. «Ieri notte ho fatto un sogno strano», ansimò. Attesi che trovasse la forza di continuare. «Ero Horus, figlio di Osiride. Ero il falco che si librava in alto nel cielo avvicinandosi agli dei.» Gli asciugai il sudore che gli imperlava la fronte bollente. «Volavo tra gli dei.» Cercò con ansia il mio sguardo. «Poi cos'è successo?» domandai. «Qualcosa di brutto. Precipitavo a terra lentamente, sempre più giù... quindi ho aperto gli occhi. Guardavo le stelle nell'oscurità. Sapevo che non le avrei mai raggiunte. E a poco a poco hanno cominciato a spegnersi, a una a una, sempre più in fretta.» Mi afferrò la mano. «A un tratto avevo paura. Tutte le stelle si erano spente. Era tutto buio. Poi mi sono svegliato... e adesso sono spaventato all'idea di riaddormentarmi...» Rabbrividì. Gli luccicavano gli occhi, grandi e sinceri. «Era un sogno indotto dal dolore. Non dategli troppa importanza.» «Forse hai ragione. Forse non c'è nessun Aldilà. Forse non c'è nulla.» Sembrò di nuovo terrorizzato. «Avevo torto. L'Aldilà esiste. Non dubitate.» Per un attimo nessuno di noi due parlò. Sapevo che non mi credeva. «Ti prego, portami a casa. Voglio andare a casa.» «La nave procede speditamente e i venti di settentrione soffiano a nostro favore. Ci sarete presto.» Annuì con aria infelice. Gli tenni un po' più a lungo la mano calda, umida, fino a quando non girò il viso verso la parete. Io e Pentu uscimmo sul ponte. Il mondo dei campi verdi e dei
braccianti ci passò accanto come se nulla di importante stesse accadendo. «Quante possibilità ha, secondo te?» domandai. Scosse la testa. «È raro sopravvivere a una frattura così micidiale. La ferita ha causato una brutta infezione e il re si sta indebolendo. Sono molto preoccupato.» «Sembra che provi un dolore terribile.» «Cerco di somministrargli quello che ho per diminuirlo.» «Il papavero da oppio?» «Glielo prescriverò senz'altro, se il dolore si acutizzerà. Sono restio a farlo, se non è proprio indispensabile...» «Perché?» domandai. «È la droga più potente che possediamo. La sua stessa efficacia la rende pericolosa. Il re ha il cuore debole e non voglio indebolirlo ancora di più.» Fissammo il panorama senza parlare. «Posso farti una domanda?» dissi dopo un po'. Annuì con circospezione. «Ho sentito dire che esistono libri segreti, i Libri di Thot.» «Me ne hai già accennato.» «Sono convinto che contengano anche conoscenze mediche.» «E anche se fosse?» ribatté. «Sarei curioso di sapere se parlano di sostanze segrete che possono indurre visioni...» Pentu mi guardò molto attentamente. «Se vi fossero sostanze di quel tipo, la loro esistenza sarebbe rivelata soltanto a quanti, per saggezza e rango, avessero il diritto di acquisirne la conoscenza. A ogni modo, perché vuoi saperlo?» «Sono curioso.» «Non è il modo giusto per invogliare qualcuno a rivelare segreti gelosamente custoditi», replicò. «Lo so, ma qualunque informazione tu possa darmi mi sarebbe d'aiuto.»
Tentennò. «Dicono che esista un fungo magico. Si trova soltanto nelle regioni boreali. Secondo alcune voci, genera visioni degli dei... ma in verità non sappiamo niente di certo su questo fungo e nessun abitante delle Due Terre l'ha mai visto e tanto meno provato per confermare o confutare i suoi poteri. Perché me lo domandi?» «Ho avuto un'intuizione», replicai. Non gli sembrò divertente. «Forse ti serve qualcosa di più di un'intuizione, Rahotep. Forse è ora che anche tu abbia una visione.» Nell'ultima notte di viaggio, al re si alzò la febbre; pativa dolori spaventosi. L'ombra nera dell'infezione continuò a consumargli la gamba. Il viso smunto assunse un colorito viscido e giallastro, e gli occhi, ogni volta che li apriva sbattendo le palpebre, avevano il colore opaco dell'avorio. La bocca era riarsa, le labbra spaccate e la lingua gialla e bianca. Ora il cuore batteva lentamente. Riusciva a malapena ad aprire la bocca per bere. Finalmente Pentu gli somministrò il succo del papavero da oppio. Gli diede una calma straordinaria e compresi il potere e l'attrazione che quella droga esercitava. A notte fonda, il re aprì gli occhi. Ruppi il protocollo e presi la sua mano tra le mie. Faceva fatica a parlare persino sussurrando e si sforzò di sillabare ogni parola nella fiacchezza dello stato ipnotico causato dall'oppio. Guardò l'anello di protezione con l'Occhio di Ra che mi aveva regalato. Allora, con uno sforzo enorme, chiamando a raccolta le ultime riserve di energia, parlò. «Se sono destinato a morire e a essere ammesso nell'Aldilà, a te chiedo questo: accompagna il mio corpo fino a dove ti è possibile. Scortami fino alla tomba.» Gli occhi a mandorla mi fissarono ansiosi dal viso macilento. Riconobbi le rigide fattezze e la strana intensità della morte imminente. «Vi do la mia parola», dissi.
«Gli dei mi aspettano. Mia madre è lì. La vedo. Mi chiama...» Sollevò lo sguardo nell'aria inconsistente dove vide qualcuno che io non potevo vedere. La sua mano era piccola, leggera e bollente. La tenni tra le mie con tutta l'attenzione di cui fui capace. Guardai l'anello con l'Occhio di Ra che mi aveva donato. Non era riuscito a proteggerlo, come non c'ero riuscito io. Sentii che il polso rallentava a poco a poco fin quasi a scomparire, e lo auscultai attentamente fino a poco prima dell'alba, quando il re emise un ultimo, lungo, appena percettibile sospiro, che non esprimeva delusione e nemmeno compiacimento, e l'uccello del suo spirito uscì da Tutankhamon, Immagine vivente di Amon, per volare in eterno nell'Aldilà; allora, con un movimento delicato, la sua mano abbandonò le mie.
PARTE TERZA
Il tuo volto si è aperto nella Casa delle Tenebre Il Libro dei Morti Formula 169
Capitolo 34 La Diletta di Amori entrò nel porto di Malkata il giorno dopo, passato da poco il tramonto. Il cielo che si stava oscurando aveva qualcosa di minaccioso che ben si adattava alle circostanze. Nessuno parlò. Il mondo intero sembrava ridotto al silenzio; si udiva soltanto il tetro rumore dei remi che venivano immersi e alzati con un ritmo costante. L'acqua aveva una lucentezza innaturale, monotona, del serico grigio che preannuncia una tempesta di sabbia. Sul lungo molo d'attracco di pietra del palazzo c'erano poche persone in attesa. Mi accorsi che sulla banchina era stata accesa soltanto una lampada. Eravamo stati preceduti dal nostro messaggero, che recava la notizia peggiore di tutte. Avremmo dovuto far ritorno con il re circonfuso di gloria. Al contrario, lo stavamo riportando a casa e alla tomba. Ero in piedi accanto al corpo del re. Pareva così piccolo e fragile. Era stato avvolto in una tela di lino pulito. Si vedeva solo il viso, calmo, immobile e assente. Lo spirito se n'era andato. Restava solo quell'involucro rigido. A questo mondo non c'è niente di più vuoto del corpo di un defunto. Simut scese a terra, mentre attendevo accanto al re che arrivassero le guardie. Le udii camminare sulla passerella e poi, nel silenzio che seguì, Ay entrò nella cabina reale. Si curvò sul corpo di Tutankhamon per osservare con i propri occhi quella disgrazia. Si chinò un po' di più per portarsi all'altezza dell'orecchio del re, l'orecchio da cui entra il fiato della morte. Lo udii sussurrare: «Da vivo sei stato un bambino inutile. Sarà la morte a farti diventare adulto». E si raddrizzò con movimenti rigidi. Il re rimase impassibile a quelle parole nel suo letto di morte d'oro. Ay mi squadrò con i suoi occhi di sasso, il viso crudele immune al sentimento. Senza proferire parola, fece cenno alle guardie di spostare sul catafalco il corpo del re e queste lo portarono via.
Io e Simut seguimmo il feretro per i corridoi e le camere interminabili del Palazzo di Malkata, completamente deserti. Sembravamo dei ladri che stessero riportando un oggetto rubato alla tomba cui apparteneva. Riflettei che, se non altro, non eravamo ancora in ceppi. Ma forse era solo questione di tempo. Poco importava come si fosse svolto l'incidente, saremmo stati comunque incolpati per la morte del re. Avevamo la responsabilità della sua sicurezza e avevamo fallito. D'improvviso desiderai con tutto l'animo di poter tornare a casa. Volevo allontanarmi da quella camera e dai corridoi indifferenti del potere, attraversare le acque nere del Grande Fiume, percorrere tranquillamente la strada che portava a casa mia, chiudermi la porta alle spalle, raggomitolarmi accanto a Tanefert, dormire e poi, dopo molte ore di sonno, risvegliarmi alla quotidianità di un giorno di sole e sapere che tutto era stato solo un sogno. Adesso il mio tormento era la realtà. Ci scortarono fino alla camera del re e ci lasciarono fuori in attesa. Il tempo passò con indefinibile lentezza. Dalle spesse porte di legno arrivavano voci soffocate che talvolta si alzavano di tono. Io e Simut ci scambiammo un'occhiata, ma lui non tradì i suoi pensieri né i suoi sentimenti. Le porte si aprirono all'improvviso e fummo ammessi. Tutankhamon, Signore delle Due Terre, era stato deposto sul suo giaciglio con le mani sottili incrociate sul magro petto. Non era ancora stato vestito con i paramenti funebri. Era circondato dai balocchi e dalle scatole con i giochi della sua infanzia perduta. Erano senz'altro quelli gli oggetti che avrebbe avuto cari nell'Aldilà, non i paramenti aurei che si addicevano al suo status regale. Ankhesenamon fissava il viso del marito morto. Quando alzò lo sguardo su di me, vidi che il suo viso era scavato dal dolore e dal senso di sconfitta. Sarebbe mai riuscita a perdonarmi? Ero venuto meno ai miei doveri verso di lei, oltre che verso il sovrano. Adesso era sola, nel Palazzo delle ombre. Era l'ultima rimasta della sua dinastia. Nessuno è più vulnerabile di una regina vedova senza un erede. Di punto in bianco, Ay tamburellò le pietre del pavimento con il
bastone da passeggio. «Non dobbiamo abbandonarci al dolore. Non c'è tempo per piangere i morti. Ci sono troppe cose da fare. Per il mondo, l'incidente non ha mai avuto luogo. Nessuno è autorizzato a raccontare ciò che ha visto. La parola morte non sarà pronunciata. Continueranno le consegne di cibo fresco e vesti pulite nell'anticamera. La nutrice si occuperà ancora di lui. Il suo corpo sarà purificato e agghindato qui, in segreto, e dal momento che la sua tomba non è ancora pronta, sarà sepolto nella mia, nella necropoli reale. È perfettamente adeguata e non ci vorrà molto per adattarla allo scopo. Stanno già preparando le bare d'oro. Sarò io a scegliere e mettere insieme gli oggetti preziosi per la sepoltura e il corredo funebre. Tutto deve essere fatto in fretta e, soprattutto, in segreto. Quando la sepoltura sarà portata a termine, allora, e solo allora, annunceremo la sua morte.» L'incredibile proposta scosse dal suo dolore Ankhesenamon, che ruppe il silenzio seguito alle parole di Ay. «È assolutamente inaccettabile. Le esequie e il funerale devono essere celebrati con tutti gli onori e la dignità. Perché dovremmo fingere che non è morto?» Ay le si avvicinò furibondo. «Come fate a essere così ingenua? Non capite che è in gioco la stabilità delle Due Terre? La morte di un re è il periodo più vulnerabile e potenzialmente catastrofico nella vita di una dinastia. Non c'è un erede. E questo perché dal vostro grembo sono usciti soltanto neonati deformi e nati morti», le disse schernendola. Lanciai un'occhiata ad Ankhesenamon. «È stata la volontà degli dei», replicò la regina fissandolo con gelida rabbia. «Dobbiamo assumere il controllo della situazione prima che il caos ci travolga. Adesso i nostri nemici cercheranno di distruggerci. Io sono il Padre divino, Colui che agisce con rettitudine, e ogni mio comando è legge. Dobbiamo mantenere l'ordine di maat con tutti i mezzi necessari. Le divisioni del Medjay hanno già ricevuto istruzioni per impedire ogni tipo di assembramento e troncare sul nascere
qualsiasi disordine nelle strade. Gli uomini saranno appostati in tutta la città e lungo le mura del tempio.» Sembravano i preparativi per lo stato di emergenza. Quale tipo di protesta poteva creare tanto allarme? Chi erano i nemici di cui parlava? Non poteva trattarsi che di Horemheb. Era la peggior minaccia che incombeva su Ay; Horemheb, generale delle Due Terre, non avrebbe avuto difficoltà a montare una campagna per la conquista del potere. Era giovane, comandava l'esercito, era spietato e intelligente. Ay era vecchio. Lo guardai, l'uomo con le ossa e i denti doloranti e la sua mania per l'ordine; il suo potere terreno, che per tanto tempo era parso assoluto, d'improvviso sembrava vulnerabile e indebolito. Ma non andava preso sotto gamba. Ankhesenamon se ne accorse. «C'è un altro modo. La situazione si potrebbe risolvere con una successione immediata ed energica. Sono l'ultima discendente della mia linea ereditaria e, in nome di mio nonno e del mio bisnonno, rivendico le corone», controbatté con orgoglio. La incenerì con uno sguardo sprezzante che avrebbe fulminato una pietra. «Siete soltanto una fragile bambina. Non abbandonatevi alle fantasticherie. Già una volta avete provato inutilmente a contrastarmi. Sarò io stesso a incoronarmi re, e tutto questo accadrà in breve tempo; non ci sono altre persone adatte a governare.» La regina si sentì provocata. «La proclamazione di un re non può avvenire fino a quando non sono stati completati i Giorni della Purificazione. Sarebbe un sacrilegio.» «Non sfidate la mia volontà. Così sarà. È necessario, e la necessità è la più persuasiva di tutte le motivazioni», gridò Ay con il bastone che gli tremava nella mano. «Che ne sarà di me?» domandò lei, opponendo una calma composta alla rabbia dell'uomo. «Se la fortuna vi sorridesse, potrei persino decidere di sposarvi. Ma bisogna valutare l'utilità di questa mossa. Non mi sembra che ne
valga la pena.» Lei scosse la testa con aria di scherno. «Il tuo parere non conta. Sono la regina.» «Solo di nome! Non avete alcun potere. Vostro marito è morto. Siete completamente sola. La prossima volta, pensateci bene prima di aprir bocca.» «Non permetto che mi si parli in questo modo. Farò una proclamazione in pubblico.» «Ve lo proibisco e lo impedirò con ogni mezzo necessario.» Si fissarono. «Rahotep è stato nominato mia guardia personale. Ricordatelo.» Ay si limitò a ridere. «Rahotep? L'uomo che doveva vegliare sul re e l'ha riportato a casa morto? I risultati parlano da soli.» «La morte del re non è avvenuta per causa sua. È un uomo fedele. Questo è ciò che conta di più», replicò lei. «Un cane è fedele, ma questo non lo rende prezioso. Sarà Simut a vigilare su di voi. Per il momento, porterete il lutto in privato. Rifletterò sul vostro futuro. Per quanto riguarda Rahotep, gli era stata affidata una grande responsabilità. Il risultato non potrebbe essere peggiore. Penserò poi al suo destino», disse con fare indifferente. Sapevo che avrebbe pronunciato quelle parole. Pensai a mia moglie e ai miei figli. «E il leone?» domandò Simut. «Non possiamo ammettere pubblicamente che il re è tornato senza il trofeo.» «Ammazzate quello addomesticato ed esibitelo», replicò Ay con noncuranza. «Nessuno si accorgerà della differenza.» Ciò detto, se ne andò, facendosi accompagnare dalla regina. Io e Simut restammo di fronte all'esile corpo del re, il giovane che avevano affidato alle nostre cure. Era la personificazione della nostra sconfitta. Con quel fascio di pelle e ossa qualcosa finiva e
qualcos'altro cominciava: la guerra per il potere. «Dubito che Ay possa tenere nascosta la notizia», disse Simut. «La gente sa interpretare i segni. Non ci vorrà molto perché si accorga dell'assenza del re dalla vita pubblica. Dopo il clamore suscitato dalla caccia reale e l'atteso ritorno del sovrano circonfuso di gloria, le congetture si moltiplicheranno.» «Ecco perché Ay ha bisogno di seppellire in gran fretta Tutankhamon e proclamarsi re», replicai. «Deve anche tenere lontano Horemheb il più a lungo possibile.» «Il generale è vigile come uno sciacallo. Sono certo che fiuterà la morte del re e coglierà l'occasione per affrontare Ay», disse Simut. «È una prospettiva che non lascia spazio all'ottimismo.» Restammo a guardare il delicato viso del re morto. Quel volto rappresentava qualcosa che trascendeva la sua stessa persona: una catastrofe per il regno delle Due Terre, se la lotta per il potere non si fosse conclusa in fretta. «La cosa che mi impensierisce di più è la vulnerabilità di Ankhesenamon nel confronto con quei due», dissi. «È fonte di grave preoccupazione», ammise. «Se Horemheb tornasse a Tebe proprio adesso, sarebbe un disastro.» «Lo sarebbe ancora di più se entrasse nel palazzo», osservò Simut, «ma come possiamo impedirglielo fintanto che sua moglie vive qui? Forse bisognerebbe trasferirla altrove.» Non lo sapevo. «Mutnodjmet? Vive a palazzo?» Annuì. «Nessuno ha mai pronunciato il suo nome da quando sono qui», obiettai. Girò la testa accostandola alla mia. «Nessuno parla di lei in pubblico. Ma pare che sia pazza. Vive in un appartamento da cui non esce mai. Dicono che abbia solo due nani a farle compagnia. Non so se si trovi in quella situazione di sua
volontà, o se sia stato il marito a imporglielo.» «Insomma, l'avrebbe imprigionata.» «Mettila come vuoi, però quella donna non ha libertà di movimenti. È il segreto di famiglia.» I miei pensieri corsero veloci come un cane quando fiuta la preda nascosta e sa di averla vicina. «Ho altri incarichi da sbrigare, ma parleremo ancora, da qualche parte. Cosa conti di fare?» domandò. «Non ho un futuro, a quanto sembra», dissi con un tono spensierato che non corrispondeva ai miei sentimenti. «Non sei ancora in ceppi.» «Sospetto che se tentassi di lasciare il palazzo, mi capiterebbe uno strano incidente.» «Allora, non te ne andare. Qui hai un ruolo. Proteggi la regina. Per parte mia, ti offro la protezione delle mie guardie e quel po' di sicurezza che conferisce l'autorità del mio nome.» Feci un cenno di assenso con gratitudine. «Ma prima voglio fare una cosa. Parlare con Mutnodjmet. Sai dove si trovano le sue stanze?» Scosse la testa. «Lo hanno tenuto segreto persino a me. Tu, però, conosci qualcuno che potrebbe portartici.» «Khay?» Annuì. «Chiedi a lui. E ricorda: non hai nessuna colpa di quanto è successo, come non ce l'ho io.» «E secondo te il mondo ci crederà?» ribattei. Scosse la testa. «In ogni caso, è la verità, un dato non trascurabile persino in un'epoca come questa dominata dall'inganno», replicò, dopodiché si allontanò lasciandomi solo col cadavere.
Capitolo 35 Perché nessuno mi aveva mai parlato di Mutnodjmet? Nemmeno Ankhesenamon, sua nipote. Eppure, la sorella di Nefertiti, la moglie di Horemheb, generale delle Due Terre, era sempre stata prigioniera nelle mura del Palazzo di Malkata. Forse era soltanto una povera pazza, la vergogna vivente della famiglia, e per quella ragione la tenevano rinchiusa, lontana dallo sguardo della gente. Nondimeno, costituiva un legame tra la dinastia reale e Horemheb. Questi si era accasato con il potere e, a quanto sembrava, acconsentiva alla reclusione della moglie. Riflettevo sulla questione quando, lentamente e senza fare rumore, si aprì la porta della camera. Rimasi in attesa cercando di capire chi fosse l'intruso. Una figura vestita di nero si accostò al letto camminando in silenzio sul pavimento di pietra. «Fermo lì!» La figura si impietrì. «Voltati», ordinai. La figura si girò lentamente dalla mia parte. Era Maia, la nutrice. Non tentò nemmeno di mascherare il disprezzo che provava per me. Il suo viso era deformato dal dolore. Allora, con gesto preciso e attento, mi sputò addosso. Non aveva più niente da perdere. Mi asciugai la saliva sul viso. Si avvicinò al cadavere. Si chinò teneramente sul suo re e baciò con reverenza la gelida fronte. «Era il mio bambino. L'ho nutrito e mi sono presa cura di lui dal giorno in cui è nato. Mi sono fidata di te. E guarda che cosa hai riportato. Ti maledico. Maledico la tua famiglia. Che la disgrazia colpisca tutti voi, come ha colpito me per mano tua!» Ora il suo viso era livido di rabbia. Senza attendere una risposta, o forse non desiderandola, cominciò a lavare il corpo con acqua in cui era stato disciolto il natron. Sedetti su uno sgabello e osservai. Intervenne sul corpo con
amore e cura infinita, sapendo che sarebbe stata l'ultima occasione per toccarlo. Lavò le braccia inerti e le mani che ciondolavano senza vita, prendendo un dito alla volta e asciugandolo come avrebbe fatto con un bimbo inerme. Strofinò delicatamente il panno sul torace esile e immobile, asciugò ogni costola seguendone il tracciato, ripeté l'operazione con le spalle strette e le ascelle poco incavate. Fece scorrere il panno per tutta la lunghezza della gamba sana. Poi, con delicatezza, lo passò intorno alla ferita in suppurazione della gamba spezzata, come se il re fosse ancora sensibile al dolore. Infine si inginocchiò ai suoi piedi. Ascoltai il quieto rumore del panno che veniva sciacquato nell'acqua aromatizzata, dello sgocciolio quando lo strizzava, dei movimenti ripetuti quando lo passava tra le dita dei piedi, attorno alle fragili caviglie e per tutta la lunghezza dei piedi inerti, che baciò dopo aver terminato il suo lavoro. Piangeva silenziosamente e dal mento stillavano le lacrime. Secondo l'uso consacrato dal tempo, gli ripiegò le braccia, pronte ad accogliere il pastorale d'oro e il flagello, simboli reali dell'Alto e del Basso Egitto, e di Osiride, il primo re, Signore dell'Aldilà, che altri gli avrebbero messo tra le mani a tempo debito. Infine, da una delle cassapanche dove si riponevano gli abiti, trasse un bel collare d'oro e un pettorale d'oro ingioiellato, con uno scarabeo incastonato al centro che spingeva in alto il disco di corniola rossa del sole alla luce del nuovo giorno, e glieli appoggiò sul petto. «È pronto a ricevere il Verificatore dei Misteri», bisbigliò. Si accomodò su uno sgabello di lato, allontanandosi il più possibile da me, e cominciò a mormorare le sue preghiere. «Maia», dissi. Mi ignorò. Riprovai. «Dov'è l'alloggio di Mutnodjmet?» domandai. Aprì gli occhi. «Ah, adesso che è troppo tardi, fa la domanda giusta.» «Dimmi: perché è la domanda giusta?» «Perché dovrei dirtelo? Per me è tardi. Lo è anche per te. Avresti dovuto prestarmi ascolto in passato. Non parlerò più. Rimarrò in silenzio per sempre.»
Stavo per insistere, quando la porta si aprì ed entrò nella stanza il Verificatore dei Misteri con indosso la maschera a testa di sciacallo raffigurante Anubi, dio dei morti, accompagnato dai suoi assistenti. Secondo la consuetudine, il corpo doveva già essere stato portato nell'area segreta preposta alle imbalsamazioni, lontano dagli alloggi dei vivi, dove l'avrebbero lavato, eviscerato, seccato con il sale, unto e avvolto nelle bende. Immaginai fosse stato Ay, con la sua insistenza per la segretezza, a ordinare che il corpo restasse nella camera da letto. Il sacerdote incaricato di leggere i testi sacri iniziò a enumerare le istruzioni e a pronunciare le prime parole magiche, mentre i membri meno importanti del clero allestivano la camera con l'indispensabile attrezzatura: strumenti, ganci, lame di ossidiana, resine, acqua, sale, vino di palma, spezie e le tante bende che sarebbero state utilizzate durante il lungo procedimento. Sistemarono la tavola inclinata per l'imbalsamazione su quattro blocchi di legno, sollevarono rispettosamente il corpo del re e ve lo deposero. In un momento successivo del rituale, il corpo sarebbe stato coperto da un lenzuolo funebre e avvolto nelle bende; dopodiché tra le pieghe e gli strati della stoffa finissima sarebbero stati nascosti gioielli, anelli, braccialetti, collari e amuleti magici dal valore inestimabile, mentre ogni atto sarebbe stato accompagnato da parole e formule. I gesti devono attenersi fedelmente alla tradizione per aver valore nell'altra vita. Infine, avrebbero deposto la maschera mortuaria affinché l'ultimo volto d'oro identificasse il defunto, consentendo al suo ka e al suo ba di riunirsi al corpo nella tomba. Il Verificatore dei Misteri rimase ai piedi della tavola di imbalsamazione, assorto sul corpo del re. Tutto era pronto per l'inizio dell'opera di purificazione. Allora diresse il suo sguardo su di me. Nelle aperture eleganti, intagliate nel nero della maschera, vidi soltanto la cornea degli occhi celati. In quel silenzio soffocante, tutti i suoi assistenti si voltarono a guardarmi. Era tempo che me ne andassi.
Capitolo 36 Bussai alla porta dell'ufficio di Khay. Dopo un attimo il suo assistente venne ad aprire. Mi lanciò uno sguardo ansioso. «Il mio padrone è occupato», disse calcando le parole e cercando di frapporsi tra me e la porta che dava sulla camera interna. «Sono sicuro che può dedicarmi qualche momento del suo prezioso tempo.» Attraversai l'anticamera ed entrai nell'ufficio di Khay. Il viso ossuto era infuocato. Fu colto di sorpresa e, non essendo del tutto sobrio, non riuscì a dissimularlo. «Il grande Indagatore di Misteri fa il suo ingresso solenne...» Vidi che teneva una coppa piena di vino sul suo tavolo basso; proprio lì accanto, un'anfora era appoggiata su un sostegno. «Mi dispiace disturbarti a quest'ora. Pensavo che fossi a casa con la tua famiglia. Hai una casa e una famiglia?» Mi guardò di traverso. «Cosa vuoi, Rahotep? Ho da fare...» «Lo vedo.» «Se non altro, c'è qualcuno che svolge con competenza il proprio lavoro.» Lo ignorai. «Ho scoperto un fatto curioso.» «Fa piacere sentire che il nostro Indagatore di Misteri ha scoperto qualcosa...» La sua bocca pareva in leggero anticipo sul cervello. «Mutnodjmet risiede entro le mura del palazzo.» Aveva alzato il mento e lo sguardo si era fatto improvvisamente circospetto.
«E questo cosa c'entra con i compiti che sei chiamato a svolgere qui?» «È la moglie di Horemheb e la zia di Ankhesenamon.» Batté le mani e il suo viso diventò una caricatura. «Che meticolosa ricerca nell'albero genealogico!» Malgrado l'ironia, era nervoso. «Confermi che è detenuta nel palazzo?» «Lo ripeto: la faccenda non ha alcuna attinenza con i problemi più urgenti.» Mi avvicinai. I capillari rotti pulsavano leggermente sotto la pelle gonfia e rugosa attorno agli occhi. Stava precipitando rapidamente nella mezza età. La tensione a cui lo sottoponeva il suo ruolo non lo avrebbe aiutato e non sarebbe stato il primo a consolarsi col vino. «Io la penso diversamente, e pertanto ti prego di rispondere alla mia domanda.» «Non ho alcuna intenzione di farmi interrogare da te.» Adesso aveva drizzato il pelo. «Come saprai, il re e la regina mi hanno autorizzato a seguire le mie inchieste ovunque mi portino e non riesco a capire perché tu faccia tante storie per rispondere a una semplice domanda», replicai. Batté le palpebre, lievemente titubante. Infine rispose: «Non è affatto detenuta, come dici tu. Vive nell'ala del palazzo in cui si trovano i suoi appartamenti, con gli agi e la sicurezza offerti dalla residenza reale». «Non è quello che ho sentito dire.» «La gente dice un mucchio di sciocchezze.» «Se è tutto così semplice e chiaro, perché nessuno me ne ha mai parlato?» «Ah, ecco! Sei alla disperata ricerca di una direzione per la tua inutile indagine sul mistero. Ma ormai non ha più senso e ti consiglio di non seguire quella pista.» «Perché?» «Perché finiresti in un vicolo cieco.» «Come fai a esserne così certo?» «È una povera pazza che non lascia le sue stanze da anni. Cosa vuoi che abbia a che fare con tutto questo...?»
Si girò. Gli tremarono leggermente le mani quando alzò la coppa di vino e bevve una bella sorsata. «Portami da lei. Adesso.» Appoggiò la coppa troppo in fretta e gli schizzò un po' di vino sulla mano. Ne fu irritato e, invece di ripulirsi, lo leccò. «Non hai nessun motivo per chiedere un colloquio con lei.» «Devo disturbare Ay o la regina con la mia richiesta?» Tentennò. «È veramente ridicolo, se si pensa alle questioni d'importanza vitale che sono in gioco ora, però, se insisti...» «Allora andiamo.» «È tardi. La principessa starà dormendo. Domani.» «No. Adesso. Cosa ne sai degli orari dei matti?» Ci avviammo per i corridoi. Intendevo memorizzare il nostro percorso, quasi tracciando una mappa sul papiro della mia memoria, per essere poi in grado di localizzare con esattezza i suoi appartamenti e saperli ritrovare se ne avessi avuto bisogno. Non era un'impresa facile, perché i corridoi si rimpicciolivano in semplici passaggi e si facevano sempre più stretti e curvi. I bei dipinti murali raffiguranti le paludi di papiri e i mosaici dei fiumi popolati da pesci dalle forme perfette su cui poggiavamo i piedi lasciarono il posto a pareti di semplice intonaco, dipinto con colori banali, e a pavimenti di terra battuta. Le lampade a olio finemente lavorate che fiancheggiavano i varchi principali divennero via via più simili a quelle ordinarie che si trovano in qualsiasi casa di media agiatezza. Giungemmo a una porta. Nessuna decorazione abbelliva l'architrave. Non c'erano guardie a sorvegliarla. Avrebbe potuto essere l'ingresso di un magazzino. I chiavistelli erano legati insieme e sigillati. Khay stava sudando; sulla nobile fronte si erano raccolte minuscole gocce di sudore. Feci un cenno col capo. Bussò, piuttosto incerto. Ascoltammo, ma non vi fu traccia di movimento. «Dev'essere andata a dormire.»
Visibilmente sollevato, si girò per andarsene. «Bussa più forte», suggerii. Visto che esitava, bussai io stesso col pugno. Ancora silenzio. Forse quella era davvero una pista sbagliata. Fu allora che udii dei passi attutiti sul pavimento. Sotto la porta apparve un timido bagliore di luce. C'era senz'altro qualcuno. All'altezza degli occhi comparve sulla porta un puntino luminoso. Qualcuno ci stava osservando da uno spioncino. La porta fu sbatacchiata con furia insensata. Khay fece un balzo indietro. Fui io a rompere i sigilli, a slegare i nodi della corda che legava i chiavistelli e a spalancare le porte.
Capitolo 37 La camera tetra era illuminata dalla lampada a olio che la donna teneva in mano e dalle candele dozzinali collocate nelle nicchie del muro che ardevano spandendo un fumo oleoso e proiettando una luce lugubre su ogni cosa. Mutnodjmet, sorella di Nefertiti, moglie di Horemheb, era molto magra; la pelle che non vedeva mai il sole pendeva sull'ossatura elegante, tristemente visibile tra le pieghe della veste ordinaria. Aveva il cranio rasato. Non portava la parrucca. Aveva le spalle arrotondate. Il viso, che mostrava gli stessi zigomi alti di quello della sorella, senza nemmeno un'ombra della sua compostezza, aveva un che di indolente e gli occhi, non fossero stati apatici, avrebbero avuto un'espressione infelice. Era una povera cosa. Si avvertiva in lei un bisogno triste, disperato, impossibile da soddisfare. Capii subito che non avrei dovuto fidarmi di quella donna. Malgrado l'inerzia, dentro di lei covava il vizio, avvolto come un cobra nelle sue spire e pronto a scattare. Accanto a Mutnodjmet, uno da una parte, uno dall'altra, c'erano due nani. Indossavano abiti e gioielli di buona qualità intonati tra loro e portavano pugnali a loro volta intonati, segno della loro appartenenza a un rango prestigioso. Non era un fatto insolito; molti uomini di quella statura e con quell'aspetto avevano conquistato posizioni di responsabilità nelle corti del passato. Era però insolito il fatto che fossero identici. Non sembravano contenti di essere stati disturbati. Mutnodjmet continuò a fissarmi senza capire, col capo abbassato e la bocca semiaperta. Non capiva chi fossi, né la ragione della mia presenza in quel luogo. «Perché non mi hai portato niente?» piagnucolò in un tono ben più cupo della delusione. «Che cosa avrei dovuto portarti?» domandai. Mi osservò con i suoi occhi spenti e tutto a un tratto mi urlò in faccia una straordinaria sequela di insulti, dopodiché se ne andò in
un'altra stanza strascicando i piedi. I nani continuavano a fissarci con un'espressione ostile. Immaginai che sapessero usare i pugnali. Forse la piccola statura avrebbe concesso loro un vantaggio; dopo tutto, pensai con un po' di apprensione, sono tanti i danni che si possono infliggere sotto la cintola. «Come vi chiamate?» Si scambiarono in fretta un'occhiata, come per dire: «Chi è quest'idiota?» Intervenne Khay. «Siamo venuti a fare una breve visita alla principessa.» «Non riceve visitatori», disse uno dei nani con una voce inaspettatamente sonora. «Nessuno?» domandai. «Perché volete vederla?» domandò l'altro nano con una voce identica. Sembrava di parlare a due facce con una mente sola. La situazione aveva un lato comico. Sorrisi. Non ci trovarono nulla di divertente e le piccole mani afferrarono il manico dei pugnali. Khay stava cominciando a tergiversare quando fu interrotto. «Ah, fateli entrare», strillò la donna dall'altra stanza, «ho bisogno di qualcuno che mi tenga compagnia. Chiunque, pur di non vedere sempre le vostre facce.» Passammo per il vestibolo su cui, come notai, si affacciavano altre stanze, più o meno vuote, che servivano da dispensa e una zona attrezzata per cucinare, fornita di scaffali, vasi e barattoli di cibo conservato, ed entrammo in un salone. Sedemmo sugli sgabelli. La donna era adagiata su un letto. La camera era essenziale e con poco mobilio, come se Mutnodjmet avesse ereditato qualche avanzo di seconda mano dalle residenze della famiglia. Ci osservò con gli occhi di giada, cerchiati dalle linee del kajal che aveva applicato in eccesso e in modo impreciso. Studiò Khay come se fosse un pesce andato a male.
«Ti porto Rahotep, l'Indagatore di Misteri. Ha insistito nel volerti conoscere.» Lo guardò dall'alto in basso e ridacchiò. «Che tipo scostante, questo qui. Non lo darei in pasto a un gatto... tu, invece.» Mi guardò negli occhi. Ignorai l'allusione sfacciata. Si mise a chiocciare, buttando indietro la testa come un'attrice melodrammatica. Continuai a sostenere il suo sguardo. «Oh, capisco. Il tipo forte e silenzioso. Perfetto.» Tentò di rispondere al mio sguardo con i modi della cortigiana, ma vacillò, si mise a ridere e precipitò in una crisi isterica. Qualcuno doveva averla rifornita da poco. Era ancora nella fase ilare. Tra non molto l'effetto si sarebbe smorzato, lasciandola nelle grinfie della feroce dipendenza. Avvertii l'eccitazione salirmi in petto come una meravigliosa vertigine, perché era quello l'anello mancante. Mi chiesi, tuttavia, se era davvero in grado di compiere le azioni che le attribuivo. Poteva essere stata lei a sistemare la pietra intagliata, la scatola e la statuetta? Viveva negli appartamenti reali, ma pareva che avesse la stessa libertà di movimenti di un animale in gabbia. Le sue stanze erano sigillate dall'esterno. Qualcuno la controllava; ma chi? Non il marito, almeno non direttamente, poiché si trovava lontano. Doveva trattarsi di qualcuno che aveva regolarmente accesso al palazzo e, in particolare, a quelle stanze. Inoltre, doveva essere qualcuno in grado di rifornirla. La soluzione era intrigante. La persona che aveva ammazzato quei giovani era la stessa che manovrava la principessa? Una domanda alla volta e, forse, procedendo con lentezza, cautela e precisione, sarei riuscito a dimostrare il legame. «Chi ti rifornisce?» domandai. «Di che cosa?» mi rispose con gli occhi luccicanti. «Di papavero da oppio.» Khay balzò in piedi all'istante.
«Questa è una spaventosa infrazione del protocollo oltre che un'accusa disgustosa.» «Siedi e sta' zitto!» Era terribilmente offeso. «Occupati della tua dipendenza», aggiunsi, tanto per il piacere di vendicarmi. «L'alcolismo non è diverso dall'uso di droga. Non puoi vivere senza, proprio come lei. Qual è la differenza?» Se ne ebbe a male, ma capì di non avere argomenti da opporre. «È vero», confermò la donna con voce pacata, «le cose stanno proprio così. Ho tentato di smettere ma, in realtà, senza la droga la vita mi delude. È così noiosa. È... il nulla.» «E così eccoti qua. Vivi per drogarti. Sembri già morta.» Fece un cenno triste col capo. «Ma quando la usi ti sembra di essere in uno stato di beatitudine.» A dire il vero la sua condizione somigliava ben poco alla beatitudine. Pareva fosse tra le fauci di un coccodrillo. «Chi te la porta?» domandai. Abbozzò un sorriso enigmatico e mi si avvicinò. «Ti piacerebbe saperlo, vero? Io vedo dentro di te. Sei pronto a tutto, come lo sono io. Hai bisogno delle tue risposte, come io ho bisogno della mia droga. Tu lo sai come ci si sente...» Mi infilò una mano fredda nella veste. Non mi fece alcun effetto, perciò la tirai fuori e la restituii alla proprietaria. Si sfregò il polso con tenerezza. «Non te lo dico», aggiunse con il tono petulante di una bambina. «Allora me ne vado», dissi alzandomi. «No, non te ne andare», gridò, «non essere crudele. Non abbandonare una povera ragazza.» Si rimise a piagnucolare come un gatto. Mi voltai. «Resterò con te per un po'. Ma solo se ti decidi a parlare.» Ancheggiò come una bimba seducente. Patetico, in una donna di mezza età. Poi batté la mano sulla panca e tornai a sedermi. «Fammi una domanda.»
«Dimmi chi ti fornisce la droga.» «Nessuno.» Si rimise a chiocciare di punto in bianco. «Mi sono stancato», dissi. «È uno scherzo privato tra me e lui. Con me sostiene di essere nessuno. Non sa che rido perché vedo la sua faccia vuota.» «Cosa intendi?» «Sai bene cosa intendo. In un certo senso, gli manca l'anima. È un uomo svuotato.» «Quanti anni ha? E quant'è alto?» «È un uomo di mezza età. Alto come te.» La guardai. Avvertii che nel mio cervello un filo creava nuove connessioni. «Come si chiama?» «Non ha un nome. Io lo chiamo 'il Medico'.» Il Medico. «Parlami della sua voce.» «Non ha una voce forte, ma nemmeno troppo bassa. Né giovane, né vecchia. Non è dolce, ma nemmeno aggressiva. È una voce calma. A volte ha dei toni gentili. Quasi delicati.» «E i capelli?» «Grigi. Completamente», borbottò. «Gli occhi?» «Ah, gli occhi. Anche quelli sono grigi, qualche volta azzurri, qualche altra volta grigi e azzurri. È l'unica cosa bella che ha», disse. «Cos'hanno di bello?» «Vedono ciò che gli altri non sanno vedere.» Ci pensai su. «Parlami dei messaggi.» «No, non posso», disse, «si arrabbierebbe con me. Non mi verrebbe più a trovare se parlassi dei messaggi.» Lanciai uno sguardo a Khay, che ascoltava sbalordito. «Quando viene?» «Chi lo sa. Devo aspettare. È terribile non vederlo per giorni e giorni.» «Ti ammali?»
Fece un cenno patetico col capo, lasciando cadere il mento. «Quando arriva e mi porta i regali, tutto si sistema.» «I messaggi che ti lascia contengono le istruzioni. Tutto quello che devi fare per lui. È così?» domandai. Annuì riluttante. «Devi prendere delle cose da lasciare in certi posti, vero?» Fece una pausa, annuì di nuovo e si appoggiò a me mormorando in modo da farsi udire. «Mi fa camminare per i corridoi e qualche volta mi porta nei giardini quando non c'è nessuno. Di solito ci andiamo di notte. Rimango chiusa qui dentro per giorni e giorni. Impazzisco dalla noia. Ho un bisogno disperato di vedere la luce, di vedere la vita. Ma è molto severo e mi dice di tornare in fretta, o non mi darà quello che mi serve; mi dice sempre di stare molto attenta a non farmi vedere, perché farei infuriare tutti quanti e non riceverei altri regali...» Mi guardò con gli occhi spalancati che ora avevano assunto un'espressione innocente. «Chi faresti infuriare?» «Loro.» «I tuoi familiari? Tuo marito?» Annuì con aria infelice.
«Mi trattano come se fossi un animale», sibilò. «Non c'è nessun altro che ti fa uscire da qui e ti concede un po' di libertà?» Ebbe un attimo di esitazione e mi guardò prima di scuotere la testa. Invece c'era qualcuno che si impietosiva. E pensavo di sapere chi fosse. La guardai muoversi nervosamente, mentre cercava di disfare con un movimento incessante delle dita un invisibile groviglio di fili. «Che cosa succede nel vasto mondo?» domandò, come se si fosse ricordata all'improvviso della sua esistenza. «Non è cambiato nulla», disse Khay, «è tutto uguale.» La donna mi guardò. «So che mente», disse in tono quieto. «Non posso dirti tutto», spiegai.
«Qui dentro c'è un mondo.» Si batté delicatamente la tempia come se fosse un giocattolo. «Vivo qui dentro da tantissimo tempo. Il mio è un mondo bellissimo dove i bambini sono felici, la gente balla per strada. La vita è una festa. Nessuno invecchia e le lacrime sono sconosciute. Ci sono fiori dappertutto, e colori, e cose meravigliose. L'amore cresce come il frutto della vite.» «Immagino che tuo marito non ne faccia parte.» Alzò lo sguardo all'istante e improvvisamente i suoi occhi misero a fuoco la realtà. «Hai notizie di mio marito? Quando l'hai visto?» «Qualche settimana fa a Menfi.» «A Menfi? Cosa ci fa laggiù? Non mi viene a trovare da tanto tempo. Combatte le sue guerre da anni. Me l'ha detto il Medico...» Si sentiva ingannata. «Che cosa sa il Medico di tuo marito?» domandai. «Non lo so. Mi dà sue notizie. Mi ha detto che mio marito è un grand'uomo e che dovrei essere orgogliosa di lui. Ha detto che presto sarebbe tornato e le cose avrebbero preso un altra piega.» A quelle parole inquietanti, lanciai uno sguardo a Khay. «Ho paura che mio marito non mi abbia mai amato come l'ho amato io e che non mi amerà mai. Lo vedi: è senza cuore. Forse desidera addirittura la mia morte, adesso che sono servita a uno scopo e ho fallito nell'altro. Non gli importa nulla degli esseri umani.» «In che cosa hai fallito?» domandai. Mi guardò negli occhi. «Sono sterile. Non gli ho dato un erede. È la maledizione della nostra stirpe. E per punirmi guarda che cosa ha fatto.» Si portò le mani sul misero cranio. «Mi ha fatto impazzire. Mi ha chiuso a chiave i demoni nella testa. Un giorno la fracasserò contro il muro e sarà tutto finito.» Tenni le mani di Mutnodjmet tra le mie. La manica della veste si sollevò appena, rivelando la presenza di cicatrici sui polsi. Voleva che le vedessi. «Adesso me ne devo andare. Forse è meglio che tu non dica al
Medico che sono venuto a trovarti. Non vorrei che smettesse di portarti i regali.» Fece un cenno col capo, sincero e del tutto inaffidabile. «Ti prego, ti prego, ti prego, vieni ancora a trovarmi», disse. «Se tornerai, forse mi verranno in mente altre cose da raccontarti.» «Prometto che ci proverò.» Parve accontentarsi della promessa. Volle accompagnarmi alla porta. Ricomparvero i nani, che l'assistevano come due maligni animali da compagnia. Continuò a ripetere «Addio, addio» mentre chiudevo la porta. Sapevo che aspettava dall'altra parte e ascoltava il rumore delle corde che venivano annodate sulla sua bara da sepolta viva. Ci allontanammo perfettamente sobrio.
in
silenzio.
Adesso
Khay
sembrava
«Credo di doverti delle scuse», disse infine. «Accettate», replicai. Ci scambiammo un inchino. «Penso che tu sappia il nome del Medico.» Sul suo viso si dipinse il disappunto. «Magari. Naturalmente sapevo che Mutnodjmet era qui e perché. Dovevo occuparmi degli aspetti pratici della sua segregazione. Ma l'ordine era venuto da Ay, forse in combutta con Horemheb. A questo 'Medico' sarà stato fornito un lasciapassare per gli appartamenti reali, il tutto in gran segreto. È successo tanto tempo fa. La donna rappresentava solo una fonte di imbarazzo. Probabilmente, ci siamo scordati tutti di lei per dedicarci a questioni che ci sembravano molto più importanti. Era lo sporco segreto di famiglia. E noi eravamo tutti felici di sbarazzarcene.» «Sei certo che sia Ay a occuparsi di lei?» «Sì, o per lo meno lo era all'inizio.» Ci riflettei. «Ha detto la verità su Horemheb?» Annuì. «L'ha sposata per il potere. L'ha sedotta solo per avere un'entratura nella famiglia reale. Sapeva che nessuno se la sarebbe presa. Fu una sorta di accordo.» «Cosa intendi?» «Era merce avariata, per dirla brutalmente. È sempre stata un po' strana. Era agitata e isterica anche da bambina. Horemheb se l'è portata via a buon mercato. La famiglia non vedeva l'ora di
sistemarla e all'epoca l'alleanza con un astro nascente dell'esercito era sembrata preziosa. Si capiva benissimo che Horemheb avrebbe fatto strada. Perché non assicurarsi la presenza dell'esercito in famiglia? Naturalmente, lui ottenne una promozione agli alti ranghi. Per parte sua si impegnava, in base all'accordo, a comportarsi come un membro della casa reale e darle almeno la parvenza di una vita coniugale, oltre a imbrigliare l'esercito secondo le strategie e gli interessi internazionali della famiglia. Dopo tutto, i termini dell'accordo convenivano anche a Horemheb.» «Ma perché Mutnodjmet è ancora prigioniera nel Palazzo di Malkata? Perché non la mandano dal marito?» «Hanno stretto un accordo da cui ciascuno potesse trarre beneficio. La donna è impazzita. È diventata un peso per tutti. Per Horemheb, poi, è una spaventosa fonte di imbarazzo, ma è il prezzo che ha pagato per la sua ambizione. Lei lo ama, lui prova solo orrore. Vuole sbarazzarsene. Anche per Ay rappresenta un problema, perché si tratta di un membro della dinastia che non può sostenere un ruolo pubblico. Le due parti avevano tutto l'interesse a far sì che scomparisse dalla scena, trasformandola in una persona inesistente, sia pure ancora in vita. Per il momento la lasciano stare. L'hai visto, è matta da legare, poveraccia.» «E Horemheb?» «Al giovane coccodrillo spietato non è più bastato lo stagno. Si è fatto sempre più grosso. La bella carne e i preziosi gioielli con cui lo hanno ingozzato non sono più sufficienti. Si libererà di lei non appena sarà opportuno. È rimasto nell'ombra a guatare Ay, Tutankhamon, Ankhesenamon, noi tutti. Ora che il re è morto tragicamente, temo che sia giunto il suo momento.» Il discorso gli aveva fatto passare la sbornia. Osservò il lusso freddo, levigato del palazzo, e forse per un attimo lo vide per quello che era: una tomba. «Un punto è chiaro», dissi. «Quale?» «Ay e Horemheb sono in combutta col Medico. Ay si è fatto carico della segregazione della donna. Horemheb sa che la moglie è tenuta prigioniera. La domanda è: chi ha assoldato il Medico? È stato Horemheb a ordinargli di farla diventare un'oppiomane? Oppure è stata un'idea del Medico? E questi ha terrorizzato il re seguendo un
piano noto solo a lui, o era agli ordini di qualcun altro? Magari di Horemheb?» «Oppure di Ay.» «È possibile. Ay non voleva che il re mettesse becco nella sua gestione del potere, cosa che invece ha fatto. Però la prima reazione di Ay lascia intendere che non sapesse come quegli oggetti erano finiti nella stanza. In ogni caso, quello non è il suo modo di agire.» Khay sospirò. «Non mi piace nessuna delle due possibilità. Ora che il re è morto, Horemheb non tarderà a farsi vedere, stanne certo. Ha degli affari importanti da sbrigare. Ha il suo futuro davanti a sé. Non deve far altro che soggiogare Ay e la regina e le Due Terre saranno sue. Quanto a me, temo con tutto il cuore la venuta di quel giorno.» Si era fatto tardi. Eravamo tornati davanti alla porta a due battenti dell'appartamento della regina. Le guardie per la sorveglianza notturna erano in servizio. Chiesi a Khay di lasciarmi lì. Volevo parlare a tu per tu con la regina. Fu d'accordo, poi indugiò e si voltò come per chiedermi qualcosa di riservato. «Non preoccuparti», dissi, «manterrò il segreto.» Parve sollevato. Al tempo stesso, aveva l'aria di volermi dire qualcos'altro. «Cosa c'è?» Esitò. «Qui non sei più al sicuro.» «Sei la seconda persona che me lo dice, questa sera», replicai. «Allora sai di dover stare molto attento. Questa è una vasca di coccodrilli. Bada a dove metti i piedi.» Mi diede qualche colpetto amichevole sul braccio e si allontanò a passi lenti nel corridoio lungo, silenzioso, per tornare alla sua piccola anfora dove non era rimasto granché di quel buon vino. Anche a me era rimasto poco tempo. Però avevo un indizio. E con un pizzico di fortuna, se Nakht era riuscito a salvare il ragazzo e a rimetterlo in forze, ora avrei potuto farlo parlare. In tal caso, forse sarei riuscito a
far combaciare i tasselli. A identificare il Medico. A impedirgli di commettere altri omicidi e altre mutilazioni. A porgli la domanda che mi faceva scottare il cervello. Perché?
Capitolo 38 Bussai alla porta. La Cameriera della mano destra aprì nervosamente uno spiraglio. Scansai lei e le sue proteste e attraversai la camera dove ero stato condotto la prima volta. In un'altra vita, pensai, prima che entrassi in questo labirinto di ombre. Non era cambiato nulla. Le porte che si affacciavano sul giardino nella corte erano ancora aperte, le ciotole di ferro battuto ancora accese, l'arredamento impeccabile. Rammentai di aver pensato che quello era lo scenario davanti al quale recitava la regina. Comparve, allarmata, dalla camera da letto. Fu sollevata nel vedere che ero io. «Perché sei qui? È molto tardi. È successo qualcosa?» «Andiamo fuori.» Annuì incerta, si avvolse le spalle con uno scialle leggero e, varcate le porte, uscimmo in giardino. La Cameriera della mano destra si affrettò ad accendere due lampade e si allontanò di corsa a un gesto della sua padrona. Ci dirigemmo in silenzio alla piscina portando le lampade e ci sedemmo al buio, sulla stessa panca, potendo contare soltanto su quella poca luce per tenere lontane le tenebre. «Perché non mi avete parlato di Mutnodjmet?» Per un istante cercò di assumere un'aria innocente, poi sospirò. «Sapevo che, se valevi qualcosa, avresti finito per scoprirlo da solo.» «Non è una risposta alla mia domanda.» «Perché non te ne ho parlato? Non è ovvio? È il terribile segreto della nostra famiglia. Ma perché me lo domandi? Non è possibile che c'entri qualcosa con quanto è accaduto.» «E questo a vostro insindacabile giudizio.» Sembrava ferita. «Perché mi parli in questo modo?» «Perché è stata lei a portare la pietra, la scatola e la statuetta.»
Fece una risatina. «Non è possibile...» «È un'oppiomane. Lo sapete bene. C'è un dottore che si occupa di lei. Si fa chiamare il Medico. Ha sfruttato il vizio di Mutnodjmet. Siccome la rifornisce di droga, in cambio le ha chiesto di fargli il piccolo favore di lasciare i suoi regalucci negli appartamenti reali. La tiene in uno stato di dipendenza, e lei fa qualsiasi cosa per lui. C'è di peggio; si tratta dello stesso uomo che ha ucciso e mutilato alcune persone servendosi della droga per annichilire la loro volontà.» Si sforzò di incasellare in fretta le mie parole. «Dunque, hai risolto il mistero. Ti basta arrestarlo. Allora avrai assolto all'incarico e potrai tornare alla tua vita.» «Mutnodjmet non sa il suo nome. Sono certo che lo sappiano Ay e Horemheb. Ma non sono qui per questo.» «No?» disse apprensiva. «Siete andata a trovare Mutnodjmet e l'avete fatta uscire dalle sue stanze.» «Certo che no!» «So che l'avete fatto.» Si alzò offesa, ma non cercò più di negarlo. Tornò a sedersi con un atteggiamento assai più conciliante. «Mi sono impietosita. Ora è una creatura senza speranza, ma una volta non era ridotta così. In fondo è mia zia. Io e lei siamo tutto ciò che resta della nostra grande dinastia. È l'unico legame che mi resta con la mia storia. Un pensiero poco rassicurante, non trovi?» «Avete capito subito che fa uso di droga?» «Sì, direi di sì, ma è sempre stata strana, anche quand'ero bambina. Ho cercato di non farci caso, e nessun altro ne ha mai parlato. Credevo che fosse Pentu a curarla.» «Quando vi siete resa conto che Mutnodjmet è una tossicomane, avete pensato che non potevate far nulla per aiutarla.» «Non sono intervenuta per via di suo marito e di Ay. C'era molto di più in gioco.» Sembrava che provasse vergogna. «Non potevo rischiare uno scandalo pubblico. Forse la mia è stata
solo vigliaccheria. Sì, adesso penso di essermi comportata come una vigliacca.» «Secondo voi Mutnodjmet ha raccontato a qualcuno che andavate a trovarla e che, di tanto in tanto, la facevate uscire?» «Sapeva che se l'avesse detto non avrei più potuto farle visita.» «Quindi era un segreto tra voi. Pensavate che l'avrebbe mantenuto?» «Per quel che ci si può fidare di lei.» Pareva a disagio. «Permettetemi di parlarvi con franchezza. Forse avete visto il Medico. Forse non era al corrente delle vostre visite. Forse una volta vi è capitato di incontrarlo.» «Non l'ho mai visto», disse, e il suo sguardo era assolutamente sincero. Guardai altrove, scornato per l'ennesima volta. Quell'uomo era un'ombra alla periferia del mio sguardo e scompariva nel buio, perennemente elusivo. «Eppure, avete paura di qualcosa», proseguii. «Ho paura di tante cose e, come sai, non sono brava a nasconderlo. Ho paura di restare sola e di dormire. Adesso le notti sembrano più lunghe e più buie che mai. Sembra che in questo tetro palazzo le candele non facciano mai abbastanza luce per tenere lontane le ombre.» Ora sembrava completamente smarrita. «Voglio che mi porti via», disse, «non posso rimanere qui. Sono troppo spaventata.» «Dove dovrei portarvi?» «Potresti portarmi a casa tua.» L'idea mi lasciò sbalordito. «È evidente che non posso.» «Perché? Potremmo andarcene insieme. Potremmo farlo anche adesso.» «Adesso? Il re sta per essere sepolto, la situazione è incerta e voi sparite?» «Posso tornare per le cerimonie funebri. Portami via travestita. È notte. Nessuno lo saprà.»
«Pensate solo a voi stessa. Ho rischiato il tutto per tutto dal momento in cui mi avete mandato a chiamare. E pensate che adesso metterei a rischio la mia famiglia? La risposta è no. Dovete restare qui, a palazzo, e sovrintendere alla sepoltura del re. Dovete far valere il vostro diritto a esercitare il potere. Rimarrò sempre accanto a voi.» Mi si rivoltò contro con il viso deformato dalla rabbia. «Pensavo che avessi un animo nobile, che fossi un uomo d'onore.» «La sicurezza della mia famiglia m'importa più d'ogni altra cosa. Forse a voi sembrerà un'idea bizzarra», replicai senza pensarci su e mi allontanai, troppo adirato per restare seduto. «Mi dispiace», disse infine abbassando gli occhi. «È giusto che vi dispiaccia.» «Non puoi permetterti di parlarmi con quel tono.» «Sono l'unico che vi dice la verità.» «Le tue parole mi fanno provare ripugnanza per me stessa.» «Non era nelle mie intenzioni.» «Lo so.» «Farò in modo che non vi sia fatto alcun male. È una promessa.» Mi scrutò in viso come se volesse trovare una conferma. «Hai ragione. Non posso fuggire da tutto ciò di cui ho paura. Meglio combattere che fuggire...» Ripercorremmo il sentiero buio verso la camera illuminata. «Che cosa avete intenzione di fare?» domandai. «Ay è ansioso di procedere il più in fretta possibile con l'imbalsamazione, la sepoltura e la propria incoronazione.» «Sì, ma nemmeno Ay può dare ordini al tempo. Il corpo deve essere preparato per la sepoltura, la tomba va allestita, i rituali devono essere meticolosamente osservati; per portare a termine tutte queste operazioni occorre un certo numero di giorni...» «Ciononostante, Ay è il tipo che riesce a trovare ogni mezzo per
fare economia.» «Può darsi, ma come può far credere che il re rimanga segregato così a lungo? Le dicerie trapelano dal silenzio come l'acqua da un vaso incrinato...» Di punto in bianco si interruppe e il suo sguardo si animò per un pensiero incalzante. «Se voglio sopravvivere, non ho molta scelta. Devo stringere un'alleanza con Ay, o con Horemheb. È la dura realtà, anche se entrambe le alternative mi ripugnano. Se però tentassi adesso di far valere la mia autorità di regina e di ultima rappresentante della mia famiglia, non potrei ancora contare sull'appoggio indispensabile della burocrazia e, malgrado il sostegno di Simut, dell'esercito. Non contro le ambizioni e l'aggressività di quei due.» «C'è una terza possibilità. Aizzate Ay contro Horemheb», suggerii. Si voltò verso di me col viso illuminato. «Perfetto! Loro mi vorrebbero morta, ma sanno che da viva sono un bene prezioso per entrambi. Potrei far credere a ciascuno dei due che l'altro vuole la mia mano, allora, forse, si batterebbero per avermi, come fanno di solito gli uomini.» Mentre parlava con tanta passione e sicurezza, sul suo viso comparivano i lineamenti della madre. «Perché mi fissi in quel modo?» domandò. «Somigliate a qualcuno che ho conosciuto tanto tempo fa», risposi. Comprese tutto all'istante. «Sono dispiaciuta per te, Rahotep. Ti mancano senz'altro la famiglia e la vita che conducevi. So che sei qui soltanto perché ti ho mandato a chiamare e ho chiesto il tuo aiuto. È colpa mia. D'ora in poi ti proteggerò servendomi di tutto il mio potere, per quello che vale», disse. «E io farò quello che posso per voi. Forse possiamo proteggerci a vicenda.» Chinammo il capo per suggellare il patto. «Adesso devo chiedervi di fare qualcosa per me», dissi.
Mi fornì subito l'occorrente: papiro, pennello di giunco, la tavoletta con due dischetti di inchiostro, la ceralacca e un vasetto con l'acqua. Scrissi in fretta e i caratteri scorrevano dal pennello con la fluidità incalzante dell'amore e del senso di perdita. All'amatissima moglie e alle adorate figlie. Questa lettera farà le mie veci. Il mio incarico mi ha trattenuto molto più a lungo di quanto avrei desiderato. Sappiate che sono tornato sano e salvo dal mio viaggio, ma non mi è ancora possibile tornare da voi. Non so neppure dirvi quando varcherò di nuovo la porta di casa nostra. Vorrei che non fosse così. Possano gli dei aiutarvi a perdonare la mia assenza. Allego una lettera sigillata per Khety. Vi prego di consegnargliela il più presto possibile. L'amore che provo per voi tutti illuminerà i miei giorni. Rahotep Quindi scrissi a Khety, spiegandogli esattamente che cosa mi era accaduto e che cosa volevo che facesse. Arrotolai le due lettere, infilandone una nell'altra, le sigillai e le porsi ad Ankhesenamon. «Datele a Simut e ditegli di consegnarle a mia moglie.» Annuì e le nascose nello scrittoio. «Ti fidi di lui?» Feci un cenno affermativo. «Potrà consegnarle senza farsi scoprire. Voi non potreste», spiegai. Pensando alla mia famiglia, sentii i pezzi del mio cuore sfregarsi l'uno contro l'altro nel petto come schegge di vetro. Poi, d'un tratto, udimmo un rumore all'esterno e le porte si spalancarono.
Capitolo 39 Ay entrò nella stanza seguito da Simut, che si chiuse la porta alle spalle. Il vecchio mi guardò con i suoi occhi gelidi. Sentii l'odore della pasticca di chiodi di garofano e cannella che continuava a succhiare nel tentativo di dar sollievo al dolore che tormentava i suoi denti cariati. Che fosse comparso a quell'ora della notte poteva significare soltanto che stava per comunicare qualche pessima notizia. «Hanno scorto la nave di stato con a bordo Horemheb a nord della città», disse in tono pacato. «Tra non molto sarà qui. Sono sicuro che chiederà un'udienza alla regina. Sospetto che sia al corrente della morte del re, che pure non è stata, e non sarà, annunciata. Come faccia a saperlo, sarà materia di indagine. Al momento abbiamo altre priorità. Dobbiamo, innanzitutto, concordare una strategia per contrastare questa disgraziata eventualità.» Proseguì prima che Ankhesenamon potesse replicare. «Avrà riflettuto senz'altro, come ho fatto io, sui vantaggi e gli svantaggi di un'alleanza con voi. Riconoscerà, come me, il valore della vostra stirpe e il contributo che la vostra figura potrebbe offrire alla continuazione della stabilità nelle Due Terre. Sono sicuro che vi farà un'offerta di matrimonio. La formulerà in termini allettanti; vi dirà che genererà con voi figli maschi, che vi farà diventare la sua regina e che a sostegno dei vostri interessi reciproci vi porterà in dono la sicurezza dell'esercito delle Due Terre.» «Le condizioni sono interessanti e, all'apparenza, vantaggiose», replicò lei. Lui la incenerì con lo sguardo e proseguì: «Siete una sciocca. Si sbarazzerà di Mutnodjmet e vi sposerà per avere una legittima appartenenza alla dinastia. Genererà figli maschi per la stessa ragione. Non appena avrà ottenuto quel che vuole, vi caccerà, o peggio. Guardate che cosa ha fatto a sua moglie. Accettate la sua
offerta e finirà per distruggervi». «Pensi che non lo sappia?» ribatté lei. «Horemheb disprezza la mia dinastia e tutto ciò che ha rappresentato. Ambisce a crearne una propria. Quello che mi domando è se Horemheb garantirà più di qualcun altro la mia sopravvivenza e quella della dinastia a cui appartengo, tramite i figli che genererò in futuro. Che alternative ho?» «La sola idea che lui possa offrirvi garanzie è di un'ingenuità che sfiora l'idiozia.» La regina si alzò e percorse la stanza a grandi passi. «Neppure tu offri garanzie a me e alla mia dinastia», replicò. Il coccodrillo si esibì nell'imitazione di un sorriso. «Nella vita non c'è nulla di sicuro. È tutta una questione di strategia e sopravvivenza. Fareste meglio a prendere in considerazione i vantaggi che ricavereste alleandovi con me.» Lei lo fissò con un'espressione imperiosa. «Non sono una sciocca. Al contrario, ho pensato ai vantaggi che ricaveresti tu alleandoti con me. Sposandomi, entreresti legittimamente a far parte della mia dinastia. Ora che il re è morto, sono il lasciapassare per le tue ambizioni. Potresti far valere ancora di più la tua autorità, come re di nome e di fatto», disse girandogli intorno. «I miei antenati hanno stretto per generazioni un'intima alleanza con la famiglia reale. I miei genitori sono stati al servizio dei vostri. Diventando re, in cambio del matrimonio vi offrirei l'appoggio della casta sacerdotale, della burocrazia e del tesoro, per proteggervi da Horemheb e dall'esercito. Tanto per parlar chiaro, sta progettando un colpo di stato.» «Capisco. Anche questa prospettiva è interessante. Ma che mi dici del futuro? Tu sei molto vecchio. Quando ti guardo, vedo un uomo anziano, triste. Un uomo consumato dal dolore alle ossa e ai denti. Stufo di combattere col dolore. Stanco di vivere. Sei un fascio di logori stecchi. La tua virilità è un ricordo ormai appassito. Come potresti darmi un erede?» Negli occhi di Ay balenò l'odio, ma il reggente si rifiutò di abboccare all'amo e rispondere con rabbia.
«Ci sono molti modi di procurarsi un erede. Con il mio aiuto, non sarà difficile trovare un padre adatto per i vostri figli. Tuttavia, siamo scivolati su un terreno troppo intimo. La cosa più importante è l'esercizio dell'autorità nell'interesse di maat. La sola cosa che mi preme e che ha la precedenza su tutto è la stabilità delle Due Terre.» La regina lo attaccò. «La tua progenie è nel mondo delle ombre. Senza di me, la tua paternità equivale a un mucchio di polvere. Alla tua scomparsa, che avverrà tra non molto - poiché tutti i poteri del regno non ti salveranno dalla mortalità -, Horemheb cancellerà il tuo nome dalle mura di ogni tempio delle nostre terre. Abbatterà le tue statue e demolirà la tua sala delle offerte. Non sarai nessuno. Sarà come se tu non fossi mai esistito. A meno che io non decida di servirmi di te. Il tuo nome potrà continuare a vivere solo grazie a me.» Ay ascoltò senza tradire alcuna emozione. «Commettete l'errore di farvi trascinare dall'odio. L'emozione finirà per tradirvi, come sempre accade alle donne. Ricordate: potrete sopravvivere e ottenere ciò che desiderate solo grazie a me. Ormai dovreste sapere che non temo la morte. So bene cos'è. Lui mi capisce.» E mi indicò. «Lui sa che nulla ci attende. Non c'è nessun Aldilà e non ci sono dei. Sono favole per bambini. Esiste solo il potere nudo e crudo nelle mani degli uomini. Ecco perché lo bramiamo tanto. Che altro possiedono gli uomini per contrastare l'inevitabile distruzione?» Per molto tempo nessuno parlò. «Rifletterò su tutto quello che hai detto. Darò udienza a Horemheb. A tempo debito prenderò una decisione. Sarà la decisione giusta tanto per me e per la mia famiglia quanto per le Due Terre», disse la regina. Ay si alzò dal divano e, strascicando i piedi, si avviò verso la porta, ma prima di andarsene si voltò rigido come un bastone: «Pensate attentamente a qual è il male minore tra i due mondi che vi si prospettano. L'esercito di Horemheb o il mio. Dopodiché, fate la vostra scelta».
E se ne andò. La regina ricominciò immediatamente a misurare la stanza a grandi passi. «Horemheb è già qui. È troppo presto! E perché aspetta?» domandò. «Sa di poter creare un clima di tensione e paura. Questa è strategia. Vuol far credere di avere il controllo della situazione. Non consentitegli di avere tanto potere su di voi», replicai. Mi fissò per un attimo. «Hai ragione. Abbiamo i nostri piani da rispettare. Non devo lasciarmi fuorviare dalla paura.» Annuii e mi inchinai. «Dove vai?» domandò in preda all'ansia. «Devo fare quattro chiacchiere con Ay. Ho qualcosa da chiedergli. Simut resterà con voi fino al mio ritorno.» Chiusi la porta e seguii la figura che avanzava faticosamente lungo il buio corridoio. Non appena udì i miei passi, si voltò sospettoso. Mi inchinai. «E adesso cosa c'è?» domandò in tono brusco. «Vorrei che rispondessi a una domanda.» «Non farmi perdere tempo con le tue domande stupide. È troppo tardi. Sei venuto meno ai tuoi doveri. Vattene.» Agitò la mano ossuta nella mia direzione per congedarmi. «Mutnodjmet è tenuta prigioniera nel Palazzo di Malkata. La sua incarcerazione risale a molti anni fa ed è avvenuta per ordine tuo, con l'approvazione di Horemheb, immagino. Suppongo inoltre che vi siate dimenticati di lei.» Parve sorpreso nel sentirla nominare. «E allora?» «È un'oppiomane. Chi le fornisce la droga? Ecco la risposta: qualcuno che l'assiste all'insaputa di tutti. Ha obbedito alle istruzioni di costui e in cambio le è stata regalata la droga di cui ha un bisogno disperato. È stata lei a depositare negli appartamenti reali la pietra, la scatola e la statuetta. Sai come si fa chiamare l'uomo misterioso?
Lei lo chiama il 'Medico'.» Adesso Ay mi ascoltava sul serio. «Se soltanto l'avessi scoperto qualche settimana fa.» «Se soltanto ne fossi stato informato qualche settimana fa», ribattei. Sapeva che avevo ragione. «Ritengo che tu sappia il suo nome. Solo tu puoi aver affidato Mutnodjmet alle sue cure», continuai. Rifletté a lungo prima di parlare. «Dieci anni fa feci venire qui un dottore. Lo misi a capo dei medici del palazzo. Ma non mi fu di alcuna utilità. Il talento lo aveva abbandonato e le sue conoscenze non servirono a curare i malanni che mi affliggevano. Al suo posto nominai Pentu e a quell'uomo affidai il compito di occuparsi di Mutnodjmet. Secondo gli accordi, sarebbe stato ben remunerato sia per il suo lavoro sia per l'assoluta discrezione che avrebbe dovuto mantenere. Doveva tenerla in vita, almeno per il momento. Se avesse rotto il patto di segretezza, la punizione sarebbe stata molto severa.» «Qual era il suo nome?» «Si chiamava Sobek.» La mia mente percorse a ritroso gli avvenimenti fino al giorno delle celebrazioni, il giorno del sangue, del ragazzo morto con le ossa spezzate nella stanza buia e della festa sul tetto della residenza urbana di Nakht. Rammentai il silenzioso uomo maturo con i capelli grigi, senza un accenno di tintura, e la corporatura ossuta e ridotta al minimo di chi non mangia per il proprio piacere. Rammentai i suoi lineamenti, un volto che passava inosservato, quasi incolore, svuotato come aveva detto Mutnodjmet, e i gelidi occhi grigioazzurri che brillavano di intelligenza e di un sentimento prossimo alla rabbia. Rammentai le sue parole: « Forse il mostro è
l'immaginazione umana. Ritengo che nessun animale soffra i tormenti dell'immaginazione. Soltanto l'uomo...»
E mi tornarono in mente le parole di Nakht, il mio vecchio amico, che doveva essere in qualche modo complice, o quantomeno a conoscenza degli atti di quel maestro della mutilazione e del mistero: «Ed è per questo che la vita civile, la morale, l'etica e tutto
ciò che le è affine sono importanti. Siamo illuminati per metà, e per metà siamo mostri. Dobbiamo costruire la civiltà sulla ragione e sull'aiuto reciproco». Con gli occhi della mente vidi l'uomo grigio alzare la coppa e replicare:
«Alla salute della tua ragione. Le auguro ogni fortuna». Sobek. Il
Medico.
«Hai l'aria di uno che ha appena visto un fantasma», commentò Ay.
Capitolo 40 Le guardie scelte di Simut presero posizione nelle buie strade adiacenti e sui tetti dell'isolato. La città era silenziosa per il coprifuoco notturno, a eccezione dei cani solitari che latravano aggressivi uno contro l'altro nell'oscurità, sotto la luna e le stelle. Khety mi aveva riportato Thot e l'animale ballava e ciarlava a bassa voce al mio fianco per il piacere di essere di nuovo con me. C'era poco tempo. Io e Khety avevamo notizie urgenti da comunicarci. Mentre ci recavamo sul posto, mi bisbigliò in due parole che la mia famiglia stava bene ed era al sicuro, e che il ragazzo affidato alle cure di Nakht stava migliorando. Non era morto. Poi volle sapere come avessi fatto a identificare Sobek. Gli spiegai tutto. «Allora ce l'abbiamo fatta», disse contento. «Disgraziatamente no», replicai. E dopo avergli fatto giurare che avrebbe mantenuto il segreto, gli raccontai la storia della morte del re. Una volta tanto si azzittì completamente. «Di' qualcosa, Khety. Hai sempre in bocca una ridicola battuta ottimista.» Scosse la testa. «Non me ne viene in mente nemmeno una. È un completo disastro. Una calamità.» «Grazie.» «Non voglio dire che sia stata colpa tua. Hai fatto tutto quello che ti è stato chiesto. Hai eseguito gli ordini che hai ricevuto dal re in persona. Ma adesso che ne sarà di noi? La città è già inquieta. Nessuno sa che cosa sta succedendo. E come se le Due Terre fossero sull'orlo di un abisso in cui potremmo precipitare da un momento all'altro.»
«Sono tempi bui, Khety. Ma non essere così melodrammatico. Non serve. Ci sono stati altri casi di omicidio paragonabili a quelli del ragazzo e di Neferet?» Scosse la testa. «Niente, che io sappia. I rapporti non ne fanno menzione. Tutto è filato liscio. La notizia degli omicidi è trapelata. Non ci ha messo molto a passare di bocca in bocca. La gente è impaurita. Forse ci sta più attenta.» Ero sconcertato. «Un assassino di quel tipo trova sempre una nuova vittima. Di solito, il desiderio di compiere il gesto aumenta dopo ogni omicidio. Diventa una sete inestinguibile. Sappiamo che è un maniaco. Che fine ha fatto la sua ossessione? Perché ha smesso di ammazzare?» Khety si strinse nelle spalle. «Forse si è nascosto.» Indicò con un cenno la casa. «Magari è qui dentro. Forse l'hai preso.» «Parli troppo presto. Mi fai diventare superstizioso», replicai. La casa di Sobek si trovava in una strada appartata, in un buon quartiere della città. Non aveva nulla di diverso dalle altre case. Feci un cenno a Simut, che lanciò un segnale alle guardie appostate in alto: saltarono di tetto in tetto come assassini. Poi, a un altro breve ordine impartito a gesti, le guardie che ci accompagnavano attaccarono con le asce la pesante porta di legno. L'abbatterono in un attimo. Qualche vicino con indosso la veste per la notte, messo in allarme dall'improvviso trambusto, sbucò nel vicolo, ma ricevette l'ordine perentorio di tornare a casa propria. Mi feci largo in un vestibolo seguito dalle guardie, che si sparpagliarono in silenzio con le armi pronte e presero possesso delle stanze, una alla volta, scambiandosi gesti senza parlare. Altre guardie entrarono dal tetto per mettere in sicurezza le stanze del piano superiore. Le camere erano una meno interessante dell'altra. I mobili funzionali, le decorazioni di un'assoluta semplicità e l'assenza di tracce della vita quotidiana facevano pensare alla casa di un uomo solitario. Il luogo pareva inanimato. Le cassapanche al piano superiore contenevano abiti sobri, privi di qualsiasi raffinatezza, e alcuni gioielli indefinibili da indossare ogni giorno. La casa era deserta. Mi era sfuggito di nuovo. Dove avevamo sbagliato? Pareva sapesse che l'avrei scovato. Non ci aveva lasciato neppure un indizio. Come aveva fatto a
saperlo? Passai da una stanza all'altra con un senso di amara delusione, cercando una cosa qualsiasi che mi facesse fare un passo avanti. Fu allora che qualcuno gridò dalla parte posteriore della casa, sull'altro lato del cortile. Simut e le sue guardie si erano raccolti attorno a una porticina che faceva pensare all'ingresso di un magazzino. Le corde erano legate con lo stesso nodo magico che aveva stretto la scatola contenente la maschera mortuaria in putrefazione. Riconobbi anche il segno sul sigillo: un cerchio scuro. Il sole distrutto. Fui preso dall'euforia. Tentai di rimanere calmo mentre infilavo il coltello nella corda per conservare intatti il nodo e il sigillo; infine aprii la porta. Fiutai all'istante il lezzo gelido, stantio, cupo di una tomba scoperchiata dopo molto tempo, come se le tenebre avessero soffocato a poco a poco l'aria stessa. Khety mi porse una lampada ed entrai con circospezione. Per un attimo pensai che fosse una trappola. Avanzai tenendo la lampada davanti a me e tentai di vedere al di là della sua luce tremolante. Era una stanza di media grandezza. Appoggiato a una parete c'era un lungo banco sul quale erano stati sistemati, con ordine e precisione assoluti, vasi di terracotta di varie dimensioni e una serie strabiliante di strumenti chirurgici: coltelli di ossidiana, ganci acuminati, lunghe sonde, coppette e malevoli forcipi. Un po' più in là c'era una serie di boccettine di vetro con il tappo. Su ognuna di esse era stata apposta un'etichetta. Ne aprii una. Sembrava vuota. La conservai per esaminarla alla luce del giorno. Proseguendo l'esplorazione del locale, vidi altri barattoli. Ne aprii qualcuno a caso: contenevano un certo numero di erbe e di spezie. Riconobbi il contenuto dell'ultimo: polvere di papavero da oppio. Sul piano c'erano molti altri barattoli pieni della stessa sostanza: una bella scorta. Il banco era ordinatissimo e molto attrezzato. Ma non appena avanzai, sentii qualcosa scricchiolare e spezzarsi sotto i sandali. Mi accovacciai con la lampada e vidi che il pavimento era coperto di ossa ridotte a schegge: piccoli crani e ali di uccelli, scheletri in miniatura di topi, toporagni e ratti, mandibole e zampe di cani, oppure babbuini, iene o sciacalli, e pezzi di ossa più
grandi, che temetti fossero umane. Mi sembrava di essermi introdotto abusivamente in una fossa comune di tutte le forme di vita. Alzai la lampada per scrutare meglio nell'oscurità. Vidi una cosa ancora più singolare: appese a un funicella, pendevano dal soffitto molte ossa intere e spezzate, disposte in modo da comporre scheletri frammentari di creature bizzarre, impossibili, per metà cani e per metà uomini. Avanzai a stento cercando di non mettere i piedi su altri resti, con una sensazione di ribrezzo per le ossa appese che mi sfioravano i capelli e la schiena e, in fondo alla stanza, scorsi un oggetto grande, basso, posto in ombra. Mi avvicinai e capii che era un banco da imbalsamatore. Sopra c'era una scatolina di legno. Vidi che, sulla parete di fondo, dietro al banco, era stato dipinto un grande cerchio nero. Il sole distrutto. Avvicinai la lampada. Tutt'intorno alla circonferenza vi erano gli stessi segni bizzarri, inquietanti, che avevo visto sulla scatola: curve, falci, punti e lineette. Il cerchio scuro era contornato da schizzi di nero sangue rappreso che, colando, aveva disegnato delle linee. Tornai a guardare il banco dell'imbalsamatore; in contrasto con le tracce sul muro dell'avvenuta macelleria, era meticolosamente pulito, al pari degli strumenti chirurgici allineati contro le pareti. Quegli strumenti non erano serviti a curare, bensì a torturare. Su quante vittime aveva compiuto esperimenti lì dentro, mentre i disgraziati gridando chiedevano pietà, perché fosse risparmiata loro la vita o fosse almeno concessa loro una morte pietosa? La scatola di legno aveva un'etichetta su cui era stata scritta una sola parola: Rahotep. Era un regalo da parte di Sobek. Non potei far altro che aprirla. So che continuerò a vederne il contenuto ogni volta che cercherò di dormire. Occhi. Occhi umani. Disposti a coppie, come gioielli su un vassoio. Pensai a Neferet e ai due ragazzi. Erano stati privati degli occhi. E adesso, davanti a me, c'era una scatola piena di occhi che mi fissavano, sbalorditi, interrogativi, come un pubblico minuscolo e attentissimo a ogni mia mossa.
Capitolo 41 Chiusi la scatola e restituii gli occhi all'oscurità. Quel dono era una beffa. Mi aveva preso in giro. Sapeva che, seguendo le tracce, sarei arrivato a casa sua. Sapeva che non comprendevo ancora il significato delle sue azioni. Gli occhi erano segni: mi stava osservando. In tal caso, che altro sapeva? Il terrore mi prese alla gola; forse conosceva i miei familiari. Dopo tutto, li aveva visti alla festa sulla terrazza della residenza urbana di Nakht. Dovevo proteggerli. Avrei spedito immediatamente Khety a occuparsi della questione. Un altro pensiero venne però a scontrarsi col primo; come aveva fatto a capire che avevo scoperto il legame tra lui e Mutnodjmet? E poi un altro, ancora più allarmante. Avevamo lasciato Mutnodjmet senza sorveglianza. Nell'istante in cui la barca ormeggiò nel porto del Palazzo di Malkata, io e Simut varcammo correndo le porte d'ingresso sorvegliate dalle guardie e ci precipitammo per i lunghi corridoi. Mi spremetti le meningi per rammentare il percorso che conduceva alle camere di Mutnodjmet, ma il labirinto ombroso del palazzo mi gettò nella confusione. «Portami nell'ufficio di Khay!» Simut fece un cenno col capo e continuammo a correre. Non mi preoccupai di bussare e feci irruzione nelle sue stanze. Khay dormiva sodo, russando sul divano con la testa rovesciata all'indietro, ancora vestito e con la coppa del vino vuota. Lo scossi con violenza e si svegliò con un sobbalzo, come un uomo che avesse appena avuto un incidente, poi ci fissò. «Portaci negli appartamenti di Mutnodjmet, subito!» Pareva sconcertato, ma lo feci alzare con uno strattone e lo spinsi fuori della porta. «Toglimi le mani di dosso!» gridò con voce querula. «Sono capacissimo di camminare senza il tuo aiuto.»
Si sforzò di ricomporsi e assumere un aspetto che somigliasse alla dignità. Le porte dell'appartamento di Mutnodjmet erano chiuse e le corde legate e sigillate. Mentre ci avvicinavamo, sentii un leggero scricchiolio sotto i piedi. Sorpreso, mi accovacciai e vidi, alla luce delle lampade, una sostanza luccicante. Ne raccolsi un po' con un dito e l'avvicinai alle labbra. Sali di natron. Qualcuno doveva averne portato nell'appartamento un sacco da cui era fuoriuscito un piccolo quantitativo. Ma a quale scopo? Ruppi i sigilli alle porte ed entrammo con circospezione. Tutto era immerso nel silenzio e nell'oscurità. Non c'era traccia dei gemelli nani. Reggendo la lampada davanti a me, avanzai lungo il corridoio che portava nel salone. Quando passai davanti alle dispense, vidi qualcosa che non andava. Il contenuto di due grandi giare granaglie e farina - era stato svuotato sul pavimento e ammonticchiato con cura. Simut mi lanciò un'occhiata. Sollevai con cautela il coperchio di una delle giare. All'interno vi era una figuretta accovacciata con gli abiti eleganti sollevati all'altezza del petto, immersa nel proprio sangue. Guardai più attentamente e vidi il manico ingioiellato del pugnale conficcato nel cuore. La nuca era stata fracassata e spinta all'interno. Aprii l'altra giara. Il contenuto era il medesimo. Entrammo nel salone. C'era stata una lotta. I mobili erano stati rovesciati. Sul pavimento i calici giacevano frantumati. Su una bassa panca dorata c'era una forma scura, grigia. La liberai con cura dal natron. Le orbite di Mutnodjmet mi fissarono bianche e vuote; il viso incavato, luccicante per i cristalli di sale che vi erano stati sparpagliati, si era essiccato e raggrinzito come se all'improvviso il tempo l'avesse prosciugata. Aveva le labbra bianche e accartocciate, e la bocca aperta era asciutta come un pezzo di stoffa lasciato sotto il sole di mezzogiorno. «Che cosa le è successo?» bisbigliò Simut. «Il natron ha assorbito tutti i liquidi del corpo. A quest'ora tutti gli organi interni hanno cominciato a trasformarsi in una poltiglia marrone scuro.» «Vuoi dire che le hanno fatto questo da viva?» Il soldato scosse la
testa di fronte a tanta raffinata barbarie. «La morte deve essere stata molto lenta. Sarà impazzita dalla sete. È ciò che lo affascina. Osservare le persone soffrire e morire, attimo per attimo. Non sono certo che il suo unico scopo sia il piacere di assistere al loro dolore, tuttavia. La sofferenza è soltanto una parte del procedimento, non il suo fine. È qualcos'altro che cerca. Un elemento più originale.» «E quale?» domandò Simut. Fissai la povera donna dalle orbite vuote. L'unica domanda importante era quella. Percorrendo a ritroso il corridoio, rammentai la boccettina che avevo trovato nel laboratorio di Sobek. L'aprii, ma pareva non contenesse nulla, malgrado il tappo e una data annotata con precisione. Notai sul fondo una spolverata di un residuo bianco e luccicante. Ne misi un po' sul dito e lo leccai con attenzione. Ancora cristalli, ma non di natron. Un altro tipo di sale. Aveva un sapore familiare. Ma non riuscii a dargli un nome.
Capitolo 42 La splendida nave di stato con a bordo Horemheb, la Gloria di Menfi, era ancorata nelle acque immobili del lago. Incombente sulla propria tersa immagine speculare, pareva un'arma minacciosa. L'Occhio di Horus era stato dipinto numerose volte su tutto lo scafo, per garantire alla nave una protezione speciale. Tra gli occhi vi erano immagini della testa d'ariete di Amon, falchi alati e la figura del re che calpestava i nemici. Sulla fiancata camminava spavalda la figura di Montu, dio della guerra, e i ponti erano dipinti con cerchi multicolori. Persino le pale dei remi erano decorate con l'Occhio di Horus. L'aspetto minaccioso della nave era suggellato dai cadaveri di sette soldati ittiti appesi a testa in giù, che si torcevano lentamente mentre si decomponevano al sole del mattino. «Mi domando se si sia già mostrato in pubblico», dissi a Simut mentre, fianco a fianco, osservavamo il vascello intimidatorio. «No. Vorrà senz'altro far scena con un grandioso ingresso a palazzo.» «Lo conosci di persona?» domandai. Simut fissò la nave. «Ero cadetto a Menfi quando Horemheb era già vicecomandante delle milizie settentrionali. Ricordo che venne a tenere un discorso in una festa privata, che si tenne in onore degli ufficiali più promettenti della Divisione Ptah. Sposandosi, era già entrato a far parte della famiglia reale. Tutti sapevano che non mancava molto alla sua nomina a generale e fu trattato quasi come se fosse il re in persona. Pronunciò un discorso interessante. Disse che i sacerdoti di Amon avevano un difetto fondamentale: la loro attività era fondata sulla ricchezza e, a suo dire, gli esseri umani non riescono mai a soddisfare il proprio desiderio di ricchezze, che finisce sempre per spingersi troppo oltre trasformandosi in decadenza e corruzione. Sostenne che quel desiderio, per sua stessa natura, avrebbe inevitabilmente creato un ciclo di instabilità nelle Due Terre e ci avrebbe reso vulnerabili ai
nemici. Disse che l'esercito aveva il sacro dovere di interrompere quel ciclo e rafforzare il primato dell'ordine, ma che avrebbe conservato il diritto a farlo soltanto mantenendo l'assoluta integrità morale.» «Quando gli uomini parlano di integrità morale intendono dire che hanno celato le proprie bassezze dietro l'illusione della virtù», dissi. Simut mi lanciò uno sguardo. «Parli bene per essere un funzionario del Medjay.» «So di che cosa parlo», replicai. «Gli uomini non sono capaci di mantenere un'assoluta integrità morale e, dal mio punto di vista, è un fatto positivo, poiché in caso contrario non sarebbero umani.» Simut emise un grugnito e continuò a fissare la grande nave ancorata nel porto. «Disse anche qualcosa che non ho mai dimenticato, a proposito della famiglia reale. Disse che i suoi membri davano la priorità alla perpetuazione della loro dinastia, in qualità di rappresentanti degli dei sulla terra. Naturalmente, quando le loro esigenze coincidevano con gli interessi delle Due Terre, tutto andava per il meglio. Disse però che quando vi erano dissidi e turbolenze, o quando la famiglia reale non assolveva ai propri doveri divini, le Due Terre dovevano riconoscere come supremi i propri valori e le proprie necessità. Non quelli della famiglia reale. Pertanto solo l'esercito, che non desiderava potere e ricchezza per sé, ma unicamente il trionfo del nostro ordine nel mondo, avrebbe avuto l'obbligo sacro di far valere la sua legge, per il bene della sopravvivenza delle Due Terre.» «Cosa pensi che intendesse per 'dissidi e turbolenze ?» domandai. «Si riferiva ai pericoli impliciti nel fatto che a ereditare le corone fosse un re troppo giovane per governare con mano ferma e sottoposto all'egida di un reggente dagli oscuri propositi. Credo, però, che intendesse dire tutt'altro.» Abbassò la voce. «Penso che alludesse alla continuità della fede nel dio Aton all'interno della famiglia. Il dio esiliato che il padre aveva adorato. La pericolosa religione che aveva già creato un terribile caos a
memoria d'uomo e che non potevamo permetterci di far rinascere. Intendeva dire che l'esercito non avrebbe tollerato alcun segno di un suo ritorno nella vita pubblica.» «Hai ragione. È il difetto di Ankhesenamon. Per lei, com'era per il marito, è difficile dissociarsi non soltanto dalle manchevolezze paterne, ma dalla radice del problema: la messa al bando di quella religione.» Ankhesenamon era circondata dalle dame di compagnia che la stavano preparando per il ricevimento ufficiale. Gli aromi intensi dei profumi e degli oli vagavano nell'aria quieta. Di fronte a lei erano aperti vasetti d'oro e contenitori di vetro gialli e azzurri. Teneva in mano un pesce di vetro giallo e azzurro e stava versando un'essenza penetrante dalle sue labbra arricciate. «Horemheb ha richiesto un colloquio. Oggi, a mezzogiorno», disse. «Ce lo aspettavamo.» Mi lanciò uno sguardo e tornò a considerare attentamente il proprio aspetto nello specchio di rame levigato. Indossava una splendida parrucca a treccioline di corti capelli arricciati e una veste a pieghe bordata d'oro del lino più pregiato, che era stata annodata sotto al seno destro mettendo in rilievo la figura. Sulle braccia aveva i braccialetti e i cobra d'oro attorcigliati. Dal collo pendevano, appesi a un filo d'oro così sottile da essere quasi invisibile, vari ciondoli e un pettorale elaborato che raffigurava Nekhbet, la dea avvoltoio, con in mano i simboli dell'eternità e le ali azzurre spiegate in un gesto protettivo. Le donne che l'aiutavano le posero sulle spalle uno scialle magnifico composto di molti dischetti d'oro. Si voltò e risplendette alla luce delle candele. Poi le donne le infilarono i sandali dai cinturini di un oro delicato, con le fascette decorate a piccoli fiori dorati. Infine le misero sulla testa l'alta corona, tenuta ferma da una banda d'oro decorata con i cobra che avevano il compito di proteggerla. L'ultima volta che l'avevo vista indossare abiti da regina mi era sembrata ansiosa. Ora il suo aspetto era regale. Si voltò a guardarmi.
«Come ti sembro?» «Mi sembrate la regina delle Due Terre.» Sorrise compiaciuta. Abbassò lo sguardo sul pettorale. «Apparteneva a mia madre. Spero che la sua grande anima, almeno in parte, mi protegga.» Accortasi della mia tetraggine, mi rivolse di nuovo lo sguardo. «È successo qualcosa, vero?» domandò all'improvviso. Annuii. Lei capì e congedò le dame. Quando fummo soli, le comunicai la notizia della morte di Mutnodjmet. Sedette assolutamente immobile mentre sulle guance le scorrevano le lacrime, rovinando il trucco di kajal e malachite che era stato applicato con tanta cura. Continuava a scuotere la testa. «L'ho abbandonata. Come è possibile che sia successo proprio qui, nel palazzo, mentre dormivo?» «Sobek è molto astuto.» «Ay e Horemheb l'hanno uccisa, non meno di quell'uomo malvagio e ripugnante. L'hanno incarcerata e fatta impazzire. Era l'ultimo membro della mia famiglia. Adesso sono sola. Guardami.» Diede un'occhiata all'abbigliamento regale. «Sono soltanto un manichino per questi abiti.» «No, siete molto di più. Siete la speranza delle Due Terre. Siete la nostra sola speranza. Senza di voi, il futuro è buio. Ricordatevelo.» All'ingresso della regina, un migliaio di persone fece un profondo inchino e si azzittì. La sala dei ricevimenti del palazzo era stata sontuosamente allestita per la visita di Horemheb. L'incenso bruciava nelle ciotole di rame. Nei vasi erano state disposte composizioni floreali grandi ed elaborate. Le guardie di palazzo erano schierate lungo il percorso che conduceva al trono. Mi accorsi che Ay non era presente. La regina salì sul palco, si voltò per avere di fronte i suoi funzionari e si sedette. Tutti noi attendemmo in un silenzio che dovemmo sopportare molto più a lungo di quanto ci aspettassimo. Il generale era in ritardo. Lo sgocciolio dell'orologio ad acqua segnava
il trascorrere del tempo e l'umiliazione crescente provocata dalla sua assenza. Alzai lo sguardo sulla regina. Conoscendo il trucco, Ankhesenamon mantenne la propria compostezza. Infine udimmo la fanfara militare e lo vedemmo che percorreva la stanza a grandi passi, seguito dai suoi tenenti. Si fermò davanti al trono, fissò in modo arrogante la regina e chinò il capo. Lei rimase seduta. Il palco le consentiva in ogni caso di trovarsi più in alto del generale. «Solleva lo sguardo», disse in tono pacato. Lui eseguì. Lei attese che fosse lui a parlare. «Vita, prosperità e salute. La mia lealtà è nota in tutte le Due Terre. La pongo, insieme alla mia vita, ai vostri piedi.» Le sue parole riecheggiarono nella stanza. Le mille paia di occhi dei cortigiani erano attenti alla minima sfumatura. «Confidiamo da molto tempo nella tua lealtà. Per noi è più preziosa dell'oro.» «È la lealtà ad avermi spinto a venire qui», replicò in tono sinistro. «Dunque, esprimi il tuo pensiero, generale.» La guardò, si voltò per rivolgersi agli astanti e parlò all'intero consesso. «L'argomento di cui desidero parlare può essere udito soltanto dalla regina e si addice a luogo più riservato.» Lei inclinò il capo. «I nostri ministri sono una cosa sola con noi. Qual è l'argomento che non può essere udito anche da loro?» Lui sorrise. «Tali questioni non sono di pertinenza dello stato, ma dell'individuo.» Lo soppesò con lo sguardo. Si alzò e lo invitò ad accompagnarla in un'anticamera. Lui la seguì e lo imitai. Si voltò verso di me, infuriato, ma la regina parlò con voce ferma. «Rahotep è la mia guardia personale. Mi segue ovunque. Rispondo appieno della sua integrità e del suo silenzio.» Non poté far altro che accettarmi.
Rimasi accanto alla porta come un vero addetto alla sicurezza. Si sedettero sui divani uno di fronte all'altra. L'uomo sembrava stranamente fuori posto in quell'ambiente più familiare, come se pareti e cuscini gli fossero estranei. Fu versato il vino e i servi scomparvero. La regina fece il gioco del silenzio e attese che fosse lui a fare la prima mossa. «So che il re è morto. Vi offro le mie più sincere condoglianze.» Il generale osservò attentamente la reazione della regina. «Le accettiamo, come accettiamo la tua lealtà. Ti porgiamo le nostre condoglianze per la terribile morte prematura di tua moglie, mia zia.» Non espresse alcuna sorpresa né dolore alla notizia, e si limitò a fare un cenno col capo. «La notizia mi arreca grande sconforto. Possa il suo nome vivere per sempre», disse attenendosi alla formula di rito e con un tocco di ironia ben più che accennato. Ankhesenamon voltò la testa disgustata di fronte a tanta vanità e ferocia. «Il generale desidera dire qualcos'altro?» Lui sorrise appena. «Ho una semplice proposta da fare. Riguarda un argomento delicato, che ho ritenuto corretto esporre in privato. Ho pensato in tal modo di mostrare maggiore sensibilità. Dopo tutto, siete la vedova addolorata di un grande re.» «La sua morte ha privato noi tutti di un grand'uomo», ribatté la regina. «Nondimeno, il dolore che proviamo in privato deve far posto, per correttezza, ad alcune considerazioni più pressanti.» «Tu credi?» «La posta in gioco è molto alta, mia signora. Sono certo che ne siate perfettamente consapevole.» Gli brillavano gli occhi. Vidi che si stava divertendo, come un cacciatore con l'arco che facesse la posta alla preda ignara. «Sono ben consapevole dei complessi rischi di questo periodo di
transizione nella vita delle Due Terre.» L'uomo sorrise e allargò le mani in un gesto franco. «Allora, lasciate che parli apertamente. Sono certo che tutti e due abbiamo a cuore gli interessi delle Due Terre. Per questo sono qui: per farvi una proposta. O, forse, per darvi un suggerimento che vorrete prendere in considerazione.» «Quale sarebbe?» «La proposta di un'alleanza. Un matrimonio.» La regina finse di essere allibita. «Un matrimonio? Il mio lutto è appena iniziato, tua moglie è morta da poco e parli già di matrimonio? Come fai a essere così insensibile alle consuetudini e ai diritti del dolore?» «Il mio dolore riguarda soltanto me. È meglio discutere ora della questione perché abbiate modo di esaminarla con cura, e il tempo di prendere la giusta decisione quando verrà il momento.» «Parli come se la risposta fosse una sola.» «Parlo con la passione che provo, ma penso con tutto il cuore che sia così», disse e non sorrise. La regina lo guardò. «Vorrei che tu prendessi in considerazione la mia di proposta.» Lui la guardò in tralice. «Quale sarebbe?» «Nei momenti difficili, come questo, la tentazione è quella di stringere alleanze per ragioni politiche. Molte delle alleanze che vengono proposte sono assai allettanti. Tuttavia io discendo dai sovrani che hanno fatto di questo regno la potenza più grande che il mondo abbia mai conosciuto. Mio nonno volle questo palazzo e costruì molti monumenti di questa grande città. Un mio antenato, Tutmosi III, trasformò l'esercito delle Due Terre nella forza militare più valente del mondo, la forza che tu ora conduci a magnifici trionfi. Quale modo migliore per rispecchiare la responsabilità del potere che ho ereditato nel sangue e nel cuore se non governare in suo nome con la consapevolezza di poter contare sul sostegno dei
miei fedeli ufficiali?» Il generale ascoltò senza mostrare alcuna emozione e si alzò. «Il nome è importante. La dinastia è importante, ma il regno non è un giocattolo. Non è soltanto sfarzo e palazzi. È una brutta bestia, sporca e potente, che deve essere dominata, per forza di volontà, da un'autorità che non ha paura, quando si rende necessario, di esercitare fino in fondo la determinazione e il potere, costi quel che costi. È un lavoro da uomini.» «Sono una donna, ma il mio animo è forte della stessa rabbia e autorevolezza di quello di un uomo. Credimi.» «Forse siete davvero la figlia di vostra madre. Forse avete la volontà e il fegato di punire coraggiosamente i vostri nemici.» Sembrava prendere in considerazione la cosa. «Non mi fraintendere. Sono una donna, ma sono stata educata in un mondo di uomini. Sii certo che la tua proposta sarà valutata con la massima attenzione e prudenza.» «Dovremo esaminare meglio le vostre riflessioni e le opportunità che vi propongo. Sarò a vostra disposizione in qualsiasi momento. Non lascerò la città fino a quando non avremo trovato una soluzione che soddisfi entrambi. Sono qui da privato cittadino, ma anche in veste di generale degli eserciti delle Due Terre. Ho dei doveri da compiere, e li compirò con tutto il rigore che richiede la mia posizione.» Si inchinò, si voltò e se ne andò.
Capitolo 43 Camminai più in fretta possibile tra il rumore e la confusione delle strade affollate della città e mi diressi a casa di Nakht. La luce era abbacinante. Bastava un grido, un urlo lanciato dagli ambulanti, o dai mulattieri, o dai gruppetti di bambini eccitati, per mandarmi in collera. Tutti mi intralciavano la via. Mi sentivo come uno che aggredisce le mosche con un coltello. Per un attimo mi vennero le vertigini, come se tutto quello che mi era accaduto dall'ultima volta che avevo percorso quelle strade fosse un sogno strano, cupo, da cui non mi ero ancora svegliato. Sobek era da qualche parte e io non riuscivo a trovarlo. Com'era possibile? Dovevo tornare nel luogo in cui l'avevo incontrato per la prima volta e dall'uomo che ci aveva presentati. Bussai alla porta. Minmose, il servo di Nakht, l'aprì circospetto. Fui soddisfatto nel vedere due guardie del Medjay alle sue spalle, con le armi pronte. «Ah, siete voi, signore. Ci speravo.» Appena entrato, mostrai alle guardie le mie autorizzazioni e Minmose mi informò che il suo padrone era nella terrazza sul tetto. Salii l'ampia scala di legno e sbucai ancora una volta nell'elegante spazio aperto. Il mio vecchio amico era sdraiato sotto il tendone ricamato e, godendo della leggera brezza di settentrione, rifletteva su un rotolo di papiro concedendosi il lusso di una tranquillità di cui avevo scordato l'esistenza nel mio mondo di controversie politiche, lotte di potere e mutilazioni. Si alzò, felice di vedermi. «Sei tornato! I giorni passavano in fretta e pensavo, adesso sarà di ritorno, ma non avevo notizie...» Vide l'espressione del mio viso e le parole con cui mi aveva accolto morirono in un balbettio.
«Santo cielo, che cosa è successo?» gridò allarmato. Ci sedemmo all'ombra, nella luce screziata, e gli raccontai quanto era capitato. Non riuscì a star seduto e mi camminò intorno a grandi passi con le mani dietro la schiena. Quando gli raccontai l'incidente occorso al re e il conseguente decesso, si fermò impietrito. «La sua morte ha messo a rischio l'intero ordine e la grande dinastia. Abbiamo goduto per secoli di opulenza e stabilità e ora, all'improvviso, tutto viene messo in dubbio. La strada è aperta alle rivendicazioni per il potere da parte di elementi estranei alla dinastia. Parlo di Horemheb, naturalmente...» Gli raccontai l'arrivo a palazzo del generale. Tornò a sedersi scuotendo la testa e assunse un'espressione spaventata e incerta che non gli avevo mai visto. «A meno che non venga concordata una tregua, nelle Due Terre scoppierà la guerra civile», mormorò. «La situazione è disastrosa, ne convengo, ma è probabile che Ankhesenamon usi il suo prestigio e il ruolo che ricopre per il fine a cui hai accennato.» «Sì, Ay e Horemheb avrebbero dei vantaggi se si alleassero con lei», rifletté. «Amico mio, malgrado la gravità dei problemi, non è questa la ragione per cui sono qui», dissi. «Santi numi! Cosa ci può essere di peggio?» domandò ansioso. «Prima di tutto, come sta il ragazzo?» «È in via di guarigione.» «Può parlare?» domandai. «Ti dirò la verità, amico mio: la sua guarigione è appena agli inizi, ma ha reagito bene ed è riuscito a pronunciare qualche parola. Ha chiesto della famiglia e dei suoi occhi. Vuole sapere che fine hanno fatto i suoi occhi. Mi ha detto inoltre che uno spirito buono gli ha parlato nel buio della sua sofferenza. Un uomo con la voce gentile.» Feci un cenno, cercando di non svelare quanto fossi gratificato da
quell'ultima osservazione. «Questa è una buona notizia.» «Non mi hai ancora detto perché sei qui e la cosa mi rende ansioso», disse. «Credo di aver scoperto il nome dell'uomo che ha depositato gli oggetti nel Palazzo di Malkata, colui che si nasconde dietro le minacce alla vita e all'anima del re.» Si sporse in avanti con aria soddisfatta. «Sapevo che ci saresti riuscito.» «Sono anche convinto che sia lo stesso uomo che ha perpetrato i suoi gesti crudeli sul nostro ragazzo, e sui giovani che sono morti.» Adesso Nakht sembrava costernato. «La stessa persona?» Annuii. «Chi è questo subdolo mostro?» domandò. «Prima che io te lo dica, fammi parlare col ragazzo.» Il ragazzo lanciò un grido di allarme quando udì il rumore di due paia di sandali. «Non aver paura. Qui con me c'è una persona perbene, un mio vecchio amico, che è venuto a trovarti», disse Nakht con dolcezza. Il ragazzo si rilassò. Mi sedetti accanto a lui. Giaceva su un letto basso in una stanza fresca, confortevole. Gran parte del suo corpo era ancora avvolta nelle bende di lino, e altre gli coprivano il capo per nascondere le orbite sfigurate. Nei punti in cui il viso della ragazza era stato cucito al suo, le piccole ferite erano guarite, lasciando sulla pelle un disegno di minuscole cicatrici bianche che parevano stelle. Mi sarei messo a piangere per la compassione. «Mi chiamo Rahotep. Ti ricordi di me?» Piegò la testa nella mia direzione, ascoltando il timbro della mia voce come avrebbe fatto un uccellino intelligente che possedesse una vaga comprensione del linguaggio umano. A poco a poco sul suo
viso si dipinse un abbozzo di sorriso compiacente. Lanciai uno sguardo a Nakht che annuì per incoraggiarmi. «Sono felice che tu stia bene. Vorrei porti qualche domanda. Devo chiederti che cosa è successo. Ti va di rispondermi?» Il sorriso scomparve, ma dopo un po' il ragazzo fece un lievissimo cenno di assenso. Il suo gesto mi fece venire un'idea. «Ti farò una domanda alla quale potrai rispondere sì piegando la testa, oppure no, scuotendola. Puoi fare questo per me?» Annuì una sola volta, lentamente. «L'uomo che ti ha fatto del male aveva i capelli corti e grigi?» Il ragazzo fece un cenno di assenso. «Era un uomo anziano?» Un altro cenno del capo. «Ti ha dato qualcosa da bere?» Il ragazzo esitò, poi annuì. A quel punto, con il cuore che mi batteva forte, domandai: «Aveva gli occhi grigio-azzurri? Come i sassi in un torrente?» Il corpo del ragazzo fu percorso da un leggero brivido. Fece un cenno di assenso, poi un secondo, e continuò ad assentire fino a rimanere senza fiato, come se fosse improvvisamente pazzo di paura al ricordo di quegli occhi gelidi. Nakht si precipitò al suo fianco e cercò di calmarlo, portandogli sollievo sulla fronte con un panno fresco, bagnato. L'attacco di panico si placò. Avrei fatto volentieri a meno di procurargli tanta angoscia. «Mi dispiace, caro ragazzo, di averti chiesto di ricordare quei particolari, ma mi hai aiutato moltissimo. Non ti dimenticherò. So che non puoi vedermi, ma sono qui come amico. Ti faccio una promessa. Nessuno ti farà più del male. Mi credi?» domandai. Attesi fino quando, lentamente e senza molta fiducia, fece un leggerissimo cenno col capo.
Usciti dalla stanza, Nakht mi affrontò. «Che storia è questa?» «Ora posso dirti il nome dell'uomo che ha perpetrato tutti questi delitti. Preparati, perché lo conosci», replicai. «Io?» disse Nakht sbalordito e con una sfumatura d'ira nella voce. «Si chiama Sobek.» Il mio vecchio amico si immobilizzò come una statua. Rimase stupidamente a bocca aperta. «Sobek?» ripeté incredulo. «Sobek...» «Era il medico di Ay, che lo licenziò e lo sostituì, affidandogli un altro incarico, di minore importanza. Avrebbe dovuto occuparsi di Mutnodjmet, la pazza. Se ne è occupato, infatti, ma a modo suo. L'ha fatta diventare un'oppiomane e, alla fine, lei ha fatto tutto ciò che lui le ha chiesto. È morta anche lei.» Si sedette lentamente sulla panca elegante che gli era più vicina, come sfinito dall'eccesso di informazioni. «L'hai catturato?» domandò. «No. Non ho la minima idea di dove si trovi e non so neppure dove colpirà. Ho bisogno del tuo aiuto.» Ma Nakht era troppo inorridito. «Cosa c'è?» domandai in modo brusco. «Ecco, è un amico. È un brutto colpo.» «Naturale. Inoltre, sei stato tu a presentarmelo, proprio qui. Questo non ti rende minimamente colpevole né complice, ma ti dà la possibilità di aiutarmi a catturarlo.» Distolse lo sguardo. «Amico mio, perché ho la sensazione che anche questa volta tu mi stia nascondendo qualcosa? È un altro dei tuoi segreti?» osservai. Non disse nulla. «È necessario che tu risponda a tutte le mie domande in modo chiaro ed esaustivo. Se ti rifiuti, dovrò prendere le indispensabili misure. La questione è troppo importante, e il tempo che mi resta
troppo breve per continuare a giocare.» Era sbalordito dal mio tono. Ci guardammo negli occhi. Capì che facevo sul serio. «Siamo membri della stessa società.» «Che genere di società?» Proseguì con estrema riluttanza: «Ci dedichiamo alla conoscenza senza altri fini. Parlo della ricerca, dell'indagine e dello studio dell'occulto. Nella nostra epoca le conoscenze esoteriche sono state costrette alla clandestinità. Sono considerate inaccettabili. Forse sono state sempre apprezzate solo da un élite di iniziati che dava più valore alla conoscenza che a qualsiasi altra cosa. Noi custodiamo e teniamo in vita le antiche tradizioni, l'antica saggezza». «In che modo?» «Siamo degli iniziati, celebriamo i riti segreti e conserviamo i libri...» confessò balbettando. «Stiamo arrivando al dunque. Di che cosa trattano questi libri?» «Di tutto. Medicina. Stelle. Numeri. Possiedono un elemento comune.» Esitò. «Quale sarebbe?» domandai. «Osiride. È il nostro dio.» Osiride. Il re che, stando alla storia antica, un tempo governava le Due Terre, ma fu tradito e ucciso, e risorse dall'Aldilà grazie alla moglie Iside, che rese possibile la sua rinascita con il proprio amore e la propria fedeltà. Osiride, che nelle nostre raffigurazioni è un uomo con la pelle nera o verde, per indicare la fertilità e il dono della resurrezione e della vita eterna, ed è avvolto nelle bende bianche della morte, regge il pastorale e il flagello e indossa la Corona bianca. Osiride, a cui abbiamo attribuito anche il nome di «Essere perpetuamente benefico». Osiride, che dona la speranza della vita eterna ai seguaci che si preparano alla morte nel modo dovuto. Osiride, che dicono ci attenda dopo la morte nella Sala del giudizio, giudice supremo pronto a udire la nostra confessione.
Mi sedetti comodamente e per un attimo riflettei su Nakht. La mia sensazione fu che l'uomo, da me considerato un intimo amico, fosse diventato improvvisamente uno sconosciuto. Mi fissò come se provasse gli stessi sentimenti. «Sono dispiaciuto di averti parlato in quel modo. La nostra amicizia ha molta importanza per me e non vorrei metterla in discussione. Non ho avuto scelta. Dovevo costringerti a dirmelo. Sei il mio unico collegamento con quell'uomo.» Fece un lento cenno col capo e, a poco a poco, nel sentimento che ci univa riapparve un accenno di calore. «Hai detto che avrei potuto aiutarti. Che cosa avevi in mente?» domandò infine. «Te lo spiegherò. Dimmi un'altra cosa: la società segreta ha un simbolo?» Tentennava ancora. «Il nostro simbolo è un cerchio nero. Simboleggia ciò che chiamiamo il sole notturno.» Finalmente avevo trovato la risposta all'enigma. Ripetei le parole che lui stesso aveva pronunciato: «Il Sole riposa in Osiride, Osiride
riposa nel Sole».
Mi guardò di sbieco. «Amico mio, devo farti una domanda. Quando ti ho descritto l'intaglio con il disco del sole cancellato, ti ho chiesto informazioni sull'eclisse e siamo andati agli archivi astronomici. Tu hai capito che c'era un collegamento. Non è forse così?» Annuì con aria infelice. Lasciai che si leccasse le ferite del suo senso di colpa, almeno per un po'. «Cosa significa l'enigma?» domandai infine. «Nella sua forma più semplice significa che nell'ora più buia della notte l'anima di Ra si riunisce al corpo e all'anima di Osiride consentendo a lui e, a dire il vero, a tutti i defunti delle Due Terre,
di rinascere. È il momento più sacro, più intenso, di tutta la creazione. Nessun mortale ha mai assistito all'evento. È il più grande di tutti i Misteri.» Rimase in silenzio, restio a incontrare il mio sguardo. «Te lo avevo già chiesto, ma non mi hai rivelato l'elemento cruciale. Avrei potuto identificare Sobek molto prima e salvare delle vite umane.» Si sentiva di nuovo frustrato. «Siamo una società segreta! La parola 'segreta' riveste molta importanza! Allora non mi sembrava ci fosse alcuna ragione impellente per tradire i giuramenti segreti che avevo fatto.» «L'evolversi della situazione ha dimostrato che eri in errore», replicai. A suo credito, va detto che annuì e parve atterrito. «A quanto pare, non riusciamo a governare le conseguenze delle nostre azioni, persino le più irrilevanti. Io cerco di controllare la mia vita, ma ora mi rendo conto che è la vita a controllare me. In momenti come questi, sento di avere sulla coscienza il sangue di persone innocenti.» «No, non ce l'hai. Ma se senti il bisogno di una redenzione morale, aiutami. Ti prego.» Fece un cenno di assenso. «La logica suggerisce che Sobek lavori per Ay o per Horemheb, più probabilmente per quest'ultimo, poiché è lui a trarre i vantaggi maggiori dalla morte del re.» «Se le cose stanno così, bisogna assolutamente catturarlo prima che ingeneri altro caos. La nave di stato su cui si trova Horemheb è ancorata vicino al Palazzo di Malkata. Il generale ha fatto una proposta di matrimonio ad Ankhesenamon, che sta prendendo in considerazione l'offerta.» «Possano gli dei risparmiarci un simile destino! Parlami del tuo piano», disse in tono pacato. «Credo che Sobek sia ossessionato dalle visioni. Sono anche convinto che sia affascinato dalle sostanze allucinogene e dai loro misteriosi effetti. Lo attrae l'attimo che separa la vita dalla morte.
Penso sia questa la ragione per cui droga le sue vittime e le osserva da vicino mentre muoiono. È alla ricerca dell'essenza di quell'attimo. Potrebbe esserci un collegamento con i riti della vostra società segreta: la ricerca dell'istante in cui avvengono l'oscurità e il rinnovamento?» Nakht assentì. «Ebbene, Pentu, il medico del re, mi ha parlato di un fungo molto raro, che si dice dia il potere della visione immortale; sapeva soltanto che cresce nelle regioni boreali. Ne sai qualcosa?» Nakht annuì. «Certo. Se ne parla nei libri segreti. Posso fornirti qualche altro particolare. Si dice che sia un fungo con il cappello rosso che prospera unicamente nelle remote foreste dove gli alberi sono argentati e hanno le foglie dorate. La sua esistenza è puramente ipotetica. Nessuno l'ha mai tenuto in mano. In ogni modo, si racconta che per suo tramite i sacerdoti muoiano al mondo, abbiano una visione degli dei, e tornino in vita. Si racconta inoltre che, se male utilizzato, sia un veleno potente che porta alla pazzia. L'ho sempre ritenuta una metafora esoterica dell'illuminazione spirituale, non l'indicazione di qualcosa che si trova nel mondo reale.» «La cosa importante è che potrebbe esistere e, se qualcuno lo possedesse, riuscirebbe a esercitare un fascino irresistibile su un uomo come Sobek. Talvolta le visioni sono più potenti della realtà stessa...» Nakht scosse la testa dubbioso. «Il tuo piano fa affidamento su qualcosa di inesistente.» «Sobek stesso ha usato contro di noi il potere dell'immaginazione. C'è una sorta di giustizia poetica nell'usarla contro di lui, non ti pare?» «Che mondo strano», replicò, «è quello in cui gli ispettori del Medjay parlano del loro lavoro in termini di poesia e giustizia.» Ignorai la sua battuta di spirito. «In ogni caso, la persona che fingerà di essere entrata in possesso del misterioso fungo magico sarai tu», mi affrettai a dire. Rimase atterrito.
«Io?» «Chi altri? Non ho buone credenziali per presentarmi nella tua società segreta, non credi?» Si strinse nelle spalle, sapendo di essere stato preso in trappola. «Dovremo imbastire una storia credibile per spiegare come ne sei venuto in possesso», continuai. «Da dove ti arrivano i semi rari del tuo giardino?» «Me li spediscono i mercanti da tutto il regno. Fammi pensare. Ah! Ce n'è uno nella città di Karkemish, al confine col regno di Mitanni. Mi procura semi e bulbi molto rari e interessanti che provengono dal Nord.» «Eccellente. È un contatto che può uscire indenne da un'indagine. Puoi dire che l'allucinogeno te l'ha procurato un trafficante che ha contatti con una nuova rotta commerciale», proposi. «È quasi plausibile. Infatti, a est del grande mare interno, oltre i confini settentrionali del regno ittita, si estende una catena montuosa invalicabile di cui si favoleggia che le nevi siano eterne e che nessun viaggiatore vi possa sopravvivere. Ma si racconta anche che un valico segreto attraversi quelle montagne e porti a un altro regno di foreste infinite e pianure desolate, congelate dal ghiaccio, bianche come il limo più puro. Lì vivrebbero in palazzi di ghiaccio popoli primitivi, con i visi pallidi, i capelli del colore della paglia e gli occhi azzurri, che indossano le pellicce degli animali e le piume degli uccelli dorati.» «Sembra un posto orribile», dissi. Avevo messo Nakht in una situazione pericolosa. Sapeva, tuttavia, che non avevo altra scelta. Se il nostro uomo, che era membro della società segreta, era davvero ossessionato dai sogni e dalle visioni, non poteva esserci esca migliore. «Adesso tutto quello che devi fare è inviare un messaggio riservato, scritto nel vostro linguaggio, che sarà senza dubbio in codice, dicendo agli altri iniziati che domani sera porterai l'allucinogeno a una riunione, affinché possano indagare e sperimentare questo misterioso prodigio delle visioni. Potresti addirittura far balenare l'eventualità di un esperimento dal vivo.»
«E chi sarebbe la cavia, se posso saperlo?» domandò innervosito. «Sono sicuro che Khety sarà disposto a impersonare la vittima, considerata la posta in gioco.» «Non sarà necessario inviare un messaggio. Domani sera celebriamo l'ultima notte dei Misteri di Osiride. Immagino tu non sappia che l'ultimo mese dell'inondazione è l'epoca in cui si festeggia il dio. Quando le acque della piena recedono, celebriamo i riti della resurrezione. Dopo i giorni e le notti delle lamentazioni, commemoriamo il trionfo del dio. Proprio domani sera.»
Capitolo 44 Ero impaziente di tornare a casa per controllare che tutto procedesse bene e la sorveglianza affidata a Khety fosse adeguata. La mia famiglia non doveva correre rischi. Svoltato un angolo nel labirinto di vicoli della parte antica della città, tuttavia, vidi qualcosa ronzare in aria e contemporaneamente avvertii un colpo alla tempia da cui si diffuse un calore doloroso, e tutto si oscurò. Ripresi i sensi sul lurido fondo del vicolo. Thot mi strofinava il viso con il muso umido. Le ombre di quattro uomini incombevano su di me. Indossavano il gonnellino dell'esercito. Uno di loro cercò di dare un calcio a Thot, ma l'animale gli si rivoltò contro, scoprendo i denti. «Richiama la tua bestia», disse uno di loro. Ricacciai la rabbia in gola, e mi alzai lentamente in piedi. «Thot!» Il babbuino si avvicinò obbediente e si mise al mio fianco, sull'attenti, scrutando i soldati. Lasciai che mi ammanettassero e, scortato dai soldati come da una guardia di disonore, fui trascinato in fretta ai moli. Mi spinsero su una barca e, con Thot inquieto al mio fianco, attraversammo il Grande Fiume. Sbarcammo sulla riva opposta, un po' più a nord, dove fui caricato su un cocchio in attesa. Thot fece un salto per sedersi ai miei piedi, e percorremmo a tutta velocità le strade selciate che portavano direttamente alle falesie del deserto e ai templi funerari, dove girammo a nord-est, verso la valle nascosta. Mi fecero scendere dal cocchio con modi sbrigativi e marciammo lungo i fianchi roventi delle falesie grigie e arancio. Nel silenzio che minacciava di infiammarsi da un momento all'altro, il nostro respiro rimbombava. D'improvviso mi chiesi se mi stessero scortando in una tomba nel deserto, ma mi sembrò un modo assurdo per sbarazzarsi di me. Potevano semplicemente spaccarmi la testa e buttarmi in pasto ai coccodrilli, se era la mia morte che volevano. No, mi stavano portando da qualcuno.
Quando arrivammo in cima alla falesia ed ebbi alle spalle la vasta pianura verde che dai dintorni della città di Tebe si stendeva in lontananza verso est, velata dalla calura del tardo pomeriggio, non fui sorpreso di scorgere nell'afa scintillante una figura in attesa sotto un parasole, con un cavallo al fianco. Conoscevo quella sagoma. Pareva che Horemheb risentisse del calore quanto una lucertola. Mi guardò con disprezzo, tutto sudato e senza fiato com'ero. Mi fece rimanere in piedi sotto il sole mentre si teneva entro il cerchio d'ombra. Attesi che mi rivolgesse la parola. «Sono stupito. Perché la regina si fida di te?» domandò all'improvviso. «Se volevi fare conversazione, perché mi hai portato fin qui?» domandai a mia volta. «Rispondi alla domanda.» «Sono la guardia personale della regina. Chiedi a lei perché si fida di me.» Mi si fece più vicino. «Cerca di capire quello che ti dico. Se non sarò soddisfatto delle tue risposte, non esiterò a tagliare la testa al tuo babbuino. Vedo che gli sei molto affezionato. Non mi è piaciuto che tu abbia ascoltato la mia conversazione con Ankhesenamon; basterebbe questo a spingermi a usare la violenza», disse. Presi in considerazione le mie scarse alternative. «Sono un investigatore del Medjay di Tebe. La regina mi aveva convocato per indagare su un mistero.» «Che genere di mistero?» Esitai. Fece un cenno a uno dei suoi uomini, che sfoderò un pugnale. «Negli appartamenti reali sono stati trovati oggetti di natura sospetta», cominciai. «Se darai risposte più esaurienti, risparmieremo tempo.» «Quegli oggetti erano minacce dirette alla vita del re.» «Così va meglio. Quali sono i risultati delle tue indagini?»
«Non abbiamo ancora identificato con certezza un colpevole.» Mi scrutò dubbioso. «Allora non vali granché.» Mi fece cenno di seguirlo per guardare nell'altra direzione, nella valle nascosta che si stende lontano e molto al di sotto di noi, sprofondata tra le falesie a ovest. Nel fondovalle, grigio per la polvere e pieno di solchi, si scorgevano piccole figure in movimento: erano operai. «Sai che cosa succede laggiù?» domandò. Annuii. «Stanno preparando la tomba del re», disse, «o meglio, stanno adattando la tomba di Ay per accogliere il re.» Mi sembrò più saggio non fare commenti. «Forse ti stai chiedendo che cosa voglio da te.» «Immaginavo che tu volessi qualcosa», risposi. «Anche se non mi è chiaro che cosa possa offrirti un semplice investigatore del Medjay.» «Tu hai un ascendente sulla regina e voglio che tu faccia due cose. Uno, indurla a rispondere affermativamente alla mia proposta di matrimonio. Due, venire a riferirmi tutte le sue conversazioni con Ay. Chiaro? Naturalmente, in futuro ne ricaverai grossi vantaggi. Sei un uomo ambizioso; ne terrò conto e la tua sete sarà soddisfatta.» «Immagino che se non farò quello che chiedi, manderai a morte il mio babbuino.» «No, Rahotep. Se non farai quello che desidero e non riuscirai a convincere la regina che sposandomi ne ricaverà dei vantaggi, farò uccidere la tua famiglia. So molte più cose di te di quanto ti immagini. Le tue tre figlie. Il bambino piccolo. La tua bella moglie e il tuo vecchio padre. Pensa a quello che potrei fare di loro, se soltanto volessi. Naturalmente tu resteresti in vita per essere spettatore delle loro sofferenze. Poi ti deporterei nelle miniere d'oro della Nubia, dove potresti piangere la loro morte a tuo piacimento.» Mi sforzai di continuare a respirare, senza tradirmi. Fui tentato di rivelargli tutto sull'identità di Sobek e sui suoi legami con la moglie di Horemheb. Fui tentato di chiedergli se sapeva qualcosa delle palle di sangue scagliate contro il re e la regina durante la cerimonia. Ma nel
momento in cui sembrava che lui avesse tutto sotto controllo, preferii non svelare le mie informazioni. Non avevo nient'altro. Dovevo tenermele strette. Stavo per accettare la sua proposta, quando inspiegabilmente mancavano diverse ore prima che calasse la sera - la luce del sole diminuì notevolmente d'intensità. Fu come se l'aria e la luce rallentassero. Tutti se ne accorsero. Per un attimo Horemheb e le sue guardie parvero confusi. Thot cominciò a girare in cerchio, borbottando angosciato con le orecchie basse. Grida disumane e ululati si levarono da ogni angolo della valle e da insediamenti ancora più lontani. Tutti fissammo il sole schermandoci gli occhi, per capire che cosa stesse accadendo. Ci sembrò che una grande catastrofe stesse scuotendo il regno del cielo. Ombre enormi si ammassarono all'improvviso spostandosi tra i declivi, le cavità e le depressioni nascoste tra le alture, come se emergessero dalla roccia rossastra, come se i fantasmi e gli spiriti dell'Aldilà si levassero alla conquista della luce dei vivi. Udii in lontananza una musica dai toni acuti che si spandeva insistente nell'aria; probabilmente erano le trombe cerimoniali che davano l'allarme dalle mura dei templi. Ora le grandi porte incardinate ai pilastri si sarebbero chiuse inesorabilmente lasciando fuori il popolo. All'interno, i sacerdoti nelle vesti bianche si sarebbero affrettati a destra e a sinistra a offrire sacrifici per soccorrere Ra dall'inaudita minaccia dell'oscurità che d'improvviso stava travolgendo ogni cosa. Mi sembrò la fine del mondo. Pensai ai miei figli e a Tanefert. Sperai che fossero a casa tutti insieme, dove almeno avrebbero potuto trovare riparo dietro la massiccia porta di legno. Sperai che non avessero paura. Le grandi ombre si intensificarono e si raccolsero in uno strano crepuscolo; poi di colpo scese un silenzio assoluto. Persino il vento di settentrione, che soffia sempre nel tardo pomeriggio, diminuì d'intensità e cessò del tutto. Il mondo parve trasformarsi in un deserto; nei campi lontani vidi solo qualche mulo immobile, confuso, incustodito, e gli ultimi operai che correvano attraverso i coltivi ordinati per salvarsi la vita. Udii il pianto sottile di un bambino che era stato lasciato solo, ma non riuscii a vederlo, e comunque ben presto svanì anch'esso, perdendosi nelle tenebre che
avanzavano. Il sole era ormai tanto indebolito che dallo schermo delle dita incrociate ero in grado di osservare lo spettacolo straordinario, inspiegabile, che si stava svolgendo in cielo. Un profilo nero, a forma di spada ricurva, si era sovrapposto al grande disco del sole. Strisce d'ombra simili a quelle che si scorgono in fondo a una piscina illuminata dal sole si estesero rapidamente sulla terra, ci sovrastarono, avanzarono sulla Terra Rossa; allungai le mani per afferrarle, ma non lasciarono nessuna impronta sulla pelle. La luce diminuì ancora e assunse una strana tonalità grigia, simile a quella di un vestito stinto per i troppi lavaggi. Tutto accelerò; il grande uccello nero della notte coprì la faccia del giorno e le costellazioni immortali brillarono all'istante nel cielo, mentre il giorno scivolava nella notte in un tempo così breve che nemmeno lo sgocciolio di un orologio ad acqua avrebbe potuto misurare. Ra, Signore dell'Eternità, sparì alla vista, come quando al tramonto scende sotto l'orizzonte del cielo. Rimase soltanto una sottile corona di luce tutt'intorno al gran disco vittorioso dell'oscurità, come se il dio sole fosse stato costretto a cedere la sua gloria e arrendersi. Intorno a me c'era la notte; eppure, incredibilmente, vedevo i contorni dell'orizzonte lontano mostrare in ogni direzione l'arancio e il giallo del tramonto. D'improvviso fece freddo come in inverno e tutto divenne immobile. In quell'attimo vidi coi miei occhi qualcosa che ricorderò fino al momento della morte: il grande Occhio della Creazione che mi fissava, l'ebano della pupilla, la corona bianco lucente dell'iride e una sottile e fugace striscia cremisi, simile al sangue, che guizzò intorno ai margini dell'oscurità. Mi si fermò il respiro, il mondo tacque e diventò silente; mi sembrò il mistero più bello che avessi mai visto. Con la stessa subitaneità con cui il buio aveva vinto la luce, la bilancia del potere tornò a oscillare e un arco scintillante dalla luminosità più sottile, come la lama affilata di un coltello d'oro che cattura la luce del sole, emerse dal lato opposto per sbaragliare il buio con il suo trionfo. All'inizio il mondo riassunse una tonalità grigio-perlacea e gli sconosciuti battaglioni delle ombre si incresparono veloci sopra la nostra testa, ma questa volta si
allontanarono nella direzione opposta; dopo poco riapparve l'azzurro consueto del cielo. Le stelle svanirono in fretta; il mondo tornò a riempirsi di colore, di vita e di tempo. Horemheb era incantato. Non l'avevo mai visto così affascinato. Si girò verso di me con uno sguardo di trionfo sul bel viso severo. «Hai visto? Aton è stato distrutto dall'oscurità. È il segno che gli dei non sosterranno il potere corrotto di questa patetica dinastia. Ci sarà un nuovo ordine! È un sole nuovo, che splende su una nuova era!» gridò con forza, battendosi trionfante il petto col pugno. I suoi ufficiali lo applaudirono disciplinatamente. E così dicendo, discese a cavallo il fianco spoglio della falesia accompagnato di corsa dagli ufficiali, lasciando che io e Thot tornassimo a palazzo. Camminavo sul sentiero polveroso, perseguitato dall'immagine dell'Occhio celeste. Era il simbolo del cerchio nero divenuto realtà. Il mio istinto non aveva sbagliato. Non era soltanto il misterioso simbolo di una società segreta, ma la profezia di un evento che si sarebbe avverato. Ricordai all'improvviso che cosa aveva detto Nakht a proposito del cerchio scuro: «Significa che nell'ora più buia della notte l'anima di Ra si riunisce al corpo e all'anima di Osiride consentendo a lui e, a dire il vero, a tutti i defunti delle Due Terre, di rinascere. È il momento più sacro, più intenso, di tutta la creazione». Ma più ci pensavo, più il concetto mi sembrava ambivalente. L'evento celeste pronosticava il miracolo del ritorno alla vita, o una catastrofe imminente?
Capitolo 45 I funzionari di palazzo correvano su e giù per i corridoi in preda a una grande agitazione, come in un formicaio disturbato da bambini che molestino le formiche con i bastoncini. Entrai nella camera della regina e la trovai a colloquio con Ay, Khay e Simut. Ay mi lanciò un rapido sguardo. Il suo viso era stravolto dalla stanchezza e, una volta tanto, aveva un aspetto disordinato. Simut stava facendo rapporto sulle conseguenze dell'eclisse. «Ci sono stati gravi disordini in città. La folla raccolta davanti alle porte del tempio si rifiuta di disperdersi. Si sono verificati saccheggi, e alcuni edifici sono stati dati alle fiamme... devo dire che il Medjay ha solo peggiorato la situazione nel tentativo di contenere la folla. In alcuni quartieri ci sono stati scontri violenti con elementi sovversivi...» Khay lo interruppe. «Il popolo invoca il re. Si rifiutano di andarsene finché il sovrano non comparirà e parlerà loro.» Ay sedeva immobile, con il cervello alla frenetica ricerca di una soluzione. Il suo rifiuto di annunciare la morte del re l'aveva messo in trappola. Ora la sua bugia gli si ritorceva contro. «Questo è solo uno dei nostri problemi. Horemheb coglierà al volo l'occasione per portare le sue divisioni in città, allo scopo di tenere sotto controllo i tumulti», disse Simut. «E dove sarebbero queste divisioni?» scattò Ay. «Per quello che ne sappiamo, sono di stanza a Menfi, ma le nostre informazioni non sono precise», ammise. «Neppure il messaggero più veloce può trasmettere gli ordini da qui a Menfi in meno di tre giorni, e occorrerà loro il tempo di mobilitarsi e far rotta verso sud. A meno che Horemheb non abbia previsto tutto, e abbia allertato le divisioni per farle marciare più in fretta su Tebe.»
Ci fu un momento di silenzio, mentre ciascuno valutava il da farsi nel tempo prezioso che ci rimaneva. «Parlerò io al popolo», disse inaspettatamente Ankhesenamon. «E che cosa pensate di dire?» ribatté Ay. Gli occhi malvagi brillarono per la curiosità. «Dirò loro la verità. Dirò che gli eventi celesti sono un segno del rinnovato ordine sulla terra. Spiegherò che il re si è unito agli dei nell'oscurità, e che ora è rinato nell'Aldilà. Io resto qui a succedergli con la sua benedizione. In questo modo, la pretesa di Horemheb di conquistare il potere sarà vanificata.» Si scrutarono, due avversari uniti dalla necessità. «Siete una ragazza intelligente. È una frottola che può funzionare. Ma susciterà molti sospetti.» «L'oscurità è stata un evento raro e grandioso. È stato uno spettacolo senza precedenti e il popolo ha bisogno di una spiegazione. Le mie parole dovranno essere convincenti.» Ay esaminò in fretta le implicazioni e le prospettive della proposta. «Vi appoggerò, ma le parole hanno potere e dovranno essere scelte con cura. Quando parlerete di voi stessa, preferirei che usaste il verbo 'rappresentare' piuttosto che 'succedere .» La regina rifletté. «Torniamo al nostro vecchio disaccordo. Il tempo stringe e non vedo altra soluzione. Perché non dovrei designare me stessa a succedere al re? È la verità.» «Dentro di voi scorre il sangue della vostra famiglia, ma ricordate: non potete esercitare il potere senza avere autorità sugli uffici statali. Solo io la possiedo.» «In mio nome», ribatté prontamente lei. «Certo. Ed è per questo che occorre mettere a punto una strategia a nostro reciproco vantaggio.» La regina esaminò la situazione. Doveva decidere in fretta. «Molto bene.» «Il contenuto del discorso sarà concordato fra noi?» domandò Ay.
La regina scambiò un'occhiata con Khay, che annuì. «Naturalmente.» «Allora preparatevi con cura, perché questa sarà l'apparizione più importante della vostra vita.» Appena Ay se ne fu andato, Ankhesenamon balzò in piedi. «Dove sei stato?» disse in tono stizzoso e con una sfumatura di rabbia. «Ero in ansia per te.» «Sono andato in città a trovare il mio amico Nakht. Sulla via del ritorno mi hanno fatto un'offerta che non potevo rifiutare: un colloquio con Horemheb.» Mi guardò sbalordita. «Ci sei andato?» «Non ho avuto scelta. Mi hanno fatto prigioniero.» «Che cosa ti ha detto?» Ci sedemmo, le raccontai tutto quello che avevo scoperto su Sobek e le dissi che, grazie alla testimonianza del ragazzo, ora avevo le prove che fosse responsabile degli omicidi avvenuti in città. Infine le riferii tutto quello che mi aveva detto Horemheb. Per un attimo rimase sconcertata. «Dobbiamo proteggere la tua famiglia dalle sue attenzioni.» «Sì, ma dobbiamo anche riflettere. Finora ha solo espresso minacce nei loro confronti e non le metterà in atto fino a quando non gli avrete comunicato le vostre decisioni, quindi dobbiamo farlo restare nel dubbio il più a lungo possibile. Nello stesso tempo, ho un piano per prendere Sobek. Potremo interrogarlo per scoprire se e come Horemheb, oppure Ay, abbia a che fare con gli atti che ha commesso. Informazioni che vi conferiranno molto potere.» Annuì con gli occhi che le brillavano per l'entusiasmo del momento. Riusciva a intravedere un futuro per sé e per la sua dinastia. «L'oscurità mi ha sconvolta. Sento lo sguardo degli dei su di me. Sento che mi leggono dentro. È in gioco tutto, non soltanto il futuro
della mia dinastia, ma anche il destino delle Due Terre, eppure, fatto strano, per la prima volta dopo tanti mesi mi sento assolutamente viva.» Il fumo vagava sull'area scoperta antistante il tempio. La folla si dipanava lungo il viale delle Sfingi. Alcuni salmodiavano, altri gridavano, ma la maggioranza pregava. Mi trovavo in un punto di osservazione privilegiato, sul tetto del portale sorretto dai pilastri. Avevamo viaggiato veloci e in segreto per nave e sui cocchi, raggiungendo il tempio sotto la protezione delle guardie di Simut. Ora, a un suo segnale, i trombettieri alzarono i lunghi strumenti d'argento verso l'orizzonte e levarono squilli di fanfara. Di colpo l'atteggiamento della folla cambiò, passando da un malcontento indistinto all'attenzione. Stava per cominciare lo spettacolo che avevano voluto. La regina fece la sua apparizione uscendo dal portale, vestita con gli abiti d'oro da cerimonia e indossando le corone, e il silenzio lasciò il posto alle urla e alle grida quando la folla si rese conto che era sola. Risplendette nella luce sbieca e bassa della sera. Avanzò, continuando a salire verso il palco, ignorando le grida e i lamenti, e si fermò, pronta ad affrontare la grande bestia della moltitudine. Aspettò che le prestassero attenzione. Sarebbe stato uno scontro di volontà. Finalmente scese il silenzio. Vidi migliaia di facce, rapite, ansiose, affascinate dal suo aspetto sfolgorante. «È stata una giornata di meravigliosi presagi», gridò. «Gli dei si sono rivelati a noi. Adoriamoli.» Alzò le braccia con serenità e, a poco a poco, molti presenti la imitarono. Gli altri furono costretti al silenzio. «Ra, sovrano degli dei, ha trionfato sulle forze del buio e del caos. La vita si è rinnovata. La gloria e il potere delle Due Terre si sono rigenerati. In quel momento ha voluto con sé qualcosa per cui provava un grande desiderio. Si è preso qualcosa che ha molto valore per noi. Più dell'oro, più della vita. Ora sono dinnanzi a voi, figlia di re, figlia della dea Maat, colei che porta la giustizia e l'ordine, per comunicarvi la notizia del nostro grande sacrificio e del grande guadagno del dio. Poiché nel momento dell'oscurità, di cui
tutti gli esseri viventi sono stati testimoni, il re Tutankhamon si è unito a Ra, come deve fare un re, e, come è scritto nei grandi libri, ora è una cosa sola con il sovrano degli dei. Il mondo si è rinnovato. Il mondo è rinato.» Le sue parole echeggiarono nello spazio aperto. Si levarono acuti gemiti e lamentazioni che si diffusero fra la moltitudine e in tutta la città. Vidi che la folla si consultava; molti erano stati persuasi, altri si stringevano nelle spalle, incerti. La storia del sacrificio del re per il rinnovo della vita era ben nota, essendo una delle verità più antiche con cui spieghiamo come vadano le cose in questo mondo. La regina se ne era servita con saggezza. Forse le sue parole avrebbero convinto la massa. L'élite avrebbe avuto bisogno di una spiegazione più elaborata, da accettare comunque senza discussioni. La regina incalzò. «Sono dinnanzi a voi. Sono la figlia prediletta di Ra. Sono maat. Sono l'ordine che sconfigge il caos. Sono l'Occhio di Ra sulla prua della Nave divina. Sotto di me i nemici periranno nell'oscurità e il nostro mondo prospererà nella luce degli dei.» Le sue parole furono seguite da altri convincenti squilli di tromba; ora la maggior parte dei presenti manifestava rumorosamente la sua approvazione. Sembrava che l'energia della regina e la sua bellezza avessero prevalso. Vidi tuttavia che alcuni se ne andavano scontenti, scuotendo la testa. La battaglia per la conquista delle Due Terre dopo la morte di Tutankhamon restava ancora da vincere. Se avessi potuto provare il collegamento fra Sobek e Horemheb, la posizione di quest'ultimo si sarebbe sgretolata. Se non ci fossi riuscito, non mi era chiaro, in quel momento, come avremmo potuto impedirgli di usurpare il regno in nome dell'esercito.
Capitolo 46 La sera stessa io e Thot tornammo nella residenza urbana di Nakht. Minmose si offrì di radermi il capo, dato che per oltrepassare i cancelli del tempio avrei dovuto assumere di nuovo le sembianze di un sacerdote. Mentre ero seduto alla mercé del suo rasoio con un telo intorno al collo, arrivò Khety. Per sua fortuna nell'esperimento di Nakht non doveva sottostare alle abluzioni di rito, dovendo interpretare il ruolo della vittima, cioè di un personaggio non appartenente all'élite. «La guardia sta sorvegliando la mia casa?» domandai come prima cosa. Annuì. «A Tanefert non è piaciuta l'imposizione, ma gliene ho spiegato la necessità come meglio ho potuto, cercando di non spaventarla.» Sospirai di sollievo. «Hai insistito perché non lasciasse uscire i figli in nessun caso?» «Certo. Non preoccuparti, sono al sicuro. Saranno sorvegliati giorno e notte.» Si concesse una risatina. «Non sei molto convincente come sacerdote», disse. «Sta attento, Khety. Ti troverai quanto prima in una situazione assai più compromettente.» Annuì. «E per questo che mi piace il mio lavoro. Tutte le notti sono diverse. Una sera si pattugliano le strade; quella dopo si assumono droghe pericolose...» «Nakht ha ricavato una preparazione che ha l'aspetto di un fungo, ma non ti farà assolutamente nessun effetto.» «Dovrei far finta?» domandò. «Sì», disse Nakht entrando già vestito di tutto punto. «Ho creato un simulacro di fungo secco usando i fagioli macinati.»
«Odio i fagioli», ribatté Khety. «Mia moglie li cucina, ma mi provocano effetti tremendi...» «Ne dovrai assaggiare solo un boccone e gli effetti nocivi saranno del tutto trascurabili», replicò Nakht, che aggiunse: «È un sollievo per tutti noi». «Che cosa dovrò dire quando avrò ingerito la polvere?» domandò Khety. «All'inizio proprio nulla. Poi, a poco a poco, immagina che ti si riveli la luce celeste. Lascia che la tua mente accetti l'illuminazione divina.» «A cosa somiglia?» domandò Khety. Nakht mi guardò con aria dubbiosa. «Pensa alla luce. Descrivine la bellezza e di' che vedi gli dei muoversi nel chiarore, come se la luce fosse pensiero e il pensiero luce.» «Ci proverò», disse Khety, perplesso. Nakht aveva fatto venire i cocchi che ci avrebbero trasportato da casa sua, nel viale delle Sfingi, al Grande Tempio di Karnak. Le strade erano buie. Notai i negozi sprangati con le tavole di legno, e alcuni interni anneriti - i danni sofferti durante le sommosse - ma la città era tornata tranquilla. Arrivati ai cancelli, Nakht parlò con le guardie del tempio che scrutarono me e Khety alla luce delle lampade. Nakht era molto conosciuto e pregai che facessero poche domande. Chiacchierò allegramente con le guardie che, con un ultimo sguardo indagatore, ci fecero cenno di sbrigarci a entrare. Passammo sotto l'arcata e ci trovammo una volta ancora nella vasta zona ombrosa all'interno delle mura del tempio. Oltre le grandi ciotole cesellate, issate e accese in tutto il recinto come una costellazione di piccoli soli, ogni cosa spariva in una penombra oscura. Nakht accese la sua lampada a olio e attraversammo lo spazio aperto in direzione della Casa della Vita. Invece di entrarvi, ci guidò oltre, a destra dell'edificio. Lo seguimmo nei passaggi bui tra i palazzi: erano laboratori e uffici, ed erano deserti perché era notte. I
passaggi si fecero più stretti e i palazzi lasciarono il posto a depositi e magazzini, finché giungemmo alle mura alte e scure del grande recinto. Proprio lì si ergeva una struttura minuscola e antica. Mentre ci avvicinavamo, vidi che tutte le pareti erano istoriate con l'immagine di Osiride, dio dei morti, che indossava la Corona bianca con le due piume ai lati, circondato da colonne e colonne fitte di iscrizioni. «Questa cappella è dedicata a Osiride», bisbigliò Khety. «Proprio così. Il dio dell'Aldilà, della notte, del buio e della morte che precede la vita... ma in verità è il dio della luce oltre la luce, come diciamo noi. Dell'illuminazione e della conoscenza occulta», replicò Nakht. Khety annuì, fingendo di aver capito, e mi guardò aggrottando le sopracciglia. Dalla stanza esterna del tempio passammo a quella interna, piccola e buia. Nakht accese con rapidi gesti le lampade a olio inserite nelle nicchie alle pareti. Un ricco profumo di incenso si levò fluttuando nell'atmosfera ombrosa. Mi sistemò dietro a uno dei pilastri, accanto all'ingresso, da dove avrei potuto osservare ogni movimento e chiunque entrasse. Restammo in attesa. Infine, uno alla volta, arrivarono dodici uomini vestiti di bianco. Riconobbi alcuni ospiti della festa a casa di Nakht, il poeta dagli occhi azzurri e l'architetto. Ciascuno di loro aveva attorno al collo una catena e un pendaglio d'oro con un cerchio di ossidiana: il disco nero. Salutarono eccitati Nakht ed esaminarono Khety come se fosse un servo in vendita. L'unico che non si presentò fu Sobek. Il mio piano mi si stava sbriciolando fra le dita. Non aveva abboccato all'amo. Nakht cercò di guadagnare tempo. «Uno di noi manca», disse infine a voce abbastanza alta perché udissi anch'io. «Dovremmo aspettare Sobek.» «Non sono d'accordo, il tempo passa e dovremmo iniziare la cerimonia senza di lui. Perché il dio dovrebbe aspettare Sobek?» disse uno degli uomini e tutti assentirono in coro. Nakht doveva iniziare, non aveva scelta. Dal mio posto privilegiato dietro al pilastro li vidi bendare gli occhi a Khety con un telo nero, perché non assistesse ad alcuna fase del rito. Fu portata una piccola cassapanca da cui fu prelevato uno scrigno d'oro. Una volta aperto, rivelò la presenza di
un piatto di ceramica che evocava una forma umana, entro il quale c'era qualcosa di simile a un dolce di farina, modellato, anch'esso, in forma umana. Nakht intonò un inno: «Onore a te, Osiride, signore dell'eternità, re degli dei, tu che hai molti nomi, tu che appari in forme sacre, tu dagli attributi nascosti...» Poi tornò il silenzio. Il dolce fu sollevato e diviso in quattordici porzioni, e ciascuno se ne cibò secondo il rituale. Ritengo che le quattordici porzioni simboleggiassero le parti in cui Seth, il fratello geloso, aveva smembrato il corpo di Osiride dopo averlo assassinato. Grazie al rito, il dio rinasceva in ciascuno di loro. Una porzione fu serbata per Sobek. Compiuto il mistero - che, devo confessare, mi deluse perché pareva meramente un pasto simbolico -, i dodici si raccolsero attorno a Nakht per l'esperimento della sera. Lui trasse dalla veste una borsa di pelle e parlò a lungo, in parte per guadagnare tempo, esponendo ciò che sapeva dei poteri e della natura di quel cibo divino, ed esprimendo la speranza che offrisse una visione degli dei. Ancora nessun segno di Sobek. Infine, rendendosi conto di non avere più tempo, Nakht aprì la borsa e prese un campione della polvere, prelevandola con un cucchiaino da cosmetici. Gli iniziati la osservarono attentamente, affascinati dal suo leggendario potere. A quel punto, con l'approssimarsi dell'esperimento, Khety, con gli occhi bendati, doveva essere piuttosto preoccupato. Inaspettatamente Nakht disse: «Non sprechiamo questa meraviglia su un servo. Mangerò io stesso il cibo degli dei». Tutti concordarono, entusiasti. Potevo immaginare il sollievo di Khety. Nakht doveva aver pensato che come attore Khety non sarebbe stato all'altezza del compito e che lui, forse, sarebbe riuscito a guadagnare altro tempo con la recita, nel caso che Sobek fosse finalmente apparso. «Saprai descriverci le visioni con la precisione di uno studioso, cosa che il servo non saprebbe fare», disse il poeta dagli occhi azzurri, in tono condiscendente. «E noi saremo qui a prender nota di tutto quello che dirai nel corso della visione.»
«Diventerai un oracolo vivente», disse un altro in preda all'eccitazione. Recitando alla perfezione il rituale, Nakht sciolse un cucchiaio di polvere in una coppa d'acqua fresca che bevve lentamente a piccoli sorsi. Nella stanza regnava un silenzio assoluto; tutti osservavano rapiti e pieni di aspettative il volto serio di Nakht. All'inizio non accadde nulla. Sorrise e si strinse appena nelle spalle, come se fosse deluso. Poi, sul suo viso si dipinse un'espressione di intensa concentrazione e solennità. Se non avessi saputo che stava recitando, quasi quasi avrei creduto anch'io all'autenticità della sua visione. Sollevò lentamente le mani coi palmi rivolti all'insù e rovesciò gli occhi. Sembrava caduto in trance, gli occhi spalancati e immobili, come se fissasse il miraggio immateriale di qualcosa di evanescente. Poi quella che era stata una recita assunse i contorni della realtà. Fra le piccole luci costanti delle lampade a olio e la penombra in cui era immersa la stanza, entrò un'ombra. La figura da cui emanava era completamente al buio; piccola, quasi un animale, la forma e i lineamenti nascosti dalle pieghe del mantello nero che la copriva dalla testa ai piedi. Sentii una cappa di ghiaccio scendere su di me. Sfoderai il pugnale e afferrai la figura alle spalle, puntandole la lama alla gola. «Fai tre passi avanti.» La figura entrò nella luce delle lampade strascicando i piedi come un animale nella piazza del mercato. I volti degli iniziati fissarono increduli la presenza inattesa e inconcepibile degli intrusi. «Girati», ordinai. Obbedì. «Togliti il cappuccio.» Lo fece, togliendoselo lentamente dalla testa. La ragazza non era molto più grande di mia figlia Sekhmet. Non l'avevo mai vista. Sembrava una ragazza qualunque, una di quelle che non si notano per strada. Sedette sulla panca bassa, con una coppa d'acqua stretta fra le mani, tremando e ansimando. Nakht le
avvolse con cura uno scialle di lino intorno alle spalle e se ne andò per lasciarci soli e cercare di calmare lo strepito e le proteste che si levavano dai membri della sua società. Le sollevai il mento e cercai con dolcezza di convincerla a guardarmi. «Che cosa è successo? Chi sei?» Dagli occhi le sgorgarono le lacrime. «Rahotep!» riuscì a balbettare prima di cominciare a battere i denti senza potersi controllare. «Sono io Rahotep. Perché sei qui? Chi ti ha mandata?» «Non conosco il suo nome. Mi ha ordinato di dire: 'Sono il demone che invia i messaggeri per attirare i viventi nel regno dei morti'.» Ci fissò. Io e Khety ci scambiammo un'occhiata. «Come ti ha trovata?» «Mi ha rapita per strada. Dice che ucciderà la mia famiglia se non consegnerò il messaggio a Rahotep.» Gli occhi le si riempirono di lacrime e il viso le si contrasse di nuovo in una smorfia. «E qual è il messaggio?» Riusciva a malapena ad articolare le parole. «Devi venire alle catacombe. Da solo...» «Perché?» «Tu hai qualcosa che lui vuole. E lui ha qualcosa che vuoi tu», rispose. «Che cos'ha che io voglio?» domandai lentamente. Non riusciva a guardarmi negli occhi. Tremava violentemente in tutto il corpo. «Tuo figlio», sussurrò.
Capitolo 47 Corsi tra le ombre della notte. Thot procedeva alla mia andatura. Forse Khety mi seguiva, un po' più indietro. Non mi voltai a guardare. Sentivo come in lontananza il calpestio dei miei sandali sul terreno polveroso, il rumore sordo del sangue nel cranio e il battito del cuore nella gabbia del petto. Avevamo messo una guardia a sorvegliare la casa. Khety aveva ordinato a Tanefert di non lasciare uscire i figli in nessun caso e di non aprire la porta a nessuno. La casa doveva sembrare chiusa. Allora come aveva fatto Sobek a prenderlo? Immaginavo il dolore di Tanefert e il terrore del bambino. E io non ero lì a proteggerli. E se fosse stato un inganno? E se non lo era? Corsi ancora più veloce. Mi avrebbe incontrato nelle catacombe. Dovevo andarci da solo. Se mi fossi presentato con qualcuno, il bambino sarebbe morto. Dovevo portare l'allucinogeno. Se non l'avessi portato, il bambino sarebbe morto. Se ne avessi parlato con qualcuno, il bambino sarebbe morto. Dovevo andare da solo. Arrivai al porto, strappai dagli ormeggi una barchetta di canne e cominciai a remare, come impazzito, attraversando il Grande Fiume. Non pensai ai coccodrilli. La luna era una pietra bianca. L'acqua era marmo nero. Veleggiai sulla superficie delle ombre come la statuetta di me stesso su un modellino di barca, accompagnato da Thot, e valicai le acque della morte per andare incontro a Osiride, dio delle ombre. Sbarcai sulla riva occidentale e presi a correre, mentre l'aria si rinfrescava al mio passaggio accanto ai margini occidentali dei campi coltivati. Adesso ero un animale, con i sensi vigili, assetato di vendetta. Mi sentivo una pelle nuova, del colore della rabbia. I denti erano acuminati come gioielli incastonati nelle mascelle. Il tempo correva troppo veloce, le distanze erano troppo grandi e avevo paura di arrivare troppo tardi. Smisi di correre soltanto quando arrivai all'ingresso delle
catacombe. Guardai Thot che aveva corso con me, e lui guardò me, ansimando forte. I suoi occhi brillavano chiari. Gli sistemai la museruola per impedirgli di gridare. Lui capì. Non ero venuto solo, ma sarebbe rimasto in silenzio. Respirai per l'ultima volta l'aria aperta della notte e passammo sotto l'antica architrave intagliata, scendendo i gradini che ci portavano nelle tenebre oltre le tenebre. Sbucammo in una lunga sala dalle travature basse. Ascoltai il silenzio solenne. In quella quiete sacra mi sembrò di udire i morti rantolare sbriciolandosi in polvere, o sospirare nel tentativo di persuaderci a raggiungerli nelle delizie dell'Aldilà. Qualcuno aveva lasciato accesa per me una lampada in un anfratto del muro. Ardeva senza suono né movimento, indisturbata dall'aria e dal tempo. La presi e avanzai; gallerie insondabili sparivano in tutte le direzioni, e da ciascuna di esse si aprivano camere profonde dal soffitto basso, con pile e pile di recipienti di terracotta di ogni forma e dimensione. Dovevano essercene a milioni e contenevano i resti imbalsamati di ibis, falconi e babbuini... Thot, circondato dai resti della sua stessa specie, fiutava l'aria cimiteriale, le orecchie drizzate, pronte a cogliere i suoni rivelatori più infinitesimali - un sandalo che calpesta la polvere, il fruscio della stoffa sulla pelle viva -, rumori per me impossibili da udire, ma che avrebbero svelato la presenza di Sobek e di mio figlio alla sua fine attenzione. Poi lo udimmo entrambi: il grido di un bambino, perso e terrorizzato, che chiamava in lacrime dalle profondità delle catacombe. La voce di mio figlio... ma da dove veniva? Di colpo Thot tirò il guinzaglio e ci precipitammo in modo disordinato in un passaggio alla nostra sinistra, preceduti dalle ombre che proiettavamo sui muri nella sfera di luce della lampada. Il passaggio digradava. Altri cunicoli si diramavano in tutte le direzioni, dividendosi in infinite oscurità. Dov'era? Come l'avrei salvato? Poi udimmo un altro grido, acuto e riecheggiante, da una direzione ancora diversa. Thot girò e tirò il guinzaglio, costringendomi a seguirlo. Lasciai che mi conducesse per un cunicolo laterale che finiva in una biforcazione. Ascoltammo, vigili, i nervi tesi, i muscoli contratti. Un altro grido, questa volta a destra. Ci affrettammo in quel passaggio, oltrepassando altre camere basse ingombre di recipienti, perlopiù in frantumi, da cui sporgevano
ossicini e porzioni di crani che creavano strane angolature, dando l'impressione di essere lì da molto tempo. Ogni volta che l'eco delle grida giungeva a noi ci faceva addentrare sempre più nelle catacombe. Mi venne in mente che, se anche fossi riuscito a salvare mio figlio, sarebbe stato impossibile ritrovare la via d'uscita. A questo pensiero ne seguì un altro: era un trucco. Mi stava intrappolando. Mi fermai. Quando giunse il grido successivo, urlai: «Non andrò oltre. Vieni qui. Mostrati». La mia voce riecheggiò nei cunicoli, risuonando e ripetendosi a lungo nel labirinto, prima di spegnersi del tutto. Io e Thot aspettammo nell'ampia oscurità, protetti dal piccolo cerchio della debole luce propiziatoria. Sulle prime non accadde nulla. Poi nelle tenebre baluginò un lievissimo chiarore, un minuscolo punto luminoso. Impossibile valutare a che distanza fosse. Lo osservammo sbocciare e fiorire, e illuminare le pareti del cunicolo. Al suo interno la vidi: un'ombra in cammino.
Capitolo 48 Portava la maschera nera di Anubi, lo sciacallo, il guardiano delle necropoli. I denti dipinti biancheggiavano nel buio. Vidi che intorno al collo aveva il collare d'oro dei rituali. «Hai portato con te il babbuino», disse con voce bassa e incolore. «Insisteva nel volerti conoscere.» «Lui è Thot, Colui che registra i morti. Forse merita un posto in questa riunione», replicò. «Togliti quella maschera, Sobek, e guardami negli occhi», dissi. Le enormi catacombe, con il loro labirinto di tenebre e silenzio, somigliavano al vasto, risonante orecchio divino. Ascoltavano ogni parola? Lentamente Sobek si tolse la maschera. Ci guardammo e fissai con odio gli occhi grigi e insensibili. «Hai mio figlio e io lo rivoglio. Dov'è?» domandai. «È nascosto qui e te lo restituirò. Prima devi darmi qualcosa.» «Ce l'ho qui con me, ma non ti darò niente se non riavrò mio figlio.» «Fammi vedere.» Sollevai la borsa di pelle perché potesse vederla alla luce della lampada. La guardò con avidità. «Siamo in un vicolo cieco. Non ti dirò dov'è il bambino finché non avrò la borsa. Tu farai in modo che io non prenda la borsa finché non avrai il bambino. Quindi, cerchiamo di essere intelligenti e consideriamo le cose da un altro punto di vista», disse. «Quale sarebbe?» «Il prezzo della vita di tuo figlio è solo una breve conversazione con me. Da tempo ti considero uno stimato collega. Ci somigliamo molto, dopo tutto.» «Non abbiamo argomenti di cui parlare e non ti somiglio affatto.
Tutto quello che voglio è mio figlio. Vivo. Adesso. Se gli hai fatto del male, se gli hai torto anche solo un capello...» «Per riaverlo dovrai essere paziente, o non ti dirò nulla», rispose freddamente. «Aspettavo questo momento. Pensaci, Indagatore di Misteri. Anche tu hai domande da porre, e forse io conosco le risposte.» Esitai. Come tutti gli assassini del suo stampo, era un solitario. Voleva essere compreso. «Di che cosa vuoi parlare?» «Parliamo della morte, visto che ci affascina entrambi. La morte è il regalo più grande, perché è l'unica che ci offre trascendenza e perfezione, togliendoci da questo mondo banale, senza speranza, fatto di sangue e di polvere», disse. «La morte non è un regalo, è una perdita», replicai. «No, Rahotep. Si è tanto più vivi quanto più si è vicini alla morte. So che lo sai, malgrado il tuo piccolo, zuccheroso mondo familiare. I figli tanto amati, la moglie adorata... i mortali sono soltanto sacchi di sangue e ossa e tessuti abietti. Il cuore, il famoso cuore di cui parlano i poeti e gli innamorati, non è altro che carne. Tutto marcirà.» «Si chiama condizione umana. Cerchiamo di ricavarne quello che possiamo. Anche quello che fai tu è banale. Ammazzi ragazzi e ragazze drogati e indifesi, e animaletti. Li scuoi, gli spacchi le ossa, gli cavi gli occhi. E allora? Niente di speciale, anzi, patetico. Sei solo uno scolaretto che tortura insetti e gatti. Ho visto cose peggiori. Non mi interessa sapere perché tu li abbia uccisi in quel modo. Non importa. Era una specie di strampalato spettacolo funebre a tuo uso e consumo. Parli di trascendenza, eppure eccoti qui, in fondo alle catacombe, un ometto solo e frustrato, disprezzato, un fallito, bramoso di possedere il contenuto di una borsettina di cuoio.» Il suo respiro era accelerato; dovevo continuare a pungolarlo. «Sapevi che uno dei ragazzi non è morto? È ancora vivo. Ti ha descritto e può identificarti», continuai. Scosse la testa. «Un testimone cieco? No, Rahotep, sei tu il disperato, sei tu il fallito. Il re è morto, la tua carriera è finita e tuo figlio è in mio potere.»
Mi sforzai di non sbatterlo contro il muro della catacomba e spaccargli la faccia con la lampada. Non dovevo, altrimenti come avrei ritrovato Amenmose? E volevo alcune risposte. «Gli oggetti assurdi che hai lasciato al re, i tuoi strani regalucci. Pensavi davvero che si sarebbe spaventato?» Imprecò. «So di averlo terrorizzato. Gli oggetti hanno mostrato a lui, e a quella ragazza, tutto ciò che temevano; mi è bastato mostrar loro come in uno specchio il terrore della morte. La paura è il potere più grande. Paura del buio, del decadimento fisico, della distruzione, del destino... e soprattutto paura della morte; la paura che muove tutti gli uomini. La paura che accompagna ogni nostra azione presente e passata. La paura è un potere magnifico, e l'ho usato bene!» La voce di Sobek si era fatta più tesa. Mi accostai un po' di più. «Sei un vecchio patetico, triste e contorto. Ay ti ha scacciato e nella vendetta hai trovato il modo di sentirti ancora importante.» «Ay è stato uno sciocco. Non sapeva chi aveva di fronte. Mi ha congedato. Non ha più voluto servirsi delle mie cure! Ora lo rimpiange. Tutto quello che accade, tutto il caos e il terrore, sono stato io a volerlo e a provocarlo! Nemmeno tu, il famoso Rahotep, l'Indagatore di Misteri, sei riuscito a fermarmi. Non riesci ancora a capire? Ti ho chiamato. Ti ho indicato la via, dal principio fino a questo momento. E tu l'hai seguita come un cane, affascinato dal fetore della corruzione e della morte.» L'avevo sempre saputo e l'avevo negato a me stesso. Se ne accorse. «Sì. Adesso lo capisci. Adesso che la paura ti tocca. La paura del fallimento.» Continuai a muovermi per tenere a bada quella paura. «Ma perché odiavi Tutankhamon? Perché hai cominciato ad aggredirlo?» «Era il seme di una dinastia in declino e in decadimento. Non era adatto. Mancava di virilità. Era debole di mente e imperfetto nel corpo. La sua fertilità era compromessa, avrebbe messo al mondo
solo una progenie di esseri contorti e inutili. Non aveva coraggio. Non potevo permettere che diventasse re. Dovevo fermarlo. In passato, all'epoca in cui regnava la saggezza, prima di questa era di stolti, esisteva la sacra consuetudine di uccidere il re quando i suoi fallimenti mettevano a repentaglio la salute e il potere della terra. Ho ripristinato gli antichi riti. Gli ho spezzato le ossa, gettato via la faccia, cavato gli occhi, creato una maschera funeraria con esseri in decomposizione, perché gli dei non lo riconoscessero nell'Aldilà. Ho rinnovato il regno. Horemheb sarà re. Ha potere e virilità. Sarà Horus, re della vita. E per quanto riguarda il re fanciullo, svanirà nel buio dell'oblio, e il suo nome non sarà mai più pronunciato.» Aveva finito per menzionare il generale. Lo incalzai. «Perché Horemheb?» «Questa è la terra del pianto. I nostri confini sono minacciati, il nostro tesoro e i granai sono vuoti; puttane, ladri e malfattori governano templi e palazzi. Solo Horemheb ha l'autorità di restituire gloria alle Due Terre. Io sono colui che ha il potere sui viventi, io sono colui che vede gli dei. Sono il sole nero. Sono Anubi. Sono l'ombra!» gridò. «Vuoi dire che ogni tua azione l'hai compiuta per ordine di Horemheb? Gli oggetti, le incisioni nella Sala delle Colonne, l'assassinio di Mutnodjmet? In cambio ti ha promesso gloria e potere?» «Io non prendo ordini! Horemheb ha riconosciuto il mio talento e mi ha incaricato di agire. Ma è un soldato. Non conosce le verità superiori. Non conosce ancora la portata della mia opera, perché trascende il potere e la politica di questo mondo. A che serve questo mondo, se non possiamo avere anche l'Aldilà?» Gli girai intorno con la lampada. Sapevo che c'era dell'altro. «Ti ringrazio per avermi regalato la scatola con gli occhi. Immagino che provengano dalle tue vittime.» Annuì, soddisfatto. «Li ho raccolti per te. Un omaggio. È un simbolo.» «Gli occhi sono tutto, vero? Senza di loro, il mondo scompare, siamo al buio. Ma come durante un'eclisse, l'oscurità è in sé rivelazione. TI Sole riposa in Osiride, Osiride riposa nel Sole!'»
Annuì di nuovo. «Sì, Rahotep; finalmente cominci a capire, a comprendere la verità...» «Nel tuo laboratorio ho trovato delle fiale di vetro. Che cosa contenevano?» domandai. «Non hai capito neppure questo?» sbraitò sprezzante. Thot ringhiò e si agitò al mio fianco. «Ho sentito un sapore di sale...» dissi. «Non hai riflettuto abbastanza. Ho raccolto le ultime lacrime dagli occhi dei defunti, mentre vedevano approssimarsi la morte. I libri segreti ci dicono che le lacrime sono un elisir, il distillato di ciò che il morente prova negli ultimi istanti, quando passa dalla vita alla morte.» «E quando hai bevuto le lacrime, non è successo niente. Dopo tutto, sono fatte soltanto di acqua e sale. Con tanti saluti ai misteri dei libri segreti.» Sospirò. «L'azione prevedeva piaceri compensatori.» «Immagino che tu abbia drogato le vittime per compiere liberamente le tue atrocità. Immagino che non abbiano lottato. Immagino che tu abbia illustrato nei particolari le torture che infliggevi ai loro poveri corpi», dissi. «Come al solito perdi di vista il significato più profondo. Li ho lasciati come segni di avvertimento al re, ma volevo anche qualcos'altro, qualcosa di più intenso.» «Volevi guardare.» Fece un cenno di assenso. «La morte è il momento più splendido della vita. Assistere a quel momento di passaggio, quando la creatura mortale rassegna il suo spirito, dall'oscurità più cupa alla luce dell'Aldilà, è l'estasi più sublime che questa vita possa offrire.» «Ma i tuoi esperimenti sono falliti, vero? Tutte quelle ossa rotte, e le maschere d'oro, e le facce dei morti, si sono rivelate pura attrezzeria di scena. Nessuna trascendenza. Le droghe danno illusioni, non visioni. I morti sono morti e basta, e nei loro occhi hai visto solo sofferenza e dolore, ecco perché ti serve questo.» Feci oscillare la borsa di cuoio davanti ai suoi occhi affascinati. Allungò la mano, ma Thot si scagliò su di lui, e io ritrassi la borsa.
«Prima di dartela, e prima che tu mi restituisca mio figlio, dimmi una cosa. Come ti procuravi il papavero da oppio?» Fui gratificato dal lampo di sorpresa che vidi negli occhi gelidi. «È facile procurarselo», rispose circospetto. «Certo, a uso medicinale e in piccoli quantitativi, è facile per un medico come te. Ma qui c'è sotto dell'altro; c'è un traffico segreto. Penso che tu sappia molto in proposito.» «Non so niente», bofonchiò. «Bugiardo. La richiesta di questo piacere di lusso è talmente elevata che non bastano a soddisfarla le ragazze e i ragazzi disperati che sono utilizzati come corrieri. Sono solo un diversivo per tenere i funzionari del Medjay fuori dal gioco più importante. Te lo dico io come funziona. Il papavero da oppio viene coltivato nelle terre degli ittiti e il succo viene contrabbandato al porto di Tebe via nave. La droga viene immagazzinata e venduta tramite i circoli privati. Tutti i funzionari, a tutti i livelli - dalle guardie di frontiera, alle autorità portuali, sino ai burocrati che concedono i permessi ai circoli - sono corrotti. Tutti devono tirare a campare, soprattutto di questi tempi. Ma ecco il punto più importante: come fanno i carichi che provengono dalla terra dei nostri nemici, gli ittiti, a valicare i confini sorvegliati dai soldati in tempo di guerra? C'è una sola risposta, ed è questa: l'esercito è coinvolto nel traffico.» «Che fantasia! E perché l'esercito dovrebbe essere implicato in un simile traffico?» mi schernì. «I ricchissimi profitti consentono a Horemheb di essere economicamente indipendente dal tesoro reale. Così va il mondo oggi. I giorni del saccheggio, delle rapine e delle primitive razzie sono finiti da un pezzo. È un esercito finanziato in modo indipendente, ben equipaggiato e addestrato è un mostro assai pericoloso.» Rimase a lungo in silenzio. «Se pure questa tua bizzarra fantasia corrispondesse al vero, non avrebbe nulla a che vedere con me.» «Invece sì. Tu sei perfettamente al corrente del traffico. Sei il medico. La tua conoscenza degli allucinogeni ti rende molto prezioso. Horemheb ti ha ingaggiato non solo per occuparti della
moglie pazza, ma per sorvegliare il traffico qui a Tebe. Sorvegli l'arrivo in porto delle navi da carico, e ti assicuri che la merce sia trasferita al sicuro nei circoli. Non credo, però, che Horemheb sia a conoscenza dei tuoi sporchi affari privati. Mi sbaglio?» Mi fissò con uno sguardo vuoto. «Molto bene, Indagatore di Misteri. Le mie opere d'arte erano un omaggio personale a Horemheb. Un contributo alla sua campagna per il potere, alla quale ho offerto caos e paura. Che vantaggio ricavi dall'averlo capito? Questo segna la tua condanna. Non posso lasciarti andare. Rimarrai intrappolato nel mondo sotterraneo delle tenebre. Non troverai mai la strada per tornare alla luce. Così ora ti dirò la verità. E ti guarderò soffrire. Contemplare la tua angoscia sarà una visione che mi compenserà ampiamente per la perdita dell'altra. Non sono uno stupido. Chi mi dice che ciò che porti con te non sia un inganno?» Emise un grido che imitava alla perfezione quello di mio figlio. Una lama di terrore scivolò fra le mie costole lacerandomi il cuore. Mio figlio, Amenmose, era morto? Capii che era troppo tardi. Aveva vinto. «Che cosa hai fatto a mio figlio?» domandai con la voce spezzata. Feci un passo verso di lui. Arretrò di un passo e sollevò la lampada, per accecarmi e nascondere il viso. «Sai che cosa gridò Osiride al gran dio quando giunse nell'Aldilà?
' Oh, che cos'è questo posto desolato? E senza acqua, senz'aria, la sua
profondità è insondabile, le sue tenebre buie come la notte. Devo vagare senza speranza qui, dove nessuno può vivere nella pace del cuore o soddisfare i desideri dell'amore?' Sì, amico mio. Ho fatto di
tuo figlio un piccolo sacrificio a Osiride, dio dei morti. L'ho nascosto lontano, molto lontano, negli abissi di queste catacombe. È ancora vivo, ma non lo troverai mai, neppure se avessi a disposizione tutto il tempo del mondo. Morirete entrambi di fame, perduti nel vostro Aldilà personale. Ora, Rahotep, il tuo volto si è davvero aperto alla Casa delle Tenebre.» Mi scagliai contro di lui, Thot si alzò sulle zampe posteriori, ringhiando e scoprendo i denti, ma Sobek mi lanciò contro la sua
lampada a olio e scomparve nel buio.
Capitolo 49 Liberai dalla museruola Thot, che si slanciò nell'oscurità. L'olio ardente schizzato dalla lampada di Sobek avvampò con una luce rossa sulla parete alle mie spalle. Udii il babbuino gridare e poi, con mia grande soddisfazione, un urlo. Ma Sobek lo volevo vivo, perché testimoniasse, e soprattutto perché mi restituisse il figlio. Impartii un comando secco al babbuino correndo per la buia galleria in direzione della figura rannicchiata. Sollevai la lampada: Thot aveva azzannato Sobek alla gola e uno squarcio enorme gli sfigurava il viso, un occhio era stato strappato dalle orbite e la pelle lacerata della guancia si era staccata dal volto esponendo ossa e vene. Sangue scuro usciva a fiotti dalla ferita al collo. Mi inginocchiai e attirai a me il volto devastato. «Dov'è mio figlio?» Il sangue gli gorgogliò in bocca mentre tentava di ridere. Gli premetti i pollici sugli occhi. «Che cosa vedi adesso?» gli bisbigliai all'orecchio. «Niente. Non c'è niente. Tu non sei niente. Non esiste nessun Aldilà. L'oscurità che vedi è la tua eternità.» Premetti sempre più forte affondando gli occhi nelle orbite; le gambe scalciarono nella polvere. Sembrava un nuotatore in procinto di affogare sulla terraferma. Squittì come un roditore, io sentii il sangue sotto le dita e continuai a premere fino a quando il suo cuore malvagio non ebbe pompato l'ultima goccia di sangue dal corpo, infine morì. Presi a calci l'inutile cadavere, calpestando quel che restava del suo volto fino a farmi mancare le forze. Poi crollai a terra singhiozzando, sconfitto. Con la sua morte non avevo ottenuto nulla. Avevo sbagliato. La luce della lampada a olio si stava attenuando in fretta. Non me ne importava. Poi udii qualcosa. Lontano, molto lontano: la voce di un bambino
che si svegliava da un incubo e si ritrovava solo nel buio, e piangeva e gridava... «Sto arrivando!» Le grida di Amenmose mi giunsero ancora più forti. Thot mi precedette con un balzo immergendosi nel buio profondo, ma si muoveva con sicurezza, svoltava a destra e a sinistra indicandomi il percorso. Nel frattempo continuammo a gridare uno all'altro, padre e figlio, a urlare per salvarci la vita. Thot lo trovò in fondo a una delle gallerie più nascoste. La testolina sbucava dall'orlo di una giara abbastanza capiente da contenere un babbuino adulto. Aveva la faccia sporca di polvere e lacrime e piangeva sconsolato. Frugai tutt'intorno alla ricerca di una pietra con cui spaccare la giara e aprirla senza fargli del male. Baciai il bimbo gemente e cercai di calmarlo chiamandolo ripetutamente per nome: «Amenmose, bambino mio». Il primo colpo non spaccò la giara. Il bambino gridò ancora più forte. Con un altro colpo ben assestato, la giara si aprì. Tolsi i frammenti di coccio, la sporcizia si riversò a terra e infine strinsi fra le braccia il corpicino tremante, freddo e sporco di mio figlio. La lampada era agli sgoccioli. Dovevamo trovare la via d'uscita prima di rimanere al buio. Impartii un ordine a Thot, che gridò come se avesse capito e si slanciò. Gli corsi dietro con il bambino sotto un braccio, incapace di proteggere anche la fiamma. Dopo poco, ondeggiò e si spense. Buio profondo. Il bambino ricominciò a frignare e a piangere, malgrado cercassi di calmarlo e consolarlo. «Thot!» Il babbuino si accostò immediatamente, e un po' a tastoni e un po' per forza d'abitudine riuscii ad assicurare il guinzaglio al collare. Si muoveva al buio e potei solo seguirlo, cercando di proteggere il bambino mentre urtavamo contro le pareti e inciampavamo sul terreno irregolare. La speranza, la più delicata di tutte le emozioni, era solo un barlume, debole come lo era stata la luce della lampada.
Disperato, baciai gli occhi di mio figlio. Si era acquietato, come se la mia presenza nel buio lo confortasse e rendesse accettabile qualsiasi destino. Allora scorsi un lampo nell'oscurità. Forse me l'ero immaginato, era solo frutto della mia disperazione, ma Thot gridò, la luce si duplicò e udii dei richiami che sembravano provenire dal mondo perduto della vita e della luce del sole. Gridai di rimando. Le luci cambiarono direzione, si unirono e mi vennero incontro come se una liberazione sacra giungesse dalle ombre. Mentre si avvicinavano, guardai il visino di mio figlio. Spalancò gli occhi e osservò le luci nel buio come l'incantesimo di una fiaba che lo avrebbe portato al lieto fine di una storia spaventosa. Alla luce tremolante della prima lampada riconobbi un viso familiare, spaventato e sollevato al tempo stesso. Khety.
Capitolo 50 Portai Amenmose nel vicolo ed entrai in casa. Appena ci vide, Tanefert cadde in ginocchio con la bocca spalancata in un grido silenzioso di angoscia e sollievo. Lo tenne al sicuro tra le braccia e non volle cederlo. Infine, quando riuscii a toglierglielo parlandole con dolcezza e a deporlo nel lettino, lei mi aggredì, picchiandomi con i pugni chiusi e schiaffeggiandomi come se volesse farmi a pezzi; per la verità, la lasciai fare volentieri. Lavò il bambino nell'acqua fresca con un panno, parlandogli con voce tranquilla e una tenerezza infinita. Il bimbo era stanco e irritabile. Tanefert lo vegliò mentre dormiva, come se non volesse lasciarlo mai più. Aveva il viso rigato di lacrime. Evitò il mio sguardo. Non riuscii a parlare. Cercai di accarezzarle la guancia, ma mi ignorò. Stavo per ritirare la mano, quando d'improvviso me l'afferrò, la baciò e la tenne fra le sue. La circondai con le braccia e la strinsi a me come lei aveva fatto con nostro figlio. «Non devi perdonarmi e io non perdonerò mai me stesso», dissi infine. Mi guardò con gli occhi scuri, ora acquietati. «Avevi promesso che non avresti mai consentito al tuo lavoro di arrecare danno alla nostra famiglia», disse con semplicità. Aveva ragione. Mi presi la testa fra le mani. Me l'accarezzò, come se fossi un bambino. «Come ha fatto a prenderlo?» «Dovevo andare a comprare da mangiare. Le ragazze non ne potevano più delle solite cose. Erano stufe da morire. Stavo chiusa in casa tutto il giorno. Allora ho deciso di andare al mercato. Ho lasciato i nostri figli in custodia alla serva. La guardia era sulla porta. La ragazza dice che stava facendo il bucato ed erano tutti in cortile a giocare. D'un tratto ha sentito urlare ed è corsa fuori: Amenmose era sparito. La porta era aperta. La guardia era distesa a terra, con il
cranio spaccato. Sekhmet aveva cercato di impedirgli di portar via Amenmose. Quell'uomo le ha dato un pugno. Quel mostro ha dato un pugno a mia figlia. È stata tutta colpa mia.» Si raggomitolò su se stessa, singhiozzando. Stupide lacrime mi solleticarono gli occhi. Ora toccava a me consolarla prendendola tra le braccia. «Quel mostro è morto. L'ho ucciso.» Tanefert sollevò il viso lacrimoso, sorpresa, e capì che era la verità. «Ti prego, non farmi altre domande per oggi. Te ne parlerò appena potrò, ma è morto, non può più farci del male.» «Ce ne ha già fatto fin troppo», replicò con una sincerità che mi spezzò il cuore. Le teste delle ragazze fecero capolino dietro la tenda. Tanefert sollevò lo sguardo e cercò di sorridere. «Sta bene?» domandò Thuyu, masticandosi un ricciolo. «Si è addormentato, perciò fate silenzio», dissi. Nedjmet lo guardò fisso. Sekhmet, invece, quando lo vide, crollò. Vidi il livido nero attorno all'occhio, i segni dei graffi sulle braccia e le lunghe sbucciature sulle gambe. Restò senza fiato, deglutì, e grosse lacrime sgorgarono a fiotti. «Come hai potuto permettere che gli facessero una cosa simile?» gridò con la voce spezzata, quasi senza fiato. Sentii la vergogna ricoprirmi come un mantello di fango. La baciai sulla fronte, le asciugai le lacrime e dissi, rivolgendomi a tutte loro: «Mi dispiace tanto», e mi allontanai. Mi sedetti sulla panca bassa del cortile. I rumori della strada, oltre le mura della casa, mi giunsero distanti, come se venissero da un altro mondo. Ripensai a tutto quello che era accaduto dalla notte in cui Khety aveva bussato al muro accanto alla finestra. Adesso era il mio cuore a bussare tra le costole. Avevo fatto un torto alla mia famiglia, andandomene. Sul momento non me ne ero reso conto.
Forse non avevo avuto scelta, ma Tanefert aveva ragione: c'è sempre un'alternativa. Avevo scelto il mistero e ne avevo pagato il prezzo. E non sapevo come rimediare. Fu Sekhmet a uscire a cercarmi. Tirava su col naso e si asciugava il viso con la veste, ma si sedette vicino a me, ripiegò sotto di sé le gambe con eleganza e si appoggiò contro il mio fianco. La circondai con un braccio. «Mi dispiace, ti ho detto una cosa orrenda», disse piano. «Era la verità. So che me la dici sempre.» Annuì con gravità, come se la testa fosse appesantita dal troppo pensare. «Perché quell'uomo si è portato via Amenmose?» «Perché voleva ferirmi. Voleva dimostrare di potermi togliere una delle cose per me più care al mondo.» «Perché mai qualcuno dovrebbe commettere un'azione simile?» «Credo di non saperlo. Forse non lo saprò mai.» «Cosa ne è stato di lui?» «È morto.» Fece un cenno di assenso, ci pensò su, ma non disse altro, e restammo seduti vicini, immersi nella confusione rumorosa della strada, guardando il sole salire e disperdere le ombre, ascoltando i rumori delle ragazze che, mentre preparavano il pranzo in cucina, litigavano e ridevano come avevano sempre fatto.
Capitolo 50 Messa al sicuro la mia famiglia, decisi di recarmi ancora una volta a palazzo per presentare il mio ultimo rapporto. Mi sentivo male al pensiero di tornare in quel regno delle ombre, ma Ankhesenamon voleva assolutamente sapere che cosa avessi scoperto su Horemheb: in che modo stesse finanziando il nuovo esercito e come avesse ingaggiato Sobek. Le mie informazioni le avrebbero fornito un'arma decisiva per i suoi negoziati. Le avrebbe usate contro il generale, facendogli capire che sapeva tutto e che avrebbe potuto rendere pubblica la notizia, per poi denunciarlo e sostituirlo. Sarebbe stata così in grado di negoziare una tregua fra sé, Ay e Horemheb. La regina, Khay e Simut mi guardarono stupefatti quando finii di spiegare loro ogni cosa. E dopo aver risposto a sazietà alle loro domande, mi scusai. Dissi che mi serviva un po' di tempo da trascorrere con la famiglia per riprendermi dagli avvenimenti. Mi inchinai, arretrai, e senza aver ricevuto il permesso ufficiale, me ne andai, sperando con tutto il cuore di non dover mai più mettere piede in quelle stanze ovattate. Nei giorni seguenti una cappa di caldo afoso e immobile avvolse la terra. Il sole splendeva senza pietà, costringendo persino le ombre a nascondersi, e la città era in fermento per le previsioni, le voci e i miraggi. Erano arrivate le navi di Horemheb, che avevano trasportato molte delle divisioni di stanza a Menfi, suscitando uno stato di allarme. Le navi rimasero all'ancora sulla riva orientale vicino al porto; si temeva un'incursione o un'occupazione in qualsiasi momento, ma i giorni passarono e non accadde nulla. La calura persistente e l'incertezza sul futuro tolsero sostanza alla vita quotidiana, ma la gente continuò come sempre a lavorare, mangiare e dormire. Di notte fu imposto un coprifuoco più severo, e mentre sedevo sul tetto di casa insieme a Thot, incapace di dormire, guardando le stelle, bevendo troppo vino, ascoltando cani da guardia e cani randagi che si abbaiavano contro con furia, pensando
a tutto e a niente, mi sentivo l'unico uomo ancora vivo sotto la luna. Talvolta guardavo oltre il disordine caotico dei tetti in direzione del lontano Palazzo di Malkata, dall'altra parte della città. Immaginavo le tensioni, le lotte di potere che probabilmente vi si stavano ancora combattendo, mentre il corpo di Tutankhamon veniva sottoposto agli ultimi Giorni della Purificazione in preparazione delle esequie. Pensavo a Horemheb, a bordo della nave di stato che continuava a galleggiare nel porto, a Khay che beveva vino nel suo ufficio, ad Ay solo nei suoi saloni perfetti che stringeva i pugni per l'incessante dolore alla mascella. E pensavo ad Ankhesenamon, che camminava su e giù negli appartamenti illuminati dalle lampade, architettando un modo per vincere sulla scacchiera della politica e assicurare un futuro ai figli non ancora nati. E vedevo me stesso, che rimuginavo e bevevo al buio, parlando più a Thot che a chiunque altro, forse perché era stato sempre al mio fianco. Lui solo capiva. E non poteva parlare. E una sera, poco dopo il tramonto, udii qualcuno bussare. Quando aprii la porta, vidi un cocchio e una truppa di guardie di palazzo come scorta. Mi sembrò una visione in quella strada caotica. Su e giù per il vicolo, la gente guardava a bocca spalancata. Mi aspettavo di veder comparire i lineamenti ossuti e tetri di Khay, ma il viso che sbirciò circospetto nella mia direzione era quello di Ankhesenamon. Si era camuffata con una veste di lino avvolgendosela accuratamente sul corpo. «Vedo che ti ho stupito. Posso entrare?» domandò a disagio. Avevo deciso che mi sarei rifiutato di avere ancora a che fare con qualcuno di loro e con gli intrighi di palazzo, ma mi resi conto di non poterle chiudere la porta in faccia. Annuii, e lei scese svelta dal cocchio con i sandali d'oro di fattura superba - decisamente troppo belli per quella strada -, poi, all'ombra di un parasole, entrò veloce nella mia modesta dimora. Tanefert era in cucina. Passammo per la sala da ricevimento, dove non stiamo quasi mai, e mia moglie la riconobbe. Si fermò e parve caduta in trance. Si riprese e fece un profondo inchino.
«Vita, prosperità a salute a vostra maestà», disse a bassa voce. «Spero che perdoniate la mia visita inaspettata; non è educato da parte mia presentarmi senza invito», disse la regina. Tanefert annuì attentamente.
sbalordita.
Le
due
donne
si
studiarono
«Prego, accomodatevi nella sala di ricevimento. Porterò da bere», disse Tanefert. Ci sedemmo sulle panche, in un silenzio imbarazzato. Ankhesenamon si guardò intorno, osservando la banalità della stanza. «Non ti ho mai ringraziato per tutto quello che hai fatto. So che hai pagato un prezzo molto alto per la tua fedeltà, in fin dei conti davvero troppo alto. Forse accetterai questo come parziale risarcimento, per quanto inadeguato.» Mi porse una borsa di cuoio. L'aprii e vi trovai un Collare d'Onore d'oro. Era un oggetto bellissimo e di grande valore, di qualità e fattura superbe, grazie al quale avrei potuto mantenere per anni la mia famiglia. Annuii e lo riposi nella borsa di cuoio, senza provare nessuna delle sensazioni che forse sarebbero state d'obbligo nel ricevere un tesoro simile. «Grazie.» Scese il silenzio. Udii Tanefert che preparava il vassoio in cucina. «Il regalo è un pretesto, in verità avrei voluto vederti tutti i giorni, ma mi sono ripromessa di lasciarti tranquillo, e ci sono riuscita», confessò. «Mi rendo conto ormai di quanto dipendo da te.» «Eppure eccovi qui», risposi, forse un po' bruscamente. «Sì, sono qui. Ho cercato spesso di immaginarti a casa tua, insieme alla tua famiglia. Mi piacerebbe conoscerla. Che ne dici?» Le ragazze, di solito sempre pronte a conoscere i miei ospiti, si erano riunite in cucina, dove le sentivo far domande pressanti alla madre sull'identità dell'inattesa sconosciuta. Le feci entrare. A loro onore, si avvicinarono, spalancando gli occhi, e si inginocchiarono,
esibendosi in un inchino perfetto. Ankhesenamon le ringraziò, chiese loro di alzarsi e di presentarsi. A quel punto entrò mio padre. Si piegò a fatica sulle ginocchia doloranti come un vecchio elefante, pieno di meraviglia per l'ospite straordinaria. Tanefert tornò con Amenmose fra le braccia. Era ancora addormentato e si stropicciava gli occhi. «Posso tenerlo in braccio?» domandò Ankhesenamon. Mia moglie le porse il piccolo e la regina delle Due Terre lo tenne con cautela, guardandolo teneramente, mentre il bimbo ricambiava lo sguardo, dubbioso. Lei rise, vedendo la sua faccia timorosa. «Non si fida di me», disse. Ma il bambino le fece l'onore di rispondere alla sua risata con la sua smorfia migliore e il viso della regina si illuminò, in un riflesso del piacere di quel momento. «I figli sono un dono», disse piano, e lo tenne a lungo prima di restituirlo malvolentieri alla madre. Convinsi le ragazze ad andarsene ed esse obbedirono, divertendosi a inchinarsi ripetutamente mentre indietreggiavano e uscivano dalla stanza urtandosi l'una con l'altra per l'entusiasmo. Rimanemmo soli. «Non penso che siate venuta qui solo per ricompensarmi e per conoscere i miei figli.» «No. Ho un invito per te. E un appello da rivolgerti.» «Di che cosa si tratta?» Trasse un respiro profondo e sospirò. «I Giorni della Purificazione sono terminati. È tempo di seppellire il re, ma ho un problema.» «Horemheb?» Annuì. «Devo assolutamente decidere la mia linea di condotta. L'ho incoraggiato molto e credo sia quasi convinto che accetterò la sua proposta. Ay ritiene, a sua volta, che capirò quanto sia saggia la sua offerta.» «Il momento in cui rivelerete la vostra decisione sarà assai
pericoloso», dissi. «Sì. Una volta seppellito il re, dovrò agire. Ho deciso che per il momento mi servono entrambi, se devo rivendicare la corona e proseguire la dinastia. Per quanto riguarda Ay, mi ha offerto il suo appoggio quando sarò regina, se gli garantirò il controllo dell'amministrazione e della strategia delle Due Terre. Dovrei accettare la sua ascesa al trono...» Vide la mia espressione sgomenta, ma continuò: «In cambio io manterrò la mia posizione e la mia indipendenza, stringerò relazioni nell'amministrazione statale. Gli conferirò una legittimazione utile alla sua autorità. Ay è vecchio e non ha figli; qualche anno di regno, necessario a trasmettermi la sua autorità e la sua influenza, e poi morirà, come è inevitabile e giusto che sia. Questo è il nostro accordo. È quanto di meglio io possa fare». «E Horemheb?» «Questa è la parte difficile. Nonostante la mia repulsione nei suoi confronti, ho dovuto prendere in considerazione tutte le ipotesi. Per parte sua, può contare su una forza potente; ha ai suoi ordini più di trentamila soldati. La sua è una generazione di uomini nuovi. L'esercito ha rappresentato una via al potere e al successo per persone che altrimenti sarebbero rimaste nell'ombra. Immagina cosa potrebbero fare! Tuttavia, l'accesso al potere reale lo metterebbe in contrasto diretto con Ay e con la burocrazia, e credo che questo causerebbe una grave instabilità nelle Due Terre, quasi una guerra civile. Entrambi ne sono consapevoli e sanno di non poter prevalere l'uno sull'altro. Una guerra civile in questo momento non porterebbe vantaggi a nessuno. Inoltre, la maggior parte delle divisioni di Horemheb è ancora lontana, impegnata nella guerra contro gli ittiti; anche nell'eventualità che negoziassero una tregua, passerebbero mesi prima del loro rientro, e ciò verrebbe considerata una bella sconfitta per il generale. Ma resta un uomo molto pericoloso. «Grazie a te ho le informazioni che mi servono sul traffico del papavero da oppio, e potrei usarle per danneggiare la reputazione di integrità morale che si è costruito. Ma l'accusa non è facile da provare, e penso che sarà quasi impossibile indicarlo come il responsabile del traffico. In più, una controversia simile sarebbe
dannosa nel momento in cui bisogna fare di tutto per creare una nuova unità. Horemheb va contenuto, come un leone in un recinto, in modo che l'esercito continui più o meno volontariamente a collaborare entro il raggio della nostra autorità. E per far questo, considerando la natura degli uomini e delle loro ambizioni, devo ingolosirlo con qualcosa che gli preme. Gli offrirò la prospettiva del matrimonio, a condizione che aspetti la morte di Ay. E forse, se la fortuna mi assiste, prima di quel momento mi si presenteranno occasioni migliori, perché in verità non potrei mai dividere il mio letto con quell'uomo. Ha il cuore di un ratto.» Restammo seduti in silenzio per un po'. «Dicevate di avere una richiesta», le ricordai. «Ho detto che era un 'appello' e un invito, in realtà», ribatté. «Di che cosa si tratta?» Esitò, nervosa. «Mi accompagneresti alla sepoltura del re? Avrà luogo domani sera.»
Capitolo 52 Fu così che partecipai alla cerimonia funebre di Tutankhamon, un tempo Immagine vivente di Amon e Signore delle Due Terre, accompagnandolo alla sua dimora eterna come mi aveva chiesto di persona nelle sue ultime ore di vita. Il corpo giaceva nella sua camera, adagiato nella bara più interna e avvolto nel sudario di lino bianco. Appariva pulito e ordinato come una grande bambola ben fatta, legata con una corda d'oro e abbellita dagli amuleti. Ankhesenamon gli dispose con solennità una ghirlanda di fiori freschi, azzurri, bianchi e verdi intorno al collo, dove era già stato collocato il pettorale d'oro con l'avvoltoio e lo scarabeo. Sul petto vi era un falco d'oro. Le braccia erano incrociate e le mani d'oro impugnavano lo scettro e il flagello del regno. Rammentai di essere stato l'ultimo a tenere fra le mie le vere mani del re, mentre la vita lo abbandonava. Sopra il sudario vi era un oggetto stupendo, motivo di vanto e meraviglia: una maschera funebre realizzata con maestria insuperabile, d'oro purissimo, raffigurante i fieri lineamenti del dio Osiride. L'artigiano era riuscito a ricreare con abilità anche gli occhi di Tutankhamon, scaltri, attenti e brillanti, sotto le arcate scure di lapislazzuli delle sopracciglia. Ricavati dal quarzo e dall'ossidiana, fissavano fiduciosi l'eternità. L'avvoltoio e il cobra scintillavano protettivi sul suo viso. Capii che avrebbe voluto mostrare quel volto agli dei. Percorremmo il palazzo in processione. Mi fu concesso di camminare alle spalle di Ankhesenamon, di fianco a Simut, che mi fece un cenno, contento di vedermi. Ay procedeva a lato della regina. Succhiava l'ennesima pastiglia di chiodi di garofano e cannella, di cui di tanto in tanto mi giungeva l'aroma. Aveva di nuovo mal di denti, ma era difficile averne compassione. Quando uscimmo dalla porta occidentale del palazzo, l'aria della mezzanotte era fresca e le stelle scintillavano lucenti nelle profondità dell'eterno oceano notturno. La mummia nella sua bara aperta fu collocata su un catafalco dorato, protetto dai fregi decorati di cobra intagliati e
ghirlande di fiori; le altre bare, una dentro l'altra, la seguivano su un altro catafalco trainato dai buoi, poiché il loro peso era enorme. Dodici alti funzionari, fra cui Khay e Pentu, erano vestiti di bianco e avevano la fronte cinta dalle bende bianche del lutto. A un segnale, diedero un ordine all'unisono e tirarono le corde per far scivolare il primo catafalco, il più leggero, sui rulli e sul selciato della via processionale. Proseguimmo per la via principale, dirigendoci prima a occidente e poi a nord. In lontananza le basse e lunghe strutture del Tempio di Hatshepsut si stagliavano contro le rocce inargentate dalla luna. Fu un tragitto lungo e faticoso. Nei punti strategici del percorso, Simut aveva piazzato plotoni di guardie armate di potenti archi. La terra era silenziosa sotto lo sguardo indagatore della luna. Le ombre della notte creavano strane ripartizioni. Infine ci facemmo avvolgere dall'abbraccio della Valle dei Re, proseguimmo a occidente, svoltammo a sinistra e poi ancora a sinistra, nella parte orientale e più segreta della necropoli, sfilando lentamente fra i grandi baluardi di roccia corrosa verso l'ingresso del sepolcro. Arrivati sul posto, scorsi cumuli e cataste di oggetti già scaricati e posti sotto i teli bianchi, come se una numerosa famiglia stesse traslocando da un palazzo a un altro; doveva essere il corredo funebre che avrebbe arredato la tomba dopo il completamento dei riti e non appena deposte e sigillate le bare all'interno del sarcofago. Le lampade illuminavano i sedici scalini di pietra che portavano all'interno della tomba, e che discesi mentre tutti si preparavano ai riti che si sarebbero svolti di lì a poco. La luce delle lampade mi rivelò qualcosa che mi lasciò di stucco: l'ingresso della tomba non era stato terminato e pareva che il corridoio fosse stato messo sommariamente in ordine per la cerimonia. Sui gradini erano state abbandonate le giare contenenti bende e natron, e gli otri di pelle con l'acqua per gli operai erano stati spostati frettolosamente di lato. Varcai la soglia scolpita nella roccia ed entrai nella Sala dell'Attesa. Anche qui il lavoro non era finito. Sul pavimento inclinato e lungo le pareti di roccia grezza si scorgevano i segni e le tracce rosse lasciate dai muratori. Le scaglie e i frammenti di calcare non erano
stati spazzati dal pavimento. Qua e là sulle pareti scintillava l'oro, dove i trasportatori degli arredi reali avevano sfregato il carico per la fretta. L'aria sapeva di bruciato - cera di candele, olio, incenso e giunchi -, persino le pareti di roccia sbozzata e i bassi soffitti sembravano trasudare la storia acre dei tanti scalpelli che avevano lavorato nelle fondamenta rocciose, pezzo per pezzo, colpo su colpo. Girai a destra ed entrai nella camera funeraria vera e propria. Le pareti erano decorate, ma con semplicità, senza ostentazione. Evidentemente non c'era stato il tempo per creare qualcosa di più grandioso ed elaborato. Le tante sezioni massicce del sarcofago d'oro, che comprendeva quattro grosse casse, una dentro l'altra, erano collocate contro le pareti, pronte per essere assemblate nelle dimensioni anguste dello spazio scuro, dopo che le bare fossero state collocate al loro posto nel sarcofago. Ogni sezione dello splendido legno dorato era contrassegnata all'interno dalle istruzioni: quale pezzo si incastrava in un altro, e così via. Un immenso sarcofago di pietra gialla occupava già quasi tutto lo spazio della camera. In ogni suo angolo erano state minuziosamente intagliate le ali delle divinità protettrici che si sovrapponevano le une alle altre. Mi voltai di nuovo a destra e scrutai il tesoro. Era già provvisto di molti oggetti; il grande sacrario sarebbe stato una barriera inviolabile a difesa della camera sepolcrale. Per prima cosa, vidi una scultura a grandezza naturale di Anubi, nero e lucido, le lunghe orecchie dritte come se ascoltasse attentamente. Era avvolto in una coperta che qualcuno, chissà perché, gli aveva appoggiato sulla schiena, forse per tenerlo al caldo nell'eterna oscurità della sua veglia. Alle sue spalle c'era un grande vaso canopico d'oro. Lungo una parete, oltre ad altri vasi canopici, erano state collocate alcune casse sigillate. Anche sulla parete di fronte vi era una serie di vasi e di fianco ad Anubi si allungava una fila di cofanetti di legno e avorio. Mentre nessuno guardava ne aprii uno con circospezione; conteneva un bellissimo ventaglio di piume di struzzo e recava l'iscrizione: «Fatto con le piume dello struzzo catturato da sua maestà durante la caccia nei deserti a est di Eliopoli». Pensai al ventaglio che mi aveva promesso. Sopra ai cofanetti erano posate in equilibrio alcune barche in scala ridotta, minuziosamente ritratte e dipinte a
colori vivaci, complete di vele e sartiame in miniatura. Ai miei piedi notai una piccola cassa di legno; incuriosito, ne sollevai il coperchio e vidi due bare minuscole: le figlie nate morte di Ankhesenamon, pensai. Stavo ancora riflettendo su quei piccoli resti lasciati nel mucchio disordinato degli oggetti d'oro, quando Khay mi raggiunse. «Se soltanto questi figli fossero stati partoriti a tempo debito e fossero nati sani, forse ora vivremmo in un mondo diverso», disse. Annuii. «Ci sono molti cimeli di famiglia. Alcuni recano i nomi dei possessori, altri l'immagine di Aton», dissi. «Sì. Guarda questi, per esempio: spatoline, scatole e bracciali che appartenevano alle sorellastre e, in attesa sotto i teli, il vino della città di Akhenaton e i troni di stato con i simboli di Aron. Sono oggetti personali, ora proibiti, che saranno consegnati all'eternità in questa tomba. E meno male.» «Penso che Horemheb sarebbe interessato a mettere le mani su questi tesori. Potrebbe usarli per ricattare Ankhesenamon, accusandola di segreta lealtà alla religione proibita. Quindi Ay sfrutta l'occasione per seppellire i simboli di un passato fallimentare insieme all'ultimo re di quell'epoca.» «Vero. A ciò è dovuta l'indecenza di tutta questa fretta e della segretezza.» «È per che cosa, poi? Guarda: ci sono solo legno, oro, gioielli e ossa.» Risalimmo i gradini per tornare al mondo della notte. Vidi che le stelle stavano già scomparendo. Presto sarebbe sorta l'alba. Era giunto il momento di portare a termine gli ultimi riti. Ay indossava la pelle di leopardo dei sacerdoti, e sul capo avvizzito portava la Corona azzurra del regno, adorna del disco d'oro. Toccava a lui eseguire il rito dell'Apertura della Bocca, e stabilire la successione. La bara contenente la mummia fu collocata in posizione eretta e Ay pose in tutta fretta il pesesh kef biforcuto sulla bocca del defunto re,
poi sugli altri organi di percezione - il naso, le orecchie e gli occhi perché recuperassero le loro funzioni, consentendo allo spirito del re di ritornare nel corpo e resuscitare nella prossima vita. Tutto venne eseguito secondo il rituale, ma il più in fretta possibile, come se Ay temesse di essere interrotto. Notai che le guardie di Simut si erano appostate sul crinale della valle e vicino all'ingresso della tomba. Le bare furono trasportate nel sepolcro con immane fatica. Il nostro piccolo, dolente gruppo scese a sua volta nell'ordine prestabilito. Nella Sala dell'Attesa l'aria era afosa e pesante. Nessuno parlava, ma il respiro dei presenti ebbe una torte risonanza nella strana acustica della camera e lo si udì teso e laborioso. Sbirciando sopra le teste intravidi solo una parte dei riti che proseguivano nella camera funeraria: il coperchio della bara fu sollevato con uno sforzo enorme, vi fu il bagliore di un amuleto e l'odore della resina calda versata nella bara più interna. Preghiere e formule magiche si levarono incomprensibili nell'oscurità. Infine il coperchio di pietra del sarcofago fu sollevato per essere messo al suo posto. Udii lo stridio di corde e pulegge e i grugniti degli uomini alle prese con lo spazio ridotto. Vi fu un rumore secco e improvviso e il grido di spavento degli astanti: uno degli operai aveva lasciato cadere l'angolo che reggeva e il coperchio di pietra si era spezzato in due abbattendosi sul sarcofago. Resosi conto che non ci si poteva far nulla, il sorvegliante batté le mani. Le parti spezzate furono riaccostate e sigillate in fretta col gesso, e la frattura fu dipinta di giallo per mascherare il danno. Proseguì la sistemazione dei quattro sacrari intorno al sarcofago. Ci volle molto tempo. Gli uomini lavoravano con difficoltà, in una situazione quasi comica, tentando di far combaciare le diverse parti alla luce delle lampade, e cercando nel contempo di trovare lo spazio di manovra e la logica con cui sistemare ciascun pezzo nel giusto ordine e al posto previsto. E tutto questo in silenzio. Quando ebbero concluso, madidi di sudore e ansanti come muli esausti, si ritirarono. A quel punto restava uno spazio di due cubiti fra il grande sarcofago dorato e le pareti affrescate; i sacerdoti finirono di deporre gli oggetti rituali secondo uno schema noto soltanto a loro: remi di legno, lampade e cassette, giare di vino e un bouquet di olivo e persea. Le porte del sepolcro furono sigillate. All'interno, vi erano
sarcofagi dorati uno dentro l'altro; e nel cuore di quel freddo nido d'oro cesellato, di quel legno e quella pietra gialla scolpiti, piccolo e vulnerabile in tanto sfarzo d'oro e ricchezza accumulata giaceva il corpo magro, eviscerato e mummificato del defunto re. D'improvviso lo ricordai, vivo, con l'espressione di gioia dipinta sul viso, in attesa della caccia sotto le stelle del deserto. Uscimmo a ritroso in segno di rispetto, a capo chino. Ay e Ankhesenamon uscirono per ultimi, e sempre a ritroso attraversammo la Sala dell'Attesa, lasciando il re nella sua camera di pietra, con tutto il suo oro, il corredo funebre, i letti e le maschere e le barchette, i giochi da tavolo, gli sgabelli su cui si era seduto da bambino, le ciotole da cui aveva bevuto, tutti gli oggetti di questo mondo che gli sarebbero serviti nel prossimo, dove il tempo non ha potere e l'oscurità si trasforma in una luce eterna e immutabile. Almeno così dicono. Consumammo il pasto rituale e osservammo gli ultimi oggetti del corredo funebre che venivano trasportati nella tomba per adornare la Sala dell'Attesa e la cripta più piccola a sinistra: ruote di carri, parti smontate o segate di cocchi d'oro, cassette bellissime, dipinte e intarsiate, e tre letti eleganti, uno dei quali aveva un decoro di leoni. Dai musi dorati con le fauci azzurre, occhi d'oro, saggi e seri, mi rivolsero uno sguardo pieno di compassione, brillando nel buio, e gettando ombre possenti sulle pareti mentre passavano, alla luce fioca delle lampade. Sotto uno dei letti furono accatastati i contenitori bianchi con le offerte di cibo. C'era anche la coppa d'alabastro a forma di loto, pallida e luminosa alla luce delle lampade, che avevo visto sulla nave nella cabina di Tutankhamon. C'erano sedie, troni decorati con i simboli di Aton e due statue di guardiani a grandezza naturale che si sforzavano di non far caso al disordine; trombe d'argento avvolte nelle canne, bastoni da passeggio d'oro e frecce dalle punte dorate erano affastellati lungo le pareti. Nella piccola cripta furono trasportate molte giare che rivelavano, dalle etichette, che il vino era già vecchio ai tempi di Akhenaton, e molti altri recipienti di alabastro con oli e profumi, centinaia di ceste di frutta e carne, che furono ammassate sugli sgabelli e sulle casse, e un lungo letto dorato. C'era oro a profusione; tanto eccelso splendore mi fece venire la nausea.
Giunse il momento di sigillare Tutankhamon nella sua tomba eterna. Provai la strana sensazione che fossimo noi, i vivi, stipati nel corridoio, a trovarci dal lato sbagliato della porta di pietra collocata frettolosamente fra noi e la Sala dell'Attesa ormai deserta. I visi degli astanti - i nobili, i sacerdoti e la giovane regina - somigliavano a quelli di cospiratori intenti a un'impresa criminosa nella luce agitata e tremolante delle candele. Provai qualcosa di simile al disgusto mescolato alla compassione quando i muratori nelle sudice vesti da lavoro sistemarono le ultime pietre con un rumore secco, stesero grossolanamente e lisciarono l'intonaco umido grigio scuro con le cazzuole, seguiti dai guardiani della necropoli che apposero i sigilli ovali raffiguranti Anubi. Molte mani si sporsero per lasciare un'impronta per l'eternità, ansiose e superficiali, in contrasto con il significato degli altri simboli. Colmo d'amore per la Terra intera...
crei immagini degli dei che possano dar loro il respiro della vita...
Strascicando i piedi come una mandria di animali, percorremmo il corridoio a ritroso, tenendo alzate le fragili lampade. Ankhesenamon depose sui gradini un ultimo mazzo di fiori: mandragola, belladonna, ninfea azzurra, olivo, salice, fragili fiori effimeri e propiziatori dalla primavera del mondo. Aveva il viso bagnato di lacrime. Fui l'ultimo e, voltandomi, vidi le ombre delle nostre sagome che si allontanavano unirsi come un'onda di piena scura alla grande tenebra dell'eternità, che ci seguì per i sedici gradini, finché non fu sigillata all'interno dalle ultime pietre, per sempre.
Capitolo 53 La mezza luna era sprofondata oltre il profilo azzurro e nero della valle. Esitammo incerti sotto le ultime stelle nella terra dei viventi. Ma non eravamo soli. Una figura imponente si stagliava in attesa nell'oscurità, circondata da uomini armati, con le armi rese lucide dalla luce lunare. Horemheb. Cercai con gli occhi le guardie di Simut, ma vidi solo forme scure, corpi massacrati e accasciati nell'oscurità. Il generale avanzò per affrontare Ay e Ankhesenamon. «Non vi è sembrato opportuno invitarmi alle esequie del re?» domandò. Ay gli tenne testa. «Sono io il re. Ho eseguito i rituali e governerò il regno. In mattinata annuncerò la mia successione e la mia prossima incoronazione.» «E voi, regina? La mia offerta vi è sembrata così poco importante da evitare di discuterne con me prima di prendere la decisione che vi ha portato in questa spiacevole situazione?» «Ho tenuto conto di tutto. Sono la vedova di Tutankhamon, Restauratore degli dei, nipote di Amenhotep il grande. Tu non sei di sangue nobile.» «Come osate mettere in dubbio la mia nobiltà!» ringhiò il generale in tono basso e minaccioso. La regina esitò. Era giunto il momento. Horemheb era impaziente di ascoltare le sue parole. «Ci sono giunte informazioni riservate che ci hanno sbalordito e deluso. Riguardano la reputazione e l'integrità dell'esercito.» Lasciò aleggiare nell'aria scura le insidiose parole. «La reputazione e l'integrità dell'esercito sono immacolate», replicò Horemheb in tono minaccioso. «Allora forse il generale non è al corrente di quanto avviene nelle
sue divisioni. Nell'esercito vi sono elementi che commerciano, per il proprio profitto, con gli ittiti, nostri nemici da sempre», disse la regina. Il generale si fece più vicino, il suo fiato una nuvola di vapore nella fredda aria della notte. «Osate accusare di tradimento le mie divisioni? Voi?» La guardò con aria di scherno, ma lei gli tenne testa. «Ti riferisco ciò che mi è stato detto. Forse non corrisponde al vero. O forse sì. Ho sentito parlare del papavero da oppio. Trasportato attraverso le linee di combattimento. Mercanteggiare con il nemico? Pensa che disgrazia sarebbe se una voce del genere arrivasse agli uffici, ai templi, e alle orecchie del popolo», disse. Horemheb sguainò con un gesto rapido la spada ricurva, e la lama affilata scintillò alla luce della luna. Per un attimo temetti che volesse tagliarle la testa. Tenne l'arma sollevata nella mano guantata e i suoi soldati puntarono immediatamente i loro archi eleganti e poderosi sul nostro petto, pronti a eseguire un ordine e assassinarci tutti in silenzio. Simut fece un passo avanti per proteggere la regina, puntando a sua volta il pugnale contro Horemheb. I due uomini si squadrarono, tesi come due cani prima di una lotta mortale. Ma Ankhesenamon non cedette e parlò. «Non credo che ammazzarci ti aiuterebbe. Non hai abbastanza potere per assumere il controllo di tutti gli uffici e i templi delle Due Terre. Hai troppi soldati impegnati in guerra. Rifletti, e ascolta la mia proposta. Tutto ciò che desidero è l'ordine nelle Due Terre e un'equa spartizione fra noi dei poteri necessari a garantirlo. Ay governerà come sovrano, poiché controlla l'amministrazione del regno. Tu continuerai a essere il generale. Il traffico illegale deve finire. Se così sarà, avrai molto da guadagnare. C'è il futuro.» Horemheb abbassò lentamente la spada e ordinò con un cenno ai suoi uomini di deporre gli archi. «Quale sarebbe questo futuro? Sposeresti un ammasso di anni e di acciacchi?» domandò accennando con disprezzo ad Ay. «Il mio re è morto, ma solo io posso dare alla luce un erede, un figlio che sarà re a sua volta. Questo è il mio destino, e io lo porterò
a compimento. E come padre di mio figlio, sceglierò con cura il migliore e il più adatto degli uomini. Lo sceglierò personalmente e nessun uomo mi imporrà la sua decisione. Chiunque dimostri di possedere tale nobiltà sarà il mio sposo. Diventerà re al mio fianco, e a tempo debito governeremo insieme le Due Terre. Forse tu, signore, dimostrerai di essere l'uomo degno della mia scelta.» Ay, che era rimasto in silenzio per tutto il colloquio, ora prese la parola. «Queste sono le condizioni. Ti informo che ci sono mille guardie di palazzo appostate sulle alture e all'ingresso della valle, pronte a prendere le misure necessarie a garantire la nostra sicurezza. Qual è la tua risposta?» Horemheb alzò lo sguardo; sulle scarpate da entrambi i lati si delinearono nuove file di sagome scure che impugnavano gli archi. «Credevi che non sarei stato in grado di prevedere le tue mosse?» proseguì Ay. Horemheb li squadrò entrambi e si fece molto vicino. «Meraviglioso: un vecchio con il mal di denti e una ragazzina fragile che coltiva sogni di gloria mirano alla conquista del potere, e un funzionario inutile del Medjay ben conscio che la sua famiglia non sarà mai al sicuro. Ascoltate...» Spalancò le braccia al vasto silenzio della notte e del deserto che sminuiva la nostra importanza. «Sapete che cos'è? È il suono del tempo. Voi non udite altro che il silenzio, eppure ruggisce come un leone. Non c'è nessun dio tranne il tempo e io sono il suo generale. Aspetterò. La mia ora è vicina e quando arriverà, nel trionfo e nella gloria, voi non sarete altro che polvere, i vostri nomi non saranno altro che polvere, perché io li cancellerò uno a uno dalle pietre, mi impadronirò dei vostri monumenti e al vostro posto ci sarà una nuova dinastia che porterà il mio nome, ogni figlio valoroso successore del proprio vigoroso padre, generazione dopo generazione, nel futuro e per sempre.» E sorrise come se la vittoria fosse certa, si voltò e si allontanò nel buio, a passo di marcia, seguito dai suoi soldati. Ay lo osservò con malevolenza.
«Quell'uomo è pieno di boria. Venite, c'è molto lavoro da sbrigare.» D'improvviso sussultò e si afferrò la mascella. A quanto pareva, tutto il potere del mondo non era in grado di alleviargli il dolore che gli provocavano i denti guasti. Prima di allontanarsi verso il futuro incerto, Ankhesenamon mi parlò a bassa voce. «Sono venuta da te in cerca d'aiuto e tu hai rischiato tutto per essere al mio fianco in questi giorni. Ho udito la sua minaccia contro la tua famiglia. Sii certo che farò tutto quanto è in mio potere per garantire la loro sicurezza. Come sai, desidero che tu sia la mia guardia personale. L'offerta è sempre valida. Sarei felice di vederti.» Annuii. Poi la regina rivolse uno sguardo pieno di tristezza all'ingresso sigillato della tomba del suo giovane, compianto marito. Se ne andò seguita da Khay e dagli altri nobili. Montarono tutti sui cocchi che avrebbero ripercorso la lunga strada selciata per il Palazzo delle ombre, verso lo spietato compito di progettare e assicurare un futuro alle Due Terre. Rammentai quanto aveva detto Horemheb sul potere: è un animale selvaggio. Le augurai di imparare a cavalcarlo. Io e Simut li guardammo rapidamente il passo all'alba.
allontanarsi.
L'oscurità cedeva
«Temo che Horemheb abbia ragione. Ay non vivrà a lungo e la regina non potrà governare senza un erede, con Horemheb che aspetta.» «Vero. Ma sta diventando una donna potente. C'è sua madre in lei. E questo mi fa ben sperare», risposi, con una nota di ottimismo che mi sorprese. «Vieni, andiamo in cima alle alture e guardiamo sorgere il sole sul nuovo giorno», suggerì. Ci arrampicammo sui sentieri che solcavano come cicatrici la superficie scura, rugosa e antica del fianco della montagna, e ben presto ci apparve il vasto panorama del mondo ombroso: i campi antichi e fecondi, le acque del Grande Fiume che scorrevano in eterno, e la città addormentata con i suoi splendidi templi e le torri, i suoi palazzi sfarzosi e silenziosi, le prigioni e le bicocche, le case
tranquille e i quartieri poveri in lontananza. Respirai l'aria pulita e fredda che rinfrancava e tonificava. Svanivano le ultime stelle e, oltre la città, l'orizzonte si tingeva di rosso. Il re era morto. Pensai ai suoi occhi, al viso d'oro laggiù nel buio, che forse - chissà - vedeva apparire davanti a sé l'Aldilà mentre albeggiava la luce eterna e le parti del suo spirito si univano a lui. Per quanto riguardava me, mi bastava quello che i miei occhi avevano contemplato del mondo. Dai primi focolari accesi il fumo iniziò a levarsi a volute nell'aria pura e immobile. In lontananza udii il canto dei primi uccelli. Posai la mano sulla testa di Thot che mi guardò coi suoi occhi vecchi e saggi. I miei figli e mia moglie probabilmente dormivano ancora. Volevo essere presente per salutarli al loro risveglio. Dovevo trovare il modo di convincermi che saremmo stati al sicuro, malgrado i pericoli e le minacce futuri. Alzai lo sguardo sul cielo color indaco e sull'orizzonte che si faceva più luminoso di momento in momento. Presto avrebbe fatto giorno.
NOTA DELL'AUTORE Dal 1922, quando Howard Carter fece la propria, importantissima scoperta nella Valle dei Re, Tutankhamon è diventato il personaggio più famoso, affascinante e per certi versi misterioso dell'Antico Egitto. Ero ancora un bambino quando nel 1972 mi accompagnarono a vedere la grande mostra di Tutankhamon al British Museum. Gli oggetti trovati nella sua tomba - tra i quali il reliquiario d'oro, le statuette dorate che lo raffiguravano in procinto di scagliare la lancia o con in mano il flagello del potere, la «coppa dei desideri» d'alabastro, lo scettro d'oro, i magnifici gioielli, la lunga tromba di bronzo, un boomerang e l'arco dagli ornamenti complicati - sembravano i tesori di un mondo perduto. Ma era soprattutto la maschera d'oro massiccio martellato - una delle opere d'arte più pregevoli del mondo antico - a riassumere il potente mistero del cosiddetto «re-fanciullo», il sovrano che ebbe nelle proprie mani un potere enorme e visse circondato da simili meraviglie, eppure morì giovane in circostanze misteriose, forse non ancora ventenne, e fu sepolto in fretta e furia e completamente dimenticato per quasi 3300 anni. La scoperta della tomba risvegliò l'interesse popolare per l'Egitto, dando spazio ai misteri occulti delle piramidi e dei sepolcri, e alle maledizioni delle mummie dei film dozzinali, a scapito di una visione più equilibrata di quella cultura straordinaria. All'epoca di Tutankhamon, per fare un esempio, le piramidi erano antiche quanto lo è per noi Stonehenge. Gli archeologi e gli storici del mondo antico ci hanno fornito una dovizia di informazioni sull'Antico Egitto e in particolare sul Nuovo Regno. Durante la XVIII dinastia, l'Egitto fu a capo dell'impero più ricco, potente e raffinato che il mondo antico abbia mai conosciuto. Era una società altamente complessa e organizzata, che edificò monumenti sbalorditivi, creò opere d'arte, oggetti e gioielli magnifici, rafforzò la propria preminenza con una politica internazionale fondata sul potere e consentì alla sua aristocrazia di
condurre una vita lussuosa e opulenta. Tutto questo grazie all'impegno di un'enorme forza lavoro. Oltre confine, l'Egitto governava e amministrava un vasto territorio che si estendeva dalla terza cataratta del Nilo, nell'odierno Sudan, a gran parte del Levante. Le sue rotte commerciali, che trasportavano lavoratori e merci rare, raggiungevano luoghi ancora più lontani. Disponeva di un esercito moderno guidato dal generale Horemheb, di un clero potente che amministrava e traeva profitti da grandi possedimenti e proprietà terriere, di una complessa burocrazia e di una forza di sicurezza nazionale che potremmo paragonare alla polizia, chiamata Medjay. In origine i Medjay erano una popolazione nomade della Nubia. Gli antichi egizi del Medio Regno ne apprezzavano le abilità nel combattimento e li impiegarono come battitori e fanti, servendosi del loro talento di esploratori per raccogliere informazioni sugli stranieri, in particolar modo ai confini dell'impero. Per nostra fortuna, nell'Antico Egitto la burocrazia regnava sovrana e ci è pervenuto un rapporto dell'epoca: «Abbiamo trovato tracce di trentadue uomini e tre asini». Nella XVIII dinastia il termine Medjay fu impiegato in senso più esteso per indicare una sorta di polizia urbana. Secondo alcune testimonianze, il crimine e la corruzione imperversavano nel Nuovo Regno, come accade ovunque e in ogni cultura, e in base al materiale a mia disposizione ho dedotto che esistesse una forza di polizia simile a quella odierna, con una gerarchia codificata, una forte rivendicazione di autonomia da altre forme di autorità e, naturalmente, un nucleo di investigatori indipendenti, o «Indagatori di Misteri», di cui Rahotep è il più abile. Tutto il potere terreno, le conquiste e i trionfi del Nuovo Regno furono possibili grazie alle acque vivificanti del Nilo, il Grande Fiume, che per gli antichi egizi divideva le «Due Terre»: la Nera, il ricco suolo fertile delle aree fluviali, e la Rossa, il deserto apparentemente sconfinato che le circondava, e rappresentava tutto ciò che temevano: l'aridità, il caos e la morte. Il ciclo perpetuo della rinascita quotidiana del sole a oriente, il suo tramonto a occidente e il misterioso viaggio notturno del sole nel territorio pieno di pericoli dell'Aldilà ne ispirò la complessa e bellissima religione. Sappiamo che Tutankhamon ereditò il trono a soli otto anni.
Sappiamo che Ay, di fatto cancelliere del regno, governò in suo nome. E sappiamo che Tutankhamon nacque e crebbe in un'epoca turbolenta. Ereditò dal padre Akhenaton le difficoltà del suo regno. L'introduzione, o meglio l'imposizione della rivoluzionaria religione di Aton, voluta da Akhenaton e Nefertiti, e la conseguente fondazione di una nuova capitale-tempio ad Akhenaton (l'odierna Amarna) avevano creato una crisi politica e religiosa profonda di cui ho tracciato il profilo nel mio libro Nefertiti. Al termine del regno di Akhenaton, l'antica ortodossia fu ripristinata e potenti fazioni lottarono tra loro per il potere e per esercitare una nuova influenza sul regno. Per capire in quale misura quel periodo di drastici mutamenti abbia influenzato Tutankhamon, costringendolo a dissociarsi politicamente dal regno paterno, basti pensare che il sovrano cambiò il suo nome originario, Tutankhamon («Immagine vivente di Aton»), ripristinando quello di Amon, «Colui che è nascosto», il dio onnipotente cui è dedicato il complesso del Tempio di Karnak, uno dei grandi monumenti dell'antichità. Gli antichi egizi temevano il caos più di ogni altra cosa. Ritenevano che le sue forze fossero una minaccia costante all'ordine naturale e sovrannaturale, e ai valori della bellezza, della giustizia e della verità. La dea Maat, raffigurata come una donna seduta che indossa una piuma di struzzo, rappresentava l'ordine sia sul piano cosmico, regolando il susseguirsi delle stagioni e i movimenti delle stelle, sia sul piano sociale delle relazioni tra gli dei e gli uomini, nella persona del re. Un vivido ritratto della sensazione di caos dominante all'epoca dell'incoronazione di Tutankhamon è documentato nella Stele della Restaurazione (una lastra di pietra con un'iscrizione), eretta nei primi anni del suo regno. Naturalmente aveva, almeno in parte, uno scopo propagandistico, ma la descrizione dello stato delle cose prima dell'ascensione al trono di Tutankhamon è incredibilmente nitida (l'epigrafe di questo libro è un brano di quel testo). Era compito del nuovo re, come lo era stato di tutti i sovrani che lo avevano preceduto, riportare maat nelle Due Terre d'Egitto, come asserisce la Stele: «Ho sconfitto il caos su tutta la terra... ed essa ha ripreso l'aspetto che aveva ai tempi della Creazione». Le notizie sulla vita di Tutankhamon sono assai approssimative e
le tante biografie del re sono perlopiù interpretazioni basate su elementi di prova spesso molto ambigui. Sono tanti i misteri avvincenti e irrisolti. Come e perché morì così giovane? La TAC a cui è stata recentemente sottoposta la sua mummia ha confutato la vecchia teoria che fosse stato ucciso da un colpo alla nuca. I nuovi riscontri scientifici parlano di frattura a una gamba e di setticemia. Se così fu, come accadde? Fu un incidente? Oppure fu vittima di un malvagio disegno criminale? Per spiegare perché le esequie siano state così frettolose - i dipinti sepolcrali grezzi e lasciati a metà, il corredo funerario improvvisato, gli elementi del reliquiario d'oro danneggiati nel momento dell'assemblaggio e i due feti mummificati sepolti accanto a lui senza un'indicazione - possiamo solo fare ipotesi. Perché il vino era così vecchio e perché c'erano tanti bastoni nella tomba? Quale fu il ruolo della moglie e sorellastra Ankhesenamon, figlia della grande regina Nefertiti e di Akhenaton? Su quali basi Ay avanzò le sue pretese al trono e in che modo lo ottenne? Dove si trovava il potente Horemheb durante quello strano e oscuro periodo? Il grande poeta Robert Graves scrisse che i suoi romanzi cercavano di trovare una soluzione ad alcuni enigmi irrisolti della storia. Tra i misteri che ci restano da scoprire, ben pochi superano quello della vita e della morte di Tutankhamon. Questo romanzo, che è un'opera di fantasia ma si fonda sulla più attendibile documentazione storica, rappresenta il mio tentativo di descrivere persone morte da lunghissimo tempo come se fossero vive nel momento presente e di proporre una soluzione al mistero del giovane che per pochissimo tempo ebbe in mano il pastorale e il flagello del potere terreno, e che la storia aveva dimenticato fino a quel giorno del 1922 in cui furono aperti i sigilli che ne chiudevano la tomba. È rimasta celebre la risposta di Howard Carter a chi gli domandava se riuscisse a vedere qualcosa: «Sì... oggetti meravigliosi!» Chiunque da allora abbia guardato la maschera d'oro di Tutankhamon ricorda i suoi occhi: modellati nel quarzo e nell'ossidiana, abbelliti da lapislazzuli, sembrano scrutare i mortali che, colmi di meraviglia, arrancano accanto a loro. Sembra che fissino la luce dell'eternità.
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A
Very
Short
Introduction, Oxford
RINGRAZIAMENTI Sono molte le persone che mi hanno aiutato durante la stesura del libro: Bill Scott-Kerr, Sarah Turner, Deborah Adams, Lucy Pinney e Matt Johnson della Transworld costituiscono la squadra che ogni scrittore sognerebbe di avere. Li ringrazio di cuore per la pazienza, il sostegno e l'entusiasmo che hanno dimostrato e per le loro preziose osservazioni. Senza il mio agente, lo straordinario Peter Straus, questo libro non avrebbe mai visto la luce. Desidero ringraziare anche Stephen Edwards e Laurence Laluyaux della Roger, Coleridge and White. Infinite grazie anche a Julia Kreitman, di The Agency. Carol Andrews, la mia saggia esperta di egittologia, ha condiviso con me le sue notevoli conoscenze, esaminando attentamente tutte le bozze e correggendo i miei errori con grande fermezza. Devo aggiungere, come si suol dire, che sono responsabile di ogni eventuale imprecisione. Broo Doherty, David Lancaster, John Mole, Paul Rainbow, Robert Connolly, Iain Cox e Walter Donohue hanno gentilmente letto le bozze del romanzo e le loro osservazioni acute e precise hanno guidato il mio cammino. Jackie Kay mi ha offerto il suo incrollabile appoggio e il suo incoraggiamento. La famiglia Dromgoole, Dom, Sasha e le splendide ragazze, Siofra, Grainne e Cara, sono stati la mia fonte di ispirazione. Un sentito grazie a Edward Gonzales Gomez; come recita un verso di una canzone del Nuovo Regno, «dall'angolo più recondito del cuore». Vorrei levare a tutti loro lo splendido calice di alabastro di Tutankhamon, noto come la «coppa dei desideri», e la sua bellissima iscrizione:
Viva il tuo ka e possa tu trascorrere milioni di anni,
amante di Tebe, col viso rivolto al fresco vento del Nord in contemplazione della felicità.