JACQUES-BÉNICNE BOSSUET
Trattato della concupiscenza Presentazione di Manlio Sgalambro
D e Martinis & C.
Titolo originale: Trnité de la concupiscence Traduzione di Gloria Beltrani
O 1994 De Martinis & C. Editori, Catania ISBN 88-8014-012-4
Piccola glossa al Trattato della concupiscenza
Le sottili ricognizioni di Bossuet sulla concupiscenza superano il quadro cristiano-cattolico non nel senso che ne prescindono ma nel senso che buttano oltre di esso i germogli. Una cultura che non esamini le proprie smodatezze, si può mai concepire? Bossuet non patteggia nemmeno col suo cattolicesimo. Da vero rappresentante dello spirito ne esamina anche le sregolatezze e le supponenze. E su un sapere che sia solo curiosità (e quanti saperi oggi non sono che indisponente curiosità) egli lancia l'anatema. Anatema contro ogni anima curiosa. Sviscerare la concupiscenza suppone passione. Una passione dello stesso tipo. Anzi più forte, come aveva awertito Spinoza. La critica dei sensi viene dunque affrontata sistematicamente. Ma ancora sulla curiosità occorre dire che non è fustigata soltanto quella che immagina oggetti vani ma la più gloriosa e imponente: quella dello spirito. Cosa dire infatti del meraviglioso brano che magari ci strazia le carni ma che subito dopo riconosciamo riverenti? Sotto giudizio è infatti la curiosità di quelli che « si immergono nella storia, nella filosofia o
in qualsiasi genere di lettura, soprattutto se si tratta di ilovità, di romanzi, di commedie o libri di poesia, lasciaridosi talmente possedere dal desiderio di conoscere da non possedersi più essi stessi. Poiché tutto questo altro non è se non una forma di inteinperanza, una iiifermità, una sregolatezza dello spirito, un inaridimento del cuore, una miserabile schiavitù che non ci lascia l'agio di pensare a noi stessi... D. I1 disgusto della frivolezza che Bossuet ci comunica non risparmia il lusso dello stesso spirito. Ci sentiamo dei barbari coi nostri libri, degli idolatri coi nostri quadri. Subiamo la tentazione delle nostre teorie, per cui sbaviamo. Bossuet ci induce a sospettare la fascinatio nugan'tatis persino nell'amore più casto, ne1l"amore per la verità'. Anche questa dunque una tentati0 concupiscentiae? Una critica degli occhi è indispensabile. Bisogna compensare la delizia di questo senso con la parte del diavolo. Questi occhi avidi, mai sazi, inseguono le minute volute delle cose, e si ingozzano di precarie immagini. Per una parte la vista è inutile. Per questa parte Bossuet è implacabile: ritira i tuoi occhi da queste cose illusorie, egli comanda. Sdegna questi maliziosi allettamenti, egli aggiunge. E infine: «Non amate il mondo dove tutto è illusione e corruzione della concupiscenza degli occhi.. In questa teoria della vista si inseguono elementi che assegnano al mondo quella parte che il nostro orgoglio conferma. Noi siamo superiori al mondo. Insomma l'orgoglio dello spirito ci sembra indiscutibile e perverso. Bossuer vede solo la perversione. Qui chi scrive dissente. La caduta dell'uomo consi-
ste principalmente nell'orgoglio, scrive Bossuet. «Precipitando dall'alto e decadeiido dalla condizione divina, l'uomo cade essenzialmente su se stesso D. Queste parole del De civitate Dei di S. Agostiiio danno la nostra misura e indicano il nostro volere. Qui ci opponiamo a S. Agostino e a Bossuet. Noi vogliamo cadere. Sosteniamo con tutte le nostre forze il principium individuationis legato alla caduta. L'orgoglio non è che un altro nome per la stessa volontà di cadere. Tutto ciò è descritto dallo stesso Bossuet in modo mirabile. Cosa cambia allora? La nostra accettazione al posto del suo rifiuto. Ma ascoltiamo Bossuet: «Dovevamo prima cadere su noi stessi perché, come quel corso d'acqua che si rovescia prima sulla roccia e scava profondamente nel punto in cui cade, così l'anima nostra, cadendo su se stessa, produce dentro di sé una prima piaga profonda. L'impronta della sua eccellenza, della sua grandezza ... vuol pascersi dello spettacolo della sua perfezione ),. Noi ci fermiamo qui, Bossuet prosegue sino alla condanna. Ad uii certo punto Bossuet ci dà una descrizione infernale della concupiscenza: «Essa si muove con movimenti irregolari, a seconda di come soffia il vento. Non soltanto si vogliono cose diverse se si è sani o ammalati, se si sta vivendo l'infanzia o la giovinezza, la maturità o la vecchiaia, se si è in un periodo buono o cattivo; si vogliono cose differenti di notte, quando si presentano i pensieri cupi, o di giorno, quando vengono dissipati. ...Oggi ci si trova diversi da ieri senza sapere il perché, tranne che si ama il cambiamento. Ma non si cambia per
essere migliori». Questo è il lato disprezzabile della concupisceilza e non si può che convenire con Bossuet. L'altro lato invece è tutto dalla nostra parte. Vorremmo chiedercelo ancora: cos'è dunque la concupisceilza? L'amore di sé e della propria grandezza, infine. La nostra volontà al posto di quella di Dio, ecco come la definiremo. Quanto a Bossuet, la coi~cupiscenzadeve scomparire davanti all'amore più alto, all'amore di Dio. Ma noi abbiamo orrore per Dio e amore per la nostra grandezza.
TRATTATO DELLA CONCUPISCENZA owero spiegazione delle seguenti parole di San Giovanni: -Non amate il mondo, né ciò che è nel mondo. (dalla Prima Lttera di S. Giovanni, 11, 15, 16, 17)
Capitolo I - Parole dell'A1-)ostoloSan Giovanni contro il mondo, conjrontate con altre sue parole e con quelle di Gesù Cristo. Cos'è ilamon& che 1Xpostolo c i esorta a non amare. «Non amate il mondo, né ciò che è nel mondo. Chi ama il mondo non ha in sé l'amore del Padre, poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e orgoglio della vita: tutto ciò non viene dal Padre, ma dal mondo. Ora, il mondo passa » e con esso passa la concupiscenza del mondo, ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno ),'. Queste ultime parole dell'Apostolo ci fanno comprendere come il mondo di cui parla è costituito da coloro i quali preferiscono le cose visibili e passeggere a quelle invisibili ed eterne. Bisogna adesso considerare a chi sono rivolte queste parole; a tal fine basta leggere quelle che le precedono: «Scrivo a voi, figlioli, perché nel nome di Gesù Cristo vi sono stati rimessi i peccati; scrivo a voi, padri, perché avete conosciuto Colui che esiste fin da principio,), colui che invero ha generato l'eternità. Scrivo a voi, giovani nella vostra prima
giovinezza, perché avete vinto il Maligno; scrivo a voi, fanciulli, perché avete riconosciuto il Padre; scrivo a voi, giovani W , che siete nel fiore degli anni, a perché siete coraggiosi, e la parola di Dio vive in voi e perché avete vinto il Maligrion'. E aggiunge di seguito: Non amate il mondo n e quanto abbiamo appena riferito. Queste parole sono conformi a quanto lo stesso Apostolo afferma all'inizio del suo Vangelo, quando parla di Gesù Cristo: «Era nel mondo, e il mondo è stato creato per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto!n L'origine di tutto è nelle parole del Salvatore : Io vi darò M lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vuole, e non lo riceve e non lo conosce » 4, O non sa chi egli sia. E ancora: «Se il mondo vi odia, s a p piate che ha odiato me prima di voi. Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; ma poiché non siete del mondo, e poiché vi ho prescelti traendovi dal mondo., vi ho tolti ad esso, e «per questo il mondo vi odia D '. Nel mondo voi avrete afflizioni, ma fatevi coraggio: io ho vinto il mondon6. E infine: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che hai tratti dal mondo per darmeli...» 7. «Non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai donati, perché son tuoi»R. ...Io non son più nel mondo*, io ritorno a te, è giunta l'ora di venire a te : N essi rimangono nel mondo, ma io vengo a te...» N Ho comunicato loro la tua parola, e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, e neanch'io non lo sono. Non ti chiedo di trarli dal mondo, ma di guardarli dal male », o di guardarli dal Maligno. «Essi non son del mondo,
come neanch'io sono del mondo. Santificali per la verità,,lO. ...Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e costoro han riconosciuto che tu mi hai mandato » l'. Queste parole del nostro Salvatore fanno vedere come tutti quelli che fanno professione d'esser suoi discepoli sono tratti dal mondo, poiché essi sono santificati per la verità: la parola di Dio è in 'loro, essi la conoscono mentre il mondo non la conosce e conoscono Gesù Cristo, lo seguono e l'imitano. La vita del mondo è dunque una vita che si è allontanata da Dio e da Gesù Cristo, e la vita cristiana, la vita dei discepoli di Gesù Cristo, è una vita conforme alla sua dottrina e al suo esempio. Questo è quanto ci spiega più approfonditamente San Giovanni con queste dolci parole: a Figlioli miei n, giovani e vecchi, «ve lo scrivo P, ve lo ripeto : a non amate il mondo,,, non amate chi si lega alle cose sensibili, ai beni perituri: non amate gli uomini nel loro errore, non seguiteli nel loro traviamento: amateli per toglierveli, come Gesù Cristo ha amato i suoi discepoli che ha tolti dal mondo, dalla corruzione; ma guardatevi dall'amarli come amatori del mondo, di accompagnarvi ad essi e intrattenervi con loro, di accettarne le regole e di imitarne l'esempio, poiché tra costoro non regna che corruzione. Eccone le tre fonti: a nel mondo non esiste che concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e orgoglio della vita», che son tutte cose erronee, impermanenti, periture, che perdono chi vi si attacca. Io lo credo, è così: è lo Spirito Santo che parla per bocca di un apostolo, ma bisogna studiarsi di comprenderlo, per odiare il mondo con maggiore intendimento.
Capitolo I1 - Che cos'è la concupiscenza della carne: quanto il coqo è di peso all'anima. La concupiscei~zadella carne è in primo luogo amore per i piaceri dei sensi, poiché questi piaceri ci legano al nostro corpo mortale, del quale S. Paolo diceva: «Me infelice, chi mi libererà da questo corpo mortale ? n '' che ci rende suoi schiavi tanto da indurlo a chiedersi: Chi me ne libererà? ,>,chi mi affrancherà dalla sua tiraiiiiia, chi ne spezzerà i legami, chi mi torrà di dosso un giogo così pesante? «Timidi sono i pensieri dei mortali n, e mediocri. (C Instabili sono i nostri disegni, perché il corpo corruttibile è di peso all'anima e la nostra dimora terrestre opprime la mente, che è fatta per ben ragionare, e la conoscenza medesima delle cose terrene ci è difficile. A malapena e con travaglio penetriamo ciò che è davanti ai nostri occhi: ma le cose che son del cielo, chi di noi le penetrerà? » 13. I1 corpo fiacca i nostri pensieri sublimi e ci lega alla terra, mentre noi non dovremmo respirare che il cielo. Questo peso ci opprime, «ed è questo I'ostacolo che è stato creato per tutti gli uomini dopo il peccato, il giogo che grava su tutti i figli d'Adamo dal giorno in cui sono usciti dal ventre materno fino a quello in cui ritorneranno, con la sepoltura, alla madre comune »,alla terra1" Pertanto l'amore che si volge al piacere sensuale e che ci lega al corpo, che per la sua caducità è divenuto il giogo più opprimente che l'anima possa sopportare, è la causa più manifesta della sua schiavitù e delle sue debolezze. >)
C(
Capitolo 111 - Cos'è, secondo la Scrittura, la pesantaza del corpo, e come essa risieda nelk miserie e nelle passioni che ci provengono da questa fonte. Questo grave giogo che opprime i figli d'Adamo non è altro, come vedremo, che la diversa natura delle infermità derivanti dalla loro carne mortale, così descritte nell'Ecclesiastico: (C Sono le inquietudini, i terrori del cuore. continuamente agitato,
)),
suoi malsani vapori alla testa: « è perché tali agitazioni .,delle passioni come dei sogni, « albergano nella carne di tutti gli esseri, dall'uomo alla bestia, e si ritrovano sette volte di più nei peccatori», nei quali alle consuete infermità della natura si uniscono i terrori della coscienza. A tutto ciò bisogna aggiungere «le morti violente, gli spargimenti di sangue, le contese, le spade, le oppressioni, le carestie, le calamità e tutti gli altri flagelli divini. Tutto questo., che originariamente non avrebbe dovuto trovarsi tra gli uomiiii, « è stato creato per punire i malvagi, per colpa dei quali awenne il diluvio)). E la fonte di tutti questi mali è che «tutto quanto vien dalla terra ritorna alla terra, come le acque vengono dal mare e vi fanno ritorno » 15. In breve, la caducità apparsa col peccato ha attirato sul genere umano un'inondazione di mali, un'infinita sequela di miserie donde hanno origine le inquietudini e i turbamenti delle passioni che ci tormentano, ci inducono in errore, ci accecano. Noi, che nella nostra innocenza avremmo dovuto essere simili agli angeli di Dio, siamo giunti a somigliare alle bestie e, come disse Davide, abbiamo perduto l'onore originario della nostra natura: « Homo cum in honore esset, non intelbxit, comfiaratus est jumentis insipientihs, et similis factus est illisn. «L'uomo che si trovava nell'onore », nella sua condizione originaria, « non comprese questo privilegio: egli s'è uguagliato agli animali privi di intelletto, si è reso simile a loro n'" Ripetiamo più volte questo versetto insieme al Salmista. Non deploreremo mai abbastanza le miserie e le passioni inselisate in cui ci getta il nostro corpo mortale; e ogni at-
taccamento ad esso, come la bramosia del piacere sensuale, ci fa amare l'origine dei nostri mali e ci lega allo stato di asservimento in cui ci troviamo. Capitolo IV - Perché il nostro attaccamento ai piaceri sensuali è malvagio e vizioso. Per conoscere ancora meglio il motivo per cui San Giovanili ci mette in guardia contro gli allettamenti della concupisceiiza della earne, cioè contro l'attaccamento ai piaceri sensuali, bisogna comprendere come esso sia un male che vada estirpato dentro di noi, un vizio da vincere, una malattia dalla quale è necessario guarire. O le si cede e ci si consegna completamente a questa violenta bramosia del piacere sensuale, rendendosi in tal modo colpevoli e schiavi della carne e del peccato, oppure la si combatte, ciò che non saremmo stati costretti a fare se essa non fosse stata malvagia. E ciò che la rende manifestamente tale è il fatto che ci conduce al male, dal momento che ci porta a dei terribili eccessi, all'ingordigia, all'ubriachezza e ad ogni sorta d'intemperanza. La qual cosa fece dire a San Paolo: « I o so che il bene non dimora in me, nella mia carne ,, 1 7 . E ancora: a Ritrovo in me una legge. di ribellione, di intemperanza che mi fa comprendere che «quando mi ingegno di fare il bene, è il male che mi rimane attaccaton", che è profondamente insito in me. I1 male è dunque dentro di noi, stranamente attorto alle nostre viscere, sia che cediamo al richiamo dei piaceri dei sensi, sia che lo combattiamo resistendo strenuamente; poiché, come dice Sant'Agostino, per non cadere
nell'eccesso, bisogna lottare il male fin dall'inizio, e per evitare di consentire al male, di consumarlo, bisogna resistere costantemente al desiderio, che ne rappresenta l'inizio: Ut non j a t malum excedendi, resistendum est malo concu~iscendi». Una prova tremenda di questa lotta a cui siaino sottoposti è il nostro bisogno di sostentarci col cibo. Non contenta di costringerci a questo necessario sostentamento, col violento dolore della fame e della sete e con le insopportabili debolezze che l'accompagnai~o,la saggezza del Creatore ci spinge maggiormente a questa prova attribuendo un certo piacere alle funzioni del bere e del mangiare. Essa ricolma di beni tutta la natura, mandando N, come diceva San Paolo l', la pioggia ed il bel tempo, e le stagioni che rendono feconda la terra e ogni sorta di frutti, colmando di gioia i nostri cuori con un cibo adeguato». E attraverso tutto ciò, come dice lo stesso San Paolo, a Dio rende testimonianza di se stesso,,, della sua provvidenza e della sua paterna bontà, che nutre gli uomini e gli animali e salva gli uni e gli altri nella maniera più consona a ciascuno. Ma gli uomini, ingrati e carnali, hanno fatto di questo piacere un'occasione per legarsi al proprio corpo piuttosto che a Dio che li ha creati e che non ha mai cessato di sostentarli con mezzi così piacevoli. Essi sono attanagliati dal piacere del cibo: piuttosto che mangiare per vivere, sembra che », come diceva un antico, e in seguito lo stesso Sant'Agostino, a non vivano che per mangiare ». E persino coloro i quali sanno tenere a freno i loro desideri e si recano a desinare spinti dalla necessità naturale, sono ingannati dal piacere, impegnano le
loro viscere ben oltre il necessario e sono trascina- . ti al di là dei giusti limiti. Essi si lasciano insensibilmente conquistare dal loro appetito, credendo di non aver mai soddisfatto interamente il loro bisogno, tanto il cibo e le bevande stuzzicario il loro palato. Così, dice Saiit'Agostino, la cupidigia non sa mai dove cessa la necessità: M Nescit cupiditas ubi finintur necessitnsn 'O. Si tratta dunque di una malattia in cui il contagio della carne si riproduce nello spirito, una malattia contro la quale non si deve cessare di combattere, né di cercare di porvi rimedio con la sobrietà, la temperanza, l'astinenza e il digiuno. Ma chi oserebbe pensare ad altri eccessi che si manifestano in maniera ben più pericolosa in un'altra sfera del piacere sensuale? Chi, dico, oserebbe parlarne, chi oserebbe pensarci, dal momeiito che non se ne può parlare se non senza pudore, né pensarvi senza pericolo, pur biasimandoli? O mio Dio, chi oserebbe, ancora una volta, parlare di questa piaga profonda e vergognosa della natura, di questa concupiscenza che lega l'anima al corpo con dei lacci talmente teneri e violenti da cui ci si distacca con tanto dolore, che causa dei disastri così spaventevoli al genere umano? Sciagura, sciagura e ancora sciagura alla terra da cui continuamente si leva un fumo tanto denso, vapori così neri che si innalzano da queste passioni tenebrose, sì da nasconderci il cielo e la luce, da cui si partono altresì i fulmini e gli strali della giustizia divina contro la corruzione del genere umano ! Oh, con quanta ragione il casto apostolo amico di Gesù e figlio della Vergine madre sua, che lo
stesso Gesù sempre immacolato gli ha dato per madre presso la croce gridava con tutte le sue forze ai grandi e agli umili, ai giovani e ai vecchi, ai padri e ai figli: «Noli amate il mondo, né ciò che è nel mondo, poiché tutto quanto esiste al mondo è concupiscenza della carne », attaccamento per la fragile e ingailiievole bellezza del corpo, sfrenata bramosia per i piaceri sensuali, che corrompono in ugual misura entrambi i sessi! Dio mio, che con un giusto giudizio hai consegnato la colpevole natura umana a questo principio dell'incontinenza, con l'amore coniugale tu ci hai preparato un rimedio, ma un rimedio che fa scorgere ancora meglio la grandezza del male, poiché all'uso di questo sacro rimedio si mescolano tanti eccessi. Esso, il matrimonio, cioè, è un bene, un bene immenso, poiché è un grande sacramento in Gesù Cristo e nella sua Chiesa e un simbolo della loro unione indissolubile. Ma è un bene che presuppone un male di cui facciamo buon uso, vale a dire che presuppone il male della concupiscenza, di cui si fa buon uso dal momento che ce ne serviamo per fare fruttificare la natura umana. Ma al tempo stesso esso è un bene che rimedia al male, cioè all'intemperanza, un rimedio ai suoi eccessi, un freno alla sua licenza. Quanto travaglio per la debole natura umana doversi mantenere entro i limiti del rapporto coniugale, espresso col contratto matrimoniale! È ciò che fa dire a Sant'Agostino «non se ne trovano più di quelli che conservano una perpetua e inviolabile continenza, che vivono nella legge della castità coniugale ; un amore disordinato per la propria moglie nasconde sovente.,
secondo il Padre della Chiesa, la segreta tentazione di amare altre donne». Oh debolezza dell'umanità miserabile, che non si deplorerà mai abbastanza! Questa sregolatezza ha fatto dire allo stesso San Paolo che M quelli che hanno moglie devono vivere come se non l'avessero»" e che, di conseguenza, le donne devono vivere come se non avessero marito, vale a dire che gli uni e le altre non devono essere troppo attaccati reciprocamente, non devono dedicarsi ai piaceri dei sensi né riporre in essi la propria felicità e farne i propri padroni. È ancora ciò che fa dire a San Paolo che quelli che sono nella carne, che vi sono immersi e sono attaccati nel profondo del cuore ai piaceri, non possono piacere a Dio : Qui in carne sunt, Deo piacere non possunt N. È un elogio della santa verginità, e in base ad essa Sant'Agostino distingue tre stati della vita umana in rapporto alla coiicupiscenza della carne: gli sposi casti, che fanno buon uso di questo male; gli intemperanti, che lo usano male e infine quelli che praticano perpetuamente la continenza, che non lo usano affatto e non concedono nulla alla bramosia del piacere dei sensi. Diciamo allora con San Giovanni a tutti i fedeli e a ciascuno a seconda dello stato in cui si trova: «Voi che vi date alla concupiscenza della carne, smettete di farvene catturare, e voi che ne fate buon uso in un casto matrimonio, non siatene attaccati e moderate i vostri desideri, e voi ancora, che siete i più coraggiosi e felici di tutti, non concedetele nulla, disprezzatela risolutamente e persistete in questa casta inclinazione che vi rende simili agli angeli di Dio: tutti insieme sconfiggete que-
sta carne ribelle, la cui legge imperiosa che risiede nelle nostre stessa membra ha fatto tanto gemere e spargere lacrime a tutti i santi. Prendete esempio da Sali Paolo,,fortificatevi coiitro la coiicupisceiiza della carne coli i digiuni, mortificate la gola, fate sì che la vittoria sugli altri appetiti più violeliti e più pericolosi sia resa più facile. Capitolo V - Come la concupiscenza della carne si dvfonde i n tutto il coqbo e nei sensi. Noli crediate che la concupiscenza della carne coiisista soltaiito nelle passioiii di cui parleremo: è una radice awelenata che estende le sue ramificazioni in tutte le direzioni e si diffonde in tutto il corpo. La vista ne viene infettata, poiché è con gli occhi che si comiiicia a ingerire il veleno dell'amore sensuale, ed è perciò che Giobbe dice: ((Avevostretto un patto coi miei occhi, per non poter nemmeno pensare ad alcuna fanciulla»22,che San Pietro afferma che gli occhi degli impudichi sono «pieni &adulterio~'~,e che lo stesso Gesù Cristo proclama: «Chiunque avrà guardato una donna per desiderarla, si è già contaminato con lei, nel suo cuore » '4. Questo vizio degli occhi si distingue dalla concupiscenza degli occhi di cui parla San Giovanni nel brano citato poiché in questo caso, in cui gli occhi si aprono per appagarsi della vista della bellezza mortale o anche per deliziarsi nel guardarla ed esserne guardati, si è dominati dalla coiicupiscenza della carne. Le orecchie ne sono infettate quando, a causa di colloqui pericolosi e di canti pieni di
mollezza, si accendono o si tengono deste le fiamme dell'amore impuro e di questa nostra segreta disposizione alle gioie sensuali : poiché l'anima, una volta toccata da questi piaceri, perde la sua forza, indebolisce la sua ragione e si attacca ai sensi e al corpo. Quella donna che nei Proverbi si vanta dei profumi sparsi sul suo letto e del dolce aroma che aleggia nella sua stanza per concludere subito dopo: a Inebriamoci di piacere e godiamo del desiderio d'amore ,,' 5 , ben dimostra con le sue parole a cosa portano i profumi, preparati per infiaccliire l'anima, per attrarla verso i piaceri sensuali con qualcosa che, pur senza avere immediatamente l'apparenza di offendere il pudore, si fa accettare con minor timore, disponendo tuttavia l'animo al rilassamento e distogliendo l'attenzione da ciò che deve costituire la sua naturale occupazione. I piaceri dei sensi si eccitano reciprocamente: l'anima che ne gusta uno risale facilmente alla fonte che li produce tutti. Così i piaceri più innocenti, se non sono tenuti costantemente sotto controllo, preparano ai più colpevoli, e i più piccoli fanno presagire la gioia che si proverà con i più grandi e risvegliano la concupiscenza. Vi è pure una certa mollezza e fiacchezza diffusa in tutto il corpo che, facendo ricercare un po' di riposo nel sensibile, lo risveglia e ne mantiene la vivacità. Noi amiamo il nostro corpo con un attaccamento che ci fa dimenticare la nostra anima e l'immagine di Dio che porta impressa nel fondo. Non riusciamo a rifiutarci nulla: la cura eccessiva della propria salute vizia tutto il corpo, e questi vari sentimenti non
sono che delle derivazioni della coiicupiscenza della carne. Non mi stupisco, ahimè, se San Bernardo paventava nei suoi seguaci la perfetta salute: egli ben sapeva dove essa conduce, se non si sa mortificare il proprio corpo come fa l'Apostolo, e ridurlo in servitù con la penitenza, il digiuno, la preghiera e la mente costantemente occupata. Le anime pudiche fuggono l'ozio, l'incuria, la mollezza, l'eccessiva sensibilità, Ie emozioni che infiacchiscono il cuore, le lusinghe dei sensi, le squisitezze : tutto questo, da cui San Giovanni ci mette in guardia, non è altro che il nutrimento della concupiscenza della carne e ne alimenta il fuoco. Capitolo VI - Cos'è la carne del peccato di cui parla San Paolo. Queste inclinazioni malvagie della carne hanno portato San Paolo a definirla carne del peccato 2 : «Dio», ha detto, « h a inviato il suo Figliolo nella carne somigliante alla carne del peccato n". Notate dunque in Gesù Cristo non la rassomiglianza della carne in quanto tale, ma la rassomiglianza della carne del peccato. La carne del peccato è in noi, nelle impronte del peccato che portiamo nella nostra carne e nella tendenza a peccare che essa ci ispira con l'attaccamento ai sensi. È in Gesù Cristo soltanto la carne somigliante alla carne del peccato n, poiché la sua carne virginale è esente da ogni sregolatezza che il peccato ha impresso nella nostra. La sua è dunque non la somiglianza della carne, poiché la sua carne è assolutamente reale, creata da C
una donna e invero frutto del sangue di Abramo e di Davide ; ciò che importa non è la somiglianza, ma la vera natura della carne. Anche San Paolo gli attribuisce non la somiglianza della carne, ma la somiglianza della carne del peccato,,, cosicché, senza avere le inclinazioni perverse di cui portiamo il seme nella nostra carne, egli ne ha assunto solamente la corruttibilità e la caducità, vale a dire la sola pena del peccato, senza averne colpa né alcuno dei desideri malvagi che sono nella nostra. Giudichiamo adesso con quanta ragione San Giovanni ci raccomanda di aver in orrore il mondo, poiché esso è pieno della concupiscenza della carne. Vi è, nella nostra carne, una segreta disposizione all'universale ribellione contro lo spirito : « La carne ha desideri opposti a quelli dello spirito n, come dice San Paolo", vale a dire che è là che si trova il fondo, dopo la corruzione della nostra natura. Come abbiamo visto, tutto nutre la concupiscenza, tutto porta al peccato. Bisogna dunque odiarla come si odia il peccato, che è dov'essa vuol condurci. Capitolo VI1 - Da dove ci viene la carne del peccato, v a b a dire la concupiscenza della carne. Quando San Paolo parlava della nostra carne come della carne del peccato, sembrava che volesse spiegarci queste parole del Salvatore: «Tutto ciò che è generato dalla carne è carne e ciò che è nato dallo spirito è spirito. Non meravigliatevi dunque se vi dico che voi dovete nascere di nuovo»28. Queste parole ci riportano alla primitiva istituzione della nostra natura. ((Iddio ha fatto l'uomo
semplice v , dice il SaggioF', e questa semplicità consisteva nel fatto che lo spirito era perfettamente sottomesso a Dio, così come il corpo era completamente sottomesso allo spirito. Così tutto era in ordine, ed è quest'ordine che noi chiamiamo giustizia e dirittura originarie. Poiché non esisteva il peccato nemmeno la pena esisteva, e per la inedesima ragione non esisteva la morte, poiché la morte era stata stabilita come pena per il peccato. E ancor meno esisteva la vergogna: Dio non aveva riposto nel nostro corpo, come altresì nella nostra anima, nulla che non fosse buono, conveniente e onesto; l'opera di Dio sussisteva nel suo intero: «L'uno e l'altra erano ignudi D, dice la ScritturaJo, « m a non ne avevano vergogna n. Ma appena disobbedirono a Dio, essi si nascosero: « Ho sentito la tua voce nel giardino n, dice Adamo, « e mi son nascosto, perché ero nudo». E il Signore gli domandò : « Chi ti ha fatto conoscere che eri nudo? Non hai forse mangiato del frutto che ti avevo proibito di mangiare ? D 'l. I1 corpo cessò di essere sottomesso non appena lo spirito disubbidì; l'uomo non fu più padrone dei suoi movimenti, e la rivolta dei sensi fece conoscere all'uomo la propria nudità: « I loro occhi allora si aprirono, essi si coprirono facendosi delle cinture di foglie di fico~''. La Scrittura non disdegna di sottolineare e la forma e la materia del loro nuovo abbigliamento per farci comprendere come non se ne rivestissero per ripararsi dal freddo o dal caldo né dall'inclemenza degli elementi; vi era una causa più segreta, che la Scrittura racchiude in queste parole per risparmiare le orecchie e il pudore del genere
umano e per farci intendere, senza dirlo, dove maggiormente venisse awertita la ribellione. Questa cautela della Scrittura mette ancor più allo scoperto la nostra vergogna, che sembra non voler scoprire per tema di confonderci troppo. Da allora, per giusta punizione divina, le passioni della carne sono divenute vittoriose e tiranniche; l'uomo si è immerso nei piaceri dei sensi, « e invece di divenire spirituale ailche nella carne grazie alla sua immortalità e alla perfetta sottomissione del corpo allo spirito egli, dice Saiit'Agostino, * è divenuto carnale persino nello spirito :
nostra nascita e insieme della nostra corruzione, per la quale siamo legati all'Adamo ribelle, all'Adamo peccatore, per cui siamo macchiati in quello da cui tutti discendiamo, nell'origiiie della nostra esistenza. Le nostre insensate passioni iioii si manifestano improwisamente; il germe che tutte le produce è iii noi fin dall'origiile della nostra vita, che inizia cori i sensi. Vi è qualcos'altro, nell'iiifanzia, che non sia, per così dire, carne e corpo? Ma spingiamoci ancora oltre : nel serio materiio ci ritroveremo in certo qual modo aiicor più carne e corpo e, fin dal momento del nostro coiicepimento, dove non vi è ancora alcun esercizio della vista o dell'udito, che tra tutti i sensi sono quelli che possono risvegliare in maggior misura la nostra ragione, siamo privi di raziocinio e di intelligenza, pura e semplice massa di carne senza alcuna conoscenza di noi stessi né alcun pensiero se non quelli strettamente connessi al movimento del sangue, tanto che a malapena riusciamo a distinguerli. È dunque questo che fa dire al Salvatore che noi tutti siamo carne, fintantoché nasciamo per mezzo della carne. La ragione è oppressa e come spenta in quelli che ci hanno creato; all'inizio e durante i primi anni della nostra esistenza non abbiamo la minima facoltà della ragione. Tutti i vizi cominciano a manifestarsi a poco a poco sin dal momento stesso in cui appare la ragione, e quando si comincia ad esercitarla con maggiore precisione, ecco che cominciano a manifestarsi le grandi sregolatezze della sensualità. Questa è dunque ciò che viene chiamata la carne del peccato. Abbaiidoiiati al corpo e tutti corpo fin dal con-
cepimento, questa prima impressione fa sì che ne rimaniamo per sempre schiavi. Quale sforzo sarà necessario affinché possiamo distinguere l'anima dal corpo? Quanti ve ne sono tra noi di quelli che iion riusciraniio mai a conoscere o a percepire questa distinzioiie? E gli stessi che emergono in qualche misura da questa massa di carne separandone l'anima no11 vi si ritufferebbero sempre come se fosse un fatto naturale, se non si sforzassero continuamente di impedire alla loro immaginazione di domiiiare, e non soltanto di dominare, ma anche di fare tutto e addirittura di essere tutto dentro di noi? Noi siamo dunque interamente corpo e non saremmo mai altro che corpo se, con la grazia di Gesù Cristo, non rinascessimo in ispirito. Vediamo cos'è la natura umana in quella immensa parte restante di popolazioni selvagge che non pensano che al loro corpo e in cui, per così dire, ciò che vi è di più puro è il respirare. E i popoli più civilizzati e più educati escono per ciò dalla carne e dal sangue? Come potrebbero uscirne, se sono così pochi i cristiani che ne escono? Come si intrattiene, di che cosa si occupa la nostra gioventù in quell'età in cui si ha obbrobrio del pudore? Cosa rimpiangono i vecchi, quando si lamentano dei loro anni ormai trascorsi e cosa si augurano sempre di poter rinnovellare, se avessero la gioventù, se non il piacere dei sensi? Cosa siamo dunque, se non carne e sangue? E quanto dobbiamo odiare il mondo e tutto ciò che è nel mondo, secondo I'insegnamento di San Giovanni per il quale: «tutto ciò che esiste al mondo non è che concupiscenza della carne., giacché ciò che egli dice è talmente vero !
Capitolo VI11 - Della concupiscenza degli occhi, e i n primo luogo della curiosi@ La seconda cosa che è nel mondo, secondo San Giovanili, è la coiicupiscenza degli occhi. Bisogna iiiiiaiizi tutto distinguerla dalla coilcupiscenza della carne, poiché il proposito del santo è qui quello di farci scoprire uii'altra fonte di corruzione e un altro vizio apparentemente più sottile, ma in fondo altrettanto grossolano e malvagio, che consta principalmente di due aspetti, di cui l'uno è il desiderio di vedere, sperimentare, conoscere: si tratta della curiosità, in una parola, mentre l'altro è il piacere degli occhi, allorquando li si nutre di oggetti di un certo splendore, capaci di abbagliarli o sedurli. I1 desiderio di sperimentare e di conoscere viene chiamato coi~cupiscenzadegli occhi poiché, di tutti gli organi di senso, gli occhi sono quelli che ampliano maggiormente la nostra conoscenza. In questa categoria sono in qualche modo compresi gli altri sensi, e nell'uso che facciamo della lingua spesso sentire e vedere sono la medesima cosa. Non si dice soltanto : Guardate com'è bello D, ma anche : «Guardate come profuma questo fiore, com'è morbido al tocco quest'oggetto, com'è piacevole da ascoltare questa musica)).È dunque per questo motivo che, dice Sant'Agostino, ogni curiosità si fa risalire alla concupiscenza degli occhi ". Inteso in tal senso, vale a dire nel senso di sperimentare, il desiderio di vedere ci rituffa nella concupiscenza della carne, che ci fa cercare e immaginare incessantemente nuovi piaceri e nuovi ingre-
dieiiti per stimolare la cupidigia. Ma questo desiderio può intendersi in parecchi modi, giacché si deve distinguere questa seconda concupiscenza dalla prima. Bisogna pertanto collocare in questa seconda categoria tutte quelle vane curiosità sugli accadimenti nel mondo, tutti quei segreti e intrighi di diversa natura, le varie energie che falliio muovere alcuni di quelli che nel mondo si dailiio tanta briga, i disegni ambiziosi di altri, abilmente rivestiti di belle intenzioni, spesso persino virtuose. O mio Dio, come si pascono di tutto questo le anime curiose, e perciò vane e deboli! E cosa mai a p prendereste che valga tanto la pena di essere conosciuto? È poi così straordinario sapere ciò che muove gli uomini, qual'è la causa delle loro illusioni, dei loro sogni? Quale frutto ne trarreste da queste curiose ricerche, quale beneficio vi procurerebbero, se non dei sospetti o dei giudizi ingiusti, e una temibile materia di giudizio su voi stessi da parte di colui il quale dice: «Non giudicate e non sarete giudicati » J7? Tale curiosità si estende ai secoli passati più remoti, da cui ci proviene quest'insaziabile curiosità di conoscere la storia. Ci si trasporta con l'immaginazione nelle corti dei re dell'antichità, si penetrano i segreti dei popoli antichi, ci s'immagina d'intendere le deliberazioni del senato romano, le ambiziose risoluzioni di Alessandro o di Cesare o le raffinate trame politiche di Tiberio. E vada se si tratta di ricavarne qualche esempio utile all'umanità: si patisce e si trae soddisfazione, sempre che questa ricerca sia stata condotta coi1 una certa moderazione. Ma se si tratta, come si può osservare
nella maggior parte dei casi, di curiosi che vogliono nutrire la loro immagiiiazione di oggetti vani, cosa vi è di più inutile del soffermarsi a lungo sulle vicende di chi noil è più, dell'iiidagare sulle follie passate per la testa di un mortale, dell'evocare con tanta precisione quelle immagini che Iddio nella sua città santa ha distrutto, quelle ombre che ha dissipato, quegli adescamenti della vanità che sono ripiombati da sé in quel nulla da cui sono venuti? ((Figli degli uomini, fino a quando avrete il cuore appesantito? Perché amate tanto la vanità e vi dilettate a ricercare la menzogna? » ". In questa categoria della concupiscenza bisogna annoverare ancora tutte quelle scienze infami, come la divinazione mediante gli astri, i tratti del viso, le linee della mano e cento altri mezzi altrettanto frivoli degli awenimenti della vita che Dio ha sottomesso al particolare governo della sua prowidenza. Dedicarsi a queste scienze tanto vane e perniciose significa calpestare le prerogative divine, distruggere la fiducia con cui ci si deve abbandonare alla sua volontà, abituare lo spirito a nutrirsi di frivolezze invece che di ciò che è valido. Non è necessario far notare come un eccesso ancora maggiore sia quello di cercare i mezzi per consultare i demoni o di mettersi in diretto contatto con loro, di apprendere i metodi di guarigione che si attuano con il loro ufficio mediante patti formali o taciti con questi spiriti maligni. Oltre ad essere empie e dettate da un'esecrabile superstizione, tutte queste forme di curiosità sono anche il risultato della debolezza di una mente inferma, cosicché si tratta
più dello spegnersi della vera luce che di seguirne di tanto false. Questo per quanto concerne le scienze vane e fallaci. Quanto a quelle vere, ci si dedica ancora troppo ad esse, in maniera inopportuna o con pregiudizio degli obblighi più importanti, come accade a quelli che, quando è giunto il momento di pregare o di praticare la virtù, si immergono nella storia, nella filosofia o in qualsiasi genere di lettura, soprattutto se si tratta di novità, di romanzi, di commedie o di libri di poesia, lasciandosi talmente possedere dal desiderio di conoscere da non possedersi più essi stessi. Poiché tutto questo altro non è se non una forma d'intemperanza, una infermità, una sregolatezza dello spirito, un inaridimento del cuore, una miserabile schiavitù che non ci lascia l'agio di pensare a noi stessi e che è fonte d'errore. Si tratta, ancora un volta, dell'abbandonarsi a quella concupiscenza tanto biasimata da San Giovanni piuttosto che volgere i propri occhi curiosi alla ricerca del divino o dei misteri religiosi: .Non cercate dice il Saggio, «ciò che si trova al di sopra di voi » ". E ancora : « Chi si spinge troppo oltre nel sondare i misteri della divina Maestà sarà schiacciato dalla sua gloria))'0. E infine: «Fate attenzione a non voler essere troppo saggi, ma d'esserlo con sobrietà e modera~ione,)~'. La fede e l'umiltà sono le sole guide da seguire. Quando ci si lancia nell'abisso si perisce, e quanti si son perduti nell'eccessiva meditazione sui misteri della predestinazione e della grazia! Per poter ben pregare bisogna conoscere il necessario e non di più, e umiliarsi sinceramente; ciò significa che bisogna rico)),
iioscere che tutto il bene viene da Dio e tutto il male soltanto da noi. A che cosa serve cercare con curiosità i mezzi per conciliare la nostra libertà con i decreti divini? Non è forse sufficiente sapere che Iddio che l'ha creata la sa muovere e dirigere senza sopprimerla verso i suoi reconditi fini? Preghiamolo dunque affinché ci guidi lungo la strada della benedizione e si impadronisca dei nostri desideri coi mezzi ch'egli conosce. È alla sua scienza, e non alla nostra, che dobbiamo abbandonarci. 111 questa vita è tempo di credere, come nella vita futura è tempo di vedere. Saper tutto, dice un Padre della Chiesa, è innanzi tutto sapere di non sapere: « Nihil ultra scire, omnia scire est D. L'anima curiosa è debole e vana; per la stessa ragione è verbosa, inconsistente e vuol semplicemente ostentare un vano sapere che non si propone d'istruire, ma d'abbagliare gli ignoranti. Vi è un'altra sorta di curiosità che è una curiosità scialacquatrice. Non sono mai troppe le rarità, i gioielli preziosi, le gemme, i quadri e i libri pregiati, che spesso non si ha nemmeno voglia di leggere. Non è che sollazzo e ostentazione. Curiosità sciagurata, che spinge ad esagerare le spese e prosciuga la sorgente delle elemosine ! Ma la si può far risalire al secondo genere di concupiscenza degli occhi, di cui parleremo qui appresso. Capitolo IX - Di ciò che appaga gli occhi. In questo secondo tipo di concupiscenza vengono presi in considerazione gli occhi in senso letterale, vale a dire in quanto occhi della carne. E in-
nanzi tutto è senz'altro certo che ciò che chiamiamo attaccamento del cuore o, più in generale sensibilità, incomincia dagli occhi; tale attaccamento però appartiene, come abbiamo già detto, alla concupiscenza della carne, mentre noi dobbiamo adesso mettere in evidenza, come fa San Giovanni, uil'altra sorta di concupiscenza. Diciamo dunque insieme all'Apostolo a tutti i fedeli: M Non amate il mondo)),né le sue pompe, le sue rappresentazioni e il suo vano splendore, né tutto ciò che dà nell'occhi0 e che abbaglia e seduce il vostro sguardo. I vostri occhi sono viziati, non potete sopportare la modestia né gli ornamenti dimessi; voi sfoggiate i vostri lussuosi arredi, gli abiti sontuosi e i magnifici palazzi. Cosa importa in quale misura awiene tutto questo, se è di per sé grande o in proporzione a quanto conviene alla vostra condizione ? Siccome volete essere guardati, voi volete anche guardare e nulla vi tocca, in voi stessi e negli altri, se non ciò che ostenta la magnificenza, ciò che distingue dal resto della gente. E cos'è tutto questo, se non ostentazione di abbondanza e desiderio di distinguersi per mezzo di cose vane? È questo, e non la magnificenza, ciò che denota in voi la meschinità. Chi è alto non bada affatto a innalzarsi di statura rialzando la propria calzatura. Ciò che si prende in prestito è segno della povertà, e il lustro che mendicate all'esterno mostra fin troppo chiaramente quanto da voi stessi vi siate privati di ciò che eleva. Questa concupiscenza degli occhi va messa in relazione all'amore per il denaro. Quando lo si guarda come uno strumento per acquistare altri beni, dei piaceri, per esempio, o per farsi strada nella
società e occupare un posto importante, non si è avari, si è sensuali, ambiziosi. Avaro è chi non osa toccare il proprio denaro, chi ne è soltanto il triste guardiano, chi sembra non riservarsi alcun diritto se iion quello di conservarlo. Anche il Saggio lo descrive con queste parole: L'avaro iion si sazia del proprio denaro. Chi ama le ricchezze non ne riceve alcun frutto. E a cosa serve tutto questo denaro a chi lo possiede, se non a constatarlo con i propri occhi? M ". I1 denaro per costui è qualcosa di sacro e non permette a nessuno di awiciiiarvi le mani. Tutti i cuori appassionati abbelliscono con la propria immaginazione l'oggetto della loro passione: così l'avaro attribuisce all'oro e all'argento che possiede un lustro che per natura non hanno. Egli rimane abbagliato da questo falso splendore, tanto che la luce del sole, che è la vera gioia degli occhi, non gli pare altrettanto bella. E a cosa gli serve possedere ciò che, rimanendo al di fuori di lui, non può riempirlo all'interno? Qual bene gli deriva dal possesso di tanta ricchezza? Ecco il motivo per cui il Saggio gli preferisce chi mangia e beve e gode con gioia dei frutti del suo lavoro: perché almeno si riempie lo stomaco e ingrassa il suo corpo4! Ma le ricchezze non nutrono che gli occhi, e altrettanto vale per le belle suppellettili, i palazzi e tutti gli allettamenti della vanità. Voi non ne siete proprietari che superficialmente, poiché per voi vederli è tutto eppure, come se tutto ciò fosse un gran bene, non ne siete mai sazi. I1 goloso ha un appetito che è pur sempre limitato, per quanto sregolato possa essere, mentre l'ingordigia degli occhi non è mai paga, non ha, per così di-
re, né fondo né argine. L'avaro <(noncessa di consumarsi per l'inutile fatica e i suoi occhi», coiitinua il Saggio, non sono mai sazi di ricchezze B"". E coiitiiiua dicendo : L'inferno D, il sepolcro, la morte .non sazia la sua avidità. e inghiotte tutto senza soddisfarsi ; a allo stesso modo gli occhi degli uomini sono insaziabili n 45. E dunque non amate il mondo né ciò che è nel mondo, poiché tutto quel che esiste è pieno di concupiscenza degli occhi, tanto più perniciosa quanto più è immensa e insaziabile. Non dite che i beni di cui amate circondarvi vi appartengono; voi non possedete nulla di vostro da cogliere, nulla di cui impadronirvi; non sapete nemmeno per chi conservate queste ricchezze. Esse vi sfuggono di mano in mille modi diversi: ve le rubano, prendono a fuoco e alla fine giunge irrimediabilmente la morte e i vostri beni passano in maniera altrettanto precaria e illusoria nelle mani di uno sconosciuto che forse non sarà nemmeno un vostro parente, anzi che certamente non vi verrà niente, anche se fosse vostro figlio, giacché la morte non ha nulla di suo e quel figlio per il quale avete lavorato tanto non soltanto non potrà esservi utile nel soggiorno ultraterreno dove voi sarete, ma si ricorderà a malapena dei suoi doveri verso di voi sulla terra, e riterrà di aver compiuto appieno il suo dovere filiale se appena avrà fatto vista di piangervi per qualche giorno e si sarà fregiato di quel brevissimo dolore. E voi non vi chiedete mai: N Per chi lavoro? D. Per chi, per « u n successore di cui non so nemmeno se sarà savio o folle», e che magari dissiperà tutte le vostre fortune in un momento? «Vi è nulla di più
vano ? »,esclama il Saggio'C Cosa vi è di più insensato del tanto tormentarsi per nutrirsi di vento? A che vi servono le tante fatiche e i mille crucci che vi sono stati causati dalla preoccupazione di ammassare e conservare tante ricchezze? Non porterete nulla con voi, e «uscirete dal mondo come vi siete entrati, nudi e poveri D 47. Che cosa resta a questo ricco scellerato dell'essersi abbigliato di porpora, dell'aver adornato la sua casa nella maniera più confacente a tanto lusso? Egli dimora nelle fiamme eterne e i suoi tesori sono ora i tesori della collera e della vendetta, accumulati per la sua grande vanità. «Voi accumulate sopra di voi., dice San Paolo, M dei tesori di ira per il giorno della vendetta* 48. Quindi, ancora una volta, non amate il mondo, non amatene la pompa e il vano splendore che non fa che ingannare gli occhi; non amate gli spettacoli né i teatri, che non si curano che di farvi penetrare nelle altrui passioni e farvi provare interesse per le altrui vendette e folli amori. E quale piacere potreste attingervi se non quello di risvegliare il vostro? Perché versate lacrime sui malanni di chi nutre amori sbagliati e ambizioni frustrate? Perché uscite da questi spettacoli soddisfatti dall'appagamento delle altrui passioni, se non perché voi stessi credete che si possa essere felici o infelici per cose del genere? Voi dunque dite insieme al mondo: .Quelli che hanno questi beni sono felici», Beatum dixerunt populum cui hec suntn. E com'è possibile che, nutrendo questo sentimento, voi possiate dire : N Beati quelli il cui il Signore è Iddio », Beatus populus cujus Dominus Deus q u s m ?".
Se volete vedere uno spettacolo degno dei vostri occhi, intonate con Davide il salmo: «Io vedrò i tuoi cieli, che sono l'opera delle tue mani, la luna e le stelle che vi hai poste n". Ascoltate Gesù Cristo, che vi dice: a Guardate i gigli dei campi, e quei fiori che nascono al mattino e muoiono di sera; i11 verità vi dico che nemmeno Salomone in tutta la sua gloria-, e con quel bel diadema con cui la madre gli ha adornato il capo, non fu mai vestito tanto riccamente quanto uno di loro "'. Guardate i ricchi tappeti di cui si ricopre la terra in primavera. Come tutto diviene meschino a paragone di queste magnifiche opere divine! Vi si vede la semplicità e l'opulenza insieme, l'abbondanza, la profusione, delle inesauribili ricchezze che non hanno apprezzato che una parola sola, che non sostengono che una parola. Tante cose così belle non si mostrano né attirano il vostro sguardo se non per riportarlo al loro autore, incomparabilmente più bello. a Perché gli uomini, rapiti dalla bellezza del sole e di tutta la natura, ne sono stati talmente attirati da farne degli dei e non hanno pensato a quanto dev'essere tanto più amabile colui che li ha creati e che è l'autore della bellezza ? D "'. Se volete adornare con tutta la vostra cura qualcosa di degno, adornate il tempio di Dio e ripetete ancora con Davide : Signore, ho amato la bellezza e gli ornamenti della tua casa e la gloria del luogo E conclude affermando: «Non in cui dimori perdere la mia anima con i peccatori»-'*,poiché io ho amato i veri ornamenti e non mi sono lasciato sedurre come costoro da un vano splendore. ))
Gli uomini sfoggiano le loro figlie, ne fanno spettacolo di vanità e oggetto della pubblica cupi-digia e «le adornano come si fa di un tempio~"". Essi recarlo a questi cadaveri abbelliti, a questi sepolcri imbiancati gli ornamenti che dovrebbero a p partenere soltanto al tempio di Dio, come se volessero farli adorare al suo posto. Essi nutrono la propria e l'altrui vanità. Riempiono d'invidia le altre fanciulle e gli uomini di bramosia, e tutto ciò per ingailiio e corruzione. O fedeli, o figli di Dio, disilludetevi di queste false concupiscenze. Perché mutate in vanità le vostre necessità? Voi avete bisogno di un alloggio come necessaria difesa contro le intemperie : è una vostra debolezza; avete bisogno di nutrimento per ricuperare le forze che andate perdendo e dissipando continuamente, e questa è un'altra debolezza. Avete bisogno di un letto per riposarvi quando siete stanchi e per abbandonarvi al sonno che vi inibisce e vi ottunde la ragione: altra deplorevole debolezza. Di tutte queste testimonianze e di tutti questi monumenti della vostra debolezza voi fate uno spettacolo per la vostra vanità, e sembra che vogliate trionfare sull'infermità che vi circonda da tutte le parti. Mentre gli altri uomini s'inorgogliscono dei loro bisogni e vogliono quasi adornarsi delle proprie miserie per nascondersi a se stessi, almeno tu, o cristiano, o discepolo della verità, ritira i tuoi occhi da queste cose illusorie: nella tua tavola, invece di tutti quegli allettamenti sontuosi, ama soltanto il necessario sostentamento per il corpo. Beati quelli che, umilmente ritirati nella casa del Signore, si di-
lettano della nudità della loro celletta e del poco di cui hanno bisogno in questa vita, che non è che un'ombra della morte, e non vedono che la propria infermità e il pesante giogo di cui il peccato li ha gravati! Beate le vergini che si sono consacrate a Dio, che noil vogliono più essere uno spettacolo per il mondo e che vorrebbero nascondersi a se stesse sotto il sacro velo che le ricopre! Beata la dolce costrizione fatta ai propri occhi per non vedere le vanità, che ci fa dire con Davide: « Distoglietevi, occhi miei, affinché non le veda! >> 5! Beati quelli che, vivendo nel mondo secondo il loro stato, come quel santo sovrano, non ne sono toccati, quelli che vi passano senza attaccarvisi e che, come dice San Paolo, «usano di questo mondo come se non ne usassero»", che dicono come Ester che porta il diadema: «Tu sai, o Signore, quanto io disprezzi questo segno d'orgoglio e tutto ciò che può servire alla gloria degli empi, e che la tua serva non gioisce se non in te, o Dio d'Israele »". Beati quelli che danno ascolto a questo precetto della legge: «Non vagate dietro i vostri pensieri e i vostri occhi, contaminandovi con i diversi oggetti m, vale a dire con la corruzione o, come dice il sacro testo, con la fornicazione degli occhi : a Nec sequantur cogitationes suas, et oculos per res varias fomzicante~~.~'. Beati infine quelli che prestano orecchio a San Giovanni il quale, compreso di tutto l'abominio connesso allo sguardo, tanto di uno spirito curioso quanto di occhi viziati dalla vanità, non cessa di proclamare: «Non amate il mondo, dove tutto è » illusione e corruzione della concupiscenza degli occhi n !
Capitolo X - Del1 ella vita, che è il terzo tipo di concufiscenza biasimato da San Giovanni. Benché la curiosità e l'osteiltazione, di cui parlereino, sembrano essere delle diramazioni dell'orgoglio, esse appartengono piuttosto alla vanità, che è qualcosa di più esteriore e superficiale: tutto si riduce all'osteiitazione, che abbiamo messo in r a p porto con la concupiscenza degli occhi. La curiositii noil ha altro fine che quello di fare ammirare un sapere vano, col quale distinguersi dagli altri uomini. L'ostentazione delle ricchezze deriva anch'essa dalla medesima fonte, che non cerca altro che un vano distinguersi. L'orgoglio è una depravazione più grave, per la quale l'uomo, abbandonato a se stesso, per eccesso d'amor proprio si considera il proprio dio. Essere superbi D, dice Sant'Agostino, «significa, abbandonando il bene e il principio comune al quale dobbiamo essere tutti legati, non esser altro che Dio, far di se stessi il proprio bene e il proprio principio, owero il proprio autore n, vale a dire farsi divinità di se stessi: N relicto communi, cui omnes debent hmere, prinbpio, sibi ipsi $merz atque esse principium '*. È, questo, il vizio che si è insinuato nella profondità delle nostre viscere con le parole del serpente che ci ha detto, per mezzo di Eva: «Voi diventerete come degli dei D" con le quali abbiamo inghiottito quel veleno mortale nel momento stesso in cui soccombevamo alla tentazione. Ci è penetrato fin dentro le midolla, e tutta l'anima nostra ne è rimasta infettata. Ecco, in generale, in che cosa consiste questa terza forma di concupiC
scenza, che San Giovanni chiama N orgoglio n, anzi l'orgoglio della vita*, dal momento che tutta la vita ne viene corrotta; è come il vizio principe da cui pullulaiio tutti gli altri vizi. È un vizio che si manifesta in tutte le nostre azioni. Ma ciò che vi è di più mortale, è che esso è il nutrimento più segreto e più pericoloso del ilostro cuore. Capitolo XI l 'orgoglio.
- Dell'amor proprio,
che è la radice del-
Per penetrare nella natura di un vizio così durevole bisogna andare all'origine del peccato e rammentare le parole del Saggio: .Iddio ha fatto l'uomo retto >>62. Tale rettitudine dell'uomo consisteva nell'amare Dio con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutte le sue forze, con tutta la sua intelligenza e il suo pensiero, amarlo d'un amore puro e perfetto per amor suo, e amarsi in lui e per lui. Ecco la rettitudine e la dirittura dell'anima, ecco l'ordine, ecco la giustizia. È giusto dare amore a chi è amabile, dare un grande amore a chi è molto amabile, offrire il sommo e perfetto amore a chi è sommamente e perfettamente amabile e tutto l'amore all'unico degno di essere amato, che raccoglie in sé tutto ciò che è amabile e perfetto, tanto da non far guardare e amare se stessi se non attraverso di lui. Tale è dunque la rettitudine per cui l'uomo era stato creato, ed è anche ciò che costituisce la bellezza della creatura ragionevole, fatta a immagine di Dio, essendo Dio la bontà e la bellezza stesse, e ciò che è fatto a sua immagine non può non esse-
re bello. Una tal bellezza è relativa a quella divina, di cui è l'immagine, e dipende interamente dal suo principio che, di conseguenza, bisogna amare soltanto d'un amore illimitato. Ma l'anima, vedendosi bella, si è compiaciuta in se stessa e s'è acquietata nella coiiteinplazione della sua magnificenza; in quel momento ha cessato di riferirsi a Dio, ha dimenticato la propria dipendenza, si è prima ferinata e poi s'è consegnata a se stessa. Ingannata dalla propria libertà, che ha trovato tanto bella e dolce, essa ne ha fatto una prova funesta: Sua in eternum libertate deceptus n. Ma cercando d'essere libero fino ad affrancarsi dall'impero di Dio e dalle leggi della sua giustizia, l'uomo è divenuto prigioniero del proprio peccato. Chi non ama Dio non ama altri che se stesso, ma chi non ama che se stesso e si preoccupa unicamente della propria volontà e del proprio piacere non si sottomette più al volere divino: restando sordi agli altrui bisogni non si è soltanto ribelli verso Dio, ma anche poco socievoli, scontrosi, ingiusti, poco ragionevoli nei confronti del prossimo e desiderosi che tutto sia in funzione non soltanto dei propri interessi ma persino dei propri capricci. Dio è giusto, e una delle leggi della sua giustizia scritta nel libro della Sapienza e giustificata dalla sua condotta nei confronti degli empi è che chiunque pecchi contro di lui venga punito con ciò stesso che lo ha fatto peccare : «Per que peccat quis, per hec et torquetur»". Egli ha creato l'uomo ragionevole cosicché, cercando se stesso, esso sarà la sua propria pena e troverà il suo supplizio là dove ha rinvenuto la causa del suo errore. L'uomo dunque,
essendo divenuto peccatore e cercando se stesso, diviene infelice trovandosi. Dio gli ha sottratto i suoi doni non lasciaildogli altro che il fondo del proprio essere, sicché diviene oggetto della sua giustizia e soggetto su cui esercitare la sua vendetta. Non rimane all'uomo nient'altro che ciò che può avere senza Dio, cioè l'errore, la menzogna, l'illusione, il peccato, la sregolatezza delle sue passioni, la rivolta contro la ragione, gli inganni delle sue speranze, gli orrori della sua spaventosa disperazione, e ancora collere, gelosie e asprezze astiose contro chi lo disturba nella sua ricerca del bene particolare che ha preferito a quello generale, che nessuno ci può togliere se non noi stessi, l'unico che possa essere bastante per tutti. Eccoci dunque raffigurati nelle nostre passioni e nella nostra ignoranza, ed ecco il peccato e la pena del peccato, e non soltanto al suo primo comparire, all'inizio, ma anche in seguito, nella consumazione dell'inferno. Poiché è di lì che nascono quest'ira, questa disperazione, questo tarlo che rode la coscienza e la fa rimordere e infine questo pianto eterno tra le fiamme perenni: ecco cosa emerge dal fondo del nostro crimine. «Io appiccherò un fuoco di mezzo a te che ti divori dice il santo Profeta, ~Producamignem de m d i o tui cui comedat te»'*. Sono i nostri peccati che accendono il fuoco della vendetta divina, da cui divampa il fuoco divoratore che penetra nell'anima imprimendole un vivo e insopportabile dolore. Ecco cosa produce l'amore di sé e come esso produce in noi il peccato prima e poi il supplizio. )),
Capitolo XII amor di Dio.
-
Contrap~osirionetra amor kroprio e
I contrari si ricoiioscono l'uno dall'altro: l'ingiustizia dell'amor proprio si riconosce in contrasto con la giustizia della carità, di cui il primo rappresenta l'alloiitailameiito e la privazione. Sant'Agostino ne dà questa definizione: La carità è amor di Dio fino al disprezzo di sé », dice, mentre, al contrario, «la cupidigia è amor di sé spinto fino al disprezzo di Dio )>"+.Quando si afferma che l'amor di Dio giunge fino al disprezzo di se stessi, si intende dire fino al disprezzo di sé in rapporto a Dio, comparandosi a lui. In tal senso, dubitare che si possa disprezzare se stessi significherebbe dubitare dei principi fondamentali della ragione e della giustizia. I1 disprezzo è l'opposto alla stima. Ma cosa si può stimare a paragone di Dio, o con che cosa lo si può paragonare, dal momento che egli è «colui che è » e che il resto è nulla di fronte a lui, ciò che fa dire al profeta: Davanti a Dio le nazioni non sono che una goccia d'acqua, un granello in una bilancia e le più estese contrade non sono che polvere >)66. Non può esservi niente di più vile di tutto questo, eppure la Scrittura, non contenta di quest'espressione, la trova ancora troppo degna per ciò che è creato, e per esprimersi con correttezza e precisione formula quest'altra definizione : Davanti a Dio tutte le nazioni son come se non esistessero; valgono per lui come nulla>)67. E badate bene: non si parla di un uomo in particolare, ma di una nazione, di fronte alla quale l'uomo non è nulla. Ma questa stessa nazione non
è altro che una goccia d'acqua, un granello, una vile manciata di polvere. Non soltanto una nazione, ma tutte le nazioni aiicor meno: sono nulla. Più si accumulano oggetti dei sensi, più si disprezza ciò che si accumula con tanta cura. Se una nazione non è che una goccia d'acqua, cosa saranno mai tutte le nazioni? Forse che saranno qualcosa di più? Nient'affatto: più si accumulano cose create, più appaiono nulla. Non bisogna dunque stupirsi che I'amor di Dio giunga fino al disprezzo di sé; non ci si può disprezzare se prima non ci si considera un nulla. È quindi giusto essere un nulla davanti a Dio e provare verso se stessi il massimo disprezzo. Non ci rimane che ripetere con San Michele: Chi è come Dio?». Chi merita di essere paragonato a lui o di essere nominato al suo cospetto? Egli è «colui che è »,e la pienezza dell'essere è in lui. Moltiplicate le creature e aumentatene all'infinito le virtù; si tratterà pur sempre, a ben guardarle di per sé, di un non essere. A cosa serve accumulare tanto non essere? Cos'altro si potrebbe fare di tutto ciò, se non un non essere? Ama dunque Iddio, o uomo, come il solo che è, e porta l'amor di Dio fino al disprezzo di te stesso in quanto nulla. Ma piuttosto che spingere l'amore di Dio fino allo spregio di se stesso, come avrebbe dovuto, l'uomo ha spinto l'amor di sé fino allo spregio di Dio, seguendo la propria volontà fino a dimenticare quella divina, fino a non curarsene in alcun modo, fino a passarvi sopra e ad agire e trovar soddisfazione indipendentemente da Dio e a non tenere in alcun conto le sue proibizioni, anzi a comportarsi
come se non esistessero. In tal modo è il nulla che non tiene in alcun conto colui che è e che, invece di disprezzare se stesso per amor di Dio, e in ciò sarebbe la giustizia sovrana, sacrifica alla propria soddisfazione la gloria e la grandezza di Dio, l'unico a possedere l'essere, sebbene l'uomo non sia che un nulla, ciò che è il massimo dell'ingiustizia e del traviamento. Capitolo XIII - Quanto l'amw proprio indebolisce l'uomo. Chi non tiene Iddio in alcuna considerazione aggiunge alla sua naturale nullità quella della propria ingiustizia e del proprio traviamento. Non è Dio che lo degrada, ma è egli stesso che si degrada da sé. Non toglie nulla a Dio ma toglie a se stesso il sostegno divino, la sua luce, la sua forza e la fonte di tutto il proprio bene e diventa cieco, ignorante, debole, impotente, ingiusto, malvagio, schiavo del piacere e nemico della verità. Chi cerca qualcosa non per se stessa ma per ciò che di essa gli piace, non mira alla verità. Prima ancora di esservi qualsiasi cosa che piaccia o non piaccia ai nostri sensi, esiste una verità che è per natura il disfacimento del nostro spirito. Questa verità è la nostra regola, ed è da questa verità, e non dai nostri piaceri, che devono essere regolati i nostri desideri. Poiché la verità che, per così dire, piace a Dio, è Dio stesso, e ciò che piace a noi siamo noi stessi, che ci preferiamo a Dio. Noi non possiamo nulla, ahimè, dal momento che abbiamo considerato Dio un nulla, trasgredendone la legge e agendo come se non esistesse. Questo è ciò che hanno fatto i nostri proge-
iiitori, questa è la tara ereditaria della nostra natura. I1 demonio ci dice, come ha già detto loro: Perché Iddio vi ha proibito questo frutto, così bello per l'occhio e così dolce al palato?». « Cur pracqbit vobis Deus Da allora il piacere ha assunto ogni potere su di noi, e la minima lusinga dei sensi ha prevalso sull'autorità della verità. Capitolo XIV - Ciò che l'orgoglio aggiunge all'amor proprio. L'anima attaccata a se stessa e corrotta dall'amore di sé è in certo qual modo superba e ribelle, poiché trasgredisce la legge di Dio. Ma quando la si trasgredisce perché si è prostrati dal dolore, come chi soccombe al male, o perché non si può resistere all'attrazione troppo violenta del piacere dei sensi, più che di orgoglio si tratta di debolezza. L'orgoglio di cui parliamo consiste in una certa falsa forza che rende l'anima indocile e fiera, insofferente di qualsiasi costrizione e che, per un eccessivo amore per la propria libertà, aspira a quella sorta d'indipendenza che fa provare un piacere particolare a disobbedire e che è irritata dalla proibizione. È quella funesta disposizione d'animo così spiegata da San Paolo: « I1 peccato mi ha fatto errare per mezzo della legge e con essa mi ha dato la il peccato, cioè, spiega Sant'Agostino, mi morte D @'; ha fatto errare per mezzo di una falsa dolcezza, t
deva più dolci: @ia quanto minus licet, tanto magzs libet~.I11 tal modo la legge mi ha ucciso doppiamente, dal momento che ha portato al culmine il peccato con la trasgressione espressa dal comandamento, stimolando il desiderio con la troppo potente attrattiva della proibizione : incentivo prohibitionis, et cumulo prmaricationisN. L'origine di un sì grande male sta nel fatto che, trasgredendo il divieto, noi usiamo della nostra libertà in una mailiera che ci induce in errore e che, invece di far consistere la vera libertà dell'uomo nell'umile sottomissione della propria volontà alla sovrana volontà divina, la riduciamo a fare la nostra propria volontà, ostentando modi indipendenti contrari all'originaria istituzione della nostra natura, che non può essere libera né felice che sotto il dominio di Dio. 111 tal modo ci rendiamo liberi alla maniera degli animali, che non hanno altra legge che quella dei loro desideri, poiché le loro passioni sono per essi le leggi ispirate da Dio e dalla natura. Ma per la creatura ragionevole, che ha un'altra natura e un'altra legge impostale da Dio, la libertà è cosa differente, consiste cioè nel sottomettersi volontariamente alla suprema ragione divina, di cui la propria non è che un'emanazione. È dunque per questa creatura un grave difetto quello di dilettarsi a scuotere questo beato giogo, a proposito del quale Gesù Cristo ha detto: a Il mio giogo è soave e il mio fardello è leggero n 'l, a rendersi libera alla maniera degli animali privi d'intelletto, com'è espresso da queste parole: L'uomo vano è trascinato dal suo
orgoglio, e si crede nato libero alla maniera di un giovane animale focoso ". A tale genere di orgoglio, che discende da una libertà indocile e irragionevole, bisogna ancora aggiungerne un altro, che è quel che San Giovanni vuol farci comprendere qui con maggior chiarezza e che consiste nel nutrire dentro di sé un certo amore per la propria grandezza, fondata sull'idea della propria eccellenza, che è il vizio più persistente e al tempo stesso più pericoloso per l'essere ragionevole. ))
Capitolo XV - Descrizione della caduta dell'uomo, che consiste principalmente nel suo orgoglio. Non si comprenderà mai la caduta dell'uomo se non si comprende la situazione in cui si trova l'anima dotata di discernimento e il posto che detiene per natura tra quelli che vengono definiti i beni. Vi è dunque innanzi tutto il bene supremo, che è Dio, intorno al quale sono riunite tutte le virtù e nel quale regna la felicità della natura dotata di giudizio. Vi sono in secondo luogo i beni inferiori, owero gli oggetti sensibili e materiali, da cui l'anima dotata di discernimento può sentirsi attratta. Essa si mantiene nel mezzo tra questi due tipi di beni potendo, mediante il libero arbitrio che le è proprio, elevarsi all'uno o abbassarsi all'altro dei due, trovandosi in tal modo in uno stato intermedio tra tutto ciò che è buono. L'anima ragionevole è dunque, per la sua condizione, il supremo tra tutti i beni dopo Dio, infinitamente al di sotto di lui ma molto superiore a tut-
ti gli oggetti sensibili ai quali essa può attaccarsi distaccandosi da Dio senza una caduta obbrobriosa. Ma per cadere così in basso bisogna necessariamente che essa passi, per così dire, per il mezzo, cioè attraverso se stessa: è qui che si può individuare senza difficoltà il primo attaccamento. Poiché al di sotto di Dio, al quale l'anima deve unirsi per trovare la propria felicità, non trova nulla che sia superiore a se stessa, che sia fatta a propria immagine, è proprio qui ch'essa cade, come ha detto Sant'Agostino con accenti di profonda verità quando afferma che precipitando dall'alto e decadendo dalla condizione divina, l'uomo cade essenzialmente su se stesso »73. ECCOdunque che, perdendo la propria forza, egli cade necessariamente ancora più in basso, là dove non è più possibile arrestarsi, e i suoi desideri si disperdono tra gli oggetti sensibili e inferiori di cui diventa schiavo poiché lo diventa il suo corpo, il quale, assoggettato a sua volta alle cose esteriori e inferiori, ne è esso stesso dipendente e costretto a mendicare tra questi oggetti i piaceri che ritornano ai sensi. Tale è dunque l'intero processo della caduta: a somiglianza di un corso d'acqua che da una sorgente d'alta montagna scorre prima su un'alta roccia dove, se così si può dire, si disperde all'iiifinito, e si precipita fino al più profondo degli abissi, l'anima dotata di ragione cade da Dio su se stessa e si ritrova precipitata su ciò che vi è di più basso. Ecco un'immagine veritiera della caduta della nostra natura. Noi ne percepiamo l'effetto finale in questo corpo che ci prostra e nei piaceri sensuali che ci awincono. Ci ritroviamo al di sotto di tutto
questo, e veramente schiavi di questa nostra natura corporale, noi che eravamo nati per comaildarla. Tanto è irreparabile la iiostra caduta. Ma dovevamo prima cadere su noi stessi perché, coine quel corso d'acqua che si rovescia prima sulla roccia e scava profondamente nel punto in cui cade, così l'anima nostra, cadendo su se stessa, produce dentro di sé una prima piaga profonda, l'impronta della sua eccellenza, della sua grandezza, poiché vuol sempre persuadersi d'essere mirabile, vuol pascersi dello spettacolo della propria perfezione, che le appare sempre straordinaria, non vedendo null'altro attorno a sé se non la propria voglia di assoggettare, da cui derivano l'ambizione, il dominio, l'ingiustizia, l'invidia, né coglie in sé nulla che non attribuisca a se stessa, da cui discende la presunzione delle proprie forze. È in tutto questo che bisogna riconoscere la nascita di ciò che si chiama orgoglio. Capitolo XVI - Gli effetti dell'orgoglio sono principalmente due. Dove si tratta del primo. Da quanto si è detto in precedenza comprendiamo come l'orgoglio o, come l'abbiamo definito, l'amor proprio e l'idea della propria grandezza, ha due effetti principali, di cui l'uno è quello di voler eccellere in ogni cosa al di sopra degli altri e l'altro è quello di attribuire a se stessi la propria eccellenza. Quanto al primo effetto, si potrebbe credere che non lo si ritrovi che tra i sapienti o i ricchi e che non esista affatto tra gli umili, usi al lavoro, alla po-
vertà e alla dipendenza. Ma a guardare più da presso ci si accorge come questo vizio regni in tutte le coiidizioni sociali, fino alla più bassa; basti coiisiderare con quanta fatica vengano riconciliati gli animi tra gli strati inferiori, allorquaiido scoppiano delle liti o si iiiteiitaiio dei processi a causa di ingiustizie, e come i cuori siaiio esulcerati all'esti-emo e si sia disposti a spingere fino in fondo la veiidetta, che è il trionfo dell'orgoglio. Chi vede tutti i giorni gli scatti d'ira con cui in parrocchia i contadini si contendono i banchi e li sente dare libero sfogo al loro riseiitimento fino al punto di dichiarare, senza prestare ascolto ad alcuna ragione né cedere ad alcuna autorità, di non voler più andare in chiesa fino a quando i loro desideri non vengano soddisfatti, riconosce fin troppo bene in queste anime meschine la piaga dell'orgoglio, la stessa che fa scoppiare le guerre tra i popoli e spinge gli ambiziosi a mestar tutto per farsi distinguere dagli altri. Non c'è bisogno di studiare a fondo la disposizione d'animo di chi domina nelle parrocchie e si attribuisce un primato e un ascendente sui compagni di fede per riconoscere che l'orgoglio e il desiderio di primeggiare lo trasporta con la stessa foga e con maggiore violenza degli altri uomini. E per passare dalle anime più grossolane alle più delicate, quante precauzioni si son dovute prendere nel corso delle elezioni, anche ecclesiastiche e religiose, per evitare che le ambizioni, le trame, gli intrighi, le sollecitazioni sotterranee, le promesse e le pratiche più criminali, i patti più simoniaci e tutte le altre turpitudilli fin troppo note in materia senza che, lungi dall'averli sradicati iiiteramente, ci
si possa vantare d'esser riusciti, forse, a far nient'altro che nascondere o mitigare in qualche modo questi mali. Sciagura, dunque, e infelicità alla terra ammorbata da ogni parte dai veleni dell'orgoglio ! Ascoltiamo San Paolo, che ce ne fa osservare i frutti con queste parole : I frutti della carne », dice, e in questo termine include l'orgoglio .sono le inimicizie, le liti, le gelosie, le ire, le risse,,, tra le quali bisogna comprendere le guerre, M le discordie, gli scismi, le eresie, le sètte, le invidie, i suicidi,,j4, causati per la maggior parte dalla vendetta, figlia dell'orgoglio, e le maldicenze, con cui si conficca un dente veleiioso come quello delle vipere fin nella carne viva dell'altrui reputazione, che è come una seconda vita per il nostro prossimo. Queste calamità del genere umano, che, ricoprono la faccia della terra, «sono altrettante creature n dell'orgoglio, tante ramificazioni che si dipartono da questa radice awelenata. Soffermiamoci un momento su ciascuno di questi vizi, che San Paolo menziona soltanto, e vedremo quant'è esteso il dominio dell'orgoglio. Se ne colgono gli eccessi estremi nelle guerre, nel loro sanguinoso apparato, in tutte le loro funeste conseguenze, nelle devastazioni e nella desolazione che provocano nel genere umano, poiché spesso in tutto ciò non v'è altro che l'appagamento della sete di dominio e di gloria di cui i primi capi dell'umanità si sono inebriati. Le sètte e le eresie ci fanno scorgere ancor meglio questo spirito d'orgoglio, dal momento che è soltanto questo che anima coloro i quali, per aver fama tra gli uomini, li strappano a Dio, a Gesù Cristo e alla sua Chiesa per aver
dei discepoli che portano il loro nome. E se vogliamo comprendere quanto sia perverso l'orgoglio tra i vizi più comuni, ci basti pensare soltanto per un momento all'invidia e alla maldicenza, sua creatura, per veder gli uomini pieni di veleno e di reciproco odio, che mutano la lingua in un'arma offensiva, che è più affilata d'una spada e che viene scagliata più lontano d'una freccia, per gettare uii'ombra di desolazione su quel che ci si presenta di fronte. Tutto questo dipende dal fatto che ogni uomo, preso di sé, vuol mettere tutto ai suoi piedi e attribuirsi un'esecrabile superiorità, denigrando con ciò tutto il genere umano. Ecco il primo effetto dell'orgoglio, com'esso si mostra all'esterno. L'orgoglio permea tutte le passioni e attribuisce alle altre forme di concupiscenza più grossolane e carnali qualcosa che le esaspera. Osservate una donna in tutta la sua superba bellezza, nella sua ostentazione, nella sua apparenza: essa vuol vincere, vuol essere adorata come una dea dal genere umano, lei per prima si rende questa forma di adorazione, è l'idolo di se stessa e dopo essersi adorata e ammirata fa in modo da sottomettere tutti al suo dominio. Gezabele, catturata e vinta, s'immagina ancora di disarmare il suo vincitore affacciandosi imbellettata dalle sue finestre. Cleopatra crede di avere negli occhi e in viso di che far crollare ai suoi piedi i conquistatori e, usa a simili vittorie, quando queste vengono a mancare non trova altro soccorso che la morte. In tutti i secoli vi sono state di queste rinomate bellezze, che il Saggio ci descrive con queste parole : M Ella ha fatto soccombere un infinito numero di uomini trafitti dalle sue fattez-
ze; tutte le sue ferite son mortali, e anche i più forti sono caduti sotto i suoi colpi: << Multos vulneratos dejecit, et fortissimi quiqui interfect sunt ab ea,, 7.'. La gloria si mescola in tal modo alla concupiscenza della carne. Gli uomini, come le donne, si vantano d'essere dei vincitori: È una vergogna tra gli Assiri che una donna scampi dalle mani di un uomo e rida di lui D 7". Quale nazione non può dirsi assira, sotto questo aspetto? Qual'è il luogo ove queste riprovevoli vittorie non vengono glorificate? Dove mai non si celebrano questi insigni corruttori del pudore, che si fanno un vanto di tendere delle trappole così infallibili che nessuna virtù virginale può sfuggire alle loro empie mani? La gloria si confonde dunque col desiderio sensuale, e ci si immagina d'essere eccellenti tanto nel farsi desiderare quanto nel corrompere o, secondo la Scrittura, nell'umiliare il sesso debole. Capitolo XVII - Orgogliosa debolezza delluomo che ama gli elogi, paragonata a quella della donna che si crede bella. Mio Dio, lascia ch'io mi soffermi a considerare al tuo cospetto la debolezza dell'orgoglio e il vano diletto ch'esso ci fa trarre dagli elogi. Cos'è, o Signore, l'elogio se non l'espressione di un giudizio lusinghiero espresso dagli uomini su di noi? E se tale giudizio e la sua espressione si propagano tra gli uomini, se ne ha ciò che si chiama gloria, vale a dire un encomio celebre e pubblico. Ma, Signore, se questi elogi sono falsi o ingiusti, quale erro-
re da parte mia è il provarne tanto diletto, e se s e no veri, donde mi viene quest'altro errore di amare la verità meno della testimonianza che le vien resa dagli uomini? Forse che, diffidando del mio stesso giudizio, voglio essere rafforzato nella stima che ho di me stesso mediante la testimonianza altrui e anzi, se è possibile, di tutto il genere umano? E che, la verità m'è forse talmente ignota da farmi desiderare di andare a cercarla nell'opinione altrui? Oppure si è che conosco fin troppo bene le mie debolezze e i miei difetti, di cui la mia coscienza è la prima e inevitabile testimone, sì da farmi preferire la vista di me stesso attraverso la testimonianza di quelli a cui, come in uno specchio adulatore, io li nascondo con tanta cura? Quale mediocrità ! Osservate la donna invaghita della sua effimera bellezza, che si crea da sé uno specchio adulatore per correggere l'immagine delle sue carni rinsecchite e dei suoi lineamenti sciupati, o che fa dipingere un quadro menzognero di ciò ch'ella non è più, figurandosi così di riprendere ciò che gli anni le hanno tolto. Tale è dunque la seduzione, a tale debolezza portano l'elogio, la fama, la gloria. Quest'ultima, solitamente, non è che uno specchio in cui si fa apparire il falso con un certo lustro. Cos'è mai la gloria di Cesare o d'Alessandro, di questi due idoli del mondo che tutti gli uomini sembrano ancora voler portare alle vette delle cose umane con il loro tributo di lodi e d'ammirazione, cos'è, ripeto, la loro gloria se non un confuso ammasso di virtù fasulle e di vistosi vizi che, sostenuti da azioni d'un malinteso vigore, dal momento che non arre-
ca che delle ingiustizie o, in ogni caso, dei risultati perituri, si sono imposti al genere umano e hanno abbacinato persino i saggi della terra, coinvolti essi stessi in simili errori e trascinati da uguali passioni ? Vanità delle vanità, tutto è vanità, e più l'orgoglio s'immagina d'essere solidameilte fondato, più è vano e fallace. Ma accompagnate infine l'elogio alla virtù e alla verità, come solitamente dovrebbe essere; quale errore è quello di non poter stimare la virtù senza l'encomio degli uomini! È dunque di per se stessa da tenersi in così scarsa considerazione? Gli occhi di Dio sono dunque così poca cosa per gli uomini virtuosi? E chi dunque li stimerà, se i saggi non se ne accontentano? E tuttavia io vedo Sant'Agostino7', per esempio, un uomo così grande e così umile, un uomo talmente convinto che non si debba amare l'elogio che come un bene di chi loda, per il quale la felicità consiste nel riconoscere la verità e nel rendere giustizia alla virtù; ebbene, io vedo un uomo così santo che, esaminandosi al cospetto degli occhi di Dio si tormenta al pensiero di amare forse le lodi per sé piuttosto che per quelli che gliele tributano, di voler forse essere amato dagli uomini per altri motivi che non perché faccia loro profitto, di essere, in una parola, superbo piuttosto che virtuoso: talmente subdolo è il male dell'orgoglio, tanto le nostre viscere ne sono intimamente impregnate, tanto sottile e impercettibile è il suo apparato, tanto gli umili devono veramente temere fino alla morte qualsiasi contaminazione dell'orgoglio, qualunque contagio del vizio che respiriamo
con l'aria del moiido e di cui portiamo la radice dentro di noi. Capitolo XVIII - Il bell'ingegno e il filosofo. Parliamo adesso di un'altra specie d'orgoglio, di uii'altra specie di debolezza. Se ne vedono tanti che trascorrono la loro vita a toriiire un verso, a polire un periodo, ad abbellire ciò che non solo è inutile ma anche pericoloso, come il celebrare un amore simulato o anche piacevole e a riempire l'universo con le follie della loro giovinezza traviata. Ciechi ammiratori delle loro opere, essi non possono soffrire quelle degli altri, e s'ingegnano di riscuotere l'approvazione per i loro versi tra i potenti adulandoli ed elogiandone gli errori e le debolezze. Se ottengono o immaginano d'ottenere il plauso del loro pubblico, tronfi per il loro successo, vano o immaginario che sia, costoro imparano a riporre la loro felicità nelle voci confuse, nel brusio che si diffonde per l'aria e si pongono nel novero di quelli a cui il Profeta rivolge questo rimprovero: «Voi, che vi rallegrate per cose da nulla))7R. E se qualche critica giunge alle loro orecchie essi, con apparente disdegno e autentica sofferenza, rendono giustizia a se stessi e bisogna che una schiera d'amici prenda le loro difese, li aduli e li rassicuri sul loro pubblico per evitare che si addolorino. Attenti al giudizio del pubblico in cui il gusto, intendendo con ciò solitamente l'estro e l'umore del momento, prevale sulla ragione, costoro non si curano invece di quel giudizio severo in cui la verità condannerà l'inutilità della loro vita, la vanità
dei loro sforzi, la meschinità delle loro adulazioni e, nel contempo, il veleno delle loro satire mordaci o dei loro epigrammi pungenti, e più ancora le parole dolci e gli ornamenti che avranno riversato sul veleno dei loro scritti, nemici della pietà e del pudore. Se poi il loro secolo non parrà loro abbastanza favorevole alle loro follie, essi attenderanno la giustizia dei posteri, troveranno cioè bello e giusto l'esser lodati tra gli uomini per delle opere che otterranno la riprovazione della loro coscienza oltre a quella di Dio, e che li avranno circondati delle fiamme d'un fuoco vendicatore. Quale inganno, quale cecità, quale vano trionfo dell'orgoglio ! L'altra specie di orgogliosi sono i filosofi, che condannano questi scritti vani. All'apparenza non v'è nulla di più severo né di più vero del giudizio che Socrate, Platone o altri filosofi dietro il loro esempio hanno dato delle opere dei poeti. Costoro non hanno, essi dicono, ed è quanto dice Platone, alcun riguardo per la verità e si accontentano di dire le cose che piacciono: ecco perché nei loro versi si troverà il pro e il contro, sentenze mirabili a favore e contro la virtù. I vizi vi saranno ugualmente lodati e condannati, e purché lo si faccia con dei bei versi, il loro lavoro può dirsi compiuto. Troveremo nelle opere di Platone un florilegio di versi d'Omero a favore e contro la verità e la virtù: il poeta non sembra curarsi delle conseguenze, e crede d'aver soddisfatto le regole della sua arte a patto di strappare al suo lettore la testimonianza che il suo orecchio è stato piacevolmente blandito, come un pittore il quale, senza preoccuparsi d'aver
dipinto degli oggetti che portano al vizio, crede d'aver compiuto ciò che ci si attende dal suo pennello dal momento che ha imitato la natura alla perfezione. Ecco perché - questo è ancora il ragionamento di Platone, per bocca di Socrate - quando troviamo nei poeti delle grandi e nobili sentenze, non resta che da approfondire, da farli ragionare su quanto hanno scritto, e si scoprirà ch'essi non le compreiidono. «Perché?W , si chiede il filosofo. Perché non si curano che di piacere, perché non si son dati la pena di cercare la verità. Vediamo come in Virgilio il vero e il falso siano egualmente dispiegati. Egli trova che nella sua Eneide l'esposizione delle idee platoniche sul pensiero e l'intelligenza che anima il mondo cadano a proposito : ne farà dei magnifici versi. Se converrà alla sua vena poetica e al fuoco che ne anima i movimenti descriverà la massa degli atomi, che fortuitamente aggregati costituiscono i principi primi della terra, dell'acqua, dell'aria e del fuoco, e ne farà sortire l'universo senza bisogno del soccorso della mano divina per organizzarli; in un'egloga sarà epicureo e platonico in un poema eroico. Ha accontentato l'orecchio, ha dispiegato il suo temperamento, la musicalità dei suoi versi, la vivacità delle sue espressioni: tanto basta alla poesia, la verità non è necessaria. Anche i poeti e i begli ingegni cristiani hanno lo stesso atteggiamento; la religione entra nel disegno e nella composizione delle loro opere quanto in quelle dei pagani. Quello ha l'ispirazione di riprovare le donne, e non si preoccupa se con ciò con-
danna il matrimonio e ne allontana quelli per cui è stato dato come rimedio: purché sia fatto con dei bei versi, egli sacrifica il pudore muliebre al proprio umore satirico ed è soddisfatto soltanto quando riesce a creare delle belle immagini di azioni, sovente indegne. Quell'altro riterrà molto bello disprezzare l'uomo, le sue vanità e le sue pompe; perorerà contro di lui la causa delle bestie e attaccherà nella sua forma perfino la ragione, senza curarsi di disprezzare in tal modo l'immagine di Dio, di cui portiamo ancora impressi tanto vivamente dei residui nella nostra caduta, che sono tanto felicemente rinnovellati con la nostra rigenerazione. Queste grandi verità non sono nulla per lui ; egli, al contrario, le nasconde di proposito ai suoi lettori, perché spezzerebbero il corso delle false e perniciose giocosità. Tanto ci si allontana dalla verità quando si coltivano le arti a cui la consuetudine e l'errore non offrono nella loro pratica altro oggetto che il piacere. I1 filosofo, incoronato e con un ramo d'alloro in mano, biasima questi artifici e li bandisce dalla sua repubblica. Ma è forse più serio questo filosofo, che avendo conosciuto Dio non lo riconosce come tale, che non osa annunciare al popolo la più importante delle verità, che si unisce ad esso nell'adorazione degli idoli e sacrifica la verità alla consuetudine? Costui è uguale agli altri i quali, gonfi d'orgoglio per la loro vana filosofia, siano essi dei fisici, dei geometri o degli astronomi, si credono di eccellere in ogni cosa e sottomettono al loro giudizio gli oracoli che Dio ha inviato al mondo per ri-
sanarlo. La semplicità della Scrittura causerà allora un estremo disgusto alla loro mente occupata in altri pensieri; tanto più essi sembrano awicinarsi a Dio per intelligenza, tanto più se ne allontanano per orgoglio : Quantum popinquaverunt intelligent i ~ ,tantum superbia recesserunt~,dice Sai~t'Agostinoi? Ecco ciò che produce nell'uomo la filosofia, allorquaildo non è sottomessa alla saggezza divina: non genererà che superbi e increduli. il mirabile modo in cui Capitolo XIX - Della Dio punisce l'orgoglio concedendo ciò che esso chiede. Mio Dio, in qual modo mirabile punisci l'orgoglio degli uomini ! La gloria è il bene sovrano ch'essi si propongono d'ottenere e tu, Signore Iddio, come li punisci? Forse togliendo loro quella gloria di cui sono avidi? Talvolta, poiché sei il loro maestro, la concedi o la togli a tuo piacimento, a seconda di come volgi la loro mente. Ma per mostrare quanto essa sia non soltanto vana ma anche fallace e sciagurata, molto spesso la concedi a quelli che la chiedono e ne fai il loro supplizio. Cosa mai desiderava quel grande conquistatore che rovesciò il trono più augusto dell'Asia e di tutto il mondo se non di far parlare di sé, cioè di aver gran rinomanza tra gli uomini ? a Cosa bisogna fare per far parlare di sé gli ateniesi?., si chiedeva costui. Egli riconosceva da sé la vanità della gloria che andava ricercando con tanto ardore, ma vi era trascinato da una sorta di smania che si era impadronita di lui. E cosa fa Iddio per punirlo, se non consegnarlo all'illusione del suo cuore e concedergli
con tanta più dovizia di quanto non avesse mai potuto immaginare quella gloria la cui sete lo tormentava? Non furono soltanto gli ateniesi a parlare di lui: tutto il mondo è stato dominato dalla sua passione e l'universo intero, stupefatto, gli ha accordato più gloria di quanta non avesse mai osato sperare. I1 suo nome è divenuto grande in Oriente come in Occidente, e i barbari come i greci I'ammirano. Lungi dal rifiutare la gloria alla propria ambizione, egli - ne è stato colmato da Dio, ne è stato appagato fino alla nausea, se n'è inebriato perché ne ha bevuto più di quanto potesse sopportarne. O mio Dio, qual bene è mai quello che prodighi agli uomini che hai abbandonato a se stessi, che hai scacciato dal tuo regno! E a proposito della gloria della mente eletta, chi può sperare d'ottenerne altrettanta, nel corso della propria vita o dopo la morte, di Omero, di Teocrito, di Anacreonte, di Cicerone, d'Orazio o di Virgilio? Si sono resi loro degli onori straordinari mentr'erano al mondo e sono stati dei modelli quasi idolatrati per i posteri; la follia dell'elogio è arrivata al punto di erigere dei templi in loro onore, e chi non si è spinto fino a questo punto non ha trascurato di adorarli a modo proprio, come delle divinità al di sopra della condizione umana. E cosa hai detto nel tuo Vangelo della gloria che costoro hanno ricevuto e ricevono continuamente per bocca di tutti gli uomini? Hai detto: In verità vi dico, essi hanno ricevuto la loro ricompensa n .O' O verità, giustizia e saggezza eterne che pesate tutto con la vostra bilancia e attribuite un premio ad ogni cosa buona: per piccola che sia, voi avete C
pronta una ricompensa adeguata a quell'ingegilo che si manifesta nelle azioni di chi viene chiamato eroe e negli scritti di quelli che vengono detti grandi scrittori! Li avete ricompensati e nel contempo puniti: li avete saziati di vento e, enfi di tanta gloria, li avete, per così dire, fatti scoppiare. Quanto hanno dovuto penare questi grandi scrittori per trarre dalla mente le parole dei loro poemi ! E quegli, stupito del lungo e prodigioso travaglio della sua Eneide, il cui scopo era dopotutto quello di lusingare il ceto dominante e la famiglia reale, confessa in una sua lettera di essersi impegnato in quell'opera per una specie di mania, «pene vitio mentisn. La loro coscienza li rimprovera di essersi dati troppa pena per nulla poiché, in fin dei conti, l'avevano fatto per farsi lodare. Quanto studio e applicazione, quante ricerche minuziose, quanta accuratezza, quanto sapere, quanta filosofia e penetrazione bisogna sacrificare a questa vanità! Dio condanna tutto questo, e nel contempo lo soddisfa, per lasciare agli uomini un monumento imperituro del suo disprezzo di questa gloria tanto agognata da chi non la conosce, accordandone più di quanta non se ne chieda. Ecco come si esprime SantlAgostino a proposito di questi eroi, di questi conquistatori, di questi idoli d'un mondo specioso, di questi grandi uomini di ogni sorta tanto rinomati dal genere umano, elevati alle più alte vette della reputazione a cui si possa giungere i quali, vani, hanno ricevuto una ricompensa degna tanto della loro vanità quanto dei loro disegni : a Perceperunt mercedern suam, vani vanamm81.
Capitolo XX - Errore ancora più grande di quelli che volgono a propria gloria le opere che appartengono alla vera virtu. Ma costoro non sono quelli che vengono maggiormente ingannati dalla gloria; ancor più vano e ingannato dal proprio orgoglio è chi sacrifica alla gloria non delle cose vane, ma quelle loro opere che avrebbero dovuto essere prodotte dalla virtù. Tali sono a coloro che fanno delle buone azioni per essere glorificati dagli uomini n, quelli che M suonano la tromba davanti a sé quando fanno l'elemosin a ~ che , «fanno mostra di pregare agli angoli delle strade e di radunare la gente attorno a sé», che «vogliono rendere pubblici i loro digiuni e farli trapelare dal pallore del volto » R2. Appartengono a questa categoria quelli che tra i pagani, tra i giudei o, massima cecità, tra i cristiani sono stati giusti, equi, clementi, temperanti soltanto per farsi ammirare dagli uomini. E tutti hanno ricevuto la loro ricompensa» e sono stati puniti molto più severamente di quelli che si sono applicati a cose vane per ottenere la gloria, poiché più le opere che ostentano sono in sé concrete, più è ingiusto e indegno sacrificarle all'orgoglio e considerare sì poca cosa la virtù da non degnarsi di ricercarla che per esserne lodati dagli uomini, come se non fosse sufficiente la lode di Dio. Capitolo XXI - @elli che nella pratica deUa virtu non cercano la gloria del mondo ma si riconoscono da se stessi la loro gloria, sono più in errore degli altri. Mio Dio, verità eterna che illumini ogni uomo che viene sulla terra, tu mi riveli con la tua luce
uii'altra e più pericolosa seduzione, un altro inganno della mente umana in coloro i quali si elevano, secondo loro, al di sopra della gloria mondana e si ammirano segretamente, facendo di se stessi il proprio idolo e il proprio dio e pascendosi del pensiero della loro virtù, che ritengono essere il frutto delle proprie azioni e che, in breve, s'attribuiscono ! Tali erano quelli tra i pagani che dicevano : Che Dio mi dia la bellezza e la ricchezza; io, dal canto mio, mi darò la virtù e uno spirito equanime e c e stante n ; con ciò essi si iiiiialzavano in certo qual modo al di sopra del loro stesso Dio, dal momento che affermavano che egli era per sua natura saggio e virtuoso, mentre essi lo erano per la loro abil i t à ~ .Credevano, così pensando, di mettersi al di sopra degli uomini e delle loro lusinghe: come se essi stessi, che tanto si lodavano e si ammiravano, non fossero uomini, come se le lodi che si rivolgevano in segreto non fossero delle lusinghe umane e tutto questo non significasse servire la creatura piuttosto che il Creatore, giacché anch'essi erano senz'altro delle creature, e delle creature tanto più deboli e dedite all'orgoglio quanto più questo era all'apparenza affinato e indipendente dalla vanità mondana. Se invece erano affrancati, semmai lo erano veramente, dal giogo della dipendenza delle opinioni e delle lodi altrui, riponevano la loro felicità in se stessi e avevano come unico oggetto della loro ammirazione la propria virtù, considerata come una loro opera e, al tempo stesso, la più bell'opera della ragione. Quale superbia, mio Dio, e quale orgoglio gros-
solano celato sotto apparenze più delicate in questo riposare in se stessi! Quanta pomposità e gelosia, quanto disdegno e spregio verso gli altri uomini! In realtà essi non facevaiio che compatirli, come si fa coi ciechi, e deplorare il loro errore, riservando a se stessi tutta l'ammirazione. Tale era quel fariseo che nella sua preghiera si rivolgeva a Dio con queste parole: «Io non sono come gli altri uomini, che sono rapaci, ingiusti, impudichi, com'è anche questo pubblicano >> ". Se costui applicava il suo disprezzo universale per il genere umano a quell'uomo, era soltanto perché questi era il primo ad avere davanti agli occhi; semmai se ne fosse presentato un altro sarebbe stato lo stesso; tale disprezzo era frutto della sua cieca ammirazione per se stesso. E vero che sembrava attribuire a Dio le virtù di cui si credeva ricoperto, poiché, mettendosi al di sopra del genere umano, egli diceva a Dio: Io ti ringrazio e sembrava riconoscerlo quale l'autore di tutto il bene ch'egli lodava in sé, ma se fosse stato uno di quelli che dicevano sinceramente, come Davide: La mia anima sarà lodata nel Signore»85,non contento di ringraziarlo, egli avrebbe riconosciuto il suo bisogno e gli avrebbe fatto qualche richiesta. Non si sarebbe considerato un perfetto virtuoso, che non aveva alcun bisogno di correggere i propri difetti ma soltanto di ringraziare per i propri pregi, e infine non si sarebbe creduto il solo ad essere riguardato da Dio e onorato dei suoi doni. Quando dunque egli diceva a Dio: Io ti ringraz i o ~nella , sua bocca era una formula di preghiera più che un atto di sincera umiltà del cuore, e
chiunque fosse penetrato nelle profondità di questo cuore volto tutto a se stesso, vi avrebbe scoperto che rendendo grazie a Dio per i propri pregi, nel profondo non faceva che ringraziare se stesso per essersi attirato il dono divino ed essersi reso degno d'aver fatto sì che l'occhio di Dio si fosse posato su di sé. Donde egli ricadeva inevitabilmente nella maledizione del profeta: .Maledetto l'uomo che confida iiell'uomo e che si fa un braccio della carnev8" perché confidando in se stesso egli si fa uomo di carne, uomo debole, cioè, che ripone in sé la sua fiducia, la sua forza e la sua virtù. I1 suo errore è, prosegue il profeta, di distogliere il suo cuore da Dio per porlo in sé e nella propria virtù: « Maledictus homo qui conjìdit in homine, et ponit carnem brachium suum, et a Domino recedit cor ejusn. Capitolo XXII - Se il cristiano ben istruito nei precetti della fede può temere di cadere in questa sorta d 'orgoglio. Ecco dunque cos'erano i farisei e cos'era la loro giustizia, piena di sé e dei propri meriti. Essi si consideravano i soli degni del dono di Dio, e poiché si ritenevano fatti d'altra natura e d'altra materia, d'altro fango del resto dell'umanità, la escludevano dalla grazia divina, non potendo sopportare che il Vangelo venisse annunciato ai gentili né che si lodassero altri uomini all'infuori di se stessi. È questa la loro falsa e abominevole giustizia, aborrita da San Paolo in tante occasioni. Questa specie di giustizia, così chiaramente riprovata dal Vangelo, non dovrebbe aver spazio tra i cristiani.
Ma gli uomini corrompoiio ogni cosa e abusano del Cristianesimo come degli altri doni divini; alcuni eretici, come i pelagiaiii, credevano di dovere a se stessi la loro salvezza, altri ritenevano invece di avere l'umiltà indispensabile al cristiailo e di rendere a Dio tutta la gloria che gli era dovuta per il fatto di attribuirsene solo una parte. Ma il vero cristiano, come quel San Cipriano tanto lodato da SantYAgostinoper questa massima, dice che a bisogna attribuire non una parte, ma tutta la salvezza a Dio, e non gloriarsi mai di nulla, perché nulla viene da noi stessi.''. Questa frase è tratta da San Paolo, la cui dottrina porta tutta a concludere non che chi si gloria possa gloriarsi almeno in parte in se stesso, ma che non ci si deve gloriare affatto di se stessi ma di Dio, e di Dio soltanto. Capitolo XXIII - Come accade che i cristiani si compiacciano in se stessi.
È questa, dunque, la giustizia cristiana, opposta a quella giustizia giudaica e farisaica che San Paolo chiama « la propria giustizia >>m, vale a dire quella che si trova in se stessi e non in Dio. Noi cadiamo in questa falsa giustizia o per errore manifesto, quando crediamo, contrariamente alla dottrina di San Paolo, d'aver qualcosa, per poco che sia, non foss'altro che un M pensiero. fugace o il più labile dei desideri « di nostro, proveniente da noi D '"oppure vi cadiamo non per un errore dello spirito, ma per un certo attaccamento o compiacimento del cuore. Poiché all'infuori di Dio non v'è nulla di più bello e di più somigliante a Dio della creatura
dotata di ragione, santificata dalla sua grazia divina e ad essa sottomessa, ricolma dei suoi doni, che vive secondo ragione e secondo i precetti divini, che fa buon uso del suo libero arbitrio, l'anima che vede o crede di vedere questa bellezza in sé, che seiite di fare il bene e vi si lega con tutto l'amore sincero di cui è capace, toccata da uno spettacolo così bello si ferma ad esso e vede un bene così graiide come iiisito dentro di sé piuttosto che come un bene proveniente da Dio. In tal modo l'anima, insensibilmente, dimentica che Dio ne è il principio e l'attribuisce invece a se stessa, la qual cosa è in effetti tanto più verosimile dal momento che vi coiicorre col suo libero arbitrio. Poiché è grazie al suo libero arbitrio che l'anima crede, spera, ama, che acconsente alla grazia, che la chiede e quindi, poiché il bene che fa in qualche modo le è proprio, se ne appropria e se l'attribuisce, senza curarsi del fatto che tutte le buone azioni dettate dal libero arbitrio sono preannunciate, preordinate, dirette, stimolate e salvaguardate dall'operato proprio e particolare di Dio. È Dio che ci fa fare, nella maniera ch'egli sa, tutto il bene che facciamo e che ci dà la facoltà di fare buon uso della nostra libertà, che è opera sua come lo è il suo buon esercizio, cosicché non v'è nulla di ciò che maggiormente dipende da noi che non si debba chiedere a Dio e di cui non lo si debba ringraziare. L'anima dimentica tutto questo per quel fondo d'attaccamento che ha in se stessa, per la sua inclinazione ad appropriarsi di tutto il bene che possiede, sebbene le provenga da Dio, e preferisce occuparsi di sé che lo possiede piuttosto che di Dio che
lo disperisa o, se gliel'attribuisce, è alla maniera di quel fariseo che dice a Dio: Io ti ringrazio ),e che si attribuisce i ringraziamenti. E semmai fa di meglio di quel fariseo, che si accontenta di ringraziare senza domandare nulla, e chiede invece soccorso a Dio, essa si ascrive anche questo e se ne compiace o, se non se ne compiace, si compiace persino di non compiacersene e fa risorgere l'orgoglio pensando d'averlo vinto. Oh sventura dell'uomo, che tutto ciò che vi è in esso di più affinato, di più sublime, di più vero nella virtu diviene il naturale nutrimento dell'orgoglio! E quale rimedio vi si può applicare, dal momento ch'egli si gloria del rimedio stesso? In breve, ci si compiace di tutto, poiché ci si gloria della consapevolezza della propria miseria e nullità e questo ritornare a se stessi viene moltiplicato all'infinito. Si tratta forse di un difetto trascurabile? Nient'affatto; è la più grande di tutte le colpe e non v'è nulla di più vero delle parole che nella sua lettera San Fulgenzio rivolge a San Teodoro: G È proprio dell'uomo un orgoglio odioso quando questi fa ciò che Dio condanna negli uomini; ma tale orgoglio è ancora più detestabile quando gli uomini si attribuiscono ciò che Iddio dona loro, cioè la virtu e la grazia. Sicché, più questo dono è eccellente, maggiore è la perversità di sottrarlo a Dio per appropriarsene e più ingiusta è l'ingratitudine di misconoscere l'autore di un bene così grande ,)". Quest'orgoglio della vita è dunque la peste più grande e, nel contempo, la più grande tentazione della vita umana, che San Giovanili ci ha insegnato
a detestare. Ecco perché lo menziona dopo gli altri due generi: perché lo colma di tutti i mali e al massimo grado, e ci dice: a Figlioli miei, non amate il mondo né ciò che è nel mondo, poiché tutto ciò che è nel mondo è coilcupiscei~zadella carne n, ovvero quella che ci presenta per prima e che costituisce il primo passo verso la caduta, ~concupiscenza degli occhi», la curiosità o l'ostentazione, che è il secondo passo nel male, e «orgoglio della vita», che è l'abisso degli abissi e il male di cui tutta la nostra vita e le sue manifestazioni sono infettate radicalmente e in profondità. Capitolo XXW - Chi ha ispirato all'uomo questa straordinaria tendenza ad attribuirsi tutto il bene ricevuto da Dio ? Mio Dio, da dove ha origine questo straordinario attaccamento verso noi stessi, e chi ce l'ha ispirato? Chi ci ha, dico, ispirato questa inclinazione cieca e sciagurata, questa deplorevole facilità ad attribuire alle nostre forze e ai nostri sforzi personali, a noi stessi, in una parola, tutto il bene che è in noi per la tua magnanimità? Forse che non siamo ancora abbastanza un nulla per comprendere almeno che siamo nulla e che non possediamo nulla che non sia tuo? E come mai la cosa più difficile per questo nulla che noi siamo è quella di dire sinceramente: « Io non sono nulla, non sono niente ? Ecco la prima ragione. Fin dalle origini e prima di ogni cosa in natura, tra tutte le creature Iddio ne aveva fatta una che doveva essere la più bella e la più perfetta; ilell'or-
dine angelico e in una natura così perfetta si era per così dire compiaciuto di creare un angelo supremo, più bello e più perfetto degli altri tanto che, all'infuori di Dio e dopo Dio, l'universo non aveva mai visto nulla di così bello e perfetto. Ma ciò che viene creato dal iiulla può soccombere al peccato, e una così bella intelligenza si è troppo compiaciuta nel considerarsi bella. Non era, come l'uomo, legata al corpo, pertanto non potendo cadere più in basso di se stessa, per la tendenza propria delle sostanze corporee, concentrava talmente tutta la sua forza nell'ammirarsi e nell'amarsi da non poter amare altro. Tutte le creature, invero, sono nulla, e chiunque ami se stesso e la propria perfezione, tranne Dio, il solo ad essere perfetto, credendo di elevarsi si degrada. A cosa mai sono serviti a quest'angelo i tanti lumi di cui era ornato il suo intelletto? «Egli non perseverò nella verità D nella quale era stato creato: ecco cosa ha detto la verità stessa. Cosa vuol dire la frase : « Egli non perseverò nella verità » ? Cadde nell'errore o nell'ignoranza? Nient'affatto, egli riconobbe la verità persino nella caduta e, come dice l'apostolo San Giacomo, «lui e i suoi angeli la intendono e ne tremano n9'. Pertanto, non perseverare nella verità significò per quest'angelo superbo piuttosto volerla vedere in se stesso piuttosto che in Dio e perderla, cessando di farne la propria regola e di amarla com'essa vuole e dev'essere amata, come padrona, cioè, e sovrana di tutte le menti. Angelo sventurato, paragonato per la tua luce alla stella del mattino, « come sei caduto dal cielo?», dice Isaia"'. Ed Ezechiele: «Tu eri l'impronta della
rassomiglianza),, nessuna creatura era più di te simile a Dio. «Eri ricolmo della sua saggezza e perfetto nella tua bellezza, creato nelle delizie del paradiso del tuo Dio, eri ornato di tante pietre preziose ,,, delle più eccelse conoscenze: ti era stato dato l'oro» prezioso della carità, che eri stato preparato a ricevere fin dal primo momento della tua creazione. «Eri perfetto nelle tue vie fin dal giorno i11 cui fosti creato, fino a quando non apparve in te l'iniquità»"". E qual'è questa iniquità, se non quella di aver troppo guardato a te stesso e di esserti fatto una trappola della tua stessa eccellenza? Un'intelligenza così luminosa, che abbracciava tutto con un solo sguardo, aveva anche una volontà talmente forte che fissava le proprie risoluzioni fin dal loro primo determinarsi e le rendeva immutabili, ciò ch'era uno dei più bei tratti e forse il più perfetto della divina rassomiglianza. Ma poiché l'ammirava troppo e ne era troppo preso, egli peccò e, al tempo stesso, divenne implacabile nel male e la sua forza, abbandonata a se stessa da Dio, lo perse per sempre. Sventura, sventura, cento volte sventura alla creatura che non vuol vedersi in Dio e, fissandosi i11 se stessa, si separa dalla fonte del suo essere e, di conseguenza, della sua perfezione e della sua felicità! Quella creatura superba che aveva fatto di sé il proprio dio mise la rivolta in cielo e Michele, ch'era alla testa della schiera in cui la ribellione faceva più stragi, gridò: «Chi è come Dio? n. Donde gli viene il nome di Michele, cioè chi è come Dio))?E come se avesse detto: .Chi è questi che vuol apparire come un altro Dio e che ha detto orgogliosa-
mente: C Salirò fino al cielo -, dominerò tutti gli spiriti e innalzerò il mio trono sopra gli astri di Dio, salirò sulle nuvole più alte., di cui Dio fa il suo carro, « e sarò simile all'Altissimo»"~Chi è dunque questo novello Dio, che vuole innalzarsi in tal modo al di sopra di noi? Ma non vi è che un solo Dio. Uniamoci tutti per seguirlo, ripetiamo insieme: « Chi è come Dio? », perché vediamo cos'è divenuto tutto a un tratto questo falso dio che voleva farsi adorare. Iddio l'ha colpito ed egli è caduto insieme agli angeli che ne hanno seguito l'esempio. Tu che t'iiinalzi nel più alto dei cieli, tu sei precipitato negli inferi, nell'abisso più profondo N, in infmnum detraheris, in profundum lan ,,96. Ma, nonostante la caduta, egli conserva tutto il suo orgoglio, che è al contempo il suo supplizio. Non avendo potuto guadagnare alla sua causa tutti gli angeli, per estendere quanto più è possibile questo regno dell'orgoglio di cui è lo scellerato fondatore, egli attacca l'uomo che «Dio aveva posto al di sotto degli angeli, ma soltanto un poco),, poiché dopo questi era la creatura più elevata, una creatura in cui l'immagine di Dio rifulgeva come negli stessi angeli, sebbene in un grado appena inferiore : « Minuisti cum paulo minus ab angelis. "7. Quest'angelo divenuto ribelle, fattosi Satana il demonio, si rivolge dunque all'uomo che dimorava in paradiso, dove Dio l'aveva reso felice e Santo. Qualsiasi cosa ne tocchi un'altra la spinge verso la direzione del proprio movimento, e il movimento verso cui quest'angelo malvagio è trascinato è l'orgoglio, e giammai ve n'è stato né ve ne potrà essere di più travolgente del suo. Egli dunque spinge
l'uomo nella direzione della sua caduta, e l'impressione che gli comunica è quella che in lui era basilare, vale a dire quella dell'orgoglio: 6 Unde cecidit, inde dqecit ,,". L'uomo era troppo debole per resistervi e l'impero dell'orgoglio, principiato i11 cielo con un sol gesto, si è esteso in tal modo in tutta la terra. Capitolo XXV - Seduzione del demonio, caduta dei nostri progenitori e nascita delle tre concupiscenze, di cui quella dominante è l'orgoglio. Signore Iddio, riandrò nel mio animo alla storia tanto veritiera della mia caduta attraverso colei nella quale io ero insieme a tutti gli altri uomini, nella quale sono stato tentato e vinto, da colei da cui ho ereditato nascendo tutta la debolezza e la corruzione che sento in me. Sventurato frutto del peccato da cui sono nato, prova incontestabile e testimonianza irrefutabile della mia miseria ! Attraverso Eva mia madre, o mio Dio, io ho dato ascolto al tentatore, che le diceva per bocca del serpenteg9: «Perché mai Dio vi ha comandato di non mangiar e il~ frutto di quest'albero? Non è che una domanda, un dubbio quello che si vuole introdurre nel nostro animo : Perché Dio ve lo ha comandat o ? ~ Ma . chi è capace di ascoltare una domanda contro Dio e di lasciarsi turbare dal minimo dubbio, è capace d'ingoiare tutto il veleno. Eva gli rispose dicendo la verità: a Dio ha messo a nostra disposizione tutti gli altri frutti; è solo dell'albero al centro di questo giardino delle delizie che ci ha comandato di non mangiare i frutti,
anzi di non toccarli nemmeno, altrimenti ne morremo » 'O0. Disse il vero, e il primo male fu quello di rispondere, poiché non vi è alcun perché a cui prestare orecchio se si rivolge contro Dio, e tutto ciò che mette in dubbio la ragione e la saggezza sovrane deve perciò destarci orrore. Essendo dunque riuscito a farsi ascoltare, il tentatore passa dal dubbio alla certezza: «Voi non morrete, disse; anzi Dio sa che il giorno che voi mangerete di questo frutto i vostri occhi si apriranno e voi diventerete degli dei e conoscerete il bene e il male '"l; i vostri occhi si aprirebbero e voi vi vedreste in voi stessi invece di vedervi sempre in Dio, avreste un'eccellenza divina e subitamente divenuti degli dei, conoscereste da voi stessi il bene e il male e tutto ciò che può rendervi buoni o malvagi, felici o infelici. Voi ne possiedereste la chiave, potreste entrarvi. a piacimento e sareste assolutamente liberi e indipendenti. Per farsi ascoltare il padre delle menzogne maschera il vero col falso; è vero, infatti, che sollevandosi contro Dio e facendo una divinità di se stessi si divent un certo senso il'maIFThe non si era mai provato, si YpT"888 occhi per vedere la propria infelicità e la confusione dentro di sé che altrimenti non si sarebbero mai viste, come accadde ad Adamo ed Eva non appena ebbero disobbedito: « I loro occhi si aprirono », dice il sacro testo'", « ed essi s'awidero che erano nudi», e la loro nudità cominciò a confonderli. E sorse nei loro cuori una certa illecita attenzione verso se stessi, un arrestarsi alla propria
),
volontà, un amore per la propria eccellenza, e da tutto ciò il segreto piacere di gustare di se stessi ancor prima di gustare il frutto proibito e di compiacersi di sé e insieme della propria perfezione che fino a quel momento, innocenti e semplici com'erano, non avevano percepito che in Dio. Tutto ciò ebbe inizio da Eva, attaccata per prima dal demonio come la più debole, ma le si rivolge parlandole al plurale, riferendosi anche al suo compagno : e Perché Dio ve l'ha proibito ? Cur prcecepit vobis Deus ? Voi non morrete, ma conoscerete: Nequaquam moriemini; scientes » log. Effettivamente fu Eva a proporre al suo compagno la tentazione del maligno che l'aveva sedotta; ella incominciò col considerare quel frutto proibito, che evidentemente non aveva ancora osato considerare per rispettare l'ordine divino, vide che era buono da mangiare e bello da vedere e che al solo sguardo prometteva un gusto gradevole. Mangiandone, Eva si ripromise un nuovo piacere che ancora mancava ai suoi sensi; ne mangiò e ne diede da mangiare al suo compagno che, prendendolo dalle sue mani con gli stessi sentimenti che avevano sedotto lei, ci rese massimamente infelici e fu fonte eterna di peccato e di morte per tutta la sua progenie. Consideriamo dunque tutti i gradi della nostra perdita. In una così grande felicità e facilità di non commettere peccato, non essendovi nel corpo alcuna debolezza né alcuna sorta di concupiscenza nell'animo, l'uomo non poteva essere raggiunto dal male che attraverso il compiacimento di sé, l'amore per la propria eccellenza, se non con l'orgoglio, in una parola. È dunque per mezzo dell'or-
goglio che lo si tenta e che, indirettamente, gli si mostra come Dio sia geloso del suo bene : «Perché il Signore vi ordina di non toccare quel frutto? Perché egli sa che, mangiandone., voi provereste una felicità che egli vi invidia, M diventereste degli dei e otterreste da voi stessi la conoscenza del bene e del male, che è un attributo divino. Era dunque allora che bisognava dire, come San Michele : Chi è come Dio? D. Chi, come Dio, deve compiacersi nella propria volontà, essere in sé perfetto e felice, conoscere ogni cosa e non essere guidato nei propri disegni che dalla propria luce? L'uomo, prendendo esempio dall'angelo ribelle e per sua istigazione, si è lasciato abbagliare da questo vano splendore, e da allora l'amore di sé e della propria grandezza è penetrato nel genere umano, ci è affondato in seno e si manifesta in ogni occasione, infettando tutta la nostra vita e causandoci un'impronta e una piaga così profonde che non si potranno mai cancellare né sanare completamente finché siamo sulla terra. E fu per effetto di queste parole: «Voi diventerete degli dei*. Queste parole produssero in fondo al nostro cuore un'infinita curiosità: poiché l'onniscienza era una qualità propriamente divina il tentatore, facendoci credere d'essere una specie di divinità, aggiunse a questa promessa quella della conoscenza del bene e del male, vale a dire dell'onniscienza, e racchiuse in questo nome le scienze buone e quelle empie e tutto quello che poteva nutrire l'animo con ciò ch'era nuovo, singolare e stupefacente. La conseguenza fu invece l'amore per i piaceri sensuali; guardando con piacere il frutto proibito,
guardandolo prima con gli occhi e immaginando poi con l'appetito il suo gusto delizioso, si è insinuato in noi l'amore per il piacere sensuale, che ci è stato trasmesso dai nostri progenitori e che è penetrato in noi fin nelle midolla e nelle ossa e che ben presto, ahimè, abbiamo awertito in tutto il corpo. Non fu più soltanto il frutto proibito a piacere ai nostri occhi e al nostro gusto: Adamo ed Eva furono l'uno per l'altra la più pericolosa tentazione dei sensi, e si dovette nascondere tutto ciò che aveva un sentore di quel disordine. Capitolo XXVI - La verità di questa storia, i cui e f fetti sono talmente manifesti. Gli spiriti superbi, che disdegnano la semplicità della Scrittura e si perdono nella sua profondità, considerano ingenua e quasi puerile questa storia. Un serpente che parla, un albero da cui ci si aspetta la conoscenza del bene e del male, gli occhi che si aprono appena si mangia il frutto, la perdizione del genere umano attribuita a un'azione così insignificante : quale favola meno credibile può trovarsi in un'opera di poesia? Così dicono gli empi, mentre la saggezza eterna, se viene consultata, risponde invece: perché Dio non avrebbe dovuto proibire all'uomo qualcosa per fargli comprendere meglio di avere un sovrano? Ma non era dunque felice nella condizione posta da Dio, e il comandamento che gli era stato impartito non era facile da seguire ? Cosa vi era di più dolce, in una così grande dovizia d'ogni sorta di frutti, del riservarne uno sol-
tanto? Cosa v'era mai di tanto sconveniente nel fatto che Dio, che aveva creato l'uomo composto di corpo e anima, avesse attribuito agli oggetti sensibili le virtù dell'intelletto e avesse fatto dell'albero proibito una sorta di sacramento della conoscenza del bene e del male? Chissà che non sia stato un disegno della sua saggezza quello di far gustare un giorno questo frutto ai nostri progenitori per donare loro il piacere, dopo avere per qualche tempo messo alla prova la loro fedeltà? Qualunque ne sia la ragione, era forse indegno da parte di Dio sottoporli a questa prova e far dipendere la tanto agognata conoscenza del bene e del male unicamente dalla sua bontà? In quanto poi al serpente, come si poteva volere che Eva ne avesse orrore, come accade ai nostri giorni, al tempo in cui tutti gli animali obbedivano all'uomo e non potevano nuocergli né, di conseguenza, spaventarlo? Ma perché, senza dover credere che le bestie parlassero una lingua, Eva non avrebbe dovuto credere che Dio, dalle cui mani era nata e la cui onnipotenza si manifestava con la creazione di tante cose straordinarie, non avesse potuto creare altri esseri intelligenti oltre all'uomo, e che queste creature le apparissero e si rendessero sensibili sotto forma d'animali? Dio stesso, che aveva creato i sensi, per fare l'uomo perfettamente felice assumeva un'immagine sensibile che però non si manifestava, ma se ne udiva la voce, lo si sentiva camminare e avvicinarsi ad Adamo nel paradiso. Perché dunque altri esseri spirituali diversi dall'uomo non avrebbero potuto mostrarsi ai suoi occhi sotto qualsiasi forma voluta da Dio? I1 ser-
pente allora innocuo, ma che in seguito sarebbe divenuto tanto odioso quanto nocivo all'essere umano, serviva a quel tempo a rappresentare la seduzione più esecrabile del demonio, e le altre qualità di quest'animale erano adatte a raffigurare il giusto supplizio di questo spirito arrogante, abbattuto dalla mano di Dio e reso strisciante a causa del suo orgoglio. Ecco una parte dei misteri della Sacra Scrittura nella sua meravigliosa e profonda concisione. Ma anche senza tutti questi ragionamenti, la storia della nostra perdizione ci è divenuta fin troppo manifesta e credibile per gli effetti che awertiamo su di noi. È Dio che ci ha fatti così superbi, curiosi, sensuali, in una parola così corrotti come siamo ? O mio Dio, non odo ancora tutti i giorni il sibilo del serpente quando esito, nel dubbio se seguire la tua volontà o i miei appetiti? Non è forse il serpente che insinua: e Perché Dio ve l'ha proibito? B quando mi compiaccio di me stesso, quando scorgo dentro di me il più fioco barlume o la minima traccia di una nascente virtù, alla quale mi aggrap po più che a Dio stesso che me ne ha fatto dono, fino a non poterne staccare né lo sguardo né il mio compiacimento, fino addirittura a non poter trattenere il mio cuore, che se l'attribuisce, come se io fossi la mia stessa regola, il mio dio, la causa della mia stessa felicità? Non è ancora il serpente che mi dice: Diventerete degli dei D ? I diversi modi in cui abilmente insinua in noi l'orgoglio non sono forse effetto della sua sottigliezza e non corrispondono alle varie impronte delle sue tortuose spire? Quale fonte di cu-
riosità non mi apre in petto quando mi promette d'aprirmi gli occhi e di farmi trovare, nel frutto che mi mostra, la conoscenza del bene e del male? E al minimo assalto del piacere sensuale io mi sento così debole che le mie risoluzioni, che credevo tanto ferme nell'amore di Dio, di colpo si disperdono nell'aria, senza che la mia ragione impotente possa opporsi neanche per un momento a questa attrazione. E cos'altro è mai, ahimè, se non il serpente che mi porge questo frutto insidioso? Lo scorgo ancora da lontano e già i miei occhi ne sono invaghiti. E quale subdolo piacere mi scorre nelle vene se lo tocco ! E come mi perderò se ne mangio ! E dunque tanto incredibile che l'uomo sia perito alla sua condizione originaria per colpa di ciò che mi rende ancora talmente infermo o, piuttosto, per ciò che mi dimostra che sono veramente morto a causa del peccato? Capitolo XXVII - San Giovanni spiega la corruzione originale nelle tre concupiscenre.
È quindi evidente che San Giovanni, spiegandoci i tre aspetti della concupiscenza, della carne e dei sensi, degli occhi e della curiosità e infine dell'orgoglio, è risalito all'origine della nostra corruzione, nella quale abbiamo trovato la triplice concupiscenza, la tentazione del demonio e il consenso del nostro progenitore. Cosa ha inteso ottenere il demonio, se non di farci superbi al par suo, sapienti e curiosi come lui e infine sensuali, a differenza di lui, ch'era incorporeo, e ci ha resi tali avvilendo il nostro spirito fino al punto di renderlo
schiavo del corpo, per cancellarvi quanto più è possibile l'immagine di Dio, facendolo cadere con ciò nella bassezza e nell'abiezione più estreme? Ecco le tre concupisceiize. San Giovanni le riporta in un ordine diverso da quello in cui appaiono nella storia della tentazione appena esaminata poiché, in questa storia che ci riconduce alle nostre origini, lo Spirito Santo ha voluto tracciare tutto il piano della nostra caduta. Bisognava che la teiltazione cominciasse con l'ispirare l'orgoglio da cui derivava la curiosità, che, come abbiamo visto, genera a sua volta l'ostentazione, e che infine la nostra caduta si concludesse, come punto più basso, nella corruzione della carne. Poiché quindi la nostra caduta è avvenuta per gradi, Mosé, che prima ci considerava ancora saldi nella rettitudine della nostra condizione originaria, ha voluto mostrare i nostri mali appena si sono presentati. Ma San Giovanni, che ci ha trovati già nella perdizione, risale per gradi dalla concupiscenza della carne alla curiosità della mente fino al principio primo e al colmo di tutti i mali, vale a dire all'orgoglio della vita. Chi può dire quale complessità, quale infinita varietà di mali sono scaturiti da queste tre forme di concupiscenza? Si teme, si spera, si dispera, si tenta, si avanza e si indietreggia seguendo i desideri, seguendo cioè le concupiscenze a noi note; non s'invidia, non si strappa agli altri che il bene che si desidera per sé. Non diventiamo nemici di alcuno se non quando veniamo contrastati, non siamo ingiusti, rapaci, violenti, traditori, vili, ingannatori, adulatori che a seconda dei diversi coiivincimenti dati dalle nostre concupiscenze e non vogliamo eli-
minare che quelli che vi si oppongono o che vi nuocciono in qualsiasi modo, sia di proposito che involontariamente: non aspiriamo ad ottenere potere, credito o beni che per soddisfare i nostri desideri. Non vogliamo renderci temibili che per spaventare quelli che potrebbero contraddirci; non meditiamo che per avere sempre pronta l'arma della lingua e per innalzarci sull'altrui rovina. Mio Dio, in quale abisso sono sprofondato, quale infinità di peccati mi sono accinto a descrivere! Questo è il mondo creato da Satana, è la sua creazione che si contrappone a quella divina. Ecco perché San Giovanni ci esorta tanto amorevolmente: «Figlioli miei, non amate il mondo né ciò che è nel mondo, poiché tutto ciò che è nel mondo», in qualunque modo lo si chiami, qualsiasi tinta assuma, M non è n, dopotutto, ((che amore per i piaceri dei sensi D, che curiosità e ostentazione, e infine, quel «sottile orgoglio » con cui l'uomo, inebriato della propria eccellenza, si attribuisce l'opera di Dio e si corrompe facendo uso dei suoi doni. )>
Capitolo XXVIII - Delle seguenti parole di San Giovanni: «tutto ciò non viene dal Padre, ma dal mondo M, che spiegano queste altre parole dello stesso Apostolo: cc Chi ama il mondo non ha in sé l'amore del Padre M. Tale è dunque l'opera del demonio opposta a quella di Dio, ed è perciò che San Giovanni, dopo aver detto: «Noil amate il mondo, né ciò che è nel mondo, poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi o
orgoglio della vita », aggiunge : M tutto ciò m, vale a dire la concupiscenza suddivisa nei tre generi, non viene dal Padre, ma dal mondo » 'O4! Non è opera del Padre, che originariamente non aveva ispirato all'uomo altro che la sottomissione a Dio soltanto, la sobrietà dello spirito, per non sapere né vedere in tutte le cose che lo circondano se non ciò ch'egli voleva e la perfetta soggezione della carne allo spirito. Le concupiscenze nominate da San Giovanni non vengono dunque da Dio e non trovano posto nella sua opera. Guardando infatti le sue opere create per essere ammirate, tra le quali la migliore è l'uomo, egli aveva detto che «tutto era buono, molto buono»lo5,e pertanto egli non ha creato la concupiscenza, ch'è malvagia nell'origine e negli effetti, né il mondo, ch'è interamente nel male, in maligno», come dice San Giovanni'06. La concupiscenza proviene dal mondo creato da Satana, da quella falsa creazione di cui è autore, è nata in Adamo col mondo e, trasmessa per suo tramite al genere umano, ne ha formato questo mondo che non è che corruzione. State ben attenti dunque a non amare mai alcun aspetto di quest'opera, in cui Dio non vuol avere alcuna parte. Da qualunque lato il mondo voglia attirarvi, sia che lo faccia attraverso voi stessi facendovi ammirare la vostra perfezione o incitandovi ad amare l'ostentazione del sapere e le altre vanità di cui si nutrono le creature, o ancora facendovi dilettare nei piaceri di cui la carne è la fonte e l'oggetto, non lasciate in nessun modo che questa seduzione si insinui dentro di voi. Non lasciate ch'essa si insinui in voi da nessun lato, vi ripeto, poiché
non v'è nulla che venga da Dio: appartiene tutto al mondo, ch'egli non ha creato, che detesta e condanna. Ed è anche ciò che fa dire al suo Apostolo: «Chi ama il mondo- e la più insignificante delle sue lusinghe fino a donarle il proprio cuore, «non ha in sé l'amore del Padre »'O7. Non si può amare Dio e il mondo, non ci si può destreggiare tra i due, dandosi ora all'uno ora all'altro, un po' all'uno e un po' all'altro. Dio vuole tutto, e per poco che vi sottraete a lui, questo poco voi lo darete al mondo, che alla fine travolgerà completamente il vostro cuore e diverrà tutto per voi. Capitolo XXIX - Di queste parole di San Giovanni: «Il mondo passa e passa la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno». Dopo aver parlato del mondo e delle piaghe della concupiscenza, San Giovanni svela la causa del nostro errore e al tempo stesso il rimedio di ogni disordine nelle ultime parole del passo che abbiamo citato : « I1 mondo passa e passa la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno n 'O8. E come se dicesse : A cosa vi fermate, insensati? Al mondo, al suo splendore, ai suoi piaceri? Non sapete che il mondo passa? Le giornate sono ora serene ora nuvolose, le stagioni ora miti ora inclementi, le annate ora prospere ora infruttuose e, passando dal mondo naturale a quello morale, che è quello che ci affascina e c'incanta, gli affari sono ora riusciti, ora errati e la fortuna è sempre incostante. I1 mondo passa, «l'immagine di questo mondo passa»log.I1 mondo che amate non
è una verità, un oggetto, un corpo: è un'immagine, uil'immagine vuota, lieve, effimera, che il vento porta via e, ancor più impalpabilmente, un'ombra che si dissolve da sé. « I1 mondo passa e passa la sua coi~cupiscenza~~ ; non solo il moiido è di per sé mutevole, ma muta anche la concupiscenza: il cambiameilto avviene da entrambi i lati. I1 mondo cambia sovente per voi: quelli che vi favorivano e vi amavano 11011 vi favoriscono e non v'amano più e spesso, anche se non cambiano, siete voi a cambiare. Vi assale il disgusto; una passione, un piacere, un gusto ne scaccia un altro e voi siete in balia del cambiamento e dell'incostanza. Ascoltate il Saggio: La vita umana è una fascinazione » Il0,un abbaglio degli occhi : si crede di vedere ciò che non si vede, si guarda tutto con occhi infermi. Voi che l'amavate così perdutamente, ora non l'amate più? «Ero abbagliato, avevo gli occhi ammaliati, annebbiati)). Ma chi ve li aveva ammaliati? «Una passione insensata: mi sembra un sogno che si sia dissolto ». Aggiungete all'inganno la follia, la vuotaggine, la stupidità: « Fascinatio nugacitatis* l"; aggiungetevi l'incostanza della concupiscenza: Inconstantia concupiscentia»,ed ecco il suo carattere. Essa si muove con movimenti irregolari, a seconda di come soffia il vento. Non soltanto si vogliono cose diverse se si è sani o ammalati, se si sta vivendo l'infanzia o la giovinezza, la maturità o la vecchiaia, se si è in un periodo buono o cattivo ; si vogliono cose differenti di notte, quando si presentano i pensieri cupi, o di giorno, quando vengono dissipati. Persino alla
stessa età e nelle medesime condizioni si cambia senza sapere perché: il sangue si sommuove, il corpo si altera, l'umore varia. Oggi ci si trova diversi da ieri senza sapere il perché, tranne che si ama il cambiamento: la varietà diverte, allontana la noia. Non si cambia per essere migliori, ma perché momentaneamente la novità ci affascina: Inconstantia concupiscentice». Fate attenzione », diceva Mosé ' l 2 , N ai vostri occhi e ai vostri pensieri: non seguiteli, poiché i loro diversi oggetti vi contamiilerail~loH. Rammentiamoci ,,; dice San Paolo l'" ((ciò che noi tutti eravamo un tempo, quando vivevamo nei desideri della carne e facevamo la volontà della nostra carne e dei nostri pensieri D. I pensieri e i desideri che sorgono nel nostro animo e nel nostro cuore sono più numerosi delle onde del mare, si cancellano l'uno con l'altro e di volta in volta ci trascinano con sé e noi seguiamo in preda ai nostri desideri: non vi è più chi diriga, la ragione dorme e si lascia trasportare dai flutti e dai venti. Sant'Agostino paragona l'uomo che ama il mondo, che è guidato dai sensi, ad un albero che, ergendosi tra i venti, è percosso da un lato e dall'altro, a seconda di dove soffia il vento: M Tali sono gli uomini sensuali e voluttuosi ; sembrano giocare col vento e godere di una cert'aria di libertà, portando in giro i loro vaghi desideri D. Tali sono dunque gli uomini del mondo, che vagano di qua e di là con estrema incostanza e chiamano libertà il loro traviamento. Come un bambino che si crede libero quando sfugge alla mano di chi lo guida, egli corre tutt'intorno senza sapere dove andare.
O uomo, non vedrai dunque mai il tuo errore? Questi desideri che incessantemente ti travolgono non sono che dei vaneggiamenti, delle immagini futili che vagano in un cervello vuoto: basterebbe la salute per dissiparle. La tua salute, uomo, è fare la volontà del Signore e attenerti alla sua parola: I1 mondo passa, la concupiscenza passa., dice San Giovanni Il4, ma chi fa la volontà del Signore dura in eterno.: più nulla è passeggero, tutto è fisso e immutabile. O uomo, tu sei stato creato per questo stato immutabile, per questa stabilità, per questa eternità; sei stato fatto per essere un'anima sola con Dio e per partecipare alla sua immutabilità. Se ti leghi a ciò che è passeggero, un'altra immutabilità, un'altra eternità ti attende: non un'eternità piena di luce, ma tenebrosa e infelice, e ti rendi degno del male eterno per aver fatto perire dentro di te il bene che doveva esservi : Et factus est malo dignus ~ t e r no, cui hoc in se peremit bonum, quod esse posset ceternum » Il5. Per questo, dice San Giovanni, fratelli miei, figlioli miei, <<nonamate il mondo, né ciò che è nel mondo., poiché nel mondo tutto passa e va in pura perdita. Non fermiamoci alle cose visibili ma a quelle invisibili, perché quel che si vede è tempo rale, mentre quel che non si vede è eterno. Questo momento così breve delle lievi tribolazioni di questa vita),, delle quali tanto ci lamentiamo e che ci fanno spazientire, «produrrà in noi una sorprendente e insperata sovrabbondanza, e tutta l'eterna magnificenza di una gloria senza fine D Il6.
Capitolo XXX - Gesù Cristo vuol mutare dentro d i noi, mediante tre santi desideri, la triplice concupiscenza ereditata da Adamo. Ecco dunque la follia e l'errore dell'uomo. Dio l'aveva creato felice e santo, questa bontà della sua natura era immutabile poiché Iddio, quando dà, non ritira di sua volontà, dal momento ch'egli è Dio ed è immutabile: ~ E g oDominus, et non muto~»"'.L'uomo non aveva dunque che da non cambiare e sarebbe rimasto in uno stato immutabile, ma egli ha voluto cambiare e ne è conseguita la triplice concupiscenza ed è divenuto superbo, curioso, sensuale. Ma per guarire l'uomo da questi mali Dio ha inviato un Salvatore umile, un Salvatore che si prende cura soltanto della salvezza dell'umanità, un Salvatore immerso nella sofferenza, un uomo di dolore. I1 superbo attribuisce tutto a se stesso e Gesù, che fa cose tanto grandi, la cui dottrina è talmente sublime e le cui opere sono così mirabili, non attribuisce nulla a se stesso: N La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato D Il8. « I1 Padre mio, che dimora in me, ha fatto le opere. che voi ((11mio cibo è fare la volontà del Padre mio»"0. Egli ha degli eletti, e questa è la sua gloria, ma è il Padre che li ha donati a lui: se «non si può toglierli. a Gesù, è perché suo «Padre, che li ha donati» a lui, è il più grande di tutti, e nulla può essere donato se non dalle sue mani «onnipotenti»"'. « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra»'*', io lo possiedo, ma mi è stato donato, ho in me la vita eterna e la dono a chi
voglio, ma è il Padre mio che d i ha dato il potere d'avere in me la vita: «Voi berrete dal mio calice, ma non sta a me decidere chi sarà seduto alla mia destra o alla mia sinistra, ma costoro l'avrailno dal Padre mio che l'ha stabilito ,,"'. È lui che dispone di me e dei posti che verraiino occupati attorno a me: egli ha il domiiiio del tempo, e io non soiio che il ministro dei suoi disegni. Ascolta, cristiano: non essere superbo, non fare la tua volontà e non attribuirti nulla: tu sei un discepolo di Gesù Cristo, che fa la volontà del Padre suo, che riferisce tutto a lui e gli attribuisce tutto quello che fa. Gesù Cristo era «la sapienza e la saggezza di Dio quale dottrina non avrebbe potuto divulgare? Ma egli non manifesta alcuna sapienza se non quella della salvezza. In verità, sotto questo aspetto la sua sapienza è suprema, ma nelle cose umane egli non è curioso né di dottrina né d'eloquenza. Non mostra alcuna studiata ricercatezza, le sue similitudini sono tratte dalle attività più comuni, dall'agricoltura, dalla pesca, dal traffico, dalla merce, dall'economia, da ciò che è più consueto e più noto, tanto ai re quanto al resto della gente. Egli vela i segreti divini dietro un'apparente prosaicità senza alcuna ostentazione, e dice soltanto ciò che il Padre suo gli mette in bocca per istruire l'umanità; non vuole che tra i suoi discepoli vi siano saggi, sapienti, ricchi, nobili o potenti; la sola sapienza che bisogna avere alla sua scuola « è di conoscere Gesù Cristo, anzi Gesù Cristo crocifi~so~~'~': il più dotto dei suoi discepoli non vuol sapere altro, ed è soltanto di questo che si gloria.
Sarà forse curioso di ciò che accade nel mondo o dei disegni della politica? Nient'affatto: egli, in verità, si lascia riferire quanto è awenuto a quelli il cui sangue Pilato aveva mescolato coi loro sacrifici, ma senza soffermarsi su questa notizia più che su quella della torre di Siloe, la cui caduta aveva ucciso diciotto uomini, e ne trae le sue conclusioni soE lamente per trarre profitto da quell'esempio per quanto concerne la politica, egli dimostra di conoscere a fondo quella d'Erode e ciò che questi andava tramando in segreto contro di lui, ma soltanto per disprezzarla, e ciò gli fa dire: «Andate a dire a quella volpe che *, malgrado lui e le sue sottigliezze, a io scaccerò i demoni, guarirò i malati oggi e domani e che n, qualsiasi cosa egli faccia, «io non morrò che al terzo giorno ,,l'', con ciò intendendo dire il terzo anno, poiché quello è il momento stabilito dal Padre suo. Questo è tutto quel che bisogna conoscere delle cose del mondo: che Dio ne dispone e che si svolgeranno secondo i suoi piani. Ecco perché, essendo stato chiamato dallo stesso Erode, lungi dall'accontentare il suo vano desiderio di assistere a dei miracoli, non solo non lo degna nemmeno di una parola, ma per umiliare la vanità e la curiosità dei politici della terra si lascia trattare da pazzo da costui e da dissennato dalla sua corte curiosa, che in segno di disprezzo gli fa indossare una veste bianca, come si fa coi folli. Gesù non li rimprovera né li punisce: tocca alla giustizia divina punire come si conviene e convincere i folli ad allontanarsi da costoro senza degnare di farsi riconoscere, e di lasciarli alla loro cecità. Se Gesù non si cura delle scienze né delle noti-
zie del mondo, ancor meno si interessa ai ricchi abiti e agli arredi lussuosi : N Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo ,noil ha dove posare il capo n 12'. Dorme su una barca, sopra un guanciale altrui. Non si creda che resti abbagliato dal lusso dei palazzi: quando gli si mostrano le belle pietre e la magnifica architettura del tempio, egli non le guarda che per annunciare che tutto quello sarebbe stato ben presto distrutto '%l. Nella città di Gerusalemme, tanto bella e superba, egli non vede altro che la sua prossima rovina e, piuttosto che lanciare sguardi curiosi, i suoi occhi non versano per essa che delle lacrime. Infine, per combattere la concupiscenza della carne, egli oppone al piacere dei sensi un corpo tutto immerso nella sofferenza: le spalle straziate dalla sferza, la testa incoronata di spine e percossa con una canna da mani impietose, il volto ricoperto di sputi, gli occhi spenti e le guance incavate e livide per gli ansiti, la lingua inzuppata di fiele e aceto e, dentro, un'anima triste fino alla morte, e spavento e desolazione e uno sconforto inauditi. Immergetevi nei piaceri, mortali: ecco il vostro Maestro, distrutto corpo ed anima dal dolore. Capitolo XXXI - Delle parole di San Giovanni: «Scrivo a voi, padri, scrivo a voi, gzovani, scrivo a voi, fanciulli Ricapitolarione di quel ch è' contenuto in questo brano dell'iipostolo. N.
In tanta sofferenza, Gesù non ci dice altro se non ciò che a suo nome ci ripete il suo beneamato Apostolo: «Non amate il mondo né ciò che è nel
mondo*, poiché con la mia crocifissione l'ho ricoperto di vergogna e d'orrore ; non amate le concupiscenze, che con la mia morte ho dichiarato malvagie. Non presumete di voi stessi, perché è da qui che hanno origine tutti i peccati, è così che vostra madre è stata sedotta e che vostro padre vi ha dannati. Non desiderate la gloria degli uomini, poiché ne ricevereste la vostra ricompensa e non avreste da attendervi che inevitabili supplizi. Non gloriatevi di voi stessi, poiché tutto ciò che vi attribuite nelle vostre buone opere lo strappate a Dio, che ne è l'autore, sostituendovi a lui. Non scrollatevi di dosso il giogo della disciplina del Signore e non dite a voi stessi, come un ribelle orgoglioso : a Io non servirò D lgO,perché se non servite la giustizia diverrete schiavi del peccato e figli della morte. Non dite mai: Non sono contaminato 13', e non crediate che Dio abbia dimenticato i vostri peccati solo perché siete voi ad averli dimenticati, perché il Signore vi risveglierà dicendovi : « Osservate il vostro percorso in quella valle segreta. Io vi ho seguito ovunque, ed ho contato tutti i vostri passi ,,'". Non resistete ai saggi consigli e non adombratevi quando siete rimproverati, poiché ribellarsi alla verità persino quando ci mette in guardia e recalcitrare allo sperone è il colmo dell'orgoglio. Non cercate di conoscere molto; imparate la sapienza della salvezza; ogni altro sapere è vano e, come diceva il Saggio : « In molta sapienza v'è molto furore e sdegno, e chi accresce il sapere accresce il dolore D Is3.
Non siate curiosi delle cose vane, delle novità, della politica, delle ricche vesti, delle case superbe e dei giardini deliziosi: Vanità delle vanità, ha detto l'Ecclesiaste, «vanità delle vanità, tutto è Suo malgrado le creature sono soggette alla vanità P e ne sono colpite, ma dovranno gemere fino a quando non si saranno liberate del giogo e saranno chiamate alla libertà che è dei figli di Dio >, Non desiderate di ammassare tesori né di nutrire i vostri occhi con oro e argento, poiché «dove sarà il vostro tesoro, là sarà il vostro cuore >,'" e non ascolterete più la Chiesa, che vi grida con tutte le sue forze, ogni volta che viene officiato l'offertorio: Sursum corda», in alto i cuori. Non amate i piaceri dei sensi, non posate i vostri occhi su un oggetto che li attrae, e rammentate che Davide è morto per uno sguardo l''. Non godete del buon cibo che appesantisce il cuore, né del vino che vi accende in seno il fuoco della concupiscenza: «I1 suo colore., dice il Saggio '", a inganna nella coppa, ma alla fine vi morde come una serpe n. Non prendete gusto ai canti che rilassano il vigore dell'anima, né a quelli d'amore, che fanno penetrare la mollezza dalle orecchie fino al cuore. Non amate gli spettacoli del mondo, che lo fanno apparire bello nascondendone la vanità e la bruttura. Non assistete agli spettacoli teatrali, poiché vi accade tutto ciò che accade nel mondo, di cui sono l'immagine : concupiscenza della carne, degli occhi o orgoglio della vita. Vi si rendono dilettevoli le
passioiii e tutto il piacere che se ne trae sta nel risvegliarle. Non crediate di essere innocenti scherzando sui vizi altrui o prendendovene gioco: è così che si nutrono i propri. Chi è spettatore di ciò che awiene all'esterno, dentro di sé in segreto è attore. Queste malattie sono contagiose e dalla finzione si giunge alla realtà. a Io scrivo a voi, padri ; scrivo a voi, giovani ; scrivo a voi, fanciulli-, dice San Giovanni Egli parla a tre età: ai padri che son già vecchi o si awicinano alla vecchiaia, ai giovani nel pieno del loro vigore, e ai fanciulli. Vegliardi, che debilitati dall'età riponete la vostra gloria nei figli, ponetela piuttosto nel conoscere colui il quale è dall'inizio dei tempi e nel considerarlo il Padre vostro. Giovani, San Giovanni si rivolge a voi due volte. Voi che vi fate un vanto della vostra forza e volete travolgere ogni cosa con i vostri ardenti assalti e la vostra foga impetuosa, riponete piuttosto la vostra gloria nel vincere il maligno, che ispira ai vostri giovani cuori tanti desideri, tanto più pericolosi quanto più appaiono dolci e seducenti. Dirò una parola ai fanciulli e poi tornerò ancora a voi, giovani, che correte pericoli tanto grandi. Fanciulli, è per tenerezza che vi chiamo così, e poiché non rivolgerò le mie parole a quelli che sono nella culla, ché non sono ancora in grado d'intendermi; mi rivolgo a voi, fanciulli, che incominciate ad avere la conoscenza: dal momento in cui essa s'affaccia, fate in modo di conoscere il vostro vero padre, che è Dio. Onoratelo nei vostri genitori, che
soiio l'immagine della sua eterna paternità, abbiate in cuore il timor di Dio e imparate per tempo a lasciarvi ammaestrare, correggere e condurre dalla sua saggezza. Non vi si insegni ad amare l'ostentazione e l'eleganza, e la vanità non sia in voi né l'attrazione né la ricompensa del bene che fate e, soprattutto, non ci si prenda gioco delle vostre passioni e voi, genitori, non recitate di queste commediole in famiglia, giacché questi giochi ancora innocenti vengono da un fondo che non lo è. Le fanciulliiie non imparino troppo presto che è d'uopo avere degli spasimanti: i ragazzi sono fin troppo pronti a fare i galanti. I1 vizio nasce senza pensarci, e non si sa quando incomincia a germogliare. Torno infine a voi, giovani. È vero, voi siete nel pieno delle vostre forze, fortes estisn 140, ma la vostra forza non è altro che debolezza, se non si manifesta che attraverso l'ardore e la violenza delle vostre passioni. Che la parola di Dio viva in voi; cominciate con l'ascoltarla, cominciate col riverirla. Voi volete portarla in tutto il mondo, ma vi ho già detto che colui al quale bisogna portarla è il maligno che vi tenta. Padri già avanti negli anni, giovani, fanciulli, cristiani tutti, ripetiamo tutti insieme: «Non amate il mondo, né ciò che è nel mondo., poiché tutto quanto è nel mondo non è che amore per i piaceri, curiosità e ostentazione, e inoltre orgoglio innato, che soffoca la virtù ancora in germe e, perseguitandola senza sosta, la corrompe non soltanto al suo nascere, ma anche quando sembra aver raggiunto il suo accrescimento e la sua perfezione.
Capitolo XXXII - Della comune radice della triplice concupiscenza, che è l'amore di sé, al quale bisobgna porre il santo e puro amor di Dio. Ricordiamoci, o infelici figli d'Adamo, che abbandonando Dio, il quale è l'origine e la perfezione del nostro essere, noi ci attacchiamo a noi stessi, e che il peccato originale consiste in questo amore cieco e sventurato, specialmente nell'amore della nostra eccellenza. Questo è quel che ci rende veramente dei di noi stessi, idolatri dei nostri pensieri, delle nostre opinioni, dei nostri vizi, persino delle nostre stesse virtù, incapaci di trarre profitto non soltanto dai falsi beni del mondo da cui siamo dominati e trascinati, ma persino dai veri beni che ci vengono da Dio, poiché invece di elevarci a colui il quale li dona per unirci a lui, noi, non so come, ci attacchiamo ad essi, come se ci appartenessero o ne fossimo gli autori. I1 libero arbitrio che ha già ingannato i nostri progenitori ci seduce ancora e dal momento che tu, mio Dio, hai voluto che concorresse alla tua grande opera, cioè alla nostra santificazione, esso, senza considerare che sei tu, o segreto motore, che hai ispirato la sua retta risoluzione, si ferma inspiegabilmente in se stesso e crede d'essere qualcosa, invece del nulla che è. Dio mio, santificaci nella verità, facci diventare santi non ai nostri occhi ma ai tuoi, nascondici a noi stessi e facci rit.rovare soltanto in te. Mi sono levato di notte, come Davide, <
inai visto, Signore, e quale mirabile visione degli effetti della tua luce infinita! I1 sole avanzava emanando un biancore celestiale che si spandeva da tutte le parti; le stelle erano scomparse e si era levata la falce della luna crescente, d'un color argenteo così bello e vivo ch'era un incanto per gli occhi, e mostrandosi chiara e illuminata dal lato volto verso il sole, sembrava che volesse rendergli onore. Tutto il resto era oscuro e tenebroso, mentre il piccolo semicerchio riceveva da quella parte soltanto il radioso chiarore dei raggi del sole, come se questo fosse il creatore della luce. Quando il sole si volgeva verso la luna essa riceveva un po' di luce da quel lato, e più aveva il sole di fronte, più la sua luce aumentava. Quand'esso l'aveva interamente di fronte l'altra era piena, e più riceveva luce, più rendeva onore a quello da cui le proveniva. Ma ecco un nuovo omaggio al suo celeste rischiaratore: più il sole s'awicinava, più vedevo l'esile falce crescente diminuire e lentamente sparire, e quando il sole si fu mostrato interamente la sua pallida luce fioca scomparve, persa in quella del grande astro, dentro la quale sembrò come assorbita. Si vedeva bene ch'essa non poteva aver perduto la sua luce con l'avvicinarsi del sole che l'illuminava: il piccolo astro cedeva al più grande, la debole luce si confondeva con quella sfolgorante e il posto della luna crescente, prima tanto preminente tra le stelle, spariva dal cielo. Dio mio, eterna luce, questa è l'immagine di ciò che accade all'anima mia quando tu la rischiari. Essa non viene illuminata che dal lato in cui la guar-
di: là dove i tuoi raggi non penetrano non è che tenebra, e quand'essi si ritirano completamente l'oscurità e lo smarrimento soiio assoluti. Cosa devo fare, Signore, se non riconoscere che tutta la luce che ricevo promana da te? Se allontani il tuo viso da noi veniamo awiluppati da una notte che ci impaurisce; tu solo sei la luce della nostra vita. I1 Signore è la mia luce e la mia salvezza: cos'ho da temere? I1 Signore è la protezione della mia vita: di che cosa dovrei aver paura?». Noi siamo tra quelli a cui l'Apostolo ha scritto: «Eravate un tempo tenebre, ora siete luce, in nostro Signore .'41 È come dire: Se voi foste luminosi da voi stessi, pieni di santità, di verità e di virtù, e se foste voi stessi la vostra luce, non sareste mai stati nelle tenebre, e la luce non vi avrebbe mai abbandonato. Ma adesso voi riconoscete, grazie al vostro traviamento, di non poter essere rischiarati che da una luce che viene dal di fuori e dall'alto. E se voi siete luce, è soltanto in nostro Signore. O luce impenetrabile con la quale illumini tutti gli uomini che vengono al mondo, e in particolare quelli di cui è scritto: «Vivete da figli della luce »,'41 oltre all'omaggio che ti dobbiamo di attribuire a te tutta la luce e tutta la grazia che è in noi, poiché l'abbiamo ricevuta unicamente da te che sei il vero creatore della luce, noi te ne dobbiamo anche un altro: la nostra luce deve perdersi nella tua e svanire al tuo cospetto. Sì, o mio Signore, ogni luce creata che non sia la tua, per quanto promani da te, ti deve questo sacrificio, deve annientarsi e scomparire alla tua presenza, e scomparire princi-
palmente ai nostri propri occhi di modo che, semmai vi sia in noi qualche luce, possiamo vederla non in noi stessi ma in colui che ci hai mandato «per esserci sapienza e giustizia, saiitificazione e redenzione D '44,affinché N colui il quale si gloria, si glori » non in se stesso, ma unicamente in nostro Signore )> 14'. Ecco, mio Dio, il sacrificio che ti offro e l'oblazione pura della nuova alleanza, che ti deve essere offerta in Gesù Cristo e per Gesù Cristo in tutta la terra. Io te l'offro, o Dio vivente ed eterno! Voglio offrirtelo ad ogni mio respiro; ad ogni mio pensiero voglio pensare a te, che sei tutto il mio amore, poiché a te devo tutto. Non sei soltanto il lume dei miei occhi, poiché quando li apro per guardare la luce che hai donato loro, sei tu che me ne ispiri la volontà. O Signore, dal quale ricevo ogni cosa, io t'amerò per sempre. Ti amerò, Dio mio, tu che sei la mia forza. Accendi in me quest'amore, inviami dal più alto dei cieli e dal tuo eterno seno il tuo Spirito Santo, questo Dio d'amore che fa di tutti quelli che santifichi un cuore e un'anima soli. Ch'esso sia la fiamma invisibile che possa consumare il mio cuore d'un amore santo e puro, d'un amore che non trattenga nulla per sé, nemmeno il più piccolo piacere, ma che rimandi a te solo tutto il bene che riceve da te. Mio Dio, soltanto il tuo Spirito Santo può operare questo prodigio; fa ch'esso sia dentro di me come un carbone ardente, che purifichi le mie labbra e il mio cuore in tal sorta che non vi sia in me
più nulla di mio, e che l'incenso ch'io brucerò al tuo cospetto, nel momento stesso che verrà deposto in questo braciere ardente che accenderai nel profondo della mia anima, esali tutti i suoi fumi al cielo senza che me ne resti nulla, per mandarti un grato profumo. Ch'io non mi compiaccia che in te, che i11 te soltanto io trovi la mia felicità e la mia vita, adesso e nei secoli dei secoli. Amen, Amen.
Legenda
Da La Sacra Bibbia: Am AP At Cn Col l & Ec Ecli Ef Est Ez Gal Gb Gc Gdt Ger Gn Gv l Gv Is Lc Mc M1
= Amos = Apocalisse =
Atti degli Apostoli
= Cantzco dei Cantici = Lettera ai Colossesi =
Prima lettera ai Corinti
= Ecclesiaste = Ecclesiastico = Lettera agli Efesini = Ester = Exechiele =
Lettera ai Galati
= Giobbe = httera di = Giuditta = Geremia
S. Giacomo
Genesi Vangelo di S. Giovanni = Ainza lettera di S. Giovanni = Isaia = Vangelo di S. Luca = Vangelo di S. Marco = Malachia = =
Mt Nm Pro 2Pt 2 Re Rm Sal SaP
=
Vangelo di S. Matteo
= Numeri = Proverbi
Seconda lettera di S. Pietro Secondo libro dei Re = Lettera ai Romani = Salmi = Sapienza
=
=
Dalle Opere di S. Agostino: = Contra duas Epistolas Pelagianmm CeP Conf = Confessiones (Le Confessioni) De civ. Dei = De ciuitate Dei = De diversis questionibus ad Simplicianum libri D4 h. = Sennones passim
S. Cipriano: Jud. @i.
=
Test. aduersus Judaos ad @irin.
S. Fulgenzio : Epastole Ep. Pel.
=
Contra duas Epistolas Pelagianorum.
la.,11, 15, 16, 17.
' Ibid., 12, 13, 14.
Gv., I, 10. Ivi, W ,17. "vi, XV, 18, 19. "vi, XVI, 33. Ivi, XVII, 6. Ibid., 9. Ibid., 11. 'O Ibid., 14, 15, 16, 17. " Ibid., 25. l2 Rm,VII, 24. l3 Sap., IX, 14, 15, 16. l4 Ecli., XL, 2. '"eli., i.,,2-12. l" SII.,XLVIII, 13 e 21. l' Rm.,WI, 18. I' Ivi, 21. '"t., XIV, 16. G n j , 1. X, cap. XXXI et al. l&., VII, 25. n Gb., XXXI, 1. 2Pt, 11, 14. Mt., V, 28. 25 h., VII, 18. Rm.,11, 5.
'
'
*'
Gal., V,17. G., 111, 6, 7.
Ec., VII, 30. Gn,11, 25. : ' l Ibid., 111, 10, 11. 32 Ivi, 7. 3 ' : De dv. Dei, I. X N , cap. XV. &, VI, 5. Ivi, 2. Confess., I. X. :l7 Mt., VII, 1. SUL,W, 3. Ecli., 111, 22. * h., m,27. Rm., XII, 3. 42 Ec., V, 9, 10. 43 Ivi, 17, 18 44 Ibid., IV, 8. 45 PIO., XXVII, 20. 46 Ec., 11, 19. 47 Ivi, V, 14, 15. Rm., 11, 5. 4"a~., CXLIII, 15. Ivi, VIII, 4. 51 Mt., VI, 28, 29; cn.,111, 11. "' Sap., XIII, 3. 5s Sal, XXV. 8. Ibid., 9. 55 SUL, CXLIII, 12. 5G Ivi, CXVIII, 37. 57 l&., VII, 31. Eji., W ,15, 16, 18. 59 Nm., W ,39. ~c dv. Dà, 1. XIV, cap. XII1. G1 Cn.,111, 5. " Ec., VI, 30. '" Sup., XI, 17. 'M "O
"' "
"
"
"
Ez., XXVIII, 18. De civ. Dei, I . XIV, cap. XXVIII. Is., XL, 15. Ibid., 17. Gen., 111, 1. '* Rm., VII, l l . 70 De div. qumt. ad Simpl., 1. I, n. 3 e segg. 71 Mt., XI, 30. 72 Gb., 12. 73 De &. Dei, I . XIV, cap. XIII e segg. 74 Gal., V, 19. 75 Pro., V I , 26. 7G Gdt., XII, 11. 77 COnJ, I. X, cap. XXXVII e segg. 78 Am., VI, 14. 79 S m . , CXLI. Mt., VI, 2. S. Agostino, Salm., CXVIII, h. XIL. Mt., XXIII, 5; VI, 2, 5, 16. Lc., XVIII, 11. 84 Ibid. 85 Sal., XXXIII, 3. ck.XVII, , 5. 87 S. Cipriano, Test. adversus Judaos ad Quirin., l. 111, cap. IV, S. Agostino, Contra duas Ep. Pelag., lib. IV, cap. X. Rm., X, 3. m PCor, 111, 5. Epist. VI, cap. VIII, n. 11. Gv., VIII, 44. " G., 11, 19. 93 Is., m , 12. Ez.,XXVIII, 12, 14 e 15. Zs., XIV, 13, 14. M Ibid, 15. 97 Sal., VIII, 6. S. Agostino, Serm., CLXIV, n. 8, t. V, col. 788. Gn.,111, 1.
"j
"
xl,
"
"
"
" "
Ibid., 2, 3. Ibid., 4. l"' Ibid., 7. 103 Gn., 111, l, 4, 5. 'O4 IGu., 11, 16. lo' Gn.,I, 31. IGv., V, 19. lo' Ibid., 11, 15.' ' O R Ibid., 11, 15. l@' lCor., V I , 31. "O sap., IV, 12. "l Ibid. I l 2 ~ m . XV, , 39. Il"-, 11, 3. 114 l G v . , 11, 17. I l 5 S.Agostino, De Ciu. Dei,1. XXI, cap. XII, tom. VII, col. 683. I l G 2Cor., N, 17, 18. I l 7 MI., 111, 6. I l 8 Gu.,VII, 16. I l 9 ~bid.,XIV, 10. Ibid., IV, 34. Ibid., X, 28. In Mt., XXVIII, 18. lZ3Ibid., XX, 23. 124 1 Cor., I, 30. Ivi, 11, 2. I2"c., XIII, 1, 3, 4, 5. Ibid., 32. Mt., VIII, 20. Mc., N, 38. Isa Ger., 11, 20. Ibid., 23. 13' Ibid., 23; Gb., XIV, 16. 133 Ec., I, 18. l" Ibid., 1, 2. l''' Rm., VIII, 20, 21. Rm., VIII, 20, 21.
Ioa '"l
13G Mt., VI,
21.
2Re, XI, 2. l'' Pro., XXIII, 32. 13"~v., 11, 13. '40 Ibid., 14. I 4 l Sal., VIII, 4. E!, v, S. I4"bidem. '41 ]COI-., I, 30. 14' 2Cor., X, 17. In'