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ALAN DEAN FOSTER TERRA DI MEZZO (Midworld, 1975) Questo libro è dedicato a: Saturno Guanti da neve Calathea insignis JoAnn e a tutto il resto dei fratelli d'ispirazione (e di respirazione). PRESENTAZIONE Abbiamo presentato Alan Dean Foster (da non confondere con M.A. Foster dei Guerrieri dell'Alba, Cosmo N. 57) nei due romanzi Il mistero del Krang (Cosmo N. 39) e L'agguato del Vom (Cosmo N. 51), dicendo che è nato nel 1946, risiede a Los Angeles, ha studiato "Arti cinematografiche" e scrive romanzi dal 1970. Il suo maggiore successo sono i "libri di bordo" di "Star Trek", versione romanzata di una serie televisiva americana di fantascienza. Quanto al suo modo di scrivere, lo inserivamo tra alcuni nuovi scrittori americani che sono emersi dopo il periodo della "New Wave" (la fantascienza sperimentale degli anni '60) e che ritornano al tipo classico di fantascienza avventurosa. Uno scrittore dalla produzione evasiva, ma godibile e divertente. Il primo romanzo di Foster da noi presentato, Il mistero del Krang, ricordava una parte della produzione di Heinlein, cioè le avventure in pianeti esotici come Cittadino della Galassia. Il secondo romanzo, L'agguato del Vom, faceva pensare a van Vogt e a certi suoi mostri extraterrestri: Crociera nell'infinito. Questo terzo romanzo, La terra di mezzo, ricorda un altro scrittore ancora, cioè Murray Leinster e il suo Pianeta dimenticato: infatti anche ora abbiamo il pianeta raggiunto da un'astronave che fa naufragio, i coloni che sono rimasti isolati e si sono messi a vivere da indigeni, la lotta continua contro le forme di vita locali ecc. ecc. Tuttavia le somiglianze a un certo punto lasciano il passo alle differenze, e La terra di mezzo prosegue in modo assai diverso dal romanzo di Murray Leinster: una differenza che è anche quella tra la fantascienza di
oggi e quella di ieri. Si veda infatti il romanzo di Leinster, Il pianeta dimenticato. Sul pianeta di Leinster, la natura lasciata a se stessa è impazzita e si è lanciata in una escalation dì corazze e mandibole sempre più gigantesche: il caos. Al caos viene contrapposto l'ordine: l'arrivo della nuova astronave che riporterà la civiltà. I "selvaggi" vengono addottrinati in poche ore con un opportuno apparecchietto e restituiti alla civiltà. Il caos resterà caos, ma avrà una sua nicchia ben precisa nella società. Nel romanzo di Foster, invece, la natura è solo apparentemente caotica: essa nasconde un proprio equilibrio e una propria finalità. Il caos è quello che vi vogliono introdurre gli esploratori provenienti dalla Galassia "civile". Sotto questo aspetto, La terra di mezzo è come uno di quei film di cow boy in cui vincono gli indiani; oppure si può dire che è assai prossimo al Mondo della foresta di Ursula Le Guin. Ora, il fatto che Bradbury scriva un Cronache marziane che mostra come il progresso rovini i valori preesistenti può essere un caso isolato. E che la Le Guin descriva come i terrestri colonialisti siano scacciati da un movimento che essi stessi hanno contribuito a far nascere può essere un altro caso isolato: ad autori come Bradbury e la Le Guin, che sono il fiore che la fantascienza si mette all'occhiello, è giusto chiedere di non adeguarsi alla corrente. Ma quando un autore assolutamente disimpegnato come Poster si mette a farcì la morale ecologica (e a farcela in modo molto efficace, poi), allora vuol dire che in giro l'insoddisfazione è grande. La fantascienza è uno dei campi in cui trovano più immediatamente risonanza le insoddisfazioni di fondo, e i romanzi che si pubblicano in questo periodo in America tradiscono, nel loro complesso, una profonda inquietudine. Il presente romanzo di Poster prende le difese dell'ambiente naturale contro lo sfruttamento per motivi che sì rivelano futili ("Rubereste il profumo di un fiore, l'anima di un morto!" accusa uno dei "selvaggi"). Uomo più, di Pohl, mostrava una disponibilità a piantare baracca e burattini per ricominciare tutto da capo, senza sapere bene come e cosa. La compagnia della gloria di Pangborn mostrava un personaggio che onestamente non sapeva come ricostruire la civiltà distrutta, ma temeva di ricostruirla identica a quella precedente. Guerra eterna mostrava un protagonista passivo, trascinato ineluttabilmente entro una macchina guerresca: il trionfo del processo sulla finalità (o della burocrazia sullo scopo per cui è stata istituita). Si corre tuttavia il rischio che queste denunce diventino parte del repertorio, lamentazioni dì maniera, stilizzate e canoni-
che. La produzione commerciale riuscirebbe a tagliare le unghie a qualsiasi denuncia col semplice fatto di ripeterla fino alla noia. Riccardo Valla LA TERRA DI MEZZO «Dove le più alte selve, impenetrabili alla luce delle stelle e del sole, spandono la loro ampia ombra.» Milton, Paradiso perduto. «Chi ode i pesci quando urlano?» Thoreau. «......!!!., ??... O!!» Calathea insignis. CAPITOLO 1 Mondo senza nome. Era verde. Verde e gravido. Giaceva supino in un mare di giaietto sibilante;, come uno smeraldo suppurante nell'oceano dell'universo. Non ospitava la vita. Sulla sua superficie la vita esplodeva, prorompeva, si moltiplicava e prosperava, al dì là di ogni possibilità dell'immaginazione. Da un suolo così ricco che quasi viveva anch'esso, un magma verdeggiante sgorgava per inondare la terra. Ed era verde. Oh, era di un verde così vivo da avere una nicchia tutta sua nella gamma dell'impossibile: un verde invadente, onnipresente, onnipotente. Il mondo di un dio clorofillaceo. Eccettuate poche sacche di un azzurro rancido, anche gli oceani erano resi verdi dalla sovrabbondanza della vegetazione galleggiante che quasi soffocava le acque. Le montagne erano verdi, fin dove si confondevano con la verde schiuma: solo a grandi altezze i licheni lottavano con il ghiaccio strisciante, così come sulla maggioranza dei mondi le onde lottavano con la terraferma. Persino l'aria aveva un pallido riflesso verde, e guardando attraverso l'atmosfera si aveva l'impressione di guardare attraverso lenti tagliate nel peridoto più puro. Non c'erano dubbi sulla capacità, da parte del pianeta, di sostenere la vita. C'era piuttosto il dubbio che ne sostentasse troppa, troppo abbondante-
mente. Tuttavia, tra gli esseri viventi che crescevano e volavano e lottavano e morivano sul globo più fertile dei cieli, non ve ne era uno solo che pensasse... non nel modo in cui viene di solito definito il pensiero, per tranquillità mentale. Bisogna considerare che ciò che abitava il mondo senza nome vedeva l'universo in un modo diverso da quello abituale... se mai c'era qualcosa che lo faceva. Oh, c'erano i vellosi, certo, ma non avevano neppure un nome che potesse venir chiamato nome, fino a quando venne la gente. E questa gente arrivò: era diretta in qualche altro posto. Per il comandante e gli ufficiali della nave coloniale, che studiavano e bestemmiavano e imprecavano contro i comandi e le coordinate, era un caso chiarissimo di incidente maligno. Non era quello, il pianeta su cui avrebbe dovuto portarli il pilota automatico. Adesso erano in orbita, e non avevano abbastanza carburante per arrivare da qualche altra parte, non avevano attrezzature adatte per sistemarsi su quel mondo, non avevano né tempo né mezzi per chiedere aiuto. Avrebbero dovuto far virtù di un atterraggio calamitoso. I coloni votarono e si accinsero a portare la civiltà su quel mondo. Erano stanchi, disperati e animati da un'eccessiva fiducia in se stessi, ma impreparati. Scesero in quell'inferno verde, che separò molto in fretta la parte preponderante di pula umana dal seme fruttuoso, e la divorò viva. E cambiò coloro che non divorò. In quei tempi lontani, l'umanità era abituata a dominare l'universo: con la forza, quand'era necessario. Coloro che tentarono di attenersi a tale abitudine non riuscirono a mettere al mondo una seconda generazione, sul mondo senza nome. Alcuni, meno prigionieri dell'orgoglio e più. adattabili, sopravvissero ed ebbero figli. I loro discendenti crebbero senza illusioni sulla supremazia dell'umanità o di qualunque altra cosa. Maturarono ed osservarono il mondo che li circondava con occhi diversi. Fai rotolare il tronco. Dai e prendi. Piegati al vento. Adattati, adattati, adattati!.... CAPITOLO 2 Born guardava salire la nebbia mattutina e sognava il sole. Si assestò più
comodamente nella fessura dell'albero di thomabar e si strinse addosso il mantello di pelliccia verde. Il pensiero del sole lo rallegrò un poco. Una dura fatica, lunghe arrampicate e coraggio gli avevano concesso per tre volte quella visione, nella sua modesta esistenza. Non erano molti gli uomini che potessero vantarsi di aver fatto altrettanto, pensò gloriandosi. Per vedere il sole, ci si doveva arrampicare in cima al mondo. E strisciare in vetta ad uno dei Pilastri o degli emergenti che costituivano i baluardi del mondo. Salire lassù era come cercare la morte ad opera dell'orda di sagome fameliche che fluttuavano e volteggiavano nell'Inferno Superiore. Born l'aveva fatto tre volte. Era un ardito tra gli arditi... o forse, come insistevano ad affermare alcuni al villaggio, il più pazzo dei pazzi. La nebbia umida si diradò ancora di più, via via che il sole, levandosi, aspirava l'umidità dal Terzo Livello. Born rabbrividì. Era pericoloso, oltre che fastidioso, riposare relativamente esposto, in quelle prime ore del giorno, quando esseri odiosi di ogni specie vagavano in quel mondo tra le chiome degli alberi. Ma l'alba e il crepuscolo erano i periodi del giorno più consoni ai cacciatori, e Born si considerava un loro pari. Un buon cacciatore non si metteva al sicuro nascondendosi mentre gli altri catturavano la selvaggina migliore. Pensò di chiamare Ruumahum, ma il grosso velloso non si trovava nelle vicinanze, e un grido, in quel momento, avrebbe sicuramente spaventato le prede potenziali. Per il momento avrebbe dovuto rinunciare al conforto del calore ingombrante del suo compagno. Born non dubitava affatto che Ruumahum si trovasse a portata di voce. Quando un velloso si abbinava ad una persona, non se ne allontanava mai molto, fino a quando quella persona moriva. E quando moriva... Born scacciò, irritato, quel pensiero. Erano preoccupazioni inutili, per un uomo impegnato a cacciare. Ormai era lontano dal villaggio già da tre giorni, e non aveva incontrato nulla che valesse la pena di essere preso. C'erano spaccarbusti in abbondanza, ma lui avrebbe preferito camminare sulla superficie, piuttosto che tornare al villaggio portando solo uno spaccarbusti o due. Bruciava ancora al ricordo del ritorno di Losting con la carcassa del figliatore, al ricordo dell'ammirazione e delle acclamazioni riservate al grand'uomo. Erano piccolezze, banalità: eppure gli bruciavano. Il figliatore era grosso quanto Losting, tutto artigli e chele, ma proprio quegli artigli e quelle chele temibili erano pieni della migliore carne bian-
ca, e Losting li aveva deposti ai piedi di Passo Chiaro, e lei non li aveva rifiutati. Era stato allora che Born si era allontanato furibondo dal villaggio, avventurandosi in quella battuta di caccia finora infruttuosa. Born non aveva mai potuto gareggiare con Losting in fatto di statura e di forza: ma era abile. Anche da bambino era astuto, più svelto dei suoi amici, e aveva approfittato di ogni occasione per dimostrarlo. Benché nessuno, adesso, mettesse in dubbio le sue capacità, Born sarebbe rimasto sconvolto nell'apprendere che tutti lo consideravano un po' avventato, un po' pazzo. Gli altri non potevano capire che Born provava il bisogno costante di dimostrare il proprio valore. Da questo punto di vista, egli rappresentava una regressione atavica. Adesso, era di nuovo in giro da solo: una situazione sempre pericolosa. Cercava di isolarsi dal mondo, di confondersi con il fogliame e diventare parte del verde spinoso, virtualmente invisibile sui sentieri tortuosi. La nebbia era fuggita, ascendendo al Secondo Livello. L'aria era limpida, benché ancora umida. Born poteva vedere, senza ostacoli, la grande bromeliacea epifita, parecchi metri più in giù, lungo il tralcio. L'enorme fiore cresceva al centro del rampicante: un parassita che si nutriva di un parassita. Larghe foglie spatolate oliva e nere facevano da sfondo al fiore verde. I petali spessi erano molto uniti, e si incurvavano verso l'esterno e verso l'alto formando un bacino impermeabile. Come accadeva sempre dopo la pioggia serale, adesso era pieno di un metro d'acqua pura. Prima o poi, qualche animale che valesse la pena di uccidere sarebbe venuto lì ad abbeverarsi. Intorno a lui la foresta si svegliò: il coro primordiale di latrati, squittii, trilli, ululati e strida proseguì il canto tralasciato dai meno loquaci cugini notturni. Born era scoraggiato e già pensava di provare in qualche altro posto, quando scorse un movimento tra i rami e le liane al di sopra della cisterna naturale. Si arrischiò a sospingersi un po' più avanti, gustando temporaneamente la mimetizzazione dell'ondulato mantello verde. Sì, c'era un fruscio ben definito, ancora molto al di sopra del sentiero, ma che tuttavia continuava a scendere. Muovendosi il meno possibile, tolse lo spegnitore dal luogo in cui l'aveva appoggiato. Il tubo di legno verde, lungo un metro e mezzo, aveva una circonferenza di sei centimetri all'estremità posteriore, e in punta si restringeva fino ad una circonferenza d'un centimetro scarso. Delicatamente, Born lo fece scivolare sul rialzo di legno che aveva davanti. Lo lasciò lì,
immobile come un ramoscello sfrondato. Lo puntò sulla cisterna. Frugò nella faretra che portava appesa al dorso, sotto il mantello, e ne estrasse una delle spine lunghe dieci centimetri. Reggendola prudentemente per l'estremità allargata a forma di ventaglio, dove era stata staccata dalla pianta, l'infilò nella parte posteriore aperta dello spegnitore. Dal sacco appeso accanto alla faretra, Born trasse un seme serbatoio. Era di un giallo vivo, venato di nero e poco più grosso di un pugno umano. La superficie coriacea era tesa come una pelle di tamburo. Born l'inserì a tergo dello spegnitore, e poi fissò il blocco. Lassù in alto, il fruscio era diventato lo scroscio di grossi rami che si spezzavano e si piegavano. Serrando la mano destra intorno al grilletto simile a quello di una pistola, e usando la sinistra per tenere salda la lunga canna, Born si immobilizzò come una statua. Concentrando tutta la sua attenzione sulla bromeliacea, si sforzò di protendere la propria mente, di diventare una cosa sola con la pianta. Guarda che bel luogo ti offro per riposare, pensò, teso. Com'è spazioso questo ramo, come sono robusti e saporiti i suoi compagni, com'è limpida e pura e fresca l'acqua che ho raccolto con tanta pazienza, apposta per te. Scendi, vieni da me, bevi profondamente al mio pozzo. Una brezza smarrita soffiò, agitando le punte delle foglie della bromeliacea. Born trattenne il respiro e si augurò che non portasse il suo odore fino all'essere, quale che fosse, che continuava a scendere pesantemente. Un ultimo, sonoro scricchiolio di vegetazione che si apriva, e l'essere in movimento si mostrò: una sagoma a cono, marrone scuro, coperta di un ispido vello bruno. Dall'estremità piatta del cono si protesero due lunghi tentacoli, coronati da occhi dall'iride rossa. Spaziati a intervalli regolari intorno al corpo conico del brachiere c'erano quattro bracci muscolosi, che lo tenevano appeso tra i rami superiori e quelli inferiori, con l'aiuto della coda prensile che si estendeva dalla punta del cono. Una mole di quasi due metri, che pesava cinque volte più di Born: sarebbe stato difficile uccidere il brachiere. Il vello fitto e intricato era quasi impenetrabile, ma soltanto setole rade coprivano la base piatta del cono. Per colpire in quel punto, Born doveva attendere che l'essere si volgesse verso di lui. La minuscola bocca rossa al centro della base era innocua, orlata da quattro serie contrapposte di denti piatti, da ruminante. Ma quei bracci potevano ridurre in schegge il sentiero di legno: e un uomo sarebbe andato a pezzi molto più facilmente. Un braccio cambiò presa, afferrò un ramo più basso. La coda si incurvò
per attorcersi intorno allo stesso sostegno. Poi il braccio superiore e quello sinistro lasciarono la presa, e il brachiere si dondolò, ancora più in basso. Born si rammaricò di non essersi preparato con maggiore scrupolo, tenendo a portata di mano un altro seme serbatoio e un'altra spina di jacari. Ormai era troppo tardi. Sarebbe bastato un minimo movimento da parte sua perché il brachiere si trasformasse in un turbine di bracci e di coda. Poteva spostarsi in alto, in basso e lateralmente attraverso la foresta con una velocità impressionante. E poteva anche prendere un uomo alle spalle prima che questi avesse tempo di voltarsi. Il brachiere si fermò sulla liana direttamente sopra la cisterna. La coda e i due bracci che lo reggevano lo fecero ruotare lentamente, mentre scrutava in tutte le direzioni. Ad un certo momento, a Born parve che gli occhi inquieti fissassero esattamente il suo nascondiglio: ma non si soffermarono né esitarono, e passarono oltre. Apparentemente soddisfatto della situazione ambientale, il brachiere si lasciò cadere sul rampicante. Tre dei bracci lo sostenevano, in una posa semieretta, sull'orlo esterno della bromeliacea. Si sporse in avanti, inclinando verso l'acqua l'ampia faccia piatta. Born udì i suoni con cui suggeva l'acqua. Il vero problema era questo: quando egli avrebbe fischiato, quella testa massiccia si sarebbe girata verso destra o verso sinistra? Se non indovinava, avrebbe perduto secondi preziosi, forse decisivi. Mentre compiva la sua scelta, Born fece scivolare leggermente la punta dello spegnitore in direzione del brachiere. Poi sporse le labbra ed emise un fischio sommesso, balbettante. Il brachiere non ne avrebbe mai assaggiato la carne, ma le uova di gattofiore erano una squisitezza. Quando risuonò il grido di pericolo di un gattofiore femmina, imitato da Born, la grossa testa si alzò, si girò, fissando nella sua direzione. Esalando un rapido respiro nervoso, il cacciatore premette con forza il grilletto. All'interno della canna, una lunga scheggia affilata di legnoferro scattò all'indietro, e trafisse la pelle tesa del seme serbatoio. Vi fu uno scoppio sommesso, quando il seme pieno di gas esplose. Il gas compresso venne compresso ulteriormente dalla canna affusolata dello spegnitore. Così lanciata, la spina di jacari sfrecciò in avanti e colpì in pieno centro il muso piatto e setoloso del bruchiere, proprio sopra la bocca, tra i due peduncoli degli occhi. Le quattro mascelle si dilatarono. Vi fu un orrido strido soffocante, che, come un catalizzatore sonoro, fece esplodere la foresta; gli ululati e le grida di panico continuarono per molti, lunghi istanti.
Il bruchiere spiccò un balzo minaccioso in direzione di Born, tremò per qualche attimo quando atterrò, a due metri scarsi di distanza, e crollò giù dal rampicante. Ma le mani e la coda paralizzate lo tennero saldamente appeso al grosso tralcio. Quelle dita dalle molte falangi erano molto potenti, e sarebbe stato necessario tagliarle o aprirle a forza. Born fissò intento l'essere. I bruchieri avevano l'abitudine di fingersi morti fino a quando l'assalitore non si avvicinava, e poi lo facevano a pezzi con una violenza capace di schiantare anche i rami. Ma quello non fremeva neppure. La spina gli aveva trapassato il cervello e l'aveva ucciso sul colpo. Born sospirò, depose lo spegnitore e si alzò, stirandosi i muscoli aggranchiti. Il manto di pelliccia verde gli cadde sciolto dal collo. Estraendo dalla cintura il coltello d'osso, uscì dalla fenditura che gli era servita come rifugio e scese per il grosso tralcio, verso quella forma inerte. Era almeno cinque volte più grosso di lui, pensò Born, e quasi tutto commestibile! Ma assaporarlo mentalmente e cotto su di un fuoco ardente erano due cose ben diverse: c'era il problema di portare al villaggio la preziosa carcassa e di tenere a bada, lungo il percorso, i predatori affamati che si nutrivano di carogne. Era meglio andarsene di lì al più presto. Piegandosi oltre il bordo del rampicante, Born cominciò a lavorare in fretta di coltello. I muscoli e i tendini si tranciarono: Born recise le mani e la coda che tenevano fermo il bruchiere. La carcassa cadde tra il fogliame sottostante. Una voce simile allo sbuffo di una locomotiva risuonò all'improvviso dietro di lui. Born sobbalzò istintivamente, si lanciò in avanti e verso il basso prima di afferrare un ramo del rampicante e di arrestarsi, con una dolorosa tensione dei muscoli. Si voltò ansimando e guardò verso l'alto. Aveva riconosciuto quel rombo mentre si buttava, ma era ormai tardi per bloccare l'azione istintiva. Ruumahum lo stava guardando, dal tronco principale del rampicante. Il velloso si fece più vicino, aggrappandosi al legno con tutte e sei le grosse zampe. Il muso ursino era rivolto verso Born, e i tre occhi scuri disposti in una curva sopra il grugno lo guardavano mestamente. I grossi artigli graffiavano il ramo. Born scosse il capo e si lanciò di nuovo sul tralcio. «Te l'ho detto tante volte, Ruumahum, di non arrivarmi addosso così furtivamente.» «Divertente,» protestò Ruumahum.
«Non divertente,» insistette Born, aggrappandosi ad uno stelo erbaceo per ritornare al precedente livello. Un breve balzo e fu di nuovo sul rampicante. Afferrò una delle lunghe orecchie penzolanti di Ruumahum, e la tirò per fargli capire la sua idea. Il velloso era lungo come il brachiere, ma assai meno massiccio. Era incredibilmente poderoso, svelto e intelligente. Un branco di vellosi sarebbe stato il flagello di quel mondo, se non fossero stati tremendamente pigri e se non avessero trascorso la maggior parte dell'esistenza a tradurre in atto la loro unica passione... dormire. «Non divertente,» finì Born, con un'ultima, ammonitrice tirata d'orecchie. Ruumahum annuì, girò intorno al cacciatore, e fiutò il brachiere, da una certa distanza. «Non troppo vecchio,» rombò. «Buono mangiare... molto buono mangiare.» «Se riusciamo a portarlo fino a Casa,» ammise Born. «Ce la fai?» «Ce la faccio,» rispose il velloso, senza un attimo di esitazione. Born si sporse e scrutò la carcassa. «È finito su di un ramo robusto, ma potrebbe facilmente scivolar via. Vuoi raccoglierlo, oppure girargli sotto e prenderlo quando io lo spingo giù?» «Giro, prendo.» Born annuì. Ruumahum cominciò a scendere, descrivendo un ampio cerchio per portarsi al di sotto del brachiere. Appena si fosse messo in posizione, Born sarebbe sceso direttamente, per andare a spingere giù la carcassa. Nessuno dei due se la sentiva di inseguirla mentre precipitava a profondità imprevedibili, verso livelli sconosciuti. Nel mondo della foresta c'erano sette livelli. Gli umani, le persone, preferivano quello: il Terzo. E anche i vellosi lo preferivano. Più sopra ce n'erano altri due, fino a un tetto verde, calcinato dal sole: fino all'Inferno Superiore. Più sotto ce n'erano quattro: il settimo, il più profondo, era l'Inferno Inferiore o il Vero Inferno, più di quattrocentocinquanta metri al di sotto della Casa. Molti uomini avevano visto l'Inferno Superiore. Born l'aveva visto tre volte ed era sopravvissuto. Ma soltanto due personaggi leggendari erano scesi in quello Inferiore. Alla superficie. Nella palude perpetuamente tenebrosa, sulla terra umida di immensi precipizi spalancati e di abominazioni dementi che strisciavano, nuotavano e divoravano. Almeno, così avevano affermato i due. Il primo non era più lucido di mente, quando era ritornato, ed era morto poco dopo. Il secondo era torna-
to mutilato di varie parti importanti del corpo, ma aveva confermato i deliri del suo compagno, sebbene anche lui urlasse quasi tutte le notti. Neppure i vellosi, frugando nei ricordi atavici, erano in grado di citare uno della loro specie che fosse mai sceso al di sotto del Sesto Livello. Era un luogo da evitare. Era comprensibile, quindi, che uomini e compagni ci tenessero a scendere fin laggiù in cerca di una preda caduta. Ruumahum comparve sotto al bruchiere e ringhiò. Born lanciò un grido di risposta e cominciò a scendere. Il bruchiere penzolava ancora dal ramo quando egli lo raggiunse, ma bastò una sola spinta per smuoverlo. Ruumahum piantò nel duro legno del rampicante gli artigli delle zampe posteriori e centrali. Protendendosi leggermente, serrò di scatto le zampe anteriori, capaci di sfracellare senza fatica il cranio di un uomo, e le affondò nel corpo del bruchiere, immediatamente sotto la coda. Con l'aiuto di Born, il bruchiere fu poi messo in equilibrio sul dorso di Ruumahum. Con le zampe anteriori, il velloso tenne fermo il peso morto mentre Born lo legava con la corda infrangibile che portava alla cintura, facendola passare parecchie volte intorno alla carcassa e sotto ai due ventri di Ruumahum. Poi l'annodò e si scostò. «Prova, Ruumahum. Si sposta?» Il velloso piantò nel legno tutt'e tre le paia di zampe e si inclinò per prova prima verso sinistra, poi verso destra. Poi si scosse, alzò la testa, e abbassò le anche. «Non sposta, Born. Messo bene.» Born studiò preoccupato quella mole enorme. «Sei proprio sicuro di farcela? C'è parecchia strada per arrivare a Casa, e può darsi che dobbiamo lottare.» Il carico era considerevole anche per un velloso adulto grosso quanto Ruumahum. Questi sbuffò. «Posso farcela... Non sicuro di lottare.» «Sta bene, non preoccuparti. Preda o non preda, se ci troveremo in un guaio serio te le libererò.» E sorrise. «Basta che non ti metta a dormire a metà strada, fra qui e Casa.» «Dormire? Cos'è dormire?» sbuffò Ruumahum. I vellosi avevano un bizzarro senso dell'umorismo tutto loro, che solo di tanto in tanto coincideva con quello degli umani. Poiché Born era anche lui un po' strano, comprendeva meglio degli altri le loro battute di spirito. «Allora andiamo.» Born ritornò al nascondiglio per riprendere lo spegnitore e se lo appese alle spalle. Poi restò una sola cosa da fare. Born girò intorno a Ruumahum ed al suo pesante carico e si fermò sull'orlo della bromeliacea che aveva at-
tratto una preda tanto eccellente. Passò carezzevolmente le mani sulle foglie ampie e sui forti petali. Giungendo le mani, si chinò a bere profondamente alla limpida polla che lo sfortunato bruchiere era andato a cercare. Quando ebbe finito, scosse via le goccioline e si asciugò sul mantello le palme bagnate. Accarezzò di nuovo la foglia più vicina, in un silenzioso omaggio alla pianta, e poi insieme a Ruumahum incominciò l'arduo viaggio verso Casa. Era un universo verde, certo: ma aveva stelle e nebulose dai colori brillanti. Gli alberi aerei, cauliflori, che crescevano dagli ampi rami dei Pilastri e degli emergenti erano pieni di fiori fragranti di ogni forma e colore concepibile; alcuni essudavano aromi così pungenti che era necessario evitarli per non ottundere per sempre l'olfatto. Born e Ruumahum giravano assiduamente al largo da quei fiori profumati. Le loro esalazioni localizzate erano non meno mortali che sensuali. Anche le liane e i rampicanti portavano fiori, e in certi punti persino le radici aeree sfoggiavano boccioli. I colori e la varietà erano tali da far apparire al confronto pallide e sbiadite le più ricche giungle della Terra. Sebbene la flora avesse il predominio assoluto, anche la fauna era abbondante e variata. Ornitoidi, mammiferoidi e rettiloidi arborei planavano o volavano nelle tortuose gallerie di smeraldo. Ma erano meno numerosi degli esseri che saltavano, strisciavano e balzavano lungo vie di legno e di polpa che sfidavano ogni legge di gravità. Il ciclo continuo della vita e della morte ruotava intorno a Born e a Ruumahum, mentre si avviavano su liane incrociate e tortuosi sentieri lignei, in direzione del villaggio. Un planante dalle ali ad elica balzò su un'incauta pseudolucertola piumata a sei zampe, e venne a sua volta inghiottito quando atterrò su di un falso rampicante, che sembrava quasi identico a quelli lignei e robusti su cui camminavano Born e Ruumahum. Se Born l'avesse calpestato, come minimo avrebbe perso un piede. Il falso rampicante era una catena ininterrotta di bocche, stomaci e intestini intercollegati. Il planante e la pseudolucertola scomparvero in un nodo del ramo zannuto. Era quasi mezzogiorno. Di tanto in tanto, qualche raggio di luce arrivava fino al Terzo Livello; alcuni scendevano persino fino al Quarto e al Quinto. Dovunque brillavano i rampicanti-specchio: le foglie riflettenti, a forma di losanga, facevano rimbalzare il sole, e mandavano la luce datrice di vita giù per centinaia di metri, lungo canyon verdi, fino in punti che altrimenti
non avrebbero mai raggiunto. Il meriggio segnava il crescendo della sinfonia primordiale. Le viti a pettine e i risonatori formavano un verdeggiante sottofondo vocale per i cantori del regno animale: avrebbero stupito un botanico non meno dei rampicanti specchio. Born non era un botanico. Non avrebbe neppure saputo definire quel termine. Ma il suo bis-bis-bis-bis-bisavolo lo avrebbe saputo. Tuttavia, quella conoscenza non gli aveva impedito di morire giovane. Con furtività felina, l'umida nebbia della notte si insinuò intorno a loro. Le voci gaie e rauche delle creature della luce cedettero il posto ai suoni degli animali notturni che si stavano svegliando, con grugniti sempre più cupi e profondi, e grida quasi isteriche; gli ululati tonanti dei carnivori notturni si fecero più minacciosi. Era tempo di trovare un riparo. Born aveva trascorso gran parte dell'ultima ora cercando un albero Casa selvatico. Erano alberi rari, e quel pomeriggio non ne aveva visto nessuno. Si sarebbero dovuti accontentare di un alloggio temporaneo meno ospitale. Ce n'era uno dieci metri sopra di loro, facile da raggiungere per i sentieri intrecciati del baldacchino della foresta. Né Born né Ruumahum sapevano quale malattia o quale parassita avesse fatto crescere le grandi galle legnose sul ramo dell'albero Pilastro: ma furono lieti di vederle. Sarebbero servite per alleviare la notte. Sul ramo, sei o sette di quelle formazioni globulari erano raccolte insieme. La più piccola era la metà di Born, la più grande abbastanza spaziosa da accogliere l'uomo e il velloso. Born provò a incidere la più grossa con il coltello, ma era troppo dura per l'osso affilato... proprio come lui sperava. Se la lama non poteva penetrare nella galla lignea, c'erano poche probabilità che qualche predatore li aggredisse da tergo. Slegò il bruchiere morto, che già cominciava a puzzare, dal dorso di Ruumahum, e lo fece scivolare sul ramo. Ruumahum si stiracchiò felice, e la pelliccia si increspò, ondulando, sotto il gioco dei muscoli dorsali. Sbadigliò, mettendo in mostra i canini multipli e le due zanne inferiori, aguzze come rasoi. Seguendo le istruzioni di Born, il velloso cominciò ad attaccare la galla con le due zampe anteriori, squarciandone una parte. Insieme, i due infilarono la carcassa dentro la cavità Lavorando con cura e attenzione, Born legò le rimanenti spine dì jacari lungo il rampicante, formando una specie di rozza inferriata attraverso l'apertura. Un eventuale predatore che avesse tentato di insinuarsi lì dentro, adesso, avrebbe rischiato una puntura letale.
Le spine uncinate si incrociavano, coprendo completamente il varco. Un predone intelligente sarebbe riuscito facilmente ad aggirarle: ma sarebbero bastate a fermare qualunque essere che non fosse un uomo. Dopo aver messo al sicuro per la notte la loro preda, Ruumahum si occupò della galla successiva, aprendovi un varco più piccolo che consentisse loro di entrare. Born s'inginocchiò e guardò dentro. La galla era morta da tempo... asciutta e nera. Nell'entrare, si tolse dalla cintura un sacchetto di polvere rossa; Ruumahum stava già grattando via parte del rivestimento secco della galla, e l'ammucchiava accanto all'apertura. Born versò un po' di polvere rossa su una scheggia di legno sottile e vi premette il pollice. Pochi secondi di contatto con il suo calore corporeo furono sufficienti per fare infiammare il mucchio di polvere, mentre il cacciatore ritirava il pollice. Il polline incendiario costituiva una forma di difesa particolarmente efficace per un certo tubero parassita. La gente di Born ne aveva scoperto l'efficienza nel modo più sgradevole. L'uomo alimentò il fuoco, che prese a bruciare liberamente sul Uscio pavimento morto della galla. La danza e il crepitio delle fiamme erano un grande conforto nelle tenebre della notte. Restava una sola cosa da fare. Dovette scuotere violentemente Ruumahum per farlo svegliare il tempo sufficiente ad aprire un piccolo foro a due terzi d'altezza, dall'altra parte del guscio della galla. Dopo aver assicurato la circolazione dell'aria e l'uscita del fumo, Born estrasse dalla borsa appesa alla cintura un pezzo di scuro di sussultante e cominciò a masticare quella carne saporita e dura come la pietra. Venne la pioggia serale. Sarebbe continuato a piovere per tutta la notte... non un acquazzone occasionale, ma una pioggia regolare e costante che sarebbe cessata due ore prima dell'aria. A parte poche eccezioni, era piovuto tutte le notti, a memoria di Born. Inevitabilmente, come il sole si levava al mattino, di notte cadeva la pioggia. L'acqua tambureggiava continuamente sulla parte superiore della galla, scorreva ruscellando lungo i fianchi curvilinei e si perdeva nelle profondità invisibili. Ruumahum dormiva sodo. Born fissò il fuoco per parecchi minuti. Ripose il resto del sussultante per la notte successiva, e si raggomitolò contro il fianco di Ruumahum. Il velloso si mosse leggermente nel sonno, premendo contro la parete interna della galla, con la testa ripiegata contro il petto. Born sospirò, guardò la compatta muraglia di tenebre al di là del fuoco. Era soddisfatto. Il primo giorno del percorso di ritorno non avevano incontrato predatori di carcasse, e Ruumahum aveva trasportato il carico massiccio del grande brachiere
senza cadere addormentato neppure una volta. Accarezzò con gratitudine la pelliccia del velloso, insinuando le dita tra il fitto pelo verde. E aveva anche un ricovero caldo e asciutto. Le molte notti trascorse nell'umidità gli facevano apprezzare particolarmente quella galla. Stringendosi addosso il mantello di pelliccia verde, Born si girò sul fianco. Il coltello era a portata della mano destra, lo spegnitore pronto ai suoi piedi. Relativamente contento, e più o meno sicuro di non svegliarsi nel ventre di un predone notturno, cadde in un sonno profondo, senza sogni. Era piovuto parecchio, rifletté Born mentre guardava oltre il foro aperto nella galla. Dietro di lui, Ruumahum continuava a dormire, ignaro di tutto. Il velloso avrebbe continuato a dormire fino a quando Born non lo avesse svegliato. Abbandonato a se stesso, un velloso sarebbe rimasto sveglio soltanto poche ore al giorno. Dal cielo verde cadevano ancora minute goccioline, sebbene la pioggia fosse cessata da un pezzo. Due o tre caddero sul viso di Born, che scrollò via quell'umidore tepido. Per un po', sarebbe stato fastidioso camminare sui rami bagnati e sdrucciolevoli, ma dovevano partire subito. Era ansioso di tornare a Casa. Ansioso di vedere l'espressione sul viso di Passo Chiaro quando avrebbe deposto ai suoi piedi il bruchiere. Si alzò, sferrò un paio di calci nelle costole di Ruumahum. Il velloso mugolò. Born tornò a colpirlo. Ruumahum si alzò su due piedi per volta, borbottando irritato. «Già mattina?...» «Ci aspetta una lunga giornata di marcia, Ruumahum,» gli disse Born. «È piovuto a lungo, questa notte. Prima di mezzogiorno dovrebbero esserci bacche rosse e pium.» Ruumahum si animò al pensiero del cibo. Avrebbe preferito dormire, ma... i pium! Si stiracchiò un'ultima volta, tendendo davanti a sé le zampe anteriori e tirò, scavando otto solchi paralleli nella base morta e durissima della galla. Gli umani, doveva ammetterlo, qualche volta erano una compagnia piuttosto utile. Erano bravi a trovare cose buone da mangiare e rendere più godibile il nutrirsi. E per questi meriti, Ruumahum era disposto a sorvolare sui difetti di Born. Le sue tre pupille si illuminarono. Gli umani erano convinti di aver compiuto un'impresa grandiosa addomesticando i primi vellosi. I vellosi non avevano motivo di contraddirli. In realtà, si erano legati agli umani per pura curiosità. Gli umani erano i primi esseri da loro incontrati che fossero abbastanza imprevedibili da tenerli svegli. Non
si poteva mai prevedere cosa stava per fare un umano... persino il proprio umano. Perciò stavano ai patti senza capire veramente il perché; sapevano soltanto che in quel rapporto c'era qualcosa di buono e di conveniente. Il pensiero dei cuori di pium permise a Ruumahum di caricarsi sul dorso la carcassa del bruchiere senza cadere addormentato più di una volta. Perciò Born perse poco tempo prezioso. I predoni di carcasse non erano capitati dalle parti del loro accampamento, oppure avevano deciso dì non affrontare quelle mortali spine intrecciate. Born recuperò tutti i dardi avvelenati di jacari dal tralcio, li ripose sul fondo della faretra, si annodò il tralcio intorno alla cintura e si rimise in cammino. «Vicini a Casa,» borbottò quella sera Ruumahum, soffermandosi a protendere la spessa lingua incurvata per allisciarsi il dorso d'una zampa anteriore. Già da oltre un'ora Born aveva continuato a riconoscere alberi e punti di riferimento familiari. C'era l'albero del temporale che aveva ucciso la vecchia Hannah, cogliendola di sorpresa. Girarono alla larga dal tronco nero e argento. Una volta dovettero fermarsi per lasciar passare un fluttuante Buna, che trascinava dietro di sé i lunghi tentacoli pungenti. Mentre attendevano, il fluttuante lanciò un fischio sibilante e si lasciò cadere più in basso, forse per tentare la sorte al Quarto Livello, dove erano più comuni i veloci sfondarbusti. Born era uscito dietro a un tronco e stava per togliersi il mantello quando sopra di loro risuonò uno strido tale da schiantare un pfeffermall, più violento dell'ululato del chollakee in caccia. Lo strido fu così improvviso e soverchiante che Ruumahum, solitamente imperturbabile, si affrettò ad assumere una posa difensiva, arretrando con il dorso contro il tronco più vicino, nonostante l'ingombro della carcassa del bruchiere, con le zampe anteriori protese e gli artigli sguainati. Lo strido divenne un gemito, poi venne rapidamente sostituito da uno spaventoso rombo di scrosci e di schianti. Tremava persino il ramo del vicino albero Pilastro. Poi il ramo su cui si trovavano si scosse con violenza. Grazie alla sua grande forza, Ruumahum riuscì a tenersi appollaiato, ma Born non si era aggrappato a nulla. Cadde per parecchi metri, sfondando un paio di indifese piante grasse prima di incontrare una sporgenza che non cedette. Si affrettò a rimbalzare via, prima di restare con entrambe le braccia bloccate intorno al rigido fom. La vibrazione cessò, e Born riuscì a passare le gambe intorno alla sporgenza.
Si rialzò, tremando. Gli pareva di non avere nulla di rotto, e tutto sembrava funzionare a dovere. Ma il suo spegnitore era perduto: la cinghia si era spezzata, ed era precipitato roteando nelle profondità insondate. Era una perdita grave. Gli scrosci e gli schianti si acquietarono, e finalmente cessarono. Mentre cadeva, Born aveva avuto l'impressione di vedere in distanza, attraverso il verde, una massa assurdamente grande, azzurra e metallica, che era passata con la stessa rapidità con cui egli era precipitato. Ma ora, guardando da quella parte, non riusciva a vedere null'altro che la foresta. Puccianaso ed orbioli uscirono dai nascondigli, lanciarono richiami esitanti nel silenzio. Poi gli sfondarbusti e i gattifiori ed i loro parenti si unirono al coro. Entro pochi minuti, il mondo primordiale suonò e risuonò di nuovo normalmente. «È successo qualcosa,» azzardò sottovoce Ruumahum. «Credo d'averlo visto.» Born guardò meglio, ma non vide nulla di straordinario. «L'hai visto anche tu? Qualcosa di grosso, azzurro e lucente.» Ruumahum lo guardò fisso. «Visto niente. Visto te cadere in Inferno e sparire. Ho concentrato per restare qui con peso di brucante che tirava là. No tempo per guardare curioso.» «Tu hai fatto meglio di me, vecchio amico,» ammise Born, continuando ad arrampicarsi verso il velloso. Provò la resistenza di una liana, gli parve salda, e si avviò nella direzione di quei tremendi rumori. «Credo che faremmo bene...» «No.» Girò la testa e vide il velloso con la grossa testa abbassata che si muoveva lentamente da una parte all'altra, imitando il gesto di negazione degli umani. I tre occhi puntarono verso il sentiero che avevano percorso. «Fino adesso noi fortunati, umano Born. Ma presto altri a fiutare bruchiere cominciano. Noi abbiamo da lottare ogni passo fino Casa. Prima andiamo Casa. Questo altro,» e accennò con la testa in direzione degli schianti, «io prima parlerei con i fratelli che sanno queste cose in fretta.» Born si fermò a riflettere sul ponte ligneo. La sua intensa curiosità (o la sua follia, come credevano molti dei suoi simili) lo attirava verso l'origine dei suoni, per quanto fossero stati minacciosi. Una volta tanto, vinse la ragione. Ruumahum e lui avevano faticato parecchio a uccidere e a trasportare il bruchiere. Rischiare di perderlo adesso, senza una buona ragione, era assurdo. «Sta bene, Ruumahum.» Balzò di nuovo sul ramo più grosso e si avviò in direzione del villaggio. Voltò la testa per dare un'ultima occhiata e vide
soltanto la vegetazione maculata, senza il minimo movimento innaturale. «Ma non appena ci saremo sbarazzati della carne, io tornerò indietro a vedere cos'è stato, anche se non ci verrai tu e non ci verrà nessun altro.» «Non dubito,» rispose Ruumahum, in tono saputo. CAPITOLO 3 Arrivarono alla barriera molto prima dell'oscurità. Davanti a loro, la foresta primordiale parve diventare un unico albero, l'albero Casa. Soltanto i Pilastri erano più grandi, e l'albero Casa era certamente di una grandezza mostruosa. Larghi rami tortuosi e tralci crescevano in tutte le direzioni. Alberi aerei, rampicanti e liane crescevano dentro e intorno alla vegetazione dell'albero. Born notò con soddisfazione che vi crescevano solo piante innocue o utili all'albero Casa. La sua gente teneva bene l'albero Casa, e a sua volta, l'albero Casa teneva bene loro. I tralci erano cosparsi di fiori rosa vivo, in cui spiccavano i globi dei baccelli di polline. I baccelli erano simili ai gialli semi serbatoio che rendevano gli spegnitori armi così mortali, ma erano assai più sensibili. Bastava un tocco sulla delicata superficie rosea per lacerare la pelle sottile come carta, liberando nell'aria una nube di polvere capace di uccidere qualunque animale che l'inalasse attraverso le nari, i pori o qualsiasi scambiatore d'aria. I tralci che avvolgevano l'albero in un groviglio, al centro del Terzo Livello, il livello del villaggio, formavano intorno a questo una rete protettiva di funi mortali. Born si avvicinò alla più vicina, si sporse e sputò al centro di uno dei fiori, evitando il baccello. Il fiore fremette, ma il baccello non scoppiò. I petali rosa si chiusero su se stessi. Un attimo, e poi i tralci cominciarono ad attorcersi e a stringersi come rampicanti in cerca di un appiglio migliore. Via via che si ritraevano, in mezzo si formava un passaggio sgombro, che Born e Ruumahum attraversarono agevolmente. Ruumahum era appena passato, quando i tralci più esterni cominciarono di nuovo a rilassarsi e ad espandersi, riavvicinandosi e chiudendo il passaggio. Il fiore in cui Born aveva sputato aprì di nuovo i petali per bere la fioca luce seratina. Un osservatore distratto avrebbe notato che la saliva di Born era scomparsa. Un chimico avrebbe potuto dire che era stata assorbita. Uno scienziato avrebbe forse scoperto che non era stata semplicemente assorbita: era stata analizzata e identificata. Born sapeva soltanto che sputare esattamente nel fiore era come dire all'albero Casa chi era lui.
Mentre si avvicinava al villaggio, provò a fischiettare allegramente, ma la melodia morì sul nascere. La sua mente era presa dalla misteriosa cosa azzurra che era scesa tra gli schianti nella foresta. Molto di rado, uno degli alberi aerei più grandi cresceva più di quanto glielo consentissero le radici o gli appigli, e cadeva, trascinando con sé i rampicanti e la vegetazione minore. Ma Born non aveva mai sentito simili scrosci e schianti di legno. La cosa era molto più pesante di un albero aereo. Lo capiva dalla velocità con cui era caduta. E poi c'era stato quel luccichio metallico vagamente familiare. I suoi pensieri non erano trionfali, contrariamente a quanto si era aspettato, quando entrò nel centro del villaggio. Lì il tronco enorme dell'albero Casa si divideva in una rete di tronchi minori, formando una rete lignea intrecciata intorno ad uno spiazzo centrale aperto, prima di congiungersi e di crescere insieme più in alto, formando di nuovo un unico tronco affusolato, proteso verso il cielo per un'altra sessantina di metri. Con rampicanti e fibre vegetali e pelli animali, gli abitanti del villaggio avevano racchiuso molte sezioni dei tronchi minori intrecciati, formando case e stanze impenetrabili alla pioggia e al vento. Come cibo, l'albero Casa offriva frutti cauliflori a forma di zucca, che avevano gusto di mirtillo, e che talvolta crescevano persino dentro alle abitazioni. Vi erano piccole aree bruciate; dentro le case e sotto al baldacchino della piazza centrale. Quelle minuscole ustioni non danneggiavano l'enorme pianta. Inoltre, ogni casa aveva una fossa scavata nel legno. Lì, molte volte al giorno, gli abitanti dell'albero rendevano grazie per l'ospitalità e la protezione, mescolando le loro offerte con una poltiglia di morte piante polpose raccolte appositamente. La poltiglia serviva anche a eliminare gli odori più forti. Quando le fosse erano piene, venivano svuotate. Il residuo secco veniva gettato giù lungo il tronco dell'albero Casa, nelle profondità verdi, in modo che le fosse potessero venire usate ancora. L'albero, infatti, accettava e assorbiva le offerte con grande rapidità ed efficienza incomparabile. L'albero Casa rappresentava la più grande scoperta effettuata dagli antenati di Born. Le sue caratteristiche eccezionali erano state scoperte quando già sembrava che gli ultimi coloni superstiti fossero destinati a perire. A quell'epoca, nessuno si chiese perché una pianta non utilizzata dalla fauna indigena si mostrasse così accomodante verso gli intrusi alieni. Quando la popolazione umana ridiventò numerosa, vennero inviati esploratori a cercare altri alberi Casa, e venne formata una nuova tribù. Ma negli anni trascorsi da quando il bis-bis-bis-bis-bisavolo di Born si era installato in
quell'albero, i contatti con le altre tribù si erano diradati, e poi erano cessati completamente. Nessuno si era preso il disturbo di riallacciare quei rapporti, nessuno ci aveva pensato. Avevano tutto ciò che serviva a sopravvivere in un mondo brulicante di forme d'incubo, mortali e distruttive. «Born è tornato... guardate, Born è tornato... Born! Born!» Una piccola folla si. radunò attorno a lui, accogliendolo gioiosamente: ma era formata interamente di ragazzi. Uno di essi, ignaro del rispetto dovuto a un cacciatore che tornava, ebbe la temerarietà di tirarlo per il mantello. Born abbassò lo sguardo e riconobbe l'orfano Din, che. veniva allevato a cura della comunità. Sua madre e suo padre, un giorno, mentre erano con una spedizione a raccogliere frutti, erano stati presi da qualcosa che aveva tossito una sola volta, orribilmente, ed era scomparso nella foresta. Gli altri erano fuggiti in preda al panico e più tardi erano ritornati, ma avevano trovato soltanto gli utensili della coppia. Di loro non era più stata trovata traccia. Perciò il bambino veniva allevato da tutto il villaggio. Per ragioni ignote a tutti, e soprattutto a Born, il ragazzo si era attaccato a lui. Il cacciatore non poteva respingerlo. La legge «una buona legge di sopravvivenza» imponeva che un bambino libero potesse scegliersi chi voleva come genitore. «No, non posso darti la pelle del bruchiere,» sgridò Born, scostando gentilmente il ragazzo. A tredici anni, Din non era più un bambino." Non era più molto facile spingerlo via. Alle calcagna dell'orfano veniva una grassa palla di pelliccia, poco più piccola dell'adolescente. Muf, il cucciolo di velloso, inciampava ogni tre. passi nelle proprie zampe. La terza volta che inciampò, si sdraiò al centro del villaggio e si addormentò: era una soluzione adeguata del problema. Ruumahum guardò il cucciolo e borbottò qualcosa in tono di disapprovazione. Però poteva capirlo. Anche lui aveva voglia di farsi una lunga dormita. Born non si diresse subito verso casa sua: attraversò il villaggio e si avviò verso un'altra abitazione. «Passo Chiaro!» Un paio di occhi verdi come le foglie più dense si affacciò, seguito dal viso e dalla figura di una ninfa dei boschi, agile come un micino. Passo Chiaro si avvicinò, gli prese le mani. «Che bello che tu sia tornato, Born. Tutti si preoccupavano. Io mi preoccupavo molto.» «Preoccupata?» rispose lui, giovialmente. «Per un piccolo bruchiere?»
Con un gesto grandioso indicò la carcassa. Sotto quel peso imponente, Ruumahum sbuffava, pensando malissimo degli umani che si dedicavano ad attività frivole prima di occuparsi del benessere dei loro vellosi. Passo Chiaro fissò il bruchiere ed i suoi occhi divennero grandi come fiorrubini. Poi aggrottò la fronte, incerta. «Ma, Born, non posso mangiarlo tutto!» La risata con cui Born le rispose era solo lievemente forzata. «Puoi prenderti tutta la carne che ti serve, per te e per i tuoi genitori. La pelle è per te, naturalmente.» Passo Chiaro era la più bella ragazza del villaggio, ma talvolta Born si sorprendeva a giudicare le altre sue qualità in modo poco lusinghiero. Poi guardava la sua sottile guaina di pellefoglia e dimenticava tutto il resto. «Mi prendi in giro,» protestò lei, arrabbiandosi. «Non ridere di me!» Naturalmente, questo lo indusse a ridere ancora di più. «Losting,» disse Passo Chiaro, con dignità, «non ride mai di me.» Quelle parole interruppero bruscamente la risata di Born. «Che cosa importa quello che fa Losting?» ribatté in tono di sfida. «A me importa.» «Uh... bene.» Improvvisamente, qualcosa era andato storto. Le cose non procedevano come aveva immaginato e previsto. Inspiegabilmente, succedeva sempre così. Guardò il villaggio silenzioso. Alcuni vecchi lo avevano scrutato, vedendolo tornare. Ora che la novità della sua sopravvivenza aveva perduto sapore, erano ritornati ad occuparsi delle loro faccende. Quasi tutti gli adulti attivi, naturalmente, erano lontani, a caccia, a raccogliere roba commestibile, o a tenere la Casa libera dai parassiti. Le adulazioni previste non si erano materializzate. Quindi aveva rischiato la vita per tornare ad un gruppo di bambini curiosi e all'indifferenza di Passo Chiaro. Tutta la sua euforia svanì. «Comunque, ti ripulirò la pelle,» borbottò. «Vieni, Ruumahum.» Si girò e si avviò indispettito verso la parte opposta del villaggio. Il viso di Passo Chiaro si contrasse in una serie di smorfie che esprimevano una vasta gamma di emozioni. Poi la ragazza si voltò e rientrò nell'abitazione dei genitori. Ruumahum lanciò imo sbuffo di sollievo quando Born slegò la carcassa e lui poté scrollarsela finalmente di dosso. Poi andò subito nel suo angolo, nell'unica grande stanza, si sdraiò ed entrò nel mondo più caro a tutti i vellosi.
Borbottando tra sé, Born si slacciò la cintura da cacciatore, si tolse il mantello e cominciò a preparare il bruchiere. Impugnò il coltello d'osso con tanta rabbia che rischiò parecchie volte di tagliare e rovinare la pelle. Poi veniva lo strato di grasso. Girare la carcassa fu un lavoro faticoso, ma Born riuscì a compierlo senza essere costretto a svegliare Ruumahum. Il grasso venne scaraventato in un truogolo di legno: più tardi, sarebbe stato sciolto e trasformato in candele. Poi Born arrivò alla carne, e tagliò grossi pezzi, da seccare e conservare. Gli organi interni e le altre parti non commestibili finirono nella fossa in fondo alla stanza: Born li coprì con la poltiglia vegetale già pronta, e aggiunse l'acqua attinta a una cisterna di legno. La Casa sarebbe stata soddisfatta. Born separò, pulì e raschiò la spina dorsale cava e le enormi costole arrotondate, poi le mise fuori, dove il sole le avrebbe fatte seccare. Le ossa piene sarebbero servite per ricavare utensili e ornamenti. I denti erano privi di valore, e non valeva la pena di portarli addosso come quelli del figliatore carnivoro ucciso da Losting. Non poteva farsi una collana da portare alle cerimonie con quei molari piatti: ma almeno avrebbe mangiato bene. Dopo aver ridotto il bruchiere alle sue componenti più utili, Born si pulì le mani e le braccia. Andò in un angolo, e tirò una tenda di fibre intessute. Frugò e trovò un altro spegnitore. Adesso avrebbe dovuto procurarsene un secondo di scorta. Studiò l'arma, mentre considerava il problema. Se ne sarebbe fatto fare urto da Jhelum: aveva le mani molto più abili delle sue a lavorare il legno verde, e più svelte. Sorrise, appena. Avrebbe dovuto rinunciare a buona parte del suo bruchiere per procurarsi un nuovo spegnitore, ma gli sarebbe rimasto abbastanza da mangiare, per un po' di tempo. Jhelum, che non andava a caccia e aveva due figli e una moglie, avrebbe apprezzato molto la carne. «Vado a trovare Jhelum l'intagliatore, Ruumahum. Tornerò...» Un lungo fischio sommesso gli arrivò dall'angolo, dove stava il velloso. Born imprecò, esasperato. Sembrava che a nessuno interessasse se lui viveva o crepava. Scostò con rabbia lo schermo di pellefoglie e si avviò versò la casa di Jhelum. Quasi tutto il resto della giornata venne speso a concludere lo scambio. Alla fine, Jhelum accettò di preparare il nuovo spegnitore in cambio di. tre quarti della carne del bruchiere e dell'intero scheletro. In condizioni normali, Born non avrebbe mai pagato un prezzo tanto alto. Aveva faticato quasi una settimana per. prendere il bruchiere, e la cattura d'una preda del genere comportava rischi non comuni. Ma era stanco, frustrato dall'acco-
glienza indifferente, e confuso dal comportamento di Passo Chiaro. Inoltre, Jhelum gli mostrò uno splendido pezzo di tubo ligneo verde, quasi azzurro in certi punti, che poteva servire per fabbricare l'arma. Sarebbe stato uno spegnitore eccezionalmente bello. Non si era fatto imbrogliare, ma non aveva concluso neppure un affare. Si arrampicò, tutto solo, nella parte superiore del villaggio, dove i tronchi minori cominciavano a ricongiungersi per formarne uno solo, enorme. Di lassù poteva guardare il villaggio e la muraglia della foresta. Il centro del villaggio era il più ampio spazio aperto che Born avesse mai visto in vita sua, a parte l'Inferno Superiore, naturalmente. Lì poteva rilassarsi e studiare il mondo, senza timore di essere aggredito. Mentre stava guardando, una vetrofarfalla si posò su di un roseo fiore del tralcio. Le ali rosse e azzurre sbattevano pigramente, e il sole splendeva attraverso quelle trasparenti vetrate organiche. Anche questo contribuiva ad indurre molti abitanti del villaggio a considerare Born un po' pazzo. Solo lui si metteva seduto a sprecare il tempo a osservare le farfalle e i fiori, che non potevano né nutrire né uccidere. Neppure Born, del resto, sapeva perché lo faceva: ma qualcosa, dentro di lui, ne ricavava un senso di soddisfazione. Di soddisfazione e di calore. Voleva imparare tutto ciò che c'era da sapere sul conto di ogni cosa. Reader, lo sciamano, aveva tentato molte volte di esorcizzare il demone che spingeva Born a fare tante cose inutili, ed ogni volta aveva fallito. Born si era sottomesso a quelle cure solo per l'insistenza preoccupata della coppia principale, Sand e Joyla. Ma alla fine, Reader aveva rinunciato, dichiarando incurabili le aberrazioni di Born. Finché non faceva del male a nessuno, tutti erano d'accordo per lasciarlo in pace. Tutti gli volevano bene. Tutti tranne Losting, naturalmente. Ma l'antipatia di Losting aveva le sue radici non nelle aberrazioni di Born, bensì in una delle sue ossessioni. Una goccia tepida di pioggia cadde sulla fronte di Born e gli scorse giù per il volto. Poi ne venne un'altra, un'altra ancora. Era tempo di recarsi al consiglio. Born ridiscese verso il villaggio, passando attraverso i piccoli tronchi. Il fuoco era stato acceso al centro della piazza, nel punto indurito e annerito da tante fiamme. Un ampio tendone di pellefoglie riparava dalla pioggia: sotto, c'era posto per tutti gli abitanti. Già si erano radunati in molti; Sand, Joyla, e Reader erano i più importanti. Mentre scendeva quasi correndo sotto la pioggia ormai continua, Born
scorse Losting. Entrò nel cerchio, e prese posto tra gli uomini di fronte al suo rivale. Losting, a quanto pareva, aveva saputo del ritorno di Born e dell'offerta della pelle del bruchiere, perché lo guardava attraverso il fuoco in modo più invelenito del solito. Born lo ricambiò con un cortese sorriso. Il suono continuo della pioggia tepida che cadeva sulle pellefoglie e sgocciolava sulla spianata lignea formava un contrappunto sussurrato al brusio dei presenti. Di tanto in tanto un bambino rideva, e subito veniva zittito dagli adulti. Sand alzò un braccio per chiedere silenzio. Accanto a lui, Joyla fece altrettanto. La gente tacque. Sand, che non era mai stato un uomo imponente «aveva all'incirca la taglia di Born» adesso, rattrappito e aggobbito per l'età, sembrava addirittura più piccolo. Ma la sua presenza incuteva ancora soggezione. Era come un vecchio orologio consunto che trascorreva il tempo a ticchettare con solenne pazienza, ma al momento necessario faceva risuonare rintocchi sorprendentemente foni e chiari. «La caccia è stata buona,» riferì qualcuno. «La caccia è stata buona,» fece eco l'intera assemblea, in tono d'approvazione. «La raccolta è stata buona,» intonò Sand. «La raccolta è stata buona,» si affrettò a confermare il coro. «Tutti coloro che erano qui l'ultima volta sono qui ancora,» osservò Sand, passando lo sguardo sul cerchio dei presenti. «La linfa scorre forte nella Casa.» «L'andamento dei baccelli,» annunciò una delle donne. «Il seme di Morann ed Oh matura. Maturerà entro il mese.» Sand e tutti gli altri annuirono e mormorarono, approvando. Dall'alto rombò un tuono, che echeggiò per i canyon di cellulosa, precipitò tra gli abissi clorofillacei. La litania serale continuò: la quantità e le specie dei frutti e delle noci raccolte; la quantità e la specie di animali da carne uccisi e messi a conservare; le esperienze, i successi e gli insuccessi di ogni membro della tribù per quel giorno ormai trascorso. Vi fu un mormorio d'apprezzamento e d'ammirazione quando Born annunciò l'uccisione del bruchiere, ma non fu intenso come egli avrebbe desiderato. Non teneva conto del fatto che c'era qualcosa d'altro, a dominare la mente di tutti. Toccò a Reader parlarne. «Questo pomeriggio,» cominciò, agitando il totem della sua carica, la sacra ascia, «qualcosa è sceso dall'Inferno Superiore in questo mondo. Qualcosa di gigantesco, inimmaginabile...»
«No, non inimmaginabile,» l'interruppe Joyla. «Bisogna ritenere che i Pilastri siano più grandi.» Vi furono brusii d'approvazione. «Ben detto, Joyla,» ammise Reader. «Qualcosa che, per la sua grandezza, ha un peso inimmaginabile, allora.» E questa volta assunse un'espressione soddisfatta, mentre Joyla taceva. «È entrato nel mondo a nord-ovest dell'albero della tempesta ed è disceso nell'Inferno Inferiore. Probabilmente era un abitante di quell'Inferno recatosi a visitare i suoi cugini dell'Inferno Superiore, che ritornava alla sua patria.» «Non può darsi che ci siamo sbagliati, sul conto dei Demoni dell'Inferno Superiore?» si azzardò a chiedere qualcuno. «Non potrebbero diventare veramente grossi come quelli di laggiù? Ne sappiamo così poco di entrambi gli inferni.» «E per quanto mi riguarda,» intervenne qualcun altro, «non ho nessun desiderio di saperne di più!» Vi furono risate d'approvazione. «Tuttavia,» insistette lo sciamano, puntando l'ascia verso l'individuo che preferiva rimanere nella propria tranquilla ignoranza «questo demone ha deciso di scendere nelle nostre vicinanze. E se non fosse ritornato nella sua patria, nel profondo? Da quando è arrivato non ha più fatto rumore, non si è più mosso. Se rimarrà vicino a noi, chi può dire che cosa potrà fare?» La folla si agitò, irrequieta. «C'è la possibilità che sia morto. La possibilità di esaminare un demone morto sarebbe interessante, ma soprattutto tanta carne ci sarebbe preziosa.» «A meno che non arrivino i suoi parenti a reclamare il cadavere,» gridò qualcuno. «In tal caso, preferirei trovarmi altrove!» Vi furono borbottii di consenso. Il fulmine crepitò sopra l'emergente più alto, e di nuovo il tuono scese rombando verso di loro. Con suo grande stupore, Born si ritrovò in piedi all'improvviso, per parlare. «Io non credo che fosse un demone.» I presenti si spostarono in massa, tutti gli occhi si posarono su di lui. Quell'attenzione improvvisa gli diede un senso acuto di disagio, ma Born non si lasciò sgomentare. «Come fai a saperlo? L'hai visto?» chiese finalmente Reader, riprendendosi all'inattesa dichiarazione di Born. «Non ne hai parlato con nessuno.» Born scrollò le spalle, cercando di assumere un tono disinvolto. «Nessuno si è precipitato a chiedermelo.» «Se non era un demone, la cosa che dici di aver veduto, allora che cos'era?» chiese sospettoso Losting.
Born esitò. «Non lo so. L'ho appena intravisto per un attimo mentre precipitava attraverso il mondo... ma l'ho visto!» Losting rimase seduto al suo posto, facendo guizzare i muscoli nella luce del fuoco, e sorrise a quelli che gli stavano vicini. «Suvvia, Born,» intervenne Joyla. «O l'hai visto o non l'hai visto.» «Ma è appunto così,» protestò lui. «Anch'io stavo cadendo. L'ho visto, eppure non l'ho visto. Quando gli scrosci e gli schianti del mondo hanno raggiunto il culmine, io ho visto un lampo d'azzurro carico tra gli alberi. Un azzurro lucente, come quello di un asanis.» «Forse è proprio questo che hai visto, un fiore di asanis che cadeva,» disse Losting con un sorriso ironico. «No!» Born si girò di scatto a lanciare un'occhiataccia rabbiosa al rivale. «Era quel colore, ma brillante, carico e troppo... troppo nitido. Rimandava la luce.» «Rimandava la luce?» fece meravigliato Reader. «Com'è possibile?» Com'era possibile? Lo fissavano tutti, quasi desiderosi di poter credere che egli avesse visto qualcosa che non era un demone. Born si sforzò di ricordare l'istante della caduta, quella rapida visione di un azzurro alieno attraverso i rami. Rifletteva la luce come una foglia di asanis... no, più come il suo coltello quand'era ben lucidato. I suoi occhi vagarono distratti mentre cercava disperatamente qualcosa che servisse come termine di paragone. «Come l'ascia!» proruppe, indicando drammaticamente l'arma che pendeva dalla destra dello sciamano. «Era come l'ascia.» Gli sguardi di tutti si volsero automaticamente sulla sacra arma anche quelli di Reader. Sommessi bisbigli di derisione si levarono qua e là. Non c'era niente come l'ascia. «Forse ti sbagli, Born,» osservò gentilmente Sand. «Come ho detto, è accaduto molto in fretta. E tu stavi cadendo, quando lo hai visto.» «Ne sono assolutamente sicuro, signore. Esattamente come l'ascia.» Born si augurò di provare davvero la certezza che cercava di ostentare, ma ormai non poteva fare marcia indietro senza fare la figura dello sciocco. «In ogni caso,» affermò, e provò una specie di orrore nel sentire ciò che diceva, «è abbastanza semplice provarlo. Basta che andiamo a vedere.» I mormorii della folla si fecero più forti: non erano più irridenti, ma scandalizzati. «Born,» cominciò in tono paziente il capo, «noi non sappiamo cosa sia quella cosa, né dove sia andata. Può darsi che sia già ritornata nell'abisso
da cui probabilmente era salita. Lasciamola stare.» «Ma noi non lo sappiamo,» obiettò Born, lasciando il proprio posto per avvicinarsi al fuoco. «Forse non è tornato al luogo da cui è venuto. Forse è soltanto un livello più in basso, e dorme, in attesa di captare l'odore della Casa per venirci a cercare, uno ad uno, nella notte. Se è un tale mostro, sarebbe meglio che andassimo a cercarlo noi per primi, per ucciderlo mentre dorme.» Sand annuì lentamente, volgendo lo sguardo sui presenti. «Benissimo. Chi vuole andare con Born per cercare la pista di questo demone?» Born si voltò a guardare gli altri cacciatori, con una silenziosa implorazione. Vi furono un lungo silenzio e occhiate di sfida. Poi, sorprendentemente, arrivò la più inattesa delle risposte. «Andrò io,» annunciò Losting. Si alzò, e guardò fieramente Born attraverso il fuoco, come per dirgli: «Se tu non hai paura di questa cosa, non può essere tanto terribile». Born non resse quello sguardo. Un assenso riluttante lo diedero il cacciatore Drawn e i gemelli Talltree e Tailing. Gli altri cacciatori avrebbero finito per cedere e per offrirsi, nel timore di apparire codardi, ma Reader levò l'ascia. «Basta così. Andrò anch'io, contro la mia convinzione. Non è giusto che degli uomini si rechino a visitare uno dei dannati senza essere accompagnati da un esperto in fatto di dannazione.» «Questo è certo,» borbottò qualcuno. La risata che quel commento suscitò venne a causare un piacevole sollievo, dopo la solennità della procedura. Sand si coprì la bocca con la mano, per delicatezza, nascondendo un risolino indegno di un capo. «Ora preghiamo,» intonò energicamente, «perché coloro che cercano il demone lo trovino sofferente e debole, o non lo trovino affatto, e tornino a noi sani e salvi.» Levò entrambe le mani, chinò il capo e incominciò una cantilena. Nessuna autorità teologica terrestre avrebbe riconosciuto quel canto. Nessun pastore, prete, rabbino o stregone avrebbe saputo identificare la sua fonte d'ispirazione: ma l'avrebbe identificata qualunque bioingegnere. Ciò che nessuno però avrebbe saputo spiegare era perché quella cantilena sembrava così efficace, sotto il piangente cielo notturno e il tendone di pellefoglia. I tre occhi brillavano come carboni accesi, riflettendo la danza delle fiamme lontane. Ruumahum stava sdraiato nell'incavo dei rami e guardava con aria dubbiosa la gente radunata sotto di lui. Teneva il muso poggiato
sulle zampe anteriori incrociate. Sul ramo accanto risuonò un raschiare goffo. Dopo un attimo, quaranta chili di pelliccia e di carne in movimento impacciato piombarono al suo fianco. Ruumahum brontolò irritato e si voltò a dare un'occhiata. Era il cucciolo che si era attaccato al giovane orfano umano, Din. «Vecchio,» chiese sottovoce Muf, «perché non stai riposando come gli altri fratelli?» Ruumahum volse di nuovo lo sguardo sul lontano baldacchino di pellefoglie ed agli umani che cantavano. «Io studio l'Uomo,» mormorò. «Vai a dormire, cucciolo.» Muf rifletté, poi si avvicinò strisciando al grosso adulto e guardò a sua volta in direzione del fuoco. Dopo una pausa, alzò la testa con fare interrogativo. «Che cosa fanno?» «Non ne sono sicuro,» rispose Ruumahum. «Credo che in un certo senso cerchino di diventare come i fratelli... come noi.» «Noi? Noi?» Muf tossì comicamente nella pioggia e si sedette sulle anche. «Ma pensavo che fossimo noi, a cercare di diventare come gli umani.» «Così si crede. E adesso vai a dormire, presto!» «Ti prego, vecchio, sono così confuso. Se l'Uomo cerca di diventare come noi e noi cerchiamo di diventare come l'Uomo... allora, chi ha ragione?» «Tu fai troppe domande, cucciolo: non puoi capire bene. Come puoi pretendere di capire la risposta? La risposta è... Ciò che si cerca, un incontro, un congiungimento, una concatenazione, una rete intrecciata.» «Capisco,» mormorò Muf, che non aveva capito nulla. «E cosa accadrà, quando si otterrà questo?» «Non so,» rispose Ruumahum, tornando a guardare il fuoco. «Nessuno dei fratelli lo sa: tuttavia lo cerchiamo. Inoltre, l'Uomo ci giudica interessanti e utili, e crede di essere il padrone. I fratelli giudicano l'Uomo utile e interessante, e non pensano al predominio. L'Uomo crede di comprendere questo rapporto. Noi sappiamo di non comprenderlo. E lo invidiamo per questa sua compiaciuta ignoranza.» Accennò con la testa agli umani radunati là sotto. «Forse non lo comprenderemo mai. La rivelazione non viene mai promessa: la si spera soltanto.» «Capisco,» mormorò il cucciolo, che continuava a non capire nulla. Si rialzò in piedi, goffamente, e si voltò per andare, poi si fermò per guardarsi indietro. «Vecchio, ancora una domanda.» «Quale?» borbottò Ruumahum, senza distogliere lo sguardo dagli umani
in preghiera. «Tra i cuccioli si dice che noi non pensavamo e non parlavamo, prima che venissero gli umani.» «Non è una voce, piccolo: è la verità. Noi dormivamo, invece.» Ruumahum sbadigliò, scoprendo i denti e le zanne affilati come rasoi. «Ma dormiva anche l'Uomo. Si pensa che ci siamo svegliati insieme.» «Lo so,» ammise Muf, che non lo sapeva affatto. Si voltò e si allontanò per andarsi a cercare un posto dove dormire quella notte. Ruumahum tornò a concentrare la sua attenzione sugli esseri umani, pensando che era una fortuna, per lui, avere una persona interessante e imprevedibile come Born. Adesso c'era quella cosa nuova che l'indomani sarebbero andati a cercare. Bene, se domani il mondo doveva cambiare, pensò mentre sbadigliava, era meglio affrontare il mutamento dopo un buon sonno. Si rotolò sul fianco, nascose la testa tra le zampe anteriori e centrali, e andò, immediatamente e serenamente, in quel suo regno speciale. Born era dell'idea di partire prima che si sollevasse la nebbia mattutina, ma Reader e gli altri non ne vollero sapere. Losting guardava con commiserazione l'ideatore di quella proposta assurda e pericolosa. Chiunque pensasse di aggirarsi nel mondo tra la nebbia, dove un uomo non poteva vedere ciò che magari lo stava pedinando dall'alto o da dietro fino a quando non se lo trovava addosso, era decisamente pazzo. La spedizione era composta di dodici membri: sei uomini e sei vellosi. Gli uomini procedevano in fila indiana per le vie arboree, mentre i vellosi si dispiegavano sopra, sotto e ai lati, formando intorno a loro un cordone protettivo. Born e Reader erano insieme al comando mentre Losting, per sua scelta, procedeva alla retroguardia. Losting provava sentimenti contrastanti, a proposito di quella spedizione, e cercava di tenersi il più possibile lontano da Born, che ne era il responsabile. Inoltre, per quanto lo detestasse per l'interesse che dimostrava verso Brightly Go, Losting non era così stupido da non riconoscere le qualità di Born. Perciò, era giusto che gli spettasse procedere in testa. Ma del resto, si disse Losting per consolarsi, i pazzi sono sempre furbi. L'avanzata attraverso le diramazioni del soleggiato Terzo Livello fu rapida e ininterrotta. Solo una volta udirono ringhi d'avvertimento, in lontananza, alla loro sinistra e in basso: gli esploratori si fermarono e prepararono gli spegnitori. Taandason, che aveva emesso quei suoni ammonitori, apparve poco dopo sopra il rampicante che correva parallelo al percorso
seguito dagli umani. Ansava leggermente e sbuffava di rabbia. «Multigambe bruni,» riferì il velloso. «Una coppia in caccia. Ha visto me e ha soffiato, ma suo compagno fatta girare. Adesso andati.» Il velloso si voltò, balzò su di un basso ramo e scomparve tra il fogliame. Reader annuì soddisfatto e fece segno alla colonna di proseguire. Le spine vennero riposte nelle faretre, i semi serbatoio nelle borse. Un multigambe bruno, rifletté Born, non avrebbe esitato a lanciarsi alla carica contro due o tre uomini. Una coppia in caccia era in grado di affrontare quasi di tutto, al mondo. Ma un gruppo tanto numeroso di uomini e di vellosi costringeva anche i più grossi carnivori della foresta a pensarci due volte, prima di attaccare. Restava da vedere se anche un demone la pensava allo stesso modo. Dovevano essere ormai vicini. Born riconobbe un caratteristico albero del Sangue, con le foglie a boccale piene dell'acqua resa cremisi dalla secrezione di tannino della pianta. Poco dopo aver superato l'albero del Sangue, si sentirono investire da una brezza costante. Un mormorio passò tra i marciatori. Nel mondo della foresta era raro che il vento soffiasse costante in una direzione qualsiasi. C'erano invece raffiche che venivano e si dileguavano come fantasmi, sfrecciando e guizzando intorno a rami, tronchi e steli come cose vive. Ma quella brezza era costante, decisa e calda. Abbastanza calda, pensò Born, da giungere direttamente dall'Inferno. Reader brandì l'ascia in atto di sfida verso tutti gli spiriti maligni della zona che avessero osato avvicinarsi. Ognuno degli uomini si strinse addosso il proprio mantello verde, per proteggersi. Born accennò ai compagni di rallentare e di disporsi in ordine sparso. Davanti a lui, il mondo parve cambiare improvvisamente prospettiva. Percorse un altro paio di passi lungo il rampicante, spinse a lato una foglia pendula d'orecchio-di-balena, e lanciò un grido, serrando convulsamente una mano intorno a una liana cui si teneva aggrappato. Altre grida risuonarono intorno a lui: ma Born era temporaneamente paralizzato, incapace di guardare i suoi compagni. Ad un palmo di distanza dal punto in cui si trovava, il legno robusto del rampicante si era schiantato come uno stelo marcio, e si erano spezzate allo stesso modo altre piante, più grandi e più piccole, lì intorno. Nel mondo si era aperto un immenso pozzo. Born guardò su, su, verso un cerchio dallo strano colore, duecento metri più in alto. Una chiazza di azzurro intenso punteggiata di cumuli bianchi... l'azzurro dell'Inferno Superiore. Sotto «Born si aggrappò ancora più strettamente alla liana» sotto, a una
distanza altrettanto enorme, al Quinto Livello, stava un lucente oggetto azzurro che rifletteva il sole come l'ascia. Al centro c'era qualcosa ancora più lucente, che traeva arcobaleni dalla luce del sole, un emisfero irregolare di una sostanza simile alle ali trasparenti delle vetrofarfalle. La parte superiore era frastagliata ed aperta all'aria. Le viti, i rampicanti, i tralci, le aggrovigliane e altre piante stavano già distruggendo le pareti lisce del pozzo, protendendosi in avanti in una furiosa concorrenza per disputarsi la ricchezza inusitata della luce solare. Born studiò le epifite che si espandevano, le piante che crescevano, e calcolò che entro due settimane la nuova vegetazione avrebbe coperto completamente il pozzo. Tuttavia, avrebbero dovuto evitare quell'area per un po' di tempo, fino a quando non l'avesse riempita una flora più fitta. «Qui, Born!» chiamò uria voce. Born si voltò e vide Reader ritto sul ramo spezzato di un Pilastro: si sporgeva per quanto poteva osare e faceva gesti con l'ascia. L'arma balenava come la folgore in quella luce verdognola. In pochi minuti tutti i membri della spedizione si radunarono sul ramo spezzato, che era largo parecchi metri. I vellosi si erano raccolti tutti insieme da una parte, in silenzio, per vedere ciò che avrebbero fatto gli umani. «È sicuramente un demone, e dorme,» cominciò uno dei gemelli... Talltree, notò Born. «Io non sono ancora convinto che sia un demone,» ribatté Born con fermezza. «Credo che sia una cosa, un oggetto che è stato fabbricato.» E indicò Reader con un cenno del capo. «Come l'ascia.» Varie esclamazioni accolsero l'opinione blasfema espressa da Born. Reader levò una mano per intimare silenzio. «Gente, non è il posto adatto per far chiasso. I demoni dell'Inferno Superiore potrebbero scendere quaggiù attraverso la buca aperta dal demone più grosso. Discuteremo ancora la cosa: ma come ho detto, senza far rumore.» La conversazione continuò, a bisbigli. «Dunque, Born,» fece Reader, «come mai sei così sicuro che la cosa azzurra là sotto non sia un demone, ma un oggetto fabbricato, come l'ascia?» «È proprio quel che sembra,» rispose Born. «Guarda come sono regolari i suoi contorni, e guarda il modo in cui riflette la luce.» «E questo un demone non potrebbe farlo? La pelle di un orbiolo non riflette la luce, forse? Ne sei certo, Born?Born distolse lo sguardo.» Non c'è modo di esserne sicuri, sciamano, «disse, e fissò il vecchio.» Se non scendere ed andare a vedere.
«Ma se è un demone?» chiese Drawn, a voce alta. «E se dorme e si sveglia quando lo tocchiamo?». Il cacciatore, che stava accosciato, si alzò, stringendo lo spegnitore. «No, amico Born. Io rispetto le tue intuizioni e onoro la tua bravura, ma non verrò con te. Ho una compagna e due figli e non me la sento di andare a bussare sul cranio di un demone per vedere se c'è qualcuno in casa. No, non vengo.» Fece una pausa, riflettendo. «Ma terrò in considerazione ciò che diranno lo sciamano e i miei fratelli.» «Cosa dicono i cacciatori, dunque?» chiese Reader. Parlò l'altro gemello. «Per la verità, può essere come dice Born. Può essere soltanto una cosa fabbricata, senza vita: e allora mi sembra che non costituisca una minaccia per la Casa. Oppure può essere, come dice Drawn, un demone dormiente in attesa che un imprudente lo svegli. Se lo lasciamo stare può darsi che dorma per sempre, o che se ne vada pacificamente per la sua strada. Personalmente, ritengo sia un demone d'una specie nuova, feritosi nella caduta dall'Inferno Superiore. Dobbiamo andarcene senza disturbarlo, lasciandolo morire in pace, perché non si levi infuriato e non ci distrugga.» Tailing e Talltree si alzarono insieme ed esposero le loro opinioni. Talvolta uno dei gemelli incominciava una frase e l'altro la concludeva. Lo facevano senza guardarsi, il che non era sorprendente, perché nella foresta il ramo di un albero deve forse consultarsi con un altro prima di mettere le foglie? Alcuni pensavano che i gemelli fossero più della foresta che della razza dell'Uomo. «Comunque sia, sciamano,» concluse Talltree, «sembra che non abbiamo nulla da perdere lasciandolo indisturbato, e tutto da guadagnare tornando a Casa senza far chiasso per la strada da cui siamo venuti.» «Non ve ne importa niente?» chiese apertamente Born. «Non siete curiosi? Non vi interessa sapere se è un demone benigno?» «Io non ho mai sentito parlare di un demone benigno e mi interessa soltanto sopravvivere,» rispose Drawn. Gli altri ascoltavano attenti. Dopo Born, Drawn era il più abile cacciatore del villaggio. «Lì dove sta,» e accennò al pozzo che squarciava il mondo, «non minaccia noi né la Casa. Non capisco come un'ispezione da vicino possa migliorare la situazione. Io voto che si ritorni a Casa.» «Anch'io... anch'io... io pure...» Uno ad uno, gli uomini che formavano il piccolo cerchio sugli alberi presero la parola: erano tutti contrari a Born. Sempre contrari a Born, pensò lui, furioso.
«Tornate indietro, allora!» gridò disgustato, allontanandosi dal cerchio per salire su un ramo più alto. «Scenderò da solo.» Gli altri cacciatori borbottarono. Reader e Drawn, i più anziani, avevano un'aria comprensiva; ma erano d'accordo nell'affermare che Born non aveva ancora acquisito una prudenza degna delle altre sue qualità. Il villaggio avrebbe sentito la sua mancanza, se non fosse tornato. Se voleva andare, lo lasciassero fare; ma non dovevano imitare la sua pazzia. Perciò Born si acquattò, solo, sul suo ramo più alto, imbronciandosi, mentre i suoi compagni si preparavano. I vellosi si disposero a ventaglio intorno a loro, poi cominciarono a scendere lungo il rampicante, in direzione della Casa. Nonostante l'irritazione, Born provò quasi la tentazione di raggiungerli, di tentare ancora di convincerli. Solo il sogghigno a malapena velato di Losting lo scosse. Quel frutto di pium troppo maturo sarebbe stato felicissimo di vederlo sparire per sempre, lasciandogli via libera con Passo Chiaro. Ma Born non sarebbe sparito per fargli un piacere. Avrebbe appreso la verità sul conto di quel mostro azzurro, laggiù, e sarebbe tornato a raccontarla. Gli altri che se ne erano "andati si sarebbero dovuti vergognare, e Passo Chiaro gli avrebbe sorriso per dimostrargli il suo favore. Tuttavia, c'era da tener presente che il gruppetto era composto solo di uomini coraggiosi, e che il saggio Reader non era uno sciocco. C'era ancora la possibilità che lui si ingannasse e che avessero ragione tutti gli altri. Accantonò quella sgradevole possibilità e fischiò, sommessamente. .Ruumahum apparve dopo un attimo: il piccolo ramo vacillò sotto il loro peso. Il velloso lo guardò con aria d'attesa, si affrettò ad incrociare le quattro zampe anteriori e si addormentò". Born scrutò distrattamente quella forma massiccia prima di rivolgere la propria attenzione sulla destra. Là, oltre poche fronde fitte e molti tralci penduli, si apriva il pozzo che saliva fino all'Inferno Superiore. E in fondo al pozzo stava un enigma che egli avrebbe dovuto risolvere da solo. Beh, non proprio da solo. Colpì Ruumahum a un lato della testa, un colpo che avrebbe fatto sobbalzare un uomo grande e grosso. II velloso si limitò a sbattere le palpebre; sbadigliò e cominciò a lisciarsi il pelo con una zampa anteriore. «In piedi e fuori,» disse fermamente Born. Ruumahum lo fissò insonnolito. «A far che?» «Vieni, buono a niente. Voglio vedere da vicino quella cosa azzurra.» Ruumahum sbuffò. L'umano non aveva due occhi eccellenti? Ma ammise che Born aveva ragione. Qualcuno doveva sorvegliare gli spazi aperti,
in alto e ai lati, mentre Born era allo scoperto nella radura. Born strisciò, solo, senza spegnitori carichi che appoggiassero la sua azione, senza lance di legnoferro che rafforzassero la sua sicurezza, fino all'orlo della fossa, e guardò in basso. Lo scintillante globo azzurro era ancora là, immutato. Non si era mosso e non accennava a muoversi. Mentre Born guardava, vi fu un crepitio sonoro, e l'oggetto parve cadere ancora un po' più giù. Il pozzo che aveva aperto attestava il suo peso enorme: e sembrava sprofondare ancora, di ramo spezzato in ramo spezzato, da un rampicante troppo carico all'altro. Poteva darsi che continuasse a sprofondare, cadendo al Sesto Livello o addirittura fino all'Inferno Inferiore. Born non sarebbe sceso a quelle profondità neppure per tutta la carne della foresta, neppure per Passo Chiaro. Doveva muoversi subito, prima che quell'occasione gli venisse sottratta per sempre. Si sporse ancor più sull'abisso, serrando più forte le dita intorno ad una liana vicina, in apparenza infrangibile. Forse la liana era infrangibile davvero, ma la sua stretta risultò non esserlo. Qualcosa lo strinse intorno alla cintura e al collo e lo tirò via con forza. Il grido che aveva in gola si trasformò in un urlo di rabbia quando si districò dalla stretta delicata di Ruumahum. «Cosa...» Ruumahum alzò significativamente gli occhi verso l'alto, e borbottò sottovoce: «Viene diavolo.» Born guardò attraverso una fessura nella parete del pozzo. In un primo momento non vide il puntolino scuro contro lo sfondo del cielo: ma poi il punto divenne rapidamente più grande. Quando la sagoma si rese riconoscibile, Born arretrò di un altro metro tra la vegetazione e caricò lo spegnitore. Il diavolo celeste aveva un lungo corpo aerodinamico, munito di ampie ali. Quattro sacche coriacee, due per parte, inalavano l'aria e l'espellevano attraverso tubi elastici, presso la coda del mostro. Si muoveva a sobbalzi ansanti, scendendo in cerchio. Una lunga testa dal muso di rettile guizzava in cima al collo serpentino. I due occhi gialli guardavano giù, i denti acuminati come aghi lampeggiavano nella luce solare verdepallida. Equipaggiato nel modo ideale per sorvolare silenziosamente le cime degli alberi, centinaia di metri più sopra, e per catturare gli animali arboricoli imprudenti, il diavolo celeste si era sentito attirato da qualcosa nel profondo del pozzo. L'apertura d'ali di tre metri gli lasciava poco spazio per manovrare in quel rozzo varco cilindrico, ma il mostro ci riusciva, volteggiando in
cerchio, scendendo a spirale, esaminando ogni sezione delle pareti verdi mentre scendeva. Bora rimase seduto immoto sul suo ramo, nascosto dietro un'ampia foglia più alta di Losting, e avvolto strettamente nel mantello verde. Il diavolo arrivò alla sua altezza, volteggiò e passò oltre. Tenendosi vicino al ramo, Born tornò ad avanzare cauto verso il precipizio. Laggiù in basso vide il dorso scaglioso e le ali che calavano verso l'oggetto azzurro. Poi il diavolo toccò il fondo, ripiegò le ali e si fermò. Il diavolo camminò goffamente sopra la superficie azzurra, avviandosi barcollando verso la cupola al vertice dell'oggetto. Urtò il globo con il becco dentato, colpì di nuovo. Born lo sentì gridare, in distanza: un gracchiare soffocato. Un altro suono salì fino a lui Era un suono che penetrava attraverso il chiasso abituale delle viti a pettine e dei risonatori e dei loquaci chollakee. Era un urlo umano, e proveniva dall'oggetto o dalle sue immediate vicinanze! CAPITOLO 4 Born cominciò a scendere senza riflettere, lanciandosi arditamente di ramo in ramo, tendendo i muscoli delle spalle per i contraccolpi, spiccando balzi lunghi interi metri. Ruumahum lo seguiva da vicino. Facevano abbastanza chiasso da attirare metà dei predatori pomeridiani della foresta, e il velloso glielo disse chiaro. Immerso in altri pensieri, Born non badò neppure agli avvertimenti. Una volta per poco non cadde proprio sul dorso di un Chan-nock; la schiena bitorzoluta del grosso rettile arboreo era una perfetta imitazione di un tralcio di aggrovigliana, mentre la bestia stava tesa tra i tronchi di due alberi aerei. Il piede di Born toccò il dorso corazzato. Immediatamente si rese conto di aver toccato carne e non legnò. Ma si muoveva tanto rapidamente che era già arrivato due metri più sotto quando il Chan-nock si avvolse fulmineamente in spire per stritolare l'intruso. Furioso di aver mancato la preda, il muso tozzo si avventò contro Ruumahum. Senza neppure interrompere la discesa precipitosa, il velloso protese una zampa nel passare e schiacciò il cranio piatto a forma di punta di freccia. Se Born avesse pensato a ciò che faceva, forse sarebbe caduto e si sarebbe ferito gravemente. Ma si era affidato esclusivamente all'istinto. E i suoi riflessi incontrastati non lo tradirono. Solo quando Ruumahum accelerò bruscamente, gli passò davanti e rallentò, Born si rese conto di essersi
mosso con tanta rapidità. Per poco non si slogò una spalla fermandosi bruscamente dietro al velloso. Ansimavano forte tutti e due. «Perché fermarci adesso, Ruumahum? Noi.» Il velloso ringhiò sommessamente. «Sono qui,» borbottò. «Diavolo d'aria è vicino. Ascolta.» Born ascoltò. Nella sua eccitazione, per poco non aveva superato il livello dove stava la cosa azzurra. Ora poteva sentire la voce orribile del diavolo, per metà risata e per metà tosse, e un suono raschiante, simile a quello che produceva Reader facendo scorrere le unghie sulla lama dell'ascia durante le invocazioni. Allora non si era ingannato sulla composizione della cosa azzurra! Non ebbe il tempo di crogiolarsi nella soddisfazione. Risuonò un gemito, questa volta, non un grido: ma era altrettanto umano. «C'è gente, là, e il diavolo celeste vuole prenderla,» sussurrò Born. «Ma che gente vive al Quinto Livello? Tutti gli umani conosciuti vivono al Terzo o al Secondo.» «Io non so,» rispose Ruumahum. «Io sento molta stranezza qui. Stranezza e novità.» «Bisogna ucciderlo.» «Diavoli d'aria muoiono lentamente, uomo Born,» gli ricordò Ruumahum. «Sii prudente.» Born annuì, poi entrambi arretrarono, addentrandosi tra gli arbusti. «Il diavolo dell'aria non riuscirà a penetrare qui. È troppo grosso e impacciato sul legno. Ma se ci riesce...» Cominciò a cercare, intorno alla circonferenza del pozzo, tenendosi sempre lontano dallo spazio libero dove l'incubo vivente graffiava e artigliava la cosa azzurra. Trovò qualcosa che poteva servire... una certa orchidea epifita annidata nella biforcazione formata dai grandi rami inferiori di un emergente. La base della pianta superava i rami da entrambi i lati, e la grande sfera di humus inviava in basso, in tutte le direzioni, le lunghe radici aeree. Sopra, i grossi petali che avevano il colore scuro delle calcedonie si inarcavano verso il cielo. Una meravigliosa fragranza di cedro esalava dal profondo del fiore enorme, i cui petali color panna erano lunghi parecchi metri. Tenendosi prudentemente a distanza dal fiore gigantesco, Born ritornò adagio verso il pozzo. «Piano,» esortò ansioso Ruumahum. Born si voltò a guardare il velloso e gli accennò di tacere, ma seguì il consiglio. Lì c'era più spazio, dove la luce non penetrava bene. C'erano meno posti dove nascondersi, meno ragna-
tele di tralci e di liane che potevano trattenere un grosso carnivoro. Sicuramente, non c'era abbastanza spazio perché il diavolo celeste potesse spiegare le ali: ma quello aveva robuste zampe artigliute, e forse poteva trascinarsi nei tratti sgombri. Perciò Born aveva scelto l'orchidea come alleata silenziosa. Born raggiunse l'orlo del fondo del pozzo. Era cinto da un ammasso di legno schiantato e di vegetazione erbacea strappata. Lì, tutto era reso viscido e appiccicoso dalla linfa sgorgata. Doveva stare attento dove metteva i piedi. Poi, all'improvviso, scorse il diavolo celeste attraverso le foglie: batteva e graffiava esasperato cercando di afferrare qualcosa all'interno dell'azzurro disco metallico. Il gemito, ora Born ne era sicuro, proveniva dall'interno. Traendo un profondo respiro, e rimpiangendo di non avere un appiglio più stabile, puntò l'estremità dello spegnitore verso il cranio del diavolo: era un bersaglio difficile, che si agitava e scattava sul lungo collo flessibile. Born premette il grilletto. Vi fu un piccolo sbuffo esplosivo, quando il seme serbatoio scoppiò. La spina di jacari colse il diavolo dietro l'occhio sinistro. Il mostro fremette, mentre il suo lento sistema nervoso reagiva torbidamente al veleno, poi si girò per guardare netta direzione da cui era venuto il colpo. Nello stesso tempo, Born urlò: "Coraggio!" con tutto il fiato che aveva nei polmoni, per avvertire quelli che stavano dentro al metallo azzurro; poi si voltò e tornò indietro, correndo, lungo il ramo. Uno scroscio tremendo risuonò immediatamente dietro di lui: il diavolo celeste, mostrando un'energia inaspettata, piombò attraverso la muraglia esterna di rami e di tralci, sbavando dal desiderio di raggiungerlo. Born ebbe l'impressione di sentire sul collo il caldo alito fetido del mostro. Davanti a lui stava l'orchidea gigante. Lo strisciante orrore coriaceo gli era alle spalle. Da un istante all'altro i lunghi denti potevano stringersi sul suo collo e staccargli la testa. Non c'era tempo di voltarsi indietro, non c'era tempo per pensare. Born si tuffò oltre la sfera di terriccio del fiore, protendendo lo spegnitore, in modo che il tubo di legno verde sfiorasse alcune dozzine di radichette pendule. Born precipitò per un altro paio di metri, prima di atterrare, con un violento scossone, su un ciuffo di hyphae. Sopra di lui, le esili radichette che aveva sfiorato, e tutto ciò che esse avevano intorno, si stavano raggomitolando contro la massa della pianta. Il diavolo celeste irruppe tra la vegetazione, protendendo fauci e artigli verso Born, il quale restò immobile a guardare, affascinato e impotente, la discesa di quell'essere abominevole. Con una rapidità che quasi sfuggì all'occhio, i robusti petali bianchi della
pseudo-orchidea si dibatterono in tutte le direzioni, in preda a una furia cieca. Tre dei petali colpirono il diavolo infuriato, gli si attorcigliarono intorno e si contrassero. Il diavolo parve esplodere: gli occhi gli schizzarono dal cranio come semi maturi, le ali si raggrinzirono, le viscere schizzarono in tutte le direzioni. La pianta continuò a dibattersi freneticamente per parecchi minuti, prima che i petali cominciassero ad allentarsi. Nel ritornare alla forma normale, l'orchidea lasciò andare la poltiglia sfracellata che era stata il diavolo celeste. La carogna stritolata precipitò rimbalzando. Born si sollevò a sedere e la guardò cadere, mentre il cuore gli batteva a festa. Il diavolo era morto troppo in fretta per urlare, senza neppure sapere che cosa lo aveva ucciso. Puntellandosi allo spegnitore, Born si rimise in piedi e si arrampicò fin dove stava disteso Ruumahum, intento a guardarlo tranquillamente. «Credo,» disse, scosso da un lieve tremito, «che adesso possiamo andare ad aiutare quella gente.» Il velloso annuì in silenzio. Si avviarono di nuovo verso il pozzo che squarciava il mondo, girando di nuovo alla larga della pseudo-orchidea, ormai immobile, conosciuta nel villaggio come "pianta di Dunawett". Born scostò gli steli spezzati e si avviò immergendosi in qualcosa che aveva sperimentato solo poche volte in vita sua. Qualcosa che pochi avevano sperimentato... l'aria aperta. Guardò in alto, ma visto da lì il cielo era solo un cerchietto lontano d'azzurro incollato su di un soffitto completamente verde. «Guarderò Inferno Superiore,» annunciò Ruumahum, sedendosi accanto all'orlo del pozzo. Inclinò la testa e studiò stolidamente il lontano disco azzurro. Born allungò cautamente un piede, lo posò senza difficoltà sulla superficie azzurrocarica dell'oggetto. Era fredda e dura, proprio come la lama dell'ascia. Rassicurato, si avviò sulla superficie curvilinea, avviandosi verso la cupola centrale. Quando fu più vicino, vide che copriva una cavità circolare del metallo. Oltre gli orli spezzati e irregolari della cupola, vide all'interno grovigli di tralci e radici minutissime, fatti anch'essi di una sostanza dura e lucente. L'esame dell'interno del disco gli mostrò un lato fatto di altro metallo, segnato dalle ammaccature e dalle abrasioni inferte dagli artigli e dal becco del diavolo celeste. Born credette di sentire un fioco gemito provenire da quella parte. «Ehi! C'è qualcuno vivo, qui? Potete venire fuori. Il diavolo è andato dai
suoi cugini, all'Inferno.» Il gemito cessò di colpo e fu seguito da tintinnii metallici. Poi la sezione rettangolare di metallo cominciò a scomparire verso l'interno, girando su cardini. Un uomo levò la testa verso di lui, incerto. Nella mano gli brillava qualcosa di piccolo, che rifletteva la luce. Born trattenne il fiato. Era un'ascia... No, no, un coltello fatto dello stesso materiale dell'ascia, ma molto più liscio e levigato. Dopo aver fissato a lungo Born, l'uomo volse lo sguardo nella cavità aperta nel metallo. Quando si fu assicurato che Born diceva la verità e che il diavolo del cielo era sparito, uscì nello spazio aperto e cominciò un esame accurato della massa caotica della strumentazione, tenendo contemporaneamente d'occhio il cacciatore. Born studiò il gigante. Sebbene egli fosse un uomo di statura non più che normale, secondo i criteri della sua gente, era di ben venticinque centimetri più alto di Born. E presentava anche altre caratteristiche sorprendenti. Era innegabilmente umano, ma c'erano differenze sensazionali. I capelli erano di un rosso arancione anziché bruni, gli occhi azzurri anziché verdi, e la pelle... la pelle era incredibilmente pallida, sebbene tra la sua gente fosse considerato abbastanza abbronzato. Era di taglia snella, e aveva un viso lentigginoso e cordiale. «Jan?» Una seconda voce, un po' più acuta. «Si può...?» Poi la persona che parlava scorse Born, ritto in silenzio sulla superficie dell'apparecchio. Era di qualche centimetro più alta dell'uomo. Sotto la tuta lacera, il suo corpo era ossuto e atletico. I corti capelli color argento brunito indicavano che era anche un po' più vecchia del compagno. Dai calzoncini spuntavano le gambe lunghe e forti, anch'esse di un colore incredibilmente pallido, agli occhi di Born. Sembrava meno nervosa dell'uomo, un po' più sicura. «Chi diamine è quello?» domandò, con uno scatto di capo. L'uomo che aveva chiamato Jan cominciò a frugare con aria schifata tra i resti schiantati dei comandi. «L'uomo che ci ha appena salvato la vita, credo. Per il momento.» Jan alzò al cielo gli occhi inquieti. «Il diavolo celeste è morto,» l'informò Born. «Si è avvicinato troppo a una pianta di Dunawett stimolata. Non vi darà più fastidio.» L'uomo ascoltò quell'informazione, borbottò qualcosa di vago, e tornò a frugare, scoraggiato. «Il quadro dei comandi è a pezzi, Kimi,» annunciò alla fine. «Quello che non si è schiantato quando siamo precipitati, lo ha sbrindellato a colpi di becco quel carnivoro volante. Questa lancia non può
andare da nessuna parte: solo in un cantiere di demolizione.» La donna si sedette su ciò che restava di un sedile girevole, piegato ad un angolo che non era stato previsto dai costruttori. Born la scrutò incuriosito. Lei si accorse all'improvviso della sua attenzione e alzò gli occhi. «Cosa guardi, tappo?» Born si irritò, più per il tono che per le parole. «Se la mia presenza ti dà fastidio...» Sollevò lo spegnitore e si voltò per andarsene. «No, aspetta un momento, amico.» La donna appoggiò la testa sulle braccia conserte, per un minuto. «Lasciami un po' di tempo, ti prego. Abbiamo passato un gran brutto quarto d'ora.» Alzò di nuovo la faccia, e intrecciò le dita. «Devi capire, quando il nostro motore...» Notò l'espressione interrogativa di Born e ritentò. «Quando la cosa che faceva muovere questa cosa che ci porta nell'aria...» Il volto di Born mostrò un'espressione d'incredulità, ma la donna continuò: «Quando è precipitata qui, abbiamo creduto di essere spacciati. Invece ci siamo trascinati fuori dai resti dei sedili e ci siamo accorti di essere ancora vivi. Sconvolti, ma vivi.» Indicò con un gesto la muraglia verde che li circondava. «Questo pianeta incredibile... settecento cinquanta metri di foresta pluviale stratificata hanno attutito discretamente la caduta.» La dorma abbassò la voce. «Poi quell'orrore dal collo lungo ci è atterrato addosso. Siamo riusciti a malapena a infilarci nella botola del vano motore quando ha incominciato ad attaccare il portello. Ho creduto che fossimo di nuovo spacciati. E adesso salti fuori tu e sostieni che una pianta indigena ha ucciso qualcosa che si poteva ridurre alla ragione solo con il laser. E poi ci sei anche tu, che per noi non sei una sorpresa da poco.» «Che cos'ho, io?» chiese Born, inspiegabilmente a disagio. La donna fece un gesto stanco, vago. «Guardati.» Born non si guardò. «Sei un'anomalia: sei fuori posto, qui, secondo quanto ci avevano detto,» aggiunse in fretta la donna. «Questo dovrebbe essere un mondo inesplorato, mal conosciuto, disabitato, noto soltanto a...» «Attenta, Kimi,» disse l'uomo in tono di avvertimento, girando la testa. Lei lo zittì con un gesto. «Perché, Jan? Questo indigeno,» e indicò Born, «evidentemente non sa nulla che potrebbe complicare la nostra presenza qui.» Guardò di nuovo Born, alzandosi. «Come ho detto, questo mondo dovrebbe essere inesplorato. E all'improvviso, dopo una serie di eventi piuttosto sconcertanti, siamo costretti ad accettare la tua presenza. Immagino che tu non sia un fenomeno eccezionale. Ce ne sono altri come te?» «Il villaggio ne sostenta molti,» le disse Born, sperando che fosse una ri-
sposta adeguata. Quei giganti erano interessantissimi. «Ho detto indigeno, ma resta da stabilire di che specie.» La donna studiò apertamente Born, che sopportò quell'esame attento perché era impegnato a sua volta ad esaminarla. «Sei quasi una trentina di centimetri più basso di un adulto medio, ma hai le braccia e le spalle di un sollevatore di pesi.» Poi la donna abbassò lo sguardo. «E le dita dei piedi sono lunghissime, probabilmente prensili. Sei scuro come vecchio legno di sequoia, e hai capelli dello stesso colore... ma gli occhi verdi. Nel complesso, sei l'esemplare più straordinario che mi sia capitato di vedere da molto tempo. Tuttavia,» aggiunse in uno strano tono, «non sei sgradevole.» L'uomo fece udire un suono che a Born parve di disgusto, ma non riuscì a immaginare la ragione. Erano affascinanti e strani, quei giganti! Eppure gli dicevano che era strano lui. «Se il tuo popolo si è evoluto qui,» stava concludendo la donna, «nonostante il colore della carnagione, la taglia e le dita dei piedi prensili, è stato il caso più inverosimile di evoluzione parallela che si conosca. E parli terranglo. Tu cosa ne dici, Jan?» L'uomo alzò brevemente lo sguardo verso Born, poi sospirò e con un gesto d'impotenza indicò il quadro dei comandi. «Non so perché sto a perdere tempo con questa roba. Non c'è niente da fare. Anche se riuscissimo ad aggiustare il motore senza l'aiuto di un'officina completa, quella belva volante ha masticato i comandi come se fossero stati dei vermi in un sacchetto di carta. Siamo bloccati qui. La tridi non è in condizioni migliori. E probabilmente tutti i tuoi discorsi sulla morte sono ancora validi.» «Tu ti arrendi troppo presto e troppo facilmente, Jan,» l'ammoni la donna. Poi guardò Born. «Il nostro piccolo amico, qui, sembra disporre di risorse imprevedibili. Non vedo perché non potrebbe...» L'uomo si voltò di scatto, la fronteggiò con un'indignazione appena rattenuta. «Sei ammattita? Siamo a centinaia di chilometri dalla stazione, in mezzo a questo intrico impenetrabile...» «Sembra che la sua gente riesca a viverci,» disse la donna, senza alzare la voce. «... e se tu pensi di fare tutta questa strada a piedi, guidata da qualche primitivo ignorante...!» continuò l'uomo. Il linguaggio dei giganti era bizzarro, altisonante e distorto, ma Born riusciva a comprendere il significato di molte parole. E una parola la riconobbe chiaramente, nonostante l'accento strano: "ignorante".
«Se voi siete così intelligenti,» interruppe in tono brusco, «come mai siete finiti qui?» E sferrò un calcio all'involucro azzurro della lancia. La gigantessa che si chiamava Kimi sorrise. «Ha ragione lui, Jan.» L'uomo fece udire un altro borbottio di disgusto e fece un gesto che esprimeva lo stesso sentimento. Ma non diede più dell'ignorante a Born. «Dunque,» disse la donna, in tono formale, «credo sia doveroso presentarci. Innanzi tutto, vogliamo ringraziarti per averci salvato la vita, poiché è molto probabile che sia merito tuo.» E diede un'occhiata all'uomo. «No, Jan?» L'uomo fece udire un suono sommesso vagamente intelligibile come un "sì". «Io,» continuò la donna, «mi chiamo Logan... Kimi Logan. Questo mio collega, talvolta euforico e talvolta depresso, è Jan Cohoma. E tu?» «Io mi chiamo Born.» «Born. "Nato". Un bellissimo nome. Un nome adatto per un uomo così coraggioso, che ha affrontato da solo un" carnivoro come quel mostro alato.» Born si gonfiò d'orgoglio. I giganti erano strani, ma sapevano esprimere a dovere l'ammirazione... almeno quella. Forse un giorno anche Passo Chiaro lo avrebbe stimato quanto mostrava di stimarlo quella bizzarra gigantessa. «Tu hai parlato di un villaggio, Born,» continuò quella. Born si voltò, tese il braccio verso l'alto, in direzione di sudovest. «La Casa è da quella parte: due livelli più in alto. È una lunga camminata attraverso la foresta. I miei fratelli vi accoglieranno come amici.» E ammireranno il cacciatore che ha sfidato il demone azzurro addormentato e ha ucciso un diavolo celeste per salvarli, aggiunse tra sé. Saltò diverse volte avanti e indietro sul metallo azzurro, poi notò che i due giganti si erano scostati e lo stavano osservando. «Oh, chiedo scusa,» spiegò. «Non voglio farvi del male. Siamo venuti qui in molti, ma io solo ho avuto il coraggio di scendere per cercarvi. Avevo immaginato che questa... questa cosa non era viva, era qualcosa di scolpito.» «È una lancia,» disse Cohoma. «Ci porta attraverso il cielo.» «Attraverso il cielo,» ripeté Born, non convinto. Sembrava impossibile che una cosa tanto pesante potesse volare. «Siamo felici che tu abbia fatto ciò che hai fatto, Born. No, Jan? Non siamo felici?» La donna urtò il compagno e quello borbottò una specie di assenso. Il suo antagonismo iniziale nei confronti di Born si andava atte-
nuando rapidamente, poiché egli si rendeva conto che il piccolo indigeno non rappresentava un pericolo. Anzi. «Sì, è stato senza dubbio un gesto coraggioso. Un gesto straordinario, ora che ci penso.» Jan sorrise. «Hai già fatto tanto, Born. Forse potresti anche aiutarci a tentare di tornare alla nostra stazione... la nostra casa su questo mondo.» «Abbiamo calcolato l'ubicazione un'ultima volta prima di precipitare,» disse la Logan. Esitò, poi tese il braccio in direzione dell'albero Casa. «È da quella parte, più o meno... vediamo, come posso darti un'idea della distanza?» Rifletté un momento. «Che cosa dicevi dei livelli della foresta?» «Tutti sanno che il mondo è fatto di sette livelli,» spiegò Born, come se insegnasse a un bambino. «Dall'Inferno Inferiore fino alle cime degli alberi.» «Calcola l'altezza media di uno dei grandi emergenti,» mormorò la donna. «Diciamo un po' più di settecento metri.» Cominciò a fare calcoli, mentalmente, convertendo i metri in livelli, e poi disse a Born a quale distanza si trovava la stazione. Ora toccò a Born sorridere, perché era troppo educato per mettersi a ridere. «Nessuno si è mai allontanato dalla Casa per più di cinque giorni di cammino,» disse ai due. «Recentemente, io mi sono allontanato per due giorni, ed è stato abbastanza pericoloso. E tu mi parli di un viaggio di molte settimane. Non è possibile, credo.» «Perché no?» obiettò Cohoma. «Tu non hai paura, vero? No,» aggiunse in fretta, vedendo che Born aveva fatto un passo avanti. «Un cacciatore eccezionale come te!» Born si rilassò leggermente. Aveva già scoperto che, dei due giganti, l'uomo gli piaceva molto meno. «Non si tratta di paura,» spiegò. «Ma di ragione. L'equilibrio del mondo è delicato. Ogni essere ha il suo posto in tale equilibrio: prende ciò di cui ha bisogno e rende ciò che può. Più uno si allontana dalla propria nicchia, e più altera l'ordine delle cose. Quando l'equilibrio viene gravemente sconvolto, la gente muore.» «Credo di capire ciò che intende dire,» fece la Logan, rivolgendosi al compagno. «Loro sono convinti che, più si allontanano dal villaggio patrio, più si riducono le probabilità di farvi ritorno sani e salvi. Un sentimento comprensibile: ma la spiegazione è interessante. Mi chiedo come siano giunti a una simile concezione del mondo. Non è naturale.» «Naturale o no,» obiettò Cohoma, «io continuo a non capire perché...»
«Dopo,» l'interruppe la donna. Cohoma le voltò le spalle, borbottando tra sé. «Credo che per prima cosa,» propose la Logan, «dovremmo allontanarci da questo spazio aperto prima che un parente del mostro liquidato da te, Born, si incuriosisca e venga a indagare.» Era la prima cosa sensata che avessero detto i giganti. Born fece loro cenno di seguirlo. Cohoma si riempì le tasche di pacchetti prelevati da vari scomparti, poi lasciò che Born facesse loro da guida in mezzo agli alberi. Sebbene quel livello fosse relativamente aperto, e vi mancassero i soliti rami e tralci, Born rimase sbalordito nel vedere la goffaggine dei giganti, l'esitazione con cui avanzavano. Li interrogò con la maggior delicatezza possibile per conoscere la ragione di quell'impaccio, e fu lieto di constatare che nessuno dei due sembrava offeso. «Sul mondo da cui veniamo,» spiegò la Logan, «siamo abituati a camminare sul suolo.» Born la fissò sconvolto. «Possibile che viviate nell'Inferno?» «Inferno? Non capisco, Born.» Il cacciatore indicò in basso. «Due livelli più sotto si stende l'Inferno Inferiore, il Vero Inferno, la superficie di fango e di sabbie mobili. È abitato da mostri troppo orribili per avere un nome, si dice.» «Capisco. No, Born, la nostra patria non è così. È terreno solido, aperto, luminoso... non è pieno di mostri. Almeno,» aggiunse con un sorriso ironico, «non di mostri insopportabili.» Come gli Uffici della Chiesa e del Commonwealth, pensò. Born si sentiva girare la testa. Quanto dicevano i giganti pareva contraddire la ragione e la verità, eppure la loro stessa presenza e la prova concreta rappresentata dal loro apparecchio indicavano che potevano esistere prodigi ancora più grandi. Per il momento, tuttavia, frenò la curiosità per esprimere preoccupazioni più immediate. «Mi sembrate tutti e due stanchi e affamati, e quanto è successo deve avervi sfiniti.» Cohoma aggiunse un "Amen!", di slancio. «Vi condurrò a Casa. Là potremo parlare ancora, e più tranquillamente.» «Una sola domanda, Born,» fece la Logan. «Tutta la tua gente è cortese come te con i forestieri?» «Credi che non siamo civili?» chiese Born. «Anche i bambini sanno che un ospite è come un fratello, e come tale deve essere trattato.» «Un uomo ideale,» sospirò Cohoma. «Devo presentarti le mie scuse, amico Born. In un primo momento, avevo delle idee sbagliate sul tuo conto.
Facci pure strada, tappo.» Born tese il braccio verso l'alto. «Prima dobbiamo raggiungere il livello della Casa... una bella salita.» I due giganti gemettero. A giudicare da quanto aveva visto finora della loro capacità di arrampicarsi, Born poteva capire la loro reazione. «Cercherò di trovare una strada più facile. Impiegheremo più tempo...» «Correremo questo rischio,» disse la Logan. Born trovò una radice secondaria a spirale, che scendeva in una serrata, doppia vite da un albero aereo molto più in alto. Sarebbero state alcune dozzine di metri di semplice salita. Si incamminò, e in quel momento dietro di lui risuonò un urlo. Fece per impugnare lo spegnitore, e si rilassò quando vide che era solo Ruumahum. La paura dei due giganti alla vista dell'affezionato velloso era divertente. «È solo Ruumahum,» spiegò. «Il mio velloso. Non vi farebbe mai del male, come non lo farebbe a me.» «Umani,» borbottò in tono sardonico Ruumahum, fiutando prima la cintura dell'impietrita Logan, poi Cohoma. I due giganti non si mossero, e si rilassarono soltanto quando la grossa testa zannuta si allontanò. «Mio Dio,» mormorò la Logan, fissando intimorita la sagoma massiccia che balzava tra le fronde più in alto. «Parla. Sono due le forme intelligenti sfuggite alla Ricognizione.» Guardò Born con un nuovo rispetto. «Un esapodo carnivoro... come hai fatto ad addomesticarlo?» chiese, stupita. Born rifletté, confuso, poi cominciò a capire. «Vuoi dire,» ribatté sbigottito, «che voi non avete i vellosi?» Il suo sguardo passò dalla Logan a Cohoma. «I vellosi?» gli fece eco la donna. «E perché dovremmo averli?» «Perché,» recitò Born, senza pensare, «ogni umano ha il suo velloso e ogni velloso ha il suo umano, come ogni farfalla ha il suo fiore, ogni rampicante il suo albero d'ancoraggio, ogni pfeffermall il suo risonatore. È l'equilibrio del mondo.» «Sì, ma questo non basta a spiegare come li abbiate addomesticati,» insistette Cohoma, seguendo con lo sguardo il carnivoro che si allontanava. «Addomesticati?» Born fece una smorfia. «Non è questione di addomesticare. I vellosi amano gli umani e noi amiamo i vellosi.» E scrollò le spalle. «È naturale. È stato sempre così.» «Ha parlato,» osservò la Logan a voce alta. «Ho sentito benissimo che ha detto "umani".» «I vellosi non sono molto svegli,» ammise Born, «ma parlano abbastan-
za bene da farsi capire.» Poi sorrise. «Ci sono delle persone che parlano meno.» Inspiegabilmente, quelle parole indussero i due giganti a lanciarsi. in una lunga discussione, piena di termini complessi che Born non. comprendeva: e questo lo mise a disagio. Comunque, era ora di mettersi in cammino per arrivare a Casa, dove egli avrebbe ricevuto gli elogi e i riconoscimenti dovutigli. «Adesso dobbiamo andare, ma a una condizione.» La velata minaccia bastò a far sì che i giganti interrompessero la discussione, per fissarlo. «Che condizione?» chiese la Logan, in tono apprensivo. Born guardò Cohoma. «Lui non mi deve più chiamare tappo. Altrimenti io. lo chiamerò cucciolo goffo ogni volta che scivola.» Cohoma riuscì a sorridere a denti stretti, ma la Logan sghignazzò apertamente. «Ha ragione lui, Jan.» L'uomo grugnì, borbottò che era ora di muoversi, e cominciò a salire lungo la radice, seguendo Born. «Non abbiamo tempo da sprecare,» aggiunse, burberamente. Mentre salivano, Born ripensò a quell'ultima frase di Cohoma. Il concetto di "sprecare il tempo" aveva per lui un interesse personale, perché a Casa di solito veniva riferito esclusivamente a lui. Possibile che ci fossero degli altri che la pensavano come lui sul modo di impiegare il tempo? Se era così, era una ragione di più per imparare a conoscere meglio i giganti. Sapeva già che ne esistevano molti altri. CAPITOLO 5 La foresta era stata bruciata per lasciare una zona sgombra intorno alla cupola corazzata della stazione, sistemata nel più grande spazio aperto «anzi, l'unico» esistente in quel mondo primordiale: una bolla grigioargentea che s'innalzava dall'oceano verde, come l'esalazione di un sommozzatore colossale che nuotasse a grandissima profondità. La struttura circolare poggiava sui tronchi segati di tre alberi Pilastro, i cui rami scrupolosamente sfrondati formavano un sistema di puntelli e di travature ancora più robusto di quello che sarebbe stato possibile costruire artificialmente. Con l'andar del tempo i giganteschi alberi mutilati sarebbero morti e crollati: ma allora la stazione non sarebbe stata più necessaria perché, secondo il progetto generale, sarebbe stata sostituita da altre strutture più grandi e permanenti erette altrove. La zona sgombra che circondava la stazione aveva lo scopo di evitare al-
tre morti ad opera dei predatori dai dènti seghettati e dagli artigli uncinati, che avevano ucciso tre dei costruttori prima che venissero installati e attivati i principali sistemi di difesa: Quando avevano accertato che gli abitanti della foresta non amavano traversare un'area aperta al cielo e ai predatori che vivevano nel cielo, gli ingegneri avevano bruciato un altro tratto della foresta, per parecchi metri intorno alla stazione e nella parte sottostante. Due occupanti della stazione erano stati portati via da. predatori volanti mentre percorrevano il camminamento periferico. Le difese erano state rafforzate ancora, fino a quando la stazione aveva assunto l'aspetto di. una piccola fortezza. I laser e i cannoni a esplosivo non erano molto consoni ad un edificio dedicato innanzi tutto alla ricerca ed all'esplorazione. Le strumentazioni meno letali erano ubicate all'indietro dell'edificio grigio: e costituivano quel complesso di laboratori interni che la muraglia d'armi aveva il compito di proteggere. Gruppi di esploratori erano usciti, a bordo di lance armate, per frugare l'interminabile foresta, alla ricerca di prodotti utili. E avevano portato alla base una rivelazione dopo l'altra: la foresta si rivelò una fonte inesauribile di sorprese, che nei laboratori venivano trasformate in possibilità commerciali. I risultati venivano. comunicati ad altri uomini, e questi a loro volta trasmettevano le informazioni ad un operatore spaziale che, con vari mezzi più o meno furtivi (la presenza della stazione era illegale, poiché non era stata né registrata, né ispezionata, né approvata ufficialmente) le passava a un mondo lontano. Là un uomo trascriveva a mezzo di una macchina quelle miriadi di scoperte, convertendole in cifre, e le inoltrava a un secondo, e questi le portava a un terzo: costui le riordinava per conto di un quarto, che a sua volta le deponeva sulla scrivania di una persona rattrappita nel corpo ma non nella mente. Questa persona studiava le cifre. Ogni tanto sorrideva ironicamente e annuiva, e allora gli ordini percorrevano in senso inverso la scala gerarchica, fino a quando raggiungevano la cupola del Mondo senza Nome. L'ubicazione di quel mondo era tenuta così segreta che pochi di quanti lavoravano nella cupola avevano un'idea di dove fosse: e nessun pilota vi veniva inviato per due volte. Il pilota comunicava le informazioni al suo successore, perché le coordinate non potevano venire affidate neppure ad un sistema di conservazione meccanica. Era un sistema rischioso, poiché le coordinate potevano andare perdute per sempre: ma i vantaggi della segretezza assoluta giustificavano il rischio. Poiché nessuno conosceva la. sua ubicazione, nessuno poteva divulgarla, volontariamente o no, agli agenti
del Commonwealth o della Chiesa. Chiunque venisse interrogato sull'argomento avrebbe potuto ammettere liberamente quanto sapeva... cioè nulla. L'intera operazione era condotta con criteri rigorosamente professionali. Nel più grande laboratorio interno, il più intelligente dei ricercatori della stazione studiava l'enorme pezzo ovoidale di legno scuro che dominava l'estremità di fondo del locale. Era stato tagliato in due. Quel pezzo di legno bastava a compensare tutte le spese e la segretezza e gli sforzi, e Wu Tsing-ahn aveva incominciato a lavorare su di esso ancora prima che venisse completata la costruzione della stazione. Era uh ometto dai lineamenti delicati e tormentati, dai capelli neri incanutiti a ciocche, prematuramente. La sofferenza personale che gli alterava il viso non aveva menomato la chiarezza della sua mente o smussato le sue capacità analitiche. Come tutti gli abitanti della stazione, sapeva che le sue attività su quel pianeta non erano in armonia con gli Ordinamenti della Chiesa e con le leggi del Commonwealth. Quasi tutti erano lì per motivi venali. Tsing-ahn presentava un certo tremito delle mani, un tic ad entrambe le palpebre. Erano i sottoprodotti della droga che donava un grande piacere ad un prezzo altissimo. Tsing-ahn ne aveva ormai bisogno regolarmente, e a grosse dosi. Per soddisfare quel bisogno era stato costretto a rinunciare ai suoi principi morali. Ma non se ne preoccupava più. Inoltre, il lavoro non era particolarmente difficile, e dal punto di vista intellettuale era piacevole. Offriva una sorta di rifugio emotivo. Bussarono alla porta. Tsing-ahn rispose, ed entrò un uomo corpulento, con una leggera zoppia che si notava subito, e le lenti a contatto che riflettevano la luce. Non era un gigante: ma ognuno dei suoi bicipiti aveva una circonferenza superiore a quella delle cosce del biochimico. Al fianco portava un'arma, bene in mostra. «Salve, Nearchose.» «Salve, Doc,» rispose l'uomo grande e grosso. Attraversò la stanza, accennò con il capo alla sezione del legno tagliato e crivellato. «Ha già scoperto come funziona?» «Fino a questo momento esitavo a mettere a repentaglio la sua proprietà di produrre la droga,» rispose sottovoce Wu. «Una dissezione completa potrebbe distruggerla.» Allungò la mano per toccare il legno. Nearchose l'osservò. «Quanto pensa che possa valere un nodo come
questo, Doc?» Tsing-ahn si strinse nelle spalle. «Quanto vale per un uomo il raddoppiamento della durata della vita, Nearchose?» E guardò il nodo con un'espressione che non era esclusivamente distacco scientifico. «Direi che un nodo così grosso può dare una quantità di estratto sufficiente a raddoppiare la durata della vita di due o trecento persone... per non parlare poi di ciò che può fare per la salute e il benessere generale. Alla droga non è stato ancora attribuito un prezzo poiché non è mai stata asportata se non in piccole dosi sperimentali. Le proteine sono risultate incredibilmente complesse. La produzione sintetica sembra da escludere. La dissezione può offrire la chiave per altri indirizzi di ricerca.» Wu alzò la testa. «Tu quanto pagheresti per averla, Nearchose?» «Chi, io?» La guardia del servizio di sicurezza sorrise sardonicamente, mostrando i denti metallici, sostitutivi di quelli che non aveva perduto in modo naturale. «Io morirò quando verrà il mio momento, Doc. Un uomo, come me... Non potrei mai permettermi quella roba. Darei o farei qualunque cosa per averla, certo, se pensassi di non venire scoperto.» Tsing-ahn annuì. «Molti uomini assai più ricchi di te farebbero lo stesso.» E ammiccò. «Magari te ne passerò una fiala della prossima infornata. Ti andrebbe, Nearchose?» I modi gioviali della guardia cambiarono bruscamente. Guardò solennemente dall'alto in basso l'amico, che avrebbe potuto spezzare in due con una mano. «Non mi tormenti così, Doc. Non è divertente. Vivere duecento anni in buona salute, invece di decompormi a settanta o magari a ottanta... Non mi tormenti così.» «Scusami, Nick. Per me, è un meccanismo difensivo. Ho i miei guai, lo sai, È una meschinità da carogna, ma io mi difendo in questo modo.» Nearchose. annuì. Naturalmente, sapeva che il biochimico era schiavo della droga. Lo sapevano tutti, nella stazione. Il geniale ricercatore Tsingahn aveva delle deficienze fisiche, sebbene non fosse storpio o menomato.. Nearchose aveva delle deficienze mentali, sebbene non fosse stupido né ignorante. Ognuno di loro riconosceva la propria superiorità sui suoi simili, nella stazione: perciò l'amicizia nata tra loro era un legame tra eguali. «In questo turno sono di pattuglia fuori,» annunciò Nearchose, voltandosi per andarsene. «Ero solo curioso di vedere come andavano le cose, ecco.» «Sicuro, Nick. Vieni pure quando vuoi.» Dopo che l'omaccione se ne fu andato per il servizio di pattuglia, Tsing-
ahn preparò gli strumenti per la prima dissezione completa di quel preziosissimo nodo. L'operazione non poteva più essere rinviata, benché quello fosse l'unico nodo del genere trovato fino a quel momento. Il biochimico era certo che le squadre esplorative ne avrebbero scoperti altri. Era solo questione di tempo. Quando l'estratto del centro del nodo era stato dato casualmente ad un carew da esperimento, i risultati si erano rivelati inattesi, sbalorditivi, sconvolgenti. Invece di due giorni, quel mammifero iperattivo era vissuto quasi una settimana. Tsing-ahn aveva ripetuto due volte l'esperimento, poiché non credeva ai risultati ottenuti: ma quando vennero confermati per la terza volta, egli aveva riferito la scoperta a Hansen, il direttore della stazione. La reazione di coloro che finanziavano il progetto era stata prevedibile: bisognava trovare altri nodi. Ma le esplorazioni a mezzo delle lance erano difficili e incerte. Erano state inviate squadre a piedi, ma poi Hansen vi aveva rinunciato, nonostante le rimostranze provenienti dall'alto. Troppe squadre, anche armate in modo massiccio, non avevano fatto ritorno. Tsing-ahn era ancora affascinato dal fatto che quell'escrescenza malsana dell'albero poteva rivelarsi più utile dell'albero stesso. Pensava alle antiche balene terrestri e all'ambra grigia. Era estremamente ansioso di studiare la struttura interna del nodo. Secondo i sondaggi aveva un centro molliccio, a differenza dei nodi normali, che erano di legno durissimo. E c'erano altri indizi di una struttura interna eccezionale. Per parecchi giorni continuò la dissezione, segando, sondando e incidendo. Poi un urlo innaturale, orribile schiantò la quiete della stazione e fece accorrere moltissima gente al laboratorio di Wu Tsing-ahn. Nearchose fu il primo ad arrivare. Questa volta non chiese permesso: spalancò la porta con violenza, spaccando il catenaccio. Con sua enorme sorpresa, Tsing-ahn stava ritto, rivolto verso di lui, e lo guardava serenamente. Una mano tremava un poco, una palpebra sbatteva, ma questo era normale. Dietro Nearchose s'era raccolta una piccola folla. La guardia si girò, scacciò i curiosi. «Non c'è niente da vedere. Tutto a posto. Il dottore ha solo avuto un incubo peggiore del solito, ecco.» «Sei sicuro, Nick?» chiese qualcuno, esitando. «Sicuro, Maria. Ci penso io.» I curiosi si dispersero, borbottando, mentre Nearchose chiudeva la porta scassinata. «Cosa succede, Nick? Perché questa entrata così indiscreta?» La guardia si voltò, scrutò l'uomo che spesso non comprendeva, ma che
comunque rispettava. «È stato lei a urlare, Doc.» Non era una domanda. Tsing-ahn annuì. «Sono stato io, sì, Nick.» E distolse lo sguardo. «Ho preso la mia dose mattutina e... mi è sembrato di vedere qualcosa. Non ho la tua elasticità mentale, Nick, e temo di aver ceduto per un secondo. Se ho spaventato qualcuno, chiedo scusa.» «Sicuro, già,» rispose finalmente Nearchose. «Ero preoccupato per lei, ecco. Si sono preoccupati tutti, sa.» «Sicuro, già,» gli fece eco amaramente Tsing-ahn. Nearchose si agitò, a disagio nel silenzio, guardò alle spalle dello scienziato, in fondo al laboratorio. «Come va il lavoro?» Tsing-ahn rispose in tono distratto: era evidente che pensava ad altro. «Bene, Meglio di quanto ci si poteva aspettare. Sì, benissimo. Tra un paio di giorni, dovrei essere in grado di fare qualche annuncio definitivo.» «Magnifico, Doc.» Nearchose si voltò per andarsene, poi si fermò. «Senta, Wu, se ha bisogno di qualcosa, qualcosa per cui preferirebbe non passare per le vie ufficiali....» Tsing-ahn sorrise, debolmente. «Certo, Nick. Saresti il primo al quale mi rivolgerei.» La guardia del servizio di sicurezza sfoggiò un ampio sorriso rassicurante e chiuse la porta dietro di sé, senza far rumore. Tsing-ahn tornò al suo lavoro: riprese a procedere con calma e con l'abituale efficienza. Null'altro disturbò la tranquillità della stazione, fino a sera, quando qualcuno che passava di lì per caso sentì un odore insolito nel. corridoio davanti al laboratorio. Seguì l'odore e trovò una conferma visiva... spire di fumo scuro che uscivano dalla porta chiusa del laboratorio di Wu. L'uomo gridò: "Al. fuoco!" e premette il campanello d'allarme più vicino. Questa volta, altri arrivarono al laboratorio prima di Nearchose, che dovette farsi largo tra il personale intento a spegnere le ultime fiammate. Il fuoco era stato circoscritto prima che potesse diffondersi, ma il laboratorio era uh disastro. L'incendio era divampato per poco tempo, ma era stato intenso. Non solo in quel locale c'era abbondanza di materiale infiammabile, ma Tsing-ahn aveva evidentemente usato fosforo bianco sul materiale refrattario, e acidi su tutto ciò che non aveva voluto saperne di prendere fuoco. Il piccolo biochimico era stato metodico nella distruzione quanto lo era stato nelle ricerche. Tutti si radunarono intorno ai pochi frammenti di legno carbonizzato sparpagliati in fondo allo stanzone. Era quanto rimaneva del nodo chi valeva un numero imprecisato di milioni. La preoccupazione principale di
Nearchose, però, era un'altra; perciò fu lui a trovare il corpo lungo disteso sotto un tavolo. In un primo momento pensò che lo scienziato fosse morto soffocato dal fumo, poiché il cadavere non mostrava segni di sorta. Poi girò il corpo e il berretto bianco scivolò via. Nearchose vide la pistola ad ago ancora stretta convulsamente in una mano, vide i minuscoli fori dal diametro eguale sulla fronte e sulla nuca. Sapeva bene ciò che poteva fare una pistola ad ago, e sapeva che si sarebbe potuto far passare una matita attraverso quel foro. Gli occhi del biochimico erano chiusi: e la sua espressione era serena... per la prima volta, a quanto riusciva a ricordare Nearchose. La guardia si alzò. Quel genio debole e infelice aveva scoperto qualcosa che l'aveva spinto ad uccidersi. Nearchose non aveva idea di quel che poteva essere, e non era certo di volerlo sapere. Nessun uomo è perfetto: era una frase fatta che gli aveva insegnato, per primo, un vecchio sergente. Nonostante il suo genio, Tsing-ahn era stato assai meno perfetto di tanti altri. Tutto ciò che era rimasto era qualche appunto frammentario. Nella stazione lavoravano un biochimico meno esperto che si chiamava Celebes, e un botanico che si chiamava Chittagong. Messi insieme, i due non valevano Tsing-ahn, ma erano quanto c'era di meglio a disposizione di Hansen. Vennero subito sottratti ai progetti di cui si occupavano; ricevettero i fogli e gli appunti meticolosamente raccolti e l'ordine di incominciare a ricostruire il lavoro di Tsing-ahn. Qualche tempo dopo, un secondo nodo dello stesso tipo venne trovato e portato alla stazione. Fu consegnato a Chittagong e a Celebes, i quali si misero al lavoro, mentre i nuovi monitor del servizio di sicurezza li sorvegliavano incessantemente, controllando tutto: dai battiti cardiaci dei due scienziati fino ai brontolii dei loro stomaci. Entrambi erano poco entusiasti del progetto, specie per quanto riguardava il modo in cui era morto il loro collega. Tuttavia, gli ordini venivano da una persona furibonda, seduta dietro una scrivania a molte parsec di distanza, e non era il caso di contestarli. Nearchose tornò alle sue mansioni. Sedeva nella sua postazione a sospensioni cardaniche e pensava che cosa poteva esserci, in un semplice nodo del légno, per spingere un individuo razionale come Tsing-ahn a farla finita in quel modo. Erano cose che succedevano, e lui non avrebbe dovuto preoccuparsi, ma non poteva farne a meno. Sospirò e, facendosi forza, volse lo sguardo e l'attenzione sulla muraglia arborea che lo circondava. Maledizione, se era stufo di quel verde!
CAPITOLO 6 «Ahi!» Borri si fermò, e si voltò a guardare i suoi pupilli. La Logan saltellava goffamente su un piede solo, sopra il rampicante, aggrappandosi a una liana. Born lasciò andare la radice cui si era afferrato e balzò accanto a lei. La donna sedette, stringendosi la gamba sinistra. Sembrava più irritata che sofferente. Cohoma scrutava qualcosa che la Logan nascondeva con una mano. «Cosa c'è?» Lei gli sorrise. La sua fronte cominciava a imperlarsi di sudore. «Ho pestato qualcosa.» Si guardò intorno, gesticolando. «Quel fiore, là... mi ha trapassato lo stivale.» Born vide la minuscola serie di spine arancione che sporgevano dal centro del mazzetto di fiori a sei petali color lavanda. La sua espressione cambiò. Infilò una mano sotto il mantello ed estrasse la lama d'osso. «Ehi!» Cohoma fece per mettersi tra i due, e Born lo spinse da parte. L'uomo barcollò e per poco non cadde dal tralcio del rampicante. «Sdraiati,» ordinò seccamente Born alla Logan, posandole una mano sul petto e dandole uno spintone. Lei cadde pesantemente, poi fece per risollevarsi a sedere, puntellandosi con le mani. «Born, che cosa fai? Punge un po', ma...» Born strappò via lo stivale, e la donna cadde di nuovo riversa, battendo la testa sul legno. Poi il cacciatore le alzò la gamba, vi accostò il coltello. «Aspetta un momento, Born!» La voce della Logan era piena di panico. Cohoma, che aveva ritrovato l'equilibrio, avanzò di un passo, minacciosamente, verso il cacciatore. «Un attimo, pigmeo svitato. Spiega un po'...» Dall'alto scese un ringhio ammonitore, e Cohoma alzò la testa. Ruumahum era disteso sul rampicante, proprio sopra di lui: si teneva aggrappato con quattro zampe, e faceva penzolare quelle anteriori, con gli artigli sguainati. Il velloso sorrideva, mettendo in mostra più avorio di un pianoforte a coda. Cohoma guardò i tre occhi e strinse i pugni, ma li tenne abbandonati lungo i fianchi. «Farà un po' male,» disse in fretta Born. Incise la pianta del piede, sopra le tre punture. La Logan lanciò un urlo violento, cadde riversa e cercò di liberarsi di-
vincolandosi. Tenendole stretto il piede, Born accostò la bocca alla ferita che sanguinava abbondantemente, succhiò e sputò, succhiò e sputò. Quando ebbe finito, la donna gemeva sommessamente e tremava. Dopo aver lanciato un'occhiata guardinga a Ruumahum, Cohoma le si avvicinò per confortarla. Born non badò alle domande ansiose del gigante, mentre cercava tra il fogliame circostante. Trovò ciò che voleva, un grappolo di cilindri erbacei che crescevano su un ramo vicino. Ne trovò uno vecchio e lo recise alla base. Era lungo metà del suo braccio. Con il coltello ne staccò la parte superiore, rivelando un tubo cavo pieno di liquido trasparente. Lo bevve, sospirò, ne cercò un altro: questo l'offri alla donna ferita. La Logan finì di strofinarsi gli occhi e lo fissò. «Bevi,» consigliò Born, semplicemente. Lei fece per prenderlo, poi si ritrasse al contatto dello stelo viscido. Infine accostò le labbra, esitando, e bevve metà del contenuto, nonostante le proteste di Cohoma, poi gli passò il resto. Cohoma studiò guardingo il cilindro. «Come possiamo essere certi che non cerchi di avvelenarci?» «Se voleva ucciderci,» sospirò la Logan, «poteva abbandonarci al carnivoro volante, Jan. Non fare l'idiota. Non è nocivo.» Cohoma sorseggiò riluttante il liquido, ma lo finì. «Il piede... come lo senti?» chiese sollecito Born. La Logan alzò il ginocchio, girò la gamba per vedere la pianta del piede. La ferita non era profonda come aveva temuto, certo non come le era parsa quando Born aveva inciso con il coltello. Cominciava già a rimarginarsi. Tuttavia, intorno alle punture, la pelle aveva assunto un colore rosso cupo. «Come se qualcuno lo avesse inciso con il coltello,» ribatté. «Come dovrei sentirlo?» «Non senti niente, oltre al taglio?» insistette Born. La donna rifletté. «Forse un leggero formicolio, intorno al punto che ho appoggiato sulle spine... come quando il piede s'intorpidisce. Nient'altro.» «Formicolio,» fece Born pensieroso. Cominciò a frugare di nuovo tra gli arbusti. I due giganti lo guardarono incuriositi. Egli si fermò davanti a una pianta, poi colse un frutto giallo pallido da un ramo in alto, dove crescevano grappoli di tre. «Mangia questo,» ordinò alla Logan, quando tornò da lei. La donna esaminò dubbiosa il frutto. Tra tutta la flora commestibile che Born aveva fatto loro conoscere, quello sembrava il frutto più formidabile.
Aveva la forma di un barilotto tozzo, segnato da costole brune. «Pelle e tutto?» «Pelle e tutto,» disse Born, annuendo. «E in fretta. Sarà meglio per te.» La Logan se lo portò alla bocca. Quasi tutta la vegetazione di quel mondo era ingannevole... forse quel frutto dall'aria tigliosa poteva avere un... Poi lo addentò. Il suo viso si contrasse per il disgusto. «Ha lo stesso sapore,» disse a Cohoma, «di formaggio andato a male condito con l'aceto. Cosa succede,» chiese a Born in tono supplichevole, «se non lo finisco?» «Credo... credo di avere tolto tutto il veleno dal tuo organismo. Se non è così, ti restano pochi istanti prima che il veleno rimanente si diffonda nel sistema nervoso e ti uccida. A meno che venga combattuto dall'antitossina contenuta nel frutto.» La Logan finì la polpa gialla con una fretta che smentiva la sua nausea. Tuttavia, trovò il tempo di stupirsi perché parole come "antitossina" e termini come "sistema nervoso" erano sopravvissute nel vocabolario di quella gente che pure aveva dimenticato la scienza da tanti anni. Senza dubbio, pensò, quelle espressioni venivano usate di continuo in un ambiente sempre minaccioso. Mentre giungeva a questa conclusione, spalancò gli occhi, gonfiò le gote, si voltò e vomitò con tanta violenza che Cohoma e Born dovettero muoversi in fretta per impedire che cadesse dal rampicante, scossa com'era dalle convulsioni. Dopo qualche minuto, la Logan era distesa riversa e ansimava per riprendere fiato, passandosi lentamente un avambraccio sulla bocca." «Per gli ordini sacri!» gemette. «Mi sento completamente rovesciata.» Si portò le mani sull'addome e lo tastò delicatamente. «C'è ancora... avrei scommesso di no.» Born non fece caso ai gemiti e "alle lamentele. «Come ti senti il piede, adesso?» «È ancora un po' informicolito.» «Solo il piede?» insistette il cacciatore, fissandola intento. «Non la caviglia, né la gamba, qui?» Le toccò il polpaccio. La donna scosse il capo. Born grugnì e si alzò. «Bene. Se fosse informicolita la gamba, vorrebbe dire che il veleno si è diffuso, nonostante il mio tentativo di arrestarlo. Allora sarebbe stato troppo tardi. Ma adesso starai bene.» La Logan annuì e si rialzò, con l'aiuto di Cohoma. Poi guardò Born, attentamente. «Ehi... se era così importante che mangiassi subito quel frutto, Born, perché hai esitato prima di coglierlo e di portarmelo? A sentire quello che hai appena detto, io potevo morire, nel frattempo.»
Il cacciatore ricambiò lo sguardo con la pazienza che di solito riservava ai bambini piccoli. «Dovevo essere sicuro che la tesshanda non si risentisse perché prendevo il frutto, dato che non era ancora del tutto maturo.» La Logan e Cohoma apparvero confusi. «Vuoi dire,» proseguì lei, «che hai dovuto chiedere il permesso alla pianta? Che le hai parlato?» «Non ho detto questo,» spiegò disinvolto Born. «L'ho emfolata.» «Sfogliata? vuoi dire che hai messo la mano tra le foglie per sentire se il frutto era maturo?» Born scosse il capo. «No... emfolata. Voi non emfolate con le vostre piante?» «Penso proprio di no, visto che non ho idea di quel che stai dicendo, Born.» Il cacciatore assunse un'espressione convinta, ma non soddisfatta. «Ah, questo spiega molte cose.» «Per me no,» rispose Cohoma. «Senti, Born vuoi dire che hai parlato o conversato con la pianta, e che quella ti ha autorizzato a cogliere il frutto prima che fosse maturo?» «No, no. L'ho emfolata. Se il frutto fosse stato maturo, non sarebbe stato necessario, naturalmente.» «Perché naturalmente?» chiese la Logan, rendendosi conto che la conversazione diventava sempre più incomprensibile. «Perché allora la tesshanda avrebbe emfolato me.» «Una specie di superstizione rituale,» mormorò la donna. «La concatenazione logica è affascinante. Chissà da cosa è derivata? Aiutami ad alzarmi, Jan.» Il gigante l'aiutò, e la donna immediatamente rabbrividì, si piegò su se stessa e si strinse lo stomaco. «Riesci a camminare?» domandò Born, sempre paziente. «No, ma riesco benissimo a barcollare.» La donna sorrise a forza, nauseata. «Quando si dice che il rimedio è peggiore del male... Non credo che potresti diventare un medico del Commonwealth, van Born, ma questa è la seconda volta che mi hai salvato la vita. Grazie.» «La terza volta,» corresse Born, senza spiegare. «Siamo vicini alla Casa, adesso. Un altro mezzo livello più su e due o tre livelli di distanza.» I due giganti gemettero. «Non ho mai visto un albero simile, durante le esplorazioni, e neppure nei rapporti,» dichiarò Cohoma non appena avvistarono la Casa. «Non ti sei tenuto al corrente, Jan,» osservò la sua collega. «La penulti-
ma lancia che si è diretta verso est ha riportato diversi particolari in proposito. È un albero chiamato "tessitore". Il tronco non si restringe quasi, fino a quando arriva all'altezza di cinque o seicento metri. Poi si divide in un labirinto intrecciato di piccoli tronchi che formano un... ecco... una specie di enorme canestro centrale. Poi i subtronchi tornano ad unirsi, una dozzina di metri più in alto, formando di nuovo un tronco unico che raggiunge la sommità della foresta. Secondo il rapporto, i rami dei tronchi sottili sono coperti di frutti rossi, polpa zuccherina e un centro simile a una noce, ricchi di sostanze nutritive più di tutti gli altri trovati finora... e ricchi anche di niacina, tra l'altro.» Tese la mano, mentre si avvicinavano ai primi subtronchi, camminando su di una grossa aggrovigliana. «Vedi i baccelli che spuntano dai fiori rosa? Secondo il rapporto, se ne urti uno, ricevi in faccia una ventata di polline; e se lo respiri sei spacciato, secondo le analisi di laboratorio. Spore di funghi si insediano nei polmoni e nell'esofago, si diffondono istantaneamente e ti soffocano in meno di due minuti.» All'improvviso, la dorma si accorse che Born non accennava neppure ad allontanarsi dai tralci carichi di fiori mortali. «Dobbiamo girare intorno a quest'albero, vero, Born? Può esserci un veleno, qui, che la tua gente non conosce.» «Girare intorno?» Born la guardò con aria strana. «Quest'albero è la Casa.» E si avvicinò al groviglio di rametti e di tralci pieni di fiori. «Born...» La donna lo seguì lentamente, con lo sguardo fisso sui baccelli mortali. Sarebbe bastato un tocco per lanciare nell'aria un pulviscolo di polline soffocante. Born si fermò al primo tralcio, si protese, e sputò direttamente in uno dei grandi fiori, evitando il baccello gonfio. Un fremito parve scorrere lungo il tralcio, mentre i petali lucenti si chiudevano. Il fremito continuò. Poi, come un fuscello che si attorce per allontanarsi dalla fiamma, i tralci si ravvolsero, ritraendosi su se stessi, e scoprendo un passaggio sgombro in mezzo ai rovi. «Su, presto,» esortò Born, avviandosi in quel varco. Una folgore smeraldina passò davanti ai due giganti appena questi accennarono a muoversi. Ruumahum non era stato ad attendere che si decidessero. Quando furono passati sani e salvi, entrambi si voltarono e videro che la tensione stava abbandonando i tralci: si rilassarono, e tornarono a sbarrare l'accesso, efficienti quanto un muro metallico. «Straordinario,» mormorò Cohoma. Interrogò Born mentre avanzavano nel cuore dell'albero Casa. «Cosa succederebbe, se io sputassi in uno dei
fiori?» «Niente,» rispose il cacciatore. «Tu non sei della Casa. La Casa riconosce soltanto i suoi.» «Non capisco come...» cominciò l'uomo, ma la Logan era già intenta ad analizzare le possibilità. «Dimmi, Born,» chiese, «la tua gente mangia i frutti del tessitore... della Casa?» Born si volse a guardarla sbigottito. Qualche volta i giganti sembravano possedere una conoscenza inimmaginabile; in altre occasioni, si mostravano incredibilmente stupidi. «Esiste qualcosa di meglio da mangiare, eccetto forse la carne fresca?» Aveva sentito ciò che la Logan aveva riferito a proposito del rapporto sull'albero tessitore, ma non l'aveva compreso. «Perché non dovremmo mangiare ciò che ci viene fornito?» «Interessante,» dichiarò la Logan. Poi ricominciò ad usare parole che per Born non avevano significato, e lui non badò più alla conversazione. «Adesso afferri il nesso, Jan?» Il suo collega annuì. «Credo di sì. Loro mangiano regolarmente il frutto dell'albero: è il nutrimento tipo. Le sostanze chimiche dei frutti si accumulano nel loro organismo. Quando sputano in uno dei fiori, nella saliva sono incluse le sostanze dei frutti ingeriti. Non c'è da stupirsi se la Casa riconosce i suoi!» «Capisco che cosa rappresenta per questa gente,» confessò la donna. «Nutrimento e rifugio. Ma l'albero, che cosa ci ricava?» Le loro riflessioni furono interrotte da un grido, poi da un altro, da un altro ancora. Ben presto furono circondati da un gruppo di bambini sbalorditi... perfettamente normali da tutti i punti di vista, se non si faceva caso alla preponderanza della carnagione e dei capelli scuri, degli occhi verdi, ed alla bassa statura. I ragazzini guardavano i due giganti con la stessa soggezione che avrebbero riservato per un velloso rosa. C'era anche Din: si mise al fianco di Born. Gonfiando il petto esile, tenne il passo del cacciatore, saltellando di tanto in tanto per non perdere il ritmo. Born gli mormorò un saluto indifferente. Quel ragazzo non avrebbe mai smesso di infastidirlo? Muf trottava, accodato al suo umano; la sua presenza era insolita. Normalmente, sarebbe dovuto essere insieme ai suoi fratelli a dormire da qualche parte, tra i subtronchi. Il cucciolo si fece largo a nasate attraverso il gruppo dei bambini e fiutò la Logan con fare interrogativo. In un primo
momento la donna si scostò; poi tese la mano e, con un po' d'esitazione, accarezzò la testa del cucciolo. Un rombo sommesso risuonò dalle profondità di quella palla di pelo a sei zampe, poi il cucciolo venne più vicino alla Logan, e per poco non la fece cadere. In un attimo, una grande sagoma verde, aerodinamica le venne al fianco. «Se cucciolo infastidisce, tu dai sberla,» consigliò Ruumahum, in tono rombante di basso. La donna abbassò lo sguardo sul cucciolo, che la fissava con i tre occhi colmi d'adorazione. «Dargli una sberla... non di certo!» obiettò. «È così affettuoso.» Ruumahum sbuffò, irridente, e passò avanti. L'inverosimile corteo (un umano, due vellosi, una banda di ragazzini che parlottavano sottovoce e due giganti) si fermò finalmente accanto al padiglione centrale di pellefoglie. Lo sguardo di Born si aggirò sulle case circostanti. Da qualche parte un velloso adulto sbadigliò sonoramente. Dalle porte socchiuse non si precipitò fuori una folla: non ci fu una torma di fanciulle adolescenti che accorressero a tastargli le braccia e il torace e a lanciare gridolini suadenti. Nessun cacciatore arrivò a studiare i suoi giganti con la stessa soggezione mostrata dai ragazzini. Non ci furono elogi, né complimenti ammirati, né adulazioni o espressioni di giusta lode per il suo coraggio... solo gli sguardi curiosi di pochi anziani che sbirciavano dalle porte di pellefoglia. Qualcosa urtò Born dietro alle ginocchia: cadde lungo disteso, e finì in una pozza di stagnante pioggia notturna. Muf scappò a nascondersi tra i bambini che risero, divertiti. Rialzandosi lentamente, Born tentò di riacquistare la propria dignità mentre si scrollava l'acqua dal mantello. Le risa continuarono. Si voltò e sgridò i ragazzi. Quelli indietreggiarono un poco, ma i sorrisi non svanirono del tutto. Born avanzò di un passo verso il bambino che gli stava più vicino, portando la mano sul coltello con un gesto minaccioso. Questa volta i ragazzini si dispersero: le nude figurette brune sfrecciarono agili oltre le porte delle case, o dietro le asperità del pavimento ligneo della piazza. Born si accorse di ansimare: sembrava che la sua capacità di fare la figura dello sciocco non avesse limiti. «Non è l'accoglienza che ti aspettavi, eh?» osservò Cohoma, con sorprendente comprensione. «So bene quello che provi. Anche a me è capitato di trovarmi alle prese con la stessa mancanza di apprezzamento.» E lanciò alla Logan un'occhiata che la donna non notò. Di colpo, la collera abbandonò il cacciatore che si calmò un poco, pro-
vando nel contempo un inatteso senso di affinità con quel forestiero che affermava di viaggiare per l'Inferno Superiore con una barca fatta del metallo dell'ascia. «Dove sono tutti quanti?» chiese la Logan. Born si limitò a stringersi nelle spalle, e li condusse verso il suo vestibolo, situato in alto fra i subtronchi, all'estremità della gabbia formata dalla Casa. «A raccogliere frutti, a curare la Casa...» «Controllo dei parassiti,» mormorò Cohoma alla Logan. «Un punto a favore dell'albero. Meglio il parassita umano, che conosci, piuttosto degli animali e delle piante irragionevoli che non conosci affatto.» «Simbiosi, non parassitismo,» ribatté la Logan. «Ne traggono benefici tanto l'uomo quanto l'albero. Comunque, mi piacerebbe sapere cosa facevano per proteggersi gli alberi tessitori prima che gli antenati di Born li scegliessero come dimore.» «... o forse a caccia,» concluse Born, senza badare ai loro bisbigli. «Torneranno tutti prima che scenda la notte.» Sorrise tra sé. Sapeva già la reazione di Passo Chiaro quando avrebbe presentato i giganti al consiglio, quella sera. L'alloggio di Born strappò ai giganti altre parole strane. «Vedi,» disse la Logan, indicando le pareti e il soffitto, «i rami più piccoli e i tralci crescono così fitti che è facile chiudere lo spazio rimanente con un tessuto.» Cohoma si dichiarò d'accordo, sedette e passò un dito sul legno levigato del pavimento. Nella sua mente prendeva forma un'idea che richiedeva un'ulteriore prova. Born gliela diede quando spiegò la funzione della fossa circolare nel pavimento, verso il fondo dell'ampio locale. «Mi piacerebbe sapere,» borbottò, «chi è stato ad adattarsi all'altro: l'uomo all'albero, o l'albero all'uomo? Forse non c'era niente che viveva nei tessitori, prima che i coloni li scoprissero. Ma non capisco come un'interdipendenza così minuziosa e specializzata si sia sviluppata in poche generazioni.» La Logan rifletteva in silenzio. Born li guardava entrambi, senza capire, mentre quelli continuavano a parlare tra loro. Che cosa significava, l'uomo che si adattava all'albero o l'albero che si adattava all'uomo? La Casa era la Casa. Era logico che un uomo si prendesse cura della propria dimora. Com'era il mondo da cui venivano quei giganti, si chiese, se trovavano tanto sorprendente l'ordine naturale delle cose? Non credeva che gli sarebbe piaciuto. Poi lo colpì un pensiero bizzarro... bizzarro perché sembrava inconcepibile.
«È possibile,» disse, con un tono di evidente incredulità, «che sul vostro mondo non ci sia niente che cresce?» «No,» lo corresse la Logan. «Vi sono molte cose che crescono, ma noi non ci viviamo dentro come fate voi. Però usiamo anche noi le cose che crescono, come voi.» «Usare? Non ti capisco.» La donna si appoggiò con la schiena ad un ramo. «Di certe piante mangiamo i frutti; altre le trasformiamo in cibo; altre, ma raramente, le usiamo ancora per costruire le nostre case. Alcune le adoperiamo a scopo medicinale, come hai fatto tu con la tesshanda Noi usiamo il mondo della foresta più o meno come fate voi.» «Continuo a non capire,» disse Born. «Noi non usiamo la foresta. Siamo parte della foresta, del mondo. Facciamo parte di un ciclo che non si può spezzare. Noi non usiamo la foresta più di quanto la foresta usi noi.» A quelle parole, Cohoma mormorò qualcosa d'incomprensibile. «Il tuo popolo serve quest'albero,» spiegò lentamente la Logan, «anche se non ve ne rendete conto. In un certo senso, siete i suoi servitori.» «Servitori.» Born rifletté intensamente, e allargò le braccia, arrendendosi. «Che cos'è un servitore?» «Qualcuno che compie un servizio agli ordini di un altro,» spiegò la donna. Sempre più pazzesco! Quei giganti avevano veramente delle crisi di idiozia, pensò Born. «Noi non serviamo l'albero, la Casa. È la Casa che serve noi.» La Logan lo guardò con una certa tristezza, poi lanciò un'occhiata a Cohoma. «Non capiscono, ecco tutto. Probabilmente non vogliono capire.» «E perché no?» aggiunse Cohoma. «Sembra che siano ben felici di questa sistemazione.» «Ma li incatena mentalmente,» ribatté lei. «Dato che la natura fornisce loro un ricovero e il nutrimento base, non hanno ragione né motivazione di recuperare la conoscenza perduta. Faticheremo parecchio a tentare di rieducarli. Dimmi, Born,» chiese dolcemente, volgendosi verso il cacciatore che stava tirando fuori frutti, noci e carne secca di brachiere, «saresti disposto a lasciare il tuo albero?» Born fu così scandalizzato e sconvolto da quelle parole che per un momento restò impietrito. «Lasciare la Casa? Per sempre, vuoi dire? Non ritornare più?» La donna annuì. Era la conferma della pazzia dei giganti. Perché mai qualcuno avrebbe
dovuto pensare di abbandonare la Casa? Lì c'era rifugio, cibo, compagnia, sicurezza e protezione contro la giungla imprevedibile. Lontano dalla Casa c'erano soltanto l'incertezza e il pericolo di morte. Poi comprese la ragione, che spiegava molte delle parole strane dei giganti. «Capisco,» disse loro, nel tono più gentile. «Prima veramente non capivo. È evidente che voi non avete una Casa.» «Le abbiamo, le case,» ribatté Cohoma. «La mia ti lascerebbe sbalordito, Born. Fa tutto quello che le dico di fare, mi offre il cibo quando lo desidero, e io vado e vengo come voglio.» «E non devi prendertene cura?» «Beh, sì, ma...» La risata soffocata della Logan lo interruppe. «Ti ha messo con le spalle al muro, Jan.» Cohoma era un po' sconvolto. «Per niente. Io posso andarmene da casa quando voglio, per tutto il tempo che voglio, senza preoccuparmene. Ma costoro non possono.» «Allora la tua non è una Casa,» lo contraddisse Born. «Uno si prende cura della Casa, e la Casa si prende cura dei suoi.» «Beh, quella è casa mia,» brontolò Cohoma, assaggiando una noce a forma di spirale prelevata dal mucchio che gli stava davanti. Aveva un lieve sapore di peperone e sedano. Ne prese un'altra. «Capisco,» rispose Born. Era troppo educato per aggiungere ciò che sapeva. Sebbene non avessero parlato di costruzioni artificiali, Born sapeva che le case dei giganti non vivevano: erano cose morte, corrotte dall'indifferenza. Nonostante tutte le possibili meraviglie, non sarebbe stato capace di vivere in una cosa morta, morta come l'ascia. Non si può emfolare una cosa morta. Il pensiero dell'ascia e il lento svanire della luce gli ricordarono che presto sarebbero tornati i raccoglitori e i cacciatori. Avrebbe presentato loro i giganti, e forse qualcuno, allora, si sarebbe deciso a riconoscere che il cacciatore Born era un po' più ardito e coraggioso e degno della media. Mentre stava seduto a mangiare e a pensare ciò che avrebbe detto, notò due piedi sotto la pellefoglia della porta. Si alzò e scostò la partizione scorrevole. Din balzò indietro, sbigottito, ma Born era troppo occupato a pregustare il trionfo per arrabbiarsi. Invitò il ragazzo a mangiare, e mise il piede in faccia al cucciolo Muf quando tentò di" seguirlo. Il cucciolo guaiolò, ma rimase fuori. Born trovò un po' di cibo per l'orfano, che lo consumò avidamente.
Quello era il suo pubblico: un ragazzo orfano e due giganti affetti da pazzia innata. Born addentò rabbiosamente un duro pezzo di carne secca. «Molti trasporti coloniali,» spiegò Cohoma agli ascoltatori, guardinghi ma attenti, raccolti quella sera intorno al fuoco della Casa, «vennero dati perduti: talvolta a causa di disastri naturali, talvolta perché un impiegato incompetente aveva messo in disordine la documentazione.» Poi deglutì, consapevole di affrontare un argomento semireligioso. «Pare probabile,» continuò, accentuando la parola "probabile", «che voi discendiate dai superstiti di una di quelle astronavi e siate rimasti bloccati qui. Tuttavia, considerando la natura ostile di questo mondo, mi sembra incredibile che i coloni siano riusciti a sopravvivere, dopo avere esaurito le provviste.» E tornò a sedersi. «Comunque, questa è l'ipotesi più verosimile.» Nessuno parlò, tra coloro che stavano seduti intorno al falò serale. Cohoma e la Logan guardarono con una certa apprensione i loro cugini più piccoli ma meglio armati. «Può darsi,» rispose alla fine, lentamente, il capo Sand, «che le cose stiano effettivamente come dite voi.» I due giganti si rilassarono, sollevati. «Ma anche se non possediamo la vostra scienza, sappiamo spiegarci la nostra esistenza.» Lanciò un'occhiata a Reader e gli rivolse un cenno. Lo sciamano si alzò. Indossava la veste cerimoniale di pelliccia maculata di gildver, bruna e rossa a strisce arancione, e l'acconciatura piumata fatta di elementi caduti dall'Inferno Superiore. E aveva naturalmente l'ascia, che brandì vistosamente nell'alzarsi. Agitandola come se fosse la bacchetta di un direttore d'orchestra, narrò la storia della nascita del mondo. «In principio era il seme,» intonò solennemente. La gente ascoltava con reverenza. Avevano tutti udito quella leggenda migliaia di volte, eppure incatenava sempre la loro attenzione. «E non era neppure un seme molto grosso,» continuò lo sciamano. «Un giorno discese il pensiero dell'acqua, ed il seme mise radici nel legno dell'emfol.» Ancora quella parola, pensò la Logan. «E crebbe. Il suo tronco divenne forte ed alto. Poi mise molti rami. Alcuni formarono i Pilastri che dominano il mondo. Altri cambiarono e diventarono i due inferni che racchiudono il mondo. Poi apparvero e sbocciarono germogli innumerevoli. Noi siamo la discendenza di uno di tali germogli, i vellosi di un altro, lo spioncello che sta immobile tra le hyphae di un altro ancora. Il seme prospera, il mondo prospera, noi prosperiamo.» Cohoma era seduto con le ginocchia unite e sollevate. «Se è così, e se
credete che noi proveniamo da un pianeta diverso dal vostro, come inquadrate tutto ciò nel vostro universo?» «I rami dell'albero del seme si estendono lontano,» rispose Reader. Dal pubblico si levarono mormorii di approvazione. «E se uno dei vostri rami venisse trapiantato in un'altra parte di quest'albero?» «Morirebbe. Ogni fiore conosce il suo posto sul ramo.» «E allora potete capire la nostra situazione,» proseguì Cohoma. «Lo stesso vale anche per noi. Se non ritorniamo al nostro ramo, o seme, o casa, o stazione... anche noi moriremo sicuramente. Non volete aiutarci? Noi lo faremmo, per voi.» La Logan e Cohoma fecero del loro meglio per mostrarsi indifferenti, mentre gli abitanti del villaggio discutevano tra loro. Qualcuno gettò nel fuoco un altro pezzo di tronco marcio. Le fiamme divamparono più alte, lanciando scintille crepitanti, mentre esili spire di fumo si alzavano pigramente, arricciandosi intorno ai bordi del tendone di pellefoglia. Attraverso il fumo cadeva una pioggia tepida. Sand, Joyla e Reader confabulavano sussurrando. Finalmente, Sand levò una mano e il brusio si spense. «Vi aiuteremo a ritornare alla vostra stazione, alla vostra Casa,» annunciò con una voce forte che sembrava uscire da un altoparlante lontano, non da quel torace fragile. «Se sarà possibile.» Born restò dov'era, al centro del cerchio, e guardò il pavimento, perché il suo sorriso non fosse visibile al capo o a Reader o agli altri. Era impaziente di conoscere quale sarebbe stata la loro reazione quando avrebbero scoperto quant'era lontana la stazione dei visitatori. Nessuno rise, quando la Logan lo spiegò. «È un viaggio impensabile,» dichiarò Sand, quando la donna ebbe smesso di parlare. «No, impossibile, impossibile. Non posso chiedere a nessuno di accompagnarvi, non posso.» «Ma non mi sono spiegata bene?» disse la Logan in tono supplichevole, alzandosi e guardando ansiosa quei silenziosi visi bruni. «Se non ritorniamo alla nostra stazione, noi... noi avvizziremo. Avvizziremo e moriremo. Noi...» Il capo l'interruppe con un gesto. «Ho detto che non posso chiedere a nessuno di accompagnarvi. È così. Non ordinerei mai a un cacciatore di intraprendere un simile viaggio, ma se qualcuno vuole venire con voi...» «È un discorso sciocco,» commentò la raccoglitrice Dandone. «Nessuno
potrebbe ritornare vivo da un viaggio simile. Si dice vi siano punti in cui l'Inferno Superiore e quello Inferiore si congiungono e il mondo finisce.» «Tu confondi la sciocchezza e il coraggio,» ribatté Joyla. «Una persona sciocca è quella che fa cose coraggiose senza pensare. Ma non è forse vero che ciascuna di noi sarebbe disposta a rischiare la vita per ritornare a Casa da un luogo lontano, sfidando la distanza e i pericoli? E non chiederemmo aiuto a chiunque incontrassimo?» La moglie del capo guardò i giganti. «Se questi umani sono come noi, andranno nonostante le nostre suppliche e i nostri avvertimenti. Porse tra noi c'è qualcuno così coraggioso da accompagnarli. Io non sono un cacciatore, quindi non posso.» «Se io fossi giovane,» aggiunse Sand, «andrei, nonostante i pericoli.» Ma non sei più giovane, pensò Born. «Ma poiché non sono più giovane,» continuò il capo, «non posso andare. Ciò non deve trattenere gli altri, quelli di voi che forse sono ansiosi di partire.» Girò lo sguardo sull'assemblea, imitato da Cohoma e dalla Logan, dagli uomini e dalle donne, dai bambini che, ad occhi spalancati, curiosavano tra le spalle e le teste e le gambe degli adulti. Nessuno si fece avanti. Si udiva soltanto il vivace crepitio del legno morto nel fuoco, il sommesso, indifferente mormorio della pioggia. Prima di avere il tempo di riflettere, Born sentì la propria voce dire: «Io andrò con i giganti.» Innumerevoli sguardi dall'intensità e dall'espressione diversa lo inchiodarono al suo posto. Ora, finalmente, si aspettava qualche dimostrazione d'ammirazione e di stima. Ma quegli sguardi erano colmi di tristezza e di pietà. Persino i due giganti lo fissavano con espressioni di soddisfazione e di sollievo, non di adulazione. Amaramente, Born pensò che le cose sarebbero potute cambiare, nelle molte settimane future. «Il cacciatore Born accompagnerà i giganti,» osservò Sand. «C'è qualcun altro?» Born si voltò a guardare i suoi amici. C'era un certo movimento, nel cerchio più interno: ma erano uomini che fingevano di scrutare il pavimento davanti a loro, di assaporare il calore del fuoco, di esaminare le giunture del tendone di pellefoglie... qualunque cosa, pur di non guardarlo negli occhi. Benissimo. Sarebbe andato da solo, con i giganti, e sarebbe stato il solo ad apprendere i loro segreti. «Forse,» disse freddamente, alzandosi, «non sarebbe troppo chiedere a qualcuno di provvedere alle provviste per il nostro viaggio.» Poi si voltò e lasciò l'assemblea, dirigendosi verso la sua nicchia. In quel momento gli parve di sentire qualcuno mormorare: «Per-
ché sprecare buon cibo per coloro che sono già morti?» Probabilmente se l'era immaginato: comunque, non si fermò ad accertarlo. Le cacce fortunate, l'uccisione del bruchiere... non erano servite a nulla. Quando, unico tra tutti i cacciatori, aveva avuto l'ardimento di scendere fino alla barca celeste dei giganti, aveva guadagnato soltanto l'ammirazione dei bambini. Ora si accingeva a fare qualcosa di straordinario, e nessuno avrebbe più potuto ignorarlo. Avrebbe accompagnato i giganti alla loro Casa-stazione e sarebbe ritornato, o sarebbe morto. Forse questo avrebbe costretto gli altri a riconoscere il suo valore, se stavolta non avesse fatto ritorno. Allora si sarebbero pentiti. Nella sua collera, inciampò in una radichetta sporgente e si voltò infuriato a scagliare imprecazioni contro quel nemico spensierato. Lo sfogo lo fece sentire un po' meglio. Il fuoco centrale era lontano, alle sue spalle, e l'oscurità gli si avvolgeva intorno. Si tirò il mantello sulla testa per ripararsi dalla pioggia. Se i giganti erano convinti di poter raggiungere la loro misteriosa stazione, perché non doveva essere altrettanto fiducioso? A meno che... E se la stazione non esisteva? Se i due giganti erano folletti maligni dell'Inferno Inferiore inviati a tentarlo, ad attirarlo lontano da Casa? Bah, era assurdo! Erano umani quanto lui, nonostante l'alta statura e lo strano abbigliamento. Altrimenti, come avrebbero potuto parlare lo stesso linguaggio degli uomini? Però, che strane modulazioni, che frasi bizzarre usavano! E poi, non emfolavano. Born non riusciva a concepire una persona che non emfolasse, perciò preferì dimenticarsene. Scostò la porta di pellefoglie ed entrò nella sua dimora, poi la chiuse con cura dietro di sé. Si slacciò il mantello e lo lanciò in un angolo. Dall'oscurità si levò un suono smorzato. Immediatamente, Born si chinò, estraendo istintivamente il coltello d'osso dalla cintura. Una figura indistinta mugolò. Muovendosi con cautela nel buio, Born estrasse il pacchetto di polline incendiario, lo sparse sul mucchio di legna morta al centro della stanza. Un tocco e la legna crepitò e fiammeggiò, rivelando la figura rannicchiata di Passo Chiaro. Born si rilassò e rimise il coltello nel fodero. Diede un'occhiata incuriosita alla ragazza, sedette accanto al fuoco e incrociò le gambe. Le fiamme giallovive erano amiche, rasserenanti. Domani sarebbe partito insieme ai giganti, e gli sarebbe piaciuto un lungo sonno tranquillo, ma... «Sei venuta per ridere di me come gli altri,» borbottò, senza rancore. «Oh, no!» Passo Chiaro avanzò timidamente verso il fuoco. La luce ac-
cendeva guizzi d'olivina nelle profondità degli occhi di lei, e Born sentì svanire rapidamente il fascino delle fiamme. «Tu conosci i miei sentimenti, Born.» Il cacciatore sbuffò, girò nervosamente la testa dall'altra parte. «A te piace Losting. È Losting che ami... io ti diverto!» «No, Born,» protestò la ragazza, alzando la voce. «Losting mi piace, sì... ma mi piaci anche tu. Losting è simpatico, ma non come te. Non come te.» Lo guardò, implorante. «Non voglio che tu faccia questo, Born. Se parti con i giganti non tornerai mai più. Io credo a quello che dicono tutti dei pericoli che ci sono tanto lontano da Casa, e dei posti dove i due inferni si congiungono.» «Storie, leggende,» brontolò Born. «Favole per cuccioli. I pericoli lontano dalla Casa non sono diversi da quelli che s'incontrano a un tiro di lancia da questa stanza. E non credo esistano posti dove i due inferni si congiungono. Ma se c'è, lo aggireremo o lo attraverseremo.» Passo Chiaro girò attorno al fuoco, sulle mani e sulle ginocchia, gli venne accanto e gli posò una mano sulla spalla. «Fallo per me, Born: non andare con i giganti.» Born la guardò, fece per chinarsi verso di lei, cominciò a cedere. Poi lo stesso istinto che lo induceva a mettersi in agguato per catturare i bruchieri e a scendere nelle profondità dei pozzi intervenne, lo bloccò. Invece di dire: «Farò tutto ciò che desideri, Passo Chiaro, per amor tuo,» bisbigliò con voce rauca: «Ho dato la mia parola, ho dichiarato davanti all'intera tribù che sarei andato. E anche se non l'avessi fatto, andrei lo stesso.» La mano di Passo Chiaro gli ricadde dalla spalla. Lei sussurrò: «Born, non voglio che tu vada.» Poi si protese e lo baciò, prima che lui potesse ritrarsi. Quindi balzò in piedi e uscì prima che il cacciatore potesse reagire, fu inghiottita dalla pioggia notturna. Born rimase a lungo in silenzio, a pensare, mentre il fuoco si consumava e le gocce tepide ruscellavano dal tetto di pellefoglie. Poi mormorò qualcosa che nessuno poté sentire, si arrotolò nella pelle da notte e si perdette in un sonno turbato e pieno di sogni. Ruumahum aprì a mezzo l'occhio sinistro, lo girò di traverso. Una massa scura stava sul ramo, accanto alla fenditura dove riposava. Tossì, si scrollò le gocce dal muso, e sbuffò nel rombo sibilante tipico dei vellosi. «Dov'è il tuo umano, cucciolo?» Muf girò la testa, imitando il gesto umano, in direzione del gruppo di
rami chiusi, più sotto. «Laggiù. Dorme.» «Dovresti dormire anche tu, scocciatore.» L'occhio si chiuse, e Ruumahum tornò ad appoggiare sulle zampe anteriori la testa massiccia. Muf esitò, prima di sbottare: «Vecchio, per favore?» Ruumahum sospirò come sospirano i vellosi e alzò leggermente la testa verso il cucciolo, aprendo tutti e tre gli occhi, questa volta. Il cucciolo chinò il capo e guardò il sottostante villaggio addormentato. «Il mio umano, il ragazzo Din, è turbato.» «Tutti gli umani sono turbati,» rispose Ruumahum. «Dormi.» «Teme per il suo patrigno, l'umano Born. Il tuo umano.» «Non ci sono legami di sangue,» borbottò il grosso velloso, riabbassando la testa. «La reazione emotiva del cucciolo umano è irragionevole.» «Tutte le reazioni dei cuccioli umani sono irragionevoli. Temo che questa volta la reazione del mio umano sia invece ragionevole.» Ruumahum scosse il capo, si chiese perché i cuccioli erano così curiosi e impiccioni e non rispettavano il sonno di un adulto. «Temo,» continuò il cucciolo, «che il ragazzo umano faccia qualcosa di avventato.» «I suoi anziani glielo impediranno, come io lo impedirei a te. E farò di peggio se non mi lasci riposare.» Muf si girò per andarsene, poi voltò la testa e grugnì, in tono di sfida: «Poi non dire che non ti avevo avvertito, vecchio.» Ruumahum scosse il capo, si chiese perché i cuccioli erano così curiosi e impiccioni e non rispettavano il sonno di un adulto. Se ne venivano fuori con le loro domande a tutte le ore del giorno e della notte. L'impulso di eliminare le sue ignoranze «un impulso, ricordò, che aveva avuto anche lui» era ancora presente, ma attenuato dall'esperienza. E addolcito anche dalla tranquilla certezza che la morte spiegava tutto. Riappoggiò la testa tra le zampe incrociate, senza badare alla pioggia incessante, e si riaddormentò immediatamente. CAPITOLO 7 Born spezzò rabbiosamente un altro ramo morto dal tronco di una parassita terziaria, stando attento, nonostante la sua furia, a non danneggiare i germogli vivi e sani. Erano a quattro giorni di marcia in linea retta dalla Casa, e la sua collera verso il gruppo ormai lontano dei cacciatori non si era placata. Ma un po'
di quella rabbia era rivolta anche verso se stesso, perché si era lasciato indurre a partecipare a quella spedizione pazzesca. Ruumahum ispezionava la foresta primordiale sulla sinistra di Born. Intuiva l'inquietudine del suo umano e si teneva a distanza. Un umano accecato' dalla collera era imprevedibile come gli altri abitatori della foresta, ed uno furioso con se stesso era più imprevedibile di tutti. Il disagio di Born era aggravato dalla totale incompetenza dei giganti. Sembrava che non sapessero neppure come si faceva a camminare e ad arrampicarsi normalmente. Un bambino aveva un equilibrio migliore del loro. Se non ci fosse stato lui a portata di mano, ci sarebbe già stata qualche caduta pericolosa. Cosa avrebbero fatto, se li avesse caricati un multigambe bruno o un fluttuante Buna? Ruumahum scendeva più in basso, quando arrivavano nei punti più difficili, ma neppure i riflessi fulminei di un velloso sarebbero bastati a impedire una caduta di parecchi livelli. E sarebbe stata sufficiente una sola caduta del genere per mettere fine alla spedizione. Born spezzò l'ultimo ramo, raccolse la legna tra le braccia, e tornò verso l'ampia sezione di rampicante che aveva scelto per accamparsi quella sera. Quel giorno gli era parso che i giganti se la cavassero un po' meglio, si muovessero tra gli alberi con minore esitazione. Cohoma non mostrava più la stessa tendenza a sdrucciolare ogni volta che balzava da un tralcio all'altro, od a sbagliare la presa. La Logan si era finalmente convinta che era pericoloso allungare le mani verso ogni nuovo fiore, ogni nuova pianta che incontravano. Born non sorrise ricordando l'incidente di due giorni prima, quando la donna aveva cercato di bere dal vermilliot a coppa. Era riuscito a impedirglielo solo con un guizzo rapido, sferrandole un colpo sull'avambraccio. Lei lo aveva guardato male fino a quando le aveva mostrato le minute differenze tra quel vermilliot e le piante circostanti di vermillion: il vermilliot aveva due petali in più, un insolito ispessimento della base, un color rosso più scuro, e chiazze rivelatrici accanto al labbro del cilindro... uniche pecche di una mimesi altrimenti perfetta. Poi Born aveva impugnato il coltello d'osso. Dopo essersi assicurato che i due giganti fossero a distanza di sicurezza, si era portato sopra la pianta. Con la punta della lama aveva inclinato il cilindro verde, in modo da rovesciarne fuori il liquido trasparente. L'acqua del vermilliot era limpida, ma non era acqua piovana. Il getto colpì una liana spessa un metro che stava più sotto: spruzzò e sfrigolò, formando una nube densa che si innalzò
nell'aria. Quando finalmente il vapore era svanito, Born aveva accennato ai giganti di avvicinarsi. Avvertendoli di non calpestare il liquido rimasto, mostrò loro il foro che aveva aperto attraverso un metro di legno e tra il fogliame sottostante. Infine, aveva battuto cautamente sulla parete verde della falsa bromeliacea. Si udì il tonfo profondo, quasi metallico, completamente diverso dal tocco sommesso che si levò quando egli colpì uno dei veri vermillion. Da quel momento, nessuno dei due giganti si era azzardato ad accostare un dito ad una pianta sconosciuta senza consultarsi prima con Born. Questo lo aveva rallegrato, ma non troppo, perché le innumerevoli domande facevano perdere loro tempo, non meno di una ferita o di una frattura. Procedevano circa ad un terzo della velocità che avrebbe potuto raggiungere se fosse stato solo. Con un balzo, si lasciò cadere sull'enorme rampicante scelto per accamparsi. Fin dal primo giorno, scegliere un accampamento si era rivelato un problema. Sembrava che i giganti non potessero sopportare le notti senza ripararsi dalla pioggia notturna. Pretendevano una protezione, sebbene costasse tempo e fatica, e Born li aveva accontentati, brontolando. Quelli sostenevano che la continua esposizione alla pioggia avrebbe causato loro una strana malattia, chiamata raffreddore. Born non riusciva a capire. Nessun umano poteva essere tanto fragile. L'indigestione era l'unico malanno che conosceva: e capitava solo quando mangiava cibi diversi dal frutto dell'albero Casa. Ma le descrizioni fornite dai giganti erano così orrende che non poteva rifiutare loro la protezione richiesta. «Eccolo,» disse la Logan al suo compagno, quando Born si avvicinò. Il cacciatore si chiese perché abbassavano tanto spesso la voce, parlando ad un volume inferiore al normale. Non gli veniva mai il sospetto che cercassero di nascondergli qualcosa. Tuttavia poteva udirli abbastanza bene, anche quando conversavano bisbigliando. Perché avrebbe dovuto discutere le stranezze di quelli che sapevano volare nel cielo? Però, avrebbero potuto dedicare più tempo, pensò, mentre scaricava la legna sul grosso ramo, a migliorare e a perfezionare i loro corpi, invece di costruirne di nuovi artificiali per difendersi dal mondo. «Cominciavamo a preoccuparci, Born» spiegò la Logan con un gran sorriso. «Sei stato via parecchio.» Born si strinse nelle spalle e si accinse a costruire una specie di riparo con i rami morti e le fronde. «È difficile trovare il materiale adatto per un
riparo asciutto,» spiegò. «Quasi tutto il legno morto e le foglie vecchie precipitano nell'Inferno, dove vengono divorati, come tutto ciò che cade.» «Divorati è proprio la parola adatta, ci scommetto,» riconobbe Cohoma, togliendo la pelle a una grossa spirale purpurea. «Laggiù debbono esserci batteri grandi come le tue lentiggini, Kimi. La quantità di sostanze vegetali morte che devono cadere al suolo tutti i giorni, qui...» Si udì uno scroscio tra il fogliame, e Cohoma balzò in piedi. La Logan si affrettò a impugnare la lancia d'osso che le era stata fornita. Ma era solo Ruumahum. Born sorrise, scrutando le espressioni dei giganti. Nonostante le loro affermazioni contrarie, era chiaro che non si sarebbero mai abituati alla presenza del grosso velloso. «Arrivano umano e velloso,» dichiarò l'esapodo smeraldino. «Sconosciuti o?...» Born s'interruppe quando un'alta figura apparve nella luce, e portò istintivamente la mano sul coltello. A fianco dell'uomo c'era un secondo velloso, un po' più piccolo di Ruumahum. Losting. Il nuovo arrivato non sorrise nel sostenere lo sguardo di Born. La Logan guardò Born con aria interrogativa, ma lui non le badò, non scostò la mano dall'impugnatura del coltello. I due vellosi si scambiarono borbottii sommessi e si appartarono a conversare su un ramo vicino. Losting avanzò di un paio di passi. «Quando due cacciatori solitari si incontrano sul sentiero,» disse Losting, volgendo lo sguardo da Born per il tempo sufficiente per studiare i giganti, «è giusto che colui che ha preparato il campo inviti il nuovo venuto a dividerlo con lui.» «Come sei arrivato qui?» chiese brusco Born, ignorando per il momento le cortesie rituali. E abbassò gli occhi, perché Losting non potesse vedere la collera nel suo sguardo. «L'ultima volta che ti ho visto eri accanto a Passo Chiaro, quando abbiamo lasciato la Casa.» «Infatti,» ammise Losting, senza vanterie. «E ora penso, come ho pensato in questi ultimi giorni, che avrei fatto meglio a rimanere con lei, perché avrà bisogno di qualcuno che la conforti e viva con lei quando tu sarai morto.» «Non puoi avermi seguito da solo per quattro giorni solo per farti beffe di me,» osservò teso Born. La sua collera si dileguava di fronte all'illogicità della situazione. «Allora, perché sei venuto?» Ora toccò a Losting distogliere lo sguardo. Passò davanti ai due giganti, si accosciò e appoggiò il mento sul braccio, mentre esaminava il riparo in
costruzione. «Ho cercato di dimenticare ciò che hai detto quella sera al consiglio. Non ci sono riuscito. E non sono riuscito a dimenticare che sei sceso da solo nel pozzo dentro al mondo, per scoprire che la cosa azzurra non era un demone, ma era fatta del metallo dell'ascia. A scoprire loro.» E accennò con il capo alla, Logan e a Cohoma che osservavano incuriositi. «Mi vergognavo di avere avuto paura, anche se gli altri del nostro gruppo che sono tornati indietro non si vergognavano affatto. Si sono giustificati dicendo che tu eri pazzo. Ma io non potevo giustificarmi così.» Tornò a guardare Born. «Poi, quando hai detto che avresti accompagnato i giganti alla loro Casa, anch'io ti ho creduto pazzo, Born. E quando sei partito ero felice, perché avevo Passo Chiaro tra le braccia.» Born si tese, ma Losting alzò una mano per trattenerlo. «Ho pensato che sarebbe stato bello, avere Passo Chiaro tutta per me. Che gioia non averti intorno, Born, non vederti tornare ogni volta con una preda più grossa. Che gioia non doverla disputare a un pazzo. Che gioia non dover brancolare con le parole, mentre tu trovavi sempre quelle più dolci e più adatte.» La collera di Born svanì completamente. Lo colpì uno strano pensiero. Possibile che Losting, il massiccio, muscoloso Losting, possente cacciatore e guerriero... fosse geloso di Born? «Io sono rimasto, mentre tu partivi,» continuò l'altro. «Ma ero turbato. Quando Passo Chiaro mi ha lasciato, sono andato sull'orlo della Casa e mi sono seduto, a guardare il mondo in cui tu eri scomparso. A pensare. A vergognarmi. Perché mi dicevo: e se tu fossi riuscito a raggiungere la Casa stazione dei giganti, come avevi raggiunto la loro barca celeste? Se tu fossi ritornato con questo nuovo successo alle spalle? Che cosa avrebbe pensato di me Passo Chiaro? E cosa, cosa avrei pensato io di me stesso?» Il viso di Losting era contratto. «Tu mi perseguiti, Born, vicino o lontano che tu sia. Così mi sono sorpreso a pensare: forse tu sei matto, ma matto ed abile, comunque non sei più coraggioso di Losting. Nessuno è più coraggioso di Losting! Perciò ti ho seguito. Ti seguirò fino alla casa dei giganti o fino alla morte. Non otterrai questo trionfo su di me, te lo assicuro!» «Born, cos'è questa storia?» chiese Cohoma. La Logan lo zittì. «Non vedi che è una faccenda personale, Jan? Una cosa che riguarda questi due. Non intromettiamoci.» «Purché non metta a repentaglio il nostro ritorno,» commentò Cohoma. «E con questo?» chiese Born, rilassandosi un poco. «Perché non continui a seguirci come prima? Evidentemente, era la cosa migliore da farsi.»
«E mi terrei lontano dai tuoi occhi,» finì Losting, senza collera. «E tu dai miei. Ma non possiamo continuare.» «Non riuscirai a scoraggiarmi con...» «No, no, Born.» Il tono di Losting era conciliante. «Poiché non dovevo fermarmi a costruire ripari per i giganti, ogni giorno ti ho preceduto, non seguito. Proprio adesso sono arrivato da...» e citò un numero modesto «più avanti. E ciò che ho visto mi ha indotto a cercarti.» «E che cos'hai visto?» «Akadi.» «Non ti credo.» «E allora continua su questo sentiero, e sarai cibo per bocche indaffarate. Ho visto la colonna.» Born rifletté. Losting non avrebbe mai scherzato su di una cosa tanto seria... neppure per mettere in imbarazzo lui di fronte a Passo Chiaro. «Che cosa succede?» chiese finalmente Cohoma, spazientito. «Perché non si dovrebbe proseguire? Cos'è questo acoti... o quel che è?» «Akadi,» lo corresse Born, pesantemente. «Dobbiamo tornare indietro.» «Stai a sentire...» cominciò Cohoma, alzandosi. La Logan cercò di trattenerlo, ma questa volta l'uomo si svincolò. «No, voglio dire a questi umani regressivi che cosa penso di loro. Prima mostrano di volerci aiutare. Poi ci accompagnano a una breve distanza da casa, e cambiano idea.» Si rivolse a Born. «O forse ti stai avvicinando al limite di cinque giorni, che fino ad ora nessuno ha mai superato e...» Rendendosi conto all'improvviso di lasciarsi trascinare dalla frustrazione, Cohoma s'interruppe. «Tu non conosci gli Akadi,» mormorò Born, con furia sommessa. «Altrimenti chiederesti soltanto quando fuggiamo.» «Born,» cominciò la Logan. «Non credo che...» «Voi parlate di ritardi, di coraggio e di intenzioni. Credete che io rischi la vita per bontà di cuore? Credete che lo faccia per voi? Non m'importa niente di voi, così grandi e freddi!» Si calmò un poco e rivolse la sua attenzione a Cohoma. «Voi siete diversi di statura, di colore, di mentalità. Venite da noi con una barca celeste di metallo d'ascia. Io sono sceso nel pozzo che avete aperto nel mondo, non per salvarvi, ma per vedere cos'era la vostra barca. Per scoprire qualcosa. Per soddisfare me stesso. Vengo alla vostra stazione per lo stesso motivo... non per salvarvi la vita, ma per me, per me! Ed è per me e per Losting e per la nostra gente, non per voi. Voi potete andare avanti e morire, o nascondervi e marcire prima che la colonna cataloghi il vostro odore. A me non interessa. Ma non possiamo prose-
guire. Forse non potremo proseguire mai. Dobbiamo ritornare a Casa.» «Born,» disse la Logan dopo un lungo silenzio, «noi ignoriamo ancora le vostre usanze e moltissime cose del vostro mondo. Devi perdonarci. Che cosa sono gli Akadi, e perché ci obbligano a tornare indietro?» «Dobbiamo avvertire la Casa,» disse Losting. «Può darsi che gli Akadi passino oltre. Se no...» E alzò le spalle. «Dobbiamo cercare di fermarli.» Ti credo, Losting, «confessò esitante Born.» Ma vorrei una prova sicura. «Indicò Cohoma e la Logan.» E credo che il nostro ritorno sarebbe più rapido, se i giganti vedessero i segni del passaggio degli Akadi. Losting annuì e si alzò. «Non è lontano... molto meno lontano di quanto vorrei. Possiamo arrivare vicini e ritornare prima che cominci a piovere.» I due cacciatori scesero dal ramo. Cohoma e la Logan dovettero affrettarsi per seguirli. La Logan incespicò, si contorse per passare tra le spine prensili, i rami e le foglie dagli orli a sega. Ruumahum le stava dietro, per precauzione. I primi due giorni l'avevano abituata a sopportare le sofferenze di mille ferite dall'alba al tramonto, e cominciava a indurirsi. La stupiva vedere che Born sembrava non tagliarsi mai, non graffiarsi mai, anche quando li guidava tra i rovi più fitti. Era decisamente strano. Senza dubbio, pensava, era più piccolo e più agile, e la conoscenza innata della struttura della foresta primordiale gli consentiva di guizzare tra i grovigli più densi di foglie, di steli e di ramoscelli. Accanto a lei apparve una grossa sagoma verde. Questa volta non trasalì: fremette solo un po', interiormente. Cominciava ad abituarsi alla mole del velloso e alle sue apparizioni silenziose. «Ruumahum, che cosa sono gli Akadi?» Il velloso fiutò l'aria. «Una cosa che mangia.» «Una cosa o molte?» «Sono migliaia, e ce n'è una,» rispose Ruumahum. «Come possono essere migliaia, se sono una sola? Ruumahum ringhiò irritato.» Chiedi ad Akadi. «Si lasciò cadere dal ramo, e scese più in basso.» La Logan segui con l'immaginazione il suo percorso, ripetendosi teatralmente, «nel fogliame più sotto!... nel fogliame più sotto... nel fogliame più sotto... fogliame. Fo... emfol... Empatia di fogliazione?» Una terminologia precisa per una superstizione acquisita, si disse. Questo poteva spiegare il termine, ma non la razionalizzazione di quella credenza così radicata. C'era qualcosa che le sfuggiva. Avrebbe dovuto attendere. Losting aveva avuto ragione: non dovevano spingersi molto lontano.
Stavano procedendo in un fitto intrico di vegetazione aerea dalle striature gialle, che cresceva ad angoli retti, formando una scacchiera viva. Losting fece cenno che avrebbero dovuto girarle intorno: una deviazione di alcune dozzine di metri. Cohoma allungò una mano, si afferrò al più vicino dei gambi intrecciati, che aveva lo spessore di un dito. «Perché fare il giro?» chiese a Born, indicando il coltello a lama larga. Poi strinse più forte il ramoscello. «Questa pianta è erbacea, tenera. Se abbiamo tanta fretta, perché non ci apriamo un varco nel mezzo?» «Tu consideri la morte con tanta indifferenza,» gli disse Born, guardandolo con la stessa espressione con cui Cohoma avrebbe studiato un insetto al microscopio. «Forse sul tuo mondo sei una specie di cacciatore?» E accentuò in modo curioso quella parola, "specie". Ora fu Cohoma a fissare Born. «Ma è soltanto una pianta grassa molto cresciuta.» «È viva,» disse paziente Born. «Se la tagliassimo per aprirci un varco, diventerebbe non-viva. Perché? Per risparmiare tempo?» «Non solo per questo. Se da queste parti c'è una specie di onnivoro multiplo, preferirei non farmi sorprendere in uno spazio ristretto. Vorrei avere intorno il massimo spazio di manovra possibile.» Born e Losting si scambiarono un'occhiata. I due vellosi attendevano, lì accanto. «Costui ucciderebbe per assicurarsi pochi minuti di luce migliore,» osservò stupito Born. «Hai delle strane idee sulla scala dei valori, Jancohoma. Faremo il giro.» Cohoma continuò a fare domande, e anche la Logan: ma né Born né Losting erano disposti a rispondere. Finalmente aggirarono il gruppo di piante grasse disposte a scacchiera. Dopo un altro minuto, si addentrarono nella giungla più fitta. Una svolta, una scorciatoia, e all'improvviso si trovarono in un inaspettato spazio aperto, come si era augurato Cohoma, una sorta di galleria scavata nella foresta. Era una galleria alta più di un uomo, più di Cohoma e della Logan. Era larga almeno cinque metri, e si estendeva in linea retta a destra e a sinistra, fino a perdersi nel verde. «Sono stati gli Akadi. Non sono intelligenti e hanno un solo scopo. Si aprono la strada attraverso il mondo, divorando tutto "e lasciando... questo.» Born indicò lo spazio vuoto. In quella galleria, la vita aveva smesso di esistere. Era semplicemente scomparsa. «E vanno sempre in linea retta?» chiese la Logan. «No. La colonna manda avanti degli esploratori. Se in un'altra direzione
il cibo è più abbondante, gli Akadi deviano e divorano lungo una nuova rotta. Una volta messi in marcia, niente può dirottarli tranne la loro fame. Guarda.» E indicò lungo la galleria. «Mangiano qualunque cosa, consumano tutto ciò che trovano di vivo sulla loro strada e che non riesce a togliersi di mezzo. Li ho visti divorare il cuore di un albero Pilastro e uscire dall'altra parte. Si dice che puoi trovarti proprio sull'orlo della loro galleria e, anche se gli Akadi potrebbero facilmente afferrarti, non deviano dalla strada che hanno scelto. Quando quelli in testa alla colonna sono sazi, rimangono indietro, lasciando che vadano a rimpinzarsi gli altri. Quando gli ultimi hanno mangiato, i primi hanno fame di nuovo. Si fermano soltanto per riposare e riprodursi.» Cohoma parve sollevato. «Allora non ci sono problemi, vero? Non dirmi che sei preoccupato perché sembra che si stiano dirigendo verso il villaggio?» Born annuì. Il gigante allargò le braccia. «E allora che difficoltà ci sono? Basta che raduniate i bambini e i vellosi e vi togliate di torno fino a quando gli Akadi saranno passati: poi potrete tornare, no?» Born scosse lentamente il capo. «No. I baccelli ne uccideranno alcuni, ma non molti. Tu non capisci. Potremmo fare come dici tu, ma non è per noi che abbiamo paura. Sono sul livello del villaggio. Raggiungeranno la Casa e, a furia di divorare, si apriranno la strada attraverso il tronco. Dopo aver trapassato la corteccia divoreranno il cuore del legno. La Casa resterà indifesa, esposta ai parassiti e alle malattie. Annerirà e morirà, se non riusciamo ad arrestare la colonna o a farla deviare.» Non c'era altro da dire. Lasciarono la galleria: la Logan e Cohoma venivano in coda. «Ma, Born,» insistette la donna, «la vostra presenza non potrà cambiare molto la situazione! Due uomini in più! Accompagnateci alla nostra stazione. Noi abbiamo i mezzi per arrestare questa carneficina prima che raggiunga la Casa, mezzi che voi non potete neppure immaginare.» «Può darsi,» concesse Born. «Ma siamo lontani chissà quanti giorni dalla vostra Casa-stazione. Con il loro ritmo normale, gli Akadi arriveranno alla Casa molto prima che noi possiamo raggiungere la vostra stazione. Dobbiamo avvertire gli altri e prepararci. Anche voi ci aiuterete.» «Se tu credi,» ribatté Cohoma, «che noi abbiamo intenzione di perdere tempo mentre...» «Naturalmente faremo quel che potremo, Born,» disse la Logan, in tono blando, dopo aver lanciato un'occhiata tagliente al collega. «Saremo onora-
ti di aiutarvi, dopo tutto ciò che tu hai già fatto per noi.» Posò una mano sulla spalla di Cohoma e lo trasse indietro. I due rimasero un po' distanziati da Born. «Cosa diavolo ti ha preso, Kimi?» bisbigliò irritato l'uomo. «Se mi avessi lasciato discutere ancora un po' con quei due li avrei convinti che non possiamo renderci utili. Avrebbero potuto lasciarci sul ramo più vicino e noi avremmo...» «Sei idiota e miope! Non possiamo far altro che collaborare. E tanto vale che lo facciamo. Se la difesa dell'albero fallisce, siamo spacciati, come se ci avessero divorati gli Akadi. Oppure credi che possiamo farcela ad attraversare questa serra infernale senza aiuto? Hai visto com'è. Ormai saremmo già morti una dozzina di volte se non fosse stato per Born. Ricordi la falsa bromeliacea che credevo fosse piena d'acqua, e invece era piena d'acido? Combatteremo, sicuro. E se la situazione dovesse presentarsi disperata come sembra pensare Born, avremo tutto il tempo di tirarcene fuori.» E scavalcò prudentemente un fungo azzurro e magenta. «Fino a quel momento, dovremo fare di tutto per aiutarli a sopravvivere. A meno che tu preferisca metterti in marcia da solo.» «Va bene, non ci avevo pensato,» ammise Cohoma. «Staro al gioco, finché loro ce la faranno. Ma non ho intenzione di morire per un maledetto albero. Preferirei correre il rischio di affrontare da solo la foresta pluviale.» Born si sarebbe stupito di quello strano dialogo, ma in quel momento aveva la mente piena di pensieri che sommergevano ogni suono. Gli Akadi marciavano verso la Casa, marciavano verso Passo Chiaro. Sospettava che i giganti non avrebbero combattuto fino alla morte, se si fosse giunti a questo. Non si prese il disturbo di dire loro che, quando gli Akadi avevano captato un odore, seguivano le tracce del nemico fino a quando crollava. Una volta che si fosse scatenato il conflitto ed i sensi degli Akadi si fossero acuiti, tutto ciò che si trovava alla portata del loro olfatto era condannato a morte, a meno che gli Akadi morissero prima. Se fossero riusciti, in un modo o nell'altro, ad arrestare la colonna devastatrice ed i giganti avessero scoperto questa informazione, avrebbero potuto rimproverare Born quanto volevano. Passo Chiaro era tornata frettolosamente dal lavoro di spigolatura non appena le era arrivata la notizia del ritorno di Born. Lo vide parlare agitato con Sand e Joyla e si avviò verso di lui, compiaciuta e sorpresa di vederlo ritornare così presto, sano e salvo. Poi notò che con loro c'era anche Lo-
sting, e parlava disinvolto con Born, non soltanto con i due anziani. Rallentò, si fermò a guardare per un lungo attimo. Poi si voltò e si avviò lentamente verso la dimora dei genitori. Ogni tanto si girava per guardare, parlava sottovoce fra sé, e scrollava il capo. «Tra quanto?» chiese Sand in tono solenne. «Due giorni di marcia per un uomo,» disse Losting, indicando la foresta. «Non c'è speranza che passino da una parte o dall'altra?» Born scosse la testa. «Credo di no.» «Taglieranno attraverso il villaggio.» Born si voltò, quando vennero raggiunti dai due giganti e da Reader. «Ma secondo me, vedete le cose da un punto di vista sbagliato,» continuò Cohoma. «Volete sacrificarvi per tentare di salvare un albero? Sentite, quanto tempo impiegherebbe l'albero a morire, dopo che gli Akadi lo avessero attraversato, divorandone l'interno?» Fu Reader a rispondere. «Secondo il vecchio calendario, circa cento anni.» L'espressione di Cohoma rifletteva chiaramente i suoi sentimenti. «E voi potreste allevare qui ancora due o tre generazioni, e intanto cercare un nuovo albero, con tutta calma, a piccoli gruppi armati. Ma se restate a combattere contro gli Akadi, sembra che morirete. Che senso ha?» «La Casa vivrà,» spiegò Joyla, con dignità. «Giusto,» commentò amaramente Cohoma. «Buttate via le vostre vite per una maledetta pianta sacra.» E si rivolse alla Logan. «Non sono più abbastanza umani da poter rimpatriare nel Commonwealth. Sono troppo regrediti. Persino il normale istinto di sopravvivenza è stato estirpato in loro da questo mucchio di letame.» Il capo scosse mestamente il capo, mentre i due cacciatori scrutavano semplicemente i due giganti come se fossero una nuova varietà di Chollakee. «Giganti che affermate di venire da un altro mondo, io non vi capisco. Può essere come dite voi: noi siamo più diversi di quanto sembra.» «E non avete altro da aggiungere?» Joyla e Sand annuirono all'unisono. «Non pretendiamo di capirvi completamente,» ammise la Logan in tono conciliante, mentre Cohoma imprecava sottovoce. «Ma alcuni dei nostri sistemi potrebbero esservi utili.» «Prenderemo in considerazione tutte le proposte che vorrete fare,» rispose educatamente Sand.
«Bene,» disse la Logan, entusiasticamente. «Secondo quel che ho capito, l'unico motivo per cui gli Akadi dirotterebbero sarebbe per difendersi da un aggressore, giusto?» «È così,» rispose Born. «Bene, allora,» continuò lei, in tono vivace. «Perché non colpire la colonna sul fianco? Una volta che avranno deviato per difendersi, non continueranno per la nuova strada?» Sand sorrise e scosse il capo. «Gli Akadi ricordano. Inseguirebbero e ucciderebbero qualunque essere così sciocco da aggredirli, e poi ritornerebbero sulla direttrice di marcia precedente.» «Oh,» mormorò la Logan, smontata. «Mi ero chiesta perché nessuno proponeva un attacco diversivo. Servirebbe solo a guadagnare un po' di tempo.» «Pochissimo tempo,» aggiunse Losting. «Terribile,» commentò Cohoma, frustrato. Quegli individui gli davano ai nervi. Lì avevano finalmente trovato qualcuno disposto a condurli alla stazione, al sicuro, e adesso quella logica assurda imponeva loro di farsi uccidere nel tentativo di salvare un albero per la quarta generazione, invece di limitarsi a trasferirsi altrove per un giorno o due. Era insensato! Ma nonostante il suo scatto precedente, Cohoma non si illudeva sulle possibilità di sopravvivere da soli nella giungla. Sarebbero finiti nella stretta di qualche cavolo al cianuro, o di qualcosa altrettanto bizzarro. Trasse un profondo respiro. Era indispensabile, quindi, che gli Akadi venissero distrutti. Perciò lui e la Logan dovevano dichiararsi dispostissimi a collaborare. Se la lotta si fosse conclusa con una vittoria, avrebbero acquisito merito per il loro coraggio e il loro spirito cameratesco. Se fosse andata male, potevano tentare di affrontare la foresta. Nessuno dei due sapeva che gli Akadi erano in grado di seguire all'infinito l'odore del nemico. I due giganti aiutarono volenterosamente a innalzare i bastioni di pali affilati di legnoferro. I pali vennero incuneati e poi legati con vimini intrecciati sui fianchi della Casa, dove c'era da aspettarsi l'attacco degli Akadi. I pioli e le spine avvelenate avrebbero trattenuto la marea, ma non l'avrebbero arrestata. Gli Akadi avrebbero travolto quelle difese così pedestri con la sola forza del numero; i vivi si sarebbero serviti dei compagni morti e trafitti come di un ponte. Ma gli abitanti del grande albero disponevano di altre difese che, nonostante la loro considerevole esperienza di ricerca sulla vegetazione di quel mondo, Cohoma e la Logan non conoscevano.
Che funzione avevano, per esempio, le grosse noci grandi il doppio d'una noce di cocco terrestre, appese in equilibrio precario sopra i rampicanti che gli Akadi avrebbero usato per penetrare nell'albero? A differenza della montagna di mortali spine di jacari e di semi serbatoio, quelle noci non avevano nulla che facesse pensare a qualche diavoleria segreta. Cohoma se ne venne fuori con quella che gli pareva una soluzione ovvia e tuttavia geniale. Aveva trascurato qualcosa che la Logan aveva invece tenuto in conto: il fatto che il popolo di Born era primitivo, ma non stupido. «Perché,» propose a un gruppetto di uomini indaffarati, «non vi limitate a recidere tutti i tralci e i rampicanti e le liane che portano all'albero Casa? A meno che questi Akadi possano anche volare, saranno costretti a girargli attorno.» Per tutta risposta Jaipur, un vecchio artigiano, porse a Cohoma un'ascia d'osso splendidamente affilata e gli disse di provarla su una grossa liana, che aveva all'incirca la circonferenza della coscia di un uomo. Cohoma cominciò a sferrare colpi a quella sostanza incredibile, e continuò per dieci minuti buoni. La lama dell'ascia finì per smussarsi al punto di non tagliare più. Tutto ciò che Cohoma aveva ottenuto era un'incisione profonda un paio di centimetri nella corteccia protettiva. «Avresti dovuto immaginarlo, Jan» gli rammentò la Logan, «che nessun indigeno ti avrebbe suggerito di fare volutamente del male a una pianta, se non fosse stato sicuro che non avresti avuto la minima possibilità di successo, neppure con una liana.» Jaipur fece un gran gesto espansivo, sogghignando a bocca storta. L'altra metà del suo viso era rimasta paralizzata da un incontro con una certa pianta spinosa, avvenuto nella sua infanzia. «Vi sono molte migliaia di questi sentieri che si intrecciano e che conducono alla Casa da ogni direzione. Molti sono ancora più grossi del corpo di un velloso. Non ci sono abbastanza asce nella Casa, né abbastanza tempo al mondo per tagliarli tutti, se anche fosse possibile reciderli.» Prima di passare ad affilare un'altra lancia di legnoferro, Jaipur mostrò a Cohoma che ogni rampicante era sostenuto da altri sei. Reciderne uno o due senza tagliare la sua dozzina di sostegno sarebbe stato tempo sprecato. «Vi occorrerebbe un fucile a treppiede, per cominciare,» osservò la Logan. «Diavolo, la vegetazione, qui, è così aggrovigliata che bisognerebbe abbattere mezza foresta per aprire un varco decente intorno all'albero.» Reader passò accanto al gruppo e spiegò ai due giganti che gli Akadi po-
tevano attraversare considerevoli spazi aperti senza bisogno di sostegni, formando un ponte vivente con i propri corpi allacciati. Quei racconti fecero nascere tanto in Cohoma quanto nella Logan il desiderio di imparare a maneggiare meglio le armi disponibili. Avevano ricevuto entrambi lance di legnoferro, più ascia e coltello d'osso. La Logan avrebbe preferito uno spegnitore, ma quelle armi affini ai bazooka richiedevano molto tempo e una grande abilità: non bastavano neppure per coloro che sapevano come adoperarle. Sarebbero rimasti molto avviliti se avessero saputo che una delle ragioni per cui non avevano ricevuto gli spegnitori stava nel fatto che Born aveva convinto i capi che, in una situazione difficile, sarebbero riusciti più facilmente a ferirsi a morte con le spine velenose che ad uccidere gli Akadi. Le richieste di una descrizione più dettagliata dei nemici indussero Born a mostrare un inatteso talento di illustratore. Con un pezzo di sostanza bianca simile al gesso, il cacciatore tracciò un disegno su una lastra di legno nero lucido. «Dovete colpire qui,» spiegò. «Tra le zampe anteriori; oppure qui, in mezzo agli occhi. Ogni Akadi,» continuò, «è grande circa la metà di un uomo... come me.» «Più o meno le dimensioni di un pastore tedesco,» fece meditabondo Cohoma. Born continuò. Un Akadi aveva un grosso corpo flessibile, privo di coda: camminava su sei zampe sottili ma molto potenti, ognuna delle quali terminava in un lungo artiglio ricurvo che gli permetteva di muoversi come un bradipo lungo un ramo o un rampicante. La parte anteriore del corpo si assottigliava leggermente, e terminava in una doppia mandibola senza collo, circondata di muscoli. La doppia mandibola affascinò la Logan. Una coppia si muoveva in su e in giù, nel modo solito, mentre l'altra si muoveva da destra e da sinistra. Lavorando all'unisono, formavano un'arma tagliente che poteva squarciare l'osso o il legno più duro con la stessa facilità con cui un laser poteva tagliare una lastra metallica. I denti della mascella superiore e inferiore erano triangolari e affilati come rasoi, mentre quelli laterali erano squadrati, frastagliati in cima, e leggermente incurvati all'indietro per spingere il cibo nella gola sempre affamata. I tre occhi, spaziati sulla sommità del capo, stavano immediatamente dietro le mandibole. C'erano poi tre tentacoli, due ai lati della testa e un altro sotto, muniti di ventose acuminate in punta per afferrare la preda. Gli Akadi erano di un tipico color arancio ruggine, con gli occhi e le zampe di un nero lucido. Nonostante i tre occhi, si diceva che avessero una vi-
sta debole. «Ma questo viene compensato dal loro odorato e dal tatto,» concluse Born, «che sono veramente ottimi.» «Una macchina divoratrice in innumerevoli copie,» osservò sottovoce la Logan. «Molto ben progettata, molto efficiente.» Scosse il capo e mormorò: «Dio del cielo, non vorrei avere a che fare con uno di questi mostri. E dobbiamo combatterne migliaia.» Guardò con calma Born. «E voialtri credete davvero di riuscire a fermarli con qualche spegnitore e con qualche lancia?» «No,» disse Born, passando un avambraccio sul legno levigato per cancellare il disegno. «Adesso ho da fare.» E si voltò per andarsene. «Non c'è speranza per loro, nessuna speranza,» borbottò disgustato Cohoma, quando Born si fu allontanato un po'. «Temo che non ne abbiamo neppure noi, Jan.» CAPITOLO 8 Udirono il rumore mentre riposavano appena oltre il primo cerchio dei tralci carichi di polline della Casa. Inizialmente fu solo un fruscio sommesso in lontananza, come se il vento smuovesse i rami distanti. Poi divenne costantemente più forte, diventò un ronzio, come se un milione di calabroni si fossero messi alla ricerca di un nuovo nido. Poi si intensificò, crebbe, si risolse in un crepitio assordante che Cohoma e la Logan non avrebbero più potuto dimenticare. Il suono di centinaia di tonnellate di materia organica che scomparivano dentro innumerevoli gole. Una figura nota balzò su una liana, più in basso. «Tenetevi pronti, giganti. Gli Akadi sono vicini,» li avvertì Losting. La Logan serrò più forte l'asta di legnoferro e si assicurò che l'ascia e il coltello d'osso fossero ancora saldamente fissati alla cintura dei calzoncini che stavano andando rapidamente a brandelli. Comunque, sperava di non trovarsi mai abbastanza vicina ad uno di quei carnivori per dovere usare quelle armi. Prima sarebbero fuggiti. Losting fece per passare oltre. Cohoma lo invitò a soffermarsi con un gesto. «Non abbiamo più visto Born da un paio di giorni, Losting. So che ha da fare. Sta preparando le difese da un'altra parte?» «Born.» La faccia di Losting cambiò espressione più volte, passando dalla soddisfazione al disgusto. «Voi non vedete Born da diversi giorni
perché da diversi giorni se ne è andato.» Losting si godette apertamente il turbamento dei due giganti. «Ha lasciato la Casa, una notte, e da allora nessuno l'ha più visto o ha avuto sue notizie. È certo che non si è diretto verso gli Akadi: abbiamo mandato fuori degli esploratori per controllare la loro avanzata verso la Casa. Il suo velloso è scomparso insieme a lui.» Il sottinteso era chiaro: il cacciatore era fuggito. «Born... un vigliacco?» La Logan sembrava confusa. «Non ha senso, Losting. Quando tutti voi avevate paura, lui è stato l'unico che ha osato scendere fino alla nostra lancia.» «Coloro che sono pazzi agiscono per ragioni che loro soli conoscono, e che nessuno può comprendere,» ribatté Losting. «La vostra barca celeste era un'incognita, a differenza degli Akadi, che conosciamo anche troppo bene. Da loro, si sa esattamente cosa ci si deve aspettare. La morte. Born è un cacciatore, ed ha abitudini solitarie. Se la Casa muore e il villaggio muore con essa, potrebbe sopravvivere da solo. Non c'è dubbio che è il più abile di tutti noi.» Il suo volto si oscurò. «Ma in questo non è stato abile: perché se il villaggio continuerà ad esistere, non gli permetteremo più di vivere con noi. I capi e lo sciamano hanno già dato quest'ordine.» Losting ruotò su se stesso. Afferrando un tralcio vicino, si issò su un ramo più alto per controllare a che punto stavano i preparativi di difesa. «Non riesco a crederlo,» sussurrò la Logan, volgendosi a guardare la foresta. «Credo di essere un discreto giudice della natura umana, e non riesco a crederlo.» «Te l'avevo detto che costoro hanno rinunciato all'umanità, facendo troppe concessioni a questo mondo,» borbottò Cohoma. «Oh, andiamo, Jan! Come possono essere regrediti tanto in così breve tempo? Le prime astronavi coloniali risalgono a poche centinaia di anni or sono.» Poi abbassò la voce. «Giurerei di aver capito quel Born.» «C'è un'altra possibilità, vedi, Kimi,» azzardò Cohoma, dopo una breve pausa, scrutandola con aria attenta. «Persino uno come Losting, che non ha nessuna simpatia per lui, ammette che Born è molto sveglio. Forse... forse pensa che noi lo tireremo fuori dai guai.» La Logan ricambiò l'occhiata del collega con aria incuriosita. «Cosa vorresti dire?» «Beh, rifletti un momento,» disse lui, accalorandosi. «Born è là fuori, da qualche parte,» e gesticolò, oltre lo sbarramento di pali appuntiti, in direzione dell'altra estremità del villaggio. «E sospetta che noi lo raggiungiamo, se la battaglia volge al peggio come prevedono tutti. Quando si profila
la fine, noi facciamo il giro. Born si unisce a noi, arriviamo alla stazione, e lui soddisfa la sua ardente curiosità, e in più si salva la vita.» «Il che significherebbe,» ribatté la donna, alzando la voce, «che non gli importa nulla della sua Casa e dei suoi amici. Non ci credo. Credo che il legame sia forte in Born quanto negli altri, se non addirittura più forte. Potrei capire un atteggiamento del genere in un soldato di ventura, del tipo che si può incontrare e assoldare nei vicoli di Drallar o di LaLa o di Repler, ma non certo in Born.» Cohoma sogghignò. «Secondo me, tu vedi un po' troppo il nobile selvaggio nei nostri cugini sottosviluppati. Il nostro amico Born è abbastanza sveglio da squagliarsela, abbastanza iconoclasta da...» La prima fila degli Akadi irruppe attraverso la fitta muraglia verde, e ogni conversazione cessò. La colonna era formata da file di sette od otto Akadi e si estendeva nella foresta, fino a scomparire tra la vegetazione. Erano stretti l'uno all'altro, così vicini che l'avanguardia sembrava un unico serpente mostruoso, tutto setole lanose arancione, zampe artigliate, tentacoli in movimento. La luce verde filtrata splendeva sugli occhi che sembravano capocchie d'ebano, pozzi tenebrosi di ignara malignità. Risuonarono piccoli schiocchi esplosivi, quando i cacciatori piazzati in cerchio fecero scoppiare contemporaneamente una dozzina di semi serbatoio. Gli Akadi crollarono, cercando furiosamente di strappare con i tentacoli e le zampe unghiate le spine pungenti e mordendosi le carni. Prima ancora che il divincolarsi frenetico delle zampe e dei tentacoli cessasse, la prima fila era stata spinta da parte, rovesciata giù dai rami e dalle, epifite, verso gli abissi sottostanti. Là sotto, in quel punto, si sarebbe formata una metropoli di divoratori di carogne, pensò Cohoma. Mentre i primi dodici cacciatori ricaricavano, sparò il secondo gruppo ed altri Akadi morirono. Poi i primi spararono e i secondi ricaricarono. Quella tattica così elementare ebbe un'efficacia temporanea. Era come combattere il mare, ondata per ondata, un oceano vivente rosso-arancione di ventose e di denti che avanzava come se venisse eruttato da un tubo. I cacciatori rallentarono, e i colpi degli spegnitori divennero più irregolari, meno mortali. Uomini e donne armati di lunghe lance dì legnoferro si fecero avanti per trafiggere i corpi lanuginosi. Altri, armati di asce e di mazze, si tenevano pronti intorno ai lancieri, per ricacciare gli Akadi che tentassero di sottrarsi ai colpi d'asta, ai lati, al di sopra o al di sotto. Il sangue degli Akadi, notò la Logan con l'occhio dell'osservatrice esper-
ta, era di un verdescuro sporco, come una densa crema di piselli striata di marrone. Le lance erano più efficienti di quanto avesse previsto. Ogni volta che un'arma scattava, un Akadi moriva, aggrappandosi brevemente con i tentacoli e gli artigli all'asta fino a quando questa veniva strappata via. La Logan era costretta ad ammirare gli sforzi della tribù, primitiva o no che fosse. Mentre i cacciatori, piazzati in alto tra i rami, si servivano degli spegnitori per uccidere il maggior numero di aggressori possibile, l'avanguardia dell'esercito degli Akadi, già meno numerosa, si avventò contro la muraglia di lance: e i mostri vennero trafitti e squarciati, precipitarono in una pioggia costante di cadaveri nell'abissale tomba verde. La coraggiosa difesa avrebbe avuto buon esito, se non vi fosse stato un fattore soverchiante, il numero sterminato degli Akadi. Gli assalitori lanuginosi perivano a dozzine, a centinaia. Ma il fiume di morte non si arrestava mai, non rallentava mai, continuava ad avanzare implacabile. Ogni tanto vi era una pausa, mentre alcuni cacciatori attendevano di venire riforniti di spine e di semi serbatoio. Ogni tanto uno dei lancieri diventava troppo stanco per continuare a sferrare colpi, e doveva venire sostituito. Allora gli Akadi guadagnavano qualche altro centimetro, ricacciavano un poco più indietro la muraglia di ferrolegno. Anche tra i difensori vi erano perdite. Un uomo o una donna poteva stancarsi e scivolare sul rampicante o sul ramo malsicuro, e allora i compagni dovevano recare aiuto. E così si perdeva qualche altro centimetro, se non anche il difensore. Se avesse potuto disporre di una scorta inesauribile di spine di jacari e di semi serbatoio, e di riserve disumane d'energia, la tribù, calcolò Cohoma, avrebbe potuto continuare a combattere gli Akadi con perdite minime. Ma era impossibile impedire che gli onnivori guadagnassero terreno. Una volta che gli umani perdevano un centimetro, non potevano più riconquistarlo. Il torrente vivo non poteva più venire respinto. Ma la linea difensiva reggeva: reggeva con la decisa tenacia del fanatismo. Coloro che finivano per crollare per lo sfinimento, nelle prime file, venivano continuamente rimpiazzati. Tuttavia, i combattenti del villaggio non erano più che tanti, e anche i rimpiazzi si stavano stancando. Di tanto in tanto, un Akadi riusciva a infilarsi al di sotto di una lancia malferma per afferrare un braccio od una gamba con i tentacoli d'acciaio. Allora un uomo armato d'ascia doveva affrettarsi a fare a pezzi il mostro perché, quando uno di essi afferrava qualcosa, lasciava la presa soltanto nella morte. Gradualmente, il piccolo gruppo di umani fu costretto ad arretrare, verso
i tralci che formavano la difesa naturale, l'ultima difesa dell'albero Casa. Se avessero superato i baccelli, gli Akadi avrebbero incominciato a divorare il corpo stesso della pianta. E allora sarebbe stata questione di pochi minuti soltanto, prima che venissero causati danni irreparabili. La Logan sapeva ciò che sarebbe accaduto. Gli abitanti del villaggio avrebbero dato tutto in un ultimo, vano sforzo di respingere gli Akadi. Per un momento, teste e braccia si sarebbero levate al di sopra dei tentacoli frementi. Poi tutti, uomini, donne, bambini, sarebbero stati inghiottiti dalla massa insensata, lasciando l'albero a morire nonostante il loro sacrificio. Il combattimento continuava a infuriare. Non era rumoroso quanto lo sarebbe stata una guerra tra uomini: ma non era neppure silenzioso. Lungo la linea dei lancieri, uomini e donne si scambiavano grida d'incoraggiamento, di sfida agli aggressori grossi come cani, mentre gli Akadi premevano ciecamente, ticchettando come un milione di nacchere. Lentamente, con riluttanza, gli esseri umani cedettero di fronte alla pressione degli instancabili Akadi. L'esercito era arrivato a tre o quattro metri dal primo tralcio portabaccelli quando lungo la fila dei difensori corsero delle grida. La Logan riconobbe le voci dello sciamano e dei capi Sand e Joyla, di Losting e di parecchi altri cacciatori. Una scarica improvvisa di spine lanciate dagli spegnitori trattenne per un momento gli Akadi, mentre la linea si divideva e ripiegava sui fianchi. Ma il fiume vivente non inseguì gli umani: continuò ad avanzare, divorando mentre procedeva. Gli Akadi cominciarono ad azzannare la corteccia nutriente dell'albero, impazienti di raggiungere il legno vivo, mentre altri si avventavano sui primi tralci. Cohoma sentì una mano posarglisi sul braccio, e vide che era uno dei cacciatori, il quale cercava di trascinarlo via. Il tono dell'uomo era incalzante. Lo seguì tra i rami più alti, e la Logan andò con loro. Mentre correvano, la donna si voltò indietro quando udì un grido. Vide le grosse noci che cadevano e scoppiavano tra le file guizzanti degli Akadi. Quando esplodevano, ne scaturiva una polvere finissima, che splendeva iridescente nella luce del sole. Gli Akadi rallentarono, si fermarono, cominciarono a darsi colpi con le zampe e i tentacoli frenetici. Ruzzolarono l'uno sopra l'altro, caddero, rotolarono sul dorso, urtando contro i compagni, contro il legno della Casa in un'improvvisa, inesplicabile frenesia. Cohoma si ritrovò a correre giù, verso gli Akadi, insieme ad altri, avventando la lancia, ritirandola, colpendo ancora. Lo stupiva la facilità con cui trafiggeva i corpi straordinariamente morbidi. Il sangue verde copriva la lancia. Accanto a sé, vide la Logan che sferrava colpi con la propria arma.
Un dolore violento gli trafisse la caviglia. Abbassò lo sguardo e vide che uno degli Akadi era riuscito a sottrarsi allo schieramento ricostituito dei lancieri, e aveva stretto fermamente i tre tentacoli intorno alla sua gamba. Innumerevoli denti gli azzannavano la parte inferiore del polpaccio. Cercò di girare la lancia, non vi riuscì, e cadde, perché la gamba ferita non lo sorreggeva più. Poi qualcosa colpì il mostro fra il secondo e il terzo occhio, e trapassò completamente quella forma d'incubo. «Grazie, Kimi. Gesù, toglimelo di dosso!» La donna colpì di nuovo, e l'icore verde schizzò su di loro, ma i denti triangolari non mollarono la presa. Alla fine, la Logan fu costretta ad usare un'ascia per recidere i tentacoli e poi per forzare le mandibole. Cerchi rosso-vivi gli coprivano il polpaccio, dove si erano posate le ventose. Dietro la caviglia, c'era una ferita squadrata che sanguinava profusamente. Appoggiandosi alla Logan, Cohoma si trascinò zoppicando fuori dalla mischia. Una boccetta di spray, prelevato dalla loro unica cassetta di pronto soccorso, arrestò l'emorragia. La coagulazione incominciò immediatamente: e un semplice cerotto adesivo fu collocato sulla ferita. «Non avevo visto da dove arrivava quel verme,» disse Cohoma alla collega, a denti stretti. Il sudore gli imperlava la fronte: lo asciugò. La Logan esaminò la ferita, sotto il bendaggio trasparente. «Ti resterà una cicatrice quadrata. Ti divertirai a spiegarne l'origine.» «Spero di avere qualcuno cui spiegarlo...» Quelle parole vennero sommerse da un ruggito che fece tremare l'albero Casa. Gli umani raddoppiarono i loro sforzi, mentre venivano raggiunti da dozzine di possenti sagome verdi. Le zampe massicce si alzavano e si abbassavano. Ogni volta un Akadi moriva, con il cranio o la spina dorsale spezzata. Una volta tanto i vellosi si erano destati in massa dal sonno quotidiano. Una volta tanto offrivano il loro aiuto senza discutere o protestare. I muscolosi esapodi provocarono il caos lungo la linea degli Akadi. La Logan riconobbe Geeliwan, il velloso di Losting, in mezzo agli altri: ma non c'era traccia di Ruumahum. In mezzo alla mischia un enorme velloso si alzò: parecchi Akadi gli penzolavano addosso, cercando invano con i tentacoli un punto vulnerabile in quella folta pelliccia, con i denti che azzannavano invano. Un secondo velloso apparve a fianco del primo, cominciò a staccare gli Akadi furibondi dal corpo del compagno, ed a schiacciarli metodicamente. Ogni tanto un velloso finiva sommerso dalla marea, si risollevava e si tuffava come una balena affiorante. Ma la pelliccia folta, la pelle durissima
e la forza enorme non bastavano a tenere a bada per sempre quell'esercito instancabile. E talvolta un velloso scompariva nel mortale fiume rossoarancione e non si risollevava più. Poi, quando avvenne, fu inequivocabile. «Guarda!» Cohoma si aggrappò alla Logan per reggersi e tese il braccio, indicando. «Indietreggiano, si ritirano. Sono stati battuti!» Effettivamente, gli Akadi avevano smesso di avanzare e arretravano, indietreggiavano nella galleria che avevano aperto nel mondo con le loro mandibole. Non portarono nulla con sé, lasciando i morti e i moribondi e calpestando i feriti e gli invalidi nella precipitosa ritirata. Gli abitanti della Casa, alcuni dei quali erano troppo esausti per muoversi, rimasero a guardare mentre i loro compagni più energici sì aggiravano armati di asce e di clave, prudentemente, per non scivolare sui rampicanti e sui rami intrisi di sangue, finendo gli Akadi troppo malconci per fuggire. I vellosi si radunarono in gruppo, uccidendo pigramente qualche Akadi che mordeva ancora, leccandosi reciprocamente le ferite. Alcuni si avventuravano tra i rami e i tralci in cerca dei fratelli che non si sarebbero più uniti a loro. L'euforia fu temporanea. La Logan e Cohoma rimasero a osservare mentre i superstiti umani si aggiravano tra le legioni di cadaveri, cercando meticolosamente quelli che, mutilati e sanguinanti, erano ancora vivi. Alcuni erano privi di braccia e di gambe, altri della testa, mentre altri ancora giacevano con le viscere sparse sulle foglie lucenti e sui fiori ancora bellissimi negli ultimi raggi del sole che tramontava lontano. «Per i Sacri Ordinamenti, sono dei coraggiosi. Quasi quasi rimpiango...» «Zitto,» l'ammoni la Logan, indicando con un cenno del capo il robusto cacciatore che veniva verso di loro. Una serie di squarci squadrati gli sfigurava una metà del petto. Alcuni erano stati bendati rozzamente con lunghe strisce sottili di una certa foglia. Con il braccio destro reggeva uno spegnitore, nella sinistra stringeva una clava. Non c'era quasi un centimetro quadrato del suo corpo che non fosse segnato dai minuscoli cerchietti cremisi lasciati dalle ventose degli Akadi. «Li avete sconfitti... nonostante tutto,» disse la Logan, quando vide che il cacciatore stava per passare oltre. «Sconfitti?» Losting si girò a guardarli stravolto, ed essi arretrarono di fronte alla furia sanguinaria dei suoi occhi. «Sconfitti... no. Pensate che si siano fermati a causa dei nostri sforzi?» Esitò. «Li abbiamo costretti a rallentare, è vero. È stata una bella lotta. Sa-
rei fiero di poterla raccontare ai miei figli. Li abbiamo costretti a rallentare abbastanza da vincere questa battaglia... ma solo per oggi. Ma non li abbiamo fermati. Si sono fermati da soli.» «Fermati da soli!» proruppe involontariamente la donna. «Guardatevi intorno,» disse Losting. «Che cosa vedete?» I due giganti volsero lo sguardo sul campo di battaglia. «Pochissimo,» rispose la Logan. «Si va facendo troppo buio.» «Sì, si va facendo troppo buio. Per gli Akadi, oltre che per noi. Si sono fermati perché il giorno è finito. Dormiranno mentre cade la pioggia notturna, e domani si sveglieranno e verranno avanti con la stessa decisione di oggi. Noi non abbiamo più che tante spine di jacari per gli spegnitori, non più che tanto sangue. Non prevedo che potremo trattenerli per un'altra notte: ma ci proveremo. Oggi non li avremmo fermati, se non fosse stato per i vellosi... e per questo.» Si chinò, tendendo l'estremità della clava, infilandone l'estremità piatta sotto qualcosa. La Logan e Cohoma si tesero. In un primo momento non videro nulla. Poi, un ultimo raggio di luce si rifletté su qualcosa, minuscolo e scintillante come una gemma. «Quella piccola cosa?» chiese la donna, tendendo il pollice. «Potrei schiacciarla come una formica.» Losting scostò la clava prima che lei lo facesse. «Non ho simpatia per voi giganti, anche se oggi vi siete battuti abbastanza bene. Ma non permetterei neppure al mio peggior nemico di toccare il seme dell'adderut.» Si alzò, si guardò intorno fino a quando trovò il tentacolo reciso di un Akadi. Lo portò lì e lo depose davanti ai due. «Guardate.» Inclinò la clava e la scosse delicatamente. La cosa minuscola e ispida dal colore metallico scivolò sul tentacolo. Non appena lo toccò parve scomparire. Cohoma aguzzò lo sguardo nella luce che svaniva rapidamente. «Dov'è andato?» «Guarda meglio.» Non accadde nulla. Poi a Cohoma parve di distinguere un lieve rigonfiamento sotto la pelle del tentacolo. Trascorsero parecchi minuti, durante i quali il gonfiore divenne grosso come un sassolino, poi come un dito. Losting sguainò il coltello e se ne servì per toccare la parte superiore del gonfiore. La pelle tesa si spaccò, e ne schizzò fuori una piccola sfera purpurea, che cominciò a rotolare, a rotolare verso il bordo del ramo. Allora Losting tese la clava, la fermò, la fece rotolare nella direzione opposta. Cohoma e
la Logan scorsero una minuscola chiazza ispida presso la base del globo rigonfio... la creatura simile a una gemma. «Quella è la polvere dell'adderut,» spiegò Losting. «Quando scoppia, sparge milioni di questi,» e indicò il minuscolo insetto. «Se toccano il legno o le fronde, non succede nulla. Ma se toccano la carne, d'uomo o di velloso o di Akadi, scavano e... mangiano. Ah, come mangiano!» Pronunciò l'ultima frase con una soddisfazione che diede alla Logan un senso di malessere. Anche Cohoma non si sentiva troppo bene. Era una rivelazione sufficiente a dare la nausea anche a un osservatore esperto e distaccato come lui. «Vedete,» suggerì Losting, sospingendo la sfera purpurea con la punta della clava. «Come si muove, cerca di correre. La carne sotto la pelle, dove s'impianta, viene rapidamente ammorbidita e consumata dall'insetto. Quando uno di questi si libera del suo ospite e cade su di una pianta tenera, le zampe sprofondano e diventano radici. La polpa contenuta in questo corpo osceno e grossolano diviene verde, via via che si trasforma in cibo. Alla fine, il sacco si lacera, ed una nuova pianta di adderut cresce su di un nuovo ospite.» «Affascinante,» ammise la Logan, che stava diventando un po' verde anche lei. Era una scienziata, e per questo riuscì a tenere giù l'ultimo pasto. Ma inspiegabilmente quel prodigio botanico la nauseava come non aveva fatto quel giorno di carneficina. Immaginava parecchie di quelle cose che finivano sul suo corpo, scavavano nelle sue carni, divoravano. «Sono piccolissime piante mobili,» si affrettò a chiedere, «oppure insetti, o che cosa?» «Forse un po' l'uno e un po' l'altro,» suggerì Cohoma. «Avrai notato la preponderanza del verde nella fauna, qui... i vellosi, il sangue degli Akadi. Comincio a pensare, Kimi, che su questo mondo forse non esiste la solita netta divisione tra pianta e animale.» «Comunque,» rispose lei, «si tratta di una linea di ricerca che sarò felice di lasciare a qualcun altro, quando ritorneremo alla stazione.» Losting non era sicuro di avere compreso bene il significato di tutte le loro parole. «È vero, è pericoloso combattere contro queste cose. Bisogna lavorare duramente per emfolare un adderut. Se dovesse scoppiarne uno mentre lo si taglia...» Non fu necessario che finisse di esprimere il suo pensiero. «Non mi sorprende che la colonna degli Akadi si sia arrestata,» osservò
la Logan. «Tutti quelli che erano all'avanguardia devono essere stati divorati dall'interno all'esterno in un paio di minuti.» Guardò nervosamente il suolo ligneo su cui stavano ritti. «Cosa succede a questi milioni di cose quando non trovano niente da mangiare? Finiremo per ritrovarcele in letto stanotte?» Losting scosse il capo. «La loro rapidità e l'energia furiosa sono necessarie, perché quelli che non trovano nutrimento subito dopo essere stati liberati muoiono in fretta. Saranno tutti morti prima che cali il sole. Non dovete averne paura. E neppure gli Akadi dovranno più temerli,» aggiunse, in tono di rammarico. «Non abbiamo più adderut. Sono rari e crescono molto sparsi. Anche se adesso vorrei averne mille, non posso dire, in tutta sincerità, che questo mi dispiaccia.» La Logan calpestò la mostruosità pulsante che scoppiò: il liquido verdepurpureo macchiò il legno del ramo. Poi i due giganti seguirono il cacciatore nel villaggio. «Cosa accadrà domani, allora?» chiese la Logan. «La situazione è del tutto disperata?» «C'è sempre speranza, fino a quando non muore anche l'ultimo,» ricordò loro Losting. I giganti non mostrarono di trovare incoraggiante l'idea. «Abbiamo gli spegnitori,» disse il cacciatore, alzando con un gesto significativo l'arma di legno verde. «E le lance e le asce e i vellosi. Poi ci sono ancora i baccelli di polline della Casa. Quando non ce ne saranno più...» E si strinse nelle spalle. «Mi restano le mani e i denti.» Poi se ne andò. La Logan lo seguì con lo sguardo mentre Cohoma borbottava: «Grandioso... ammirevole. Credo che faremmo meglio ad affrontare la sorte nella foresta... per quanto sia pericoloso. Non mi sento poi tanto indebitato nei confronti di questo nobile albero.» E girò lo sguardo sui subtronchi intrecciati. «Almeno moriremo sulla strada di casa, e non per difendere una pianta puzzolente!» Lo sfinimento presentava un unico vantaggio. Addormentarsi non fu un problema neppure per gli umani più preoccupati. Le ultime gocce scorrevano ancora dall'alto del tendone quando la stanca tribù umana si preparò a sostenere il nuovo assalto degli Akadi. I cacciatori tornarono ad appostarsi tra i rami, in alto, con gli spegnitori pronti, giurando tra sé che ognuna delle preziose spine di jacari avrebbe ucciso un Akadi. Quando avessero terminato le spine tossiche, avrebbero deposto gli spegnitori e sarebbero scesi, armati di asce e di clave, a battersi a fianco dei loro familiari. Ancora una volta, la sottile linea dei lancieri si piazzò in
un silenzio carico di sfida attraverso la pista che l'esercito Akadi avrebbe presto percorso... I lancieri si piazzarono sapendo che quanti avrebbero dovuto dar loro il cambio giacevano ancora nel villaggio, addormentati e immobili. Cohoma e la Logan si appostarono in alto, nella curva di uno dei rami più grossi dell'albero Casa. Di lì avrebbero visto bene l'imminente scontro: e non erano troppo impazienti di lanciarsi in battaglia. Se il pessimismo di Losting si fosse rivelato giustificato, sarebbero ritornati nel villaggio, avrebbero raccolto le provviste accessibili, e avrebbero aggirato la colonna degli Akadi. Poi si sarebbero diretti verso sudovest, guidandosi con la bussola, verso la stazione lontana. Forse l'avrebbero raggiunta, forse no: ma almeno avrebbero avuto una possibilità. La Logan ebbe l'impressione di udire un fruscio lieve e lontano, nel sottobosco. Gli Akadi si stavano svegliando: si scuotevano dal letargo notturno, si preparavano a devastare, a distruggere, a uccidere ancora. I giganti si appostarono, come facevano i cacciatori armati di spegnitore, la fila dei lancieri e gli armati d'ascia che li proteggevano. Non avevano mandato esploratori per spiare l'avanzata degli Akadi: non era necessario. Pochi minuti di preavviso non significavano nulla, ormai. Si sapeva da dove sarebbero venuti. Tutti, uomini, donne e bambini, alzarono le armi e fissarono il varco verde aperto nella foresta. La Logan si rivolse al collega, mentre le nocche delle dita strette intorno all'asta si sbiancavano. «Ricordati, se la tribù comincia a cedere, noi ce ne andiamo in fretta.» «E cosa ti fa pensare che la barriera dei tralci si aprirà davanti a noi?» «Ci sarà qualche guerriero deciso a resistere fino all'estremo che passerà di lì. Ricordati, i tralci sono l'ultima linea di difesa dell'albero. Possiamo sempre afferrare un ragazzino e servirci di lui. E poi,» aggiunse tranquillamente, «da diversi giorni mangiamo i frutti dell'albero. Può darsi che abbiamo accumulato una quantità sufficiente di sostanze chimiche appropriate perché l'albero riconosca anche noi.» Il fruscio crebbe: ma sembrava nello stesso tempo più forte e più lontano. Era un suono agghiacciante. Possibile che gli Akadi potessero provare un sentimento complesso come la collera? si chiese la Logan. Si stavano caricando con discorsi e furiose grida di guerra? Che tipo di cervello possedevano quei mostri arancione? Tutti i loro pensieri si fondevano in un'unica malignità insensata, oppure erano capaci di emozioni, oltre all'impulso di uccidere, divorare e dormire? Era impossibile intuirlo.
Trascorsero istanti interminabili, ed il volume dei lontani suoni di nacchere non diminuì e non crebbe: tuttavia, era abbastanza forte da sommergere tutti gli altri rumori della foresta. Ormai coloro che formavano la linea delle lance davanti alla galleria verde davano segno d'inquietudine. I cacciatori appostati sui rami si spostavano di continuo, nervosamente, assumendo nuove posizioni. E intanto il sole saliva più in alto nel cielo verde, mentre quell'orificio d'inferno non rivelava ancora i suoi orrori. Poi si scorse un movimento lieve ma nitido in fondo alla galleria, e lungo le file dei difensori risuonarono grida... quasi di sollievo. Era l'attesa ininterrotta, esasperante che logorava la decisione e spezzava la concentrazione dei cacciatori e dei lancieri, ed era molto peggiore del combattimento. Ma questa volta non vi era un tremito ad agitare le fronde erbacee che orlavano l'imboccatura della galleria, e i rami non ondeggiavano sotto il peso. Poche foglie frusciarono leggermente, quando divenne visibile la prima figura. Ma non era un Akadi. Dalla galleria uscì un grido umano, che dominò il tremendo frastuono distante. Accanto alla prima figura ne apparve una seconda: un folto vello verde chiazzato di pioggia, i tre occhi semichiusi, assonnati. I cacciatori abbassarono gli spegnitori e spalancarono gli occhi, stravolti, quando Born e Ruumahum uscirono lentamente dalla galleria. Il grido d'avvertimento di Born era stato superfluo. Erano tutti troppo paralizzati per pensare di scagliare prematuramente una spina. Se in quel momento dalla galleria si fossero precipitati gli Akadi, nessuno sarebbe stato in grado di alzare una mano contro di loro. Poi vi fu un accorrere in massa, rumorosamente, e Born fu circondato da uomini e donne che imprecavano contro di lui e nello stesso tempo lo tempestavano di domande. Ruumahum si allontanò a balzi, indisturbato. Mentre gli umani, compresi i due giganti eccitati e perplessi si radunavano intorno a Born, il velloso raggiunse i suoi fratelli silenziosi e cominciò a fornire una spiegazione in toni rombanti. «Cos'è successo... Credevamo che fossi fuggito... Dove sei andato... E gli Akadi... E...» chiedevano a Borri gli umani. «Vi prego, posso bere qualcosa?» Gli passarono un recipiente d'acqua. Ignorando la gragnuola incessante di domande, Born si portò alle labbra il cilindro ligneo e bevve a lungo, profondamente. Poi rovesciò il recipiente e si fece piovere addosso il resto del liquido tiepido. Sopra quel baccano si levò finalmente una voce fonda e autorevole: lo
sciamano Reader. «Cacciatori, ai vostri posti. Riformate la linea dei lancieri, gente della Casa. Gli Akadi...» Born scosse il capo, stancamente. «Non credo che gli Akadi ci daranno più fastidio. Almeno per molto tempo.» Sorrise mentre una nuova ondata di sbalordimento passava tra la folla. «L'idea è stata mia, lo stimolo mi è venuto dalle informazioni di Ruumahum.» Tese il braccio in direzione del gruppo dei vellosi. «Era andato a caccia, lontano, verso nord. Non so perché, lui non sa bene perché, ma ha riferito ciò che aveva scoperto, e questo ha fatto nascere un pensiero nella mia mente. Ho pensato che potesse servire.» «Che cosa poteva servire?» chiesero in molti, contemporaneamente. «Perché non ci avevi detto...» «Perché non avevi detto a qualcuno dove andavi, Born?» Era la voce di Passo Chiaro. La ragazza si fece largo tra la folla. «Che cosa importava? Vi sarebbero state obiezioni clamorose, discussioni, l'imposizione di rimanere a combattere con il mio spegnitore. Mi avreste giudicato vigliacco e pazzo, e avreste riso di me. Non sono abituato a farmi deridere. Se il mio piano non avesse funzionato, nient'altro avrebbe più avuto importanza, vero?» Vi fu qualche movimento impacciato tra la folla. Born era stato rispettato nel villaggio come il più abile dei cacciatori, e nel contempo deriso come il più pazzo dei pensatori. Ora sembrava che avesse realizzato un miracolo, perciò vi erano moltissime espressioni imbarazzate. «Non era lontano, giù a metà del Quinto Livello.» «Che cosa?» tuonò Joyla: era impossibile ignorare la sua voce penetrante. «Un mezzo per fermare gli Akadi.» «Miracolo o no, è una vera pazzia,» fece Reader, come se pensasse a voce alta. «Niente può fermare gli Akadi... niente!» Il suo tono era inflessibile. «In gioventù, ho visto una colonna fare a pezzi un branco di bruchieri. Neppure i vellosi possono resistere. Si dice che persino i demoni dell'Inferno Inferiore rispettino una colonna in marcia.» Dalla folla si levarono mormorii di soggezione. «E cos'hai potuto trovare al Quinto Livello o a qualunque livello, Born, per fermare gli Akadi?» «Venite, ve lo mostrerò,» rispose il cacciatore. Si voltò e si infilò di nuovo nella galleria. Aveva percorso soltanto pochi passi quando si accorse che nessuno lo seguiva. Per la prima volta, dimenticò lo sfinimento per
le fatiche di quei giorni, e sul suo viso apparve un ampio sogghigno di soddisfazione. «Avete tutti paura?» Entrare nella galleria? La galleria da cui i figli dell'inferno erano usciti appena la sera prima? Fidandosi della parola di un pazzo? Occorreva troppo coraggio. Losting fu il primo a farsi avanti. Aveva paura come gli altri, ma non aveva scelta... Passo Chiaro era lì e guardava. Poi si mosse l'invalido Jhelum, zoppicando. Lo seguirono Reader e Sand e Joyla, quasi all'unisono. Il gruppetto di esseri umani si incamminò lungo il tunnel tortuoso. Percorsero quella galleria tubolare verde, che aveva pavimento, pareti e soffitto come scavati da un trapano colossale. Il frastuono iroso degli Akadi si fece più intenso, forte al punto che, per farsi udire da un compagno, un umano doveva avvicinarglisi e urlare. Nella galleria vi fu una svolta brusca, un gomito inaspettato diverso dai percorsi abituali degli Akadi. Born si fermò e fornì istruzioni. Pochi colpi d'ascia sfondarono il tetto della vegetazione cementata dalla saliva: gli umani uscirono di nuovo nella foresta aperta. Born accennò agli altri prima di salire, e poi di continuare. Finalmente precedette gli altri, da solo, e tornò per ammonirli di non fare rumore e di seguirlo. Dopo essersi arrampicati prudentemente e in silenzio lungo un grosso ramo contorto, si trovarono a osservare dall'altro un caos folle, un'orgia di morte eguagliata soltanto dalle leggende. Una seconda galleria coperta, dal tetto vagamente traslucido che spariva serpeggiando nella foresta, intersecava il tunnel che avevano appena lasciato. E là dove le due gallerie s'incontravano, la precisione e l'ordine degli Akadi erano divenuti caos. La colonna di Akadi che proveniva dal nord e dal livello inferiore èra composta da mostri più rossi e leggermente più piccoli. Avevano sull'addome strisce scure. Nel punto in cui si incontravano con la prima colonna le gallerie erano sfondate, e la lotta proseguiva in mezzo al fogliame circostante. La battaglia infuriava su di un vasto cerchio, del diametro di dozzine di metri. Entro il cerchio non esisteva nulla, tranne il legno nudo e gli Akadi, morti, morenti, combattenti. Il sangue verde bagnava ogni cosa. «Ruumahum ha trovato la colonna,» spiegò Born sottovoce. «E mi è venuto questo pensiero. Che cosa poteva arrestare gli Akadi se non altri Akadi? Abbiamo attaccato prima dell'alba, quando erano ancora intorpiditi e lenti. Siamo rimasti a portata d'olfatto e loro ci hanno seguiti. Ora conti-
nueranno a combattere fino a quando sopravviveranno solo pochissimi di ogni colonna. Quei pochi saranno troppo deboli e disorganizzati per minacciale la Casa. Possiamo uccidere facilmente quelli che attaccheranno, e così la faremo finita non con uno solo, ma con due pericoli.» «Ma come sei riuscito a portarli qui tanto in fretta?» chiese stupito Reader. «Temevo che la polvere non sarebbe bastata, ma Ruumahum continuava a procurare legno secco, per tenere accese le torce. Io mi sono tenuto sempre abbastanza vicino ai primi Akadi per tenerli svegli. Mi hanno seguito, e gli altri li hanno seguiti ciecamente, anche al buio. Non ho dormito né riposato per due giorni e due notti. Credo,» concluse, sedendo sul ramo, «che farei bene a riposarmi, adesso.» Joyla e Reader lo afferrarono appena in tempo mentre, completamente sfinito, Born cadeva dal ramo. CAPITOLO 9 Born aprì gli occhi, vide un mostruoso Akadi che lo fissava. Si levò a sedere di scatto, con la rapidità di un baccello che esplode e sbatté le palpebre, si strofinò gli occhi. «Era ora che ti svegliassi,» commentò la Logan, scostandosi dalla stuoia. «Ti riprendi in fretta, eh?» Born si guardò intorno. Era in una delle stanze dell'alloggio del capo. «Hai dormito,» aggiunse la donna, «per quasi diciotto ore.» «Ore?» La guardò con aria interrogativa: si sentiva ancora la mente intorpidita dal sonno. «Un giorno e mezzo: e non mi meraviglio, dopo quel che hai passato, a quanto mi hanno detto.» Born ebbe un solo pensiero. «Allora ho perso il Tempofa... la sepoltura?» La Logan sembrò confusa, si voltò a guardare Cohoma, che era seduto, intento ad affilare un coltello. «Sai niente di una sepoltura, Jan?» Cohoma scosse il capo. Born si raddrizzò, afferrò la donna per la blusa, sulla spalla, e per poco non cadde. La stoffa robusta non si lacerò e lo sostenne. «No, Born,» rispose una voce solenne. «Hai salvato troppe vite perché potessimo eseguire il Tempofa senza di te. Adesso che sei tornato tra noi, potremo farlo stasera.»
«Cos'è questo Tempofa... una specie di cerimonia?» chiese la Logan, volgendosi a lanciare un'occhiata a Joyla, che si era fermata sulla soglia. «È un ritorno. Coloro che sono stati uccisi dagli Akadi debbono venire resi al mondo.» Joyla guardò Born. «Sono molti, coloro che devono venir resi. Abbiamo impiegato molto per trovare abbastanza Custodi per accoglierli tutti. Tra gli altri c'è anche il ragazzo Din.» Notando l'improvviso cambiamento di espressione che passava come una nube sul volto del cacciatore, assunse un tono di sollecitudine. «Come ti senti, adesso? Hai dormito a lungo, e talvolta...» «Mi sento bene... benissimo,» mormorò Born, lasciando andare la Logan. Tentò di reggersi da solo, barcollando un poco, poi si lasciò ricadere seduto sulla stuoia e si prese la testa fra le mani. Non bastò a impedire che girasse, ma a qualcosa servì. «Ho fame,» disse all'improvviso. Poiché la testa non voleva saperne di collaborare, si sarebbe occupato di altre parti, meno intrattabili, della propria anatomia. «C'è del cibo,» disse semplicemente Joyla, invitandolo a seguirla nella stanza accanto. «Hai bisogno di aiuto per...» «Per mezzo frutto della Casa mi trascinerei sul ventre,» rispose Born. Muovendosi adagio, si alzò dal letto. La Logan si scostò. Vacillando ancora, il cacciatore si avviò verso la stanza da cui uscivano molti aromi diversi. Joyla lo sorresse. «Bada di non sovraccaricare le tue radici con un nutrimento eccessivo, troppo in fretta,» lo consigliò, sorridendo. «Oppure dovrò ripulire di nuovo questa stanza, e tu dovrai ricominciare a mangiare daccapo.» Born annuì; in realtà non l'ascoltava veramente. Entrò incespicando nella stanza dove, sulla stuoia che fungeva da tavola, erano imbanditi frutti, carne fresca e polpa conservata. Joyla chiamò con un cenno Cohoma e la Logan, indicando che potevano mangiare anch'essi. «Grazie,» rispose la Logan. «Potrete sorvegliarlo mentre mangia e tenerlo a freno.» «Perché non lo fai tu?» chiese la Logan, mentre sedeva sul bordo della stuoia e sceglieva un frutto giallovivo dalle striature azzurre, a forma di "zucca. Joyla scosse il capo, scrutò Born, che si cacciava il cibo in bocca con rapidità spaventosa. «Io ho già mangiato, e ci sono tante cose da fare, per preparare il Tempofa.» Il suo sorriso divenne triste. «Questa sera renderò alla foresta molti vecchi amici, e anche una figlia.» Fece per aggiungere
qualcosa, poi cambiò idea, e uscì scostando la cortina di pellefoglia. La Logan continuò a pensare al Tempofa, che pareva avere un'importanza suprema per quella gente. Diede un morso alla zucca, che aveva un sapore simile a quello di un cachi zuccherato. Come si sbarazzava dei cadaveri il popolo di Born, del resto, visto che non c'era terra per seppellirli? Forse ricorreva alla cremazione, nella buca per il fuoco al centro del villaggio. Ne parlò con Born. Il cacciatore borbottò varie contraddizioni tra un boccone e l'altro. «La terra? Perché, tu offriresti all'inferno le anime dei tuoi amici? I nostri verranno restituiti al mondo.» «Sì, me lo ha detto Joyla,» rispose impaziente la donna. «Ma cosa significa, esattamente?» Born, però, aveva ripreso a mangiare. La Logan continuò a insistere, sostenendo che gli avrebbe fatto bene riposare un po', nel corso del pasto. Born non sembrava disposto a parlare, ma l'insistenza assillante della gigantessa lo costrinse ad accontentarla. «È chiaro,» borbottò alla fine, «che tu non sai niente di ciò che succede alla gente quando muore. Non posso descriverti il Tempofa. Lo vedrai questa notte.» Born aveva dimostrato una straordinaria capacità di recupero, dopo quell'esperienza così debilitante, pensò Cohoma. Evitò una gobba dell'aggrovigliana, difficile da scorgere nella luce delle torce. La tribù li stava conducendo entro la foresta tenebrosa, una curva dopo l'altra. Ebbene, era logico aspettarsi tanta energia da un popolo che viveva in un ambiente così duro. Ma era una regressione che gli sembrava impossibile: e lo disse alla Logan. «Costoro,» disse, accennando con il capo alla colonna in marcia, «non sono tanto primitivi. Sono i discendenti di un'astronave coloniale dispersa molto tempo fa. Fisicamente, a parte le dita dei piedi prensili, sono progrediti quanto noi, ma non capisco come le loro proporzioni siano cambiate così in pochi secoli.» Scavalcò un piccolo fiore scuro che cresceva sull'aggrovigliana: aveva una spina esplosiva, velenosa. «In meno di dieci generazioni, a dir tanto, hanno perduto un sesto della statura originaria, hanno sviluppato le dita prensili, hanno subito un'espansione enorme del latissimus dorsi e dei muscoli pettorali, e acquisito una colorazione uniforme della pelle, degli occhi e dei capelli. L'evoluzione non opera con tanta rapidità!» La Logan si limitò a sorridere sommessamente, e indicò davanti a sé. «È
verissimo, Jan. Sono d'accordo con te. Ma come spieghiamo tutto questo?» «Mi rifiuto di credere che si tratti di evoluzione parallela. Le differenze sono troppo irrisorie.» «E se si trattasse di una mutazione rapida?» ipotizzò alla fine la Logan. «Indotta dall'ingestione delle sostanze chimiche locali contenute nel cibo?» E guardò uno squisito grappolo di frutti globulari color chartreuse circondati da fiori lavanda. «È possibile,» concesse Cohoma. «Ma la portata delle modifiche e la rapidità...» «Già,» l'interruppe la donna. «Unito alla necessità di adattarsi rapidamente per non morire, questo potrebbe avere causato alcuni mutamenti fisiologici straordinari. Il corpo umano è capace di certi cambiamenti eccezionali, quando è in gioco la sopravvivenza. Ammetto, tuttavia, che sarebbe il caso più radicale mai scoperto. Però...» aggiunse, indicando con un gesto la foresta che li circondava, «se avessi visto certi rapporti usciti dai laboratori di Tsing-ahn o di Celebes...» Scosse il capo, sbalordita al ricordo. «Questo pianeta è un caos di forme nuove, di combinazioni molecolari insolite, di proteine eccezionali. Vi sono certe strutture di acidi nucleici locali che sfuggono ad ogni classificazione convenzionale. E finora abbiamo soltanto grattato la superficie di questa foresta, abbiamo sondato appena i livelli superiori. Non abbiamo un'idea di come sia la superficie vera e propria. Ma via via che scaveremo più a fondo, sono sicura che troveremo...» Cohoma le accennò di tacere. «Mi pare che stia per succedere qualcosa.» Si erano avvicinati ad una muraglia bruna, un tronco monolitico così enorme che pareva smentire la propria origine organica. Sicuramente, una cosa tanto immane non poteva essere cresciuta... doveva essere stata costruita. Il corteo cominciava a spiegarsi a ventaglio lungo uno dei rami principali di un grande emergente: le torce traevano riflessi d'ocra dalla corteccia spessa diversi metri. «Il tronco deve avere un diametro d'una trentina di metri, in questo punto,» mormorò la Logan, impressionata. «Chissà com'è alla base.» E alzò la voce. «Born!» Il cacciatore si voltò, attese educatamente che i due lo raggiungessero. «Come lo chiamate?» La Logan indicò l'albero gigantesco, il cui tronco centrale, adesso, era dietro di loro. «Il suo vero nome è andato perduto con l'andare del tempo, Kimilogan.
Noi li chiamiamo i Custodi, perché conservano le anime di coloro che muoiono.» «Adesso capisco,» dichiarò la donna. «Mi chiedevo cosa ne facevate dei vostri morti, poiché non scendete mai alla superficie, al Primo Livello. E non credevo che usaste la cremazione.» Born la guardò confuso. «Cremazione?» «Bruciare i cadaveri.» Coloro che erano più anziani di Born, per esempio Reader o Sand, si sarebbero scandalizzati apertamente, a quell'idea. Ma la mente di Born non funzionava come quella dei suoi amici. Si limitò a considerare pensosamente quelle parole. «Non avevo immaginato una simile possibilità. È così che voi vi sbarazzate di quelli che cambiano?» «Se per cambiare intendi morire,» rispose Cohoma, «sì, qualche volta lo facciamo.» «Che strano,» mormorò Born, parlando più a se stesso che ai giganti. «Noi veniamo dal mondo, e pensiamo di dovervi ritornare. Credo che tra voi vi siano coloro che non sono del mondo, e perciò non hanno nulla da restituire.» «Neppure io avrei saputo esprimermi meglio, Born,» ammise Cohoma. Proseguirono in silenzio per qualche altro minuto, fino a quando il corteo cominciò ad allargarsi su di un tratto più ampio del grande ramo. «Siamo arrivati al luogo della sepoltura?» chiese sottovoce la Logan. «Ad uno dei luoghi,» la corresse Born. «Ognuno ha il suo posto. Bisogna trovarne uno appropriato per ogni umano.» Alzò la testa e scrutò i rami neri nel cielo. «Venite. Dall'alto potrete vedere meglio.» Dopo qualche minuto di salita lungo le scale onnipresenti di tralci e di liane, si trovarono affacciati sull'ampio tratto del ramo. Tutti quanti si erano raccolti intorno alla crepa profonda, larga alcuni metri e non molto più lunga. La luce fioca delle torce, schermate per ripararle dalla pioggia, non permetteva di vedere fino a quale profondità la crepa scendesse nel legno. Lo sciamano mormorava delle parole, troppo in fretta e troppo sommessamente perché la Logan e Cohoma potessero comprenderle. I presenti ascoltavano in rispettoso silenzio. Uno degli uomini morti combattendo gli Akadi ed un velloso morto vennero tolti dalle lettighe cariche e portati avanti. «Li seppelliscono insieme, dunque,» mormorò la Logan. Born la scrutò mestamente, invaso da una profonda pietà. Poveri giganti! Possedevano le barche celesti e altre macchine meravigliose, ma erano e-
ternamente privi del conforto di un velloso. Ogni uomo, ogni donna aveva un velloso che gli sì univa subito dopo la nascita e l'accompagnava nella vita, fino alla morte. Born non sapeva immaginare la vita senza Ruumahum. «Che cosa succede ai vellosi i cui padroni muoiono prima di loro?» chiese Cohoma. Born lo guardò, stupito. «Ruumahum non potrebbe vivere senza di me, né io senza di lui,» spiegò ai due giganti attentissimi. «Quando una metà di noi muore, l'altra metà non può sopravvivere a lungo.» «Non ho mai sentito parlare di casi altrettanto gravi d'interdipendenza emotiva tra uomo e animale,» borbottò la Logan. «Se non ne avessi osservato i segni, probabilmente sospetterei che anche qui si fosse sviluppata una specie di simbiosi fisica.» La loro attenzione fu attratta da quanto stava accadendo più sotto. Sand e Reader stavano versando vari liquidi odorosi sui due corpi che erano stati calati nella spaccatura del ramo. «Una specie di olio santo o qualcosa del genere,» azzardò Cohoma. Ma la Logan non l'ascoltava neppure. Emfol... seppellimento congiunto... metà di se stesso... I pensieri le turbinavano nella mente, senza assumere un ordine preciso, rifiutando di connettersi, di rivelare... che cosa? Poteva capire i vellosi che si struggevano per la morte dei padroni. Ma che un uomo morisse di solitudine, quando veniva privato del suo animale... Probabilmente aveva ragione Cohoma. Il popolo di Born era stato costretto a regredire sulla via dell'evoluzione dalla necessità d'impegnarsi al massimo per sopravvivere. Quell'intreccio emotivo era un sintomo di tale debolezza. All'improvviso, uno dei pensieri che le vorticavano nel cervello pretese una chiarificazione. «Hai parlato di uomini e donne,» mormorò, guardando in basso. «I vellosi e gli umani si abbinano secondo il sesso?» Born la guardò senza capire. «Sai, vellosi femmine per le donne, vellosi maschi per gli uomini. Ruumahum è maschio?» «Non lo so,» rispose distratto Born, troppo assorto nella cerimonia che volgeva al termine. «Non l'ho mai chiesto.» Per quanto lo riguardava, la questione era chiusa. Ma la sua risposta servì soltanto a stimolare la curiosità della Logan. «E il velloso di Losting, Geeliwan? È una femmina?» «Non lo so. Qualche volta diciamo "lui", qualche volta "lei". Per un velloso non ha importanza. Un velloso è uno dei fratelli vellosi. Questo è suf-
ficiente, per loro e per noi.» «Born, come fate a capire se un velloso è maschio o femmina?» «Chi lo sa? A chi interessa?» L'insistenza della donna cominciava a irritarlo. «Nessuno ha mai visto i vellosi accoppiarsi?» «Io no. Non posso giurare su ciò che possono aver visto altri. Non ne ho mai sentito parlare, e non desidero parlarne. Non sta bene.» Il pensiero tornò, improvvisamente, a sfuocarsi. Lo avrebbe ripreso in considerazione più tardi. L'attenzione della Logan era di nuovo attratta dalla scena sottostante. «Cosa fanno adesso, Born?» Sui due corpi venivano ammucchiati fuscelli morti, foglie, humus, piante grasse, fino a riempire la spaccatura. «È necessario sigillare il Custode, naturalmente, per difenderlo dai predatori.» «Logico,» convenne Cohoma. «Gli oli e lo sfagno accelerano la degradazione biologica e nello stesso tempo mascherano l'odore della decomposizione.» Osservarono la procedura delle esequie mentre l'assemblea levava una cantilena, stranamente esaltante e diversa da una nenia funebre. Reader fece vari gesti con le mani sopra il crepaccio ormai colmato, si inchinò, poi si voltò e si avviò verso il tronco, dirigendosi verso un altro ramo, un poco più alto. Il resto della tribù lo segui. C'erano molte, moltissime sepolture da compiere, quella notte. Le cerimonie funebri successive furono tutte eguali, e Cohoma e la Logan, bagnati fradici, approfittarono dell'occasione per studiare le torce, apparentemente rozze, che continuavano ad ardere con regolarità nonostante la pioggia incessante. Le torce, di un legno morto che bruciava lentamente, venivano tagliate e trattate con l'onnipresente polline incendiario. Poi si trafiggeva la foglia globulare di una certa pianta, e si estraeva la polpa interna con un coltello. Si otteneva così una sfera cava e rigida del diametro d'una trentina di centimetri, che veniva infilata sopra la parte alta della torcia: sul fianco si intagliava un piccolo foro. Il contatto con un dito, attraverso il foro, serviva ad accendere la polvere e quindi il legno: si aveva inoltre così una via d'uscita per il fumo e la fuliggine, anche se il legno pareva ardere quasi senza fumo. La fibra solidissima della foglia resisteva molto bene al calore e alla fiamma. La processione si snodava nell'oscurità umida come un serpente canoro e
splendente, chiazzato di punti luccicanti d'iridescenza gialloverde. Tutti coloro che erano in grado di camminare, dai bambini piccoli a vecchi più anziani di Sand, si mescolavano in quella colonna tortuosa. Nessuno si lagnava, nessuno protestava quando si era costretti a salire, nessuno chiedeva di riposare o di ritornare indietro. Qualcosa uscì dalla foresta, spezzando i normali suoni notturni e la cantilena della pioggia. Born ritornò dai due giganti. «Restate qui con la colonna. Qualunque cosa accada, non lasciate la lampada.» «Perché no? Che cosa...?» cominciò la Logan, ma Born se ne era già andato. Il mare clorofillaceo inghiottì lui e la mole esapoda che lo seguiva. Attesero con gli altri, sotto la pioggia. Poi, al di sopra della colonna, sulla destra, risuonarono un grande schianto e un gemito, cui fecero eco molte voci. Il gemito crebbe d'intensità, divenne una risata stridente, gutturale, che prese a farsi più intensa e meno intensa, in una successione di urla tonanti. Finì con un suono gorgogliante, soffocato. Qualcosa di massiccio cadde in distanza sulla loro destra, tra lo scroscio di rami spezzati e di tralci strappati. La luce delle torce non penetrava molto nella foresta. Sebbene avessero appena intravisto ciò che era piombato sulla colonna, in quell'oscurità, i due esploratori non provavano il desiderio di dare un'occhiata da vicino alla sagoma mostruosa. Gli schianti si attenuarono, si affievolirono, mentre la massa gigantesca spariva nell'abisso buio come un sasso scagliato in un pozzo inaridito. Non si udì un tonfo netto, finale. Gli schianti e gli scrosci si attenuarono in un fruscio, poi nel ricordo di un fruscio, fino a quando riprese a dominare il suono della pioggia. Born tornò a fianco dei giganti, mentre la colonna si rimetteva in cammino. «Che cos'era?» domandò sottovoce Cohoma. «L'abbiamo appena intravisto mentre precipitava.» Notò, sconcertato, che gli tremavano le mani. «Un'altra specie nuova, per noi.» Si sentì un po' meglio quando notò che non tutte le gocce che imperlavano la fronte della Logan erano cadute dal cielo. «Uno dei grandi carnivori notturni,» gli spiegò Born, senza distogliere lo sguardo dalle muraglie nere che li attorniavano. «Un tuffaccio. Non si avvicinano alla Casa per paura dei baccelli: ma se un uomo o due ne incontrano uno nella foresta non tornano più. Questo ci stava tagliando la strada, ed era affamato. Altrimenti non avrebbe attaccato. Sono fortissimi, ma lenti... non certo capaci di tener testa a un gruppo così numeroso di cacciatori
e di vellosi.» L'ultima frase fu pronunciata con un inconfondibile tono di soddisfazione. «Non potevamo aspettare che passasse?» chiese la Logan. Born la guardò scandalizzato. «È un corteo funebre. Niente può interromperlo.» «Neppure una nidiata di Akadi?» mormorò Cohoma. Born gli lanciò un'occhiata tagliente: i suoi occhi lampeggiavano nella luce della torcia. «Perché hai detto questo?» «Cerco di valutare i vostri parametri,» rispose il gigante, ben sapendo che Born non immaginava cosa significasse, per ricordargli che vi erano cose incomprensibili anche per un grande cacciatore. La Logan maledisse tacitamente lo scarso tatto del collega e si affrettò a chiedere. «Mi piacerebbe sapere come mai tutti questi esseri hanno ricevuto i nomi che portano; vennero classificati originariamente dai vostri antenati?» Born sorrise, si sentiva di nuovo su un terreno a lui familiare. «Quando si è giovani, si fanno domande. Un adulto indica e dice, quello è un tuffaccio, o quello è un ohkeefer, oppure quello è il frutto del fiore del malpasso, che non è buono da mangiare.» «Secondo l'impulso dei primi coloni che rimasero bloccati qui,» mormorò Cohoma alla Logan. «E loro non avevano certo voglia di dedicarsi alle classificazioni scientifiche. Quindi i nomi che sono rimasti erano più colloquiali che sistematici.» Born sentì chiaramente queste parole; sentiva sempre tutto, quando i giganti si impegnavano in quei loro bizzarri dialoghi sottovoce. Ma, come al solito, non mostrò di avere udito. Sarebbe stata una scortesia, anche se molte volte avrebbe desiderato comprendere qualcosa di più di quanto udiva. La colonna continuò a salire. Una volta, dall'alto scese una serie di squittii e di soffi rabbiosi. Un'altra volta, qualcosa che ronzava come un computer navigazionale senza sordina si avvicinò dal basso, sulla sinistra. Alcuni cacciatori vennero inviati a snidare le cause di quei rumori minacciosi, ma non trovarono nulla. Il corteo non fu più attaccato. Finalmente, anche gli ultimi caduti vennero resi al mondo. Furono recitate le frasi conclusive, e fu cantato il penultimo inno. Poi tornarono alla Casa. La Logan e Cohoma non riuscivano a capire quale sistema permettesse al popolo di Born di ritrovare la strada attraverso la foresta. Provarono un gran senso di sollievo quando avvistarono i
primi tralci carichi di fiori rosei e di sacchi coriacei di spore. Solo più tardi, quando tutto il corteo fu rientrato tra i subtronchi della Casa, quando le ultime torce furono spente, e l'ultima tenda di pellefoglie fu chiusa, si cominciarono ad udire singhiozzi soffocati e pianti solitari, trattenuti per tutta la durata del Tempofa. La notte si chiuse intorno al villaggio come un'umida tenda nera, e portò lo stordimento e la consolazione del sonno. Non c'era nessuno, quindi, che potesse vedere il movimento al limitare degli alberi, le lunghe sagome che si scuotevano dall'apparente sonno per radunarsi sulla curva più alta dei rami intrecciati. Un pigro colpo alla testa svegliò un cucciolo addormentato, lo fece strillare. Le tre pupille lampeggiarono nell'oscurità quasi totale. Ruumahum stava ritto dietro Suv. Alla morte di Muf, quel nuovo cucciolo era stato affidato alle sue cure. Non c'era una fitta di rimpianto, non un'ombra di tristezza per la morte dell'altro. Era con il suo umano, e quella era la Legge. «Vecchio, cos'ho fatto?» implorò Suv. «Niente, come senza dubbio continuerai a fare,» sbuffò Ruumahum, e prese a salire verso il luogo del raduno. Il cucciolo fece per seguirlo, incespicò con le zampe mediane, poi le mise in movimento tutte e sei e si trascinò al seguito dell'adulto. «Allora cosa c'è?» «Vedrai. Ora taci e impara.» Suv sentì un'insolita solennità nella voce del suo nuovo vecchio, e pensò che per i cuccioli era davvero il momento di tenere la lingua inchiodata al palato, a meno che venissero interrogati. Si andava già abituando al nuovo anziano, sebbene non conoscesse bene la Legge e provasse ancora un po' di dolore per Toocibel, morto nella grande battaglia. Quando Ruumahum e Suv arrivarono, tutti gli altri si erano già radunati. In fila per due uscirono dalla Casa, muovendosi nella foresta primordiale in un silenzio furtivo che sembrava contraddire la loro mole. I sensibilissimi carnivori notturni in caccia percepivano quel movimento di massa e guizzavano più vicino, fino a quando fiutavano o vedevano ciò che era in marcia lungo i sentieri degli alberi. Allora restavano immobili o strisciavano via, o cercavano di mimetizzarsi tra le fronde fino a quando la colonna non fosse passata oltre. Altri carnivori, nei loro covi, si agitarono sentendo il suono dei passi e si prepararono a difendere il territorio o la tana dagli eventuali intrusi. Di tanto in tanto, un refolo di vento notturno faceva frusciare le foglie e i petali e
portava l'odore dei vellosi alle tante narici dilatate. Quali che fossero le loro dimensioni, il numero e la specie, o la loro pericolosità, gli esseri che captavano quell'odore pungente abbandonavano il territorio, la tana, e si trasferivano altrove. Di tanto in tanto una nube viva di farfalle luminescenti, cremisi e verdi e azzurre, scendeva tra gli alberi e i rampicanti per volteggiare curiosamente sopra la colonna. I vellosi non guardavano né a destra né a sinistra, e non osservavano neppure quelle farfalle impegnate nelle loro policrome coreografie. Di tanto in tanto un insetto scendeva più vicino, con le ali brillanti che scintillavano come gemme nella notte. I colori danzavano nei tre occhi felini. La colonna raggiunse un albero dalle dimensioni maestose, un autentico golia tra la vegetazione locale. Ma non era la sua mole a renderlo importante per i vellosi, che si disposero in ordine di età intorno a un'ampia serie di liane intrecciate. Leehadoon, il velloso dell'umano Sand, prese posto al centro del semicerchio. Indugiò per guardare negli occhi, uno dopo" l'altro, tutti i fratelli. Poi alzò la testa. Tra i canini affilatissimi e le zanne rialzate uscì un suono ultraterreno che era in parte grido, in parte miagolio, in parte qualcosa di indefinibile in termini umani. Gli altri si unirono a lui, senza bisogno di ordini, proprio come Suv e gli altri cuccioli riuscivano a partecipare senza sapere come o perché, o il significato di ciò che ululavano nelle tenebre. Quasi tutti gli animali che si trovavano alla portata di quel suono sconvolgente fuggirono. Ma alcuni vennero più vicini, spinti da una curiosità che sopraffaceva la paura, per guardare e per stupirsi, animalescamente, del rito che era nel contempo antico e nuovo. Stavolta era diverso, più complesso di quanto riuscissero a ricordare Ruumahum o Leehadoon o chiunque altro. Sarebbe stato ancora diverso, la prossima volta, e la volta successiva, con il coro che cresceva sempre, verso un fine inspiegabile, inimmaginabile. Occorsero due giorni prima che si potessero radunare le provviste per il secondo tentativo di raggiungere la Casa-stazione dei giganti. Due giorni per prepararsi per una morte che gli Akadi non erano riusciti a infliggere, pensavano quasi tutti i compagni di Born. Born aveva dato buona prova di sé ben tre volte, in un periodo di tempo non più lungo del sogno d'un bambino. Ma questo non bastava a convincere i suoi compagni che non era pazzo. Come Losting, essi pensavano che esistesse un tipo particolare di coraggio, parte indissolubile della follia.
Perciò, ora, mostravano rispetto nei confronti di Born... ma non ammirazione. Non ha senso ammirare la follia. Born sentiva soltanto la loro indifferenza, senza intuire la mentalità che la provocava, poiché nessuno era disposto a dirgli in faccia che lo giudicava pazzo. Questo lo faceva impazzire, ma in un senso diverso. Perciò affilò la piccola ascia ed il coltello fin quasi a consumarli, e pensò molti pensieri segreti carichi di collera. Era ritornato dopo aver lottato con il bruchiere. Era ritornato dal demone o barca celeste dei giganti. Era ritornato dagli Akadi. E sarebbe ritornato dalla stazione dei giganti e avrebbe portato tutte le meraviglie che gli erano state promesse! Forse, forse finalmente Passo Chiaro avrebbe visto l'ardimento, il coraggio e l'intelligenza là dove gli altri vedevano solo la pazzia; avrebbe capito che valevano assai più della mole e della forza. Di tutti i cacciatori, soltanto Losting, per quelle sue strani ragioni, era disposto ad andare ancora con lui. Born non aveva salvato la vita agli altri? Certo, ammettevano: ma era una ragione di più per non gettarla via imprudentemente. Lo avrebbe accompagnato Losting, che Born sarebbe stato felicissimo di non vedere per tutte le settimane o tutti i mesi del viaggio. In segreto era soddisfatto dell'aiuto che avrebbe potuto dargli il robusto cacciatore: ma pubblicamente lo beffeggiava. «Tu sei convinto che io vada a morire. E allora perché vieni con me?» chiese in tono irridente, benché ne conoscesse bene la ragione. «Alcuni sostengono che la foresta protegge i pazzi. Se è vero, senza dubbio ti salverà. Ed io sono pazzo quanto te: infatti, l'amore non è forse una specie di pazzia?» «Se è così, allora siamo certamente pazzi entrambi,» riconobbe Born, stringendosi nel mantello. «E gli altri hanno sempre avuto ragione, e io sono il più pazzo di tutti.» «Ricordati, Born, non mi convincerai a rimanere qui. Ti vedrò morire, o ritornerò con te.» Poi si volse a osservare i due giganti, che parlavano con il capo. Avevano accettato entrambi in dono i mantelli impermeabili, sebbene si ostinassero, irragionevolmente, a portarli sopra ai loro indumenti sbrindellati. Quando Born affermava che era assurdo conservare quegli stracci, essi ribattevano con il solito argomento: temevano di prendere il raffreddore. Questo aveva fatto desistere Born, perché chi poteva sapere quali strane malattie esistevano tra i giganti? «Hanno imparato molto, nel tempo trascorso con noi,» osservò, «sebbe-
ne siano ancora goffi come bambini. Adesso, almeno, chiedono prima di toccare, guardano dove mettono i piedi.» «Cosa pensi di loro, Born?» chiese Losting. «Dobbiamo stare sempre attenti, perché non si uccidano prima che giungiamo alla loro Casa-stazione.» «Non alludevo a questo,» lo corresse Losting. «Voglio dire, ti piacciono come persone?» Born scrollò le spalle. «Sono molto diversi. Se tutto ciò che sostengono è vero, possono farci del bene. Se no,» e assunse un'espressione indifferente, «sarà sempre una storia sensazionale da raccontare ai nostri nipoti.» Quella frase riportò nelle menti di entrambi l'immagine di una certa giovane femmina. La conversazione si interruppe per comune accordo. Non era opportuno incominciare con un litigio il viaggio più lungo che fosse mai stato intrapreso. Avrebbero dovuto lottare abbastanza nel mondo, prima di arrivare alla meta. Su questo erano perfettamente d'accordo. Molti abitanti del villaggio erano venuti ad assistere alla partenza, per fare gli auguri e portare viveri in dono, anche se nessuno se la sentiva di guardare Born negli occhi. Poi erano ritornati ai compiti quotidiani di raccogliere il cibo e di curare la Casa. Perciò se ne andarono: e soltanto il capo e un bambino solitario rimasero a seguirli con lo sguardo. Accanto al bambino si dondolava una grassa palla di pelo, il cucciolo Suv. Quella vista ricordò a Born un altro bambino, un altro cucciolo, ormai restituiti al mondo. Born abbassò lo sguardo. La barca celeste era stata equipaggiata con un buon ranger Modello V, un nuovo rintracciato re a raggio, una trasmittente tridi e un apparecchio per la ricerca automatica della base. Ma tutti gli strumenti erano ridotti a rottami, spaccati e distorti dalla gravità e dal diavolo celeste. La Logan estrasse il piccolo disco nero dal quadrante trasparente e benedisse chi aveva avuto l'idea di includere la bussola nei loro astucci di emergenza, fissati agli stivali. Si augurò che il pianeta non presentasse anomalie magnetiche: almeno, nessuno aveva mai detto loro che esistessero. Ma anche le lance non si sarebbero dovute guastare mai. Anche a Born erano passate per la mente variazioni dello stesso pensiero. In un certo senso, quel viaggio era un suicidio, poiché avevano solo la parola dei giganti, circa la loro destinazione. Preferiva non pensare alla possibilità che essi non avessero un'idea chiara dell'ubicazione della sta-
zione: non migliorava certo il suo morale. Eppure, si diceva, se quelli non ne avessero avuto un'idea abbastanza precisa, sicuramente non avrebbero abbandonato la sicurezza e le comodità della Casa, nella vaga speranza di trovare la stazione cercandola a casaccio. In quanto a ciò che attendeva lui e Losting, all'arrivo alla stazione, non sapeva che pensare. Per il momento, non si preoccupava molto del comportamento che avrebbe dovuto tenere tra quella nuova gente. Erano trascorsi molti giorni da quando avevano lasciato la Casa. Sebbene fosse ormai lontana parecchi periodi di riposo, il sentimento predominante nella mente di Born non era la nostalgia né l'apprensione per ciò che li attendeva. Provava piuttosto una bizzarra mescolanza di tedio e di tensione: il tedio nasceva dalla scoperta quotidiana che ogni nuova parte del mondo era identica a ciò che si trovava a un tiro di lancia dalla Casa; e la tensione derivava dall'inevitabile impressione che l'indomani il mondo poteva essere diverso. Dopo la prima settimana, i giganti si isolarono il più possibile: si limitavano a fare qualche domanda quando incontravano una pianta o un abitante della foresta che per loro costituiva una novità. A Born non rimaneva che parlare con Losting. Non era sorprendente che la spedizione procedesse senza molte conversazioni gioviali. I cacciatori continuavano a guardarsi con un miscuglio d'odio e di rispetto che si annullavano a vicenda: il gruppo, quindi, procedeva su di una base emotiva abbastanza tranquilla. I due uomini sapevano che non era né il tempo né il luogo per regolare con la violenza le loro divergenze. Per massacrarsi avrebbero dovuto attendere il trionfale ritorno. Come aveva previsto Born, la stoffa speciale degli abiti dei giganti, ideata apposta per la giungla, cominciò a marcire sotto l'assalto continuo di una foresta che non aveva letto le etichette di fabbrica. Cohoma e la Logan, con il passare dei giorni, erano sempre più lieti di avere i mantelli verdi ricevuti in dono. Un buon mantello assicurava mimetizzazione nei confronti dei nemici, e protezione contro la pioggia notturna, serviva come letto, e poteva venire usato in un'altra dozzina di modi. I giganti diventavano sempre più disinvolti e sicuri, via via che i giorni passavano senza incidenti. Considerando la loro goffaggine ancora incredibile nell'affrontare i sentieri degli alberi, Born pensava che la spedizione era stata, finora, eccezionalmente fortunata. L'unico incontro pericoloso che avevano fatto era stato quasi imprevedibile: e per poco non era costato la vita alla Logan.
«Mi venga un accidente,» aveva detto rivolgendosi al suo collega, e indicando un punto in alto, sulla destra. «È un tratto di cielo, quello lassù, oppure ho le allucinazioni?» Born e Losting li precedevano di poco, e non badavano molto alla conversazione dei due giganti. Cohoma guardò nella direzione indicata. Vide qualcosa che sembrava senza dubbio un tratto ovale di cielo azzurro, striato di vaporose nubi bianche. «No, a meno che le allucinazioni le abbiamo tutti e due. Deve essere un altro pozzo nella foresta, come quello che aveva aperto la nostra scialuppa nel precipitare.» I due si diressero da quella parte. In quell'istante Losting si voltò per assicurarsi che i due li seguissero sani e salvi. «Fermi... di qua!» Born era un poco più avanti di Losting. Al grido, si voltò e vide immediatamente ciò che aveva suscitato la preoccupazione del compagno. «Tutto a posto,» rispose tranquilla la Logan. «Conosco gli attacchi dei diavoli celesti per esperienza diretta.» Scosse il capo e sorrise. «Siamo a una profondità troppo grande, e il pozzo è troppo stretto per permettere la discesa anche a un predatore molto piccolo. Siamo al sicuro.» E avanzò di qualche altro passo sull'ampio rampicante, verso l'ellisse di limpido azzurro. Losting gridò di nuovo e cercò precipitosamente di spiegare, mentre i due giganti continuavano a camminare. Sapendo quanto fosse inutile tentare di discutere con Cohoma e la Logan, Born si era già lanciato correndo verso di loro. Mentre balzava dai rami ai rampicanti, e lo spegnitore sbatacchiava rumorosamente sul suo dorso, si sforzava di districare l'ascia dal cappio che la fissava alla cintura. I due giganti erano quasi arrivati. Born scorse la lieve ondulazione intorno all'orlo dell'azzurro. L'ascia poteva arrivare troppo tardi. Per fortuna, anche altri avevano notato il pericolo. Ruumahum e Geeliwan erano già là: le possenti mascelle si chiusero delicatamente sulla robusta stoffa dei mantelli. Una delle varie funzioni del manto a molti usi ebbe una brusca dimostrazione quando i due vellosi tirarono all'unisono. La Logan lanciò uno strillo. L'esclamazione di Cohoma fu molto più particolareggiata. Born aveva sganciato l'ascia e si teneva pronto a usarla, mentre i due giganti venivano trascinati lontano dalla chiazza azzurra. Il fremito intorno al bordo dell'ampio cerchio azzurro pareva rispondere ai battiti irregolari del suo cuore. Entrambi si acquietarono simultaneamente. Fosse ringraziata la Casa! Un'ascia non sarebbe servita a molto contro un nuvolaglio, e non gli
sarebbe piaciuto dover dipendere dalla rapidità con cui Losting poteva usare lo spegnitore. In ogni caso, il nuvolaglio avrebbe certamente ucciso uno dei giganti, se non entrambi, prima che il veleno del jacari facesse effetto. Losting gli venne a fianco: aveva impugnato anch'egli l'ascia. Esaminarono insieme quel tratto ovale di cielo e di nubi, senza badare ai due giganti che ora si stavano rialzando, indignatissimi. Ruumahum e Geeliwan avevano lasciato i loro mantelli, ma restavano vicino, di guardia. Born rivolse a Ruumahum un cenno del capo. Il vecchio velloso sbuffò e scomparve tra gli arbusti insieme a Geeliwan. Il cacciatore osservò la Logan, che cercava di liberare le gambe dal mantello aggrovigliato. Era rossa in viso. «Che male c'era a lasciarci dare un'occhiata al cielo, Born? Hai ancora paura dei diavoli celesti? Forse per voi non significa molto, ma da due settimane, ormai, non abbiamo avuto altro che il verde, sopra la testa. Solo un'occhiata al cielo normale, anche se è un po' sfumato di verde... per noi è una festa. Farsi prendere dal panico in questo modo solo perché...» «Vi lascerei dare un'occhiata al vostro Inferno Superiore, se fossimo abbastanza in alto per vederlo,» rispose con calma Born. «Bene, questo ci può bastare, dato che non siamo abbastanza in alto. Cosa c'è di male? È solo un pozzo nel vostro mondo, un pozzo naturale, non come quello che ha aperto la nostra lancia quando è precipitata.» Born scosse il capo. Bisognava farsi forza ed avere pazienza con i giganti, rammentò a se stesso. Loro non potevano emfolare. «Voi non vedete né cielo né nubi. Quello che vedete è un nuvolaglio intenzionato a uccidere. Stava per divorarvi tutti e due.» Se la situazione non fosse stata tanto drammatica, Born avrebbe giudicato divertente l'espressione della Logan. La donna volse lo sguardo confuso sul cerchio di "cielo", ed esaminò le nubi che lo percorrevano. Poi guardò Cohoma, che si strinse nelle spalle, con l'aria indifferente. «Born, non capisco. C'è qualche animale che sta in agguato intorno a queste aperture e aspetta che qualcosa si avventuri nello spazio aperto? Io non lo vedo.» «Non c'è spazio aperto,» precisò meticolosamente Born. «Guarda.» Si ritirarono dietro un gruppo di fitte piante grasse e attesero. Dieci, venti minuti di silenzio, che innervosirono entrambi i giganti. Verso il venticinquesimo minuto, un piccolo brya «un erbivoro quadrupede grosso quanto un maiale» vagò in direzione della chiazza azzurra, grufolando tra la fitta vegetazione sottostante in cerca di tuberi aerei commestibili. Born scorse di nuovo l'ondulazione ai bordi del cielo, ma non la indicò a
Cohoma e alla Logan. Non ce n'era bisogno: l'avevano vista anche loro. Il brya avanzò nello spazio sotto il cielo. Quando fu esattamente al centro, il cielo cadde, con le nubi e tutto. Il nuvolaglio fremente sembrava un materasso orlato di centinaia di ciglia. Avviluppò letteralmente il brya, che lanciò un solo strillo. Il nuvolaglio si mosse sussultando per un minuto o due, poi si rilassò. Dopo cinque minuti, la frangia di ciglia o di tentacoli si protese. Il nuvolaglio si arrampicò di nuovo al suo posto, strappando la vegetazione per mantenere uno spazio abbastanza ampio. Poi si fermò, quattro metri al di sopra della pianta più vicina. Sulla parte superiore era verde e chiazzato: la faccia inferiore aveva una colorazione così simile ad un tratto, di cielo variegato di nubi che la Logan dovette strofinarsi gli occhi per assicurarsi che si fosse mosso davvero. Poche ossa, troppo dure anche per i succhi gastrici efficientissimi del nuvolaglio, vennero accuratamente espulse dopo alcuni istanti. «Capisco i camuffamenti. Capisco la. mimesi protettiva,» mormorò la Logan. «Ma un carnivoro che imita il cielo...» Anche Cohoma era sgomento, al pensiero che avrebbe potuto fare facilmente la fine del brya se non fossero intervenuti i vellosi. Born sospirò e si voltò per rimettersi in marcia. «Non so bene che cosa significa, ma il cielo è il cielo e un nuvolaglio è un nuvolaglio. Provate a passare sotto a uno di quest'ultimi, e non vedrete più nulla.» Ridiscese sul rampicante. La Logan e Cohoma lo seguirono, ammutoliti, guardando inquieti sulla destra nel passare accanto a quel cerchio azzurro e bianco apparentemente innocuo. «Proprio quando ti convinci di aver compreso questo ecosistema,» borbottò Cohoma, «e di avere identificato e catalogato i predatori e le prede, capita una cosa del genere che ti fa girare la testa. Carnivori che imitano il cielo! C'è solo da aspettarci che la prossima volta Born ci metta in guardia contro qualcosa che imita il nulla!» Tre giorni dopo incontrarono il palinvetro, e ancora una volta si salvarono miracolosamente. Erano trascorse alcune settimane. Una notte, si accamparono nel cavo di un ramo d'un Pilastro. La grotta lignea era abbastanza grande per ospitarli comodamente tutti e sei, e non era occupata. Born e Losting accennarono ai due giganti di restare indietro, appena videro l'orificio. Poi si avvicinarono cautamente alla caverna, impugnando gli spegnitori carichi. Sembrava improbabile che un rifugio tanto splendido
e spazioso fosse privo di vita. Eppure era così. Né Ruumahum né Geeliwan avevano captato odori estranei. Quando i cacciatori entrarono nella cavità, trovarono soltanto sterco vecchio, e abbondante legno morto che avrebbero potuto usare per accendere più di cento fuochi. Quella notte, un grande falò rischiarò l'interno del ramo, riflettendo la luce sui noduli scuri e sulle stalattiti contorte di legno e di corteccia screpolata. Born osservò i giganti. Rasserenati dal fuoco e da quell'ottimo rifugio, sembravano più disposti a parlare di quanto non si fossero dimostrati in quegli ultimi giorni. «Comincio quasi a credere che veniate da un mondo molto diverso da questo, Kimilogan.» L'espressione di Cohoma non cambiò, ma la Logan sembrò compiaciuta. «È un grande passo in avanti, Born, e molto importante. Non mi sorprende, comunque, che tu l'abbia compiuto. È evidente che tu sei l'individuo più percettivo, tra la tua gente, ed anche il più ricettivo ai cambiamenti, alle idee nuove.» La donna smosse le braci con un fuscello uncinato, e ascoltò lo sgocciolio ininterrotto della pioggia notturna. «Sai, Born, quando tu e la tua gente e le altre tribù di qui vi riunirete alla grande famiglia dell'umanità, ci sarà bisogno di qualcuno che parli a nome vostro con la nostra compagnia.» Alzò lo sguardo verso di lui, imparzialmente. «Non saprei trovare un candidato migliore di te. Dopo quel che hai già fatto per la nostra compagnia salvando me e Jan, non vedo proprio come non potresti venire prescelto. Sarebbe un incarico molto vantaggioso per te.» Losting ascoltò senza dir nulla. Il suo rispetto per l'intelligenza di Born era pari all'antipatia che provava per lui personalmente. Si assestò contro il grande corpo di Geeliwan e ascoltò ciò che aveva da dire Born, non i giganti. «Il mondo da cui dite di provenire non mi sembra molto invitante,» rispose Born, e subito alzò la mano, perché Cohoma sembrava accingersi a protestare. «Ma è questione di scelta personale. È chiaro che voi provate gli stessi sentimenti nei confronti di questo mondo. Non ha importanza.» Fece una pausa, pensosamente. «Ciò che vorrei sapere è... se voi siete tanto soddisfatti del vostro mondo e degli altri di cui affermate l'esistenza, perché siete venuti su questo, a prezzo di tanti fastidi e di tante difficoltà?» All'improvviso, con il volto segnato dalle ombre gettate dal fuoco, il cacciatore non sembrava più tanto primitivo. Cohoma e la Logan si scambiarono un'occhiata. «Per due ragioni,
Born,» rispose finalmente la donna. «Una è semplice da capire. L'altra... beh, credo che comprenderai, con l'andar del tempo. Non so se lo capirebbero il capo Sand o Reader lo sciamano.» Giocherellò con il fuscello, lanciò una brace ardente verso l'imboccatura della grotta, infradiciata dalla pioggia. La brace sibilò, quando le tepide gocce l'investirono. «Si tratta dell'acquisizione di una cosa chiamata danaro, che a sua volta ha a che fare con il commercio. Ti verrà chiarito tutto alla stazione. Quando avrai capito la sua posizione, ti renderai conto del perché ora esito ad addentrarmi nei particolari. Ti dirò solo che tu e la tua gente ricaverete benefici considerevoli, come del resto faremo anch'io e Jan e i nostri amici.» «L'altra ragione ha un interesse minore per certi uomini, ma per altri è più importante... la curiosità. La stessa che ti ha spinto a scendere per scoprire che cos'era veramente la nostra lancia. La stessa che ti spinge, contro il tuo buon senso, contro il parere di tutti i tuoi amici, a tentare di riaccompagnarci sani e salvi alla nostra stazione. È lo stesso impulso che ha spinto gli uomini e i thranx a viaggiare da stella a stella... la curiosità, e l'altra cosa.» «Cosa sono i thranx?» chiese Born. «Certa gente che penso ti piacerebbe, Born.» La donna guardò fuori, nell'oscurità. «E cui questo mondo piacerebbe moltissimo, assai più che alla mia gente.» «Ci sono anche i thranx alla vostra stazione?» chiese all'improvviso Losting. «No. Non fanno parte della nostra...» La Logan esitò. «Della nostra compagnia, o gruppo, organizzazione, tribù, se preferisci.» Sorrise, vivacemente. «Ti apparirà tutto molto più chiaro quando arriveremo alla stazione.» «Ne sono sicuro,» fece cortesemente Born, guardando la danza delle fiamme. Più tardi, mentre si avvolgeva nel mantello, contro la massa di Ruumahum che russava sommessamente, si chiese se sarebbe stato così. E si chiese anche se ci teneva davvero. CAPITOLO 10 Nessuno sa quanto possa muoversi silenziosamente un grosso animale, fino a quando un velloso adulto non gli si è avvicinato all'improvviso. Ruumahum si mosse in quel modo quando l'odore lo svegliò; e si alzò così
silenziosamente che non si destò neppure Born, il quale aveva un sonno leggerissimo. L'odore veniva dall'esterno e dall'alto, così intenso che il caratteristico sentore muschiato penetrava attraverso due livelli e la pioggia che continuava a cadere. Geeliwan si mosse nel sonno, quando Ruumahum si avvicinò all'imboccatura della caverna, sporse fuori la testa, guardò in alto con i tre occhi acutissimi che sbattevano di continuo sotto la pioggia pungente. L'odore era inconfondibile, ma era meglio accertarsi. Si afferrò al legno con le zampe anteriori, poi issò il paio mediano e quello posteriore e si aggrappò all'esterno del tronco. I robusti muscoli delle zampe lavoravano all'unisono, mentre saliva afferrandosi con gli artigli. Sarebbe stato più semplice trovare un sentiero a spirale nella fitta vegetazione, ma se i suoi sospetti erano fondati non c'era tempo da perdere. I peli dietro le orecchie si rizzarono quando il miasma minaccioso si fece più forte. Sono pochissime le impressioni sensoriali capaci di fare accapponare la pelle a un velloso. E adesso Ruumahum ne stava appunto sperimentando una. La lunga scalata in verticale era stancante, persino per lui. Poi lo vide, ancora molto in alto: ma scendeva costantemente. Allora capì perché quell'eccellente rifugio era vuoto: quello era l'albero di uno strisciargento. Aveva captato il loro odore, questo era certo. Erano già morti, a meno che gli umani sapessero escogitare qualcosa di nuovo. Il velloso si voltò, scese precipitosamente tra rami e tralci, divorando i metri con tuffi e balzi prodigiosi. Faceva abbastanza chiasso da scuotere tutti i predoni notturni dei dintorni, ed era appunto ciò che voleva. Forse uno di essi sarebbe stato così stupido da venire a indagare. E lo spuntino poteva far perdere allo strisciargento qualche minuto prezioso. Avevano poco tempo. Lo strisciargento si muoveva lentamente, giocando con la futura preda. E i giganti li avrebbero fatti rallentare ancora di più. Irruppe nella caverna abbastanza rumorosamente da svegliare subito Born e Losting. Geeliwan lanciò un ringhio d'avvertimento, poi si rilassò, fiutando l'odore familiare. Ruumahum si fermò ansimando davanti a loro; la pelliccia bagnata luccicava nella luce delle braci. «Svegliate altri,» sbuffò. Mentre Losting andava a svegliare i giganti, Ruumahum mormorò, nel linguaggio dei vellosi, qualcosa che spinse Geeliwan a precipitarsi all'ingresso della cavità, e a piazzarsi là, guardando verso l'alto. «Cosa succede? Cosa c'è ancora?» borbottò assonnato Cohoma, quando Losting lo scrollò. La Logan si era già levata a sedere e aspettava di venire
informata. «Dobbiamo andarcene immediatamente,» annunciò Born. Si strinse il mantello intorno al collo, e cominciò a raccogliere le sue poche cose. Losting faceva altrettanto. «Questo è l'albero di un strisciargento. Si spiega perché non abbiamo dovuto lottare per questo rifugio. Tutti lo evitano, come avremmo dovuto fare anche noi. Non c'era nessun motivo di sospettare, nessuno. Ma questo non mi fa sentire meglio.» «Ho capito,» disse la Logan, con voce stanca. «Un'altra belva pestifera. Che cos'è uno strisciargento, Born, e che cosa possiamo fare?» «Andarcene,» rispose Born a denti stretti, servendosi di un grosso pezzo di legno per spingere le braci ardenti verso l'imboccatura della caverna. La pioggia le spense. «Nel cuore della notte?» «È lo strisciargento a imporlo, non io, Kimilogan. Possiamo solo fuggire a zig-zag, fuggire e fuggire. C'è una possibilità che si stanchi e ci lasci andare.» «E quello che ci seguirà, come gli Akadi?» chiese Cohoma. La gravità della situazione si era finalmente imposta al suo cervello ottenebrato dal sonno. «No, non come gli Akadi. In confronto allo strisciargento, la mente degli Akadi è mutevole come... come...» Born cercò un'analogia adatta. «Come i desideri di una donna. Quando ha captato l'odore di chi ha invaso il suo albero, lo strisciargento lo segue fino a quando lo raggiunge e lo divora. E non è possibile distanziarlo come gli Akadi. E a differenza degli Akadi, non dorme.» «Questa deve essere una leggenda,» ribatté Cohoma, avvolgendosi goffamente nel mantello. «Non esiste un animale a sangue caldo che non dorma mai, e solo pochissimi, a sangue freddo, possono fare a meno di riposare.» «Io non conosco la temperatura del suo sangue,» commentò Born, avviandosi verso l'imboccatura della caverna. «Non so neppure se abbia sangue. Nessuno ha mai visto sanguinare uno strisciargento. Comunque, non starò a litigare con voi, adesso.» Abbastanza stranamente, sogghignò. «Quando siete stanchi di correre, vi consiglio di fermarvi a fare un sonnellino e di vedere che cos'è che vi sveglia nel cuore della notte.» «Sta bene, ti crediamo,» confessò la Logan, mentre cercava di assestarsi l'abito. «Dobbiamo crederti, dopo quello che abbiamo visto. Un essere il cui ciclo vitale è regolato sulle settimane, anziché sui giorni. Tante setti-
mane di veglia, tante settimane di sonno.» «Lo strisciargento non dorme mai,» ripeté energicamente Born. Poi decise che era inutile discutere con coloro che rifiutavano di accettare la verità, e fece un gesto brusco per invitarli a seguirlo. Losting aveva preparato alcuni fasci di torce. Ma dovevano ancora trovare le foglie globulari che avrebbero riparato la fiamma dalla pioggia, e non c'era tempo di cercarle. Dovevano allontanarsi dall'albero. Forse avrebbero trovato lungo il cammino alcune di quelle piante, che erano piuttosto comuni. Fino a quel momento, sarebbero stati costretti a procedere nel buio. «Presto,» ringhiò Ruumahum, con la tipica impazienza dei vellosi. «Ci sente.» «Geeliwan!» sussurrò Losting. Il velloso si portò sulla liana più vicina, balzò su un ramo più basso di un altro albero, e poi su di un altro e un altro ancora. Poi alzò la testa, con gli occhi che brillavano nella notte. Sarebbero stati i soli fari che avrebbero avuto nella foresta. Poi si mosse Losting, seguito da Cohoma. La Logan si voltò a guardare Born, mentre stava per trasferirsi sulla liana. «Ma non era troppo pericoloso viaggiare di notte?» «Sì,» ammise lui. «Ma restare qui significa morire.» La donna annuì. «Volevo solo assicurarmi che questa non era una specie di esame,» rispose enigmaticamente, voltandosi e passando dalla liana al ramo. Born indugiò il tempo sufficiente per parlare sottovoce a Ruumahum, che stava guardando in alto, nella pioggia. «Quanto tempo?» «Frugherà ogni nicchia. Poi seguirà.» «C'è qualche possibilità di combatterlo, vecchio amico?» Ruumahum sbuffò. «Born sogna. Combattere strisciargento? Neanche se piccolo.» Alzò di nuovo lo sguardo. «Non piccolo. Vecchio, grosso. Molto grosso.» Born borbottò qualcosa d'incomprensibile e guardò in alto. Lo aveva colpito un altro pensiero nuovo. Era un pensiero spaventoso, ma non gliene venivano in mente altri, e non c'era tempo per formulare ipotesi dettagliate. Probabilmente, potevano tenere a distanza lo strisciargento. Ma non potevano lasciarselo alle spalle, né allontanarlo dalla loro pista, né combatterlo. Alla fine la stanchezza li avrebbe costretti a rallentare, a fermarsi, e l'uccisore instancabile li avrebbe finiti a suo agio. Ancora riluttante ad esporre quel pensiero, si allontanò rapidamente dall'albero insieme agli altri.
Erano ormai in cammino da qualche tempo quando un tuono smorzato echeggiò nella foresta, dietro di loro. Era causato da un brusco spostamento d'aria, ma non era di origine elettrica. «Ha scoperto che non ci siamo,» spiegò Born alla Logan, rispondendo ad una muta domanda. «Impiegherà qualche minuto a urlare la sua rabbia e poi c'inseguirà.» «Dimmi, Born,» chiese la donna, cercando di seguire la figura indistinta di Losting che passava in mezzo alla fitta vegetazione, «se uno strisciargento non desiste mai fino a quando ha ucciso la preda, come fate a sapere tante cose delle sue abitudini e del suo aspetto? Anzi, sapete com'è fatto?» La gigantessa sprecava troppe energie a parlare. Sempre educatamente, Born rispose: «Si racconta di un gruppo di venti o trenta che fu attaccato da uno di essi. Tutti fuggirono in direzioni diverse. Neppure uno strisciargento poteva seguire tutte le piste prima che qualcuna svanisse. Alcuni sopravvissero e parlarono del mostro.» «Vuoi dire che neppure venti o trenta di voi...» «E altrettanti vellosi.» «... e i loro vellosi potrebbero combattere uno di questi mostri?» «Troppo grosso, troppo forte,» rispose Born. «Credevo che il veleno del jacari potesse uccidere qualunque essere vivente.» «La pelle dello strisciargento è troppo spessa,» spiegò il cacciatore. «E il veleno del jacari agisce sul... sul...» Cercò nella memoria il termine antico. «Sul sistema nervoso.» «E allora perché non può avere effetto sullo strisciargento?» chiese Cohoma. «Avrà pure qualche punto vulnerabile.» «Quando arriverà, indicamelo pure, questo punto vulnerabile,» borbottò Born. «Comunque, a quanto si dice, lo strisciargento non ha sistema nervoso.» La Logan era disposta ad attribuire a quell'essere la capacità di non riposare o di non dormire per lunghi periodi, ma non ad arrivare a tanto. «Oh, suvvia, Born,» disse con la sicurezza conferita da una conoscenza superiore, «tutti gli animali hanno un sistema nervoso.» «Davvero?» «Un animale non potrebbe vivere, senza sistema nervoso, Born.» «Davvero?» «Come minimo, deve avere una specie di cervello rudimentale e un sistema locomotore centrale.»
«Davvero?» La Logan rinunciò ad insistere. Cohoma non era stato molto attento al dialogo. Stava ancora rimuginando sul fatto che il mostro lanciato all'inseguimento era capace di mettere in fuga una trentina di vellosi. «Senti, quanto c'è di vero, e quanto se lo sono inventati i superstiti del gruppo attaccato? Era logico che mettessero in risalto l'invulnerabilità di un essere che li aveva costretti alla fuga.» Born stava per rispondere, ma Ruumahum lo interruppe. Era molto difficile che un velloso si intromettesse in una conversazione tra umani. Ruumahum lo fece per mantenere basso il livello d'adrenalina di Born, fino a quando sarebbe stata necessaria una maggiore energia, più tardi. «Albero di strisciargento,» ringhiò sottovoce, «unica cosa che fa cambiare strada agli Akadi. Grossi umani adesso stanno zitti e guardano dove mettono piedi.» Quell'informazione bastò a far dimenticare alla Logan e a Cohoma che l'animale aveva impartito loro un ordine. Continuarono a rimuginarci sopra mentre affrettavano il passo. Born, intanto, esaminava e riesaminava il suo pensiero precedente. Cercò di liberarsene, ma quello lo teneva avvinghiato come un braccio di bruchiere. Cercò di evitarlo, ma quello stava piantato nella sua mente come l'albero Pilastro dello strisciargento. Per qualche attimo riuscì a dimenticarlo, rimproverandosi per non aver saputo riconoscere l'albero per ciò che era veramente. Quell'enorme rifugio, asciutto e invitante, così vuoto, così evitato da tutti gli animali. Idiota. «Idiota di un idiota!» borbottò. «E io pure,» borbottò a sua volta Losting: ma Born non lo udì nemmeno. «Non hai nulla da rimproverarti, Born. Hai detto che era impossibile capire che cos'era,» gli disse la Logan. «Sì. Se fosse stato più in basso, Ruumahum ne avrebbe sentito l'odore. Ma era lontano, molto in alto, probabilmente vicino alla cima dell'albero, a caccia nell'inferno.» «A caccia nell'inferno?» «A pescare i demoni dell'aria nel cielo notturno,» spiegò Born. «Era salito per catturare i mostri volanti in cima agli alberi, come quello che ha attaccato la vostra lancia quando è precipitata.» «Oh,» mormorò la Logan. Era un altro pensiero agghiacciante. «Non ci ha sentiti fino a quando ha incominciato a scendere. È stato allora che Ruumahum lo ha fiutato.» Trovarono finalmente le foglie globulari lungo il loro sentiero. Fu Gee-
liwan a vederle, e si avvicinò insieme a Ruumahum per montare di guardia, mentre Born e Losting ne tagliavano e ne preparavano parecchie. Ma se lo strisciargento avesse attaccato, sarebbero riusciti a dare agli umani soltanto un paio di minuti in più. Bastò un po' di polline incendiario, e finalmente ebbero di nuovo una vera luce. Cohoma e la Logan si rianimarono un po': adesso, almeno, potevano vedere dove mettevano i piedi. Subito la donna espresse a Born una nuova preoccupazione. «Ma in questo modo gli altri predatori locali non ci vedranno più facilmente?» «Ormai non ha importanza. Lo strisciargento è troppo vicino. Nessun altro animale notturno si accosterà, dopo averne sentito l'odore. Scapperanno tutti. Non hai notato il silenzio?» La Logan ascoltò e comprese ciò che intendeva dire il cacciatore. I soliti suoni notturni, i fischi e i cicalii, gli squittii ed i ronzii, frammischiati di tanto in tanto a qualche ruggito gutturale, non si udivano più. Solo lo sgocciolio ininterrotto della pioggia, punteggiato da qualche refolo vagabondo di vento sperduto. Continuarono ad avanzare in fretta, in quello strano silenzio. «Si avvicina,» gracchiò poco dopo Ruumahum. «Lentamente, ma si avvicina.» «Mi dispiace, mi dispiace, Born,» disse nello stesso istante la Logan, ansimando, cercando di riprendere fiato. «Non ce la faccio più. Non so cosa cederà prima, i miei occhi o le mie gambe.» «Allora,» disse Born, con un profondo sospiro, prendendo la decisione che da diverse ore cercava di procrastinare, «è meglio andare subito.» «Andare dove?» Era stato Losting, a fare quella domanda. «Giù... agli altri livelli.» Né Losting né i giganti si preoccupavano se l'apparizione mostruosa, ormai vicina, udiva le loro grida. «A che serve scendere a un altro livello?» «Perderemo la luce del giorno, quando spunterà.» «Lo strisciargento ci seguirà senza difficoltà,» aggiunse Losting. «Ci seguirà in eterno. Lo sai, Born?» Born guardò il suo alleato e rivale. «Anche all'Inferno?» Quella fu la prima ed ultima volta che Cohoma e la Logan udirono un velloso lanciare un grugnito di sgomento. Losting era troppo stordito per rispondere, mentre Born proseguiva. «Non starò a discutere con te, Losting, né con gli altri. Io scenderò al
Settimo Livello, se lo strisciargento continuerà a seguirci. Scenderò, qualunque cosa ci sia laggiù.» «Laggiù c'è morte,» sospirò Geeliwan. «È morte aspettare qui, mio lucido amico,» gli rammentò Born. Poi guardò di nuovo Losting. «Sappiamo quel che farà lo strisciargento quando ci prenderà. Almeno potremo trovare un modo nuovo di morire.» «Born, lo hai detto tu stesso che scendere all'Inferno Inferiore, alla superficie, significa una morte certa,» disse sottovoce la Logan. «Meno certa che rimanere qui. Forse lo strisciargento non ci Seguirà, perché vive qui, presso la cima del mondo. Forse potrà vivere altrettanto bene tra i suoi parenti sul fondo, ma questo non lo sappiamo. Credo che questo ci offra almeno una possibilità. Comunque, non costringerò nessuno di voi a seguirmi.» Born avrebbe fatto ciò che riteneva più opportuno, convinto che gli altri avrebbero compreso la saggezza della decisione e sarebbero andati con lui. Si era sempre comportato così. E cominciò la lenta discesa verso gli abissi invisibili, calandosi in una tenebra sempre più fonda e minacciosa. Tutti gli altri lo seguirono: ma non perché rispettassero la sua superiore saggezza, come credeva lui. Lo seguirono perché in una situazione critica, gli incerti seguono sempre chi si assume il ruolo di capo. Sotto questo aspetto, Losting si dimostrò umano quanto la Logan o Cohoma. Giù, tra liane e rampicanti. Giù, tra i rami obliqui degli alberi, tra le piante parassite grosse come sequoia o ancora più grosse. Da uno di quegli alberi spuntavano mille robuste radici aeree, tutte intrecciate. Se ne servirono per calarsi giù per diversi metri, con rapidità maggiore. Lasciarono il Quinto Livello ed entrarono nel Sesto, in un mondo di vegetazione bruna e bianca e purpurea dove il verde incominciava a scomparire. Poi attraversarono il centro del Sesto Livello, poi il fondo, ed emersero in un mondo spettrale. Un mondo fiocamente illuminato dalle torce, che pareva rannicchiarsi per la paura intorno alla foresta genitrice. Un mondo di basi d'alberi Pilastri, di tronchi grandi come astronavi. Da ogni parte si levavano bastioni massicci e frastagliati. Vi erano funghi fosforescenti grossi come capannoni, che prosperavano e spuntavano in una profusione caotica di forme oscene e grottesche. E tra quei funghi strisciavano piccoli esseri luminescenti, che fuggivano la luce delle torce. Laggiù non vi era mattino e non vi era sera, non vi era né giorno né notte... solo un'oscurità perpetua che non apparteneva né al sole né alla luna. Benché i funghi fosforescenti e la vegetazione deforme emanassero una
luce che consentiva di vedere, gli umani tennero accese le torce. Era un chiarore più puro e pulito di quello che si irradiava intorno a loro. La luce gialla, rossa e bianca era un'evanescenza eterea e spettrale, che suggeriva i contorni più che le forme, creava allusioni più che descrizioni. Alla fine si fermarono alla base di un bastione costolato, l'ultima scala verso la superficie. Vi cresceva un gruppo di piante arancione a forma di virgulto, che non avrebbero mai conosciuto la logica magia della fotosintesi. Avevano raggiunto il suolo, il Settimo Livello, l'Inferno Inferiore. Eppure, sembrava che vi fosse un altro livello ancora più in basso, perché lì vicino il suolo diventava molliccio, viscido e umido, più denso dell'acqua, meno denso del fango. La Logan si fermò, respirando dolorosamente, e alzò la testa per guardare la via che avevano percorso nella discesa. Il bastione, dietro di lei, sembrava una scogliera nerobrunastra. Più sopra, si scorgevano soltanto l'oscurità e il fievole bagliore dei funghi lontani. Niente indicava che duecento metri più in alto c'era un mondo di luce e di vita verdeggiante che pulsava e frusciava nel vento e nella pioggia. Laggiù l'umidità era soffocante, sebbene solo poche gocce della pioggia notturna penetrassero fin lì. Tutto il resto era assorbito o catturato là in alto da mille milioni di bromeliacee o da altre piante che conservavano l'acqua. Quelle rare gocce servivano a ricordare agli umani che non erano morti, che esisteva ancora un mondo verde e vivo sopra quel luogo tenebroso. Anche Born levò lo sguardo verso l'alto, lungo la muraglia di legno, solida come granito. «Ruumahum?» «Continua a venire,» borbottò il velloso, dopo aver fiutato l'aria. «Ma più piano, molto più piano, quasi prudentemente.» «Noi non abbiamo tempo per essere prudenti.» Born si rivolse alla Logan e a Cohoma, e indicò la palude che si stendeva intorno a quella piccola penisola asciutta. «Non so niente di questo. Eppure dobbiamo andarcene di qui prima che la rabbia dello strisciargento vinca la cautela.» Lunghi attimi preziosi trascorsero mentre i quattro umani consideravano il problema. La Logan passò una mano, su e giù, lungo uno dei tronchi arancione che spuntavano dove i contrafforti del grande albero entravano nell'acqua. Sembravano simili a canne di un color rosso-arancio vivo, sebbene non appartenessero sicuramente alla famiglia delle canne. La donna sguainò il coltello d'osso e provò a incidere quella sostanza. Si tagliava, ma non era facile. La fibra era densa, non polposa o intrisa d'acqua: ma loro avevano le asce. «Born, vedi se riesci a trovare qualcosa che
possa servire come corda. Viticci o qualcosa del genere. Credo che con questi potremo fare una zattera decente... una macchina per viaggiare sull'acqua, se li disponiamo a due strati trasversali.» Lavorarono così in fretta che fu un miracolo se nessuno ci rimise un braccio o una gamba. I tronchi arancione, quando venivano abbattuti, esalavano un odore ammorbante di cipolla marcia. Il lavoro di costruzione procedette regolarmente quando Born e Ruumahum tornarono portando, avvolte addosso, spire e spire di una viscida pianta acquatica grigia. La Logan e Cohoma disposero i "tronchi" e li tennero fermi e insegnarono a Born e a Losting come e dove andavano fissati i legami. Ruumahum e Geeliwan, intanto, montavano la guardia da un contrafforte più in alto. I loro periodici grugniti gutturali di avvertimento, lanciati dai bastioni, indicavano che lo strisciargento continuava a scendere, con la stessa lentezza innaturale. Nessuno si stupiva della cautela del mostro. Alla Logan, tuttavia, venne in mente di chiedere all'improvviso: «Born, non abbiamo chiesto permesso, non abbiamo emfolato o quel che è, vero? Non è contrario alla vostra religione, o ai vostri principi morali?» E indicò i tronchi abbattuti. «Non sono della foresta, del mio mondo.» Born aveva l'aria disgustata. «Sono una specie di vita con cui provo solo una lontana affinità. Non posso emfolare con loro. Non c'è niente con cui emfolare.» «È finito,» annunciò a voce alta Cohoma, costringendo la Logan a rimangiarsi le altre eventuali domande. Per quanto fosse affascinante la questione ancora irrisolta dell'emfol, era più importante la sopravvivenza. Un grido li raggiunse. «Presto, Born!» Era di nuovo Ruumahum. «Ci vede. Ora viene in fretta.» Dopo pochi secondi, i due vellosi li raggiungerò alla base del bastione. Avevano il pelo irto sul collo, e guardavano continuamente in alto. Anche la Logan e Cohoma alzarono lo sguardo, ma non scorsero nulla. Gettarono a bordo il loro modesto equipaggiamento, poi i due vellosi salirono. Non c'erano problemi di spazio. La zattera era abbastanza ampia da ospitare un numero doppio di umani e di vellosi. Cohoma, Born, la Logan e Losting spinsero, sollevarono e spinsero. La zattera non si mosse. «Ruumahum, Geeliwan,» disse Cohoma, «spostatevi un po' verso l'altra estremità della zattera!» I vellosi obbedirono e, quando gli umani spinsero di nuovo, la zattera scivolò facilmente nella poltiglia bruna. Per prima cosa, Cohoma controllò la profondità di quel liquame. La sezione della canna affusolata sparì, fino a quando immerse il pugno. La pro-
fondità era sufficiente. Il liquido denso non permetteva di remare rapidamente, ma per la stessa ragione sosteneva meglio la zattera improvvisata. Tutti spingevano furiosamente, ma l'avanzata venne ostacolata all'inizio da Born e Losting, i quali non avevano la più vaga idea di come si facesse a remare. Tuttavia impararono presto. A velocità crescente, si portarono a una considerevole distanza dalla riva. Sopra di loro, il cielo nero si inarcava altissimo. Era come remare in silenzio attraverso un'immensa cattedrale buia. La vegetazione che cresceva sulle piccole fasce di terra emersa e sui tronchi degli alberi morti e vivi era folta, ma lì non sembrava esistere la furibonda esigenza di raggiungere gli spazi aperti, poiché era inutile cercare il sole. «Dov'è l'albero da cui siamo scesi?» chiese la Logan. Si voltò a guardare nella direzione da cui pensava che fossero venuti. Oltre una certa distanza tutto pareva eguale, poiché la luce dei funghi fosforescenti non giungeva lontano. Poi vide la cosa, e comprese da quale tronco erano discesi, e che cos'era uno strisciargento, e urlò. Si fermò quando giunse alla base del bastione, o almeno, la parte anteriore si fermò. Il resto si estendeva ancora su, lungo l'albero, su e su nelle tenebre, per una distanza sconosciuta. Il suo corpo aveva uno spessore pari a un quinto dell'albero Pilastro. Sembrava una foresta animata: il corpo cilindrico era irto di migliaia di ciglia indipendenti e frementi, del colore dell'antimonio levigato, che si protendevano e afferravano l'aria. La testa era un orrore rigonfio, la creazione di una natura aberrante. Innumerevoli bocche pulsanti costellavano quella testa globulare, e i denti grigi spuntavano in ogni direzione. Intorno alle bocche crescevano tentacoli senza un ordine apparente, e il muso nauseante era abbondantemente butterato di chiazze nere che potevano essere occhi. L'orrore lanciò sommessi suoni miagolanti, assurdamente fievoli. Poi questi si trasformarono in un sonoro chioccolio pigolante che pervase Cohoma e la Logan di brividi gelidi. La testa si sporse per parecchi metri sopra l'acqua, oscillò lentamente da una parte e dall'altra, come se fiutasse la superficie. Poi sì rialzò. Sebbene i dischi neri fossero rivolti in tutte le direzioni, Cohoma ebbe la sensazione che guardassero proprio loro. «Oh, mio dio, mio dio,» gracchiò la Logan. «Ci ha visti.» «Non così... non così...» gemette Cohoma. «State zitti e... come dite, voi? Remate!» ringhiò Born, a denti stretti, benché fosse spaventato non meno dei giganti e il sudore gli imperlasse la
fronte. Avevano percorso un buon tratto con la zattera, ed erano ormai abbastanza lontani sull'acqua. Ma lo strisciargento li aveva seguiti anche all'Inferno. Born sentiva che non era disposto a rinunciare alla preda. Il mostro si protese verso di loro, miagolando sonoramente. Metri e metri di quel suo corpo apparentemente interminabile fluirono con movimenti sussultanti giù per il tronco del Pilastro e lungo il bastione, e la coda non si vedeva ancora. Per il momento, però, non cercava di avventurarsi a nuoto: si allungava invece verso sinistra, in direzione delle radici dell'albero gigantesco più vicino. Born vide, con un senso di disperazione, che muovendosi in quel modo lo strisciargento sarebbe riuscito presto a strapparli alla falsa sicurezza della zattera senza neppure toccare l'acqua. Anche Losting lo capì, e insieme i cacciatori cominciarono a cercare freneticamente un crepaccio, un'apertura alla base di uno degli enormi tronchi, un rifugio dove nascondersi, anche se la forza dello strisciargento era tale che avrebbe potuto sventrare persino quei tronchi enormi, per catturarli. Dietro di loro risuonò uno sciacquio, come se un bambino fosse entrato in una vasca di grasso di bruchiere. Poi l'acqua esplose, vomitando una sagoma demoniaca colossale, incredibilmente enorme. La cosa occupava tutto l'ampio bacino d'acqua che essi avevano appena attraversato. Il colosso li ignorò, esattamente come Born avrebbe ignorato una foglia che gli fosse caduta sul capo nella foresta. Non erano degni della sua attenzione. Lunghe zampe snodate, dagli artigli grossi come alberelli, scattarono piantandosi intorno alla forma fremente dello strisciargento. Un unico occhio, più grande della lancia dei giganti, lampeggiò per un istante fra quelle zampe unghiute. Ciò che gli umani poterono vedere del corpo emerso dall'acqua era un pazzesco ibrido tra sacro e profano. Perché era incrostato di gemme, smeraldi e zaffiri, topazi e tormaline, disposti in motivi intrecciati di luminescenza naturale. Era straordinariamente bello, orribile, terrificante. Tutti caddero, si aggrapparono stretti ai tronchi arancione e alle funi grigie, mentre la zattera cominciava a ondeggiare violentemente, presa dalla turbolenza generata da quella battaglia titanica. Born non sapeva nuotare e cercò di immaginare se stesso che respirava l'acqua: poi decise che avrebbe preferito finire divorato. Sembrò che fossero trascorse parecchie ore, quando finalmente il rollio cessò. Born riuscì ad alzare la testa, e la prima cosa che vide furono Ruu-
mahum e Geehwan in piedi, fianco a fianco, in fondo alla zattera. I due vellosi fissavano l'acqua dietro di loro. Born, a fatica, si mise in ginocchio. Non c'era nulla, adesso, dietro di loro, tranne il silenzio... il silenzio e le lontane sagome fosforescenti dei funghi e dei licheni deformi, illuminati dalla fredda luce interna. E in distanza si udiva uno smorzato suono gorgogliante, come avrebbe potuto produrlo un bambino soffiando nell'acqua. Dello strisciargento e della creatura nata dall'inferno che si era levata per contrastarla non c'era più traccia. La Logan si levò a sedere, emotivamente e fisicamente esausta. Si ricacciò i capelli dagli occhi e cercò di controllare il battito del proprio cuore, ma senza riuscirvi. Born l'osservò per un momento, poi ritrovò il remo dove l'aveva infilato tra due tronchi, e riprese a remare. «Da che parte, Jancohoma?» chiese. Non ottenne risposta. «Jancohoma, da che parte?» ripeté, alzando la voce. Cohoma estrasse la bussola, e si accorse che la mano gli tremava troppo per consentirgli una lettura. Si afferrò il polso destro con la mano sinistra e guardò il quadrante luminoso. «Meglio... meglio girare un po' più a destra, Born. Un po' più... un po' più... Losting, non cominciare ancora a remare. Ecco, su, adesso remate insieme.» Si fecero forza per non pensare a ciò su cui stavano forse passando, a ciò che poteva venire destato da un tocco di remo. Erano quasi troppo stanchi per preoccuparsene. La Logan si distese riversa sui tronchi fetidi e guardò il minuscolo universo formato dalla vegetazione fungiforme che cresceva penzoloni dalla parte di un grande ramo, lassù. «Chi avrebbe mai pensato che l'inferno fosse tanto bello.» La sua espressione cambiò. Si girò bruscamente a guardare Cohoma, seduto dietro di lei, con la testa fra le braccia tremanti. «Jan, se incontriamo un'altra zattera, chiediamo indicazioni al pilota, anche se è accompagnato da un cane con tre teste.» «Non mi piacciono i cani,» rispose secco Cohoma. A giudicare dal suo tono, si sarebbe potuto credere che avesse preso sul serio quel suggerimento. Non vi fu un'aurora che venisse a portare serenità al gruppetto di umani e vellosi a bordo della piccola zattera arancione tra le torri lignee, sotto un cielo nero tempestato di pseudostelle. In quello che sarebbe dovuto essere il mattino del giorno seguente, vennero attaccati due volte nel volgere di quindici minuti. Non videro nulla fino a quando furono aggrediti. Per fortuna, nessuno dei due esseri era più grosso di un uomo. Non incontrarono
nulla che si avvicinasse per dimensioni al colosso corazzato che aveva assalito lo strisciargento. Il primo attacco venne dall'aria: un essere a quattro ali, dalla lunga bocca piena di denti ad ago. Scese silenziosamente in picchiata su di loro dalle radici altissime di un grande albero. Gli enormi occhi rotondi diedero a Losting il tempo di lanciare un grido d'allarme. L'essere mancò completamente la prima picchiata e virò, ansando come un vecchio. I cacciatori stavano già preparando gli spegnitori, per usarli alla seconda picchiata, ma non fu necessario. Alzandosi sulle zampe posteriori, Ruumahum batté insieme le poderose zampe anteriori e le chiuse su una delle ali. L'essere lanciò uno strido, afflosciandosi sulla zattera. Le lunghe mandibole sbatterono freneticamente, fino a quando Geeliwan sfracellò il cranio del volatore con un unico colpo di zampa. Si erano appena sbarazzati della carcassa quando qualcosa che sembrava un ananas con sedici zampe lunghe e sottili cercò di arrampicarsi a bordo. Le asce si alzarono e si abbatterono sugli arti snodati fino a quando il carnivoro, storpiato e mutilato, si lasciò scivolare di nuovo nel fango. «Le luci interne possono attirare altri esseri della stessa specie a fini di accoppiamento,» osservò pensierosa la Logan, «come avviene presso certi pesci abissali sulla Terra e su Repler. Ma possono anche attirare i predatori. Born, Losting, spegnete le torce.» I cacciatori sembravano dubbiosi. Un uomo sorpreso senza torcia dalla notte nella foresta primordiale non aveva possibilità di vedere i suoi nemici, ma la Logan e Cohoma riuscirono a persuaderli a tentare. Riluttanti, i due tolsero i globi protettivi e immersero le torce nell'acqua, ma non prima di averne preparate altre due, per prudenza. Ma queste non vennero usate. A luci spente, i loro occhi si abituarono al fioco chiarore che emanava dalla vegetazione fosforescente, e che era sufficiente a vedere dove andavano, tra i tronchi che sostenevano il mondo sovrastante. E non vennero più aggrediti. Viaggiavano ormai da parecchie ore a bordo della zattera quando Born ebbe sete. Si inginocchiò e piegò la testa sull'acqua fangosa. «Aspetta, Born!» gridò la Logan. «Può essere...» L'avvertimento era superfluo. Born arricciò il naso, colpito dall'odore nauseante. Non aveva lauree, né una conoscenza avanzata della biochimica. Ma l'olfatto gli diceva che la sostanza su cui scivolavano non era potabile. E lo riferì agli altri.
«Non mi sorprende,» commentò Cohoma. E guardò verso l'alto. «Il conto batterico, in questa palude, deve essere astronomico. Se pensi quante tonnellate... tonnellate di sostanze animali e vegetali già in decomposizione cadono ogni giorno su ogni chilometro quadrato della superficie... e poi pensa al calore soffocante che c'è quaggiù.» Si asciugò la fronte. «E la pioggia quotidiana. Questo mondo è costruito su un mare di torba e di concime profondo chissà quanto!» «Evidentemente gli alberi, nonostante le loro esigenze enormi, non sono in grado di assorbire tutta la pioggia,» opinò pensierosa la Logan. Tornò a distendersi sulla zattera e fissò il tronco della pianta che stavano superando sulla destra. Aveva una circonferenza un po' inferiore a quella di un mercantile interstellare. «Mi piacerebbe sapere come fanno alcuni di questi emergenti alti mezzo chilometro a succhiare l'acqua dalla superficie ed a pomparla fino a quell'altezza.» «Non vorrei superare la stazione con questa zattera prima di risalire,» osservò all'improvviso Cohoma. «Conosciamo la direzione, ma non abbiamo la possibilità di stimare i progressi quotidiani.» «Born e Losting sanno valutare le distanze.» Cohoma sorrise. «Sicuro, sui sentieri tra gli alberi. Ma qui no.» Indicò la zattera, poi si volse verso Born. «Cosa ne pensi?» gli chiese. «Non abbiamo maggiori probabilità lassù anziché qua sotto, se non scegliamo un rifugio sbagliato, la prossima volta che vogliamo farci un sonnellino?» «Ho continuato a cercare una buona strada per salire, da quando abbiamo lasciato la dimora del demone della superficie,» rispose il cacciatore. «Comunque, dobbiamo ritornare presto al mondo. Vedi?» Indicò più avanti, mentre Losting continuava a remare, torvo, scrutando le radici ciclopiche ed i bastioni, nella speranza di trovare qualcosa che anche i giganti potessero scalare. Mentre Cohoma e la Logan guardavano ad occhi spalancati, Born piantò il calcagno nel tronco arancione. Apparve un solco poco profondo. Allora alzò la gamba e abbassò il calcagno di colpo. Il piede affondò fino alla caviglia nella massa arancione. Quando lo tirò fuori, dalla falla scaturì una suppurazione brunogiallastra. Il buco non si riempi. «Cosa avevi detto a proposito dell'azione dei batteri e della decomposizione, Jan?» mormorò sardonicamente la Logan. Si voltò a scrutare il paesaggio incredibile e luminescente che passava lento intorno a loro. «Ha ragione Born: se non troviamo presto un punto per sbarcare, la zattera si disgregherà sotto di noi.»
La densa brodaglia fangosa della superficie lambiva già le loro caviglie quando Losting individuò finalmente una possibile scala. C'era una penisola formata dalla massa contorta d'una grande radice che si stendeva orizzontalmente nell'acqua prima di affondare. Invece di salire verso il cielo per un centinaio di metri in un precipizio verticale, la radice s'incurvava dolcemente per congiungersi al tronco centrale. Remando energicamente, fecero arenare la zattera malferma sulla spiaggia di legno duro. Appena in tempo, perché anziché resistere o scheggiarsi, la parte anteriore si disgregò a quel contatto. Un rapido esame mostrò che non avrebbe potuto trasportarli ancora per più di un chilometro. Quasi tutti i tronchi erano per metà putrefatti. Peggio ancora, i lacci grigi reperiti da Born erano spariti quasi completamente. Se fossero rimasti ancora sulla zattera, avrebbero incontrato una fine rapida, quando i legami avessero ceduto e i tronchi si fossero sfasciati sotto il loro peso. Sulla facile rampa costituita dalla grande radice curvilinea trovarono sporgenze e appigli che avrebbero aiutato la scalata. Comunque, la salita sarebbe stata molto meno semplice della loro rapida discesa. Cohoma espresse i sentimenti della Logan, oltre ai propri: «Dobbiamo arrampicarci su quello"!» «Tutti gli uomini possono volare,» osservò Born. «Ma purtroppo, in una sola direzione... verso il basso. Purtroppo dobbiamo salire. Losting ed io vi precederemo per cercare la strada più agevole, in modo che anche un bambino potrebbe salire sicuro. Voi ci seguirete.» Si rivolse ai vellosi: Geeliwan sbadigliò rumorosamente mentre lui parlava. «Seguite da vicino gli amici. Non lasciateli cadere,» ordinò. «Capito,» sbuffò Ruumahum. «Seguire vicino. Pensiamo noi.» La testa massiccia si girò per dare un'ultima occhiata pensierosa, mentre le zanne bianche luccicavano nella fosforescenza nebbiosa che li circondava. «Andate ora. Qualcosa viene.» Se mai la Logan o Cohoma avevano pensato di discutere sulla scelta della salita, il laconico avvertimento di Ruumahum fu sufficiente a farli avviare in fretta. «Ci hanno lasciati in pace da quando abbiamo spento le torce,» sbuffò la Logan. «Perché qualcosa dovrebbe attaccarci all'improvviso proprio adesso? Credevo che non ci fossimo più fatti notare.» «I vostri occhi si sono abituati alla luce di qui,» le gridò Born. «Guardatevi.» La Logan abbassò lo sguardo sulle proprie gambe indolenzite, e si senti
mancare il respiro. Scintillava come mille minuscoli laser. Le gambe, i piedi, il tronco luccicavano di luce propria, gialla e cremisi. Come se avessero una vita autonoma. Tese le mani davanti a sé, e vide la radiazione fotonica diffondersi alle braccia. Poi sentì un lievissimo formicolio sul volto, e si passò freneticamente le mani sugli occhi, sulle narici, sulla bocca. Riuscì a reprimere il panico quando il leggero formicolio non si intensificò più. Adesso risplendevano anche Born e Losting. Vide che Jan la guardava: quel viso elettrificato pareva rispecchiare il suo. Dietro di loro, Ruumahum e Geeliwan erano folgori guizzanti. Un muggito agghiacciante riverberò in lontananza, alle loro spalle. Tutti raddoppiarono d'impegno. La scalata non era difficile, da un punto di vista tecnico: ma era ardua e sconvolgente. Alla Logan pareva che stessero salendo da giorni, non da ore. Ad un certo punto l'aria si fece più buia, per lunghi istanti, via via che i funghi, i licheni e i muschi luminescenti diventavano sempre più rari. Un'altra dozzina di metri e la prima luce giunse loro dall'alto, il debole, tenue sondaggio di un sole lontano. Nello stesso istante, la luminescenza acquisita li abbandonò. La Logan rallentò per esaminarsi le palme luccicanti. Le luci infinitesimali guizzarono e fluirono, poi cominciarono a svanire dalla pelle, in una nube minuscola: lucciole incredibilmente piccole, punti di luce vivente. L'agghiacciante muggito si era ormai disperso dietro di loro, ma non era strano che per qualche tempo fossero divenuti selvaggina. I miliardi di punti luminiscenti che si erano raccolti lentamente su di loro dovevano aver trasformato le sagome in movimento degli umani e dei vellosi in profili fiammeggianti nell'oscurità, in fari che attiravano i predatori fotosensibili. Un altro abbinamento simbiotico, pensò la donna. Quel mondo ne offriva centinaia e centinaia, in luoghi unici e inaspettati. Salirono in mezzo ad una vegetazione sempre più fitta, non più costituita da funghi, ma dei precursori stigie delle piante vere e proprie. Le prime ombre pallide, formate dalla luce del sole, furono come l'esaudimento delle loro preghiere. Prima scalarono le radici aeree che pendevano aggrovigliate dagli alberi e dai rampicanti parassiti più grossi, poi quelle delle epifite e dei cespugli minori. Infine arrivarono tra le prime foghe, dischi enormi appena sfumati di verde. Alcune avevano un'ampiezza di cinque o sei metri, ed erano capaci di cogliere anche il minimo barlume di sole. A quel livello i funghi prosperavano ancora, ma erano ridotti a dimen-
sioni accettabili, non più minacciose... non erano i colossi d'incubo del Settimo Livello. Felci gigantesche, edere e briofite inclassificabili predominavano ancora, senza lasciar posto alle piante fiorite. «Vi prego, fermiamoci qui,» supplicò esausto Cohoma, sedendosi su un largo tralcio, rivestito da un'edera dalle foghe a forma di rombo. «Per un minuto, un minuto soltanto, vi prego.» La Logan si lasciò cadere accanto a lui. Born si voltò a lanciare un'occhiata interrogativa a Ruumahum. Il velloso guardava giù, lungo la ripida salita, con le orecchie protese in avanti e in basso, e ascoltava intento. Poi si voltò. «Non arrampicatori, non seguono. Pericolo andato.» Dopo un intervallo che a Cohoma sembrò di pochi secondi soltanto, Born provò la saldezza d'una radice pendula. Uno strattone, e il cacciatore cominciò a issarsi su per quella formazione a spirale. Losting lo seguì, con lo spegnitore che gli sbatacchiava sul mantello. Cohoma guardò la collega, mormorò qualcosa d'altro che Born non avrebbe compreso e si mosse. La Logan sospirò, si alzò e cercò di liberarsi dell'intorpidimento del collo. Si accorse che in quel modo riusciva soltanto a sforzare dolorosamente gli altri muscoli. Si afferrò alla radice e cominciò ad arrampicarsi. Ruumahum e Geeliwan scelsero un percorso diverso. Altre ore di ardua arrampicata li portarono in mezzo a qualcosa che sembrava un crepuscolo nebbioso: lì, finalmente, potevano vedere senza socchiudere gli occhi. Questa volta fu la Logan a dichiarare che non ce la faceva a continuare. Born e Losting si consultarono, mentre i due giganti si lasciavano cadere su una distesa di foglie rettangolari, così spesse che sembravano piccole scatole. «Benissimo,» disse loro Born. «Passeremo qui la notte.» «La notte?» chiese stupito Cohoma. «Ma quando lo strisciargento ci ha costretti a fuggire da quell'albero era già notte.» «Devi imparare a leggere la luce,» rispose Born. «Il sole sta morendo, non sbocciando. Abbiamo viaggiato per il resto della notte, e abbiamo continuato la fuga il giorno seguente. Ci resta poco tempo per preparare un fuoco e un riparo.» «Aspetta un momento. Come fai a sapere che il sole tramonta e non sorge?» Born indicò la foresta. «Basta emfolare.» «Lascia perdere,» borbottò Cohoma. «Ti credo sulla parola, Born.» Poi cambiò espressione. «Tu e Losting avete intenzione di andare a caccia, op-
pure dobbiamo masticare quella specie di suola da scarpe che voi chiamate carne secca?» Born stava sganciando l'ascia. «Non ci resta tempo per cacciare, a meno che preferiate la carne fresca a un riparo.» «No, grazie,» s'intromise la Logan. «Io preferisco stare all'asciutto... Avete abbastanza tempo?» «Qui ci sono molti rami morti e foglie morenti,» rispose Born. «E siamo così in basso, nel mondo, che la pioggia comincerà a penetrare solo a tarda notte. Inoltre, questo Sesto Livello è una regione che non conosciamo. Parte della vegetazione ci è familiare, parte no. Lo stesso vale anche per i suoni, e probabilmente per coloro che li producono. La sera non è il momento più adatto per andare ad esplorare.» «Mangeremo quello che abbiamo portato con noi,» disse Losting. «Domani potremo salire al Terzo Livello e cacciare selvaggina fresca, trovare frutta e noci. Per adesso, accontentatevi di quello che avete.» «Sentite,» spiegò Cohoma, «non mettetevi in mente che volessi lamentarmi.» Ricordò che erano arrivati fin lì grazie alla curiosità e all'ostinazione di Born, non di Losting. «Il continuo cambiamento di dieta, in queste ultime settimane, è stato una specie di trauma perii mio intestino.» «Pensi che per noi sia un festino?» gli rammentò Born; poi se ne andò insieme a Losting a cercare tra i dischi verdi superati da poco quelli che mostravano segni di malattia. Cohoma si distese tra il fogliame fino a quando i due cacciatori sparirono nella massa verde. Poi rotolò su se stesso e guardò la Logan, che consultava la bussola. «Siamo ancora in rotta?» Lei alzò le spalle. «Mi pare di sì, Jan. Sai, quello che dicevi prima è vero. Dobbiamo arrivare esattamente alla stazione. Abbiamo tre possibilità di mancarla: passarle sotto, oppure troppo a destra o troppo a sinistra.» Cohoma tirò la foglia su cui stavano seduti. «Sarebbe stato meglio se non avessimo dovuto compiere quella deviazione alla superficie, maledizione.» «Era inevitabile. Cosa succede, Jan? Non ti è sembrata interessante?» «Interessante?» L'uomo ridacchiò, sinistramente. «Una cosa è studiare le aberrazioni aliene stando a bordo di una lancia, dietro a un cannone laser. Venir divorato vivo da una voce del catalogo è un'esperienza di cui farei volentieri a meno.» «Presto dovremo affrontare un altro problema, sai.» «Oh, Kimi, da te c'è sempre da aspettarsi qualche sorpresa, davvero.»
«Dico sul serio. Se non vogliamo correre il rischio di mancare la stazione, dobbiamo convincere i nostri amici della necessità di viaggiare a poca distanza dalle cime degli alberi. Dato che il loro senso delle distanze è stato sbilanciato dalla piccola regata in zattera, prima saliamo e meglio è.» «La stazione è stata costruita a poca profondità, questo è vero.» «E Born e la sua gente,» proseguì la Logan, «hanno una paura tremenda del cielo. Meno di quanta ne hanno della superficie, comunque.» Poi si fece pensierosa. «Ora che siamo felicemente sopravvissuti alla superficie, forse sarà un po' meno riluttante a salire. Ricordati, Born non sa che la stazione è situata in cima al Primo Livello. Forse si è quasi convinto che proveniamo davvero da un altro mondo. Credo sia più facile fargli entrare in testa questo, piuttosto della possibilità che qui noi abbiamo scelto di vivere nel suo Inferno Superiore.» Cohoma scosse il capo. «Mi piacerebbe capire che cos'è quella storia dell'emfol. Sembrerebbe una specie di adattamento cultuale al sottobosco.» La Logan annuì. «È sorprendente che cerchino soccorso e aiuto sovrannaturale sotto ai loro piedi? Il fondo del loro mondo è un inferno, e così è anche la parte superiore. E loro sono incastrati in mezzo, senza via d'uscita. È logico che la loro evoluzione proceda lungo linee ristrette, tutt'altro che ortodosse. In un certo senso è un peccato. Born, i capi Sand e Joyla e molti altri hanno una certa nobiltà.» Cohoma sbuffò e tornò a rigirarsi. «L'errore più grosso che può commettere un osservatore obiettivo su un mondo come questo è romanticizzare i primitivi. E nel caso di costoro, non è neppure valido. Non sono veri primitivi: sono soltanto i superstiti regrediti di gente come noi.» «Dimmi, Jan,» mormorò la donna, «si tratta veramente di regresso, oppure di progresso su di una strada aliena?» «Eh? Che cos'hai detto?» «Niente... niente. Sono stanca, ecco tutto.» CAPITOLO 11 Il pasto di dura frutta secca e di carne ancora più dura si era concluso da parecchio quando l'insonne Logan si avvicinò al punto in cui stava seduto Born. Il cacciatore riposava accanto al fuoco, con il dorso appoggiato alla mole di Ruumahum. Losting era già addormentato, all'estremità opposta del grande, rozzo rifugio. Avvolto goffamente nel mantello bruno, il suo collega sonnecchiava irrequieto.
C'era una questione importante che la Logan voleva risolvere subito. «Dimmi, Born, tu e la tua gente credete in un dio?.» «Dio o dèi?» ribatté lui, con aria interessata: la domanda non lo aveva offeso. «No, un unico dio. Un'intelligenza onnipotente e onniveggente che governa l'universo, che programma tutto e causa tutto.» «Questo comporta l'assenza del libero arbitrio,» rispose Born sorprendendola, come aveva fatto altre volte, con una risposta assai poco primitiva. «Alcuni accettano anche questo,» ammise lei. «Io non l'accetto, e non l'accetta nessuno di quelli che conosco,» disse Born. «In questo mondo ci sono troppe cose perché un solo essere possa provvedere a tutto. E tu dici che vi sono altri mondi complessi come questo?» Born sorrise. «No, non lo crediamo proprio.» Almeno lei poteva portare a Hansen quella risposta, adesso. Era un peccato. La fede nell'esistenza di un unico dio comportava una serie fissa di precetti etici e morali, su cui si basavano certe proposte e certe regole. L'anarchia spirituale rendeva difficili i contatti con i popoli primitivi. Era impossibile invocare un'autorità superiore che fungesse da fattore vincolante. Bene, quello era un problema per Hansen e per gli xenosociologi che la compagnia avrebbe deciso di mandare per trattare con il popolo di Born. La Logan fece per allontanarsi, poi esitò Se avesse potuto almeno piantare quel seme nella mente di Born... «Born, hai mai pensato che abbiamo avuto una fortuna incredibile, in questo viaggio?» «Non mi pare sia una fortuna andare a dormire nell'albero d'uno strisciargento.» «Ma ci siamo salvati, Born. E ci sono state dozzine... molte dozzine di volte in cui potevamo venire uccisi tutti. Eppure non abbiamo avuto neppure una ferita da poco, a parte i soliti graffi.» Quelle parole indussero il cacciatore a riflettere per un minuto, come lei sperava. Finalmente Born mormorò: «Io sono un grande cacciatore. Losting è un buon cacciatore, e Ruumahum e Geeliwan sono saggi ed esperti. Perché non doveva andare come è andata?» «Non ti sembra strano, dato nessuno della tua gente si era mai allontanato per più di cinque giorni dalla Casa?» «Non siamo ancora arrivati a destinazione, né tornati indietro,» ribatté lui, tranquillo.
«È vero,» ammise la donna, tornando verso il suo angolo. «Quindi tu non credi che questo indichi l'intervento di una presenza provvidenziale e soccorrevole, come un dio? Uno che sa sempre ciò che è meglio per te e che veglia su di te?» Born la guardò con aria solenne. «Non ha vegliato su di noi quando sono venuti gli Akadi, ma ci penserò.» E le voltò le spalle. Era riuscita a piantare il seme. Soddisfatta di questo e di ciò che avrebbe detto Hansen in proposito, si arrotolò nel mantello e chiuse gli occhi. Alla stazione, certo, non c'erano missionari che l'avrebbero ringraziata. La Stazione non era precisamente un'iniziativa benedetta dalla Chiesa. Lo sgocciolio ininterrotto della pioggia che scendeva fino a quel livello, attraverso un milione di foglie, di petali e di steli, formava un ritmo di nenia sul tetto del riparo, e le permise finalmente di addormentarsi. «Dobbiamo salire in cima al Primo Livello, Born,» insistette il giorno dopo la Logan. Born scosse il capo. «È troppo pericoloso viaggiare tanto nel cielo.» «No, no,» spiegò lei, esasperata. «Non è necessario che ci affacciamo all'aria aperta. Possiamo restare a una profondità di venticinque metri buoni,» e tradusse quella misura nella relativa percentuale di livello. «Sotto le foghe più alte. Nessun diavolo celeste se la sentirà di tuffarsi in mezzo a quello strato di vegetazione per catturarci.» «Il Primo Livello ha i suoi pericoli,» ribatté Born in tono difensivo. «Sono più piccoli di quelli del livello della Casa, ma più svelti, più difficili da scoprire e da uccidere prima che colpiscano.» «Senti, Born,» tentò di spiegare Cohoma, «potremmo non trovare affatto la stazione, se viaggiamo al di sotto di quel punto. È fatta di materiali inseriti nello strato superiore della foresta, ma non a grande profondità. Se la manchiamo e siamo costretti a cercare di tornare indietro, ci confonderemmo al punto che non riusciremmo a trovarla mai più. Continueremmo a vagare in questa giungla per anni.» Per dare maggiore forza alle proprie parole, afferrò la bussola e la mostrò di nuovo a Born ed a Losting, come se quelli ne avessero saputo comprendere il principio. «Vedete questo nostro ricercatore d'orientamento? Funziona meglio la prima volta che ve ne servite per cercare un posto. Ma diventa sempre meno utile ad ogni fallimento successivo.» Born finì per arrendersi, come aveva immaginato la Logan. Il cacciatore iconoclasta aveva due sole possibilità: seguire subito il loro consiglio, o
provocare l'insuccesso del viaggio. Dopo tutto ciò che avevano passato, lei non credeva che Born avrebbe optato per la seconda evenienza. Quindi continuarono a salire, questa volta gradualmente: non in una arrampicata verticale che straziava i muscoli, ma obliquamente. In questo modo, avanzavano mentre salivano attraverso il Quinto Livello, il Quarto, il Terzo. La Logan sentiva che i due cacciatori esitavano ad abbandonare quell'ambiente relativamente familiare per i pericoli e le incertezze della parte superiore della foresta. Lei e Cohoma, ormai, avevano imparato a conoscere quel mondo primordiale, e i due accompagnatori non tentarono neppure d'ingannarli facendo loro credere che avessero raggiunto un livello più alto. Salirono attraverso il Secondo Livello, dove la luce solare era di un gialloverde brillante, e batteva direttamente sulla vegetazione, senza l'aiuto dei rampicanti specchio. Lì il giorno era abbastanza luminoso da ricordare il sottobosco di una foresta di sempreverdi nelle zone settentrionali temperate di Falena o della Terra, spiegarono la Logan e Cohoma, mentre Born e Losting diventavano sempre più guardinghi. Poi raggiunsero il Primo Livello, tra una profusione di fiori dai colori sgargianti, intagliati, scolpiti e dipinti da una natura presa dal delirio della propria bellezza. La Logan sapeva che ognuno dei botanici bloccati nella stazione a studiare gli esemplari prelevati dagli equipaggi delle lance avrebbe dato un braccio pur di essere lì con loro. La politica ufficiale della compagnia lo vietava, data la natura ostile di quel mondo. I botanici costavano troppo. Tutte le tinte e le sfumature fondamentali si fondevano con i colori più esotici. La Logan passò davanti a un fiore dal diametro di mezzo metro, di un marrone così intenso che in certi punti era quasi porpora. I petali erano striati di un celeste d'acquamarina, e posavano su di uno sfondo di foghe dorate, metalliche. Quelle variazioni ebbre non riguardavano soltanto i colori. Un fiore ostentava petali avvolti in spirali multiple intrecciate, rosa, turchese e verde mandorla. Cohoma si affrettò a battezzarla "pianta pagliaccio". C'erano fiori che sembravano una falange di picche, fiori verdi che spuntavano da steli verdi, rami verdi che reggevano grappoli verdi. E c'erano fiori dentro ai fiori, fiori dal colore del quarzo affumicato, fiori dai petali trasparenti che sapevano di zucchero caramellato. E quello splendore, quell'esuberanza evolutiva erano eguagliati da una moltitudine brulicante di esseri non vegetali, che strisciavano, saltavano,
planavano, ronzavano e svolazzavano come sogni viventi davanti allo sguardo incantato dei due piloti della lancia. Born aveva ragione: erano più piccoli e si muovevano più rapidamente: alcuni tagliavano il loro cammino troppo fulmineamente perché fosse possibile vederli bene. Lì i cacciatori e i raccoglitori avrebbero dovuto faticare quattro volte di più per procurare la stessa quantità di cibo. Lì la competizione naturale era maggiore; e secondo i due cacciatori, era maggiore anche il pericolo. E questo spiegava perché i superstiti della nave coloniale avevano deciso di rinunciare a quel paradiso aereo per le regioni meno concorrenziali del Terzo e del Quarto Livello. Dopo avere osservato i tonanti temporali notturni dalla relativa sicurezza della stazione, la Logan pensava che la protezione offerta contro la violenza delle intemperie dai livelli inferiori doveva essere stata un altro fattore determinante di quella decisione. Un altro fattore poteva essere stato il rumore: lì infatti era assordante. Sembrava causato in prevalenza da enormi colonie di esseri esapodi, grossi all'incirca quanto una coscia umana. Lunghi circa mezzo metro, erano esili e si muovevano svelti tra i rami più radi con le zampe unghiute. Gli arti corazzati spuntavano da un corpo cilindrico e lanuginoso, che ad una estremità si affusolava in una lunga coda sferzante, e dall'altra in un muso simile a quello di un aardvark. Dietro al muso stavano i soliti tre occhi, e dietro a questi una cresta carnea flessibile, che pareva essere un organo di percezione dei suoni. Erano i mimi di quel mondo, i cacatoa esapodi, ed emettevano suoni di ogni sorta, dai fischi più acuti ad un chiocciare tenorile. Intere tribù accompagnavano la spedizione che procedeva tra i rampicanti, e lanciavano insulti e suggerimenti incomprensibili. Ogni tanto uno dei vellosi ringhiava minacciosamente, e quelli si disperdevano per ricomparire non appena ritrovavano collettivamente il coraggio, e riprendevano a rimbrottare o ad ammonire. Solo la noia riusciva a farli allontanare. C'era un'altra ragione evidente che spiegava la decisione di vivere ad un livello inferiore. Persino lì, molte dozzine di metri al di sotto delle cime degli alberi, i rami ed i rampicanti erano più sottili, somigliavano meno a strade. I tralci e le liane e le piante striscianti si assottigliavano anch'essi in proporzione. Spesso la Logan e Cohoma erano costretti a servirsi delle braccia anziché delle gambe per portarsi da un punto all'altro. Quando Borri chiedeva se erano stanchi e volevano scendere fino a un percorso più agevole, i due stringevano i denti, si tergevano il sudore dagli occhi e dalla fronte, e scuotevano il capo. Era meglio esaurire tutte le energie lì, piuttosto che rischiare di passare sotto la stazione.
Continuarono ad" avanzare, scendendo solo di tanto in tanto, quando la parte superiore della foresta si diradava troppo destando le inquietudini di Born, e salendo dove la vegetazione primordiale si protendeva più alta verso il cielo. Quella notte cominciò a piovere presto. Per la prima volta, da quando la loro lancia era precipitata, i due giganti si infradiciarono fino alle ossa, prima che i due cacciatori erigessero un riparo adeguato. Senza le centinaia di metri di fogliame a proteggerli, furono investiti da tutta la violenza dell'acquazzone notturno. Ne avevano previsto il volume e la furia, poiché avevano assistito ad altri temporali dall'interno della stazione. La cosa più sorprendente era il frastuono: la stazione era infatti isolata acusticamente. Erano discesi di una trentina di metri, nella speranza di trovare un po' di protezione: ma anche lì la foresta si squassava e vibrava. Lassù c'era un nero vento incessante, non lo zefiro sperduto e lieve che avevano incontrato al livello della Casa. Non c'era l'isolamento acustico che bloccava i fulmini e i tuoni, e il frastuono sconvolgeva il loro cervello, facendo da contrappunto alla pioggia sferzante. La Logan starnutì, pensò tristemente che i primi coloni sarebbero morti di polmonite se non avessero deciso di vivere ad un livello più protetto. Era solo un brivido di freddo momentaneo: l'umidità e il tepore costante le avrebbero evitato di prendere il temuto raffreddore. Ma quando il sole si levò fulgido tra i vapori, la mattina dopo, i due piloti erano ancora bagnati fino alle ossa. Nei giorni seguenti, grazie alle preoccupate istruzioni di Born, ed ai commenti più laconici di Losting, i due giganti furono sottoposti ad una sorta di rieducazione. Quel mondo più vicino al cielo era mortale come aveva affermato Born: ma qui la metodologia dell'uccisione abbinava la letalità alla sottigliezza dell'esecuzione. Senza i consigli e la protezione assicurati da Born, Losting e dai vellosi, i due giganti sarebbero morti già il primo giorno. Il pericolo che aveva impresso il ricordo più vivo nella mente della Logan era un frutto giallolucente. Aveva forma di clessidra, ed i suoi fiori esalavano una fragranza simile a quella del caprifoglio di primavera. L'arbusto epifita era stracarico di frutti. Born fece osservare che i tokker e gli altri mangiatori di frutta lo evitavano assiduamente. «Hanno un sapore amaro?» chiese Cohoma. Born scosse il capo. «No, il sapore è delizioso, e la polpa è nutriente e ristoratrice per il viandante affamato. Il pericolo consiste nel separare la
polpa dai semi che stanno dentro.» «È il problema di quasi tutti i frutti,» osservò il pilota. «Lo è in particolare con il frutto del piagnone,» disse Born, mentre tendeva la mano e ne coglieva uno, tranquillamente, dopo aver fissato la pianta in silenzio per un lungo minuto, notò la Logan... Aveva emfolato di nuovo. «Nessun animale del mondo ha saputo risolvere il problema,» continuò il cacciatore, rigirando tra le mani il frutto dall'aria innocua. «Solo gli umani.» Cercò lì intorno fino a quando trovò un lungo ramo morto e sottile in un arbusto vicino. Lo tranciò, ne appuntì un'estremità con il coltello. Infilò la punta nel frutto, avendo cura di non trafiggere il centro. Poi appoggiò il frutto su un ramo e con il coltello praticò alcune incisioni sulla parte opposta a quella dove aveva infilato lo stecco. Sollevò alto il ramo e cominciò a battere la parte incisa, energicamente, contro una sporgenza di un piccolo rampicante. Al sesto colpo vi fu uno scoppio dal volume inaspettato, e la Logan e Cohoma si chinarono istintivamente Alla loro sinistra si levò un ringhio violento. Ruumahum sporse il muso da un gruppo di arbusti. Quando vide che nessuno era rimasto ferito, lanciò uno sbuffo di derisione per quel comportamento così sciocco e tornò a dileguarsi. Born ritirò lo stecco e lo mostrò ai giganti. L'intera metà sinistra del frutto, dove aveva praticato le incisioni, era volata via come se all'interno ci fosse stata una piccola bomba: e infatti era esattamente così. «È così che il piagnone diffonde i semi,» spiegò Born. Tolse la buccia a quanto restava del frutto, lo tagliò a fette che porse a Cohoma e alla Logan. La donna se lo mise in bocca esitando: quella dimostrazione le aveva fatto passare un po' l'appetito. Ma non appena le sue papille gustative entrarono in contatto con il pezzo di frutto, lo succhiò e lo spremette in bocca, per liberarne il succo. Era squisito, zuccherino e un po' acidulo, come un misto di granatina e limone. «E cosa accade ai semi?» domandò poi, quando ebbe spremuto anche l'ultima goccia ed ebbe inghiottito l'ultimo pezzetto di polpa. Per tutta risposta, Born indicò in alto, verso la sinistra dell'arbusto parassita. Studiò il tronco dell'albero vicino, e poi tese la mano. I piloti si avvicinarono per guardare. Nella corteccia c'era una dozzina di minuscoli buchi, che penetravano per parecchi centimetri nel legno solido. In fondo ad ogni foro si distingueva a fatica un piccolo seme scuro, da cui spuntavano sei spine. Ogni seme aveva un diametro di circa mezzo centimetro, spine
comprese. Born ne estrasse uno con il coltello. La Logan fece per toccarlo, e il cacciatore dovette bloccarle la mano: non aveva imparato proprio nulla di quel mondo, nelle ultime settimane? La donna e Cohoma studiarono con interesse il piccolo seme; guardando più da vicino, videro che gli orli delle sei spine erano affilati come rasoi e contornati di microscopici uncini. «Capisco,» mormorò Cohoma. «I semi germogliano negli alberi. Ma come si diffondono? Il frutto si dissecca al punto che la pressione interna li lancia lontano?» «Non è possibile, Jan,» obiettò la Logan. «Se il frutto si secca, come può generare una pressione simile? No, deve esserci...» Born scosse il capo. «Il piagnone non mette radici nelle piante. Quando un animale invecchia o si ammala e perde la capacità di giudizio, la fame può spingerlo a mangiare un piagnone.» E si rimise in cammino. La Logan si fermò a dare un'altra occhiata alla serie di fori scavati dai semi nel legno compatto, poi segui il cacciatore. «Un animale cerca di mangiare uno dei frutti, addenta la polpa, fa scoppiare il sacco interno e riceve la scarica sul muso,» teorizzò lugubremente Cohoma «Se è fortunato i semi lo uccidono sul colpo. Altrimenti, è probabile che muoia dissanguato. E la carcassa serve come riserva di sostanze nutrienti.» «Jan, le piante hanno creato un equilibrio perfetto, su questo mondo. No, ritiro ciò che ho detto. Loro hanno la meglio. Gli animali sono in condizioni di inferiorità dal punto di vista del numero, delle dimensioni e dell'equipaggiamento. Mi chiedevo come avessero fatto gli antenati di Born a dimenticare tanto in fretta la tecnologia. Ora non mi sorprendo più. Come si può combattere una foresta?» La scoperta avvenne alcuni giorni dopo, e fu annunciata con l'abituale flemma dei vellosi. «Panta,» gridò loro Ruumahum. I due vellosi erano accucciati all'estremità di un lungo rampicante, relativamente sgombro. Born si illuminò. «Un Panta è un ampio spazio aperto, una depressione nel mondo. Naturalmente,» si affrettò ad aggiungere, vedendo l'espressione dei due giganti, «potrebbe essere un Panta naturale. Ce n'è una mezza dozzina in un raggio di due giorni di cammino dalla Casa.» Poi si rivolse a Ruumahum. «Quant'è grande?» «Grande,» rispose sommessamente il velloso. «E in mezzo cosa, di metallo d'ascia come barca celeste.» I tre occhi fissarono la Logan.
Senza sapere il perché, la donna distolse lo sguardo, e si rivolse invece a Born. «La stazione! Dev'essere la stazione!» «Allora ce l'abbiamo fatta. Presto.» Il cacciatore si voltò per scendere lungo il rampicante. Questa volta fu la Logan a tendere la mano per trattenerlo. «Calma, Born. Ci sono meccanismi, come la nostra bussola, che proteggono la stazione dagli abitanti della foresta e dai diavoli celesti. Nessun essere vivente del mondo primordiale la può raggiungere.» «Lo strisciargento?» domandò incerto Losting. «No, Losting, neppure uno strisciargento.» Il cacciatore insistette. «La vostra Casa-stazione è mai stata attaccata da uno strisciargento?» La Logan dovette ammettere che questo non era mai avvenuto, ma insistette nell'affermare che nemmeno quell'animale gigantesco poteva resistere a un laser girevole o a un proiettile esplosivo. I due cacciatori furono costretti a confessare che non avevano idea di quelle armi magiche. Con un sorriso represso, Cohoma assicurò loro che erano molto più tossiche delle spine di jacari. «Allora i demoni dei vostri mondi devono essere molto, molto più grossi di quelli dell'Inferno,» osservò Born, «se avete bisogno di simili armi.» «Infatti,» ammise la Logan, senza stare a spiegare che i demoni in questione erano bipedi. Inoltre, adesso che erano a poca distanza dalla stazione, c'era un esperimento che da un pezzo teneva a compiere. Guardò fissamente Ruumahum. «Bene,» disse in tono autoritario. «Guidaci al Panta, Ruumahum.» Il velloso la scrutò stranamente per un momento, poi si voltò e si addentrò al trotto fra la vegetazione. Born non disse nulla. Forse, nella sua mente, quell'evento non aveva significato. Ma per la Logan e Cohoma indicava che i vellosi potevano obbedire ai comandi di umani non appartenenti alla tribù di Born. Poteva essere un particolare importante per sistemare certe cose. Qualche altra liana, alcune foghe alte due metri e un paio di rami vennero scostati... e si trovarono sull'orlo di quello che sembrava un immenso cerchio verde, pavimentato di verde, di beige e di marrone. Il fondo del Panta era formato dalle cime di centinaia, migliaia di alberi, rampicanti ed epifite che erano stati potati per creare intorno alla stazione un "fossato" protettivo di spazio aperto, privo di possibili nascondigli. Al centro dell'anfiteatro dalle mura verdeggianti, la stazione sorgeva sui tron-
chi segati di tre alberi Pilastro che crescevano vicini, e che reggevano l'intero peso della struttura. Questa consisteva in un unico, enorme edificio di metallo a cupola: all'apice stava una grande bolla di acrilico trasparente. L'intera struttura era cinta da un ampio portico, protetto da una recinzione di rete metallica alta circa un metro. Ai quattro punti cardinali, dall'edificio centrale partiva un corridoio coperto, che terminava in una sfera di lega metallica e di plastica. Da ognuna di queste torrette sporgeva la canna tozza di un cannone laser. I cannoni, montati indipendentemente, erano girevoli, in modo che tre di essi potevano puntare su qualunque bersaglio contemporaneamente, anche a una ventina di metri dalla stazione. Un osservatore imparziale, vedendo quella spaventosa potenza di fuoco, avrebbe immaginato che il modesto avamposto esplorativo si aspettasse un invasione in forze dalla foresta circostante. In effetti, i cannoni avevano lo scopo di proteggere la stazione non soltanto dagli attacchi dei predatori locali. I "diavoli celesti" di cui i costruttori della stazione avevano veramente paura avrebbero attaccato ad alta velocità, guidati dal servizio informazioni, e armati di rescritti, ordinanze, disposizioni e regolamenti. E si trattava di armi più temibili delle zanne dei carnivori vagabondi. A metà strada fra la base della stazione e la parte superiore della foresta potata, una serie di travi intersecantisi, chiuse da robuste reti metalliche, circondava ognuno dei tronchi dei Pilastri. I cavi erano percorsi ininterrottamente dalla corrente elettrica, abbastanza forte da scoraggiare qualunque carnivoro troppo curioso che fosse riuscito a sfuggire ai sistemi elettronici di sorveglianza. Quando gli venne spiegato tutto questo, Born volle conoscere la funzione del piatto disco metallico che si trovava sulla loro destra. Un quinto camminamento, un po' più largo degli altri, andava dal disco alla stazione: un albero relativamente piccolo bastava a sorreggerne il peso inferiore. Born non riconobbe la sagoma oblunga posata sulla piattaforma per ciò che era: un parente più grande della lancia dei giganti. Le navette avevano una forma abbastanza diversa da risultare inidentificabili ai due cacciatori, così come era irriconoscibile la ragnatela di griglie e di antenne che spuntavano dai fianchi della stazione e dalla cupola osservatorio. Dietro le postazioni girevoli dei cannoni ed i camminamenti metallici, dietro la staccionata e il passaggio che cingevano la stazione stavano gli alloggi, i laboratori, gli uffici amministrativi, i magazzini, un centro comunicazioni che avrebbe suscitato l'invidia di qualunque operatore d'un pianeta
con una popolazione di un milione e passa abitanti, e poi l'hangar per le lance e i servizi assistenza, il concentratore d'energia solare e la centrale elettrica, più una schiera di camere, stanze e nicchie periferiche. Anche un viandante distratto, dotato di pochissima esperienza extraplanetaria, si sarebbe reso subito conto dell'enorme patrimonio che era stato speso per costruire quella prima stazione. «Ecco,» disse la Logan. In teoria, tutto era stato precollaudato, e le armi automatiche non avrebbero dovuto disintegrarla, prima di effettuare un controllo meticoloso sulla sua persona. In teoria. Lei non aveva mai avuto occasione di verificarlo direttamente. Adesso l'aveva. C'era un rampicante tagliato a metà che si snodava in direzione della stazione. La Logan uscì dalla muraglia verde, si avventurò allo scoperto. Immediatamente, due tozze canne girarono verso di lei. Si augurò che chi stava di turno al computer non fosse addormentato, drogato, e neppure ansioso di esercitarsi al tiro a segno. Per lunghi attimi non accadde nulla. Lei agitò le braccia, le sbatté. Cohoma attendeva, mentre Born e Losting scrutavano guardinghi il cielo aperto stringendo in pugno gli spegnitori. Altri pensieri cercavano di imporsi all'attenzione di Born. Il sogno della Casa-stazione dei giganti era una realtà. Esisteva davvero, e stava solida davanti a lui. Restava da vedere se conteneva tutte le meraviglie promesse. Per il momento, esposti com'erano ai possibili attacchi d'ogni sorta di demoni celesti, avrebbero dovuto confidare nell'efficacia del veleno del jacari, non nelle promesse. Alcune figure si mossero svelte ma prudentemente verso di loro. Mentre si avvicinavano, la Logan abbassò lo sguardo, poi lo rialzò, e vide che sulla cima della foresta potata era stato tracciato un sentiero, indubbiamente uno dei tanti. Lei era stata informata dell'esistenza di quelle vie, ma non le aveva mai imparate a memoria, perché non aveva mai immaginato di doverle percorrere. Le figure erano armate, e indossavano tute grigie dello stesso tipo che Born aveva veduto per la prima volta addosso a Cohoma e alla Logan. Quando furono più vicini, i tre spalancarono gli occhi. Quello che precedeva gli altri due si fermò davanti alla Logan e la squadrò lentamente dalla testa ai piedi, con un'espressione che era per metà d'isterismo, per metà di sbalordimento. «Kimi Logan! Che mi venga un accidente!» E scosse adagio il capo. «Avevamo perduto tutti i contatti con la tua lancia ormai da settimane.
Abbiamo mandato fuori degli esploratori, ma non hanno trovato niente. Ti sei persa una bellissima cerimonia funebre.» «Mi dispiace, Sal.» «Da quale inferno salti fuori?» «Ecco, hai detto bene, Sal.» La Logan si voltò a chiamare gli altri, nascosti tra gli arbusti. «Tutto a posto: uscite pure tutti quanti.» Cohoma uscì dalle fronde. Quando comparvero Born e Losting, l'uomo dalle basette grigie e dalla fossetta sul mento rimase temporaneamente ammutolito. «Mi venga un accidente doppio!» borbottò alla fine. La Logan gli lanciò un'occhiata, ed egli rimise la pistola nella fondina, volse di nuovo lo sguardo sui cacciatori. Born stentò a reprimere il nervosismo, sotto quell'esame attento. Inoltre, era occupato a studiare i tre nuovi giganti. Il più grande di tutti, quello che Kimilogan chiamava Sal, non era diverso da Cohoma, sebbene fosse un poco più alto e massiccio. Gli altri due erano della taglia della Logan, sebbene uno solo di loro fosse una femmina. «Pigmei, addirittura!» Sal guardò la Logan con aria interrogativa. «Indigeni,» spiegò lei con un sorriso. «Le somiglianze sono troppe perché possa trattarsi di evoluzione parallela. Non possiamo esserne certi, ovviamente, fino a quando il Settore Medico non li avrà esaminati a dovere, ma a parte pochissime differenze, scommetto che risulteranno umani quanto me e te. Secondo me e Jan, sono i superstiti di un'astronave coloniale andata dispersa secoli fa. Forse addirittura prima della fondazione del Commonwealth. Tra l'altro, parlano un ottimo terranglo, tutt'al più un po' sibilante.» Sal continuava a fissare sbalordito Born e Losting. «Mi sembra un'ipotesi logica. Furono parecchi, i primi colonizzatori che finirono nei posti sbagliati. Forse non avremmo incontrato i thranx ancora per un millennio se non fosse stato per un'astronave perduta.» Poi borbottò: «Pochissime differenze... ti riferisci alle dita dei piedi e alla statura?» La Logan annuì. «Sì. E alla colorazione protettiva acquisita. Vedi, Jan ed io abbiamo attraversato quell'inferno teorico cui hai appena accennato. Ho trascorso settimane a programmare mentalmente la cucina, per prepararmi un po' di tutto, dalle bistecche alle mentine. E non ho più fatto un vero bagno da quando siamo partiti.» «E abbiamo bisogno di abiti decenti,» aggiunse con fervore Cohoma. «Oh, Signore, un po' di biancheria pulita!» «Hansen sarà felice di vedervi di ritorno sani e salvi,» sorrise Sal. «Mi
piacerebbe vedere la faccia del vecchio, quando gli comparirete davanti con i vostri due amici. Incredibile!» «Dovresti vederlo quando gli riferiremo alcune delle scoperte che abbiamo fatto. Dovresti proprio uscire a fare un giretto, Sal. È l'unico sistema per imparare a conoscere un mondo.» «Davvero? Se non ti dispiace, è un genere di attività che lascio volentieri a voi due entusiasti.» Cohoma finse di allungargli scherzosamente una sberla. «Me ne parlate un po'?» «Spiacente, Sal,» sogghignò Cohoma. «È territorio riservato degli scopritori, lo sai bene.» «Oh, per il fuoco della Chiesa, Jan, non voglio cercare di fregarvi parte del premio. Come potrei fornire le prove, del resto? Ma sono contento di sapere che la vostra passeggiatina è stata redditizia. Il vecchio è sottoposto a pesanti pressioni da parte della sede centrale, a quanto dicono, fin da quando Tsing-ahn si è ucciso.» Cohoma e la Logan non erano così stanchi da non restare sconvolti. «Popi si è ucciso?» bisbigliò la Logan, usando il soprannome del biochimico. «È quello che dicono. Nearchose, quella specie di balena del servizio sicurezza che era in rapporti amichevoli con il prof, è stato l'ultimo a vederlo vivo. Secondo il rapporto di Nick, Popi era depresso ma non di umore suicida. Poi è partito e ha fatto saltare tutto quello che c'era nel laboratorio. Certo, quando uno diventa tossicodipendente da quella robaccia, come Tsing-ahn, non si può mai sapere cosa combinerà. La compagnia si addossa un rischio calcolato, assumendo individui del genere. Questa volta non ne è valsa la pena.» «Peccato, quell'omino mi era simpatico,» mormorò Cohoma. «Era simpatico a tutti.» Vi fu un silenzio imbarazzato: ognuno era assorto nei propri pensieri, e ben conscio di trovarsi su quel mondo a causa di qualche particolare debolezza... il danaro, le droghe, o qualcosa che era meglio non nominare. Ogni volta che l'argomento veniva a galla, veniva abbandonato in fretta e furia. Le discussioni al riguardo venivano evitate per tacito accordo. Erano ormai arrivati a metà distanza dalla stazione quando la Logan ricordò che cos'era ciò di cui sentiva la mancanza. Si voltò indietro, poi si girò verso Born. «Dove sono Ruumahum e Geeliwan?» «Hanno detto che si sentirebbero a disagio, lontano dalla foresta,» rispose sinceramente Born. «Non amano gli spazi aperti. E non avevi detto che
volevi farli venire con noi.» «Beh, non importa.» La donna guardò con rammarico in direzione della muraglia smeraldina chiazzata di fiori. Poter esibire i due esapodi onnivori come un paio di cagnolini da salotto al cospetto dell'emotivo Hansen era una soddisfazione che avrebbe voluto togliersi. Ma ormai era troppo vicina al bagno e alla bistecca che aveva tanto sognato, e non se la sentiva di ritornare nella giungla. I vellosi potevano aspettare. Onnivori... aveva immaginato che i vellosi fossero onnivori. Pensandoci meglio, però, non ricordava di averli mai visti mangiare. Oh, beh, come diceva Born, si sentivano a disagio in certe situazioni. Probabilmente preferivano mangiare in privato, e fare all'amore lontano dagli occhi dei curiosi. Comunque, le sembrava strano non aver mai visto uno di loro addentare qualcosa. Le sue riflessioni furono interrotte da un grido di Born, che era stato il primo a scorgere il demone. «Losting! Guarda allo zenith!» La Logan si sentì dì nuovo turbata, nell'udire una parola che sembrava tanto estranea al modo di vita di Born. Losting guardò in alto, e nello stesso tempo afferrò lo spegnitore. Poi la Logan scorse la piccola chiazza bruna che volteggiava ad alta quota. Anzi, le chiazze erano molte, distanti dalla stazione. Ma Born pareva aver notato un atteggiamento bellicoso, in quella. E non s'ingannava. La chiazza divenne una sagoma riconoscibile, che lei aveva sperato di non dover rivedere mai più da vicino. Ali ampie, zampe artigliate, una lunga mandibola armata di denti aguzzi. La donna non seppe reprimere un lieve sorriso di superiorità quando vide i cacciatori impugnare i loro primitivi bazooka. «Non preoccupatevi, Born, Losting. State tranquilli e osservate.» Born le lanciò un'occhiata interrogativa, ma represse l'impulso di caricare e puntare l'arma. La Logan osservò il demone che scendeva in picchiata: si avvicinava in una spirale sempre più stretta, a fauci spalancate. Non poté vedere quale delle armi perimetrali si fosse girata per coprire quel tratto del cielo fino a quando scaturì il raggio rosso da una delle torrette montate su giunti cardanici. Il demone celeste si disintegrò in una breve vampata di carne carbonizzata e di ossa sgretolate. Born e Losting fissavano in silenzio il punto del cielo dove, solo pochi secondi prima, il demone si stava avventando verso di loro. La Logan li scrutò, altrettanto silenziosa, e lo stesso fecero Cohoma, Sal e gli altri due. «È una specie di spegnitore molto perfezionato, Born. spiegò finalmente
la donna.» Non so come farvi capire... Ecco, uccide con una specie di luce. Born si voltò e indicò la torretta sferica dove stava il cannone. «Lì dentro?» «Esattamente,» disse Cohoma. «Ce ne sono altri intorno alla stazione. Grazie ad essi e alla rete elettrificata sui tronchi di sostegno, qui siamo al sicuro.» «Ricordi, Born,» continuò la Logan, animandosi, mentre riprendevano il cammino verso la stazione, «come la tua gente si era schierata per affrontare gli Akadi? Un sistema d'armi come questo,» e indicò la torretta immobile, «potrebbe venire installato intorno al villaggio, per proteggere la Casa. E non dovreste più temere gli Akadi o gli strisciargento o nient'altro.» «Debbono sparare molto in fretta e muoversi rapidamente, a una distanza tanto ridotta,» commentò Losting. «Oh, non è un problema,» spiegò disinvolto Cohoma. «Basta sgombrare un po' di spazio intorno alla Casa, come abbiamo fatto noi qui, e impiantare un sistema di rilevamento decente, e un predatore non potrebbe neppure avvicinarsi senza venire scoperto.» «Sgombrare un po' di spazio?» «Sì. Tagliare la vegetazione circostante, come avevo proposto di fare io per fermare gli Akadi. E lasciare solo qualche rampicante e qualche tralcio che fungesse da ponte levatoio. Sarebbe semplice. Noi possiamo darvi utensili simili a quelle armi a luce, che semplificherebbero il lavoro. Non avrete altro che da chiedercele, ed aiutarci a muoverci nel vostro mondo ed a trovare certe sostanze, guadagnandovi molto in fretta tutta la nostra benevolenza.» «Tagliare,» mormorò Born. «Sgombrare un po' di spazio.» «Sì, Born.» La Logan era perplessa. «C'è qualcosa che non va? Non potete prima emfolare e poi...» «Non c'è niente che non va.» L'espressione del cacciatore si illuminò. «Tante meraviglie, tutte insieme. Sono sbalordito. Mi piacerebbe molto saperne di più sulle armi a luce e sui sistemi difensivi, e su ciò che dobbiamo fare per ottenerli.» «Per quanto riguarda l'ultima parte, non spetta a noi decidere i dettagli, Born. Noi siamo soltanto dipendenti di una grande azienda, di coloro che hanno creato qui la stazione. C'è un uomo chiamato Hansen che deciderà i particolari. Lo conoscerai presto. Ma penso non sia difficile concludere un accordo vantaggioso per i nostri due popoli. Specialmente dopo tutto quello che hai già fatto per Jan e per me.»
Un ascensore li stava aspettando: li portò attraverso un portello nella parte inferiore della rete elettrificata, su fino al primo piano della stazione. Quando passarono attraverso la rete, Born, curioso come sempre, fece ancora domande sul principio che la faceva funzionare. Cohoma faticò a spiegarglielo, ma gli accenni ai lampi e ai fulmini parvero soddisfare i due cacciatori. L'ascensore portò Born e Losting in un mondo di nuovi prodigi. Il primo fu il trauma improvviso, quasi fisico, del cambiamento di colore. Il verde onnipresente, chiazzato dai fiori vivacissimi e da tutte le sfumature del marrone, venne sostituito di colpo da un mondo rigido, angoloso, d'argento e di grigio, di bianco e d'azzurro. L'unico tocco di verde, in quel tratto di corridoio, era dato da una fila di arbusti parassiti che crescevano in un fossato lungo e profondo e dividevano le varie sezioni. Born vide che i chaga non stavano bene. I fiori erano grandi e colorati, ma le foghe non erano diritte e non si protendevano verso il sole, come avrebbero dovuto. Ebbe solo il tempo di lanciare una rapida occhiata. C'erano troppe cose nuove da vedere e da cercare di comprendere. Altri giganti, impegnati in varie mansioni inesplicabili, riempivano il corridoio. Alcuni portavano indumenti ancora più strani delle tute grigie indossate dalla Logan, Cohoma e Sal. Un uomo li vide e si avvicinò a parlare sottovoce con quello che si chiamava Sal. Born lo udì chiaramente. «Hansen vuole vedere immediatamente i due indigeni. È su, nel suo ufficio.» Poi guardò la Logan e Cohoma. «E vuol vedere anche voi due.» La Logan gemette. «Possiamo almeno ripulirci un po', prima? Andre, non sai cos'abbiamo passato in questi mesi!» «Lo so. E lo sa anche Hansen. Ordini.» E scrollò le spalle, rassegnato. «Diavolo, avanti, facciamola finita,» borbottò Cohoma. «Questo umano Hansen,» chiese Born mentre si avviavano verso un altro ascensore, «è il capo della vostra tribù?» «Non è il capo, Born, e la nostra non è una tribù,» spiegò la Logan con una sfumatura d'irritazione causata dall'ordine, non dalla domanda del cacciatore. «In questa stazione stanno individui impegnati in cacce molto simili. Ma non è lo stesso genere di organizzazione esistente nella Casa. Puoi considerare gli abitanti della stazione come un gruppo di cacciatori, e Hansen li guida. Non so come dirlo meglio. Non credo che riuscirei a spiegarti che cos'è una società anonima neppure se avessi a disposizione un mese di tempo.»
«Mi basta,» rispose Born, mentre svoltavano e si avviavano per una galleria bianca, vivacemente illuminata. «È a lui che dobbiamo chiedere i cannoni a luce e le altre meraviglie per la nostra gente.» «Hai capito benissimo, Born. Sapevo che avresti capito,» dichiarò soddisfatta la donna. «Aiutateci a esplorare il vostro mondo ed a trovare certe cose che voi non adoperate, e in cambio saremo felici di donarvi molte meraviglie. È un antico principio in vigore tra la mia gente: e anche tra i vostri antenati.» E un tantino illegale, nel caso in questione, pensò, ma non glielo disse. «Che tipo d'uomo è la guida di questa schiera di cacciatori?» «Dipende da dove vieni,» rispose enigmaticamente la Logan. Sembrava disposta a spiegarsi meglio, ma erano arrivati davanti ad una porta, e Sal fece loro cenno di tacere. Aprì l'uscio e restò in silenzio, mentre i quattro entravano. Hansen sedeva dietro una scrivania stretta e curvilinea, e dava l'impressione di portarla come un'enorme cintura di plastica. Sul piano erano accatastate bobine, cassette, risme di carte e dozzine di rapporti chiusi in faldoni di similpelle. Tre pareti erano coperte da scaffali carichi di libri e da portanastri: quella di fondo era una grande finestra che mostrava il panorama del Panta e, più oltre, della foresta soffocante. Quando entrarono, Hansen stava guardando lo schermo di un visore a nastro, montato su un braccio snodato. «Un momento, prego. Jan, Kimi, sono lieto di rivedervi vivi.» Parlò senza voltarsi, in tono mite, rassicurante. La sua statura faceva risaltare maggiormente la pinguedine della mezza età. Non era molto più alto di Born. L'attaccatura dei capelli era molto alta, sulla fronte che pareva fatta di stucco scuro, e la chioma ricadeva in lunghe onde sulle spalle. A parte i baffi irti aggrappati al labbro superiore come un insetto ibernante, era completamente grigio. Hansen sudava, nonostante l'aria condizionata. In effetti, era la prima cosa che Born aveva notato entrando nella stazione: un freddo anormale, apparentemente voluto. Neppure nelle notti più fresche, nel mondo, faceva così freddo. I due cacciatori non si irritarono per l'attesa. Erano occupati a studiare la stanza e ciò che conteneva. Tuttavia, a Born non sfuggì il rispettoso silenzio con cui aspettavano la Logan e Cohoma, che pure erano stanchi e impazienti. Hansen toccò un interruttore a lato del visore, che poi spinse lontano da
sé, facendo girare il braccio snodato. Il visore si bloccò, mentre l'uomo volgeva lo sguardo sui visitatori. Teneva il braccio destro posato sul bracciolo della poltrona e con la mano sinistra si massaggiava la fronte sudata. Sembrava stanco, e lo era. Dirigere la stazione aveva fatto invecchiare prematuramente un uomo duro ed esperto come Hansen. Se non succedeva qualcosa che gli impediva di ricevere rimpiazzi perché c'era il rischio che un'astronave si imbattesse in un vascello da guerra della Chiesa o del Commonwealth, capitava una crisi di origine non meccanica. A quanto pareva, ogni volta che uno dei suoi metteva piede su quel mondo veniva immediatamente punto, morso, trafitto, azzannato o comunque aggredito dalla flora e dalla fauna locale. Inoltre, non si era ancora ripreso dalla perdita degli estratti della longevità, dei nodi che li producevano, e di Tsing-ahn, l'uomo che li conosceva meglio di chiunque altro. Se almeno quel povero pazzo non avesse distrutto così meticolosamente gli appunti e le registrazioni! La notizia del suicidio del biochimico e della contemporanea distruzione di quanto atteneva a ciò che veniva chiamato l'estratto dell'immortalità non era andata giù ai superiori di Hansen... non era andata giù affatto. Si sforzò di sorridere mentre esaminava i due superstiti della lancia precipitata. Il sollievo arrecatogli dalla loro sopravvivenza miracolosa capitava proprio al momento più opportuno. «Vi avevamo dati per spacciati,» disse loro. «Non riuscivo a credere alle mie orecchie, quando il Servizio di Sicurezza ha segnalato quattro persone sul limitare della foresta.» Aggricciò un angolo della bocca, a quel ricordo. «Mi avete causato un sacco di fastidi, voi due, sapete? Adesso dovrò rivedere tutte le pratiche con i dettagli sulla vostra morte, le richieste di sostituti, tutto quanto. All'ufficio Bilancio, qualcuno vi prenderà in antipatia.» «Mi dispiace, capo,» fece la Logan, ricambiando il sorriso. «E adesso,» sbuffò in tono espansivo Hansen, assestandosi sulla poltrona e intrecciando le mani sulla pancetta, «parlatemi dei vostri amici aborigeni.» «Ci hanno salvato la vita,» rispose la donna, in tono deciso. «E dubito che siano aborigeni. A quanto possiamo capire, sono i discendenti dei passeggeri di un'astronave coloniale che perse la strada e capitò qui. Hanno perduto il ricordo della loro origine, tutte le conoscenze dell'era del Commonwealth e pre-Commonwealth, e quasi tutta la tecnologia. Hanno creato una struttura sociale tribale piuttosto rudimentale. Come risultato, i nostri amici Born e Losting sono convinti di essere veramente originari di questo
mondo.» «E voi siete convintissimi che non lo sono.» «Precisamente,» intervenne Cohoma. «Troppe somiglianze, un'ascia fatta della stessa lega delle astronavi e altre cose. E parlano la nostra lingua., sebbene abbiano creato un dialetto tutto loro; la struttura familiare è...» «Sì, sì,» fece Hansen, interrompendolo con un cenno distratto. «Vi hanno anche salvato la vita, vero? E vi hanno condotti sin qui attraverso quell'Ade vegetale là fuori... da che distanza dite di essere arrivati?» Guardò la Logan con aria interrogativa. Lei disse una cifra, e il capo della stazione zufolò. «Solo voi quattro, allora? E avete percorso tutti quei chilometri in quell'inferno?» E indicò dietro di sé, verso la finestra. «Sì... Noi quattro, e un paio di animali molto domestici.» «È stata un'impresa estremamente coraggiosa da parte loro,» aggiunse Cohoma. «Prima di questo viaggio, nessuno della tribù si era mai avventurato a più di un paio di chilometri dal villaggio.» «Tutto ciò è molto soddisfacente... e assolutamente inverosimile. Come avete fatto a sopravvivere, per i guardiani della Chiesa?» «Talvolta me lo domando anch'io,» rispose la Logan. «Capo, posso sedermi? Sono sfinita.» Hansen scosse il capo, con aria di rincrescimento. «Dimenticavo le cose più importanti. Scusami, Kimi.» Chiamò, e sulla porta comparve Sal. «Salomon, porta sedie per tutti.» Vennero portate le sedie. Borri e Losting imitarono, con qualche esitazione, i movimenti con cui sedettero i due giganti. «Ce la siamo cavata con molta fortuna e grazie all'abilità di questi due.» La Logan indicò i cacciatori. «Born e la sua gente conoscono bene il mondo della foresta. Convivono con esso, nel pieno significato della parola. Il loro villaggio è situato in un unico albero. L'adattamento, da entrambe le parti, supera tutto ciò che mi sia mai capitato di sentire. Francamente,» disse, lanciando un'occhiata indagatrice a Born, «credo che sia l'albero a guadagnarci. Il popolo di Born, naturalmente, non sarebbe d'accordo.» Born non si incollerì per quelle parole. Non c'era da vergognarsi, se si veniva considerati inferiori alla propria Casa. Dopo tante settimane nella foresta, dopo tante ore di spiegazioni pazienti, sembrava che i giganti ancora non comprendessero. E a giudicare da quanto aveva udito casualmente fino a quel momento nella loro casa-Stazione, dubitava che avrebbero mai compreso. La disinvoltura con cui parlavano di "tagliare" e di "sgombrare lo spazio" lo aveva stordito. Tornò a concentrare la sua attenzione sul
gigante dalla barba grigia. «Sembra che sia doverosa una specie di ricompensa. Oltre ai nostri più sentiti ringraziamenti, Mr... uh, Born.» Hansen sorrise paterno. «Ditemi, Born, Losting, che cosa vi piacerebbe?» Born guardò il compagno che si agitò a disagio sulla sedia e mormorò: «Ci farebbe piacere lasciare al più presto questo posto freddo e rigido per tomaie a Casa.» Born annuì e si volse di nuovo ad Hansen. «Anch'io vorrei andarmene. Ma prima vorrei saperne di più sulle armi a luce e sui tralci elettrici e su altre cose.» Hansen si sporse un poco e studiò l'impassibile cacciatore. «Non sei un aborigeno, Born. Oh, tanto meglio. Meno siete diventati primitivi, e più sarà facile concludere negoziati. In quanto ai sistemi d'armi avanzate, ecco, dovremo pensarci sopra un po', credo. Le avrete quando avremo concluso accordi di mutua assistenza che neppure un prete riuscirà a impugnare davanti a un tribunale del Commonwealth.» «Possono esserci di grande aiuto,» intervenne Cohoma. «Abbiamo già perduto tanti dei nostri nella foresta che...» «Me ne rendo conto, Jan.» Hansen non si occupò più degli altri, per concentrarsi esclusivamente su Born. «Questo, Born, è un avamposto per l'esplorazione iniziale. È la prima casa della mia gente su questo mondo. È stata creata con grandi spese e molta segretezza perché sono in gioco tante cose. Tu sai cos'è una miniera, Born, una segheria, un impianto di lavorazione?» Born restò impassibile, senza cambiare espressione. «No, vedo che non lo sai. Cercherò di spiegartelo. Noi possiamo fare molte cose, come il materiale di questa stazione e l'acrilico di questa scrivania. Ci sono molte cose che, invece, non possiamo fare. Questo mondo, a quanto abbiamo potuto stabilire, sembra una riserva inesauribile di tali cose preziose. Ottenendo queste sostanze noi possiamo... vediamo, possiamo migliorare la vita di tutti, della mia gente e della tua. Il vostro aiuto nella realizzazione di questi progetti semplificherebbe di molto le cose.» Poi trasse un profondo respiro. «In particolare, c'è una sostanza da noi scoperta che può...» «Chiedo scusa, signore.» A interrompere era stato l'uomo chiamato Sal, che era rimasto con loro. «Crede che sia...?» Hansen gli accennò di tacere. «Il nostro amico Born non tornerà certo al suo albero per mettersi davanti ad una tridi spaziale e fare rapporto al più vicino contingente delle forze della pace del Commonwealth. Inoltre,»
continuò, tornando a guardare il cacciatore, «preferisco parlare chiaro. Voglio che i nostri nuovi amici comprendano l'importanza di tutto questo.» «C'è una droga, Born, che può venire estratta dal cuore di un certo nodo.» Born lo guardò senza capire. «Un nodo è una formazione lignea, che si crea su un albero per contenere la diffusione di un'infezione estranea o di un'infestazione parassitaria. Il nodo si forma intorno alla sostanza estranea. Quando la polpa centrale del nodo viene estratta e trattata adeguatamente, si produce un liquido che sembra avere la proprietà di prolungare enormemente la durata della vita umana. Che ne pensi, Born? Ti piacerebbe vivere il doppio?» «Non lo so,» rispose sinceramente Born. «A che scopo?» «A che scopo?» mormorò Hansen. «Bene!» Si alzò e batté le mani sul piano della scrivania. «Basta con la filosofia, per ora. Vi piacerebbe visitare la stazione?» «Mi piacerebbe moltissimo.» Losting si limitò a grugnire, indifferente. «Voi due,» disse Hansen alla Logan e a Cohoma, «tornate nei vostri alloggi. Erano stati sgomberati, ma vi farò restituire immediatamente gli effetti personali. Avete ventiquattro ore di riposo e credito illimitato allo spaccio e alla mensa. Dite al sergente Binder che avete diritto di libera scelta per i prossimi tre pasti... ordinate tutto quel che volete.» «Grazie,» risposero all'unisono i due. Hansen accennò con il capo alla folta foresta che circondava la stazione. «Aspettate a ringraziarmi quando sarete di nuovo là fuori, a cercare di capire cosa vi rosicchia la caviglia e come dovete fare per ucciderlo. Dei vostri amici mi occuperò io.» Girò attorno alla scrivania, posò amichevolmente la mano sulla spalla della Logan. «Avete a disposizione un turno completo per godervela e un altro per rilassarvi. Poi, se il Servizio Medico vi giudica in forma, voglio che prendiate un'altra lancia e vi rimettiate al lavoro.» CAPITOLO 12 Mentre attraversavano quel luogo di meraviglie, Born notò che tutti gli altri giganti mostravano nei confronti dell'umano Hansen la stessa deferenza che era dovuta ai capi Sand e Joyla. E dedusse che quando la Logan glielo aveva descritto come la guida di un gruppo di cacciatori aveva considerevolmente sottovalutato la sua autorità.
Hansen mostrò loro gli alloggi abitati dal personale della stazione, gli apparecchi per le comunicazioni, sistemati nella cupola in lega di polyplex, che tenevano in contatto la stazione con lo sciame delle lance che sorvolavano la foresta, e l'hangar dove le lance rientravano a deporre il loro carico di mappe, rapporti e nuovo materiale. «E quella lancia là fuori?» chiesa Born, indicando attraverso un vetro molto spesso la piattaforma della navetta. «Perché ha una forma tanto diversa ed è tanto più grande?» «Quella non è una lancia, Born,» spiegò Hansen. «È una navetta, e serve per viaggiare da qui alle nostre astronavi dei rifornimenti, nello spazio... un posto al di sopra del vostro Inferno Superiore. Le grandi navi che visitano i vari mondi possono viaggiare soltanto nel nulla.» «E come si può viaggiare nel nulla?» «Costruendo un piccolo mondo artificiale di metallo, come questa stazione, e portando con sé cibo, acqua ed aria.» I due cacciatori provarono stoicamente le meraviglie della mensa, dove le proteine locali venivano mescolate a coloranti ed aromi e poi modificate per produrre cibo più familiare ai giganti. La spiegazione acuì l'interesse di Born. «Adesso capisco. Che specie di cibo locale adoperate, per fare il vostro:» «Oh, tutto quello che troviamo. La strumentazione è molto versatile. Facciamo uscire una lancia munita di benna, e quella ci porta il necessario numero di chili di materia prima... vegetale e animale.» «Posso vedere come si compie questa meraviglia?» «Sicuro.» Hansen accompagnò i due cacciatori nella sala di preparazione, mostrò loro la macchina in cui le piante e gli animali prelevati nella foresta venivano lavorati insieme a costose sostanze nutrienti, vitamine ed aromi importanti. Born esaminò le balle di arbusti e di cespugli. In maggioranza erano piante grasse erbacee, cui era stato asportato il materiale legnoso, accantonato come scarto. Nessuna delle piante raccolte era andata a male, malata o morente. I giganti non emfolavano: prendevano ciò che occorreva loro, con efficienza e disinvoltura, ciecamente. Nonostante quei pensieri, il suo volto rimase una maschera entusiasta. Passarono nella sala di ricreazione, dove persino Losting rimase impressionato dalle meraviglie che servivano a futili svaghi. Poi, dopo quell'ampio giro scelto apposta per fare sensazione, Hansen condusse i due ai laboratori dove venivano effettuate le ricerche sui frutti delle molte esplorazio-
ni effettuate. Born e Losting vennero presentati a gruppi di uomini e di donne, impegnati a svolgere compiti incomprensibili. «MacKay!» Hansen chiamò una donna alta e magra, che portava un camice scuro e aveva i capelli raccolti in una crocchia. «Salve, capo.» La donna aveva la voce sommessa, gli occhi neri e penetranti. Squadrò i due cacciatori. «Interessante... qualcosa di locale che è proprio ciò che sembra, eccezionalmente.» «Questi sono Born e Losting, grandi cacciatori. Signori, ecco Gam McKay, uno dei nostri migliori... come dite voi, Born? Ah, sciamani sì, sciamani.» «Ho saputo che Jan e Kimi sono riusciti a tornare. Con l'aiuto di questi due?» «Vedrai il rapporto completo non appena si decideranno a farlo,» dichiarò Hansen. «Ora, ti sarei grato se mostrassi ai nostri amici ciò che tu e Yazid avete ricavato da quel bulbo a buccina.» La donna annuì: la seguirono in una stretta corsia fra banchi carichi di strumenti scintillanti, fino a quando arrivarono all'estremità di un tavolo. Da una parte stavano tre grandi casse, fatte della stessa sostanza trasparente delle finestre della stazione: erano piene di rami di chaga. Gli arbusti da cui erano stati tolti i rami, notò Born, erano in fiore. Ogni fronda era carica dei fiori bianchi bordati di rosso, che cominciavano ad avvizzire visibilmente. La donna chiamata McKay aprì un armadietto e ne estrasse con delicatezza una boccetta trasparente. «Questo è l'estratto distillato di circa duemila fiori.» Svitò il tappo e porse la boccetta ad Hansen, che la rifiutò con un sorriso «Born, e tu?» Gli tese la bottiglietta e gli disse di fiutare. Born obbedì. Il profumo che ne esalava era quello dei chaga, ma intensificato moltissime volte. Barcollò leggermente, ma la sua espressione non cambiò. «Lo conosco,» disse. La McKay sembrò delusa e si rivolse a Hansen, come per chiedere il suo incoraggiamento. «Lo conosce... non sa dire altro?» «Ricordati, Gam, Born vive in mezzo ai fiori aromatici, li incontra tutti i giorni, nell'andare a caccia.» La chimica continuò a borbottare sottovoce, mentre riponeva la boccetta nell'armadio. «Perché fate questo?» chiese Born a Hansen, mentre si avviavano verso un altro laboratorio. «Diluito e mischiato ad altre sostanze chimiche che lo fissano e lo esal-
tano, quell'estratto servirà di base per una nuova fragranza... che noi chiamiamo profumo. Varrà moltissimo...» Ancora una volta, Hansen tentò di spiegare a Born l'incomprensibile concetto del danaro. «Continuo a non capire. Per cosa può venire usato?» «Lo useranno le donne, Born, per rendersi più attraenti, per apparire più belle.» «Si vestono dell'odore della morte.» «Non è un'espressione un po' troppo forte, Born?» chiese Hansen, sconcertato da quel commento macabro. Cercava di capire la mancanza di comprensione del cacciatore: ma la sua spiegazione non valse a migliorare le cose. Born cercava di capire: si impegnava onestamente. E anche Losting. Ma più giravano per quella strana casa, più ne vedevano gli scopi e gli intenti, e più diventava difficile capire. Per esempio, c'erano le tre casse piene di chaga mutilati. I rami erano stati tolti senza emfolare dalle piante madri. E altre migliaia dovevano venire strappati per fare un po' di odore di chaga concentrato. E perché? Per guarire i malati o nutrire gli affamati? No, per divertimento, una specie di divertimento che sfuggiva alla capacità di comprensione dei due cacciatori. Losting non impiegò più tempo di Born, per rendersi conto di tutto ciò. Ma quando comprese, finalmente, espresse la sua opinione con meno sottigliezza del compagno. «È orribile ciò che fate!» Hansen aveva già valutato l'esplosione di Born e si era ripreso: ora affrontò diplomaticamente quella seconda protesta. «Posso comprendere il vostro punto di vista, ma voi vi rendete conto sicuramente dei vantaggi, non è vero?» Guardò prima Losting, poi Born. «Non è vero?» «Non è il fatto di prendere i fiori e i rami dei chaga... è il modo e il momento in cui li prendete che non vanno bene,» rispose lentamente Born. «Se aveste emfolato il chaga...» «La Logan mi ha già accennato a questa parola. Non so cosa significhi, Born.» Il cacciatore alzò le spalle. «Non si può spiegare. O sai emfolare, o non lo sai.» «E questo non ci semplifica le cose, vero?» chiese Hansen, un po' irritato. «Se rubate i piccoli del chaga, non avrà semi, e anche la pianta madre morirà.» «Ma deve esserci una grande quantità di chaga nella foresta, Born,» ri-
batté Hansen, con voce stranamente sommessa. «Non si sentirà la mancanza di questi.» «Tu sentiresti la mancanza delle braccia e delle gambe?» Un'espressione comprensiva apparve sul viso di Hansen. «Capisco. È della pianta che vi preoccupate, allora. Non mi ero accorto che ve la prendeste tanto per queste cose. Certo, vedremo quello che si può fare. Naturalmente, non vogliamo cogliere i fiori se la pianta ne soffre, vero?» «No,» confermò Born, guardingo. «È una cosa di poco conto, per nulla indispensabile,» continuò Hansen, facendo un cenno alla chimica che sembrava sbigottita. «È un mercato di minore importanza, cui possiamo rinunciare.» Scortò fuori i cacciatori, verso l'ultimo laboratorio. «C'è ancora una cosa che vorrei mostrarti, Born. Qui la scienza locale, la tua scienza, può esserci veramente d'aiuto. Riguarda quel tipo di nodo che produce l'estratto della longevità.» Il piccolo gruppo girò a una svolta. «Finora siamo riusciti a trovare soltanto due di quei nodi, nonostante le ricerche accanite. L'albero che li produce non è raro; ma i nodi lo sono. I miei esperti delle piante mi dicono che sono di una rarità estrema. O gli alberi sono straordinariamente sani, oppure la formazione dei nodi non è il loro metodo abituale per isolare le infezioni e le infestazioni. Se tu potessi trovarci una quantità notevole di quei nodi, Born, posso prometterti che ascolteremmo con molto favore il tuo consiglio sulle piante che dovremmo lasciare in pace e su quelle che potremo tagliare.» Hansen ammirò la propria soave professionalità e la facilità con cui maneggiava il bisturi dell'inganno. Passarono in mezzo a due uomini colossali e silenziosi ed entrarono in una camera un po' più grande di quella che avevano appena lasciato. Come le altre, anche quella era piena degli inspiegabili ordigni dei giganti. Hansen presentò frettolosamente il bruno, solenne Chittagong e l'agitato Celebes. «Come va il lavoro, signori?» concluse. Celebes rispose in un tono in cui si mescolavano la tensione nervosa e la sicurezza. «Ha letto il nostro primo rapporto di due giorni fa, signore, su quella che riteniamo la causa del suicidio di Wu?» «Ho l'abitudine di leggere persino le ordinazioni dei pasti che escono da questo laboratorio. Ancora i risultati non sono chiarissimi, ma sì, posso capire come un uomo dalle convinzioni di Tsingahn possa essere stato sconvolto violentemente da un'interpretazione inesatta dei dati... presumendo che il suo nodo presentasse lo stesso mimetismo antropomorfico di quello nuovo.»
«Anche noi la pensiamo così, signore. Eccolo là.» I due ricercatori in camice bianco li condussero davanti a un ampio banco da lavoro in fondo alla stanza. La tinteggiatura fresca luceva, apparentemente umida, nella luce delle lampade fluorescenti. Il nodo era stato nettamente tagliato a metà: le due parti erano state separate. Una era appoggiata alla parete del laboratorio, mentre l'altra era tenuta ferma sul banco da una morsa. Sul tavolo c'era una quantità di strumenti luccicanti di metallo e di plastica, raccolti intorno alla sezione del nodo come una schiera di ragni d'argento. Dall'interno del nodo erano stati estratti frammenti, collocati in recipienti di varia grandezza. La scena dava un'impressione di attività scientifica frenetica ed impegnata, interrotta all'improvviso. Nella sezione si vedeva bene lo strato esterno di corteccia nerastra, seguito dal primo strato legnoso, scuro come il mogano. Poco a poco si schiariva, fino ad assumere una tonalità di terra d'ambra, e poi diventava ancora più chiaro, come la sequoia. Ma dopo il primo mezzo metro, diveniva qualcosa che non somigliava ad alcun legno della Terra. Linee nere, ondulate, attraversavano un'orrida polpa giallorossiccia. Bizzarri noduli grigi si formavano nei punti in cui si congiungevano i tortuosi filamenti neri. Al centro del nodo stavano diversi grumi ovoidali rosa-bruno, come i semi di una mela. Lì la concentrazione della rete di fili color giaietto si infittiva. Ancora più bizzarri erano i grumi e i tratti irregolari di una sostanza bianchissima, sparsi all'interno del nodo, apparentemente a casaccio. Alcuni sembravano duri e lisci; altri parevano sul punto di sgretolarsi in polvere. Born sapeva esattamente che cos'era il nodo, anche se non ne conosceva l'inquietante contenuto. E lo sapeva anche Losting. «È da qui che prendete la vostra droga della vita?» chiese Born. «Infatti,» ammise Hansen. «Avete già visto da qualche parte questo tipo di escrescenza?» «Sì.» Chittagong e Celebes cominciarono immediatamente ad assediare di domande i cacciatori. «Dove... Quanti... Volete dire che ne avete trovato più di uno sullo stesso albero... Quanto erano grossi quelli che avete visto... E il colore... Siete sicuri che abbiano la stessa forma... La fibrosità della corteccia...» «Calma, calma. Sono sicuro che i nostri amici potranno trovarci questi alberi, ogni volta che lo vorranno. Non è vero, Born?» intervenne Hansen.
«Conosciamo questi alberi e queste escrescenze. Alcuni non hanno nodi, come li chiamate voi. Altri ne hanno molti.» I due scienziati cominciarono a parlottare tra loro. «Quanti nodi come questi vorreste?» Fu la volta di Hansen, ora, a farsi prendere dall'eccitazione. «Quanti? Tutti quelli che possiamo trovare! Possiamo estrarre un notevole quantitativo di droga da uno di questi, ma nella galassia c'è molta gente che invecchia, e non credo esistano abbastanza nodi da accontentare più di una minima parte. Useremo tutti quelli che potrete individuare. In cambio, potrete avere tutto ciò che volete, Born.» «Non faremo mai questo per voi!» gridò all'improvviso Losting. Posò la mano sull'ascia che teneva appesa alla cintura e indietreggiò di alcuni passi. «Born è pazzo e può fare qualunque cosa, ma io no.» «Neppure io lo farò, Losting,» mormorò rabbiosamente Born. «Ed è vero che vado soggetto ad attacchi di pazzia. Specialmente con coloro che non pensano.» «Che significa tutto questo, Born?» chiese Hansen, in tono tutt'altro che paterno. «Tu puoi capire la mia posizione.» Born si voltò di scatto e, per l'ultima volta, cercò di farsi comprendere dal capo dei giganti. «E tu devi capire che siamo noi, a vivere con questo mondo. Non in esso, ma con esso.» Lottava con concetti a malapena comprensibili. «Noi non prendiamo nulla, da questo mondo, che non ci venga offerto liberamente, addirittura gioiosamente. Noi prendiamo solo quando il tempo e il luogo vanno bene. Non si può vivere con un mondo se prendi quando e dove aggrada a te, altrimenti il tuo mondo muore e tu con esso. Voi dovete capirlo, e dovete andarvene. Non potremmo aiutarvi neppure se volessimo. Nemmeno per le vostre armi a luce e per le altre meraviglie. Questo mondo non è un posto per voi. Voi non lo emfolate, e il mondo non emfola voi.» Hansen trasse un profondo sospiro. «Dispiace anche a me, Born. Mi dispiace perché, vedi, questo non è il vostro mondo. Non vi siete evoluti qui, nonostante tutte le vostre dilette superstizioni sull'emfol e su tutto il resto. La vostra discendenza atavica, qui, risale a poche centinaia di anni fa, al massimo. Non avete più diritti su questo mondo di quanti ne abbiamo noi. No, ne avete meno di noi. Quando verrà il momento, faremo regolare richiesta di possesso e sfruttamento alle autorità competenti.» «Finché non ostacolerete la nostra attività, qui, non daremo fastidio né a voi né al vostro popolo. Preferiremmo mantenere rapporti amichevoli con voi, se è possibile. Se no,» e alzò le spalle, «siamo pronti a fare quanto è
necessario per assicurarci condizioni di lavoro ottimali. Speravamo che avremmo potuto collaborare, ma...» «Non troverete più neppure uno di questi nodi, senza il nostro aiuto.» «Occorrerà più tempo, costerà di più, ma li troveremo, Born. Valgono qualunque sforzo, capisci? E non sono ancora convinto che dovremo rinunciare alla vostra collaborazione. Rimane ancora da tentare qualche altro argomento.» E scosse il capo, tristemente. «Altri intralci burocratici, altri ritardi. Non saranno soddisfatti, quelli.» Hansen si voltò, in direzione dell'unica porta. «Santos... Nichi?» Le due guardie entrarono immediatamente, con le armi in pugno. «Deve esserci una stanza libera nei nuovi alloggi... nell'ala non ancora aperta. Sistemateci comodamente i nostri amici. Hanno fatto un lungo viaggio e hanno bisogno di riposo e di qualcosa da mangiare. Programmate qualcosa che vada loro bene.» Losting aveva sguainato il coltello. «Sono stanco di questo posto e dei giganti. Non voglio più restare qui.» E guardò Hansen. «Non parlerò più con te.» Quando Losting aveva sfoderato il coltello, Born aveva visto che una delle guardie gli puntava contro l'arma dalla punta trasparente. «No, Losting. Come dice il capo Hansen, dobbiamo avere il tempo di riflettere ragionevolmente su tutto questo.» «Pazzo! Profanatore!» «Questo non è il momento di usare i muscoli, Losting!» esclamò Born bruscamente. «È difficile prendere decisioni, quando si è morti. Pensa al demone celeste e alla luce rossa.» Losting guardò i due giganti che bloccavano l'uscita, poi rivolse a Born un'occhiata interrogativa. La sua espressione mutò, e abbassò le palpebre. «Sì, Born. Hai ragione. Bisogna pensarci sopra.» E ripose lentamente il coltello nel fodero di pellefoglia. Hansen sfoggiò un sorriso rassicurante. «Sono certo che tutto si chiarirà quando avrete avuto tempo di ripensare a quanto vi è stato detto e mostrato. Siete tutti e due emozionati, Born, Losting. La stazione, per voi, è un posto strano. Avete visto più cose in questa mezz'ora di quanto ne abbia viste la vostra gente negli ultimi cento anni, ne sono sicuro! Non mi sorprende che reagiate emotivamente, anziché razionalmente. Mettetevi tranquilli, mangiate a sazietà.» E lanciò un'occhiata acuta a Born. «Poi sono sicuro che ne potremo riparlare.» Born annuì e ricambiò il sorriso. Era un bene che il capo Hansen non potesse vedere nella sua mente come le macchine potevano vedere nell'Inferno Superiore.
I due giganti armati li condussero in una stanza spaziosa e comoda... comoda secondo i criteri dei giganti. Per i cacciatori, la camera e i mobili erano duri, angolosi, opprimenti. Born provò il letto, la sedia, la piccola scrivania, poi sedette a gambe incrociate sul pavimento. Losting, che stava fissando la sottile fenditura sotto la porta, rialzò la testa. «Sono ancora lì fuori. Perché mi hai trattenuto? Luce rossa o no, sono ancora convinto che sarei riuscito a ucciderli entrambi e a tagliare la gola al grassone.» «Saresti morto prima di fare due passi, Losting,» ribatté sottovoce Born. «Uno, forse, avresti potuto ucciderlo, ma...» «Ricordo il demone celeste, lo ricordo,» ribatté irritato Losting. «È per questo che non ho agito come mi suggeriva l'impulso, anche se penso che faremo la fine del demone celeste. So questo soltanto: morirò, piuttosto di aiutare questi mostri.» «Anch'io,» confessò riluttante il suo compagno. «La gigantessa chiamata Logan aveva ragione. Lei non poteva spiegarci tutto questo. Dovevamo vedere per capire. E adesso capisco, ma non nel modo che vorrebbero lei e gli altri. In un certo senso, sono rattristato. Manca loro una parte, Losting. Sono incompleti. Il, peggio è che ignorano la loro deficienza.» «Nella loro ignoranza causeranno anche più male.» «Forse. Dobbiamo pensarci bene. Non possiamo combattere la luce rossa dei giganti. Presto il capo Hansen vorrà parlare di nuovo con noi. Forse stavolta non sarà più tanto cortese. I giganti hanno strani modi di uccidere. Il capo Hansen ha accennato che hanno modi egualmente strani per convincere. Se non ci convinceranno, e non possono riuscirci, immagino che non ci permetteranno di ritornare alla Casa.» «Io mi sono trattenuto per rispetto verso di te,» borbottò Losting. «E perché spesso in queste cose hai ragione tu. Perché, allora, esitiamo adesso?» «Dammi un po' di tempo, Losting, un po' di tempo. Bisogna farlo bene, la prima volta.» Losting mormorò qualche parola incomprensibile e sedette, con le spalle contro la porta. Estrasse il coltello d'osso e cominciò ad affilarlo sul pavimento metallico. «Molto bene, pensatore pasticcione, nemico mio. Prenditi il tempo che ti occorre. Ma quando verranno a prenderci, se la tua pazzia non ti suggerirà nulla, ucciderò per primo il capo Hansen, anche se poi mi faranno a pezzi con la luce rossa.»
Born scosse lentamente il capo. «Non riesci a vedere nulla, oltre il primo impulso di rabbia, Losting? Non servirà uccidere il capo Hansen. Quando Sand e Joyla ritorneranno al mondo, verrà prescelta un'altra coppia. I giganti sceglieranno semplicemente un altro capo Hansen.» Le sillabe gli uscivano fluenti dalle labbra. «No, dobbiamo riuscire a ucciderli tutti e a distruggere questo posto.» La rabbia bollente di Losting venne momentaneamente sostituita da un totale sbalordimento. «Ucciderli tutti? Non possiamo neppure ucciderne uno solo, per salvarci. Come possiamo ucciderli tutti quanti?» «Uccidi le macchine dei giganti e i giganti moriranno. Per prima cosa dobbiamo uscire di qui.» «Non discuto,» sbuffò l'altro. «La porta è sbarrata e questo...» Colpì il pavimento con il coltello che sdrucciolò via con uno strido. «Questo è ancor più duro del legnoferro.» «Tu continui a pensare solo in termini di coraggio, cacciatore.» Born incrociò le gambe e cominciò a studiare il pavimento. «Dai tempo al mondo, e troverà da solo le soluzioni.» «Pazzo,» mormorò Losting. C'era silenzio nella stazione, la notte, mentre i suoi occupanti sognavano nelle lunghe ore di pioggia. Nessuno si muoveva, tranne gli addetti alla Sicurezza che vigilavano la foresta attraverso i monitor. Fuori dalla stazione, otto degli uomini di Salomon Cargo erano in servizio ai cannoni. Gli allarmi automatici tacevano, e quei rappresentanti isolati dell'imposizione organizzata trovavano svaghi non letali per passare il tempo. In una torretta, gli uomini si divertivano a giocare a cribbage, con una scacchiera di legnoberillo scolpita dagli artigiani thranx. Non lontano, altri due erano perduti nella lettura di manuali che descrivevano le delizie di una vacanza su un mondo oceanico lontano molte parsec. Nella terza torretta, i due cannonieri, di sesso diverso, erano impegnati attivamente a trascurare il loro dovere. Benché essi avessero mansioni paramilitari, la stazione non era una base militare, anche se il loro superiore, Cargo, la considerava tale. Eppure non si prevedeva l'arrivo di una squadra punitiva dei difensori della pace, né di un'armata lanciata da un astuto concorrente troppo bene informato. E nulla poteva avvicinarsi al di sopra delle cime recise degli alberi senza far scattare una cinquantina di allarmi. Gli otto cannonieri, perciò, stavano tranquilli e si godevano la sonnolen-
ta serenità del turno di notte, forti della certezza che angeli dalle viscere d'argento e di rame vegliavano su di loro. All'interno, atei meccanicisti complottavano per rifiutare agli dei di questi cannonieri l'omaggio loro dovuto. Placata elettronicamente la nostalgia, l'ultimo sfaccendato si addormentò nella stazione. Nei corridoi non risuonava neppure un passo. Solo, di tanto in tanto, lo scatto di un relè che si chiudeva, il ronzio dei macchinari instancabili, il sommesso sussurro dell'impianto di condizionamento spezzavano il silenzio. Non c'era nessuno che potesse incuriosirsi, quando in mezzo al pavimento di un corridoio si aprì un piccolo squarcio. Anche se qualcuno fosse passato di lì, probabilmente avrebbe creduto che il rumore fosse l'eco del tuono e che avesse vinto l'isolamento acustico della stazione. Lo squarcio si allargò, il pavimento metallico si piegò verso l'alto e all'indietro, come stagnola. Un osservatore attento avrebbe potuto scorgere il buco che si estendeva, sotto il pavimento, attraverso un metro di ferro cemento. Dallo squarcio uscirono due zampe massicce che lo allargarono fino a quando divenne abbastanza ampio per lasciar passare qualcosa di più grosso di un uomo. Si affacciò una testa robusta, dalle zanne che scintillavano nella fioca illuminazione notturna. Tre occhi brillarono come lanterne; ispezionando lentamente il corridoio deserto. La testa sparì, e dalla cavità giunse un sommesso sbuffare, simile ad una conversazione in sordina, troncata da un grugnito. Due massicce figure pelose sgusciarono nell'interno della stazione. Geeliwan si guardò intorno, rabbrividì per l'insolito freddo nell'aria, mentre Ruumahum l'analizzava cercando di scoprire qualcosa di diverso dalla temperatura. «Non sento giganti, non vedo giganti,» mormorò Geeliwan, nel linguaggio gutturale eppure dolce dei vellosi. «Ce ne sono molti vicini, dietro queste pareti,» rispose Ruumahum, in tono ammonitore. Dopo aver fiutato un'ultima volta per localizzare un odore inconfondibile, disse: «Da questa parte.» Tenendosi vicini alle pareti metalliche e ammantandosi d'ombra, i vellosi percorsero in silenzio il corridoio dov'erano entrati, e a un incrocio svoltarono in un altro. Ancora una svolta, e poi si ritrassero alla vista del gigante seduto davanti all'ultima porta. Il gigante non si muoveva. «Dorme,» mormorò tra i denti Geeliwan. «Dietro di lui l'odore è costante,» confermò Ruumahum. Lasciarono
l'angolo e si avviarono verso la porta. Ruumahum scoprì la fenditura alla base della porta. Le tre narici aspirarono l'odore dell'umano. Al di là di quella porta, Born era ancora seduto sul pavimento. Al delicato fiutare che proveniva dall'esterno, spalancò di nuovo gli occhi. Losting era sdraiato dall'altra parte della stanza, e dormiva: ma si svegliò appena Born si mosse. «Cosa...?» «Zitto.» Born si trascinò verso l'uscio, sulle mani e sulle ginocchia. Accostò il viso al pavimento, fiutò, poi mormorò cautamente: «Ruumahum?» Dall'altra parte vi fu un grugnito affermativo. «Apri la porta. Senza far rumore, se è possibile.» Il velloso ringhiò". «C'è una guardia.» Il dialogo sommesso destò finalmente la sentinella. Nonostante si fosse addormentato, quell'uomo conosceva bene il suo mestiere. Si svegliò di colpo, già pronto a frustrare l'evasione su cui aveva fantasticato. Ma non era pronto a vedersi davanti Geeliwan, che apriva le grandi fauci zannute scoprendo una doppia fila di formidabili denti affilati come coltelli e gli alitava in faccia. L'uomo svenne. «È morto?» chiese Ruumahum. Geeliwan rispose sbuffando: «Dorme profondamente.» Il velloso prese a studiare la porta insieme al compagno. «Come si apre? Non è come porte che gli umani hanno nella Casa.» Il sussurro di Born arrivò fino a loro, attraverso la porta chiusa. «Ruumahum, vicino a te c'è una maniglia, fatta come l'impugnatura d'uno spegnitore. Devi abbassarla e poi tirare per aprire la porta. Dall'interno noi non possiamo farlo.» Il grosso velloso esaminò attentamente la sporgenza. La strinse fra i denti e girò la testa secondo le istruzioni di Born. Ma Born aveva dimenticato di dire che la maniglia si sarebbe fermata al momento giusto. Vi fu uno scatto secco che risuonò nel silenzio. «Si è staccata, Born,» riferì Ruumahum, sputando il pezzo di metallo. Losting si alzò, mosse qualche passo verso il fondo della stanza. «Ne ho avuto abbastanza di questo posto, pazzo. Vieni, se vuoi.» E senza dare a Born il tempo di ribattere, ordinò: «Apri la porta, Geeliwan, subito!» Geeliwan si alzò sulle zampe posteriori, sfiorando con la testa il soffitto del corridoio. Lasciandosi cadere in avanti, spinse simultaneamente con le zampe anteriori e le mediane. Si udì uno scricchiolio, accompagnato da uno schianto simile a quello con cui si era spezzata la maniglia, ma più
forte. La sezione precompressa di lega metallica si piegò al centro e si rovesciò dentro la stanza, penzolando dal cardine inferiore. Born e Losting scavalcarono d'un balzo la barriera e seguirono i vellosi lungo le svolte di un corridoio che nessuno dei due uomini ricordava. Borbottii lontani e grida confuse si levarono attorno a loro, come da un nido di chollakee. All'improvviso si trovarono di fronte a un uomo, che apparve in fondo al corridoio come un brutto ricordo. Tese la mano verso la cintura, spalancando la bocca, e fece per estrarre un piccolo oggetto lucente. Ruumahum lo colpì con una zampa, nel passare. Il colpo di striscio sollevò l'uomo da terra e lo scaraventò contro la parete. Non si era ancora afflosciato sul pavimento quando i quattro passarono. Il velloso ruggì, terribilmente: «Questo posto ha bisogno di uccisioni,» e accennò a tornare indietro per finire la guardia. Born lo trattenne, e proseguirono correndo. «Adesso no, Ruumahum. Questi esseri uccidono senza pensare. Non cadiamo anche noi nello stesso errore.» Ruumahum borbottò sottovoce, ma proseguì. Dopo pochi istanti arrivarono nell'ampio corridoio che cingeva la stazione. Born e Losting avevano impugnato le asce, ma non ebbero bisogno di usarle. La stazione era ancora semiaddormentata, la causa del subbuglio era ancora ignorata. Ancora un minuto e arrivarono allo squarcio che Ruumahum e Geeliwan avevano aperto nel pavimento. Ruumahum passò per primo. Born si tuffò dietro di lui, a piedi in avanti, seguito da Losting. Geeliwan veniva subito dopo. Come uno sciame d'api fluorescenti, intorno alla stazione cominciarono ad ammiccare irregolarmente miriadi di luci; cominciarono a squillare gli allarmi. Nelle torrette esterne, le imprecazioni succedettero ai commenti oziosi, mentre i cannonieri si precipitavano sui loro strumenti di distruzione. Occhi umani e meccanici, acuti e bene addestrati, scrutarono lo spazio aperto intorno alla stazione, esaminarono minuziosamente la muraglia immutata della foresta. In quella zona sorvegliata con tanta tensione non si muoveva nulla di minaccioso, non si scorgeva nulla d'inatteso. All'improvviso, qualcosa apparve sullo schermo del computer, riempiendo un tratto abbastanza ampio, entro la portata della torretta nord. La cannoniera innestò i sensori elettronici e sparò. L'esplosione annientò completamente un piccolo sciame di farfalle che avevano abbandonato la foresta, attratte dalle luci della stazione. Gli abitanti della struttura attesero, snervati, fino a quando i rilevatori centrali riferirono che cosa era stato di-
strutto. Sbattendo gli occhi assonnati, Hansen cercava di assestarsi i capelli scarmigliati e la veste da camera, mentre una guardia lo guidava verso lo squarcio nel pavimento. «Un centimetro di lega metallica dura, sopra una base di ferro-cemento dello spessore di un metro,» mormorò qualcuno, tra la piccola folla che si era raccolta in quel punto. Il gruppo si aprì all'arrivo di Hansen: e questi cercò di reprimere l'incredulità quando vide le dimensioni dello squarcio. «Credevo che non avessero utensili avanzati.» «Non ne hanno.» Tutti si voltarono per vedere chi aveva dato quella risposta. La Logan li raggiunse, scostandosi i capelli dal viso mentre si chinava ad esaminare l'interno del foro. Aveva un'espressione tirata. «Devono essere stati i vellosi,» concluse, stancamente. «Un'affermazione singolare,» dichiarò Hansen. «Che cos'è un velloso, Logan?» «Un animale associato, con cui vive la gente di Born. Un onnivoro esapodo. Almeno, noi pensiamo che sia onnivoro.» Tornò a fissare lo squarcio. «Quando è scesa la notte e i loro compagni umani non sono tornati e non li hanno mandati a prendere, debbono aver deciso di venirli a cercare.» «Interessante,» fu tutto ciò che mormorò il capo della stazione. Ci fu un andirivieni continuo di gente e di segnalazioni. I componenti della folla cambiavano, senza diminuire di numero. Dopo un po', venne portata l'attrezzatura e un "volontario" designato si calò nella cavità. Non rimase assente a lungo, e tornò con le informazioni richieste da Hansen. Annuendo e ascoltando attento, Hansen ricevette il rapporto dell'esploratore. Batté la mano sulla spalla dell'uomo e tornò sul ciglio dello squarcio. Il gruppo, adesso, era formato di capi sezione, uomini come Cargo e Blanchfort. «Qualcuno di voi sa immaginare dove va a finire questo foro?» domandò Hansen. Silenzio, ispirato dalla prudenza. Guai al burocrate che avesse fornito informazioni inesatte! E poi, lo avrebbero saputo tra un attimo. «Non sapete neppure su cosa vi trovate?» Occhiate perplesse. «Questo foro prosegue, in basso, dentro uno dei tre tronchi su cui poggia la stazione. Sembra che l'albero non sia del tutto pieno. Sembra,» continuò Hansen, con un'espressione di furia crescente che indusse i suoi dipendenti a indietreggiare, «che esista un animale indigeno capace di scavare all'interno di alberi del genere! I vellosi hanno dovuto semplicemente individuare la ta-
na sotto al livello che noi abbiamo sgombrato, e arrivare a contatto con questo pavimento. Questo pavimento, signore e signori!» Poi abbassò leggermente la voce. «Non hanno avuto motivo di preoccuparsi dei nostri monitor e dei nostri cannoni. E neppure delle reti elettrificate che cingono i tronchi. L'unica cosa che mi, sorprende è... come sapevano che non avevano motivo di preoccuparsi di queste cose?» Cohoma si era unito al gruppo. «Sono qualcosa di più di animali. Sanno un po' parlare: quanto basta per sostenere una conversazione. Anch'io ho parlato con loro. Non amano chiacchierare, a quanto ho capito...» «Silenzio, idiota,» disse il capo della stazione, con un tono sommesso che era peggiore di un urlo. E continuò a borbottare. «E poi pretendono che io diriga un'operazione clandestina come questa, su un mondo ostile come questo, con personale come questo...» «Mi scusi, capo,» intervenne con calma il capo del settore ingegneria. «Vuole che trovi qualcuno per turare questo buco?» E indicò lo squarcio. «No, non voglio che trovi nessuno per tappare il buco,» ribatté fulmineo Hansen, scimmiottando il tono querulo dell'ingegnere. «Cargo, dov'è Cargo?» «Signore?» Il capo della Sicurezza della stazione si fece avanti nel gruppo. «Che nessuno tocchi quest'apertura. Montate un fucile con una squadra di quattro uomini, e date il cambio ogni quattro ore.» Si mise le mani sui fianchi, strofinando distrattamente la vestaglia marrone. «Forse tenteranno di rientrare. Adesso è inutile parlare: uno dei nostri è già morto. Troveremo questa Casa e cominceremo daccapo, con questa gente.» «Signore?» Cargo esitò, poi chiese: «Gli equipaggi delle torrette sono un po' agitati. Non sanno bene contro che cosa debbono stare in guardia.» «Due uomini piccoli, dalla carnagione scura, accompagnati...» Hansen girò la testa e gridò alla Logan: «Come sarebbero, quei cosi?» «Sei zampe,» spiegò la donna a Cargo. «Pelliccia verdescura, tre occhi, orecchie lunghe, un paio di zanne corte e grosse che sporgono dalla mascella inferiore, una massa molte volte maggiore di quella di un uomo...» «Mi basta,» fece secco Cargo. Salutò Hansen con un cenno, girò su un tacco e se ne andò per comunicare con i suoi uomini. «Dimmi,» chiese Hansen alla Logan, «hai mai avuto l'impressione che il tuo amico Born non approvasse i motivi del nostro arrivo qui?» «Non abbiamo mai discusso dettagliatamente le nostre attività, capo,» rispose lei. «Qualche volta, le sue domande e le sue risposte potevano ve-
nire interpretate in modi diversi. Ma dato che ci stava salvando la vita, ho pensato che fosse inutile discutere con lui le nostre motivazioni. Ritenevo che il nostro obiettivo primario consistesse nell'arrivare qui interi.» «Eppure, nonostante l'incertezza circa le sue eventuali reazioni, gli hai permesso di lasciare quei due animali semi-intelligenti liberi di organizzare un'operazione di salvataggio.» La Logan non riuscì a dissimulare a sua volta una certa collera. «E cosa dovevo fare? Trascinarli qui di peso? Sul momento, mi pareva opportuno mantenere rapporti amichevoli con Born e Losting. I vellosi hanno visto cosa può fare un cannone laser. Nessuno dei geniali assistenti di Cargo aveva scoperto dei passaggi nei tronchi di sostegno! Come potevo immaginare che...» «Avresti potuto insistere perché portasse con lui i suoi animali addomesticati.» «Non ha ancora capito, vedo.» La Logan si sforzò di spiegare chiaramente. «I vellosi non sono animali domestici. Sono esseri indipendenti e semisenzienti, dotati di facoltà di ragionamento. Si associano agli umani perché lo vogliono, non perché vengano addomesticati. Se vogliono restarsene nella loro foresta, né Born né nessun altro può costringerli a fare altrimenti.» Lanciò un'occhiata significativa al foro nel pavimento, dove il metallo era stato strappato via come la buccia d'una mela. «Lei so la sentirebbe di discutere con loro?» «I tuoi argomenti sono persuasivi, Kimi. La colpa è mia. Mi aspetto sempre troppo da tutti. E le mie aspettative non si realizzano sempre.» Guardò meditabondo la cavità buia. «Vorrei che ci fosse un modo per evitare uno scontro. Non che la nostra attività diventerebbe meno illegale, se dovessimo uccidere qualche indigeno.» «Non sono indigeni,» gli rammentò la Logan. «Sono superstiti di...» Hansen inclinò la testa e la guardò duramente, parlò con voce ferma e aspra. «Kimi, poco fa, al raggio dodici, ho visto un tecnico della manutenzione, un certo Haumi, con la faccia schiacciata e la schiena rotta. Adesso è morto. Per quanto mi riguarda, questo fa di Born e di Losting, e di tutti i loro cugini che la pensano allo stesso modo sulla nostra presenza qui, degli indigeni, e indigeni ostili. Ho dei doveri nei confronti di coloro che hanno permesso di creare questa stazione. Prenderò tutte le misure necessarie per proteggerla. Ora, c'è qualche possibilità che tu possa ritrovare la strada per il villaggio, o la Casa, o quello che è?» La Logan fece una lunga pausa, pensosamente. «Ne dubito, tenendo con-
to di tutte le giravolte, le discese e le salite. Non ci riuscirei, senza l'aiuto di Born. La nostra lancia, ormai, deve essere stata ricoperta dalla vegetazione. Anche se riuscissimo a localizzarla, non so se potremmo trovare la Casa, partendo da lì. Non ha un'idea,» insistette in tono quasi supplichevole, «di ciò che significhi attraversare questo mondo a piedi. È già difficile distinguere l'alto dal basso, figurarsi poi la direzione in senso orizzontale. E gli animali carnivori indigeni, i sistemi difensivi sviluppati dalla flora...» «Non hai bisogno di dirmelo, Kimi.» Hansen si cacciò le mani in tasca. «Ho aiutato a sgomberare questo spazio per costruire la stazione. Bene, allora cercheremo di prenderne vivo almeno uno, quando torneranno.» «Chiedo scusa,» disse Cohoma, con aria incerta. «Tornare? Credo che Born tornerà di corsa alla Casa per organizzare la resistenza contro di noi e avvertire i suoi amici.» Hansen scosse il capo con un sorriso triste di condiscendenza, «Tu non sarai mai niente più di un esploratore, Cohoma.» «Ma,» cominciò la Logan, «credo che sia ingiusto...» «E lo stesso vale anche per te, Logan. Vale per tutti e due.» Hansen abbassò minacciosamente la voce, abbandonando l'aria paterna. «Tutti e due avete avuto il torto di sottovalutare i vostri soggetti. Forse la loro piccola statura vi ha indotti a sentirvi superiori. Forse era il fatto che voi siete il prodotto di una cultura tecnologicamente avanzata... Le ragioni, comunque, non hanno molta importanza. Probabilmente, siete ancora convinti di essere stati voi a indurre Born a compiere questo viaggio. E credete di averlo tenuto all'oscuro del vero scopo della stazione. E guardate invece cos'è accaduto. Perché pensavate che Born volesse soprattutto armamenti avanzati? Per combattere i predatori locali? Accidenti, no! Li voleva per poter trattare da pari a pari con noi!» «Adesso, lui conosce il carattere e la disposizione delle nostre difese, la sistemazione della stazione, ha un'idea della nostra consistenza numerica, e si è reso conto che ci è difficile ottenere aiuti esterni. Inoltre, ha intuito le nostre intenzioni e ha deciso che contrastano con le sue. No, non lo vedo, un uomo come quello che corre a cercare aiuto. Tenterà almeno una volta di attaccarci, da solo.» Cohoma abbassò la testa. «Tutto ciò non avrebbe importanza,» continuò Hansen, «se fosse ancora chiuso in quella stanza, ben sorvegliato. Mi dispiace uccidere un uomo così pieno di risorse. Il guaio sta nell'atteggiamento religioso che costoro assumono, a quanto pare, verso ogni erba e ogni fiore. Ed è ciò che voi due non avete intuito. Per il vostro Born, le no-
stre attività qui sono un motivo sufficiente per una guerra santa. Scommetto la mia pensione che adesso è là fuori, seduto su qualche suo adorato rovo, a spiarci, e a pensare in che modo può spedire all'inferno, rapidamente e senza fatica, i bestemmiatori. E adesso, ditemi qualcosa di più a proposito dei loro vellosi.» Sferrò un calcio al metallo piegato attorno allo squarcio. «Ho un morto e una falla nella stazione, che attestano la loro forza. Fino a che punto sono invulnerabili?» «Sono di carne e d'ossa... di carne, almeno,» si corresse Cohoma. «E sono mortali. Ne abbiamo visti parecchi uccisi da una tribù di belve locali chiamate Akadi. Il momento di preoccuparti è quando ti tirano delle noci addosso.» Hansen guardò stranamente Cohoma, e continuò a fare domande. «E come stanno ad armi?» «Un'arma che chiamano spegnitore, una specie di bazooka. Spara spine velenose. A parte questo, abbiamo visto soltanto le solite armi primitive... coltelli, lance, asce e così via. Non è il caso di preoccuparsene.» «Me ne ricorderò,» fece torvo Hansen, «la prima volta che te ne vedrò una piantata nel collo, Jan. Una clava può uccidere quanto una bomba gravitazionale. Altro?» La Logan riuscì a sfoggiare un sorriso incerto. «No, a meno che abbiano imparato a domare uno strisciargento.» «Cosa?» «Un grosso animale arboricolo locale. È lungo almeno cinquanta metri, si arrampica con parecchie centinaia di zampe, e ha un muso che potrebbe piacere solo a un AAnn. Secondo Born, non muore mai e non è possibile ucciderlo.» «Grazie,» ribatté acido Hansen. «Questo mi incoraggia immensamente.» Fece per andarsene, poi si voltò. «C'è anche la possibilità che non succeda nulla. Quindi continueremo l'attività normale, in condizioni particolari di sicurezza. Non posso prendermi il lusso di chiudere bottega in attesa che il vostro piccolo amatore di radici dichiari le sue intenzioni. Domani vi ripresenterete entrambi in servizio e prenderete una nuova lancia: avrete nuovi incarichi.» «Sissignore,» fecero i due all'unisono, avviliti. Hansen trasse un profondo respiro. «In quanto a me, ho un altro rapporto da redigere, negativo più del solito. Sparite, tutti e due.» Cohoma sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma la Logan gli posò la mano sul braccio e lo trascinò via. Hansen continuò a impartire di-
rettive. Uno ad uno i presenti si dispersero, per andare a svolgere i compiti che erano stati loro assegnati. Il capo della stazione restò solo. Rimase a fissare a lungo lo squarcio, fino a quando arrivarono i fucilieri. Quando essi cominciarono a montare l'arma sottile e potente sul treppiede, Hansen girò sui tacchi e si avviò verso il suo ufficio, cercando di immaginare la fraseologia necessaria per spiegare ai suoi ombrosi superiori come mai il perimetro della stazione era stato violato da due aborigeni e da due gatti ipertrofici a sei zampe. Il direttore non sarebbe stato soddisfatto. No, decisamente non sarebbe stato soddisfatto. CAPITOLO 13 Sotto un'ampia, curva foglia di panpanoo che serviva come riparo dall'incessante pioggia notturna, gli uomini e i vellosi riposavano su di un'ampia aggrovigliana e tenevano consiglio di guerra. Hansen aveva ragione. Per Born e Losting, Ruumahum e Geeliwan, le attività dei giganti erano il movente per una guerra santa. «Possiamo nasconderci tra gli alberi, sotto al livello dove li hanno uccisi,» propose Losting, con voce che risuonava tagliente sul sottofondo costante dello sgocciolio della pioggia, «e liquidarli via via che escono.» «Anche a bordo delle loro barche del cielo?» obiettò Born. «Con i nostri spegnitori, senza dubbio.» «Radunate i fratelli,» ringhiò Ruumahum, con voce terribile. Born scosse il capo, con rincrescimento. «Quelli hanno occhi lunghi per vedere, e lunghe armi per uccidere, Ruumahum. Dobbiamo trovare qualche altra cosa.» Poi vi fu un silenzio rotto solo dal ticchettio della pioggia, da qualche lieve suono di movimento sotto il panpanoo. Una volta, Born aprì gli occhi semichiusi e mormorò alla foresta: «Radici... radici...» Altri occhi lo guardarono speranzosi, fino a quando egli tornò a tacere. «Ho un'idea di come si può cominciare,» annunciò finalmente, senza guardare nessuno in particolare. «Raspa al limitare della mia mente come un wheep che cerca di entrare nella tana di un brya. Radici... radici e una parabola.» Si alzò in piedi. «A che cosa si aggancia la potenza dei giganti? Da dove vengono le meraviglie attribuite loro?» «Dall'Inferno, naturalmente,» mormorò Losting. «Ma quale Inferno, cacciatore? Il nostro mondo trae forza dall'Inferno
Inferiore. I giganti, a quanto dicono, traggono la loro forza da quello Superiore. Le loro radici sono immerse nel cielo, non nel suolo. Si sono aperti la strada nel nostro mondo scavando verso il basso. Noi possiamo aprircela nel loro scavando verso l'alto.» «Com'è possibile scavare verso l'alto?» chiese stupito Losting. Per tutta risposta Born si avviò all'orlo del panpanoo e guardò fuori, tra la pioggia tepida. «Dobbiamo trovare un albero del temporale.» E si voltò verso Ruumahum con aria interrogativa. «Tra quanti giorni ci sarà la prossima grande pioggia?» Il velloso si alzò, andò a mettersi accanto al suo umano. Il muso tozzo sondò l'aria notturna. Mentre l'acqua gli scorreva sul muso, fiutò profondamente, inalò con la bocca possente. «Tre, forse quattro giorni, Born.» Gli alberi del temporale non erano troppo rari né troppo comuni, e non se ne trovavano mai due vicini. Ma, salendo al Terzo Livello, avevano individuato il tronco nero e argenteo che si levava nella foresta dall'altra parte della stazione. Non era vicino all'area sgombrata, ma le lunghe foghe a catena scendevano fino al Sesto Livello: quindi avrebbero coperto la distanza con la stessa facilità. C'era un solo modo per maneggiare le foglie dell'albero del temporale. Coprendosi mani e zampe, braccia e gambe con la linfa del lient, era possibile sollevare centinaia di metri di foglie intrecciate e avvolgerle, per tenerle pronte. «Non capisco ancora,» ammise Losting, mentre si ripulivano le mani dalla linfa nera e collosa. «Ricordi la rete di tralci fabbricata dai giganti che abbiamo attraversato quando ci hanno portato nella loro Casa-stazione? Ricordi che il gigante Sal ha spiegato che cosa mangiava? Una volta ho visto un cruta mangiare tanti frutti di tesshanda da scoppiare. Le sue viscere si sono sparse sul ramo su cui si era seduto. Non so se sono rimasto più sbalordito del cruta, ma non dimenticherò quello spettacolo finché vivrò. Spero che noi potremo fare altrettanto, qui.» Losting era sgomento. «Forse riusciremo soltanto a rendere più forti e più salde le radici dei giganti.» Born scrollò le spalle. «Allora proveremo con qualcosa d'altro.» Nonostante l'impazienza e l'inquietudine di Losting, attesero durante il temporale che infuriò la terza notte. Born comprese di aver preso la decisione più giusta la quarta sera, quando Ruumahum fiutò l'aria e gracchiò: «Pioggia e vento e rumore tanto, questa notte.»
«Allora dobbiamo muoverci in fretta, prima che cominci a ululare contro di noi, altrimenti non ci salverà neppure la linfa del lient.» Lo disse mentre le prime grosse gocce cominciavano a fare frusciare la foresta. Si avviarono verso la stazione nell'oscurità quasi totale, muovendosi al di sotto dell'area sorvegliata dai sensori elettronici multipli, dagli amplificatori della luce e dal raggio rosso della morte. Reggevano tre delle lunghissime foglie argentee. Ognuno dei due vellosi ne reggeva una, Born e Losting portavano la terza. Impiastricciati di uno spesso strato di linfa di lient, trascinarono dietro di loro l'interminabile foglia, fino a quando giunsero alla muraglia scura formata da uno dei tronchi che reggevano la stazione. Born la toccò, osservò attentamente. L'albero cimato cominciava già a morire per la mancanza della corona di fogliame e per l'infezione del legno. Lentamente, presero a salire, parallelamente al tronco colossale. Ora rombava il tuono, e i fulmini ancora lontani screpolavano il cielo come fango inaridito dal cielo estivo. Born era già bagnato fradicio. Ruumahum non aveva sbagliato. Pioggia abbondante, quella notte. La linfa nera servì anche a nasconderli, quando uscirono all'aperto. Il vento portava ancora la pioggia fino a loro, ma lì, proprio al di sotto della mole della stazione, era ancora relativamente asciutto. Era una fortuna, poiché non c'erano rampicanti che favorissero l'ascesa. Dovettero arrampicarsi sul tronco verticale, portando le foglie pesanti. Ma sebbene gli uomini della sicurezza non oziassero, e coloro che scrutavano monitor e visori fossero intenti al loro compito, le piccole chiazze che salivano lungo il tronco non vennero avvistate. Le difese della stazione erano puntate verso l'esterno, non in basso. E Born non commise l'errore di salire sull'albero di cui si erano serviti Ruumahum e Geeliwan per farli fuggire. Quel tronco, infatti, era ancora oggetto di viva attenzione. Born attese che tutti fossero pronti, sotto la rete metallica che impediva di salire ancora. Ormai i fulmini squarciavano ininterrottamente la notte. Dovevano affrettarsi. Sopra Born, la rete crepitava e sibilava ad ogni scarica atmosferica. Fece un cenno con il capo. Insieme, uomini e vellosi drappeggiarono meticolosamente le tre foglie neroargentee su tratti diversi della rete. Born trattenne il respiro, quando la foglia toccò il metallo. Qualche minuscola scintilla, poi più nulla. «Giù e via... presto!» gridò Born ai vellosi. All'interno dell'avamposto, un movimento inaspettato attirò l'occhio del terzo ingegnere di turno al generatore. L'uomo aggrottò la fronte, andò a
controllare i quadranti. Non c'era nulla di inquietante nelle lievi fluttuazioni della corrente che venivano registrate, ma non ci sarebbero dovute essere oscillazioni così ampie. Le variazioni erano superiori a quelle che poteva produrre il temporale più violento. Per un attimo, l'uomo pensò di svegliare l'ingegnere capo, ma poi decise che era meglio non correre il rischio di una scenataccia. Probabilmente c'era qualche leggera disfunzione nell'apparecchiatura di controllo: il trasformatore B, di tanto in tanto, tendeva a funzionare male. Certo le variazioni non potevano essere normali alterazioni della corrente prodotta dal collettore solare... Certo non nel cuore della notte! Una dopo l'altra, le spie saltarono. L'uomo era ancora alla ricerca dell'origine del guasto quando una tremenda folgore cadde così vicina che il frastuono riuscì a penetrare attraverso l'isolamento acustico della stazione. Accaddero simultaneamente parecchie cose. La scarica assordante colpì un albero nella foresta primordiale, a sud-est della stazione. Non vi fu lo schianto del legno, né un breve guizzo di fiamma. La chioma dell'albero non si spaccò e non annerì. L'apice nudo dell'albero del temporale, invece, bevve il fulmine come un bambino che succhia il latte con una cannuccia. Il legno impregnato di metallo fremette visibilmente sotto la scossa, ma non rimase danneggiato dall'enorme concentrazione di elettricità, che venne distribuita dalla straordinaria struttura interna dell'albero. Temporaneamente, la leggera carica difensiva che l'albero manteneva abitualmente aumentò mille milioni di volte. In circostanze normali, la scarica si sarebbe dispersa nel suolo lontano, attraverso il complesso sistema di radici, creando ossidi d'azoto e arricchendo il terriccio circostante. Ma questa volta, qualcosa d'altro attirò l'intera energia distruttiva, la convogliò lungo lo schermo difensivo formato dalle lunghe foglie mortali dell'albero. L'ingegnere non avrebbe mai saputo che i suoi misuratori e i suoi quadranti avevano dato segnalazioni esatte, non avrebbe mai scoperto l'origine di quelle prime, enigmatiche fluttuazioni della corrente. Born non aveva saputo, esattamente, ciò che doveva aspettarsi. Come aveva detto a Losting, aveva sperato di sovralimentare le reti protettive che difendevano il ventre della stazione. Invece, le tre reti esplosero come girandole un nanosecondo dopo lo scroscio assordante attirato dall'albero del temporale. Divamparono come filamenti di magnesio per lunghi secondi, prima di raggrinzire e di fondersi. Nel Panta buio risuonarono esplosioni lontane, e nella stazione balena-
rono le luci, sbalordendo il piccolo gruppo di osservatori accovacciati dentro alla muraglia della foresta. I modulatori scintillarono ed esplosero, incapaci di regolare l'enorme sovraccarico. Gli accumulatori si sciolsero come ghiaccio, privando la stazione dell'energia d'emergenza. Trenta milioni di volt a centomila ampere affluirono nel sistema dei generatori della stazione, fondendo o cortocircuitando ogni cavo, ogni presa, ogni lampadina, ogni tubo, ogni apparecchio. Un'eruzione sconvolgente eruppe dall'altra parte della stazione, quando il trasformatore centrale e l'impianto solare vennero scagliati fuori, sfondando la parete esterna. Nel ritmo costante dell'indifferente pioggia notturna, cominciarono a levarsi le urla e le grida dei giganti confusi, storditi e ustionati. Ma non vi furono i lamenti di chi moriva lentamente. Coloro che erano rimasti uccisi come l'ingegnere, erano stati folgorati istantaneamente. Losting si mosse. «Facciamola finita.» Born tese il braccio per fermarlo. «Forse hanno ancora la luce rossa, che uccide prima che sia possibile caricare uno spegnitore.» Losting indicò le torrette dei cannoni, deformate e fumanti. Sebbene i cannoni potessero venir riparati, per il momento erano fuori uso. I meccanismi delle torrette erano completamente bruciati. «Non quelli,» spiegò Born. «Può darsi che funzionino ancora quelli piccoli, che i giganti portano come asce.» Sedette sul ramo bagnato e guardò il cielo. «Che cosa porteranno, prima di mattina, quei rumori violenti e insoliti, cacciatore? Pensa! Che cosa possono attirare parecchi uomini che gridano all'unisono?» Losting frugò nei propri pensieri, poi spalancò gli occhi. «Fluttuanti. Non Buna... Fotoidi.» Born annui. «Devono già essere in movimento.» «Ma senza dubbio, da quando sono qui, i giganti avranno visto i Fotoidi.» «Forse no,» ribatté il suo compagno. «Le loro lance non fanno rumore, e i Fotoidi sono rari. Solo una preda abbastanza grossa per un Fotoide può fare tanto rumore da attirarlo. Non ci avevo pensato.» Losting sedette e si strinse le ginocchia con le mani intrecciate. «Che cosa importa, comunque? I fluttuanti non vedranno alcuna preda e se ne andranno.» «Può darsi, Losting. Ma pensa come reagiranno i giganti, come hanno reagito la Logan e Cohoma la prima volta che mi hanno visto, come hanno reagito nel mondo. Hanno paura e non cercano di capire, Losting. E adesso
devono essere nervosi e spaventati. Vedremo come reagiranno ai fluttuanti.» Hansen prese a calci i frammenti ancora fumanti di metallo e di lega di polyplex che costellavano il pavimento sconvolto e scrutò l'ampio squarcio che stava dove un tempo c'era la centrale elettrica. Le pozzanghere di scorie indurite erano quanto restava dell'installazione complessa e costosa. Non si era guastata: era scomparsa. Blanchfort sopraggiunse, sfinito. Come tutti gli altri, non dormiva da parecchie ore. «Sentiamo il resto,» sospirò Hansen. «Tutto quello che era collegato alla corrente è bruciato o fuso, signore,» riferì solennemente il capo sezione. «Non è rimasto un circuito, un interruttore a stato solido o fluido, un modulo collegato. Dovremo ricostruire l'intero impianto.» Hansen si concesse alcuni minuti per riflettere, poi chiese: «Avete scoperto la causa?» «Mamula crede di sì. E... beh, è abbastanza chiaro: basta vederlo.» Hansen seguì Blanchfort attraverso la stazione, incrociando gruppi di gente esausta che lavorava sulle sezioni annerite delle pareti e del pavimento. Giunsero alla botola attraverso la quale un ascensore aperto calava gli esploratori sul tetto della foresta sottostante. L'impianto elettrico dell'ascensore era bruciato. Qualcuno aveva tagliato i cavi fusi e gli altri contatti elettrici e aveva improvvisato una specie di argano. L'ascensore era in funzione, in quel momento, sospeso a mezza strada fra la stazione e il mondo verde: sospeso esattamente all'altezza dove prima c'era la rete elettrificata. Hansen guardò. Dal punto in cui la rete era stata inchiavardata all'albero, un cerchio di metallo ancora rovente scorreva lungo il tronco, come la cera d'una candela. Nell'aria si alzavano ancora, dalla corteccia bruciata, lunghe spire di fumo. «Vede, capo?» chiese Blanchfort. Hansen socchiuse gli occhi nella luce viva del giorno, guardò più attentamente. «Vedere cosa? Non...» «Là, un po' a sinistra, sotto al punto dove lavorano Mamula e i suoi. E ce ne sono altri due più avanti, intorno al tronco.» Il capo della stazione spalancò gli occhi. «Vuoi dire quella lunga catena argentea che si perde tra le cime degli alberi?» «Proprio quella, signore: ma non è una catena. Non è di metallo, co-
munque. È una foglia, o molte foglie intrecciate.» «E allora?» «Mamula pensa che siano state buttate sulla rete prima del temporale di stanotte. Abbiamo mandato fuori una squadra, nella speranza vana che i due indigeni si facessero vedere. I nostri avevano l'incarico di accertare dove andavano a finire le foglie. Tutte e tre scendono nella foresta per una quindicina di metri, poi vanno verso sudest. Partono dall'albero a circa trenta metri dalla radura.» Si voltò e indicò oltre una finestra che non si era infranta. «Di là.» «È uno degli emergenti più piccoli. La cima è nuda. I colori prevalenti sono il nero e l'argento... corteccia, foghe, tutto. C'è pochissimo marrone e pochissimo verde, a parte la vegetazione sussidiaria.» Blanchfort diede un'occhiata alla cartella di appunti che teneva in mano. «Al comando della squadra c'era una donna, la Stevens. Secondo il suo rapporto, l'albero conserva una carica mortale. Qualunque essere che sfiora una delle lunghe foglie rimane ucciso immediatamente. Mamula ipotizza che, quando l'albero viene colpito dal fulmine come pare sia accaduto stanotte, la scarica viene assorbita e dispersa. È sufficiente una piccola ricarica per mantenere in efficienza il sistema difensivo dell'albero. E si tratta di un esemplare isolato, anche se Mamula dice che, guardando bene, ne troveremo altri qui intorno.» «Capisco. Pochi alberi di questa specie fungono da parafulmini per l'intera foresta, proteggendo il resto della vegetazione dai temporali notturni. Però,» concluse, facendosi forza per non urlare, «stanotte la scarica è stata diretta altrove.» «Non diretta, signore... attirata.» Hansen lo guardò torvo. «Non mi sorprende che abbia fatto saltare tutti i circuiti. E naturalmente, prima nessuno aveva notato mente d'insolito.» Blanchfort era imbarazzato. «No, signore. Cargo sta ancora facendo scenatacce ai suoi, mi hanno detto.» «Chissà quanto ci sarà utile. Maledizione, il guaio è fatto.» Hansen tacque e prese a calci un pezzo di acrilico raggrinzito. «Cosa ne dice Murchison?» «Murchison è morto, signore.» Hansen borbottò qualcosa d'incomprensibile. «Sta bene. Allora adesso il responsabile è Mamula.» «Sì, signore. Lui pensa che riuscirà a riparare alcuni cavi; e abbiamo i ricambi per il venti per cento circa dei fili e dei circuiti, ma abbiamo bisogno
di un generatore nuovo.» «Questo lo capirebbe anche un cretino. C'è un buco, al posto di quello vecchio, dove passerebbe anche una lancia.» «Il grande blocco delle cellule solari è pieno di crepe... Bisognerà sostituirlo. L'impianto di climatizzazione è saltato... e questo significa niente più aria condizionata, tra l'altro.» «Tra l'altro,» gli fece eco Hansen, disgustato. «Che cosa c'è rimasto.» Un'altra occhiata al fascicolo dei rapporti scarabocchiati in fretta. «Tutte le armi portatili e quattro fucili intatti, quindi per il momento non siamo indifesi. Mamula ha usato un trasformatore e tutte le piccole batterie che ha potuto trovare per mantenere in funzione gli impianti di refrigerazione dell'ospedale. E abbiamo una notevole quantità di razioni d'emergenza preconfezionate.» «Le comunicazioni?» «Saltate, naturalmente. Ma la ricetrasmittente e la tridi della navetta funzionano ancora benissimo. Tutti i suoi impianti interni sono in ordine.» «Peccato che sia una navetta e non un incrociatore del Commonwealth. Quando deve arrivare la prossima astronave con i rifornimenti?» «Fra due settimane e mezzo, signore, secondo il programma.» Hansen annuì, si avviò verso la porta e uscì sotto il porticato che cingeva ancora la stazione. «Due settimane e mezzo,» ripeté, posando le mani sulla ringhiera tubolare e studiando la lontana muraglia frusciante di verde, le cime verdebrune degli alberi sottostanti. «Due settimane e mezzo, durante le quali una stazione di superficie perfettamente attrezzata, creata per resistere in pratica a tutto, compreso l'attacco d'una fregata del Commonwealth, dovrebbe riuscire a sopravvivere in un modo o nell'altro all'assedio di due nanerottoli cacciatori in perizoma... fanatici religiosi discendenti da un branco di coloni dispersi!» «Sì, signore.» Hansen si girò di scatto nell'udire quella voce e accolse con un ruggito il nuovo arrivato. «Credi che i tuoi possano tener testa alla situazione, Cargo? Oppure pensi che ci troviamo in inferiorità numerica?» Cargo si impettì. «Dovrò arrangiarmi con quello che ho a disposizione, signore, cioè con il personale migliore che la compagnia è stata in grado di comprare.» Il sottinteso era evidente: potevano esservi cose che neppure la grande società madre sarebbe riuscita ad acquistare. «Se vuole, signore, potrei organizzare una squadra e inseguirli. Potremmo battere il perimetro fino a che...»
«Oh, andiamo, Cargo,» borbottò Hansen. «Non mi serve neppure un agnello sacrificale. Il tuo suicidio non rimedierebbe a nulla. Non riusciresti mai a distinguerli dal resto della fauna. E loro liquiderebbero i tuoi uno alla volta... oppure si limiterebbero a tenersi fuori dalla vostra portata ed a lasciare alla foresta il compito di finirvi.» E tornò a girarsi verso l'oceano smeraldino. «Non riesco ancora a comprendere che cosa li abbia spinti a una simile violenza, comunque. Il desiderio di fuggire, certo. Di metterci in difficoltà, certo... Ma perché hanno contrattaccato? Debbono essere incredibilmente sicuri di sé, o incredibilmente infuriati per qualche motivo. So che Born disapprova le nostre intenzioni, ma non mi era sembrato il tipo facile alla furia omicida. C'è qualcosa che ci sfugge. Vorrei avere un'altra possibilità di parlare con lui, per scoprire cosa abbiamo fatto per provocarlo fino a tal punto.» «Io vorrei avere una possibilità di tagliargli la gola,» ribatté vivacemente Cargo. «Spero che tu possa averla, Cargo. Ma non prevedo che tu riesca a vederlo prima che lui veda te.» L'ira di Cargo si rilassò un poco, ma non la tensione della sua voce. «Signore, ho servito per trent'anni nelle forze armate del Commonwealth prima di decidere che erano stati trent'anni sprecati, senza un futuro. Da quattro anni sono con la compagnia come direttore della Sicurezza dei Progetti Speciali. Se questo nanerottolo mi capita a tiro, può scommettere quello che vuole che io gli torcerò il collo prima che quello riesca a uccidere me.» «Ci sto scommettendo anche troppo, Sal.» Hansen guardò il cielo. «Sarà un'altra giornata afosa... madre di Dio, e quelli che cosa sono?» Cargo alzò la testa e guardò il tenero verdazzurro del cielo meridionale. Tre sagome si avvicinavano lentamente alla stazione, planando. Ciascuna di esse era grande metà dell'edificio. «Abbiamo qualche torretta in grado di funzionare?» «No, signore,» rispose Cargo, senza distogliere gli occhi dalle apparizioni. «Ma abbiamo ancora i fucili.» «Falli montare sulla cupola. Lascia qualcuno a guardia dei tre tronchi di supporto e porta tutti gli altri lassù. E lascia anche la guardia nel tronco scavato. Non voglio sorprese da quella direzione mentre noi siamo occupati con quelli. Muoviti.» Ordini e grida risuonarono nell'avamposto danneggiato. Tutti coloro che disponevano di una pistola funzionante furono comandati a presentarsi alla
cupola. Nessuno chiese perché: i tre Fotoidi non cercavano affatto di mimetizzare il loro volo di avvicinamento. La Logan e Cohoma si trovarono, insieme ad altri, raccolti sotto uno dei pannelli di lega polyplex che erano stati aperti. Lassù erano stati montati anche tre fucili laser, con le lunghe canne puntate verso il cielo. Hansen vide arrivare i due esploratori, fece un cenno a Cargo e si avvicinò. «Avete mai visto qualcosa del genere, prima d'ora?» La Logan scrutò affascinata quei mostri rigonfi. «No, capo, mai. E non ricordo neppure che Born ce ne abbia mai parlato.» «C'è qualche possibilità che il vostro pigmeo riesca in un modo o nell'altro a controllarli?» chiese Cargo. La Logan rifletté. «No, non credo. Se fossero pericolosi ma controllabili, immagino che Born li avrebbe chiamati per proteggersi, quando procedevamo al livello delle cime degli alberi.» I fluttuanti erano gigantesche sacche di gas, rozzamente ovoidali, munite di ondulanti pinne a vela sul dorso e sui fianchi. Il movimento costante delle protuberanze, lunghe quanto il corpo, li sospingeva pigramente nell'aria. Le sacche di gas erano di un azzurro chiaro e trasparente, attraverso cui si vedeva splendere il sole. Sotto ognuna di esse pendeva una massa di tessuti elastici che si piegavano e si ripiegavano su se stessi come cavi aggrovigliati; e da tale massa scendevano tentacoli corti e robusti, brillanti come i rampicanti specchio che la Logan ricordava di avere visto tanto spesso nella foresta. Quei prismi organici rotanti facevano barbagliare mille colori, e conferivano all'essere l'aspetto di un pallone che cercasse di catturare un arcobaleno. Sotto quel groviglio levigato e scintillante penzolavano altri tentacoli, più lunghi: avevano un aspetto più naturale, un colore azzurro chiaro come le sacche di gas, e parevano rivestiti di una sostanza simile a muco, quasi opaca. I tre mostri continuarono a dirigersi verso la stazione, mentre alcuni scienziati, rintanati accanto ai rottami della ricetrasmittente spaziale, discutevano tra loro, per stabilire se si trattava di piante o di animali. «Pronti con quei fucili!» comandò Hansen. Fino a quel momento gli esseri non avevano fatto mosse ostili. Ma la loro mole bastava a incutergli un profondo nervosismo. Lo strano silenzio con cui si avvicinavano non contribuiva a migliorare le condizioni dei suoi nervi. «Se si accostano a meno di venti metri, sparate,» disse a Cargo. «Non prima.» Il capo della sicurezza annuì. Uno dei fluttuanti si spostò verso di loro, agitando nell'aria i lunghi ten-
tacoli penzolanti. Si fermò all'esterno del perimetro critico stabilito da Hansen e restò librato là. Sebbene non sembrasse dotato di organi della vista, il capo della stazione ebbe la netta sensazione che li stesse studiando. Continuò a restarsene lì, agitando lievemente le lunghe pinne per mantenersi in quella posizione, mentre nella cupola e in tutto il resto della stazione la tensione diventava insopportabile. Qualcuno gridò, e tutti gli sguardi si abbassarono, puntando verso l'esterno. Gli altri due fluttuanti stavano sorvolando la navetta spaziale... l'ultimo contatto con la compagnia, con il resto dell'universo, con la possibilità di ottenere aiuto. Un lungo tentacolo si abbassò, si allacciò intorno alla prua della navetta, tirò in modo bizzarro, senza sforzo apparente. Si udì un suono stridente, quando la navetta scivolò un poco entro gli ormeggi flessibili. Un raggio d'intensa luce rossa, sottile come una matita, si protese per colpire il fluttuante. Cargo si volse di scatto e urlò ai fucilieri: «Chi ha sparato? Non ho dato l'ordine!» Il raggio toccò la sacca di gas e parve attraversarla. Il fluttuante si abbassò leggermente, a quel colpo, poi ritornò in quota. Al momento del contatto, una sottile spira di fumo si era levata dal punto in cui il raggio laser aveva colpito. Vi fu un sibilo fievole, appena percettibile, simile a un sospiro. Il fluttuante prese a sollevarsi, ma per il momento non lasciò ancora la navetta. Attraverso la radura risuonarono chiaramente lontani schianti metallici, mentre uno dopo l'altro i cavi degli ormeggi si spezzavano come corde di pianoforte. Qualcuno sparò con una pistola, e anche gli altri fucili aprirono il fuoco. Cargo si aggirava urlando tra i suoi uomini, ma le grida di panico provenienti dall'interno della stazione sommergevano la sua voce. Una dopo l'altra, le raffiche cremisi puntarono contro i colossali fluttuanti. Ogni volta che un raggio colpiva una sacca di gas, il fluttuante si abbassava leggermente, poi si risollevava e recuperava la precedente posizione. Le raffiche che finivano nella foresta di tentacoli rimbalzavano sia su quelli corti e a specchio sia su quelli lunghi ricoperti di muco. Annidato dietro un intrico di canore viti a pettine, Born mormorò: «Sono molto pazienti, per essere dei fluttuanti.» «Forse non vorranno combattere,» si preoccupò Losting a voce alta. Dietro di lui, Geeliwan ringhiò. «Collera di fluttuanti viene adagio, dura molto.» Stimolati dalle trafitture irritanti e persistenti del laser o dall'agitazione
rumorosa delle minuscole figure all'interno della stazione, i fluttuanti cominciarono finalmente a reagire. I tentacoli più corti, simili al quarzo, si mossero per formare intrichi complessi, allineamenti istintivi di difesa, mentre la luce rossa continuava a pugnalarli dal basso. Il sole era altissimo, rovente. Ma all'interno del nuovo complesso di brevi tentacoli la luce solare venne concentrata, riconcentrata, ingigantita, riflessa e messa a fuoco e rifratta attraverso una farragine di lenti organiche, così complesse da fare apparire l'occhio umano come una ben misera cosa. I due fluttuanti più vicini diressero sulla stazione raggi di luce solare enormemente concentrata. Le pareti dell'avamposto erano formate quasi del tutto di alluminio a nido d'ape, non di leghe dure. Là dove colpiva la furiosa luce solare, il metallo si fondeva e bruciava" ciò che vi stava dentro. Hansen fuggì dalla cupola, seguito da Cohoma, dalla Logan e da gran parte del personale. Cargo restò, con i suoi uomini, imprecando contro la loro imprecisione e la loro inesattezza. Non si rendeva conto che le sacche di gas dei fluttuanti erano a scompartimenti, non si accorgeva della rapidità con cui venivano sostituite e subito riempite di nuovo gas. Non comprendeva che i fucili laser erano inutili, anche se erano in grado di abbattere una navetta o un grosso aereo; e non lo comprese neppure quando la luce ultraintensificata proiettata dal terzo fluttuante colpì la cupola, fuse la robustissima lega di polyplex, i fucili stessi, incendiò o sciolse sedie, pannelli, pavimenti, strumenti. Ma si rese conto del fallimento del suo tentativo, nell'istante stesso in cui egli e l'ultimo equipaggio di fucilieri venivano carbonizzati. Infuriati, i fluttuanti rimasero per mezz'ora, spostandosi avanti e indietro sopra la stazione, continuando a irradiare di energia le rovine anche molto tempo dopo che dal caos fumante avevano smesso di scaturire gli ultimi guizzi disperati di luce rossa. Finalmente si stancarono: le loro menti, se pure avevano una mente, si erano saziate. Lasciando la stazione sfregiata da squarci e lacerazioni, e da incendi che ne devastavano l'interno, si diressero di nuovo verso il sud, da dove erano venuti. «E adesso facciamola finita,» ruggì Losting. «Forse ne è rimasto qualcuno,» ribatté Born. «Aspettiamo che le fiamme abbiano terminato la loro opera e che il sole abbia incominciato a morire.» Come accadeva di tanto in tanto, quella sera la pioggia ebbe inizio prima di sera. Ci si vedeva ancora, quando entrarono nella mole devastata della stazione. Le gocce sfrigolavano e sibilavano, cadendo sul metallo ancora
surriscaldato. In certi punti le pareti dei corridoi si erano sciolte come burro sotto l'assalto dei fluttuanti. Il metallo, raffreddandosi, scattava e si piegava. I cacciatori si avventurarono nel corridoio esterno impugnando gli spegnitori carichi, sebbene non si aspettassero di trovare vivo qualcuno nell'edificio fumante. «Anche la morte necessaria è spiacevole,» osservò solennemente Born, fiutando l'odore penetrante della carne carbonizzata. «È meglio non indugiare a lungo in questo luogo.» Losting gli diede ragione, indicando il corridoio curvilineo. «Io percorrerò questa metà e ci incontreremo dall'altra parte. Mi sentirò meglio non appena avremo concluso e ci metteremo in cammino per tornare alla Casa.» Born annuì e si incamminò nella direzione opposta. Losting attese che il suo compagno fosse sparito, prima di seguire Geeliwan. Non incontrò molti cadaveri. Erano stati quasi tutti sepolti sotto i rottami e le scorie fuse, oppure erano carbonizzati, irriconoscibili. Il cacciatore considerò le distruzioni causate dai fluttuanti. Una volta aveva visto uno di loro tendere un tentacolo grosso come un albero verso un cacciatore addormentato, e poi lasciarlo in pace e passare oltre, tranquillamente. Aveva visto anche uno di quei colossi, di solito miti, azzannato ad un tentacolo da un tuffaccio colto di sorpresa. Il fluttuante aveva fatto a pezzi l'albero del carnivoro, riducendone in schegge la parte superiore prima di bloccare e arrostire il suo aggressore. Losting rimpiangeva che non ci fosse un altro sistema. Stavano passando in fondo a quello che era stato il grande hangar delle lance. I veloci dischi da esplorazione, ormai, erano irriconoscibili Quasi tutte le cupole trasparenti erano sgretolate, gli scafi ridotti a mucchi di leghe fuse. Un abitacolo inclinato conteneva ancora i resti di due giganti: le ossa bianche erano saldate al metallo Se i giganti superstiti non si fossero ostinati a combattere in quel modo, probabilmente i fluttuanti si sarebbero stancati e avrebbero finito per tornare a sud, ai loro nidi. Invece quei goffi assassini in preda al panico avevano lottato fino all'ultimo, con le loro armi di luce rossa pateticamente inutili contro il sistema nervoso dei trasparenti Fotoidi. All'improvviso Geeliwan ringhiò e balzò avanti. Il velloso aveva sentito l'odore.. troppo tardi. Si era confuso tra i miasmi della stazione bruciata. La luce lo colpì sopra gli occhi, a metà del balzo. Piombò sul pavimento, in un mucchio silenzioso di pelliccia verdescura. Losting aveva già alzato lo spegnitore e aveva sparato prima ancora che
il velloso cadesse. Si udì il caratteristico sbuffo del seme serbatoio che scoppiava. Poi silenzio. Dietro una sezione piegata e deformata del pavimento si alzò una figura barcollante... la Logan. Vacillando, gettò la pistola e con entrambe le mani si strappò la spina di jacari dal seno destro. Una piccola chiazza di sangue macchiò la tunica. La donna la guardò, ottusamente. Losting aveva ricaricato quando il secondo raggio lo centrò al fianco, lacerando pelle, ossa, nervi, viscere. Di solito, il trauma causato da una distruzione così rapida ed estesa uccideva istantaneamente. Ma Losting non era un uomo normale. Cadde in ginocchio, poi si rovesciò sul fianco sinistro. Era ancora vivo; si strinse la ferita con tutte e due le mani. Lo spegnitore urtò con un suono secco il pavimento di metallo umido. La Logan avanzò barcollando di un paio di passi e tentò di dire qualcosa alla figura raggomitolata sul pavimento. Mosse la bocca, ma non riuscì a emettere un suono. Poi i suoi occhi divennero vitrei, sotto l'effetto del potente veleno nervino, e crollò come un albero abbattuto. Giacque immobile, come una bambola rotta, con un braccio grottescamente piegato sotto il corpo. Da un vicino tunnel nero si alzarono cautamente due figure. Cohoma si accostò al corpo immobile della Logan, si inginocchiò. Hansen passò oltre, quasi senza guardarla, si diresse verso Losting. Alle sue spalle il pilota, non trovando né il polso né il battito del cuore, mormorò amaramente: «Ti ha fregato, Kimi.» Il capo della stazione tenne la pistola puntata su Losting, mentre si avvicinava. Nel silenzio del corridoio devastato dalla morte, il respiro del cacciatore risuonava stranamente. Hansen aveva perduto gran parte degli indumenti, e tutto il suo atteggiamento burocratico. Ansimava. I peli grigi formavano un fitto intrico sullo stomaco sporgente. «Prima che ti uccida, Losting... perché?» «Born lo sapeva,» gemette faticosamente il cacciatore. Uno stordimento profondo lo invadeva poco a poco, partendo dal fianco bruciato. «Ve l'aveva detto. Voi prendete senza dare. Prendete senza chiedere. Vi fate prestare senza restituire. Non emfolate. Il nostro... mondo.» «Non è il vostro mondo, Losting,» disse Hansen, stancamente. Cohoma, ritto dietro di loro, aveva un'espressione pensosa. Mormorò qualcosa a proposito dell'empatia da foliazione e dell'evoluzione forzata. Hansen non lo udì. «Ma avete rifiutato di ammetterlo. Peccato.» Hansen si voltò e chiamò: «Muerta... Hofellow... controllate il suo animale.»
Un uomo ed una donna, l'una armata di pistola e l'altro di machete, uscirono dal corridoio laterale. Per non correre rischi, la donna sparò un'altra scarica alla testa del velloso abbattuto, ma Geeliwan era già morto. «Dannazione e inferno!» ruggì Hansen, travolto all'improvviso dalla collera e dalla frustrazione. «Senza ragione... senza una ragione al mondo!» Guardò la devastazione che lo circondava, poi riabbassò lo sguardo su Losting, parlò con voce addolorata. «Non capisci... non ci avete fermati! Mi restano quattro persone...» Si voltò a dare un'occhiata al corpo immobile della Logan. «No... tre.» Ogni parola causava a Losting una fitta straziante: e ognuna era una nuova sorpresa. «Voi siete tutti morti. Tutte le vostre piccole barche del cielo sono sfasciate e anche la grande... navetta. Le vostre piccole armi sono finite e anche le vostre pareti e le reti. L'albero della tempesta ha tolto loro la vita. Adesso la foresta verrà a distruggervi.» Hansen lo guardò con un'espressione di pietà. «No, Losting. Avete compiuto un tentativo efficiente. Ci siete quasi riusciti. Ma noi abbiamo cibo in abbondanza, e ogni notte l'acqua scende dal cielo. So con quanta rapidità cresce la foresta primordiale. Forse oscurerà la stazione prima che arrivi la nostra prossima astronave. È vero che la navetta non può più volare. Ma i suoi impianti interni funzionano, compresi gli apparecchi dì comunicazione. Non credo che quei sacchi di gas torneranno, e non credo che verremo attaccati da altri esseri capaci di sfondare lo scafo di una nave. Questa foresta potrà seppellirci sotto una valanga di verde, ma il nostro segnale di soccorso sarà captato egualmente.» «Siete riusciti a costare a certa gente una quantità enorme di danaro e molti guai. Quelli non ne saranno soddisfatti. Ma ricostruiranno la stazione, ricominceranno daccapo... per ottenere l'estratto dell'immortalità, Losting. Non immagini neppure cosa saranno disposti a fare, pur di procurarselo. «Non commetteremo più gli stessi errori. Ricostruiremo dall'altra parte del pianeta, lontano dalla vostra tribù. Il nuovo avamposto disporrà di pattuglie aeree, cannoni tre volte più numerosi e più grandi, con impianti elettrici indipendenti. E sgombreremo uno spazio quattro volte più ampio e tre volte più profondo. «No, non ripeteremo gli stessi errori. Sei un coraggioso, Losting, ma hai perduto. Peccato. Avrei preferito poter essere tuo amico.» «Ladri... di tombe...» mormorò Losting. Hansen si chinò un poco di più, senza deviare la canna della pistola.
«Cos'hai detto? Non ho sentito...» «Voi rubate tutto,» sibilò il cacciatore. «Anche l'anima di un uomo, anche il profumo di un fiore.» Hansen scosse adagio il capo, mestamente. «Non ti capisco, Losting. Non so se saremmo mai riusciti a capirci.» Stava ancora scuotendo il capo quando la spina di jacari lanciata dallo spegnitore di Born gli trafisse il collo. Tutto finì in fretta. Ruumahum abbatté i due che stavano curvi sul corpo di Geeliwan. L'ascia di Born fermò Cohoma prima che questi avesse il tempo di estrarre la pistola. Il cacciatore sferrò colpi su colpi contro i giganti abbattuti, sebbene non fosse più necessario. Continuava ancora a dilaniarli quando già quasi tutto il sangue era fluito dai loro corpi, fino a quando la sua furia si placò. Esausto, andò barcollando ad accasciarsi accanto all'uomo che aveva odiato più di ogni altro al mondo. Ruumahum fiutava il fianco di Geeliwan, ma per il velloso abbattuto non c'era più speranza: il suo organismo straordinario non era invulnerabile. Il raggio della Logan gli aveva tranciato il cervello. Un lento rivolo verdescuro sgorgava da una vena recisa della testa e macchiava il manto color d'olivina. Il viso del cacciatore caduto era contratto da una sofferenza non soltanto fisica. «Non c'è stata fortuna... per Losting. Tu... vinci sempre, Born. Sempre più avanti di Losting, di un ramo, di una parola, di un'impresa. Non è giusto, non è giusto. Tante morti... perché?» «Tu sai il perché, cacciatore,» mormorò impacciato Born. «C'era un morbo, un parassita nuovo su questo mondo. È toccato a noi eliminarlo. Avrebbe ucciso la Casa. Tu hai salvato la Casa, cacciatore.» La voce gli si spezzò. «Ti amo, fratello mio.» Born restò lì, ad evocare immagini solenni, mentre Ruumahum si accosciava sulle zampe posteriori e piangeva con il cielo piangente. Rimasero così fino a quando vennero un nuovo giorno e la luce. La prima ondata di rampicanti, liane e germogli aerei stava già modificando i confini regolari della radura quando Born e Ruumahum si misero in cammino. Due corpi «un umano, un velloso» erano assicurati sull'ampio dorso di Ruumahum. Il pensiero di ritornare fino alla Casa con quel carico era assurdo. Li avrebbe intralciati, costretti a rallentare, esposti ai pericoli. Ma neppure per un momento Ruumahum e Born pensarono di ritornare senza i
due caduti. Born ricordava le parole del capo Hansen mentre gli si avvicinava per ucciderlo, la notte precedente, nell'oscurità e nella pioggia. Erano parole false. Non credeva che i giganti avrebbero tentato di costruire un'altra stazione in un'altra parte del mondo... non subito. Non dopo che tutta la loro opera era stata inghiottita inesplicabilmente. E anche se lo avessero fatto, non avrebbero trovato i nodi che cercavano, dall'altra parte del mondo. E se avessero riprovato lì, non sarebbero riusciti neppure a piazzare i loro metalli, le loro armi. A questo avrebbe provveduto la tribù. Altre tribù sarebbero state informate: sarebbe stato dato l'allarme. Passo Chiaro fu la prima ad accoglierlo, al loro ritorno, quando entrarono nel villaggio, esausti e più morti che vivi, molte settimane dopo. Ma la ragazza non restò a lungo con lui, quando vide il corpo di Losting. Con un vago senso di sorpresa, Born si accorse che non gli importava. Poi dormì per due giorni, e Ruumahum un giorno di più. La storia fu narrata al consiglio. «Ci guarderemo dalla loro venuta. Non permetteremo che diffondano ancora il loro contagio nel mondo,» dichiarò Sand, al termine del racconto. Reader e Joyla approvarono. Ormai, restava solo un'ultima cosa da fare. La notte seguente, tutti presero le torce ed i bambini e si addentrarono nella foresta con i corpi di Losting e di Geeliwan. Per questo Tempofa cercarono il più grande dei Custodi... il più alto, il più vecchio, il più forte. L'albero era il luogo del riposo finale per i più onorati. Sfidando il pericolo rappresentato dai demoni celesti notturni e dai predoni che abitavano le chiome degli alberi, la processione salì al Primo Livello. Poi ebbe inizio la cerimonia, e le parole furono cantate e recitate nel tono più solenne che si ricordasse. I corpi vennero trattati con gli oli e le erbe e sepolti nella cavità, fianco a fianco. Su di essi vennero deposti l'humus ed i detriti organici. Losting avrebbe apprezzato il suo elogio funebre. Il suo valore e la sua bravura di cacciatore, la sua forza e il suo coraggio furono esaltati e lodati; dai cacciatori suoi compagni, da Sand e Joyla, da Born, soprattutto da Born. Fu necessario condurre via il pazzo. Era finita. Conclusa la cerimonia, la doppia fila di uomini, donne e bambini cominciò la lunga discesa a spirale verso la Casa, fiancheggiata dai vellosi ammutoliti.
Il Custode torreggiante rimase sotto le nubi gementi, mentre le ultime torce sparivano tra l'onnipresente vegetazione scura. La foresta buia, verde e insondabile... chi sapeva quali pensieri nascevano in quegli abissi color malachite? Due giorni dopo, un germoglio spuntato alla base del Custode maturò. La scorza dura si lacerò, e ne schizzò fuori una piccola sagoma smeraldina, con l'irto pelame bagnato proteso a cercare i fievoli raggi del sole. Tre minuscoli occhi sbatterono, si aprirono, e le minute zanne d'avorio sporsero dagli orli bagnati della bocca non ancora schiusa. Poi la cosa sbadigliò e si sforzò di allisciarsi il pelo. Tendendosi e torcendosi, le ultime radichette verdi sul suo dorso si staccarono dall'interno del germoglio-seme. Si ripiegarono all'indietro e divennero pelo, assorbendo il sole. Nel piccolo corpo ebbe inizio la fotosintesi. Miagolando di fronte all'enormità del mondo, il velloso neonato si guardò intorno e vide tre occhi lucenti che lo fissavano tra le ombre del giorno. «Io sono Ruumahum,» annunciò la mente che stava dietro quegli occhi. «Vieni con me dai fratelli e dalla gente.» L'adulto si girò. Debolmente, ma a passi sempre più sicuri, il cucciolo lo seguì, su verso la luce. Molto più in alto, un bimbo appena nato strillava sul seno della madre. Strane forze si agitarono entro il più grande dei Custodi, alla nuova intrusione. L'albero reagì, secernendo una densa linfa legnosa intorno alle due forme per isolarle e schermare le vulnerabili sostanze organiche. La linfa si indurì rapidamente, formando una barriera impenetrabile ai batteri, alle muffe e agli insetti. Dentro l'alto ramo, la linfa e strani fluidi scorsero e agirono, sciogliendo e arricchendo, ricostruendo e preservando, ravvivando e ricostituendo. I derivati infinitesimali di quella nuova intrusione furono distribuiti in tutta la struttura arborea alta settecento metri, mentre minuscole porzioni di altre, precedenti intrusioni venivano trasportate da altri rami verso quella nuova aggiunta. Le ossa si sciolsero e vennero portate via, la carne e gli organi superflui scomparvero. Vennero sostituiti da una rete di pazienti filamenti neri... neuroni lignei. Le vecchie sinapsi neurali dell'umano e del velloso furono inserite nell'enorme rete. Nuove sostanze nutrienti energizzarono le strutture cellulari metamorfosate.
Il processo della fusione di Losting e Geeliwan nella mente-anima dei Custodi richiese l'eternità e un attimo. La foresta era estremamente efficiente. La nuova linfa scorreva, sì producevano sostanze chimiche che non sarebbero dovute esistere. Uno stimolo venne convogliato nella nuova area. Si produsse la catalisi. Losting e Geeliwan divennero qualcosa di più, qualcosa di più grande. Divennero parte della mente-matrice dei Custodi, che a sua volta era soltanto un lobo della mente ancora più colossale della foresta. Perché la foresta dominava il mondo senza nome. Si evolveva, cambiava e cresceva. Si arricchiva. Quando l'avevano raggiunta i primi umani, l'intrico interconnesso del mondo aveva capito che costituivano una minaccia e una promessa. La foresta possedeva forza, adattabilità, fecondità e varietà. E adesso arricchiva la propria intelligenza, lentamente, pazientemente, come fanno le piante. Losting, mentre sentiva svanire l'ultima fievole traccia di una individualità non più necessaria, e si sentiva confluire nella mente più grande formata da dozzine di menti umane e da molte menti di Custodi, tutte collegate tramite le menti dei vellosi nati dagli alberi, si rallegrò. «Non hai vinto, Born!» gridò trionfante, mentre la grandezza lo assorbiva. Poi l'invidia svanì e anch'egli divenne parte della totalità, e abbandonò gli umori e i sentimenti umani come se fossero una crisalide morta. La mente della foresta crebbe un poco. Presto si sarebbe arricchita di Born e di Ruumahum e degli altri. Presto sarebbe pervenuta al fine del suo Piano. Allora gli umani e tutti gli altri non sarebbero più potuti venire a uccidere e a tagliare impunemente. E alla fine, avrebbe attraversato il vuoto immane che ora cominciava a percepire vagamente e poi... Nella foresta, Born emfolò un germoglio che stava spuntando e sorrise insieme ad esso della bellezza del giorno. Alzò lo sguardo verso il suo cielo strano ed amato e non si accorse che stava guardando più oltre. Universo! Guardati dal bimbo avvolto nelle fasce verdi! FINE