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GORDON R. DICKSON SUL PIANETA DEGLI ORSI (Spacial Delivery, 1961) 1 L'Estremamente Onorevole Joshua Guy, Ambasciatore Plenipotenziario su Dilbia, stava fumando tabacco con la pipa: abitudine vecchiotta e volgare per un gentiluomo tanto conservatore e rispettato. I fumi della pipa facevano tossire John Tardy, gli toglievano il fiato. O, forse, erano i fumi combinati con ciò che l'Estr. On. Josh Guy gli aveva appena detto. «Signore?», ansimò John Tardy. «Chiedo scusa», disse il diplomatico, piccolo e arzillo. «Credevo che avessi già capito». Picchiettò la sua maledetta pipa su un posacenere, fatto a mano, di legno dilbiano. La brace continuò ad ardere, emanando un fetore solo un tantino meno schifoso rispetto a pochi istanti prima. «Stavo dicendo che, ovviamente, non appena abbiamo saputo che tu eri disponibile per il lavoro, abbiamo fatto passare parola, sicché ora ai dilbiani risulta che sei molto attaccato alla ragazza. Che la ami, insomma». Jhon inghiottì aria. Stavano parlando tutti e due in dilbiano, per migliorare la pratica di John, che aveva imparato la lingua per via ipnotica durante il viaggio dalla Cintura Stellare. Sulle labbra gli spuntò automaticamente il soprannome che i dilbiani avevano affibbiato alla sociologa terrestre scomparsa. «Sarei innamorato di Faccia Unta?». «La signorina Ty Lamorc», lo corresse Joshua, passando tranquillamente alla lingua comune terrestre per poi tornare al dilbiano. «Faccia Unta per gli indigeni di Dilbia, naturalmente. Ma non devi prestare troppa attenzione al significato apparente di questi soprannomi dilbiani. I due gentiluomini dilbiani che stai per conoscere, Papà Ginocchia di Marmellata, che tra parentesi è il sindaco di Humrog, e Due Risposte non sono affatto i tipi che uno si potrebbe immaginare dal nome. Papà Ginocchia di Marmellata lo chiamano così perché una volta, in una situazione d'emergenza, ha dovuto reggere da solo l'estremità di una trave, e dopo tre quarti d'ora qualcuno si è accorto che cominciavano a tremargli un po' le ginocchia. E Due Risposte non è un bugiardo, come si potrebbe credere, ma solo un tipo molto sveglio che è capace di trovare più di una soluzione a un problema». «Capisco», disse John.
«La signorina Lamorc è una ragazza in gamba. Figurati che io stesso non mi vergognerei di averla come figlia. Ha un bel po' di carattere». «Oh, ne sono sicuro», si affrettò a precisare John. «Non sto facendo obiezioni alla situazione. Non vorrei che lei lo pensasse. Dopo tutto, il reclutamento forzato è indispensabile in situazioni d'emergenza, specialmente nelle zone in cui ci troviamo a contatto di gomito con gli emnoidi. Però non capisco cosa c'entri la mia vittoria nel decathlon. Credevo di aver chiuso per sempre con lo sport dopo le ultime Olimpiadi. Lo saprà, al momento svolgo attività di biochimico, e...». «Qui», disse Joshua, «i nomi hanno un valore fondamentale, come indice di ciò che i dilbiani pensano di un individuo. A me è stata appioppata l'etichetta di Piccolo Morso; e non c'è dubbio che anche tu, tra non molto, riceverai il battesimo del soprannome». «Io?», esclamò John, stupito. Poi pensò ai capelli rossi che gli coronavano il corpo snello, da atleta. Gli aveva sempre fatto schifo sentirsi chiamare «Rosso». «Non sarà un nome troppo umiliante, ammesso che tu stia attento a non renderti ridicolo. Heinie, ad esempio...». «Prego?» «Oh, scusami», rispose Joshua, ricominciando a riempire la pipa. «Dovevo usare il suo nome intero. Heiner Schlaff». L'ambasciatore lanciò nuvolette di fumo nell'aria dell'ufficio piccolo, lindo, con le pareti in legno. «Ha perso la testa la prima volta che è uscito per strada da solo. Un dilbiano di uno dei clan delle montagne, siccome non aveva mai visto un essere umano, lo ha sollevato da terra. Heinie ha perso completamente la testa. Dopo di che, non è più riuscito a ficcare il naso fuori di casa senza che un dilbiano lo alzasse in aria per sentirlo gridare. Lo hanno chiamato il Puzzone Che Urla. Una pessima pubblicità, per noi umani. Soprattutto dal momento che Gulark-ay, l'emnoide che qui fa da ambasciatore per la sua razza, ha un soprannome importante come l'Ingollatore Senza Fondo di Birra. Sta passando qui fuori, tra parentesi». Joshua indicò la finestra dell'ufficio che dava sulla via principale di Humrog. John vide avanzare sui ciottoli la parodia di un uomo: un essere enorme, avvolto in una tunica alla Buddha. L'emnoide era alto almeno due metri e quaranta, con un'ossatura gigantesca. Per quanto non fosse alto come i dilbiani, era incredibilmente dotato di muscoli, grazie alla gravità del suo pianeta. Gli emnoidi erano originari di un mondo dove la gravità era superiore di un quarto a quella terrestre; e dato che su Dilbia la gravità
era inferiore di un sesto circa a quella della Terra, lì gli avversari più pericolosi dell'uomo si trovavano in una situazione di netto vantaggio. «Forse si ferma... No, tira dritto», commentò Joshua. «Cosa stavo dicendo? Oh, sì. Tieni la testa a posto in ogni situazione. Immagino che il vincitore del decathlon nelle Olimpiadi Interstellari sia in grado di farlo». «Be', sì», disse John. «Certo, la biochimica...». «Troverai i dilbiani primitivi, permalosi, e pieni di pregiudizi». «Davvero?». «Oh, sì. Senz'altro. Primitivi. Permalosi. E piuttosto indifferenti a tutto ciò che non siano le loro montagne e foreste. Anche se noi siamo entrati in contatto con loro da trent'anni, e gli emnoidi da quasi venti». «Capisco. Be', ci starò attento. Mi ha colpito scoprire che non sanno molto di chimica, per non parlare della biochimica...». «D'altra parte», Joshua si sistemò le punte ben curate dei suoi baffetti grigi con gesti precisi dell'indice, «non devi cadere nell'errore di credere che la loro natura sia completamente orsina solo perché sembrano un branco di orsi che abbiano deciso di camminare sempre su due zampe e di dimagrire un po'». «Starò attento anche a questo», promise John. «Fra loro si trovano individui intelligenti. Estremamente intelligenti. Eccone qui uno». Joshua indicò una foto tri-di sulla scrivania. Il cubo trasparente mostrava l'immagine, rimpicciolita in scala, di tre dilbiani. L'indigeno al centro, quello su cui Joshua puntava l'indice, era alto due spanne buone più degli altri. Visto che l'indottrinamento ipnotico aveva informato John che il maschio dilbiano adulto raggiungeva un'altezza media di due metri e settanta, la creatura indicata da Joshua doveva essere un vero mostro. «È astuto, indipendente, aperto di mente. È saggio e pieno d'esperienza, per non parlare dell'influenza che ha sugli altri dilbiani. Per caso ti dà fastidio la pipa, ragazzo mio?». «No, no», rispose John, tossendo discretamente. «Nemmeno per idea». «Dovrò spegnerla, quando vedremo Papà Ginocchia di Marmellata e Due Risposte. I dilbiani sono molto sensibili agli odori umani, persino ai profumi delicati come quello della pipa. Ma torniamo a bomba. È indispensabile riuscire a influenzare i dilbiani importanti come il nostro amico lì, se no gli emnoidi si assicureranno il diritto di passaggio planetario su Dilbia. E il sistema di Dilbia, come sono certo non ha dimenticato d'informarti l'indottrinamento ipnotico, è assolutamente necessario in vista di espansioni su larga scala oltre la Cintura Stellare, come punto di scalo per
rifornimenti e assistenza tecnica. Se gli emnoidi ci battono qui, cominceranno a intrecciare un cappio che potrebbe finire con lo strangolarci. Del che sarebbero felicissimi, lo sai». John sospirò. Era il sospiro di un giovanotto laureato da poco in biochimica, molto umano, che più di ogni altra cosa avrebbe preferito vivere e lasciar vivere. «Direi che nell'universo c'è spazio per entrambe le razze». «A quanto sembra, no, stando alle idee degli emnoidi. Devi leggere i loro trattati di psicologia, una volta o l'altra. Affascinanti. Sono molto più diversi da noi dei dilbiani, nonostante la maggiore somiglianza fisica». «Ho sentito che possono diventare piuttosto pericolosi». «Possiedono doti istintive di crudeltà. Lo sai cosa facevano ai membri più vecchi della loro stessa razza, fino a un centinaio o giù di lì di anni fa...?». Blip, ronzò l'intercom sulla scrivania di Joshua. «Ah, devono essere Ginocchia di Marmellata e Due Risposte», disse il diplomatico. «Saranno arrivati nell'altro ufficio. Andiamo». Spense la pipa e, triste, l'appoggiò sul posacenere colmo. «Ma la faccenda com'è?», chiese John, disperato. «Sono sceso dall'astronave appena quattro ore fa. Lei mi ha offerto il pranzo, mi ha spiegato la situazione generale, ma non mi ha detto esattamente com'è la faccenda!». «Calma, calma. Quale faccenda?», chiese Joshua, fermandosi a metà strada dalla porta. «Be'... Tutta la faccenda!», esplose John. «Perché sono stato arruolato? Ero lì che stavo per cambiare nave, dovevo andare a McBanen a raggiungere la squadra d'esplorazione del governo. Poi è arrivata una ragazza dell'ambasciata di Vega Sette, dove mi trovavo, mi ha ritirato il passaporto e mi ha detto che mi spedivano qui. Nessuno mi ha spiegato niente». «Santo cielo! Sul serio? E tu sei arrivato fin qui sulla nave corriere senza chiedere...». «Oh, sono un buon cittadino come tanti», ribatté John, sulla difensiva. «Cioè, magari non mi va l'idea del reclutamento forzato, però capisco che è necessario. Mi hanno detto che c'era bisogno di me, e sono venuto. Comunque mi piacerebbe sapere com'è la faccenda, prima di mettermi in azione». «Certo, certo!», disse Joshua. «È una cosetta da niente. La signorina Lamorc, la sociologa di cui ti parlavo, è stata rapita, ecco tutto. Da un dil-
biano. Noi vogliamo che tu la riporti indietro. Il vecchio Ginocchia di Marmellata, che ci aspetta di là, è il padre di Ragazzi Che Corpo. Ed è stato il fatto che il Terrore del Fiume volesse Ragazzi Che Corpo a causare tutto il casino, e alla fine il Terrore ha rapito Miss Lamorc. Vedrai», disse Joshua, avviandosi di nuovo verso la porta, «è tutto semplicissimo. La situazione ti si chiarirà non appena ci sarai dentro». «Però non capisco...», insistette John, confuso, seguendo l'altro. «Cosa?». Joshua si fermò con la mano sulla maniglia. «Cosa c'entri il mio lavoro. Perché vi serve un biochimico per recuperare una ragazza rapita?». «Non è che vogliamo un biochimico», disse Joshua. «Quello che ci serve è un giovanotto robusto, duro, con eccellenti riflessi. Insomma, il tipo capace di vincere una gara di decathlon. Non è il tuo cervello che vogliamo, ragazzo mio. Sono i tuoi muscoli». Aprì la porta, «Vedrai che è tutto semplicissimo, appena cominci a orientarti. Forza, ragazzo mio. Dopo di te». 2 Spinto avanti, cortesemente ma decisamente, dal piccolo diplomatico, John si trovò nel grande ufficio dell'ambasciata terrestre su Dilbia, a Humrog. La testa gli girava ancora per le ultime parole di Joshua e per quei nomi bizzarri. Chi diavolo, si chiese insistentemente, era mai Ragazzi Che Corpo? L'ovvia conclusione, tradotta in termini di una femmina dilbiana alta dai due metri e dieci in su, ricoperta esclusivamente dalla pelliccia di cui la natura l'aveva dotata, creava un'immagine capace di scuotere la mente. In ogni caso, il momento non era propizio a indulgere in immagini mentali, per quanto sconvolgenti. La realtà era troppo travolgente per lasciare spazio ad altro. La prima cosa che colpì John quando la porta si chiuse alle sue spalle furono le dimensioni della stanza. L'ufficio di Joshua era un confortante angolo di normalità umana, una nicchia scavata tra le costruzioni gigantesche dell'architettura dilbiana. Scrivania e sedie erano proporzionate al fisico di John. Quest'altro ufficio, per ragioni di cortesia diplomatica, era costruito secondo la scala dilbiana. Le pareti in legno si ergevano fino a quattro metri e mezzo di altezza, e poi c'era il soffitto a travi. Il bordo inferiore delle finestre arrivava al mento di John. Diversi tavoli e sedie a schienale rigido
disseminate nella stanza possedevano le stesse dimensioni, atrocemente sconcertanti rispetto agli standard umani. Un calamaio della capacità di un litro o più, e un portapenne lungo circa quaranta centimetri, posati su un tavolo, completavano il quadro. Però nemmeno quello, e nemmeno l'indottrinamento ipnotico, servirono a preparare John al primo incontro a distanza ravvicinata con due indigeni di Dilbia. Quando lui entrò, i due si trovavano a nemmeno quattro metri oltre la soglia; e la loro presenza assalì i suoi sensi da tutti i lati, immediatamente, senza preavviso. Per cominciare, puzzavano. Non troppo forte, non in maniera intollerabile; semmai, come cani usciti sotto la pioggia per la prima volta dopo settimane trascorse senza che nessuno li lavasse. In ogni modo, puzzavano. A John non fu di conforto notare che i due, vedendolo apparire, arricciavano leggermente i grandi nasi neri nella sua direzione. E, oltre all'odore, c'era il fatto che la stanza era immensa; fatto che, nel giro di dieci secondi, gli fece andare in tilt i sensi. Per cui, anziché pensare di avere le dimensioni di sempre e di trovarsi in un locale immenso, John ebbe di colpo la sensazione che la stanza fosse normale, mentre lui, all'improvviso, era rimpicciolito all'altezza di un bambino di sei anni. E per finire, incredibili quanto e più di tutto il resto, c'erano i due dilbiani, i due indigeni maschi, che effettivamente sembravano orsi terrestri che avessero deciso di stare ritti sulle zampe posteriori e di sottoporsi a una dieta. Vero, le loro fronti erano più alte di quelle degli orsi, davano loro un aspetto intelligente. I nasi erano più corti, la mascella inferiore più umana che non negli ursidi. Ma la folta pelliccia nero-brunastra, la mole gigantesca, le spalle e gli avambracci enormi, il fatto che, a parte qualche cinghia di pelle e pochi ornamenti in metallo, non indossassero nulla... Tutto quello, da ogni possibile punto di vista, urlava: sono orsi! Se fosse per me, pensò John... «Ah, salve, Piccolo Morso!», ruggì il più grande dei due dilbiani, naturalmente nella sua lingua, prima che John riuscisse a concludere il pensiero. «E questo sarebbe il tuo amico? Due Risposte e io ci siamo fatti una sgambata fin qui per vedercelo davanti. Lì in alto è un po' colorato, non ti sembra?». «Hor, hor, hor!», mugghiò l'altro, con un rombo di tuono. «Mi possano legare se accetterei di tenermi fra i piedi un tipo del genere. Sarebbe capace di farmi bruciare la casa! Hor, hor, hor!». «Alcuni di noi umani hanno i capelli rossi», ribatté Joshua. «Signori,
John Tardy. John, questo signore con tanto senso dell'umorismo è Due Risposte. E il suo amico così tranquillo è Ginocchia di Marmellata». «Tranquillo!», tuonò l'altro dilbiano, esplodendo in una risata colossale. «Tranquillo io! Questa è buona!». Il ruggito della sua allegria fece tremare le pareti. John strizzò gli occhi. Incredulo, passò lo sguardo dall'imperturbabile Joshua a quei due pagliacci pelosi e cresciutelli. Che razza di scemo poteva aver affidato a Guy la carica d'ambasciatore lì? Joshua era un tipino elegante, un dandy azzimato, persino irritante; e quelli erano alieni giganteschi, urlanti, beceri, tipi da frontiera. La cosa era del tutto incredibile. Per la prima volta, nel cervello di John s'insinuò il sospetto orribile che l'intera faccenda (Joshua Guy ambasciatore su un pianeta del genere, il rapimento della sociologa, il suo arruolamento forzato per un compito a cui era completamente impreparato) fosse solo parte di uno sbaglio mostruoso partito dall'Ufficio Relazioni Aliene, alla sede centrale del governo terrestre. «Non ridevo tanto da che il Vecchio Naso Bagnato è cascato nel tino della birra alla locanda di Vallata Fangosa». Due Risposte, tra uno sbuffo e l'altro, stava riguadagnando controllo di sé. «Molto bene, Capoccia Colorata, quali sarebbero i tuoi argomenti? Pensi di poter fregare il Terrore del Fiume con una zampa legata dietro la schiena?». «Prego?», chiese John. «Mi hanno detto che sono qui per riportare indietro... ehm... Faccia Unta, ma...». «Il Fiume non sarà disposto a mollarla. Vero, Ginocchia?». Due Risposte tirò una gomitata spaventosa al suo amico. «No di certo!». Ginocchia di Marmellata scosse la testa, lentamente. «Piccolo Morso, non avrei mai dovuto lasciarmi convincere da te a rinunciare a un genero come lui. Intelligente. Forte. Astuto. La mia ragazza si troverebbe benissimo, con un tipo del genere». «Non ho fatto altro», disse Joshua, «che suggerirti di farli aspettare un po', se ricordi. Ragazzi Che Corpo è ancora molto giovane». «E che corpo, ragazzi!», disse il padre, orgoglioso. «Già, da come me l'hai messa allora la faccenda non faceva grinze». Scosse di nuovo la testa. «Certo che tu sei un campione, per trovare gli argomenti giusti in una discussione. Eppure, se ci ripenso adesso, non capisco proprio cosa poteva sperare di meglio la mia ragazza». Il dilbiano, all'improvviso, scrutò gli occhi di Joshua. «Sei sicuro di non tener nascosto qualcosa fra le zampe, in questa storia?».
Joshua, a mo' di risposta, distese le mani. «Rischierei la vita di un mio simile?», disse. «Anzi, forse di due, contando John? Solo per il gusto di far imbestialire il Terrore?». «Non ha senso, eh?», borbottò Ginocchia di Marmellata. «Ma voi Piccoletti siete dei tipi terribili». Nelle sue parole risuonava un'onesta ammirazione. «Anche voialtri siete piuttosto in gamba», disse Joshua. I due dilbiani girarono la testa e sputarono dietro la spalla sinistra. «Bene bene», continuò Joshua. «Complimenti a parte, qualcuno sa dove si trova il Terrore?». «Si è diretto a ovest, attraverso le Montagne Fredde», intervenne Due Risposte. «Ieri lo hanno visto a mezza giornata di cammino da qui. Andava verso nord. Era diretto a Guado Triste e alle Pianure. Probabilmente avrà passato la notte alla locanda di Roccia Friabile». «Bene», disse Joshua. «Bisognerà trovare una guida che accompagni fin là il mio amico». «Una guida?... Oh!», esclamò Ginocchia di Marmellata. «Aspetta un po' che ti faccio vedere cos'abbiamo preparato per il tuo amico». Girò sulle zampe fece due passi, aprì la porta e urlò: «Fregatore! Vieni dentro!». Ci fu un attimo di pausa. Poi, un dilbiano ancora più snello e alto di Ginocchia di Marmellata apparve sulla soglia ed entrò nell'ufficio. Col nuovo venuto, il locale, nonostante le sue proporzioni enormi, cominciò a sembrare decisamente affollato. «Eccovi serviti, Piccoletti», disse Ginocchia di Marmellata, agitando la mano pelosa in direzione del terzo dilbiano. «Cosa potreste volere di più? Cammina tutto il giorno, scala tutta la notte, e il mattino, dopo colazione, è fresco e pronto a ripartire. Giusto, Fregatore di Colline?». «Giusto come i tetti quando piove!», proclamò rumorosamente il nuovo venuto, facendo tintinnare i vetri delle finestre. «Fregatore di Colline é il mio nome e il mio mestiere! Esiste qualcosa su due piedi che riesca a sfuggirmi? Non sul terreno solido, non sulla buona roccia! Quando io guardo una collina, quella sa già di essere fregata; e si offre senza tante storie ai miei piedi implacabili!». «Be', che te ne pare, Piccolo Morso? Eh? Che te ne pare?», Ruggì Ginocchia di Marmellata. «Davvero superbo, Ginocchia», rispose Joshua. «Ma non so se il mio amico riuscirà a tenergli dietro, se il Fregatore di Colline va tanto forte». «Tenergli dietro? Hah!», sghignazzò Ginocchia di Marmellata. «No, no, Piccolo Morso, non riconosci il Fregatore di Colline? È il postino ufficiale
tra Humrog e Cima del Bosco Selvatico. Il tuo amico Piccoletto lo spediremo per posta al Terrore. Consegna garantita. Tariffa: due chili di chiodi». «Nessuno ferma la posta». Il Fregatore di Colline lanciò nella stanza un'occhiata da professionista sicuro di sé. «Nessuno fa scherzi alla posta in transito!». «Be'...», disse Joshua, pensoso. «Due chili, ovviamente, sono fuori discussione». «Fuori discussione?», rombò Ginocchia di Marmellata. «Un postino garantito, assolutamente fidato, al servizio del governo!». «Per due chili di chiodi posso uscire in strada e assoldare cinque portatori robustissimi». «Certo che puoi. Certo!», urlò Ginocchia di Marmellata. «Ma riusciranno mai a raggiungere il Terrore?». «E il Fregatore ci riuscirà?». Il Fregatore di Colline ululò come un toro colpito a morte. «D'accordo», disse Joshua. «Sei etti e mezzo. Mi pare che vadano bene». La contrattazione proseguì. A John cominciò a venire il mal di testa. Si chiese come avesse fatto Joshua a non diventare sordo dopo tanti mesi all'ambasciata, ammesso che si trattasse di mesi. Poi si accorse che l'altro portava, infilati nelle orecchie, due apparecchietti smorza-suoni. Ovviamente, e l'idea gli diede una certa amarezza, l'ambasciatore si era ben guardato dal suggerirgli lo stesso trucco. Alla fine venne stabilita una tariffa di un chilo e tre etti di chiodi d'acciaio, tipo e dimensioni a discrezione di Ginocchia di Marmellata, da consegnarsi a una data futura da decidere. «Bene bene», disse Joshua. «E adesso veniamo al problema successivo. Come farà il Fregatore a portare John?». «Chi? Quello lì?», strepitò il Fregatore, scrutando John. «Diavolo, me lo porterò dietro come se fosse un cucciolo di una settimana. Avvolgetelo per bene in paglia morbida, infilatelo nella mia borsa per la posta, e...». «Ehi!», urlò John. «Temo», disse Joshua, «che il mio amico abbia ragione. Dovremo trovare una soluzione più comoda per farlo viaggiare». La riunione si aggiornò nel magazzino adiacente all'ambasciata, per vedere di mettere assieme un contenitore adatto a John. «Non me lo metto!», strombazzava il Fregatore di Colline, due ore dopo.
Adesso si trovavano tutti nella via principale di Humrog, davanti al magazzino; e la causa dell'eccitazione del Fregatore, un insieme di cinghie e cuscinetti imbottiti che formavano una specie di zaino per trasportare John, giaceva sui ciottoli della via. Si era radunata una modesta folla di dilbiani; e i loro commenti, offerti del tutto gratis dai soliti vocioni, non erano certo i più adatti a rendere più ragionevole il Fregatore di Colline. «Guarda guarda. Lo consiglierò alla mia vecchia per portare in giro il pupo», stava dicendo un dilbiano col naso traversato a zigzag da una cicatrice grigia. «Così si può allenare anche il Fregatore», intervenne un altro mostro dalla pelliccia nera. «Prima o poi avrà qualche figlio, no?». «A meno che», disse, con aria serissima, il tipo col naso sfregiato, «quell'affanno lì non sia proprio figlio del Fregatore». «Non dirmelo!», esclamò l'altro, poi scrutò di traverso John. «Ehi, sul serio, gli assomiglia». «Volete che vi strappi le orecchie?», ruggì l'infuriato Fregatore, interrompendo l'accesa discussione con Ginocchia di Marmellata e Due Risposte. «Intanto questo qui è solo posta, e poi è un Piccoletto!». John si allontanò un poco dal gruppo di creature urlanti e cercò di escludere dal suo cervello le loro voci, anche se escluderle dalle orecchie era un tantino difficile. Si trovava in quello stato di esasperazione totale, universale, che si verifica spesso quando persone indipendenti e decise vengono sballottate qua e là senza spiegazioni e senza avere la legittima possibilità di protestare. Girò la schiena agli altri e fissò una cima coperta di neve che si alzava al di sopra degli pseudo-pini attorno a Humrog. L'aria chiara, leggera delle montagne di Dilbia faceva sembrare tutto tre volte più vicino di quanto non fosse. «Per lo meno prova a metterti quell'aggeggio innominabile!», urlava Ginocchia di Marmellata al Fregatore di Colline, a pochi metri da lui. E così, pensò John, mi hanno fatto perdere la nave che doveva condurmi a lavorare con la squadra d'esplorazione del governo; un lavoro che ho sempre desiderato, che mi è costato sette anni di specializzazione all'università. Invece mi trovo qui, soggetto all'arruolamento forzato, senza possibilità di oppormi. Be', sì, dovette ammettere, la Legge sull'Arruolamento prevede che io possa oppormi se riesco ad accusare l'autorità che mi ha arruolato, in questo caso Joshua, d'incompetenza o scarsità d'informazioni. Bofonchiò sottovoce. E come faccio a oppormi, se non riesco
nemmeno a sapere cosa sta succedendo? Sono sceso dall'astronave poche ore fa, e Joshua non mi ha ancora lasciato cinque minuti per fargli qualche domanda. Al tempo stesso, c'era qualcosa di mostruosamente sbagliato nel modo in cui stavano procedendo le cose. Non appena si sistemava la faccenda dello zaino, avrebbe preso Joshua in disparte, se necessario anche con la forza, e lo avrebbe costretto a rispondergli, prima di impegnarsi oltre. Dopo tutto, anche i normali cittadini hanno i loro diritti... «Vabene, vabene, vabene!», latrò il Fregatore di Colline, pochi centimetri dietro l'orecchio di John. «Mettetemi addosso questa oscenità!». Voltandosi, Jon vide Joshua che stava infilando sulla schiena del Fregatore quella specie di zaino per bambini. Il dilbiano si era messo a quattro zampe. Istintivamente, John si avvicinò per dare una mano all'ambasciatore. «Così va meglio!», mugugnò Ginocchia di Marmellata. «Non è che non ti capisca. Però sentimi, ragazzo! Si dà il caso che io sia primo cugino dello zio di tua madre, più anziano di te di una generazione. E quando io dò un ordine a un mio parente della seconda generazione, quello obbedisce!». «Sto obbedendo, no?», ringhiò il Fregatore. Poi scrollò le spalle, per vedere come gli andava lo zaino. «Be', non sembra troppo male». «Vedrai», grugnì Joshua, allacciando l'ultima cinghia, «che è più facile da portare della tua borsa». «Non è questo il punto!», ululò il Fregatore. «Un postino ha la sua dignità. Non può portare...». Una risata del dilbiano col naso sfregiato gli mozzò il discorso. «Senti qua, Naso Rotto!». «Ci penso io». Ginocchia di Marmellata fece un paio di passi in avanti. «Qualcosa che non va, Naso Rotto?». «Oh, passavo di qui», bofonchiò Naso Rotto; e immediatamente, grazie all'intervento del capo del villaggio di Humrog, indietreggiò tra la folla. «Be', allora passa, amico. Passa!», tuonò Ginocchia di Marmellata. Naso Rotto prese a trotterellare lungo la strada, rosso di vergogna fino all'ultimo pelo. Mentre accadeva tutto questo, John, sollecitato da Joshua, si era accomodato nello zaino, per vedere come avrebbe retto il suo peso. Le cinghie scricchiolarono, ma il tutto sembrava robusto e comodo. Il Fregatore di Colline girò la testa verso di lui. «Sei abbastanza leggero», gli disse. «Come va? Tutto bene là sopra?». «Perfetto», rispose John.
«In questo caso, arrivederci a tutti!», ruggì il Fregatore di Colline. Si alzò in piedi con un solo, agile movimento. E prima che John avesse il tempo di fare qualcosa in più che aggrapparsi alle cinghie per non precipitare, e trattenere il fiato, erano partiti lungo la via al passo veloce della camminata micidiale del Fregatore, diretti al sentiero nella foresta, alle montagne dietro le quali sorgeva la cima che John osservava poco prima, e a quel nemico incomprensibile, sfuggente, che era il Terrore del Fiume. 3 Non fosse stato per l'indottrinamento ipnotico cui lo avevano sottoposto (con un elmetto a forma di campana che gli copriva completamente la testa, nella minuscola cabina del corriere governativo che viaggiava a ipervelocità dalla Cintura Stellare a Dilbia), John si sarebbe istintivamente lamentato della partenza improvvisa del Fregatore. Invece, i suoi pseudoricordi di vita dilbiana reggevano stranamente bene. Quando aveva aperto la bocca per urlare: «Ehi, aspetta un attimo!», aveva improvvisamente «ricordato» quali conseguenze potesse avere una frase del genere, dopo di che aveva serrato le labbra sulla prima sillaba. Comunque, il suono strangolato che gli uscì di gola bastò a far rallentare per un secondo il Fregatore di Colline. «Cosa c'è?», grugnì il postino dilbiano. «Niente», si affrettò a rispondere John. «Mi schiarivo la gola». «Credevo che volessi dire qualcosa», sbuffò il Fregatore, e ripartì a passo normale. Quello che John aveva appena «ricordato» era uno dei trucchetti ammessi dai costumi dilbiani. Lui si aspettava di lanciarsi all'inseguimento della Lamorc il mattino dopo, come minimo; e non senza prima aver avuto un colloquio particolareggiato con Joshua Guy, in modo da costringere quell'omino evasivo a spiegargli i come e i perché della situazione. Come membro della grande razza umana, era suo rigoroso diritto ricevere istruzioni precise prima di lanciarsi in un'avventura del genere. Cioè, ne aveva il diritto in quanto uomo. In quanto posta dilbiana, i suoi diritti erano un tantino diversi; in pratica, consistevano nella responsabilità del postino di consegnarlo a destinazione senza fargli subire danni durante il tragitto. Era da lì che nasceva il trucchetto del Fregatore di Colline. John si era accorto che il postino aveva perso quasi tutto il suo entusiasmo per il lavo-
ro dopo aver scoperto in che razza di aggeggio avrebbe dovuto trasportare la posta. Stando alle informazioni dell'indottrinamento ipnotico, John sapeva che il Fregatore non poteva rifiutarsi di trasportarlo senza perdere in onorabilità. Ma se la posta avesse tentato di dare istruzioni al postino circa le modalità della consegna, allora forse l'onore dilbiano sarebbe stato salvo, e il Fregatore avrebbe potuto rifiutare, lavandosi le mani di tutta quella storia. Quindi, John non disse niente. Comunque aggiunse un'altra riga all'elenco di scorrettezze di Joshua Guy che stava tracciando mentalmente. L'ambasciatore doveva aver previsto quello che sarebbe successo. John pensò al telefono da polso che aveva e cominciò a elaborare alcune delle frasi, assai poco delicate, che intendeva comunicare a quel gentiluomo non appena gli si fosse presentato un momento d'intimità per chiamarlo. Nel frattempo, il Fregatore discese la via principale di Humrog, svoltò a destra e cominciò a risalire il sentiero verso la prima cresta di monti dietro la città. In effetti, non aveva esagerato quando asseriva di essere un tipo che coi piedi ci sapeva fare. A John parve di trovarsi quasi immediatamente lontano dagli edifici di legno della città di Humrog, popolazione approssimativa cinquemila dilbiani, e di addentrarsi in un attimo fra il verde degli pseudopini che ricoprivano le zone montuose del pianeta. Le lunghe gambe del postino si alzavano e si abbassavano a ritmo costante, trasportando John su per una salita dall'otto al dieci per cento di pendenza a una velocità non inferiore ai quindici o venti chilometri l'ora. John, che oscillava in qua e in là come in groppa a un elefante, si concentrò nel tentativo di adeguarsi ai movimenti del Fregatore e di non sprecare fiato. In quanto al Fregatore, non diceva niente. Giunsero in cima alla cresta e scesero verso la prima valle che il sentiero traversava. Lunghi rami d'albero sfioravano di continuo il corpo di John, che si teneva saldamente attaccato alle cinghie. A quella velocità, sembrava che il postino dovesse mettere un piede in fallo da un momento all'altro, uscire dal sentiero e rotolare giù per il fianco della collina. Eppure, nonostante tutto, John si accorse di cominciare ad abituarsi alle ondulazioni del corpo enorme su cui viaggiava. Anzi, reagiva con tutta l'abilità di un atleta dalle doti non comuni, già abituato a imprese più o meno simili. Infilato nello zaino, risolveva perfettamente i problemi posti dal fatto di cavalcare un dilbiano. E diventava sempre più bravo, così come era diventato bravo in ogni sport, dalla pelota alla lotta libera, sin da quando
era stato abbastanza grande da avventurarsi oltre i confini del box della sua infanzia. La cosa non lo rese per niente felice. Esiste una legge di natura, magari sbagliata ma comunque universale, che spinge i poeti a voler essere soldati di ventura, e fa desiderare ai soldati di ventura di saper scrivere poesie. John, eccezionalmente dotato nel fisico, aveva sempre sognato il giorno in cui avrebbe potuto dedicarsi solo agli studi al microscopio e alla stesura di rapporti scientifici. Il fato, rifletté non senza amarezza, gli era come sempre avverso. «Cosa?», chiese il Fregatore di Colline. «Ho detto qualcosa?», ribatté John, tornando di colpo, vergognoso, alla realtà dei fatti. «Qualcosa hai detto», rispose il Fregatore, cupo. «Cosa, non so di preciso. Mi è parso che stessi parlando nella lingua di voi Piccoletti». «Oh», disse John. «Così mi è sembrato. Insomma, se mi avessi parlato come parla un vero uomo, avrei capito. Credevo che con me avresti usato soltanto la nostra lingua. A nessuno fa piacere che gli si parli alle spalle usando una lingua incomprensibile». «Oh, no. No», si affrettò a precisare John. «È solo che sognavo a occhi aperti... Pensavo al mondo di Piccoletti da cui vengo». Il Fregatore di Colline digerì quell'informazione in silenzio per un attimo o due. Intanto, giunse in fondo a una valle e s'incamminò su per il versante opposto. «Vorresti dire», chiese, perplesso, «che stavi dormendo, lì sopra?». «Oh... Be'... Mi ero appisolato...». Il Fregatore sbuffò, e parve una modesta esplosione di laboratorio; poi accelerò. Nelle due ore successive, non disse una sola parola. Anzi, non disse più niente finché sul suo orizzonte verbale non apparve qualcuno che gli offrì una scusa per conversare. Questo qualcuno fu un dilbiano, un tipo col pelo tutto arruffato, che sbucò d'improvviso dagli alberi sul sentiero davanti a loro, mentre il Fregatore stava superando la pendenza dolce di una delle interminabili valli. Lo sconosciuto portava su una spalla un erbivoro selvatico del pianeta, una specie di bue muschiato, grande agli occhi dei terrestri, ma non certo a quelli dei dilbiani. Nella mano libera, reggeva un'accetta col manico lungo un metro e ottanta.
La testa dell'accetta era un triangolo spesso e grigio di ferro di Dilbia. Un lato del triangolo formava la lama, e su un angolo il ferro era ritorto in modo da creare un uncino sporgente. Un arnese e un'arma dall'aria molto pericolosa che, stando all'indottrinamento ipnotico di John, serviva per svariati lavori e per le operazioni di polizia. Però non veniva mai usata in risse o combattimenti. I dilbiani ritenevano che servirsi di un'arma fosse cosa senz'altro indegna di un vero uomo. Il dilbiano appena apparso aspettò di buon grado che loro lo raggiungessero sul sentiero. Il naso di John, che ormai si era quasi abituato al Fregatore di Colline, scoprì che l'odore dello sconosciuto era di gran lunga più potente di quello di tutti i dilbiani che aveva incontrato. Per di più, a quel tizio mancavano un paio di denti ed era abbondantemente sporco, sulla spalla e sul petto, del sangue dell'animale morto che trasportava. Con la sua bocca sdentata, lanciò a John un sorriso pieno d'interesse; però si rivolse al Fregatore, quando gli si fermarono davanti. «Fregatore...», disse. «Salve, boscaiolo», disse il Fregatore. «Salve, postino». Il suo sorriso si fece più ampio. «Hai posta per me?». «Per te?». L'esclamazione incredula del Fregatore risuonò per tutto il bosco. «C'è poco da ridere!», grugnì l'altro. «Una volta un mio cugino in seconda ha ricevuto posta. Il suo clan si radunava alle Due Cascate; lui apparteneva alle Due Cascate per via della zia di sua madre...». Imperterrito, il postino proseguì nell'apparente tentativo di spiegare grazie a quale genealogia suo cugino potesse sostenere di aver ricevuto la posta in questione. Nel frattempo, l'attenzione di John venne attratta da qualcosa che si trovava fra gli alberi da cui era emerso il boscaiolo. Stava cercando di guardare senza tradirsi girando direttamente la testa. Difficile vedere bene fra le ombre fitte proiettate dai rami, ma gli pareva che nel bosco fossero nascosti due individui, e che stessero ascoltando la loro conversazione. Nessuno dei due era un essere umano. Uno sembrava un dilbiano, un dilbiano piccolo e piuttosto grassoccio. E l'altro, John era quasi pronto a giurarlo, era un emnoide vestito alla Buddha. S'infuriò perché, ogni volta che era sul punto di poter scrutare per bene quel secondo individuo, un soffio di vento o una corrente d'aria smuovevano un ramo che gli bloccava la visuale. Ma se c'era un emnoide... L'indottrinamento ipnotico, forse a causa dell'incertezza che sembrava circondare tutto ciò che aveva a che fare con John e con Dilbia in genere,
non gli aveva fornito informazioni sugli emnoidi. Di conseguenza, tutto ciò che sapeva su quella razza, in lotta continua con l'umanità nella corsa alle stelle, era quel poco che aveva appreso normalmente dai giornali o da altre letture casuali. Gli emnoidi avevano esattamente l'aspetto di terrestri grassi e gioviali, grandi una volta e mezzo un uomo normale. Però, quello che sembrava grasso era in realtà una robusta muscolatura prodotta dalla gravità del loro pianeta d'origine. E non erano, non erano assolutamente, gioviali nel senso umano del termine. Certo, possedevano il senso dell'umorismo; ma era l'umorismo di chi si diverte a strappare le ali alle mosche. L'unico incontro diretto che John avesse avuto in precedenza con un emnoide risaliva alle Olimpiadi Interplanetarie di Brisbane, Australia, l'anno che aveva vinto il decathlon. L'ambasciatore emnoide, che quel giorno aveva assistito alla gara dalla sua tribuna, era poi sceso per farsi presentare qualche atleta. Si era divertito a lanciare il giavellotto a una sessantina di metri, a spiccare un salto da fermo di otto metri e mezzo in altezza, insomma a dimostrare ai vincitori delle ultime gare quanto fosse bravo. Poi era scoppiato in una risata fragorosa, consigliando a tutti una dieta a base di grassi come quella che seguiva lui, integrata dal lavoro fisico più pesante. Se avesse avuto tempo, aveva detto, sarebbe stato lieto di allenare una squadra d'atleti che senz'altro avrebbero fatto piazza pulita alle Olimpiadi successive. Purtroppo, doveva tornare alla sua ambasciata a Ginevra. Ma che seguissero i suoi consigli: avrebbero ottenuto risultati sorprendenti. Poi se n'era andato, continuando a ridere. E intanto, vicino al fosso pieno di segatura per il salto con l'asta, metà della squadra italiana era impegnata nel difficile compito di trattenere uno dei loro, il fondista Rudi Maltetti, che era riuscito a mettere le mani su un giavellotto e minacciava di creare un incidente interstellare. «E così questo sarebbe il Pacco Postale da Mezza Pinta». John tornò di colpo al presente, accorgendosi che l'ultima frase del boscaiolo si riferiva a lui. Girò la testa e, da sopra le spalle del Fregatore, fissò l'altro dilbiano che gli sorrideva quasi con aria da emnoide. A quanto pareva, gli avevano già affibbiato un soprannome, come aveva predetto Joshua. «Cosa ne sai di lui?», stava chiedendo il Fregatore. «Me ne ha parlato la Regina dei Ciottolini», rispose l'altro, increspando la parte destra del labbro superiore in quello che era l'equivalente locale di
una strizzatina d'occhi. John ricordò che i Ciottolini erano gli equivalenti dilbiani di elfi, folletti e affini. Si chiese se il boscaiolo parlasse sul serio, ma dovette concludere che era impossibile. Col che, restava il problema di sapere come avesse fatto a riconoscerlo. «Tu chi sei?», domandò John, servendosi delle migliori maniere dilbiane, che permettevano a chiunque di intromettersi in qualsiasi conversazione. «Allora parla, eh?», disse il boscaiolo. Il Fregatore di Colline grugnì e gettò un'occhiata dispiaciuta alle proprie spalle. «Mi chiamano Quello Che Fa Piangere gli Alberi, Mezza Pinta. Perché li taglio, chiaro?». «Chi ti ha parlato di me?». «Ah, questo è chiedere troppo», sorrise Quello Che Fa Piangere gli Alberi. «Diciamo che è stata la Regina dei Ciottolini, il che tra parentesi è metà della verità. Lo sai perché lo chiamano il Terrore del Fiume, vero, Mezza Pinta? È per via che gli piace combattere in riva a un fiume e sbattere l'altro sott'acqua e farlo annegare». «Oh?», fece John. «Sì, insomma, lo so». «Lo sai?», disse il boscaiolo. «Be', sarà meglio che tu ci stia attento. Allora, buona fortuna, Mezza Pinta; e anche a te, camminatore. Io torno a casa a mangiare qualcosa». Si girò; e in quell'attimo John riuscì improvvisamente a vedere, tra gli alberi, i due individui nascosti nell'ombra. Non gli fu possibile identificare il dilbiano; ma l'emnoide era un tipo più basso e più grosso di Gulark-ay, uno che evidentemente, chissà quando, si era ritrovato col naso fracassato. Poi, il Fregatore di Colline si rimise in cammino di colpo. John perse di vista i due. Quello Che Fa Piangere gli Alberi si era inoltrato fra i cespugli e il bosco sull'altro lato del sentiero, e scomparve immediatamente. Si udì ancora un attimo il rumore dei suoi passi (era sorprendente quanto potesse essere silenzioso un dilbiano, se lo voleva), poi non si sentì più nulla. Il Fregatore riprese a procedere lungo il sentiero senza una parola. John restò a meditare su ciò che aveva scoperto. Cercò, tra i suoi «ricordi» dilbiani, la frase esatta per indurre alla conversazione il Fregatore di Colline. «Un tuo amico?», gli chiese. Il postino sbuffò così forte che John, nello zaino, sobbalzò. «Amico!», esplose. «Un volgarissimo boscaiolo di campagna? Io sono un pubblico ufficiale, Mezza Pinta. Tienilo a mente». «Pensavo...», disse John, accomodante. «Pareva che sapesse diverse co-
se di me e di quello che sta succedendo. Insomma, sa che stiamo inseguendo il Terrore del Fiume. Eppure nessuno ci ha superati...». «A me non mi supera nessuno», disse il Fregatore, che andava in collera quasi automaticamente. «E allora, come...». «Deve averlo informato qualcuno che è partito prima di noi!», ringhiò il postino. Ma, dopo quell'ultima frase, cadde nel silenzio più assoluto, per cui John non riuscì a cavargli di bocca nient'altro. E il silenzio durò finché, alla fine, col sole ormai al tramonto, non si fermarono alla locanda di Roccia Friabile, dove avrebbero trascorso la notte. 4 La prima cosa che fece John, una volta libero dallo zaino, fu camminare un po' in giro per sgranchirsi le gambe indolenzite. Vacillava, e non poco. Cinque ore in groppa a una cavalcatura mai provata non si raccomandano nemmeno a un atleta dotato. Le cosce gli dolevano e le ginocchia avevano la tendenza a cedere di colpo, come se avesse trascorso il pomeriggio ad arrampicarsi su per le scale a piuoli. Comunque, più camminava più l'agilità che gli era naturale tornava nel suo corpo. La locanda di Roccia Friabile e il terreno su cui sorgeva costituivano, letteralmente, uno squarcio panoramico nella strada di montagna che John e il Fregatore di Colline stavano seguendo. Su un lato della strada si ergeva un muraglione di roccia che saliva verso il cielo a qualcosa come un'angolazione di ottanta gradi. Sull'altro lato c'era uno spiazzo piatto, ghiaioso, del tipo che sarebbe servito per un eccezionale parcheggio panoramico su un'autostrada terrestre. Sullo spiazzo sorgeva la forma bassa e lunga della locanda, fatta di tronchi grezzi. Dietro la locanda, una specie di cortile abbandonato a se stesso, lungo una ventina di metri, che terminava sull'orlo di un precipizio da togliere il fiato. Sotto, un canyon, sul cui fondo, centocinquanta metri più in basso, s'intravvedeva scorrere un fiume. Un posto pittoresco, per chi ama i posti pittoreschi. John non era nello stato d'animo adatto. Non appena gli parve che le sue gambe non fossero più copertoni d'automobili ma, all'incirca, onesti arti in carne e ossa, seguì lo spiazzo fino al punto in cui si assottigliava e tornava a essere una strada. Lì, in relativo isolamento, chiamò Joshua col telefono da polso.
L'ambasciatore rispose immediatamente. Con ogni probabilità portava un apparecchio simile al polso, pensò John. «Pronto? Pronto!», disse, esile, la voce di Joshua dal minuscolo altoparlante. «John?». «Sì, signore», rispose John. «Bene, bene! Come stai?». «Bene, grazie. E lei?». «Ottimamente. Ottimamente. Ma avrai chiamato per un motivo preciso, immagino». «Mi trovo a Roccia Friabile», disse John. «Siamo appena arrivati. Passeremo qui la notte. Può parlare?». «Se posso parlare? Certo che posso, perché non dovrei?». Dall'altoparlante uscì all'improvviso una risatina secca. «Ah, ho capito. No, sto solo bevendo qualcosa prima di cena. Sono solo. Cosa volevi dirmi?». «Be', pensavo che potesse avere istruzioni per me», disse John. «Il Fregatore di Colline è partito prima che lei riuscisse a spiegarmi tutto per bene. Pensavo che adesso potrebbe informarmi». «Informarti?», disse il telefono. «Mio caro ragazzo, non ho proprio nessuna informazione da darti! Devi raggiungere il Terrore del Fiume e riportare indietro Miss Ty Lamorc. Che altro dovresti sapere?». «Ma...», cominciò John, e si fermò. Non sapeva quali informazioni gli occorressero; sentiva solo il bisogno di una conoscenza generale più diffusa, come uno di quei dolori che a volte prendono un po' in tutto il corpo. Incapace di tradurre in parole quella sensazione, restò lì a fissare il telefono da polso. «Ancora nessun segno del Terrore?», chiese il telefono, riprendendo cortesemente la conversazione. «No». «Oh, probabilmente ti occorreranno diversi giorni per raggiungerlo. Intanto tu cerca di orientarti. Vedrai che le cose andranno bene. Segui il tuo naso. Vai a orecchio. Per il resto, rilassati e goditi il viaggio. Il paesaggio a Roccia Friabile è molto bello, non trovi?». «Sì», borbottò John, confuso. «Già. L'ho sempre pensato anch'io. Allora chiudiamo la conversazione. Chiamami pure ogni volta che ti serve il mio aiuto. Arrivederci». Ci fu un clic, e la voce di Joshua svanì. John spense il telefono. Leggermente depresso, tornò verso la locanda. Era un'idea contraria a tutte le leggi conosciute della biologia, ma si chiese se per caso Joshua, da un lato
della sua famiglia, non fosse in parte emnoide. Mentre parlava al telefono, il tramonto era sceso sulle montagne; ma i suoi occhi si erano abituati da soli al diminuire della luce, per cui si accorse di quanto fosse buio fuori solo quando superò la tenda di pelle che chiudeva l'ingresso della locanda. Le grandi candele accese in tutta la stanza, gli odori e i rumori dell'interno lo assalirono di colpo, lasciandolo per un attimo stordito e semi-accecato. La locanda dilbiana standard, lo informarono i suoi «ricordi» ipnotici, era composta di sala da pranzo, dormitorio e cucina. John era appena entrato in sala da pranzo. Scoprì che si trattava di un locale quadrato, pieno di panche di legno e di tavolini simili a quelli da picnic, a cui potevano sedere tre o quattro dilbiani per volta. Al momento c'erano una ventina di dilbiani, tutti impegnati a bere e quasi tutti a discutere. Il Fregatore di Colline, seduto in un angolo, stava parlando con una dilbiana femmina che indossava un grembiule. «Ma non sai nemmeno dirmi cosa devo dargli da mangiare?», stava chiedendo la locandiera, o quello che era, agitando le sue manone pelose. «Cibo!», ruggì il Fregatore di Colline. «Ma che tipo di cibo? Tu non hai mica dei bambini che ogni tanto ti portano in casa una bestiolina. Io sì, e so come vanno queste cose. Se gli dai da mangiare la roba sbagliata, la bestia muore. Devi dirmi esattamente che razza...». «Per l'innominabile, come faccio a sapere esattamente cosa?», ringhiò il Fregatore, agitando furiosamente le braccia, con gran divertimento degli ospiti della locanda più vicini. «Dagli qualcosa. Qualsiasi cosa. Vedi un po' se la mangia. Carne, birra. Qualsiasi cosa!». «State parlando di me?», s'intromise John. Tutti quanti abbassarono la testa, e per la prima volta scoprirono la sua presenza. «Da dove sarà entrato?», chiesero, ad alta voce, parecchi dilbiani; anche se John, entrando, aveva pestato i piedi praticamente a tutti. «Parla!», boccheggiò la locandiera. «Non te l'avevo detto?», chiese il Fregatore. «Mezza Pinta, dille cosa vuoi mangiare». John carezzò i tubetti di cibo concentrato che portava alla cintura. Quel mattino, Joshua glieli aveva passati con aria indifferente; ma senza lasciargli capire che avrebbe dovuto servirsene nel giro di poche ore. Tuttavia, era chiaro che non si era trattato di una semplice coincidenza. L'indottrinamento ipnotico gli ricordò che il cibo dilbiano lo avrebbe sì nutrito, ma
esisteva la possibilità che scatenasse un'allergia galoppante. Al momento, non gli andava troppo di trovarsi con l'orticaria o con l'eczema. Doveva accontentarsi del cibo concentrato. Con qualcosa per mandarlo giù. «Voglio solo un po' di birra», disse. Immediatamente, da tutti i dilbiani presenti partì un'ondata di simpatia. Bere birra era cosa degna di un vero uomo. Probabilmente pensarono che quella bestiolina aliena non poteva essere troppo aliena, se le piaceva bere. La locandiera partì immediatamente. John saltò su una delle panche, appoggiò i gomiti sul tavolo e si trovò, più o meno, nella posizione di un bambino terrestre sui cinque anni, che arriva appena col mento alla tavola dei genitori. La birra arrivò in un boccale di legno alto una cinquantina di centimetri. Ne usciva un puzzo superiore a quello della più rancida delle birre più schifose. I manici non esistevano. John si guardò attorno. Tutti gli altri, secondo le regole della buona creanza dilbiana, sedevano con una gamba ripiegata sotto di sé. Lo guardavano e aspettavano. John fece passare la gamba destra sotto la sinistra, afferrò con entrambe le mani il boccale, inclinò l'orlo, senza badare al peso tremendo, e tracannò. Un liquido amaro, aspro, schifoso, gli scese in gola. Soffocando il desiderio di risputarlo, si affrettò a deglutire; poi rimise il boccale sul tavolo, e per far vedere che la birra gli era piaciuta si asciugò le labbra col dorso della mano. Nella stanza esplose un mormorio d'approvazione. E tutti tornarono ai propri affari. John, abbandonato a se stesso, bevve un altro paio di volte. Il sapore che gli restava in bocca non era orribile come temeva. Dopo tutto, la birra, nel senso di bevanda leggermente alcolica distillata da cereali fermentati, è sempre birra. Ovunque, da per tutto. E adesso che era passato il primo impatto, le papille gustative di John cominciavano a scoprire somiglianze tra quello e altri liquidi simili bevuti in passato. Facendo finta di niente, John distese la gamba destra, che cominciava a intorpidirsi, e si girò verso il Fregatore di Colline per chiedergli se avesse saputo qualcosa del Terrore del Fiume o della sua prigioniera. Ma il postino dilbiano era scomparso. Pensoso, John bevve un'altra sorsata, questa volta più piccola, e notò vagamente che la birra non era poi tanto male. Probabilmente il Fregatore di Colline era solo uscito un attimo. In ogni caso, per John era più sicuro restarsene lì anziché mettersi incautamente a correre fra gli avventori, molti dei quali avevano già terminato di cenare e si apprestavano a una serata di
serie bevute. Ma il postino non tornò. John scoprì che il suo boccale era vuoto. Nel giro di pochi minuti, la locandiera gliene portò un altro pieno, chissà se di propria iniziativa o per ordine del Fregatore. John restò piuttosto sorpreso nello scoprire di aver bevuto tanto. Non era un forte bevitore, per natura. Però era difficile non ingollare sorsate robuste da quel boccale così pesante e scomodo da reggere; ed era difficile tenersi su sorsate a misura d'uomo quando, tutt'attorno a lui, i dilbiani trangugiavano una mezza pinta per volta, per così dire. Dopo tutto, decise John, la sala da pranzo era un posto un po' primitivo, ma ci si stava bene. I dilbiani erano brava gente. Come mai gli era venuta l'idea che fosse pericoloso avventurarsi fra loro? Di colpo, rifletté che forse la mossa più saggia era andare a cercare il suo postino. Poi riportarlo al tavolo, offrirgli una birra, e, sotto il velo di una conversazione banale, scoprire come la pensassero realmente i dilbiani sulla questione dei rapporti fra terrestri ed emnoidi. Scese dalla panca e si diresse verso la porta interna oltre la quale era appena svanita la locandiera. La porta, come quella d'ingresso, aveva una tenda di pelle. Spinto da parte il peso non indifferente della tenda, John si trovò in una stanza lunga. Sulla metà di una parete c'era un trogolo di pietra in cui bruciava della carbonella. Sopra il trogolo, un tubo primitivo correva fino a un camino che risucchiava quasi tutto il fumo e le esalazioni e le gettava all'esterno, nel costante agitarsi dei venti di montagna. Parecchi dilbiani di ogni età, specialmente femmine e ragazzi, si muovevano attorno al fuoco e a una lunga tavola che correva parallela al trogolo, al centro della stanza. Verdure e carcasse d'animali pendevano dalle travi in legno, e diversi barilotti erano accatastati vicino all'entrata sul retro della cucina. Tra il vapore e il fumo riconobbe la locandiera, che stava riempiendo direttamente dai barili una serie di boccali; ma del Fregatore non c'era traccia. I dilbiani presenti nella stanza lo ignorarono completamente, come avevano fatto gli altri in sala da pranzo, prima che lui aprisse bocca. Aspettò che la locandiera avesse finito e le si avvicinò. Poi si mise direttamente sulla sua traiettoria. «Uaaaa!», disse lei, o esclamò l'equivalente in dilbiano, quando lo riconobbe. Si fermò di colpo, rovesciando un po' di birra. «Cosa ci fai qui? Esci subito!». Lo fissò, incerta. «Su, da bravo, Piccoletto», disse, cambiando tono di voce. «Adesso torna al tuo tavolo, eh?». «Cercavo il Fregatore di Colline...», cominciò John.
«Il Fregatore non è qui. Torna al tuo tavolo. Hai il boccale vuoto? Tra un minuto ti porto altra birra». «Un attimo, un attimo. Visto che ci siamo», disse John, «puoi dirmi se ieri il Terrore del Fiume è passato di qui? Dovrebbe avere con sé un Piccoletto come me. Hanno dormito qui?». «Si è fermato a mangiare qualcosa e a bere un po' di birra. Non ho visto nessun Piccoletto», rispose la locandiera, che evidentemente cominciava a spazientirsi. «Anzi, non ho visto nemmeno il Terrore. E se lo avessi visto, non me ne sarebbe importato un accidenti. Non ho tempo, io, per questi bulli da strapazzo. Fare a botte, fare a botte, non pensano ad altro. E allora, quando si lavora? Adesso sciò! Sciò!». John fece sciò verso il suo tavolo. Il Fregatore di Colline era sempre latitante; ma mentre lui si arrampicava, con un certo sforzo, sulla panca, si sentì afferrare alle spalle e sollevare in aria. Inclinando la testa in modo da poter guardare all'indietro, scoprì che a catturarlo era stato un grosso maschio dilbiano, dotato di un potente odore che gli ricordava quello del boscaiolo e di una borsa enorme, a tracolla su una spalla. A occhio e croce, sembrava che fosse un tantino al di là di una leggera sbronza. Schiamazzando come un pazzo, il dilbiano traversò a zigzag la stanza, senza mollare John, e andò a sbattere contro un tavolo a cui erano seduti altri due indigeni con la faccia da delinquenti come lui. 5 John si trovò appoggiato in cima al tavolo fra i tre. Il dilbiano che lo aveva rapito cadde pesantemente a sedere su una panca alle sue spalle. John balzò istintivamente in piedi. Era circondato da tre facce enormi, pelose, disposte lungo un cerchio di un metro di diametro. Una delle facce emetteva un alito pestifero. «Eccolo qui», disse il tipo che aveva afferrato John. «Un vero Piccoletto». «Sarà cresciuto a dovere, secondo te?», chiese uno degli altri, un dilbiano col naso rotto e una cicatrice che gli traversava il pelo del viso. Evidentemente, era il terzo del gruppo che aveva bisogno di lavarsi i denti. «Certo che è cresciuto», rispose il dilbiano ubriaco, indignato. «Non penserai che lo lascerebbero andare in giro da queste parti, se non fosse adulto e vaccinato!». «Dagli un po' di birra», intervenne, roco, quello che soffriva di alitosi.
Gli presentarono un boccale, e lui, per non correre rischi, lo sollevò e se lo portò alla bocca. «Non beve molto», disse Alitosi, dopo che John ebbe rimesso giù il boccale. Già prima gli girava la testa, e adesso quell'abbondante sorsata gli aveva dato il colpo di grazia. «Come un uccello. Come un uccellino». «Comunque ha la forma di un uomo», commentò il tipo col naso rotto. «Chissà se...». La domanda riguardava certi attributi fisiologici di John. «Improbabile, date le dimensioni», disse il dilbiano ubriaco. «Però ho sentito che sta inseguendo la femmina Piccoletta che il Terrore ha rapito. Secondo te...?». Uno degli altri, il solito Alitosi, rimpianse roco il fatto di non avere lì anche la femmina Piccoletta. A suo giudizio, sarebbe stata un'ottima occasione per un esperimento interessante ed educativo. «Andate all'inferno!», esclamò John, passando istintivamente alla lingua comune terrestre. «Cosa?», chiese, alle sue spalle, il dilbiano con la borsa. John tradusse in dilbiano, cercando di essere il più espressivo possibile. I tre scoppiarono a ridere. «Bevi ancora un goccio», disse Naso Rotto; e John fu costretto a ingollare un'altra pinta o giù di lì di birra. Naso Rotto si girò verso i suoi amici. «Comunque, sarà meglio che non faccia troppo il duro con me!». Convinto di essere spiritoso, agitò minacciosamente la sua manaccia pelosa sopra la testa di John. John si sentì sfiorare i capelli. Se i colpi del dilbiano fossero andati veramente a segno, probabilmente gli avrebbero squarciato il cranio. Nella stanza, tutti risero. «Chissà se conosce qualche trucchetto», disse Alitosi. «Allora, Piccoletto?», chiese il dilbiano ubriaco, quello con la borsa, che ormai sembrava considerarsi proprietario di John. «Certo che ne conosco», disse John. «Faccene vedere uno!». «Datemi un boccale pieno di birra», ordinò John. I tre, versando dai rispettivi calici, ne riempirono uno fino all'orlo, tra una ridda di supposizioni (più o meno sconce) sull'uso a cui era destinata la birra. Appena il boccale fu pieno, John si chinò e lo levò in aria, tenendolo ben stretto. «Adesso, attenzione», disse. «Mi appoggio qui, mi metto a ondeggiare sui talloni, così, e...». Di colpo, spiccò un balzo verso l'alto. Il boccale ruzzolò sul tavolo, e una marea di birra inondò le facce dei tre dilbiani. Mentre loro si tiravano
indietro e cominciavano a ripulirsi, John saltò giù dal tavolo, si accucciò sotto la panca più vicina, e continuò a correre a zigzag verso la porta d'ingresso. Temeva che, da un momento all'altro, una mano gigantesca scendesse dall'aria per afferrarlo; ma, per quanto lui fosse costretto a scoprirsi di tanto in tanto, sembrava che nessuno avesse intenzione di fermarlo. Tutti i dilbiani della sala da pranzo stavano ridendo come pazzi alle spalle dei tre che aveva innaffiato. E i tre, fra bestemmie atroci, buttavano all'aria le panche nei pressi del loro tavolo, evidentemente convinti che John non fosse molto lontano. Quando gli si presentò la porta, John fu felicissimo di sgusciare sotto la tenda di pelle, di rifugiarsi nella sicurezza delle tenebre notturne. Non si fermò subito: continuò a correre. Fece il giro della locanda, in direzione del cortile che arrivava fino all'orlo del precipizio. Sotto, dal fondo del canyon, giungeva l'eco del fiume che si muoveva senza sosta nella notte. Gli serviva un posto dove fermarsi. Giunto sul retro della locanda, si buttò a sedere al riparo dei barilotti vuoti che, con altra roba, costellavano il cortile. Alla sua destra, un rettangolo di luce incorniciava la tenda di pelle che chiudeva un ingresso del locale. Dalla porta uscivano odori di cibo e voci intente a discutere. Probabilmente si trattava di un'entrata sul retro per la cucina. Seduto, respirando profondamente, John tentò di riguadagnare controllo di sé. Purtroppo era ben più che brillo. Il mezzo litro di birra o giù di lì che i tre lo avevano costretto a ingurgitare, unito a tutto quello che aveva già bevuto, stava facendo effetto. Gli girava la testa. Non sarebbe rimasto ubriaco per molto tempo, perché non aveva bevuto poi molto, aveva solo bevuto in fretta. Ma, per il momento, era senz'altro in condizioni d'inferiorità, dato che le sue uniche risorse contro dimensioni e forze preponderanti erano la velocità e la prontezza di riflessi. Decise di restarsene lì finché non gli si fosse schiarito il cervello, anche se forse gli sarebbero occorse un paio d'ore. Poi doveva andare a cercare il Fregatore di Colline, l'unico dilbiano che potesse garantirgli una certa sicurezza. Aveva appena preso quella decisione, e cominciava a riprendere fiato, quando la tenda di pelle fu trafitta da un'esplosione di luce. John alzò gli occhi e intravvide la figura di una femmina dilbiana, piuttosto piccola, illuminata per un attimo dalla luce che proveniva dall'interno. Poi la tenda tornò al suo posto, e a forare le tenebre restò solo un rettangolo incerto di luminosità giallastra.
Però John avverti subito una sensazione spiacevole: la femmina che aveva visto era rimasta fuori, non era rientrata. Senza fare rumore, si alzò alla svelta. Dalla porta non giungeva nessun rumore; ma lui ricordava con quanta silenziosità si fosse addentrato nel bosco Quello Che Fa Piangere gli Alberi dopo averli lasciati. E il boscaiolo non aveva nessun motivo per camminare in punta di piedi. Se tutti i dilbiani erano altrettanto silenziosi, e se la femmina che era uscita stava cercando proprio lui, le orecchie gli sarebbero servite a ben poco per tenerne sotto controllo i movimenti. Alzò il naso e annusò cautamente. Gli odori della cucina avevano ammorbato l'aria, pensò... Sì, era sicuro di aver sentito il caratteristico odore dei dilbiani. E proprio in quel momento, a meno di tre metri di distanza, udì chiaramente due sbuffi. Maledicendosi mentalmente per essere stato tanto stupido da dimenticare che anche il naso dei dilbiani avvertiva l'odore degli uomini, John corse via, in silenzio, dal punto in cui si trovava. Era indispensabile mettersi controvento rispetto al suo nemico (o nemica, se davvero si trattava della femmina uscita dalla cucina), poi tentare di rifare il giro della locanda e rientrare. Persino Alitosi e i suoi amici erano una compagnia più sicura dello sconosciuto inseguitore. Cominciò a spostarsi cautamente sulla destra, verso il fiume invisibile che correva sotto il precipizio. Nessun rumore alle sue spalle; e quel silenzio era già di per sé preoccupante. Respirava pianissimo, cercando di vedere qualcosa nelle tenebre fitte. Gli parve di intuire un movimento, un'ombra nera sullo sfondo nero, ma non poteva esserne certo. Nel maggior silenzio possibile, si accucciò e prese a indietreggiare. Se fosse riuscito a raggiungere l'orlo del precipizio senza volare giù, e poi ad arrivare sino all'angolo della locanda, forse con un buon balzo avrebbe guadagnato l'ingresso principale... La fortuna non lo aiutò. Proprio in quel momento inciampò nel cerchio rotto di una botte e cadde. Il suono della sua caduta fu come un urlo, nel silenzio spasmodico. D'improvviso, qualcosa di grande e d'invisibile gli si scagliò addosso. Riuscì freneticamente a liberarsi, si tirò in piedi e corse via. Data la stagione, quella parte di Dilbia non era illuminata dalla luna, e le stelle erano piuttosto fioche. In ogni modo, il loro chiarore smorzato bastava a fargli intravvedere il bordo frastagliato del precipizio. John si fermò
di colpo, appena prima di finire a testa in giù nel canyon. Si voltò, semiaccucciato. Trattenendo il respiro, protese le orecchie. Il cuore gli martellava in petto. Non si udivano altri suoni. Fine della prima ripresa, gli suggerì assurdamente il cervello. Inizia la seconda. Fuori i secondi. Continuò a trattenere il fiato e a restare in ascolto. Per un lungo minuto, o due, non sentì niente. Poi, alle sue spalle, udì di nuovo, soffocato ma inconfondibile, uno sbuffo. S'immobilizzò. Dal fondo del precipizio, il vento spirava in direzione del suo misterioso nemico. Se l'inseguitore aveva un buon naso, lo avrebbe trovato subito. Passo dopo passo, come un gatto che si sia avventurato su un cestino d'uova, indietreggiò lungo l'orlo. Ormai gli avevano bloccato la fuga verso il lato più vicino della locanda. Forse poteva continuare a indietreggiare e poi balzare via dall'altra parte. Ammesso che il suo nemico non lo raggiungesse prima, il che era più che probabile. Per un attimo si concesse il lusso di desiderare di aver preso un pezzo del cerchione che lo aveva fatto inciampare, o qualche altra arma rudimentale. La femmina dilbiana che aveva intravvisto non era molto più grande di lui: una clava, o qualcosa del genere, gli avrebbe almeno dato la possibilità di combattere. Continuando a retrocedere, appoggiò le mani a terra, nella speranza di trovare qualcosa che potesse servirgli. Le sue dita strisciarono sui ciottoli del cortile, poi incontrarono qualcosa di solido; ma si trattava solo di un barattolo di birra, inutile per i suoi scopi. Un poco più avanti trovò un altro cerchio, però completo, rotondo, del tutto superfluo come arma. Fu solo al terzo tentativo che trovò qualcosa di utile. Si trattava di un pezzo di legna di dimensioni modeste, che probabilmente ai dilbiani serviva per accendere il fuoco: una decina di centimetri di diametro, e una settantina di lunghezza. Meglio di niente. John, felice, lo afferrò, lo tenne stretto. Ormai era quasi giunto vicino all'angolo della locanda. Ancora pochi passi, e forse il pezzo di legna non gli sarebbe servito a niente. Ancora pochi passi... Adesso si trovava all'altezza della parete del locale. L'ingresso principale era lontano meno di una trentina di metri. Un balzo in avanti, e sarebbe arrivato al sicuro. S'immobilizzò, fiutò l'aria, ascoltò. Il silenzio più assoluto dominava la notte. Mosse lentamente la testa da destra a sinistra, scrutando le tenebre alle
sue spalle e le tenebre che si frapponevano tra lui e la locanda. Al di sopra del mormorio delle acque, nelle sue orecchie risuonavano le contrazioni dei muscoli del suo collo, tesi fino allo spasimo in quell'immobilità forzata. Non si vedeva nulla. Niente si muoveva. Fine della terza ripresa, sussurrò il suo cervello. Inizia la quarta ripresa. Fuori i secondi. Stringendo la clava improvvisata, appoggiò a terra le punte dei piedi e si protese in avanti, come un centometrista pronto a scattare. Ci fu un movimento improvviso. Una presenza velocissima dietro di lui. John tentò di scartare, si accorse che i piedi gli scivolavano sul terreno friabile, tirò un fendente con il pezzo di legno e capì di aver colpito... E poi, qualcosa d'incredibilmente pesante gli si abbatté sulla testa, lo mandò a ruzzolare via, fra le tenebre chiazzate di stelle. 6 Riaprì gli occhi, ed era giorno, Il sole di Dilbia, appena al di sopra dell'orizzonte di cime innevate, gli lanciava addosso i suoi primi raggi. Assonnato, strizzò gli occhi, fece un movimento per girarsi di fianco, per sfuggire a quella luce intensa... ...e si aggrappò, con tutta la forza di cui disponeva, al tronco ruvido di un albero tozzo che sporgeva dal granito. Per un lungo secondo, restò immobile, coperto di sudore. Poi, senza abbandonare la presa, indietreggiò leggermente, finché non si sentì al sicuro tra le sporgenze rocciose. E allora, sempre tenendosi aggrappato all'albero, rischiò un'altra occhiata. Si trovava su una sporgenza stretta, sospeso a un centinaio di metri al di sopra di un fiume di montagna e dell'eternità. L'acqua era molto sotto di lui. Non si prese il disturbo di calcolare la distanza esatta. L'importante era che fosse abbastanza sotto. Girò la testa e guardò in alto. Appena sopra di lui, un'altra sporgenza; poi cinque metri circa di roccia frastagliata; poi una salita ripida; e dopo la salita, vicino eppure lontanissimo, l'orlo del precipizio su cui terminava il cortile della locanda. Impossibile sbagliarsi, dato che dall'orlo si protendeva un brandello di cerchio di metallo arrugginito. John deglutì un po' convulsamente, allentò la presa sull'albero. Adesso era perfettamente sveglio e si accorgeva di diversi graffi e ferite. Su un braccio, una ferita gli partiva dal polso e arrivava quasi al gomito.
Per un attimo rimpianse di non essere ancora pacificamente addormentato. Poi ricordò l'abisso che gli si spalancava sotto, e fu lieto di essersi svegliato. Scrutò di nuovo la distanza che lo separava dall'orlo del precipizio e si mise a studiare il percorso migliore per risalire. Non fu un'impresa difficile. Per arrivare in alto non occorreva un provetto scalatore, e John, fra le altre cose, era anche quello. Ad ogni modo, rifletté mentre saliva, quello non era esattamente l'esercizio fisico che il terrestre medio si sente spinto a compiere prima di colazione. Giunto oltre il bordo del precipizio, si sdraiò un attimo a terra, sbuffando. Alla luce del giorno, il cortile appariva molto piccolo e molto anonimo. Difficile credere che proprio in quell'arena, la sera prima, lui avesse combattuto per non lasciarsi ammazzare. Si alzò in piedi, si ripulì, seguì la parete laterale della locanda, ne raggiunse l'ingresso. Doveva essere successo qualcosa di grosso. La scena che gli si presentò lo lasciò stupefatto. L'intera popolazione della locanda, avventori e personale, era schierata sulla strada. In formazione compatta, tutti guardavano un dilbiano, vecchio, grigio e magro, che se ne stava seduto su una panca sistemata in cima a un tavolo. Tra quest'ultimo e la folla, che comprendeva anche la locandiera con un grembiale pulito, si trovavano i tre individui che lo avevano tormentato la sera prima. Con un'aria piuttosto abbacchiata, se ne stavano immobili fra due dilbiani enormi, armati di accetta. Quello che pareva, a giudicare dall'aspetto orribile, un ceppo per la decapitazione era sistemato a poca distanza dai prigionieri. Di fronte a loro, il Fregatore di Colline roteava le braccia e ululava col tono di chi ha subito l'oltraggio estremo. «La posta!», stava urlando, proprio mentre John spuntava da dietro l'angolo e appariva agli occhi di tutti. «La posta è sacra! Chiunque metta le mani sulla posta che io trasporto...». In quel momento, il Fregatore vide John; e s'interruppe. L'assemblea di dilbiani, giudice compreso, si voltò a fissare John che si faceva avanti. «Eccolo qui!», esclamò la locandiera. «Non ve l'avevo detto? Poverino. Chissà che paura si è preso. Avrà passato la notte su un albero, senz'altro. Non c'è nessun motivo di tagliare la testa a questi tre poveretti che hanno solo bevuto un goccio in compagnia. Oh, sì, e tu stammi bene a sentire. Appena uno ha passato la mezza età, gli viene voglia di fare il giudice alla minima occasione. E quest'altro qui, che solo perché ha una borsa da postino si mette a gridare come se al mondo esistessero soltanto lettere... Per quello che servono le lettere, poi. E tutti gli altri, che non vedono l'ora di
perdere tempo per assistere a un processo e magari a un'esecuzione. Povero povero Piccoletto». Si chinò verso John, sventolando il grembiale. «Adesso entra a berti la tua birra della colazione. Uomini!». John si lasciò trascinare nella locanda. Oltre a tutti gli altri dolori e dolorini, aveva scoperto di possedere l'esclusiva di un doposbronza coi fiocchi. E, al momento, la birra dilbiana era la cura più veloce, nonché l'unica possibile. Più tardi, dopo che John ebbe bevuto la sua colazione e si fu ripulito di una discreta quantità di sangue secco, lui e il Fregatore di Colline si rimisero in marcia. Umiliato e oltraggiato, il dilbiano, per i primi quindici minuti dopo il ritorno di John, aveva continuato a esprimere con tutta l'effervescenza possibile il proprio disdegno. Tacitato dalla locandiera, si era chiuso in un mutismo meditabondo, che non interruppe per le prime ore del viaggio. Nel frattempo, grazie alle buone condizioni fisiche e forse, in certa misura, alla birra e al cibo concentrato, John si riprese rapidamente. Il Fregatore lo aveva informato che, valicata quella catena montuosa, sarebbero arrivati a Gola Bitorzoluta; dopo di che, traversato il lato a foresta delle Montagne Fredde, avrebbero raggiunto Guado Triste e le Pianure. Le Pianure erano la sede del clan del Terrore del Fiume, e il postino sperava di raggiungerlo prima che lui arrivasse così avanti. Dopo la partenza da Roccia Friabile, la prima parte del viaggio li condusse su minuscoli sentieri di montagna, su ponti sospesi che oscillavano al di sopra di fenditure ripide, mentre in basso, decine di metri più sotto, correvano fiumi d'acqua limpida. Per le prime due ore, il Fregatore di Colline procedette non solo con la sicurezza di chi è abituato a posti del genere, ma anche con l'indifferenza di chi è assorbito dai propri pensieri. «Ehi!», urlò John alla fine, quando, per la quinta volta, il Fregatore gli parve intenzionato ad abbandonare il sentiero e a precipitare sul fondo dell'abisso. «Eh? Cosa?», grugnì il postino, salvando entrambi con un agile scatto della caviglia. «Cosa c'è? Stavi pensando a qualcosa, Mezza Pinta?». In effetti, John pensava a qualcosa. L'idea che gli era nata dai fumi della birra la sera prima, quando credeva di trovarsi al sicuro nel cortile sul retro della locanda, prima che uno sconosciuto uscisse dalla cucina per dargli la caccia, gli era tornata in mente quel mattino, e non gli sembrava poi tanto male. Perché, si era chiesto di nuovo, non tentare di scoprire il punto di vista dei dilbiani sulla rivalità terrestri-emnoidi e cercare di farsi amici gli
indigeni del pianeta? Non solo una tattica del genere poteva procurargli lodi al termine di tutta quella faccenda: probabilmente gli avrebbe anche fornito indicazioni valide sulla sua situazione attuale. Le prime due ore di silenzio gli avevano lasciato la possibilità di meditare sulla questione e di cercare il modo migliore per porre la domanda. Era giunto alla conclusione che, visto il carattere dei dilbiani, probabilmente l'approccio migliore era quello diretto. «Sì», rispose al Fregatore. «Stavo cercando di capire perché a voi dilbiani gli emnoidi piacciono più di noi Piccoletti». Il postino non abboccò all'amo, come John aveva quasi sperato; cioè non si mise subito a negare che i dilbiani facessero favoritismi. «Oh, sì», disse il Fregatore, calmo come se stessero parlando di una legge fisica. «Be', è logico, Mezza Pinta. Prendi l'Ingollatore Senza Fondo di Birra, ad esempio, o quell'altro nuovo, più piccolo...». «Quale emnoide nuovo?», chiese subito John, ricordando l'emnoide nascosto fra gli alberi durante il loro colloquio con Quello Che Fa Piangere gli Alberi. «Come si chiama... Tark-ay, mi pare. Quello che sul suo pianeta doveva essere un attaccabrighe. Ecco, prendi lui, ad esempio». «E cosa ha?», chiese John. «Be', ecco», disse il Fregatore, in tono giudizioso, «è chiaro che non ha certo un fisico da vero uomo. Però non è ridicolo come voi Piccoletti. Insomma, due di voi messi assieme non sono nemmeno grandi come un bambino di pochi anni. E se in giro non si raccontano bugie, quel tipo è abbastanza forte da fare a botte con un uomo per difendere i suoi diritti, da andare fino in fondo, anche a costo di perdere». «Ed è importante?», disse John. «È importante per voi dilbiani?». «Accidenti, per un vero uomo è la cosa più importante!», esclamò il Fregatore. «Un uomo può perdere. È chiaro che prima o poi perderà con qualcuno. Ma se è pronto a difendere i suoi diritti, il peggio che gli può succedere è finire ammazzato. E ha il suo peso all'interno della comunità». «Anche noi Piccoletti difendiamo i nostri diritti», disse John. «Sicuro. Però... Insomma! Cosa vorresti dire, di preciso? Com'è che difendete i vostri diritti? E il Puzzone Che Urla, allora?». «Be'...», fece John, incerto. Si era scordato di Heiner Schlaff, che per i dilbiani costituiva una macchia gravissima alla dignità dei terrestri. E adesso il postino gli sbatteva Schlaff in faccia, come doveva essere stato sbattuto in faccia a Joshua
chissà quante volte. Per quanto fosse incredibile, John sentì una punta di simpatia per il piccolo ambasciatore. Come si fa a spiegare che le reazioni di un individuo non rappresentano le reazioni di tutta una specie? Qui bisogna attaccare, pensò John. «Già. E tu non hai mai conosciuto un uomo di Dilbia che abbia perso la testa o si sia spaventato?», chiese. «Non ne ho mai conosciuto uno che si sia messo a urlare solo perché lo hanno sollevato da terra!», sbuffò il Fregatore. «E chi potrebbe sollevare uno di voi? Chi può essere tanto grande da riuscirci?», disse John. Probabilmente il postino restò perplesso, perché non rispose subito. «Be', tu immagina qualcosa di tanto grosso che riesca a sollevarti per aria e dimmi se fra i tuoi simili non c'è nessuno, magari grosso come te, che perderebbe la testa se una creatura del genere lo tirasse su da terra». «Sarebbe una schifezza di uomo, se si spaventasse», mugugnò il Fregatore. Poi borbottò fra sé per un minuto. «Ad ogni modo, non è questo il punto. Il punto è che quello che fate voi non importa niente. Se anche uno di voi Piccoletti tentasse di difendere i suoi diritti, sarebbe una cosa ridicola. Persino un idiota capirebbe che non avreste nessuna possibilità contro un vero uomo». «Oh, questo lo pensi tu», ribatté John; e subito si chiese cosa diavolo lo stesse spingendo a fingere che il Fregatore non avesse ragione al cento per cento. Dopo un attimo di riflessione, concluse che probabilmente si trattava dello stesso tipo di reazione che a Brisbane, davanti all'ambasciatore emnoide, aveva spinto Rudi Maltetti a voler lanciare il giavellotto. Il Fregatore scoppiò a ridere. «No», disse, quando l'ondata d'ilarità gli fu passata. «Con uno di quei Grassottelli forse vale anche la pena di litigare. Ma con uno come te, be', non avrei nemmeno il coraggio di tirarti un pugno. Sarebbe come uccidere un uccellino». Meditò per un secondo. «D'altronde», disse poi, «qualcuno di voi Piccoletti non è tanto male; ma un vero uomo non può vedere troppo di buon occhio dei tipi che per fare la minima cosa si servono di un'infinità di aggeggi. Combattete coi vostri aggeggi, li usate per trovarvi in posizione di vantaggio, per arrivare prima degli altri. E, in particolare, combattere con degli aggeggi... Be', è proprio roba da femminucce, da come la vediamo noi!». «Davvero?», chiese John. «Be', stammi a sentire un minuto...».
«Calma. Calma». Il Fregatore alzò una mano pacificatrice. «Non posso mettermi a fare a pugni con la posta che trasporto. E poi, non ti ho detto che qualcuno di voi Piccoletti non è tanto male? Lo sai anche tu come mai Piccolo Morso si è meritato il suo nome, e...». «Chi?», disse John. Immediatamente, l'indottrinamento ipnotico lo informò che Piccolo Morso era il soprannome dilbiano di Joshua Guy. Ma non possedeva la minima informazione sul perché gli avessero dato quel nome. «Oh, no, non lo so». «Non lo sai?», esclamò, stupefatto, il Fregatore. «No», rispose John, improvvisamente cauto. Chissà in che razza di faccenda aveva ficcato il naso. «Lo sanno tutti», disse il postino. Non c'era via d'uscita. «E io no». Il Fregatore, lentamente girò la testa a guardarlo. Quando i loro sguardi s'incontrarono, John lesse negli occhi dell'altro stupore e sospetto improvvisi. «Sei piuttosto strano, persino per essere un Piccoletto», disse lentamente il Fregatore. «Cosa stai cercando di darmi a bere? Lo sanno tutti perché Piccolo Morso ha quel nome. E tu che sei un Piccoletto non lo sai?». Si fermò di colpo, e restò lì a scrutare John. «Cosa stai cercando di darmi a bere?», ripeté. 7 «Fammi scendere», disse John. «Cosa?», chiese il Fregatore. «Cos'hai detto?». «Ho detto», ribatté John sibilando fra i denti, anche se il cuore gli stava balzando in gola, «di farmi scendere. Ne ho abbastanza». «Abbastanza di cosa?», disse il Fregatore; e questa volta nella sua voce c'era più perplessità che sospetto. «Sono rimasto seduto qui», rispose John, lasciando salire la voce a un tono di rabbia: non troppo, ma in modo inconfondibile. «Sono rimasto seduto qui, in questo zaino della malora, e ho lasciato che tu insultassi noi Piccoletti, perché secondo te siamo tutti come il Puzzone Che Urla. Ho lasciato che mi chiamassi femminuccia. Ma che mi possano arrostire a fuoco lento se me ne resterò qui senza fare niente quando tu sostieni che voglio darti a bere qualcosa solo perché Piccolo Morso non ha avuto il tempo di
raccontarmi che origine ha il suo nome. Rimettimi a terra e ti giuro, in nome del mio nonno paterno, che...». «Ehi, ehi, ehi... Ehi!», urlò il Fregatore. «Ti ho già detto che non posso fare a pugni con la posta. Perché ti scaldi tanto?». «Non sono obbligato a sopportare le tue angherie!», gridò John. «E non sopportarle!», latrò il postino. «Io non ho niente contro di te. Sei stato tu a chiedermelo, no? Più piccoli sono, più s'arrabbiano! Mi ha sorpreso scoprire che non sai da dove viene il nome di Piccolo Morso, tutto qui. Stavo per spiegarti». «E allora, perché non mi hai spiegato?», chiese John, in tono più calmo. «Te lo spiego, te lo spiego!», disse il Fregatore, truce, rimettendosi in cammino. John si rilassò e, di nascosto, asciugò il sudore dalla fronte. Sia l'indottrinamento ipnotico che il Fregatore lo avevano informato che su Dilbia la posta era sacrosanta; tuttavia, fino a pochi attimi prima non era certo che la cosa escludesse anche eventuali rimostranze da parte del postino. Evidentemente, la posta era sacra per tutti. «A dire il vero», stava raccontando, con molta più calma, il Fregatore, «a Humrog e sulle montagne quasi tutti pensano un gran bene di Piccolo Morso. Praticamente è ospite di Humrog, e nessuno avrebbe il coraggio di toccarlo. Ma questa storia è successa i primi giorni dopo il suo arrivo qui...». Una sghignazzata interruppe il racconto del postino. «Insomma, a Humrog abita il vecchio Dita a Martello. È un vecchio un po' matto, si scalda sempre per qualcosa. Be', un certo giorno stava parlando dei vecchi tempi. Aveva anche bevuto un po'...». John, dopo la serata trascorsa alla locanda, immaginò in maniera piuttosto vivida cosa potesse significare per un dilbiano «bere un po'». «Era mezzo pieno di birra, e ha cominciato a dire che non è giusto che ci ritroviamo da tutte le parti perfetti sconosciuti come i Piccoletti e i Grassottelli. Ha detto che il mondo stava andando in pezzi, che ci vorrebbe una legge. Era mezzo ubriaco, ed è sceso giù in città». La mente di John si soffermò sull'immagine delle strade di Humrog, come le ricordava dal giorno prima. «Aveva una gran voglia di sistemare Piccolo Morso, solo che allora tutti lo chiamavano il Piccoletto, di rispedirlo nel cielo da cui era piovuto. Be', arriva davanti alla casa di Piccolo Morso e bussa alla porta. Piccolo Morso va ad aprire; Dita a Martello lo guarda di traverso e gli urla in faccia: "Benissimo, Piccoletto! Adesso ti rimando nella tua fogna!".
«Dopo di che, tenta di arraffare Piccolo Morso. Solo che Piccolo Morso aveva una strana catenella alla porta, per cui non si apriva del tutto; e Dita a Martello riesce a infilare dentro solo un braccio. Mezzo ubriaco, continua a urlare: "Vieni fuori, Piccoletto! Non puoi scapparmi. Ti prenderò! E appena ti prendo..."». John sobbalzò. L'immagine mentale stava diventando talmente vivida da essere dolorosa. «Poi Piccolo Morso, che aveva preso qualcosa di affilato, un coltello o roba del genere, prende bene la mira sulla manaccia di Dita a Martello e gli fa un paio di tagli sulle nocche, quasi fino a mettergli a nudo le ossa. Il vecchio Dita a Martello urla come un pazzo e ritira la mano». Il Fregatore si mise a ridere. «Piccolo Morso chiude la porta». Il postino era talmente squassato dalle risate da non riuscire più a camminare. Rallentò, si fermò, appoggiò una mano al fianco della montagna, continuando a scompisciarsi al ricordo. Il suo corpo sussultava dai fremiti. John dovette aggrapparsi allo zaino con entrambe le mani. Era davvero sconcertante trovarsi in groppa all'equivalente di un cavallo, e sentirsi raccontare da lui l'equivalente di una barzelletta. «Ad ogni... Ad ogni modo», boccheggiò il Fregatore, riprendendo parzialmente controllo di sé, «il vecchio Dita a Martello s'infila nel bar. Perde sangue da una mano e continua a succhiarsi le nocche. "Cos'è successo?" gli chiedono tutti. "Niente", risponde Dita a Martello. "Deve pur essere successo qualcosa. Guardati la mano", dicono tutti. "Vi dico che non è successo niente!", urla Dita a Martello. "Non mi ha lasciato entrare, non l'ho potuto prendere. Per cui me ne sono andato. E la mano... La mano non c'entra niente. Non mi ha fatto del male, accidenti, no. Me l'ha solo morsicata un pochino!"». Il Fregatore, scosso da un altro attacco di risate, fu costretto a piegare in due il corpo e ad appoggiarsi totalmente alla parete rocciosa. Però, questa volta rise anche John. La storia era davvero buffa, o comunque gli sembrava tale. Risero insieme; e quando ebbero finito di ridere, si abbandonarono per un attimo a un silenzio quasi cameratesco. «Ehi», disse il Fregatore, dopo un momento. «Non sei troppo male, per essere un Piccoletto». «Nemmeno tu sei tanto male, per essere un uomo», disse John. Il Fregatore precipitò di nuovo nel silenzio; ma non si rimise in marcia. Dopo un minuto, si mise a sedere su una sporgenza lì vicino.
«Salta giù», disse, girando un poco la testa. «Devo parlarti di qualcosa. E se posso guardarti in faccia, riuscirò a parlartene meglio». John uscì in una smorfia, esitò; poi scese. Si portò di fronte al dilbiano, e scoprì che, col Fregatore seduto e lui in piedi, i loro occhi erano quasi allo stesso livello. Comunque, meglio di così era impossibile sperare. «Di cosa si tratta?», chiese John. «Insomma», disse il Fregatore, con uno sforzo, «per essere un Piccoletto non sei poi tanto male, come ti dicevo, e...». Giunto a quel punto, si fermò. Era piuttosto difficile per un terrestre leggere imbarazzo sul viso di un dilbiano; ma, ammesso che fosse possibile, a John parve di intuire proprio quell'emozione nel suo postino. Evitò i suoi occhi e si limitò ad attendere. Guardando oltre la grande testa dell'orso, vide, molto oltre le cime bianche delle montagne, qualche nuvoletta bianca, d'aspetto timido e innocente. «Quello che voglio dire», riprese il Fregatore di Colline, dopo quella che doveva essere stata una dura lotta interiore, «è che al Terrore del Fiume hanno rovesciato il suo boccale». Per un attimo, John non capì. E poi comprese, grazie all'ennesimo intervento dell'indottrinamento ipnotico. Nel linguaggio dilbiano, lasciarsi rovesciare il boccale significava subire un affronto mortale all'onore personale. In parole povere, qualcuno aveva lanciato al Terrore del Fiume una sfida all'ultimo sangue. John, d'improvviso, intuì il nome del colpevole. «E glielo avrei rovesciato io?», chiese. «Non ci siamo mai visti». «No. È stato Piccolo Morso», disse il Fregatore. «Però adesso tu ci sei di mezzo. È una cosa piuttosto strana». «Non ne dubito», disse John, pensando al minuscolo ambasciatore. «Capisci», disse il Fregatore, «Piccolo Morso è ospite di Humrog». «Lo so. Me lo hai detto tu». «Lasciami finire. Dato che è un ospite, le sue battaglie sono le battaglie di Humrog. Però Piccolo Morso ha gettato il discredito sul Terrore, quando ha detto a Ginocchia di Marmellata che Ragazzi Che Corpo non doveva sposare il Terrore. In parole povere, significava che il Terrore non era degno di lei. Quindi, cosa può fare il Terrore? Non può prendersela con Ginocchia di Marmellata se non gli lascia sposare Ragazzi Che Corpo. Un uomo ha il diritto di pensare al futuro della figlia. Poteva prendersela con Piccolo Morso; ma se qualcuno ha un po' di cervello, e il Terrore ne ha, non si metterebbe mai contro una città di cinquemila uomini.
Certo, il clan delle Pianure potrebbe sostenerlo, e allora ci sarebbe da vedere cosa succede; ma sarebbero pazzi a fare una cosa del genere, dato che quasi tutto quello che loro producono viene venduto a Humrog. No, succederà solo che gli anziani del clan delle Pianure diranno che si tratta di una faccenda personale, dopo di che il Terrore potrà scegliere tra restare nascosto per tutto il resto della sua vita nel territorio del clan, oppure trovarsi appeso a una forca prima della fine dell'anno». «Capisco», disse John. E capiva davvero. Stava riflettendo seriamente. Sino ad allora, si era semplicemente rifiutato di ammettere che Joshua gli avesse volontariamente affidato una missione impossibile, assurda. Poteva immaginare che si fosse trattato di uno sbaglio; ma supporre che un ambasciatore, solo per coprire un errore diplomatico, arrivasse al punto di arruolare qualcuno e mandarlo a morte era inconcepibile. Se un uomo possedeva la statura morale per essere nominato ambasciatore, specialmente su un pianeta del genere, non poteva abbassarsi ad azioni così immorali per nascondere i propri errori. L'incarico che Joshua aveva affidato a John era del tutto illegale; e John non era assolutamente tenuto ad andare sino in fondo. Aprì la bocca per dirlo, per ordinare al Fregatore di tornare immediatamente in città; e la richiuse lentamente, senza aver pronunciato una sola parola. D'improvviso, aveva capito quanto fosse astuta la trappola di Joshua. Il Fregatore di Colline non avrebbe certo invertito direzione di marcia a un semplice suo ordine. Si era impegnato a recapitare posta al Terrore del Fiume, e ormai era in gioco il suo onore di dilbiano. Il Fregatore era rimasto in silenzio per diversi secondi, in attesa che John sviscerasse tutti gli aspetti della questione. Quando riaprì bocca, fu solo per mettere in evidenza un altro lato spiacevole della situazione. «Lo sai», gli chiese, «che non riuscirai a riprendere Faccia Unta senza combattere con il Terrore del Fiume?». Quelle parole penetrarono nel cervello di John, annullarono del tutto il problema di Joshua. «Combatterlo?», ripeté assurdamente. «Già», disse il Fregatore. «Da uomo a uomo. Senza armi. Senza nessuno dei vostri aggeggi». John sbatté le palpebre. Fissò, dietro le spalle del postino, le nuvolette bianche. Non si erano mosse. Erano sempre lì. Come le montagne. Probabilmente c'era qualcosa che non andava nelle sue orecchie. «Combatterlo?», ripeté ancora, e gli parve di trovarsi in un ascensore che scendesse velocissimo in basso.
«Un uomo ha il suo orgoglio», disse il postino. «Se tu gli rubi Faccia Unta, il suo boccale si rovescia di nuovo». Si chinò un poco verso John. «Naturalmente, a meno che tu non lo batta in un combattimento leale. In questo caso, l'offesa è lavata. Tu sei meglio di lui, punto e basta. Ma è proprio per questo che non ci capisco più niente. Non sei male, per essere un Piccoletto. Ieri sera, con quegli ubriachi te la sei cavata piuttosto bene. Hai fegato». Il suo sguardo incrociò quello di John. «Però... Insomma, non puoi farcela col Terrore. Lo sanno tutti. Insomma... Accidenti!», disse il Fregatore, che evidentemente non trovava nel proprio vocabolario espressioni adatte per i suoi sentimenti. John avrebbe tanto desiderato fargli capire che era perfettamente d'accordo con lui. «Per cui», chiese il Fregatore, «cosa farai quando ti consegnerò al Terrore?». John ci pensò. Respirò a pieni polmoni, poi lasciò uscire di colpo l'aria. «Non lo so», disse alla fine. «Be', non è un problema mio», commentò il postino, alzandosi. «Se ti metti su quella roccia lì riuscirai a salirmi in groppa. Oh, tra l'altro», aggiunse, mentre John eseguiva le sue istruzioni, «lo sai chi è stato a buttarti giù dal precipizio, ieri sera?». «Chi?», chiese John. Bevendo la birra di colazione, aveva raccontato al Fregatore le sue avventure della sera prima e il risveglio sull'albero; ma sul momento il dilbiano non aveva fatto commenti. «La Regina dei Ciottolini. Sei a posto bene?». «Sì. Chi?», disse John. Il giorno prima, accennando allo stesso personaggio mitologico, il boscaiolo aveva lasciato intendere qualcosa. «Ragazzi Che Corpo», spiegò il Fregatore, con aria truce. «La stessa puttanella che manda al postino il messaggio di compiere una deviazione di otto chilometri, e intanto lei se ne sta alla locanda a dare fastidio alla vera posta. Mi piacerebbe proprio capire», disse il Fregatore, «come abbia fatto a partire con tanto vantaggio da arrivare alla locanda prima di noi e sapere che avremmo seguito quel percorso». John, assorbendo l'informazione con un certo sbalordimento, si pose lo stesso interrogativo. «Be', andiamo». E il Fregatore di Colline si lanciò ancora una volta lungo il sentiero. Tra scrolloni e sobbalzi dello zaino e della schiena enorme del dilbiano, John
si mise a riflettere sulle cose che aveva appena saputo. Gli venne in mente che, da molti punti di vista, sarebbe stata una buona idea telefonare a Joshua Guy e dirgli che aveva scoperto tutto il suo fetido piano. Ormai non c'erano dubbi: Joshua Guy, involontariamente o meno, si era cacciato in una pessima situazione diplomatica col Terrore del Fiume, dopo aver dato quel certo consiglio al padre di Ragazzi Che Corpo. Tanto per cominciare, il compagno che Ragazzi Che Corpo si sceglieva non era affare dei terrestri. Anzi, era proprio quell'immischiarsi negli affari privati di razze aliene che aveva già causato diversi guai agli uomini in passato. L'ambasciatore terrestre che commettesse uno sbaglio del genere era destinato, non appena la notizia si diffondesse e la sua colpa fosse appurata, a essere rispedito in patria. Idiozie simili erano già costate vite umane, e potevano costarle ancora in futuro. All'improvviso, avvertendo una sensazione di panico che minacciava di diventare familiare, John capì che una delle vite in gioco in quel caso particolare era indubbiamente la sua. Perché, se si fosse trovato a lottare col Terrore e fosse finito ammazzato, Joshua Guy avrebbe risolto in un colpo parecchi dei suoi problemi. In primo luogo, probabilmente Faccia Unta si sarebbe salvata, perché il Terrore non avrebbe avuto più motivo di tenerla prigioniera dopo aver lavato nel sangue di John il proprio onore; e Ginocchia di Marmellata avrebbe concesso al guerriero vittorioso la mano di Ragazzi Che Corpo, come praticamente lo obbligavano a fare i costumi dilbiani. Quindi, Joshua si sarebbe tolto di mano la patata bollente rappresentata dalla salvezza della sociologa. Per di più, si sarebbe sbarazzato dell'unica persona, cioè John, che sapeva cosa Joshua avesse combinato e che poteva accusarlo. Per finire, la sua morte gli avrebbe permesso di far ricadere sulle sue spalle la responsabilità di tutto ciò che era accaduto. Gli sarebbe bastato sostenere che John, una volta partito da Humrog, aveva agito da idiota. E il Fregatore di Colline lo stava implacabilmente portando alla destinazione che Joshua aveva previsto per lui. Impossibile fermare o far tornare indietro il postino. In ogni modo, John poteva fare ancora una cosa. Poteva chiamare Joshua col telefono da polso e dirgli, molto chiaramente, che se non avesse tirato fuori da quella situazione lui e Faccia Unta, avrebbe informato i dilbiani di ciò che stava succedendo. Dopo di che, sarebbe stata solo una questione di tempo: l'informazione sarebbe rimbalzata fino alle autorità terrestri. Un sano spavento poteva indurre Joshua a correre da lui, per vedere di sistemare
la faccenda. Dopo tutto, se riusciva a fermare le cose a quel punto non sarebbe stato commesso nessun delitto; il Terrore non avrebbe ucciso né John né Faccia Unta. Joshua sarebbe stato pazzo a rifiutarsi d'intervenire. Calmato da un'improvvisa ondata di sollievo, John avvicinò il polso alle labbra. E fu allora che si accorse di una cosa. La lunga ferita che aveva all'avambraccio sinistro arrivava fino al punto in cui, prima, si trovava il cinturino del telefono. In quanto al telefono, poteva essere da per tutto, ma di certo non era più nelle mani di John. 8 Ci sono momenti in cui l'immaginazione, semplicemente, si rifiuta di lavorare. Fu quello che accadde allora a John. Sapeva (o almeno sperava) che si trattava di un fenomeno momentaneo, e che per uscirne bastava una buona notte di sonno, o un inaspettato colpo di fortuna, o qualcosa del genere. Ma, per il momento, la parte più laboriosa, più creativa del suo cervello aveva appeso il cartello: «Torno tra un po'», e se n'era andata a fare un giretto. Proprio non riusciva ad avere idee costruttive. Appena cercava di trovare una soluzione che gli permettesse di cavarsi da quell'impiccio, tornava al fatto puro e semplice che il Fregatore di Colline, gli piacesse o no, lo stava portando (e nulla poteva interrompere quel processo) dal Terrore del Fiume, che (e nulla poteva interrompere quel processo) lo avrebbe senz'altro ucciso. Così era scritto. Addio a tutti. Mi arrendo. E infatti John s'arrese. Alla fine, si raggomitolò nello zaino e si appisolò. L'arresto improvviso del Fregatore risvegliò, con un sobbalzo, John, che si tirò su nello zaino e si guardò attorno. Dapprima vide solo una gola di montagna, con striature verticali di granito color salmone e un fiumiciattolo che scorreva sul fondo. Poi capì che stava guardando dall'orlo di uno strapiombo su cui il postino si era fermato, e cambiò angolo di visuale. Dopo di che, si accorse che lo strapiombo era largo quasi quanto lo spiazzo su cui sorgeva la locanda di Roccia Friabile; però loro si trovavano esattamente sull'orlo. Dall'orlo partiva l'estremità di un ponte sospeso che correva, spettacolo incredibile e pauroso, al di sopra della gola, fino a un altro strapiombo un po' più piccolo sul lato opposto della montagna. Quell'estremità era ancorata alla parete rocciosa che si alzava dietro lo stra-
piombo, e da lì ripartiva il sentiero. Vicino a loro c'era una baracca di legno, e davanti alla baracca il Fregatore di Colline stava discutendo con un dilbiano di mezza età, d'aspetto robusto. «L'ho visto svoltare alla biforcazione coi miei occhi!», stava latrando il dilbiano sconosciuto. «Vorresti mettere in dubbio la parola di un pubblico ufficiale? Vuoi che giuri sul mio argano? Eh?». Sbatté la mano enorme sul grande cilindro attorno a cui si avvolgevano i cavi che sostenevano il ponte. I cavi passavano attraverso una serie di ruote di legno, e una manovella tutta lucida serviva ad azionare l'argano. «Stavo solo chiedendo!», ruggì il Fregatore. «Si potrà chiedere, no?». «Certo, se si chiede cortesemente», ribatté, testardo, quello che doveva essere il custode del ponte. «Ti ho detto che l'ho visto prendere per di lì. Ha seguito questa direzione». Il dilbiano indicò la parete della gola vicino a loro. Seguendo il suo dito, John vide che in effetti il sentiero si diramava in due direzioni: una parte proseguiva lungo la parete rocciosa, l'altra riprendeva sul lato opposto del ponte e svaniva in una fenditura della montagna. «Si è diretto verso l'alto, verso il Ghiacciaio del Cane Gelato». «Va bene. Va bene, ti credo!», disse il Fregatore, e s'incamminò verso il ponte. «Ehi», disse l'altro. «Il pedaggio». «Pedaggio!». Il Fregatore, oltraggiato, si girò. «Io? Un postino governativo? Pedaggio?». «Be',», mugugnò l'altro, «dato che hai messo in dubbio la mia parola, pensavo che volessi...». «Pedaggio!», sbuffò il Fregatore; e, senza aspettare che il custode finisse la frase, s'avviò a passo deciso sul ponte. «Cambiamo itinerario?», chiese John quando, traversato il ponte, il postino si diresse verso la fenditura sulla roccia. «Il Terrore si è diretto verso la zona dei ghiacciai», borbottò il Fregatore. «O forse ha in mente di valicare le montagne al Passo di Mezza Via per finire nella Foresta Libera. Ad ogni modo, se è così c'è da fare una bella sgambata per raggiungerlo. Pedaggio!». Sbuffò di nuovo e accelerò. La nuova strada, assai ripida, li portò lontani dal territorio dei fiumi e delle gole a strapiombo. Dopo una mezz'ora di salita sbucarono in una zona di ampi declivi rocciosi, dove soffiava un vento talmente gelido da ren-
dere impossibile l'addormentarsi nello zaino. Tre ore più tardi, a mezzogiorno passato, dietro una svolta del sentiero apparve un'altra locanda. Situata in un punto che offriva la maggior protezione naturale in quell'area esposta ai venti, era fatta quasi esclusivamente di pietre e terra. Si fermarono per una breve sosta, e John, soddisfatto, scese a sgranchirsi le gambe. Il suo cervello continuava sempre a rifiutarsi di elaborare piani validi per distruggere le trame dell'ambasciatore; ma quei venti freddi, taglienti, avevano risvegliato in pieno il suo fisico, al punto da fargli capire quanto fosse stanco dello zaino. Se non si fosse trattato chiaramente di un'idea assurda, John avrebbe preferito procedere a piedi per un po'. Ma era una speranza impossibile. Se John avesse tentato di camminare da solo, il Fregatore sarebbe scomparso all'orizzonte in mezz'ora. A meno che non decelerasse al punto di tenere il passo del suo socio umano. E, per quanto si sentisse ancora mentalmente intorpidito, John fu costretto a sorridere al pensiero della reazione esplosiva, impaziente, del Fregatore a una richiesta simile. Quindi, cercò di sfruttare al massimo la sosta. Per sgranchirsi i muscoli, fece il giro della locanda. Quando tornò davanti all'ingresso principale, trovò il Fregatore sul punto di esplodere. Non a causa di John, o di qualcosa che lui avesse fatto, ma per colpa degli altri ospiti della locanda. Stavano tutti ridendo alla faccia del Fregatore. Davanti alla porta c'erano sei o sette dilbiani, capeggiati da un tipo relativamente basso e grassoccio che aveva in mano un bastone da montagna. «Hor! Hor!», stava ruggendo il dilbiano basso. «Dove vorresti arrivare?», urlava il Fregatore. «Ti ha fregato, Fregatore!», esalò l'altro. «Mi ha fregato...! Te lo faccio vedere io se mi ha fregato!». Il postino agitò i pugni sopra la testa: uno spettacolo da mozzare il fiato. «Mi ha giurato come pubblico ufficiale, accidenti! Ha detto che aveva visto il Terrore svoltare coi suoi stessi occhi!». «Certo! Certo che lo ha visto!», disse qualcun altro. «Spiegagli, Scarpe di Neve!». «Ecco», disse il dilbiano piccolo, «è vero, ha visto il Terrore prendere a destra. Però poi ha chiuso un attimo gli occhi, come gli aveva ordinato lei». «Lei?», latrò il Fregatore. «Ragazzi Che Corpo?». «E chi altri, postino? Il Terrore la stava aspettando lì.
«"Quel postino dalle gambe lunghe mi sta alle calcagna", dice lui. «"Calma, calma", dice lei. "Non puoi prendertela con la posta governativa", dice lei. "Io ho un'idea migliore". E si mette d'accordo col vecchio Argano, e così lui chiude gli occhi un momentino e loro due tornano indietro e prendono per l'altra strada, verso le Pianure, con la femmina Piccoletta che si tirano dietro». Il dilbiano basso, Scarpe di Neve, s'interruppe per rimettersi a ridere. «Passavo di lì proprio in quel momento. Ho visto tutto. Ero piegato in due dalle risate. Credevo di sputare un polmone!». Il Fregatore ululò al cielo. Quando i suoi occhi caddero su John, lo raccolse da terra come se fosse un pacco (del resto, dal punto di vista ufficiale era proprio un pacco). Dopo di che, nel giro di un secondo erano lontani una quindicina di metri dalla locanda. A velocità sempre maggiore, tornavano indietro per il sentiero. «Ehi!», esclamò John. «Almeno lasciami accomodare nello zaino». «Cosa? Oh!», sbuffò il Fregatore. Impaziente, si fermò qualche secondo, mentre John si arrampicava lungo la sua schiena e si sistemava nello zaino. Poi si rimisero in cammino. Due ore dopo, si trovavano di nuovo a un'estremità del ponte. L'estremità sbagliata, pensò John. Perché il ponte era ormai impraticabile. Era successa una cosa abbastanza semplice. I cavi che partivano da quell'estremità del ponte erano ancorati alla parete rocciosa, a un'altezza di circa sei metri al di sopra delle loro teste. Qualcuno, facendo girare l'argano sul lato opposto della gola, aveva teso al massimo i cavi; per cui adesso il ponte, teso spasmodicamente, era troppo in alto, al di fuori della loro portata. Il Fregatore di Colline si mise a urlare. Le sue prime quaranta parole furono una descrizione della persona e della morale di Argano; le ultime quattro, l'ordine di abbassare il ponte, in modo che lui e John potessero attraversarlo. Dall'altra parte non ci fu risposta. Il verricello su cui erano arrotolati i fili non si mosse di un millimetro, e nessuno uscì dalla baracca del custode. «Cos'è successo?», chiese John. «Si è chiuso là dentro!», esplose il Fregatore. «Il ponte deve essere sollevato solo di notte, per impedire che qualcuno lo attraversi senza pagare il pedaggio. E lui è là dentro. Non vuole uscire ad abbassarlo perché sa benissimo cosa gli farò appena sarò passato dall'altra parte». Lanciò una nuo-
va minaccia mostruosa tra le pareti della gola. «Esci fuori e abbassa questo ponte innominabile, indescrivibile, così posso prenderti e staccarti la testa dal collo!». Il custode del ponte non diede il minimo segno di voler accettare l'invito del Fregatore. Piuttosto logico, pensò John, spostandosi prudentemente all'indietro, fuori della portata del postino infuriato. Il Fregatore smise di urlare, guardò il ponte sospeso sulla sua testa. Fece un gesto poco convinto, come per tentare di raggiungerlo; ma il ponte era chiaramente troppo in alto anche per le sue braccia così lunghe. Sconfitto, abbandonò le braccia lungo i fianchi. «Va bene!», tuonò ancora una volta, agitando i pugni. «Scalerò la gola. Mi arrampicherò da per tutto. Il sentiero non mi serve. Arriverò alle Pianure prima del Terrore! E poi tornerò qui a darti una lezione!». John si scrollò di colpo, risvegliandosi dal letargo mentale. «Vuoi scalare la gola?», chiese. «Mi hai sentito!», mugugnò il Fregatore. «Cosa me ne importa del sentiero? È la via più breve. Impiegheremo metà tempo». Da dietro le spalle del postino, John scrutò le pareti scabre della gola che li circondava. Sì, in effetti c'erano punti d'appoggio per i piedi, ma persino per uno dotato delle risorse del Fregatore doveva trattarsi di un'impresa difficilissima. Per di più, esisteva la possibilità di arrivare dal Terrore prima del previsto. John si trovò completamente sveglio. «Tirami su», disse al postino. «Se riesco a issarmi sul ponte e a sciogliere i cavi...». Gli occhi del Fregatore si accesero. «Subito», rispose, entusiasta. Tolse John dallo zaino e si misero al lavoro. John, tenuto per le caviglie dal dilbiano, il corpo perfettamente rigido, si protese verso il cavo che usciva dall'estremità del ponte; ma l'unico risultato che ottenne fu l'angosciosa visione panoramica del Fiume Bitorzoluto, trecento metri sotto di lui. «Mettimi giù», disse alla fine. Il Fregatore lo rimise giù. Dopo quella visione del precipizio che si spalancava sotto di loro, John non era esattamente nel miglior stato d'animo di questo universo; comunque si mise a studiare la parete rocciosa a cui erano ancorati i cavi del ponte. Aveva una certa esperienza come rocciatore, e la parete di granito non era delle più impervie, anche se una creatura mastodontica e un po' goffa come un dilbiano non sarebbe mai riuscita a scalarla. D'altronde, non era la scalata a dargli i brividi di freddo, quanto il fatto che, una volta raggiunto
il punto d'ancoraggio, avrebbe dovuto strisciare lungo il cavo per cinque o sei metri prima di raggiungere il ponte vero e proprio. Oh, be', si disse. «Ehi! Dove vai?», urlò il Fregatore. John non rispose. Non poteva sprecare fiato, e in ogni caso la sua destinazione era ovvia. Dopo un po' arrivò al punto d'ancoraggio più vicino e passò le braccia attorno al cavo ruvido, che aveva un diametro di sette o otto centimetri. Si fermò un attimo a studiare la situazione. Il Fregatore si trovava sotto di lui, guardava in alto, bizzarramente distorto dalla prospettiva. Anche l'orlo del precipizio appariva distorto. In ogni modo, John non guardò nella gola. Dopo un attimo, quando ebbe ripreso fiato, cominciò a strisciare in avanti, saldamente aggrappato con mani e piedi al cavo. L'estremità del ponte sembrava assurdamente lontana, persa nell'immensità dello spazio vuoto. Dopo aver percorso a quel modo due o tre metri, gli venne in mente che, in una situazione del genere, un vero eroe si sarebbe tirato su e avrebbe superato il cavo in punta di piedi, tanto più che era abbastanza largo. Oltre a impressionare il Fregatore di Colline, la cosa sarebbe servita ad accorciare notevolmente i tempi della sua suspence interiore. John concluse che, evidentemente, non era fatto della stoffa di cui sono fatti i veri eroi, e continuò ad avanzare strisciando. Alla fine, arrivò al ponte. Vi si arrampicò sopra, restò un attimo sdraiato, sbuffando; poi si alzò e lo percorse fino al lato opposto della gola. Il custode del ponte, per non smentirsi, continuava a far finta di niente. John raggiunse l'argano e, servendosi di una pietra, riuscì a metterlo in movimento. L'argano si lanciò in una corsa folle, i cavi si distesero, simili a gigantesche corde d'arco. Dall'altra parte della gola, l'estremità del ponte piombò giù, sollevando un nuvolone di polvere. Dopo un po', nel polverone apparve il Fregatore, che avanzava spedito, con un'espressione molto decisa. Arrivato a fianco di John, entrò nella baracca del custode. Senza bussare. Ci fu un momento di silenzio; poi, dall'interno della baracca esplose un rumore che ricordava la detonazione di una bomba. John si guardò disperatamente attorno, in cerca di qualcosa su cui arrampicarsi e sotto cui nascondersi, giusto per togliersi di mezzo. Non aveva mai visto due dilbiani fare a botte; ma, sorprendentemente, le sue orecchie riuscivano a interpretare con la massima precisione tutto ciò che succedeva nella baracca.
Dopo un po', d'improvviso, scese la pace. Apparve il Fregatore di Colline. Con una mano si massaggiava un orecchio ferito, ma per il resto non pareva insoddisfatto. «Cos'è successo?», chiese John. Il Fregatore andò a lavarsi l'orecchio in una grande vasca di pietra a fianco della baracca. «Ha detto che il ponte è suo. Ah!», rispose il Fregatore. «Nessuno ferma la posta. Gli ho dato una lezione». S'interruppe, con l'acqua che gli gocciolava giù dalla testa, e guardò John. «Anche tu te la sei cavata bene, Mezza Pinta». «Io?», disse John. «Sei riuscito ad arrampicarti fino al cavo e ad arrivare al ponte. Non avrei mai creduto di vedere un Piccoletto, nemmeno un Piccoletto mica male, fare una cosa del genere. Ci vuole del fegato, direi. Be', salta su che ripartiamo». John obbedì. «Lo hai ucciso?», chiese, mentre si dirigevano verso la biforcazione del sentiero che li avrebbe portati alle Pianure. «Chi? Il vecchio Argano? No, gli ho solo messo un po' di sale in zucca. Ci vorrà pure qualcuno che faccia funzionare il ponte e lo ripari, no? Tieniti forte. Da qui è tutta discesa, e siamo in ritardo. Tra due ore tramonterà il sole, e credo che abbiamo appena il tempo di arrivare a Guado Triste». E il Fregatore di Colline, riprendendo a marciare col suo passo che divorava i chilometri, si lanciò ancora una volta all'inseguimento del Terrore. 9 Non ci misero molto. Come aveva detto il Fregatore, era tutta discesa. Quasi immediatamente scesero nel lato a foresta della montagna. Gli alberi che li circondavano erano alti e con fronde abbondantissime. A causa della mancanza di sole, non esisteva vegetazione di sottobosco. Procedevano in quella che sembrava una distesa sterminata, monotona, di alberi, tra un chiarore fioco diffuso da nessuna particolare fonte d'illuminazione. Anche l'assenza di rumori era notevole. Data la scarsità di vegetazione, non esistevano insetti; e nemmeno uccelli, che appunto di insetti si nutrono. Di tanto in tanto, da sopra le loro teste, a un'altezza tra i venticinque e i trentacinque metri, tra le fronde fittissime, scendeva il pigolio lontano di un animale o di un uccello invisibile. Per il resto, davanti a loro c'erano so-
lo il sentiero, rari macigni che sembravano spersi in quel paesaggio cupo, e l'interminabile tappeto di foglie cadute dagli alberi. Il Fregatore non parlava più; e il rollio continuo del suo corpo, la corsa dei piedi su quel terreno soffice, fecero precipitare John in una sorta di stato onirico in cui nulla gli sembrava più reale. Né quel paesaggio, né l'intera faccenda in cui si trovava coinvolto, sembravano possedere il minimo rapporto con la realtà. Cosa ci stava a fare lì, legato alla schiena di un alieno grande quanto un cavallo, condannato a un duello mortale con un altro rappresentante di quella razza gigantesca? Cose del genere non succedono mai alla gente normale. Però, a pensarci bene, esiste davvero gente normale? A ben considerare, meditò pigramente John, nessuno è proprio normale. Si appisolò. Trascorse un periodo di tempo grigio, indeterminato; poi fu risvegliato dallo scossone che il Fregatore gli diede fermandosi. Si tirò su nello zaino, strizzando gli occhi, e si guardò attorno. Era già il tramonto. Sotto la luce crepuscolare, erano fermi in un grande spiazzo erboso semi-circondato dalla foresta. Davanti a lui, un edificio lungo, basso, grande per lo meno il doppio di ogni costruzione che avesse mai visto, a parte le case di Humrog. A una certa distanza dietro l'edificio, un fiume ampio e tranquillo scorreva gorgogliando, aggirava una distesa di pietre e correva via, a scomparire fra le ombre del tramonto. «Salta giù, Mezza Pinta», disse il Fregatore. John, tutto intirizzito, scese dallo zaino. Le ferite e le spelature della sera prima avevano già cominciato a chiudersi. Il terreno soffice gli dava una sensazione strana, e crampi non troppo forti gli tormentavano i polpacci. Girellò un po' attorno, per riattivare la circolazione; poi seguì la grande schiena del Fregatore che era entrato nell'edificio, bloccando per un attimo la luce gialla che filtrava dall'ingresso. Si trovò in una sala da pranzo molto più ampia e pulita di quanto non avesse mai visto su Dilbia. Anche i clienti della locanda di Guado Triste parevano più tranquilli e meno ubriachi di quelli che aveva incontrato in altri locali dilbiani, ad esempio alla locanda di Roccia Friabile. Cercando con gli occhi una spiegazione per quello strano insieme di cose, John notò, in fondo alla stanza, un baldacchino sopraelevato su cui sedeva un dilbiano davvero enorme, ingrigito dagli anni e appesantito dal grasso. Mentre seguita il Fregatore, continuò a fissare quel dilbiano eccezionale, e così andò a sbattere contro un tavolo. Recuperò subito l'equilibrio, ma venne ammonito dal postino.
«Non metterti a creare guai proprio adesso, Mezza Pinta». «Io?», disse John. Era talmente stupefatto all'idea che un essere delle sue dimensioni potesse creare guai ai giganteschi dilbiani, quand'anche fosse stato tanto pazzo da desiderarlo, che non riuscì nemmeno a trovare le parole adatte per protestare la propria innocenza. «Appunto», disse il Fregatore, quando si furono accomodati a un tavolino ed ebbero ordinato carne e cibo (per John, come sempre, solo birra). «Qui siamo su territorio convenzionato. Appartiene a un uomo senza clan, e nessuno crea guai, qui». «Territorio convenzionato?». «Già», disse il Fregatore di Colline. «Uomo Solo è...». In quel momento arrivò il cibo, e il discorso del postino s'interruppe bruscamente. Il dilbiano si dedicò a pane, formaggio e birra, e quando John tentò di riprendere la conversazione si limitò a pochi grugniti. John si rilassò e si mise a bere, dopo aver deciso di andare cauto con la birra. Tentò di vedere meglio il dilbiano enorme sul fondo della stanza, scrutando tra i molti corpi che si aggiravano fra un tavolo e l'altro; ma la visuale non fu mai tanto chiara da permettergli di vederlo bene. A un certo punto, però, John lasciò cadere il boccale di birra sul tavolo e si alzò in piedi. «Ehi!», disse, dando un pizzicotto al Fregatore. Il postino ingoiò un altro boccone pauroso di carne. «Ehi!», disse John, pizzicandolo più forte. Il Fregatore, a bocca piena, borbottò qualcosa d'incomprensibile. «Guarda!», disse John. «Guarda là! Spicciati!». Il Fregatore alzò gli occhi, seguendo la direzione dell'indice di John. La vista di un emnoide accompagnato da una femmina dilbiana relativamente bassa e grassoccia non parve turbarlo. I due si facevano strada tra i tavoli, diretti al baldacchino su cui sedeva il gigantesco patriarca. Il Fregatore deglutì. «Sì», disse, con aria indifferente. «È il Grassottello, Tark-ay. Quello di cui ti parlavo. Quello che sul suo pianeta era un attaccabrighe». Il Fregatore scoprì che aveva bisogno di deglutire di nuovo, e deglutì. Con la sinistra prese un bel pezzo di carne, e contemporaneamente puntò l'indice della destra. «E con lui c'è Ragazzi Che Corpo». «Ragazzi Che Corpo?». John la fissò a occhi sbarrati. «Così dicono, almeno», rifletté il Fregatore, masticando pane a tutto spiano. «A me piacciono un po' più magroline».
«Ma...», disse John. «Cosa ci fa qui? Senti, andiamo a parlarle, chiediamole notizie di Faccia Unta, se sta bene...». «Vedi che cominci?», chiese il Fregatore. «Comincio cosa?». John si girò a guardarlo, strizzando gli occhi. «A creare guai». «Creare guai?». «E già», disse il Fregatore. «Non ti ho appena spiegato che questo è territorio convenzionato? In territorio convenzionato bisogna comportarsi bene. Tutti, anche i Piccoletti, devono rispettare le regole». John si zittì. Il Fregatore ricominciò a mangiare. John osservò l'emnoide, Tark-ay, e Ragazzi Che Corpo: giunti accanto al baldacchino, si misero a sedere, e si lanciarono in una conversazione palesemente cordiale col patriarca. Gli sarebbe piaciuto moltissimo sentire cosa stavano dicendo. Guardò il Fregatore, che continuava a divorare cibo; e si provò a elaborare un piano che spingesse il postino a presentare anche a lui il gigantesco dilbiano. Non appena il Fregatore ebbe terminato la cena, John bevve un cauto sorso di birra e si mise all'opera. «Chi hai detto che è quel tipo seduto sul baldacchino?», chiese. «Come, non lo sai? No, probabilmente non lo sai», si rispose da solo il Fregatore. «È Uomo Solo, Mezza Pinta. Qui a Guado Triste è tutto suo». «Un gran pezzo d'uomo», disse John. «Puoi ben dirlo», ammise tranquillamente il postino, scolandosi l'ultimo goccio di birra. «Mi piacerebbe conoscere un tipo del genere», disse John. «Vedi, sul mio pianeta...». «Ottimo», lo interruppe il Fregatore, alzandosi. «Perché la cameriera mi ha fatto sapere che dovevo presentarti, appena finito di mangiare. Vieni, Mezza Pinta». Il dilbiano si avviò tra i tavoli. John, abbacchiato, scosse la testa e lo seguì. La prossima volta, pensò, prima chiedo e poi elaboro un piano. Quando giunsero vicino al vecchio sul baldacchino, John scoprì che, mentre loro due traversavano la stanza, l'emnoide e Ragazzi Che Corpo erano svaniti. Ad ogni modo non ebbe molto tempo di riflettere sulla cosa, perché, all'istante, la sua attenzione venne completamente assorbita dal dilbiano che stava per conoscere. Uomo Solo era davvero una creatura straordinaria. Lo sconcertò molto, dopo aver trascorso due giorni a tentare di abituarsi
all'idea delle dimensioni dei dilbiani, dover ripartire da capo per inserirsi in un nuovo ordine di cose. Era un po' come sostituire il metro col centimetro, per poi trovarsi di colpo con un decametro in mano. E, con l'aumentare delle unità di misura, sentirsi sempre più piccoli. John si era abituato ad arrivare con la testa alle ascelle di un maschio dilbiano. E adesso si trovava di fronte un esemplare a cui poteva sperare, al massimo, di arrivare a metà del petto. La sua prima reazione fu piuttosto simile a quella di Gulliver davanti agli abitanti di Brobdingnag: gli venne voglia di alzarsi in punta di piedi e di mettersi a urlare per farsi sentire. Uomo Solo straripava sullo scranno imponente; e i peli grigi che gli coprivano la testa quasi sfioravano un bastone di legno lucido, lungo due metri, appoggiato su piuoli che uscivano dalla parete a un'altezza di due metri, dietro le sue spalle. Gli avambracci e le mani enormi riposavano sul tavolo che aveva di fronte, simili a clave robustissime di carne, ossa e muscoli. Attorno al vecchio, uno stuolo di inservienti rispettosissimi. Uomo Solo sembrava un signorotto barbaro un po' troppo cresciuto. Eppure, i suoi grandi occhi grigi, che incrociarono senza la minima esitazione quelli di John al loro avvicinarsi, riflettevano la luce di un'intelligenza acuta, penetrante. Era lo stesso tipo di sguardo che John, sulla Terra, aveva riscontrato negli occhi di uomini politici d'alto rango. «Ti presento il Pacco Postale da Mezza Pinta, Uomo Solo», disse il Fregatore. Un paio di dilbiani gli passarono una panca. Il Fregatore si accomodò subito; John dovette arrampicarsi. «Benvenuto, Mezza Pinta», tuonò Uomo Solo. La sua voce era talmente ricca di toni bassi che dava l'impressione di un enorme tamburo che risuonasse nella foresta. «Questo è il momento che tutti aspettavamo». 10 «Aspettavi me?». John fissò il vecchio gigantesco. «Certo che sì», rispose Uomo Solo. «Mai nessun Piccoletto è stato ospite sotto questo tetto». Piegò il capo in direzione di John, con solenne dignità. Una scena molto pomposa e fatua; ma John, all'improvviso, fu convinto che le prime parole di Uomo Solo avessero un doppio senso. E cosa volevano dire? Erano un avvertimento? Si guardò attorno, per quanto gli era possibile senza girare direttamente la testa; ma, a parte quei visi di dilbiani insolitamente beneducati, non vide nulla di strano. Tark-ay e Ragazzi Che
Corpo erano davvero scomparsi. «È un piacere trovarmi qui», rispose nel frattempo John, automaticamente. «Sotto questo tetto, tu sei mio ospite», disse Uomo Solo. «Ora e per sempre in futuro, ogni volta che vorrai tornare». Di nuovo, John ebbe l'impressione di un doppiosenso. Comunque non riusciva assolutamente a capire se l'idea di un messaggio segreto nascesse da ciò che l'altro diceva, o dal modo in cui lo diceva. E poi, perché mai avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Ai suoi occhi, lui doveva apparire niente di più che un normalissimo Piccoletto. «Il Fregatore ti ha parlato di me?», stava chiedendo Uomo Solo. «Be', non molto...». «Tanto meglio, probabilmente». La sua testa enorme annuì piano. «Il passato è il passato; e io oggi sono solo un vecchio che sogna su questa sedia...». Secondo John, le cose non dovevano stare esattamente così. Da ciò che aveva visto, non gli risultava che i dilbiani tributassero simili manifestazioni di rispetto a una vecchia carcassa, per quanto venerabile potesse essere. «Lo chiamano Uomo Solo, Mezza Pinta», intervenne il Fregatore, «perché una volta ha sfidato all'ultimo sangue, da solo, dato che era orfano, un intero clan. E ha vinto!». «Ah, sì. I vecchi giorni», sussurrò Uomo Solo, con uno sguardo lontano negli occhi. «Una volta», disse il Fregatore, «cinque del clan lo hanno bloccato su un sentiero da cui non esistevano possibilità di fuga. Li ha uccisi tutti». «Naturalmente, la fortuna mi ha assistito», disse Uomo Solo, modesto. «Ma basta, basta, non voglio commemorare le glorie del passato. È senz'altro più cortese parlare del mio ospite. Dimmi, Mezza Pinta», e i suoi occhi divennero di colpo penetranti, trafissero John, «cosa ci fate voialtri Piccoletti qui?». John ammiccò. «Be', ecco... Io sto cercando Faccia Unta». «Certo, certo». Uomo Solo annuì benignamente. «Ma come mai lei, e tutti gli altri, sono arrivati qui?». I suoi occhi, con aria sognante, vagarono nella stanza. «Si direbbe che esista un piano preciso». Fissò di nuovo John. «Insomma, nessuno vi ha chiesto di venire». «Be', no», disse John. Si sentiva alle corde. Gente come Joshua Guy e in
genere tutti i membri del corpo diplomatico terrestre erano ben preparati per spiegare i motivi dell'espansione umana nello spazio. John tentò di ricordare quello che aveva imparato alle scuole superiori, e di tradurlo in termini dilbiani. Uomo Solo annuì dolcemente; ma John ebbe la netta sensazione di non aver spiegato molto. Ad esempio, cosa poteva significare il termine «sovrappopolazione» per una razza che considerava una grande città un paesotto di cinquemila abitanti? E che senso poteva avere «il diffondersi automatico della civiltà», se non dare l'impressione di paroloni lunghi e complicati? «È tutto molto interessante, Mezza Pinta», disse Uomo Solo quando John ebbe esaurito i suoi argomenti. «Però sai, la cosa che mi lascia più perplesso in voi Piccoletti», si protese confidenzialmente in avanti, «è che pensate sempre che dovreste piacere a tutti». «Veramente, non...», cominciò John; poi capì che in effetti era vero. Si trattava di una delle principali caratteristiche umane, se non della principale in assoluto. «Sì, probabilmente è vero. Comunque, cosa c'è che non va? Noi siamo pronti a farci piacere le altre razze». Uomo Solo annuì, saggiamente. «Non ci avevo pensato, Mezza Pinta». Annuì con solennità. «Certo, questo spiega tutto». Scrutò gli altri dilbiani. «È naturale che si aspettino di piacere agli altri, se gli altri piacciono a loro. Forse dovevamo capirlo prima». I dilbiani fissarono Uomo Solo, apparentemente perplessi. Ma dovevano essere abituati a lasciarsi stupire da quel patriarca smisurato, perché nessuno fece obiezioni. John, da parte sua, uscì in una smorfia. Non era sicuro se lo stessero prendendo in giro o meno. «Non riesco proprio a decidere cosa pensare di voi Piccoletti», disse Uomo Solo, con un sospiro; e fu come il sospiro di una montagna. «Via, via, che razza di ospite sono? Costringo il mio amico a cercare i motivi che stanno dietro le cose, mentre dovrei pensare solo a divertirlo. Vediamo, cosa potrei fare di istruttivo e divertente...». Alzò d'improvviso un dito. «Ci sono. È da molto tempo che non spezzo il mio bastone per qualcuno. Volete passarmelo, per favore?». Un giovane dilbiano sulla destra si alzò, tolse dai piuoli sopra la testa di Uomo Solo il bastone e glielo porse. Il vecchio afferrò con entrambe le mani il pezzo di legno, lungo due metri e con un diametro di più di sette centimetri. I polsi appoggiati sul tavolo, le mani lontane un metro circa l'una dall'altra, tenne sospeso il bastone davanti al petto.
«È un mio trucchetto», confidò amabilmente a John. «Forse ti divertirà». Strinse i pugni sul bastone. Poi, senza muovere di un millimetro le braccia o sollevare i gomiti dal tavolo, fece girare i pugni in senso contrario l'uno all'altro. Il bastone s'incurvò nel mezzo, come una molla sollevata da un'onda; e si spezzò. Uomo Solo si chinò in avanti, tese a John i due pezzi di legno. Erano talmente pesanti e difficili da tenere in mano che lui preferì infilarli sotto il braccio. «Un ricordino per te», disse Uomo Solo, tranquillamente. John annuì, un po' stordito. Ciò che aveva visto era impossibile. Persino per un dilbiano. Persino per un dilbiano come Uomo Solo. Era impossibile perché, tenendo i polsi sul tavolo, non esisteva punto d'appoggio, e quindi nemmeno la possibilità di fare forza. «Tranne me, nessuno è mai stato capace di farlo», disse Uomo Solo, chiudendo gli occhi con aria sognante. «Buona fortuna col Terrore, Mezza pinta». John rimase lì impalato, a fissare i due pezzi di legno che aveva sotto il braccio, finché il Fregatore non gli batté sulla spalla. Lo guidò fuori della sala, gli fece superare un'altra tenda di pelle. Entrarono in una lunga stanza, lungo le cui pareti erano allineate due file di rami degli alberi simili a conifere della foresta. Servivano perfettamente da giaciglio per chi volesse dormire. Parecchi maschi dilbiani erano già nel mondo dei sogni. Il Fregatore accompagnò John a un mucchio di rami nell'angolo più lontano della stanza. «Qui puoi dormire tranquillamente, Mezza Pinta», disse. «Nessuno ti disturberà». Indicò l'entrata. «Io sono di là, se hai bisogno di me». Quel letto, per quanto primitivo, all'improvviso sembrò molto attraente a John. Era stanco morto. Appoggiò a terra i pezzi di legno che Uomo Solo gli aveva dato, accanto ai rami, e sedette a togliersi le scarpe. Cinque minuti dopo, dormiva. Più tardi, a un'ora imprecisata, si svegliò, i sensi all'erta. Per un lungo momento restò immobile, in attesa, quasi aspettandosi un attacco. Ma non ci fu nessun attacco. Con cautela, si rizzò a sedere e si guardò attorno. Alla luce della grande candela che ardeva vicino all'entrata, vide che il dormitorio era pieno. Tutti i dilbiani dormivano in un silenzio stupefacen-
te, considerate le loro dimensioni e la confusione che creavano di giorno. Accanto a lui, il Fregatore di Colline riposava sui rami, sdraiato di fianco, un braccio peloso proteso in avanti, il palmo rivolto verso l'alto. Ma era quasi impossibile accorgersi che il postino respirava. John restò seduto, girando gli occhi, cercando d'immaginare cosa lo avesse svegliato. Ma non c'era proprio niente da vedere. Tutto era in perfetto ordine. Persino le sue scarpe e i due pezzi di legno di Uomo Solo si trovavano al loro posto, accanto al suo giaciglio. Eppure, continuava a sentirsi teso. Ripensandoci, era sempre più convinto che Uomo Solo, dietro l'apparenza di una conversazione banale, avesse voluto trasmettergli chissà quale messaggio. Il gigantesco dilbiano era, senza dubbio, molto più intelligente dei suoi simili. Inoltre, sembrava godere di una posizione unica. A quel punto, John bestemmiò sottovoce. Aveva appena ricordato qualcosa che lo tormentava da che era entrato nella locanda di Guado Triste e aveva intravvisto la forma seduta del proprietario. Uno dei motivi per cui Uomo Solo aveva attirato l'attenzione di John era che gli era familiare. E gli era parso familiare perché lo aveva già visto, o comunque ne aveva visto l'immagine. Uomo Solo era il dilbiano mostruosamente grande della foto tridimensionale sulla scrivania di Joshua Guy. Splendido. E adesso, come doveva valutare la situazione? Uomo Solo era amico o nemico? Se era amico di Joshua... E se non lo era, cosa ci faceva la sua foto tridì sulla scrivania di Joshua? John, distrattamente, si passò una mano tra i capelli rossi e scompigliati. Da ragazzo, si era appassionato alla lettura non solo de I tre moschettieri e Vent'anni dopo, ma di tutto ciò che aveva a che fare coi moschettieri di Dumas. In quei giorni, invidiava d'Artagnan e i suoi tre amici che rischiavano di continuo la vita per risolvere pericolosi intrighi. Ora, a quindici anni di distanza, trovandosi nel bel mezzo di un'avventura simile alle loro, capiva che i moschettieri dovevano essere un bel branco di cretini, per non dire di peggio. Gli venne in mente la barzelletta su quel tizio che è capace di arare senza problemi quattrocento acri di terra, ma che non riesce a tirar fuori dal terreno una sola patata; e capì che, nelle avventure, non sono i rischi quelli che pesano, ma è la necessità di prendere decisioni. Ad esempio, la faccenda del bastone che Uomo Solo aveva spezzato: perché gli aveva dato i due pezzi? Aveva detto che si trattava di un ricor-
dino, il che, forse, era esatto dal punto di vista dilbiano; ma certo non si trattava del dono più adatto per un Piccoletto destinato a un combattimento à l'outrance col Terrore. John si chinò a raccogliere i due pezzi, per dar loro un'altra occhiata. Studiandone le estremità spezzate, pensò ancora una volta che si trattava di un'impresa impossibile. Non bastava la forza fisica per rompere in due a quel modo quel bastone. D'improvviso, abbassò gli occhi per scrutare meglio le due estremità. Nel punto in cui il bastone si era spezzato, si notava una vaga colorazione su entrambi i pezzi. La colorazione seguiva il percorso di un solco sottilissimo che partiva dall'orlo del legno e arrivava fino al centro. La luce del dormitorio era troppo debole per permettergli di vedere meglio. Allora passò la punta dell'indice sul solco, e scoprì che si trattava di una scanalatura. Appoggiando l'una contro l'altra le due estremità spezzate, i solchi combaciavano. A quel punto, John pensò che non doveva essere impossibile scavare un forellino minuscolo che arrivasse fino al centro di un bastone di quelle dimensioni. E poi, versando per un certo tempo, a intervalli regolari, del liquido corrosivo nel foro, il bastone si sarebbe notevolmente indebolito in corrispondenza di quel punto. Anzi, procedendo con accortezza si poteva arrivare a calibrare perfettamente il grado di resistenza del legno, e fare in modo che soltanto qualcuno dotato di una forza notevole... Hmm, pensò John; e si mise a considerare Uomo Solo sotto una nuova luce. Ora, si chiese, se oltre ai muscoli io possedessi anche del cervello, e vivessi all'interno di una società che dà importanza solo alla forza, e fossi solo, e potessi contare esclusivamente su queste due doti, cosa farei? Ovviamente fingerei di usare poco il cervello e molto i muscoli, si rispose. Potrei addirittura fare di me stesso una leggenda vivente, vedermi attribuiti poteri soprannaturali, se fossi in gamba; e quindi trovarmi protetto anche in vecchiaia, quando la forza fatalmente mi abbandonerebbe. Domanda: se fossi un tipo del genere, cercherei alleanze o legami stretti con altri individui o gruppi? Risposta: no, non mi fiderei. Rapporti troppo stretti con altri distruggerebbero l'aureola di potenza sovrumana che sarebbe la mia migliore protezione. Ergo, concluse John, Uomo Solo non può stare dalla parte di Joshua. O del Terrore. Nel qual caso, forse è possibile convincerlo a stare dalla mia.
S'infilò le scape e si alzò senza far rumore. Non era una cattiva idea andare subito in cerca di Uomo Solo e vedere se era possibile un'ulteriore conversazione, un po' più intima, sulla situazione. Traversò in punta di piedi il dormitorio, oltrepassò la tenda, arrivò in sala da pranzo. Ai tavoli erano seduti ancora pochi dilbiani; e il baldacchino di Uomo Solo era vuoto. Il vecchio non si era coricato in dormitorio, per cui o aveva stanze tutte sue, o non dormiva alla locanda. John restò lì un attimo, indeciso. I pochi dilbiani ancora svegli lo ignorarono, per quella specie di cecità davanti a un essere delle sue dimensioni che già conoscevano. Semplicemente non si aspettavano di vedere qualcuno tanto basso. Guardavano tutti, in senso letterale, al di sopra della sua testa. Gli venne in mente che forse Uomo Solo era ancora in piedi. Poteva essere uscito, oppure essersi ritirato in una delle case più piccole, o quello che erano, che si trovavano dietro la locanda. In silenzio (dopo l'esperienza di Roccia Friabile non provava il minimo desiderio di attirare l'attenzione su di sé) traversò la sala da pranzo, scostò la pesante tenda di pelle e uscì. Fuori, dopo essersi spostato di lato per non trovarsi illuminato dalla luce che filtrava dall'ingresso, si fermò per abituare gli occhi al buio della notte. Poco per volta, il paesaggio che aveva attorno prese forma, solidificandosi tra le tenebre. Il fiume scorreva col suo chiarore argenteo fra le ombre, e le sagome lontane degli alberi sembravano le onde di un mare nero. Lo spiazzo su cui sorgevano la locanda e le altre case era immerso nel silenzio. Girando a destra, John si avventurò con cautela verso il retro dell'edificio. A differenza di Roccia Friabile, il cortile, che digradava dolcemente verso il fiume, non era ingombro di rifiuti; e anche gli edifici erano in buone condizioni. Tra una casa e l'altra le ombre si facevano fittissime. John fu praticamente costretto a procedere a tentoni. In quell'attimo gli venne in mente (e si chiese come mai non ci avesse pensato prima) che quelle case dovevano essere l'abitazione non soltanto di Uomo Solo, ma anche dei suoi uomini, e probabilmente delle femmine. A quanto sembrava, su Dilbia le femmine stavano alla larga dalle locande, a meno che non si trattasse di cameriere. Procedendo fra gli edifici ammassati, John si chiese come avrebbe fatto a controllare da chi era occupata ogni casa senza destare sospetti. D'improvviso, appena svoltato un angolo, vide uscire dalla doppia tenda di una casa un filo di luce giallastra. Si diresse da quella parte; ma, quando
passò davanti a un punto in cui le ombre erano più fitte, una mano si protese ad afferrargli il braccio. «Vuoi proprio farti ammazzare?», sibilò una voce. Ovviamente, le parole erano in lingua comune terrestre. Perché sia la voce che la mano erano umane. 11 La mano lo trascinò via, lo fece sprofondare nell'ombra, lo guidò verso un edificio d'angolo da cui non si vedeva più la luce giallastra. Raggiunsero la porta della casa e John venne spinto oltre la solita tenda di pelle. Nell'oscurità completa dell'interno, la mano gli lasciò il braccio. John, d'istinto, si fermò, completamente perso in quel buio che odorava di pelle. Poi ci fu un rumore, uno sfregamento, e una candela si accese a poco più d'un metro da lui, accecandolo. John ammiccò per diversi secondo a quella luce improvvisa. Poco per volta tornò a vedere; e quando, per la prima volta in due giorni, abbassò gli occhi, si trovò a fissare il viso di una delle ragazze più carine che avesse mai incontrato. Era più piccola di lui di una quindicina di centimetri circa, ma a una prima occhiata sembrava più alta per la snellezza del corpo e per la tuta aderente che indossava. Agli occhi di John, abituati ai dilbiani, parve esilissima, addirittura fragile. I capelli castani, divisi in due dalla riga, le incorniciavano il volto. Gli occhi erano verde-blu, e gli zigomi pronunciati le conferivano un'aria scultorea. Il naso era sottile, le labbra perfettamente modellate e non troppo piene. Il suo piccolo mento aveva un aspetto molto deciso. John ammiccò di nuovo. «Chi...?», riuscì a dire dopo un minuto. «Sono Ty Lamorc», rispose lei. «Parla piano!». «Ty Lamorc?». «Sì». «Ne sei sicura?», chiese John. «Capisci, tu...». «E chi diavolo ti aspettavi di incontrare qui, in pieno... Ah, ho capito!». Lei gli lanciò un'occhiata fulminante. «È perché i dilbiani mi chiamano Faccia Unta, eh? Pensavi che io fossi una specie di strega?». «No, perbacco», disse John. «Be', per tua informazione, è semplicemente successo che un giorno mi
hanno vista truccarmi». «Oh». «Ecco perché mi chiamano Faccia Unta». «Oh, certo. Ma non ho mai pensato...». «Sì, ci scommetto». «Te lo giuro», disse John. «Ad ogni modo, la cosa non ha importanza. Ma che accidenti ci fai qui? Vuoi prenderti un bel colpo in testa?». «Stavo cercando di trovare Uomo Solo...». John s'irrigidì di colpo e abbassò la voce. «Il Terrore è qui?». «No, però c'è Ragazzi Che Corpo. È lei che mi fa la guardia. E se ti mette le mani addosso, ti uccide. Non ha nemmeno detto al Terrore che tu lo stai inseguendo». John era perplesso. «Non capisco», disse. «Il Terrore non fuggirebbe davanti a un combattimento. Ci si butterebbe a capofitto. È convinto che a inseguirlo sia solo il Fregatore di Colline, con la richiesta di riportarmi indietro firmata dal sindaco di Humrog. Ragazzi Che Corpo non vuole che il Terrore ti uccida, perché si metterebbe nei guai». «Però è pronta a uccidermi con le sue mani». «È innamorata del Terrore. È fatta così. E poi non sa... Be', quanto la tua missione sia sostanzialmente innocua. Adesso devo riportarti in dormitorio prima che lei ti prenda. Non oserà entrare lì a molestarti. La locanda è territorio convenzionato». «Aspetta un attimo», disse John, quando Ty lo afferrò di nuovo per il braccio, senza muoversi. «Non stiamo facendo un po' di confusione? Chi è la persona da salvare, tra noi due? Sono venuto fin qui per trovarti e riportarti a Humrog. Okay, ti ho trovata. Torna con me nella locanda. Sveglierò il Fregatore di Colline e gli spiegherò tutto e...». «Tu», lo interruppe focosamente Ty, «non capisci un accidenti di questi dilbiani, Mezza Pinta... Voglio dire, signor Tardy». «Chiamami John». «John, tu non capisci la situazione. Il Terrore mi ha lasciata qui perché sapeva che Ragazzi Che Corpo non mi avrebbe persa d'occhio. E così è. Tornerà a cercarmi nel giro di dieci minuti; e se non mi trova, si lancerà al nostro inseguimento. Per di più, il Fregatore si è impegnato sul proprio onore a consegnarti al Terrore. E il Terrore, sempre in nome dell'onore,
combatterà con te non appena vi incontrerete, e non appena saprà che tu lo stai inseguendo per liberarmi. Per cui ci darebbe la caccia anche lui. E se Ragazzi Che Corpo non riuscisse a prenderci, lui ci riuscirebbe di certo». «Ma...». «Vuoi starmi a sentire?», sibilò Ty. «Io sono una sociologa. Ho passato sei mesi a studiare questa razza. Quello che devo fare è tenerti alla larga da ogni pericolo finché il Terrore non mi porterà alle Pianure, il territorio del suo clan. Una volta che lui sarà arrivato lì, toccherà agli anziani del suo clan decidere la mia sorte, la tua, quella del Terrore, e tutto il resto. Chiederò udienza e spiegherò che fra me e Joshua non esistono rapporti di sangue o di altro genere, dopo di che loro decideranno che il Terrore non aveva nessun diritto di rapire me per vendicarsi dell'insulto subìto da parte di Joshua. Ne sono sicura. Quindi, il Terrore non avrà più motivo di battersi con te, e potremo andarcene tutti e due sani e salvi». «Se ne sei tanto sicura», disse John, «com'è che io sono stato costretto a lanciarmi in questa missione?». «Oh, Joshua non capisce i dilbiani molto meglio di quanto li capisca tu». «A questo ci credo», disse John. «Per cui, adesso te ne torni alla locanda. E stai attento!». «Ecco...». John esitò. «Io continuo a pensare che dovrei andare sul sicuro e cercare di portarti via stanotte. Se partiamo subito e riusciamo ad abbattere il ponte di Fiume Bitorzoluto...». S'interruppe, la scrutò. Ty era davvero minuscola e fragile. Il pensiero del Terrore che la teneva stretta fra le sue zampacce e correva via con lei gli dava un brivido allo stomaco. «Credo che non dovremmo correre il rischio di mettere in gioco la tua vita», concluse. Ty Lamorc restò perfettamente immobile per un lungo secondo, guardandolo. Sul suo viso era apparsa un'espressione indecifrabile. «Oh, John!», disse alla fine, e i suoi occhi divennero all'improvviso dolcissimi. Poi tese la mano e gli carezzò il braccio. «Sei molto gentile», disse, sottovoce. «Grazie, John». Poi, di colpo, prima che lui potesse reagire, Ty spense la candela. Nel buio improvviso, John sentì ondeggiare la tenda. «Ty?», chiese. Ma non ci fu risposta. Se n'era andata. John uscì dalla casa, riemerse nella notte illuminata solo dalle stelle. Si guardò attorno, rintracciò la locanda e s'incamminò. Una cosa grande, una specie di manto di pelle, scese dal nulla, lo avvi-
luppò. Due braccia potenti lo sollevarono da terra. Tentò di resistere, ma era inutile. Lo trasportarono via. Chiuso nel manto di pelle, John cominciò a soffocare. Ben presto perse conoscenza. Tutto diventò morbido, dolce. Gli pareva di galleggiare, sospeso nel buio. Poi, fu il nulla. 12 Si svegliò con la vaga impressione di aver dormito troppo, di essere in ritardo per il lavoro. Quando aprì gli occhi, restò sorpreso e perplesso nel vedere le intricate fronde d'alberi che si stagliavano nere contro il grigio pallido di un cielo non ancora illuminato dall'alba. Come ho fatto a finire qui? si chiese. L'impressione successiva, altrettanto vaga, fu di essere uscito la sera prima e avere bevuto troppo. In bocca aveva un sapore acido e gli faceva male la testa: tipici sintomi di un doposbronza. Poi, all'improvviso, gli tornò in mente tutta la sua avventura su Dilbia, sino al momento in cui lo avevano rapito dopo il colloquio con Ty Lamorc. Si rizzò a sedere per guardarsi attorno, e così scoperse di avere braccia e caviglie saldamente legate da una corda robusta. Si trovava in una piccola radura, seduto su foglie e terreno umidi. A quattro o cinque metri da lui ardeva un falò. Accanto al fuoco c'erano Ragazzi Che Corpo e l'emnoide piccolo e tarchiato, Tark-ay. Ragazzi Che Corpo alzò la testa quando lo udì muoversi, e lo sguardo di Tark-ay seguì quello della dilbiana in maniera molto composta. Lì in mezzo alla foresta, con la luce del falò che illuminava appena il cielo, sembravano due creature uscite da chissà quale leggenda orientale: il saggio e la bestia. Ma proprio in quell'attimo, Ragazzi Che Corpo aprì bocca e distrusse l'illusione. «Si è svegliato!», disse. La sua voce aveva toni d'accusa. «Su questo non c'è dubbio, graziosa signora», ribatté Tark-ay. La sua voce, come la voce di tutti gli emnoidi, era acuta, gorgogliante, più tendente ai toni bassi di quella di un maschio dilbiano. In effetti, Tark-ay e Ragazzi Che Corpo si servivano più o meno degli stessi registri vocali. «Ha dormito solo per poche ore. Sono stato molto attento». «Ai vecchi tempi», disse Ragazzi Che Corpo, con aria speranzosa, «ai prigionieri si rompevano le gambe, per impedire che fuggissero».
«Dopo tutto, noi non siamo barbari, graziosa signora», protestò, senza troppa convinzione, Tark-ay. «Oh, siete tutti così testardi!», sbuffò Ragazzi Che Corpo. «Non bastava tirargli un colpo in testa, no! Bisognava portarlo qui e portarlo là. Il mio Terrore è fatto in un altro modo». «Il che», le fece notare Tark-ay, «è esattamente il motivo per cui non vogliamo che il Terrore sappia che quell'individuo lo sta inseguendo. Se posso permettermi di ricordarle...». «Be', sono stufa di aspettare, ecco tutto!», esclamò Ragazzi Che Corpo. «Se l'Ingollatore Senza Fondo di Birra non arriva qui un'ora dopo il tramonto, io gli tiro un bel colpo in testa e la faccio finita». «Dovrei impedirle di fare una cosa del genere, graziosa signora». «Non avresti il coraggio!». Un'occhiataccia fremebonda. «Lo direi al Terrore!». «Sarebbe molto spiacevole, graziosa signora. Tuttavia», ribatté Tark-ay, quasi in tono di scusa, «lei dovrebbe capire che io dovrei comunque fermarla. Sarebbe mio dovere. E dovrebbe anche capire che, nella malaugurata ipotesi di uno scontro diretto fra il Terrore e me, io ne uscirei senza dubbio vincitore». «Tu! Proprio non riesco a vederti vincitore del Terrore!». Ragazzi Che Corpo scoppiò a ridere. «È grande il doppio di te». «Non il doppio. Sì, è un po' più alto. Però i nostri rispettivi pesi non sono poi così diversi come potrebbe credere la vostra gente. A parte questo, se anche il Terrore del Fiume fosse davvero il doppio di me, non farebbe poi tanta differenza». «E perché no, intelligentone?», chiese Ragazzi Che Corpo. «Perché sul mio mondo la tecnica del combattimento a mani nude è una vera e propria arte, e io ne sono un esperto. Quindi, provi a immaginare che il Terrore mi si lanci addosso con l'intenzione di ferirmi». «Ti farebbe a pezzettini». «Niente affatto». Tark-ay si alzò con un movimento velocissimo. «Ecco, lui mi corre incontro, e io sono pronto a riceverlo...». D'improvviso, il piccolo emnoide scartò di lato, si piegò in due, tirò un calcio in aria. «Poi, prima che riesca a riprendersi, gli salto addosso io!». Tark-ay si raddrizzò, si protese in avanti. I palmi distesi delle sue mani tagliarono l'aria. «Non riuscirai a fermare il Terrore tirandogli degli schiaffi», disse Ragazzi Che Corpo. «Sì, che spettacolo! Tu che tiri schiaffi al mio Terrore!». «Tirargli schiaffi?», disse Tark-ay. Accanto al fuoco c'era un ceppo di
legna di buone dimensioni. Tark-ay lo prese, lo appoggiò al tronco di un albero, gli vibrò un colpo col palmo della mano, e il ceppo si spaccò in due. «La sua felicità sarà maggiore, graziosa signora», disse l'emnoide, sedendo di nuovo davanti al fuoco, «se il suo Terrore non avrà mai questioni in sospeso con me». Tark-ay si chinò a mettere sul fuoco uno dei due pezzi del ceppo. E John, che osservava la scena, notò uno strano scintillio negli occhi di Ragazzi Che Corpo. La destra della dilbiana afferrò di soppiatto un grosso sasso lì vicino, esitò, tornò a posarsi sul grembo di Ragazzi Che Corpo. Sì, forse Tark-ay era un esperto della scienza del combattimento a mani nude; ma in quanto a psicologia femminile, era un povero idiota. Ragazzi Che Corpo si era cacciata in un sacco di guai per far fuori John, solo perché lo riteneva una minaccia per il Terrore. E ora Tark-ay, incautamente, le aveva rivelato di essere a sua volta una minaccia per il Terrore, una minaccia molto concreta alla sua vita, non solo al suo onore. Certo, una donna fedele avrebbe forse riso di tutta la faccenda, pienamente sicura delle doti del futuro marito. Però Ragazzi Che Corpo, per quanto fedele sino al punto di mettersi contro tutti, sembrava anche dotata di un forte senso pratico. John si leccò le labbra, che erano completamente secche. «Non mi spiacerebbe bere un po' d'acqua», disse forte. Ragazzi Che Corpo si girò a guardarlo. «Humph!», disse poi, senza muoversi. «Siamo barbari?», urlò Tark-ay, balzando in piedi. Afferrò la borraccia che pendeva dal ramo di un albero, si avvicinò a John, tolse il tappo, tirò fuori un bicchierino sterile e glielo tenne davanti alla bocca mentre lui beveva. «Che ne diresti di allentare un po' le corde?», chiese John, dopo aver trangugiato due bicchierini d'acqua. «Mi spiace. Mi spiace moltissimo», rispose Tark-ay, e tornò davanti al falò. Per un po' restarono tutti in silenzio. Nel frattempo, il cielo di Dilbia divenne rosa e il sole apparve in alto, al di sopra degli alberi. Tark-ay si alzò e cominciò a saltellare in giro, battendo le mani sopra la testa. John lo fissò, stupefatto quanto Ragazzi Che Corpo. «C'è qualcosa che non va?», urlò la dilbiana. «No, graziosa signora», rispose l'emnoide. «Sono solo gli esercizi che eseguo a intervalli regolari durante il mattino».
«Be', pensavo che ti fosse entrato in bocca qualcosa!», disse Ragazzi Che Corpo, ritrovando la calma. «O che ti fossi ferito con una scheggia. O roba del genere». Tark-ay smise col primo esercizio, ne iniziò un altro. Adesso saltava in aria, sbatteva i tacchi, giungeva le mani, strizzava l'occhio. Non appena riprendeva contatto col suolo, spiccava un altro balzo e ripeteva tutto da capo. «È la cosa più ridicola che io abbia mai visto», commentò Ragazzi Che Corpo. «Che senso ha?». «Fa parte del mio allenamento», boccheggiò Tark-ay. «Un vero maestro delle arti marziali esegue questo esercizio prima di dire qualsiasi cosa. Forgia il carattere». «Be', secondo me è tutto da ridere». Ragazzi Che Corpo si coricò, raggomitolata su un fianco. «Svegliami quando arriva l'Ingollatore Senza Fondo di Birra. Io mi faccio un sonnellino». Chiuse gli occhi. Tark-ay continuò a saltare. Eseguì parecchi esercizi prima di smettere. Poi, asciugandosi la fronte, andò a sedersi a fianco di John. «È un bel problema, la nostra graziosa signora», disse, indicando con un cenno del capo Ragazzi Che Corpo. «Davvero?», chiese John, col sospetto che quel discorso volesse parare da qualche parte. «Già. Una gioventù irrefrenabile. Il prototipo della ragazzina con un mondo interiore orientato esclusivamente verso i propri angusti confini. Ritiene indegno di considerazione ogni elemento che non corrisponda alla sua immagine dell'universo». «Dici sul serio?». «Purtroppo sì. Tu appartieni a una razza civile, come me. Mi capisci. Quella mi sta facendo impazzire». «In che modo?». «È così... impossibile. Non sa niente. E crede di sapere tutto. Ad esempio, ho cercato di spiegarle una frase che ho detto l'altro giorno a proposito di pressioni psicologiche. Ora, tu sai quanto me che lei ignora tutto della psicologia». «Personalmente non la penserei così», disse John. «E com'è possibile che conoscano la psicologia su questo mondo barbaro? Ad ogni modo, ho cercato di spiegarle cos'è la psicologia, di farle capire la mia frase. Be', si è arrabbiata subito e ha detto che di psicologia ne sa
quanto me». Nonostante le corde e la situazione generale, John trovava interessante la discussione. «E tu cosa hai risposto?», chiese. «Le ho fatto presente che non può essere vero, dato che sul suo pianeta non esistono università dove si possa studiare psicologia». «E così le hai chiuso la bocca?». «No», rispose Tark-ay, depresso. «Ha detto che qui esistono anche le università. Sostiene di aver studiato psicologia all'università di Fratta Equivoca». «Fratta Equivoca?». «Un posto che non esiste», disse Tark-ay, «ovviamente. Gliel'ho fatto presente, e lei si è messa a dire che esiste, ma noi non ne sappiamo niente. Che è segretissimo. Deve essersi accorta che io avevo capìto che si trattava solo di bugie, per cui si è lanciata a inventarne altre ancora più incredibili. Ha detto che tutti i membri della sua famiglia sono laureati, e che a lei avevano offerto un posto d'insegnante. Ha concluso dicendo che il Terrore del Fiume in realtà è docente di questa università, e che se va in giro a combinare guai e a fare a botte è solo perché gli altri non sospettino le sue vere doti. Via, via...». Tark-ay, uscì in un gran sospiro, si alzò, tornò vicino al fuoco. John fece una smorfia. Si aspettava che l'emnoide si abbandonasse maggiormente alle confidenze. Sperava addirittura che quella conversazione gli offrisse la possibilità di un appiglio per tirarsi fuori dai guai. Ma Tark-ay si era interrotto troppo bruscamente. John era pronto a giurare che l'emnoide, sedendosi accanto a lui, avesse intenzione di parlare a lungo. Allora, come mai aveva cambiato idea? Poi, sulle foglie cadute dagli alberi, a una certa distanza da lui, si udì un rumore di passi. Qualcuno gli si stava avvicinando alle spalle, e lui era legato in modo tale che gli era impossibile girarsi. Davanti al fuoco, Tark-ay era occupatissimo a rompere pezzi di legna e a gettarli sulle fiamme. Non alzò la testa. I passi si avvicinarono, arrivarono alle spalle di John e si fermarono. John udì il suono lento, regolare, di un respiro profondo. Poi i piedi gli trasportarono davanti lo sconosciuto. John vide una faccia giallastra, tonda come la luna piena, che lo scrutava da più di due metri d'altezza dal suolo. «Bene, bene», disse una voce acuta, gorgogliante. «Ecco qui il nostro
piccioncino, ben legato, pronto per essere arrostito. Che spezie bisognerà usare, Tark-ay»?». Era l'ambasciatore emnoide su Dilbia, Gulark-ay. 13 «Sono certo che le verrà in mente qualcosa, signor ambasciatore», rispose Tark-ay; poi tutti e due gli emnoidi si misero a sghignazzare. Le loro due voci, unite, davano l'impressione di un paio di litri di olio per automobile che si rovesciassero gorgogliando a terra. A quel suono, Ragazzi Che Corpo si svegliò, si mise a sedere. «Sei qui!», disse a Gulark-ay. «Assolutamente esatto, Ragazzi Che Corpo», replicò l'ambasciatore emnoide. «In effetti, sono qui. Non sei contenta?». «Non capisco che bisogno c'era di aspettarti», disse lei. «Il fatto è che qui non si tratta semplicemente di buttare giù da un burrone qualcuno che non ti va a genio. Ricordi? A Roccia Friabile tu dovevi semplicemente rubargli il telefono da polso, non scaraventarlo in un canyon profondo centocinquanta metri». «Ci saremmo risparmiati un sacco di guai», disse Ragazzi Che Corpo, indomabile. «Questo lo credi tu. Ma se fossi riuscita a ucciderlo, avresti scoperto che ci saremmo creati un'infinità di guai. Credi che le autorità dei Piccoletti possano permettere che uno dei loro finisca ammazzato sul tuo pianeta senza cercare di scoprire cos'è successo?». «Non oserebbero creare problemi», disse Ragazzi Che Corpo. «Hanno bisogno di fare amicizia con noi gente vera. Come voi Grassottelli. Se ci avessero attaccati, voi avreste avuto un'ottima scusa per intervenire in nostro favore». Sbuffò: una curiosa versione al femminile dello sfogo emotivo preferito dal Fregatore. «Non oserebbero buttare tutto all'aria per un solo Piccoletto». «Lasciamo andare», disse Gulark-ay. «La vita è un po' più complessa di quanto tu non creda, Ragazzi Che Corpo. Senza pagare non si ottiene nulla. E, credimi, è proprio impossibile uccidere un Piccoletto senza poi dover pagare». «Oh, sembri mio padre!», esclamò Ragazzi Che Corpo, furibonda. «Grazie», ribatté freddamente Gulark-ay. Poi si allontanò dalla dilbiana e andò a sedersi vicino a John, spiegando la tunica sulle ginocchia enormi.
«E come sta il nostro giocattolino?», chiese. «Parli con me?», disse John. «Ma certo. Non hai capito che sin dall'inizio sei stato solo un giocattolo nelle nostre mani?». «A dirti la verità, e visto che me lo chiedi, no, non l'avevo capito». «Devi avere molta fiducia in te stesso», disse Gulark-ay. «E fede», disse John. «Per non parlare della mia esperienza». John fece notare all'altro un particolare. «Sono un po' più vecchio e ho viaggiato di più di Ragazzi Che Corpo, ad esempio». «Sta parlando di me?», intervenne Ragazzi Che Corpo, alzando la testa. «Cosa c'entrano i viaggi?». «Ma io ti sto dicendo solo la verità», gorgogliò amabilmente Gulark-ay. «Secondo te, perché il nostro Tark-ay e Ragazzi Che Corpo ti aspettavano sul sentiero il primo giorno? E come mai Ragazzi Che Corpo sapeva del tuo telefono da polso, tanto che te lo ha rubato?». «Un punto interessante», disse John. «Tu sostieni che è stata lei a rubarmi il telefono. Perché? Aveva già deciso di scaraventarmi nel canyon, no?». «Il suo compito era solamente rubarti il telefono da polso», rispose Gulark-ay. «Perché poi lo abbia rubato lo stesso dopo aver tentato di ammazzarti, be', questo dovresti chiederlo a lei». «Me lo avevano ordinato», disse Ragazzi Che Corpo, imbronciata. «Comunque, ti sfugge il punto centrale», disse Gulark-ay a John, «e cioè che noi sapevamo sempre dove ti saresti trovato in un certo momento. Non vuoi chiedermi chi ha passato tutte le informazioni a Ragazzi Che Corpo?». «Tu». «Niente affatto. Il tuo ambasciatore, Joshua Guy». John gli lanciò un'occhiata acida. «Credi che la berrò, eh?». «E perché no?». Gulark-ay distese le mani enormi. «Per un solo motivo: perché tu non mi diresti mai una cosa del genere se non per convincermi di qualcosa che non è vero». «Ma niente affatto», disse Gulark-ay. «Non sei informato sul conto di noi emnoidi? Siamo una razza crudele. Ci piace veder soffrire gli altri. Quindi, io godo a distruggere la fiducia che tu nutri in Joshua Guy... Particolarmente perché, senza dubbio, tu avevi intenzione di minacciare eventuali rappresaglie da parte di Guy per costringermi a lasciarti libero».
Infatti, John ci aveva pensato. Ma non lo diede a vedere. «Mi sembra», disse, «che tu faccia troppa pubblicità alla tua crudeltà. Gulark-ay scosse la testa. Sembrava molto sincero, onestamente divertito dalla conversazione. «Lo faccio», disse, «semplicemente perché secondo i vostri costumi è immorale far soffrire qualcuno. Però, secondo i miei costumi è perfettamente morale, anzi è azione degna del massimo rispetto. È un'arte, un'arte sublime». «Fai salti in aria e batti le mani sopra la testa, prima di cominciare?», chiese John, cupo. Gulark-ay parve, per la prima volta, lievemente perplesso. Tark-ay, che a testa bassa continuava ad alimentare il fuoco, non si offrì di chiarire per l'ambasciatore quella frase. «Mi pare che stiamo uscendo d'argomento», disse Gulark-ay. «Il punto che sto cercando di farti capire è che il tuo Joshua Guy non ti sarà di nessun aiuto. Ti ha dato per spacciato sin dall'inizio». «Sei sicuro di non tirare conclusioni in base ai costumi emnoidi?», chiese John. «In genere, gli ambasciatori umani agiscono in modo lievemente diverso». «Senza dubbio, senza dubbio», ridacchiò con gusto Gulark-ay. «Tuttavia, nel caso del signor Guy esistono motivi particolari. A te è stato imposto il reclutamento forzato, vero, amico mio?». «Esatto», disse John. «Anche se vorrei farti notare che ho accettato spontaneamente». «Senza dubbio, senza dubbio», continuò a ridacchiare Gulark-ay. «Be', la stessa cosa è successa al tuo ambasciatore su Dilbia». «Guy? Reclutato d'autorità?». John, nonostante tutto, sbarrò gli occhi. Certo, in teoria non esistevano motivi legali per cui non si potesse costringere un individuo di buone capacità a fare l'ambasciatore. Però sembrava una cosa un tantino esagerata, ecco tutto. «Infatti», disse Gulark-ay. «Tre anni fa, Joshua Guy è andato in pensione dopo un'intera esistenza trascorsa agli ordini del servizio diplomatico. Intendeva passare il resto dei suoi anni a coltivare certe specie della flora terrestre, non ricordo esattamente quali. Rose, o qualcosa del genere. Invece il governo ha pensato che ci fosse bisogno di lui su Dilbia, e così lo hanno spedito qui». John assorbì l'informazione in silenzio, senza discutere e senza accettar-
la. Ma si mise a riflettere furiosamente. «Ovviamente», continuò Gulark-ay, che in effetti sembrava davvero divertirsi un mondo, «Joshua ha una gran voglia di vedersi sollevato dai suoi doveri e di poter tornare alle sue rose, ai suoi tulipani, o quello che sono. E ovviamente, come capirai benissimo anche tu, l'unico modo per uno come lui per farsi sospendere dal servizio sarebbe, come dire?, combinare un pasticcio talmente grosso da richiedere la sua immediata sostituzione. Quindi, ha messo in piedi tutta la storia del Terrore e di Ragazzi Che Corpo solo per creare i guai che gli servivano». «In questo caso, non aveva bisogno di me», disse John. «Come guaio era sufficiente che il Terrore rapisse Ty Lamorc». «Già, già. Però, vedi, ha scoperto di aver commesso un errore nel caso di Ty. La ragazza è stata inviata qui da un altro ramo del vostro governo. Un ramo che sarebbe felicissimo di poter imputare sbagli al servizio diplomatico. Joshua ha capìto che se fosse successo qualcosa a Ty, non lo avrebbero mandato tranquillamente in pensione. Lo avrebbero processato per omicidio colposo, o peggio. D'altra parte, scaraventando te sul sentiero del Terrore era più o meno sicuro di poter salvare Ty. E la morte di un giovane, oscuro biochimico senza amicizie influenti avrebbe suscitato, al massimo, indagini di routine e modeste note di biasimo». «Davvero interessante», disse John. «E tu ti sei messo in testa di mandare a monte i piani di Guy solo per il tuo sano istinto di crudeltà? Raccontamene un'altra». «Mi sottovaluti!», ribatté seccamente Gulark-ay. «Io ho un mio orgoglio e godo di certi piaceri; ma, in primo luogo, sono servo e rappresentante della mia gente. Per noi, come per voi umani, è importante stabilire rapporti d'amicizia coi dilbiani. Un ambasciatore umano su Dilbia irritato e inefficiente come Guy è la cosa migliore che possiamo desiderare. È stato mio dovere tenere informati del caso i superiori di Guy e fare in modo che i suoi piani per una vecchiaia pacifica andassero a rotoli». «Molto bene», disse John. «Visto che in questa faccenda lavoriamo tutti assieme, perché non tagli queste corde e ce ne andiamo a fare colazione alla locanda di Guado Triste?». Gulark-ay, con un brivido, scoppiò d'improvviso a ridere. La sua risata era talmente contagiosa che dopo un po' anche Tark-ay e Ragazzi Che Corpo si contorcevano dal ridere. E John, sorpreso, si vide costretto a soffocare un sorriso. «Via, via!» boccheggiò Gulark-ay, dopo essersi calmato. «Ma che battu-
ta! Lasciarti andare! Proprio non possiamo, caro Tardy. Capisci, tu sei il prezzo che Ragazzi Che Corpo ha chiesto in cambio della sua assistenza. Vuole toglierti di mezzo, e per sempre. Glielo abbiamo promesso; e lei ha promesso di convincere il Terrore a riconsegnare Miss Lamorc senza discutere, quando gli anziani del clan glielo ordineranno». Fissò John. «Il che», disse, dolcemente, «faranno senz'altro quando il tuo cadavere verrà ritrovato nel territorio del loro clan, dalle parti del fiume». John fissò Gulark-ay, uscì in una risatina d'incredulità, e distolse gli occhi. «Ottimo! Davvero ottimo, caro Tardy!», urlò Gulark-ay, lanciandosi in un'altra esplosione di riso. «Oh, sarà un piacere lavorarti, caro Tardy, quando arriverà il momento. Dunque...». Si rialzò, andò a sedersi vicino al fuoco, a fianco degli altri due. «Dunque», ripeté, fregandosi allegramente le mani. «Non credo sia giusto riservare soltanto al sottoscritto tutto il divertimento. Ogni suggerimento sarà ben accetto. Come dobbiamo ammazzarlo?». «Chiedo scusa, signor ambasciatore», disse Tark-ay, con estrema cortesia. «Ultimamente mio cugino si stava interessando a una nuova tecnica. Me ne ha parlato per lettera. In pratica si tratterebbe solo di strappargli le unghie». «Mi pare molto interessante», disse Gulark-ay. «Purtroppo non sono un esperto in fatto di terminazioni nervose negli esseri umani, in particolare nella regione dei polpastrelli; ma presumo che tra noi e loro esista una certa affinità. D'accordo, ci dedicheremo anche alle unghie. In quanto a me, sono un discreto specialista del palato, se nessuno ha qualcosa da obiettare». L'ambasciatore guardò gli altri due. «Perché non gli tiriamo un bel colpo in testa?», disse Ragazzi Che Corpo. Tark-ay le lanciò un'occhiata di fuoco. «Non siamo barbari!» esclamò. 14 La discussione, accesissima, proseguì per un po' di tempo. E a John accadde una cosa stupefacente: si appisolò. L'argomento, di per sé lo avrebbe tenuto sveglio; ma i due emnoidi si erano lanciati in disquisizioni tecniche incomprensibili, e il tono del loro dialogo, ben noto in tutto l'universo, era quello della più noiosa dissertazione accademica. Più che altro parlavano
di libri di testo e precedenti, lasciando poco spazio alla realtà dei fatti, cioè alla sua tortura. Inoltre, John era reduce da due giorni e due notti piuttosto faticose. Il suo corpo decise da solo. Si addormentò. Quando si svegliò, il sole era alto sugli alberi. Scoprì di non essere il solo annoiato dalla discussione. Ragazzi Che Corpo stava dando una lezione di stile agli emnoidi. «...E penso che siate disgustosi, tutti e due!», li informava, in tono tutt'altro che modulato. «E pazzi! E stupidi! Sono ore che ve lo ripeto. Perché non gli tiriamo un bel colpo in testa? Ma no, no! Voi, mai! Prima dovete fargli questo, e poi fargli quello! E poi... No, questo non si può fare, perché lo finiremmo subito. Oppure c'è già stato qualcuno che ci ha provato, e non ha funzionato troppo bene!». «Gentile signora...», tentò di dire Tark-ay. «Mi fate stare male!», urlò Ragazzi Che Corpo. «E non siete nemmeno arrabbiati con lui! È questo che mi sconvolge! Non fosse per il Terrore, non credo che ve lo lascerei in mano! Siete... Siete... Disgustosi, tutti e due!». «Non capisci», disse Gulark-ay. «Il punto è...». «Sono contenta di non capire! Se voi emnoidi siete fatti così, non sono sicura di preferirvi ai Piccoletti. Ci scommetto che se fosse lui il mio alleato, e voi foste legati come salami, mi direbbe di fare come voglio, di tirarvi un colpo in testa. Non continuerebbe a dire che prima bisogna fare questo e poi fare quello!». Ragazzi Che Corpo tentò, senza troppo successo, di imitare i gorgoglii vocali degli emnoidi mentre discutevano di un'idea particolarmente gustosa. «E bisogna provare con questo! Sì, dobbiamo proprio provarci! Mi fate stare male!». Tark-ay, disperato, allontanò lo sguardo dalla dilbiana, incrociò gli occhi di John; e, in segno di sconforto, scrollò le spalle. «Ad ogni modo», disse Gulark-ay, scuotendo la testa e alzandosi, «per ora non c'è niente da fare. Mettersi all'opera adesso sarebbe solo uno spreco di materiale. Devo andare a parlare con gli anziani del clan delle Pianure, e non sarò di ritorno prima del tardo pomeriggio. Rimandiamo tutto a stasera. Porterò provviste, cibo e vino dei migliori, e potremo celebrare per tutta la notte. Che te ne pare, Tark-ay?». «Signor ambasciatore», rispose Tark-ay, un tantino emozionato, «lei è un vero gentiluomo!». «Grazie, mille grazie», disse Gulark-ay. «Bene, allora parto. Per caso fai la mia strada, Ragazzi Che Corpo?».
«Direi proprio di sì!». La dilbiana balzò in piedi. «Dovevo incontrarmi col Terrore due ore dopo l'alba, e me ne sono dimenticata. Il mio Terrore fa presto a spazientirsi. Magari ha lasciato sola quella Piccoletta». E, senza nemmeno aspettare Gulark-ay, Ragazzi Che Corpo s'incamminò. «Signor ambasciatore», disse Tark-ay, seguendola con gli occhi. «Lei non sa. Lei proprio non sa». «Calma», ribatté Gulark-ay. «Nei miei rapporti, tutto ciò sarà ricordato a tuo favore». Si diede un'aggiustatina al vestito. «Ci vediamo stasera». «Che le ore possano volare, signor ambasciatore». «Che volino», disse Gulark-ay; e partì a sua volta. Tark-ay, rimasto solo con John, uscì in un gran sospiro. Tirò fuori un coltello a lama ricurva e si mise a pulirsi le unghie, continuando a sospirare di tanto in tanto. Quando ebbe finito, piantò il coltello in un pezzo di legna e si mise a dargli colpetti sul manico, per farlo vibrare. Dopo un po' si stufò anche di quello. Chiuse gli occhi. Si appisolò. John, immobile, osservò attentamente l'emnoide da cinque o sei metri di distanza. Non ci aveva ancora pensato, ma era probabile che nemmeno Tark-ay si fosse goduto, da un po' di tempo, una buona notte di sonno. Aspettò. Tark-ay scivolò con la schiena lungo il tronco dell'albero a cui si era appoggiato. Il suo respiro si fece pesante, e il fischio che gli usciva dalle labbra doveva essere l'equivalente emnoide di un russamento umano. Gli occhi di John si posarono sul coltello, ancora piantato nella legna. Nel massimo silenzio possibile, John si distese come un verme sul terreno. Per fortuna, il terreno era in discesa. Rotolò su se stesso. Foglie e sassolini, smossi dal suo peso, scricchiolarono. Ma Tark-ay non si svegliò. John rotolò un'altra volta. Tre minuti dopo, stava sfregando la corda che gli legava i polsi sulla lama del coltello. La cosa non era poi facile come nei molti film che John aveva visto. Riuscì a ferirsi i polsi con un'abilità non indifferente, e la corda era robusta. Inoltre, scoprì che non è così semplice fare pressione contro la lama di un coltello infilato in un pezzo di legna. L'angolo è sempre sbagliato. Ad ogni modo, una decina di minuti dopo l'inizio della sua discesa verso il basso, teneva in mano il coltello e si stava liberando dalle corde che gli legavano i piedi. Le tagliò, s'infilò il coltello alla cintura, e corse verso gli alberi con tutta la cautela del caso.
Tark-ay non si era mosso di un millimetro. John era sul punto di congratularsi con se stesso per la riconquistata libertà, quando un ruggito furioso alle sue spalle lo immobilizzò. Istintivamente, si accucciò dietro un albero e girò la testa a guardare. Un dilbiano col pelo nero come il carbone stava arrivando a passo di carica nello spiazzo da cui John era appena fuggito, una dozzina di metri più sotto. Tark-ay balzava in piedi. «Dov'è?», ruggì il dilbiano. «Fammelo vedere!». «Cosa ci fai qui?», chiese Tark-ay. «Non far finta di non sapere. Ho scoperto tutto! Ragazzi Che Corpo non si è fatta vedere in tempo, e così sono venuto a cercarla. L'ho incontrata mentre usciva da questa foresta, e ha dovuto spiegarmi qualche cosetta. Adesso so tutto. Dov'è il Piccoletto che si è comportato come se io fuggissi davanti a lui?». «Arrivi troppo tardi», rispose Tark-ay. A John parve di notare, nella sua voce, una certa soddisfazione. «È fuggito». E indicò i brandelli di corda lasciati da John. «Fuggito?». Il dilbiano, che poteva essere solo il Terrore del Fiume, era diventato mortalmente calmo. John, intento a scrutare i due da dietro l'albero, stava cercando di decidere se darsi a una fuga folle, o invece restarsene calmo e sperare che non venissero a cercarlo lì. Decise di restarsene calmo. Avrebbe avuto la possibilità di vedere il Terrore in azione, forse di capire da dove nasceva la sua fama d'imbattibilità. Per il momento, non era successo nulla di straordinario. Il Terrore non era certo il dilbiano più mastodontico che lui avesse visto; ad esempio, era molto più piccolo del Fregatore di Colline. Forse aveva una prontezza straordinaria di riflessi. «Lo hai lasciato scappare?», chiese tranquillamente il Terrore. «Ahimé», rispose Tark-ay, un po' tronfio. «PERCHE?», latrò il Terrore. A quanto sembrava, anche agli emnoidi cedevano i nervi, come agli uomini. Tark-ay, quando il Terrore lasciò uscire tutta la potenza dei suoi polmoni a pochi centimetri dal suo naso, sobbalzò involontariamente. «Non è nei tuoi diritti fare domande del genere!», sibilò l'emnoide. «E inoltre...». Non ci fu nessun «inoltre». Perché in quel momento il Terrore si lanciò su Tark-ay. Prendere nota, annotò mentalmente John. Il Terrore non avverte. Non ti
telegrafa quando sta per colpire. Nello spiazzo sotto di lui si accese battaglia. Tark-ay tentava coraggiosamente di mettere in pratica le sue arti marziali; ma pareva trovarsi in posizione di svantaggio perché il Terrore gli era saltato addosso di colpo, e adesso tutti e due rotolavano, allacciati, sul terreno. Prendere nota, annotò John. Se non ci sono fiumi disponibili, il Terrore cerca di inchiodare l'avversario contro rocce e alberi. A prescindere da ogni possibile obiezione, il combattimento che si svolgeva sotto i suoi occhi era stupefacente. Il peso totale dei due lottatori doveva aggirarsi sui seicento chili; erano entrambi dotati di vasta esperienza, e in piena forma. Prendere nota, annotò John. L'uso generoso di unghie e denti dà al Terrore un vantaggio notevole rispetto ad avversari non abituati a fare altrettanto, e quindi impreparati in questo senso. Indubbiamente, il Terrore stava prendendo il sopravvento. Tark-ay era ridotto a malpartito. Prendere nota, annotò John. Il Terrore è velocissimo, considerate le sue dimensioni. Un uomo, più piccolo di lui e quindi più agile, si troverebbe in posizione di vantaggio da questo punto di vista? Forse. Ma a cosa servirebbe una tattica di fuga davanti alla sua forza? La lotta sembrava ormai vicina alla conclusione, e chiaramente ne emergeva vincitore il Terrore. D'improvviso, John capì che, data la confusione e il frastuono, quello era il momento ideale per tagliare la corda e darsela a gambe. Se la diede a gambe. Dapprima, corse nella foresta, spinto dal puro e semplice desiderio di allontanarsi il più possibile dal luogo in cui lo avevano tenuto prigioniero. Dopo aver superato cinque o seicento metri, la fretta di fuggire diminuì leggermente. Si concesse il lusso di togliersi di tasca un fazzoletto, stracciarlo in due e fasciarsi i polsi, che gli stavano inondando di sangue le mani. Non c'erano corsi d'acqua in cui potersi lavare, comunque si ripulì le mani con le foglie secche, e gli sembrò già di stare molto meglio. Poi sedette su un albero abbattuto, per riprendere fiato e per tentare di orientarsi. Non aveva la minima idea della direzione in cui lo avevano trascinato la notte prima, dopo averlo avvolto nel manto di pelle o quello che era. Comunque, parlando del clan delle Pianure, Gulark-ay aveva detto che avrebbero trovato il suo cadavere «dalle parti del fiume»; e la locanda di Guado
Triste sorgeva in riva a un fiume. Quindi, il fiume in questione non poteva essere troppo lontano da lì. Bastava che riuscisse a trovarlo, dopo di che avrebbe potuto risalirlo o discenderlo in cerca di Guado Triste e del Fregatore. John si servì di una conoscenza elementare. Cercò l'albero più alto dei paraggi e salì fino in cima. Dalla cima dell'albero, individuò il fiume. Era lontano da lui sette o ottocento metri, e, a giudicare dalla posizione del sole, si trovava in direzione ovest. Due o tre chilometri più in su, sorgeva un agglomerato di edifici che probabilmente era la locanda di Guado Triste. Scese dall'albero e s'incamminò verso ovest, senza scordarsi di tenere gli occhi bene aperti. Da un momento all'altro poteva spuntargli davanti il Terrore, o addirittura Tark-ay, ammesso che l'emnoide fosse ancora in condizione di muoversi. Comunque, non incontrò nessuno. Quando arrivò al fiume, scoprì che un sentiero ne seguiva il percorso; e, dopo poche centinaia di metri di cammino, incontrò un gruppo di cinque dilbiani. «Ehi! Accidenti!», ululò il primo dilbiano, non appena, dietro una svolta del sentiero, intravvide John. «Eccolo lì! Dov'eri scappato, Piccoletto? Il Fregatore ha mandato a cercarti metà della gente tra qui e i Due Picchi!». 15 «Mai più», disse il Fregatore, avanzando nella foresta con John sulla schiena. «Niente che abbia gambe. Se ha gambe, può consegnarsi da solo. I postini servono per le cose che non possono camminare da sole. Ecco a cosa servono i postini». John si sentiva troppo a suo agio per lasciarsi turbare dai mugugnii del Fregatore. Era finalmente riuscito a riposarsi quando il gruppo di dilbiani che lo aveva ritrovato lo aveva riportato alla locanda, dopo di che lui aveva richiesto a gran voce un paio d'ore di sonno tranquillo. Gliele avevano concesse, nella pace del dormitorio comune. Quando si era svegliato, aveva deciso che tanto valeva smettere di preoccuparsi delle possibili allergie e mettere sotto i denti qualcosa che non fossero i soliti cibi concentrati. Quindi, si era abbuffato. Aveva scoperto che il pane dilbiano, casalingo al massimo, era pieno di chicchi non macinati; che il formaggio era acido e la carne dura, con un sapore amaro. Gli era parso tutto meraviglioso, e l'unico rimpianto era quello di non essere riuscito a riempirsi di più lo stoma-
co. Per ora non si era manifestata la minima reazione allergica; e adesso, a stomaco pieno, viaggiava di nuovo sulla schiena del postino, come sempre sul punto di addormentarsi. Pigramente, ripensò a come era riuscito a sfuggire a Tark-ay. Gli sembrava tutto troppo bello per essere vero. Stavano scendendo verso un territorio più pianeggiante, per quanto si trovassero ancora molto al di sopra delle pianure centrali di quel continente di Dilbia. Le pianure centrali, che in estate diventavano troppo calde per i gusti dei dilbiani, erano scarsamente popolate. Venivano considerate posti malsani, infidi, dove un uomo abituato alla montagna perdeva in fretta la propria fibra morale per cadere preda di vizi innominabili. Spesso, le pecore nere dei clan più rispettabili andavano a finire lì, dove non era difficile riuscire a sopravvivere e nessuno faceva domande sul passato. Per cui, tenendo conto della mentalità montanara dei dilbiani, quella zona era considerata pianura. E, in effetti, John notò che il paesaggio mutava d'aspetto. Tra le conifere apparivano, di tanto in tanto, alberi di tipo diverso, simili alle betulle terrestri. E c'erano anche cespugli, macchie di vegetazione. Tutto ciò sarebbe risultato molto interessante agli occhi di John, se non fosse stato mezzo addormentato, e se non avesse avuto altri pensieri a tormentargli il cervello. In particolare, l'inevitabile scontro col Terrore del Fiume, a cui gli eventi e il Fregatore di Colline sembravano trascinarlo nonostante tutta la sua resistenza. Si sentiva come prigioniero di una valanga. Per il momento si limitava a rotolare verso il basso, ma prima o poi sarebbe arrivato sull'orlo di un precipizio. E cosa diavolo doveva fare, si chiese pigramente, una volta arrivato faccia a faccia col Terrore? Per di più, senza dubbio, si sarebbe trovato circondato da un impenetrabile gruppo di spettatori dilbiani. E per cosa? Perché? Tutti quanti, a partire da Joshua fino a Gulark-ay, sembravano possedere una spiegazione diversa per quel combattimento. Io sono il giocattolo di tutti, ecco cosa, concluse John, e si riaddormentò. Si svegliò di colpo. Il Fregatore si era fermato all'improvviso, con un grugnito stupefatto. John si mise a guardare attorno con tutta l'incertezza di chi sta ancora sognando. Erano usciti dalla foresta. Si trovavano in una vallata cosparsa qua e là, a casaccio, di edifici in legno corrosi dalle intemperie, che più o meno seguivano il corso di un fiume. Al di là del villaggio (ammesso che si trattasse di un villaggio) c'era una specie di anfiteatro naturale, creato da una rientranza curva nella parete rocciosa che chiudeva la valle. Ancora più oltre,
il sentiero proseguiva oltre l'anfiteatro, scomparendo di nuovo in una foresta. Comunque, non fu quella piacevole scena agreste ad attirare l'attenzione di John. Fu un gruppo di cinque muscolosi dilbiani che bloccavano il sentiero su cui stava procedendo il Fregatore. Tutti armati d'accetta. Il Fregatore non aveva aperto bocca da che John si era svegliato. Esplose di colpo, oltraggiato, quasi incoerente. «Voi... Voi...», ruggì, senza fiato. «Voi avreste il coraggio... Voi avreste il fegato!... Osereste fermare la posta? Ma chi credete... Chi ha il coraggio di pensare...». «Il clan delle Pianure in seduta plenaria, ecco chi», rispose il dilbiano di mezzo, che era alto quasi quanto il Fregatore. «Seguici». Il postino indietreggiò di due passi e abbassò le spalle. John si sentì sollevare dai possenti muscoli del Fregatore. «Vediamo se riuscite a prenderci!», latrò il postino. Sembrava leggermente sconvolto. Paralizzato sulla sua schiena, John fissò le accette degli altri e deglutì automaticamente. Si sentiva nella stessa posizione di chi, in compagnia di un amico ubriaco o molto eccitabile, stia per essere coinvolto in una rissa. Impacchettato com'era, gli sarebbe stato impossibile scendere in fretta e squagliarsela; e, in quel momento, il Fregatore pareva disposto a commettere un suicidio veloce senza riflettere troppo sul benessere della posta. «Ehi!», disse John, picchiando col dito sulla spalla del postino. A giudicare dall'attenzione che ricevette, sarebbe stato lo stesso cercare di smuovere una delle montagne dilbiane. «In formazione, ragazzi», disse il dilbiano al centro, alzando in aria l'arma micidiale. Gli altri quattro si mossero, in modo da circondare il Fregatore. «Postino, a nome del clan delle Pianure ti ordino di partecipare alla nostra riunione. Gli anziani ti stanno aspettando, postino. E aspettano anche il Piccoletto che hai con te». Il Fregatore digrignò i denti. John, che si trovava seduto appena dietro le sue mandibole, udì un suono spaventoso. «È mio». Sembrava quasi che il Fregatore stesse parlando a bocca chiusa. «Finché non l'avrò consegnato! Venite un po' a prendervelo, voialtra gentaglia di pianura, rifiuti umani, ladri da due chiodi, figli di...». Anche gli altri cominciavano ad arrabbiarsi. Erano tutti piuttosto esaspe-
rati. A mali estremi, pensò John, estremi rimedi. Si protese in avanti, strinse fra i denti l'orecchio destro del postino. E morse. «Aii!», ruggì il Fregatore, e si girò di colpo. Per poco non mozzò la testa di John. «Ma chi è stato...? Oh! Cosa stai cercando di combinarmi, Mezza Pinta?». Il postino tentò di torcere il collo di quarantacinque gradi, per fissare John negli occhi. «E bravo», disse John. «Mettiti a fare a pugni! Danneggia la posta! Sul mio pianeta, i postino sono molto meglio». «Non possono farmi una cosa del genere», mugugnò il Fregatore, ma la sua voce era notevolmente più bassa. «Sicuro», disse John. «Il tuo onore, eh? Ma il dovere viene prima dell'onore. E io, allora? Essere catturato da questi individui offende anche il mio onore. La cosa che personalmente preferirei», disse John, con un sorriso falso, «sarebbe scendere di qui e darti una mano a fare a pezzi queste porcherie di uomini. Ma penso a me stesso? No. Io...». «Dagli retta», urlò uno dei cinque. «Ti aiuterà lui a farci a pezzi! Hor, hor!». «Lo trovi molto divertente, eh?», ruggì il Fregatore, voltando la testa verso il dilbiano che aveva parlato. «Tieni a mente che questo è il Piccoletto che sta dando la caccia al Terrore. Tu che ne diresti di un combattimento col Terrore, eh, gambe pelose?». «Huh!», ribatté l'altro. Di colpo, perso tutto il buonumore, aveva sollevato l'accetta. Però, dopo un'altra occhiata a John, restò impavido dove si trovava. «Va bene, ragazzi», disse il capo dei cinque. «Basta con queste chiacchiere. Appena dò l'ordine...». «E piantala! Piantala!», sbuffò il Fregatore. «Verremo con voi. Mezza Pinta ha ragione. Buon per voi». «Huh!», esclamò il dilbiano che prima si era messo a ridere. Però, quando gli altri si disposero in una specie di quadrato con il Fregatore e John al centro, si tenne sul fondo. Tutti assieme s'incamminarono nella vallata, verso l'anfiteatro naturale. Traversarono il villaggio, che al sole alto del mattino aveva quasi un'aria festiva, e procedettero verso l'anfiteatro. La strada rigurgitava di dilbiani di ogni età che andavano tutti nella stessa direzione. Le guardie che avevano catturato John e il Fregatore furono subissate di domande. Accette in spalla, procedevano imperterrite, tenevano lo sguardo fisso in avanti e si rifiu-
tavano di rispondere. Alla fine giunsero a una lunga sporgenza rocciosa, alta un metro. Sopra c'era una panca, e sulla panca erano seduti cinque maschi dilbiani vecchissimi. Quello a destra era un vecchio magro e apparentemente sordo, perché, con la mano tremante dietro l'orecchio, stava urlando al dilbiano che gli era vicino. Il Fregatore e John vennero fatti fermare davanti a loro, e John fu stupefatto di vedere, riunite nelle prime file, una quantità notevole di facce che gli erano familiari. C'era Uomo Solo, seduto su una specie di sgabello da campo. Ty Lamorc e Ragazzi Che Corpo se ne stavano non molto discoste dal gigantesco dilbiano. E Gulark-ay e Joshua Guy si trovavano a fianco di Ginocchia di Marmellata, che, o perché sindaco di Humrog, o perché padre di Ragazzi Che Corpo, si dava arie d'importanza. «Ehi!», urlò John, cercando di attrarre l'attenzione del piccolo ambasciatore umano. Joshua Guy alzò gli occhi, vide John gli regalò un sorrisone e un cenno cordiale con la mano. «Bella giornata, vero?», gridò l'ambasciatore; poi si rimise a chiacchierare affabilmente con Gulark-ay e Ginocchia di Marmellata. «Non riesco a vederlo! Dov'è? Portatemelo davanti!», stava urlando, agitato, il dilbiano vecchio e sordo. «Sedetevi qui», disse una guardia. Il Fregatore si accomodò su una panca. John saltò giù dallo zaino e sedette al suo fianco. «Eccolo lì!», esclamò l'anziano sordo. «Perché non me lo aveva fatto vedere nessuno? Cosa? Eh? E parlate!». L'anziano vicino a lui gli tirò una gomitata. Gli anziani si misero a conferire tra loro, a bassa voce. Poi si appoggiarono tutti all'indietro sulla panca, e quello al centro fece un cenno al capo delle guardie, che si piazzò davanti alla sporgenza rocciosa e si rivolse alla folla. «Il clan delle Pianure si riunisce in seduta pubblica!», urlò. «Nessuno lotti! Tutti ascoltino!». La folla borbottò, mugugnò, impiegò circa una quarantina di secondi a fare silenzio a un livello tollerabile. «Ehm!». L'anziano al centro, un dilbiano grassoccio col pelo color ruggine, si schiarì la gola. «Gli anziani hanno indetto questa riunione per discutere una questione di onore di clan. In breve: la situazione in cui si è cacciato uno dei membri del clan, il Terrore del Fiume, mette in gioco l'onore del clan delle Pianure?». «Sì!», rispose Ragazzi Che Corpo.
«Chi ha parlato?», chiese l'anziano al centro. «Lei», disse una guardia, indicando Ragazzi Che Corpo. «Tienila calma», disse l'anziano. «Chiudi il becco!», disse la guardia a Ragazzi Che Corpo. «Chiedo scusa al clan delle Pianure a nome di mia figlia», disse Ginocchia di Marmellata. «Più che logico», disse l'anziano centrale. «Cos'ha detto la ragazza? Eh?», chiese l'anziano sordo. E ricominciarono tutto da capo. Tre minuti dopo, più o meno, le cose si erano messe a posto. La riunione era in pieno svolgimento. «A quanto sembra», disse l'anziano al centro, «il Terrore, per amore della ragazza che ha appena interrotto il vostro anziano, ha avuto a che fare con due individui appartenenti a razze diverse, che forse sono e forse non sono vera gente. Ora abbiamo qui uno di questi individui, appartenente alla specie cosiddetta dei Piccoletti, deciso a ucciderlo, e a sua volta il Terrore ha ucciso l'individuo appartenente alla specie cosiddetta dei Grassottelli. Fin qui siamo tutti d'accordo?». Ci fu un movimento nella prima fila del pubblico. Gulark-ay si fece avanti. «Se gli anziani vogliono permettere a un estraneo di parlare...». «Forza», disse l'anziano al centro. «Tu sei il capo dei Grassottelli e vivi a Humrog, vero?». «Esattamente». «E non sei d'accordo?». «Volevo solo», disse Gulark-ay, con voce che sembrava il gorgoglio dello sciroppo più zuccherino dell'universo, «far presente agli anziani del clan delle Pianure che il Grassottello in questione non è rimasto ucciso. Il Terrore ha creduto di averlo ammazzato; invece sembra che se la caverà». «Bene, quindi da questo punto di vista non esiste vendetta di sangue!», esclamò seccamente l'anziano. «Perché non veniamo informati con precisione su queste cose?». «Non lo sapevo», rispose il capo delle guardie. «Parla solo quando t'interrogano», disse l'anziano; poi scrutò la folla. «Dov'è il Terrore? Non vedo il Terrore». «Sta aspettando a Gola delle Pianure», disse Ragazzi Che Corpo. «Chiudi il becco», disse la guardia che doveva tenerla d'occhio. «Lasciala parlare», disse l'anziano. «A meno che... C'è qualcun altro che
possa spiegarci perché il Terrore si trova a Gola delle Pianure anziché essere qui? Non credo. Parla, ragazza!». «Il Terrore dice che il clan non può costringere un uomo a disonorarsi. Se avesse saputo che il Pacco Postale da Mezza Pinta, questo Piccoletto qui, lo stava inseguendo, non si sarebbe mosso di un passo dopo aver rapito Faccia Unta per vendicare il suo onore offeso da Piccolo Morso...». «Calma!», disse l'anziano al centro. «Calma. Vediamo di chiarire le cose. Chi è Faccia Unta?». Ragazzi Che Corpo indicò Ty Lamarc, al suo fianco. «Questa Piccoletta femmina». La folla sussurrò. Tutti torsero il collo per dare un'occhiata, da dietro le spalle degli altri, a Ty. «Femmina!», stava urlando all'orecchio dell'anziano sordo l'anziano più vicino. «Piccoletta FEM-mina!». «Si accoppiano anche loro?», chiese l'anziano sordo, incuriosito. Ragazzi Che Corpo procedette a spiegare. Più o meno, la storia era identica a quella che Joshua aveva raccontato a John, solo che, nella versione di Ragazzi Che Corpo, lei e il Terrore discutevano sempre con la massima calma e ragionevolezza; mentre Ginocchia di Marmellata, Joshua e tutti gli altri urlavano, strillavano, minacciavano, insomma usavano i peggiori toni di voce ogni volta che veniva citata una loro frase. «Tutto questo», disse l'anziano al centro, quando la dilbiana ebbe terminato, «non spiega ancora perché il Terrore non sia qui a parlare da sé». «Dice che molti hanno già l'impressione che lui abbia voluto evitare il combattimento con Mezza Pinta. Non ha intenzione di far pensare che è il tipo capace di nascondersi dietro gli anziani. Sta aspettando il Piccoletto a Gola delle Pianure, per una sfida pubblica. E se il Piccoletto non va da lui, non è certo colpa del Terrore!». «Hmph!», commentò l'anziano centrale, pensoso. Poi conferì con gli altri. «Eh? Cosa dici», si udiva chiedere, di tanto in tanto, l'anziano sordo. Alla fine, tutti ripresero la loro posizione e l'anziano al centro si rimise a parlare. «Da quanto risulta agli anziani del clan», disse, «non c'è motivo per cui non si debba trattare di una faccenda personale fra il Terrore e Mezza Pinta... Tranne per un particolare». S'interruppe, si schiarì la gola. Fu come battere il martelletto per ristabilire l'ordine. La folla non era mai stata tanto silenziosa. «I fatti sono questi», disse l'anziano. «Un Piccoletto che è ospite di
Humrog ha rovesciato il boccale del Terrore». Lanciò un'occhiata a Ginocchia di Marmellata. «Giusto?». «Giusto», rispose Ginocchia di Marmellata, chinando la testa come da gentiluomo a gentiluomo. «Per vendicarsi, il Terrore ha cercato di rovesciare il boccale del Piccoletto ospite grazie al rapimento di un membro della famiglia del Piccoletto, cioè la Piccoletta femmina, Faccia Unta». Tutti guardarono Ty. «D'accordo. Ora, a questo punto entra in scena un altro Piccoletto maschio, il Pacco Postale da Mezza Pinta, che vanta diritti su Faccia Unta e si mette a inseguire il Terrore per riavere la sua femmina. Ovviamente, l'onore non permette al Terrore di restituire la Piccoletta come se niente fosse. E gli anziani del vostro clan non sono vecchiacci coriacei e insensibili...». S'interruppe per scrutare la folla. «...Anche se voi tutti sembrate pensarlo molto spesso. Quindi, per principio non gli chiederebbero di restituirla. Allora, perché non lasciare che il Terrore e Mezza Pinta si incontrino? C'è solo un piccolo particolare». L'anziano al centro si appoggiò all'indietro, diede un'aggiustatina alle grinze di grasso che aveva sul ventre enorme, guardò a destra e a sinistra in cerca d'approvazione. Con cenni del capo e grugniti, i suoi colleghi approvarono. Persino il sordo, sempre con la mano dietro l'orecchio, annuì solennemente. Forse aveva capito tutto. «Il piccolo particolare è questo», disse l'anziano al centro. «Le leggi e i costumi dei veri uomini non sono ideati a casaccio. C'è sempre uno scopo dietro ognuno di essi. E lo scopo che sta dietro le questioni d'onore è permettere ai veri uomini di vivere con onore e tranquillità, in reciproca compagnia». «È assolutamente ridicolo!», borbottò Ragazzi Che Corpo. «Secondo me, la...». «Chiudi il becco!», ordinò la guardia. «Quindi, in casi del genere entra in gioco non solo l'onore di due individui, ma l'intera struttura dei costumi che ci guidano. In questo caso particolare, sarebbe senz'altro onorevole che un uomo si batta con un altro uomo; ma è onorevole che un uomo si batta con un Piccoletto, considerate le sue dimensioni e le differenze che corrono tra lui e noi? In breve, se permettiamo a questo Piccoletto di battersi col Terrore sarebbe come ammettere che è un vero uomo, identico a ognuno di noi. E lo è? Quali prove abbiamo per decidere che merita di essere trattato come uno di noi, come un
vero uomo?». L'anziano s'interruppe, guardò la folla. «Ora, chiunque abbia qualcosa da dire sull'argomento può parlare». «Ehm!», disse Ginocchia di Marmellata. «Sindaco?», disse l'anziano al centro. Ginocchia di Marmellata avanzò di due poderosi passi. «Volevo solo chiarire un punto», disse. «Non voglio certo sostenere di essere un esperto per quel che riguarda Mezza Pinta, o Faccia Unta, o altri Piccoletti. Però mi sembra giusto ricordare», si grattò il naso con la manona pelosa, «che il Piccolo Morso è ospite di Humrog. E, parlando nella mia qualità di sindaco di Humrog, non credo proprio che Humrog accetterebbe come ospite qualcuno che non meriti di essere trattato da vero uomo». Sorrise alla folla. «Mi è sembrato giusto farlo presente al clan delle Pianure». Gli anziani si consultarono. «Bene», disse l'anziano centrale, al termine della consultazione. «Ecco come la pensano gli anziani del clan delle Pianure. Qui tutti conoscono la gente di Humrog, dato che la maggioranza dei nostri commerci si svolge lì. E sappiamo che in genere la gente di Humrog parla a ragion veduta. Per cui, se la popolazione di Humrog è sicura che Piccolo Morso sia la stessa cosa di un vero uomo, gli anziani del clan delle Pianure e la gente del clan delle Pianure sono disposti ad accettare ciò che essi pensano, per quanto concerne Piccolo Morso». «Grazie. Humrog ti ringrazia», disse Ginocchia di Marmellata. «Non c'è di che. Comunque», proseguì l'anziano, «decidere che Piccolo Morso si può considerare un vero uomo è una cosa. Decidere che anche Mezza Pinta è un vero uomo, solo perché è un Piccoletto, è un'altra cosa. Dopo tutto, Piccolo Morso non si è messo a inseguire il Terrore per una questione d'onore...». S'interruppe di nuovo, e la sua voce, per la prima volta, denotò una certa cortesia. «Uomo Solo?». «Se posso...». La voce cupa di Uomo Solo tuonò dolcemente alla sinistra di John; e John, voltando la testa, guardando oltre la mole massiccia del Fregatore di Colline, vide alzarsi il gigantesco dilbiano. «Se posso dire qualche parola agli eminenti anziani di questo antico clan...». «L'onore è tutto nostro, Uomo Solo», gli assicurò l'anziano al centro. «Molto gentile», disse Uomo Solo. Tutto il pubblico osservava un silenzio di tomba. La voce di Uomo Solo, appena un poco alzata, si udiva perfettamente. «Un vecchio come me, vissuto abbastanza da diventare un anziano del mio clan, se avessi un clan e ne fossi degno, forse vede le cose in modo un po' diverso dalla vostra gente più giovane. Ormai mi accontento
di restarmene a sedere nel mio angolino, col fuoco che scalda le mie vecchie ossa, e a meditare sul mondo che mi vive accanto». «Uomo Solo», disse il solito anziano, «sappiamo tutti che non sei affatto ridotto in queste condizioni». «Grazie, grazie», rispose Uomo Solo, sollevando un braccio enorme e poi lasciandolo ricadere, come se quel peso fosse troppo per lui. «Forse mi resta ancora qualche anno. Ma non è di me che intendevo parlarvi. Volevo soltanto spiegare un attimo come appaiono le cose a me, dal mio cantuccio ritirato. Sapete, quando guardo tutto ciò che accade non posso impedirmi di pensare quante cose siano cambiate rispetto ai vecchi tempi. Gli antichi costumi stanno cadendo in disuso». «Mai sentite parole più vere!», mormorò l'anziano sordo, dal suo posto all'estremità della panca. Adesso aveva dietro le orecchie entrambe le mani. «I figli non hanno più l'antico rispetto per i genitori». «C'è da scommetterci!», grugnì Ginocchia di Marmellata, lanciando un'occhiataccia alla figlia. «Da per tutto, i vecchi modi di fare le cose vengono sostituiti da modi nuovi. Nessuno sa dove questo ci porterà. Potrebbe darsi che le vie nuove siano vie migliori». «Sentito?», esclamò Ragazzi Che Corpo, arricciando il naso in direzione di suo padre. «Per ora, è impossibile dirlo. Ma di certo, ormai, ci troviamo in un mondo in cui non siamo più soli, in cui dobbiamo tenere conto dei Piccoletti e dei Grassottelli, e forse anche di altre creature. Il che mi porta a un suggerimento che, dal mio limitato punto di vista, mi sembra buono; ma esito a presentarlo ai venerabili anziani di questo clan, dato che sono solo un estraneo». «Saremo lieti di sentire ciò che Uomo Solo vuole proporre», ruggì l'anziano al centro. «Non è vero?». Si guardò attorno: gli altri anziani stavano annuendo. «Ecco», disse dolcemente Uomo Solo, «perché non lasciare che si battano e decidere in seguito se Mezza Pinta merita di essere considerato un uomo, basandoci sull'andamento del combattimento? Non si rischierebbe nulla; e ogni giudizio preso in seguito avrebbe il sostegno di prove concrete. Dopo tutto, tra noi non sono le dimensioni, il colore del pelo o il luogo di nascita a fare di un uomo un uomo. È il suo comportamento, non è esatto?».
S'interruppe. Sia gli anziani che la folla, compresi elementi diversissimi come Ginocchia di Marmellata e Ragazzi Che Corpo, mormorarono in segno d'approvazione. «Parecchia gente ha pensato che il Terrore farebbe la figura del pazzo, mettendosi contro un essere minuscolo come il Piccoletto. Qualcosa o qualcuno talmente piccolo, si dice, non riuscirebbe a cavarsela nemmeno con una femmina anziana, sdentata e con una gamba rotta. Ma il Terrore sembra disponibile. E se anche Mezza Pinta è disponibile, chi lo sa? Mezza Pinta potrebbe sorprenderci tutti quanti, avere la meglio sul Terrore». La folla esplose in una risata, e Uomo Solo si rimise a sedere. L'anziano centrale urlò al capo delle guardie; e il capo delle guardie urlò per chiedere silenzio. Quando l'atmosfera si fu relativamente calmata, si scoprì che Gulark-ay era avanzato di parecchi passi verso la panca degli anziani. «Cosa c'è?», chiese l'anziano al centro, e il capo delle guardie si protese a sussurrargli all'orecchio. L'anziano si consultò coi colleghi. «Benissimo», disse alla fine; poi alzò la voce, rivolgendosi alla folla. «State calmi! L'Ingollatore Senza Fondo di Birra ha qualcosa da dirci, e se voi continuate a strepitare a questo modo i vostri anziani sentono solo una specie di rombo di temporale!». La folla si zittì quasi completamente. «Parla!», disse l'anziano a Gulark-ay. «Ecco, intromettermi così è una cosa che mi fa ribrezzo», disse Gularkay, in un tono onesto, diversissimo da quello che aveva usato quel mattino con John nella foresta. Piegò le spalle, e d'improvviso, sorprendentemente, dal Buddha che era si trasformò in una specie di zoticone grasso e impacciato, ma con l'aria più onesta del mondo, lievemente imbarazzato dal trovarsi al centro di tanta attenzione. «Non vorrei immischiarmi nelle faccende del clan delle Pianure. E certo non vorrei assolutamente oppormi al saggio consiglio che Uomo Solo vi ha appena dato. Però quel che è giusto è giusto, secondo me. Quindi, ritengo di dovervi informare». «Di cosa, Ingollatore Senza Fondo?», chiese l'anziano. «Ecco...», disse Gulark-ay, smuovendo terra col sandalo e diventando improvvisamente rosso in volto. «Nessuno apprezza Piccolo Morso più di me, ma è un fatto che sta invecchiando». «C'è qualcosa di sbagliato in questo?», chiese, deciso, il solito anziano. «No, no. Niente di sbagliato in questo, per carità. Solo, sapete com'è, Piccolo Morso non parla molto; ma si dà il caso che io sappia che da un po' desidera abbandonare il suo lavoro qui e tornarsene a casa sul suo piane-
ta». «E questo», chiese l'anziano, «cos'ha a che vedere con noi?». «Ecco, Piccolo Morso voleva tornare a casa, ma la gente del suo mondo voleva che restasse qui. E così, non molto tempo fa ha deciso che forse gli conveniva creare un po' di confusione; dopo di che, la sua gente avrebbe mandato qualcuno che facesse meglio il lavoro, e lui avrebbe potuto andarsene. Intendiamoci», disse Gulark-ay, «non lo biasimo. Un Piccoletto della sua età, circondato a ogni ora da uomini grandi il doppio di lui... Be', a me personalmente una cosa del genere non darebbe fastidio. Ma capisco cosa possa significare per uno delle sue dimensioni. Sarebbe come chiedere a un bambino di andare a fare una giornata intera di lavoro nei campi. E, naturalmente, qui non ha nemmeno tutte le macchine e gli altri aggeggi che sul suo pianeta gli rendono più facile la vita. Per cui, ripeto, non lo biasimo. In ogni modo, io non avrei fatto ciò che ha fatto lui. Mi sarebbe parso ingiusto». Gulark-ay s'interruppe, si asciugò il viso con un lembo della tunica. «Certo che a stare qui a parlare viene sete», disse. «Un goccio me lo berrei volentieri». L'emnoide suscitò una risata nella folla. Ma gli anziani non risero. «Cosa significa "non avrei fatto ciò che ha fatto lui"? Cos'ha fatto Piccolo Morso?», chiese l'anziano al centro. «Be', ha pensato che immischiandosi negli affari del Terrore avrebbe suscitato una certa confusione. Dopo di che, il Terrore, come ogni vero uomo avrebbe previsto, ha rapito Faccia Unta, e la faccenda è diventata molto più seria di quanto Piccolo Morso non immaginasse. Per cui ha dovuto mandare a chiamare Mezza Pinta. Insomma, la verità è che Mezza Pinta in vita sua non aveva mai visto prima Faccia Unta. Il fatto che lui volesse liberarla dal Terrore, come farebbe un vero uomo, è solo una storia». L'anziano al centro girò la testa, puntò gli occhi su Joshua Guy. «Piccolo Morso?», disse. «Sono qui», rispose Joshua, e si alzò. «È vero quello che ci ha raccontato l'Ingollatore Senza Fondo di Birra?». Joshua, con un gesto distratto della mano, si tolse dal vestito qualche ago di pino. «Con tutto il rispetto dovuto agli anziani del clan delle Pianure, e alla gente del clan delle Pianure», disse, «io sono ospite di Humrog e rappresento ufficialmente la razza dei Piccoletti. Di conseguenza, attribuire la minima importanza alle accuse dell'Ingollatore Senza Fondo di Birra, ac-
cettare di discutere, significherebbe sminuire la mia dignità ufficiale». Joshua rivolse agli anziani del clan un sorriso disarmante. «Quindi», disse, «debbo rifiutare di discuterne». E si rimise a sedere. 16 Ci fu un attimo di silenzio totale, e poi l'esclamazione più simile a un mormorio di stupore collettivo che John avesse mai sentito emettere dai dilbiani. Visto che tipi erano, si trattava di un grugnito, più che di un mormorio: il tipo di suono provocato da un pugno nello stomaco. Poi, un'esplosione di discorsi. Gli anziani si appoggiarono all'indietro sulla panca, con aria truce. Quello al centro si consultò a destra e a sinistra. Poi si rivolse all'assemblea. «State zitti!». Si zittirono subito, ansiosi di sentire. «Ingollatore di Birra», disse l'anziano al centro, rivolto a Gulark-ay, «tu sostieni che Mezza Pinta non sapeva nemmeno che Faccia Unta esistesse prima che Piccolo Morso lo mandasse a chiamare. Allora, come puoi spiegare che si sia lanciato al suo inseguimento, spinto dal desiderio di battersi col Terrore?». «È tutto falso», rispose Gulark-ay. «Cosa?». «Mezza Pinta non ha mai saputo che per liberare Faccia Unta avrebbe dovuto battersi col Terrore. Piccolo Morso non glielo ha detto. Se lo avesse spiegato, Mezza Pinta non sarebbe partito all'inseguimento. Non crederete che nessun Piccoletto possa veramente accettare l'idea di battersi con... Come ha detto Uomo Solo?... Nemmeno con una vecchia femmina sdentata? Mezza Pinta non ne ha mai avuto nessuna voglia». Scoccò un sorriso a John. «Non ne ha voglia nemmeno adesso. Accertatevi da voi. Chiedeteglielo». «Ehi...», esclamò il Fregatore di Colline, balzando d'improvviso in piedi. «Siediti!», disse l'anziano al centro. «Dai ordini al postino governativo?», ruggì il Fregatore. «Sì, dò ordini al postino governativo!», latrò l'anziano. «Sul territorio del clan delle Pianure, in piena riunione del clan delle Pianure, dò ordini al postino governativo. Siediti!». Il Fregatore, ringhiando, sedette.
Gli anziani si misero in conciliabolo. Parlarono per un minuto o due, poi ripresero le solite posizioni. L'anziano al centro fece ancora una volta da portavoce. «Ecco la decisione degli anziani», disse. «Con tutto il rispetto per Uomo Solo e per gli altri, agli anziani sembra che questa faccenda puzzi un po'. Di conseguenza, ordiniamo che Faccia Unta sia rispedita indietro con Piccolo Morso e Mezza Pinta. Nessun combattimento d'onore sarà permesso fra il Terrore e Mezza...». «ADESSO STATE A SENTIRE ME!», esplose il Fregatore di Colline, alzandosi come una pietra scagliata da una catapulta. «Clan o non clan delle Pianure. Anziani o non anziani. E se la cosa non va all'Ingollatore di Birra, sa sempre dove può trovare il postino governativo. Credete che questo Piccoletto non sia disposto a battersi col Terrore?». «Siediti!», urlò l'anziano al centro. «Non mi siedo!», rispose il Fregatore, con un urlaccio. «Nessuno di voi conosce Mezza Pinta. Io sì. Non ha voglia di battersi! State a sentire. Quando un branco di ubriaconi, alla locanda di Roccia Friabile, ha tentato di trattarlo come un animale senza cervello, lui si è fatto beffe di loro ed è riuscito a tagliare la corda. Poi Ragazzi Che Corpo ha cercato di buttarlo giù da un burrone. Ha l'aria di uno che sia precipitato da un burrone? Più tardi, il ponte di Gola Bitorzoluta era stato sollevato, sicché né lui né io ci arrivavamo. Be', Mezza Pinta si è arrampicato su una parete di roccia priva del minimo appiglio, per abbassare il ponte e permettere che ci rimettessimo in marcia sulle tracce del Terrore». Il Fregatore si girò, puntò l'indice accusatore in direzione del capo delle guardie. «E cos'è successo quando tu e altri quattro ragazzi avete tentato di catturarci? Chi voleva darmi una mano a sistemarvi tutti quanti? E chi non aveva il minimo dubbio che noi due da soli ce l'avremmo fatta?». Fissò il capo delle guardie. «Eh?». Poi si voltò verso John. «Tu che ne dici, Mezza Pinta?», ruggì. «All'inferno il clan delle Pianure e i loro anziani! All'inferno tutti, tranne te e me e il Terrore! Vuoi che ti consegni a destinazione o no? Rispondimi!». John udì il. Fregatore, e il rombo possente che si alzò dalla folla alle sue spalle. Per tutto quel tempo, se ne era rimasto tranquillamente seduto, facendo scorrere pensosamente il pollice lungo l'orlo della fibbia della sua cintura, ascoltando ciò che veniva detto e riflettendo profondamente. Ave-
va avuto la possibilità di capire, più o meno, la realtà nascosta dietro i fatti; e quando il Fregatore era balzato in piedi per lanciarsi in quella focosa perorazione, nella testa di John Tardy era risuonato, chiarissimo, il rintocco di una campana. Quindi, quando il Fregatore ruggì la domanda, John aveva già pronta la risposta. Le parole del postino risuonavano ancora in aria quando John, urlando, si alzò in piedi. «Fammi vedere quel vigliacco del Terrore!», gridò. «Portami da lui! Da questo individuo che si nasconde dietro gli anziani e non accetta di battersi da uomo!». 17 Le parole ebbero appena il tempo di uscire dalle labbra di John prima che cominciassero ad accadere cose. Venne sollevato da terra. La scena ballonzolò davanti ai suoi occhi. Si trovò trasportato, a mo' di sacco di grano, lontano dall'anfiteatro e dall'assemblea, verso la foresta al di là della valle. Il Fregatore di Colline lo aveva raccolto nelle sue manone e stava correndo con lui verso la foresta, come un giocatore di rugby corre con la palla ovale. Un ruggito multiplo si alzava alle loro spalle. Guardando indietro, oltre le spalle gigantesche del Fregatore, John vide che tutti i dilbiani che partecipavano alla riunione di clan erano lanciati al loro inseguimento. L'aria gli sfiorava il viso, sibilando. Ogni volta che il Fregatore metteva un piede a terra, lui sobbalzava; ma il paesaggio correva al loro fianco a una velocità che doveva essere superiore ai quaranta chilometri orari; e gli inseguitori non guadagnavano terreno. Anzi, per quanto gli sembrasse incredibile, considerando che il postino lo stava trasportando in modo tanto poco ortodosso, fu costretto ad ammettere che più si avvicinavano alla foresta, più gli inseguitori restavano distanziati. Il loro vantaggio aumentava a ogni passo del Fregatore. John, come già gli era accaduto tante volte sui campi sportivi, provò l'eccitazione della competizione. Per la prima volta, sentì di avere veramente qualcosa in comune col Fregatore. Forse, pensò John, da un punto di vista biologico erano lontanissimi; però, accidenti, quando la situazione si faceva infuocata, tutti e due sapevano come far mangiare la polvere a chi li inseguiva. L'ombra della foresta si chiuse all'improvviso su di loro. Il Fregatore, adesso che procedeva su un tappeto di aghi d'albero, rallentò un poco il
passo, procedendo a balzi regolari. Sollevò John, lo avvicinò allo zaino. John s'infilò dentro e si aggrappò il meglio possibile. Col peso di John ben distribuito, il postino poteva correre più agilmente. Il rombo degli inseguitori cominciò a essere smorzato dalla foresta. In ogni modo, era sempre più lontano, sempre più debole. Il Fregatore discese una piccola valle, e quando risalì il versante opposto tornò per la prima volta al suo solito passo. Arrivato in cima, si rimise a correre per la discesa. E continuò così, camminando in salita e correndo in discesa. «Quanto è lontano il Terrore?», gli chiese John a un certo punto, mentre il dilbiano camminava. «Gola delle Pianure», rispose il Fregatore, deciso a risparmiare fiato. «Circa mezzo...». Gli rispose in termini di unità di misura dilbiane. John tradusse mentalmente: più o meno quattro chilometri e mezzo. Poco più di dieci minuti dopo, superato un folto gruppo di alberi, emersero sul bordo di una minuscola vallata concava. La vallata era occupata da uno spazzo erboso, praticamente privo d'alberi, tagliato da un fiume che, al centro della valle, formava una pozza d'acqua larga una dozzina di metri nel punto più ampio. L'acqua era di un blu talmente scuro che c'era da credere fosse piuttosto profonda. Accanto al fiume, attendeva il Terrore. John si chinò in avanti e parlò dolcemente nello stesso orecchio del Fregatore che aveva morso un'ora prima, o giù di lì. Il postino aveva già cominciato a scendere verso l'erba. «Mettimi giù», disse John, «vicino al punto più profondo della pozza». Il Fregatore grugnì, in segno d'assenso, e continuò a marciare. Scese dalla parte in cui la pozza era più larga e si fermò a una decina di metri dall'altro dilbiano. «Salve, postino», disse il Terrore. «Salve, Terrore», grugnì il Fregatore. «Ho posta per te». Il Terrore del Fiume lanciò un'occhiata incuriosita alle spalle del Fregatore. I suoi occhi incontrarono quelli di John. «È il Pacco Postale da Mezza Pinta, vero?», chiese. «Credevo che fosse più grosso. Allora gli anziani vi hanno lasciato venire?». «No», rispose il Fregatore. «Siamo qui di nostra iniziativa». Mentre il Terrore guardava John, John studiava a fondo il Terrore. Aveva già avuto modo di osservarlo mentre fuggiva da Tark-ay, ma da una certa distanza. E, in quell'occasione, il Terrore aveva continuato a muoversi piuttosto in fretta. Ora John ebbe la possibilità di controllare l'esattezza
dell'immagine che aveva in testa. Di nuovo, lo colpì il fatto che, in termini dilbiani, il Terrore non era poi particolarmente grande. Il Fregatore era decisamente più alto. E Uomo Solo corrispondeva, all'incirca, al doppio del suo avversario. Per essere un maschio, il Terrore era di buone dimensioni, ma niente di più. Comunque, John notò le braccia insolitamente robuste e muscolose, il collo corto, e, fatto probabilmente più importante di tutti gli altri, l'equilibrio perfetto del dilbiano. Sembrava quasi che il peso del corpo del Terrore venisse sopportato con tale facilità che lo sforzo di spostarlo fosse del tutto trascurabile. John lanciò un'occhiata veloce all'acqua. L'argine pareva scendere di colpo a una profondità non indifferente. Balzò giù dallo zaino, girò attorno al postino, si tolse in un lampo stivali e giacca. Le sue mani si posarono sulla fibbia della cintura; e nello stesso istante, tagliando corto con le formalità, il Terrore si lanciò alla carica. John saltò indietro, si tuffò in acqua. Si aspettava già che il Terrore attaccasse subito. Anzi, ci contava. Il dilbiano era un professionista della lotta troppo serio per correre rischi, anche se il suo avversario era solo un Piccoletto insignificante, coi capelli rossi. Sperava che il dilbiano lo seguisse in acqua. Ma non cosi in fretta. Mentre nuotava verso le acque più profonde, avvertì l'onda d'urto sollevata dal corpo massiccio dell'altro; ed era talmente vicina che ebbe l'impressione che gli artigli del Terrore gli avessero già afferrato i piedi. John tentò disperatamente di guadagnare terreno, di arrivare al largo. Aveva una strategia di battaglia; ma per metterla in opera gli occorreva una certa quantità di tempo e di spazio libero. Si tuffò sott'acqua, cambiò direzione, risalì in superficie; poi, togliendosi l'acqua dagli occhi con uno scatto all'indietro della testa, si guardò attorno. Il Terrore, col viso rivolto dall'altra parte, emerse a cinque metri da lui. John s'immerse subito. Sott'acqua, slacciò la cintura, la fece uscire dai passanti dei pantaloni, se la trovò in mano. Nel frattempo, era riemerso di nuovo. Quasi sotto il naso del Terrore. Fu costretto a reimmergersi immediatamente, coi polmoni pieni solo a metà d'aria e il nemico vicinissimo. Di nuovo, grazie alla complicità dell'acqua scura, riuscì a sfuggire al dilbiano; e questa volta riemerse al sicuro, a tre o quattro metri dalla grande schiena del Terrore che usciva dal fiume. John si voltò, nuotò per guadagnare spazio e libertà d'azione. La cintura, stretta in pugno, lo seguiva co-
me una strana alga. Tornando sott'acqua, John si sentì molto più sicuro di sé. Aveva avuto la possibilità di verificare l'esattezza di una sua ipotesi: per quanto il Terrore riuscisse, in acqua, a sconfiggere altri dilbiani, le sue stesse dimensioni lo rendevano più lento e più goffo di un uomo in fatto di nuoto. John aveva puntato tutto su quell'ipotesi; così come aveva puntato sul fatto che il Terrore, per tener fede alla sua reputazione, avrebbe scelto come campo di battaglia un luogo in riva a un fiume. Adesso era tempo di passare all'attacco, di scegliere la mossa d'apertura e quelle successive. Girandosi, scoprì che il Terrore lo aveva visto e stava nuotando nella sua direzione. John si riempì i polmoni d'aria e s'immerse, come per nascondersi ancora. Però, sott'acqua cambiò direzione, nuotò direttamente verso il suo avversario. Vide, sopra di sé, le grandi braccia e gambe pelose che si muovevano. Quando le ebbe sopra la testa, protese una mano, afferrò un piede del dilbiano e lo tirò in giù. Il Terrore reagì con poderosa immediatezza. Tirò un calcio, e scese verso il basso. John, scaraventato verso la superficie dal piede che aveva afferrato, lo lasciò andare e s'immerse a sua volta. Scese verso il fondo, dietro e al di sopra delle spalle del dilbiano. Lo vide muoversi, cercando attorno; poi, dato che non trovava nessuno, il Terrore ripartì verso la superficie. E John si lanciò all'attacco. Fece passare la cintura attorno al collo del Terrore, allacciò attorno al polso l'altra estremità, e strinse il cappio. A questo punto, il dilbiano, semi-soffocato, avrebbe dovuto dirigersi in superficie, offrendo a John la possibilità di respirare. Infatti, lo fece. Ma da quel momento in poi, il combattimento diventò totalmente diverso da quelli che erano i piani di John. John ebbe la boccata d'aria in cui sperava, su cui contava per trovarsi in posizione di vantaggio rispetto al Terrore, ormai senza fiato. Però, a quel punto il dilbiano si tuffò di nuovo sotto, si girò, tentò di afferrare il terrestre che gli strangolava il collo. E alla fine fatalmente, John riuscì a capire con che razza di nemico si era offerto di combattere. È sempre facile essere ottimisti; e ancora più facile sottovalutare un avversario. John, nonostante tutte le prove, nonostante le esperienze degli ultimi tre giorni, non era riuscito a capire quanto potesse essere superiore alla sua la forza del Terrore. Solo dal punto di vista fisico, il Terrore, in piena forma, avrebbe dato filo da torcere a due gorilla maschi terrestri. Oltre tutto, possedeva coraggio e intelligenza umani.
John, che ormai si sentiva una specie di sanguisuga, teneva stretta la cintura e si lasciava trascinare dal dilbiano. Il Terrore si agitava come un forsennato, si contorceva, nel tentativo di afferrare la cintura che lo soffocava. Intanto, con l'altra mano menava colpi a tutto spiano, cercando di costringere John a lasciare la presa. John gli era abbastanza lontano, quel tanto da garantirgli una certa sicurezza. Ma, a tratti, la mano del Terrore arrivava a colpirlo. I pugni lo sfioravano appena, rallentati com'erano dall'acqua; però ogni impatto lo mandava a rotolare via, come un sassolino in una corrente fortissima. Gli sembrava di scivolare giù per una collina e di ricevere in faccia, di tanto in tanto, il colpo di una mazza da baseball. Gli scoppiava la testa. L'acqua gli ruggiva nelle orecchie. Boccheggiò in cerca d'aria, e si riempì a metà la bocca di acqua e schiuma. Un pugno gli si abbatté sulla spalla, un altro gli martoriò le costole. Cominciò a perdere conoscenza. Mentre la nebbia gli invadeva il cervello, pensò, con quel poco di semilucidità che ancora gli restava, che ormai non era più questione di dimostrare coraggio battendosi col Terrore. Adesso la sua vita dipendeva solo dalla cintura che continuava a stringere in mano. A conti fatti, si trattava di uccidere o essere ucciso. Perché era chiarissimo che se non fosse riuscito a strangolare il Terrore prima di affogare o crepare in un altro modo, ad ammazzarlo ci avrebbe pensato il Terrore. Tossendo, boccheggiando, riacquistò conoscenza. Aveva il naso e la bocca pieni del sapore dell'acqua, e non stringeva più la cintura. La riva, poco più avanti, gli apparve come deve apparire una zattera a chi sopravvive a un naufragio. Istintivamente, senza più pensare al Terrore, o ad altro, desideroso solo di aria e di luce, si aggrappò, come un animale semiaffogato, al terreno fangoso. Aveva le braccia indolenzite, pesanti, troppo deboli per trarlo a riva. Altre mani lo aiutarono. Riuscì a trascinarsi sull'erba. Le mani lo spinsero un po' più avanti. Le ginocchia gli cedettero. Sputò fuori acqua. Vomitò. Le mani lo spinsero più avanti; e finalmente, giunto sulla terraferma, crollò. Rinvenne dopo un minuto o due. Qualcuno gli teneva la testa in grembo. Strizzò gli occhi, e una macchia di colori vaghi si trasformò nel viso di Ty Lamorc, tesa, pallida. Lacrime le solcavano le guance. «Cosa...?», gracchiò John. Poi riprovò. «Cosa ci fai qui?». «Oh, zitto!», disse lei, mettendosi a piangere ancora di più. Ty si asciugò il viso con un fazzoletto umido quasi quanto le sue guance.
«No», disse lui. «Sul serio... Cosa ci fai qui?». Tentò di mettersi a sedere. «Resta sdraiato», disse lei. «No. Sto benissimo». John riuscì a sedersi. Stordito, scoprì di trovarsi ancora a Gola delle Pianure. Tutt'intorno, un'infinità di dilbiani. Un po' più in giù, verso riva, diversi di loro si erano radunati attorno a qualcosa. «Cosa...?», disse John, guardando da quella parte. «Ehi, è il Terrore, Mezza Pinta», disse, sopra di lui, una voce familiare. John alzò la testa, incontrò la forma enorme, china, del Fregatore di Colline. «Lui è ancora svenuto, e tu ti sei già messo a sedere. Hai vinto il combattimento. Vado a dirlo a tutti». E corse verso il gruppo di dilbiani. John lo udì annunciare, orgogliosissimo, la sua vittoria. John chiuse e riaprì gli occhi, guardò Ty. «Cos'è successo?», le chiese. «Hanno dovuto tirarlo fuori. Tu sei arrivato a riva da solo». La ragazza estrasse da chissà dove un fazzolettino di carta (negli ultimi tre giorni, John aveva quasi dimenticato che esistessero cose del genere), si asciugò gli occhi e si soffiò vigorosamente il naso. «Sei stato meraviglioso». «Meraviglioso!», esclamò John, ancora troppo stordito per apprezzare i complimenti. «Sono stato pazzo solo a pensare di tentare una cosa del genere. La prossima volta farò a pugni con un'astronave». Si toccò dolcemente le costole. «Sarà meglio che torni all'ambasciata a Humrog e mi faccia fare una bella fotografia qui». «Oh! Ti sei rotto le...». «Forse è solo un graffio. Wow!», sussultò John, toccando un punto particolarmente malconcio. «Oh!». Ty singhiozzò di nuovo. «Poteva ucciderti. Ed è tutta colpa mia!». «Tutta colpa tua...», cominciò John. D'improvviso, sopra di lui apparve la figura minuscola di Joshua Guy. «Come va, ragazzo mio?», chiese Joshua. «Congratulazioni, fra parentesi. Permettimi di spiegarti...». «Non ora», disse John, poi afferrò il polso dell'altro. «Aiutami a tirarmi su. E adesso...», disse, fissando Ty che a sua volta si era alzata. «Come sarebbe a dire che è tutta colpa tua?». «Sì, è colpa mia!», pianse lei, distrutta, stracciando il fazzoletto di carta. «È stata la mia rac... raccomandazione ufficiale. Il Ministero Primi Contatti mi ha inviata qui per studiare la situazione e trovare il modo di stabilire
rapporti amichevoli coi dilbiani prima che ci riuscissero gli emnoidi». «E io cosa c'entro?». «Ecco, io... Io ho raccomandato che inviassero un uomo che corrispondesse il più possibile al profilo psicologico dilbiano, dopo di che abbiamo ideato una situazione emotiva che riuscisse a convincere i dilbiani che non siamo poi quelle creature ridicole che pensavano, ma uomini veri come loro. Bisognava dimostrare ai dilbiani che siamo uomini dotati di fegato, a prescindere dalla nostra tecnologia, che per loro è una sciocchezza». «Io?», disse John. «Profilo emotivo dilbiano?». «Ma è la verità. Tu sei estroverso, sensuale... La cultura dei dilbiani è una cosa estremamente insolita. Assomigliano molto di più a noi terrestri nelle prime fasi della nostra civiltà che non agli emnoidi. Però dovevamo dimostrare loro che siamo il tipo di uomini con cui si può trattare da pari a pari. La verità è che si sentono abbastanza seccati perché noi e gli emnoidi siamo più progrediti. Però non possono ammettere di essere più primitivi di noi, perché la loro cultura... Comunque», concluse Ty, notando che il viso di John si stava facendo rosso fiammante, «sarebbe andato tutto bene, se Ragazzi Che Corpo non avesse tentato di buttarti in quel canyon. Doveva solo rubarti il telefono da polso. È bastato questo ad alterare le costanti emotive dell'equazione sociologica in gioco. E Gulark-ay per un pelo non è riuscito a volgere a suo favore le cose, e...». «Vedo», l'interruppe John. «E perché», chiese, molto calmo e paziente, «io non sono stato informato del fatto che si trattava solo di un piccolo esperimento di sociologia applicata?». «Perché», pianse Ty, «volevamo che tu reagissi come avrebbe fatto un dilbiano, in modo naturale, estroverso, vi... viscerale». «Vedo», ripeté John. Erano ancora sulla riva della pozza. John raccolse fra le braccia Ty, che era davvero leggera e fragile, e la scaraventò in acqua. Ci fu un urlo, e un bello splash. Tutti i dilbiani, curiosi, si girarono a guardare. John s'incamminò. «Naturalmente, allora non ti conosceva», disse Joshua, pensoso. John sbuffò, alla maniera dei dilbiani. Non si fermò. Ma dopo una mezza dozzina di passi rallentò, si girò, e tornò indietro. «Qui», disse, burbero, protendendo le mani verso l'acqua. «Grazie», rispose Ty, depressa e col naso pieno d'acqua. Poi John la tirò fuori. 18
«Spero», disse Joshua Guy, «che tu non pensi ancora che io...». «Nemmeno per idea», disse John. Lui, Ty Lamorc e il piccolo ambasciatore, ripuliti e vestiti a nuovo, aspettavano, nel minuscolo spazioporto di Humrog, che dalla nave corriere scendesse la navicella. John e Ty dovevano tornare sulla Terra, a fare rapporto al Ministero Primi Contatti. Era mattino presto. Un venticello fresco spazzava la pista di cemento, gonfiava i pantaloni di John. Contro le grandi vetrate panoramiche del terminal era schiacciato il viso di qualche dilbiano curioso. L'edificio scintillava sotto la luce del sole, a una quarantina di metri da loro. «I primi sospetti», disse John, «mi sono venuti quando Gulark-ay mi ha raccontato tutta quella storia sul tuo conto, il giorno che lui e Tark-ay e Ragazzi Che Corpo mi tenevano prigioniero. Era una storia troppo bella per essere vera... Troppo bella per Gulark-ay, intendo». «Oh, a proposito, l'ho incontrato proprio stamattina», disse Joshua. «Mi ha detto che sta per partire anche lui. Lo hanno assegnato a Chakaa, il secondo pianeta madre degli emnoidi. Se per caso tu e Ty passaste di lì, fatevi vivi. Vi farà da ospite». «Grazie, no», disse, truce, John. «Mio caro ragazzo!», esclamò Joshua, lievemente sorpreso. «Non devi confondere ciò che un individuo fa nella sua qualità di rappresentante di un governo col suo carattere personale. Se dovessi recarti su Chakaa come turista, o in missione ufficiale, sono sicuro che troveresti in Gulark-ay, un ospite meraviglioso. Anzi, segui il mio consiglio, accetta l'invito. Ti assicuro che ti divertirai un mondo». Si interruppe per lanciare un'occhiata all'edificio. «Il dilbiano che partirà con voi due ormai dovrebbe essere qui. Scusa se ti ho interrotto. Dicevi che ti sono venuti sospetti...». «Era una storia troppo bella per essere vera», ripeté John. «In ogni modo, sono stato sicuro quando Tark-ay mi ha lasciato il coltello a disposizione e si è addormentato, in modo che io potessi fuggire. Sia lui che Gulark-ay avevano intenzione di lasciarmi scappare sin dall'inizio. Naturalmente», aggiunse John, «non credo che Tark-ay si aspettasse di trovarsi davanti il Terrore proprio in quel momento. Come sta, tra l'altro?». «Migliora», disse Joshua. «Ne sono lieto. Si possono fare incontri anche peggiori, e poi, visto com'è fatta Ragazzi Che Corpo, non potevo proprio dargli torto. In ogni modo, come stavo dicendo, Gulark-ay voleva che scappassi. Ridotto a pezzettini, non gli sarei servito a niente. Voleva che mi presentassi al clan delle
Pianure e ammettessi di avere una paura folle del Terrore». «Per fortuna che non l'avevi», disse Joshua. «A essere onesti, Ty e io non abbiamo mai pensato che le cose precipitassero sino a quel punto». «Pensavamo che per fornire ai gruppi d'opinione dilbiani una buona impressione degli esseri umani bastasse il semplice fatto che tu ti eri lanciato al mio inseguimento», intervenne Ty. «Credimi, nessuno se la sarebbe presa con te se tu avessi lasciato ricadere sulle spalle di Joshua l'onta della storia di Gulark-ay e gli anziani ci avessero rispediti indietro senza nessun combattimento. Non ci aspettavamo tanto coraggio». «Come sarebbe a dire, coraggio?», ribatté John. «Se non mi fosse venuto in mente il trucchetto della cintura... In ogni caso, è stata una follia. Mi ero talmente abituato ai dilbiani da dimenticare quanto possano essere forti. Non chiedetemi di riprovarci». D'improvviso, pensò a qualcosa. «Per caso, il Terrore non avrà raccontato di essere stato sconfitto da un'arma? Dalla mia cintura?». Joshua scosse la testa. «Avrà anche lui i suoi motivi», disse Ty. «La personalità dilbiana... Oh, guardate!». John e Joshua girarono la testa e videro avvicinarsi Uomo Solo, enorme nella luce del mattino. «È lui che verrà con noi?», chiese John. Ma Uomo Solo li raggiunse prima che Joshua avesse il tempo di rispondere. «Saluti a tutti», tuonò Uomo Solo. «Saluti a te», disse Joshua. Si sorrisero. Davano l'impressione di un topo e di un orangutang intenti a scambiarsi cortesie. «Ehi», disse John a Ty, «com'è che ti sei sporcata sul naso?». «Sporcata?», disse Ty. «Sul naso?». Con una magia tutta femminile, la ragazza si fece apparire in mano un portacipria, che si aprì fra le sue dita. Poi si guardò nello specchio. «Dove? Non vedo». «Lì, da questa parte», rispose John. «Sembra», aggiunse, «una macchia di unto...». «Unto!». Indignata, Ty Lamorc richiuse il portacipria e s'incamminò verso il terminal. «Un minuto. Dite alla navicella di aspettare», urlò. I due terrestri e il dilbiano la guardarono allontanarsi. «Ragazza attraente», mormorò Joshua. «Sul serio?», s'informò Uomo Solo. «Secondo il nostro punto di vista di Piccoletti, molto», disse Joshua. «Ad esempio, il nostro giovanotto, Mezza Pinta...».
«Okay, okay», disse John, e si schiarì la gola, allusivo. Poi fissò Uomo Solo. «Se potessi scambiare una parola con te...». «Chiedo scusa», disse Joshua; e si avviò discretamente verso il cancello più lontano dello spazioporto. «Volevo ringraziarti», disse John. «Ringraziare me?», tuonò Uomo Solo, in tono leggermente stupito. «Per l'aiuto che mi hai dato». «Aiuto? Mezza Pinta, io non posso accettare nessun ringraziamento da te. Sono troppo vecchio per immischiarmi in faccende del genere, e se anche decidessi di aiutare qualcuno, si tratterebbe di uno della mia gente. Non riesco a capire di cosa tu stia parlando». «E invece io credo che tu lo sappia benissimo», disse John. «Niente affatto. Certo, ora che tu hai fatto capire meglio alla mia gente di che stoffa sono fatti i Piccoletti... Più vincitore di un vincitore non c'è nessuno, sai», disse Uomo Solo, salomonico. «Anzi, mi stupisce che voi Piccoletti ci abbiate messo tanto a capirlo. Come ti ho già detto una volta, chi vi ha chiesto di precipitarvi in massa sul nostro pianeta?». «Be'...», cominciò John, incerto. «E cosa vi faceva pensare di dover piacere a tutti noi, di essere i benvenuti, di spingerci a desiderare di essere come voi? Immagina un po' di essere un ragazzino, e che nel tuo villaggio sia arrivato un bambino nuovo, uno grande la metà di te, che però ha un sacco di giocattoli che tu non hai. Se ti bussasse sulla spalla e ti dicesse d'ora in poi comando io, e faremo i miei giochi, come ti sentiresti?». Scrutò astutamente John con quei suoi occhi che annegavano nella pelliccia. «Capisco», rispose John, dopo un attimo. «Allora, perché mi hai aiutato?». «Ti ho già detto che non capisco di cosa tu stia parlando», disse Uomo Solo. «Come potrei aiutare un Piccoletto, se anche lo volessi?». «Te lo dico io, come. Sul mio pianeta, qualcuno è capace di combinare un bel trucchetto con una cosa che si chiama elenco telefonico. È spesso più o meno cosi», John lasciò uno spazio di diversi centimetri tra pollice e indice, «e per noi Piccoletti stracciarlo in due è difficile più o meno come lo è per voi dilbiani spezzare quel tuo bastone. Ora...». «Sì, sì, ci credo», lo interruppe Uomo Solo, in tono giudizioso. «Elenchi, pezzi di legno, lottatori invincibili: immagino che esista un trucco per fregare ognuna di queste cose. Naturalmente», disse Uomo Solo, alzando gli
occhi a fissare la neve che copriva le cime lontane, «un tipo come te o come me non si piegherebbe mai all'uso di certi trucchetti, nemmeno per una buona causa». Tra loro ci fu un attimo di silenzio. «Probabilmente», disse John, «non sarò mai un buon diplomatico». «No», disse Uomo Solo, continuando a guardare le montagne lontane. «Non credo che lo sarai mai, Mezza Pinta». Tornò a posare lo sguardo su John. «Se vuoi seguire il mio consiglio, fossi in te continuerei a fare quello che ho sempre fatto». «Be', ecco», disse John, impacciato, «dal momento che verrai con noi sulla Terra, pensavo che...». «Io?», esclamò Uomo Solo. «Che razza d'idea, Mezza Pinta! Un vecchio come me costretto ad affrontare tutte quelle novità, a imparare come vivono i Piccoletti per tornare qui a raccontarlo alla mia gente? No, no, non servirei a niente per una cosa del genere». «Non vieni tu?», esalò John. «Ma allora chi...». «Credevo che lo sapessi», rispose Uomo Solo; e guardò verso il terminal dello spazioporto. «Eccolo che arriva». John girò la testa e restò a bocca spalancata. Dal terminal, camminando a passettini brevissimi per non lasciare indietro Ty, che gli stava a fianco, si stava dirigendo verso di loro nientepopodimenoché il Terrore del Fiume. «Ma...», disse John. «Pensavo che il Terrore...». «Le apparenze», commentò Uomo Solo, «ingannano spesso. Se tu fossi dotato di un buon cervello, e vivessi qui su questo pianeta in mezzo alla mia gente, e oltre al cervello avessi solo degli ottimi riflessi, cosa faresti? Particolarmente se fossi ambizioso? Purtroppo, la nostra società attribuisce moltissima importanza alla forza, e i muscoli contano più della saggezza. È il Terrore che visiterà il vostro mondo e comincerà a stabilire i primi veri rapporti. Dal punto di vista del temperamento, questo lo posso ammettere, mi sembra che voi Piccoletti siate molto più simili a noi di quei Grassottelli. Però sai come succede». Uomo Solo s'interruppe per sospirare. «Fra parenti stretti si litiga più spesso di quanto non si faccia tra estranei». Il Terrore e Ty li avevano quasi raggiunti. Restava solo il tempo per un velocissimo scambio di parole. «Spero che non si senta maldisposto», disse John. «Nei miei confronti, intendo. Dopo il combattimento e tutto il resto». «Vorresti dire che non ti hanno informato?», chiese Uomo Solo. «Ma come, è una delle condizioni che il Terrore ha posto prima di accettare di
partire. Insomma, è evidente che voi Piccoletti sperate molto di creare gruppi misti terrestri-dilbiani...». John fissò Uomo Solo, sorpreso. Non aveva mai sentito un dilbiano riferirsi a se stesso, o alla sua gente, o ad altre razze, usando i nomi terrestri. «...E dopo aver stabilito i primi contatti, il Terrore vuole fare da pioniere anche in questo campo». John fece una smorfia. «Non capisco», disse. «Il Terrore ha posto come condizione di studiare il tuo campo di lavoro e di essere messo in coppia con te, naturalmente», disse Uomo Solo. Fissando stupefatto il grande viso peloso, John si accorse, dopo un attimo, che la faccia di Uomo Solo si era contorta in un'imitazione piuttosto riuscita di quello che sulla Terra si chiama «fare l'occhiolino». «Vedi», disse Uomo Solo, «dopo quel vostro piccolo scontro a Gola delle Pianure, il Terrore ritiene che tu sia piuttosto in gamba. Con te, si sente al sicuro». GREGORY BENFORD IN VENTRE ALIENO (In Alien Flesh, 1978) I ...spuma verde che lambisce, che raggela... Reginri mosse convulsamente la mano sulle lenzuola. Aveva gli occhi chiusi. ...monete d'argento girano e scorrono nel cielo picchiettato, eclissando il sole... Le lenzuola erano una palude fagocitante, e lui si contorceva, stretto nella loro morsa. ...un canto armonioso, ruscelletti tintinnanti e freschi che gli detergono la pelle... Aprì gli occhi. Sospesa nella stanza c'era la lama dorata di un raggio di sole pomeridiano, e il pulviscolo vi danzava dentro. Reginri ansimò, respirando affannosamente. Belej era in piedi accanto al letto. «Ti sono venuti di nuovo, vero?» disse, quasi in un sussurro. «Ss... sì». Reginri si sentiva la gola secca e contratta. «Non può continuare così, caro. Si pensava che avresti potuto dormire
meglio almeno di giorno, quando tutti sono nei campi, ma...». «Devo uscire di qui» borbottò lui. Scese giù dal letto e si mise la tuta da lavoro nera. Belej rimase lì in piedi in silenzio; batté le palpebre un attimo, si morse il labbro. Reginri si allacciò gli stivali e corse fuori della stanza. I suoi passi risonarono cupi e sordi sul tavolato. Lei ascoltò i loro rintocchi sempre più veloci lungo il corridoio. Infine tacquero, e tornò il silenzio assoluto. Poi la porta esterna scricchiolò, e fu richiusa con un colpo secco. Belej gli corse dietro. Lo raggiunse vicino all'orlo del canyon, a un centinaio di metri dalle case di tronchi. Lui la guardò. Si grattò la testa di capelli arruffati e curvò le spalle. «Questo è stato abbastanza brutto» disse, impacciato. «Se continuano a essere sempre peggio...». «No, non continueranno a essere sempre peggio». «Speriamo. Ma non lo sappiamo. Se ho ben capito di cosa trattano...». «Non posso descriverne bene il contenuto. Sono ogni volta diversi. La sensazione pare essere la stessa, anche se...». Nella sua voce era tornata una certa vivacità. «È difficile». Belej si sedette vicino all'orlo del canyon. Alzò gli occhi a guardare Reginri. Aveva le sopracciglia aggrottate sopra i grandi occhi neri. «Insomma» disse, cambiando improvvisamente umore e inasprendo il tono. «Uno, io non so quale sia il contenuto di questi incubi. Due, non so da dove traggano origine. Quell'orribile spedizione cui accettasti di partecipare, immagino, ma non sei chiaro nemmeno su questo. Tre, non so perché tu abbia insistito a volere unirti a quella sporca spedizione nel...». «Te l'ho detto, perdio. Dovevo andare». «Volevi i soldi in più» disse secca Belej. Si prese il mento fra le mani minute. «Non i soldi in più, semplicemente i soldi». Reginri guardò torvo il canyon frastagliato sotto di loro. I modi di lei, calmi e accusatori, lo irritavano. «Avresti potuto trovare lavoro in una piantagione. I tagliatori di baccelli sono richiesti». «La stagione non era buona. È stato l'anno scorso, ricordati. La paga era cattiva». «Ma avevi sentito parlare di questo Sasuke e questo Leo, sapevi cosa la gente diceva di loro...». «Vanleo sichiama, non Leo».
«Be', che si chiami come vuole. Non dovevi accettare di lavorare per loro». «No, eh? No?» fece lui, furioso. «Sì, avrei potuto spaccarmi il culo in un campo nella stagione della semina, dodici ore al giorno per un salario di trenta unità al massimo. E quando mi fossi stancato di quello, o mi fossi rotto una gamba, magari avrei potuto farmi assumere per foggiare circuiti come un automa». Raccolse un sasso e lo lanciò molto oltre l'orlo del canyon. «Bella vita!». Belej rimase in silenzio per un lungo attimo. In lontananza, in fondo al canyon, una nebbia rosa si stava infiltrando tra le vette più alte e cominciava a scendere in basso sempre più rapidamente. Zeta Reticuli era ancora alto nel cielo azzurro screziato, ma dal canyon stava arrivando un vento freddo che portava con sé un odore acre. Reginri arricciò il naso. Entro un'ora sarebbero dovuti entrare in casa. La lieve nebbia rossastra si sarebbe addensata. Faceva bene alla vita vegetale del nord di Persenuae, ma per i polmoni umani quella nebbia era irritante e nociva. Belej sospirò. «Eppure» disse a bassa voce, «non ti ha costretto nessuno ad accettare. Se avessi saputo che sarebbe stato così...». «Sì» disse lui, con lo stomaco in subbuglio. «Se io, o i tanti altri, avessimo saputo...». II In un primo tempo non era stato tanto il Drongheda a trovare inquietante, quanto la stessa spiaggia e, soprattutto, le onde. Gli lambivano i piedi con moto lento e risucchiante, scavando dal di sotto la sabbia grossa. All'inizio erano come piccole increspature sull'orizzonte grigio, poi arrivavano piano piano fischiando e si riversavano sulla spiaggia nera. Reginri ne guardò una avvolgersi in un ricciolo di spuma verdastra, più in là; la marea si stava abbassando. «Come mai sono così lente?» chiese. Sasuke alzò gli occhi dai sacchi da imballaggio. «Cosa?». «Come mai le onde ci mettono così tanto?». Sasuke si fermò un attimo e studiò i flutti imponenti, chiazzati del giallo delle alghe. Ogni tanto, più in là, un'onda grande si frangeva e inondava di spruzzi le acuminate rocce di lava. «Non ci ho mai pensato» disse Sasuke. «Immagino sia la gravità più bassa».
«Uhm» fece Reginri, alzando le spalle. Un pesce schiuma affiorò dall'acqua e afferrò qualcosa nell'aria. In qualche modo, il fatto di per sé insignificante delle onde lente indisponeva Reginri. Inquieto, si stirò nella sua tuta. «Immagino che la lentezza data dalla bassa gravità non aiuti a renderci pronti a ogni evenienza» disse. Sasuke non Io udì; stava tirando fuori trasmettitori, rocchetti di filo e altre attrezzature. Reginri non riuscì a resistere oltre. Tirò fuori il binocolo e guardò il Drongheda. In un primo tempo gli parve come una roccia liscia e scura, resa levigata dall'acqua, e senza tempo. E quello che si diceva era esatto: si muoveva verso terra. Si levava come un'immensa vescica sul mare increspato. Reginri aguzzò gli occhi, cercando di vedere il cerchio scuro dello sfiatatoio. Ed ecco, sì, lo vide: una macchia orlata di rosso screziato. Al centro, più scuro, c'era il foro d'entrata. Appariva inverosimilmente piccolo. Reginri abbassò il binocolo e batté le palpebre. Zeta Reticuli ardeva basso sull'orizzonte piatto, fiera macchia arancione che penetrava coi suoi raggi l'aria rarefatta del pianeta. «Dio, potrei cavarmela con una bruciatura» disse. «Niente del genere: dovrà usare il cervello, là dentro» disse secco Sasuke. «In ogni modo, non c'è niente capace di ustionare, in queste tute». «D'accordo». Reginri si chiese se per il maledetto denaro valesse la pena di fare tutto quello. Su Persenuae (alzò gli occhi verso il cielo di porpora e lo vide, luccichio perlaceo che si stringeva più vicino a Zeta) gli era parso un buon affare: soldi fatti in fretta e facilmente, una specie di escursione scientifica con un pizzico d'avventura. Meglio in ogni modo del lavoro agricolo. Pagamento di gran lunga migliore di qualsiasi altro nella ristretta gamma dei lavori che poteva ottenere con la sua specializzazione limitata, che includeva un'infarinatura di elettronica e di tecniche di fabbricazione. Sapeva perfino un po' di matematica, anche se non abbastanza da contare. E la matematica non era importante saperla per quel lavoro, gli aveva detto Sasuke, anche se era il punto cruciale della faccenda. Sorrise fra sé. Era strano, pensò, che quegli scarabocchi che le apparecchiature registravano fossere un articolo commerciale, qualcosa in cambio di cui la gente della Terra era disposta a spedire un bel po' di congegni microelettronici e di cellule biodirette... «Mi può anche aiutare, eh?» disse brusco Sasuke. «Scusi».
Reginri s'inginocchiò e aiutò l'uomo a dipanare i fili e a controllare i connettori. Al sicuro sulla spiaggia, di là dalla prima fila di pallide dune di sabbia, c'erano le apparecchiature elettroniche imballate e la squadra che avrebbe seguito col monitor Reginri e Vanleo all'interno del Drongheda. Mentre dipanavano i cavi, sgrovigliando i fili e controllando gli attacchi, Reginri alzò ogni tanto gli occhi a guardare il Drongheda. Era immenso, molto più grande di quanto non avesse immaginato. Il Tri-D non riusciva a dare l'idea di quanto fosse enorme. Adesso sguazzava nell'acqua bassa a non più di duecento metri da riva. «Ha smesso di muoversi», disse. «Certo. Resterà lì per giorni e giorni, con tutta probabilità». Sasuke parlò senza alzare gli occhi. Inserì la sonda diagnostica in ciascuna presa, guardando attentamente gli indici. Era metodico, sicuro di sé: il tipo d'uomo adatto a occuparsi del lato tecnico, pensò Reginri. «È giusto che così sia, no?» disse. «Voglio dire, che la creatura stia immobile». «Certo». «Anche lei lo dice. Non si metterà a rollare mentre noi siamo là dentro. Non l'ha mai fatto, no?». Sasuke smise di lavorare e aggrottò la fronte. Attraverso il rigonfiamento del casco, Reginri vide le labbra dell'uomo serrate. «Voialtri vi fate sempre prendere dalla tremarella quando siete sulla spiaggia. Mai una volta che non succeda. Quelli dell'ultima squadra che è andata là si sono cagati sotto fin dal primo momento che abbiamo avvistato un Drongheda». «Per lei è facile dire così. Mica deve entrare là dentro». «Ci sono stato dentro, mister. Lei no. Faccia come le diciamo, faccia quello che Vanleo e io le diciamo, e andrà tutto bene». «È questo che ha detto agli ultimi tizi che hanno lavorato con lei?». Sasuke alzò gli occhi a guardarlo sarcastico. «Kaufmann? Ha parlato con Kaufmann?». «No. Lo conosce un mio amico». «Il suo amico frequenta cattive compagnie». «Certo, me compreso». «Intendevo dire...». «Kaufmann non ha mollato senza un buon motivo». «Era un codardo» disse deciso Sasuke. «A sentire la sua campana, pare semplicemente che non fosse abbastanza stupido da continuare a far procedere le cose nel modo che volete voi.
Con queste attrezzature». «Non c'è altro modo». Reginri indicò verso il mare. «Potreste mettere qualcosa di automatizzato là dentro. Installare un sensore». «Che trasmettesse attraverso trenta metri di grasso animale? Attraverso tutta quella carne? Con precisione? Con un'alta frequenza bit? Bah!». Reginri rimase zitto. Sapeva che non era da furbi provocare così Sasuke, ma i discorsi di Kaufmann gli avevano infuso inquietudine. Si voltò a guardare la terra desolata. Lungo la spiaggia, Vanleo si era fermato a esaminare qualcosa, inginocchiato sulla sabbia compatta. Probabilmente una pietra: su quella spiaggia non c'era niente di vivo che corresse o strisciasse. Reginri alzò le spalle. «Sì, capisco, ma perché dobbiamo stare dentro così a lungo? Non si potrebbe semplicemente entrare, inserire gli aghi di trasmissione e uscire?». «Non starebbero al loro posto. Se il Drongheda si muovesse anche solo un po', scapperebbero fuori». «Non fateli così dannatamente delicati». «Mister, non si può essere approssimativi con degli aghi di trasmissione da inserire in un nesso neurale. Mica si tratta di un semplice collegamento statfonico». «Così io dovrò fare da mamma fino alla fine? Stare seduto là in quelle immense viscere rompendomi da matti?» «È pagato per questo» disse Sasuke, secco. «Forse non abbastanza». «Senta, se ha intenzione di lamentarsi ancora per un pezzo...». Reginri alzò le spalle. «D'accordo, non sono un professionista in questo campo. Sono venuto soprattutto per vedere il Drongheda. E una volta datagli un'occhiata, mi è parso che queste vostre apparecchiature elettroniche siano abbastanza inadeguate. E se quel mostro là decide di darmi una strizzata...». «Non lo farà. Non l'ha mai fatto». Reginri sentì attraverso gli auricolari una breve risata secca. Era la risata di Vanleo, che echeggiava sorda nei loro caschi. Vanleo si avvicinò, camminando a grandi passi lungo il bagnasciuga. «Non è mai successo, quindi non succederà? Non fila, come logica. Il fatto che una serie abbia molti termini non significa che sia infinita. Né che tenda a un limite». Reginri fece un sorriso sentito, contento che l'altro uomo fosse di ritorno. C'era un che di spietato in Sasuke che lo mandava fuori dai gangheri.
«Amico Sasuke, non nascondere a questo ragazzo quello che entrambi sappiamo». Vanleo diede allegramente una manata sulla schiena a Sasuke. «I Drongheda sono un rebus. Intelligenze vaste, brillanti, misteriose; ed è da presuntuosi pretendere di capire alcunché di essi. L'unica cosa che siamo in grado di seguire è la loro matematica: forse è l'unica cosa che essi desiderano che noi capiamo». Vanleo fece un gran sorriso. Dopo un attimo girò le spalle e si mise a studiare in silenzio i cavi che dalle dune entravano in mare. «Pare che vada bene» disse. «La marea si sta abbassando». Si voltò di scatto e fissò Reginri negli occhi. «Hai di nuovo i nervi, ragazzo? Avevo l'audio aperto, nella tuta». Reginri si agitò sentendosi a disagio. Sasuke era indisponente, ma se non altro si capiva in che modo bisognava trattare con lui. Vanleo, invece... In qualche modo lo sguardo intento e deciso di Vanleo lo sconvolgeva. Reginri si mise a guardare il Drongheda e sentì riaffiorare la paura. D'impulso si girò verso Vanleo e disse: «Credo che resterò sulla spiaggia». La faccia di Vanleo s'irrigidì. Sasuke fece un brontolio di disgusto e disse: «Un altro fottuto», ma l'altro lo interruppe con un brusco gesto della mano. «Cosa intendi dire?» disse in bel modo Vanleo. «Io... io non me la sento molto di entrare là dentro». «Ah, capisco». «Voglio dire, non sono sicuro che quella cosa non... be', è la prima volta che lo faccio, e...». «Capisco». «Vi dico io come facciamo. Vado in mare con voi due, certo. Starò in acqua per impedire ai cavi di aggrovigliarsi: sì, insomma, farò il lavoro che spetterebbe a voi. Questo mi darà la possibilità di abituarmi al lavoro. Poi, la volta dopo...». «Potrebbe essere fra anni». «Be', è vero, ma...». «Stai compromettendo l'esito dell'intera spedizione». «Non ho esperienza. E se...» Reginri fece una pausa. Sapeva che Vanleo aveva la logica dalla sua. Quello era il primo Drongheda che erano riusciti ad avvicinare in più di due anni. Ce n'erano molti che si lasciavano trasportare dalla corrente e finivano nell'acqua bassa, vicino alla costa frastagliata. Ma la maggior parte restavano solo uno o due giorni. Questo Drongheda era il primo in tutto quel tempo che si era stabilito a una certa distanza dal-
la costa in una secca bassa e protetta. Il satellite lo aveva individuato e aveva notato lo schema regolare dei suoi movimenti, che seguivano le maree. Così Vanleo aveva captato il segnale del satellite, aveva avvertito subito Reginri e la squadra d'appoggio, ed erano partiti tutti da Persenuae con un veloce razzo... «Ha solo bisogno di un bel calcio nel sedere» disse di punto in bianco Sasuke. Vanleo scosse la testa. «Credo di no» disse. Il disprezzo che si sentiva nei tono usato da Sasuke indusse Reginri a prendere una decisione. «Non andrò» disse. «Ah?» fece Vanleo, con un sorriso. «Fatemi pure causa per violazione del contratto quando torneremo su Persenuae, se volete. Io non ci vado, là dentro». «Oh, faremo ben più di questo» disse con noncuranza Vanleo. «Accolleremo a te tutte le spese della spedizione, che sarà finanziariamente in perdita per colpa tua». «Io...». «Così non avrai mai più salario intero, mai più» proseguì calmo Vanleo. Reginri scalpicciò in terra, irrequieto. Dai modi di Vanleo trapelavano una sicurezza e una ponderatezza che davano ancora più rilievo alle sue parole. E dietro la sicurezza di quello sguardo Reginri colse anche qualcos'altro. «Non so...». Respirò a fondo, tentando di schiarirsi le idee. «Credo di essermi innervosito un po', prima». Esitò, poi sbuffò con aria di auto-disapprovazione. «Credo... credo che andrà tutto bene». Sasuke annuì, trattenendosi dal fare commenti. Vanleo sorrise cordialmente. «Bene. Bravo. Allora mettiamo semplicemente una pietra su questo piccolo incidente, eh?». Girò di colpo le spalle e s'incamminò lungo la spiaggia. Il suo passo era sicuro, quasi spavaldo. III Uno scoiattolo volante, trasportato dal vento del pomeriggio, che aveva rinforzato, oscillò sopra l'orlo del canyon squittendo nervosamente, poi scese planando verso la sicurezza della boscaglia. I due esseri umani lo guardarono strappare un baccello di semi e proseguire il volo sgranocchiandolo.
«Non capisco perché tu non li abbia mollati» disse Belej alla fine. «Perché tu non li abbia mollati quando eravate là sulla spiaggia. Una causa non avrebbe funzionato, non con gli altri uomini della squadra che avessero testimoniato per te». Reginri la guardò con aria assente. «Impossibile». «Perché? Lo vedesti, quel mostro. Potesti constatare che era pericoloso». «Lo sapevo già da prima di lasciare Persenuae». «Ma non l'avevi visto». «E allora? Avevo firmato un contratto, però». Belej scrollò la testa con aria spazientita. «Ricordo che mi dicesti che era una specie di grosso pesce. Questo è tutto ciò che dicesti quella notte, prima di partire. Avresti potuto sostenere di non avere compreso l'entità del pericolo...». Reginri fece una smorfia. «Non un pesce. Un mammifero». «Che differenza fa? Come un certo pesce-mammifero della Terra, mi dicesti». «Come balene, balenottere, balene azzurre e capodogli» disse lentamente lui. «Gli uomini, poco prima di sterminarle tutte, cominciarono a sospettare che le balene azzurre fossero intelligenti». «Le balene non erano matematici però, vero?» disse scherzosamente lei. «Ormai non lo sapremo mai più». Belej appoggiò la schiena contro l'erba brunastra e fitta. Il vento le sollevò in parte i capelli neri. «Quel Leo ti mentì sul mostro, su quel pesce, vero?». «In che senso?». «Ti disse che non era pericoloso». Reginri sedeva ritto sull'erba e si teneva le ginocchia con le mani. «Mi diede delle documentazioni scientifiche. Io non le lessi quasi per niente: cavoli, erano zeppe di nomi che non conoscevo, termini strani. È questo che tu non hai mai capito, Belej. Noi non sappiamo molto dei Drongheda. Sappiamo solo che hanno dei polmoni e una spina dorsale, e che vengono a riva ogni due tre anni. Perché lo facciano, o cosa li renda intelligenti, è un mistero cui Vanleo ha dedicato trent'anni della sua vita. Devi riconoscergli questo merito...». «Il merito di averti trascinato nell'impresa? Bah!». «I Drongheda non hanno mai fatto male a nessuno. I loro occhi non sembrano nemmeno registrare la nostra presenza. Probabilmente essi non sanno nemmeno che noi siamo lì, e i tentativi ostinati di Vanleo di comu-
nicare sono sempre falliti. Lui...». «Se un gigante cieco e benintenzionato ti rotola addosso», disse Belej, «anche se è benintenzionato, tu muori lo stesso». Reginri sbuffò, con aria di derisione. «I Drongheda si tengono ritti sulle pinne ventrali. È così che stanno in equilibrio nell'acqua bassa. Le balene non riuscivano a farlo, o...». «Tu non mi ascolti!» esclamò Belej, lanciandogli un'occhiata esasperata. «Ti sto spiegando cosa successe». «Sbrigati, allora. Non possiamo stare qui fuori ancora per molto». Reginri guardò le pareti grinzose del canyon. Alberi da frutta verde chiaro punteggiavano le rocce brunastre. La nebbia rosa, sempre più fitta, strisciava lenta sul fondo del canyon, nascondendo i particolari. Gli organismi viventi che davano colore alle nubi avrebbero ben presto ricoperto gli alberi coriacei, facendo scattare i lenti ritmi della vita stagionale. Ciò faceva parte, pensò, dei pigri ed eterni meccanismi di Persenuae. «La nebbia si è parecchio addensata» convenne. Guardò alle sue spalle le baracche di tronchi che costituivano le abitazioni della comunità. Si confondevano tra l'erba incolta. «Su, dimmi» fece Belej, incalzandolo. «Be', io...». «Continui a svegliarmi coi tuoi incubi: meriterò pur di saperne il contenuto, no? Ha cambiato la nostra vita insieme. Io...». Reginri sospirò. Sarebbe stato difficile, pensò. «E va bene» disse. IV Vanleo diede a Reginri una pacca sulle spalle e i tre uomini si misero al lavoro. Ciascuno prese un rocchetto di cavo e si mise a camminare all'indietro con quello, verso la spuma. Reginri osservò attentamente gli altri e li seguì, lasciando che il cavo si dipanasse dolcemente. Era così intento al lavoro che quasi non si accorse dell'umidità avviluppante che cominciò a circondarlo. La piccola bombola dell'ossigeno era un peso morto e ingombrante sulla sua schiena, ma una volta che si trovò fino alla vita nell'acqua riuscì a manovrare più facilmente, e poté concentrarsi su qualcos'altro che non il mantenersi in equilibrio. Il fondo del mare era liscio e chiaro, ornato di filamenti metallici di argento opaco. Non era però metallo, in realtà: quello era un pianeta che, curiosamente, aveva pochi elementi pesanti. Forse era per questo che non era
mai comparsa, lì, la vita di terraferma, e che i continenti-isola sparsi in mezzo all'oceano erano deserti desolati e polverosi. O, più probabilmente, il fatto che quel mondo gelido fosse piccolo e più lontano dal sole lo rendeva troppo inadatto allo sviluppo della vita sulla terraferma. Persenuae, più vicino a Zeta, ospitava specie sia indigene sia importate, ma quel mondo lì aveva solo creature marine. Era un curioso pianeta, quello: in teoria era come un punto d'incontro fra le strutture classiche della Terra e di Marte. Abbastanza grande per avere vulcani e dunque oceani, ma dotato di un'aria irrespirabile con un'alta percentuale di anidride carbonica e una bassa percentuale di ossigeno. Forse la ruota dell'evoluzione semplicemente non aveva girato abbastanza lì, e un giorno i pesci piccoli, o addirittura gli stessi Drongheda, si sarebbero evoluti ulteriormente, passando alla terraferma. Ma forse l'intelligenza dei Drongheda si stava già evolvendo, pensò Reginri. Quei mostri sembravano paghi di nuotare nei grandi oceani e di comporre enigmi cristallino-matematici per loro personale divertimento. E per qualche ragione avevano reagito quando Vanleo aveva conficcato per la prima volta una sonda elettronica in uno dei loro nessi neurali. Le creature avevano trasmesso perfette creazioni matematiche che, là dalle parti della Terra, tenevano impegnate nell'opera di decifrazione migliaia di persone. Migliaia di persone che frugavano tra arazzi di freddi teoremi e di complessi referenti, cercando di capire i geniali assiomi che conducevano a nuove aperture, a silenziose pozze di geometria e all'intricata piramide di linee e angoli che racchiudeva una giungla di numeri. «Attento!», gridò Sasuke. Reginri si puntellò sul fondo poco prima che un'onda si frangesse su di lui, spruzzandogli spuma verde sulla visiera del casco. «Ribollimento di marea in arrivo», gridò Vanleo. «Dovrebbe cessare presto». Reginri si tenne ben saldo per far fronte al flusso, ma non s'irrigidì troppo, per essere sicuro di mantenersi in equilibrio. Attraverso gli stivali sentì la sabbia scivolare ruvida contro la roccia liscia del fondo. Il rocchetto del cavo era quasi dipanato del tutto. Reginri si girò per fare le opportune manovre, e vide d'un tratto, di fianco, un'immensa parete scura. Si levava altissima, molto più alta delle onde grige che si frangevano ai suoi piedi. Reginri sentì una fitta al petto e si voltò del tutto per osservare il Drongheda. L'immensa parete di carne era delicatamente chiazzata d'oro e verde. I
solchi dorsali erano squarci neri che curvavano verso l'alto formando profonde vallate oleose. Reginri si ficcò il rocchetto del cavo sotto l'ascella e toccò con molta prudenza la parete. La premette varie volte per vedere com'era, e notò che era soffice e gommosa. «Attento alla coda!», gridò Vanleo. Reginri si girò e vide una lunga pinna nera fendere l'acqua cinquanta metri più in là. Penetrò languidamente nella superficie liquida con un fragore che risultò udibile attraverso il casco, e s'inabissò. «Si sta solo assestando, credo», disse rassicurante Vanleo. «A volte lo fanno». Reginri guardò con la fronte corrugata il punto dove la pinna era emersa. Si erano formate correnti profonde, che increspavano la superficie. «Dacci il tuo cavo», disse Sasuke. «Dipanalo fin qui. Ho ficcato sotto l'asta d'ancoraggio». Reginri dipanò il resto del rocchetto e aveva ancora un po' di cavo quando raggiunse Sasuke. Vanleo reggeva un lungo tubo piantato verticalmente in acqua. Premette un pulsante, producendo un colpo secco che Reginri sentì, ovattato, attraverso l'audio. Reginri vide che Vanleo stava lanciando arpioni nel fondo roccioso dell'oceano per fissare cavi e connettori. Sasuke tese le mani e Reginri gli diede il rocchetto. Era più facile tenersi in equilibrio, lì; il Drongheda li riparava dalle onde, e le correnti erano calate. Per un po' Reginri restò inoperoso a osservare i due uomini fissare i collegamenti e montare i fili degli aghi di trasmissione. Sasuke gli fece segno di essere pronto, e come Reginri girò le spalle, lui e Vanleo misero i fili dentro il suo zaino. Reginri guardò nervosamente il Drongheda per vedere se c'erano segni di movimento, ma non ne vide. I solchi ventrali formavano un intricato disegno di scanalature lungo il fianco della creatura, e dopo averli contemplati qualche attimo Reginri pensò di alzare gli occhi a guardare lo sfiatatoio. Era una cavità orlata di rosso, più scura del colore bruno screziato della pelle intorno. I solchi ventrali formavano un'elaborata spirale attorno allo sfiatatoio, poi si allontanavano disegnando un arco e scendevano verso una strana zona chiazzata circa della stessa grandezza dello sfiatatoio. «Cos'è quella?», disse Reginri, indicandola. «Non lo so», disse Vanleo. «Sembra carne più tenera, ma non è un buco. Tutti i Drongheda ce l'hanno».
«Sembra un livido, o qualcosa del genere». «Uhmm», borbottò Vanleo, distratto. «Sarà meglio che ti issiamo su al più presto. Io andrò dall'altro lato. C'è un altro sfiatatoio là, poco più su della linea di galleggiamento. Entrerò di lì». «Come mi sollevo?». «Chiodi», mormorò Sasuke. «Qui l'acqua è abbastanza bassa per permetterlo». Ci vollero parecchi minuti per attaccare i chiodi per salire alle scarpe di Reginri. Reginri si appoggiò al Drongheda per reggersi e cercò di prepararsi mentalmente a quanto stava per succedere. Il mare gli zampillava attorno, lambendogli dolcemente la tuta. Avvertì un senso di attesa carico di tensione. «Salga», disse Sasuke. «Si metta in ginocchio sulle mie spalle e si assicuri che i chiodi siano sul solido, prima di poggiarci sopra il suo peso. Faccia come le abbiamo detto, quando sarà dentro, e vedrà che andrà tutto bene». V Vanleo lo tenne in equilibrio mentre saliva in spalla a Sasuke. Ci volle qualche secondo prima che Reginri riuscisse a conficcare i chiodi per salire nella pelle spessa e grinzosa del Drongheda. Ringraziò la bassa gravità. Si tirò su con facilità una volta che ebbe preso la mano, e gli ci vollero solo pochi attimi per percorrere i dieci metri che lo separavano dall'orlo dello sfiatatoio. Una volta lì, si fermò per riposarsi. «Non è stato così difficile come pensavo», disse allegro. «Bravo, ragazzo». Vanleo gesticolò nella sua direzione. «Bada solo a mantenerti calmo, e andrà tutto benissimo. Ti segnaleremo attraverso l'intercorri quando dovrai venire fuori. Questa volta probabilmente non starai dentro più di un'ora». Reginri si tenne in equilibrio sull'orlo dello sfiatatoio e respirò varie volte a fondo, assaporando l'aria greve. In lontananza, onde grige si rompevano in spuma. Il Drongheda si levava come un'enorme bolla dal mare increspato. Lungo la costa viaggiava un banco di nebbia. Dentro di esso s'intravvedeva una forma vaga. Reginri aguzzò gli occhi per vedere meglio, ma la nebbia avvolgeva completamente l'oggetto, nascondendone i contorni. Un altro Drongheda? Guardò ancora, ma la forma, in lontananza, si
confondeva con la nebbia biancastra. «Si sbrighi», gridò Sasuke da giù. «Noi non ci muoveremo finché lei non sarà dentro». Reginri si girò, lì su quella montagna di carne, e afferrò le grinze scure e gonfie che orlavano lo sfiatatoio. Notò che c'erano dei fili fini e luccicanti tutt'intorno all'entrata. Che fosse una bocca? O un ano? Vanleo diceva di no; gli scienziati che avevano studiato i Drongheda avevano grosso modo individuato il loro apparato digestivo. Ma non avevano idea di quale fosse lo scopo dello sfiatatoio che, pur essendo stato chiamato così, non aveva nulla a che vedere con quello dei cetacei della Terra. Era proprio per scoprire la funzione di esso che Vanleo era entrato per la prima volta all'interno di un Drongheda. Adesso la teoria di Vanleo era che lo sfiatatoio servisse come mezzo di comunicazione; altrimenti, diceva, perché mai le connessioni neurali sarebbero state così vicine alla sua superficie interna? Forse, nelle scure profondità dell'oceano, i Drongheda si parlavano tra loro attraverso quegli sfiatatoi, anziché attraverso il canto, come facevano invece le balene. Gli uomini non avevano individuato nessun segnale bioacustico nei banchi di Drongheda che avevano osservato, ma ciò significava ben poco. Reginri si spinse dentro, attraverso l'arcobaleno di carne spugnosa, e si ritrovò subito immerso nell'oscurità. La luce della tuta gli si accese automaticamente. Era dentro una guaina di carne con circa due spanne di spazio libero su ciascun lato. Davanti si spalancava il canale interno, che assorbiva la luce fioca. Reginri unì le ginocchia e si spinse in su, lungo la lieve pendenza. «La squadra addetta ai dispositivi elettronici riferisce che il contatto con i fili del suo trasmettitore è buono. La comunicazione è buona?». La voce di Sasuke suonava sottile e acuta all'orecchio di Reginri. «Mi pare di sì. È dannatamente stretto, qui». «A volte è più stretto vicino all'entrata», intervenne Vanleo. «Non dovresti avere molta salita da fare: la maggior parte degli sfiatatoi sono abbastanza orizzontali, quando i Drongheda sono in posizione stabile come questo». «È proprio stretto, qui. Sarà dura, salire in su», disse Reginri, con un'ombra di esitazione nella voce. «Non preoccuparti di quello. Continua semplicemente ad andare e cerca i punti neurali». Vanleo fece una pausa. «Tira fuori i collegamenti per gli aghi di trasmissione, eh? Mi hanno appena chiamato i tecnici: vogliono
controllare la connessione». «Certo». Reginri si frugò la pancia. «Non riesco a trovarli...». «Sono là, nello stesso posto in cui erano durante l'allenamento», disse secco Sasuke. «Li tiri fuori dai loro morsetti». «Oh, sì». Reginri armeggiò un attimo e trovò i due cilindri metallici. Li tirò fuori e li unì. «Ecco». «Bene, bene, stanno controllando adesso», disse Vanleo. «Pare che sia tutto a posto». «Bene, era ora», disse Sasuke. «Muoviamoci». «Noi ora andiamo dall'altro lato. Facci sapere se vedi niente». Reginri sentì che Vanleo aveva il respiro un po' affannoso. «Come tira, questa marea. Ah, ecco l'altro sfiatatoio». I due uomini continuarono a parlare, preparando l'equipaggiamento di Vanleo. Reginri rivolse l'attenzione all'ambiente intorno a lui e procedette carponi in su, brontolando. Avanzò con calma, contro la superficie polposa. Qui e là delle grinze squamose increspavano le pareti, accavallandosi e formando delle specie di appigli. Le membrane simili a cera non riflettevano per niente la luce della sua tuta. Reginri si puntellò coi piedi e si spinse avanti, scivolando sulle macchie di liquido rosa trasparente che si raccoglievano sulla base del tunnel. Alla fine il budello si allargò leggermente, dandogli migliori possibilità di appiglio. Fece abbastanza strada e si abituò a spingersi avanti e a girare. Procedendo costeggiò un grande muscolo azzurrastro, ornato di linee arancioni. Perfino attraverso la tuta riusciva a sentire il calore pulsante che proveniva da esso. I Drongheda avevano una temperatura interna di quindici gradi centigradi più bassa di quella dell'uomo, eppure Reginri sentiva filtrare fino a sé, oltre la tuta, un caldo soffocante. Davanti a lui c'era qualcosa di nero. Allungò la mano e toccò qualcosa di gommoso che pareva ostruire lo sfiatatoio. La luce della tuta gli mostrò una barriera rosa lattiginosa. Reginri le strisciò intorno e ne toccò le estremità. Più in là, sulla sinistra, c'era un'apertura più piccola. Girò, flette le gambe e si fece strada carponi nel nuovo passaggio. Vanleo gli aveva detto che lo sfiatatoio poteva cambiare direzione e che quando lo faceva, ci si stava avvicinando probabilmente a un nesso neurale. Reginri si augurò che così fosse. VI
«Tutto bene?». La voce di Vanleo suonava lontana. «Credo di sì», ansimò Reginri. «Sono sull'orlo. Sto per entrare adesso». Si sentirono i rumori ovattati dei lavori che avvenivano dall'altra parte, e Reginri cercò di isolarsi mentalmente per non sentirli e per concentrarsi su dov'era. Le pareti, lì, brillavano come carne ricoperta di smalto. Con le dita adesso non riusciva più a penetrare in esse. Si dimenò, ancheggiando, e avanzò di qualche centimetro. Piegò il corpo, lo spinse avanti, acquistò un ritmo che lo fece rilassare. Mentre procedeva lentamente, il tessuto delle pareti diventò grossolano e lui avanzò più facilmente. Ogni due tre secondi si fermava e controllava i fili dell'intercom e dei trasmettitori che si dipanavano alle sue spalle dai rocchetti che aveva fissati ai fianchi. Sentì Sasuke borbottare fra sé, ma non riusciva a concentrarsi su altro che le pareti che lo circondavano. Il tunnel si restrinse di nuovo, e davanti a sé Reginri vide altre grinze squamose. Ma queste erano diverse, ricoperte di una polvere chiara e luccicante. Reginri sentì il cuore battere più in fretta. Si spinse avanti e allungò una mano verso una delle pieghe incrostate. Quella specie di brina brillò alla luce della lampadina della tuta. Lì la carne era come vetrosa e dentro di essa, in profondità, si scorgeva un complesso intreccio, una ragnatela di vene e arterie attraversata da fili argentei. Doveva essere un nesso; le fotografie che gli avevano mostrato presentavano un'immagine molto simile. Il nesso non era all'interno di una sacca, diversamente da quanto gli aveva detto Vanleo, ma non aveva importanza. Lo stesso Vanleo aveva osservato che i noduli non sembravano distribuiti in modo sistematico. In realtà, a quanto pareva si spostavano da una posizione all'altra, all'interno del canale, sicché una squadra che tornava a qualche giorno di distanza poteva anche non trovare i noduli coi quali la squadra precedente si era collegata. Reginri sentì una crescente eccitazione. Toccò piano col pollice i componenti elettronici che teneva fissati alla cintura. Il loro ronzio sordo gli confermò che tutto era in ordine. Urlò al microfono una breve descrizione della sua scoperta, e Vanleo gli rispose a monosillabi. Vanleo sembrava troppo impegnato con qualcos'altro, ma a sua volta Reginri era troppo assorbito dai suoi compiti per chiedersi cosa fosse. Staccò i cilindri di trasmissione e li sollevò, piantando i gomiti nelle membrane polpose che lo circondavano. Gli aghi di trasmissione brillarono lievemente quando lui li
voltò, ispezionandoli. Sembrava tutto a posto. Si spostò di qualche centimetro e trovò il punto in cui la brina sembrava più spessa. Mettendo le mani l'una contro l'altra per fare forza, conficcò prima l'uno, poi l'altro ago nella carne simile a cera. La carne si raggrinzì, attorno ad essi. Reginri parlò in fretta al microfono della tuta, chiedendo se sentivano i segnali. Qualcuno rispose di sì; il tecnico che stava fuori dietro le dune di sabbia borbottò qualcosa, poi all'intercom non si senti più niente. Lungo le linee di trasmissione fluivano i segnali. In tanti anni di esperimenti si era riusciti a stabilire, almeno così si riteneva, dei codici di riconoscimento, con i quali i tecnici intendevano comunicare ai Drongheda di essere ritornati. Adesso, se il Drongheda avesse risposto a tali segnali in codice, certi complessi impulsi elettrici sarebbero fluiti lungo i fili fino agli strumenti di registrazione sulla spiaggia. Reginri si rilassò. Aveva fatto del suo meglio. Il resto dipendeva dai tecnici, dai dispositivi elettronici, dal passaggio di informazioni tra le macchine e il Drongheda, che avveniva nel giro di microsecondi. Da qualche parte, sopra o sotto di lui, c'erano pinne, cavità, e una bocca dotata di fanoni attraverso la quale erano filtrati almeno un miliardo di pesci piccoli, che adesso facevano tutti parte di quell'immenso corpo. Da qualche parte, incuneata fra strati di grasso e fra organi immensi, c'era una mente. Reginri si chiese come si fosse formato quell'organismo. In qualche modo la natura aveva fatto evolvere quella creatura degli abissi, che adesso conosceva l'algebra, il calcolo, la metrica di Reimann, le sottigliezze di Tchevychef: tutte cose che facevano parte di lei e che rappresentavano un punto in comune col linguaggio dell'uomo. Reginri sentì un impulso improvviso. Vicino alla cintura aveva fissato l'elemento da usare in casi di emergenza, in caso i fili del trasmettitore si fossero aggrovigliati o avessero creato un corto circuito. Si spostò in modo da avere la schiena a livello del pavimento del tunnel e poi allungò la mano verso la cintura. Con una mano tenne gli aghi conficcati nella carne sopra la sua testa, e con l'altra estrasse il sottile cuneo di plastica e metallo che cercava. Da esso uscirono dei minuscoli fili. Reginri si puntellò contro le pareti del tunnel e inserì i fili nelle prese di emergenza dei cilindri di trasmissione. Tutto sembrava a posto; Reginri rotolò di nuovo sulla schiena e frugò dietro il casco alla ricerca dei fili di emergenza. Collegando i cavi, poté mettersi in diretto contatto con una piccola frazione del sistema di emissione del Drongheda. Non avrebbe interferito nel diretto processo di
trasmissione. Forse i tecnici là sulla spiaggia non si sarebbero nemmeno accorti di quanto aveva fatto. Operò il collegamento. Poco prima di accendere l'interruttore dell'intercom che adesso lo collegava al cavo di emergenza, gli parve di sentire il pavimento ondeggiare lievemente sotto di lui. La sensazione passò. Reginri accese l'interruttore. E sentì... ...Luce esplosiva che penetrava dentro di lui, modulando uno «staccato» di verde screziato... ...Linee contorte che irretivano e s'intrecciavano creando prospettive, triangoli deformati che sembravano strani inviluppi dai vertici a forma di sella, e che creavano nuove mute figure... ...Una struttura a traliccio di acuti suoni, che echeggiava ai confini di geometriche superfici piatte... ...Spessa, densa spuma che lambiva torri di pietra consunte che giravano con precisione sotto un sole arancione elissoidale... ...Luce in miniatura che gemeva e roteava dolcemente, curvandosi nell'umidità che imperlava una matrice di filo color rame... ...Una tessitura di fili viscosi, che lo sollevavano... ...Una corrente zampillante ...verso l'alto, verso la luce acquosa... Reginri afferrò il cavo e lo strappò via dalla presa. Portò le mani al casco e ansimò, boccheggiando. Chiuse gli occhi e per un lungo momento non pensò a niente, lasciò che la mente vagasse per conto suo e gli permettesse di ritirarsi in se stesso per difendersi da quell'esperienza. Aveva «sentito» la matematica, e molte altre cose. Romboidi, acute intersezioni in dimensioni nascoste, contorte sculture dalle molte facce, prospettive curve, poliedri di fuoco ardente. Ma anche tanto di più... Avrebbe potuto finire sommerso, da tutto quello che aveva provato. Attraverso gli auricolari udì i soliti rumori, come se niente fosse successo. Evidentemente gli addetti alle apparecchiature elettroniche non si erano accorti dell'intercettazione da lui fatta. Reginri respirò a fondo e strinse più forte gli aghi di trasmissione. Chiuse gli occhi e si riposò per un lungo attimo. L'esperienza lo aveva completamente sconvolto, in quel breve lasso di tempo. Ma adesso riusciva a respirare normalmente, e il cuore aveva smesso di battergli all'impazzata in petto. Il torrente d'immagini cominciò a recedere. La sua mente era stata riempita, caricata di più cose di quante
potesse capirne. Si chiese quanto di quel flusso riuscissero a cogliere i congegni elettronici. Forse, trasferendo tutte quelle cose a una fredda memoria di ferrite, la carica emotiva andava persa. Non c'era da stupirsi che l'unico elemento che l'uomo era in grado di decifrare fosse la matematica. Il calcolo, le linee e le curve, la levigata lucentezza della geometria, erano tutte astrazioni, cose che potevano essere comuni a qualsiasi mente pensante. Non c'era da stupirsi che il Drongheda trasmettesse soprattutto matematica attraverso quel passaggio neurale: era l'unica cosa che gli uomini riuscissero a seguire. Dopo un po' a Reginri venne in mente che forse era Vanleo che voleva che tutto si svolgesse in quel modo. Forse Vanleo origliava, ascoltava di nascosto i messaggi. Sì, forse ricercava quell'esperienza, che certo era di un'intensità di gran lunga superiore a quella data dalle droghe, o da quella che si poteva provare in un sensorium nel corso di una nucleo-trasmissione. Che fosse assuefatto a quell'esperienza, Vanleo? Perché altrimenti avrebbero rischiato l'insuccesso delle imprese? Che senso aveva che rifiutasse gli automatismi e che volesse per forza andare di persona lì dentro? Tanto più che il rischio d'insuccesso era grande, visto che le condizioni giuste si verificavano così di rado... Ma non aveva senso. Se Vanleo aveva le registrazioni dei messaggi dei Drongheda, poteva risentirle quando voleva. Allora... forse era affascinato dalle creature in sé, non solo dalla loro matematica. Forse ciò che amava Vanleo era assaporare il senso di sfida che andare dentro un Drongheda gli dava. Assurdo, certo... Ma forse era così che stavano le cose. VII Sentì un tremito. Gli aghi oscillarono nelle sue mani. «Ehi!», gridò. Il tunnel s'inclinò sotto di lui. «Sta succedendo qualcosa, qua! Ehi, voi...». Era a metà frase, che l'intercom si spense. Reginri automaticamente accese il pulsante d'emergenza, ma nemmeno così ricevette alcun segnale. Guardò i fili del trasmettitore. Il bagliore rosso fosforescente alle loro estremità era scomparso: l'energia non passava. Reginri si girò tutto e guardò dalla parte dei suoi piedi. I fili del trasmettitore e il cavo dell'intercom si dipanavano nell'oscurità senza rotture visibili. Se c'era una qualche incrinatura, doveva essere più in là.
Tornò a infilarsi i cilindri del trasmettitore nella tuta. Mentre lo faceva, la carne lì intorno trasudò debolmente, e lui avvertì un senso di movimento, come se il Drongheda si stesse inclinando, o si stesse girando... «Fatemi uscire!», gridò, poi si ricordò che l'intercom non funzionava. Strinse le labbra. Doveva cercare di uscire da solo. Puntellò i talloni contro il pavimento di carne e cercò di tirarsi indietro. Qualcosa di squamoso sfregò contro i suoi fianchi. Reginri si tirò indietro con più forza e riuscì a percorrere qualche centimetro. Il passaggio sembrava inclinato leggermente in giù. Tese le mani per spingersi e vide qualcosa di umido scivolargli lungo le dita. Il fluido viscoso che riempiva la base del tunnel stava gocciolando verso di lui. Reginri si tirò indietro con forza, e riuscì a puntellarsi meglio contro il pavimento polposo. Procedette con calma e avanzò abbastanza. Il tunnel cominciò a seguire una lunga linea ondulata, e le pareti intorno a lui si fecero più strette. Reginri sentì le gambe chiuse in una morsa; poi fu la volta della vita, e infine del petto e della testa. Il ritmo di restringimento era lento, ma inesorabile. Reginri si mise a respirare più in fretta, e avvertì un odore acre. Sentiva solo il rumore del proprio respiro, amplificato nel casco. Continuò a indietreggiare strisciando. Con gli scarponi colpì qualcosa, e sentì il tunnel ammorbidirsi in una curva. Si ricordava quella curva, ma gli sembrava dalla parte sbagliata. Il Drongheda probabilmente si stava muovendo e spostando, e il canale interno si era spostato con lui. Infilò i piedi nel nuovo tunnel, poi v'infilò in fretta il resto del corpo. Era più facile, lì; Reginri scivolò lungo le pareti viscide e si sentì invadere da un'ondata di sollievo. Più in là, se il tunnel si fosse allargato, sarebbe forse anche riuscito a voltarsi e a mettersi diritto, con la testa su e i piedi giù. Toccò coi piedi qualcosa che oppose una lieve resistenza. Saggiò l'oggetto con gli scarponi e a poco a poco vi si appoggiò con tutto il peso. Sembrava avere una superficie fragile, simile al vetro. Seguì attentamente i suoi contorni e saggiò le pareti del tunnel finché non si fu reso conto che non c'era alcuna apertura, in fondo. Il passaggio era bloccato. Si mise a pensare freneticamente. L'aria sembrava avere acquistato un suo peso, era densa e acre, all'interno del casco. Reginri batté sul fondo con gli scarponi, sperando di rompere ciò che ostruiva il passaggio, qualunque cosa fosse. Ma la superficie del fondo non cedette minimamente.
Si sentì annebbiare il cervello. Era intrappolato. L'intercom non dava segno di vita: probabilmente i fili erano stati tagliati da quell'affare che aveva ostruito il passaggio. Sentì di nuovo le pareti stringersi attorno a lui; era come se una mano gigantesca gli stesse spremendo via la vita. Adesso le pareti del canale interno erano a soli pochi centimetri dal suo casco. Mentre le guardava, la membrana s'increspò lievemente, e sotto la sua superficie si notarono gialli filamenti di grasso. «Fatemi uscire!». Reginri si mise a scalcare come un pazzo. Si dibatté contro le pareti viscide, usando come arma di penetrazione i gomiti e le ginocchia. Ma esse continuarono a premergli intorno, ad avvolgerlo. «Uscire! Uscire!». Reginri colpì furiosamente coi pugni la carne del Drongheda. La vista gli s'appannò. Vide puntolini neri davanti a sé, ma continuò a picchiare meccanicamente, mentre il respiro gli si fece sempre più affrettato. Invocò aiuto. Si rendeva conto di essere destinato a morire. Lasciò libero sfogo alla rabbia. Colpì ancora le lisce pareti di carne, e strinse le labbra in una smorfia, attanagliato dalla tensione. Nel casco l'aria aveva un gusto amaro. Urlò ancora e ancora, infuriando contro il Drongheda e maledicendolo. I muscoli cominciarono a fargli male. E a poco a poco la terribile tensione si sciolse. Reginri batté le palpebre, scrollandosi il sudore dagli occhi, e la vista gli si schiarì. L'esplosione cieca di rabbia si placò, e lui raccolse le idee. Sasuke. Vanleo. Due bastardi ipocriti. Avevano sempre saputo che quel lavoro era pericoloso. L'incidente sulla spiaggia era indicativo. Quando lui aveva mostrato dei dubbi, loro lo avevano immediatamente trattato male e minacciato. Avevano probabilmente già dovuto fare una cosa del genere in passato, con altri uomini. Era tutto pianificato. Tirò un lungo respiro lento e guardò in su. Sopra di lui, nel tunnel buio, ciondolavano i fili delle linee di trasmissione e il cavo dell'intercom. Un insieme di fili penzolanti. Seguivano una linea in pendenza che andava in su, dalla parte da cui lui era venuto. Gli ci volle un secondo per realizzare la cosa. Se tornando indietro avesse imboccato la stessa strada dell'andata, i fili avrebbero dovuto trovarsi dietro di lui... Si appoggiò alle pareti vitree e si guardò i piedi. Non c'erano fili di trasmissione vicino alle sue gambe. Ciò significava che i fili non venivano dal posto che aveva trovato o-
struito. No, venivano solo da lì, dall'alto. Il che significava che aveva imboccato un corridoio laterale sbagliato. Per qualche motivo si era aperto un altro tunnel nel fianco del canale interno, e lui l'aveva seguito alla cieca. Chiamò a raccolta le proprie forze e si spinse in su, lottando per trovare un appiglio. S'infilò su per il pendio, conficcando i piedi nella carne del Drongheda, che s'increspò di nuovo. La gravità lo spingeva in giù, ma lui riuscì lo stesso, lentamente, a procedere. Il sudore gli faceva male agli occhi. Dopo qualche minuto sentì con le mani l'orlo di un'apertura e si tirò su in fretta, sbucando nel tunnel orizzontale che stava sopra quello. Trovò un groviglio di fili e li tirò. Offrirono lieve resistenza. Era quella la via giusta per uscire, ne era certo. Cominciò a procedere carponi, e d'un tratto l'ambiente intorno a lui s'inclinò, si tese, lo sollevò in alto per poi lasciarlo ricadere giù. Reginri andò a sbattere contro una parete; per un attimo gli mancò il respiro. Il tunnel si contrasse ancora, alzandosi davanti a lui e inclinandosi dietro. Reginri conficcò le mani nella carne e resistette. Il canale interno s'inarcò formando una spirale, e lo compresse. Reginri si sentì la testa premuta dalla carne spugnosa, e involontariamente trattenne il respiro. La visiera del casco era tutta avvolta nella carne, e il mondo gli apparve come un tessuto color porpora percorso da vene sottili e screziato di filamenti di grasso. A poco a poco, molto gradualmente, la pressione s'allentò. Reginri sentì un dolore acuto al fianco. Sotto di lui c'era un lieve fremito. Appena ebbe lo spazio per muoversi, strisciò avanti in fretta, calciando come un pazzo. I fili gli indicavano che la strada era avanti. Il passaggio a un certo punto si allargò, e Reginri aumentò la velocità. Continuò a ritmo costante a farsi strada con le mani, coi gomiti, con le ginocchia e coi piedi. Le pareti attorno a lui sembravano concentrate su un'unica cosa: espellerlo. Così almeno pareva, perché esse si stringevano dietro di lui e gli si aprivano davanti. Reginri provò ancora il microfono del casco, ma esso continuava a non dare segni di vita. Gli parve di riconoscere un grosso muscolo azzurrastro, gonfio, che gli sembrava fosse su una parete quando era entrato. Adesso formava una specie di bernoccolo sul pavimento. Passò sopra la sua superficie scivolosa e proseguì. Era così intento a farsi strada che non riconobbe lo sfiatatoio d'uscita.
D'un tratto le pareti si strinsero di nuovo e lui si guardò intorno freneticamente alla ricerca di un'altra uscita. Non ce n'erano. Poi notò gli anelli di cartilagine e di muscoli fibrosi. Si spinse contro quella superficie nodosa, che cedette e poi si rilasciò ancora di più. Reginri si spinse avanti e di colpo si trovò con metà corpo fuori, sospeso sopra l'acqua ribollente. VIII La corona purpurea dello sfiatatoio lo strinse lievemente intorno alla vita. Ansimando, Reginri si fermò a riposare. Guardò con gli occhi socchiusi il sole clemente. Intorno a lui c'era un mondo illuminato e silenzioso, pieno di movimento. Le correnti turbinavano vari metri sotto di lui. Sentì l'immensa mole del Drongheda spostarsi lentamente. Si girò a guardare... Il Drongheda si stava spaccando in due! Ma no, no... Si trattava di un altro Drongheda che si stava muovendo vicino al suo. In quello stesso momento Reginri vide qualcos'altro in movimento. Sotto di lui, Vanleo lottava per tenersi in equilibrio in mezzo all'acqua sempre più scura, e gli faceva segno. Reginri tirò fuori il resto del corpo e si mise in piedi sull'orlo dello sfiatatoio. Si afferrò ad esso e si calò giù verso l'acqua. Quando ebbe le braccia completamente tese, si lasciò andare e cadde nell'oceano sollevando una corona di spruzzi. Ritrovò l'equilibrio e barcollò goffamente sulle gambe, che gli facevano giacomo giacomo. Vanleo gli allungò una mano per aiutarlo, e indicò il di dietro del casco. Reginri aggrottò la fronte, perplesso, poi capì che indicava il cavo di emergenza dell'intercom. Dipanò il proprio cavo e lo infilò nella presa che c'era nella tuta di Vanleo, all'altezza della spalla. «...dannatamente fortunato. Non credevo che ti avrei rivisto. Ma è fantastico, vieni a vedere». «Cosa?». «Li capisco, adesso. So perché sono qui. Non solo per comunicare, non credo, benché anche quello faccia parte della cosa. Hanno...». «La smetta di cianciare. Cos'è successo?». «Sono andato dentro» disse Vanleo, riprendendo fiato. «O meglio, stavo per entrare dentro. Non avevamo notato che c'era un altro Drongheda che si muoveva qui intorno».
«L'ho visto. Non ho pensato...». «Ero già salito fino al secondo sfiatatoio prima di vederlo. Ero indaffarato coi cavi, sai. Tu stavi ottenendo buoni risultati e io volevo...». «Venga, andiamo via». Le immense moli sopra di loro si stavano muovendo. «No, no, vieni a vedere. Credo che la mia ipotesi sia giusta, questa secca è una protezione naturale per loro. Se per caso hanno dei nemici in mare, tipo pesci grossi o cose del genere, questi nemici non possono seguirli qui nell'acqua bassa. Così loro vengono qui per accoppiarsi e comunicare. Devono sentirsi terribilmente soli, se non possono parlarsi quando sono nell'oceano. Così devono venire qui per farlo. Io...». Reginri studiò Vanleo e si accorse che era sovreccitato, entusiasta. Quel dannato scemo amava quelle bestie, le aveva a cuore, aveva dedicato la vita intera ad esse. «Dov'è Sasuke?». «...ed è tutto così naturale. Voglio dire, gli esseri umani comunicano e fanno l'amore, e si tratta di due atti separati, che non si mischiano insieme. Ma i Drongheda uniscono le due cose. Sono come, come...». Vanleo afferrò Reginri per le spalle e lo fece girare intorno alla lunga superficie curva dei Drongheda, immense montagne brunastre che si levavano dal mare ormai in ombra. Zeta stava tramontando, e di profilo Reginri scorse un lungo, agile tentacolo che sferzava l'aria, mezzo raggomitolato. Veniva da una delle macchie screziate, simili a lividi, che lui aveva già notato in precedenza. «Comunicano attraverso quei punti, vedi. Quelli sono i loro sensori, ciò che usano per completare il contatto. E, non posso provarlo, ma ne sono sicuro, quando comunicano il materiale genetico viene passato tra loro. Il periodo dell'accoppiamento coincide con quello dello scambio d'informazioni. Ecco cosa ci comunicano i trasmettitori: il sapere che i Drongheda hanno immagazzinato e che si scambiano in questo periodo. Evidentemente ci hanno creduti appartenenti alla loro razza. Non capisco bene tutta la faccenda, ma...». «Dov'è Sasuke?». «...ma il primo, quello dentro cui eri tu, ha notato la differenza appena gli si è avvicinato il secondo Drongheda. Si sono mossi insieme e il secondo ha tirato fuori quel tentacolo». Reginri scosse Vanleo brutalmente. «Chiuda il becco! Sasuke...». Vanleo s'interruppe, stupefatto, e guardò Reginri. «Te l'ho detto. È una
grande scoperta, il primo vero passo avanti che abbiamo fatto in questo campo. Capiremo tanto di più quando lo avremo esplorato interamente». Reginri lo colpì in una spalla. Vanleo barcollò, e lo sguardo vitreo e tirato gli scomparve dagli occhi. Cominciò ad alzare piano le braccia. Reginri gli colpì col pugno guantato la visiera. L'altro barcollò indietro, e fu inghiottito dall'oceano. Reginri fece un passo indietro. Vanleo riaffiorò e cercò di tirarsi su. Un'onda lo ricoprì di spuma; lui inciampò, si girò, vide Reginri. Reginri gli si fece incontro. «No, no» fece Vanleo, in un sussurro. «Se non mi dice...». «Te lo dico, te lo dico». Vanleo boccheggiò, si chinò in avanti e poggiò le mani sulle ginocchia. «Non c'era tempo. Il secondo è affiorato così, così in fretta...». «Sì?». «Ero quasi pronto a entrare. Quando ho visto arrivare il secondo, sai, l'unica volta che succedeva una cosa del genere in trent'anni, ho capito che era importante. Sono sceso a osservare. Ma avevamo bisogno dei dati, e allora Sasuke è andato dentro al posto mio. Con i cavi del trasmettitore». Vanleo ansimò. Aveva il viso cinereo. «Quando il tentacolo è entrato dentro, ha riempito il canale interno esattamente, di stretta misura. Non rimaneva altro spazio» disse. «Sasuke... era lì. Dentro». Reginri rimase di sale. Un'onda lo avvolse e lui scivolò. L'acqua lo fece cadere all'indietro. Stordito, si rimise in piedi sul fondo sdrucciolevole e s'incamminò barcollando alla cieca verso la desolata riva, verso gli altri uomini. L'oceano continuò a lambirlo, incessante. IX Belej sedeva immobile, senza curarsi del freddo. «Oh, mio Dio» disse. «Così fu» mormorò Reginri. Guardò verso il canyon. Zeta Reticuli mandava raggi obliqui che si posavano sulla nebbia sempre più fitta e più rossa. «È pazzo» disse semplicemente Belej. «Quel Leo è pazzo». «Be'...» cominciò Reginri. Poi si diede una spinta in avanti e si alzò. I vortici di nebbia rossastra che strisciavano lungo le pareti del canyon stavano avvicinandosi sempre più a loro. Reginri li indicò. «Quella roba sta
avanzando più in fretta di quanto pensassi». Tossì. «Sarà meglio che andiamo dentro». Belej annuì e si alzò. Si tolse l'erba scura che le si era incollata alle gambe. «Adesso che mi hai raccontato tutto» disse sottovoce, «penso che dovresti cercare solo di dimenticare». «È difficile. Io...». «Lo so. Lo so. Ma puoi allontanare completamente dalla tua mente quell'episodio, dimenticare che sia successo». «Mmm, forse». «Credimi. Sei cambiato da quando ti è capitata quella cosa. Lo sento». «Senti cosa?». «Sento che tu sei diverso. Sento una barriera tra noi». «Mah» fece lui. Belej gli mise una mano sul braccio e gli si avvicinò; un gesto familiare che aveva fatto tante volte. Lui continuò a guardare la nebbia rossastra che stava offuscando i contorni netti delle rocce, sotto. «Voglio che la barriera fra noi scompaia. Tu hai dato il tuo contributo, e ti sei guadagnato la paga. Quella dannata gente adesso capisce i Drongheda...». Lui fece una risata stridula e ironica. «Non capiremo mai i Drongheda. Ciò che sappiamo da quei circuiti neurali non è che il riflesso di ciò che vogliamo sapere. O di ciò che siamo. Non possiamo capire qualcosa di totalmente alieno». «Ma...». «Venleo ci ha visto la matematica perché cercava quella. Così ho fatto anch'io, all'inizio. Poi...». S'interruppe. Un vento improvviso lo fece rabbrividire. Strinse i pugni. Come poteva dirglielo? Si svegliava di notte, sudato e tutto avviluppato nelle coperte, e mormorava frasi incoerenti... Ma non erano incubi, non esattamente. Qualcos'altro. Una sorta di via di mezzo. «Dimentica quell'episodio» disse Belej con dolcezza. Reginri si strinse di più a lei e sentì il suo profumo, l'asciutta fragranza dei suoi capelli. Lei lo guardò con la fronte aggrottata. Gli guardò prima la bocca, poi gli occhi, poi ancora la bocca, cercando attentamente di decifrare la sua espressione. «Ti farà solo male continuare a pensare alla cosa. Mi... mi dispiace di averti chiesto di raccontarmela. Ma ricordati...» e qui gli prese le
mani fra le proprie, «non devi mai più tornare laggiù. Può essere...». Qualcosa lo indusse a guardare, di là da lei, la nebbia sempre più fitta. E d'un tratto Reginri capì l'abisso che si apriva sotto di lui, ammantato di nebbia. L'abisso che lo sospingeva, che lo ammassava in... ...una fitta spuma rossa che lambiva consunte torri di granito... ...un sole elissoidale che girava silenzioso sopra un curvo pianeta inargentato... ...luce acquosa... ...Fili, fili viscosi, tanti fino alla nausea, una matrice color rame, delicata, che lo avviluppava, calda... ...brillante splendore di poliedri incastrati gli uni negli altri, massa su massa... ...nastri levigati di umidore che giocavano lievi sulla sua carne imbottita... ...una luce abbagliante che splendeva attraverso la carne, e metteva le ossa in ronzante risonanza... ...premendo... ...avvolgendo in spire... Invitando. Chiamando. Quando quell'attimo fu passato, Reginri batté le palpebre e sentì un forte bruciore agli occhi. Ogni giorno il richiamo era più forte, le immagini incandescenti più nette. Doveva essere quello che provava Vanleo, ne era certo. Adesso le immagini gli giungevano anche durante il giorno. Più e più volte, e la loro struttura si faceva col tempo più definita... Reginri allungò un braccio e circondò le spalle di Belej. «Ma devo» disse con un sussurro rauco. «Vanleo ha chiamato oggi. Ha... Vado. Torno là». La sentì sussultare, poi irrigidirsi fra le sue braccia. La sua attenzione fu attratta dalla nebbia sempre più rossa. Aveva avvolto metà mondo, e tuttavia continuava ad avanzare. C'era qualcosa di sinistro in essa, e anche qualcosa d'invitante. Reginri la osservò inghiottire gli alberi nelle vicinanze. La studiò attentamente, valutandone la distanza. Quella presenza incombente era assai vicina, ora. Ma lui era sicuro che sarebbe andato tutto bene. FINE