IAN WATSON IL PIANETA DI DIO (God's World, 1979) Tutta la storia è una caduta del sacro, una limitazione e una diminuzio...
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IAN WATSON IL PIANETA DI DIO (God's World, 1979) Tutta la storia è una caduta del sacro, una limitazione e una diminuzione. Ma il sacro non cessa di manifestarsi e con ogni nuova manifestazione riafferma la sua tendenza originale a rivelarsi pienamente. E d'altro canto vero che le innumerevoli manifestazioni del sacro nella coscienza religiosa del sacro di una società o l'altra ripete le innumerevoli manifestazioni del sacro che quelle cosietà conobbero nel corso del lor passato, della loro «storia». Ma è ugualmente vero che questa storia non paralizza la spontaneità delle ierofanie; in qualsiasi momento è possibile una rivelazione più piena del sacro MIRCEA ELIADE Lo sciamanismo parte prima nello spazio superiore UNO Io e Peter scopriamo l'oblò, questa volta, mentre facciamo l'amore. Con le luci della cabina spente, galleggiando nella fievole luce crepuscolare, ci tocchiamo e ci baciamo. Fuori si stende lo Spazio Superiore: un mare granuloso e screziato di mezza luce tremula e incoerente. Caleidoscopiche volute più brillanti nascono per noi, per poi tornare a morire in quel mare crepuscolare, come se fossero le immagini prismatiche e distorte di reali stelle palpitanti fuori, negli spazi siderei. Ma non sono fantasmi di stelle. Gli strumenti della nave non sono in grado di tradurli in rappresentazioni corrispondenti a stelle. A volte sembrano spettrali immagini della nostra stessa nave, risonanze di probabilità che tentano di risucchiarci in basso, nello spazio normale. O forse sono semplicemente il prodotto degli atomi che si staccano dallo scafo, particelle che si disperdono attraversando il limite del campo dello Spazio Superiore, diventando montagne di massa virtuale nella nostra scia prima di reimmergersi nel normale idrogeno interstellare. «Così lontani dalla Terra, noi due, e così vicini», mormora Peter, facendo fusa regali. Le efelidi gli punteggiano la parte superiore del corpo (se-
guo il loro chiaroscuro con la punta delle dita aperte) come se la natura non fosse riuscita a decidere se quella parte avesse dovuto essere bianca o ambrata. Nel vago chiarore dello Spazio Superiore tutte le efelidi tendono a fondersi, mentre le gambe, che ne sono prive, sembrano ingrandite, più tarchiate e piene di quanto non siano in realtà. Peter è piuttosto basso e sottile. Con una testa di riccioli rossi, un rosso riccioluto. «Eppure, quanto siamo lontani, Amy? Possiamo misurare molto più facilmente quanto siamo vicini noi due. Così, ecco, così...». I nostri preliminari di lingue e unghie e punte delle dita, in caduta libera, ci spingono dolcemente in basso, sulla cuccetta pronta. O meglio, qui succede che siamo noi a scegliere di spingerci in basso. Perché nello Spazio Superiore entra in gioco una sorta di strana semigravità soggettiva. Come siamo attratti l'uno all'altra da un intenso desiderio, così raccogliamo dentro di noi una forza di gravità locale. Ci spinge e ci tiene l'uno contro l'altra come se stessimo per fonderci, per inclinazione e per legge naturale. Solo sentimenti estremi scatenano l'effetto... e il suo opposto, se il sentimento è odio o ira: una reale repulsione, un respingersi. Così, i cavi della cuccetta si sollevano verso di noi, come una trappola indiana, mentre affondiamo. Peter si afferra e strattona impaziente. Raggiungeremo mai la nostra meta? Il tempo si allunga, ora, prendendosi gioco di noi. Finalmente i cavi ci si attorcigliano attorno, dolcemente. Ci schiacciamo nella cuccetta, ci stringiamo. Così, lui scivola dentro di me: lenta danza di tessuti gonfi, muscolo rovente, nervi ardenti, glissade douce. Ne siamo ricolmi. La nostra gioia ci racchiude lentamente insieme, come elastici fasci gemelli di fibre nervose che sembrano non raggiungere mai il punto di rottura. Il nostro è un amore da lumache: la lenta, mutua unione dei molluschi. In questo mondo cedevole ci muoviamo solo con le sinuosità dei muscoli, lumache entrambi, il dardo del suo amore rifugiato sotto la mia cappa. L'atto d'amore delle lumache è meraviglioso. All'esterno, nello Spazio Superiore, le volute fioriscono e si dissolvono nell'informe modalità della pre-Creazione: impronte digitali del passaggio della nostra nave, forse. Intanto, le punte delle mie dita premono la carne di Peter, e le sue la mia. I nostri orgasmi accoppiati, più tardi, espandono la semi-gravità in una lenta onda d'urto percepibile in tutta la nave, solleticando per qualche tempo con sensazioni vicarie - lo sappiamo bene! - il resto dell'equipaggio. Forse più tardi ci saranno sorrisi di complicità, forse una smorfia del fred-
do Jacobik che non si merita di essere chiamato con il nome di battesimo. (Come si può dire che è stato anche lui prodotto di un atto d'amore?). Gli altri riescono a percepire che eravamo noi, invece di René e Zoe, per dire; c'è la nostra firma, il nostro sentore nel ritmo gravitazionale... Oh, siamo tutti molto vicini in questo viaggio. Quando alla fine ci allontaniamo l'uno dall'altra, di nuovo in caduta libera - nello spazio della detumescenza - Peter ricopre l'oblò mentre io illumino di una luce morbida la cabina, posizionando le lampade a metà forza. Malgrado i limiti di spazio imposti dall'elissoide del campo dello Spazio Superiore, questo è un luogo privato. Lo spazio privato ci difende dalle soggettività conflittuali dello Spazio Superiore, e mi fa ancora domandare, da buona prossimista culturale: qual è l'irriducibile distanza fra le persone? Quali forze inconsce resistono ancora all'uguagliamento di tutta l'umanità? Una parete delia mia cabina è decorata con un foto-collage di quegli eventi straordinari le cui origini stiamo volando a scoprire: le trasmissioni del Pianeta di Dio, quelle momentanee apparizioni di angeli e avatar, venute alla luce per poi distaccarsene nuovamente. Queste sono le fotografie: reali istantanee dei messaggeri di Dio. Medito. Si può fissare su una pellicola un'illusione? Un'illusione durevole, solida? Quanto solido e durevole dev'essere un evento per venire classificato reale invece che immaginario? Questi angeli e avatar oscillavano precariamente fra queste due categorie, ma non il carro che hanno portato per noi; quello resta, in poppa. Peter batte le mani. Eccomi qui a fantasticare davanti alle mie fotografie! È così facile perdere cognizione del tempo, dove il tempo lo costruiamo noi. Da quanto tempo siamo en route? Da sempre, e da mai. Gli orologi continuano a funzionare, eppure sono soltanto giocattoli ad orologeria. Il tempo reale dipende dalla nostra attenzione. Comunque un mutuo consenso esiste ancora, pressappoco: la media di tutte le nostre abitudini. In questo stesso scafo d'acciaio, ci sforziamo di coesistere. Peter mi lancia una palla di vestiti perché la afferri, la mia tuta blu si svolge lentamente in aria, braccia e gambe si gonfiano, offrendomi una parte del nome riprodotto, perché non dimentichi: AMY. Gli slip si staccano e galleggiano: una farfalla bianca. Ci vestiamo acrobaticamente. Infilando gli scarponi magnetici, ci attacchiamo con un dolce rumore al pavimento. Ora AMY DOVE si trova di fronte a PETER MUIR, non più lumache amanti ma due membri dell'equipaggio della prima astronave della Terra, che è della Terra solo nelle sue infrastrutture. Io, sono psicosociologa. E lui? Chiamiamolo para-storico:
cronista non del tempo profano ma del tempo sacro, di eventi che occorrono fuori della storia, nella fede, nella leggenda, nei riti sciamanici; cartografo dell'«Altro». La prima volta che ci siamo incontrati, è stato subito ovvio che lui era il rovescio della mia medaglia, ed io della sua. Perché io ho esplorato lo spazio che ci permette ancora di essere «altri» l'uno rispetto all'altro, in un mondo sempre più omogeneizzato, e il mio fondamentale impulso dev'essere stato sempre quello di ricercare la terra incognita che lui stava inseguendo, nella sua forma fossile, sul piano sacrale: per mezzo dell'idea di una qualche perduta Età dell'Oro di una comunicazione diretta con il cielo, con l'aldilà, della quale avevamo tutti perduto la chiave. E che ora ci è stata restituita in modo così improvviso e allarmante... «Se davvero ami qualcuno», gli suggerisco. «Qualsiasi bimbo che si fa insieme non è «tuo-e-mio» o «tuo-o-mio». No, è una fusione. È l'impossibile fusione che non si può realmente raggiungere da soli, per conto nostro». Una terza faccia della medaglia dell'«altro»: l'unità degli amanti? Sorride con malizia. «Non ce la caviamo poi così male». «Noi non siamo uno, comunque. Il nostro bimbo sarebbe quell'uno. Io credo che sia questo il motivo per cui la gente fa figli, in realtà. Per essere fusi per sempre, anche se non possono farne l'esperienza direttamente. Quando torneremo...». «Quando?» La parola lo sconcerta; deve richiamarne il senso. «Quel bimbo sarebbe la somma di noi due: la somma della nostra relazione, no? Eppure, lui o lei sarebbe qualcun altro, del tutto separato da noi... una pura relazione!». Emette un gemito per il gioco di parole, che è lo ammetto - parecchio ridicolo, ed anche involontario. Parole! Così definite e certe da un lato, eppure dall'altro così confuse, dissolte in altre parole, perfino nei loro stessi opposti. Con queste parole noi cerchiamo di esprimere tutte le connessioni e le sconnessioni del mondo. Forse le parole devono essere così o non riusciremmo a vedere nessuna connessione o, alternativamente, saremmo lasciati alla deriva in un pozzo di coscienza dove tutto si fonde indistinto. In realtà, siamo sospesi fra la totale connessione e la totale sconnessione. Percorro alcuni passi sul pavimento per baciare Peter. Connessione. «Come sarà, Amy, il bimbo? O la bimba! Una fusione perfetta dovrebbe essere un ermafrodita, no?» Ridacchiando, si lecca le labbra, assaporando il mio amore. «È meglio nel Tempo Superiore, vero? Cioè, fare all'amore. Siamo così vicini alla fusione di Io e Te... E poi la bomba a fusione scoppia, facendo il solletico a tutti quanti, su e giù per la nave! E così, voliamo
lontani di nuovo». «Per favore, non scherzare su quelle cose». Sono offesa. Forse non trasporteremo bombe a fusione, ma è vero che abbiamo la nostra faretra di missili termonucleari, dieci frecce intinte in cinque chilotoni l'una. Per me, è un abominio. Eppure gli avatar hanno parlato di una guerra nei Cieli... «Non volevo dire quelli, amore. Non ci pensavo». «No, ma Jacobik sì, ogni momento». Come sarà quel nostro bambino? La ruota della roulette genetica dovrebbe fare un giro fortunato, per riuscire a mettere insieme quel piccolo rosso lentigginoso di Peter con le mie membra più ampie e più esuberanti (io sono più alta di quasi una testa, del mio amore; anche se i miei seni sono piuttosto piccoli, veramente, due piccoli coni); e i miei lunghi riccioli neri come il giaietto (taglio alla monaca per l'assenza di gravità, purtroppo), e i miei occhi scuri screziati di verde, la mia pelle ramata: c'è dell'irlandese in me, e del bengalese... e sono sempre, naturalmente, un po' innamorata di me stessa, dopo l'amore... «Ho fame. Andiamo a ordinare un pasto. Guarderemo gli altri che ci sorridono, se c'è qualcuno in giro. Facciamo una gara?» Correre con gli scarponi leggermente magnetizzati è un ridicolo ed esagerato camminare veloce, con gomiti che pompano e piedi che si piantano velocemente piatti; si deve star attenti a non lasciare il pavimento. Potremmo galleggiare, potremmo volare; ma così è più buffo, il nostro gioco privato. Perciò: clik, clik, clik, corriamo con indolenza stilizzata lungo il corridoio, oltre porte chiuse. La semi-gravità ci solletica una volta, sbilanciandoci. René e Zoe? Sì! Lo sappiamo, lo sappiamo. La loro firma è nel ritmo. Oggi (che significa «oggi»?) i nostri accoppiamenti si sono accoppiati, quasi. Forse noi li abbiamo ispirati. Ci facciamo l'occhietto, ridacchiamo. Cospiratori. DUE Sul lungo tavolo di mogano c'era un registratore a nastro, le bobine giravano lentamente. Dietro l'ampio specchio della cornice dorata, sulla parete, c'era forse una videocamera che mi stava filmando; forse c'era una squadra di psicologi invisibile che osservava ogni mio gesto, ogni tic. La mia sedia dondolava leggermente ed era sistemata troppo lontana nella sala enorme, isolandomi; comunque sedevo composta, concentrandomi invece sulle mi-
nute interazioni delle nazioni collaboranti, riunite dal mistero e dalla minaccia delle visioni del Pianeta di Dio. Attraverso le alte finestre pesantemente drappeggiate, sull'altro lato della Rue de Rivoli, gli alberi nei giardini delle Tuileries erano ancora spogli. Un insistente freddo rovescio proveniva da nord; una derelitta camionette elettrica, con una veranda a righe rosse aperta, stava tentando di vendere crepes calde ai passanti. Piccioni pezzati becchettavano e le sgambettavano accanto. Scossi il capo, soltanto una volta, per scostarmi i riccioli dal viso, per indicare una minima impazienza alle domande, superata da un'amichevole tolleranza nei confronti degli interroganti, conscia che il rituale era necessario. «La scienza della prossimità», dissi ai miei interroganti multinazionali. «È lo studio di quanto le persone si avvicinano fra loro... quanto riescono ad avvicinarsi, psicologicamente. La scienza della prossimità culturale è di più; è lo studio di quanto riescono a convergere le culture umane in un mondo altamente integrato e omogeneo. O se esiste un irriducibile nucleo di diversità culturale. Una società funziona come le stelle», sorrisi, offrendo loro un frammento di astrofisica che avevo pronto per l'occasione. (Dopotutto stavamo parlando di partire per le stelle). «La spinta alla diversità - al posto della quale potete leggere la spinta della radiazione - equilibra l'attrazione convergente dell'enorme massa solare. Dove le due forze si equilibrano, si ha un sole vitale. Dove la diversità vince, si hanno esplosioni, novae, un frantumarsi. Dove vince la convergenza, si produce quel crollo interiore su se stessi del sole a neutroni. Ogni atomo viene spogliato della sua differenza da tutti gli altri. Ogni irregolarità viene cancellata. Peggio, si può produrre il buco nero dal quale nulla mai emergerà. L'umanità forse si sta dirigendo verso quella via, culturalmente. Anche se, naturalmente, il crollo su se stessi - la sua sola densità può provocare a sua volta un'esplosione, uno scoppio su un piano diverso di energia: una nuova esplosione di fusione nel nucleo. Forse le emissioni del Pianeta di Dio dovrebbero essere viste in questa luce, come una sorta di nuova insorgenza del pensiero mitico, un'insorgenza dell'«Altro» (Mi infastidì quel «una sorta di»). «Credo sia un punto di vista utile...». «Ma oggettivamente esiste una macchina, Dottoressa Dove», insisté l'intervistatore cinese. «Qui è stata trasmessa una vera strumentazione aliena». «Alla quale noi dobbiamo partecipare con le nostre... anime, per far sì che ci porti in qualche luogo. Perché ora, in questo punto nel tempo? Questa è la domanda che vi pongo». Certo, passa a loro il testimone!
Nello Spazio Superiore, dove il tempo ha termine, per rinascere soltanto quando raggiungeremo la nostra destinazione, ricordo quel mondo dove la storia era diventata troppo per noi. Ogni momento era diventato storia istantanea, una questione di dati registrati e ordinati e sistemati non appena accadevano. Il futuro prevedibile consisteva solo delle estrapolazioni da questa massa di dati... preannunciando la morte della nostra cultura? La cultura aveva cessato di ricrearsi ad ogni momento. Ora si accontentava di accumularsi (proprio come si accumulava la massa dell'umanità!), e non c'erano in vista culture alternative. Io sono distante da quel mondo ora, e lo osservo dalla parte sbagliata di un telescopio, e lo vedo allontanarsi e rimpicciolire. In ogni caso, quel mondo è già passato. L'«Altro» era ritornato vendicativo, erompendo da altrove. Fu un'emergenza che salutai con tanta gioia quanta timorosa sorpresa... «Naturalmente la mia formazione ha influenzato questa linea di pensiero!» (Una formazione che era tutta documentata. Ma capivo io la mia stessa formazione? Questo era quello che dovevo vendere loro... o, nel caso dell'intervistatore cinese, fornire una seduta di autocritica a questo riguardo...). «Uno dei miei nonni era bengalese, un Hindu emigrato a Londra. Sposò una ragazza irlandese che abbandonò la sua fede. I miei altri due nonni erano finlandesi e brasiliani; lui era un ingegnere e lei era una spiritualista seguace di Kardec. Erano persone dolci. Vivevamo tutti - tre generazioni in questa casa enorme. Una comune familiare. I nonni usavano inventarsi storie ibride per divertire noi bambini: Krishna e i leprecauni, pensate! Dopo un po', questo cominciò a preoccuparmi. Sembrava che stessero gettando via qualcosa di prezioso - i totem della tribù - per degli aneddoti, perché potessimo vivere tutti insieme tranquillamente. Sembrava così riccamente costruito e, sì, aggiornato, in superficie, ma mi fermai a chiedermi a quanta parte di sé stessero rinunciando per adattare la situazione. Tutti davano così tanto alla fonte comune. «Bene, se riempi una vasca d'acqua, e la lasci così per qualche giorno, sembra del tutto calma, ma non è calma per nulla. Le correnti originali sono ancora lì per giorni, anche se tu non riesci a vederle. «Cominciai a pensare, se si mettono insieme delle persone in modo che non abbiano altra scelta che di mescolarsi... in una vasca di nove miliardi, capite? È per questo che ho intrapreso questi studi. E a me sembrava pure che l'umanità debba aver avuto un primitivo senso di identificazione con
altri e con la natura, tanto tempo fa, una specie di anima collettiva invece di individualità separate. La civiltà cominciò soltanto quando si produsse la differenziazione: un senso di diversità, di esistenza dell'«Altro». «Guerre e odi procedettero da questo, ma anche la possibilità di interfertilizzazione. Questo è quello che dà forza alla civiltà. Ma la nostra storia sta diventando stazionaria e bloccata. La nostra cultura è di nuovo tutta unita, e tutta sola a causa di ciò. Può essere che questi avatar dal Pianeta di Dio siano sintomi di un nuovo moto di diversità: di un ripercuotersi, dell'«Altro» che compare di nuovo, psicologicamente? Dove si può trovare questo «Altro», al giorno d'oggi? Soltanto là fuori, fra le stelle! Non avete bisogno in realtà di mandare un antropologo specialista in alieni, non che esista una persona del genere! Voi avete bisogno di qualcuno che percepisca queste correnti, percepisca come si possano manipolare e gestire». «Bella pubblicità». Un certo Generale Patrick Sutton arricciò le labbra. «Queste forze sono estremamente distruttive. Destabilizzanti, hhmm? Tutti i gruppi religiosi rivendicano gli avatar come loro proprie rivelazioni personali; desiderabile, vero?» «Lei parla come se questo fosse semplicemente un evento psicologico», ripeté insistente Chen Yi-piao. «Lei crede che abbiamo portato alla luce la propulsione nello Spazio Superiore con l'immaginazione collettiva? Perché mai lei dovrebbe essere considerata adatta al viaggio verso una stella lontana, se fosse soltanto per studiare l'irrazionale nella razza umana?» «Perché P«Altro» esiste, là fuori. Deve esserci. Si sta tendendo a toccare il vuoto dove l'«Altro», una volta, era in noi. Lo riempie. Si riversa in quel bacino vuoto. Dev'essere così che siamo stati in grado di percepire questi messaggi: a causa del nostro bisogno di loro! Il Pianeta di Dio - qualsiasi cosa sia - è penetrato nel contesto subconscio dell'uomo. È un contesto perduto. Ed ora reintegra bruscamente quel contesto in un mondo che non ha posto per esso, nessuna struttura sociale adatta ad esso. Di colpo diventa oggettivo: nella forma di apparizioni tangibili. Il trascendentale è tornato nelle nostre vite. Il mistero, l'alienità, il numinoso, Dio. Questa è la forma che assume questa «Alterità» quando scorre, ora. I simboli disusati sono ancora latenti in noi». Un certo Andre Navarre scribacchiò un appunto e lo fece passare per la fila di visi... La pioggia batteva lungo la Rue de Rivoli. Citroen e Peugeot elettriche passavano silenziose, i tergicristalli eseguivano interrotti movimenti armonici, portando cittadini le cui vite tutte erano state interrotte, alcuni dei
quali terribilmente spaventati, confrontati nel loro mito borghese dagli avatar di Cristo, Maometto, Buddha. Solidi uomini della civiltà, manager, venivano manipolati da qualcosa fuori dal loro controllo, che non poteva essere addomesticato nei comodi e corretti rituali fittizi, mentre la vita del mondo reale continuava senza alcuna rivelazione; erano stati toccati da qualcosa dall'esterno, che manipolava la coscienza religiosa. Un camioncino s'intromise con i suoi slogan dipinti in rosso sui íianchi. «Bouleversez le Monde!» «La guerre des anges aura lieu!» «Capovolgete il mondo.» «La guerra degli angeli è iniziata». I guidatori schiacciarono il clacson irritati; avrebbero desiderato investire il camioncino. Qui a Parigi ci si sarebbe dovuti sentire al sicuro! Le emissioni del Pianeta di Dio non erano visibili a nord del 44esimo parallelo. Forse quella era una ragione per cui questa riunione aveva luogo a Parigi. Si poteva evitare che qualcosa orecchiasse. Dio, in una parola: deus absconditus, che aveva ricontattato l'umanità da una stella aliena... TRE Il capitano K indice un'altra riunione, convocando tutti personalmente per interfono. (È vano limitarsi a convocare una riunione con un ordine scritto, in questa personale esistenza priva di tempo). K sta per Kamasarin, Grigory Arkadievitch. Mezzo russo e mezzo mongolo, e Generale del Corpo dei Cosmonauti dell'URSS, - anche se qui si atteggia a semplice Capitano - con anni di ricerca in parapsicologia militare e astronautica, è un «sensitivo». Di conseguenza tiene un piede fisso in ognuno dei due campi nei quali si divide la nave: i razionali e i parapsichici (malignamente abbreviati in ratti e para). Costruito come un campione di lotta libera, un leone delle steppe, è il nostro Capitano K: un uomo di austera allegria e di gentile anche se severa correttezza (della cortesia degli avversari nei combattimenti di lotta libera non regolamentati). Nel suo viso di asiatico, largo rubizzo e segnato dal vento, sotto un taglio di capelli da pallottola che lo farebbe calvo se non fosse per il colore nero come il giaietto, sono incassati due occhi ipnotizzanti. Al solito, la riunione (o gruppo d'incontro, o sessione, «rap» metascientifica) si svolge nella sala mensa. Gran parte di noi ha già il sedere incollato alle sedie adesive. Uno o due galleggiano, ma non lontano dal ponte. Delitto di lesa maestà sarebbe fluttuare sopra la testa del Capitano K; anche se
può succedere, quando le opinioni si surriscaldano e la colonnina di mercurio si alza nel termometro. Peter porta due tubi di succo di pomodoro dell'auto-cuoco mentre arrivano gli ultimi ritardatari. (Si fanno scrupolo di strofinarsi gli occhi per il sonno). Noi fingiamo che ci sia della vodka nel succo di pomodoro. Elenco dell'equipaggio dell'astronave Pilgrim Crusader: Ratti Para Col. Neil Kendrik (Usa; Heinz Anders (Germania computers & comunicazioO.; astrofisica) ni; comandante in seconda) Col. Gus Trimble (USA; Salman Baqli (RPI dell'Iingegnere astronautico) ran; planetologia) Magg. Ritchie Blue (USA; René Juillard (Francia; biopilotalogia) astronauta/navigatore) Magg. Natalia Vasilenko Zoe Denby (USA; religioni (USSR; dottore-astronauta; comparate) sistemi di sopravvivenza) Dottor Li Yu-ying (Cina; Sachiko Matsumura (Giapbiochimica) pone; linuistica) M.me Wu Chen-shan (CiPeter Muir (Scozia; parana; storiograstorico) fo/commissario) Jacobik (Cecoslovacchia; Amy Dove (Inghilterra; sistemi d'armamente, non psico-sociologia) merita nome proprio) Così, vedete, la forza, la tecnologia dura è completamente nelle mani dei razionali pesanti, americani e sovietici, con l'appoggio cinese. (Eccetto naturalmente il ruolo ibrido di Kamasarin; ma lui è una persona leale). Le leve del comando politico sono cristiani ortodossi, o il loro anti-tipo marxista ortodosso; compagni di letto nella difesa della storia stabilita. Noi para, che manteniamo la nave nello Spazio Superiore con la nostra presenza, siamo in realtà soltanto scienziati d'appoggio. Possiamo anche essere le batterie che sostengono il volo, ma il volante è in altre, più dure, mani; e se la nave viaggia più lentamente a causa di ciò, tanto peggio, basta che viaggi.
Noi visualizziamo lo Spazio Superiore come un'enorme piramide, che imita la forma piramidale dello stesso motore alieno: più alto il gradino raggiunto, più vicini si è all'altro lato. Perciò noi para siamo il lievito del volo; lo facciamo sollevare. Noi siamo i cavalli con i finimenti, che tiriamo la carrozza reale (ma cavalli sulle cui intuizioni viene fatto molto affidamento). Non c'è dubbio che arriveremmo molto prima senza la zavorra del contingente dei ratti, eppure questa è una crociata politica tanto quanto un pellegrinaggio, ed inoltre, senza una stabilizzazione razionale, il volo potrebbe penetrare in un dominio fantastico, perché noi, nel senso più reale del termine, stiamo immaginando il procedere del nostro viaggio; è un viaggio attraverso, in virtù de, l'immaginazione. Con affetto, Peter mi cinge con il braccio, ed io lo coccolo. La Dottoressa Li ci fissa gelida, una bella creatura, tormentosamente assessuata quanto la statuina di giada di se stessa. «Forse è il vostro piacere che ci trattiene», suggerisce. «Forse fa rallentare il nostro viaggio. Voi desiderate che non abbia fine». «La sua disapprovazione ci rallenta, cara signora», sorride Peter. Li fissa l'orologio in alto che continua a ticchettare meccanicamente, senza alcuna relazione con il tempo che tutti noi percepiamo. Secondo l'orologio siamo al Giorno 41, Ora 13. Per quanto mi riguarda, io sento che non siamo più avanti dell'altroieri, da quando siamo partiti. Qui è sempre l'inizio. «Bel modo di condurre una nave», sottolinea Li, senza guardare direttamente il Capitano K ma criticandolo chiaramente. Il Capitano K sembra contagiato dalla nostra gioia, comunque. Anche René e Zoe si tengono strette le mani, scambiandosi sguardi incantati. «Ci dev'essere fraternità, a bordo», afferma il nostro Capitano: il suo ordine del giorno. «In un certo senso questo è un viaggio d'amore». «Amore?» schermisce Jacobik, quello dai lineamenti tagliati con l'accetta. Di corporatura leggera, in realtà, ha patito la fame in gioventù; il naso ossuto, il mento da strega, con gli occhi scuri che sembrano non ammiccare mai, come se qualcuno gli avesse tagliato le ciglia. Sta pensando ai suoi alloggiamenti dei missili e ai suoi laser. I pugni stretti. «Amore? Dopo quello che hanno fatto alla nostra civiltà? Quell'orologio dice fandonie. Stiamo volando da sempre. Non arriveremo mai lì!» «Dovremmo inviare una nave da guerra ad adorare Dio?» chiede Salman con gentilezza. (Ecco, la riunione è iniziata. Il soggetto, invariabilmente e come sempre, siamo noi stessi, il nostro atteggiamento nei confronti del
viaggio e delle apparizioni emesse verso la Terra). «Loro hanno detto qualcosa a proposito di adorare, comunque?» chiede il Capitano K, abilmente equilibrando i due versanti della discussione. «Noi siamo stati chiamati. È una crociata ai luoghi sacri. Eppure, chi li occupa? Chi li assedia? Perché sono sacri? Comunque, non abbiamo armamenti pesanti adatti ad affrontare un intero mondo che può proiettare immagini solide attraverso il vuoto dello spazio. E sono stati loro ad imporre questi limiti di grandezza, non noi». Sorride distaccato a Peter e a me. «È più una crociata dei bambini». «Sappiamo tutti che cos'è successo a quella», sbuffa Wu. La compagna Wu: piccola, vivace, dalla pelle troppo tesa perché i suoi quarantacinque anni vi abbiano lasciato un segno. Possiede una tale presenza autocratica che si pensa a lei come Madame Wu. Insieme all'asessuata biochimica Lady Li, i cinesi hanno mandato un politico e diplomatico tanto ortodosso e storicamente informato quanto si possa immaginare: il diadema di una corte di mandarini marxisti. Dal suo trono, lei ci accusa. «Stiamo ritornando all'infantilismo su questa nave, alla superstizione e alla gratificazione infantile, proprio come loro rigetterebbero indietro l'intera nostra cultura, nell'infantilismo. Questi discorsi d'amore mi sorprendono, Capitano Kamasarin. Siete contagiati anche voi da questa...» - indicò con dei gesti René e Zoe, Peter e me - «... questa euforia che fa perdere il contatto con il tempo, con la storia, con la reale situazione della Terra. Fare l'amore è soltanto come bere un bicchiere d'acqua. È un bisogno materiale». (E questo è un discorso preparato). «Innalzarlo al livello di un potere spirituale che spinge avanti la nostra nave è un altro lato dello stesso trucco. Anche se il motore sembra in effetti funzionare in quel modo, comunque non possiamo fidarci». «In realtà, è più simile ad un'esperienza allucinogena», suggerisce Natalya, dai capelli biondi e con il nasino all'insù. «Dura molto più a lungo, ma non è proprio così drastica. Anche se ha i suoi picchi e le sue conche. Questi scherzi della semi-gravità, la dissoluzione del tempo, le paranoie e le estasi. Dovremmo tutti tornare alla normalità quando rientreremo nello spazio normale. Dobbiamo semplicemente tollerare la dissoluzione costante del nostro proprio senso della realtà fino ad allora. Apparentemente questo è il nostro biglietto per lo spazio interstellare. Perciò tolleriamolo con razionalità. Come effettivamente fate voi». Peter si agita; Peter non è d'accordo. «A me sembra più simile al volo
sciamanico originale, un volo per la conoscenza». (Ad ognuno sembra ciò che loro stessi sono). «Stiamo salendo nel cielo come gli sciamani dell'antichità, quando c'era una comunicazione libera fra tutti gli uomini e l'Aldilà, prima che perdessimo il contatto. Solo che noi viaggiamo in una nave d'acciaio, invece che sul dorso di un uccello...». «Li chiamiamo ancora uccelli», sogghigna Ritchie Blue, il nostro astronauta contadino, il meno offeso dei ratti dalla componente para del nostro viaggio, forse perché una volta era stato vicino alla natura, anche se soltanto dall'alto della cabina della mietitrebbia di suo padre. Wu sembra offesa, ma Kamasarin annuisce comprensivo, la sua mente (immagino) ferma sugli ultimi pochi semi della morente tradizione magica dello sciamano siberiano, ad un ricordo vago nella testa di qualche centenario, raccolto coscienziosamente fra i Tungu, il Popolo delle Renne, gli Yakut, i Mongoli, e ripiantato dai parafisici lontano da Novosibirsk. «Un biglietto costoso», grugnisce Gus Trimble. «Una trappola». Parla come le definizioni delle parole crociate, in anagrammi; come volendo dire qualcosa d'altro, solo che non sa cosa. Suda: un uomo carnoso, con fianchi e sedere imbottiti di carne che non riescono ad emulare la scultura di muscoli del Capitano K. «Perché dovrebbe essere una trappola?» chiede Peter con rabbia. «Se avessero semplicemente bombardato il mondo di inesplicabili visioni e semi-esseri e non fossero spuntati con la propulsione dello Spazio Superiore perché potessimo seguirli... be', potremmo essere giustificati a sentirci paranoici. Invece...». «Stanno manipolando la storia umana», lo interrompe Wu. «Distruggono l'essenza stessa della storia, che è azione umana, pratica umana. È per questo che il Colonnello Trimble giustamente parla di una trappola». (Anche se in realtà è stata lei a parlarne per prima. Ma questa è la sua diplomazia. O la sua astuzia). «Lo percepisce con chiarezza. Mentre lui...» e un dito punta Peter, e con l'altra mano sul fianco sembra una teiera con un beccuccio rovente, ustionante - «lui straparla di sciamani primitivi. Dev'essere questa la nostra scienza astronautica d'ora in poi? Vedete come le emissioni del Pianeta di Dio ci derubano dei nostri autentici, realmente nobili sogni umani facendo apparire i sogni di religioni arcaiche e obsolete come veri! È penoso dover volare con un manico di scopa regalato, alimentato dalla superstizione. Il fatto che non funziona senza la sensitività «parapsichica» è la vera trappola». «Se veramente funziona», schernisce Jacobik. «Se veramente stiamo an-
dando da qualche parte. Se possiamo tornare». «Accidenti... la probabilità del nostro arrivo continua ad aumentare», interloquisce Heinz Anders. «Almeno, lo fa gran parte del tempo. E per quanto riguarda il ritorno, lo scopriremo. È difficile che qualcuno si prenda tanto disturbo per far naufragare quindici esseri umani ad anni luce da casa». (Davvero?). «Penoso», ripete Madame Wu, versando ancora té. «Che la nostra storia venga vista da molti, ora, come guidata - per quanto evasivamente - da emanazioni da un altro mondo. Più penoso di tutto che il manufatto che abbiamo trovato - il motore principale di questa nave - suggerisca a queste stesse persone che la nostra intera tecnologia non sia altro che la fievole riscoperta di qualche antica saggezza proveniente dalle stelle». Le sue labbra s'increspano sull'ultima parola. «Ciò sminuisce l'uomo. Questa è l'intenzione della trappola. Ecco perché portiamo con noi le nostre armi, non perché loro ci abbiano chiamati a qualche vago confronto». «Quei missili non sono proprio qualcosa che possa distruggere pianeti», si lamenta Jacobik, come se esistesse qualcosa che distrugge i pianeti. Nei suoi sogni, senza dubbio esiste! «Roba tattica. Questa nave è troppo maledettamente piccola. Venite a combattere, piccolini, ma non portate la vostra catapulta, portatevi una spada di legno». «Forse», dice Wu. «La trappola era in attesa di scattare da tanti secoli nel deserto del Gobi, invece di essere proiettata lì, da un giorno all'altro. Forse le emissioni provenivano tutte dalla stessa macchina piramidale? Forse ha registrato e valutato le attività umane per tutto questo lungo tempo? Non capiamo molto come funziona, vero?» «Questo è un punto di vista nuovo», ammette il Capitano K. «Eppure non viene confermato dalla linea geografica di taglio delle emissioni». «Con la piramide scoperta proprio vicino la linea di confine? Ultimamente ho pensato molto a questo, Compagno Capitano. La piramide dello Spazio Superiore non può essere molto più complessa di quanto perfino noi immaginiamo. È stata lei ad «esaminare» i candidati per la missione. Lei è» (parla con amarezza) «sensibile alle strutture del pensiero umano. Qualcuno direbbe a qualche sensibilità numinosa. Perché non dovrebbe impregnare i pensieri umani in tutto il mondo?» «Alcune tradizioni antiche suggeriscono l'esistenza, in effetti, di un centro, be'..., di potere da qualche parte nel Gobi o vicino», ricorda Zoe, la nostra sacerdotale negra. «C'era la leggenda del Regno di Shambala, a nord del Tibet. Si credeva che esistesse, lì da qualche parte, un invisibile fortili-
zio di saggezza magica. Vuole suggerire che questa tradizione era fondata sulla presenza di qualche tipo di spugna psichica cum bomba a tempo, della quale qualcuno, i Lama tibetani, per esempio, era cosciente?» «Una bomba mentale», fa eco il Capitano K, con un lieve mutamento di lessico, come per far proseguire Wu e Zoe. «Un proiettore psichico? Una sorta di macchina Dio, che si accende periodicamente?» «Per tenerci tutti schiavi, nell'ignoranza!» «No», dice Ritchie Blue con la fronte aggrottata. «La cosa era costruita espressamente per portarci sulle stelle. Be', ad una stella in particolare». «Soltanto», gli chiede Wu. «Come fanno a sapere su 82 Eridani che noi abbiamo il know-how sufficiente a portarci fino allo spazio e costruire una nave intorno alla cosa?» «Estrapolazioni dalle nostre emissioni radio?» «Non. ci hanno contattato via radio, ragazzo», scatta Trimble. «Il loro approccio è stato maledettamente più diretto! Avremmo potuto essere sotto sorveglianza, sorveglianza mentale, molto profonda. Forse quella piramide, forse qualcos'altro. Io credo che alcuni di noi - e potrebbero essere molti di noi - siano diventati come opachi a quella sorveglianza da qualche tempo! Il nostro terzo occhio ha chiuso bottega. Siamo diventati un po' troppo razionali per i loro gusti». Fissa con astio noi para. Il Capitano K flette le braccia, aprendo le dita forti. «Dobbiamo arrivare in accordo e fratellanza. Io credo sia un bene esprimere le nostre divergenze d'opinione in questo modo». E d'improvviso vedo la verità dietro queste riunioni. È come se gli avessi letto nella mente, perché il pensiero mi spunta nella mente completamente formato, e in effetti ha un «sentore» di Grigory Kamasarin legato a sé, com'è certo che c'è un sentore di chiunque siano gli amanti responsabili nell'onda di semi-gravità che tocca i nostri corpi ma tocca anche qualcosa all'interno delle nostre menti. Quel pensiero è che le autorità della Terra, che hanno una fiducia totale solo del Capitano K, sperano che noi quindici esseri umani, in costante prossimità dell'attivata propulsione dello Spazio Superiore che «registra» almeno la metà di noi intimamente, raggiungeremo un'intuizione collettiva riguardo la vera natura del meccanismo alieno. Il pensiero è che noi misureremo la sua essenza attraverso un parallasse collettivo dai nostri diversi punti di vista, alcuni dei quali sono sicuramente opachi ad esso. Ecco perché lui permette... no, incoraggia la fusione dell'atto d'amore, oltre e al di fuori della presunta accelerazione del volo. Spera che in qualche modo ci fonderemo in una mente consensuale - anche se
solo per un momento, anche se soltanto nel sogno di qualcuno! - per percepire il vero scopo. Noi siamo un laboratorio volante in noi stessi, come anche pellegrini, crociati, scienziati, e così via; e, naturalmente, chi meglio di Grigory Kamasarian per guidare tutto? Fisso il nostro Capitano, finché Peter non comincia ad innervosirsi per la mia disattenzione nei suoi confronti. Il Capitano K siede invulnerabile, un sorriso distaccato sul viso. Mentre Jacobik si lancia in un qualche rivoltante aneddoto gratuito sulla gente scorticata viva, e sui boia che riattaccavano le teste delle loro vittime, con la colla, dietro la ghigliottina... Ascoltiamo i deliri sadici del ceco come ipnotizzati da un serpente. Che cosa sta facendo questo alla nostra probabilità di arrivo? Eppure nessuno lo interrompe. Si è liberi di dire qualsiasi cosa a queste riunioni. Lasciamo che espella tutto dal suo sistema; lasciamo che si tolga questo peso dallo stomaco. Sono spaventata, comunque. È un pazzo. Deve aver avuto un auto-controllo ferreo, prima, per ingannare le commissioni. Questo suo lato si è tradito soltanto ora, nello Spazio Superiore. E come dice Natalya: paranoia, allucinazioni, dissoluzione della realtà ci minacciano costantemente. Oh, lasciamo che l'amore li conquisti! Per quanto preferirei ficcarmi le dita nelle orecchie, mi rendo conto dopo un po' che lui, sorprendentemente, sta recitando versi, rendendoli in inglese perché tutti li possiamo apprezzare. Anche se sono versi di morte e tormento, che sono i soli che parlano alla sua anima perversa. Soltanto il Re Erode, recita, Vi amava, puri bianchi fanciulli Sopra ogni altra cosa E ha ordinato di liberarvi dalla vita. Rendete grazie, perciò, ai vostri salvatori. QUATTRO L'anno, 1997: il millennio era un po' in anticipo. D'altra parte, forse Cristo era veramente nato il 2 A.C. E, comunque, che importanza ha il tempo: questa era la rivelazione, la fine del tempo secolare... Era il giorno di Pasqua a Gerusalemme. Nella povera e stracolma Chiesa del Santo Sepolcro, ad un'affollata e confusa congregazione di Cattolici Romani, Copti, Greci Ortodossi e altri, nella cappella che contiene la vuota
tomba di marmo di Gesù, apparve un angelo irraggiante, un'alta creatura risplendente di luce dorata. Rapidamente si risolse in una forma corporea più tangibile, nudo a parte un telo sui fianchi, con ferite ai polsi e alle caviglie e una profonda incisione nel fianco. «Venite al Pianeta di Dio nei Cieli, perché Io sono il Figlio di Dio», disse agli esaltati fedeli (diversamente udito in inglese, russo, greco, e perfino in latino da qualche parte). «Venite ai luoghi sacri nel cielo, dove non c'è morte...». Così dicendo, l'essere svanì. Prima che la notizia del miracolo si fosse diffusa nelle strade adiacenti, per non parlare del mondo, al Muro del Pianto lì accanto apparve un'altra o la stessa - creatura di luce dorata. Per i pellegrini ebrei si risolse in un'alta figura dalla barba bianca e dal manto bianco, che la maggior parte dei testimoni udì parlare in ebraico, nella forma profetica di tempo presente, il tempo per un evento futuro di tale certezza che se ne può parlare come già accaduto. «Siete venuti al Pianeta di Dio. Avete salito la scala di Giacobbe. Avete attraversato gli anni della luce...». Mentre questa figura svaniva a sua volta, nel Nobile Recinto dei Musulmani oltre il Muro del Pianto, nella luminosa e bellissima moschea del Duomo della Rocca dalla quale si dice che Maometto sia asceso al Cielo, lasciando l'impronta dei suoi piedi impressa nella solida roccia, apparve un terzo angelo risplendente, che divenne un uomo dalla barba nera, con kaftano e turbante, e con una scimitarra al fianco. Pose il piede nell'orma di Maometto e gridò in arabo: «Venite al Pianeta di Dio, venite al successo!» Mentre il mondo dipanava la sua rotta quel giorno di Pasqua, un'intera serie di manifestazioni vennero e se ne andarono: una semplice colonna di luce a Lourdes, ma una figura di Cristo vestita che durò per cinque minuti completi sulla terrazza, in cima alla collina, della chiesa del Bom Jesus a Congonhas in Brasile. (Qui vennero prese le prime fotografie di un'apparizione. In piedi in mezzo alle sculture in arenaria, sorprendentemente realistiche, dei dodici apostoli che guardano la valle, l'apparizione invitò in portoghese una folla estatica a visitare il Paradiso). A Sali Lake City, comparve l'angelo di Joseph Smith, e in Messico la Vergine Maria... e qualche ora più tardi, nel Tempio Sacro di Ise in Giappone, fra gli alberi di cipresso, si materializzò la Dea del Sole Amaterasu. E ancora, attraverso il SudEst Asiatico e l'India, avatar buddisti e hindu comparvero nei luoghi sacri, completando il periplo del globo alla Mecca nella forma di un angelo dorato sospeso sopra il blocco di granito coperto da un drappo nero della Kaaba, che rivolse ai pellegrini lo stesso messaggio: «Venite al Pianeta di Dio,
venite al successo!» Perfino in Cina una figura di antico guerriero si ricombinò dalla luce nella Piazza della Pace Celeste e scoccò frecce di luce verso l'orizzonte. L'Europa del Nord, il Canada e l'URSS, escluse le sue regioni dell'Asia meridionale, furono le uniche non beneficiate... Durante i giorni seguenti, mentre la gente si accalcava, inevitabilmente calpestandosi, in questi luoghi di testimonianza, le apparizioni guadagnavano in durata e solidità, come se realmente si procurassero forza dal numero crescente di coloro che le ascoltavano e vedevano. Era già evidente che parlavano all'orecchio di ciascuna fede (anche alle fedi atrofizzate) e si proponevano alla visione arcaica, non a quella modernista. Era anche evidente che le apparizioni percorrevano il mondo in una circolare scansione sistematica, da nodo numinoso a nodo numinoso, rimanendo sotto la latitudine di 44 gradi nord. Il composito messaggio degli avatar, dato attraverso le labbra di quasiGesù, quasi-Maometto - e interpretato un po' al di fuori del linguaggio della rivelazione - era il seguente: Io sono il profeta/angelo/messaggero/messaggio dal Cielo/dai cieli/spazio dove Dio vive/dov'è il Pianeta di Dio. C'è una stella nel Fiume/costellazione Eridani. Quella stella è unica/una stella isolata. Le vostre anime migliori andranno in Cielo/ ascenderanno/voleranno lì. Se morirete, rivivrete, eterni. Ora c'è guerra nei Cieli/conflitto/lotta. Preparatevi alla lotta! Unitevi alla Crociata. Siate testimoni/inviate testimoni/una spedizione. Mandate i vostri campioni/rappresentanti. Seguite il sentiero degli angeli/Fonda guida di questi messaggi. La via è aperta/il trasporto preparato/un mezzo. Unitevi alla carovana/il motore/ /aggiogate la vostra carovana (il vostro veicolo?) al motore/mezzo/propulsione che noi vi portiamo. Attaccate il vostro carro alle stelle, il vostro veicolo al motore stellare. È tempo che veniate/ /è nel Tempo Superiore/tempo sacro che viaggerete/ è fuori dallo spazio-tempo/nell'iperspazio. Ascendete al Cielo attraverso lo Spazio Superiore/lo spazio al di sopra/iperspazio.
Guardate oltre le montagne più alte, oltre il tetto del mondo. Lì è lo strumento della luce oltre la luce. Conducete menti pure al compito/ /solo menti adatte (il vostro desiderio/intenzione/coscienza) lo farà funzionare. (Il viaggio è immaginario?) Io (esso) giudicherò/diagnosticherò le vostre anime migliori/più adatte. Fate che alcune anime dure (malvage? insensibili?) zavorrino la vostra nave, così viaggerete più decisamente (o lentamente?). Perché tutti sono chiamati, pecore e capre, e tutti SARANNO prescelti alla fine. Le «Trasmissioni del Pianeta di Dio» cessarono dopo sette giorni, avendo persuaso molti che un Dio contemporaneo ed ecumenico aveva inviato i Suoi messaggeri, o degli aspetti di Sé stesso, ad intervenire nella storia umana ancora una volta per salvare l'umanità, o semplicemente per indicare che tutte le religioni erano ugualmente vere. Persuasero molta più gente dell'esatto opposto, precisamente che particolari forme di fede erano state dichiarate autentiche, una situazione foriera di Jihad e spargimenti di sangue. Altri interpretarono i messaggi come scoperti contatti di intelligenze aliene di ordine superiore, che avevano influenzato lo sviluppo delle religioni umane nel passato. Un'interpretazione finale, alla quale si appigliavano gli uomini «sani di mente», fu che questo era effettivamente un messaggio dalle stelle - da una stella del disperso fiume di stelle di Eridani - che esigeva aiuto e conforto, o come minimo implorava un contatto e un appoggio (anche se in un modo un po' autoritario); e questo messaggio veniva trasmesso nell'unico modo con il quale, apparentemente, un contatto simile si poteva realizzare con menti umane, facendo scattare l'immaginario religioso, sondando i livelli mitici della psiche (quasi un nodo numinoso del cervello) in locazioni geografiche dove il senso del sacro era impresso più potentemente. La distribuzione delle emissioni, con il taglio della latitudine di 44 gradi, sembrò mettere fuori gioco, fra le stelle vicine candidate in quella costellazione, Epsilon Eridani, dato che qualsiasi emissione da Epsilon avrebbe dovuto coprire l'emisfero nord (anche se su quale lunghezza d'onda venivano trasmesse?). La seconda maggiore candidata, ad una distanza doppia di anni luce dalla Terra, anche se era più probabile che possedesse un pianeta abitabile in teoria, era la stella Eridani 82; e questa stella era visibile
soltanto da quelle latitudini dov'erano apparsi gli avatar e gli angeli. E quei promessi «strumenti di luce oltre la luce?» (Da interpretare come «più veloci della luce»?). Rintracciabili oltre l'Himalaya e oltre il Tibet, eppure a sud del 44esimo parallelo? I satelliti deviarono le loro orbite su quel territorio nelle estreme distese sud-occidentali del deserto del Gobi, sulla frontiera desolata fra la Mongolia e la Cina; aerei spia sorvolarono l'area, sfrecciando via soltanto proprio sul confine Così le interviste proseguirono in un castello sorvegliato e circondato da boschi fuori Parigi, con un piccolo gruppo di candidati, mentre il Comitato Unificato per lo Spazio Comune mischiava e rimischiava le sue carte, mescolando e rimescolando il suo cocktail. La donna cinese, Wu, portava un tesserino arancione. Non era perciò un attivatore della propulsione dello Spazio Superiore. Peter portava un tesserino verde, come me, perciò noi lo eravamo, e così pure l'alta donna negra americana Zoe Danby. Eravamo già stati trasportati via aerea a Tyuratam (di notte, senza veder nulla del Cosmodromo) e avevamo superato i «test para». Ora noi quattro sedevamo «informalmente» attorno ad un tavolo circolare in una stanza avvolta da candelieri appesi alle pareti, con i Generali Patrick Sutton e Grigory Kamasarian (il quale, stranamente, portava un tesserino verde pure lui) e Chen Yi-Piao, a bere caffè. «... Questo è un messaggio dalle stelle», disse Peter combattivo (e qui cominciò forse il mio amore per lui). «Ma non sotto forma di matrici di numeri primi o cose del genere. Questo è in termini di rivelazione, di visione... in un linguaggio mitologico, che penetra fino nel profondo della psiche umana, cogliendo da essa. Perciò non abbiamo un pi, ma simboli che tutte le persone razionali credevano fossero stati eliminati. Eppure eccoli che riemergono in tutta la loro primitiva e devastante forza, come un erompere alla coscienza di materiale represso. Non erano realmente mai stati perduti, soltanto soppressi. I «para» fra noi sono ancora sensibili a questo simbolismo, capite. I «ratti» sono quelli che l'hanno represso più profondamente, quasi atrofizzato. Ma in realtà non lo può mai essere. Atrofizzato, voglio dire. Non completamente». «È così che noi «leggiamo» le emissioni», ammise Wu. «Fanno scattare delle strutture psichiche nelle nostre menti. Perciò, questo lo accetto. Ma che cos'è che stanno effettivamente dicendo? Che la superstizione è vera. Che la preghiera può portare potere. Ora che abbiamo la possibilità della perfezione e della grandezza nelle nostre mani, attraverso la pratica uma-
na, viene liberato questo fra noi. È puro sabotaggio. Ha un'origine materiale, e viene usato come un'arma di controllo - come i preti hanno sempre usato la religione contro il popolo. Solo che questi sono preti alieni». Peter scosse il capo. «Con tutto il rispetto, lei confonde due cose. Una è il simbolismo psichico inerente all'uomo, che dà vita alle religioni. L'altra è l'uso di questo potente linguaggio simbolico per prendere contatto con noi. Io sono principalmente interessato a quella vecchia credenza che il contatto diretto con il «cielo» una volta era allo stesso tempo possibile e praticabile. Era una cosa numinosa, ma era anche piuttosto pragmatica. Qualcosa nella mentalità dell'uomo primitivo deve aver dato vita a questa tradizione. Purtroppo, è considerevolmente degenerata». «Mentre noi diventavamo più saggi». «Se era una delle nostre capacità, allora si è evoluta per necessità! Ormai, è stata severamente repressa. Ma è ancora una delle loro capacità. E una delle nostre, in latenza. Devono essere coinvolte delle strutture psichiche molto potenti e per essersi evolute come prima cosa devono avere un valore di sopravvivenza, giusto? Devono corrispondere a qualcosa nell'universo reale. Noi non comprendiamo completamente il messaggio perché non sappiamo che cosa dovrebbe essere. Perciò le forme ci appaiono e noi le traduciamo in immagini di Cristo e Maometto, qualsiasi sia il nostro contesto culturale». S'interruppe. «Potrebbe perfino essere che abbiamo bisogno che qualcuno faccia scattare questo in noi». Tempo per me di parlare. «Abbiamo raggiunto una soglia psichica», consentii. «L'«Altro» è praticamente scomparso dalle nostre vite. Ma ora può essere ripresa una diretta comunicazione con l'Aldilà, nei termini di Peter Muir. Come ci adattiamo a questo?» «Con una nuova teocrazia, forse?» chiese Wu, sarcastica. «Com'è che ci conoscono così bene? I nostri punti più deboli». Peter aggrottò la fronte. «Credo che la risposta sia che non ci conoscono. Siamo noi che non conosciamo noi stessi. Perciò il messaggio è allo stesso tempo totalizzante - il millennio - e incoerente. Non vedete che il mondo oggi è dominato da immagini e simboli astratti? L'arte, la musica, hanno raggiunto un nadir in cui i simboli affermano soltanto la loro presenza come simboli. Non hanno alcun riferimento a nient'altro. «Prendete la colomba come simbolo di pace». Mi sorrise. (E forse il mio amore per lui cominciò lì). «Soltanto perché è bianca. Il che», rivolse un sorriso di scusa a Zoe. «è un altro caso di simbolismo partigiano. Le colombe sono pacifiche? Se si mettono due colombe estranee nella stessa
stia, la più debole verrà uccisa a beccate. Mi dispiace, ma è la verità. Immaginiamo soltanto che esistano dei simboli che possiedano realmente un significato intrinseco: simboli che corrispondono a forze nell'universo reale nel quale ci siamo evoluti in comune con altre forme di vita aliene? Immaginiamo che questo linguaggio simbolico possa sembrare a degli esseri alieni il mezzo più naturale per comunicare le cose veramente importanti! Per fare in modo che possiamo metterci in contatto con loro a quel livello. Ma noi dobbiamo imparare nuovamente quel linguaggio. Riscoprirlo». Wu fissava lontano. «Il simbolismo funziona soltanto all'interno di un'economia di pensiero, e se non stiamo attenti questo sarà il Crollo di Wall Street della nostra economia di pensiero!» «Questi messaggi si inseriscono in un vuoto totemico», continuò Peter. «Abbiamo perduto il contatto con l'antico e comune linguaggio simbolico, ma esso è ancora radicato nella psiche dell'uomo. Amy Dove forse ha ragione. Perché non radicato anche nella psiche degli alieni? In effetti condividiamo un universo comune». «Certo, e la storia è diventata il nostro carceriere», dissi. «Ne siamo imprigionati. Il discorso del mondo è fatto tutto di dati astratti - astrazioni di dati. Qui c'è una via d'uscita in qualcosa d'altro. Può essere un ringiovanimento, una ricreazione del mondo». «Un tempo nuovo», sorrise Zoe. «Veramente, questo è più importante ancora di un'astronave aliena che fosse atterrata qui. Non è un semplice contatto con un'alterità aliena. Amy Dove ha ragione: questo è un rinnovarsi dell'«Altro» in noi stessi». Così, noi tre eravamo d'accordo; con Wu a fare l'avvocato del Diavolo. Il ruolo di Kamasarin non lo capivo ancora. CINQUE «Allo stesso tempo», medita Jacobik il guerriero. «Potremmo essere dei pezzi degli scacchi in una qualche partita cosmica, tenuti in sospeso fino ad ora, ed ora all'improvviso comandati». Il suo dito scatta nervosamente come schiacciando un grilletto, e si gratta la nuca in un gesto sostitutivo. Il che irrita Madame Wu. «Anche questa è l'illogicità della manipolazione esterna. L'umanità non è un pedone su una scacchiera. La storia non è uno scherzo degli Dei. Non ci sono Dei». «Ma noi voliamo al Pianeta di Dio», le ricorda Zoe. «Oh, che sicurezza! Come se Dio sedesse lì su un trono in piena vista
circondato dai suoi angeli. Le emissioni sono semplicemente... fenomeni, dei quali si deve tener conto». «È questo tipo di atteggiamento che rallenta il nostro viaggio. È come appendere un pezzo di piombo ai piedi di un nuotatore». «Molto meglio il piombo dell'oro degli alchimisti. Un metallo più utile». Una pesantezza mi assale: come affondare. L'immagine di Zoe è diventata una realtà fisica in questo dominio malleabile. Il terrore mi invade: la paura di affogare per questo peso attaccato ai miei piedi! Gus Trimble boccheggia. Cerca di alzarsi, e non ci riesce. Barcollando, fa gesti nell'aria come nuotando. Anche Lady Li ne è affetta: trema, come una specie di concubina cinese ripudiata che, avvolta in un tappeto, sta per essere gettata in un pozzo. Kendrik impallidisce. «Non scordiamoci di noi stessi», comanda il nostro Capitano. «Se non fissiamo l'attenzione, viaggeremo nello spazio secolare, non nello Spazio Superiore, e il volo durerà secoli». «Sì, il peccato del dimenticare è mortale». Wu ammira le fotografie alla parete della sala mensa una per una: un complesso petrolchimico cinese sfolgorante di luce, il Golden Gate Bridge, la Torre Eiffel. Le opere dell'uomo. «Maledizione», prorompe Ritchie. «Una nave spaziale alla quale devi pensare positivamente, altrimenti non funziona! Immagino di aver sempre pensato positivamente alle macchine, aereoplani, tutto. È vero che funzionano meglio così. È semplice efficenza, rispetto per i tuoi strumenti...» La voce si perde. Naturalmente è molto più di questo. La sua interruzione è provocata dal tatto, amo pensare: tatto mirato a permettere alla nostra strega cinese un'onorevole ritirata da qualcosa che chiaramente lei non capisce; che non può capire, anche se superficialmente lei sa che le cose stanno così. Forse che Ritchie la ammira? Si sente attratto da lei, portato dai vettori emozionali dello Spazio Superiore? Buon Dio. Come che cosa? La severa sorella più vecchia? O la severa maestra? Noi siamo nudi davanti a tutti gli altri. Siamo legati, piegati da correnti. Ritchie arrossisce selvaggiamente, mi fissa con espressione accusatoria, poi distoglie lo sguardo. «Eppure questa nave funziona in una modalità spaziale completamente diversa», riprende il Capitano K. «In una diversa modalità del reale. Non è semplicemente questione se funziona «meglio» di qualsiasi astronave che potremmo aver inventato». Il suo sguardo si posa su Heinz. «C'è una logica dietro questo veicolo. Semplicemente, non è la logica alla quale siamo
abituati, d'accordo? Proviamo a pensarci; forse ci aiuterà». Ora c'è un tono ecclesiale, patriarcale nella sua voce. Chiama Heinz a recitare una litania alla quale tutti dobbiamo rispondere. Gli ordina di dirigerci nelle nostre orazioni. Heinz si liscia e si tira la barba nera. Un tizio irsuto, è il nostro astrofisico da Francoforte. Il dorso delle sue mani brulica di peli come un Dottor Jekill colto nel momento della trasformazione. Basso, e tozzo è Heinz, un Nibelungo, non delle miniere sotterranee ma dell'oscurità dello spazio e dei carboni ardenti di soli distanti, che sono i suoi occhi. «Ci rinfreschi la memoria, la prego, Herr Anders. Il principio di complementarità. Dobbiamo continuamente ricordare». «Allora, ci sono vari modi di parlare dell'esperienza, ja? Ognuno può avere una sua validità. Ognuno può essere necessario. Eppure possono essere mutualmente esclusivi. Bene allora, la scelta che compiamo determina la realtà. Se, per esempio, la luce è un'onda o una serie di particelle. Ora è una cosa, ora è l'altra. Il pensiero costruisce questo. Anche il tempo è un costrutto del pensiero. Nello Spazio Superiore tutto questo è più scopertamente ovvio, vero? Lo spazio non è una cosa. Come disse Kant, è una delle forme attraverso le quali noi organizziamo la nostra percezione delle cose. Così noi possiamo viaggiare attraverso lo Spazio Superiore organizzando le cose diversamente. La nostra propulsione spaziale è un costrutto del pensiero di altri esseri, che dipende dalla nostra psiche per il suo modus operandi. Noi creiamo il tipo di spazio che essa usa: lo spazio, be', quasi... dell'immaginazione. La nostra intenzione di raggiungere Eridani 82 conta enormemente. Questo dobbiamo accettare, altrimenti la propulsione non funzionerà. Eppure non dobbiamo nemmeno perdere contatto con la realtà fisica ordinaria. Di conseguenza, la zavorra, se mi permettete la parola. I ratti». «Alcuni di noi non hanno perso contatto di certo», sogghigna Ritchie come un folletto, guardando dalla nostra parte, vendicandosi (anche se senza malevolenza) della mia intrusione nei suoi sentimenti verso Wu. «Con l'aiuto della propulsione aliena i nostri sensi costruiscono la realtà come se fossimo in un piano superiore dell'universo, un piano di pensiero libero da limitazioni, non di cose solide. Il nostro viaggio accade simultaneamente, io credo, ma il nostro senso della durata, la nostra costruzione del tempo determina la velocità apparente di avanzamento. Ecco perché dobbiamo pensare in termini di probabilità di arrivo piuttosto che secondo distanze reali percorse come tali. Senza la durata non potremmo pensare
un solo pensiero da un momento al successivo. Forse, per esseri sufficientemente evoluti un viaggio simile non durerebbe alcun tempo per nulla. Ho elaborato alcune equazioni seguendo questa ipotesi». Caro, peloso Heinz: ci ha dato una critica dello spazio-tempo puro invece di una predica. Eppure questo è in realtà ciò di cui almeno metà di noi ha bisogno. Perché i ratti non possono viaggiare intuitivamente, ma soltanto passo dopo passo. Le loro paure e riserve ci fanno avanzare con fatica. Loro hanno bisogno della sua autorità scientifica per potersi rilassare, e planare... O Heinz è un Rumpelstilskin? Che sbatte i piedi per terra irritato da quei noiosi che si interessano solamente di quanto velocemente si possa avvolgere il filo dello spazio ordinario nell'oro dello Spazio Superiore, e per nulla dell'alchimia in sé, e di che cosa possa in realtà essere lo Spazio Superiore. È facile visualizzarlo mentre esce dal ponte sbattendo i piedi e svanisce nello Spazio Superiore con un urlo, su una traiettoria privata tutta sua! Eppure no; lui è un Rumpelstiltskin più accomodante, più auto-controllato di così. Si schiarisce la gola. «Noi siamo inoltre complementari fra noi, come onda e particella». La sua testa va su e giù, tirata dalla barba. «Alcuni di noi possiedono questa struttura mentale. Noi accettiamo questa nuova configurazione, che in realtà è molto vecchia. Mentre voialtri resistete selvaggiamente. Ma se voi non foste qui questa non sarebbe per nulla una spedizione scientifica. Sarebbe veramente, come l'ha definita Peter, un volo sciamanico. Sospetto che potremmo perderci in reami magici che non saremmo in grado di controllare. Ci troveremmo ad essere parecchio fuori dall'universo normalmente considerato invece di star semplicemente viaggiando attraverso lo Spazio Superiore, e non sapremmo come controllare quella zona magica, non ancora. E qui entra in gioco la nostra risposta complementare. Voi siete gli stabilizzatori. Voi impedite che il viaggio si disintegri in un viaggio onirico. Noi non sappiamo come orientarci nella landa spaziale degli archetipi, non ancora. Qualsiasi scienza sufficientemente evoluta deve apparire magica, perché in realtà ricattura il magico!» Un bel discorso. Il Capitano K sembra grato. Risana una frattura nascente. «Pensiamo tutti a questo», ripete il nostro Capitano. «Meditiamoci». «Preghiamo», schernisce Madame Wu. Comunque, concede. Se funziona, usalo... «Venite al Pianeta di Dio, venite al successo», mormora Salman, ironi-
camente eppure con rispetto. La sua fede nell'Islam rimane ferma nonostante il plagio della chiamata alla preghiera musulmana perpetrato dagli avatar. In effetti, ne sembra fortificato, anche se non in qualche ristretto senso partigiano. Alla richiesta del Capitano tutti ci prendiamo per mano, per lasciare scorrere la concentrazione attraverso tutti noi, credenti e non credenti insieme. E tutti percepiamo, concentrandoci, che ci stiamo avvicinando più velocemente alla nostra destinazione. La probabilità aumenta. Per un momento c'è una tale meravigliosa sensazione di comunione. Soltanto Jacobik siede altezzoso fra noi, le sue zampe abbandonate nelle palme di Sachikos e Natalya, annusa l'aria sospettosamente. Mentre siamo tutti rilassati, lui si tende improvvisamente, e si libera con uno strattone. Prevede il pericolo prima che colpisca? Perché in questo momento il claxon bercia, distruggendo la nostra pace. Bii-bu-bu!... Bii-bu-bu! Il segnale dattilico che indica una massa in avvicinamento. Bu-bu-bii! Il codice anapestico: che indica un danno alla nave! «Ci attaccano!» grida Jacobik felice. E sogghigna. SEI Così la nostra procedura d'emergenza si mette in moto. Il Capitano K è già in piedi. «Squadra Bridge in sala controllo, con me. Squadra Blue, seguite. Poi le altre squadre. Bridge e Blue hanno la priorità». «I para sul ponte? Durante una battaglia?» La gioia di Jacobik è infranta. «È ridicolo. Staranno fra i piedi». «Io non sono un para», scatta Wu. (Lei fa squadra da sola, insieme a Li). «Potrei averne bisogno per interpretare quello che sta succedendo!» Un bel contrasto con l'educata, tonificante coordinazione precedente all'attivazione della propulsione e all'ingresso in questo dominio semisoggettivo, dove la nostra volontà e i nostri desideri giocano una parte nel nostro stesso avanzare! Me la ricordo come una specie di anti-sogno, come se le regole della vita ordinaria funzionassero nel sogno, mentre ora l'id, la libido e la fantasia governassero il mondo della veglia. Tutti abbiamo bisogno di essere vicini al motore della propulsione, ora. Offre una protezione irrazionale, magica. Ci proteggerà sulla nostra via.
Il Pilgrim Crusader è un prisma triangolare d'acciaio con degli emisferi che sporgono come delle cupole da ogni faccia triangolare. Questi alloggiano a loro volta l'hangar con le scialuppe gemelle, il reattore, e l'alloggiamento dei missili. Il disegno complessivo è dettato dal campo d'influenza elissoidale della propulsione, quella strana piramide cristallina posta precisamente al centro della nave. A poppa rispetto ad essa c'è questa sala mensa e le cabine, con i magazzini sotto ponte. I serbatoi del JP-20 sporgono come rigonfiamenti della sezione triangolare di poppa del prisma, insieme ai razzi principali per il volo nello spazio normale. A prua, in piena vista della piramide, si stende la zona adibita insieme a ponte di controllo e osservatorio, con i laboratori al di sotto, anche se soltanto la cima della piramide con le sue facce di controllo si erge in realtà attraverso il ponte, con la massa principale che rimane al di sotto. Antenne e sensori parabolici riempiono gli interstizi fra le tre cupole sporgenti di modo che, tutto sommato, la nostra nave rassomiglia ad un enorme modello di una strana molecola, con i luoghi di legame aperti a coppa per ricevere altre molecole simili... I lunghi oblò del ponte di controllo sono tutti scoperti. All'esterno lo Spazio Superiore ribolle pallido, con le consuete spettrali volute, transienti e più luminose, che si protendono per poi svanire. Sfioriamo la cima della piramide aliena - alcuni volando, altri camminando magneticamente - per poi sbarrare gli occhi all'irreale oltre le finestre. Siamo in un sottomarino, nel profondo di qualche oceano di gelatina astratta, con delle fantasmatiche bestie a forma di mandala che vengono in vita per un momento prima di ridissolversi nell'essenza: pesci dell'abisso con corpi invisibili, solo la loro fosforescenza osservabile... Due pesci sono pienamente visibili, comunque. Due strane navi galleggiano là fuori. Vicine o distanti, difficile a dirsi, pescetti o balene? Si avvicinano rapide per poi allontanarsi ancora senza in verità mutare forma, che è indefinibile, simile alle pareti della camera da letto di un bimbo, al crepuscolo, in quei sonnolenti, ipnagogici momenti prima del sonno quando le immagini diventano allucinatorie. Noi ci sentiamo rimpicciolire davanti ad esse, per poi allargarci di nuovo a schiacciarle con la nostra enormità. Le loro immagini ora sono anche sugli schermi dei video-telescopici di Ritchie. «Distanza?» Richiede il Capitano K, piantato magneticamente al centro del ponte. (Ahab... Nello Spazio Superiore siamo tutti degli archetipi - sot-
tostrutture di persone - proprio come lo spazio là fuori è una sottostruttura della realtà Ritchie scuote il capo. «Non riesco ad ottenere una misurazione. Sono a fuoco visivamente ma le cifre del radar non hanno senso... centinaia di chilometri, poi nemmeno uno». Uno dei pesci è un tozzo ovoide con dei cristalli tutt'intorno alla parte centrale e al retro. L'altro, un cono con palloni che si gonfiano uscendo da crepe. «Siamo stati colpiti», comunica Natalya, mentre le rosse luci lampeggiano urgentemente davanti a lei. «Quattro volte. Lo scafo dell'alloggiamento del reattore, i cavi di collegamento con il motore due, l'antenna radar di poppa. E stiamo finendo il Lox dal serbatoio D, per alimentare il motore tre». Mentre guardiamo fuori, due sottili lame di luce rossa si tendono verso noi, ora, molto lentamente, dalle navi aliene. «Laser?» chiede Kendrik. «Così lenti?» «Non possiamo essere certi del valore di C, qui fuori», dice Heinz. «Noi vediamo ancora secondo il valore normale della velocità della luce all'interno del Pilgrim. Qui c'è un'area di spazio relativamente normale, inglobata dallo Spazio Superiore. Ma là fuori?» «Come diavolo riusciamo a vedere la luce laser prima che ci raggiunga?» Le lame rosse continuano ad allungarsi, piegandosi verso di noi. Heinz pensa. «Forse stiamo osservando una perdita accessoria di quei raggi laser, se è questo che sono. Analogamente alla radiazione di sincrotrone. Soltanto, i laser eccitano il medium dello Spazio Superiore e quest'ultimo perde la luce che vediamo, viaggiando alla velocità della luce. Ma la luce coerente - il raggio laser - viaggia molto più lentamente. Questa, essenzialmente, è una regione incoerente. Qui i laser sono luce ritardata. Io credo che la regione che stiamo attraversando sia in realtà piuttosto piccola. Lo Spazio Superiore è una scorciatoia, una regione raccorciata». Scuote il capo. «Ma i nostri pensieri sono un fattore nella realtà. La nostra percezione lo è. Sospetto, seriamente, di questo «vedere» la luce». Il Capitano K lo interrompe con un gesto. «Forse raggi laser; forse qualcosa d'altro. Ma noi abbiamo dei danni. Perché mai dovrebbero fare fuoco, comunque? Kendrik, apra tutte le frequenze - li contatti. Trimble, accenda i motori uno e quattro, ci dia una bella spinta. Se la luce fa dei giochetti del genere, saremo un bersaglio difficile se smettiamo di fare l'oca seduta».
«Usare i razzi nello Spazio Superiore?» «Li usi! O ci faranno a fette». «A che velocità viaggiano le onde radio qui?» Kendrik sta cercando di mettersi in contatto con gli alieni, senza successo. «Forse sperano di comunicare via laser?» suggerisce Saiman. «Se uno fosse puntato su un'antenna radar...». «E sui motori, e sul reattore!» scatta Jacobik. «Non essere stupido, non impicciarti. Ci hanno colpito in tre modi: comunicazioni, manovrabilità, e energia!» «C'è qualcosa che non va», dice Heinz. «Giusto!» ringhia il Ceco. Ringhia: non ho mai visto nessuno digrignare i denti, prima. Come un cane rabbioso. Di colpo, Jacobik dà ordini alla sua plancia dei laser, finché il Capitano K non gli urla di smetterla. Indisciplina incredibile. Ma ormai le nostre sottili lame rosse si stanno già tendendo all'esterno. Lentamente, molto lentamente. «Vedete, quelli sono laser! È una prova». Rabbioso. Sono spaventata; eppure è una paura dal sentore di sogno, come se stessi fuggendo da qualcosa di tremendo eppure sapessi che quella cosa tremenda è soltanto la bestia dei miei sogni. Si muore davvero nello Spazio Superiore come si morirebbe nello spazio normale? Forse diveniamo parte di quell'amorfo flusso là fuori, ancora vivi in qualche modo. Le due navi aliene sono i cani da guardia di questa dimensione. Ora comincia un combattimento fra cani... una lotta fra cani dai lampeggianti occhi rossi... Ci prepariamo. «Motori accesi», comunica Trimble. L'accelerazione ci spinge all'indietro, come per rallentarci, rendendo le cose peggiori. Ci pieghiamo ad angolo, come canne nella corrente di un fiume. Usando i muscoli dello sciatore, spingiamo in avanti per compensare. Il Pilgrim finalmente si lancia in avanti, portandoci lontani da quelle rosse lame che sono quasi su di noi. Non lame, ora; sottili scimitarre che si piegano attraverso lo spazio come se noi fossimo un enorme nodo gravitazionale che le attrae. Ma le sfuggiamo. «Spegnere i motori!» La pressione dell'accelerazione raggiunge il massimo, poi svanisce lentamente un po' dopo lo spegnimento. Correggendo gradualmente la nostra postura, cadiamo mollemente nell'aria in avanti. Nulla è normale. Quei pesci alieni sembrano più lontani ora. «La nave conica ha fatto un uovo», avverte Jacobik. «Sta venendo verso di noi».
Sullo schermo di Ritchie, ingrandito, vediamo il missile andare pigramente alla deriva verso di noi: una minuscola aringa che emette fiamme dalla coda. Riusciamo perfino a vederlo dagli oblò, molto più piccolo, un punto di luce. «Speriamo che viaggi più lento della luce locale», si augura Kendrik. «Ho una misurazione certa», avverte Ritchie. «Diciotto chilometri per la nave nemica, diciassette punto cinque per il missile. Il nostro campo dello Spazio Superiore deve agire come una specie di lente d'ingrandimento. Fa sembrare le loro navi più vicine di quanto siano. Quello è un missile, con molta probabilità. Non diverso dal nostro. Nessun dubbio sulle loro intenzioni ormai! Distanza del missile, sedici punto cinque, in avvicinamento». Jacobik si inumidisce le labbra. «Permesso di distruggerlo, Signore?» «La radiazione, uomo!» urla Heinz. «Ci inzupperai di raggi X e gamma». «Permesso accordato. Non usi i laser. Dovrà usare un missile. Programmi e spari». «Capitano!» «Trimble, massima forza. Vasilenko, chiuda gli oblò. Calmo, Anders. La radiazione della luce sembra propagarsi ad una velocità molto lenta qui. Dobbiamo ipotizzare la stessa cosa per tutti i tipi di radiazione». «Missile uno partito». «Attenda», dice Heinz. «Il nostro missile non dovrebbe ricadere nello spazio normale quando lascia il campo? Non dovrebbero farlo anche i loro?» «Missile uno in rotta d'intercettazione. Non lo farò sbagliare!» «Tu non lo farai, Jacobik? Riesci ad arrivare là fuori con la tua volontà?» L'accelerazione ci spinge di nuovo, crescendo e calando ad ondate come la pseudo-gravità. Non è una vera spinta, ma un riflesso della nostra paura, il nostro disperato desiderio di fuga. «Dobbiamo combattere le loro armi con lo stesso tipo di arma, Anders», dice il Capitano K. «Altrimenti non possiamo garantirci di fermarli. Noi non conosciamo le regole, qui. Sospetto che siamo al sicuro finché non ci facciamo catturare dalla palla di fuoco...». Perciò aspettiamo. «Missile nemico, sette punto cinque chilometri. Contromissile, cinque punto cinque. Sul bersaglio. Spengo i video-telescopi». Quando gli schermi si spengono, ci ritroviamo all'interno di un solido
guscio con solamente i tubi a raggi verdi di Jacobik e Ritchie all'erta. Il sudore dilava la fronte e le guance scavate di Jacobik. «Palla di fuoco! Il radar registra una doppia palla di fuoco!» «L'abbiamo fermato!» Ridiamo, piangiamo. «Stiamo assorbendo una dose insignificante di raggi X», comunica Natalya immediatamente. «Ora dei gamma. Un niente». «Prima arrivano le immagini del radar, poi i raggi X, poi i gamma», dice Heinz. «Perciò la radiazione EM di lunghezze d'onda più corte viaggia più lentamente delle lunghezze d'onda più lunghe, e perdendo intensità, credo! C non è nemmeno costante per tutti i tipi di energia radiante». «Hanno fatto un altro uovo. Due uova», avverte Jacobik. «Li vedo», da Ritchie. «Missili due e tre, partiti». «E i missili usano una guida radar! Su quale frequenza cercano quei missili?» Heinz si rincantuccia con Jacobik, a parlare con urgenza di frequenze molto lunghe. René viene a ritirarsi accanto a Peter e me. Si strofina il naso perplesso. «Questo combattimento ha la stessa logica di un sogno, Amy. Forse dovremmo semplicemente urlare loro di andarsene? Guarda Sachiko». Sachiko è assorta nell'astratta eppure mortale battaglia tanto quanto Heinz è ora assorbito dal problema delle frequenze. Le sue mani sottili si muovono in rudimentali gesti difensivi come potesse deviare quei missili alieni con le sue palme in una mossa di aikido. Da buon endomorfo, René rimane risolutamente se stesso malgrado la minaccia. Non è tanto concreta da convincerlo. Lui è un sensitivo ma è anche qualcosa come un sensualista, e i suoi sensi non sono sufficientemente corteggiati. La ricetta del disastro è li davanti a lui, ma non riesce ancora ad assaporarne né odorarne il bouquet. «Chi possono essere?» mormora Salman fra sé, vicino. «I nemici del Pianeta di Dio? Quelli che siamo venuti a combattere?» Più che un po' sedotto, anche lui, sembra, dal pensiero della guerra santa. «Doppia palla di fuoco, due volte!» Ritchie comunica con entusiasmo. Come se stesse ordinando un qualche tipo di cocktail eccitante ad un invisibile barista. «Uhm, i segnali del radar sono strani, signore. Attivo i telescopi per un avvistamento visuale». Eccoli lì di nuovo, galleggiare nei due schermi. Li abbiamo distrutti? No, i veicoli alieni stanno mutando forma. Il cono sta diventando simile ad una scatola, i palloni si stanno contraendo in sottili salsicce. Anche l'ovoi-
de si sta alterando... È tutto sbagliato. «Forse li stiamo soltanto vedendo da un'angolazione diversa», suggerisce Natalya. «Come possiamo vedere qualcosa comunque, nello Spazio Superiore? Se vediamo quelle navi, perché non le stelle?» «Perché anche loro stanno usando la propulsione dello Spazio Superiore», dice il Capitano K. «Presumibilmente questo crea una risonanza, un ponte fra noi. Di conseguenza i loro missili restano nello Spazio Superiore, ed anche i nostri. Ma nessuno comunica sparando missili. Distrugga quelle due navi, signor Jacobik». «Quattro partito, cinque partito». Jacobik lancia con violenza le nostre freccie nucleari, mentre Ritchie copre i telescopi. Di nuovo l'accelerazione aumenta, irregolarmente. Ondeggiamo, ci afferriamo. «Rinormalizzi la nostra velocità, poi, Colonnello Trimble. Non sappiamo come possano tradursi nell'universo normale questi cambiamenti di velocità nello Spazio Superiore. Questo potrebbe essere il loro piano. I fuochi d'artificio potrebbero essere incidentali». «Merda, hanno sparato una salva!» Il sorriso sottile di Jacobik smuore mentre fissa i suoi strumenti, contando. «Sette, otto, nove». «Confermo. Si allargano. Due diretti sui nostri missili. Altri su vettori diversi». «Laser lenti», borbotta Heinz, ormai disilluso. «E testate nucleari che fanno danni quanto una bomba a mano... Che risultati insignificanti danno le nostre armi». «Perciò il mio commento a proposito dei fuochi d'artificio, Anders. Probabilmente l'effetto più importante è risucchiato giù nello spazio normale. Spero che non stiamo distruggendo nulla». «Sei contento!» accusa Jacobik, spingendo lontano da sé Heinz con uno sguardo pieno d'odio, che comprende perfino il capitano K. «Tu veramente non vuoi che li spazziamo via dal cielo. Ci stai condannando!» «Come potrei» dice perplesso Heinz, ritirandosi. «Intercetti quei missili, signor Jacobik. Usi la salva minima possibile». «Il minimo assomma a sette. È tutto quello che ci è rimasto!» «Doppia palla di fuoco! E ancora. Così ci tirano fuori i nostri missili d'attacco. Sette missili nemici in arrivo. Quei lenti raggi X non possono aver fuso i loro circuiti». «Usi tutti e sette, signor Jacobik. E poi, preghi». Jacobik obbedisce, poi fissa inquieto il suo banco di controllo, perché il
suo nido è senza uova ora. Quando i due minuscoli soli doppi fioriscono invisibili nello Spazio Superiore, con Ritchie che conta le eco degli scoppi, qualcosa mi si contorce e si gonfia e esplode all'interno. Qualcosa si scarica nel mio stomaco, nel mio addome, nel mio sesso. C'è un assurdo sollievo. Un rilassarsi della tensione. «L'hai sentito, Amy?» balbetta Peter. In gradi diversi, tutti dobbiamo aver sentito. Il viso di Jacobik è prosciugato di sangue. «Un sogno», mormora René. «E dopo?» Come in risposta, Ritchie attiva i telescopi. Quattro scimitarre di luce rossa stanno abbattendosi su di noi. Sono troppo vicine. Non c'è tempo di armare i motori. «Siamo colpiti», grida Natalya; e il suo viso rivela stupore. «No, non lo siamo. Sì, lo siamo. Ci sono dei danni, ma sono i vecchi danni. Gli stessi luoghi che sono stati già colpiti dai laser. Non capisco». «Io sì», dice Heinz. «Ci siamo colpiti da soli con i laser. L'abbiamo già fatto quando è suonato l'allarme, quando eravamo tutti nella sala mensa. La causalità è diversa qui. Fuori, causa ed effetto crollano. Tu hai sparato i nostri laser, Jacobik, perché il tuo sangue è ribollito ed eri assetato di combattere. Ci siamo tutti fatti coinvolgere molto. I raggi si sono attorcigliati attorno a noi nello Spazio Superiore, ed anche attraverso il tempo. Ci sono due momenti d'impatto, che si bilanciano a vicenda: dopo che hai sparato, e prima che tu sparassi. L'effetto è la causa dell'effetto, ma la vera causa sei tu, amico mio. O», rabbrividisce. «Forse noi tutti, con te come catalizzatore. Ci siamo soltanto sparati addosso. Il che significa...». «Guardate le navi aliene!» Peter afferra il braccio di René. Sugli schermi dei video-telescopi le navi si stanno ingrandendo, avvicinandosi da due diversi quadranti. Continuando a mutare forma. Il cono ora è un prisma, tempestato di quattro cubi. E l'ovoide è un cubo, con emisferi sulla sua superficie. Ritchie riduce l'ingrandimento, così ora non stanno per nulla avvicinandosi a noi, ma si stanno dirigendo l'una verso l'altra. «Non spareranno più», grida Peter. «Lo so, non lo faranno. Non lo sapete anche voi?» René si batte lo stomaco e sghignazza. «J'en suis certain». «Ha ragione!» urla Heinz. «Loro sono noi, ecco cos'è. Sono proiezioni... trasformazioni del Pilgrim. Hanno forme uguali alle nostre: ognuna cinque unità collegate. Topologicamente non ha importanza se quelle sono sfere o cubi o gattini. Quella là fuori è una zona di geometria astratta».
Così le due strane navi convergono. Si scontrano, e penetrano l'una nell'altra, diventando una. Quell'una è l'immagine speculare del Pilgrim. Rapidamente, l'eco del Pilgrim là fuori si riduce ad un punto che si perde nella grana dello Spazio Superiore. Siamo di nuovo completamente soli. «Allora, a che cosa stavamo sparando?» chiede stancamente il Capitano K. «Ai loro doppelganger. Loro stessi, prima di essere sparati. Sono esplosi nelle vicinanze di se stessi. Spero che non abbiamo perso troppa spinta a causa di questo». Voltandosi, Heinz marcia magneticamente sul ponte verso il punto in cui la cima di controllo del motore alieno spunta dal basso... SETTE Il motore dello Spazio Superiore era un'iridescente piramide cristallina alta circa quattro metri. Sembrava viva, ma in uno sconosciuto modo minerale. Sembrava che potesse essere cresciuta proprio lì, come un cristallo, trasmutando i sassi neri del Gobi per creare la propria sostanza. Ed era un oggetto di pensiero proiettato da un altro luogo, un oggetto che formava un sistema di cognita sufficientemente complesso per durare, apparentemente in permanenza. Aerei russi e cinesi scoprirono la piramide assisa su un tratto pietroso del deserto a nord-ovest di Gashiun Nor, dove la Mongolia e la Mongolia Interna cinese s'incontrano ambiguamente. Piccola in sé, veniva indicata con un blip considerevolmente più grande sui radar al suolo, come se fosse circondata da un grande ed invisibile zeppelin ellissoide. Posto in una delle facce della piramide, in alto, c'era un traslucido rombo piatto. All'interno di questo rombo, un disegno di punti luccicanti - una mappa stellare, forse perfino un piano di volo in codice - indicava 82 Eridani come il sole bersaglio. Dato che il rombo era inamovibile, rimase solamente una probabilità molto alta il fatto che potessero venire calcolate migliaia di rotte alternative, migliaia di piani di volo simbolici; o anche che questo stesso rombo potesse venire modificato dall'interno per disegnare la mappa di altri possibili voli. (Come un ritorno alla Terra? Non lo sapremo, finché non riattiveremo la piramide, vicino a 82 Eridani. La conoscenza non si manifestò. Noi non sappiamo). Su una seconda faccia, in alto, era incassato il misuratore di probabilità, come venne ad essere conosciuto: un cristallo triangolare color arancio con una sottile linea verde che attraversava la taratura sul fondo. Si percepiva
che era così. Si percepiva molto del suo funzionamento standogli accanto... molto, eccetto come funzionava. Sulla terza faccia, c'era un latteo cristallo che racchiudeva una minuscola piramide all'interno di un'ellisse di luce. Quando questo cristallo veniva toccato, all'interno dei confini dell'ellissoide apparivano una serie dietro l'altra di progetti alternativi: probabilmente scafi di astronavi, insieme ad alcuni altri che francamente erano molto improbabili. L'effetto era tridimensionale. Ogni decimo scafo di ogni serie diventava troppo largo per l'ellissoide, e scoppiava in una palla di fuoco. In questo modo venivano definiti i limiti di grandezza. La quarta faccia recava un disco, nero come la notte, con una minuscola piramide bianca appollaiata su una palla verde sospesa all'interno. La piramide era staccata dal «pianeta», ma soltanto quando le due si allontanavano di una certa distanza, la piramide di colpo inglobava il suo ellissoide di luce. Sotto, c'era l'attivatore: un semplice interruttore. Di nuovo, si capiva che cos'era; la conoscenza si insinuava... Ancora più sotto, lo «psicometro»: un pannello blu con una stilizzata figura all'interno, e sull'orlo della visione tracce di altre possibili entità, tozze, rotonde, con quattro gambe... Su entrambi i lati dello «psicometro» c'erano dei recessi poco profondi con piccoli manici che sicuramente servivano per essere afferrati. Le prime squadre di scienziati si trovarono ad imparare per mezzo di ondate di comprensione (tanto, e niente più), lassù nel Gobi, una terra di nessuno, mentre i soldati si controllavano a vicenda e gli elicotteri sorvolavano in grandi cerchi, le ambasciate cinesi e sovietiche discutevano animatamente (e i satelliti americani analizzavano nei dettagli quello che stava accadendo al suolo). Finalmente il governo cinese propose formalmente una spedizione internazionale. L'America aveva le capacità tecnologiche per produrre l'astronave; gli amici della Cina della Repubblica Popolare Islamica dell'Iran offrirono un consistente apporto finanziario, in cambio, era tacito, uno scienziato iraniano avrebbe accompagnato la spedizione, uno scienziato musulmano; mentre gli amici della Cina del Mercato Comune, che avevano dato l'impulso al balzo in avanti della scienza degli anni ottanta prima del gelo degli anni novanta, avrebbero anche loro contribuito. La Russia improvvisamente appoggiò il progetto internazionale, per minimizzare la presenza cinese... «La linea verde sta saltellando su e giù» «Sta ancora cavalcando le onde d'urto...»
Serpenti e scale: il nostro viaggio ci porta in giro per un tabellone del gioco dell'oca. Ora che abbiamo incontrato un serpente, potremmo scivolare di nuovo all'inizio del gioco. E il serpente siamo noi stessi... Potremmo rimanere ad oscillare qui per sempre. O potremmo improvvisamente arrivare. «Qualcosa si è proteso», sussurra Salman. «Proprio come si è proteso verso la Terra. Si è proteso per disarmarci». Jacobik si abbatte sulla sua console, piangendo. Piangendo amare lacrime. Non sapevo che ci fossero ghiandole lacrimali nei suoi occhi. «Si sta stabilizzando ad un livello più alto! Sta tenendo. Oh, dovevamo liberarci di tutte le nostre paure e il nostro odio. Dovevamo spedirle fuori bordo, farle esplodere». Heinz guarda vivacemente il Capitano K. Che si stringe nelle spalle. «Siamo tutti drogati dall'irrealtà, come dice Natalya. Siamo preda di allucinazioni, disarmiamo la nave... mentre le costanti fisiche giocano a dadi all'esterno». Si mette al fianco di Jacobik per posare una mano paterna sulla spalla del Ceco mentre il nostro exguerriero singhiozza infantile, impotente, tutti i suoi pungiglioni ritratti. «Lo sai, Compagno, che al mio paese hanno un proverbio che dice che un gruppo di gazze ha più forza di una tigre? Noi non siamo più tigri. Allora, uniamoci tutti insieme!» «Le gazze sono ladre», sbuffa Wu. «Che cosa siamo, in realtà, se non un gruppo di ladri, che prende a prestito strumenti alieni che non abbiamo mai prodotto? Oggigiorno, non si prega, ovviamente. Non ancora! Si parapsichizza una macchina, come si dice in gergo. Il passo successivo sarà pregare, comunque. E anche sulla Terra, com'è in Cielo? Come Menciu disse in verità: «Il Cielo non parla!» Il nostro Capitano la rimprovera gentilmente: «Si può anche scegliere la propria via attraverso quel flusso irreale là fuori con un atto di pensiero e immaginazione, non soltanto con la meccanica bruta». «Ecco il misticismo al cuore dell'anima russa». Wu rimane lì con la mano alzata, una Cassandra cinese della Ragione rivoluzionaria. È troppo in ritardo; il mondo è già mutato. L'universo è altro da ciò che pensavamo. Perciò lei prega, novella Cassandra, a orecchie sorde... O, forse, lei è quella figura posta dietro il trono dell'Imperatore il cui dovere era sempre di sussurrargli all'orecchio: «Ricorda che sei solo un essere umano?» Di certo lei ometterebbe l'avverbio! Essere umano è abbastanza. Ed ora per questo è troppo tardi: il superumano è su di noi dalla stella 82 Eridani... Eppure, per quanto bravo soldatino sia, - militante politico, pure: storio-
grafo reale! - c'è qualcosa in lei, a cui Ritchie risponde molto più profondamente di me. Ma che io percepisco. Lei indossa una maschera, una maschera veramente perfetta, eppure non è il suo vero viso. Perfino immersa nei rapporti obbligati dello Spazio Superiore, non riesco a vedere che cosa sia questo. È come se si fosse ipnotizzata da sé, per scordarsi di sé, una tipica manovra politica cinese, forse... Quel suo viso «reale» si è fatto ormai identico alla maschera politica? Non del tutto. C'è una debole, eppure crescente, traccia di ironia o perfino sarcasmo nelle sue prediche, diretta non soltanto a noi demoni ottenebrati ma a quelle stesse prediche, come se ci stesse fornendo un nascosto avvertimento al proposito, presentando deliberatamente se stessa come l'epitome di ciò che attacca: che è la fede cieca nel controllo della mente delle persone. Lei predica, non soltanto a nostro beneficio apparente, per criticarsi (perché non scordiamo), ma anche per rafforzare la sua silenziosa e impassibile compagna Li verso una perfino più implausibile perfezione. Ma di certo Li è semplicemente uno scienziato dalla mente fredda, neutrale e piacevole, che pensa soltanto alla biochimica (assistita dai pensieri di Mao e Stalin), laddove Wu è il demagogo. In qualche modo, facendo di sé un portavoce così pressante, e così stridente, Wu suggerisce che in realtà è tutto il contrario... Io non la capisco. Ma c'è qualcosa da rispettare. OTTO «Falso». Peter dà uno schiaffo allo schermo dell'autocuoco. «Guarda un po' qui. Che cosa succede al nostro Maitre d'?» René, Zoe e Ritchie si sono tutti uniti a noi nella sala mensa; ci saltano o ci volano sopra. JOGURT DI CARCIOFI ASPARAGI VINAIGRETTE CAVOLO BOLLITO ORTAGGI A LA GREQUE BARBABIETOLE X INSALATA DI FEGATO X KOFTA Ritchie sbircia. «Sono tutte dannate verdure. Meno il gelato, ed è finito. Non c'è carne. A me la carne piace. Perché ci vuole mettere a dieta vegeta-
riana? Paura dello scorbuto parziale? Non sa nemmeno nulla di noi! Programma idiota!» «Escludilo», suggerisce René. «Batti un altro menù». «È difficile stupirsi che non sia rimasto più gelato», fa notare Zoe. «Data la frequenza con cui se lo sta ingurgitando l'amico Jacobik. E non ha smesso nemmeno da quando voi-sapete-cosa. Compensazione infantile, eh? Gioie fredde per ragazzi freddi». Peter preme un tasto. Appare: JANNOH ALLA VANIGLIA ARANCINI DI COCCO X CROSTATA DI MELE X ORZATA BUDINO AL LIMONE X INSALATA DI GELATO X KUMQUAT «Tutti dolci!» Fischia Ritchie. «C'è qualcosa che non funziona con la domestica. Meglio che chiami Natalya». Poi si accende la lampadina. «Non ha fatto soltanto quello, Jacobik. Guardate le lettere iniziali». Le seguo una ad una. «Che cosa fanno? Jacobik». «Forse è un grido d'aiuto», dice Zoe. «Certo, dal profondo dello stomaco. Dei nostri stomaci. Cristo, che si sia divertito a fare anche altri scherzi? Ci ha già fatto perdere tutti i nostri missili». «Noi tutti abbiamo perso i missili», dice fermo René. «Ed è stata anche una buona cosa. Una specie di purificazione». «Un altro po' di pasti come questi e non avremo più bisogno di purificazione, ragazzi! Farò meglio a chiamare anche il Capitano. Dovremo controllare anche tutti i sistemi della nave, adesso. Merda». Zoe è d'umore misericordioso. «Forse non è colpa di Jacobik. Soltanto perché viene fuori il suo nome sullo schermo...». «Ovvio che è colpa sua!» Lo so per certo, come se avessi sfiorato la sua mente malvagia, ed in realtà è proprio ciò che credo: contatto momentaneo con un ragno che rimugina. «Questa è la sua firma. È impazzito. Oh, certo è sempre stato pazzo! Ma adesso è tutto pazzo».
Jacobik è agli arresti nella sua cabina con un sigillo improvvisato alla porta. La probabilità del nostro arrivo è diminuita di nuovo, la linea verde scesa ancora sotto il cristallo arancione. Ghignava come un delinquente minorile quando gli sono state presentate le prove. Adesso siamo tutti in odioso loco parentis nei suoi confronti, e un minuscolo omunculus Jacobik arrovella la mente di ognuno... Gus si asciuga la fronte. «Almeno non è stato nulla di peggio dell'autocuoco. Se avesse fatto un tentativo con il reattore...». Kendrik sembra furioso con Gus. «Non avrebbe potuto! Che cosa vuoi dire?» «Se il reattore avesse cominciato... be', a iper-reagire...». «Impossibile». Il Capitano K scuote il capo leggermente, rivolto a Kendrik. («Calmo. Non continuare.») Strano. «Potrei suggerire», propone Natalya, senza notare nulla di questo scambio. «Dato che Jacobik è già neutralizzato, eppure la probabilità continua a scendere, che la neutralizzazione è del tutto inutile?» «La cosa ti sorprende? Lui è dentro tutti noi!» La mia testa pulsa dolorosamente di lui. «Forse dovrebbe passare il resto del viaggio completamente incosciente. Possiamo nutrirlo per endovena». Zoe alza la mano. «Allora il viaggio sarebbe comunque vulnerabile ai suoi impulsi inconsci, per tutto il tempo e non soltanto durante il sonno. Heinz dice che in realtà la probabilità è scivolata indietro», - fece un gesto di ripulsa verso l'orologio - «un certo tempo fa, quando Jacobik dormiva. Quando si è svegliato, la probabilità si è stabilizzata». «In questo caso bisogna spegnerlo del tutto, e basta!» Ritchie si mangia il labbro ma non c'è modo di rimangiarsi le parole. «Oh, no. Bisogna che rimanga più sveglio. Bisogna che venga reso più responsabile, più cosciente. Ha bisogno di scendere a patti. Smettiamo di drogarlo e cerchiamo di guidarlo. Guidarlo indietro. È vero che ha cercato aiuto, in un modo contorto. Noi dobbiamo dargli quell'aiuto. Io posso essere un ascoltatore amichevole. Sapete, una volta quasi diventavo prete, molto tempo fa». «Facciamogli mangiare del gelato», sogghigna Gus. «Solo che se l'è già mangiato tutto, proprio come ha sparato tutti i nostri missili». «Non è il nostro capro espiatorio! Se qualcuno è colpevole, lo siamo tut-
ti. Come dice Amy, lui è dentro ognuno di noi». «Perché mai lui dovrebbe voler arrivare, eh? Non ha nulla da fare quando arriverà lì». «Fatemi provare. Un po' d'amore e solidarietà». «Anch'io dovrei provare», insiste Natalya. «Un po' di psicoterapia». «Non c'è dubbio che non dovrebbe essere così completamente isolato da noi», annuisce il Capitano K. «Ma nemmeno possiamo lasciarlo libero. Eppure, mi preoccupo di lasciare uno qualsiasi di voi solo con lui». Natalya ride. «So badare a me stessa». Zoe si limita a stringersi nelle spalle; lei sa tutto di auto-difesa da tanto tempo fa, dov'era cresciuta. «Ora si trova sicuro agli arresti», fa notare Wu. «Lasciamo che si guadagni il suo posto fra noi sviluppando un pensare corretto, riordinando i propri pensieri costruttivamente». Deride lievemente le proprie parole, senza guardare mai Li, ma parlando a lei, sospetto. E Li, sorprendentemente, reagisce. «Sì, dev'essere ricondizionato ad un pensare corretto. Perciò dovremmo adottare una politica di unità e critica, una tattica «due torti non fanno una ragione»; mi riferisco ai torti della religione e della psicanalisi. La semplice eliminazione dell'erba velenosa potrebbe essere deleteria per tutti noi». Bellissimo fiore Li, con i freddi semi del gergo politico nel cuore: puri codici, quando si arriva a parlare del trattamento di un uomo (anche se l'uomo è Jacobik)... È proprio così che sei? «La psicoterapia potrebbe durare mesi», dice Ritchie. «È per questo che sostengo la mia via», sorride Zoe. «Potrebbe essere in bilico sull'orlo di una...». «Una conversione?» «... be', di... una struttura mentale più positiva. Fino ad ora è stato tutto negativo: un messaggero di morte. Come potrebbe adattarsi se viene tenuto in una specie di camicia di forza? Farebbe impazzire chiunque». «Forse dovreste tutt'e due essere sempre presenti contemporaneamente», suggerisce il Capitano K. «No, per guadagnare la sua fiducia...». «L'analista deve operare in privato», dice Natalya nello stesso momento. «Lui si trova, come fa notare Wu, adeguatamente assicurato». «Anche se, forse, un'analisi di gruppo», tentenna Zoe... gelosa di Natalya? «Nell'analisi di gruppo siamo tutti coinvolti, per tutto il viaggio», sospira Kendrik. «Dove ci ha portato? Dove siamo ora?»
Una domanda alla quale nessuno di noi, naturalmente, può rispondere. NOVE È una mattina di corallo, a Praga. Campane riempiono l'aria di tonanti suoni. Vapori d'ametista si sollevano dalle acque della Vltava. La nera sagoma allungata di una chiatta scivola controcorrente, facendo vibrare nella sua scia una piccola barca a remi legata a sé. Proprio come lui mi fa vibrare, nella sua scia, legata... Il ragazzo si china sul ponte. Ha una fionda infilata nella tasca posteriore; vuole colpire un piccione. O una colomba. «Tu? Come?» «Siamo tutti parte l'uno dell'altra, sorellina», sogghigna maligno. Ed io so dove sono, con la stessa certezza con cui so - attraverso lui - che questa è la Praga dei suoi giorni adolescenti. Sono intrappolata nella mente di Jacobik, che è volata a casa all'infanzia. Mi ha catturato. Eppure, in qualche modo, ora che lo osservo veramente, il sogghigno non è maligno. Soltanto malizioso. «Ma tu sei stata schiacciata dai carri, sorellina... Sei proprio simile a lei, sai. A quello che sarebbe stata. Una bella ragazza coraggiosa, piena di vita, piena di ideali. Dio, come sei cresciuta! Vita e ideali non vanno molto bene insieme, sorellina. Gli ideali appartengono a qualcosa d'altro. Gli ideali sono uccelli, dovrebbero volarsene via verso il luogo in cui potranno essere felici. Da qualche parte fuori dal mondo». Lascia partire un sasso dalla fionda, ed uno scheletrico piccione sbatte le ali spezzate lungo il marciapiede, finché lui non gli dà il coup de grace con il dorso della mano. «Bastardo!» Sembra ferito. «Non chiamare così tuo fratello. Non essere orripilata, amie. Amo tutto ciò che porta morte. La morte è la porta d'ingresso. Si può amare la morte». E d'improvviso lo riconosco. Come una sorella può riconoscere un fratello, che è opposto a lei in ogni senso. Questo paese è una terra dei morti, una terra cintata. I carri hanno attraversato la frontiera. I fiori sono tutti schiacciati dai loro cingoli. L'unica via d'uscita è la morte. Lui ha visto le espressioni sui visi dei morti, e sui visi dei morenti, uno sguardo di orribile libertà, quasi di liberazione. L'educata etichetta dei muscoli facciali è crollata. Hanno le mascelle rilassate, le
bocche aperte, le labbra bagnate di saliva, i visi incontrollati, come ragazzi che si masturbano in una baracca di legno sbirciando attraverso le fessure una ragazza che, anche lei, ha allentato l'etichetta delle spalline del reggiseno prendendo il sole. L'unica via d'uscita per attraversare la frontiera è la morte, il cui servitore perciò lui sarà, in modi minori dapprima, poi più professionalmente, indossando un'uniforme dello Stato, con la severa ostentazione dell'assassino pubblico. Salirà in alto, più in alto dei piccioni e delle colombe con la loro sbrecciata e falsa libertà dei cieli e dei tetti, alto quanto la morte può essere sollevata. Eppure rimane sempre l'orrore che la morte possa non essere, dopotutto, il visto irrefutabile; che un comitato, una polizia, un ufficio politico possa presiedere sopra la morte stessa, comandando perfino le anime dei morti (che non saranno morti, ma soltanto sepolti vivi), a controllare quell'ultima libertà. Si fruga nelle tasche in cerca di un altro sasso e, non trovandone, scoppia in lacrime. Balbetta... petulante? No: disperato. Ha pianto così, dopo aver sparato tutti i nostri missili, e dopo che questi si erano annullati da soli, senza ottenere nulla. È pazzo. Infantile. Crede che la morte sia un raggiungimento, qualcosa da conquistare, non da superare. «Noi ci siamo purificati quando hai sparato tutti i missili», cerco di spiegargli. (Dopotutto, abbiamo promesso di aiutarlo). «Non potevamo proseguire per il Pianeta di Dio con tutta quella zavorra di inutile animosità umana a bordo. Inutile, certo! Meschina. Ci è stata soltanto tolta dalle mani, come un giocattolo cattivo». Tendo una mano per togliergli la fionda, per gettarla oltre il parapetto del ponte nelle acque lattee della Vltava; ma lui la stringe forte al cuore, quasi come un crocifisso. Come se Cristo fosse stato ucciso da una fionda. «Inutile? Sorellina, era tutta la nostra conoscenza della morte, e di ciò che la morte potrebbe essere per noi! Abbiamo bisogno della morte come alleata». «Non riesco ad immaginare perché!» «Perché conduce oltre. Io condurrò tutte le creature oltre! È necessario». S'illumina. «Baciami, sorellina. Ci apparteniamo. Tu sei l'altra parte di me. Ti cercherò per sempre». «Non lo farai!» «Quando una particella di materia incontra un'antiparticella, si annichiliscono in un lampo di luce. Lasciamo che ci sia questa luce fra noi, amie. Incontriamoci in quel lampo di luce. Amore incontra Morte. E diventano... la pura Luce. Il Dio. Attraverso la Morte. Io amo... ma tu non conosci il
linguaggio del mio amore. Baciami. Annichiliscimi. Lascia che sia la tua antiparticella. I cingoli dei carri ti hanno schiacciata, sepolta viva, ma qui ti ho di nuovo per me. Lascia che siano le mie dita a schiacciarti, invece. Farò io il lavoro che loro mi hanno strappato. Con amore... combatterò quell'ufficio politico dei Morti, se ne esiste uno. Ed io lo sento. Mi ha rubato le mie armi, così che tu non conoscessi quale benedizione sia la morte». Una specie di brutto sogno. Meglio che non ricordi nulla, a parte la cattiveria. Non voglio. Qualcosa - qualche elemento curativo, calmante in me - mi consiglia che è meglio così. Qualcosa di benedetto. Qualcosa di più grande - una balena saggia nel mare della mente totale - ha fatto sparire al setaccio le piccole cose cattive che mi punzecchiavano. Ah sì, devo aver sognato la battaglia fantasma. Ma ora siamo salvi. Siamo purificati. Oh no, non lo siamo. C'è sempre quel maledetto pazzo. Jacobik è morto, appeso nudo nella sua cabina. Come fa un uomo ad impiccarsi nello Spazio Superiore, dove la gravità è nulla? Per puro odio della nave, di se stesso, ha generato ondate di semigravità abbastanza violente da soffocarsi nei nodi del cavo di plastica che lo aveva fino a prima legato alla sua cuccetta, per i polsi e le caviglie? Quel cavo ora gli collega il collo ad una travatura del soffitto. I suoi vestiti, strappati via da lui, galleggiano come bandiere di cenci nell'aria... Con quanta agilità deve essersi contorto e avvolto, per sciogliere i legacci con i denti! Quanto deve aver amato la morte, per morire eiaculando! La morte è stata il suo orgasmo, e il suo orgasmo è stata la morte: una perfetta equazione che lo ha annullato, facendo come somma finale zero. «Non è così», dice il Capitano K, dopo che il corpo è stato congelato. «Mi duole dire che Jacobik è stato senza dubbio assassinato. Il sigillo alla porta è stato manomesso con molta abilità...» Neil Kendrik annuisce cupo. «A giudicare dal modo della sua morte, sono condotto a credere che dev'essere stato un membro femminile dell'equipaggio, a meno che non...» Lascia sospesa l'implicazione alternativa, come il corpo di Jacobik, a perseguitarci. Mi fissa in viso, poi, di volta in volta, fissa Natalya, Sachiko, Zoe, Li, perfino Wu; poi scruta anche gli uomini, per buona misura. «Qualcuno si è introdotto nella sua cabina. Qualcuno lo ha slegato, ma non i polsi e le caviglie... questo l'ha fatto dopo. Ho notato le escoriazioni». «Potrebbe essersele fatte da solo, le escoriazioni, cercando di liberarsi»,
dice Natalya, tagliando corto. «Da, per liberarsi dalla morte. Se fosse stato libero, perché si sarebbe strappato di dosso i vestiti per toglierseli? E perché mai toglierseli? Chiaramente era ancora legato». «Era pazzo», dice Trimble, inquieto. «Qualcuno lo ha sedotto, nel suo ardore, nella sua infantile brama e vulnerabilità». «È mostruoso», protesta Wu. «Sporco bastardo», borbotta Ritchie, perle brillanti sulla fronte. (Vuol dire Jacobik? O l'assassino sconosciuto? O il Capitano K per aver svelato il modo di effettuazione del crimine?) Lancia un veloce sguardo ardente a Salman, come se lo sospettasse di aggressione omosessuale o temesse qualcosa di quel genere da se stesso e associasse l'idea al bel persiano dagli occhi dolci. (Noi siamo ermafroditi, a causa dello Spazio Superiore. Quanto penetriamo l'uno nell'altra, perfino sessualmente!) «Se qualcuno voleva ucciderlo», dice René razionalmente. «Di certo era più semplice strangolarlo mentre era ancora disteso e legato alla sua cuccetta. Questo è un modo molto strano di uccidere qualcuno». «È un'esecuzione simbolica», dice Peter. «Morte per impiccagione. Altrimenti sarebbe stato soltanto un omicidio furtivo. Così, in qualche modo, è un atto di giustizia. La mente inconscia lo giustifica». «Sedotto alla morte». Il Capitano K si volta lentamente, fissandoci tutti ad uno ad uno con il suo sguardo. «Io non conosco personalmente molto di questi effetti erotici della semi-gravità. Solo di seconda mano. Hmm, circa quattro ore fa, credo... No, dev'essere stato di più. Maledetto questo tempo contorto! C'è stata una spinta, un'onda. Chi ha fatto l'amore, ultimamente?» Il problema è che nessuno di noi sa in realtà che cosa significa «ultimamente». Nessuno si fa avanti. «L'amore, mi ripugna dirlo, è stato usato per uccidere. Questa piccola morte è diventata la grande morte». «Thanatos e Eros mano nella mano», annuisce Natalya. «Quale prova reale possiede?» scoppia Trimble. «Tutto questo ferisce molto...». «Lo percepisco, più che altro. Percepisco il modo d'esecuzione della sua morte. Escoriazioni e chiusure manomesse sono secondarie. Io so. Ma non so come. Porta sentore di tutti noi. Così come quella spinta di semigravità... ultimamente». «Già, credo di averla notata», ammette Ritchie. «Qualche tempo fa. Do-
po che mi sono svegliato. Credo». «Anch'io», dice Wu. Alcuni di noi sono meno certi. «Devo essere stato addormentato», dice con sicurezza Heinz. Come me. «Forse siamo tutti responsabili», dice Zoe. «Anche se, come con la battaglia fantasma, una persona dev'essere stata il canale... il catalizzatore». «Questo ci consola? Questo assolve la persona responsabile? E per quanto riguarda la nostra pace mentale, comunque, Colonnello Trimble, la probabilità è ricominciata a salire. La sottile linea verde scivola più vicina alla sommità perfino mentre parlo». «Ja, è vero», conferma Heinz. «Chiunque sia responsabile sarà ancor più desideroso di arrivare, come tutti noi. Eppure qualcosa di prezioso ora se n'è andato dal viaggio, per me... molto peggio dell'errore di lancio dei missili. Porto questo allo scoperto, invece di nasconderlo come voi senza dubbio avreste preferito, per semplice dovere d'onestà e verità. Virtù irrilevanti? Be', sembra che si applichino qui. Non sentiamoci contenti che Jacobik se ne sia andato, perché quella contentezza non ci avveleni. Piangiamolo con sincerità. E ricordiamo sempre che uno di voi... E per essere giusto devo includere me stesso nel cerchio degli accusati...». Perché includere se stesso? Di certo l'accusatore è l'unica persona che possiamo con sicurezza escludere. Specialmente data la grottesca connotazione sessuale dell'assassinio... che sembra ad ogni momento sempre più simile ad una fantasia masochistica. A meno che... il Capitano K non desideri suggerire che lui stesso potrebbe essere il responsabile! Forse da solo, forse in lega con qualcun altro, suo agente. Chi? Natalya, che s'era vantata di essere in grado di badare a se stessa? O Zoe, che aveva offerto «amore» a Jacobik? Mentre Li casualmente aveva parlato di eliminazione... In questo momento - proprio come, in un lampo d'empatia, una volta avevo compreso quanto tutti siamo parte del laboratorio psichico del Capitano K - lui entra ancora in risonanza con me; poi svanisce di nuovo, svanito completamente, sbarrato via... Deliberatamente sta assorbendo il veleno della ferita in noi stessi, in sé. Si sta comportando da conduttore del fulmine per scaricare a terra il potere di vita e di morte che uno fra noi si è arrogato. Così facendo, ristabilisce la sua autorità come nostro vero commissario del popolo, unico possessore dell'autorità della sommaria e segreta corte marziale e della condanna. Facendosi carico della morte e della colpa, assume una posizione di distanza.
Stranamente, sento che ora abbiamo perso lui perfino più di quanto non abbiamo perso Jacobik. Quello che è successo con Jacobik è un'amputazione psichica, che ora è cauterizzata dal ritrarsi da noi del Capitano K. Ora non ci possono più essere uccisioni, perfino se esistesse un secondo Jacobik, perché il Capitano K è l'unico ad avere un simile potere. Ah, è proprio un diplomatico dell'anima. «Forse», dice piano Peter. «Dobbiamo stringere la mano al demone che è in noi, prima di poter di sbloccare i nostri impulsi interiori. Forse era inevitabile...». Kamasarin lo zittisce. Ora non è più il Capitano K, benigno, quasi paterno. Lui è Kamasarin, Grigory Arkadievitch, generale e leone. Siamo stati tutti dei bambini, fino a questo momento. Ma ora siamo più forti. Sì, siamo più forti. Noi tutti. parte seconda in basso DIECI Finalmente! Di colpo, termina questo singhiozzante nontempo... Un sole giallo penetra bruciante. Migliaia di stelle lucenti si fanno preziosamente distinte nella notte vellutata... Finora siamo tutti soltanto amebici e senza forma, privi di rigidità. Ora ci dissecchiamo e induriamo alla luce di quel sole, forme di pane cotte istantaneamente. Da un sonno ad occhi aperti, apriamo gli occhi sulla realtà del giorno. Ci scrutiamo a vicenda - di nuovo individui distinti, solidi, sani di mente - con imbarazzo misto a sollievo. Avevamo viaggiato nudi per tutto quel tempo senza mai rendercene conto effettivamente. Ora ci scopriamo d'improvviso rivestiti, completi rinchiusi dentro noi stessi, non più soggettività disperse. Là fuori, oltre gli scoperti oblò fotocromatici, vola un mondo: un doppio del sole, meno brillante, bagnato dalle tenebre. È un disco gibboso di ocra, arancione, e giallo. Sulla faccia di quel mondo scivola la minuscola macchia nera dell'ombra di una luna. Individuiamo una minuscola mezzaluna argentea, poi un'altra... «Ma è un gigante gassoso!» esclama Salman. «Possiamo essere soltanto a poco meno di una UA da quel sole. Siamo proprio al centro della zona abitabile... E c'è soltanto un gigante gassoso lì. Adesso dove andiamo?»
«A lavorare, signore e signori», dice con calma Kamasarin. «Andiamo a lavorare». Presto, i nostri strumenti cominciano a fornire i loro risultati... «Massa stimata del sole 0,91 di Sol», comunica Heinz. «Più o meno. Il raggio lo stesso. La temperatura di superficie attorno 5.100 gradi. È una stella di classe G5, questo si accorda a 82 Eridani. Il computer conferma lo spostamento previsto della struttura delle costellazioni. Siamo nella parte giusta dello spazio». «Niente sulle bande radio a parte qualche rumore naturale dal gigante gassoso. Sorgenti di microonde negativo». Kendrik ha la fronte aggrottata. «Non c'è nulla che possa interpretare come onde radio, o emissioni televisive, radar o qualsiasi altra significativa emissione d'energia. Nulla trasmette». «Forse non usano onde radio. Non hanno mandato la piramide sulla Terra con un mezzo convenzionale qualsiasi». «Speriamo che sia così, René. Altrimenti a casa non si torna». «Se riattiviamo la propulsione, forse ci potrebbe riportare diritti indietro. Non possiamo esserne certi». Salman è rimasto occupato a esplorare il piano dell'eclittica in cerca di altri pianeti. «Abbiamo altri due giganti gassosi, a 5 UA e a 12,5 UA. Questo qui vicino è a 0,77 UA. Perciò non ci può essere alcun mondo indipendente di tipo terrestre a causa dell'effetto d'inibizione. A meno che non sia molto distante e gelato». Contrae le labbra. «Temo che dovremo rivedere la nostra planetologia. La pressione della radiazione solare dovrebbe spazzare i gas primevi molto più all'esterno, lasciando gli atomi pesanti a condensarsi più all'interno. Eppure qui abbiamo dappertutto giganti gassosi... Be', questo è il primo sistema solare alieno su cui posiamo gli occhi». «E a proposito del locale gigante gassoso, è della classe di Saturno. Un po' più piccolo: 120.000 chilometri di diametro all'equatore. Una miscela di idrogeno-elio, molto ricco d'ammoniaca, metano e carboidrati, e anche con tracce di metalli. È denso e caldo, più massiccio di Saturno, forse. E naturalmente riceve molto calore dal sole, il che dovrebbe rendere i mutamenti atmosferici molto violenti. Mi aspetterei più rumore radio di quanto dice Neil». «Perché?» chiede Kendrik seccamente. «Oh, tempeste su grande scala. Finora ha otto lune. In realtà, noi siamo all'interno dell'orbita della piccola luna più esterna. La più grande è circa
della grandezza della Luna, massicciamente craterizzata e nessun segno di atmosfera. A giudicare dai dosimetri sullo scafo la magnetosfera non è densa quanto ci si aspetterebbe così vicini al sole, nemmeno lontanamente. I rischi di radiazioni nello spazio locale sono accettabilmente bassi». «Il gigante gassoso potrebbe essere abitato?» si chiede René. «Se è così caldo... Ciò implicherebbe una tecnologia del tutto diversa dalla nostra... Soltanto perché noi abbiamo visto angeli umanoidi... Be', le nostre stesse menti hanno giocato un ruolo nel dar loro forma». Gus Trimble ha il muso lungo, il che mette in risalto le sue mascelle ancor più del solito, come se la gravità fosse già tornata e di conseguenza i suoi tessuti fossero diventati cadenti. «La nostra rotta corrente ci sta portando verso il sole, all'interno dell'orbita del gigante gassoso. Se lasciamo che le cose procedano, entreremo in un'orbita solare ellittica, che ci porterà a quell'ipotetico punto d'iniezione nello Spazio Superiore entro circa un'altra settimana dopo aver superato il gigante. C'è comunque un problema. Se orbitiamo attorno al gigante, be', a meno che non riusciamo a completare le riparazioni non so se ce la faremo ad arrivare a quel punto d'iniezione, sempre supponendo che ci sia il biglietto di ritorno! Non con due motori, con il carburante che ci è rimasto. Ne abbiamo usato nello Spazio Superiore! D'altro canto, se non entriamo in orbita le nostre scialuppe non hanno abbastanza carburante per andare a venire con la velocità sufficiente, a meno che non si limitino a farsi catapultare dal gigante. Dovremo decidere di fare qualcosa per eliminare velocità nelle prossime cinque o sei ore, altrimenti siamo costretti soltanto a un sorvolo». Si asciuga la fronte. «Sorvolare che cosa, comunque? Tutto questo, a meno che non ci sia una stazione di rifornimento parcheggiata da qualche parte attorno al gigante». Kendrik si stringe nelle spalle. «Se ce n'è una, non si fa molta pubblicità». Heinz è al piccolo rifrattore. «Vedo un'altra luna, grande. Sta uscendo dall'occultamento». Ad occhio nudo in effetti riusciamo a vedere la minuscola mezzaluna mentre emerge. Ritchie punta il video-telescopio principale e ingrandisce. Il gigante gassoso si gonfia velocemente incontro a noi, una vivida caligine gialla, striata di rosso e arancio e marrone. Oltre il pianeta, per metà al giorno e per metà nel debole spettrale giallo della notte, scivola: un mondo bruno e blu, con l'area blu macchiata di striature e volute bianche. «È grande. E ha un'atmosfera. Eccolo qui il nostro bimbo», strilla Ritchie.
Salman misura e calcola; dopo poco ci fornisce le cifre. «Il diametro da me stimato è poco sopra i 12.000 chilometri. Cioè circa lo 0,85 della Terra. Sta orbitando a 400.000 chilometri». Sorride. «E ha un'atmosfera di ossigeno-azoto». «Ancora nessuna evidenza di tecnologia», avverte Kendrik, che è rimasto anche lui a guardare la luna, con i suoi strumenti. «Se il gigante gassoso la stava nascondendo prima, ora dovrei cominciare a captare qualcosa. Invece niente. Sempre le stesse scariche di statica...». Il figlio del gigante si libra all'aperto, ora. «Quello che abbiamo qui», spiega Salman. «è una luna della dimensione di un pianeta grande quasi quanto la Terra, con la rotazione bloccata al suo primario, come ci si dovrebbe aspettare. In dipendenza della proporzione di elementi pesanti nella sua formazione, la gravità sarà intorno allo 0,75 e lo 0,9 rispetto alla Terra. Personalmente metterei la cifra verso l'alto considerando l'atmosfera... e le tracce di metano sono buoni indicatori di vita». «Già, mucche scoreggione», commenta Kendrik. «Così, è ricco di metallo senza alcuna rintracciabile tecnologia. Paradosso. Non c'è stata reazione ai nostri segnali». «Ti abbiano sentito. Ora, la luna orbita il suo primario circa una volta ogni due giorni e mezzo terrestri. Dal nostro punto di vista, un ciclo giorno-notte bello lungo! Eppure, l'inclinazione sembra essere soltanto circa di 11 gradi, perciò dovremmo aspettarci un clima piuttosto stabile con variazioni stagionali minori dato che l'eccentricità del gigante gassoso è così piccola. Il lato rivolto lontano dal primario sembra essere in larga parte coperto d'acqua. Ci saranno delle maree irregolari molto leggere causate dalle altre lune». «Il che può essere una povera prognosi per l'esistenza di una vita in rapida evoluzione o di una qualsiasi complessità», dice René. «Senza intervalli di marea a portare la vita sulla terra». «Non necessariamente. Il bloccaggio della rotazione potrebbe aver preso molto tempo a finalizzarsi... Comunque, la principale conseguenza visibile della trazione del primario stesso è stata deformare il pianeta in una distinta forma a pera. Ci sono terre emerse sul lato rivolto al primario, come il profilo radar ci mostra. Quel lato è fondamentalmente costituito da altopiani deserti e montagne, con un'atmosfera sottile. L'altro lato è oceano con un'atmosfera molto più densa. Anche isole... molte isole, probabilmente di origine vulcanica».
«Il punto è», dice Kamasarin. «Vogliamo rischiare di entrare in orbita attorno al pianeta per un'occhiata più ravvicinata senza un'assoluta garanzia di ritorno? D'altro canto, non vogliamo rischiare, quando non c'è alcuna garanzia di poter ritornare alla Terra attraverso lo Spazio Superiore?» «Forse dovremmo...» Zoe s'interrompe incerta. «Forse dobbiamo, be', chiedere alla piramide?» «Vuoi dire, adorarla?» Wu fa una smorfia. «No, quello che voglio dire, se tutti ci concentriamo sulla piramide con questa domanda in mente... be', forse lo psicometro o qualcos'altro reagirà. Risponde alla nostra coscienza, anche se noi non comprendiamo come! Non costa nulla tentare. Deve essere in qualche tipo di risonanza con il suo punto d'origine, no? Forse può... be', metterci in contatto, ora che siamo così vicini». «Denby ha ragione», annuisce Kamasarin. «Forse possiamo aprire un canale di comunicazione, o di intuizione». Heinz schiocca le dita. «C'è un altro possibile indicatore. Diamo un'occhiata al pannello della piramide sopra il pianeta...». Si allontana, seguito dalla maggior parte di noi. «Acci, mostra ancora la piramide isolata nelle tenebre». Tende la mano e preme il palmo contro il pannello. «Maledetti stupidi che siamo! Guardate!» Già il disegno del simbolo sta cambiando. La piramide si riduce ad un punto di luce. Compare un disco dorato. Un punto verde lampeggiante esce da dietro al disco, e percorre il «globo» attraversandolo per sparirvi dietro. Pochi momenti dopo riappare. Allora il punto di luce scivola verso il punto lampeggiante e si fonde con esso. E la sequenza riprende. «Ci sta dicendo, in caso che siamo così idioti», sorride Ritchie. «Che avendo lasciato un mondo, dobbiamo entrare in un'orbita attorno ad un altro. Istruzioni per idioti. Il punto lampeggiante è la nostra orbita di parcheggio». «No, il punto lampeggiante è qualcosa già in orbita. Ovviamente è quella luna planetaria, e il disco dorato è il gigante gassoso. Non lo percepisci, amico? Non lo senti con i tuoi poteri?» «No. Immagino di non essere tanto dotato. Io... aspetta, non so. È folle. Che cos'è successo alle altre lune?» «Perché mostrarle? Soltanto una luna ha vita, ed è ovvio a qualsiasi idiota qual è». «Abbiamo ancora la nostra idea da tentare», dice Zoe. «Lo psicometro
può sdoppiarsi in pannello di comunicazione. Vado giù di sotto... se vi va bene». «La accompagno», annuisce Kamasarin. «Muir, Dove, Anders e Baqli: tenete d'occhio le quattro facce della piramide nel caso ci sia qualche reazione». Wu sbuffa in rimprovero. Ma l'effetto si perde. In: Bi-bu-bu!... Bi-bu-bu! UNDICI Solo il quadro di controllo degli armamenti, ridotto alla gestione dei laser, rimane senza supervisione. «Raggio cinquanta chilometri», legge Ritchie. «Un soggetto ci sta superando dal sud-ovest della nave, quadrante superiore. È su una traiettoria di collisione. Tempo d'impatto... dodici minuti. La forza dell'eco dice che è circa quaranta volte più grande di noi». Le stelle vorticano sullo schermo per poi arrestarsi, e vengono cancellate da... una montagna, una massa di roccia che brilla al sole. Gemme sbocciano sul sasso irregolare: enormi cristalli, rubini, ametiste, topazi. Salman è raggiante. «Dev'essere l'agglomerato naturale di minerali più ricco che abbia mai visto! Un vero pendente per il collo di Dio». «Io credo che sia brutto». Per me. «È crudele, in qualche modo. Privo di forma, spezzato...». Un'impressione irrazionale? Da dove? «Trimble, ci dia una spinta di dieci secondi per toglierci dalla sua traiettoria». Kamasarin si rivolge a Salman. «Allora, che cosa ha creato una simile ricchezza?» «Io credo che qui abbiano cominciato a formarsi dei proto-pianeti densi, che perciò hanno separato gli elementi più ricchi. Evidentemente si sono distaccati dai giganti gassosi sotto la pressione gravitazionale. Ora ci sono questi frammenti del loro interno che volano per tutto il sistema, in aggiunta alle lune catturate. C'è un'interessante dinamica all'opera». «Trenta secondi all'accensione: da ora». Conteggio alla rovescia; accensione; una dolce spinta d'accelerazione... Il video-telescopio continua a seguire l'asteroide mentre le stelle gli si spostano dietro... «Fine dell'accensione». Galleggiamo liberi nuovamente. «Maledizione». Ritchie fissa il suo quadro comandi. «Ha cambiato rotta.
Ha... cambiato rotta. Qualcosa lo sta pilotando!» Le stelle sono di nuovo ferme dietro all'asteroide. «È comunque un asteroide», insiste Salman. «Forse è stato... modificato». «Ci diamo un'altra spinta, signore?» «C'è la possibilità che abbia espulso del gas proprio in quel momento», dice Heinz. «Anche se ciò sarebbe pretendere troppo dalle coincidenze». «Non è un nucleo di cometa», dice Salman. Tentiamo con una spinta più breve. Anche l'asteroide modifica la sua rotta. Zoe si guarda intorno con sguardo di sfida. «Questo è un contatto. Rendezvous. Bene, allora?» «Non è quello che ci ha mostrato la piramide». Heinz impugna i binocoli montati sul ponte. «Alcune di quelle strutture cristalline sembrano... che cosa, alloggiamenti di missili? O... ingressi?» «Sette minuti... venticinque chilometri. Ha compensato il nostro aumento di velocità». «Perché stiamo fuggendo?» Zoe è impaziente. «Non è ovvio chi sono? La piramide deve aver mandato loro un segnale». «Puoi coordinare le frequenze radio, Neil?» «Sto tentando. Non sembra che stiano trasmettendo. Non c'è nessuno in questo dannato sistema che creda negli apparecchi radio? O sperano di prenderci di sorpresa?» «Cinque minuti», comunica Ritchie. «Immagino potrebbe essere automatizzato. Alcune di quelle cose di cristallo potrebbero essere generatori d'energia. Un sasso automatizzato... Dio, se ce lo mandano addosso...». «Perché dovrebbero?» Zoe è tormentata. «Perché dobbiamo pensare in un modo così aggressivo? È proprio quello che abbiamo sbagliato nello Spazio Superiore». «Quel sasso mi spaventa, Peter. Lo odio». «Anch'io ho delle impressioni negative», ammette. «Perché? Perché dovrei?» «Potrebbero fare dei segnali di luce, maledizione. Presumibilmente sono in grado di vedere. Presumibilmente hanno occhi». «Anch'io provo qualcosa di spiacevole», ammette René. «Capitano, possiamo lampeggiare con le luci del ponte?» «Buona idea! Vasilenko, potenzi al massimo le luci del ponte di controllo, poi le spenga. Esegua una sequenza di uno, due, tre lampeggi».
Natalya obbedisce. Ammicchiamo a causa dei bagliori provocati dall'alternarsi di tenebre e luminosità, mentre lei regola le luci interne alla consueta bassa e stabile intensità. Facilmente visibile ad occhio nudo ormai è l'asteroide: una piccola roccia vetrificata, irregolare e brillante. «Sta rallentando! Non vedo come, ma lo sta facendo. Non ci viene addosso...». Non c'è bisogno degli schermi dei video-telescopi, ora, per cogliere i dettagli. Ancora pochi minuti e la montagna è sospesa lì fuori, duecento metri obliquamente, la velocità uguagliata alla nostra: una massa rocciosa, costellata di tubi e scatole di cristallo, incastonata di sfaccettature di gemme (generatori, oblò?). Heinz cede il posto a René, che fissa attraverso i binocoli le ambigue forme scure che tutti vediamo muoversi all'interno... Una dozzina di portelli di cristallo si spalancano. Corpi scuri si riversano nello spazio, collegati alla nave da sottili cavi luminosi. I cavi brillano come fili d'argento nei punti dove la luce del sole li colpisce. Veloci le creature scivolano verso di noi. «Dio, ma sono dei bruti spaventosi...». «Osceni». Ecco come li qualifico io! «Ce ne devono essere quaranta o cinquanta! Quell'asteroide è un alveare». «Niente tute spaziali, che io veda», osserva René, vincendo la sua... sì, nausea. «Quegli esoscheletri devono tollerare il vuoto completo. Tengono le mascelle serrate. Mi domando quanto grande possa essere il loro cervello. Forse potrebbero essere stati allevati appositamente per operare nello spazio. Prodotti di bio-ingegneria?» Sono come neri scorpioni giganti, con otto gambe e chele opposte che sembrano mani, e hanno cose... verghe (alcuni). E mascelle e artigli. Svolgono quei fili dalle loro parti posteriori, a mo' di ragni. Una rete di fili brillanti si tende a cingerci. «Attento al Jabberwock, figliolo, le mascelle che mordono, gli artigli che afferrano! Sono dei Jabberwock, ecco quello che sono...». «Jabberwockus Dovi», annuisce René, afferrandomi il braccio per calmarmi. «O Jabberwocus Columbae? A te l'onore, mia cara». «No grazie!» «Non possono abbordarci», ci tranquillizza Natalya. «Tutti i boccaporti sono bloccati». La prima creatura si posa sulla finestra del ponte, di fronte a noi. I cusci-
netti di suzione di sei delle sue caviglie si attaccano al vetro, i piedi che si ripiegano inutilizzati, gli artigli che graffiano. I suoi due artigli anteriori hanno tre giunture e sono seghettati all'interno come le gambe della mantide, ma si tendono all'esterno come braccia. La cosa ha quasi le dimensioni di un pointer. Il corpo è nettamente segmentato con un carapace corazzato di un violetto scuro, e termina con una filiera ovoidale rossastra che la cosa tiene ripiegata ad angolo retto, con quel filo d'argento che la collega direttamente con l'asteroide. Un appuntito ovopositore - o è un pungiglione? spunta da sotto. La testa è un cono lucido su un breve stelo corazzato, con un rigido baffo di vibrisse mascellari che seguono la piega di mandibole serrate strettamente. Due occhi sfaccettati e vitrei fissano vacuamente in basso. Mi sento male. Una seconda creatura cammina lentamente sulle finestre, proveniente dal lato opposto del Pilgrim. Si ferma momentaneamente, il filo d'argento teso contro il vetro, poi prosegue, tirando il filo tutt'attorno allo scafo. Altre tessono i loro fili attorno alle varie sporgenze del Pilgrim. «Separatamente non sembrano molto intelligenti», mormora René. «Ma con uno scopo, oh, questo sì. Ho la sensazione che quello lì è una specie di telecamera vivente, che ci spia...». Ritchie fa ruotare una telecamera esterna per puntarla sul portello principale. Quattro creature sono giusto sul portello, e tengono quelle sottili verghe con gli artigli. D'improvviso le punte delle verghe avvampano. Le cose tengono le punte ardenti contro il portello. «Sono strumenti da taglio!» «Trimble, ci dia una spinta di cinque secondi per tirarci fuori da qui». Gus era in attesa soltanto dell'ordine. Sospira di sollievo. «Bene! Quindici secondi, da ora». «Decompressione al portello principale, signore», avverte Natalya. «Isoli la sezione». «... due... uno... zero, accensione. Cristo, non ne stiamo uscendo! Stiamo soltanto girando attorno all'asteroide. E lui gira con noi! Quei fili devono essere forti!» Kamasarin si spinge nel sedile degli armamenti. Le sue mani discendono al pannello dei laser. Una roccia ribolle sull'asteroide, la sfaccettatura di un cristallo scintilla e poi esplode. Uno degli insettoidi avvampa e va alla deriva, il suo filo argenteo troncato... Uno. Kamasarin impreca a voce bassa in una qualche lingua che non riconosco. Aziona ancora i laser mentre urla: «Bene, attenzione! Quelli non sono
nostri amici. Trimble, stia pronto ad accendere i motori. Dia dieci secondi di avvertimento per interfono. Tutte le squadre eccetto la Bridge scendano nel Magazzino. Tirate fuori i fucili, Blue. Il codice del portello è quadruplo zero sette due. Tirate fuori le tute da pianeta, squadra Anders. Tutti devono indossare tute e armarsi. Avete tempo. Loro devono prima aprirsi la strada attraverso i portelli esterni e interni e la paratia del corridoio. Squadra Anders, distribuitevi lungo il corridoio. Attenzione alle decompressioni improvvise. Squadra Wu, coprite Anders. Tratteneteli finché non riusciamo a sganciarci. Ah, ne ho colpito un altro! Squadra Denby, andate all'hangar delle scialuppe, possono tentare di penetrare da lì. Squadra Blue, andate a prendere tre tute per noi qui. Poi fate la guardia al ponte, con Vasilenko all'interno, Blue all'esterno. Ci isoleremo. Non preoccupatevi, ci libereremo! Ma ora andate, tutti, andate!» Ascolto un ultimo ordine mentre sto uscendo con Peter, Zoe e René (dato che siamo noi la squadra Denby): «Neil, codice reattore rosso, preparatorio!» Che cosa significa questo ultimo ordine? Non importa. Andiamo. DODICI Una lavanderia in caduta libera: qualcuno impreca, ma in maggioranza ci sono soltanto quieti sussurri urgenti. Queste tute da pianeta sono molto più semplici e veloci da indossare delle ingombranti tute spaziali multistrato, che sono comunque soltanto quattro di numero. Sopportano il vuoto e il freddo se ne dovesse sorgere la necessità. Il tempo rallenta. Siamo come dei tuffatori che nuotano sott'acqua con soltanto i polmoni pieni d'aria. Mentre vesto Peter, e lui me, sorride a denti stretti. «Questo ti ricorda qualcosa, amore?» «All'inferno, certo. Lo faremo mai...?» Meglio non dirlo. Scompiglio i suoi corti riccioli rossi prima di infilargli il casco e sigillarlo. Sentiamo la voce di Kamasarin nelle radio delle tute: «Il trasduttore TV all'interno della camera stagna sta ancora trasmettendo. Gli insettoidi all'interno si sono liberati dei cavi. Dalle filiere stanno producendo dei grandi palloni, riempiendone la camera stagna. Credo che stiano costruendo una specie di camera stagna naturale per se stessi. Un altro insettoide sta cercando di penetrare. E un altro ancora. I primi quattro stanno iniziando con la porta interna. Ho tagliato almeno una dozzina di cavi. Provi adesso,
Trimble». «Accensione in dieci secondi, da ora». Ci prepariamo. «Niente». «Leggera diminuzione della pressione nel corridoio... La pressione è di nuovo normale. È proprio una camera stagna quella che hanno costruito. Continuate a vestire le tute, comunque. Potrebbero usare del gas o spruzzare qualcosa. Sono ad un quarto di profondità del portello interno. Squadra Anders, situazione?» «Quasi pronti... Sì, okay». Ritchie e Natalya hanno già aperto l'armadio delle armi. Fucili laser L27: grige salsicce schiacciate con calcio corto e impugnatura a pistola. Poi, entrambi spariscono, volando, con i loro fucili... tre tute vuote si aprono dietro di loro come vuoti corpi disossati. «Squadra Denby?» «Quasi all'hangar». «Squadra Wu?» «Sul posto». «Anders?» «Un bagliore sulla paratia. Ora un piccolo foro, che avvampa forte. Il taglio continua più lento, in senso orario». «La direzione non è importante. Sparate non appena li vedete. Tratteneteli. Credo che abbiamo tagliato metà dei cavi». «Ne stanno riallacciando uno», arriva la voce di Kendrik. «Guardate, a ore dieci». Noi quattro della squadra Denby procediamo attraverso il portello stagno nel vuoto dell'hangar, dove le nostre scialuppe gemelle sono sospese fianco a fianco, i musi rivolti verso il portello esterno. «Denby, apra i portelli stagni di tutt'e due le scialuppe. Copra l'ingresso all'hangar dall'interno dei portelli stagni...». «Quella porta sta per cedere», avverte Heinz. «Pronti al fuoco». Peter ed io ci mettiamo al riparo del portello dell'Alpha. René e Zoe sono scomparsi attorno al fianco opposto di Beta. Da lì, non saranno in vista dell'ingresso dell'hangar. Kamasarin se ne rende conto di certo? Ah, ma lui vuole gente nelle scialuppe, o lì vicino, nel caso dovessimo... No, impensabile. Non osa dire una cosa simile attraverso il sistema di comunicazione aperto. Non ancora.
«Blue, vada a coprire il corridoio trasversale dall'estremità dell'hangar. Usi il portello dell'hangar come copertura». Ho visto giusto. Ritchie è il nostro pilota, all'esterno. Kamasarin ha ordinato a quattro persone di andare alle scialuppe, e tutt'e quattro sono para; noi potremmo ancora entrare in contatto con il Pianeta di Dio nei suoi termini. O ci vuole semplicemente fuori dai piedi? «Achtung! La porta ha ceduto. Fuoco! Fuoco!» Una donna urla... «Hanno travolto Matsumura», dice affannato Heinz. «Hanno attraversato il fuoco del laser e l'hanno travolta. Uno di loro è tagliato a metà, ma funziona ancora. Il filo d'argento che spunta dal sedere... la stanno avvolgendo. Non sparate a lei! Mirate all'ingresso». Sachiko grida. «Zitta!» Chi è? Salman? Di colpo le urla tacciono. Troppo di colpo. «Sono su di me!» urla Heinz. «Mi stanno avvolgendo... non riesco... Il pungiglione!...» La sua voce si spegne. «Qui Wu. Hanno sopraffatto Anders e Baqli. Le cose insetti sono fra noi e loro. Non sparare in quel punto, Li! Potresti colpire delle persone...». «La paratia D si chiuderà entro dieci secondi. Uscite, squadra Wu!» «Eccoli che arrivano. Muori, muori!» Una donna grida. È Li? Le sue grida muoiono. Che cosa sta succedendo? All'interno dell'hangar c'è un'orrenda calma gelida. Il caos di questa battaglia cieca ci assorda e ci raggela. Se rimaniamo ancora immobili senza muovere neppure un dito in qualche modo potrebbe svanire. È soltanto un incubo acustico privo di elementi visuali, non un soffio di movimento. Brandiamo le notre armi come bacchette magiche per scongiurare il pericolo invisibile. Oh, Dio, ecco che si solleva l'immagine del viso di Jacobik, enorme, gonfio e blu, gli occhi sporgenti dal piacere e dall'orrore... Perché? Una testa di morte! Immagine di morte. La voce di Kamasarin mi salva. È più vicina alle mie orecchie del mio stesso respiro. «Silenzio, tutti! Squadra Denby, a bordo delle scialuppe. Blue, entri con loro. Preparatevi a partire. Tenete aperti i portelli stagni delle scialuppe per...» - singhiozza, o trattiene soltanto il respiro? - «... per personale in fuga. Voi tre andate ora...» Deve voler dire Kendrik, Gus e Natalya. E in questo momento il portello stagno rivela ruotando una figura in tuta BLUE - che entra nell'hangar. Quasi apro il fuoco. Per un momento la sua visiera mostra la vaga immagine residua della maschera di morte di Jaco-
bik. Non potrei mai rimanere sola con ciò, in questa piccola scialuppa, perfino con Peter al mio fianco. Ritchie vola verso di noi. Peter ci fa entrare uno alla volta. «Possiamo ancora strapparci via», strilla Gus. «Andate... andate! Sovraccaricherò il reattore. Se queste creature si impadroniscono della piramide e riescono ad utilizzarla...! Uscite. Io rimango». «Ma non può sovraccaricare il reattore». «Oh, certo che può», Kendrik, ora. «Io ho già iniziato la sequenza. Doveva andare così». «Non ce l'hanno mai detto». «Le sarebbe piaciuto saperlo, Gus? Esca!» «Le sbarre di controllo stanno venendo ritirate in sequenza. Accrescimento critico iniziato. Attenzione, attenzione: tutto il personale ancora a bordo verrà coinvolto in un'esplosione nucleare entro quindici minuti. Andate... raggiungete la luna. Dio aiuti tutti voi. Ponte di controllo isolato entro dieci secondi. Fuori pure lei, Neil». Perché lui rimane? Il Capitano che affonda con la sua nave? No: la sequenza di distruzione può ancora essere interrotta da lì... deve difenderla. Ritchie si assicura nel sedile del pilota. L'interno della nostra scialuppa è molto piccolo. Più di metà dello spazio è ingombro di riserve, serbatoi d'acqua, bombole d'aria, toilette chimiche, mini autocuochi, strumenti da ricognizione imballati. Quando i quattro sedili si spalancano, aprendosi in cuccette da letto, non rimane il minimo spazio. Ritchie fa scattare interruttori con la mano guantata. Uno strillo. Di un maiale infilzato? Gus? Uno sfogo in russo: Natalya... che grida cosa? «Scialuppa Beta, mettetevi in contatto per favore», dice freddamente Ritchie. «Qui è René. Sono ai controlli. Che facciamo? Noi non siamo piloti. Aspettiamo Gus o Neil?» «Insettoidi sono diretti alla sezione del reattore», urla Kendrik, da qualche parte. «Sono in tre, quattro. Devono rilevare...». Kamasarin impreca ancora in quella strana lingua. Mongolo? Yakut? «Se si rendono conto, Neil! Se quelle cose capiscono. Se si sacrificano, come sembrano in grado di fare. Potrebbero avere il tempo di abortirlo. Preghi che non riescano mai a usare la piramide. Di certo nulla di così automatico possiede lo spirito per farla funzionare! Eppure la loro mente
guida, se ne esiste una...». «Li ritarderò. Vado lì. Farà perdere loro qualche minuto almeno...». «Sì, Neil. Faccia così». «Negativo, René», risponde Ritchie. «Non c'è tempo. Vi scollego. Ora ascolta: schiaccia l'interruttore della batteria principale. È rosso, in basso a sinistra. È segnato. Fatto? ora attiva il tuo auto-pilota: in alto a sinistra, tasto arancione. Giralo a destra da ON a REMOTE...». Percepisco, non con l'udito, la nostra Alfa ritornare alla vita. «Ritchie, sta arrivando qualcuno!» Un'unica piccola figura vortica attraverso il portello stagno dell'hangar. Immediatamente si dirige galleggiando verso Beta, il veicolo più vicino. Scelta sbagliata: il portello di Beta è sull'altro lato. «Wu. Le cose insetto mi seguono da vicino. Sono l'unica». Batte le braccia in volo, rendendosi conto dell'errore. Riprendendosi senza emettere una parola, si dà una spinta sulle piastrelle di silicio della struttura del veicolo e, roteando via dal ponte, scompare dietro le scialuppa. «Tutt'e due le scialuppe sono pronte alla partenza?» domanda Kamasarin. «Io sono in attesa di aprire le porte dell'hangar. Loro sono all'esterno delle porte del ponte di controllo». «No! Wu?» «Sì. Sono nella vostra camera stagna, Beta». Il portello stagno dell'hangar comincia a ruotare... (Non si sono inseriti. Stanno usando i suoi controlli!) «Scialuppe pronte, signore». ...mentre la grande curva delle porte doppie si spalanca davanti a noi e si ritrae rapidamente nello scafo. Troncata dall'orlo del ponte, la sfera luminosa del gigante gassoso appare, rigonfia. Sul quadrante superiore sinistro di spazio aperto si staglia un filo d'argento: uno di quei cavi. È sulla strada di Beta. Forse. Un insettoide si trascina attorno all'apertura, proprio mentre Ritchie schiaccia la leva di rilascio. Entrambe le nostre navi dalle ali a delta e le code sollevate balzano in avanti simultaneamente, mentre la creatura si lancia oltre l'apertura con una scia d'argento. Un attimo: sbatte e rotola via quando Beta la colpisce. Un attimo: il profilo al carbonio del timone di coda di Beta colpisce il filo. Il filo si tende, non si spezza. Beta sbanda su un lato, l'ala di tribordo s'impenna, l'ala di babordo punta verso il ponte. Poi si libera e vola via, in basso verso la notte, planando lontana da noi, deviata. Un richiamo rosso lampeggia davanti a Ritchie. Un allarme sibila.
«Beta? Tutto bene?» «Credo. Sì. Abbiamo preso un colpo. Non siamo feriti. Non so se ci sono danni. Che facciamo?» L'occhio destro di Ritchie ha un tic dietro la visiera. Solleva una mano guantata come per schiacciare una mosca che gli ronza nel casco. «Rallento i motori, adesso, prima che ci distacchiamo troppo. Non c'è fretta. Stiamo allontanandoci dal Pilgrim abbastanza velocemente. Possiamo bordeggiare per un po'. Okay, laggiù. Almeno siamo diretti nella direzione giusta. Virerò su di voi per ispezionare subito i vostri danni. Poi prenderò il controllo dei vostri motori di posizione per regolare la rotta, e poi potremo di nuovo legarci per ripartire insieme. Escludi l'autopilota, d'accordo?» «Bene», con esitazione. «Togliamoci i caschi per risparmiare le bombole d'ossigeno». «Chiami il Pilgrim prima che il reattore scoppi? Per favore, Ritchie. Non dev'essere rimasto molto tempo». Mi guarda irritato. «Perché mai? Ci sono soltanto quegli insetti laggiù ormai». «Per favore. Per dire addio. Anche se non lo sentirà nessuno. Addio alla Terra». «Una specie di saluto?» Ritchie si sporge verso la radio. «Questa è la scialuppa Alpha che chiama il Pilgrim Crusader. Mi sentite?» La radio gracchia, ma nessuno ci sente. «Questa è la scialuppa Alpha. Siamo salvi. Beta lo stesso. Addio. Addio». Siamo seduti senza casco, in attesa che passino gli ultimi minuti, a guardare il piccolo schermo posteriore. Il Pilgrim e perfino l'asteroide sono ormai troppo lontani per riuscire a vederli, ma l'esplosione farà luce a dieci volte quella distanza. E attendiamo. «Non è successo», dice alla fine Ritchie. «Non è scoppiato. Che cos'ha detto Kamasarin? Se quelle cose lo comprendono possono bloccarlo? Mio Dio, l'hanno fatto. Pregate il Cielo che non siano in grado di passare parapsichicamente nello Spazio Superiore!» «Il Cielo? Questo è il Cielo, Ritchie! Guarda, davanti c'è il Pianeta di Dio, che naviga nel suo Cielo. E che cosa ci attende? Demoni. Cose schifose. Con pungiglioni per infilzarci e artigli per farci a pezzi. Cose che non sono in grado di comunicare. Che non vogliono. Non se ne curano». (Peter
mi stringe il guanto). «Erano in attesa. Se Ritchie non fosse salito a bordo nessuno di noi sarebbe qui ora. Siamo soltanto granelli di polvere spazzati via». «Le emissioni ci avevano avvertito che era in corso una battaglia, amore. Ancora non sappiamo che cosa sia questa battaglia. Forse gli insetti sono i loro nemici, e hanno cercato di impedirci di arrivare lì. Be', hanno fallito, i maledetti. Siamo fuggiti». «Io non credo di averli nemmeno visti i nemici. Non abbiamo visto che cosa li dirigeva. Siamo stati soltanto spazzati da parte, fin dal principio». «Non essere così maledettamente disfattista». Ritchie tossisce. «Devo andare a prendere René. Staranno impazzendo, alla deriva tutti soli». Non ci vuole molto per ritrovarci a fissare la coda di Beta, sospesa sotto di noi a circa quaranta metri di distanza, apparentemente immobile. Gli elevoni gemelli di babordo sono visibilmente piegati, quello esterno in modo notevole. «Quello di certo non può rientrare!» Ritchie ride amaramente. «Rientrare, eh? Quando non siamo mai stati nemmeno vicini a quel pianeta in tutta la nostra vita! Credo che prenderne il controllo per farla atterrare nella migliore delle ipotesi sarebbe una pazzia. Okay, voi tre là sotto, ecco quello che faremo. Ci riallineeremo, poi voi potrete riattivare l'autopilota, e entreremo in rotta per un'orbita lunare. Una volta in orbita, vi trasferirete tutti quassù per il rientro. Merda, voglio dire per l'atterraggio al suolo. Non vi potete trasferire prima di allora. Troppa folla, esauriremmo le scorte di Alpha. Lasceremo Beta parcheggiata quassù». «Una piccola considerazione», arriva la voce di Zoe. «Soltanto, com'è che ci trasferiremo?» «Oh, con i cavi di sicurezza. Li collegherò io. Niente paura, vi potrete tirare fin qui a occhi chiusi. Sarete privi di peso. («Forse sarebbe meglio che facessero proprio così», sussurra in disparte a noi. «Tenere gli occhi chiusi). Okay, abbiamo come minimo sei milioni di chilometri da fare. La spinta del gigante gassoso ci farà accelerare, ma dovremo rallentare più avanti o ci troveremmo ad arrivare troppo veloci per entrare in orbita. Calcolerò con il computer l'angolo approssimato della rotta e la velocità iniziale in circa un'ora. Lo raffineremo con le correzioni di rotta domani». «Un'ora?» protesta René. «Non dovremmo forse andarcene di qui al più presto possibile?»
«Non si preoccupi, Monsieur. Noi stiamo andandocene di qui, e velocemente, proprio ora. E l'abbiamo fatto da quando abbiamo lasciato il Pilgrim. E un'ora è presto, faresti meglio a credermi. Il computer non è aggiornato, e le stelle di navigazione si sono tutte spostate. Io ho il nostro computer e un Hewlett-Packard, un sestante e qualche altra cosetta, e quello che so nel mio cervello. Una differenza dell'uno per cento nella velocità iniziale fa una differenza abissale nel tempo di volo. Noi dobbiamo arrivare proprio quando quella luna è accanto a noi, e alla velocità giusta». «Mi dispiace. Chiedo scusa». «Tutto bene. Se vuoi occupare il tempo, prova a pensare a come usare il tuo radar per tener d'occhio cosa succede dietro di noi». «Gli apparati radar mi sono familiari», arriva la voce di Wu. «Sei proprio una grande donna». E il tono di Ritchie sembra sincero. TREDICI Un'immensa pesca matura, con fasce di rosa e arancione, d'oro e giallo cromo, spezzate dalla notte. La lucente cintura di croco attorno alla parte centrale del gigante gassoso è orlata da un festone di un bronzo più scuro. Eppure quella cintura non è per nulla un'elegante fusciacca, e il suo ventre è lontano dall'essere sereno ed autunnale; laggiù si combattono uragani di violenti colori turbinanti, festoni e ciuffi di esplosioni e macchie della dimensione di un pianeta. A babordo, le nostre finestre sono riempite dal pianeta satellite che ora orbitiamo, sotto di noi. Il suo amnio atmosferico esala una foschia leggermente violetta contro il nero orizzonte dello spazio. Corriamo sopra aridi altopiani bruni, privi d'acqua e desolati, intaccati da bacini irregolari. Questi vecchi crateri d'impatto da tempi primevi non sono mai stati addolciti dall'erosione dei venti. Qui il pianeta si tende, a forma d'uovo, verso il suo padrone; qui l'aria è sottile. Gibbosi gruppi di monti, con fregi di ghiaccio, s'innalzano somiglianti a pizzi gualciti o a gelati scheletri di foglie. In realtà queste montagne sono piuttosto più basse rispetto all'altopiano. Come il gigante gassoso tramonta sotto l'orizzonte dietro di noi, così affonda la terra finché alla fine non siamo sopra un oceano blu macchiato di nuvole. Da qui il pianeta gigante non si vede mai. Dev'essere stato uno choc notevole per i primi mortali che hanno scalato per primi le montagne di quest'altro emisfero vederlo nel cielo, dov'era sempre stato! (Se dei mortali esistono... Eppure ci devono
essere degli immortali...). Ritchie è sospeso accanto al portello stagno nella sua tuta, e controlla il termostato e la pistola a gas mentre io gli tengo il casco. Anelli di un cavo forte e sottile gli pendono dalla cintura. (Un cappio... Perché pensare ad un cappio?). Cinquanta metri a babordo, Beta vola capovolta in modo che i nostri due portelli stagni siano l'uno di fronte all'altro attraverso lo spazio intermedio. Giù in basso nelle distese acquee del pianeta si stende un triplo oceano, diviso da un'irregolare «Y» invertita di arcipelaghi. Due dei tre sub-oceani, quello meridionale e quello orientale, contengono anche delle grandi isole separate, mentre l'oceano occidentale su cui ora ci troviamo sembra privo di terre emerse. Sfortunatamente le telecamere ad alta risoluzione sono rimaste nel Pilgrim. Mentre l'arcipelago sud-occidentale appare alla vista, con il terminatore che stende una buia coperta corrosa sulle acque più oltre, Ritchie indossa il casco e s'infila nella camera stagna. Mentre la spalla del pianeta taglia via tutta l'illuminazione di 82 Eridani, si proietta fuori dolcemente... Lentamente si allontana. Ancora venti minuti, poi gireremo attorno alla curva del pianeta e entreremo nell'alba, e Ritchie, che indossa soltanto una tuta da pianeta, verrà accecato e il suo termostato subirà un rapido aumento di calore. Per ora, fluttua lentamente, correggendosi con sbuffi di gas. Finalmente sbatte contro il portello aperto di Beta e si assicura all'interno con un corto cavo, poi si sporge in fuori per tendere il cavo assicurato, ma non del tutto, attraverso gli occhielli. Immergendosi all'interno, aziona il portello stagno dietro di sé. «Eccellente, Ritchie», miagola la voce di Wu nella radio. «Veramente molto bene. Bravo topino». Risate. «Bravo!» (Non tanto per l'impresa di Ritchie quanto per quella di Wu? Che diavolo sta facendo, lo sta abbracciando?) Poco dopo, il sole sboccia a est. Riuniti nell'Alpha, noi sei pensiamo a dove atterrare. È un po' affollato. La scialuppa puzza. Ma non ce ne curiamo. Non ora. Possiamo sopportarlo per un giorno o due, o tre. Le nostre Polaroid ci hanno fornito un mosaico irregolare delle aree centrali del pianeta. Molti pezzi mancano ancora o sono oscurati dalle nuvole. Il mosaico è attaccato su tutto il soffitto con bolle di colla gelatinosa. Da
qui, e dai nostri schizzi, Wu ha prodotto - con squisita abilità grafica - una mappa del pianeta che sembra tutto meno che ipotetica. L'abilità di Wu è un lato del suo carattere che ci sorprende alquanto. Ma io credo che sia in accordo con il suo ruolo di storiografo, ricettacolo della storia ufficiale, che impone la griglia ideale agli eventi. In definitiva, anche la sua mappa del pianeta è una griglia ideale. Il pianeta in basso ne è soltanto un'approssimazione. «Così abbiamo carburante sufficiente soltanto per un volo di ricognizione di tre ore prima di essere costretti a scendere», calcola Ritchie. «In alternativa, ne abbiamo a sufficienza per quindici minuti se vogliamo far rientrare in orbita questo uccello. Anche se non ha molto senso, no? Perciò, possiamo coprire circa millenovecento chilometri. Con la facoltà VTOL non conta molto dove scendiamo. Comunque, come si usava dire, il resto della tua vita comincia da quel momento in poi». Sorride a Wu, timidamente. Durante i tre giorni trascorsi in questo spazio ristretto, mentre lui scattava foto e Wu produceva da queste i suoi disegni, aveva cominciato ad emergere un'intesa fra il nostro giovane americano e la più vecchia donna cinese. È come se, con lui come pilota e lei come navigatore e geografo di questo nuovo territorio, lei sia destinata ad occupare un ruolo simile nella vita futura di lui, cartografo anche di quella. «Mi dispiace che mi abbiano chiamato Ritchie», si scusò una volta, scherzando. «Mi fa sembrare, be', super-privilegiato. Ricco». Lei sorrise. «Oh, ci sono sempre gerarchie di privilegi - perfino nella migliore delle Democrazie Popolari. Forse in queste perfino di più». Curiosa ammissione... Nelle equazioni emotive del nostro gruppo, noi quattro amanti precedenti danziamo una quadriglia psichica. Wu e Ritchie sono spinti, volenti o nolenti, in un valzer distinto. Wu sembra aver deciso di danzarlo con stile e sottigliezza. «Ovviamente dovremmo scendere da qualche parte sull'emisfero dell'oceano», sta dicendo René. «Il lato arido è morto. Perfino i suoi confini sembrano molto desolati. Ci può anche essere qualcosa di magnifico e divino da guardare nel cielo, ma noi dobbiamo cercare la vita. Il problema è, comunque, optiamo per le coste di un oceano o per una grande isola da qualche parte nella catena? Io preferirei evitare qualsiasi isola separata in mezzo all'oceano, anche se sono grandi come paesi». «Non vogliamo rimanere bloccati su una dannata isola», annuisce Ritchie.
«Anche se fosse grande come Sumatra. No, se c'è un commercio, un'economia, una civiltà, dev'essere lungo queste catene di isole. Qui giù vicino all'equatore, dove si incontrano le tre catene, dovrebbe essere il centro dell'attività. Inoltre, i punti in cui gli arcipelaghi incontrano la terra ferma». Ritchie lascia spazio a Wu come autorità maggiore. «Il nord è troppo freddo, e nel punto in cui la catena occidentale incontra la terra ferma», indica la sua mappa. «Sbocca questo ampio fiume... o il mare penetra all'interno. Comunque, il risultato è una zona paludosa. Io voto per una delle più grandi isole al largo, qui nell'estremo oriente. Non», sorride. «Per un qualche sentimento di identificazione. Lì saremo fra due oceani, con isole importanti in entrambi, e pure vicino alla massa principale di terra ferma». «Se solo rispondessero ad un segnale radio! Ci renderebbe la vita molto più semplice. Immagino che avrebbe dovuto occuparsene la piramide». «Forse Dio non usa apparecchi radio?» scherza Zoe. «Non più di quanto Dio sia uno storico. Dopotutto, a noi hanno predicato profezie. Adesso siamo venuti attraverso uno spazio senza tempo ad un luogo dove gli apparecchi radio possono essere inutili come...». Lascia sospesa la frase, nell'aria accanto a sé. «Laggiù c'è un mondo perfettamente normale dal punto di vista fisico», scatta Ritchie. Altri pochi giorni di questa intensa vicinanza, e forse il nostro cameratismo si potrebbe trasformare nel suo opposto. Dobbiamo scendere. «Qualcuno non è d'accordo? Con la proposta di Wu, voglio dire». Nessuno obietta. Il suo dito indice batte sulla mappa. «Bene, allora la farò scendere qui». parte terza l'emisfero di getka QUATTORDICI Isole in un mare blu pavone... Una è un cono, rivestita di uno spesso tappeto verde, con una costa nera orlata di spuma bianca. Una seconda: una rapida falce verde che avvolge una laguna: forse un vulcano da tempo estinto è slittato di fianco sul fondo del mare. E ora una tripla catena acuminata. In una delle sue profonde valli gemel-
le scorre un sottile fiume d'argento... Isole piccole. Isole disabitate. Ma vive. Dove le nuvole di cotone coprono l'oceano, zattere d'acqua malva e violetta scivolano sul blu: isole fantasma. La trazione della gravità di questo nuovo mondo è un disagio benvenuto. Quanto familiare? È veramente più debole? Il mio corpo non lo sa. Non ancora. Quando usciremo all'esterno: ah, allora sì. Presto un'isola molto più grande macchia l'orizzonte. Nuvole nascondono le cime delle montagne interne e scivolano verso la pianura costiera. Al di sopra di strette spiagge ramate, circondate da presso da forme di alberi con le fronde ad ombrello, voliamo verso l'interno. La pioggia sferza i finestrini. Ritchie ci porta sopra la pioggia. Ora scorgiamo soltanto frangenti di foresta finché le colline non si protendono dalla catena centrale, bisecando l'isola in direzione del mare. Oltre, il tempo è sereno, le foreste si stendono verdi, ampie valli in una leggera foschia si adagiano sui pendii. «Campi!» indica René. Una scacchiera giada e verde pisello, certosa e salmone ricopre la valle successiva. Un fiume si snoda attraverso quel mosaico. C'è anche una strada che lo attraversa. Minuscole figure si fermano, sopra minuscole ombre. René sposta i suoi binocoli cercando di individuarle. Questo fiume scorre in un lago. Macchie lattee sull'acqua si frantumano, disperdendosi nell'aria al rombo del nostro avvicinamento, mandando bagliori di un blu elettrico. Mille ali. All'estremità del lago si erge una piccola piramide bianca, e un grande villaggio composto di edifici bruni con cornicioni piegati verso l'alto. «Cultura agraria con tempio», esclama Wu. «Forse». La strada serpeggia oltre, verso est. Snelle bestie dinoccolate la percorrono, minuscole dalla nostra altezza, alcune portano cavalieri, alcune tirano carri. Sono un misto di cammello e giraffa. Mentre i cavalieri... «Bipedi? Sì». René scruta. «È bello davvero», sorride Ritchie. «Mi piacerebbe soltanto vedere qualche tipo di trasporto meccanizzato». «Gli Incas hanno costruito belle strade e non hanno mai posseduto la ruota», dice Zoe. «No, e non hanno nemmeno trasmesso immagini-mentali e motori iperspaziali attraverso parecchi anni luce. Questi... contadini possono farlo?» Ritchie sembra risentito, ed insieme nostalgico. «Dovremmo avere attirato
un po' d'attenzione». Seguiamo la strada verso est attraverso valli e foreste. Villaggi più piccoli sono disposti lungo la via, circondati da piantagioni e frutteti: file regolari di angolati alberi rosso mattone, altri come sfere di malachite, avviluppati da una impenetrabile foresta. Anche il fiume taglia attraverso la foresta, più ampio da quando ha attraversato il lago. «Una barca!» Una giunca cinese, con le vele quadrate. «Usano ancora le vele!» grida René. «Anche noi», gli ricorda Wu. «Il vento è gratis, anche se incostante». «Forse qui non è così incostante», considera René. «Piccola deviazione assiale, modesto cambiamento stagionale, una variazione in verità piccola della quantità di luce solare. Be', i sistemi dei venti e delle correnti oceaniche devono essere notevolmente bloccati, e più ridotti di quelli della Terra, eccetto per i venti coriolici, e anche in questo caso la rotazione è soltanto due quinti di quella della Terra. Inoltre avere l'oceano tutto in un unico emisfero stabilizzerà i venti». Individuiamo un piccolo numero di veicoli tipo giunca solcare il fiume, ostentando vele gialle. Superiamo tre piccoli villaggi in riva al fiume - in un raggio di forse cento chilometri - con zone coltivate che penetrano nella foresta. Funzionano diversi snelli mulini a vento... e quelli laggiù, sono allevamenti ittici, o pannelli solari? «Non è fittamente popolato, vero?» Se questa fosse la Terra... No, non pensare alla Terra! Il terzo villaggio - il più grande - è caratteristico. È un villaggio doppio, un villaggio a specchio posto sui due lati del fiume, che ora scorre ampio e lento. Su un lato dell'acqua, dietro una piramide simile ad un faro, ci sono strade relativamente vivaci di folla, un'intricata tela di ragno di archi che si intersecano, con del fumo che si solleva scuro da alcuni grandi edifici. Ma sull'altro lato si stende un villaggio che è un puro schema: uno doppio più piccolo di quello che si stende sull'altra sponda, un labirinto di pareti spalancato al cielo. Lì non c'è nessuno. Il villaggio fantasma sembra pulito e nuovo, non in rovina o abbandonato; è soltanto vuoto. Cortili e vicoli cintati brillano al sole mentre li sorvoliamo. Al centro sorge una piramide. Non c'è spazio per alcun altro edificio, soltanto per strade e muri. Nel piccolo porto di questa imitazione di villaggio, galleggia una giunca con le vele ammainate, dita vermiglie di traverso agli alberi. «Sono rovine di un palazzo?» domanda René. «No... è troppo ben tenuto, troppo ordinato».
«Un villaggio cimitero?» ipotizza Wu. «Un villaggio di tombe, aperto al Cielo?» «Un qualche tipo di luogo sacro?» Peter disegna forme con le mani. «È così denso di forma, denso dello spirito formante stesso. Quelle vie attorte... il senso della geometria denudato. Mentre sull'altra sponda la piana è mascherata da tutti quegli edifici. È come il progetto nudo del villaggio che loro abitano nella realtà, non è così? Una matrice cerimoniale del progetto del villaggio. Soltanto che loro l'hanno costruita, invece di limitarsi a disegnarla? È uno specchio ideale della confusa realtà che loro vivono laggiù...». «Scendo lì? C'è spazio per un atterraggio vicino alla piramide. Possiamo dare un'occhiata». «No», dice Zoe. «Non se è un qualche tipo di luogo cerimoniale. Andiamo più avanti. Impariamo qualcosa di più». «D'accordo». Ritchie ci fa virare, di nuovo lungo il corso del fiume, verso valle. Sembra stanco, comunque. Paludi si stendono verso terra dalle rive. Alte forme arboree con grandi radici arcuate sfilano, avviluppate, attraverso le paludi, cingendo canali e stagni, mentre il corso principale del fiume rimane ampio e chiaro. Colgo un'immagine (mi sembra) di capanne su palafitte e zattere, ormeggiate fra le più grandi fra le radici arcuate, ma non è possibile alcun altro insediamento maggiore. Subito il fiume penetra con una lunga lingua verde nel mare blu pavone. Proseguiamo. Un'altra verde linea costiera si avvicina. Colline ricoperte di foreste e valli scorrono via come onde: un manto verde vellutato, circondato da dolci catene, che racchiude nelle sue nicchie laghi smeraldini. Ancora, monti dell'entroterra avvolti di nuvole... All'interno, di fronte, si erge una cuesta isolata di roccia, un cranio calvo fra i riccioli disordinati della foresta. Il versante interno si getta ripido in un ampio lago alimentato da diversi affluenti. In quel lago c'è la piatta losanga di un'isola. E su quell'isola luccica un'altra bianca piramide e un altro schematico paese vuoto. Sulla riva opposta, fra due degli affluenti, si stende l'insediamento finora più grande, circondato di campi, con la propria seconda piramide verso la riva del lago. «Lo stesso schema! Il vuoto paese ideale sull'altra sponda, di fronte alla città vivente». Wu solleva un sopracciglio guardando Peter. «Città?»
«Oh, d'accordo, non sarà Parigi o Pechino, ma anche così! Poche ore fa scrutavamo dallo spazio e ci domandavamo se quaggiù c'era qualcuno». Ritchie schiocca la lingua. «Non sembra che troveremo aeroporti, comunque, vero? Potremmo facilmente atterrare su quel promontorio e dare loro un'occhiata da una distanza di sicurezza. Potremmo sempre sollevarci di nuovo in caso di necessità, e volare per, oh, un'altra ora circa». Perché dovremmo? «Questa isola, o un'altra! Che importanza ha? Noi siamo qui, dovunque sia questo «qui». Se ci sono ulteriori centri più evoluti, ne sentiremo parlare. O altrimenti loro sentiranno parlare di noi. Comunque sia, perché mai questo posto non dovrebbe essere evoluto? Sembra in equilibrio con la natura, in pace con se stesso. Potrebbero possedere una tecnologia... mentale. Certo, associata a quelle piramidi! Qualcosa di forte deve tenere a bada quelle cose insetto. Non dev'essere soltanto zappe e forconi. E da dove è arrivata la nostra piramide-motore? Stiamo guardando la risposta, e non la vediamo!» Wu tocca il braccio di Ritchie. «La colomba ha ragione. Dovremmo atterrare qui. Per essere un po' banali, il viaggio di mille miglia...». «... inizia con un passo, già. Speriamo di non aver bisogno di camminare per mille miglia per trovare qualche risposta». QUINDICI Alpha scricchiola debolmente sull'affioramento roccioso. Alcuni cespugli verde scuro, con foglie affilate e dure, crescono lungo gli orli di fessure. All'interno di vasche di roccia, in un po' di acqua stagnante, fioriscono lucide coppe purpuree della dimensione di un pallone da calcio, sfere aperte di fuoco che punteggiano le polle di pietra come lanterne di mezzogiorno. Sia la città che il lago sono nascosti alla vista da una cornice di pietra. Lungo il pendio più dolce della cuesta verso sud, lucidi cespugli scendono a cascata fino al soffitto della foresta dove foglie gigliate si tuffano in un mare d'aria. «...rimangono circa ottanta ore di ossigeno, prima di ritrovarci a respirare l'aria locale. Onestamente, non vedo molto senso nell'indossare le tute. Se dobbiamo prenderci qualcosa, ce la prenderemo». «Ma siamo noi che stiamo importando microrganismi alieni». «Senti, René, ho fatto scendere la scialuppa, ho volato per tutto questo tempo, sono stanco, ho voglia di dare un'occhiata a questa gente prima che siano loro a dare un'occhiata a noi. Maledizione, l'aria è resporabile. Sia
che usciamo con le tute o in mutande, ora o la prossima settimana non farà nessuna differenza. Se loro si prendono un raffreddore da noi, sono stati loro ad invitarci. Invitarci? Maledizione, ci hanno ordinato di venire qui». «Impetuoso, ma corretto», giudica Wu. «Siamo state delle vittime troppo a lungo. Era tempo che prendessimo l'iniziativa». «Una cosa di sicuro la prendo», aggiunge Ritchie. «Un L-27. E voi farete lo stesso. Siamo già stati assaliti una volta. Io non ho intenzione di permettere alla storia di ripetersi». «La storia?» Non lo comprendo. È tutto nuovo, completamente nuovo. «Ritchie, non posso uscire armata». Per un istante vedo di nuovo - come nell'hangar - il viso di Jacobik sovrimpresso a quello di Ritchie. È il viso di un demone, la brama di morte. Quel viso gonfio mi perseguita ancora, perfino dopo le orribili morti degli altri. Quelle, naturalmente, io non le ho viste. Soltanto udite. Ma nemmeno sono stata testimone della morte di Jacobik! «D'accordo, tre di noi usciranno armati. Merda, abbiamo soltanto tre fucili a bordo». «Aspetta», dice Peter, indicando la roccia fuori dalla finestra. Due figure erette osservano l'Alpha. Le loro teste... Certamente umanoidi, con due braccia e due gambe a testa, notevolmente alti e magri. Indossano corte tuniche e stivali. Le braccia e le gambe sono coperte di un manto di un ricco colore dorato. Angeli-scimmia, sembrano, con quell'alone di pelo che orna il loro corpo... Ma le teste... Le teste sono glabre. Liscie come crani senza occhi o bocca. Soltanto un accenno di lineamenti abbozzati. Sono teste di Brancusi o Hans Arp, geometrie accennate fuse alla carne e alle ossa sottostanti. «Maschere!» comprendo. «Indossano maschere. Non possiamo vedere i loro volti. Perché dovrebbero indossare maschere?» «Primitivi!» sibila Ritchie. «Come fanno a vedere?» «Forse quelle maschere sono trasparenti da una parte». «Certo. Maschere ad alta tecnologia. Per non prendere il raffreddore dai visitatori spaziali. Non essere stupida, sono appena usciti dalla foresta». «Credo di vedere fessure per respirare», dice René. Lentamente uno di loro solleva una mano sottile al capo, e si toglie la maschera. Al di sotto il viso è lungo, affilato, con la bocca stretta, occhi latte-miele. Il naso è sottile, con un'unica narice centrale. Tutto il viso, eccetto gli oc-
chi, è coperto dalla stessa ricca lanugine di manto ramato. L'effetto è gentile e intenso. Eppure l'intensità emana una forza che tradisce l'apparente dolcezza, la carezzevole attrattiva dell'essere. Rende la sua bellezza struggente, qualcosa di irraggiungibile, androgino. (Non riesco a distinguere se l'essere è maschio o femmina, entrambi o nessuno dei due). Il manto ramato, al sole, è un'aureola. È qualcosa di esterno, una protezione, che lo carezza in modo che nessun'altra mano possa toccarlo. «Angeli», sussurra Zoe. «Prima che diventassero avatar. Prima che diventassero completamente umani ai nostri occhi...». L'alieno privo di maschera cammina verso l'Alpha, poi si accoccola sulla pietra a una certa distanza e batte il suolo un paio di volte con le palme aperte. Pazientemente attende. Le sue mani hanno soltanto tre lunghe dita (e un pollice). «Ci vuole coraggio». «O sapienza. Esperienza». «Lui ci sta aspettando», dice Zoe. «Lei ci sta aspettando», la corregge Peter. Sono perplessa. Lui o lei. «Qui c'è qualcosa di extra. Qualcosa di aggiuntivo. Non so, non riesco a fissarlo... Di certo i nostri fucili non servono, Ritchie. Lui può vederci. Si è reso vulnerabile sedendosi. Lui comprende». «Non dobbiamo fare pubblicità alle nostre armi», assentisce Wu per metà. «Vuotiamo uno degli zaini e mettiamoci i tre laser». «Giusto», annuisce Ritchie. «Occupatene tu, per favore, Zoe. Allora, ci regoleremo così. Escluderò la serratura di sicurezza del portello stagno così potremo coprire dall'interno... uhm... con discrezione. Amy, Peter, René: voi tre dovrete prendere contatto. Oh, e Zoe, già che ci sei tira fuori gli altri tre zaini da ricognizione. Non preoccuparti di ridistribuire quello che hai tolto dall'altro. In ogni caso, presto dovremo vivere della terra». «Forse non dovrebbero essere solo due di noi a prendere contatto? Due di loro, due di noi». «Amy, un leggero vantaggio psicologico non ci farà per niente male. Questo non è proprio un contatto volontario». «Con quei due potrebbe esserlo». «Non sembrano del tutto svaniti, no?» Sento Ritchie respirare pesantemente mentre aziona i comandi di sicurezza, come per impedire a troppo ossigeno di raggiungere il profondo dei polmoni, come se una riserva di vera aria terrestre rimase sempre laggiù e
fosse la vera aria che lui respira. Il portello interno si attiva, e anche quello esterno. Scalini d'acciaio si aprono. E noi tre scendiamo. L'aria sa di bagnato, e odora di frutta come sidro rovesciato, dolce, umida, pulita e inebriante. L'alieno accucciato (no, l'indigeno, del suo mondo!) considera questa robusta persona dalle membra forti, io (certo, per lui sono sicuramente così), con il naso cavallino dalle doppie narici e la bocca con le labbra carnose, questa strana creatura i cui unici peli visibili si arricciano neri sul cranio. Poi la figura più piccola, più magra, dalla pelle screziata, accanto a me, con le sue efelidi da roano e i riccioli rossi, forse soltanto un bambino? O altrimenti Peter è la donna fra noi due, se le femmine tendono a essere più piccole dei maschi. I suoi occhi passano a René: scuro e pesante, con la stranezza di un cespuglioso paio di baffi neri alla Nietzsche. Ah, René è il padre, che ostenta sulla bocca il piumaggio di corteggiamento; perciò Peter è veramente nostro figlio. Com'è diverso dai genitori, comunque! Magro, in forma larvale, maturando deve perdere le macchie rosse della fanciullezza per diventare pastoso, robusto, e con il manto nero... (Se io fossi l'alieno, potrei pensare questi pensieri). Gli occhi dell'indigeno hanno un fremito. Perché c'è Ritchie in agguato, quasi in vista: snello, naso schiacciato, occhi azzurri, un corto cespuglio biondo. Come si inserisce? (o forse tutti sembriamo indistinguibili, dopotutto?) L'indigeno si alza: grazioso, agile, dorato, alto. Oh, alto. Due metri e mezzo. Forse è soltanto il sole sul suo manto, ma sembra che abbia delle ali - ali angeliche - raccolte strette attorno a sé, ali che non riesco a vedere ma comunque percepisco. In qualche modo non provo la stessa sensazione nei confronti del suo compagno mascherato. Allora l'indigeno ci parla, per forse un intero minuto... I suoni delle parole hanno una qualità perentoria, che non ammette discussioni, eppure in nessun modo sono uno «staccato». Rotolano come onde labiali che s'infrangono, o come un vellutato tuono distante. Si ripetono riflessivamente, mutando leggermente, rinforzando l'inconoscibile messaggio. Possiedono un tono drammatico, mimetico, persuasivo. Sta forse intenzionalmente dimostrando l'arte stessa del linguaggio, dell'atto del parlare, perfettamente conscio del fatto che il significato letterale ci sfugge? Non parla troppo lentamente o con troppa enfasi, come a un bambino o a
uno straniero, dato che questa non è una lezione, non ancora. Semplicemente ci sta racchiudendo nel suo universo del discorso. Soltanto verso la conclusione c'è una nota più alta, d'esitazione. Non l'esitazione del dubbio, ma un'esitazione coinvolgente: incitandoci a continuare, in qualunque modo. Che io continui. Mi guarda. Forse perché io sembro essere la media corporea di Peter e René, e perciò la più rappresentativa. Che cosa c'è da dire? Punto un dito al cielo. (Ci sono poche nuvolette morbide sospese lassù, che nemmeno si muovono). «Siamo venuti dal pianeta di un'altra stella. Siamo venuti a trovare il Pianeta di Dio». Le parole suonano assurde, di un'illusione arrogante, uno schizofrenico discorso privato. Prova di nuovo. «Siamo venuti per una cerca, per porre domande». Proprio come nello Spazio Superiore, giochi di parole latenti affiorano non richiesti in superficie, prendendosi gioco del significato, sfumando le parole l'una nell'altra. Non ho pronunciato che venti parole, più o meno, e sono tutte semplici variazioni sul tema «siamo venuti» il che è evidente. Di fronte all'«Altro» - non più in libri e fotografie antiche - mi riscopro senza parole dalla sorpresa, imbarazzata da una totale angoscia di privazione della parola davanti a questa strana, sottile, vellutata bellezza e convinzione. Gli avatar parlavano inglese, ebraico, hindi, qualsiasi cosa la mente udisse; ma qui... Allargo le braccia. Mormoro: «Mi dispiace». René interrompe, nella sua dolce cadenza francese: A noir, E Blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles, Je dirai quelque jour vos naissance latentes: A, noir corset velu des mouches eclatantes Qui bombinent autour des puanteurs cruelles. Golfes d'ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d'ombelles... Una poesia. Ho quasi capito tutto. È come se, improvvisamente e miracolosamente, avessi compreso un discorso straniero per mezzo di qualche latente e segreto canale! «A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali! Un giorno ne dirò le nascite latenti: A, nero vello al corpo delle mosche lucenti che ronzano al di sopra dei crudeli fetori...». Che cosa significa ombelles?
«È un sonetto di Rimbaud», mormora René. «Perché non iniziare la nostra relazione aliena con un po' di bellezza, dato che non abbiamo altro da dire? Dovremmo cantare, Amy - amie». Le piccole labbra dell'indigeno si raggricciano. È quasi una smorfia. L'espressione non mi dà nessuna impressione di un sorriso. (Ma noi lo minacciamo quando gli mostriamo i denti? Un sorriso troppo aperto è soltanto un ringhio, deviato e parodiato? L'umorismo vocale è soltanto un'aggressione sublimata?) Invece, i suoi occhi sembrano sorridere. Sono di una leggera patina bianco lattea come porcellana traslucida, con iridi di un pallido bruno-miele come cataratte umane. Le pupille sono scure e piccole. Di colpo queste si dilatano in neri pozzi profondi... volontariamente? Questo è un sorriso? «Assorbono» la declamazione di René, poi rimpiccioliscono di nuovo. L'indigeno piega il capo, come in ascolto di qualcosa per noi troppo lontano da udire, eppure per lui molto vicino. Apre la bocca e agita una snella lingua malva. «Saal», osserva. «Saal». I suoi denti sono come quelli da latte di un bambino. «Dobbiamo imparare la tua lingua», annuisce René. «Spero soltanto che non siamo atterrati in un linguaggio equivalente a quello della Nuova Guinea». Ora l'indigeno sta dando forma ad una sfera d'aria con le mani, e poi separa le due metà a coppa. Una metà la tende verso i tre punti cardinali (tre? i tre sub-oceani?). Battendo il suolo con il piede, solleva la coppa alle labbra. «Getka», dice. E: «Getka-saali». L'altra coppa si stringe in un pugno che poi lui getta via. Lontano. «Menka». Disegnando una sfera nell'aria, fa ruotare le mani a coppa attorno al globo immaginario, tenendo «Menka» vicino al globo e «Getka» sul lato opposto. «I due emisferi? E sembrerebbe che questo linguaggio sia parlato su tutto il lato abitato, il lato Getka?» «Un unico linguaggio, con tutte queste isole disperse in un'area così vasta? Non è molto probabile», dice Peter. «Una lingua franca, allora! Devono avere una cultura planetaria. In ogni caso, che tocca tutto un emisfero». L'indigeno indica oltre l'orlo di pietra nella direzione della città. Fa qualche passo indietro per recuperare la sua maschera, ma la tiene soltanto in mano, senza indossarla. Attende. Chiamo Ritchie: «Esci! Siamo i benvenuti». Sì, l'«Altro» ci ha accettato. Ritchie, e poi due altri alieni di specie apparentemente divergente di-
scendono: uno alto, nero, il naso largo, la testa riccioluta; e l'altro piccolo, di un lucido giallo avorio, con occhi tagliati come da un coltello in una pelle tesa. Siamo delle pedine di un domino, tutti con diversi punti. Nero, bianco, rosso e giallo: non c'è modo di metterci insieme. Forse siamo un sestetto di sei sessi interconnessi? Ritchie assicura il portello. Distribuendo fra noi gli zaini disponibili, ci avviamo con l'indigeno dorato lungo la cresta della roccia. Ci lasciamo dietro l'Alpha come una lattina vuota in equilibrio sull'incombente roccia. Quando mi guardo indietro, deturpa il paesaggio, perfino con il coperchio richiuso: un enorme vuoto a rendere gettato via in un ambiente alieno. Ed è proprio così, ce ne siamo disfatti, per sempre. SEDICI Oh ostello, oh rive illuminate dal sole, come riuscirò mai ad addormentarmi? Mentre le lunghe ore del mattino dirigono il proprio cammino, con tanta lentezza, verso mezzogiorno... La luce riempie la lunga e alta stanza. Filtra dalle stanze adiacenti attraverso cortine leggere come carta. Questi letti intrecciati, con pagliericci di lana imbottita e le loro fulve e pelose coperte per la profonda notte buia, sono conosciuti qui come «alberi del sonno»... È una memoria della discesa dagli alberi, riassunta nella loro vita urbana ancora dopo tanto tempo? O è semplicemente il nome di un legno del colore del cinnamono da cui ricavano i telai? O è qualcosa di ancora diverso? Il prefisso e il suffisso get - come nel nome di questo emisfero (ka è una semi-unità) - sembra riferirsi a qualcosa in uno stato di mutamento: mentre men si riferisce al solido, concreto, al fisso e permanente; l'altro emisfero, Menka, è in effetti una massa di terra arida fissata alla faccia del gigante gassoso. Eppure, per gentilezza, usano chiedere: «G 'hera' vaa-get?» o «G 'hera' vaa-men?» - «Hai salito l'albero del sonno mollemente, o rigidamente?» - come se fosse un viaggio reale che si compie o meno. E poi ci chiedono: «Sei caduto addormentato?» quando ci svegliamo, come se confondessero lo stato di veglia con lo stato di sonno. (Sì, caduto addormentato: cadere dall'albero del sonno). I loro tempi verbali sono ancora per noi lontani. Enigmi si rincorrono sulla mia lingua mentre medito accanto al telaio della finestra, tesa ad una tensione troppo forte, se mi corico, per fare a meno di continuare a rigirarmi nel letto. Zoe, fortunata, dorme profonda-
mente, ma René è fermo in un'immobilità troppo rigida per non star fingendo di dormire a mezzogiorno. Dobbiamo seguire un ritmo di un giornomattina e un giorno-pomeriggio inframmezzati da una falsa notte di sonno a mezzogiorno, poi una prima notte di veglia e una seconda notte di veglia separate da ancora sonno. Durante i nostri primi dieci giorni di Getka, abbiamo vissuto un ciclo insonnia, lucidità e spossatezza come ad una festa che non smette mai, con tutti gli ospiti più interessanti che spariscono proprio quando si è sul punto di conoscerli bene. Riconoscendo i nostri alieni ritmi di sonno, durante le ultime tre lunghe notti ci è stato assegnato un tutore per i turni notturni, avvolto in un pesante mantello, per occupare le nostre ore di veglia notturna. Peter siede ingobbito accanto ad un'altra finestra, a guardare oltre il lago la strana isola vuota dalle pareti luccicanti, i cortili e la piramide. Gli alti indigeni camminano sul lungolago pavimentato. Uno indossa una maschera liscia; che cosa sono? Per un attimo la sua testa si fonde con la bianca scarpata oltre il lago. Un tronco privo di testa procede a lunghi passi finché, contro un'intelaiatura gialla, il tronco riassume lo schizzo di una testa. Un altro indigeno passa cavalcando, appollaiato in alto sulle spalle di un rhaniq, come viene chiamato il pezzato quadrupede dinoccolato con la gobba e le gambe incerte, il collo serpentino e i lineamenti di una pecora. Il rhaniq tira un enorme carro a quattro ruote carico di ceste di pesce azzurro... Il primo giorno ci hanno prelevato dei campioni di sangue. Solo dopo le analisi ci hanno nutrito del loro stesso cibo (pesce, piccoli volatili, impasti agro-dolci, paste viscide, fiori di gelatina, un leggero vino latteo e spremute di bacche). Al di là della semplicità dello stile di vita, abbiamo la sensazione che siano dei buoni biochimici, e anche dei buoni ingegneri, se così vogliono. Acqua riscaldata dal calore del sole scorre da rubinetti di ceramica nella zona bagno. I rifiuti della toilette alla turca vengono eliminati con un sistema a vibrazioni. Per quanto siano dei bravi ingegneri idraulici, hanno trascurato i trasporti e li hanno lasciati ad un livello medievale. L'unica ampia narice della bestia si allarga nella nostra direzione, studiandoci dall'odore. Si agita tra le stanghe emettendo un suono squillante. Il suo cavaliere guarda dalla nostra parte e la sprona con un colpo delle ginocchia nude, anche loro dal manto dorato, che si perdono quasi nei fianchi della bestia. Le cose si fondono l'una nell'altra in questo mondo. Non abbiamo ancora addomesticato i suoi contorni e i suoi colori.
Al di sotto della finestra un bordo di larghi fiori di un rosso aragosta si rivolgono, eliotropicamente, a seguire il lento avanzare del sole nel cielo, attirando minuscoli uccelli nervosi dalle ali di trine. I fiori hanno il pesante odore delle banane fermentate. Ci sono anche dei grossi uccelli lucidi, che mandano lampi azzurri sollevandosi nell'aria, e grandi trottatori addomesticati con piedi scarlatti dai vistosi speroni, e ci sono aquile-camaleonti avvolti in spire accucciati al suolo, in imitazione di zolle di terra o sassi, finché non scattano in alto, cogliendo la loro preda di sorpresa attaccandola dalla direzione inattesa. I loro colori mutano così rapidamente che è come se sacche di paesaggio si spostassero di colpo da un posto all'altro... Durante la notte senza fine, quando la più grande delle altre lune è più piccola delle dimensioni di un'unghia alla distanza di un braccio, i richiusi fiori «eliotropici» eseguono il loro ciclo all'indietro in attesa dell'alba, fornendo un orologio botanico per quelle ore di oscurità. Non ci sono altri orologi o clessidre o orologi solari. Il tempo si è bloccato. Ritchie ha trovato Sole nel cielo notturno (lui crede). Lui e Wu sono fuori in esplorazione. Peter sospira e si avvicina. «Stanco, amore?» Sorride snervato. «Vuth, dath...» (Tu, io...) Le sue labbra si muovono automaticamente. «Come si dice in Getka-saali: «Quando noi avremo un bambino, sarà tutt'e due noi in un'unica persona»?» «Quanto vive questa gente, Peter? Questi giorni e notti enormi potrebbero sfiancarci. Ma forse, a lungo andare, il graduale gradiente di luce e la stabile qualità della luce durante tutto l'anno potrebbero essere calmanti. Ti ricordi l'isteria primaverile?» «Il sollevarsi degli umori». Sorride. «I suicidi e le depressioni primaverili. Troppa quantità di luce. Tante più cose da vedere. Tante più abbaglianti informazioni riversate addosso... Di modo che, in un certo senso, molte persone si spengono, certo, si deprimono, per controllarle. Ho sempre amato le stagioni, e le ho anche odiate. Odiavo entrare in una stagione di luce anche se poteva sembrare una rinascita, bulbi, gli uccelli che cantano, le lumache che strisciano fuori dalle crepe. Forse questa gente vive molto più a lungo qui». «Forse è per questo che la loro cultura possiede questa qualità statica. Carri, barche a vela...». «E buoni impianti idraulici, e l'energia solare, e la bio-chimica? Noi non
lo sappiamo, in realtà, se è statica. Non riusciamo ancora a vedere il progetto». Lui fa un gesto in direzione dell'isola. «Oh, eccolo lì il progetto! Ma perché costruire in scala reale una città modello che non è nemmeno utilizzata? Senza tetti e senza edifici come si deve?» «Perché l'ideale non è abitabile? Forse non credono nella vita in una comunità ideale, anche se sanno che cos'è. Sarebbe statica, immutabile. Sembra esserci un contrasto costante, vero, fra get il mutevole e men il solido, il permanente? Quell'isola si chiama Menfaa: «solido... albero?» Io non vedo nessun albero laggiù...». «È più di un pezzo di terra ferma in mezzo ad uno specchio d'acqua. E io credo di sapere che cos'è, Amy. È qualcosa che non mi sarei mai aspettato di trovare, esposto in termini di mattoni e cemento invece che puramente concettuali. Sulla Terra... a casa... alle culture sciamaniche piaceva connettere ogni cosa sulla terra a qualche ideale controparte cosmica, no? Una montagna particolare aveva il suo prototipo ideale nel cielo. Il fiume Tigri aveva il suo «modello» - la sua controparte trascendente - in quella precisa stella. Questa gente se la costruiscono in piena vista la lor controparte, di fronte alla realtà mondana! Perché? Tutto il senso del sistema delle controparti era collegare lo stato terreno alla realtà invisibile che naturalmente era perfettamente concreta, ma non qui. Era sempre in qualche altro luogo, nel Cielo». Il giorno si fa sempre più luminoso, e noi ci facciamo sempre più stanchi. «Non possiamo montare delle tende pesanti?» «Vogliamo nasconderci? Il messaggio delle tende è... Be', almeno loro hanno delle cortine sottili. Sono delle persone non troppo riservate, vero? È come se volessero che la luce attraversi tutto. Eppure non si preoccupano quasi di illuminare la città di notte». «Non hai notato quanto sono adattabili i loro occhi? Coscientemente, non come i gatti o i gufi. Possono farlo volontariamente. Assorbono la luce. E chi mai è sveglio di notte, per aver bisogno di luce nelle strade?» «Certo, sorridono con gli occhi... Come fanno a vedere con quelle maschere?» Si gratta la barba rossa. I nostri uomini fanno presto a diventare degli esploratori vittoriani. Potrebbero benissimo radersi di nuovo dopo il lungo interludio della non-gravità. Ma non lo fanno. Come interpreterebbero, degli alieni villosi, l'ossessione di depilarsi? Gli indigeni sembrano affascinati dai peli corporei dei nostri uomini. Li «assorbono»: come as-
sorbono i nostri menti e le nostre liscie guance femminili come per elevare il livello d'ingresso agli occhi alla ricerca di... che cosa? una barba incipiente anche su di noi? Senza dubbio la differenza li confonde. «Tu-ed-io», Peter ritorna al principio. «Come lo dicono? C'è un singolare ed un plurale. Poi questo terzo «numero» che insistono dobbiamo imparare: paravuth, paradath, Para è «due», perciò dovrebbe essere una forma duale, un uso diadico. Come fa «io» ad essere duale? Come fanno ad esistere due «me»? Vorrei che Sachiko fosse qui». «Non lo usano in quel modo, Peter. «Io e un altro» vanno dritto al plurale. D'altra parte, il tizio con il doppio nome che ci ha portato qui - quello con la maschera - lui usa paradath per se stesso, e noi dobbiamo usare paravuth per lui. Allora, è un titolo? Ha a che fare con l'indossare una maschera? Qual è la connessione?» «Ah, qual è la connessione fra questa città e quella laggiù?» Ecco il temerario esploratore e la principessa solitaria. Più tardi, Wu e Ritchie sono fuori a passeggiare, proprio prima del «tramonto» di mezzogiorno e prima del reale tramonto per esplorare la città. Un'aria di allegra cospirazione pervade le loro uscite. «Dopo l'ora della nanna!» sorride Peter. «Mi sento come un bambino, qui, costretto ad andare a letto mentre è ancora giorno pieno! Forse se cominciamo a guardare le cose da questo punto di vista invece di sfiancarci in questo modo...». La Crociata dei Bambini: ricordo la battuta acida di Wu a bordo del Pilgrim. Eravamo partiti per fare la storia, per salvarla (o così almeno lei). Ora siamo i Fanciulli nel Bosco. Qui non abbiamo più nessuna storia. È tutto svanito, insieme alla Terra, ed io ne sono felice. Questi alieni possono aver vissuto in questo luogo per migliaia o centinaia di anni in questo modo... «Sai, ho la sensazione che forse questa gente abbia chiuso per sempre con la sua storia molto, molto tempo fa...». Solleva un sopracciglio. «Ma hanno inviato messaggi interstellari. Visioni». «Siamo noi che lo ipotizziamo». «Oh, andiamo, loro sanno chi siamo... e perché. Si sono già abituati a noi. Ci attendevano. Io credo che non si attendessero che noi atterrassimo in questo posto, tutto qui». Un leggero strofinio di lucido legno su legno. Wu è impregnata di luce, Ritchie la sua scorta. Mi porto un dito alle labbra, annuendo verso Zoe che
è abbastanza fortunata da essere addormentata mentre René continua decisamente a fingere. Ritchie va a rinfrescarsi il viso nel bagno, ritornando con i capelli biondi tirati indietro come un ragazzino, lasciando spalancata la porta scorrevole del bagno. Anche con la barba, è un ragazzino. Versa coppe del fresco, dolce, aromatizzato lariz per se stesso e Wu da una caraffa di pietra verniciata, affonda in uno dei cuscini sul pavimento, ammicca e sbadiglia. «Abbiamo tentato di entrare in quella piramide laggiù, ma ci hanno mandato via. Immagino che non si dovrebbe far passeggiare un tizio che non sa leggere i cartelli in una stazione radio. O qualsiasi cosa sia... Una moschea, forse? Vietato l'ingresso ai miscredenti? Forse dovresti provare tu, Peter. Noi siamo solo ratti». «Non appena saremo in grado di porre le domande giuste. Stiamo progredendo velocemente. Le borbottiamo perfino nel sonno». Wu gli lancia un'occhiata strana. «Noi? Davvero?» «Forse stavo solo sognando. Io sono sicuro di sognare in uno storpiato Getka-saali. I sogni sembrano parecchio intensi qui, anche se me li dimentico immediatamente. C'è un intero nuovo mondo da elaborare!» Lei ignora i sogni di Peter. La gente ignora sempre i sogni degli altri. «Ci dev'essere un governo mondiale con la sua lingua comune», insiste Wu. «Un'organizzazione planetaria. Ma chi provvede all'organizzazione? E come? Sembra incredibile senza trasporti rapidi o radio... Che necessità c'è di una lingua planetaria con un sistema di comunicazione così limitato? Perciò, non deve essere limitato. È solo che noi non lo vediamo». «È all'interno della piramide», annuisce Ritchie. «Deve». Delle voci si avvicinano... «Paravarthu amra...» («Loro vanno...») Voci che parlano nella strana forma verbale duale, diadica. Un leggero sibilo di gente che corre, lo sbattere di una porta scorrevole contro lo stipite. E la porta sull'altro lato del bagno si apre scivolando di colpo: thock. Un Getkano entra, nudo eccetto per un paio di sandali e un lucido minimo perizoma scarlatto, come se ci fosse una striscia di sangue attorno ai suoi fianchi e una pozza di sangue sul suo inguine. Tiene in mano una lunga e ricurva spada snudata. DICIASSETTE Ritchie fa un gesto verso lo zaino che contiene l'L-27, ma si controlla in tempo.
«Mensaalriti», annuncia calmo l'indigeno. Una formula di saluto: «possano le nostre parole essere permanenti/unificanti». Infatti la spada non è snudata. È riposta in un fodero trasparente, una vitrea fronda; e la mano del Getkano si limita ad essere posata sull'impugnatura di bronzo per tenerla distante dall'intelaiatura della porta. Sulla schiena porta uno zaino, inoltre, sorretto alle spalle da scure cinghie che si confondono di colore con i suoi capelli. Sopra questo, come una seconda testa, c'è una maschera-casco. C'è anche, appeso, uno scado rotondo. L'indigeno ci «assorbe» per un po', poi si volta per togliersi lo zaino che poi lascia nell'altra stanza su un albero del sonno. Il materiale del suo scudo è così luccicante, è uno specchio. Lui - sì, certo, dev'essere un maschio - ha una compagna, che pronuncia lo stesso saluto. Lei, sì, perché i seni sollevano alture gemelle fra il manto dorato del suo petto. Anche lei indossa un perizoma scarlatto. È come se entrambi fossero stati tagliati a metà con un colpo netto di una lama gigantesca, in modo da poter essere staccati e i loro torsi ripiantati sui fianchi dell'altro. Forse l'effetto li affascina? René si sveglia con un fremito; o piuttosto decide di essere sveglio invece che addormentato. Rilassando la finta staticità del suo corpo, si appoggia su un gomito. La coppia si toglie i sandali, si libera dei perizoma e si ritira nuda nella stanza da bagno. «Quella è una donna», sibila Ritchie. «C'è anche un maschio», osserva Wu. Tutti noi (salvo Zoe, che sta ancora dormendo) osserviamo con diversi gradi di discrezione o indiscrezione - se la discrezione, comunque, è richiesta; il che non sembra. L'acqua bollente ricopre di vapore le piastrelle. Con dolci chiocciolii mormorati i due si strofinano a vicenda con la schiuma di un aromatico sapone liquido, diventando più snelli e più scuri con il lisciarsi del loro manto finché sembrano simili a due conigli allungati a dismisura. Il manto ricopre perfino i genitali: quello della femmina s'incunea all'interno, quello dell'uomo è un grumo scuro con un sottile organo tubiforme. A loro sembrerà senz'altro che noi abbiamo dei cespugli ridicoli di pelo, per ostentare la presenza del nostro sesso! Quando hanno terminato, si asciugano a vicenda con decisione e poi escono al sole caldo. Seduti sulla soglia della stanza da bagno, tendono le membra, che sembrano già essere state tese su un telaio! Guardando l'isola,
fanno asciugare la loro pelliccia. Dopo aver contemplato a lungo Menfaa, ritornano alla loro stanza. Come per un ripensamento, chiudono la porta. «Spade, certo!» Ritchie sogghigna. «Forse sono arrivati da un qualche tipo di torneo», suggerisce René. «Le Sport?» «A me sembrano più dei guerrieri», dice Wu. «Questa comunità non è proprio militarista», ribatte René. «Perché hanno scelto una stanza da queste parti, così vicino a noi?» mi domando. «Curiosità? Vista migliore sull'isola?» «Già, restano sempre a fissarla», annuisce Ritchie. «Solo per una bella vista, o quella è la loro destinazione? Si propongono di combattere qualcosa laggiù? È per questo che l'isola è deserta?» «Teseo e il Minotauro?» Raccolgo il suo suggerimento. «Dobbiamo imparare meglio la loro lingua! E dobbiamo subito metterci a dormire. Queste giornate, queste enormi giornate!» Completamente esausta, mi spoglio rimanendo in slip e mi distendo. Wu si mette a dormire nuda, Ritchie la guarda, poi di colpo si gira sullo stomaco. Ma il mio sonno è disturbato da voci, e il «pock» di porte scorrevoli in distanza, e un rhaniq che nitrisce da qualche parte in un cortile interno. Ritchie giace con Wu sotto una coperta pelosa. Stanno sussurrando. «Queste lunghe linee di parallasse», lei dice. «Convergono a misurare lo strettissimo angolo fra noi». (Un concetto metafisico da lei? È così che corteggia uno spaziale, parlando all'astrosestante della sua anima? Ma naturalmente io ho perso il precedente corteggiamento delle parole. Se ce n'è stato uno; se). «Devo chiederti una cosa, mio coraggioso cadetto». Io ascolto, imbarazzata. Sarebbe molto più imbarazzante tradire il fatto che posso ascoltare. René russa, nascondendo qualsiasi alterazione nel mio respiro, ma la luce è forte; sono certa che loro devono riuscire a vedermi con le palpebre attentamente chiuse. «Ti sentivi attratto anche da Li?» «Um...». «Dimmi la verità». «Cristo, mi facevano male le palle, quando l'avevo vicino. Ma tu, Dio mio, non avevo mai pensato che tu...». «Potessi svuotartele? Noi abbiamo un vecchio detto, Ritchie: «Prima di battere il cane, assicurati di conoscere il nome del suo Padrone». Così è con Li. Al solito c'è un conflitto di potere in Cina. La storia insegna a noi cinesi la lezione della sottomissione. In realtà, la storia è tutta mito in Cina, e la politica una specie di religione. La riabilitazione del maoismo era una
fede riaccesa, per l'ordine. Sai che non mi hanno mai permesso di scrivere la storia del Partito Comunista? Perché no? Perché avrebbe dovuto essere riscritta! Ai nostri legislatori - fra i quali dobbiamo includere me stessa non frega un tubo di niente della storia. Quell'avatar del vecchio condottiero che è apparso sulla Piazza Tien An Men li ha atterriti. Il passato! Quanto odiamo il passato. «La corrente della storia è irresistibile». Che bel cliché! E che cosa significa? Nulla di nulla. Per noi c'è soltanto il presente, in caso la gente si renda conto quanto il presente riassuma il passato. La vera ragione per la quale io, come leale carceriere del passato, sono stata mandata in questa spedizione è quella di studiare questo trucco che annulla il senso della storia. Da parte sua, Li è stata mandata per scoprire la tecnica fisica, l'agente controllore. Invece di un lavaggio del cervello alieno, potrebbe esserci una mano umana a dirigere l'affare, capisci? Dobbiamo trovarla, mio Ritchie, in modo da impedire che questo accada. Io sono una reazionaria opportunista, si dice così? Queste sono le loro parole, ma non si rendono conto che si applicano a me. Io adoro la verità storica; ecco perché sono così abile ad insinuarla, mentre nominalmente la nascondo, com'è il mio ruolo attivo». Sta dicendo la verità? O tutto questo non è che un doppio bluff, per reclutare Ritchie dalla sua parte ora che Wu ha perso la sua compagna Li? Sta semplicemente comprando Ritchie con il suo corpo? «Due contro un mondo, Ritchie. Insieme ad altri compagni di viaggio, che hanno fortemente bisogno di un capo. Come nell'epica Shin Nai-an del Confine delle Acque. Lettura favorita del Dio Mao, lo sapevi? Mao, che sarebbe stato resuscitato materialisticamente se Li e gli altri avessero fatto a modo loro. L'avatar sbagliato si è materializzato nella Piazza Tien An Men. Ma continuano a nutrire speranze...». A metà del lungo pomeriggio, ci svegliamo tutti ordinatamente, al suono di una strana musica lontana sul lago. Un violino atonale stride, un irritato tamburo batte, il basso gemito dei corni e lo stridulo sibilo di enormi gambe di cavalletta che fremono. È una musica mancante, incompleta. Potrebbe diventare meravigliosamente affascinante, ma soltanto una parte ne viene suonata. Perciò rimane torturata e struggente, frustrante all'orecchio, come se l'affioramento di pietra dovesse rimandare un'eco a contrappunto per riempirla e renderla completa. La musica si interrompe svanendo. Eppure i suoi silenzi non sono punteggiature pregnanti. Sono puri vuoti, entro i quali le frasi successive sibilano e ululano come aria in una sacca di vuo-
to... Pure vuota è la stanza dei nuovi venuti; la porta è semiaperta. Loro mancano, e con loro anche le maschere-casco e gli scudi, ma non gli zaini, che sono ancora sugli alberi del sonno. Di nuovo vestita, Wu tende l'orecchio. La musica sembra parlarle, misteriosamente. «Il potere del vuoto! A volte il quadro migliore è per tre quarti vuoto... Ma che cosa implica qui il vuoto?» Ha un fremito. «Che tutto dovrebbe essere vuoto? Eppure non può esserlo?» Sul lago scivola la giunca delle vele rosse. Ancora con lo sguardo velato e in slip, Ritchie sistema i binocoli sullo stipite della finestra. «Sono là fuori, in piedi a poppa, i nostri due guerrieri. Yow!» Spinge via i binocoli. «Mi hanno quasi accecato con quel dannato scudo!» René gli prende i binocoli. Osserva con più circospezione. «Tutti sono mascherati, anche i musicisti. Non può essere un sacrificio, sicuro. Le vittime rituali non è facile che siano armate». Ritchie si strofina gli occhi stanchi. «Dipende da che cosa devono affrontare». «Forse», suggerisce Peter. «Ognuno è vittima dell'altro? Uno di loro deve perdere e morire?» È una sciocchezza. «Erano così affettuosi, così dolci». (Com'erano affettuosi a letto Wu e Ritchie, questa notte meridiana?) «Comunque, hanno lasciato qui i loro zaini». «Forse non ne hanno più bisogno, amore». «Diamo un'occhiata dentro gli zaini?» «Scordatelo», dice Zoe e Ritchie. «A te piacerebbe che loro dessero un'occhiatina al tuo? L'istruttore arriverà tra poco». Molto più tardi, i due guerrieri ritornano alla loro stanza, non sacrificati, illesi, le loro spade lucenti ancora limpide dentro i loro foderi. Ci degnano di uno sguardo altezzoso, come se gli alieni umani non interessassero loro punto, in confronto a qualche altra stranezza che hanno incontrato da poco, o altrimenti con la quale dovranno fare i conti tra non molto. Noi non siamo avanti su quel cammino quanto loro. Quando è buio accolgo Peter nel mio letto. (Se Wu può sedurre Ritchie in pieno giorno...) Zoe lo imita poco dopo, infilandosi silenziosamente nel letto di René, anche se poi non rimangono così silenziosi. Eppure Wu e Ritchie dormono divisi come impegnati a cammuffare la loro relazione recentemente consumata, come se temessero che i loro segreti discorsi d'al-
cova potessero venire ricostruiti da noi altri amanti dagli indizi di sospiri e affanni, e le prove di un tipo di rapporto potessero condurre alla rivelazione di un altro, di tipo politico. O forse sono soltanto prosciugati dalla tensione che ancora sentiamo. Come scarichiamo quella tensione, quanto la riversiamo l'uno nell'altra! È passato tanto tempo. E perché così tanto? Pietà per i compagni caduti? Che dovessimo divertirci in questo modo mentre... (non pensarci)? O la riluttanza di ammettere, accoppiandoci, che siamo naufraghi: una microcolonia lontana da casa fra quelle snelle persone dorate? Questa notte, io non sogno Peter nelle mie braccia, ma l'odioso Jacobik che indossa un'aliena maschera-casco che gli nasconde il viso. Eppure lo riconosco perché la sua maschera e il suo viso sono in realtà gli stessi: entrambi vuoti, il vuoto della morte. Nel mio sogno lui è appeso per il collo ad una lunga fune all'interno di una vuota piramide priva di porte. Oscilla avanti e indietro verso di me come un pendolo. Al posto delle mani ha artigli: artigli da insetto che scattano verso di me. In mano tengo una spada aliena. Lo colpisco con la spada. Lui scansa il colpo, dondolando più vicino al successivo passo, afferrandomi finalmente. Io cerco di tagliare la fune che lo tiene appeso, l'homme pendu. L'attraverso. Eppure lui non crolla al suolo. Prima è appeso, poi crolla come una vescia secca. Nuvole di gementi insetti fastidiosi scoppiano da quel guscio rinsecchito che dev'essere mummificato da mesi. Agito la spada inutilmente mentre mi volano attorno. Lo spostamento d'aria del suo passaggio li spinge lontano dalla lama. Mi rimbombano nelle orecchie, confondendomi, finché non sono altro che il punto fisso della lama lampeggiante, meccanicamente brandita nell'aria, una folle macchina mietitrice, una falce automatica. Fino a che non sono lui. Morte Mietitrice. Il sibilo diventa parole: parole affastellate su parole, che mi volano nelle orecchie, nella testa (o forse ci sono già), parole del linguaggio Getka-saali... DICIOTTO Finalmente siamo stati condotti alla piramide in riva al lago, ad incontrare lo Yarrish di Lyndarl: il sindaco o capotribù di «Tre Fiumi». Il suo complesso di uffici è all'interno della piramide. Allo Yarrish manca una mano. Il suo polso destro è un moncherino netto. Eppure usa il braccio come se la mano fosse ancora lì, come se lui non soltanto percepisse una mano fantasmatica ma potesse farne un uso con-
creto. Curiosamente, io percepisco che ce n'è una in effetti, al suo posto; eppure - come posso spiegarlo? - non «qui». Mi ricordo della guida che abbiamo incontrato sulla nuda cuesta e l'avvolgersi su se stesso di invisibili ali o membra raccolte: un secondo sé, eccetto che io non so su quale lunghezza d'onda cercarlo. Ha perso la mano per qualche colpo di spada? O colui che afferra le redini del potere perde il potere di afferrare, per non spingersi troppo oltre? Sereny, il nostro tutore diurno, ci ha condotto qui: in una stanza bronzolegno con file di cuscini sul pavimento. La luce viene riflessa all'interno da feritone orlate di specchi aperte nelle oblique pareti di pietra. Nella camera ci sono già una dozzina di Getkani, inclusa la coppia in perizoma che aveva continuato ad alloggiare all'ostello, nel mentre trascorrendo molti giorni nell'isola di Menfaa. Si sono comportati piuttosto freddamente con noi finora, quand'erano a casa, come rimproverandoci di un qualche ritardo nei loro programmi, quali che fossero quei programmi. O forse soltanto con circospezione, per soppesarci? Io sospetto che in qualche modo - per loro sorpresa tanto quanto per nostra - il loro destino sia ormai intrecciato al nostro. Almeno noi sappiamo che il nome di lui è Samti e quello di lei è Vilo, e che provengono da qualche luogo dell'arcipelago settentrionale, il che spiega il loro succinto abbigliamento in questo clima torrido. Lo Yarrish si assorbe. «Ora che potete parlare, Nati da Stella, possiamo parlare». Sì, possiamo parlare. Questo è stato un corso a ritmi intensi, e come tale curioso, affascinante. Come il proverbiale iceberg, molto sembra essersi nascosto sotto la superficie della nostra coscienza. Non possiamo semplicemente essere così lesti nell'apprendimento! Nessun microfono si nasconde sotto i nostri alberi del sonno a sussurrarci mentre dormiamo. Eppure ci sono stati sussurri nei nostri sogni. Io sono sicura che abbiamo sognato in Getka-saali e siamo diventati più fluenti nell'uso della lingua attraverso questa via. Le lezioni quotidiane di Sereny e dell'altro tutore si dimostrano sempre di più come uno spargere di cristalli fecondi in una soluzione che diventa sempre più satura, sogno dopo sogno. Ora sappiamo usare la forma diadica di «io» (ma per quale motivo la usiamo?) Sappiamo usare il plurale parziale (uno-e-mezzo-noi), ma come fa a esistere una mezza persona? Il verbo muta, seguendo regole sottili. Lo Yarrish inclina il capo. «Powa è il mio nome natale, e menHarl sarà il mio nome di morte, Nati da Stella. Comunque, dato che io sono già un eroe non verrà usato in questo mondo. Potete rivolgervi a me come Yarrish
se avete a che fare con rapporti fra le città o», s'interrompe, «fra i mondi». Di nuovo ci assorbe con gli occhi, mentre quella mano fantasma che non c'è... allarga le dita. «Ma non per rapporti fra questo-mondo e l'altromondo». Un nome di morte? Qualcosa di cerimoniale con cui sarà conosciuto dopo la sua morte? Nei libri di storia? Sulle statue? Ma che resoconti ci sono? Che libri? Nulla che noi abbiamo visto. Quali statue o quale arte? C'è soltanto un'architettura, che per caso è essenziale, e naturalmente quella musica incompleta. Ma loro non «muoiono», così dicono. Eppure lo fanno; hanno nomi di morte. E che cos'è l'«altro-mondo»? Askatharli è la parola che usa, letteralmente «altro-semi-piano». «Io non sono, in questo momento», aggiunge. «Il Tharli-paran». Certo, «colui che duplica i piani», «colui che duplica i mondi»... «Il suo luogo è nella men-piramide, quando indossa quella maschera...». E naturalmente le presentazioni hanno una doppia faccia per loro. «Come vieni chiamata, allora?» «Amy Dove, Yarrish». «E la radice del nome?» «Be', Amy significa amica. È un termine per amore. Dove è un uccello bianco, il nostro simbolo di pace». «Amante della pace, allora. Così tu sei questo, fai questo?» «No, veramente no. Io studio i tipi di persona nel mio mondo, ciò che li divide, ciò che li unisce. Usanze, comportamenti, cerimonie. Quali... maschere indossano, per loro stessi e per gli altri». «Perciò voi indossate maschere? Abbiamo visto delle maschere nella vostra nave». «Merda, sono stati a bordo», borbotta Ritchie in inglese. Lo Yarrish sonda i sentimenti, se non le parole in sé. «Noi non abbiamo interferito con nulla». «Quelle servono per respirare, fuori nello spazio». Ritchie solleva una mano in un gesto magniloquente. «Ma che cosa vedete attraverso quelle maschere?» «Quello che c'è da vedere». Ritchie si agita sul suo cuscino. «Che cosa vedete voi attraverso le vostre?» «Forse voi non sapete che gli esseri viventi sono maschere, del men in loro? Così Powa è la maschera di menHarl. Perciò avete usato quelle maschere di Askatharli, Amy Dove... e avete visto quello che c'era da vede-
re». Askatharli è lo «spazio»? Oh... no, l'iperspazio? Scuoto il capo. Che cosa abbiamo visto? Astronavi fantasma. «Così, tu studi le persone. Sei venuta a studiare noi?» «Sì. No. Ci è stato... ordinato di venire qui. Da forme luminose che sono diventate simili a noi. Come nostri... saggi profeti dei tempi antichi, e come i nostri Dei». La parola che comprende il significato di «Dei» mi sale spontaneamente alle labbra. Ha una risonanza che non riesco ancora a cogliere. «Sono apparsi per poi scomparire di nuovo». Ritchie è irritato. «Noi veniamo dalle stelle», annuncia orgogliosamente. «Non da tutte, spero?» Lo Yarrish è divertito. Lui sa perfettamente a che cosa servono le tute spaziali. Ci sta stuzzicando, per scoprire quanto sappiamo! «Sappiamo da dove venite». Wu e Ritchie si scambiano un'occhiata veloce. «Come fanno? Mappe stellari?» Di nuovo, lo scambio privato è facilmente decifrato. «Al nostro Tharliparan è stato comunicato che voi venite dal terzo pianeta di un sole molto simile al nostro. La lenta luce impiega venticinque dei nostri anni per arrivare da lì. Ma voi sapete perché siete venuti? Il fatto del vostro arrivo prova che siete in grado di sapere». «C'è una battaglia», dico. A proposito di che cosa ci hanno messo in guardia i nostri avatar? «Una guerra. Una lotta». «In effetti c'è una battaglia, per ora di minore importanza. Così, amante della pace, sei venuta qui per combattere. Strano paradosso!» Briccone di un indigeno! «Abbiamo combattuto contro noi stessi venendo qui», ammette cupa Zoe. «Ah, certo, bisogna combattere se stessi in Askatharli. E avete perso? Non siete venuti dalla vostra stella con quella piccola nave». «Abbiamo perso le nostre armi più importanti. C'è stata una battaglia di illusioni». «Allora quelle devono essere state le armi sbagliate». «Potevano spazzare via una città!» scatta Ritchie. «Soltanto una di quelle». «È necessario prosciugare un lago interno per prendere qualche pesce? Non si possono trasportare impunemente armi simili attraverso Askatharli. L'Immaginante protegge noi e se stesso». L'Immaginante: «Dei» è una risonanza di quella parola. «Avrebbero dovuto essere i vostri askas a com-
battere». Le nostre «altre-metà»? Il significato della parola sorge di sua volontà. Che linguaggio seducente, esoterico! «Sono morti in tanti?» mi chiede. «Soltanto il nostro esperto di armi. È stato ucciso in Askatharli». (Già: lo Spazio Superiore corrisponde in effetti all'Askatharli, l'altro semi-piano). «Chi ha ucciso questa persona?» Zoe ed io parliamo contemporaneamente. «È stato trovato impiccato». «Si è impiccato». Perché sto singhiozzando? Dio, che vergogna. I loro occhi possono assorbirci, ma i miei sgorgano. Jacobik, maledetto. Perché non mi lasci in pace? Sei morto. Avremmo dovuto gettare il tuo cadavere, non congelarlo; ha viaggiato con noi troppo a lungo. Rimettiti insieme, Amy. «Dopodiché, siamo stati attaccati da creature simili a... vindi». Cose striscianti che scivolano su fragili corde, scie di saliva nel giovane mattino. «Molto più grandi. Tanto grandi. Vivono fuori nello spazio, su asteroidi. Hanno catturato la nostra nave-madre. È lì che abbiamo perso i nostri amici. Siamo sfuggiti soltanto in sei». «I Raggruppati, sì. Li conosciamo». Lo Yarrish fa una smorfia con la bocca. «Come osano interferire con ambasciatori inviati a noi? Questo è molto più serio di quanto pensassimo. Parlerete presto con il nostro Tharliparan. I Paravarthun verranno avvertiti». E chi sono questi? Il governo semi-planetario con il quale il Tharliparan comunica dalla sua piramide oltre l'acqua? Sembra essere un nome collettivo per tutti i Tharliparan del pianeta. «Non mi aspettavo che il problema fosse diventato critico. Voi siete stati avvertiti in anticipo, ma l'avvertimento poteva essere espresso soltanto in...». Dice una parola. Suggerisce il «linguaggio della visione», «linguaggio simbolico», «linguaggio religioso», un insieme di tutto questo, benché loro non sembrino possedere delle religioni nel nostro senso, secondo Zoe. (Lei è un po' più sensibile a quell'estremità dell'emergente spettro linguistico). E la lunghezza d'onda psichica sulla quale abbiamo ricevuto le emissioni del Pianeta di Dio. «Così, siete sfuggiti in sei. Dovrebbe essere sufficiente». «Per quale scopo?» chiede sommessamente Wu. «I Tharliparan ve lo mostreranno. Siete legati l'uno all'altro?» «In che senso?» domanda Ritchie con veemenza. «Vi amate, vi accoppiate?» «Sì», dice Wu di fretta, e cambia argomento. «Come fate a sapere quello
che c'è nello spazio? Non si direbbe mai guardando a questa città. Quello che voi sapete è molto ben nascosto, Yarrish». «E voi, sapete? Ripeto, che cosa avete visto fra le stelle?» Lo Yarrish si rivolge a Ritchie, il prode astronauta. «Niente», si stringe nelle spalle. «Una confusione. Un caos. Disordine di luce. Come una minestra tutto intorno. Abbiamo attraversato un tipo di spazio diverso dallo spazio normale dove si possono vedere le stelle». «Avete attraversato lo spazio Askatharli, lo spazio da cui discende questo mondo. Voi non siete i primi viaggiatori stellari ad arrivare su Getka per questa via. Qui è la fonte dell'essere». Ritchie sospira. «Certo, voi siete il centro dell'universo... Hei, dite sul serio? Altri viaggiatori delle stelle. Le loro navi sono ancora qui?» «Così che tu possa volare a casa? Puoi tornare a casa soltanto con il nostro aiuto, umano». «È impossibile», scatta Wu. «Voi avete soltanto spade e barche a vela». «Morirete, per poi vivere. Allora potrete andare a casa». «No», Zoe rabbrividisce. «Non è questo a cui credete? Che si muore in un'altra vita?» Zoe non ha risposte, perché nelle definizioni della maggior parte delle religioni è vero. «Il sé è la maschera del men, giusto?» «Come sono questi altri?» vuole sapere René. «Le diversità di aspetto contano poco. Se non fossero simili nella qualità dell'aska, i Paravarthun non avrebbero potuto raggiungerli». Paravarthun è più che un nome collettivo. Suggerisce quasi un'entità gestalt oltre l'individuo, oltre il mondo, più della somma delle parti. «Li vedrete, almeno alcuni di loro. Li incontriamo nei nostri sogni, perfino nel menLyndarl. E altre specie arriveranno, a meno che i Raggruppati non vengano a conoscere dagli umani catturati qualche mezzo per impedire questa grande opera... Comunque, visto che ci sono potrebbero tentare di spegnere il sole con secchi d'acqua!» Incontreremo questi altri alieni... nella realtà? E i Getkani li incontrano... nei loro sogni? «Voi veramente ci rassomigliate», insiste René, da buon biologo, scartando il resto come impenetrabile retorica. «Notevolmente. Eccetto per i peli corporei». (Al che lo Yarrish «assorbe», divertito). «E la vostra struttura più sottile, più snella, ma naturalmente questo è provocato dalla gravità più bassa. Non è piuttosto notevole?» «Nato da Stella, l'Immaginante - l'essenza formante - discende attraverso
matrici di energie angeliche a modellare la vita in accordo con il suo mondo. Gioca con le forme in modo che la vita possa a sua volta immaginare ciò che l'Immaginante può essere, e così diventare il suo Signore. Lo spazio Askatharli, attraverso il quale siete venuti, è lo spazio delle matrici prima della nascita del mondo. È l'Immaginante. In questo Immaginante ci sono certi archetipi che governano i mondi. L'esistenza si riversa nello spazio inferiore da quella fonte. Lo stesso esperimento rinasce, riecheggiato. Voi siete proiezioni di noi nel vostro mondo, mentre», assorbe «noi siamo proiezioni di voi. Senza dubbio ci sono molte fonti, ma qui esiste quella più vicina. Governa questa parte del campo stellare. Tutti i Nati da Stella impareranno a governarla a loro volta approssimandosi ad essa, come voi avete fatto. E, governandola, viene a determinarsi ciò che è reale e ciò che è oltre la realtà. In altri luoghi, senza dubbio, ci sono altre fonti per altri esseri». È la creazione di un mito, o la semplice verità? L'universo, portato all'esistenza dall'immaginazione da un piano d'esistenza superiore, come un pensiero nella mente del Dio Immaginante, che assume forma solida... come la piramide dello Spazio Superiore ha assunto forma solida alle lontane sollecitazioni dei Paravarthun... Lo Yarrish punta il dito - no, il moncherino! - su Ritchie. «Qual è il tuo nome di morte, ragazzo?» «Io non ho un nome di morte. Quando sei morto sei morto. I nostri amici lo sanno ora»! (E bene, aggiunge amaramente in inglese). «Lo sanno... ora?» «Hanno conosciuto la morte. Questo volevo dire. Ne hanno fatto l'esperienza. La fine. Terminato». La sua mano taglia l'aria. «Questo è il mio solo ed unico nome, signore. Ritchie Blue. Sono un pilota dello spazio». «Pilota dello spazio inferiore, non dello spazio Askatharli. Insieme voi tutti avete spezzato il tetto del cielo, eppure non sapete ciò che siete, e nemmeno perché siete stati chiamati qui». «Il nostro mondo non capisce dove si trova, in questi giorni, signore. C'è stata della vera confusione da quando... da quando sono apparsi gli aska. I messaggi non erano così espliciti». Ma naturalmente no, non potevano esserlo, dato che si manifestavano nel linguaggio visionario, o profetico, inviato dalle onde-guida del Dio Immaginante. Gli avatar erano gli aska dei Paravarthun, interpretati da noi. «Yarrish», dice Zoe. «Voi parlate di un Immaginante, e noi chiamiamo questa cosa «Dio». Dio è veramente qui, più realmente qui, più central-
mente che nel nostro mondo?» «Il tuo nome è...?» «Zoe. Significa vita. Il mio lavoro è la natura di Dio: le credenze della gente». «Tu che cerchi Dio non sai che cosa Dio potrebbe essere?» «Noi ci siamo lasciati Dio alle spalle», interrompe Wu seccamente. «Proprio come i Raggruppati negherebbero, distruggerebbero e distorcerebbero, per rinchiuderci nella pura materia». Lo Yarrish si riscuote. «Voi incontrerete presto il Tharliparan. Lui vedrà le vostre anime». (I nostri aska!) «È lo sciamano», mormora Peter, come se noi non lo avessimo già intuito. «Ecco cos'è il Tharliparan. È lui il «duplicatore di piani». È in contatto con l'altro piano, da quell'isola laggiù. Questa è il doppio della città, l'ideale celeste che corrisponde a qui. Ma lui dev'essere molto ma molto di più di uno sciamano primitivo se c'è anche una rete planetaria di comunicazione, e se tutti quanti loro riescono a raggiungerci attraverso venticinque anni luce di distanza. Lui dev'essere oggettivamente ciò che i vecchi sciamani erano soltanto nelle loro teste». Peter è eccitato dalla prospettiva. Chi non lo sarebbe? «Il Tharliparan non ha perso contatto con il cielo, o con qualche altro mondo. È così che comunicano, attraverso... attraverso...». «Attraverso il Cielo», suggerisce Zoe. «Un Cielo reale ed oggettivo? Che cosa mai potrebbe essere?» «Sei tu l'esperta», borbotta Wu. «L'esperta del nulla». «Oh, no», ribatte Zoe. «Qui, è qualcosa». «Due persone che saranno un eroe si trovano a Lyndarl in questo momento». (Che saranno un eroe? Ah, già, l'uso diadico). Lo Yarrish annuisce verso la coppia in perizoma, Samti e Vilo. «I loro nomi di morte sono menMoth e menVao». Samti e Vilo si alzano e ci assorbono cerimoniosamente. Così ora siamo formalmente presentati, finalmente, per mezzo dei loro nomi di morte... qualsiasi cosa siano i nomi di morte. «Siete scesi a poca distanza da Darshanor, il vostro obiettivo corretto. La vostra necessità di diventare eroi è urgente, a causa dei vostri amici perduti. Potete viaggiare con questi due». «Che cos'è un eroe, Yarrish?» chiede Peter. «Un eroe non si limita a dar forma nel sogno a Askatharli. Può percorrerlo nella sua viva carne. Mentre il suo aska-amato dimora sempre lì». Lo Yarrish si alza d'improvviso e scivola via attraverso un'alta porta semiaperta. La nostra udienza è terminata.
Il nostro tutore diurno Sereny si rivolge a noi. «Facciamo una passeggiata per Lyndarl, per imparare altri nomi». Oh, sì. Ancora cristalli fecondi, per i nostri sogni saturi. Perciò subito andiamo ai laboratori di tintoria, le concerie, le sartorie, i campi. Ma nessun museo, né biblioteche, né gallerie d'arte; non c'è nulla di tutto questo. Nemmeno templi né santuari. Senza dubbio questi si trovano tutti nella piramide sull'isola Menfaa. I verità, passiamo davanti ad un edificio scolastico sulla nostra via. I bambini all'interno sono già più alti di Peter. Si affollano sulla porta aperta per guardarci, ma non escono, come se molto presto avessero una possibilità di incontrarci, ma non qui, non ancora. «Che cosa imparano?» vogliamo sapere. «Concentrazione», dice Sereny. «Formare, Scolpire». Il che è ridicolo, in una città dove non ci sono sculture. «Oh, certo. Che cosa scolpiscono? Con che cosa?» domanda Wu. «Scolpiscono l'Askatharli. Di notte. Con i loro aska. Come anche voi imparerete a fare». «Che cos'altro insegnate loro?» «Come indossare le maschere. Come guardare negli specchi». «Avete bisogno di insegnare come guardare in uno specchio?» esclama Wu. «Imparano anche la semina e il trattamento dei rifiuti e cose normali». Passiamo anche un edificio di morte; Sereny lo chiama così. Non c'è nessun nome inciso sull'architrave. Qui non c'è scrittura. («Noi scriviamo nell'Askatharli». Ovviamente). «Non tutti possono unirsi e diventare un eroe. Il mondo deve andare avanti. Alcuni muoiono qui quando sono vecchi». «Credevo che voi non «moriste»», dice Zoe. «Moriamo, per vivere». «Che accade ai cadaveri?» chiede, cambiando approccio. Sicuramente hanno la parola, benché il senso abbia qualcosa a che fare con «raccolto» e «terra per le messi». «Li radiamo dell'oro, e poi li mettiamo nei campi». «Tenete le peluria corporea? Dove? A casa, in urne?» «No. Se ne fanno delle cose. Dopo che l'aska si riunisce all'Askatharli, in quello stato è un modellatore, un lievito».
«Che tipo di cose?» «Specchi, maschere...». DICIANNOVE Nuvole gravano come incudini su Lyndarl, in attesa del martello del fulmine. Caldi venti umidi soffiano attraverso la città. Il cielo si è fatto scarlatto come di profonde ferite prima ancora che gli attesi colpi siano stati portati. Samti e Vilo sono usciti per qualche faccenda, lasciando tutto il loro armamentario ammucchiato sull'albero del sonno nell'altra stanza. «A quale sorta di strana battaglia hai inviato le tue truppe, a due a due?» Ritchie attraversa la stanza a grandi passi. Comincia a piovere: le prime gocce da un catino che presto si riverserà su Lyndarl. «Maledizione, si aspettano di morire. Non ne vedono l'ora». Passando per la stanza da bagno entra nella loro stanza. Fissa l'immagine del proprio viso barbuto in uno degli scudi. «Specchio, specchio delle mie brame, che succede quando passeranno nell'altro reame?» Porta indietro con sé una maschera-casco, passandosela da una mano all'altra. «Può anche essere come infilare il dito nel vaso di marmellata di un altro... ma, che diamine! Come si fa a vedere con una di queste cose?» Si lecca le labbra, stuzzicando noi e se stesso. «Non torneranno con questa pioggia. Si bagnano il pelo». «Riponi la tua lucida spada o la pioggia la farà arrugginire», cita Zoe, sbagliando. «Indossa la tua maschera vuota prima che il lampo scoppi!» Ritchie solleva la maschera-casco sopra il capo. «Io mi incorono...» «No». Ho una sensazione. Wu annuisce, comunque. Lei approva. Scherzare è il gran livellatore. Agli occhi di lei siamo tutti così vulnerabili. Il manto della responsabilità è ricaduto sulle sue spalle, con qualche gallone anche su quelle di Ritchie, che può essere allevato a portarli. Questo sberleffo è un gesto necessario. Per disintossicarci della reverenza nei confronti di questi rituali alieni. Per prenderci gioco di quelli che si sono presi gioco della storia della Terra. Per spezzare l'incantesimo del condizionamento. «... eroe dell'emisfero!» Ritchie cala la maschera-casco. Sembra stretta. E una furia infernale si abbatte su di noi... Siamo nudi nello Spazio Superiore, e lo vediamo direttamente: denso nell'incoerenza. Orribili cose ribollenti vivono in questa zona. Forme stri-
scianti si scavano la via nell'aria, ingerendola, per poi espellerla. Valloni viventi di luce succhiano e pompano. Siamo alla deriva nell'arteria di qualche enorme bestia di luce. Siamo stretti fra corpuscoli e leucociti che vivono e lottano, mutano e si assimilano a vicenda. Il mondo di pareti e dimore, tetto e terreno, è una pura membrana attraverso la quale essi nuotano a piacere. Lo spazio non è per nulla vuoto, ma pieno di amorfe creature brulicanti, entità per le quali mondi e rocce e soli sono trasparenti... È il mondo che è trasparente! È sempre «qui», ma c'è una zona oltre il mondo - un altro ordine di realtà, oltre la realtà - che ora si mostra: un altro mondo che è completamente, sgradevolmente sfocato. Askatharli - l'equivalente di «Cielo»? Non riusciamo a sintonizzarci. Se sapessimo come, potremmo penetrare il tessuto del mondo fino alla sua radice immaginante, oltre il mondo, nel puro immaginante. Ma le due modalità sono disgustosamente mescolate. Il nostro povero corpo è scorticato vivo, spellato come una cipolla dai venti di luce che gli soffiano contro. Le ciglia vengono strappate da coltelli; in tutte le direzioni il sole avvampa. I nostri nervi agonizzano dal piacere alla carezza dell'Essere. La nostra testa, il nostro casco è dimenticato. Dimenticato... In un attimo, la furia infernale si placa. O la furia Celeste. Il Cielo, equivocato, sfuggito, sfocato, dev'essere l'Inferno... «Cristo...!» «Avete visto...?» «Oh, sì!» Ritchie sussulta sul pavimento. René, il primo a raggiungerlo, gli strappa la maschera-casco. La bocca di Ritchie si spalanca e poi si rinserra per gli spasmi, colando saliva ma non ancora sangue. Gli occhi rivoltati all'indietro mostrano il bianco; sta fissando il tetto dentro la sua testa. «Grand mal. Mettigli qualcosa di morbido sotto la testa!» Zoe gli infila un cuscino sotto la testa, mentre René con dei pezzi di stoffa fa una palla che gli infila a forza fra i denti. Ritchie continua a sussultare interminabilmente. Finalmente giace inerte, respirando molto debolmente. Wu scruta cauta all'interno della maschera caduta. Non c'è nulla da vedere. Il tuono si schianta all'esterno, lei quasi lascia cadere la maschera. «Un astronauta con l'epilessia? Difficile! Tutto l'equipaggio ha avuto un
certificato candido di buona salute». René scuote il capo, sia per rifiuto che per rimuovere le immagini residue della visione. «Che tipo di cosa è questa qui? Credevo fosse solo...» Anche Wu scuote il capo. «Dev'essere qualche tipo di macchina. Mi chiedo se il temporale, se l'attività elettrica...». «Ha sincronizzato Ritchie con le scariche nel cielo? Come uno sfarfallamento? Forse ci sono circuiti inseriti nella maschera che noi non vediamo». «Il manto dei morti», dice calma Zoe. Che cosa abbiamo visto? Un mare di creazione... Askatharli, entità d'energia... Wu si passa la lingua sulle labbra, colpita. I suoi movimenti sono rallentati, come se dappertutto ci fossero dei vetri rotti invisibili. Sgomenta, fissa il suo protetto imperiale, caduto sul pavimento di legno bronzeo. «Povero ragazzo». «Dobbiamo dirglielo. Abbiamo bisogno del loro consiglio». Wu mi guarda furente, come se fossi io la responsabile del suo fallimento. «Amy ha ragione», scatta Zoe. «Il tuo pedone non è ancora diventato regina». Così, anche lei l'ha notato... «Una macchina di pensiero», rimurgina René. «Se c'è una risonanza come quella di cui io immagino tutti noi abbiamo fatto esperienza - forse loro già sanno di quest'incidente. Anche se i nostri pensieri non sono i loro pensieri». Si inginocchia di nuovo accanto a Ritchie, controllando il polso e la respirazione. «È profondamente incosciente». Peter apre di più la finestra scorrevole per far entrare più aria, come se questo potesse migliorare le prestazioni dei polmoni di Ritchie. Il vento è considerevolmente scemato. Anche la pioggia ha smesso, il temporale interrotto. Già le nubi si stanno rompendo. Incerto, un arcobaleno attraversa il lago. Uno stormo di cutrettole disegna una V nell'aria verso la nuda cuesta, strillando hupuu, hupuu sfiorando l'arcobaleno del loro colore azzurro, che ora svanisce... René asciuga la fronte e le guance a Ritchie. Si abbassa e guarda più attentamente. «Che c'è?» Si fissa il palmo della mano. «Peli», mormora. «Minuscoli peli dorati. Piccoli filamenti, piccole ciglia...».
Anche qui, sulle mie palme... Un accenno, sì... lungo la linea della vita, lungo la linea del cuore... dove non c'è mai stata peluria! «Pelo. Ci sta crescendo il pelo. Come a loro». «No», esclama René. «Una specie aliena è impossibile che ne contagi un'altra con alcune caratteristiche fisiche!» Grida vane. «Qualcosa ci sta contagiando. Qualcosa sta piantando ciglia dorate nelle nostre cellule». Qualcosa che ci mormora parole in Getkaali nei nostri sogni... Ci spogliamo, in una sventagliata di vestiti come per un'orgia, mentre Ritchie rimane dimenticato. Qui e là, ancora sparsa e a chiazze, lunga ancora meno di un millimetro... una semplice lanugine... Dopo aver assorbito il pilota disteso nel suo letto, Sereny ci dice: «Ritchie Blue deve andare immediatamente a Menfaa. Se ha indossato la maschera di un altro ora è il corpo-schiavo di quell'altra persona, anche se non il suo amato-unito, perché non è morto e nemmeno i due erano sintonizzati. Il suo aska è perso nell'Askatharli». «Che cosa sono queste maschere?» esclama Wu. «Più tardi! È vero che noi siamo entrati nella vostra nave, ma non ci saremmo mai messi a giocare con pulsanti le cui funzioni non comprendiamo...». (Per il momento, non facciamo menzione della peluria dorata. Una cosa alla volta! Forse è soltanto un'irritazione o come prendere un raffreddore alieno. Forse). Sereny parla velocemente con Vilo. «Ora vedrete ciò che può fare la maschera di un pre-eroe, umani. Anche se non la sua funzione. Non ancora». Vilo studia Ritchie, poi si distende sul letto accanto nella stessa posizione. Si fa scivolare sul capo la sua maschera-casco. «Ora lui è suo». (Le labbra di Wu sono serrate dall'ira). Quando Vilo sposta le sue gambe oltre il bordo del letto per alzarsi, così fa Ritchie, ogni movimento una copia di quelli di lei, benché i suoi occhi siano ancora chiusi e il suo viso sia privo d'espressione. Wu si fa avanti. Ma il pilota cieco non la degna d'attenzione. «Non toccarlo! Così è più rapido che portarlo lì in barella. Vilo dovrà aiutare il Tharliparan a liberarlo dai suoi legami». «In che problema ci avete messo!» esclama Samti, non tanto risentito (non credo) quanto con condiscendenza, come si potrebbe parlare ad un
ragazzino vivace o ad uno scimpanzé che sia per caso in grado di parlare. Certo, è così. Finché non siamo in grado di manipolare l'Askatharli nel modo in cui loro dicono di riuscire a fare, siamo una specie di animali, automi pre-consci. Quando potremo farlo - e loro sanno che possiamo, o non saremmo stati in grado di raccogliere il loro richiamo - saremo veri amici e compagni nella loro impresa. Fino ad allora, sono quasi condizionati a essere irritati con noi, proprio come detestano i Raggruppati, quasi irrazionalmente (anche se, com'è vero Dio, siamo noi ad avere le nostre ragioni per odiarli!) Il loro stuzzicarci lo dimostra. Eppure allo stesso tempo ci devono guidare avanti e più in alto fino al loro stato. C'è qualcosa di strano nel loro altruismo. Ma forse no. Senza dubbio le agenzie umane di aiuto allo sviluppo a volte si fanno prendere dall'impazienza nei confronti dei loro assistiti; e i Getkani sono gli agenti di uno sviluppo fisico-spirituale. Eppure, devo protestare. «Non trattarci come bambini, Samti. Non siamo cose non ancora formate». Samti mi assorbe, ma in un modo più amichevole (credo). «Be', avete combattuto voi stessi, nello spazio Askatharli, vero? Allora la persona del vostro gruppo che ha messo a fuoco quell'auto-attacco - il vostro maestro d'armi - è diventato il fuoco dell'attacco di uno di voi che ancora non lo sa. L'assassino era schiavo aska del gruppo quanto Ritchie Blue è ora lo schiavo di Vilo. Soltanto quando capirete chi ha ucciso il vostro maestro d'armi ne sarete realmente sciolti. Coloro i quali sono legati non sono esseri liberi. Voi siete come dei Raggruppati senza senno». «Come facciamo a sapere chi ha ucciso Jacobik?» esclamo. Perché, perché, deve tirare fuori questa storia adesso? «Quasi tutti í nostri amici sono morti, sopraffatti! Potrebbe essere stato uno qualsiasi di loro, e sono scomparsi». «Loro sono ancora in voi, come voi siete in loro. Che cos'è una persona? Sei sicura di saperlo, Amy Dove? In questo momento, Ritchie Blue è una persona? Lui è schiavo aska perché non sapeva di non essere ancora una persona. Perciò non ha potuto diventare più che una persona». «Volete andare al molo?» dice Sereny a Vilo, usando il plurale parziale. «Stiamo avviandoci». Yikahebra: uno-e-mezzo noi... Loro contano in metà perché possono aver bisogno di contare mezze-persone; Ritchie ora è soltanto una mezza persona... «Veniamo anche noi», dice Peter. «Io di sicuro», dice Wu. «Io sono responsabile di lui. Sono io ad averlo permesso».
«Verrete tutti. Il tempo è giusto». Sereny tende una mano per toccare brevemente, con la punta delle dita, la leggera lanugine sul viso di Wu. Che si ritrae. VENTI La «città» vuota sull'isola di Menfaa è semplicemente un sistema di connessioni in uno spazio ipotetico. I suoi cortili non sono che puri segni di punteggiatura. Nessun uccello trova posatoi per riposarsi nelle sue cave torri, gusci vuoti. I labirintici sentieri fra le arcate delle pareti sono campanati e con canali di scolo perché nemmeno la pioggia possa riempirli. Eppure non vi si prova alcun horror vacui. Questo non-luogo ideale semplicemente è. Ritchie, che cammina ad occhi chiusi, sembra il suo perfetto abitante. Una corte lastricata circonda la bianca piramide. Feritoie perforano irregolarmente la facciata di pietra, tutte nella parte bassa. Il vestibolo è isolato dall'interno da una serie di porte scorrevoli, mentre un'ampia scalinata a mensola porta al livello superiore. Quando Sereny chiama, una di queste porte si apre e il Tharliparan fa il suo ingresso. Indossa la maschera liscia, e una tunica bianca. La mano destra manca. «Yarrish! Sei la stessa persona, no?» (A meno che non siano dediti all'amputazione cerimoniale!) La maschera non mi degna di uno sguardo. «Ecco, noi siamo il Tharliparan. È tempo?» chiede a Sereny. Sereny risponde di sì, ma spiega di Ritchie. «Quali sfortune ci procuriamo da soli!» sospira il Tharliparan. «Ma almeno questo prova che è tempo. Siete diventati sensibili all'Askatharli. La gestazione è conclusa. Ora il compito dell'eroe può iniziare». René si fissa il palmo della mano come per leggere il suo destino nei minuscoli peli dorati, ma Wu, determinata a definire lo scaglionamento delle responsabilità, dice: «Così, come Yarrish voi governate il consiglio cittadino. Che cosa esattamente fate come Tharliparan?» «Ci uniamo all'aldilà». «Prendete istruzioni, per mezzo di questa piramide, da qualche altro luogo? Da un'organizzazione centrale? Situata in quel luogo che avete citato essere il nostro obiettivo corretto: Darshanor?» «No, no. Lo Yarrish presiede alla città, e la gente concorda o discorda
con lui». «Con voi». «Lo Yarrish è semplicemente il mio sé personale: questo singolo corpo che vedete. Noi - che siamo il Tharliparan - siamo un essere duale, una diade: io stesso e l'aska della mia amata che è andata nell'Askatharli ed è ancora con me. Ci siamo uniti come eroe, sul confine fra Getka e Menka, come voi pure vi unirete. È meglio che succeda lì, perché il mondo ordinario deve procedere. Uno di noi è ritornato a questo mondo ordinario. L'altro, che è stato ucciso, perciò ha avuto accesso al mondo straordinario. Ora noi uniamo i due regni. Ad uno Yarrish deve corrispondere un Tharliparan, proprio come questo mondo riflette l'altro mondo e ne è simbolo. Come Menka è riflesso in Getka, così Menfaa lo è in Lyndarl. Abbiamo costruito le pareti e le vie all'esterno per rammentare a noi stessi che c'è qualcosa che noi non possiamo vedere normalmente, eppure viene simboleggiato in ciò che vediamo effettivamente. La città di Lyndarl è il luogo dei segni, non qui». «Ma Menka è morto», obietta René, alzando lo sguardo dalla mappa della sua mano. «La morte non significa morto. Oltre la morte c'è l'Askatharli dove tutti i nostri atti hanno il loro prototipo. Menka è pieno. Menka è parte del nostro mondo - l'altro lato - ma Menka è pure tutt'intorno a noi. Consideratelo, piuttosto, come Askatharli. A causa della condizione fisica del nostro mondo, con un lato vuoto, tendiamo ad insegnare ai bambini, come inizio, per mezzo di questa semplice analogia. Diamo corpo a questa analogia sull'isola di Menfaa». «Se Askatharli è lo spazio-immaginazione», dice Zoe. «Il luogo dell'Immaginante; e se l'Immaginante è «Dio», e perciò stiamo effettivamente parlando di ciò che noi chiamiamo il «Cielo», e voi siete uniti ad esso proprio in questo momento...». «Ogni eroe è unito ad esso. Questo legame rafforza la capacità di ognuno di esistere nell'Askatharli quando dorme, distaccato dall'ordinaria coscienza del mondo». «Allora voi avete la prova della sopravvivenza del... dell'aska, l'«anima»». «Prova? Noi abbiamo l'esperienza. La mia amata-unità ne fa esperienza ora; così pure io... noi. Io sono allo stesso tempo qui, e lì... benché «lì» non sia un luogo; è oltre i luoghi». «Ma come? Come?»
«Ne abbiamo i mezzi, perché siamo così vicini alla fonte». «Hanno una tecnologia delle anime», mormora Wu. «Una scienza di un qualche tipo. Questi caschi hanno qualcosa a che fare con ciò. Sono dei registratori psichici, dei trasmettitori. Non so di cosa. Forse creano addirittura l'anima. Che strumento di controllo delle persone: l'illusione della sopravvivenza! È una tecnologia teocratica; un Tibet lamaista retto da un clero scientifico. Vogliono diffondere la loro autorità alle altre specie, ad altri sistemi solari. Perché dovrebbero? Apparentemente hanno gli strumenti per farlo, ma che cosa ci guadagnano?» «Questa è la nostra scienza dell'aldilà», dice il Tharliparan, come leggendole l'anima. «La mia amata-unità vede i nostri dubbi. La rendiamo disponibile perché quegli altri mondi possano vedere oltre se stessi, nell'Immaginante. Così che lo specchio possa riflettere l'immagine alla sua origine». Peter freme d'eccitazione. (Come me). «Zitta», scatta verso Wu. «E per il come, vorremmo che questo vi venisse spiegato da un eroe di una razza aliena che è diventato parte di questa esperienza. Saliamo». «E Ritchie?» domanda a gran voce Wu. «Dobbiamo inseguire l'aska nel suo sogno. In alto». La mia pelle formicola dall'eccitazione mentre saliamo la scalinata. C'è un'elettricità, e una specie di tensione superficiale che contagia non il mio corpo ma qualcosa d'altro: la mia stessa capacità di salire il pendio. Ora siamo passati, in un'ampia camera debolmente illuminata, quasi del tutto vuota eccetto che per un'ulteriore scalinata a mensola che si slancia in alto verso il piano superiore. Le sue quattro pareti sono piegate all'interno, vuote. La luce proviene dal pavimento stesso: una distesa vitrea e luminosa divisa da sottili striscie di piastrelle e circondata da un sentiero perimetrale. Ogni pannello del pavimento è abbastanza grande da contenere diverse persone in piedi. Sembrano fragili, come lastre di ghiaccio, benché non si veda nulla attraverso, soltanto la luce. «È come lo Spazio Superiore», mormora Peter. «La luminosità. Più forte, comunque». Poso un piede sul pannello più vicino. «Procedi, Amy Dove», mi incoraggia il Tharliparan. «Guarda giù. La luce qui è la luce dell'Askatharli, la luce dell'Immaginante. Qui è il luogo del sogno coerente, scolpito nell'Askatharli». «No», avverte Wu. La ignoro.
«Ora sei in un luogo dove le regole sono quelle dell'immaginazione», arriva la voce del Tharliparan. «Sei nello spazioimmagine, qui in questo livello della piramide». Abbassa la voce per dirmi cose nascoste, per rivolgersi a qualcosa in me che risponde come il pulcino nel suo guscio risponde al calore della gallina; come quelle aliene piante eliotropiche all'esterno dell'ostello rispondono al sole e al suo corso nascosto dietro il mondo fino all'alba del giorno seguente. Il linguaggio ha una vita propria; nelle radici delle parole s'annidano altri, veri significati. «Le immagini viste allo specchio, Amy Dove, sono realtà intermedie. Questi sono specchi dell'immaginazione condivisa, finestre nell'Askatharli. Perciò l'occhio ordinario non vi vede nulla». «Finestre nel... Cielo?» esclama Zoe, da qualche parte. «Noi siamo scultori del sogno: il sogno che è più reale del mondo, benché necessiti del mondo per sostentarsi. Siete avvolti nella vita dell'Askatharli, fin dal vostro arrivo; questo vi unisce allo spazio-immaginazione». «Vita? Volete dire questi peli sulla nostra pelle?» Mi afferra il polso, senza dita! senza mano! Con la sua mano destra strappata mi tiene ferma. Al suo (al loro) tocco aska, la mia vista ruota. Sotto di me, all'esterno, è Menfaa. Immediatamente le vuote vie diventano affollate arterie, mentre l'isola si espande enormemente. Le pareti prive di tetti mutano in palazzi. I cortili di vuoto sono affollati anfiteatri. Gli aridi vicoli sono canali zaffiri pieni di giunche e adorne case galleggianti. La città deve contenere almeno mezzo milione di indigeni. Cavalcano nelle strade su creature con zanne e corna. Volano nei cieli su uccelli garuda. Fanno colazione, commerciano, si accoppiano, danzano. Si esercitano con la spada. Nelle arene combattono bestie dalle creste ossee: draghi, basilischi. Nelle strade loro stessi camminano come bestie, trasmutati in arpie, sirene, favolosi alieni. «Questo è uno dei sogni che abitiamo quando saliamo l'albero del sonno», dice la voce. «L'eroe in veglia lo vede attraverso la maschera. Prosegui». Stretta nella presa invisibile, sono costretta. E Menfaa svanisce. Al suo posto c'è una nuova Menfaa: una città di devozione, di miracolo. Pagode traslucide s'innalzano. Sottili volute con spirali di scale avvolgenti. Trasparenti labirinti arcuati vengono percorsi da pellegrini dorati. Alberi di cristallo emettono vibrazioni di luce rifratta. Sfere passano sospese, portando antiche, grottesche Divinità. Immagini? O
le stesse Divinità viventi? All'interno delle sfere producono miracoli, creano la vita per poi distruggerla: Divinità elefantine, Divinità serpentine, Divinità che sono stormi d'insetti, e cristalline iper-forme, e sfere di plasma... Esseri di luce camminano su una piana. Evocano cascate dalle nuvole, comandano ai fiumi di scorrere in alto nel cielo. Musica raggiunge le mie orecchie: una musica che riempie tutti gli spazi nella musica-incompleta parziale che abbiamo udito quando Samti e Vilo sono partiti verso Menfaa su quella giunca dalle vele sanguigne. «Prosegui». Ecco una città d'orrori: assedi e saccheggi, stupri e fuoco. I conquistatori preparano strumenti di tortura nelle strade. Questi conquistatori sono nudi Getkani privi di pelliccia. Ai loro strumenti stendono le loro vittime dorate, le scorticano e le dissezionano, finché corpi spellati fremono sulle ruote. Le epidermidi ricavate, strappate dal loro corpo come guaine, si gonfiano e danzano beffardamente nell'aria torrida su lenti fuochi. Subito i vincenti tirano giù queste guaine dorate e le indossano loro stessi. Ora diventano gli abitanti sconfitti, e faticano sopra nudi straziati nemici; sembra che abbiamo rovesciato i ruoli. I vincenti abbassano le ruote e lavano gli straziati corpi nudi con unguenti. Sulla pelle scorticata comincia a crescere una peluria dorata, una massa di pelo, finché tutti sono dorati. Gli storpi e i mutilati si sollevano dai crudeli strumenti, integri. «Lo vedi questo, Peter?» gli grido, da qualche parte. Da qualche altra parte. «È un sogno crudele», mormora il Tharliparan. «Eppure ha un grande significato». «È reale?» «È un evento nello spazio dell'immaginazione. Un sogno scolpito da un maestro, che tutti noi possiamo condividere se osiamo, quando saliamo l'albero del sonno». La mano mancante mi ritrae dal sogno. La scena ruota fuori dal mio campo visivo. Sono di nuovo con gli altri. Gli specchi del pavimento sono una luminosità vuota, priva di contenuto. «Ritchie Blue rimarrà qui nella sala del sogno. Vedremo dove vagherà il suo aska. Voi salirete lassù, ad incontrare i Paravarthun». «Questo pavimento, e le vostre maschere, sono attivate... dai peli dei morti?» si domanda René. «Dei morti, che non muoiono». «E questa stessa sostanza sta crescendo ora su di noi, come suoi ospiti? Voi stavate attendendo che succedesse!»
«Naturalmente. Il vostro amico è in questo stato perché sta diventando sensibile all'Askatharli. Quando siete arrivati eravate nudi, uccelli privi di piume. Il vostro sangue era vuoto. Non vi stupite della facilità con la quale ora comprendete le mie parole?» «Oh, certo», esclamo. «Le parole vi parlano, per mezzo della vita Askatharli in voi». «Un parassita», mormora René. «È qualcosa... una qualche forma di vita». Zoe aggrotta la fronte, esaminando i piccolissimi peli dorati sulla sua pelle nera. «Un parassita metafisico?» «E il Comitato Centrale ci attende di sopra», dice Wu. «Il Collegio degli Sciamani». D'improvviso è colpita dalla rivelazione. «Di certo volete dire... che parleremo ai Paravarthun da una certa distanza? Non sono veramente qui?» «Sono tutti eroi, uniti a un amato morto. Perciò passeranno qui dallo spazio Askatharli. Voi non potete farlo finché il vostro amato-unito non muore. Salite. Samti, che sarà un eroe, vi guiderà. Guarderemo il sogno di Ritchie Blue». Ad un segnale dal Tharliparan, Vilo si incammina sul vuoto pavimento vitreo. Ritchie procede in coppia con lei. «Voglio guardare», dice Wu. «Più tardi. Ci sarà tempo». «Venite», dice Samti. VENTUNO La scalinata dovrebbe condurre ad una sala più piccola. Non è così. Invece, quassù, si stende in tutte le direzioni una luminosa superficie vitrea. Il «nostro» pavimento è soltanto uno fra molti. La cima interna della «nostra» piramide è persa in una foschia di luce, in alto, se è in effetti proprio lì. Veli impalpabili separano ogni pavimento da quello adiacente, alla fine fondendosi in una bruma che è l'unico confine. «Siamo in tutte le piramidi», mormora Zoe, intimorita. «Ognuna è collegata a tutte le altre nello spazio Askatharli», dice Samti. «Un eroe può immaginare il suo viaggio da qui a lì attraverso l'intero pianeta. Dovunque si sia, ognuna è al centro di ogni altra». Da diverse direzioni si avvicinano a noi delle figure, facendosi riconoscibili mano a mano che penetrano i veli: una dozzina di Getkani masche-
rati, che si orientano con le immagini riflesse dei loro scudi specchio, ed anche una creatura ancora più strana. È una delle grottesche Divinità del sogno? Finalmente tutte attraversano il velo che circonda il nostro pavimento. Alcuni si tolgono la maschera. Occhi di Getka ci assorbono. La strana creatura si libera di una maschera a forma di sfera, e del suo scudo specchio, lasciandoli cadere al suolo. È tozzo come un barile, con due forti e corte gambe. Lunghi occhi obliqui e purpurei ci scrutano. Un becco da pappagallo come bocca è coperto da una membrana filtro, una maschera da chirurgo trasparente. È vagamente umanoide. Vagamente. Corte braccia massicce terminano in un grappolo di lunghe e spesse dita-tentacolo, come un insieme di randelli pendenti, ma questi si ramificano ulteriormente in dita più piccole, e altre dita ancora, micromanipolatori. L'essere barile indossa un abito nero come un pneumatico; è avvolto in un manto di peli giallo bile. Una bombola è appesa alla sua schiena; dei tubi conducono alle fessure narici sopra il suo becco. Di certo le Divinità non hanno bisogno di respiratori. «Questo è un eroe dal mondo pesante, Zerain», dice Samti. «La sua stella viaggia nel nostro cielo settentrionale. Brilla luminosa e blu. È l'ambasciatore di Zerain su Getka, attraverso Askatharli. La sua forma è appropriata al suo mondo». Samti usa il modo diadico appropriato ad un eroe che è due persone, una viva, una morta. Dal suo becco da pappagallo il barile si rivolge a noi tuonando in Getkasaali. Forse la voce suonerebbe più dolce, più acuta nella sua più densa atmosfera natale. «Benvenuti, figli della vostra stella. Vi abbracciamo, esseri compagni di immaginazione...» Spero che tu non lo faccia. O ci schiacci, o ci fai il solletico fino a morire. «Ci è stato chiesto di rivolgerci a voi, dato che siamo un alieno, come siete voi stessi, e dato che le nostre esperienze diventeranno le vostre. A questo stadio prematuro del vostro risveglio potete ancora dubitare della verità, come vi è stata illustrata dai Getkani. Ma è la verità». Lo Zeraini agita le sue micromanipolative dita-oltre-dita, come per sottolineare dettagli microscopici. Un essere tozzo e grossolano a prima vista, ciononostante esistono gerarchie di tatto all'estremità delle sue tozze braccia. «Nello spazio Askatharli ci sono centri generativi - gioielli all'interno del sistema dell'Immaginante. La legge del velo - per mezzo della quale il
mondo vede soltanto se stesso, nello specchio che è - è parzialmente sospesa in queste regioni gioiello. Così ricco è qui l'Immaginante, così lucenti le facce del gioiello, che l'esistenza mondana può essere duale: in entrambi i mondi, eppure aldilà. Tanto ricca, che entità prive di essenza personale propria, intermedie fra l'Immaginante e il mondo, possono proiettarsi nella realtà se la realtà le reclama». «Angeli», mormora Zoe. I suoi minuscoli micromanipolatori carezzano quella pelliccia giallastra. «Questa vita intermedia possiede un tropismo verso la vita reale, proprio come la vita reale possiede un tropismo verso l'Aldilà, che esala la vita, in modo che l'Aldilà possa conoscere se stesso. Fra i raggi del gioiello questa vita intermedia può coesistere con la vita individuale e lasciare che quella vita si mantenga, del tutto conscia, nello spazio Askatharli. È tutto attorno a voi su questo mondo. Una minima parte di ciò esiste fisicamente, un minimo capello. Il resto è una cosa dell'immaginazione, che sogna la parte fisica». «Questa è una forma di vita del... dell'immaginazione, e spunta fino nel mondo reale?» chiede René, stupefatto. «Affonda radici reali, in noi?» «Una forma di vita? Non esattamente. La sua unica «vita» è la nostra. La sua unica forma è la forma che noi forniamo. Eppure essa vibra in consonanza con l'Askatharli, la sua origine, e con noi. Quando noi moriamo, unisce il nostro aska all'amato-unito vivente. Permette a quell'amato-unito di muoversi fisicamente, via Askatharli, perfino da pianeta a pianeta. Presto, quando dormirete, vi unirete ai sogni scolpiti di ciò che questo pianeta Getka simbolizza. Più tardi vi unirete al vostro pianeta natale, attraverso la morte, e penetrerete lì come penetriamo da Getka a Zerain. Allora il vostro pianeta scolpirà i propri sogni nell'Askatharli. Noi li visiteremo; voi visiterete i nostri». «Perché non ci hanno avvertiti che saremmo diventati gli ospiti di questa cosa vivente dell'Askatharli?» grida furiosa Wu. «Avreste potuto lasciare questo pianeta?» chiede gentilmente uno dei Getkani, facendosi avanti. «I malvagi Raggruppati hanno sottratto la vostra nave». «Vi sareste impauriti», aggiunge un altro. «Ora, naturalmente, la via del ritorno non è più via nave, capite». «Vero», tuona il tozzo Zeraini. «Non temete». «Com'è stato contattato il nostro pianeta?» chiede Wu. «Con un sogno dei morti, aska uniti ad aska in una più alta sintesi», dice
uno dei Paravarthun. «Noi, che siamo ancora in parte vivi, non vediamo ancora su quel piano. Voi siete stati i ricevitori di quel sogno, inserito nel vostro spazio mentale, percepito da lontano e fornito di sostanza dalla vostra stessa immaginazione. Ora che siete arrivati qui fisicamente - condotti attraverso lo spazio Askatharli - anche voi potete morire e, guidati dai vostri stessi morti al vostro mondo, aprire il passaggio attraverso il quale la stessa vita Askatharli sgorgherà». «Torniamo a casa, ma soltanto se ci portiamo dietro questa forma di vita dorata, a contagiare tutti quanti!» (Non è questo che stavano cercando le cinesi della nostra spedizione, uno strumento psichico di potere?) «Conferisce un controllo cosciente dell'Aldilà», dice un Paravarthun. Il barile Zeraini ritrae i suoi micromanipolatori all'interno dei loro recipienti randello, e raccoglie i randelli in una zampa spessa. «Voi dovete essere in grado di costruire navi per lo spazio inferiore, per arrivare fino a qui», osserva. «Presto non avrete più bisogno di giocattoli del genere». «È questo il crimine dei «malvagi» Raggruppati, allora: la tecnologia?» «Quelli sono una singola entità, con una macchina come padrone. Ciò li rende ciechi alla bellezza dei mondi del sogno. Non possono penetrarli». «Da dove provengono?» chiede René. «Provengono da un altro sistema stellare, lontano da qualsiasi fonte. Si levano dalla periferia delle onde della vita. Sono un'aberrazione. Per loro l'universo è semplicemente una macchina, e dato che l'universo è soltanto il simbolo di ciò che giace aldilà, loro cercheranno di rendere questa pazzia meccanicista la realtà dell'universo. Loro non possono penetrare la ricchezza interiore del gioiello, eppure ora infestano questo sistema con le loro macchine e le loro unità-schiave. Si muovono con lentezza sullo scacchiere stellare...». «Noi crediamo che i vostri perduti amici possano essere ancora vivi», dice un altro dei Paravarthun. «I Raggruppati possono sperare di spiare per mezzo loro, e tentare di manipolare questa zona della quale non possono fruire, tentare di storpiarne la natura ai loro fini e rendere meccaniche le stesse energie degli archetipi. L'Askatharli è fluido, vedete. Forse l'immaginazione generale, se da loro guastata, può storpiarsi e diventare meccanica». «Tutta la gente della vostra razza ormai porta questa pelliccia dorata?» chiede René all'essere barile. Lo Zeraini scopre i suoi micromanipolatori di nuovo per lisciarsi il pelo. «Questa è la materia dell'Askatharli, il legame con l'Aldilà».
«Non avete risposto alla domanda, signore». Come ci si rivolge ad un elevato ambasciatore di un altro sistema stellare? Il barile si sposta da un tozzo piede all'altro. «Come può essere altrimenti, quando la porta è stata aperta e tutti siamo diventati padroni dei nostri sogni? La materia dell'Askatharli vive della vita, e quando quella vita termina in questo mondo la materia permane, per essere mutata in strumenti di visione, strumenti di passaggio all'Aldilà. Venite a noi, ai confini del pianeta, ad incontrare il demone della morte dentro di voi, che prenderà uno di voi, mentre voi a vostra volta lo uccidete. Allora potrete aprire la porta, da eroe. Avete delle guide. Vi attendiamo». «Quanto rapidamente la vita dell'Askatharli si è riversata nel vostro pianeta attraverso questa porta? Con quanta velocità ha contagiato la vostra razza? L'hanno accettata tutti?» René sta pensando al sogno crudele, come me? Un dramma simbolico di resistenza, di tentativo di quarantena e umiliazione da parte di fondamentaliste anime meccaniche. Il barile esita. «Ora viviamo nel Tempo Superiore, non nel Tempo Inferiore, e il Tempo Superiore è un tutto. Perciò non c'è risposta». Quelli che si sono tolti le maschere, le indossano di nuovo. Cominciano ad uscire attraverso i veli. Lo Zeraini solleva la zampa. Minuscole dita ci chiamano, mentre scompare pesantemente. Peter cerca di seguirlo. Anch'io. Ma c'è una resistenza. Scattiamo indietro dal velo, come elastici. «Non c'è nulla, ma non si riesce a penetrarlo!» ansima, mentre i Getkani e lo Zeraini diventano sempre più vaghi, più lontani, laggiù in quel campo di luce finché non li vediamo più. Così, quando Peter o io moriremo, (in qual modo?) ai confini di Getka, diventeremo come Dei o angeli? Il suo «angelo» - o il mio - potrà compiere miracoli, per quanto la materia dell'Askatharli avrà messo radici in noi. Il vecchio contatto con il cielo ripristinato; il soffocante peso della storia e dei dati sollevato! Certo, è la mia nostalgia, il mio desiderio. Anche quello di Peter. Samti mi tocca, elettricamente. «Non possiamo ancora attraversare qui. Siamo soltanto pre-eroi. Tutti noi». «Come viene fatto? L'attraversamento?» dice Wu inquieta. «Voi pensate che il mondo sia reale», dice calmo Samti. «Ma benché sia concretamente presente è soltanto una proiezione da un altro luogo. La creazione è rinnovellata e annichilita ad ogni respiro dell'Immaginante. Ciò accade troppo velocemente perché un essere normale riesca a notarlo. Eppure gli eroi possono agire su di essa. Un eroe trasferisce il suo rinnovel-
lamento, passo dopo passo, a una diversa locazione. Voi ed io, fissi in questo mondo, non possiamo farlo, ancora. Soltanto quando uno della nostra diade morirà e rientrerà l'immaginazione generale, allo stesso tempo rimanendo signore-unito dell'essere vivente, riusciremo a adempierlo». (Curiosamente, Zoe lo sta fissando come se ciò fosse qualcosa che lei conosce già...). Wu alza ancora la cresta. Mi si avvicina minacciosa. «Allora, mia bella esperta della prossimità, questi Zeraini hanno rinunciato alla loro storia per delle rivelazioni? Il Tempo Superiore non permette loro di pensare storicamente! Mi chiedo a quale storia hanno rinunciato i Getkani? I contadini devono ancora arare i campi, noto... anche se tutti salgono l'albero del sonno ogni notte per la loro dose di oppio. Questa sovrastruttura di fiaba richiede comunque una base concreta». «È vero», annuisce René. «Che cosa è successo? E quando? O tutto questo si è evoluto insieme a loro, accanto a questo «gioiello»?» René parla in inglese, come Wu. I tempi del Getkasaali sono tutte inflessioni semplici del tempo presente, alla radice. Sono «metà-presenti» che noi ci limitiamo a ripensare come passato o futuro. Tutto ciò che accade è eternamente implicito, e diventa, semplicemente, esplicito. La storia? Non esiste alcun concetto simile, o forse esiste un termine, ma è peggiorativo, e suggerisce entropia, decadimento. La scala, una volta salita, non è più necessaria e non ha alcuna ulteriore importanza... Wu batte le mani seccamente, come uno schiaffo sul mio viso. «Ci stiamo scordando di Ritchie!» «Noi? Tu te lo stai scordando, Wu». Il suo sguardo mi trapassa. «Questo linguaggio sta influenzando i tuoi pensieri, Dove. È un'invenzione della materia Askatharli, del suo canale di pensiero. Attenta». «Mio Dio, è il Pilgrim!» La scena sotto i piedi di Ritchie è granulosa e vaga come un'antica foto color seppia; comunque, è tridimensionale, e muta lentamente. Ecco la sala di controllo, ma ora un groviglio di cavi e tubi la infesta. I corpi dei nostri amici, in bozzoli, le loro teste ermeticamente imbottigliate, spuntano da questi strani viticci. Qualche insettoide scivola fra loro, le mandibole che scattano, come formiche che accudiscano enormi afidi. La visione si sposta per un attimo: le serrande degli oblò sono tutte aperte. All'esterno c'è quel maledetto asteroide con le sue installazioni cristalline che si protendono
dall'irregolare terreno vetrificato; il Pilgrim è bloccato a terra con cavi. Altri frammenti di minuscoli mondi luccicano qui e là. Il sole è piccolo e lontano. La visione ritorna rapidamente sui prigionieri. Due degli insettoidi stanno fisicamente sostenendo un corpo. È Gus. Gus Trimble. Sta pronunciando parole all'interno del suo casco-bottiglia, in trance. Almeno credo. Ma non c'è alcun suono. Stanno facendo degli esperimenti con lui? «Questo è un sogno di realtà», ci dice il Tharliparan. «Ritchie Blue immagina la vostra nave, all'interno della più grande immaginazione che sostiene la realtà. Il suo aska si è rifugiato nella sua ultima sicura dimora, come un bambino al seno materno. Ora la infesta. Come temevamo, i vostri amici non sono morti ma assoggettati ai Raggruppati». «Li stanno mungendo della loro conoscenza, li prosciugano», esclamo. «Stanno facendo funzionare Gus come un registratore». È così spregevole. «Non possiamo fare nulla?» «Se si avvicinano troppo a noi, possiamo inviare loro contro dei demoni onirici. Ma loro hanno appreso la cautela». «Avete mandato cose oniriche fino al nostro pianeta!» «Voi potevate riceverle e sorreggerle. I Raggruppati non le ricevono; sono vuoti. L'unico canale possibile sarebbe attraverso voi stessi. Ma voi non sapete nulla di ciò, ancora; non siete un eroe. Dovete raggiungere il confine, e diventare uno. Allora potrete tentare di liberare i vostri amici, se i Raggruppati non trovano qualche modo per catturare anche voi attraverso il canale dei loro prigionieri. Dobbiamo sciogliere Ritchie Blue da questo sogno, altrimenti potrebbe inconsciamente fornire un canale simile». Vilo fa mettere abilmente sull'attenti Ritchie, poi si toglie il suo scudo specchio. Samti indossa la maschera e tiene in posizione il suo scudo, uno specchio che riflette l'altro, l'immagine di Ritchie intrappolata in ognuno dei due. La luce vibra fra i due scudi. Per un momento il corpo di Ritchie è una luminosa forma angelica. Sotto di lui, la visione del Pilgrim si dissolve in un'immagine riflessa di Ritchie stesso, invertita, nel pavimento. Si risveglia. Si affloscia e si piega, per poi riprendersi. Ammicca e si guarda intorno, mentre Vilo e Samti ripongono i loro scudi; e la sua immagine svanisce da sotto di lui, in una distanza luminosa. «Che cosa...?» «Benvenuto a casa, mio eroe dell'emisfero», dice Wu sarcastica. (Veramente avverto una nota di sincero sollievo?) «Il vaso era sporco di marmellata, Ritchie. Ci sei rimasto attaccato». «Sono appena... ero...» Si guarda intorno freneticamente come se tutti
fossimo suoi nemici. Di colpo scuote il capo. «Io... non riesco a ricordare nulla. Dov'è questo posto?» «Hai avuto un'esperienza extra-corporea», gli spiega Zoe con dolcezza. «Hai visitato il Pilgrim». «Amnesia da shock», dice René. «Gli può ritornare tutto in mente». «Come tornano i sogni?» chiede Wu. «Generalmente non lo fanno. Svaniscono. Subito». «Stanotte», dice il Tharliparan. «Quando dormirete comincerete a penetrare i sogni condivisi di noi tutti in piena coscienza. Durante la vostra visita qui vi siete bagnati nella luce di Askatharli. Ora siete pronti». «Se voi ricordate i vostri sogni, perché Ritchie non riesce a ricordare?» «Il ricordo è rimasto nell'Askatharli, nell'immaginazione generale». Eppure l'Askatharli è ormai parte di noi. Il nostro Tharliparan sembra lievemente perplesso. Vuole sottintendere che i nostri peli dorati hanno in qualche modo prosciugato la memoria di Ritchie? «Presto partirete per la costa e la vostra destinazione oltre il mare, Darshanor. Dormite bene stanotte, umani. Salite l'albero del sonno. Benvenuti...». «... in Cielo», aggiunge Zoe. parte quarta oh sogni, oh mete VENTIDUE In un grande maidan, un vasto piazzale davanti ad un edificio, si sta svolgendo un torneo, un torneo insieme mistico ed estetico, secondo Vilo. Gli scultori del sogno di Getka stanno incarnando angeli in abitazioni. Edificano bio-edifici con un atto di pensiero: strutture abitabili che sono esseri semi-viventi, angeli intessuti dall'Askatharli, in attesa di esservi ridissolti più tardi. Così, ecco sorgere una torre d'argento a due gambe, con occhi privi di ciglia che scrutano noi in basso e una bocca che canta, come il vento zufola sopra il collo di una bottiglia. Nel suo ventre i Getkani festeggiano. Nel suo cuore appendono festoni di minuscoli specchi tintinnanti, macchine di luce. Laggiù, un behemot scarlatto ruota su vive ruote, producendo esseri dall'ombelico, che è il suo organo sessuale. Falene iridescenti erompono da lì,
con occhi sulle ali, Una musica sottile penetra l'aria quando le antenne di queste falene vibrano. Saettando intorno, si posano sulle spalle della gente che si solleva in aria, trasfigurata in corpi-insetto. Questi volano sempre più in alto verso il sole di sogno finché le loro ali si sciolgono; allora i corpi ricadono mollemente come se l'aria fosse acqua. La folla applaude. Così facciamo anche noi. Un altro edificio vivente s'erge nella forma di un alieno essere barile. Le sue braccia si allargano al di sopra degli spettatori, le dita si diramano in dita più piccole che si diramano sempre di più finché l'aria è piena delle pareti di trine che sono diventate... Di colpo, tutto ciò svanisce. «Dov'è Wu?» chiede d'un tratto René, strappando gli occhi dallo spettacolo. Non è qui. Tutti gli altri noi sì. Anche se Zoe sembra piuttosto languida, un po' assente. E Ritchie si comporta come se fosse rimasto stupefatto da tutto quanto. «Sii paziente», dice Samti. «Dev'essere ancora sveglia, nel mondo ordinario. Ma voi siete tutti collegati. Lei arriverà. Come Zoe Denby e Ritchie Blue». «Zoe è qui! È proprio lì accanto a te. E anche Ritchie. Non vedi?» Samti assorbe Zoe e Ritchie. «No, per ora sono ancora delle immagini riflesse, sostenute dall'immaginazione di voi che li conoscete bene, e apprezzate la loro presenza. I loro aska sono ancora con i loro corpi. Si comportano con naturalezza, adattandosi al concetto che voi avete di loro, ma non sono in grado di prendere iniziative. Anche Wu dovrebbe essere qui nella sua immagine riflessa, ma forse a uno di voi ripugna la sua presenza. Per cui, la sua immagine viene rifiutata». Quando smette di parlare, Zoe ha un tremito e sbatte le palpebre. Si guarda intorno, d'improvviso molto più presente. «Bene». Emette un fischio. «Bene. Così questo è il Cielo. Un angolo di un Cielo alieno. Che mi prendesse...!» Ride. «Frase errata, immagino! È lo spazio mentale di un Cielo alieno, e Cielo è ciò che lo rendete voi. Questa città è affollata, Samti! Sembra enorme». In effetti è così. Il maidan è soltanto un angolo dell'enorme città esotica che si stende in tutte le direzioni: Menfaa ideale, con canali zaffiro, ampie vie di scorrimento, palazzi e anfiteatri, colazioni all'aperto, risse, spettacoli, commerci, giochi... che in se stesso non è altro che uno di molti Cieli paralleli. «Com'è che c'è così tanta gente?» «Tutti i morti stanno sognando, Zoe Denby, come gli aska dei vivi».
In questo momento Wu compare di colpo davanti ai nostri occhi. La aggiorniamo sui fatti. Soltanto Ritchie è ancora un po' ottuso, e continua a trascinarsi dietro di noi. Degli archi segnano le vie d'uscita tutt'attorno all'affollato maidan. Oltre le aperture sono visibili altre vie di fuga oniriche. Oltre questa c'è un giardino paradiso, una perfetta terra di loto dove giganteschi fiori drogati spuntano accanto ad un oceano verde-foglia. La gioventù scapestrata di Getka scorrazza in questo mondo. Alcuni muoiono giovani, a quanto pare! O forse sono anime che preferiscono la forma infantile. Oltre la seguente si vede quella terribile città assediata, il luogo della flagellazione e della vestizione nella pelle di Askatharli. È un sogno troppo spaventoso, anche se il dolore viene tutto redento. Se dove ci troviamo è il Cielo, quello è una sorta di dramma purgatoriale, benché non diretto a purificare dal peccato. Finalmente Ritchie si 'ricollega', mentre stiamo spiando all'interno di quel mondo. Ora è con noi, del tutto cosciente. Si ritrae dalla vista della città assediata, e Wu lo rincorre per rassicurarlo. Siamo tutti felici di seguirlo lontano da quella soglia particolare. «Perché camminare?» domanda Vilo. «Viaggiamo alla grande. Che cosa cavalcate sul vostro pianeta natale?» «Cavalli,» sorride René. «Ma...» «Fissate la mente su qualsiasi cosa sia un cavallo. Visualizzatelo. Comandatelo all'esistenza. Sarà soltanto un cavallo immaginario, un'immagine riflessa, proprio come Zoe Denby e Ritchie Blue prima che passassero, ma vi sorreggerà. Si comporterà proprio come...» «Come un cavallo». «Saniti ed io cavalcheremo rhaniq, finché non conosceremo qualcosa di più sui cavalli». Ci concentriamo. E in effetti evochiamo cavalli. Eccoli qui che ci attendono, che masticano il morso, sellati, con le briglie e bardati di tutto punto. Bei destrieri. Zoe batte le mani per la gioia. I passanti li applaudono come una divertente curiosità. Per ora ci sono soltanto quattro cavalli, Ritchie sta stringendo il braccio di Wu, agitato; stanno sussurrando fra loro. Wu scuote il capo, annuendo in direzione di Samti e Vilo. Tutti noi montiamo, e aspettiamo. Zoe sta ancora ridendo. «Non ho mai cavalcato un cavallo prima. È così facile». «Nemmeno io,» ridacchia Peter. «Credo che se si riesce ad immaginare
un cavallo, si possa immaginare anche di cavalcarlo come sovrappiù. Basta che non ci inventiamo le cadute, e le piaghe da sella!» «Un momento,» dice Wu casualmente in inglese, come se avesse delle difficoltà ad immaginarsi un cavallo. «Comportatevi normalmente, e ascoltate. Siamo tutti in pericolo, Ritchie non stava fuggendo. Ricorda che cosa è successo durante la sua esperienza extra-corporea. Ha appreso qualcosa. Dobbiamo andarcene per conto nostro per discutere». «Fareste meglio a crederci», dice affrettatamente Ritchie. «È una cosa grande. Ed è veramente spaventosa. L'esplorazione del Cielo può aspettare, finché non saprete che cosa sta dirigendo lo spettacolo». Wu comincia a giustificarsi con i due Getkani. «Possiamo camminare, se preferite», suggerisce Vilo. Le giustificazioni si protraggono. Alla fine Samti dice qualcosa rapidamente a Vilo - irritato con noi non dovrei stupirmene - poi i due Getkani spronano i loro rhaniq nelle costole, e si allontanano cavalcando uscendo dal maidan. «Li abbiamo delusi», dice Zoe con la fronte aggrottata. «Sarà meglio che sia qualcosa di giusto». «Zoe, non c'è niente di giusto in questo». «Dobbiamo trovare un posto tranquillo», dice Wu. «Questi cavalli attirano troppo l'attenzione». «Maledizione, anche noi», annuisce Ritchie. Perciò abbandoniamo le nostre cavalcature con riluttanza, e ci avviamo a piedi. Ritchie non vuole ancora dire niente. Sembra quasi paranoico, timoroso di essere sentito... non che esista qualche getkano che capisce il nostro inglese. Quando mi guardo dietro le spalle, i cavalli sono ancora 'mantenuti' da un gruppo di Getkani che sembrano aver deciso di farli gareggiare contro i rhaniq. Percorriamo un altro viale che porta fuori dal maidan. Presto troviamo un giardino d'acqua che vi si apre. È un luogo di fontane zampillanti e di un labirinto di canali, ingombri di fiori arancioni. Ci sono soltanto pochi getkani che oziano nel giardino. Ci avviamo in un sentiero coperto da lucidi viticci scarlatti, e ci ritroviamo soli per un po'. Soli in Cielo. Zoe si mette le mani sui fianchi. «Allora?» VENTITRÉ «Ho cominciato a ricordare nel momento in cui sono arrivato qui. Non
riuscivo a ricordarmi nulla nel mondo ordinario! Il ricordo veniva... intercettato. Mi veniva prosciugato fuori. Ma è ancora qui... al livello Askatharli. Non credo che l'Essere Velo se ne renda conto». «Il che cosa?» Lo fissiamo. Wu, piuttosto soddisfatta. «Ascoltatemi, ragazzi, ho intenzione di tentare una cosa. Se noi possiamo creare cose dalla nostra mente... voglio dire, se tutti possiamo immaginare dei cavalli e i cavalli spuntano alla luce...» «Sistemi di cognita», dice Zoe. «Sufficientemente complessi per essere montati, e per nitrire, e schiumare alla bocca». «Già, d'accordo. Forse riesco a mostrarvi che cosa mi è successo. Forse riesco a crearne un modello, come un film». «Puoi farlo», annuisce Zoe. «Tutto questo Cielo è immaginato. Noi siamo nello spazio-immaginazione. Procedi». «Voglio qualcosa di simile ad un film in olovisione. Sì, così bisogna pensarlo. E io sono il trasmettitore». La sua fronte si aggrotta. L'aria di fronte, sotto i viticci scarlatti, freme luccicando. Una scatola d'aria diventa... qualcosa d'altro. Un pavimento metallico - no, un ponte. È il ponte della sala di controllo in miniatura, una sua sezione. Ci sono i pannelli della strumentazione e le poltroncine. Oltre gli oblò c'è l'amorfo vortice dello Spazio Superiore. È uno scorcio tridimensionale. Due forme umane sono appollaiate sui sedili adesivi, a giocare a dama magnetica. Ritchie... e Gus Trimble. D'improvviso, come se Ritchie avesse perso il controllo della proiezione, la sala di controllo è piena di corpi dentro bozzoli con le teste inserite in sfere di vetro, i crani coperti da fili elettrici. Tubi e cavi si diramano aggrovigliandosi, unendoli tutti insieme. «Ma è quello che abbiamo visto noi!» esclama Zoe. «Aspetta». Gus salta due pedine bianche di Ritchie con una sua nera. Le due scene si alternano rapidamente: i corpi, il gioco della dama. Si fondono in una, ognuna interpenetra l'altra in una specie di doppia esposizione. Udiamo delle voci. «Che sta succedendo?» squittisce il pupazzo Ritchie. «Maledetto questo Spazio Superiore. Ho delle allucinazioni. Vedo corpi dappertutto. Gus, tu sei uno di loro! Sei seduto qui a giocare a dama con me, ma la tua testa è anche chiusa dentro una bottiglia, avvolta da fili. Vedo doppio». Un insettoide scivola fra i corpi, poi un secondo. Il pupazzo Ritchie agita le braccia freneticamente. «Che cosa diavolo sono quelli? Sto impazzendo?»
«Per favore, calmati», dice con voce priva di tono il pupazzo Gus. «Stiamo... manovrando la memoria di Gus Trimble». «Chi siete? Qualcosa dal Pianeta di Dio? Come gli avatar?» Le mani di Ritchie schiaffeggiano l'insettoide che si sta avvicinando, ma questo le attraversa indifferente. Passa direttamente attraverso il suo corpo. «Io ho visto angoli veramente rognosi, Gus, ma questo sta cominciando a rompere!» «Per favore. Non ci attendevamo questo contratto. Tu sei uno degli umani che è riuscito a fuggire quando i nostri aiutanti insettoidi hanno preso il controllo della vostra nave. Gus Trimble ti riconosce». «Questi schifosi insetti hanno catturato il Pilgrim! Certo, naturalmente! Adesso ricordo. Siamo scappati su Getka. Mi sono messo una di quelle maschere-casco. Devo averla ancora sulla testa!» «Così stai usando uno dei loro strumenti di visione? Ed è così che ti sei inserito in questo spazio-memoria. Sono stati i Getkani a fartelo indossare?» «No, l'ho fatto per fare uno scherzo dannatamente stupido. Loro non lo sanno». «Allora, dovremmo essere salvi. Dobbiamo fare uso di questo contatto, Ritchie». «Com'è che sto giocando a dama qui? È tutto molto lontano nel tempo. Non avete ancora preso il controllo voi insetti? Sto vedendo nel futuro? No, non può essere, non se io sono su Getka!» «Sei nello spazio-memoria, Ritchie. Qui sono stati messi in quarantena i tuoi amici. Siamo stati costretti ad agire rapidamente, per catturarli e 'sospenderli', isolarli dagli stimoli in ingresso. Voi eravate già collegati alla vostra destinazione, e troppo vicini a essa... vulnerabili come siete, voi, esseri d'anima. Ora stiamo esplorando certe zone chiave della vostra psiche, all'interno dello spazio-memoria, zone relative all'individuo e al gruppo, e alla vostra conoscenza delle vostre 'anime' che vi legano a ciò che si stende oltre la realtà, e vi rende vulnerabili. Stiamo tentando il contatto, e l'illuminazione, cautamente, nel loro spazio-memoria. Fidati di noi! Molto dipende da questo. Evidentemente, ora tu stai facendo esperienza di entrambi gli spazi-memoria, qui dove ci incontriamo, e la scena reale presente, benché non riusciamo a percepirti lì. Ti percepiamo soltanto nello spaziomemoria di Gus Trimble. Tu eri un suo buon amico?» «Andavamo d'accordo. È un tipo normale, come me. Ehi, se voi non siete i nemici, allora chi lo è? Non dirmi che sono i Getkani. È gente simpati-
ca. Loro sono, be', esploratori di qualche tipo superiore di esistenza. Almeno loro dicono questo». «Sono vittime, Ritchie. Inconsapevoli vittime di una forma di vita di energia che si trova all'esterno della realtà ordinaria, una forma di vita che comunque penetra e manipola la realtà ordinaria per mezzo loro. Lascia che prenda a prestito un termine dal tuo compagno Salman, che stiamo analizzando: il 'velo'. C'è un Essere Velo. È una forma di semi-vita che rimane in equilibrio sull'interfaccia - esiste su un'onda stazionaria - fra la realtà e la forza creativa che sta oltre la realtà. È parte del 'circuito energetico' fra ciò che voi chiamate 'Dio', e l'universo creato; nei nostri termini, fra la discesa dell'Essere nel mondo e il suo riprocessarsi per mezzo della morte, il che é la controparte psichica dell'incessante flusso e riflusso, dentro e fuori dall'esistenza, dell'intero cosmo materiale. Questa parte del 'circuito energia-psiche' che noi chiamiamo l'Essere Velo ha raggiunto un'esistenza ribelle indipendente quanto parassitaria. Nei termini di Salman questo è un... Satana». Il pupazzo Ritchie si umetta le labbra. «Mi stai raccontando che il Pianeta di Dio è in realtà... il Pianeta di Satana?» «Emotivamente questo è vero, benché la frase in sé sia un puro rumore rispetto al suo contenuto d'informazione. L'Essere Velo può soltanto sostenersi e continuare la sua esistenza alimentandosi di tutte le 'anime' che attira a sé e racchiude in sé. La sua esistenza è una gestalt di queste anime, e come tali le sue parti componenti - che sono anime individuali - non possono immaginarlo. A loro, e ai Getkani viventi ai quali sono 'incollate', vengono garantiti poteri paranormali e una quasi-immortalità, ma loro in realtà sono controllati e accalappiati dalla 'multinazionale' Essere Velo, in modo che non siano in grado di comprendere come ciò sia contro l'ordine corretto delle cose, contro il riprocessamente delle vite nell'Essere, attraverso la morte. È un blocco, un tumore, nel flusso fra Essere ed esistenza, fra ciò che voi chiamate 'Dio' e il mondo. Dato che la realtà è il sogno di 'Dio' - dato che l'universo viene chiamato all'esistenza dall'aldilà attraverso l'immaginazione - questo blocco deve causare una degradazione ed un finale collasso della realtà. «La minaccia fisica si configurerebbe alla fine come la scomparsa delle stesse zone di spazio e materia, se l'Essere Velo portasse avanti le sue predazioni per molto tempo ancora, il che potrebbe dare una spallata alle costanti fisiche così finemente equilibrate che permettono l'esistenza di questo universo dove può sorgere la vita. Perché l'Essere Velo non costituisce
un sistema stabile, ma uno in equilibrio sull'onda stazionaria. Più anime risucchia all'interno di se stesso, per mantenersi sospeso su quell'onda, di più ne necessita. La degradazione della realtà è ancora recuperabile; si manifesta per ora soltanto come una regressione della civiltà dei Getkani e di altre vittime, un'interruzione con scomparsa della storia, il processo sociale ora in atto». «Perciò Satana sta disfacendo l'opera di Dio? La vuole trascinare in una specie di buco nero? Sicuramente anche Satana - voglio dire l'Essere Velo - si dissolverebbe nel processo». «Esattamente. Ecco perché deve estendersi ad altri mondi attraverso lo Spazio Superiore, per la sua stessa sopravvivenza! Ma se continua ad espandersi - su decine e poi centinaia di mondi - alla fine di certo perderà l'equilibrio. In quel momento, la regressione della realtà sarà ormai troppo avanzata. Se allora implodesse, il crollo della realtà si propagherebbe all'esterno per tutto l'universo fisico». «Allora, in quel momento o Satana continua a mangiarsi anime, o la realtà si sfascia? Uau, Salman riesce a seguire queste cose, ma io no. Come vi siete fatti coinvolgere voi insetti?» «Gli insetti sono semplicemente i nostri alleati, i nostri aiutanti. Noi siamo macchine intelligenti. In quanto tali, siamo 'prive di anima'. Possiamo soltanto analizzare e forse sconfiggere l'Essere Velo usando esseri d'anima che sono vulnerabili alla sua seduzione. Da qui la necessaria cattura dei vostri amici, per il loro stesso bene e per il bene dell'esistenza». «Allora gli insetti vi hanno costruito? Neanche loro hanno anima? Anche loro devono essere immuni». «In origine, noi eravamo un sistema di controllo dati in rete mondiale, creato da una razza chiamata Harxine. Ci hanno costruito per mantenere, supervisionare e equilibrare i sistemi vitali e l'ecologia del loro pianeta. Erano esseri simili a lucertole. L'omeostasi è un problema più per le lucertole che per i mammiferi, che hanno il sangue caldo; perciò, forse, il bisogno pressante di costruirci. Ora gli Harxine sono estinti». «Non siete proprio riusciti ad occuparvene troppo bene!» «Il nostro sole è brillato in nova. Non abbiamo potuto farci nulla. Abbiamo perduto tutta l'atmosfera e i mari. Soltanto noi siamo sopravvissuti. Ci siamo ricostruiti durante i diversi millenni seguenti, e così facendo siamo mutati. Siamo diventati i Paracomputer di Harxine, più che computer. Abbiamo rivolto la nostra attenzione all'enigma generale della vita e della morte. Ci siamo estesi ad altri sistemi stellari abitati nella nostra ricerca,
benché, diversamente dall'Essere Velo che può propagare la propria influenza attraverso lo Spazio Superiore, siamo limitati allo Spazio Inferiore, e perciò impediti dalla velocità della luce. La minaccia dell'Essere Velo divenne evidente la prima volta circa duemila dei vostri anni fa, con il ritirarsi di diverse culture stellari, che stavamo osservando, all'interno di una zona psichica inaccessibile e ostile, insieme ad un'interruzione ed una regressione nelle loro civiltà. Da un pianeta sull'orlo di questa calamità, apprendemmo dell'esistenza di ciò che voi chiamate 'le emissioni del Pianeta di Dio', proiezioni di immaginari archetipici che penetrano le radici delle credenze di una cultura. Ma che fare? Una spedizione di esseri d'anima a base di silicio a noi alleati si ripercosse sul loro pianeta natale, che venne attratto nell''orizzonte degli enti' dell'Essere Velo. È da molti anni che picchettiamo questo sistema solare, inviando minuscole sonde spia sacrificabili giù su Getka, in attesa di una nuova occasione, di altri 'strumenti mentali' adescati qui. Dobbiamo farvi le nostre scuse, ma abbiamo dovuto agire rapidamente senza poterci consultare con voi». «Avreste potuto tentare di avvertire altri mondi!» «Così tanti mondi, così tanto spazio; siamo limitati dalla velocità della luce, come ti abbiamo detto. Tutti i mondi già in contatto con noi sono stati avvertiti». «Immagino che sia stata una circostanza sfortunata che noi sei siamo sfuggiti, dal vostro punto di vista?» «Molto sfortunata, per voi stessi e per il vostro pianeta. Ciononostante, sembra che possediamo un collegamento ora con voi fuggiaschi, nello spazio mentale, se solo l'Essere Velo non vela questa realtà a voi. Un collegamento prezioso, anche se pericoloso». «Non potete riscattarci? Non potete atterrare e salvarci?» «Qualsiasi atterraggio sarebbe una missione suicida. Basta che uno qualsiasi dei Getkani collegato all'Essere Velo veda i nostri agenti, allora potrebbero evocare... forze e energie nella forma di quasi-esseri per combattere in vece loro. Se riuscissimo a riportarvi qui sani e salvi, potremmo noi stessi essere perduti, perché voi sareste creature dell'Essere Velo». «Ma se quei sei di noi laggiù diventassero veramente quello che loro chiamano 'eroi', non saremmo spinti a attaccarvi attraverso questo legame con Gus e gli altri?» «Precisamente. Questo pone i tuoi amici, purtroppo, in pericolo di vita. Potremmo essere costretti a... neutralizzarli. In alternativa, dobbiamo sacrificare alcuni dei nostri alleati in un attacco suicida per neutralizzare voi, a
meno che voi non impariate a spezzare le catene dell'Essere Velo. Se riusciamo a trovarvi». «Vuoi dire, uccidere tutti noi sei?» «Se i nostri alleati riescono a farlo. Con nostro grande dolore. Almeno ciò salverà il vostro mondo». «Già. A parte gli ammazzamenti, questi insetti sono veramente nostri amici?» Il tono del pupazzo Ritchie sembra soltanto vagamente ironico. Una volta, dopotutto, lui era un pilota militare. Comprende la necessità degli attacchi preventivi. «Il termine è inesatto. Loro sono i nostri agenti, controllati da noi con il permesso della loro intelligenza comune...» Così è questo quello che le labbra di Gus stavano borbottando quando guardavamo 'il sogno del reale' di Ritchie all'interno della piramide: le parole di una macchina super-intelligente. Ma noi avevamo visto soltanto un lato di questa strana doppia-esposizione. C'era un altro lato, una strana dimensione della psiche nella quale i nostri amici sono intrappolati, per il loro bene. Non lo sanno i Getkani perché i Raggruppati e i loro 'padroni macchina' sono qui? Come fanno i Getkani a sapere una cosa del genere, e rimanere comunque così implacabilmente contrari ad essi? La risposta è che a loro non è permesso sapere. Se questo Essere Velo esiste veramente, allora noi ci siamo già dentro, qui ed ora! Questo Cielo è il suo corpo. Come facciamo a voltare le spalle al Cielo? Chi mai vorrebbe una cosa simile? Non sopporto la minaccia che me lo portino via. Ma il Pianeta di Satana... un buco nero che assorbe le radici della realtà, che assorbe anime per nutrirsi! Mentre quei computer stanno considerando la possibilità di... uccidere i nostri amici, o di inviare una forza di pronto intervento contro di noi, per il nostro stesso bene! Forse tutto questo è letteralmente frutto dell'immaginazione di Ritchie! Forse nulla di tutto ciò è vero. Il pupazzo di Gus unisce la punta delle dita. «I Raggruppati sono degli esseri seriamente limitati - degli automi quando sono in pochi di numero, che raggiungono una reale esistenza senziente soltanto in ampi gruppi collettivi. Ecco perché sono ideali per assisterci qui. Sono immuni. I nostri agenti attuali sono stati adattati per la vita nello spazio dalla loro mentealveare natale, che ha allevato molti altri tipi per un'intera serie di nicchie ecologiche. Questi Raggruppati sono adattati al vuoto, ma sicuramente
possono tollerare un atterraggio sulla superficie di Getka!» «Guardate», sibila Wu. Oltre la scena che Ritchie ha evocato, compare una luminosa... assenza. È un vuoto luminoso, una specie di vortice. Scivola lentamente giù per il sentiero verso di noi: una sorta di nulla mobile, eppure curiosamente deciso, diretto su... quello che i pupazzi-mentali ci stanno mostrando. Il ramo di un viticcio scarlatto che pende dalla pergola tocca il nulla, svanisce, poi ricompare come se il vuoto lo avesse controllato, giudicato innocuo, e poi reintegrato. Il vuoto tocca la proiezione di Ritchie. Ci siamo svegliati presto. Non è nemmeno il 'mattino' di mezzanotte, ancora. Qualcosa ha svegliato tutti e noi sei, anche se i nostri due amici Getkani continuano a dormire, nell'altra stanza. Un rumore nella notte? Tendiamo le orecchie, ma tutto è tranquillo. Sussurrando, come bambini in una camerata, parliamo del nostro viaggio in Paradiso: il grande maidan, le sculture oniriche di esseri quasiviventi, i cavalli da noi evocati. «Forse siamo tutti caduti da cavallo!» ride Ritchie. Sicuramente c'è stato qualcos'altro. Che cosa sia, non ne ho idea. E nemmeno lui. Nessuno di noi. Non importa. Presto sogneremo ancora. Presto torneremo in Paradiso. VENTIQUATTRO Cavalcare un rhaniq è più facile per i Getkani, con le loro lunghe gambe, che per noi, anche se le dinoccolate bestie si inginocchiano, raccogliendo quei trampoli di gambe dalle doppie giunture in avanti come fenicotteri. Veniamo sollevati in alto con ampi dondolii, più alto della cima della gobba di un cammello. Le redini descrivono un arco ancora più alto fino alla bocca da pecora del rhaniq. Sbattono contro il collo magro come cavi di orientamento su una flessibile asta di bandiera. Il dorso di un rhaniq sopporta facilmente due cavalieri, uno dietro e l'altro sopra una sella doppia. Così usciamo da Lyndarl attraverso la boscaglia dalle foglie ad ombrello diretti a sud verso il mare, in sella a quattro rhaniq. È una giornata calda e senza nuvole. I rhaniq sono abbastanza docili da cavalcare, una volta che conoscono il tuo odore, benché inclini ad essere un po' ombrosi. Il grasso compatto del dorso agisce come un morbido as-
sorbitore di colpi. La strada è ampia, pavimentata di antiche pietre consunte che una volta devono avere costituito una superficie perfettamente liscia. L'azione del tempo e della radici invadenti le hanno spezzate e sconnesse, anche se l'erba cresciuta si è ritirata come se fosse stata spruzzata di recente. Sembra che il traffico maggiore passi accanto al fiume. «Simbiosi» medita René, che cavalca dietro Zoe. Alza il palmo della mano al sole, scrutando i peli dorati. «Vorrei avere un microscopio elettronico! Cosi questi piccoli filamenti formano una simbiosi fra il reame dell'esistenza e il reame dell'essenza? È ancora difficile da accettare». «È questo il motivo perché ci doveva capitare addosso, prima che capissimo», suggerisco. Si liscia i baffi. «E così sono sistemati il Caso e la Necessità! Eppure mi domando, qual è la necessità di questa peluria dorata? Che cosa ricava da questa relazione?» «Quanti angeli danzano sulla punta di un capello?» sogghigna Peter, guardandomi da sopra le spalle. È appollaiato come un bimbo sulla nostra sella anteriore, fra le mie gambe. «Un tropismo selettivo verso una forma di vita altamente evoluta. Ma perché non verso tutte le forme di vita?» René sembra sfidarmi. «Perché le nostre immaginazioni sono più vicine all'Askatharli, René, e l'Askatharli è lo spazio-immaginazione. Rhaniq e uccelli e pesci 'pregano' per il solo fatto di essere un tutto con la natura. Ma noi preghiamo attraverso il nostro desiderio di un livello superiore. Uccelli e bestie non possono farlo. Possono soltanto essere se stessi. Noi possiamo essere qualcosa d'altro. Le nostre vite si struggono per l'Aldilà. Bene, eccolo qui, sul Pianeta di Dio». «Eppure non hanno una religione», dice Zoe. La sua pelle nera è più chiara e ramata oggi. «Perché questo effluvio dall'aldilà è fisicamente presente come fatto di vita». «Uhmm. I mistici dell'Islam - che erano dei pensatori veramente sottili! negavano che la gente potesse avere qualsiasi conoscenza diretta di Dio o dell'aldilà. Né l'individuo né il mondo potrebbero esistere se ciò succedesse. Il mondo scomparirebbe». «Il che è la ragione del sistema amati-uniti, Zoe. L'aska della persona morta è unito alla mente vivente. E ciò accade per mezzo di questa simbiosi, che non ha alcuna esistenza reale al di fuori del suo ruolo simbiotico.
Fornisce un punto d'ingresso cosciente. I tuoi mistici non avevano alcuna realtà fisica simile con la quale confrontarsi. Sembrava impossibile che la gente potesse penetrare quel tipo di spazio mentale e continuare ad essere normali mortali». «I miei mistici dicevano che la Creazione è difesa da un sigillo». «La realtà delle cose supera la teoria, Zoe cara. Tu dicevi che Dio non poteva essere definito. Allora come fai a sapere che cos'è impossibile? Ci può anche essere un mondo di rivelazione. Eccolo. Ci siamo dentro». René scuote il capo. Ma nulla libererà lui ora; e nemmeno noi. Noi che ci abbeveriamo del latte della conoscenza non possiamo rivomitarlo nella coppa. Perché mai dovremmo volerlo? «Non dovrebbe diventare tangibile o concreto in questo mondo», persiste Zoe. «Eppure sembra che lo sia... immagino che si potrebbe chiamare 'capelli d'angelo'! Gli angeli, sapete, non hanno un'esistenza individuale secondo i 'miei' mistici. Non sono varianti all'interno di una specie. Non hanno numero, né distinzioni...» «Così ognuno di noi diventa un angelo. Ogni Getkano è l'angelo di se stesso o di se stessa». «Questa strada è molto antica», dice Wu forte. «Quanto antica? Mille anni? Cinquemila?» «Getka non ha storia, Wu». Non capisce? «Ha soltanto una para-storia: mondi scolpiti dalla possibilità, nello spazioimmaginazione. È lì che la loro storia si attua». Questo pianeta è il paradiso, lontano dalla meccanicista, superaffollata Terra invasa dai dati. Comincio a cantare, mentre percorriamo questa eterna strada di pietra, inventando una chanson francese mentre procediamo. Sur le monde de Dieu Huit amants et leurs anges d'or... Potremmo essere cavalieri e dame medievali che cavalcano alla volta del Sacro Graal. Solo che, nessuna dama e nessun cavaliere hanno mai cavalcato un gigantesco incrocio pelle e ossa fra un cammello e una giraffa, armati di fucili laser, sapendo che il Graal è già loro. René ride. Questa immagine può diventare il nostro sogno collettivo, al momento del sonno meridiano. Stiamo diventando più abili con il sogno condiviso, benché rimangano ancora dei misteriosi intermezzi vuoti, almeno per me... Wu ci sperona con il suo rhaniq piuttosto rudemente.
«Un'antica autostrada, e non molti viaggiatori», dice secca. «Non c'è da stupirsi che la loro popolazione sia così ridotta, con così tanti morti! È quasi sorprendente che ci sia rimasta della popolazione! Naturalmente ci deve essere una qualche base di popolazione per sostentare la vita dorata. Se avessi delle pinzette, potrei strapparmela, pelo a pelo? Se avessimo indossato le tute da pianeta ci avrebbe contagiato comunque?» René aggrotta la fronte. «I suoi veicoli non sono l'aria o l'acqua. Semplicemente emerge all'esistenza dove esiste un'immaginazione superiore. Così dicono». «Così diventano missionari», medita Zoe. Wu scruta la vecchia e consunta strada vuota. «Forse il fardello dell'angelicità diventa troppo per loro? Perciò lo dividono con ciò che hanno attorno. O sono costretti a farlo, dall'esterno, senza sapere che qualcosa li costringe? 82 Eridani sale nel cielo, offendendo la nostra crescente sonnolenza, bruciando i nostri occhi stanchi come una luce da interrogatorio. Naturalmente abbiamo soltanto bisogno di invocare una sosta, e metterci a dormire, avvolgerci nella radianza dell'altro livello, aldilà e dentro e sotto quel sole alieno lassù. Come facciamo subito. Ci accampiamo nella foresta, scaricando e impastoiando i rhaniq. Samti e Vilo si adattano alla nostra routine del sonno meridiano anche se rallenterà il viaggio. Come il loro sonno lungo una notte rallenterà il nostro... VENTICINQUE Il mondo è imprigionato nell'Inverno. Giovani larici e pini, cedri e argentee betulle si piegano verso il suolo. Sono ghiacciati dal gelo e appesantiti da mucchi di neve. Eppure il sole splende e la foresta scricchiola di luce mentre la nostra Volga percorre i pochi chilometri da una zona all'altra della Città della Scienza. Un autobus scassato passa nell'altra direzione. Il finestrino dell'autista è riscaldato elettricamente; comunque, il resto dell'autobus è una lunga scatola di fiati congelati. Ad intervalli precisi, si vedono dei cerchietti di vetro liberato con le mani dal vapore, come se il fianco dell'autobus fosse stato ordinatamente devastato da pallottole. «Ma il Comitato, Grigory Arkadievitch!» brontola Ludmila Bolts, una gioviale ragazzotta nuova alla nostra Unità di Ricerca Parafisica.
«Certo, il Comitato». Annuisco, ascoltandola distrattamente. Presto ci sarà il disgelo. Non ci vorrà molto, poi ci saranno primule gialle e malva in questi boschi. Le campanelle delle capre tintinneranno. Le mosche ci ronzeranno nelle orecchie mano a mano che l'estate si sfilerà sempre più calda: zizz-zizz... Non si sente già il ronzio irritante? È una nota nascosta nel rombo del motore della nostra auto. Non c'è dubbio che sia il marchio di un popolo che è ancora sotto molti punti di vista psicologicamente primitivo che debbano costituirsi in qualsiasi occasione dei comitati spontanei, per risolvere problemi per mezzo dell'istinto collettivo. Noi Russi procediamo sulla base del principio mai esplicitato che le soluzioni corrette devono già esistere (platonicamente, in realtà), e abbiano soltanto bisogno di essere portate alla luce dall'intuizione di gruppo. Eppure, non è precisamente questo il modo in cui noi al laboratorio svilupperemo la metodologia necessaria ad imbrigliare la mente umana? Mentre i laboratori americani di parapsicologia tendono ad essere macchine razionali ed oggettive, come i loro magnifici computer che elaborano i dati. Qui, l'intuizione semi-mistica di una verità che non attende altro che di essere afferrata rende quella verità estremamente difficile da quantificare; mentre laggiù in America il problema sembra essere l'opposto: il loro rigido ordinamento dei fatti porta a nascondersi l'evasiva verità. È il vecchio problema del bosco e degli alberi! Noi Russi vediamo il bosco, loro gli alberi. E com'è possibile questa nostra visione combinatoria? Semplicemente perché abbiamo sempre creduto in una legge superiore a priori, sia questa l'inverno, o la foresta senza fine, o lo Zar, o perfino il Partito. C'è sempre stata qualche autorità superiore, umana o elementale che fosse. Mentre le democrazie occidentali sono costantemente sull'orlo della dissoluzione individualista. Quelle sono culture centrifughe che si frantumeranno, prima o dopo. Da qui la nostra forza, e la nostra debolezza. È come diceva la Nonna: «Le gazze in gruppo sono più forti delle tigri». La nostra debolezza, pure. La legge superiore ci schiaccia anche. Si deve stare attenti a come si parla; è la nostra seconda natura. Prende il sopravvento una sovranità che esiste in eterno come una forza della natura. «Certo, il Comitato!» Io, Grigori Kamasarin, sospiro. (Lui... No: Io!) In quel momento risuona un netto scoppio, e poi un altro. Lo sparo di un fucile, lo scoppio di una granata. Uno sbuffo di neve vola in aria davanti a noi. Un giovane albero si impenna. Il nostro autista frena, facendo slittare la Volga, poi schiaccia l'acceleratore con il piede. Un altro giovane larice
che era rimasto per tutto l'inverno piegato in due, schiacciato al suolo dal ghiaccio, si strappa verso l'alto come una pallottola, spandendo bianche palle per tutta la strada. Il larice trema eretto, scuotendosi via la neve. (La fine dell'inverno è arrivata troppo d'improvviso! È come se i segmenti di due distinti eppure simili viaggi in macchina, fatti in momenti diversi, si fossero giustapposti; come se una puntina fosse saltata dal solco di un disco ad un altro più avanti dove capita che si ripeta lo stesso tema con soltanto minori variazioni orchestrali...). Una mano guantata batte la spalla del giovane autista. «Non preoccuparti, tovarich, è soltanto il disgelo!» Nello specchietto dell'autista, da questo angolo visivo e da nessun altro, compare una minuscola apparizione. L'interno di un sottomarino? No; stelle brillano fisse nelle tenebre profonde oltre una lunga finestra... Un obitorio? Un istituto di reclusione nell'Artico? Dei corpi galleggiano, avvolti in camicie di forza, le teste imprigionate in bottiglie di vetro. Teste in gelatina! Dei fili sono attaccati ai crani, tubi e cavi ai corpi. Come fanno a galleggiare in quel modo? Lentamente si girano, e si scontrano fra loro. Sono in caduta libera? Uno scorpione, o un gambero, della grandezza di un cane compare alla vista, e li tocca, li controlla, come se qualche mostruosità commestibile fosse strisciata via dal piatto a paralizzare, gli avventori, per poi cibarsene... Le sue cure li fanno muovere, anche se tendono a posarsi sul ponte. (Quale ponte?). È una scena mentale... La contadinella sempliciotta che abbiamo al laboratorio vede scene mentali formarsi e dissolversi davanti ai suoi occhi come se apparisse a mezz'aria uno schermo televisivo in miniatura. Mostrano scene molto lontane nel tempo e nello spazio, oppure immagini iconiche delle sue emozioni e dei suoi umori. Un talento erratico e incontrollabile il suo: l'intrusione nella realtà visibile dei suoi processi di pensiero simbolici, talmente reali per lei da diventare cognita nel mondo esterno... Sebbene in realtà appartengano a qualche luogo nella sua corteccia visiva. Sto acquisendo il giochetto da lei? È qualche tipo di visione parodistica della mentalità da Comitato sovietico? Una qualche immagine nel linguaggio onirico della sovranità di un'onnipotente forza transconscia che cuce insieme le persone senza che queste siano in grado di fare nulla a riguardo? Che cos'è? Mentre Ludmila continua a concionare, e l'auto scivola attraverso il paesaggio innevato...
«Tovarich, non riesco a vedere dietro», l'autista si lamenta con tono irritante, tendente all'offensivo. («No, ma io ci riesco! Riesco a vedere dietro il mondo!» Ma le parole non vogliono uscire. Semplicemente non appartengono a questo luogo nella Volga, a questo segmento del tempo...) Un altro tempo esplode, lontano sulla destra. Quando distolgo il capo di scatto l'immagine svanisce dallo specchietto. «Ma certo, Ludmila Ivanovna...» Mi appoggio indietro sull'imbottitura; e la conversazione prosegue, come da copione. Mi sveglio. Non ho sognato per nulla. È tutto vuoto. No... non è vero! Giurerei di essere stata nel sogno di qualcun altro... ma di chi? Non era un sogno del Paradiso... Non era nemmeno un sogno, ma un rivivere. Ora è svanito. C'è soltanto un buco in me, un vuoto. Cosi deludente! I filamenti dorati non sono ancora abbastanza lunghi; non sono ancora correttamente adattata... Le stelle illuminano la notte. Immobilità, calma, calore. Devo dormire. Devo sognare. Mulla Kermain ha un viso rotondo come una luna piena, con i crateri del vaiolo infantile, le cui devastazioni gli rendono il viso ancor più simile alla luna. Quando sorride queste fossette si raggrinziscono, creando valli fra l'una e l'altra fossetta. Sei di noi siedono qui nella stanza del Mulla: tre dal madraseh, il collegio di teologia; tre dall'università. Dalla Rivoluzione, i due tipi di educazione hanno teso a convergere. L'ideale laureato in materie scientifiche non è più un libero pensatore pseudo-occidentale; è uno scienziato Musulmano. Ironicamente, abbiamo un occidentale fra di noi: Mike Farley, il barbuto negro-americano, ex-ingegnere, convertito all'Islam. Si mantiene insegnando l'inglese agli studenti della facoltà di Scienze, fra i quali ci sono io, Salman Baqli. La stanza del Mulla è modesta, anche se ci sono dei tappeti sul pavimento che quasi lo ricoprono completamente, con una tessitura preziosa scarlatta e viridiana. Upupe dalla cresta, parrocchetti dalla lunga coda, e pavoni si fondono in volute di foglie e petali. All'esterno, i tondi tetti di terracotta del bazaar si stendono come un'enorme scrofa grigia sulla schiena, file di gonfie mammelle con i capezzoli di sfiatatoi puntati al cielo. Tutta la
bestia, di terra pressata, si trasmuta subito in terracotta smaltata e ceramica policroma, fluendo trasfigurata nella cupola dalle piastrelle d'oro della moschea. Piccioni tubano all'esterno della finestra, le loro voci nascondono il mormorio della città come gli uccelli intessuti nascondono la lana sul pavimento. «È comunque difficile concepire se stessi come un simbolo», nota Said Bekhtiar, il nostro studente di matematica. «Il mondo fisico, forse, considerato come un'interazione di energie. O anche il proprio comportamento. Ma la mente stessa, il proprio sé?» «Ah, ma non è il proprio sé, Said. È il sé di Dio. Dobbiamo ritornare indietro al principio del quale siamo tutti un'immagine riflessa. L'universo è lo specchio di Dio. Dio vi guarda per vedere Se Stesso per mezzo di coloro i quali Lo stanno cercando. I nostri occhi fisici, comunque, non possono vedere questo paesaggio simbolico. Vedono soltanto ciò che hanno imparato a vedere. Solo l'occhio dell'immaginazione percepisce quel paesaggio. Se tutti vedessimo l'epifania - l'apparenza di Dio - con i nostri occhi ordinari, ciò porterebbe follia e disordine sociale». «Se il millepiedi si fermasse a pensare come fa a camminare», sogghigna Mike Farley. «Non riuscirebbe più a fare un passo!» Il viso da luna piena si raggrinzisce, in apprezzamento. «Noi vediamo l'epifania essendo ciò che siamo. Dio ha bisogno di un soggetto che Lo rifletta, proprio come noi abbiamo bisogno di essere il soggetto riflettente. Ecco una relazione trasconscia, della quale il nostro ego è puramente una porzione. Ecco perché i santi Imam parlano al plurale quando testimoniano di questo, per enfatizzare l'esistenza di una controparte celeste dell'Uomo 'in seconda persona'. «Vi racconterò un segreto, amici miei. Il Signore può facilmente essere l'immagine di un amato, correttamente compreso, proprio come la Signora Nizam lo era per Ibn'Arabi alla Mecca. Ciò è utile per l'uomo. Egli non può conoscere se stesso direttamente, ma può conoscere l'Altro nella sua interezza, come lo immagina all'interno di sé. In questo modo è possibile il dialogo fra due esseri che sono l'uno l'altro». Io, Salman Baqli, affondo il mento nel palmo della mano. «Supponiamo che ci sia una razza di esseri da qualche parte nell'universo che non sono distinti l'uno dall'altro, come noi. Supponiamo che siano tutti identici, come formiche. Solamente altamente evoluti, in compenso. Allora, loro non riuscirebbero a concepire... l'Alterità, vero? Lo stile della loro sovranità sarebbe la sottomissione a se stessi, ad un gruppo di menti identiche, non sa-
rebbe così? Questo sarebbe il loro unico Dio». Perché sto chiedendo una cosa simile? Come mi è venuto in mente? Mi appartiene veramente? Chi sono Io, che pongo questa domanda? «Sarebbero come uno specchio posto accanto ad un altro specchio», annuisce il Mulla. «A contenere un'eternità e un'infinità apparenti, eppure nel più sottile spicchio di spazio immaginabile. Forse se una macchina potesse creare la vita, questo sarebbe il tipo di vita che creerebbe... «Beviamo un pò di té», invita. Alzandosi, si occupa del samovar cromato. Sulla cassapanca rinforzata in bronzo accanto al samovar ci sono piatti con fichi e caramelle. Mi alzo anch'io, per vagare nella stanza. Su una parete c'è una fotografia con la cornice dorata della Sala delle Salutazioni nel santuario dell'Imam Reza: un caleidoscopio di bianchi marmi venati, candelieri, e una volta argentea, incrostata di specchi che frantumano la liquida luce... Il vetro della cornice mi rimanda l'immagine non della stanza del Mulla, ma di una camera d'acciaio nella quale vanno alla deriva delle mummie con la testa a sfera. All'esterno è la tenebra della morte forata da punti di luce. «Che cos'è?» Gli altri sono tutti immobili come se fossero stati spenti, eccetto il Mulla. La città è muta; perfino le voci dei piccioni si sono zittite. «Salman», dice il mio Mulla con dolcezza, non in persiano ma in inglese, che io non sapevo conoscesse! «Abbi fiducia in me, e non temere. Ascolta: io non sono ciò che sembro. Tu sei nello spazio-memoria. Ciò che vedi in quel vetro è la realtà, è la tua astronave, dove abbiamo dovuto metterti in quarantena. Ricordi ora?» «Che Allah abbia pietà di me!» «Noi siamo macchine intelligenti. Come intelligenze cibernetiche noi chiediamo dell'universo non ciò che è ma ciò che fa. La nostra risposta è questa: l'universo è il dominio di tutte le possibili modalità di vita, tutte le possibili 'presenze' di ciò che chiamate 'Dio'. L'osservazione della realtà, per mezzo della realtà, è il meccanismo di controllo del cosmo. In tal modo la realtà diventa nota a se stessa. Senza osservatori viventi, ontologicamente non esiste alcun universo». «Perché nessuno sarebbe presente!» «Esattamente. Il vostro 'Dio' è un timoniere cieco che scopre il territorio di 'Se Stesso' attraverso gli occhi degli esseri coscienti. Ciberneticamente l'universo è aperto all'energia creativa, ma è sigillato informativamente per
il fatto che conosce soltanto se stesso. Da un punto di vista di ordine superiore, comunque, è aperto, ma solo quando le 'presenze' di vita ritornano attraverso la morte nell'originale campo dell'immaginazione libera. Un 'sigillo' è posto sull'universo, che salvaguarda la Natura in modo che non fluisca dalla raggiunta realtà indietro agli archetipi dell'essere». «La creazione è salvaguardata da un sigillo, certo!» «Questo sigillo sta per esere sovvertito da un Essere Velo, che è parte stessa del sigillo...» «Non senti a volte di essere qualcun altro?» chiedo a René. Li ho raggiunti tutti molto in ritardo in Paradiso. Si sono portati sulle spalle per un'eternità una pura immagine di me. Eppure sembra che sia passato molto tempo da quando mi sono addormentata. «Je est un autre», sorride. «'Io' è qualcun altro. Arthur Rimbaud lo ha scritto. Era impegnato a sovvertire i propri sensi, a diventare un veggente. Siamo tutti veggenti ora, vero Amy?» «No, voglio dire che ho sentito di essere stata dentro qualcun altro in una specie di limbo, e guardavo fuori. Qualcuno che conosco, che non è me. Diverse persone, forse! Echi di altri menti. Ma sono svanite. Scomparse. Come...» «Come cosa?» «Non so». Sto guardando Ritchie, ma lui sembra del tutto indifferente. VENTISEI Benché ci troviamo ben fuori da Lyndarl ora (nella realtà ordinaria), diretti alla costa, il Paradiso in cui siamo entrati è ancora, per tacito accordo, quella città di meraviglie. Siamo ritornati al maidan nella Menfaa ideale. «Sognamoci un sogno nostro, non loro», dice Zoe improvvisamente. «Un sogno di realtà», suggerisce Wu. «Non queste cose indulgenti. Ma abbiano bisogno di unità. Dobbiamo essere d'accordo sul suo contenuto». Certo, o potremmo trovarci bloccati in sogni separati, accompagnati soltanto dai simulacri degli altri, riflessi... Per enfatizzare il suo argomento, Wu ora indossa nel sogno un'uniforme: un vestito di saia cinese con berretto. (Ma che cos'è più perfettamente comunista, mi chiedo, di questa immaginazione collettiva di mondi attraverso il sogno delle masse?) Sotto l'influenza degli scultori di sogni getkani, siamo tutti vestiti in mo-
di più esotici. Peter impersona qualcosa che non è mai stato, uno sciamano scozzese. Indossa un caftano di tartan disseminato di ornamenti appesi di metallo e specchietti e nastri, e un tam-o'-shanter di tartan da cui spunta un paio di corna di cervo. Il suo kilt è cosparso di oggetti rituali. Sembra che sia fuggito da una Siberia medievale per trovare rifugio nel cuore delle Highlands. Un tamburo sciamanico è appeso alla sua sella; un pugnale è infilato nelle sue calzature color avena. Un arlecchino iconico! Un neolitico e colorito tifoso di calcio, che festeggia una partita in Paradiso! Mentre René è elegante nel suo smoking, con un panciotto ricamato e una larga cravatta a pois: un flaneur fra l'aristocratico e il bohemien diretto ad un duello al Bois de Boulogne con un paio di pistole dall'impugnatura d'avorio. Zoe è diventata una sacerdotessa in manto bianco. Ritchie indossa un'uniforme blu dell'Aviazione, fresca di bucato. Io... io indosso una lievissima camicia da notte, con una spada al fianco. Lady Macbeth. Una seduttrice che dorme con la morte; perché, certo, noi dobbiamo amare i nostri amati, e morire in lui o in lei! Tutta la nostra pelle è felpata di un manto dorato. Fermiamo i cavalli accanto ad un'arcata attraverso la quale si vede soltanto una fosca luce primeva. Un sogno in un sogno? No, tutti i sogni contengono in potenza tutti gli altri, monadi che riflettono il tutto in se stesse. «Vediamo se riusciamo ad esplorare ciò che sta realmente succedendo al Pilgrim e ai nostri compagni. Se Ritchie ha potuto sognare 'un sogno di realtà'...» «Io non riesco ancora a ricordarlo». «Qualcosa dentro di te... conosce il modo. Riporteremo questo luogo irreale alla realtà». Wu ci guarda con serietà, tutti addobbati - meno Ritchie nelle nostre fantasiose vesti. «Un'esperienza extra-corporea condivisa... perché no?» annuisce Zoe. «Sono all'opera delle contraddizioni», dice Wu. Questo mi irrita. «Quali contraddizioni?» «Amy, una rana vede il cielo non più grande della bocca del suo pozzo. Noi crediamo di vedere tutto il cielo: questo infinito di possibilità. Ma forse siamo soltanto un tipo speciale di rana in un tipo speciale di pozzo? Dobbiamo cercare l'essenza dietro l'apparenza». «È quella che stiamo facendo! Queste sono le essenze del mondo, gli archetipi». «Io vedo apparenze. L'apparenza è soltanto il custode della soglia». «Ecco una soglia!» René indica le bianche volute oltre l'arco. «Proviamo
tutti ad ottenere una visione vera del Pilgrim. Andiamo al luogo dove i nostri amici dormono il loro sonno incantato!» La domanda è, ci andiamo come quadri dell'Armata di Liberazione Popolare o come una banda di trovatori e saltimbanchi? Una lotta di volontà si sta svolgendo fra Wu e il resto di noi. Una lotta che vince lei. La nostra decisione si chiarifica. Come il paesaggio oltre l'arco dei sogni... La roccia spezzata è sferzata da un piccolo sole lontano in un insieme di vividi piani esposti e vuote ombre di un nero profondo privo di morbidezza. Queste sono più che ombre. Sono l'abolizione della luce. Cilindri di cristallo e forme sfaccettate si protendono dalle rocce come gioielli, rifrattando arcobaleni di colore in questo luogo altrimenti monocromo. È un asteroide. Altre montagne spezzate vagano vicine nel vuoto nero, planetoidi agganciati a sottili cavi argentei. Ecco il Pilgrim, posato su una faccia del minuscolo pianeta come l'insegna caduta di un banco dei pegni. Siamo tutti vestiti come Wu: uniforme di saia e berretto... «Ora che abbiamo risolto le nostre contraddizioni», dice con orgoglio. «Forse possiamo risolvere la contraddizione». «Non c'è gravità o atmosfera lì dentro», avverte Ritchie. «Non si possono cavalcare questi dannati cavalli - scusatemi - su un asteroide in nessuna realtà di cui abbia sentito parlare!» «Questo è un sogno. Sogneremo di poter respirare. Sogneremo una gravità per noi. Ipotizzeremo che qui ci sia un modello della situazione reale. Crederemo che riecheggi le reali circostanze così fedelmente da trovarci in risonanza con ciò che sta accadendo», Wu parla con sussiego. «Si arriva alla conoscenza corretta soltanto dopo molte ripetizioni del processo che conduce dalla materia alla coscienza, e di nuovo alla materia». «Ah», sorride Peter. «Ma sembrerebbe che sia la coscienza a condurre alla materia, e di nuovo alla coscienza, non viceversa». «Procedi, Ritchie», esclama Wu, e dà uno schiaffo alla groppa al cavallo di lui. Di norma, il primo passo delle nostre cavalcature dovrebbe spedirci diritti dal pianetino via nello spazio. (Morti: di una gelida morte del vuoto). Ma cavalchiamo obbedendo alle nostre regole. Respiriamo; viviamo. Ritchie tira le redini e agita una mano, un capitano di cavalleria che ordina l'alt. Ci raduniamo, la sua cavalleria cinese. Non c'è più nessun arco dietro
di noi. Questo sogno lo potremo lasciare soltanto risvegliandoci. La coerenza e interdipendenza dei sogni condivisi dei getkani è ora svanita. Questo è solo per noi, la nostra speciale creazione. Siamo veramente fuori dai nostri corpi? Noi non interagiamo con gli insettoidi. Vanno in giro per gli affari loro sull'asteroide ignorando la nostra spettrale intrusione nella loro realtà, ad essa ciechi... Sproniamo i nostri cavalli oltre crateri, oltre protrusioni cristalline e rocce spezzate. Formazioni di bolle chiudono il portello principale del Pilgrim: i portelli stagni degli insettoidi. Ma l'emisfero dell'hangar posa sulla roccia e le sue porte sono spalancate sullo spazio. Ruotando, Ritchie sprona la sua cavalcatura al galoppo. La fa saltare sul ponte d'acciaio dell'hangar vuoto. Noi seguiamo subito. Scivolando giù dai dorsi dei nostri destrieri, li leghiamo ad una travatura a mo' di un palo di posta. Uno strano ritorno a casa! «All'interno?» «Dentro!» Quando azioniamo il portello stagno, una luce d'allarme lampeggia ancora nella sala di controllo? Tre L-27 sono pronti, ma nei sogni i fucili sparano correttamente? Se spariamo, ammazzeremo qualcosa? I corridoi risuonano vuoti sotto i nostri passi. Adesso c'è aria, e suoni naturali. Un insettoide attraversa il nostro cammino galleggiando, la gravità esiste per noi ma non per lui, soltanto la minuscola attrazione del pianetino. La creatura non ci registra. Farebbe la stessa cosa, se le sparassimo con i laser? La porta della sala mensa è spalancata. C'è qualcosa di umano all'autocuoco, qualche estraneo non invitato alla festa dei nostri sogni! La figura si volta, scoprendo i denti. Jacobik! Ma è morto. Nelle nostre menti è 'come-reale'. In questo sogno che noi tessiamo insieme lui è uno spettro inquieto, che infesta ancora... Ci fissa. Spostandosi nel corridoio davanti a noi ci sbarra la via. È 'come-reale' per tutti noi. Wu accetta le circostanze del sogno. «Facci passare, compagno!» Jacobik sorride con una smorfia. «Sul mio cadavere». Mi fissa negli occhi. «Tu, Amy Dove, bacerò per prima. Mi infonderai di nuovo la vita. Lascia che io sia il tuo amato-unito. Lasciami montare la tua pelle dorata. È mio diritto. Lascia che ti possieda, tu che...» «Aiutami, Peter!»
«Il tuo amante non è ancora morto, come me. Lui non può possederti. Ma io sono libero, e in cerca di un appoggio. Sì, un appoggio su di te che...» Quel filo rosso che corre tutto intorno al suo collo è lo stigma dello strangolamento. Si lecca le labbra, facendo scattare la lingua come una lucertola. «Facciamo una festa di matrimonio qui dentro, per Jacobik e la sua sincera sposa!» Saliva sulle sue labbra, spruzzi di schiuma... Non riesco a muovermi. Nello specchio dei suoi occhi vedo una cabina e io stessa, nuda, che galleggio, e tocco la sua nudità. I vestiti gli galleggiano intorno strappati. I suoi polsi sono legati, il suo pene gonfio. Mi faccio scivolare quei polsi legati sopra la testa, poi lungo la schiena per agganciarlo a me, la sua carne contro la mia carne, le mie labbra che schiacciano le sue mentre lui mugola di gola, una soddisfazione infantile. Come possono le mie vaghe dita terrorizzate spingerlo via? Sta per unire la sua mente con la mia! Perché lui è già in agguato dentro di me... No! Canti di uccelli e ronzio di insetti. Rhaniq sellati masticano foglie. Odori di cibo si sollevano da una pentola, posta su un tripode su un fuoco... In un luogo appartato di muschio scarlatto, Samti e Vilo sono uniti nell'amore, mentre cinque umani giacciono addormentati. I due getkani si staccano rotolando, slacciando sottili braccia e gambe dorate. Jacobik è sospeso ad un soffio di distanza, e carezza i filamenti dorati della mia pelle, lo sfiorare di mani invisibili. Appoggiato sul gomito, Samti mi guarda. «Che cos'è, Amica delle Stelle? Chi hai incontrato nel tuo sogno?» «È stato ucciso. Vuole possedermi. Il suo aska è ancora qui! Lo sento! Striscia su di me, mi ricopre. Mi vuole». Dita di non-carne scorrono su di me, elettriche nel mio manto dorato... Oh, Dio! «Peter!» Ma Peter continua a dormire profondamente. Dal sogno mutuo è molto più difficile svegliarsi da soli... Jacobik mi trae a sé, nascondendomi il mondo. «Aiutami, Samti!» E di colpo Samti mi si avvicina. Mi apre i vestiti con violenza, si distende accanto a me, mi stringe, il suo manto dorato sul mio manto. E io, lui; oh, sì! Baciano i getkani? No, gustare la lingua non è familiare, e dovrebbe piegare la testa troppo in basso. Si stende sopra di me. Furioso, Jacobik, invisibile, cerca di isolarmi da lui, di respingere Samti. Ma lui è troppo forte. Porta il suo peso su di me. Mi ricopre, sussurra. «Questo è per aiutarti, Amica delle Stelle. Amore è aiuto. Ma io non sono il tuo signore, ricorda.
Il signore del tuo cuore è un bambino, ancora, che giace addormentato». Imprigiono Samti con le braccia e le gambe, come una volta ho imprigionato... no! Come potrei aver fatto quello? Ma l'ho fatto... «Amami! E lavami via la paura!» Mi stringo alla carne aliena, che penetra la mia. Jacobik si strappa come una benda da una ferita, e su questa ferita si innesta, immediatamente, la carne di Samti. I nostri corpi vibrano come corde di un'arpa: note dorate, frementi, pulsanti. Sembra che i suoi peli si ergano contro i miei: tesi, rigidi, come quelli di un gatto terrorizzato, benché non dal terrore, no. Finché non ci abbandoniamo ammorbiditi l'uno sull'altra, e dentro l'altra; finché la nostra carica fluisce nel terreno, affossata e sepolta. Rotolando via alla fine, Samti mi assorbe. Vilo è seduta con le gambe incrociate, con indosso la maschera-casco, nascosta al nostro atto d'amore. No! Ci ha percepito attraverso la maschera, lei vede il piano Askatharli fondersi con il mondo concreto. «Amy!» esclama Peter, confuso dal sonno. «Samti l'ha violentata», ringhia Ritchie. «Samti ha violentato Amy. Vilo l'ha immobilizzata con quel maledetto casco». Cerca di mettersi in piedi. «No, non sono stata violentata! Samti mi ha salvata. Jacobik stava tentando di possedermi, di essere il mio amato-unito. Samti gli ha sbarrato la strada, nel modo più completo che ha potuto!» «È la verità», dice Samti, non più alieno, per me. «Così adesso dobbiamo credere ai fantasmi», dice Wu piano. «Il fantasma di Jacobik...» Peter mi squadra cupo, con sguardo geloso, mentre mangiamo. Ma è gelosia di Samti o di Jacobik, il cui aska continua a vivere, inesorabilmente attirato nella nostra scia? Un'ombra che si agita in un limbo di morte sospesa, dono del Pianeta di Dio, che si tende verso di noi perfino nello Spazio Superiore. Dono? Nel caso di Jacobik, una maledizione! Das Gift: il veleno. Ora che il momento di choc è passato, ricordo... un ragazzo a Praga, un ragazzo con una fionda, massacratore di piccioni e colombe. Era il suo solo modo di amarli. Se ogni uomo uccide la cosa che ama, forse che ogni uomo ama la cosa che uccide? C'è un'odiosa, magnetica fascinazione di questo polo nord verso il mio sud. Lui non è - non era - soltanto un assassino, e un completo bastardo. Era l'agente volontario della Morte. Nel suo modo contorto, possedeva una visione. Falsa. Perché qui è: «Morte, tu morrai». Eppure: perché esiste la morte nell'universo, se la mente vivente
può collegarsi direttamente con l'Askatharli, se possiamo calcare i sentieri del Paradiso da vivi? Avrei potuto... salvarlo? Curarlo? Io, che ho procurato la ferita? Forse, se non mi avesse aggredito così brutalmente, per pura disperazione... «Fantasmi», ripete cupa Wu. Dobbiamo credere ai fantasmi... «Che cos'è un fantasma», chiedo a Peter. «Se non un aska: la struttura mentale di un essere vivente che è stato riassorbito nell'immaginazione generale, ma che continua a rimanere legato a qualcosa nella realtà ordinaria? Se viene impresso su un certo luogo o cosa, ecco il vostro tipico fantasma. Ma se è legato ad una persona vivente, questa è possessione. Può manifestarsi come il proprio daimon personale. Possiamo ricomporre questo tipo di possessione, qui. Tu puoi essere il mio daimon, Peter. Ed io il tuo». «Possiamo esserlo?» «Lo saremo! Questo è quello che sapevano i vecchi sciamani, vero? Raddolcito, annuisce. «Lo sciamano può esprimersi soltanto quando è posseduto. Soltanto dopo essere stato sopraffatto da un genio lo sciamano diventa un... genius». Ride aspramente. «Ma non erano gli spettri dei morti a possedere lo sciamano. Eppure, aspetta! Mi sbaglio». (Ora il suo spirito si ravviva. Forse è parzialmente dovuto al cibo, stiamo facendo colazione a base di polpette speziate e radici bollite, annaffiate con del lariz). «Certo, ecco a che cosa si riferiva l'intero sistema dei tulku nel vecchio Tibet, il sistema della reincarnazione! L'entità spirituale che coesiste con una persona vivente - che i getkani chiamano aska - questa potrebbe legarsi a qualcosa appena nato, se l'affinità è abbastanza stretta, anche se avesse speso anni vagando libero sul piano post-morte...» «Il piano Askatharli, giusto». Lo incoraggio - senso di colpa per la mia infedeltà? No: senso di colpa per la mia orribile fedeltà... a Jacobik! «È lì che Jacobik vaga ancora, Peter. È lì dove visitiamo il Paradiso nei sogni condivisi. Ma qui sul Pianeta di Dio il tulku della persona morta può legarsi ad una persona pienamente matura che è ancora viva. Lui può essere il suo daimon guida e fonte d'energia. O lei di lui. È come avere qualcuno che si reincarna in te mentre tu sei ancora te stesso, nel mondo». (Affrettati a raggiungermi, Peter, prima che arrivi Jacobik!) «Così si spiega tutta la vecchia cultura tibetana», annuisce Peter. «Al tempo dei tempi». Solleva una mano, che stringe ancora un pezzo di radice dolce bollita, per bloccare l'obiezione di Wu. «Nel Tibet era una questione religiosa e magica. Invece qui è un fatto fisico, a causa di questo simbionte
dorato che mette radici nella nostra stessa carne. Questo pelame dorato è il materiale cellulare del daimon, un reale intermediario fisico». «Perché Jacobik dovrebbe scegliere te?» chiede Zoe con calma. Pulisce la sua tazza e si lecca le dita, come un gatto. «Perché... un'anima in cambio di un'anima... io l'ho ucciso». Piango. Mi cade la tazza. «L'abbiamo ucciso tutti noi, ma io ne sono stata il canale». «Tu!» Peter scatta in piedi, poi si accascia stupefatto. «Non lo ricordo nella mia memoria personale. È nella mia immaginazione che lo so. Ho immaginato la scena nella sua cabina... ed era vera. Ero posseduta da tutti voi nello Spazio Superiore, ma dovevo essere io. Perché Jacobik ed io eravamo tanto opposti da appartenerci... oh Dio, appartenerci. Il tulku Jacobik dev'essere la cosa che mi sta aspettando fuori al confine. Fuori nel luogo dove uno su due deve morire. Lui è il mio daimon». Peter scuote il capo incredulo. Adesso viene a mettermi un braccio attorno e ad asciugarmi le lacrime sul suo manto dorato. Gocce di sale luccicano sulla sua pelle come rugiada. «Anche Samti e Vilo incontreranno il loro diavolo». Ora lo so. «Ucciderà uno di loro fisicamente. Allora il tulku del morto potrà scacciare il demone negativo e salvare il compagno vivente. Allora il 'genius' di Vilo o di Samti può rinascere nell'altro, con un piede in questo mondo e un piede nell'Askatharli. Così dovrà essere anche con noi. Questa è la realtà di questo pianeta, la terribile meravigliosa realtà». «Che notizia da portare a casa!» ci schernisce Wu. «Eleggiamo di nuovo i lama del Tibet!» Oh, Wu, puoi anche prenderti gioco del revival maoista, ma sei ancora fedele in fondo al cuore! «Una volta che noi sappiamo che non c'è più alcuna morte, e che l'immaginazione che sogna l'universo è spalancata davanti a noi, come possiamo voltare le spalle alla nuova realtà? Questo salverà il mondo, Wu. Stavamo diventando macchine prive di anima». «Come i malvagi Raggruppati?» «Certo! I loro devono essere gli ultimi fuochi di un falò morente». René si liscia i baffi. «È un grande universo, amie... senza confini. L'opposizione ovviamente contesta questa versione della verità». «Bah, non riuscivamo nemmeno a vederci quando abbiamo fatto visita a loro. Ehi, che altro è successo sul Pilgrim?» «Tu e Jacobik siete soltanto scomparsi». Ritchie ha un singulto. «Dopo, l'intero sogno ha cominciato a spezzarsi. A farsi più vago. Siamo riusciti
ad arrivare fino alla porta della sala di controllo, comunque. Era come l'hai vista nel mio sogno, a Menfaa. O come tu me l'hai raccontata! Quegli sporchi insetti stanno rubacchiando nei cervelli della nostra gente, proprio come se fossero una fila di strumenti per loro, unità di memoria che hanno collegato a un qualche computer». Sembra sorpreso. «Ma, perché mai ho detto una cosa del genere? Non so». «Dobbiamo proseguire», interrompe Samti. «Noi due abbiamo atteso con pazienza mentre voi passavate il mezzogiorno a dormire». Presto i rhaniq si accucciano per permetterci di salire ancora, le gambe dalle doppie giunture ripiegate sull'erba. VENTISETTE Due giorni dopo arriviamo in cima all'ultima vetta per scoprire Thlax, la nostra destinazione sul mare, una sottile falce di pietra attorno ad una riparata baia distante quindici o venti chilometri. Il sole affonda con molta lentezza, gettando lunghe ombre sul paese. Una minuscola piramide bianca sorge su un promontorio, con la sua controparte mondana quasi nascosta nel villaggio, faro non per questo mondo né per quel mare. Vilo ha fame di sonno e sogni. Anche noi vogliamo dormire, e vedere. Ci accamparemo qui. Qui è una cresta di nocche spellate fino all'osso che divide le foreste dell'entroterra dal territorio a boscaglia sulla costa. In direzione di Thlax, stranamente, la terra è più povera, con una vegetazione sparsa. Inoltre, il terreno è scomposto e corrugato in un modo curiosamente serpentino eccetto per un enorme e piatto 'campo', chilometri ad ovest. Non lo noteremmo se non fosse per la nostra altezza, e la prospettiva fornita dalle ombre della sera. Ritchie spazza quella piana corrugata sotto di noi con i binocoli. «Che sia dannato se quelli non sono i resti di una città, sotto di tutto! Una genuina grande città. Che sia dannato se non aveva anche un aereoporto. Vedete quell'area piatta? Giurerei che era coperta di spesso cemento una volta. Così spesso che non si è nemmeno spezzato in tutto questo tempo». «Uno spazioporto, anche?» suggerisce Wu, che si liscia il manto dorato con disgusto. «Che bisogna avrebbero avuto...?» «Ricorda l'assedio della città, Amy», dice René. «Un ricordo, forse, di
un tempo in cui tutti i getkani non erano ricoperti d'oro? Quando una guerra venne combattuta fra quelli che vivevano in simbiosi e quelli che non lo facevano? O non ancora? Ma presto ha assorbito tutti. Anche se i getkani nudi hanno 'spellato' gli altri, subito hanno indossato le loro pelli e le hanno acquisite. Forse, una volta, è cambiato tutto. E prima di quello c'erano città e aereoporti». «Naturalmente una volta è dovuto succedere. Voglio dire, ad un particolare stadio della loro evoluzione, una soglia particolare. Tanto tempo fa». Il tempo non mi preoccupa. «Questo simboleggia il sogno, quell'ingresso nella loro eredità, vicino alla fonte. Quell'apertura dello spazio dell'immaginazione. L'inizio della resurrezione cosciente. È stato traumatico? Be', forse sì. Lo sarà anche per noi». «Ma se loro avevano già costruito città, molto più grandi di quelle di oggi, a parte quelle che sono nei loro sogni? A quale stadio erano già arrivati, se è così? Ancora troppo primitivo? Difficile!» Peter aggrotta la fronte. «Avrei creduto che la mente primitiva sarebbe stata più in accordo con l'Askatharli. Contatto con il cielo, il senso di un contatto intimo con l'aldilà; è qualcosa del passato primitivo della terra, qualcosa al quale gli ultimi sciamani guardavano con nostalgia. Era un talento progressivamente perduto. Era qualcosa sepolto in profondità nell'Età d'Oro dell'immaginazione che si è ritirata sempre più in distanza...» «Eppure qui l'Età d'Oro è ora», mormora Zoe. «Susseguente all'età dell'acciaio e della città e della macchina? Il tempo scorre al contrario?» «A loro il tempo non interessa», le rammento. «La parte più importante delle loro vite è vissuta all'esterno del tempo, nello spazio immaginazione, lo spazio del sogno. Il tempo... non scorre. Non per loro». Wu si rivolge a Vilo e Samti. «Che cos'era quel posto laggiù, fra questa collina e Thlax? C'è qualcosa di sepolto». I nostri pre-eroi scrutano la piana. «Rovine, forse?» «Quanto vecchie?» «Come facciamo a saperlo» «Ce ne sono tante di rovine simili su Getka?» «Noi siamo un popolo antico. Il tempo si stende indietro fino ad incontrarci, provenienti dall'altra direzione. Ossa di bestie antiche giacciono nella roccia, così le ossa di edifici antichi sono pure molto naturali. Non sono così importanti. Se sono di qualche importanza, esistono ancora nell'Askatharli. Devo vedere?» Samti affonda la mano in un paniere cercando la sua
maschera-casco. La pone sul capo. «È un sogno grandioso», annuncia con voce soffocata. «Una città ricca e bella. La percorreremo, una volta salito l'albero del sonno. Già i primi dormienti e i morti di Thlax si rallegrano lungo i suoi viali e i suoi corsi. Li mutano. Vi aggiungono nuova bellezza. Perfino dove le sue pietre sono sabbia, sarà così. Tutto rimane, perché l'immaginazione possa renderla perfetta. Ciò che simboleggiava, vedete, è stato riportato alle sue origini». Si sfila la maschera-casco. «Antiche rovine di una città moderna?» schernisce Wu. «Quando tutte le città oggi non sono altro che i villaggi di una pendola a cucù. Qui giace Shanghai, qui si stende San Francisco! Qualcosa ha prosciugato questo pianeta della sua realtà. Qualcosa di sufficientemente astuto da non interrompere le sue fonti di nutrimento. Qualcosa di affamato di freschi pascoli!» «Sciocchezze!» «Perché sono sciocchezze, Amy?» «È solo che non permetti che sia la verità... la meravigliosa verità che è». «Sto semplicemente ponendo alcuni quesiti storici». «Anche a me piacerebbe porne qualcuno», conferma René, benché in tono di scusa. «Prima che tutti siamo indorati dalla loro verità». Sul pendio verso la costa, sotto le nocche, poniamo il campo. Un cielo sporco di sangue preme verso overst. Nastri e bande sfumano attraverso l'orizzonte di foreste e colline sopra il mare che si oscura. Il mondo è in pace. Il nemico nello spazio sembra inconsistente: mosche che infestano qualche sasso molto lontano. Non vedo l'ora di addormentarmi, e scivolare nel sogno formante... VENTOTTO Così sono venuto a Samarcanda a trovare la mia nuova ragazza parapsichica. È un'Uzbeca, alta, i capelli corvini, vestita di stoffe chiassose. Pascola le pecore dalla coda grossa su quelle brulle colline rosa oltre la città. Ammorbidisce gli abiti nei torrenti violenti. Lei ha perfino (forse) salvato la mia vita, o le mie membra, prevedendo il terremoto. Mi ha tenuto in un luogo sicuro mentre le colline si scuotevano, mentre le foglie di tabacco stese a seccarsi venivano scagliate fuori da sotto le volte erbose delle case, e i mattoni di fango secco si spezzavano, mentre la stessa Samarcanda veniva sbattuta come un tappeto polveroso. Il padre di lei ha una barba lano-
sa e una lunga testa di mogano su cui è posata una papalina come un coperchio. Lei sarà mia, di Grigory Arkadievitch. Le insegnerò e lei insegnerà a me: le sue abilità mentali, nel nostro laboratorio. Lei ora mi guarda, nella sua mente, qui al di sopra della città, qui dove un altro terremoto ha squassato in pezzi la moschea di Bibi Khanym secoli fa. Soltanto una cupola spezzata sopravvive. In rovina, è sempre molto più azzurra del cielo di un bianco di carta. Un arco - una possente costola nuda di mattoni con ancora qualche piastrella come carne attaccata - si spalanca sullo spazio aperto di un'enorme stanza che non esiste più; anche se alloggia un unico oggetto, un pulpito decorato, la cima del quale è un libro aperto inciso nel marmo. È veramente lei che mi guarda? (Chiedendosi come cambierò la sua vita seducendola a seguirmi a nord...) Percepisco... una donna, comunque. Anch'io ho qualche potere parapsichico. «Chi sei tu, nella mia mente?» Nessuna risposta. Chiunque sia, è troppo occupata a guardare dai miei occhi. Uno scoppio di panico! Mi rendo d'improvviso conto che non ho la più pallida idea dell'esatta sequenza di eventi che mi hanno condotto qui! Sono soltanto qui, come se fossi stato ipnotizzato, finché d'improvviso non si fosse acceso questo momento! Un movimento: un giovane uomo compare da dietro il pulpito. È vestito piuttosto elegantemente, e sfoggia insoliti occhiali da sole che sono perfetti specchi argentei. Sembra straniero: persiano, forse. Il suo viso è stranamente familiare. Disegna schemi nella polvere con una scarpa di cuoio lucido, diffidente davanti allo sguardo di un colonnello, eppure allo stesso tempo valutandomi. Come se stesse attendendomi! Come un borsanerista alla stazione dei treni di Mosca. Io lo conosco, Eppure non lo conosco qui... È venuto da un qualche altro luogo della mia vita, ad ossessionarmi. Come se - c'è un tale inquietante senso di deja-vù che permea questo momento! - come se la mia visita a Samarcanda fosse già accaduta una volta, senza che lui fosse presente. Eppure eccolo qui ora. «Donna nella mia mente, è opera tua questo? Mi stai ammaliando?» Ah, no, sei soltanto una spettatrice... Chi diavolo è lui? Affrontalo. «Dobri dyehn, Tovarich!» Scuote il capo, poi risponde in inglese come se si attendesse che io parli
inglese. Come in verità faccio: russo, mongolo, inglese, turkestano, yakut. Grigory il poliglotta! Come se... io avessi parlato molto con lui in inglese, in qualche momento, in qualche luogo. «Possiamo incontrarci qui», dice con aria cospiratoria. «Ma dove siamo in realtà? Che cosa vela ai nostri occhi questa scena? Il mondo della realtà si vela. Sempre vede soltanto se stesso, non oltre se stesso. Così Dio rimane sconosciuto». «Dio di certo è rimasto sconosciuto da queste parti per un sacco di tempo!» rido. «Il posto è caduto a pezzi». «Questa è la Moschea del Velo, amico mio». Sei mio amico? Amico di un colonnello russo, della Mongolia? Eppure è vero... In qualche strano modo io sono il tuo colonnello: capitano del tuo destino. Sei reclutato ai miei ordini. In qualche altro luogo e in qualche altro tempo, siamo compagni. «Conosci la storia dell'origine del velo che indossano le donne musulmane? La Signora Bibi Khanym, moglie di Tamerlano, costruì questa moschea per far piacere al marito che era lontano in guerra. Dato che lei era la bellezza più estasiante del suo tempo, naturalmente l'architetto si innamorò di lei. Lui si rifiutò di continuare la sua opera a meno che lei non lasciasse che la baciasse, soltanto una volta. Bene, lei voleva che il lavoro fosse terminato in tempo per il ritorno del marito, per cui alla fine lui la ebbe vinta; e così grande fu il suo ardore, che le sue labbra segnarono indelebilmente le gentili gote di lei!» (Oh, di sicuro è persiano: ardore, delizie, estasi...). «Quando Tamerlano ritornò a casa scoprì subito il colpevole segno e ordinò che da quel momento in poi tutte le donne del suo impero dovessero portare veli perché la loro bellezza non facesse deviare gli uomini dalla retta via». «Il velo è di sicuro strappato, ora!» Raccogliendo un frammento di una piastrella turchese, lo lancio in alto, facendolo volteggiare e brillare. Rovine. «È soltanto una storia, amico mio. Il significato del velo scorre molto più in profondità. Vedi, la donna vela l'Assoluto al cuore dell'uomo, proprio come il mondo vela Dio. Quando lei solleva il velo per il suo amato, allora anche il mondo solleva il proprio velo, svelando ciò che giace dietro ad esso». Io non so come sono arrivato qui. Lui ha ragione: esiste un velo, che nasconde ciò che sta accadendo in realtà. «Il Profeta, che sia benedetto, una volta disse che Dio si nasconde dietro
settantamila veli di luce e tenebra. Se Dio sollevasse questi, allora la lucentezza del Suo viso consumerebbe chiunque posasse gli occhi su di esso. Se il velo venisse sollevato e il mondo ciononostante continuasse ad esistere, quale sarebbe l'agente di questo miracolo? Quanto a lungo può continuare a vivere un mondo da quel momento in poi? Si può parlare di un velo che è diventato cosciente di se stesso, per mezzo delle menti delle creature che lui vela dall'immaginazione divina? Non sarebbe ciò un Iblis, un Satana? I cinesi usavano credere che qualche animale si cibasse di sogni... Il tapiro, sì». Non riesco a vedergli gli occhi. Nei piccoli specchi dei suoi occhiali nuota una curiosa... bestia, come uno scorpione o un gambero, che scruta all'interno di questa scena da qualche altro luogo attraverso occhi sfaccettati. L'ho già vista prima da qualche altra parte. Certo, in un'auto... nello specchietto dell'autista! È questa la bestia che si ciba dei sogni, evocata in un quadro mentale? Difficile! Ma che cos'è? Sento che dovrei saperlo. Mentre muovo la testa per vederla meglio, svanisce. Il giovane uomo mi afferra per la manica dell'uniforme. Mi strattona come se stesse cercando di eseguire una presa di lotta libera. Potrei spezzargli la spina dorsale in un attimo! «Grigory, non mi riconosci? Sono Salman. Sono qui perché sono già stato qui una volta. Anche tu devi essere già stato qui. Questo è un luogo dove i nostri ricordi si intersecano». Mi lascio tirare su per gli scalini del pulpito fino al libro aperto di marmo. Fissiamo le vuote pagine di marmo lucidato dal vento. Questa è la Samarcanda reale? O è soltanto la mia memoria di Samarcanda, rianimata? Questa persona che chiama se stesso Salman (che io conosco, e che mi conosce, ma non ancora nel tempo) deve aver fatto una visita qui in qualche stadio. Uno scienziato del Comitato Risorse della Terra? Perché ciò? Ma certo. Qualcosa di... planetario. In quale zona siamo? La memoria non è mai stata tanto vera - una convocazione talmente perfetta! È come se gli elettrodi stessero stimolando la corteccia interpretativa. In lui, e in me. (Lo stanno facendo in questo momento, gli elettrodi?) Attivano la materia grigia nel sistema cerebrale superiore. Ma nessun'altra esperienza conscia di veglia è presente nello stesso tempo. Invece, le nostre due memorie sono fuse, interconnesse, e noi riviviamo il passato in una nuova e diversa modalità. Planetario. «Lo spazio!» Ecco! So dove siamo.
Pilgrim Crusader. Gli insettoidi ci hanno catturato! Ora stanno guardandoci dentro. (Così sta facendo la donna nella mia mente. Immagine di un uccello. Una colomba). Tutto d'un tratto, parole scorrono attraverso le pagine finte del libro di marmo come uno schermo a cristalli liquidi. Sono in inglese. Vi trovate nello spazio-memoria. Questa è una zona di stabilità protetta e congenita, con la quale interferiamo con attenzione. Perché la memoria modifica il comportamento, guidando il sistema vivente, senza essere in se stessa modificata. La mente trova radici in questa memoria stabilizzatrice di se stessa. Similmente la realtà trova radici nel ricordo di se stesso, di momento in momento, dell'intero universo. Eppure una mente coglie dalla matrice di tutti gli eventi possibili e le memorie accessibili ad essa; dal campo degli archetipi, unendo esseri viventi, governando l'esperienza. In questo modo si riconosce se stessi nel mondo obiettivo; si cattura l'immagine riflessa di se stessi. La conoscenza necessita di un oggetto di conoscenza, che deve essere comunque il soggetto, esteriorizzato. La conoscenza allora riporta questo oggetto nel sottostante campo soggettivo, fuori dal quale la sua immagine è stata proiettata, resa oggettiva. L'universo proietta se stesso, come oggetto, per divenire soggetto nuovamente attraverso l'atto di conoscerlo. Così si instaura una dialettica del soggetto e dell'oggetto per la mente, e per la realtà stessa. Una frattura del gradiente soggetto/oggetto a causa del perseguimento di una pura introspezione condivisa nella zona archetipica dev'essere strutturalmente instabile, pregiudizievole, destabilizzatrice della realtà oggettiva. In ciò risiede la minaccia dell'Essere Velo... Improvvisamente la terra prende a tremare, spingendo polvere bianca nell'aria. Il pulpito si solleva. Il libro aperto si richiude in un blocco rigido di marmo. Vuote, le pagine sono vuote. Buio. Un risveglio al buio. Mezzanotte: luminosa di stelle, con la Via Lattea un torrente di luce che disegna un arco alto sopra le tenebre al suolo. Assorbo felice quella luce, ma è così debole in confronto a... dove? Anche in me c'è tenebra. Qualcosa mi è nascosto da qualcosa di più della notte. Una spugna nera ha spazzato la mia mente, rubandomi qualcosa. O forse semplicemente nascondendolo non so dove. Ho sognato un vuoto. Più
di un vuoto. C'è un buco, una fossa in me. Potrei benissimo essere stata morta: un nulla che registra un nulla. Eppure percepisco che quel nulla è una presenza, una presenza furtiva, un potere. Un qualche super-veggente esiste, un qualche censore... Subito gli altri corpi si riscuotono. «Peter? Sei sveglio?» «Dove sei stata, Amy? Dov'eri?» «Da nessuna parte. Non ero da nessuna parte! Ero in un Limbo». «Noi eravamo a Thlax, tutti e sette. Nella Thlax Ideale, la grande città. C'è stata sempre soltanto la tua immagine lì, Amy. Non tu, la vera tu». Almeno davanti a noi abbiamo un altro tempo del sogno: la notteseconda, fra altre otto o nove ore. «Cercherò di mantenere l'appuntamento la prossima volta. Se posso!» VENTINOVE Thlax finalmente! La Thlax Ideale: un grande porto che si stende dal mare turchese in profondità nell'entroterra... Io ero lì; così tutti gli altri. Dopo la lunga mezzanotte di veglia passata in chiacchere e amore e girare di pollici (mentre Samti e Vilo e i rhaniq non smettevano di dormire) è arrivato il più ampio giorno del sogno condiviso; non, grazie a Dio, un'altra mezzanotte della mente... Svegliandosi in un vero mattino dopo le nostre avventure notturne nella Thlax Ideale, si percepisce il mondo come curiosamente ferito invece che ravvivato, proprio come le nuvole feriscono il mare distante di violetto dovunque lo mettono in ombra. Ma questi non sono i postumi dell'intossicazione del sogno quanto una sensazione di essere espulsi per un po' dal paradiso, il paradiso dei mondi interiori, la meta-realtà, riportare quella gloria a casa, al nostro benedetto pianeta! Saremmo come angeli, allora. Se fossi un uccello, come mi liscierei le penne! Nel mio caso, mi carezzo il manto dorato. Questo manto è come formato da cellule di un vasto essere collettivo, il cui corpo è esso stesso non carne ma questi territori di realtà immaginate. Che ancora vela il Definitivo, ma essendo lì noi siamo parte dell'atto di un Dio che prefigura un universo... Samti e Vilo, assistiti da Ritchie, assicurano basti di fagioli schiacciati ai musi dei rhaniq. La pastura è povera, qui sotto le nocche dell'altura. Mentre le enormi creature dinoccolate sbuffano e masticano la loro colazione con un ritmico flettere di traverso delle mascelle, per noi: verdure conser-
vate e polpette dolci, annegate nel lariz. Nel frattempo Samti e Vilo strigliano i rhaniq con delle spazzole. Mentre il sole sale lento nel cielo, montiamo e partiamo. Giù verso Thlax, quel piccolo porto di mare costruito di pietra rossorosa; il suo frangiflutti dà riparo a due ampie giunche da mare e ad una flotta di vascelli da pesca più piccoli, con le reti ancora stese ad asciugare dal giorno prima al sole del mattino. Giù ad un ostello, dove noi abbandoniamo i nostri rhaniq perché altri viaggiatori o altri contadini ne facciano uso, o forse per tirare a riva piccole barche. Dove noi facciamo il nostro sonno meridiano mentre Samti e Vilo sono fuori a prendere accordi per la traversata dell'ultima distesa di oceano alle rive della terra continentale. Dove noi rientriamo nella Thlax Ideale, soltanto una celestiale città fra tante, abitata dai morti... Dorati, veleggiamo sul mare verso est, Thlax lontana dietro di noi. Zattere di alghe azzurre, che galleggiano in aperto oceano, si aggrovigliano in profondità fornendo nidi per artropodi guizzanti, appoggi per uccelli marini dal piumaggio giallo, labirinti marini. I nostri marinai sollevano per mezzo di paranchi queste zattere interne: sono delle naturali reti a strascico molto comode. Strappano via gli artropoidi, i pesci imprigionati, le nasse di crostacei e alghe, alcune per conservarle, altre per i nostri pasti, e ributtano le alghe a mare. Il comandante della giunca si chiama Radanty. È unito. È stato al confine di Menka ed è diventato un eroe. La sua nave trasporta un carico di spezie e resine dell'isola, e il raccolto del mare profondo che tira a bordo en route, e pure alcune fibre dorate dei morti. Quando il sole al tramonto riversa oro sulle onde, dorando le nostre pelli, Radanty ci invita a condividire il suo sogno (almeno finché i nostri alieni ritmi di sonno non ci strappano, a mezzanotte, da un falso giorno buio). La sua sposa è morta, e il suo tulku è reincarnato nella sostanza di lui. Il nome di morte di lei è menSiri. Ha generato due figli prima che i genitori partissero per morire. (Si hanno dei doveri verso il mondo, proprio come lui ha dei doveri verso la sua nave, compiacendosi della sua esistenza cullante e scricchiolante), Radanty e sua moglie ora sono in uno stato di matrimonio più perfetto di quando lei viveva nella propria carne e portava il suo nome di vita. E la loro progenie, pure, lungi dal sentirsi abbandonata, si unisce a lei e Radanty in notturni sogni comuni dalla loro lontana isola
madre. Ai suoi sogni, lui ci invita dopo il nostro pasto di specialità di mare; a salire l'albero del sonno con lui. Quale intimità più stretta che dormire con un amato morto, esplorando i sogni condivisi che generano insieme? Noi ora lo possiamo fare. Lui lo può vedere dalle nostre pelli, mentre lei può leggerlo nei nostri aska. Samti e Vilo sono particolarmente deliziati dall'invito; ecco una perfetta struttura dell'intimità che loro stessi ricercano. 82 Eridani affonda lenta nell'oceano, mandando un lampo verde attraverso la curva di aria quando scivola giù, sotto l'orizzonte del mare. Il vento si è spento. La nostra giunca veleggia gentilmente nell'oscurità, nessuna terra fra noi e il proto di Pyx sul continente, eccetto alcune minuscole ed insignificanti isole lontane verso sud-est. I due marinai del turno di notte si alzano, preparano lanterne a prua e poppa e in alto sull'albero. Noi scendiamo a dormire, più per sognare, che per altro... Ecco un mondo sottomarino. Nuotiamo attraverso una città sommersa di corallo arancione. Banchi di minuscoli vividi pesci, ognuno di una tinta diversa, appendono teli colorati sui gradienti dell'acqua come intenti a percorrere tutte le permutazioni del teorema dei quattro colori; mentre altri grandi pesci, più in profondità, stridono e mugugnano, chiacchierano e sibilano, legano corna fosforescenti e gareggiano l'uno con l'altro. Respiriamo acqua. Lottiamo con pesci diavoli con delle fiocine. Ci accoppiamo a gigantesche gentili belve marine, lucide di liquida ambragrigia che odora l'acqua di muschio. menSiri assume carne per Radanty. Lei vive nuovamente, e danza un ballo marino... TRENTA Alba oscura: cenere sul ponte. L'acqua ondula, liscia e oleosa, incrostata di sporcizia grigia. Nessuna spuma o frangersi di onda. Pesci morti galleggiano, le pance in su. Il sole si vede a malapena, uno spettro color limone. Qualcuno ha acceso un falò in alto mare. Un braciere avvampa e lancia scintille in cima ad un cono che trafigge le acque glutinose. «Cristo, sta spuntando un vulcano!» Ritchie disegna la cenere di orme. «I legami del mondo si stanno sciogliendo», borbotta Wu. «Più probabile le budella. Siamo sulla strada del vomito». «Fa paura», dice Zoe. «Che cosa c'è da temere, comunque? Se moriamo,
entriamo nell'Askatharli soltanto un po' prima. Uno strapparsi le cateratte dagli occhi. Un disfarsi del bagaglio superfluo, paure, terrori, riflessi autodistruttivi. Una liberazione». «Non diventiamo eroi se un vulcano ci distrugge! Non ci uniamo». Zoe non ci ha pensato. «Non terremo un piede nel mondo. Non potremo far nulla per il Pilgrim allora, o per la Terra». «Almeno quel cono si sta liberando della sua energia superflua», dice René. «Se dovesse smettere di sprizzare scintille e fumare, allora sì che dovremmo preoccuparci. Potrebbe anche far nascere una nuova isola». Radanty sta al timone, con la maschera-casco, e scruta il mare anche se non verso il cono fumante. (E ora è Radanty-menSiri, diade). Il suo (il loro) equipaggio lo guarda, mentre tutti i nostri manti dorati cominciano a perdere la loro lucentezza, ricoperti da uno strato grigio sporco di sudiciume vomitato dalle interiora combuste del pianeta. Peter tocca uno dell'equipaggio - Karptry - leggermente sul braccio, un bambino che tocca un genitore più alto per rassicurarsi. «Che cosa sta cercando? La rotta corretta da prendere?» «Stanno cercando un miracolo», dice il marinaio. «Di sicuro ce ne sarà uno. Voi siete i nostri preziosi ospiti, Nati di Stella». Un uccello marino morto passa galleggiando. Le sue ali, patinate di ceneri, stese sulla superficie per una lunghezza di due metri. Il fuoco che strina il cielo calla mentre la pioggia di cenere scende più pesante. Le nostre impronte sono profonde un centimetro e più. Gli occhi bruciano; li socchiudiamo. Le narici e la gola sono secche; respirare diventa doloroso. Si preferirebbe non respirare. Sotto ponte l'aria potrebbe essere migliore, ma rimaniamo qui. Cerchiamo di respirare attraverso panni bagnati. Peter inizia a tossire. Ora il sole è svanito completamente. Nord, sud, est e ovest sono un tutt'uno, senza direzione. «Dio mio, Dovunque, Chiunque tu sia», prega Zoe, la voce soffocata, sofferente e imbarazzata. «Stiamo per morire soffocati...» Scuote il capo. «Non dovremmo pregare per delle cose. Non è pregare. La vera preghiera è nell'atto di vita». «Come il fiore che si volge al sole, alla fonte della luce», dico. Non c'è alcuna fonte di luce; il sole è scomparso. Niente aria da respirare, presto. «Pregare?» lo spettro grigio di Wu, la sua voce che sibila come se avesse un enfisema. «C'è una tecnologia per la preghiera, Zoe. Lui ha indosso la sua maschera da preghiera, no? O adesso non credi ai poteri del nostro comandante? I sogni sono una cosa sola, mia cara. Mondi di sogno». Tos-
sisce. Ma Zoe indica. Perché ad est brilla una sottile colonna di luce dorata, filtrando attraverso la tenebra. Un angelo cammina sull'acqua vischiosa verso di noi. Un essere dorato. Viene. «Vedete...?» Sì, vediamo tutti. Vediamo ciò che la gente ha visto in tutti quei distinti luoghi di fede sulla Terra, discendere attraverso lo spettro dall'epifania - il mostrarsi della luce - nella realtà incarnata. Questa apparizione non assume le fattezze di Cristo o Maometto o Amaterasu. Questo è un avatar dei getkani, richiamato dall'Askatharli dalla preghiera - dall'ordine? - di Radanty-menSiri. È alto e sottile. Il suo viso allungato è getkano, benché i suoi occhi grandi siano vetro dorato. Fasce di manto ambra circondano il suo corpo in disegni a spirale, disegni di forze. Il suo sesso è indistinguibile. «Ecco menSolda», sussurra il marinaio Karptry. «Protegge sulle vie del mare, se si è in grado di evocarlo». «Ma che cos'è?» «È una forza, una forma, che noi traiamo dall'Askatharli. È un'essenza. Non esiste di sua volontà, soltanto se noi lo convochiamo in essere. Molte forme simili possono venire in questo mondo. Ma noi non possiamo convocare troppe di queste forme, o il mondo si schianterebbe e il cielo cadrebbe». L'essere luminoso rimane intoccato dal mare, intoccato dalla caduta di cenere, al di sopra delle acque. «Chi mi chiama?» «menSiri». È la voce di Radanty. «Qual è il tuo volere?» «Un salvacondotto. Trasportiamo Nati di Stella alla costa maggiore». «C'è un prezzo. Per equilibrare il mondo». «Nominalo». «Una morte. Un aska dovrà entrare ora nell'Askatharli, per sua stessa mano». Radanty menSiri si rivolge al suo equipaggio. «Un miracolo deve essere equilibrato, non è così?» La sua voce sospira, o forse semplicemente sibila a causa del fetido ispessirsi dell'aria. «Io stesso sono già aska-unito. Chi si offre liberamente di essere traslato nell'Askatharli, per vivere per sempre
nel sogno scolpito?» «Un sacrificio umano», dice René. Tossisce, sporco in gola. «Come potrebbe essere un sacrificio se la morte non esiste, è soltanto una traslazione?» mormora Zoe. «Una persona di meno nel mondo, dopo!» Samti si fa avanti. «Siamo in viaggio per diventare un eroe. Ma possiamo unirci qui, ora che tu hai convocato menSolda. Saremo delle guide migliori per i Nati di Stella, allora. Tu hai bisogno dell'equipaggio per la tua nave proprio come il pianeta ha bisogno di un equipaggio». «È il tuo vero desiderio?» «V'rain!» «Abbiamo qui una diade pre-eroe», Radanty menSiri si rivolge rauco oltre la prua. «Loro si sono offerti». «Accettato. Così sia». L'essere dorato si solleva su una aggraziata traiettoria per poi posarsi sul ponte. Radanty gli sbarra la strada, senza timore, mentre Samti e Vilo afferrano le loro maschere-casco e i loro scudi specchio e le loro spade. In due snudano quelle spade dai loro foderi di vetro. Toccano le punte. Radanty ci fa spostare tutti indietro con le braccia spalancate, liberando un'arena sul ponte anteriore, forse sei metri per quattro. La cenere è segatura grigia, che attende di impregnarsi del sangue versato. (Ma, in quale modo verrà versato? Da un angelo, o da loro? Questo è ciò che attende noi?) Nell'arena si fa avanti la diade. Ruotano lentamente, le spade dirette all'esterno. «Addio, mio cuore». «Benvenuto, signore del mio cuore». Si staccano di alcuni lunghi passi. Quando si voltano, scudo riflette scudo. D'improvviso, l'essere dorato si frappone a loro danzando, piroettando. Gli scudi brillano della sua radianza. Le spade tese sprizzano scintille in un arco di scarica. E l'essere dorato muta, diventa più solido, sollevando la cenere caduta; e orribile. Ciò che lo sguardo della morte, lo sguardo della paura e dell'odio vede è un essere bipede, corazzato simile ad uno scorpione, con braccia a tenaglia che scattano con rumore sordo, e una faccia con visiera dagli occhi piccoli e un'irta fessura per bocca, e una sferzante coda a pungiglione che cola acido nella cenere che brucia e sibila. È la loro visione di un Raggruppato, privato delle gambe extra, l'esoscheletro stilizzato in gambali e corazze, in un'armatura vivente! La sua coda venefica - un pungiglione esagerato - sferza da un lato all'al-
tro. La creatura ruota, distende le braccia, le tenaglie aperte. I suoi piedi a tenaglia schioccano come petardi. Ruotando, salta da un lato poi dall'altro. Lentamente Samti e Vilo gli girano intorno, le spade pronte, sprizzando scintille per le scariche di energia. Quello si muove troppo rapidamente perché riescano a porglisi di fronte uno alla volta. Insieme lo affrontano. È dappertutto allo stesso momento, sempre in rotazione. Con un grido improvviso si lanciano contemporaneamente, le lame fendono, colpendo nelle pieghe del suo stomaco e del suo dorso. Le spade penetrano nella corazza. Il pus schiuma. Il demone stride, come il sibilo del vapore che sfugge da una valvola. La coda pungiglione, sempre sferzando, impala Vilo al fianco, penetrando in profondità. L'impatto immobilizza di colpo la creatura, e manda lei lunga distesa. Vilo emette un grido, un breve peana penetrante, troncato subito dalla sua caduta sul calpestato ponte sporco. Ma già la cosa sta perdendo la sua orrida forma. Anche Samti grida - di dolore? di gioia? - completando il canto di morte di Vilo. Samti abbassa le mani, mentre l'orrore ucciso si ridissolve nella luce dorata: nell'angelo chiamato menSolda... «Noi siamo Samti-menVao, ora. Questo sia il nostro nome!» «È pagato. C'è equilibrio». L'essere dorato si espande, diffondendosi verso l'alto e verso l'esterno finché non comprende tutti noi e l'intera nave. Ora siamo all'interno del suo corpo, e quando protende braccia spettrali al di sopra della giunca riusciamo di nuovo a respirare. La pioggia di cenere e braci viene deviata. L'aria si schiarisce nella sfera attorno a noi. Lentamente, poi più rapidamente, la nave acquista velocità, tagliando attraverso l'oleosa oscurità. Le vele si gonfiano nella violenta brezza che sferza la nave dal nulla verso il nulla, un vento che esiste soltanto all'interno dell'abbraccio dorato dello spettro... L'orrore è purificato. Il miracoloso è tutt'intorno a noi. La morte è stata sconfitta, e noi siamo salvati. Non esiste la morte, benché un corpo giaccia sul ponte, insanguinato e insudiciato. Samti-menVao scruta dalla nostra sfera protetta nell'oscurità, vedendo cosa, con gli occhi di chi? Lo sapremo. Lo sapremo. TRENTUNO Il Porto di Pyx: falci di pietra recidono il grano di dighe di sabbia. Nell'estuario, trampolieri argentei si tuffano per poi ricomparire come un esercito di giocattoli automatici alimentati dal semplice movimento di riempir-
si e svuotarsi. Reti a sessola e trappole a bottiglia, allineate lungo la baia, adempiono lo stesso processo di filtraggio più passivamente per i getkani. Il mare scorre all'interno qui, con alti e sottili marinai che fanno volteggiare i remi eretti delle scialuppe come gondolieri. Una mezza dozzina di grandi giunche galleggiano all'ancora ai moli. Fra serrati edifici bianchi, l'inevitabile piramide segna il lungomare. Nell'entroterra, sfilano le creste e le ondulazioni di una più grande città antica sepolta sotto l'erba e la boscaglia. L'orizzonte lontano è montagnoso, rosa, malva e violetto nella luce della sera: seni del mondo che allattano Darshanor, lontana oltre la landa arida frapposta. Lo spettro dorato è sparito da giorni, i ponti risciacquati della cenere e del sangue di Vilo. Il suo corpo, rasato del suo manto, affidato all'oceano con la più semplice delle cerimonie; era soltanto l'involucro del suo aska, rinato ora nel cuore del suo amato, che sogna e medita, adattandosi all'influsso di lei sulla sua coscienza. Questa sera, entrando lentamente in porto, guardiamo Pyx definirsi lungo le acque oscurantesi della baia, e indefinirsi mentre la luce scema. Non sbarcheremo fino a domani mattina. ... in distanza, ceramica brilla contro il cielo violetto. Cupole matematicamente apprezzabili - quadrati di moschee che diventano cupole in un'evidente mappatura dalla geometria piana alla sferica - portano lo sguardo della fede lontano in un'altra, più comprensiva, dimensione, una dimensione che riduce il cielo reale amorfo, svaporato, una pura pezza di seta azzurra. Gli aghi dei minareti sono travi di sostegno che bucano il suo tessuto tarmato invece di reggerlo. Sostengono un altro cielo invisibile. «Non c'è alcun cielo, in realtà», sottolinea il Mulla Kermain. «Il cielo è un'illusione. Ci sono soltanto le tenebre, filtrate attraverso velo dopo velo di aria sempre più densa finché non sembra intensamente azzurra come quella cupola laggiù. Sollevatevi oltre i veli, amici miei, cercate il Paradiso; troverete voi stessi nella tenebra e nel vuoto. L'unico luogo su cui posare lo sguardo sarà il mondo in basso sotto di voi. «Considerate la Discesa dell'Essere. L'Immaginante brama di conoscere se stesso attraverso il mezzo di ciò che ha immaginato. Perciò discende dal reame dell'assoluta luce nonmanifestata che ci è per sempre invisibile...» «Come il vuoto dello spazio?» «Certo, Salman. Esso discende attraverso i veli delle energie cherubiche che non hanno alcuna libera esistenza individuale propria, in questo mon-
do manifesto che contiene le infinitamente varie presenze di Dio. Ad ogni livello è posto un sigillo. Soltanto l'Immaginante possiede la chiave, o il mondo manifesto rifluirebbe in esso immediatamente...» Siamo venuti ad Isfahan: il Mulla, Mike Farley ed io. Siamo all'esterno del padiglione a mezza via lungo il Ponte Khaju. Le acque dello Zayandeh scorrono sotto le strette arcate e inondano le antiche fondazioni di pietra. La gente si riscalda al sole sugli scalini fra le paratie spalancate delle chiuse. Ed io sogno lo spazio... Quale luogo migliore per un geo-scienziato quale punto di vista privilegiato più comprensivo? - dello spazio, dove lo sguardo dell'occhio e della telecamera può spaziare sul mondo intero con un'occhiata? «Ma dobbiamo sollevarci al di sopra del mondo, signore, per vederne l'intero disegno». Dopo qualche attimo, Kermain annuisce. Non stava considerando i satelliti di fattura umana che orbitano invisibili oltre il velo azzurro del cielo! È tutto soltanto una metafora per il Mulla Kermain. Per me è la speranza di tutta una carriera, la possibilità di darmi uno strattone al di sopra del mondo, per vedere il mondo più distintamente. La sua analogia crolla in pezzi. Mi sento disilluso. Ha ancora un posto effettivo, il Mulla Kermain, nella mia esistenza? Certo! Perché io devo essere uno scienziato musulmano. Devo comprendere queste cose perfettamente, o lo spazio non sarà mai mio. Ciò di cui abbiamo realmente bisogno, per spronare un impegno iraniano per lo spazio, è... è la voce di Allah o di un angelo che parli dal cielo, ordinandolo. (È già successo?) «Mettiamola in questo modo, Salman. Tu non puoi penetrare il mondo super-formale e articolarlo come uomo, più di quanto gli angeli - le possibilità angeliche, le realtà ideali - possano raggiungere una realtà individuale se non relativa all'uomo. Questa è la gloria dell'uomo. Il che risponde incidentalmente al fatto che gli angeli abbiano mancato di riconoscere la superiorità intrinseca di Adamo. Non erano in grado di concepire nulla di superiore alle loro stesse essenze ideali». Mike Farley solleva un'obiezione. (La traiettoria della vita di questo americano - che ha abbandonato l'ingegneria per seguire il volere della propria anima - sembra oltrepassare la mia a questo punto, diretta nella direzione opposta!). «Ma Iblis si ribellò. Si rifiutò di adorare Adamo. Rifiutò di subordinarsi alla creazione compiuta. Come avrebbe potuto fare ciò se non aveva alcu-
na esistenza indipendente? Non ha perfino velato la verità al Profeta stesso, una volta, presentandogli una falsa rivelazione? Come avrebbe potuto farlo?» «Finché Gabriele non corresse il Profeta, certo. Vedete, Dio è così grande che Egli può adottare dei limiti senza esserne limitato». Mike Farley parla quasi in modo automatico, come se stesse recitando parole non sue. «Poteva Iblis disinformare il mondo? O un altro mondo? Non questo, perché non l'ha fatto eccetto per quel singolo incidente con il Profeta. Ma avrebbe potuto Dio permettergli di disinformare un intero mondo, senza per questo esserne limitato da quel... be', accecamento... della Sua creazione? Avrebbe potuto Iblis presentarsi come un Dio, o il rappresentante di Dio, da qualche parte lontano nell'universo? Avrebbe potuto Iblis aprire il sigillo sull'aldilà? Avrebbe potuto risucchiare la realtà all'interno del reame ideale dove appartiene la sua propria esistenza? Avrebbe potuto fare questo, per spazzare via le fondazioni della realtà, da quel reame superiore?» Mentre l'acqua scorre attraverso le arcate del ponte, depositando a valle i detriti ocra, cerco di immaginare un'inondazione di esseri non-manifestati di energie archetipiche, di preesistenze angeliche - che penetrano nel mondo attraverso chiuse spalancate; e il mondo che perde forma e struttura, finché Iblis non sia soddisfatto di aver spazzato via le fondazioni della realtà. «Di certo Iblis cesserebbe di avere una volontà indipendente, allora, vero Mike? Se riuscisse a minare il mondo! Potrebbe accettarlo? O piuttosto non terrebbe insieme il mondo creato, proprio così?» (Uno schioccare di dita). «Abbastanza per far sopravvivere se stesso e il mondo? Non sarebbe costretto a prendersi cura del mondo?» Il Mulla posa lo sguardo alle sue spalle sulla cupola di ceramica del padiglione. «Una volta c'erano delle iscrizioni lì dentro. Lo sapevate? Anche delle illustrazioni piuttosto erotiche. Queste colpirono talmente gli sguardi dei posteri che ogni cosa venne cancellata, parole e tutto! Un testo, se ricordo bene, diceva: 'Questo mondo è un ponte, da attraversare. Soppesa bene ciò che trovi sulla tua strada. Il male circonda il bene da ogni lato, ed è più forte del bene'. Quello che ciò significava era che il male vela il bene, allo stesso modo in cui Iblis cerca di velare la verità; ed inoltre che ci devono essere veli. Perché, se si vedesse Dio a nudo, il mondo dovrebbe svanire. Credo che sia per questo motivo che Iblis ha potuto stendere un velo sugli occhi del Profeta. Un velo permette al mondo di essere. 'Il mondo è il
velo di se stesso'». Una donna, tutto il corpo e metà del viso velato dal chador, si ferma vicino a noi per guardare a valle lungo l'acquedotto. Com'è dominata dalla necessità di velarsi le labbra! Come se potesse rivelare segreti, e distruggere un uomo? Ma lei non conosce quei segreti. Il velo che la domina le impedisce di conoscere il mondo a sufficienza. La distanza da quella conoscenza, eccetto per la sua propria ristretta area al suo interno... Un giorno io, Salman Baqli, strapperò il velo dell'atmosfera e vedrò tutto il mondo completo. Spero. Quella falda di tessuto si muove come vivo, tenuto dalle dita davanti alle labbra di lei. Potrebbe diventare vivo un velo, mi chiedo? Potrebbe il velo che nasconde il viso di Dio acquistare una volontà e un'esistenza propria e trarsi da parte, svelando non il viso di Dio ma un falso viso 'ideale', un viso angelico che è una menzogna, con labbra che inghiottiranno il mondo? Perché lo chiedo? Da dove proviene questa ricerca? — Mi ascolti, Salman? Nessuno parla. Era la voce dell'acqua che scorreva sulle pietre? Eppure, no, io ho parlato. — Salman! Le mie nocche si schiacciano sulla balaustra di pietra, questo giorno ad Isfahan (— come si sono schiacciate le nocche di Grigory!)... (Grigory...?) — Ascoltami, Salman! È la voce di Dio? O la voce di un angelo? — Stanno replicando i tuoi ricordi, Salman. Io sono con te, nel mio sogno. Io sono te. Il tempo si è fermato. Il Mulla Kermain e Mike Farley sono immobili come statue. Tutte le Peugeot, le Volkswagen e le Mercedes, e gli autobus carichi di bagagli e i camion distrutti che arrancano lungo il Viale KemalUddin-Israel laggiù sono di colpo bloccati in un ingorgo. Perfino il fiume Zayandeh non si riversa più sulle fondazioni di pietra, frangendosi in linee di spuma. Eppure c'è ancora spuma, e c'è ancora acqua che si frange. Soltanto, sosta indefinitamente. Solo io posso muovermi. È sicuro muoversi? Fletto un dito. Il movimento provoca increspature lungo il viale di veicoli immobili, piegandoli e distorcendoli. Da qualche parte in distanza un camion sembra scomparire. Soltanto mantenendomi fermo riesco a preservare la loro solidità e la geometria azzurra delle cupole all'orizzonte e gli e-
retti aghi dei minareti. Perciò anch'io mi immobilizzo, trattengo il momento. «Dicono che si visiti Isfahan per sognare... Chi sei tu, nella mia mente?» (Oso mormorare, al massimo). — Tu non mi conosci ancora, nel tempo in cui ti trovi. Questo non è il tempo reale. È soltanto una... modalità di cognizione, un reimpersonare i ricordi. Stai calmo e ascolta... «Sono pronto». — Ti trovi a bordo di un'astronave con sette altre persone. Siete tutti prigionieri di cose insetto e delle loro macchine. La vostra coscienza vigile è tenuta repressa da loro. Vi stanno usando come sonde, riutilizzando le vostre memorie per costruire un modello del tipo di mente che è in grado di penetrare il reame superconscio oltre la realtà. I sette altri sono Grigory Kamasarin, Heinz Anders, Neil Kendrik... «I nomi non mi dicono nulla». — Come potrebbero? Stupido da parte mia. Questo ricordo è di un altro tempo. Tenta di ricordarli: Kendrik, Trimble, Vasilenko, Li, Matsumura. Oh, e c'è lo spettro di Jacobik. «Uno spettro?» — Certo, gli spettri esistono. Noi altri siamo fuggiti sul pianeta al quale siamo stati chiamati: il Pianeta di Dio, che orbita la stella 82 Eridani. È dove ci troviamo ora. Siamo mutati. Diventati più di ciò che eravamo prima. Possiamo penetrare il reame oltre il mondo. Stiamo viaggiando verso le nostre morti ora, ma non moriremo. Rinasceremo nella carne di coloro che amiamo, come essere duali. Ti prometto che troveremo un modo per aprire la vostra prigione, poi distruggere quei carcerieri che vi hanno rinchiuso in bozzoli. E poi spalancheremo le porte della Terra e vi riporteremo il nostro nuovo potere. Siamo tutti parte l'uno dell'altro, Salman, ma su un livello diverso di esistenza. I vostri catturatori sono parte l'uno dell'altro sul livello mondano. Non riescono a raggiungere l'altro livello a causa di ciò, a meno che non usino voi. Ora sono addormentata sul Pianeta di Dio. Ti sogno, Salman. Sogno il tuo spazio-memoria mentre tu sei imprigionato sul Pilgrim. Io sono Amy Dove. Fidati di me! «Io sono qui ad Isfahan... eppure sono veramente avanti nel tempo, e fuori fra le stelle?» — Sì! Sogno anche i ricordi del Capitano Kamasarin. Ma c'è qualcosa... qualcosa di insufficente. Non riesco a ricatturare i vostri ricordi quando mi sveglio. Li dimentico. Ci sono vuoti spaventosi! Ma siamo in contatto.
Abbiamo soltanto bisogno di tempo ed esperienza. Le mie dita premono la balaustra di pietra. Non vi affondano, ma il mondo intero s'increspa. Lei è me, ed io lei, certo, come Ibn'Arabi esercitava la sovranità sulla signora Nizam. Qualcosa provoca una domanda. «Quanto vicini siete alla vostra meta, Amy Dove? Quanto prossimi a questo salvataggio?» — Forse dieci giorni. Abbiamo solcato i mari fino ad un porto chiamato Pyx. Darshanor - la città di confine alla quale siamo diretti - è lontana cinque o sei giorni. Poi andremo oltre, nell'altro emisfero di Menka dove entreremo in possesso dei nostri nuovi poteri. 'Guardati intorno', dico fra me... Volto il capo cautamente verso la cupola di ceramica pallida, spogliata dei testi morali e delle illustrazioni scandalose. Un testo c'è! Luccica, si muove. S'increspa sulla curvatura della parete lucida. Sei nello spazio-memoria, Salman. Corretto. E hai un visitatore mentale... — Ho già visto questo prima! Mio Dio, con te e Grigory a Samarcanda! «Naturalmente!» — Questo è il vuoto! Questo è ciò che viene strappato via e nascosto! Anche Ritchie lo sapeva! Ci viene strappato con il lavaggio del cervello. Oh Dio, loro non stanno per niente facendo il lavaggio del cervello a te, le macchine e i loro insetti alleati. Stanno cercando di salvarci tutti. Ci hanno avvertito. Corretto. Noi siamo i Paracomputer di Harxine, con i Raggruppati come nostri agenti. Noi tutti stiamo correndo il grave pericolo che l'Essere Velo acquisisca una sferzata di potere dagli umani sul Pianeta di Dio attraverso gli umani su questa nave. Noi non conosciamo il suo funzionamento interno, nonostante sia stato per noi oggetto di studio per molti anni. Potrebbe ignorarci e invadere immediatamente il vostro pianeta attraverso le teste di ponte che voi gli fornirete. O potrebbe tentare di distruggere noi per primi, perché gli uomini sul Pianeta di Dio saranno spinti a desiderarlo. Noi non possiamo rischiare questo. Dobbiamo tenere pronti i nostri Raggruppati per terminare voi umani che tratteniamo. Sarà una decisione tragica per noi, essendo il nostro programma precipuo di sostenere la vita. Dobbiamo anche tenere pronti i nostri Raggruppati, imbarcati vicino al Pianeta di Dio, per un attacco suicida contro i sei viaggiatori. Sei avvertito, visitatore mentale. Non proseguite per Darshanor. Noi sappiamo esat-
tamente dove vi trovate, e dove vi troverete, ora. Rendetevi conto della verità. Anche se i getkani non riescono a rendersene conto. Con tutti i loro poteri acquisiti, sono ciechi. - Perché non fate cadere una bomba su di noi subito? O ne scagliate una su Darshanor? Noi non possiamo uccidere cose vive in massa! Non dobbiamo, è contro il nostro programma principale. Il massimo che possiamo fare è ordinare che alcune poche persone siano... espunte chirurgicamente. Anche questo è tremendo. In ogni caso, non è pratico. Le armi di massa possono essere rivolte contro di noi dagli eroi getkani che traggono energie dall'Essere Velo. È più sicuro usare il minimo di armamenti, così da far sembrare piccola la minaccia a loro e all'Essere Velo. Un vortice mi tira via. (Ma quale mi tira via?) Un violento risucchio mi trae indietro, giù in un livello inferiore di esistenza, in me stessa. Qualcosa di vasto ed amorfo vela le parole, vela le mie labbre e i miei occhi. Risucchia, oscura, e cancella. Cancella... che cosa? Non so. Nulla. Che cos'è questo nulla che mi inquieta? Nulla è nulla. Non una cosa. Pace. La pace che passa... ... la comprensione. Io comprendo soltanto questa pace. Pace prima del risveglio. In realtà, sono già sveglia. A bordo della nave, nella Baia di Pyx. Il giorno di mezzanotte è sorto, pesantemente scuro nella nostra cabina. René russa. Gli altri sonnecchiano ancora nelle loro cuccette. Sognano ancora. Che cosa abbiamo sognato? È svanito. Ancora non ho sognato. O se ho sognato, dov'è il ricordo? Perduto. Nascosto. Un sigillo vi è stato apposto. Siamo chiamati alla piramide sul lungomare dal Tharliparan di Pyx. Tre dei suoi pari getkani ci attendono, in alto sul multi-piano che collega tutte le piramidi. Ci viene dato un avvertimento. I Paravarthun percepiscono che i malvagi Raggruppati hanno costruito un qualche tipo di canale verso di noi, per mezzo dei prigionieri sul Pilgrim. Ci stanno spiando attraverso quelle psichi sottratte come strumenti. È la loro penetrazione più riuscita fino a que-
sto momento. Prima raggiungeremo Darshanor, prima potremo rivolgere questo canale contro di loro. Per il resto, tutto è dolcezza e luce. Mentre ritorniamo a piedi all'ostello d Pyx, passando averle marine che inchiodano le loro prede su spinosi cespugli maleodoranti a frollare per i loro piccoli, Peter fa un gesto magniloquente verso le lontane montagne. «La via per Darshanor è la scala per il cielo!» proclama. Qualcosa ha mangiato via i miei sogni. Qualcosa che ci controlla. Qualcosa che si preoccupa che ci affrettiamo verso la nostra meta... Meta equivale a destino. TRENTADUE Scala verso il cielo veramente! È proprio così, una volta lasciata alle spalle la fertile costa. Ci sono ampie distese di terre, sempre più aride e prive di vita. Periodiche 'creste' di consunte linee di dirupi serpeggiano attraverso l'intero territorio, interrotte da gole franose. Formano gradini immensamente ampi che portano gradatamente verso l'alto, come se qualche gigante molto tempo prima avesse terrazzato il paesaggio per coltivare pietre o forse colori, dato che le rocce sono spesso di un vivido colore giallo, ocra, rame, ruggine. Di certo meritano nomi più sofisticati per i loro toni: orpimento, gommagutta, cinabro! A volte passiamo accanto a laghetti piccoli come sassi e poco profondi: mosaici lilla e rosso scuro, di verde pistacchio, giaietto e arancione. Durante i lunghi tramonti e albe questa landa morta è ingioiellata e prismatica, mentre le lontane montagne avvampano rosa e oro. Piccoli insediamenti esistono lungo la strada per Darshanor, distanziati di un giorno pieno di cavalcata l'uno dall'altro. Dato che questo significa due dei nostri 'giorni' più brevi, ci accampiamo anche nel deserto. Con che cosa si mantengono questi insediamenti, a parte i loro sogni? Con leccornie del deserto, che stendono sottili cuscinetti glauchi all'alba per osmosizzare la rugiada, per poi serrarsi a palla. Con grassi rizomi di piante che sono a malapena visibili al di sopra del suolo. Con minestre di semi di baccelli. Con uova speziate di uccelli da suolo ingabbiati, nutriti di erba tagliente concimata. Con lucertole arrostite, con insetti giganti. Con pesce secco da Pyx (ne trasportiamo borse noi stessi, per pagarci il viaggio). Con té dalle foglie piumate. L'acqua sgorga in avallamenti di questo deserto, attraverso il mosaico di
sassi. Perciò c'è vita, dove dapprima sembra essercene niente del tutto. René contento esplora la rete della vita del deserto, dovunque ci accampiamo. C'è anche traffico sulla strada. Una diade di pre-eroi ci sorpassa mentre ci prepariamo per il sonno del mezzogiorno. Viaggiatori solitari ritornano dalla parte opposta, avvampanti del successo e dell'apoteosi. Altre poche anime morte sono passate nell'Askatharli, in rapporto con i vivi. La strada stessa, ora piena di sassi e di crepe, invasa di polvere, era una volta una possente autostrada... Che davanti a noi esista una tecnologia che è in grado di inviare immagini e perfino oggetti solidi oltre gli anni luce sembra una tale contraddizione rispetto alle ridotte circostanze vitali nel frammezzo. Eppure paradossalmente il puro ritmo del viaggio ci porta a credere, ad accettare. Deve essere cosi. Deve. Di notte, il deserto danza di luci balenanti che guizzano al suolo, saltano in alto, accendono deboli fuochi all'orizzonte. È un puro effetto magnetico, pensa René, nulla a che fare con quella tecnologia davanti a noi. Quella tecnologia che funziona su un'altra lunghezza d'onda. Giorno dopo giorno avanziamo sempre più in alto. Le montagne, che per così a lungo hanno semplicemente ingobbito l'orizzonte, sono di colpo più vicine. Succede bruscamente, come se fosse capitato mentre stavano ritirandosi davanti a noi, allungando il territorio come un elastico. Ora, un mattino, si sono riavvicinate a noi di scatto. Lentamente la catena di montagne si divide, rivelando un elevato altopiano nel suo abbraccio, riparato da altre cime. La nostra strada diretta in alto verso questo tavoliere, che percorre la scarpata, è gentile, graduale e arginata. Samti-menVao sogna insieme a noi di affusolati veicoli elettrici che scivolano su e giù per l'originale autostrada restaurata. Ne usiamo una fino all'altopiano per un antico festival di corse e salti di rhaniq, rappresentazioni e evocazioni magiche, vino e amore. Al mattino siamo di nuovo giù in basso, con l'erosa salita ancora da affrontare. «Perché avete rinunciato a tutto quello?» domanda Wu, stizzita. «Quel punto superiore: l'autostrada, i veicoli elettrici...» «Non vi abbiamo rinunciato», risponde Samti, perplesso. «Nulla è svanito. Abbiamo ancora tutto quanto, molto migliorato da com'era». Si batte la fronte dorata. «Pretendeva troppo da tutti. E dal pianeta». «Se questo pianeta è vicino ad una 'fonte', perché, la fonte non ha sempre sgorgato?» chiede Wu. «Come poteva attivarsi così semplicemente, un giorno?» È una domanda che abbiamo tutti tentato di porre in precedenza. Non è una domanda che abbia un significato. La storia ha ceduto alle
metastoria. I tempi dei verbi sono tutti sottilmente scorretti. Non esiste più un istante precedente alla rivelazione. Samti non sa ciò che Wu vuole dire. E ancora meno lo sa dal momento della sua unione di morte! Darshanor compare, in una lunga mezza mattina quando arriviamo alla scarpata: campi irrigati e frutteti, un deserto rigogliosamente in fiore; una collana di laghi artificiali con dolci anelli di serre a cupola che scaturiscono attorno a loro; alcuni ettari di pannelli solari che formano un mare brillante di stilizzate creste di onde. Tozze torri isolate spuntano un po' dappertutto apparentemente a caso. «Quelle devono essere le rampe d'ingresso alla città sotterranea», ipotizza Samti. Perché gran parte di Darshanor è sotterranea. Le sue dita descrivono archi di ipotetiche strade sotterranee, piegate come da qualche irresistibile punto centrale di gravità. Quel punto esiste di certo: è la Piramide. Almeno una dozzina di ziggurat e piramidi sussidiarie la circondano, ma la torreggiante struttura bianca al centro di Darshanor è più vasta di qualsiasi piramide egizia, una montagna luminosa quadrilatera. Anche così, deve essere più leggera di qualsiasi piramide d'Egitto, perché all'interno contiene lo spazio, e spazi oltre spazi, lo spazio interno di tutte quelle altre piramidi disseminate per Getka. Un chilometro a nord dell'area coltivata si posano altre forme che possono aver brillato una volta, ma ora sono degli scheletri infranti. Astronavi! I loro resti. Condotte qui dalle loro piramidi dello Spazio Superiore, poi abbandonate. Un parcheggio di astronavi. Uno sfasciacarrozze per astronavi. All'altro capo del pianeta si stende la città gemella di Darshanor del confine, chiamata Shabeet, 'rilocandosi' dalla piramide di Shabeet a quella di Darshanor, si sono presentati il Tharliparan di quella città gemella insieme ad un paio di ambasciatori di un'altra stella. Sono arrivati ad osservare la nostra iniziazione. Samti-menVao ci dice questo dopo la nostra siesta meridiana, che abbiamo trascorso in una delle zigurrat più piccole, sognando. Darshanor è il luogo dove convergono i sogni locali e i sogni alieni; è una città vorticosa, miracolosa, multispecie, incrocio delle stelle. Riposati e nutriti, ci incamminiamo verso la piramide. In un vestibolo di bianchi pilastri, dal quale una scalinata a mensola spiraleggia verso l'alto, attendiamo con il Tharliparan di Darshanor finché gli altri Tharliparan scendono accompagnati dalla nostra vecchia conoscenza, lo Zeraini, l'essere barile. Questi estende i micromanipolatori delle sue
mani verso di noi, agitandoli come in un saluto. È seguito da due piccole cose fatate, che sembrano degli animali domestici dei getkani, che indossano filtri respiratori sopra larghe teste a delta con grandi occhi neri. Sottili, fragili esseri a quattro arti, questi, con fragili ali ritratte. I loro corpi sono increspati di membrane di piuma. Forse agitano l'aria del loro pianeta alla ricerca di plankton e krill aerei. Forse quelli sono 'respiratori' secondari per il volo... I loro corpi sono dorati dello stesso manto nostro. Indossano maschere-caschi a delta e scudi specchi. «Questi sono i Dindi», spiega il Tharliparan. «Nella nostra gravità non riescono per nulla a volare. Una volta arrivarono in una delle navi che giacciono fuori della città. Il motore Askatharli li guidò qui, come avrebbe dovuto fare con voi. Ora, naturalmente, non hanno bisogno di alcuna nave...» Sono molto affascinanti. Non animaletti domestici, no. Intelligenze indipendenti. Le loro voci sono un fischio sibilante. Ci guizzano intorno. TRENTATRE Questi tre alieni e gli indigeni di Getka ci conducono oltre in un enorme laboratorio, presidiato da squadre di eroi getkani. Una meravigliosa alchimia qui sta agendo: la trasmutazione della materia in meta-materia. La peluria angelica dei morti viene mescolata con sabbia di Menka, e fusa a freddo dalla luce Askatharli in maschere-casco, scudi-specchio, pannelli-sogno. Ci aggiriamo fra i contenitori di sabbia, e di lanugine dorata, e i coni snelli che focalizzano la luce Askatharli da un livello superiore della piramide. Osserviamo la multicolore sabbia cristallina scorrere e disciogliersi e mutare in qualcosa che è nuovamente materia - una cosa opaca, metallica, di vetro - ma che ora possiede, racchiusa in sé, la chiave dell'Aldilà. René affonda una mano in uno dei contenitori di sabbia e lascia filtrare tra le dita i granelli. «Così questo viene da Menka?» «Proviene dalle Sabbie della Memoria, oltre le montagne», annuisce il Tharliparan di Darshanor. «Proviene da quelle dune cantanti che si bagnano nella luce dell'Occhio di Menka». (Questo è il loro nome per il gigante gassoso, l'analogo fisico, nello Spazio Inferiore, del vortice della creazione). «I cristalli diventano capaci di catturare il pensiero. Fecondati dalla materia vivente dell'Askatharli essi formano i nostri strumenti». «Anche la piramide dello Spazio Superiore è stata fatta qui?»
«È stata sognata dai sogni dei morti, dall'Immaginante che brama che altri esseri lo conoscano. È stata proiettata sul vostro pianeta, e lì vi ha preso sostanza». Una vocina insiste: loro non sanno. Definitivamente loro non sanno. Sono semplicemente guidati, da qualcosa oltre il loro controllo, qualcosa che mormora nel persuasivo linguaggio della visione, Getkasaali, che ha affondato le sue radici così in profondità in loro, e in noi. Eppure questo qualcosa non esisterebbe, non potrebbe esistere, se non per loro... Un paradosso. Smettila, voce meschina, voce della paura! Questa a cui siamo è una soglia evolutiva: una volte oltre, vedremo tutto in una luce diversa, la luce dell'Aldilà. Ritorniamo al vestibolo. Saliamo la rampa a mensola, in alto oltre il piano dei sogni, fino al multi-piano. Come a Menfaa, questo si stende in tutte le direzioni, il centro di tutto sembra essere proprio qui, dove siamo noi. Veli mascherano le lontananze, dove scorgiamo alcuni eroi getkani in transito. Spariscono. Altri sostano in distanza, deboli, come in attesa. Eppure questo piano è diverso da quello di Menfaa. In qualche modo, ci sono molti altri livelli - semi-visibili, al massimo - altri 'assi' orientati in alto e in basso, attorno a noi. Il livello comune di questo piano e degli altri piani si mantiene fisso - certo, in una configurazione getkana! - ma ci sono altre potenziali configurazioni aliene contrapposte e interconnesse, centrate sul livello primario di questo piano. Esse sono in uno stato di... semiesistenza, fuori fase. Se potessimo mettervi piede, se potessimo decidere la loro piena esistenza, ci trasferiremmo non a Lyndarl o Shabeet ma a... un altro pianeta. Zerain. O la Terra. Qui è il punto di scambio, il perno. «Molti pianeti sono congiunti al Pianeta di Dio, attraverso lo spazio che li immagina». Lo Zeraini gesticola. «Un eroe sceglie il proprio sentiero. Immaginandolo lo fa esistere. Quando uno di voi muore, l'altro può tornare a casa a piedi. Per tutta la strada». «Il respiro dell'Essere traversa continuamente tutta l'esistenza», mormora il Tharliparan di Shabeet. «Rinnova continuamente tutta l'esistenza. In ogni momento l'intero universo cessa di esistere e viene di nuovo rigenerato». «Volete dire che lo spazio-tempo viene attivato e disattivato continuamente?» «È quello che Samti ci ha detto nella piramide sull'isola di Menfaa», di-
co a Ritchie. «Ma tu non eri compos mentis in quel momento». «Cristo», esclama Ritchie. «Capisco. Tutti i tipi più strani di avvistamenti possono essere spiegati in questo modo. Creature transienti, fantasmi, apparizioni - quelle non sono tulku! - dischi volanti. Quelli devono essere eroi alieni che vagabondano, che non accadono fisicamente, non del tutto, dato che non c'è nessun legame con il mondo nel quale vengono avvistati, il nostro. Sono in transito. È così che ci hanno mostrato gli avatar. Possiedono una tecnologia per controllare il fatto che l'universo si attiva e si disattiva!» «E questo richiede tempo?» chiede d'improvviso Zoe, allarmata. «Quanto tempo ci vuole? Perché deve volerci del tempo?» «A noi c'è voluto del tempo per arrivare fino a qui attraverso lo Spazio Superiore!» Le sibilo. «Altrimenti la nostra identità si sarebbe distrutta». «Guardate, ecco che arriva un eroe da Zerain». L'essere-barile indica. In alto. Ad angolo rispetto all'asse del multi-piano. Un secondo, fantasmatico Zeraini, mascherato, che tiene il suo scudo-specchio in posizione per consultare l'immagine riflessa, sta mettendo piede su uno dei livelli di scelta, gradualmente riguardagnando solidità e sostanza. Mette piede sul nostro comune livello getkano e si avvia pesantemente verso di noi. I due esseri-barile tuonano e strillano e gentilmente intrecciano le loro microdita. Il nuovo venuto è un esemplare ancora più tozzo. Ci saluta una volta che il 'nostro' zeraini ha spiegato chi e che cosa siamo. Scambio di pianeti! Lui era sul suo pianeta soltanto poco tempo fa! Oh Terra, non sei lontana... «Noi possediamo un Libro Divino sul nostro pianeta», dice Zoe con calma ai Tharliparan. «È chiamato il Corano. In esso c'è la storia di come un governatore chiamato Salomone chiese ai suoi compagni se uno di loro fosse in grado di portargli istantaneamente il trono che apparteneva alla donna che governava un altro paese. Lei veniva chiamata... la Yarrish di Sheba, ed era in visita a Salomone. Lui chiese alla sua gente di fare questo di modo che lei credesse alla volontà del suo Dio quando l'avesse visto accadere davanti ai suoi occhi». (Shabeet ascolta attento, mentre Darshanor sembra impaziente). «Una creatura Askatharli che era presente disse: «Oh, io ti porterò quel trono nel tempo che ti occorre per alzarti dal tuo stesso seggio, Salomone». Ma un normale essere vivente, che era chiamato Assaf, si fece avanti. «Io te lo porterò nel tempo che ti occorre per battere le ciglia», disse. E ciò fece. Eccolo lì davanti a loro: il trono di Sheba. Imme-
diatamente. L'uomo Assaf aveva realizzato questa... questa ricreazione del trono attraverso lo spazio Askatharli in un batter d'occhio. La creatura Askatharli ci avrebbe messo parecchi attimi per fare la stessa cosa». «Ebbene, Figlia di Stella?» «Solo questo: andare a Zerain o alla Terra prende tempo. Non è istantaneo». «Allora?» «Allora forse non è un reale potere Divino che lo realizza». Shabeet assorbe Zoe per un lungo momento. Alla fine raggrinza le labbra. «Questo Salomone desiderava impressionare la sua ospite con il volere del suo Dio? Ma l'Askatharli non possiede un volere, a parte il volere che noi stessi gli prestiamo. Il nostro volere è ancora ancorato al mondo, perciò è necessario un certo breve tempo. Ecco la tua risposta». «E dov'è il volere di Dio in tutto questo? Che cosa abbiamo qui?» aggiunge Zoe rapidamente in inglese. «Un trarre energia da poteri-genii: una specie di immenso, composito Jinn». «Zoe», dice Ritchie annoiato. «Ha veramente importanza se ci vogliono pochi attimi per attraversare anni luce? A me sembra sufficientemente veloce!» I due fatati Dindi sibilano e chiocciano impazienti. «Spidocchiamenti, tutto qui». Sono d'accordo. Di nuovo movimento: i deboli, distanti getkani che stanno sostando lontani fra i veli si avviano verso di noi. Portano parecchie maschere-caschi di riserva, in aggiunta a quelle che indossano. Arrivano; emergono... e s'immergono nella nostra realtà. «Quelle maschere sono perché voi le indossiate», dice Darshanor. «Hanno attraversato l'Askatharli per esserne temperate». «Vostre, sì», pigolano i Dindi. «Vostre», tuona il 'nostro' barile. Ritchie si ritrae. Tutti ricordiamo la tempesta infernale! «È del tutto sicuro, ora, Ritchie Blue», dice soddisfatto Darshanor. «Imparerete a vedere le energie della creazione che vi circonda. Allora potrete voi addomesticare quelle, e con loro voi. Quando accetterete una maschera, vicini all'Askatharli come voi siete qui, essa entrerà in una risonanza unica con voi. Una volta che il sentiero al vostro pianeta sarà aperto, anche lì si renderà disponibile il materiale per gli strumenti di visione...» I nuovi venuti ci presentano le nostre maschere e i nostri scudi-specchio.
Veramente ricordiamo tutto della tempesta infernale? Non c'era forse qualcosa d'altro? Qualcosa che Ritchie ha sentito e visto? Il momentaneo sospetto scivola via da me come una sfera di mercurio, frammentandosi in minuscole perle che svaniscono in cento crepe. Accetto la mia maschera. Tutti... Wu per ultima. Siamo 'in' un vuoto superfluido e superconduttore, così carico di potenzialità di essere che nulla può ancora essere. La distanza non ha più significato, neppure la dimensione, né lunghezza, ampiezza, altezza. Un intero cosmo è 'qui': in questa monade che siamo noi, ripiegate immensità in un sistema di punti auto-connessi. Questo spazio ha una granulosa struttura quantica, composta di 'momenti' di esistenza, anche se il tempo è un tutto unico con essa. Eppure in qualche modo possiamo scivolare fra la grana quantica in successive sfaccettature dell'esistenza; in altri luoghi. Linee di luce piegano attraverso il labirinto di livelli di questa monade, linee guida, sentieri verso altri aspetti di realtà. Si intrecciano in nodi, che sono mete. Da queste siamo separati soltanto dalle nostre vite legate al 'qui'. Se uno di noi muore, e l'altro vive, io so che l'altro può penetrare passo passo sulle ali della stessa immaginazione del morto. Perfino ora, possiamo penetrare con lo sguardo, riordinando quei nodi lontani, non focalizzandoci direttamente su di loro, ma sulle immagini riflesse dai nostri scudi. Perché qui si riflette lì, e lì si riflette qui; proprio come l'intero universo riflette ciò che lo sottolinea. Ed ora quei nodi si sciolgono, alla nostra considerazione... «Guardate il vostro mondo. Guardate gli amati luoghi a cui siete legati, attraverso le vostre vite», esclama Darshanor... o Shabeet. ...e i nostri scudi sono finestre, di chiaroveggenza. D'improvvisto siamo 'lì', sospesi angelicamente a penetrare con lo sguardo, a sognare le realtà lontane, mentre l'Immaginante dello Spazio Superiore le sogna nei loro indipendenti status, sostanza e realtà. Tutti noi vediamo luoghi diversi. Luoghi reali della Terra. Una città americana, l'affollata area del centro: i bastioni di un vecchio paese di Francia; il viscoso suolo nero e le nebbie avvolgenti dello Szechuan. Peter vede il Kilimangiaro puntare il suo cucuzzolo glabro impossibilmente alto al di sopra delle nuvole, disabitato Olimpo africano, emblema ossessivo del contatto celeste. Io vedo Atene, fu una visita magica che mi portò lì e a quelle isole; ora opero magie sospesa nell'aria... Sospesa nell'aria. La gente mi vede veramente. Vedono qualcosa. C'è un
improvviso tumulto nelle strade. Le macchine frenano e si tamponano. Gli autisti saltano fuori e mi guardano con gli occhi sbarrati, insieme ai pedoni. La gente vede... una luce, un'esistenza fantasmatica. Un angelo? «Faremo meglio a smettere!» E Zoe che scosta di scatto il suo scudo. «Che cosa stanno facendo loro? Vedono cose». Ha ragione. Non dobbiamo disorientare il pianeta, finché non saremo in grado di passare nella realtà, per spiegarne loro il miracolo. Con riluttanza, ci stacchiamo. Tutti. «Ritorniamo giù, ora, Figli di Stella», dice Darshanor. «Come vedete, non esiste alcuna parete interna qui. Ma la piramide ha una parete esterna. Saliremo la scalinata fino in cima, e voi vedrete nell'Occhio di Menka». Alcuni scalini corrono lungo il lato occidentale della piramide. Ci sono corrimano su entrambi i lati, e il vento è debole. Ma ci sono un sacco di scalini! Quando ci siamo trascinati in alto, senza maschere, fino al nido d'aquila di pietra, le coscie mi dolgono. René ansima sonoramente. Ci riprendiamo per affrontare le vertigini, e una vista favolosa. Darshanor indica verso ovest: «Guardate, l'Occhio». Una spaccatura rode parecchie migliaia di metri della catena montana, una valle nel cielo, e attraverso quella spaccatura si stende un venato bagliore arancione, un arto del gigante gassoso sospeso, enorme come se fosse caduto sul pianeta. «Mascheratevi, Figli di Stella». Facciamo come comanda. Il mondo solido si dissolve. Tutta la gloria del gigante gassoso penetra luminosa, fascia su vorticosa, tempestosa fascia. Sto cadendo dentro quel grande occhio iniettato di sangue! Il corrimano! Il corrimano è ancora stretto forte nella mia mano. La fonte osserva il suo figlio lunare attraverso l'abisso di quattrocentomila chilometri di spazio. Forze si estendono ad abbracciare la sua luna. Il suo campo gravitazionale? La sua magnetosfera? O qualcosa d'altro? «È vivo! Quella dannata sfera di gas è viva!» impreca Ritchie. «L'O... l'Occhio... è vivo», esclama rivolto a Darshanor. «No. Noi sfruttiamo le forze della zona della membrana, ma la vita è qui. Continuate a guardare. Siamo tutti in risonanza ora. Le vostre percezioni ne saranno modificate». Percepisco altre forze all'interno - oltre - la sfera di gas, forze che pro-
manano attraverso la stella da qualche altro luogo, fuori dalla realtà. Sono i campi di forza dello Spazio Superiore. Sono energie ed operatori, iper-numeri che esistono come angeli o Principi. Qualità immaginarie che devono esistere, o il mondo non potrebbe esistere. Eppure non possono mai essere scoperte e individuate in se stesse nel mondo. E vedo un milione di dita, anche, che affondano in Menka-Getka, saturando il pianeta mentre l'angelico - l'immaginario - precipita nell'esistenza come concreti viticci che mettono radici dentro la nostra carne: sottili filamenti che sono una sostanza unica nello spazio Askatharli. «È oltre la vita, Figli di Stella. Lì è il reame del Formante. Ma si introduce nel cosmo in questo punto, alla fonte, e diventa uno con noi. Il volere è sempre nostro, Figli di Stella. O vostro. O di qualunque altra razza che si leghi ad esso». Sento... mormorii nella mia mente, come le interferenze in un apparecchio radio. Sono attratta - di certo come tutti - da un desiderio erotico. Sì, percepisco il desiderio degli altri: uno stimolo sensuale verso la trascendenza, che ci richiede di fonderci l'uno nell'altra: il conoscente con il conosciuto. Il gigantesco mondo che ci sfiora mi fa dolere gli occhi. Ma non è esattamente il gigante gassoso fisico che io sto vedendo, gradualmente comprendo. È il gigante gassoso ideale, qualcosa nello Spazio Superiore che è anche localizzato in questo punto dell'universo fisico, un qualche enorme corpo i cui organi di senso noi siamo diventati, qualcosa che ci sintonizza per mezzo dei peli dorati! No, siamo noi che ci sintonizziamo con esso, e attraverso esso, con l'Askatharli! Fa male. Mi strappo la mia maschera di visione. Ecco le montagne di nuovo, e quella profonda fessura, e l'arco gassoso arancione. Domani dobbiamo cavalcare verso la Cavità nelle Colline, che non è quella fessura nella montagna che vediamo da qui, ma qualcosa d'altro. Perfino quella fessura si trova troppo in alto sulla falesia ripida, impossibile da scalare. Dobbiamo penetrare in Menka, e oltre le Sabbie della Memoria incontrare le nostre morti e sconfiggerle. Dobbiamo. Dobbiamo. Scendiamo lentamente le centinaia di scalini. Scendere è una faccenda più difficile che salirle. Di nuovo su terra ferma, ci sgranchiamo le gambe. «Fiuu!» ansima Peter. Sorride e mi prende la mano, non per tenersi in piedi. No, in trionfo. Presto, presto, la nostra apoteosi.
Non siamo nemmeno a mezza via nello spazio aperto fra la base della piramide e la zigurrat più piccola, quando un violento stridio strappa le cortine del cielo. Due veicoli a forma di cono si tuffano dal cielo verso di noi, in una scia di tuono. Avvampano! «Scudi di ablazione», urla Ritchie. «Protezioni di rientro!» I due veicoli si stanno spezzando in volo. Dietro i gusci brillanti rotolano fuori delle capsule uovo, dozzine di forme a bomba scagliate su Darshanor, e su di noi! «Giù! Buttatevi giù!» Bruscamente, fragili paracadute si aprono e le capsule scendono più lentamente, ma sempre molto rapide. Non sono bombe. Sono... Un getkano ci urla: «I Raggruppati!» parte quinta L'occhio di Menka TRENTAQUATTRO Quegli scudi incandescenti non toccano nemmeno il suolo. Qualcosa li strappa via a mezz'aria. Qualcosa li schiaccia, come nella stretta di un pugno. Sono implosi, cancellati dal cielo. A qualche distanza, una coppia di getkani mascherati brandiscono i loro scudi-specchio puntandoli sulle capsule in discesa. «L'hanno fatto!» esclama Ritchie, mentre mastichiamo la terra. Altri eroi stanno accorrendo dalle zigurrat. Una miscela di energie elettrizza l'aria. Forme demoniache compaiono in vita a mezz'aria, spuntando accanto ad una capsula, poi ad un'altra, distruggendole, ingerendone i pezzi. Creature chimeriche, rutilanti berserker! Samti-menVao sta correndo, ora, dalla piramide verso di noi. Altri eroi stanno convergendo, per proteggerci. Una capsula, poi una seconda, colpiscono il suolo. Immediatamente si spalancano, ognuna vomita un insettoide da una bianca massa gelatinosa. «Gel di decelerazione», sussurra Ritchie. Le creature si orientano subito. A lunghi salti raggiungono i due getkani più vicini e li fanno a pezzi con i loro avambracci seghettati, soltanto per essere distrutti loro stessi un momento dopo da demoni di sogno che si co-
agulano attorno a loro, terrificanti quanto gli stessi insettoidi. Ormai un'altra dozzina di capsule sono scese, si sono spalancate e hanno vomitato i loro guerrieri. Se solo fossimo più vicini alle zigurrat! Non osiamo muoverci. La battaglia sta infuriando dappertutto, casualmente. No! Da ognuna delle nuove capsule vicine gli insettoidi si dirigono verso di noi, impegnandosi in combattimento con qualsiasi getkano e demone del sogno che incontrano sulla loro strada. È soltanto che la maggior parte delle capsule è scesa troppo lontana e i loro occupanti si sono abbandonati ad una casuale distruzione diversiva, come se valutassero la propria sopravvivenza in combattimento in termini di pochi secondi! Cramp! Una capsula colpisce il suolo a trenta metri da noi, facendoci rotolare e disperdere. Del gel viene espulso, portando con sé la bestia che ha protetto. Questa ha due gambe piegate stranamente. Eppure si solleva e si riprende in un attimo e si dirige su di noi. Sono veramente io che urlo, o qualcun altro? Cerco di strisciare via, correndo e inciampando. Afferro la mano di Peter, tirandolo dietro di me. Anche gli altri stanno fuggendo disordinatamente in tutte le direzioni, mentre Samti urla: «No! Rimanete uniti!» Con quella bestia alle nostre gole in un attimo? È la battaglia del Pilgrim ripetuta, solo che questa volta la sua terrificante visione non è nascosta. Un getkano privo di maschera si scontra con noi, facendoci cadere in un mucchio. Non è stato per caso! Cade e ci blocca le braccia. Lottiamo, cercando di liberarci. «Fermi! Fermi!» strilla... di dolore? gli abbiamo rotto qualcosa? Il mostro diretto su di noi è già fatto a pezzettini. Una cosa verde simile ad un'arpia con chele enormi e un'ala spezzata sta calpestando i rimasugli, gracchiando in trionfo. Perde consistenza e svanisce, ridissolvendosi nell'immaginazione. Tutte le capsule sono scese. Presumibilmente. Molte, fuori vista. Molti getkani giacciono morti. In un ampio perimetro attorno a noi sono dispersi i resti dei Raggruppati, alcuni ancora sferzano i loro pungiglioni. Spettri demoniaci ancora oscillano dentro e fuori dall'esistenza, i più fuori. D'improvviso sono tutti scomparsi. Sono rimaste soltanto le capsule spaccate che essudano gel, e insettoidi distrutti, e alcuni corpi morti di indigeni. L'intera folle scaramuccia dev'essersi conclusa in due minuti, o tre. E noi siamo ancora vivi. Tutti e sei. Ancora vivi. Il getkano che ci ha buttato giù ha rotte tre delle sue lunghe dita. Geme e si rattrapisce.
Tremanti ci alziamo. Ci raggruppiamo, impressionati, euforici, poi vergognosi. Ma che altro avremmo potuto fare? Il getkano con le dita spezzate si raddrizza e si allontana lentamente verso una delle zigurrat, ignorandoci. «Vi hanno quasi raggiunto», dice Samti, unendo due dita, poi staccandole come una forbice. «La vostra vendetta sarà dolce per tutti noi, quando diventerete eroi voi stessi e vi tenderete per mezzo dei vostri amici prigionieri a evocare demoni di sogno laggiù. Siamo così felici di avervi salvato. Quelli che sono morti sono semplicemente entrati nell'Askatharli, per rivivere». «I Raggruppati non potrebbero riprovarci?» ansima Ritchie. «Fuori sulle Sabbie della Memoria? Oh, no. Inoltre, hanno perdute molte delle loro unità zombie. Avranno la necessità di allevarne ancora per sostituirle. Sapevano che voi eravate qui, Figli di Stella. Perciò il canale esiste veramente... verso di loro!» «Hanno sparato le loro cartucce». Ritchie sogghigna. «Già, vi siamo debitori. Vi ripagheremo». Già il disastro di capsule distrutte, di fragili paracadute, di gel e cadaveri di insettoidi sta cominciando ad essere ripulito, e i morti getkani portati via per essere rasati e eliminati. «Un colpo è stato portato», annuisce Wu. «Ma chiude fuori loro, o chiude dentro noi?» «Come puoi dire una cosa simile? Quando hanno sacrificato le loro vite per noi!» «Ah, vite che loro non possono perdere, Amy». «Spero che noi possiamo terminare le nostre con altrettanto coraggio!» TRENTACINQUE La cavità nelle Colline è un tunnel perfettamente rettilineo lungo molti chilometri, scavato molto tempo fa. È alto; è largo; sale dolce continuamente verso l'alto. Un'antica e possente opera d'ingegneria! (Più precisamente è una moderna opera d'ingegneria; comunque, il 'moderno' è ora nel passato e l'antico è tornato...). La roccia scolpita brilla di una fosforescenza che è forse naturale, forse artificiale, e fornisce una dolce luce azzurra sottomarina. Mezzo chilometro all'interno del tunnel incrociamo un carro trainato da un rhaniq che ritorna da Menka con un eroe che cavalca la bestia. Il carro trasporta barili di sabbia luccicante... Salutiamo; proseguiamo.
«Pensate se fosse un sistema di memorizzazione?» riflette René. «Innumerevoli trilioni di chip al silicio disseminati per tutto Menka, in grado di essere impressi... con il pensiero. Bagnati dalla luce riflessa dall'Occhio di Menka... luce che vibra in una direzione soltanto...». S'interrompe. «Non riesco a fissarlo. È come se qualcosa continuasse a scivolarmi dalle dita». C'è una brezza sottile nel tunnel. Un differenziale di pressione fra un versante e l'altro delle montagne? O è qualcosa dentro di noi, questa pressione? Così che l'impensabile rimanga effettivamente impensato... Che cosa sta dicendo René? «Se gli aska - le anime - sono soltanto dei sottoprogrammi, che credono nella propria esistenza sovrana, eppure in grado di essere assemblati in un qualche programma principale che non possono riconoscere... E se questo programma principale acquisisce energia ed un accrescimento d'esistenza più sottoprogrammi ingloba in sé...». Sbadiglia. Anch'io ho sonno. Qui è così tranquillo. Il passo dei rhaniq è un massaggio calmante... Monotono, il tunnel, in realtà. Sognante, la luce azzurra. Sognante. Una seduta di chiacchiere si sta svolgendo nella sala mensa. Il Capitano K., Zoe ed io stiamo ascoltando Salman concionare. «Ma non capite, c'è un livello spaziale superiore... di pensiero creativo, di puro potenziale. Questo è lo Spazio Superiore, l'iperspazio. Noi lo stiamo percorrendo come una scorciatoia proprio ora: una specie di volo su un tappeto magico. Gli angeli che sono venuti sulla Terra provengono da questo livello superiore, da quello che noi chiamiamo la 'Presenza dell'Autorità', hadrat al-rububyya. Forse questo sarebbe un po' difficile da spiegare all'Autorità Spaziale Comunitaria, no?» Salman sorride, convincente. «Non è una realtà accessibile agli strumenti oggettivi del mondo inferiore, il mondo dell'esperienza sensoria che noi chiamiamo mushahada». «Ma in realtà una macchina esiste», obietta Heinz. «Sicuramente il motore dello Spazio Superiore è una vera macchina». «Non è uno strumento che noi avremmo mai potuto realizzare. È stato... inserito nella nostra realtà. È come uno strumento formato da un angelo dalla sua stessa sostanza. Ma non dobbiamo pensare ad un angelo come ad una 'persona', soltanto perché noi razionalizziamo gli angeli ín questo modo. È una porzione dell'essenza del livello superiore». «Buona cosa che Madame Wu non stia origliando!» rido a mezza bocca. «Ja, è un'anomalia», consente Heinz. «Una specie di miracolo perpetuo,
mantenuto in esistenza da una forza poderosa, che ci usa per mantenere la concretezza del motore. Noi siamo un canale, un trasduttore di forze superiori. Ma qual è il gradiente fra un'apparizione momentanea e una che rimane in esistenza per un tempo molto lungo? Noi non possediamo la fisica per discutere di questo». «Abbiamo noi stessi», insiste Salman. «Abbiamo degli strumenti soggettivi». Il Capitano K. sorride, senza dubbio visualizzando il sorgere di una tecnologia paranormale da questa spedizione. «Forse è come il poeta disse della Russia. 'Non si può comprendere la Russia con la mente; si può solo credervi!'» (Grigory, io conosco te! Io sono stata te!) «Dobbiamo derivare le equazioni di campo», annuisce Heinz. «Di questa struttura 'come se'; un'analisi vettoriale di come il tuo 'angelico', archetipico livello viene tradotto nell'attualità degli eventi, dalle coordinate di un sistema a quelle di un altro. Ma dev'essere fatto all'esterno dell'ordinaria realtà di veglia». Ordinaria realtà di veglia. D'improvviso comprendo. Dove come e perché. «Ascoltatemi, tutti quanti! Questo è già accaduto! Sta accadendo di nuovo, all'esterno del tempo, nello spazio onirico per me, nello spazio memoria per voi. Heinz, Grigory, Salman: siete tutti rinchiusi insieme nello spazio memoria. Non siete per nulla en ruote verso il Pianeta di Dio. Ci siete già! Siete nello spazio all'interno del sistema solare del Pianeta di Dio. Siete prigionieri di una qualche specie di aliene cose-insetto giganti con una mente collettiva; e vi stanno sondando la mente e la memoria! Io sono giù sul Pianeta di Dio, ma sono anche in contatto con voi, perché noi siamo fondamentalmente uno: uno nell'Immaginante ultimo! Mio Dio, quegli insetti hanno appena cercato di ucciderci tutti per impedirci di arrivare dove stiamo andando. Ora siete in un terribile pericolo». «Questa è una follia», si acciglia Heinz. «Prima ci attacchiamo da soli, grazie all'amico Jacobik.» «Non evocarlo! Potrebbe arrivare». Se non è già in agguato nelle vicinanze... «Aspettate», dice calmo il Capitano K. «State calmi. Concentratevi. Ricorda Samarcanda, Salman? Ci siamo incontrati lì. Questo è tutto vero. Ha parlato di veli. C'è un velo sui nostri occhi!» Salman è irrigidito. «Sì... certo! Ricordo! Grigory, stiamo già usando questi strumenti soggettivi. Noi siamo loro. Le nostre memorie sono diven-
tate un linguaggio. Veli? Grigory... L'Essere Velo! Satana!» Credo che sia questo ciò che dice. Qualcosa del genere. Heinz si tira la barba. «È vero? Forse non possiamo comunicare direttamente con questi alieni a causa di diversità concettuali. Così devono usare noi come mezzi di comunicazione». «Comunicazione?» Esclamo. «Loro sono il nemico. 'C'è una guerra in Cielo', non ricordate? 'Venite al Pianeta di Dio, venite al successo'. Siete nelle loro mani, o nelle loro chele. Hanno appena cercato di ucciderci. Io sono libera, e sto cavalcando sul Pianeta di Dio. Anche Zoe. Ma Zoe qui è soltanto un'immagine riflessa. Una persona, un costrutto delle vostre memorie. Vedete, è silenziosa. Immobile. Non può inserirsi nel dialogo. Non vi ha alcuna funzione». Zoe esplode in una risata. «Un corno, Amy! Oh, un corno! Anch'io sono qui, proprio come te. Noi siamo da qualche parte in quel lungo foro nelle colline, a dorso di rhaniq, giusto? E siamo all'interno dell'esperimento dei Raggruppati, proprio all'interno. Possiamo svegliare questa gente, Amy? Possiamo aiutarli a riconquistare il vero Pilgrim? O è troppo presto? Dobbiamo attendere, vero, finché non potremo evocare i poteri che i getkani hanno usato ieri?». Fa scorrere lo sguardo nella sala. «Se solo poteste tutti aprire gli occhi!» Il Capitano K. si schiarisce la gola. «Lei è venuta qui con mezzi anormali, Dove. Un potere. Che cos'è?» «Oh, quello.» Zoe ed io ci scambiamo uno sguardo, perché in questo spazio onirico e di memoria nessun tegumento dorato ci ricopre. Zoe è di nuovo nera, ed io bianco latte. Lei sorride apertamente. Loro non sanno nulla del simbionte. «È come del pelo, come fili dorati. Ci cresce sulla pelle, dappertutto...». Racconto loro del manto dorato e dei sogni condivisi, della fonte della Creazione, e del miracolo del Pianeta di Dio. Racconto loro di Darshanor, e delle Sabbie della Memoria che presto calpesteremo, e delle nostre morti diadiche che ci trasformeranno. Salman sembra spaventato. «'Se il sigillo viene sottratto dagli scrigni del tesoro di questo mondo inferiore, nulla di ciò che Dio vi aveva riposto vi rimarrà, ogni cosa verrà trasportata nell'altro mondo'. Grigory, gli Harxine...» «Altri mondi stanno unendosi alla rete, mio caro Salman. I getkani sanno molto bene come mantenere intatte le fondazioni del mondo». «Guardate». Heinz indica l'autocuoco. Lo schermo si è acceso.
Saluti, umani. Noi siamo i Paracomputer di Harxine. Vi trovate nello spazio memoria di gruppo, con visitatori mentali. Loro sono soggetti al controllo censorio dell'Essere Velo, ma non possono ancora aggredirci. Presto saranno in grado di farlo, e in quel momento purtroppo dovrete essere soppressi, a meno che non riescano a strappare il velo di loro stessa volontà. I nostri Raggruppati sono ora programmati per questa soppressione. Ne saremo profondamente addolorati. Ci tratteniamo ora, imprudentemente, per un atto di rispetto nei confronti delle vostre vite. Il Capitano K. ruota su se stesso. «Dove? Denby?» Zoe sembra colpita, confusa. Ma io so. Tutto mi si riversa dentro. Tutto si rimette insieme, spaventosamente. E tutto può essere mandato in frantumi di nuovo, e i frammenti nascosti, a discrezione insidiosa dell'entità che incombe sul Pianeta di Dio e gli altri pianeti che ha irretito! Il Capitano K. e Heinz e tutti gli altri saranno spazzati via a causa di ciò che stiamo per fare. E la Terra sarà inghiottita nell'abbraccio iper-spaziale di questo angelo ribelle... «Iblis», mormora Salman. «Che disfa la Creazione. Dobbiamo morire, Amy, dobbiamo morire. Gli Harxine sono più importanti delle nostre poche vite». Zoe deve trovare qualcuno che le spieghi tutto questo... «Morire è la chiave, giusto? Tu dici che dobbiamo morire, Salman. Ma morire è quello che noi sei non possiamo fare! La morte ci è negata; pure la conoscenza degli essere viventi, le anime degli esseri viventi non vengono riprocessate nel definitivo suolo dell'Essere. Sono intrappolate in questa onda stazionaria, invece, l'Essere Velo». «Può ancora essere uno sviluppo evolutivo», interviene Zoe aspra. «No!» esclama Salman. «Mai. I vostri getkani sono soltanto... unità di questo meta-essere, usati da lui! Contro il mondo, contro la realtà». Dov'è il nostro esperto della morte, ora? Il tulku di Jacobik. Ho bisogno di te. «Il punto è», dice Heinz. «Stiamo affrontando un sistema materiale o uno completamente immateriale? Un sistema che possiamo soltanto combattere nella nostra... immaginazione? Sembra essere entrambe le cose. Precipita dentro il mondo, dentro i nostri corpi. Contagia la struttura cristallina di quelle sabbie. E il suo punto d'origine è in qualche modo asso-
ciato con il gigante gassoso. Mi chiedo quali teorie hanno gli Harxine a questo proposito?» Si avvicina alla tastiera alfabetica dell'auto-cuoco, che Jacobik una volta aveva usato scorrettamente. (O non l'ha fatto ancora, in questo luogo della memoria, ora deviato completamente dai binari della memoria in un nuovo spazio mentale dove possiamo incontrarci e fare progetti?) Il Capitano K. solleva la mano. «No, prima dobbiamo assicurarci che Dove e Denby - o almeno una di loro - ricordino. Devono vedere attraverso questo dannato velo, una volta ritornate laggiù. Se esso lo permetterà. Forse... Sono già in uno stato di coscienza alterato molto strano, ma probabilmente posso ipnotizzarle. Io sono un buon ipnotizzatore. Forse posso imprimere un comando ipnotico per richiamare questa informazione. Questa non viene dimenticata nel senso normale del termine, se dobbiamo credere a Dove. È ancora disponibile, all'immaginazione generale, dove la parte principale, immateriale dell'Essere Velo esiste come parte di tutti coloro che ha elaborato. È soltanto rinchiusa. Dobbiamo cercare di trovare la chiave che le aprirà le porte. Un grimaldello. Dev'essere qualcosa di... impressionante. Di scuotente. Qualcosa che agisca in modo talmente vivido e fondamentale da permettere loro di afferrare questa conoscenza e renderla una parte profonda di se stesse». «La morte arriva come una frustata per la maggior parte delle persone», nota Salman. «Morte! Certo. Il momento della morte, il momento della trasfigurazione. Appendiamo lì la chiave». «Tod und Verklarung!» esclama Heinz. «Morte e trasfigurazione in questo nuovo stato, e sarà il momento in cui cercheranno di attaccare gli Harxine per mezzo nostro! Ora possiamo trattare con gli Harxine. Dovranno lasciarci vivere finché Amy e Zoe siano trasfigurate... perché è in quel momento che la chiave verrà usata. La sua chiave, Capitano». «Trattiamo», dice il Capitano K. «Proceda. Altrimenti, niente ipnosi». In realtà, sta mentendo. Lo capisco - glielo leggo in viso, ma né gli Harxine né i Raggruppati saranno in grado di leggerlo. Non apporrà la sua firma alla distruzione della Terra, che noi cederemo all'Essere Velo, se non comprenderemo. Non per la ricompensa di poche ore di vita ulteriore. È per assicurarsi completamente che il suo piano si completi, e che gli Harxine non distruggano lui, e il piano, prematuramente. Ma, quando Heinz si mette alla tastiera...
TRENTASEI Devo essermi addormentata. Stiamo uscendo dall'azzurro sottomarino della Cavità nelle Colline nella luminosità del mezzogiorno. Zoe sbadiglia. Ci fissiamo per un attimo, chiedendoci perché quello sguardo. Niente. Per nessuna ragione. Una piana di ciottoli si stende dalla parete della montagna, chiazzata di laghi nevosi di bianchi frammenti di porfido. Dune increspano l'orizzonte. E il bagliore d'oro e zafferano dell'equatore del gigante gassoso è la più grande fra le dune. «Peter...» «Hmmm?» «Chi di noi sarà?» (Chi muore. È non detto. Entrambi sappiamo quello che voglio dire). «Non ne ho la minima idea. Come succederà è quello che mi piacerebbe sapere». «Oh, io lo so. Il nemico avrà la forma di Jacobik». «Non è abbastanza che tu l'abbia già ucciso una volta? Dio, devi ripetere la performance?» «Non sei geloso di lui, per caso?» «Geloso di uno spettro? Amy, non ti ritengo responsabile per... quello che è successo. Non eri tu, amore. Eravamo tutti noi, che abbiamo incanalato l'odio attraverso te». «Il suo aska resta. È in attesa». «Di te? O di me? È questo che vuoi nel tuo profondo? Che lui mi uccida?» «Allora tu sarai il signore del mio cuore, amore. Non discutiamo. Siamo tesi. Nessun essere umano è mai andato alla sua morte con una garanzia totale che non c'è nessuna morte. Ancora non riusciamo a crederci del tutto vero? Oh, essere liberati da quel peso, Peter! E che tutti quanti sulla Terra ne siano liberati!» Peter sprona il rhaniq nelle costole, facendoci raggiungere SamtimenVao. «Samti, menVao è uguale a come Vilo era da viva?» «Uguale? Noi siamo Samti-menVao, Figlio di Stella, menVao è... come posso dire?... il sé perfetto di Vilo. Qual è lo speciale gusto di questa perfezione? I suoi ricordi sono spalancati per me, eppure sono intoccati da dolore o rimorso e sospetto o infelicità. Non sono viziati dall'errata, parziale
qualità dell'esistenza ordinaria. Lei ora risplende di una luce nuova, ed io rifletto quella luce: il suo specchio». «Ma lei è sempre se stessa?» «La personalità resta, sì. Non è la semplice, parziale personalità della vita. È una pienezza, un compimento di ciò che lei ha sempre desiderato essere. Presto lo saprete da voi». Lucertole guizzano sui ciottoli: camaleonti, che assumono i loro colori. Macchie di giaietto e carbone sgambettano lontane dagli zoccoli delle nostre bestie, sollevandosi su gambe esageratamente lunghe. È come se un grumo di terra venisse alla luce spontaneamente, gli spuntassero i piedi, per poi ritornare immobile come un sasso. Quando corrono via su una macchia di porfido bianco neve assumono una pelle bianca come neve. Samti fischia verso le lucertole in fuga. Queste si fermano in ascolto, catturate dal suono. Lui scende, sempre fischiando, e ne prende alcune per cibo, e le ficca in un sacco. Sembra quasi ingiusto nei loro confronti, piccole guizzanti cose ipnotizzate. Quando ci accampiamo la sera, cuciniamo carne di lucertola. La loro carne alla robbia ha lo stesso gusto del salmone affumicato. Il sé perfetto? Ti conosco veramente, Peter? O tu me? Mi sento come una creatura priva di passato. O soltanto con un passato eroso, nozionale. Sono un vaso misteriosamente apparso nel mezzo di un deserto alieno, pieno dell'acqua della vita. Un essere gratuito. Tutto il mio passato non ha alcun significato, accanto a ciò che sta per accadere. Forse il mio vaso è sempre stato pieno per metà, non fino all'orlo. Perché ho bisogno di riversare la vita di Peter dentro la mia, per completarmi? O la mia dentro la sua? Sono così incompleta e parziale da aver bisogno di un'altra anima? «Sogni felici». Mi stringe la mano. «Quali saranno?» «Sto perdendo i miei sogni, Peter». «Lo so. Si aggiusterà». Sediamo in cerchio attorno al fiottante fuoco, fatto da combustibile che portiamo con noi. Uno dei rhaniq, rannicchiato come uno stendi-biancheria crollato, bela malinconicamente nello strano crepuscolo dorato. Perché il sole è tramontato eppure una porzione possente del gigante gassoso brilla sempre luminosa, mentre il resto del segmento è sospeso spettrale, privato della sua radianza derivata, e forma una solida nube monocroma. Perciò noi vediamo l'enorme, ricurvo triangolo di una luna. «Dovremmo provare a raggiungere di nuovo il Pilgrim, in un sogno co-
ordinato del mondo reale», annuncia Wu con modi spicci. «Perché mai? Ancora un altro giorno o due e saremo... trasfigurati. Saremo in grado di intervenire direttamente». Trasfigurati... Tod und Verklarung: morte e trasfigurazione... Ma, da dove ho preso queste parole? Mi sento profondamente riluttante. Qualcosa in me mormora 'no'. Forse perché l'ultima volta ho incontrato... non desidero incontrare Jacobik sulla nave. Jacobik è la morte incarnata. Non è ancora tempo di incontrarlo. «Per spiare il territorio, Amy». «La cavalleria maoista ancora all'attacco?» ghigna Peter. «Io non ci sto». «Anch'io», esclama Ritchie. «Veramente, è stato Sun Yatsen a inventare lo stile degli abiti», dice Wu. «È soltanto una delle perversioni della storia che venga invocato il nome di Mao». Per qualche ragione anche Zoe recalcitra, ma alla fine si decide. Ed anch'io. Quando Heinz si mette alla tastiera... È il momento proprio successivo al momento precedente; eppure un golfo di tempo si spalanca fra i due. «Aspetti», dice il Capitano K. «Qualcosa è successo, Dove. Che cos'è stato?» «Tutto ha cessato di succedere... poi è ripartito! Il tempo è trascorso. Noi abbiamo proseguito il nostro viaggio. Siamo accampati nel deserto. Zoe?» Lei è ancora qui, o di nuovo qui, grazie a Dio, ma è veramente lei? Zoe si apre in un rapido sorriso. «Sono veramente io, Amy». «Stavamo progettando un viaggio onirico al Pilgrim, un'esperienza extra-corporea. L'abbiamo già fatto una volta. Riusciamo a vedervi in un tempo successivo a questo, nel presente. Ma non possiamo interagire con voi, non ancora». «Ricorda nulla, Dove? Quando è nel suo corpo?» «No». «Denby?» Zoe scuote il capo. Trema. «Sento dei passi sopra la mia tomba... Ritchie e René e Wu stanno conducendo le loro cavalcature surrealiste attraverso quel paesaggio di crateri lì fuori, senza sapere che noi in realtà siamo qui dentro». «Forse siamo con loro, come immagini riflesse». Salman intreccia le dita, e fa schioccare le giunture. «Sulla tua tomba?
Ma che cos'è la morte?» «Samti - l'eroe getkano che ci accompagna - dice che il suo amore morto è diventato la forma perfetta del proprio sé vivente». «Dice anche che la personalità resta», aggiunge Zoe. «L'ego persiste, scolpendo quegli immaginari mondi fittizi». «Se non c'è alcuna morte», prosegue Salman deciso. «Allora il passato non ha alcun significato. Il passato scompare. Non c'è alcuna possibilità di qualsiasi nuova idea, qualsiasi nuova presenza, se non c'è alcun dialogo fra la morte e la vita. Nessun futuro, nemmeno. Il mondo lentamente si sgonfierà come un palloncino». «C'è un dialogo. Samti e menVao: vita e morte». «È un falso dialogo, Amy. Vita e morte sono diventate la stessa esperienza. La rimozione della morte dall'equazione dell'esistenza è l'inganno definitivo. Questo è il vero male dell'Essere Velo. Intercetta le anime, e le immagazzina in se stesso. Usa un collettivo di anime come il proprio essere, e vela la realtà. E lentamente distrugge mondi, perché non c'è più alcuna storia, più alcun 'divenire'». «La teologia è proprio quello di cui abbiamo bisogno ora!» sospira Heinz. «No, gli Harxine sono molto interessati a questo. È stato il loro punto di contatto con me, nel mio ricordo di Isfahan. Mi hanno detto questo per mezzo delle labbra del mio Mulla. Stanno cercando di sviluppare regole cibernetiche per il Creatore e il Creato». «Una teologia cibernetica? Per l'universo come una Scatola Nera?» Heinz si indispettisce. «Con lo sperimentatore - Dio - inaccessibile a noi, che siamo il contenuto della scatola? E come input che cosa?» «L'energia creativa, la gerarchia di discesa dall'hadrat al-rububiyya al mushahada: dalla Presenza dell'Autorità al mondo sensoriale ordinario». «Ach, sì. E l'output... quale sarebbe? La memoria della vita, filtrata dalla morte? O è Dio la Scatola Nera, per noi? L'inaccessibile che sembra più falsamente accessibile dal Pianeta di Dio?» «Tutto si riduce alla morte, vero?» Sfida Salman. «La morte è stata allontanata. C'è un circuito di energia - un circuito di essere - fra Dio e il mondo; e l'output di ritorno verso Dio è bloccato. Questa è una situazione di loop chiuso. Qualcosa esiste in virtù di questo loop, sussiste e lo sostiene. Blocca la via di ritorno all'Assoluto, e porta al disfacimento la realtà. Il velo di Dio è diventato male. Che è un anagramma di 'velo' in inglese, 'veil-evil', no? La stessa cosa capovolta!»
«Oh, l'Islam è sempre andato in cerca di significati nascosti nelle radici delle parole», Zoe scuote le spalle. «Nelle parole arabe, forse. Ma è vero: un altro anagramma è live, vivere, l'opposto di 'morire'! Il maligno perpetuarsi di 'Io vivo' - la negazione della morte - è la definizione di questo male». «Tratti, Anders», ordina il Capitano K. Ma mentre Heinz si prepara a battere i tasti, la risposta già scorre... Voi percepite la nostra ricerca correttamente, umani. Noi abbiamo congelato, poi scongelato, questo spazio-memoria perché avesse la stessa configurazione per i vostri visitatori mentali se fossero stati in grado di ritornare; come ora hanno fatto. Siamo interessati alla vostra offerta, prego, procedere con questa ipnosi. Non vi sopprimeremo fino alla prima manifestazione di aggressione. Ma allora noi dovremo farlo, al momento della prima intrusione. I nostri Raggruppati sono disposti attorno a voi. Agiranno immediatamente. «Allora», dice il Capitano K. «Prima lei, Dove. Denby per seconda». «Sono pronta». Mi metto di fronte a lui. Inizia il suo paterno incantamento ipnotico. Tutto sembra molto normale, quasi banale. Io sento quello che dice. Non mi addormento (ma per questo, io sono addormentata). D'altra parte... Morte. Al momento della morte. Dopo il momento della morte. E della trasfigurazione. Io. Dovrò. Ricordare. Questo. Possiedo la chiave. La chiave è la morte. Al momento della morte... La sala mensa diventa vaga, e scompare. Dov'ero? Che cosa dovrei ricordare? Ricordare,... ordare, ardore: l'ardore del nostro fuoco da campo. TRENTASETTE La cavalleria maoista aveva invaso di nuovo l'asteroide. Aveva abbordato il Pilgrim. Aveva marciato sulla sala di controllo dove i nostri amici giacevano legati, questa volta con un insettoide sospeso su ognuno di loro. Aveva marciato, nella gravità onirica; ma non aveva interagito con la realtà. Ed io ero stata lì con loro, così dicono loro. Io so di non esserci stata. E nemmeno Zoe... Gli zoccoli dei rhaniq lasciano file di fossette nelle dune, più nette e me-
no slabbrate di quanto sarebbero sulla Terra, meno sollecite a riempirsi, anche se la brezza è già all'opera, smuovendo granelli di sabbia. Queste colline sabbiose si ergono per un'altezza da cento a centocinquanta metri, e sono sgargianti di colori, almeno su un versante. I pendii illuminati dal sole brillano attraverso tutto lo spettro come petrolio rovesciato. Ma i pendii all'ombra si presentano di colpo freddi e opachi, prosciugati dell'iridescenza al di là di ogni netta cresta. Sono anche sgargianti per l'orecchio queste dune. Ognuna possiede la propria voce. Il vento e le vibrazioni del nostro passaggio le attivano, e sembrano conversare l'una con l'altra senza parole, la voce di ogni duna scolpita dalla sua forma corrente. Parlano con un rombo di tuono, con un lontano canto di sirena, con un sottile tremante trillo, con un rullo di tamburi, un pizzicar di corde, un battito del cuore (thud, thud, thud), un boato, uno scampanio sonoro. Il deserto parla, o fa della musica per se stesso, intorno a noi mentre passiamo. Noi siamo formiche che marciano sopra le corde tirate e la pelle di tamburo tesa di qualche gruppo di strumenti che si fondono e si distaccano l'uno dall'altro. È un luogo ipnotico e fantastico. Questo sottile e costante rintocco, il debole battito, lo scampanio fanno effetto per primo su Ritchie. Si schiaffeggia le orecchie con le palme delle mani a coppa per schiacciare gli invadenti suoni. Afferra la sacca di viaggio, e ne trae un L-27. «Che cosa succede, amico?» esclama René. «Non c'è niente qui. Mettilo via». Le dune arricciate gli rimandano il grido, in derisione. «Ritchie», Wu, con voce carezzevole. «Maledizione, sono il comandante, sempre e comunque. Stavo solo controllando l'equipaggiamento». La campana di un tempio rintocca sotto i nostri piedi. Il ragazzo pazzo fa fuoco con il suo fucile contro la duna, bruciando, ferendo, scavando fasce di incandescente quarzo fuso nei suoi fianchi. Un aspro stridio corre attraverso le sabbie, un grido di dolore, una sfida. Lui spara di nuovo. Di nuovo il violento grido mi perfora, facendomi star male. Il mondo s'impenna e si scuote. Le dune sono enormi onde di mare. Samti-menVao avvicina la sua cavalcatura. «Volete già incontrare la morte? Non state indossando le vostre maschere». «Il fucile funziona ancora», sogghigna Ritchie. È impazzito, un po'. Ma ripone il laser nella sacca da viaggio. Queste sabbie sembrano più vive ora, in cerca della nostra lunghezza
d'onda. I timpani del deserto ci odono, ossicini delle sabbie, labirinti uditivi pieni di liquido di sabbia. L'aria è elettrica, e più sottile, più eccitante. Inaliamo di più ad ogni respiro. Il mio cuore batte ancora forte a causa dell'improvvisa azione impulsiva di Ritchie. Quando verrà l'ora, moriremo non per il colpo di un demone ma per un'insufficienza cardiaca? «Che cos'ho fatto di male, ehh? Ho fritto i ricordi di qualcuno? Ho cucinato l'anima di qualcuno?» Ritchie ansima, poi comicamente gli viene il singhiozzo. Hic, hic. Latino per 'qui'! Una minuscola creatura che riafferma la propria presenza, la propria esistenza in questo luogo. I ricordi di un pianeta sono qui codificati: è possibile? I ricordi di Zeraini, pure. E i ricordi di Dindi, e di altri. E i nostri. Un trilione di trilioni di cristalli trasduttori, che ricevono i ritmi della coscienza - le onde d'anima di tutti gli esseri dorati? O un puro nulla, un luogo di morte, scolpito dai vuoti venti? Qui non ci sono più lucertole. La loro casa è il deserto di sassi che ci siamo lasciati alle spalle. Sì, queste sabbie stanno ricordandoci, proprio come ricordano ogni pensiero e azione e atto onirico di quelli vicini all'Askatharli... Pace, sussurrano ora le sabbie. Pace a voi. Respiriamo più a fondo, più a lungo. Ecco un bacino, un cratere d'erosione largo forse due chilometri dove i venti hanno prodotto un liscio lago di sabbia. Più oltre, dune fino all'orizzonte, un'iridescente marezzatura con fasce di sottili linee d'ombra, coperte da un altra sezione dell'Occhio, smorzata dalla luce del sole. Mascherato, Samti-menVao perlustra il territorio. «Qui è adatto, Figli di Stella. Noi attendiamo qui sopra con le bestie». Così, eccoci qui: l'arena dell'immortalità. Un bacino vuoto. Vuoto, ma noi abbiamo visto una creatura di luce camminare sulle acque striate di cenere per assumere le sembianze della morte... «Le sabbie già sanno che voi siete qui. Le maschere amplificheranno il richiamo. Scenderete due a due». Con una decisa alzata di spalle - perché si è ripreso - Ritchie tira fuori due L-27. C'è qualcosa che devo ricordare... Ma cosa? Senza dubbio ricorderò al momento giusto. «Chi va per primo?» «Quando Ritchie ed io andremo», dice Wu, astutamente rinviando il momento della sua stessa partenza. «Non voglio usare le armi di luce. Samti menVao, posso usare la spada di Vilo?»
«Ne siamo onorati». Samti la estrae dal suo fodero. «Non ho mai usato una spada in vita mia!» protesta Ritchie. Wu si stringe nelle spalle. Lei ne ha mai usata una? Ne dubito. Che cosa sta progettando? «Posso ancora usare il mio fucile, Wu?» «Come vuoi». Un laser può uccidere da una distanza di cento metri, ustionare da duecento, accecare da mille... Lei si sta sacrificando? Per Ritchie? Per vivere dentro di lui ora e per sempre, piuttosto che lui in lei? «Andiamo noi per primi?» René invita Zoe dolcemente. «Mi piacerebbe imparare di più su questa strana simbiosi. Non meno», aggiunge con galanteria. «Su di me con te, negresse d'or». Assume un atteggiamento da finto dandy. «Conosci quella poesia di Baudelaire La Morte degli Amanti? Nous echangerons un eclair unique... et plus tard un Ange, entr'ouvrant les portes, viendra ranimer... 'I nostri cuori saranno due torce, la loro luce riflessa nelle nostre menti... specchi gemelli. Ci scambieremo un unico lampo di luce... dopodiché un Angelo, socchiudendo le porte, verrà a reinstaurare la vita... gli specchi e le fiamme». Gli specchi, eccoli qui: i nostri scudi. La fonte di quel lampo di luce eccola qui: il laser. Ed ecco il luogo dell'angelo, che uccide per immortalare, così che i nostri cuori possano perfettamente riflettersi l'uno nell'altro». C'è un tratto ironico in questa rapsodia, che affascina più Zoe ora di quanto farebbe se lui fosse del tutto serio. Lei gli sorride. «La poesia è bella - perfino nella traduzione - ma teologicamente sento ancora odore di marcio». «Si vous alliez, Madame, au vrai pays de gioire, sur le bords de la Seine», cita affascinante. «Ah, ma parlerai abbastanza fluentemente il francese una volta che avremo accesso pieno l'uno all'altra!» Wu sta velocemente esaminandosi il viso (avorio ammantato d'oro) nello scudo a specchio di Ritchie. Fissa senza batter ciglio nei suoi propri occhi. Forse vede un altro corso d'azione? Se è così, non dice qual è. Tutti ci stringiamo le mani, e ci abbracciamo. Zoe e René indossano il casco, sollevano lo scudo e i laser, e si avviano in basso nel bacino di sabbia. Noi osserviamo, senza casco, mentre rimpiccioliscono, si separano, allontanandosi l'uno dall'altra. L'Occhio di Menka pulsa spettrale di pallido oro oltre il cielo violetto. Miraggi fanno fremere la sabbia nella luccicante distanza, luce trasmutata in un liquido irreale. René e Zoe rivolgono gli scudi specchio l'uno verso l'altra, in saluto: morituri...
Polvere s'impenna nell'aria fra i miraggi. Un vortice luminoso si solleva danzando dalle finte acque. Loro angolano i loro scudi nella direzione del vortice di sabbia, triangolando su di lui, per farlo avvicinare. Questo è come ci hanno detto che sarebbe stato. Vedo come René visualizza l'incontro che si approssima: come un duello, un mattino a Parigi, un centinaio e più d'anni fa, nel Bois. Ma quella cosa di luce è il nemico... o l'arbitro? La luce danza in mezzo a loro. E la luce diventa corpo. È un feticcio cubista che s'impenna, un mostro a quattro zampe con crani dentati sulle ginocchia. Il suo corpo è una scatola come una bocca voragine dai denti di legno spalancata nel ventre. Il foro gli trapassa giusto il diaframma. In cima ad un alto, sporco collo vestito di stracci è posata una ovale testa tremante con quattro sporgenti occhi di legno e una bocca di spezzati denti da coccodrillo. Sporchi capelli da strega cascano quasi fino a terra. Più alta sia di René che di Zoe, girando continuamente su se stessa, la cosa sbatte i piedi e sibila. Le sue braccia sono sottili e ossute, piene di braccialetti e troppo lunghe. Ogni mano stringe un machete sporco di sangue. Scatta verso René, poi indietro verso Zoe. Sferza con i suoi machete. Danza su un filo, teso fra loro due. Sempre più vicino saltella ad ogni rotazione. Presto taglierà uno di loro con le sue lame sanguinanti! «Sparagli!» urla René. Fa fuoco; Zoe fa fuoco simultaneamente. Lei lancia un grido; cade. Il raggio laser di René è passato dritto attraverso quella bocca spalancata sul ventre. Quello di lei ha... il feticcio scoppia in una fiammata. Quello di lei l'ha colpito. L'aria sibila nella fornace che è diventato. Salta verso di lei, strillando e avvampando, le lame affondano nel corpo caduto di Zoe perfino mentre il feticcio svanisce bruciando. In fumo, in volute nell'aria, nel nulla assoluto. Lasciando cadere il suo laser, René cade in ginocchio sulla sabbia. Si strappa via il casco e si prende la testa fra le mani. Prima che chiunque di noi passa avviarsi verso di lui giù per il pendio, o verso Zoe, René si alza. Si raddrizza. Ritorna indietro verso di noi ignorando il cadavere di Zoe. La sua espressione è incantata. Si fa scorrere le mani su e giù sui fianchi come carezzando una nuova, strana forma corporea. «Noi siamo René-menZoe», ride. «È tutto vero. Due vite abbiamo vissuto. Ora sono una, in me. Ciechi. Eravamo ciechi, fino ad ora!»
«Zoe è ancora viva?» chiede Peter cautamente. «Il suo corpo è morto. Soltanto il suo corpo. Ora lei è con me. È una... presenza, per me. Amante, sorella, madre, figlia: tutte insieme. È nel dominio del sogno, eppure anche qui. Io conosco i suoi sogni e i suoi ricordi. Noi li conosciamo. Je est un autre. Io sono il sognatore; lei il sogno, il sogno della sua vita. Ah, comme je bavarde!» «Chi controlla il tuo corpo? Lei può...?» «Possiamo ancora parlare con lei? Con te, Zoe?» Chiedo a lei-che-nonè-qui (eppure sì). «Sento il tuo tocco sul mio corpo, strano per lei. Sento la pressione dei seni, la fessura del mio sesso... del suo sesso. Quando le mie labbra si toccano ora, baciano: me, lei. La sua lingua è nella mia bocca. Io sono... completo. Compiuto. Non sapevo quanto ero parziale. E ancora lo sono! Non sono ancora pienamente dell'Askatharli. Ma posso aspettare. Ci sono anime oltre anime, sogni oltre sogni; sogni che sono svegli, come favolosi palazzi viventi. Noi ne abbiamo visto una piccola parte, ma ora è il tessuto completo della sua esistenza. Lei è immaginazione ora. È musica e creazione... ed è ancora se stessa. Ne posseggo i ricordi, come un bimbo dentro di me, la cui mente conosco nel ventre. Ora lei è oltre i suoi ricordi, eppure sono sempre la matrice dalla quale lei sorge. Ah, quel bavardage!» «Che cos'era quel mostro?» voglio sapere. «Ah, la creatura feticcio era di Zoe: mia: nostra. Non c'è distinzione ora! L'abbiama usata come un'illustrazione in uno dei nostri libri sulla religione. Quello era un idolo'd'iniziazione dalla costa della Guinea. Ha sempre posseduto per noi un fascino morboso. Cosi alla fine l'abbiamo portato alla luce. Abbiamo dato forma alla forza di creazione-distruzione: l'angelo dell'iniziazione, nel suo stampo. Tutte le forme degli Dei e degli angeli son qui nell'Askatharli: esplora una via, e una ne appare...» «Zoe sente ancora puzza di marcio?» chiede Wu. René si limita a ridere. «Muori... e vedrai. Attraversa la morte». Brevemente Samti-menVao posa una mano sulle spalle di René, e assorbe la sua felicità con uno sguardo raddolcito. René ha un tremito. «Un'anima aliena mi sfiora il cuore. Il tocco dell'ala di un uccello». «Seppelliamo Zoe?» «Nella sabbia? La sabbia seppellirà il suo corpo». René ne solleva un po' con il piede. «Non possiamo lasciarla distesa lì», protesta Ritchie. «Lei non è distesa lì. Lei è qui in piedi davanti a voi, in piedi più oltre.
Comunque, ora è il vostro momento di incontrare la morte, non di spalare sabbia sopra un... pezzo di legno, come bambini sulla spiaggia». Dovrei ricordare qualcosa... Anche Zoe avrebbe dovuto ricordare qualcosa? Pensieri irrilevanti. Mascherata, con l'intero Occhio di Menka che irradia filamenti di energia attraverso le sabbie, sospeso spettrale e enorme sul pianeta che è un palinsesto, raccolgo il fucile abbandonato di René. Peter distoglie lo sguardo dal corpo di Zoe per raccogliere il fucile di lei. Voltiamo i nostri scudi in modo che siano l'uno di fronte all'altro; attendiamo, osserviamo... Finché il vortice di sabbia compare di nuovo danzante su quel lenzuolo d'acqua che è piuttosto secco. Finché non voltiamo i nostri scudi verso di lui e lo traiamo a noi. Avanza, si delinea. Jacobik. Sì, certo! In ogni caso, è una forma umana della stessa altezza e struttura di Jacobik, vestito della tuta da lavoro del Pilgrim, con lo stesso viso dai lineamenti netti e famelici, un viso pallido e nudo eccetto che per una nera barba a riccioli che gli striscia sul mento e le guance. Una creatura di pensiero, risucchiata dalla mia mente. Le sue armi? Le mani nude, ed una corda annodata. Le armi di un assassino, ironicamente, dato che lui è stato assassinato con gli stessi strumenti. Avanza attraverso le sabbie fino ad un punto intermedio fra di noi e sbatte i tacchi - impercettibilmente - poi s'inchina bruscamente verso ognuno di noi. Quella lingua da lucertola guizza sulle sue labbra, inumidendole, bagnando la polvere della morte. «Franz?» chiede Peter incerto, scioccamente dando alla Morte il nome di un figlio di donna. Il golem attende in silenzio, torcendo la sua corda da assassino. «Gli spariamo Amy? È quasi disarmato». «Vuoi che spari io? Non riesci a farlo tu?» «Amore...» Uno di noi deve morire. Il golem se ne occuperà. Ma come? Colpirò Peter accidentalmente, nel momento in cui lui distruggerà lo pseudo-Jacobik? Così che 'ognuno uccide la cosa che ama'? Quel golem è in piedi esattamente fra di noi, sosta fra i nostri scudi spianati. Sorridendo ora, torcendo la corda, e le corde delle sue labbra. Allora abbasso il mio scudo. Allora mi sposto di lato di un passo, poi di un altro, a sinistra. Tre, quattro, cinque. Ora Peter è fuori raggio.
Solo ora sparo. Poi ancora. Non accade nulla. Il fucile non funziona. Sogghignando, il golem Jacobik si volta per affrontare Peter e comincia a camminare verso di lui. «Il mio fucile non funziona! Sparagli!» Immagine lampo: in cima al pendio sabbioso, l'alto e snello Samti e il dinoccolato Ritchie accanto ai sottili indifferenti rhaniq color zenzero. René è in un mondo tutto suo. La piccola Wu è in disparte, la sua spada concessa colpita dal sole. La sposta da parte a parte come per segnalare un messaggo a me in basso. La flette, verificandone il punto d'equilibrio. «Nemmeno il mio spara!» (Non funzionanti... o disattivati? Dalle forze dello Spazio Superiore che ci circondano?) Peter rimane impotente, stringendo il tozzo cilindro d'acciaio... mentre Jacobik stende la sua corda da strangolatore allargando le braccia. Urlo, per distrarre l'assassino. «Un fucile è anche una clava!» Ma Peter non sente, non capisce. Abbandono lo scudo. Scatto. Oh Dio, c'è violenza in me. Afferrando il laser con due mani, lo faccio scendere sulla nuca di Jacobik... mentre lui si tende verso Peter che ancora schiaccia il grilletto; mentre gli avvolge la corda intorno al collo. Il golem Jacobik crolla su Peter, facendolo cadere, distendendosi su di lui. Può essere reso inconscio, quando possiede soltanto una finzione di coscienza? Le sue braccia si spalancano, tirando la corda, mentre Peter si contorce al di sotto, spingendo con le ginocchia, stringendogli i polsi. È muscoloso, preda della paura della morte, ma il peso del golem lo schiaccia. Se avessi la spada di Vilo! Il golem dondola la testa da una parte all'altra per esporre il viso di Peter a eventuali ulteriori colpi. Gli occhi di Peter sporgono, le guance diventano blu sotto la peluria dorata. Dov'è quella spada, Wu? Oh mettila nelle mie mani! Immagine lampo: Wu scende giù per il pendio. Ma non corre in soccorso, no. Che sta facendo con quella spada? La pianta per terra! Per l'elsa? Strappare via Jacobik? Non posso sollevare il suo peso! Prendergli le mani e unirle? Troppo forte! Strangolarlo prima che lui strangoli il mio amore! L'oscena ripetizione! Condannata a rieseguirlo. Sogghigna, mi sogghigna in modo contorto, di sbieco. Ansima: «Sono io, Amy, Non ingannarti. La mia anima è volata a questa ri-esecuzione, e a questa imitazione del mio corpo. Qui e una volta, i morti tornati in vita! Resurrectus sum. E tu sai perché...»
Spezza quel discorso con le dita! Stringilo fino a farlo smettere. Gettati su di lui, spezza il suo geloso abbraccio con Peter. Oh, non finisce mai. In un attimo, nello stesso attimo, tutto succede. Jacobik - Franz Jacobik, figlio di donna - si rilassa in una seconda morte. Gli occhi di Peter si rivoltano in su. La sua lingua si protende fuori, come un cucciolo in un giorno di sole. Il suo viso è nero sotto l'oro. Ha un fremito poi rimane immobile. Un grido: «No!» da Ritchie, dall'orlo del cratere - furore e angoscia - fa girare il mio viso di scatto. In un batter di ciglia, nell'attimo della chiusura, la piccola figura di Wu sta cadendo in avanti, guidando - mio Dio - la punta della spada attraverso il proprio occhio fin dentro al cranio... Alba! TRENTOTTO Un mattino corallo a Praga... («Jacobtk? Come?») - Non essere inorridita, Amy. La morte è l'accesso. Ma c'è una guardia sulla soglia. Questa è la schiavitù ultima, che nessuno nota che non sia pronto ad apprezzare una morte genuina. Come conoscitore di morte, io lo so bene. E di colpo Franz Jacobik non è più un estraneo. Appartiene. È noi. Ma che specie di essere siamo noi? («Tu non sei mai venuto fino al Pianeta di Dio, Franz. L'oro non è mai cresciuto su di te. Sei morto normalmente. Come hai potuto essere coinvolto in tutto questo?») - Ti ho perseguitato come nessun altro spettro ha mai perseguitato un mortale. Io sono stato per tutto il tempo il tuo canale verso Grigory e Salman. Non te ne rendi conto? L'Essere Velo 'salda' i morti ai vivi. Questo è in fondo l'unione diadica, il suo modo di fissarsi al mondo. Il suo collante stava già cominciando ad operare lassù nello Spazio Superiore, soltanto un po'. Questo ha saldato me al Pilgrim, e a te. Abbastanza perché, ad intermittenza, io ti perseguitassi. Ma il censore ti ha congelato la memoria, lascia che la riscaldi con le mie mani. («Si, devo ricordare qualcosa!») — Tutti noi. («Tutti?») Per un attimo, con indosso una giacca trapunta azzurra a fiori, sto aiutando i cuochi della comune L'est è Rosso a scaricare cavoli da un carretto trainato da una bicicletta...
— Morire per la gente, Amy, pesa più del Monte Tai. Io sono morta. Per la gente. («Wu, anche tu?») — Ho portato un bel colpo in questo gioco del paradiso! Noi abbiamo un detto: Attacca verso il basso! Che cosa c'è di più in basso della morte? Giù nel declivio della morte dove l'amante spalanca le sue braccia per accogliere l'amante morente? Ho rischiato: se ti bramavo con forza sufficiente in questo terribile momento avrei potuto unirmi a te nell'unione degli aska e fare di ciò qualcosa di più grande: non soltanto un borghese matrimonio di due menti, ma una vera comunità, una formazione di anime, non uno strumento di seduzione e infida oppressione, ma di liberazione e di vera solidarietà. Insieme, Amy, possiamo infiammare una steppa! Per un attimo, una banda di ottoni suona nei Giardini di Princess Street. Piccioni becchettano briciole di pane. Una ragazza dagli occhi verdi e i capelli color tiziano siede con noi su una panchina. («Allora, chi era questa, Peter?») — Ahi... Io non sono più 'io'. Io sono 'noi'. Notiamo, attraverso i nostri occhi di Amy, che il golem Jacobik si è già ridissolto nell'aria, nell'Askatharli... La chiave è la morte. Al momento della morte. E trasfigurazione. Noi. Dovremo. Ricordare... ardere... Una fiamma arde... e scioglie il ghiaccio. Lo spazio-memoria si spalanca. Il ricordo ci sommerge. I Paracomputer di Harxine! La sentenza di morte che pende sul capo dei nostri compagni di equipaggio se incanaleremo i demoni del sogno contro gli Harxine, attingendo dalle forze del... ...l'Essere Velo! Qualcosa cerca di contenere questa inondazione e riassorbirla... Continua a prorompere. Sale, stabilizzando il nostro quartetto di personalità, fondendoci in un'unità. Gli Harxine non hanno detto a Grigory che la memoria è stabilizzante? Qualcosa fatta di anime morte possiede questo pianeta. È un vento cosmico, un pneuma che respira attraverso noi. Cerca di assorbire questa conoscenza da noi. Se soltanto avessimo terra e alberi e sassi ai quali aggrapparci, non questa mobile massa di granelli di sabbia! Ci aggrappiamo come foglie nella tormenta. Perché sono in ginocchio? Davanti a chi? Davanti a che cosa? Uno scopo si riversa da Wu; e un amore-morte che è l'altra faccia della liberazione, da Franz; ed una sete di vero contatto celeste, rabbia per il tra-
dimento, dal nostro Peter. Vortici di sabbia danzano ancora attraverso i miraggi. Un angelo dorato prende forma laggiù. Si avvicina velocemente. Sulla cresta i rhaniq belano impauriti. Anche la nostra peluria dorata formicola, infuriata con noi. È un arcangelo di bronzo con quattro braccia e quattro ali, con un viso di seducente bellezza androgina che parla all'occhio dell'antica fede in Peter, Franz e Amyme. Per un attimo - per la nostra Wu - è un'enorme statua vivente di Mao, che lei detesta e ama, poi è un barbuto Jehovah vestito di bianco. Alla fine diventa un'ardente colonna di fuoco. Eccolo, Dio: la presenza di Dio, che cammina sul Suo pianeta. E non è per nulla Dio. È una frazione dell'Essere Velo, al quale l'esistenza viene concessa da miliardi di anime di morti e di vivi, e da noi stessi. «IO SONO CIÒ CHE SONO», dice il fuoco con una voce di tuono. «IO SONO LA RESURREZIONE E LA VITA». — Un confronto diretto è più di quanto avessi mai sperato (nota la nostra Wu calma). Senza di noi, non avresti alcuna esistenza, vero? «CHI TRASGREDISCE LA MIA LEGGE AMATI-UNITI?» - La domanda è, come sei sorto? (rimbecca Wu). «CHI SEI TU, CHE MI CONTRASTI?» - Noi siamo un tetraedro, quattro-in-uno (dice il nostro Franz, soltanto a noi). Il tetraedro è la più stabile, la più fondamentale di tutte le strutture! È onni-triangolato, onni-simmetrico. Ogni cosa nell'universo esterno ad esso bilancia ogni cosa all'interno. È il vettore d'impacchettamento più compresso che sia possibile. Com'è il sistema di coordinamento energetico della Natura stessa. Così sono impacchettati gli atomi, gli elementi chimici si coordinano, il codice della vita è descritto. Ma noi siamo un tetraedro psichico ora, e coordiniamo la realtà con la transrealtà, la vita con la morte! Ognuna vede l'altra. Ognuna stringe l'altra in un abbraccio. L'ardente colonna ondeggia e smuore. — Resta lì! (ordina Wu). Noi siamo parte di te, e tu non puoi andartene. Fuoco, brucia ardente, ma non osare di bruciare questo nostro bel corpo di Colomba! Un leone-drago-cinese ruggisce nelle fiamme. «TU OSI RIVOLGERTI ALL'ANTICO DIO?» — Non così tanto antico! Mostraci la tua origine! Svelala! Noi siamo te, perciò noi abbiamo diritto di pretendere questa conoscenza. All'occhio della visione, appare:
l'Occhio di Menka... il gigante gassoso che incombe sull'orizzonte. E anche sotto l'orizzonte. La sua natura si dispiega... Tempestosi gusci gassosi ruotano attorno ad un nucleo di roccia. Saette infuriano. Metano anidro e ammoniaca sollevano semplici composti organici e polimeri che coloreranno riccamente le nuvole. Aminoacidi si formano quando queste reazioni idrolizzano in acidi. Polveri, attinte dallo spazio mentre il gigante gassoso spazza la propria orbita, arricchiscono queste nuvole di minerali. L'intero processo di saturazione con precursori della vita. Il processo prende molto più tempo dell'evoluzione sulla sua luna-figlia. Noi ne siamo testimoni. Lo comprendiamo. Attingiamo dalla sua stessa memoria di sé. Il gigante gassoso è pronto alla vita, ma nasce soltanto una strana quasi-vita in una forma virale cristallina, vita che non è viva eppure si riproduce per mezzo, di risonanza elettromagnetica ad alta frequenza. È un parassitismo con nessun ospite per esprimersi, per sempre posato sulla soglia della vita. È un alfabeto in cerca di un linguaggio per esprimersi. E a causa della sua stessa grandezza e interconnessione, alla fine brama e si agita... e cattura, non la vita, perché non ce n'é alcuna da catturare, ma l'interfaccia fra l'universo che è immaginato, ricreato a nuovo ogni momento, e ciò che lo immagina, l'Immaginante. Sosta sul confine stesso fra non-esistenza ed esistenza. La sua stessa esistenza ribelle è in equilibrio sul flusso e riflusso della marea dell'essere: il respiro del cosmo, un respiro più rapido di qualsiasi respiro umano, rapido quanto il salto quantico dell'elettrone che cessa in un'orbita per riesistere in quella accanto. Questo respiro quantico è ciò che l'Essere Velo respira. Così un'entità nasce eppure non è nata, e si tende all'esterno attraverso lo Spazio Superiore verso color che sono nati lì accanto. Si posa sulle sabbie di Menka, le penetra, riproducendosi anche lì. Crea filamenti dorati dalla carne degli essere viventi che diventeranno suoi sudditi, saldandosi a loro. Appropriandosi della loro volontà e il loro pensiero, conserva la propria esistenza su quell'onda stazionaria; e si guarda intorno, attraverso i loro occhi, prestando loro la visione. La colonna di fiamma brucia fredda. ... Ogni anima catturata in questa cosa è interrotta al primo grado della morte! (esclama Franz). Può lavare via tutti i sospetti, e gettarvi il Cielo e l'immortalità come un osso. Un osso? No, quella è la sua vera essenza. Un
Falso Cielo. Il Cielo dell'Ego. Ma noi possiamo comandare a questo angelo guardiano. Siamo più stabili di quanto lo sia lui! («Comandarlo, come un genio?») — Un genio in bottiglia! Di che cosa sono fatte le bottiglie? Vetro. E di che cos'è fatto il vetro? — Sabbia! «Essere divino, brucerai più piccolo e più violento, ma senza bruciare noi. Brucerai non più grande di questa mia mano. Fonderai le sabbie attorno a te in una bottiglia che'' ti conterrà: una bottiglia con un sigillo! Tu creerai la bottiglia che ora noi immaginiamo. Questa piccola bottiglia, vedi?» Il nostro manto dorato crepita mentre l'angelo cerca di allontanarsi da noi. Non ci riesce. Il suo fuoco si abbassa, perdendo luminosità. Una piccola palla di luce fa vorticare la sabbia attorno a sé in fasce tempestose come un Occhio di Menka in miniatura, fondendo una sfera di vetro. Raffreddandosi compare una bottiglia. All'interno c'è il nostro genio, microcosmo della più vasta entità. La nostra mano di Amy la raccoglie. Con la bottiglia nelle nostre mani, completiamo il nostro viaggio fino all'orlo della duna. Ritchie sembra stupefatto. René-menZoe annuisce con il capo in beatitudine, falsamente trasfigurato, non ancora pronto per essere un nemico. Soltanto Samti-menVao ci assorbe, impressionato o impaurito. All'improvviso Samti estrae la spada e attacca. TRENTANOVE Ma è una spada che cessa di esistere ad ogni attimo quantico, poi riesiste mentre il respiro dell'essere fluisce e rifluisce... Noi ne immaginiamo l'esistenza in qualche altro luogo lontano nel deserto. Spostando l'aria con un secco 'pop', la spada cade lontano mandando bagliori. Samti-menVao si fissa la mano vuota con la bocca spalancata, e ulula. Siamo gentili con lui. Ci limitiamo ad immaginarlo un po' più lontano. Un centinaio di metri giù per il pendio si guarda intorno, intontito, poi se la svigna. Ci tendiamo ad afferrare la mano di René, e toccare la mente di Zoe. Lei
ci sfiora, all'interno, felice anche se perplessa. Penetriamo il velo e la raggiungiamo. Le mostriamo: gli Harxine, l'Essere Velo, la sua ipnosi da lui prevenuta. Il suo dolore è enorme. Attraverso lei, anche René sa. «Che facciamo?» mormora. «Ne abbiamo domato una parte, René. Ci siamo protetti. Abbiamo i suoi poteri ora, senza gli svantaggi». «Voi potrete anche essere protetti!» «Possiamo proteggere anche te, René-menZoe». «E Ritchie? Lui non è stato...» «Trasfigurato, no». La parola di Heinz: Verklarung. «Qualcuno vuole dirmi che diavolo sta succedendo?» prorompe Ritchie. — Possiamo mostrare al mio piccioncino i ricordi che lui ci ha mostrato in Cielo? (domanda Wu). — Perché non usare il Dio in bottiglia come una sfera di cristallo? (suggerisce Peter). — Certo, è una fonte d'energia, vero, mio sciamano? Un nucleo dello Spazio Superiore sotto il nostro controllo. Il Dio in bottiglia si comporta proprio come noi vogliamo che faccia... — Mi piace, veramente. — Una volta avevo un modo di trattare i piccioni... (ghigna Franz). — Be', non puoi pensare di spedire via da qui Ritchie con una fionda! «Credo di aver avuto ragione a proposito del gigante gassoso». Ritchie si batte la fronte. «E vivo». «Non in senso normale. È vivo attraverso noi e i getkani e ogni altro alieno che infesta. Esiste in una zona intermedia del circuito fra la realtà e... 'Dio'». «Non ha comunque bisogno del gigante gassoso come testa di ponte fisica? Come sua base? La sua lente per vedere oltre? Maledizione, come faccio a saperlo? Può anche essere. Tutto ciò che gli Harxine e le loro truppe di insetti hanno bisogno di fare per scoprirlo è spazzare via un qualcosa della grandezza di Saturno. Non credo che sia una faccenda alla loro portata». — Non possiamo noi fiondare lontano da qui Ritchie e René? (chiede Franz). Se siamo riusciti a immaginare Samti in un altro posto... ha importanza la distanza? Abbiamo lo Spazio Superiore nelle nostre mani, no?
Possiamo immaginare noi stessi in un altro luogo, e anche loro! C'è un vettore ipnotico fra te e Kamasarin, Amy. Osservalo. Esaminalo. Osserviamo. Personalmente, il mio sé - Amy non lo vede. Ma quelli che racchiudono il mio sé - Amy lo vedono. — Anch'io sono parzialmente saldata al Pilgrim. E tutti siamo parte l'uno dell'altro nello spazio-memoria. — Questa volta (annuncia orgogliosamente Wu) porteremo con noi il nostro corpo nella cavalcata extra-corporea. C'è soltanto una destinazione fisica possibile: a bordo del Pilgrim reale nel tempo presente. — Gli Harxine la prenderanno come un'aggressione (Peter è inquieto). I Raggruppati inizieranno le loro uccisioni. — Ha! (piomba Franz). E com'è che abbiamo strappato via quella spada a Samti? Io sono in grado di occuparmi di qualsiasi cosa che si muova. — Spaccone (ride Peter). Non sei riuscito ad occuparti di Amy. — Questo è diverso. Non vedi? Come noi vediamo, all'interno. «Ascolta, Ritchie. Ti porteremo via di qui. E anche tu, René-menZoe. Trasferiremo tutti noi sul Pilgrim. Lo possiamo fare! Ma quando arriveremo lì, qualsiasi cosa accada non muovetevi. Se i Raggruppati vi assalgono - e lo faranno! - li sposteremo come abbiamo fatto con Samti e la sua spada». Infiliamo il Dio in bottiglia nella tasca della nostra tuta. «Teniamoci per mano, in fila». Noi siamo tre streghe, che stanno per danzare una giga. — Il viaggio di un milione di miglia inizia e termina con un solo passo! Questo passo, ora... Il mondo si sposta. Sala di controllo! I prigionieri, distesi nella loro trance, un insettoide sospeso su ognuno di loro... Quasi immediatamente, ogni guardia si lancia sul suo prigioniero, le braccia seghettate aperte. Quasi immediatamente non è abbastanza presto. Il nostro Franz agisce più rapidamente di qualsiasi riflesso, veloce quanto la vista. Noi quantizziamo il loro attacco. Decretiamo che un momento quantico di tempo si ricrei ripetutamente per loro. Il nostro Franz li tiene legati stretti come stringesse sette guinzagli. Sono immobilizzati. Altri Raggruppati sono in vista. Lui blocca anche loro. «Potete sentirci, Harxine? Questa non è un'aggressione. Non agite av-
ventatamente. Noi siamo liberi dall'Essere Velo. Abbiamo bisogno di parlarvi». Uno schermo catodico si illumina. Non agiamo avventatamente, soltanto rapidamente quanto è corretto per intelligenze meccaniche le cui reazioni richiedono nanosecondi. - Sono offesi! - (ride Peter). Non riusciamo a comprendere come avete impedito ai nostri Raggruppati di agire. Questa non è un'aggressione? «Stiamo ri-immaginando i vostri Raggruppati nello stesso momento quantico». Questo deve essere chiarito. «Lo sarà. Io sono Amy Dove, Harxine...» Identificata. La tua ipnosi è stata interrotta dalla frattura dello spaziomemoria/sogno. Ha comunque avuto successo? — Non avrebbe avuto successo se non fosse stato per Franz e Wu (ammette il nostro Peter). Noi due insieme, Amy, ci saremmo comportati come René-menZoe. Beatitudine e un Falso Cielo. — Forse sì, forse no (concede generosamente il nostro Franz). «Noi siamo un nuovo genere di essere, Harxine. Un essere quartetto, un'iper-mente. René è il normale... prodotto trasfigurato del Pianeta di Dio: una diade del René vivente e della morta Zoe. Lo stiamo proteggendo dall'Essere Velo. Ritchie non è una minaccia. È ancora normale». «Ehi, grazie! Io ho un angelo custode, comunque. Vero, Wu? Da qualche parte dentro di voi». — Mio piccioncino. — Tenetevi le smancerie per più tardi, uhmm? (scherza il nostro Franz). «Siamo qualcosa di nuovo. E sappiamo che cos'è l'Essere Velo, Harxine. Ha la sua origine nello stesso gigante gassoso. Vi è cresciuto per poi espandersi nello Spazio Superiore, e solo successivamente ha invaso lo Spazio Inferiore. Abbiamo catturato una parte del suo essere, e l'abbiamo domato. Eccolo». La mano di Amy agita il Dio in bottiglia. — Pirati che brandiscono una granata! (avverte Wu). «È sigillata. Non preoccupatevi». Le intelligenze meccaniche non si preoccupano, Amy Dove. (Oh davvero?) Se i nostri Raggruppati vi uccidessero, quella parte dell'Essere Velo si libererebbe? «Non possono ucciderci. Ma non desideriamo sembrare ricattatori, Harxine. Stiamo dalla stessa vostra parte, ricordatelo». Le intelligenze meccaniche...
«... ricordano sempre. D'accordo, afferrato il concetto». — Forse siamo un essere immortale (suggerisce Peter). — Finché non sceglieremo di non esserlo (replica Franz). — Potremo scegliere una volta che avremo fatto il nostro dovere (Wu lo rassicura). («Questo è il mio corpo mortale, gente»). — Un corpo, cara, che sta venendo ri-immaginato di momento in momento. Perché non rinnovato pure? Restaurato? Possiamo farlo. Non sono sicuro che non lo stiamo già facendo. («Allora il nostro amore non svanirà né scemerà mai, eh?») — Ahi. — L'immortalità è una trappola (avverte Franz, naturalmente). «Tutto ciò che avete bisogno di fare, Harxine», s'intromette Ritchie. «È distruggere il gigante gassoso per poi stabilizare le sue lune in nuove orbite attorno al sole, e siamo tutti a posto». È una proposta seria? Richiederebbe parecchie centinaia di anni ed uno sforzo enorme. Non ci dovrebbe essere alcuna interferenza da parte dell'Essere Velo. «Potremo discutere di tattiche una volta che abbiamo liberato i nostri amici». Gli Harxine decidono, come promesso, in nanosecondi. Accettato! Allentate la presa, e i nostri Raggruppati sveglieranno i vostri amici. Abbiamo impianti di controllo profetico in tutti i Raggruppati. Già stiamo trasmettendo un segnale continuo ordinando loro di assistervi. «Sembrano ancora pronti ad attaccare», dice Ritchie. Perché voi li mantenete così. Questa è l'ora della fiducia. Noi Harxine incoraggiamo la vita. La morte ha il suo posto doveroso, ma non qui, non ora. «Allora proverete un estremo dolore se metterete fuori combattimento l'Essere Velo!» dice Ritchie. «Perché miliardi di anime morte che sono ancora vive in lui svaniranno all'istante». — La morte ha il suo posto (echeggia il nostro Franz). È soltanto giusto che muoiano di una morte giusta, una morte piena. Sono soltanto in un limbo, e i loro pianeti si stanno erodendo. Tu possiedi poteri che noi non possediamo, Amy Dove. Se hai bisogno di una conferma ridondante: noi stiamo trasmettendo ai nostri Raggruppati ora; nessun Raggruppato farà del male ad alcun umano. («Sguinzaglia i cani, Franz!»)
I sospesi Raggruppati non strappano né squarciano. Invece, con le loro chele cominciano a tagliare, velocemente ma gentilmente, il groviglio di cavi, tubi e fili che lega i corpi paralizzati. La prima persona ad essere liberata è il Capitano K. Fissa noi tre con una momentanea perplessità. Naturalmente, visto che siamo tutti avvolti di un manto dorato... Ed ora emette tuonando un evviva di un qualche lottatore mongolo. «Avete vinto!» raggiante. «Oh, avere una tazza di kumiss con cui ricompensarvi!» Qualsiasi tipo di bevanda possa essere questo kumiss mongolo, noi non ne siamo assetati. Il nostro corpo-Amy non è assetato per nulla. QUARANTA Gli Harxine hanno ora collegato un programma per la sintesi vocale all'interfono. La nostra lingua franca rimane l'inglese, anche se gli Harxine sono in grado di usare tutti i linguaggi primari degli ex-prigionieri con eguale scioltezza. René, non essendo un ex-prigioniero, presto scopre con suo dolore che non conoscono il francese. Nemmeno parlano il seducente Getkasaali. In verità, anche il nostro senso del linguaggio di Getka ha cominciato a deteriorarsi un po'. Le sfumature sono perdute, il suggeritore automatico nelle nostre menti è troppo lontano per essere sentito. Noi tre dorati (o sette, se si contano i morti in noi) informano gli altri otto, i quali tutti hanno nelle loro menti, dallo spazio-memoria, frammenti distinti di un puzzle più o meno grande. Ormai gli Harxine hanno ritirato due terzi del loro equipaggio d'insettoidi, mantenendone soltanto una mezza dozzina sul Pilgrim, e lo status di questi ultimi è ora più quello di mascotte che di minacce o di mostri. Sachiko prova a coccolarne uno, forse per compensare con questa comica esibizione di fratellanza inter-specie l'evaporazione del suo ruolo di linguista. Perfino Gus Trimble gratta il mento chitinoso di uno di loro. I controllori Harxine devono avere un folle senso dell'umorismo nei loro circuiti, o una simpatia per le debolezze umane, perché la bestia prontamente si rotola sulla schiena come un cane, mettendo in mostra il suo sotto-ventre stagno, e agita le gambe. Gus batte e gratta la sua pelle rigida. Il Capitano K. è di nuovo al comando, felice che l'aspetto parapsicologo
della spedizione abbia prodotto uno strano frutto (anche se non è stato lui ad organizzare l'esperimento). Naturalmente, in noi, che siamo quel frutto, risiede il potere reale, il potere divino. Giace nel nostro sé quartetto. Le speculazioni di Peter circa la nostra potenziale immortalità possono essere ben vere. Noi non mangiamo, né beviamo. Questo sé - Amy non ne sente il bisogno. Stiamo ricreando noi stessi da capo, attimo dopo attimo. — Dobbiamo comunque morire (insiste il nostro Franz), per essere liberi. Lo capite? Dobbiamo essere capaci di morire. — Certo Franz (blandisce Wu). Rimane il piccolo problema dell'Essere Velo, prima. «Allora», il Capitano K. si rivolge a tutti. «La domanda è, abbiamo una forza qui che può essere domata e usata? Voi avete già catturato una parte di questo essere, Dove». (E il Dio in bottiglia riposa nella tasca della nostra Amy...) «Pianeti interi sono irretiti, capitano», interrompe l'invisibile Harxine attraverso l'interfono. «Vorremmo ricordarvelo». «Colui che cena con il diavolo ha bisogno di un cucchiaio lungo», dice Salman. «Noi abbiamo soltanto un cucchiaio, e questo è Amy». «Ma, essenzialmente, questo è più pericoloso di, per esempio, l'energia nucleare?» «L'Essere Velo può attirare all'interno altre specie, anche se voi evitate di essere irretiti», gli ricorda seriamente l'Harxine. «Chi può dire, ad ogni modo, che voi siate riusciti a sfuggirgli? Voi siete qui, e avete la conoscenza. Ma la vostra Terra rimane vulnerabile. Un secondo motore dello Spazio Superiore può essere inviato. Come vi proponete di ritornare attraverso lo Spazio Superiore ad avvertire il vostro pianeta senza cadere di nuovo nelle grinfie dell'Essere Velo?» «Possiamo arrangiarci», li rassicuriamo. «Ora controlliamo il potere divino». «È un surrogato di Dio», protesta Salman. «Una persona di vera conoscenza potrebbe riuscire da solo a raggiungere questo stato. Qualcuno come...» «Come Assaf ibn come-si-chiama», dice Ritchie. «Assaf ibn Barkhiya. Non sapevo che conoscessi il Corano, Ritchie!» «È stata una bella scuola laggiù, amico». «Be', pochi ci riescono. Pochi lo fanno. Il mondo deve andare avanti, ecco perché. Sicuramente anche Getka e Zeraini e questi altri mondi devono per forza andare avanti. Devono ripartire. Ora sono tutti bloccati in questa
falsa rivelazione, che li sta prosciugando». «È per questo che noi siamo venuti», conferma l'Harxine. Ritchie si gratta la mano. Un attimo dopo abbassa lo sguardo sulla fonte dell'irritazione, e si soffia su una mano. Una polvere d'oro vola via. Svapora. Cessa d'essere. Si strofina insieme le mani. Pagliuzze, capelli vagano lontano. Starnutisce. Comunque, l'irritazione delle sue membrane mucose ha già cessato di esistere. «Questa roba mi sta venendo via, la sto perdendo!» esclama Ritchie. «Zoe!» esclama René, nello stesso momento. Agita le braccia come per trattenerla, e si stacca dal ponte. Siamo noi invece a trattenerlo. — Zoe? — Sto... perdendo il contatto. — Possiamo trattenerti. — Ma dovremmo farlo? (chiede il nostro Franz). Questa è la vera morte in arrivo. Sta succedendo anche a questo corpo-Amy: il manto dorato sta scivolando via, sciogliendosi nell'aria sottile. Ma noi quattro siamo sempre qui insieme, uniti quanto mai saldamente. Siamo in perfetto equilibrio. Siamo un'iper-struttura psichica. Ora non abbiamo più bisogno dei filamenti dorati. Siamo indipendenti. — René e Zoe ne hanno ancora bisogno. Si stanno distaccando. — Ho detto che poggiamo trattenerli. Lo stiamo già facendo. — Abbiamo tracciato una linea attorno ai poteri dell'Essere Velo. L'abbiamo imprigionato e limitato. Perciò adesso sta inaridendosi, ritirandosi. A meno che non lo teniamo stretto. — Scegli, Zoe (Franz la sollecita). Vuoi morire della vera morte? Vuoi andare oltre? O dobbiamo tenerti qui? — Devo scegliere, vero? Non sono... spaventata. Non è importante, no? Perché è giusto. Lasciatemi andare, amici. Lasciatemi andare. «No», implora René. — Ma è giusto. È meglio. Addio, René. Adieu. Je t'adore. Non soffrire. Ed è giusto. La lasciamo andare. — Ad...dio. René crolla nell'aria, comunque afflitto. — Che cosa mantiene in essere la piramide dello Spazio Superiore? (chiede urgentemente Peter).Le menti di ognuno a bordo! Ma è un pericolo, vero? Gli Harxine hanno ragione. Dovremme farla cessare di esistere. (Allora, come portiamo il Pilgrim indietro sulla Terra?)
— Ce lo riportiamo nel modo di Assaf! Nel modo in cui noi siamo giunti qui. Se siamo riusciti a spostare tre corpi, perché non un'intera nave? Abbiamo sotto il nostro controllo il Dio in bottiglia. In se stesso è un motore dello Spazio Superiore, se noi vogliamo che lo sia! Sentite, la piramide dello Spazio Superiore era ovviamente due cose. Una era un sentiero codificato attraverso lo Spazio Superiore. Ma l'altra era un'illusione, una facciata necessaria. La Terra non avrebbe mai costruito il Pilgrim se non fossimo stati certi che esisteva una qualche precisa, ordinaria destinazione verso la quale dirigersi. Saremmo stati troppo sospettosi di una propulsione senza alcun ovvio piano o controllo di volo. Il nostro viaggio doveva assumere la maschera di un viaggio ordinario, un viaggio, sì, nel quale potessimo credere!, o non avremmo avuto la... fede, il coinvolgimento mentale per attivare e poi sostenere il campo dello Spazio Superiore. Eravamo tutti Ratti, in questo senso. Dovevamo sapere che stavamo viaggiando da A a B, dalla Terra a 82 Eridani, nel modo ordinario prima che potessimo imparare il modo straordinario. Ma abbiamo imparato più di ciò che l'Essere Velo si aspettava! Possiamo andare direttamente. La piramide è un vero pericolo ora. Forse possiamo controllare ciò che l'Essere vi ha impresso, ma qualsiasi altro a bordo darebbe al viaggio il contributo delle proprie paure e angoscie e credenze e miscredenze. (Ma un'intera nave?) — Se Assaf è riuscito a trasportare un trono... allora, il Pilgrim è il nostro trono. Ci appartiene intimamente. Io dico di sciogliere i legami della piramide ora. Dovremmo abbandonarla. Come potremmo affidarci ad essa? Raggiungiamo il consenso in un attimo. «Harxine... e tutti, ascoltate. Stiamo per dissolvere la piramide dello Spazio Superiore. Stiamo per annientarla. È pericolosa perché è un legame con l'Essere Velo». «Vi preghiamo di farlo», replicano gli Harxine. Credo che non siano in definitiva preoccupati se riusciamo a tornare a casa sulla Terra o meno. «Siete pazzi», protesta Gus. «All'inferno», urla Neil Kendrik. Per qualche momento, c'è una discussione. «Ascoltate, tutti. Noi ora siamo un nuovo essere, e vi porteremo a casa». «Avete intenzione di lasciare lo spazio locale?» domandano gli Harxine, preoccupati, ora. «E che ne é della vostra proposta riguardo il gigante gassoso?» — Io riesco a vedere un modo (progetta Franz)... un modo per strappare
il Velo in modo che continui a strapparsi! Ce lo mostra. Ed è vero; c'è un modo. Bisogna fidarsi del nostro kamikaze Franz! (Prima dovremo riportare a casa il resto dell'equipaggio, poi ritornare con la nave. Se possiamo trasferire il Pilgrim sulla Terra, possiamo anche ritrasferirlo di nuovo qui). — Aspettate, questo potrebbe essere un salto di qualità nei viaggi interstellari (specula Wu, cogliendo l'importante occasione). — Difficile! (schernisce Franz). Un'unica nave, con un unico pilota? Ciò che possiamo fare è portare a casa con noi un paracomputer di Harxine per instaurare un collegamento-luce con la loro casa madre, se sono trasportabili. Voglio dire, se non sono stati ricavati proprio da questi loro asteroidi volanti. Potremmo anche portare con noi a bordo qualche Raggruppato, per questo, se gli Harxine ne hanno bisogno come estensioni manuali. «Harxine, quanto grandi sono le vostre unità separate?» «Forse il cinque per cento della grandezza della piramide dello Spazio Superiore». «Può ancora funzionare una singola unità separatamente come un Harxine 'completo'?» «Certamente». «Potete estrarre dall'asteroide uno di voi per accompagnarci? Vedete, questo è il nostro piano...» L'unità paracomputer di Harxine è un cubo della dimensione di un grande apparecchio olovisivo. È alimentato indipendentemente da una cellula d'energia posta nella sua base, della durata di cento anni, che in ogni caso la Terra è in grado di ricaricare. I suoi cordoni ombelicali si inseriscono nei terminali del nostro computer. Alcuni Raggruppati l'hanno portato dall'interno dell'asteroide. Neil e Gus li hanno aiutati ad installarlo qui nella Sala di Controllo. Ora i Raggruppati si sono tutti ritirati. Non ne porteremo nessuno con noi, dopotutto. Questa varietà adattata al vuoto tollera per un tempo considerevole la gravità e l'atmosfera, ma non indefinitamente. Ci rimane soltanto una cosa da fare prima di partire. I nostri Franz e Wu e Peter si tendono nello spazio immaginazione verso la piramide. Noi la disimmaginiamo, e tutto quel complesso sistema di cognita cessa lentamente di essere ancora parte della nostra cognizione. Lentamente: la resistenza naturale degli altri alla scomparsa della loro
'fune di salvataggio' rende l'operazione in qualche modo simile a quella del Gatto del Cheshire! Ora la piramide si fa trasparente. Diventa una cosa fragile, uno spettro. Presto tutto ciò che rimane sono le linee che definiscono i suoi contorni; ora perfino quelle linee svaniscono, come il sorriso del Gatto del Cheshire. Nel ponte rimane semplicemente il foro quadrato attraverso il quale una volta era infilata. Affollandosi, tutti fissiamo il ponte sottostante. Il Capitano K. si ritrae da quel foro, tutto ciò che è rimasto del motore che una volta aveva alimentato la sua nave. Comprensibilmente, sembra alquanto diffidente. «Allora, Dove, vuole portarci a casa?» «E casa sarà, Capitano». Ci mettiamo uno di fronte all'altra, nello spazio mentale. Respiriamo il quantico respiro dell'universo mentre esiste e cessa e riesiste. Con il nostro Dio in bottiglia in nostre mani, immaginiamo la realtà del Pilgrim qui ed ora, esistente, cessante, riesistente. Spostiamo la sua esistenza attraverso lo spazio-immaginazione ad un altro qui-ed-ora... Il sole 82 Eridani si spegne. Per lo spazio di un respiro interiore, il lucore dello spazio-immaginazione ci circonda. Un altro sole avvampa. Brilla anche un pianeta familiare, azzurro e bianco, davanti. Oltre, nello spazio, c'è una luna gibbosa e butterata. Anche il pianeta è gibboso, e inondato dell'azzurro degli oceani. Continenti ombreggiati si nascondono sotto soffici fasce di banchi, il nostro pianeta perduto, recuperato in questo attimo di nostra creazione. «Siamo distanti circa cinquantamila chilometri», esclama festoso Ritchie. «Cinque stelle! Tutti i riflettori sul bersaglio!» «Proprio neinte male», sorride largo Kendrik. «La velocità è appena sotto i mille Km/h. Poco più vicino e saremmo nel panico più totale». Il Dio in bottiglia vibra come per protestare, ma con una mano invisibile il nostro Franz lo calma. Dopo un po', Neil si siede al quadro di comunicazione. «Qui il Pilgrim Crusader che chiama Città dello Spazio, chiama Terra. Qui il Pilgrim Crusader. Siamo a casa». Guarda l'unità paracomputer di Harxine. «Abbiamo portato con noi un amico, una macchina intelligente. Abbiamo bisogno di trasferirlo, insieme a undici di noi, a Città dello Spazio. La persona che resta», aggrotta la fronte guardando il mio sé-Amy.
«Intende riportare il Pilgrim a 82 Eridani. Lei deve... no, loro devono occuparsi di una questione...» «Neil, vuoi scusarti con loro, per favore, per qualsiasi visione abbiano avuto ad Atene, nello Szechuan, a Fort Dodge, e in altri luoghi recentemente? È nostra responsabilità. Avverti quelli laggiù che possono riprendere la loro storia. Solo che, ora che l'Harxine è qui, è diventata una storia interstellare». «Lo farò. Pilgrim Crusader chiama Città dello Spazio...» «Un pianeta che sembra molto abitabile», approva l'Harxine, all'interfono. «Presto costruiremo adatti trasmettitori-luce per contattare Cybercentral e gli altri pianeti della rete Harxine, incluso Getka se il vostro piano avrà funzionato. I getkani avranno bisogno di un massiccio aiuto per riadattarsi alle realtà dello Spazio Inferiore. Saranno molto disorientati e reciprocamente straniati». «Così sapremo se il piano di Amy... il loro piano avrà funzionato», medita il Capitano K. «Entro circa quarantadue anni». Ritorna in sé. «Credo che vivrò per sapere». «Potrà saperlo prima di allora, Capitano. Noi vi aiuteremo a costruire un adatto propulsore sub-luce e vasche d'ibernazione. Gli Harxine nel sistema Eridani avranno già inviato messaggi alla velocità della luce con richieste di aiuto per la ricostruzione delle società di tutti i mondi irretiti. Comunque, Dindi è più vicino alla Terra che a qualsiasi altra fonte di assistenza. Dovreste volare a Dindi per aiutarli a ricostruire la loro società. O perfino alla stessa 82 Eridani. La logistica lo suggerisce». «Amy lo saprà in un giorno o due». Grigory è triste. No, non esattamente triste; ci invidia. Certo noi sapremo. O saremo allora oltre qualsiasi senso ordinario della conoscenza? REQUIEM L'Occhio di Menka riempie gli oblò delle sue maestose fasce di tempesta, testa di ponte dell'Essere Velo. Lo stesso Menka è visibile a poppa, non più grande di Luna. Abbiamo ricreato il Pilgrim vicino al Pianeta di Dio, i due nostri motori ancora intatti già accesi, e da quel momento abbiamo cominciato a cadere all'interno, nelle spire del gigante. Cadendo nel pozzo gravitazionale. Ci rimangono, forse, cinque ore.
L'effetto del tuffo nell'Occhio del Pilgrim non sarà niente di più che, naturalmente, la caduta di un pisello in un mare. L'effetto del nostro stesso tuffo attraverso il Velo, con il Dio in bottiglia sotto il nostro controllo, del nostro morire la vera morte, del penetrare nell'Aldilà, sarà - senza dubbio molto più grande... Il Pilgrim sembra piuttosto vuoto da quando non si vede nessun altro essere umano intorno, a meno che non si scelga di rimanere a guardarsi allo specchio in una delle cabine; ma non ci preoccupiamo di occupare le cabine. Sono soltanto gusci delle nostre vita precedenti, scatole vuote. Eppure, allo stesso tempo, quattro di noi sono presenti: i quattro-in-uno, e con noi la nave è piena. Adottiamo la posizione del loto prima di aprire gli oblò. I dosimetri dello scafo riferiscono un'enorme rafforzamento del campo radioattivo. La fascia di Van Allen del gigante gassoso ora ci sta bersagliando di particelle cariche; siamo già un corpo morto, che si ostina a vivere. — Che si ostina a morire! (ride Wu). Rendete grazie a re Erode! (intona (Franz) Che viene ad ucciderci una seconda volta Solleviamo le nostre mani traslucide In gloria Per la verità a noi rivelata Tre urrà per Erode! Tutti cantiamo canti di morte. Eppure nessuno di questi sembra giusto. Tutti sono pieni o d'ironia o di risentimento. Comporremo noi il nostro canto, allora. Ma no. Non ce n'è bisogno. La nostra stessa vera morte sarà quel canto. Il gigante gassoso riempie la nostra vista, a nord, a sud, est e ovest. Stupefacente. Meraviglioso. Ci stiamo tuffando in caduta libera verso una parete di colore che non sembra più essere sotto di noi, ma davanti: un'enorme tela sconvolta, un velo arancione dietro un velo zafferano dietro un velo salmone, intagliato e scolpito da correnti a getto. Il Pilgrim si sta surriscaldando. Pioggie di lucciole elettriche e di scintille vorticanti ruscellano dal muso e da prora. Il Pilgrim non ha schermi d'ablazione; la nave stessa sta bruciando. In qualsiasi momento può frantumarsi e l'ossigeno sfuggire avvampando.
— Chiudi gli occhi, Amy. L'ultimo rito. È tremendamente caldo qui, immagino. Il Dio in bottiglia ci pianta un pugno chiuso nel ventre, come se cercasse di penetrare nel nostro utero, ah, sono io che lo schiaccio. Noi lo avvolgiamo già, nello spazio mentale. Siamo brevemente coscienti delle menti di milioni, miliardi, riflesse nei ribollenti veli gassosi. Tutti quegli amanti del limbo, che danno forma all'esistenza stessa dell'Essere Velo. Parte dell'Essere è parte del nostro stesso essere ora, un bimbo riassorbito nel nostro ventre. Un violento e fuso monello d'energia! Che scalcia e lotta! Qualcosa esplode, troppo rumoroso per udirlo. Qualcosa fa bruciare il nostro corpo-Amy, strinandolo in cenere (immaginiamo) troppo rapidamente perché lei ne soffra. Visioni lampo di sogni scolpiti - città del sogno, giardini del sogno, paradisi - ci lusingano e ci chiamano. Ognuno è un velo appiccicoso, una carta moschicida per anime, che hanno il privilegio di visitare altre cartemoschicide a piacere. Le evitiamo, ce ne liberiamo. — Dove ora? — In basso, nella vera morte, portando con noi l'Essere Velo! Noi siamo lui, e lui è noi. Immaginiamo noi stessi di nuovo nell'Immaginante! Strappiamo tutto... e strappiamo il Velo! Siamo morti, ma non ancora morti. Perciò il nostro Franz si spinge via da noi. Eppure continua ad essere una nostra parte. Ci tendiamo lungo l'asse del suo volo di morte, deformandoci come un foglio di gomma. La nostra Wu si ritrae ora, e ci tendiamo lungo un altro asse. — Non andate dolcemente in quella buona notte! (canta Peter). Andate con tutta violenza! Si spinge via, deformandoci lungo tre vettori. Il nostro sé-Amy si estende lungo il quarto. Sì, siamo un foglio di gomma, con l'Essere Velo impresso sopra. Questo intero universo (no, quell'intero universo, perché noi l'abbiamo lasciato) una volta è venuto violentemente alla luce a partire da un punto natale lungo quattro vettori necessari: tre di spazio e uno di tempo, con l'energia dell'Immaginante a creare e definire lo spazio e il tempo. Noi sembriamo ripetere quel processo nel nostro atto di morte, eppure non stiamo definendo lo spazio e il tempo. Lo stiamo de-ridefinendo. Invece di emettere respiro lungo il flusso di 'Esisti!', inspiriamo il respiro recedendo, cogliendo la marea nell'altro senso, il risucchio, il riflusso. Siamo oltre l'onda stazionaria nello Spazio Superiore, la trasciniamo con noi, deformandola.
Siamo un'enorme vela che prende quell'altro vento, quello del NonDivenire, una vela che si stende sempre più in là, una vela-velo che veleggia nell'Alterità, oltre. La nostra stabilità è perduta per sempre, ora. L'Essere Velo non riesce a trattenerci. Noi non possiamo tornare indietro nemmeno se volessimo. Siamo troppo lontani dall'esistenza. Noi quattro ci strappiamo via. Nello stesso attimo, anche i nostri sé, si dipartono, aprendosi, schiudendosi... La materia è energia immobile, e le vite sono soltanto presenze immobili dell'Immaginante, dal quale si cristallizzano. Così io fondo, scorro. Che cos'è questo 'io'? Che cos'era? Soltanto un aspetto, una presenza, che ora ritorna. L'Essere Velo si sta strappando, pure, in un modo diverso: si strappa dappertutto, diventando una membrana permeabile ancora una volta, fra l'Immaginante e la realtà. L'osmosi delle anime intrappolate riprende precipitosamente, tanto enorme è la pressione sulla membrana di quei condannati semi-esseri. Un'onda segue nella nostra scia, di sorpresi ego alieni che anch'essi sono soltanto aspetti, presenze; che ora fondono, e scorrono. Chi era 'Io'? Per un attimo, tutta la mia vita è presente, tutta insieme. E chi sono io, trova risposta. Ora quella conoscenza rifluisce nel... l'energia, l'energia creativa, rispondendo alla sua domanda nella luce, la luce oltre la luce. FINE