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MARTIN CRUZ SMITH STELLA POLARE (Polar Star, 1989) Per Em I ACQUA 1 La rete saliva fumando, come una belva, lungo la rampa e nella luce delle lampade al sodio accese sulla tolda del peschereccio. Come una chioma lucente, ammassi di strisce rosse, azzurre e arancio coprivano la rete: erano la protezione di plastica che aveva lo scopo di agevolare il passaggio della rete sulle rocce del fondo marino. Come un alito fetido, l'esalazione del freddo oceanico avviluppava quella chioma in un alone di colori che brillava nella nebbia. La tolda del peschereccio era una piattaforma di luce fra le sovrastrutture di poppa e centrali della nave, tra le gru e i boma che sparivano lassù, nella notte piangente. Ai due lati, i cavi d'acciaio si estendevano dalla rete agli argani dietro di lui. Alzava prima un braccio e poi l'altro, per guidare l'operatore degli argani, in modo che i cavi spartissero la pressione per trascinare quaranta tonnellate inerti di pesce. L'acqua cadeva sibilando dalla chioma di plastica della rete sulle assi di legno che permettevano di reggersi sulla tolda. I pesci più piccoli, aringhe e sperlani, cadevano di qua e di là. Le stelle marine piombavano come sassi. I granchi sradicati, persino morti, atterravano sulle zampe. In alto, gabbiani e berte stavano librati al margine della luce delle lampade. Quando il vento cambiava, gli uccelli marini si separavano in un vortice di ali bianche. Di solito la rete veniva inclinata e scaricata a capofitto negli scivoli di prua, e quindi rovesciata a poppa. Le due estremità si potevano aprire mollando il nodo di uno "zipper", una corda di nailon intrecciata nella rete. Sebbene gli uomini attendessero con le pale, pronti per incominciare il lavoro, il capopesca accennò loro di scostarsi, avanzò sotto l'acqua che grondava dalla chioma di plastica della rete e guardò in su, togliendosi il casco per vedere meglio. Le strisce colorate sgocciolavano come pittura
fresca. Il capopesca tese le mani, scostò le striscioline, scrutò nel buio per cercare l'altra luce più piccola che galleggiava sulle onde lunghe dell'oceano, ma già la nebbia nascondeva l'imbarcazione da cui era venuto il carico. Il comandante estrasse dalla cintura un coltello a doppio taglio, lo infilò nella chioma di plastica grondante e segò il ventre della rete. I pesci incominciarono a cadere, alla spicciolata. Diede un ultimo strattone energico al coltello e indietreggiò in fretta. Dalla rete scivolò sotto la luce una marea argentea di merlani, un intero branco che era stato catturato in massa e tirato a bordo come una quantità di monetine lucenti. C'erano tozzi magnaroni dall'aria ammaccata; ondate sovrapposte di platesse, rossosangue dalla parte degli occhi, pallide dal lato cieco; scorfani con testa di drago; merluzzi, alcuni gonfiati come palloni dalle vesciche natatorie, alcuni scoppiati in tessuti molli e viscidume rosato; e granchi corallini pelosi come tarantole. Il bottino notturno del mare. E una ragazza. Scivolò, agile come una nuotatrice, mentre i pesci si riversavano dalla rete. Rotolò sul ponte, con un movimento pigro e le braccia storte, contro un mucchio di sogliole, con un piede nudo impigliato nei granchi. Era una giovane donna, non una ragazza. Aveva i capelli corti e la camicetta e i jeans erano fradici e gualciti, appesantiti dall'acqua e dalla sabbia e impreparati a un ritorno nel mondo dell'aria. Il capopesca sollevò una ciocca di capelli che le si era incollata sopra gli occhi e rivelò un'espressione di aperta sorpresa come se la nebbia illuminata fosse formata da nuvole d'oro, come se fosse a bordo di una barca che la portava in paradiso. 2 Quando era stata varata a Danzica, la Stella Polare aveva le quattro sovrastrutture di un bianco abbagliante, e le gru e i boma di un giallocaramella. I ponti erano puliti, intorno ai verricelli erano arrotolate catene argentee, l'esterno delle paratie era lavorato con cura. Per la verità, allora la Stella Polare sembrava una nave. Vent'anni d'acqua salata l'avevano ridipinta di ruggine. I ponti superiori avevano accumulato assi di legno, barili pieni di olio lubrificante e barili vuoti per l'olio di pesce, rifiuti delle reti e galleggianti accatastati. Dal fumaiolo nero con la banda rossa usciva il fumo scuro dei motori diesel in pessime condizioni. Adesso, vista da una certa distanza, sul lato dello scafo ammaccato e graffiato per tutte le volte che aveva scaricato i pescherec-
ci con il maltempo, la Stella Polare non sembrava tanto una nave-fattoria quanto una via di mezzo tra una fabbrica e un parco rottami, buttata in mare e rimasta assurdamente a muoversi sulle onde. Eppure la Stella Polare prendeva il pesce con efficienza, di giorno e di notte No, per la verità non lo prendeva, non sarebbe stato esatto dire così; i pescherecci più piccoli prendevano il pesce e trasferivano le reti alla navefattoria perché le prede venissero decapitate, sventrate e congelate. Da quattro mesi la Stella Polare seguiva i pescherecci americani in acque americane, dalla Siberia all'Alaska, dallo stretto di Bering alle Aleutine. Era una joint venture. Per dirla più semplicemente, i sovietici mettevano a disposizione le navi per la lavorazione e prendevano il pesce, mentre gli americani ci mettevano i pescherecci e i ripetitori a onde lunghe e incassavano i quattrini. Il tutto era gestito da una società con sede a Seattle che era per metà sovietica e per metà americana. L'equipaggio della Stella Polare aveva visto il sole si e no per due giorni, in quel periodo, perché il Mare di Bering era conosciuto anche come la Zona Grigia. Il terzo ufficiale Slava Bukovsky passò in rassegna la catena di lavorazione mentre gli operai dividevano il pesce: i merlani su un nastro trasportatore che andava alle seghe, scombri e razze verso la botola della produzione della farina di pesce. Alcuni pesci erano scoppiati quando le vesciche natatorie si erano espanse nel salire dal fondale marino, e i frammenti mollicci restavano appiccicati alle calotte, ai grembiuli di tela cerata, alle ciglia e alle labbra. Passò oltre le seghe rotanti e arrivò al "circuito sporco", dove gli operai stavano in piccoli gabbiotti ai lati del nastro trasportatore. Come automi, i primi due aprivano il ventre dei pesci fino all'ano; la seconda coppia estraeva fegato e budella con i tubi aspiranti; la terza lavava il viscidume dalla pelle, dalle branchie e dalle cavità con acqua salata; l'ultima coppia ripuliva ancora una volta il pesce con l'aspiratore e lo metteva su un altro nastro trasportatore, diretto ai congelatori. Durante un turno di otto ore, quel lavoro faceva piovere un velo di sangue e polpa fradicia sul nastro, sugli operai e sul passaggio. Non erano i classici Eroi del Lavoro, meno di tutti l'uomo magro e pallido dai capelli scuri che caricava i pesci preparati sul nastro trasportatore, in fondo alla catena. «Renko!» Arkady aspirò con il tubo l'acqua rossiccia da un ventre sbudellato, sbatté il pesce sul nastro e ne prese un altro. I merlani non avevano la carne
compatta. Se non venivano puliti e congelati in fretta, sarebbero diventati inadatti al consumo per gli esseri umani, e sarebbero finiti in pasto ai visoni; e se non andavano bene neppure per i visoni, si spedivano in Africa nel quadro degli aiuti all'estero. Aveva le mani intirizzite a forza di lavorare i pesci poco più caldi del ghiaccio; ma almeno non era alla sega come Kolya. Quando il tempo era brutto e la nave incominciava a rollare, era necessaria una grande concentrazione per far passare un merlano gelato e viscido sotto una lama. Arkady aveva imparato a infilare le punte degli stivali sotto la tavola per non scivolare. All'inizio e al termine del viaggio l'intero reparto fattoria veniva lavato con getti d'acqua e strofinato con l'ammoniaca; ma per il momento c'era un viscidume umido e puzzolente. Persino gli scatti del nastro trasportatore, il ronzio delle seghe, il gemito profondo e ritmico dello scavo erano i suoni di un leviatano che inghiottiva risolutamente il mare. Il nastro trasportatore si fermò. «Sei il marinaio Renko, no?» Arkady impiegò un momento per riconoscere il terzo ufficiale, che non scendeva spesso in quel reparto. Izrael, il direttore della fattoria, stava accanto all'interruttore generale. Indossava vari strati di maglioni, e aveva una barba ispida e nera che gli arrivava fin quasi agli occhi impazienti. Natasha Chaikovskaya, una giovane donna corpulenta con l'armatura di tela cerata ma con un tocco femminile di rossetto, si spostò senza parere per vedere meglio i Reeboks e i jeans immacolati del terzo ufficiale. «Si o no?» chiese Slava. «Non è un segreto» disse Arkady. «Non siamo a una lezione di ballo dei Giovani Pionieri» disse Izrael a Slava. «Se lo vuole, se lo porti via.» Il nastro trasportatore si rimise in movimento mentre Arkady seguiva Slava a poppa passando sui tombini dove il viscidume liquido e l'olio di fegato di pesce scorrevano attraverso i fori che sfociavano sulla fiancata. Slava si fermò per scrutare Arkady come se cercasse di penetrare un travestimento. «Sei Renko l'investigatore?» «Non lo sono più.» «Però lo eri» disse Slava. «E questo basta.» Salirono sul ponte principale. Arkady pensò che il terzo ufficiale Io stesse portando dal commissario politico o a una perquisizione della sua cabina, anche se avrebbero potuto farla senza di lui. Passarono accanto alla cambusa e all'odore caldo dei maccheroni, e svoltarono a sinistra dopo un
cartello che esortava: "Aumentate la produzione del complesso agroindustriale! Contribuite a potenziare la fornitura delle proteine di pesce!". Si fermarono davanti alla porta dell'infermeria. La porta era sorvegliata da due meccanici con il bracciale rosso dei Volontari dell'Ordine Pubblico. Skiba e Slezko erano due informatori... due "limacce" per il resto dell'equipaggio. Mentre Arkady e Slava varcavano la porta, Skiba tirò fuori un taccuino. La Stella Polare aveva un'infermeria più grande di quelle di tanti paesini: un ufficio per il dottore, un ambulatorio, una stanza con tre letti, una camera per la quarantena e una sala operatoria: e fu in questa che Slava precedette Arkady. Lungo le paratie c'erano scaffali bianchi ad antine, con recipienti di vetro che contenevano gli strumenti immersi nell'alcol, un armadio rosso chiuso dove stavano le sigarette e le sostanze pericolose, un carrello con una bombola verde d'ossigeno e una rossa di protossido d'azoto, un portacenere a colonna e una sputacchiera d'ottone. C'erano diagrammi anatomici alle pareti e un odore acre nell'aria. In un angolo stava una poltrona da dentista, al centro un tavolo operatorio d'acciaio coperto da un lenzuolo. Il lenzuolo era fradicio e aderiva a una figura femminile. Dal bordo penzolavano le cinghie. Gli oblò sembravano specchi lucidi perché fuori c'era buio pesto: erano le sei e mancava ancora un'ora all'alba. E come al solito, a quel punto del suo turno Arkady era stordito dal numero dei pesci che esistevano nel mare. Si sentiva gli occhi come gli oblò. «Che cosa volete?» domandò. «È morto qualcuno» annunciò Slava. «Lo vedo.» «Una delle ragazze della cambusa. È caduta in mare.» Arkady lanciò un'occhiata alla porta e pensò a Skiba e Slezko che stavano dall'altra parte. «E io che c'entro?» «È ovvio. Il nostro comitato sindacale deve fare un rapporto in caso di morte, e io sono il rappresentante del sindacato. Tu sei l'unico a bordo che abbia esperienza in fatto di morte violenta.» «E di resurrezione» disse Arkady. Slava sbatté le palpebre. «È come la riabilitazione, ma pare che duri di più. Lasciamo perdere.» Arkady adocchiò le sigarette nell'armadietto: erano papirosi, tubetti di cartoncino pieni di tabacco. Ma l'armadietto era chiuso a chiave. «Dov'è il dottore?» «Guarda il cadavere.» «Sigaretta?» Colto di sorpresa, Slava si frugò nel taschino della camicia e tirò fuori
un pacchetto di Marlboro. Arkady rimase molto impressionato. «In tal caso mi laverò le mani.» L'acqua che usciva dal rubinetto del lavabo era brunastra, ma tolse il viscidume e le squame dalle dita di Arkady. Una caratteristica dei marinai veterani erano i denti ingialliti a forza di bere l'acqua uscita da serbatoi pieni di ruggine. Sopra il lavabo c'era un secchio pulito, il primo che vedeva da un anno. "Resurrezione" era una bella parola; ma "riesumato", pensò, serviva meglio a descriverlo. Il turno di notte a bordo di una nave-fattoria aveva cancellato ogni colore dalla sua pelle, e un'ombra permanente gli gravava sugli occhi. Persino gli asciugamani, lì dentro, erano puliti. Pensò che sarebbe stata una buona idea ammalarsi qualche volta. «Dove facevi l'investigatore?» chiese Slava mentre accendeva la sigaretta ad Arkady che si riempì i polmoni di fumo. «Hanno sigarette a Dutch Harbor?» «Per quale genere di reati?» «Ho sentito che nel magazzino di Dutch Harbor le sigarette sono accatastate fino al soffitto. E ci sono quantità di frutta fresca. E stereo.» Slava perse la pazienza. «Che investigatore eri?» «Ero a Mosca.» Arkady buttò fuori una boccata di fumo e per la prima volta rivolse tutta l'attenzione al tavolo operatorio. «E non per gli incidenti. Se è caduta in mare, come l'avete ripescata? Non ho sentito fermare le macchine per tirarla a bordo. Com'è arrivata qui?» «Non è necessario che tu lo sappia.» Arkady disse: «Quando ero investigatore dovevo guardare gli esseri umani morti. Adesso che sono un semplice operaio sovietico, devo guardare soltanto i pesci morti. Buona fortuna». Mosse un passo verso la porta. Fu come se avesse premuto un bottone. «Era finita nella rete» disse in fretta Slava. «Veramente?» Arkady era incuriosito, nonostante tutto. «È piuttosto insolito.» «Per favore.» Arkady tornò indietro e scostò il lenzuolo. Anche con le braccia all'indietro sopra la testa, la donna era piccolina. Pallidissima, come se l'avessero candeggiata. Ancora fredda. La camicetta e i calzoni le stavano attorcigliati addosso come un sudario bagnato. Un piede calzava una scarpa di plastica rossa. Gli occhi castani spenti erano rivolti verso l'alto, nella faccia triangolare. I capelli erano corti e biondi ma avevano le radici nere. Un neo vicino alla bocca. Arkady le sollevò la testa
e la lasciò ricadere. Tastò il collo e le braccia. I gomiti erano fratturati ma non molto lividi. Le gambe erano rigide. Più che dai pesci, il puzzo del mare esalava da lei. C'era sabbia nella scarpa: aveva toccato il fondo. La pelle era scorticata sugli avambracci e sulle palme; probabilmente era stata la rete, mentre la tirava su. «Zina Patiashvili» disse Arkady. Aveva lavorato alla mensa, a distribuire patate, cavoli e composta di frutta. «Sembra diversa» osservò Slava. «Voglio dire, da quando era viva.» Una doppia differenza, pensò Arkady: il cambiamento della morte e il cambiamento causato dal mare. «Quando è caduta fuoribordo?» «Un paio di ore fa» disse Slava. Si piazzò a capo del tavolo operatorio con aria autorevole. «Doveva essere appoggiata al parapetto, ed è caduta mentre stavamo tirando a bordo la rete.» «Qualcuno l'ha vista?» «No. Era buio e c'era nebbia fitta. Con ogni probabilità è annegata appena caduta in acqua. Oppure è morta per lo shock. O non sapeva nuotare.» Arkady tastò di nuovo il collo flaccido e disse: «È più probabile che sia finita in acqua ventiquattr'ore fa. Il rigor mortis si diffonde dalla testa ai piedi e sparisce nello stesso modo». Slava oscillò leggermente sui tacchi ma non per il movimento della nave. Arkady lanciò un'occhiata alla porta e abbassò la voce. «Quanti americani ci sono a bordo?» «Quattro. Tre sono rappresentanti della compagnia, uno è un osservatore del Servizio Pesca.» «Lo sanno?» «No» disse Slava. «Due erano in cuccetta. L'altro rappresentante era al parapetto di poppa, molto lontano. L'osservatore era sottocoperta a bere un tè. Per fortuna il capopesca ha avuto l'intelligenza di coprire il cadavere prima che uno degli americani potesse vederlo.» «La rete è di un peschereccio americano. Loro non hanno visto niente?» «Quelli non sanno mai cos'hanno pescato fino a che non glielo diciamo noi.» Slava rifletté. «Dovremmo preparare una spiegazione come si deve, per ogni evenienza.» «Ah, una spiegazione. Zina lavorava in cambusa.» «Sì.» «Avvelenamento da cibo?» «Non è questo che intendevo.» Slava diventò rosso in faccia. «E poi, il
dottore l'ha controllata quando l'abbiamo portata qui e ha detto che è morta da due ore appena. E se tu fossi un investigatore tanto efficiente saresti ancora a Mosca.» «Questo è vero.» Il turno di Arkady era finito e perciò andò nella cabina che divideva con Obidin, Kolya Mer e un elettricista, Gury Gladky. Non erano marinai modello. Gury era sdraiato sulla cuccetta in basso e sfogliava un catalogo americano di vendite per corrispondenza. Obidin aveva appeso l'impermeabile e si stava lavando il viscidume che gli si era incollato alla barba come ragnatele a un piumino per spolverare. Una grossa croce ortodossa gli oscillava sul petto. La voce era un rombo: se un uomo avesse potuto parlare a suo agio dalla tomba, avrebbe avuto i toni di Obidin. «È l'Antibibbia» disse a Kolya guardando Gury e Obidin. «È opera di un Anticristo.» «E non ha ancora visto l'Immagine» disse Gury mentre Arkady si arrampicava sulla cuccetta in alto. Nel tempo libero, Gury portava sempre occhiali scuri e un giubbotto di pelle nera, come un aviatore in libera uscita. «Sai che cosa vuol fare a Dutch Harbor? Andare in chiesa.» «Il popolo ne ha conservata una» disse Obidin. «È l'ultimo vestigio della Santa Russia.» «La Santa Russia? Il popolo? Stai parlando dei fottuti selvaggi delle Aleutine!» Kolya contò i vasetti. Aveva cinquanta vasetti di cartone, ognuno di cinque centimetri. Aveva studiato da botanico e a sentirlo parlare del porto di Dutch Harbor e dell'isola di Unalaska c'era da immaginare che la nave stesse per attraccare in paradiso e che lui potesse scegliersi l'angolo preferito del Giardino Celeste. «La farina di pesce mescolata alla terra servirà da concime» disse. «Credi davvero che ce la faranno ad arrivare fino a Vladivostok?» Un pensiero colpì Gury. «Che razza di fiori sono?» «Orchidee. Sono molto più resistenti di quanto credi.» «Orchidee americane? Andrebbero come il pane, e avrai bisogno di qualcuno che ti aiuti a vendere.» «Sono uguali alle orchidee siberiane di palude» disse Kolya. «Questo è il punto.» «Era tutta Santa Russia» disse Obidin, come se la natura fosse d'accordo. Gury implorò: «Arkady, aiutami. "Questo è il punto"? Passeremo un giorno solo in un porto americano. Mer lo passerà in cerca di qualche fot-
tuto fiore siberiano, e Obidin vuole andare a pregare con i cannibali. Spiegaglielo un po': a te danno ascolto. Passiamo cinque mesi in questo vespasiano navigante per un giorno in porto. Sotto la mia cuccetta ho posto per cinque stereo e circa cento cassette. O computer discs. Tutte le scuole di Vladivostok hanno gli Yamaha... o meglio dovrebbero averli. Un giorno o l'altro. Quindi, tutto ciò che è compatibile vale un patrimonio. Quando torneremo a casa non ho intenzione di scendere dalla passerella, gridare "Guardate cos'ho preso in America'' e mostrare qualche vaso di fiori siberiani». Kolya si schiarì la gola. Era il più piccolo dei quattro e si comportava con il disagio del pesce più minuto di un acquario. «Che cosa voleva Bukovsky?» chiese ad Arkady. «Quel Bukovsky mi fa girare le scatole.» Gury studiò l'immagine di un televisore a colori. «Guarda qui: diciannove pollici. Com'è grande? Io avevo un televisore a colori Foton nel mio appartamento. È scoppiato come una bomba.» «I tubi catodici hanno qualcosa che non va» disse Kolya con aria tollerante. «Lo sanno tutti.» «Perciò tenevo un secchio pieno di sabbia vicino all'apparecchio, grazie a Dio.» Gury si tese e fissò Arkady. «Allora, cosa voleva da te il terzo ufficiale?» Tra il soffitto e la cuccetta c'era spazio a sufficienza perché Arkady si incuneasse in una posizione semiseduta. L'oblò mostrava una vaga linea grigia: il levar del sole sul mare di Bering. «Conoscete Zina della cambusa?» «La bionda» disse Gury. «Di Vladivostok.» Kolya ammonticchiò i vasetti. Gury sogghignò. Aveva gli incisivi di porcellana e oro, ed erano un ornamento non meno di una protesi odontoiatrica. «A Bukovsky piace Zina? Quella gli farebbe un nodo all'uccello, lo friggerebbe e poi gli chiederebbe se gli piacciono i pretzel. E magari lui direbbe di sì.» Arkady si rivolse a Obidin: poteva contare su un giudizio tratto dall'Antico Testamento, da parte sua. «Una meretrice» disse Obidin, ed esaminò i barattoli allineati sul fondo del guardaroba. I coperchi erano bloccati da un sughero e da un tubetto di gomma. Ne svitò uno e lasciò esalare l'odore dolce dell'uva fermentata. Sbirciò un barattolo di patate. «È pericoloso?» chiese Gury a Kolya. «Lo scienziato sei tu. Con tutti
quei vapori, possono esplodere? Esiste qualche frutto o qualche verdura che lui non possa usare per ricavare l'alcol? Ricordate le banane?» Arkady le ricordava. L'armadio, a quel tempo, puzzava come una giungla tropicale marcia. «Con lievito e zucchero, può fermentare in pratica qualunque cosa» disse Kolya. «Le donne non dovrebbero stare sulle navi» disse Obidin. Sul retro dell'armadio c'era una piccola icona di san Vladimiro fissata con un chiodo. Giunse il pollice all'indice e al medio, si toccò la fronte, il petto, la spalla destra, la spalla sinistra, il cuore, e poi appese una camicia al chiodo. «Io prego perché veniamo liberati.» Incuriosito, Arkady disse: «Da chi?». «Battisti, ebrei, massoni.» «Anche se è difficile immaginare insieme Bukovsky e Zina» commentò Gury. «A me è piaciuto il suo costume da bagno» disse Kolya. «Quel giorno al largo dell'isola di Sakhalin.» Un cerchio d'acqua tiepida era salito a nord dall'equatore e aveva causato qualche ora di una falsa estate. «Quel tanga.» «Un uomo giusto si copre la faccia con la barba» disse Obidin ad Arkady. «Una donna pudica non si espone agli occhi del pubblico.» «Adesso è pudica» disse Arkady. «È morta.» «Zina?» Gury si sollevò a sedere, si tolse gli occhiali scuri e si alzò per trovarsi alla stessa altezza di Arkady. «Morta?» Kolya deviò lo sguardo. Obidin si fece di nuovo il segno della croce. Arkady pensò che probabilmente tutti e tre sapevano sul conto di Zina Patiashvili molte più cose di lui. Ricordava soprattutto quel giorno così anomalo al largo dell'isola di Sakhalin, quando si era pavoneggiata sul ponte della pallavolo in costume da bagno. I russi amano il sole. Tutti portavano i costumi più succinti per esporre la chiara pelle al massimo possibile di luce solare. Ma Zina aveva qualcosa di più di un ridottissimo costume da bagno. Aveva un corpo occidentale dalla voluttuosità ossuta. Sul tavolo operatorio dell'infermeria sembrava invece uno straccio bagnato, e non somigliava per nulla alla Zina che passeggiava avanti e indietro sul ponte e si piazzava in posa contro la frisata con gli occhiali da sole neri come una maschera. «È caduta in mare, e l'ha tirata su la rete.» Gli altri tre lo fissarono. Poi Gury ruppe il silenzio. «E allora, perché
Bukovsky ti voleva?» Arkady non sapeva come spiegare. Ognuno aveva il suo passato. Gury era sempre stato l'uomo del bizness, e trafficava entro i limiti della legge e anche al di fuori. Kolya era passato dall'accademia al campo di lavoro, e Obidin zigzagava tra la guardina per ubriachi e la chiesa. Arkady aveva vissuto con uomini come loro, dopo Mosca; e niente approfondiva la conoscenza più dell'esilio interno. Mosca era uno scialbo alveare di apparatchiki in confronto alla variopinta società siberiana. Comunque, provò sollievo quando sentì bussare bruscamente alla porta della cabina e vide di nuovo la faccia di Slava Bukovsky, anche se il terzo ufficiale entrò con un inchino beffardo e gli rivolse la parola in tono di disprezzo. «Il comandante vuole vederti, compagno investigatore.» 3 Viktor Sergeivich Marchuk non portava uniformi o galloni d'oro che annunciassero il suo grado di capitano. Davanti al Circolo dei Marinai di Vladivostok, Arkady aveva visto la sua faccia tra i grandi ritratti dei comandanti più noti della flotta pescherecci dell'Estremo Oriente. Ma la foto addolciva la faccia di Marchuk e lo presentava in giacca e cravatta, tanto da dare l'impressione che fosse un burocrate. Visto di persona, Marchuk aveva una faccia con tanti spigoli di legno intagliato rozzamente e resa più affilata da una ordinata barba nera da individualista; e comandava la sua nave con il maglione e i jeans di chi è abituato a vivere all'aperto. Tra i suoi antenati c'era un asiatico e c'era un cosacco. L'intero paese veniva gestito da una nuova razza d'uomini venuti dalla Siberia: economisti di Novosibirsk, scrittori di Irkutsk e marinai moderni di Vladivostok. Ma il comandante sembrava frastornato mentre contemplava il disordine sulla scrivania: il fascicolo personale di un marinaio, un codice e un cifrario, carta per appunti coperta da file di numeri, alcuni cerchiati in rosso, e una seconda pagina di lettere. Alzò gli occhi come se cercasse di mettere a fuoco la figura di Arkady. Slava Bukovsky indietreggiò di un passo, per discrezione, dall'oggetto dell'attenzione del comandante. «È sempre interessante conoscere i membri dell'equipaggio.» Marchuk indicò il fascicolo. «"Ex investigatore". Ho chiesto informazioni via radio. Marinaio Renko, ecco alcuni dettagli.» L'indice massiccio batté sulle lettere decifrate. «Investigatore della procura di Mosca allontanato per inaffidabilità politica. Visto successivamente nella città di Norilsk, in fuga. Non
è una gran vergogna, molti dei nostri migliori cittadini arrivano all'est in catene. Purché si redimano. A Norilsk facevi il guardiano notturno. Come ex moscovita, trovavi le notti troppo fredde?» «Ho dato fuoco a tre bidoni di catrame e mi sono seduto in mezzo. Sembravo la vittima di un sacrificio umano.» Mentre Marchuk chinava la testa per continuare a leggere, Arkady si guardò intorno. C'erano un tappeto persiano sul pavimento, un sofà nell'angolo, una libreria nautica con gli scaffali a ringhiera, televisore, radio e una scrivania d'antiquariato grande quanto una scialuppa di salvataggio. Sopra il divano, una foto di Lenin che arringava marinai e cadetti. Tre orologi indicavano l'ora locale, quella di Vladivostok e quella di Greenwich. La nave funzionava secondo l'ora di Vladivostok, nel giornale di bordo veniva usata quella di Greenwich. Nel complesso, l'ufficio del comandante aveva tutta l'aria di uno studio privato che, per puro caso, aveva paratie verde-tiglio al posto dei muri. «Licenziato per distruzione di proprietà dello stato, è scritto qui. Immagino che fosse il catrame. Poi sei riuscito a farti assumere in un macello.» «Trascinavo le renne al mattatoio.» «Ma qui dice che sei stato licenziato per istigazione politica.» «Lavoravo con due buriati e nessuno dei due capiva il russo. Forse hanno parlato le renne.» «Poi sei comparso a bordo d'un peschereccio costiero, a Sakhalin. E questo mi sorprende veramente, marinaio Renko. Lavorare su uno di quei vecchi pescherecci è come essere sulla luna. Il lavoro peggiore per la peggior paga. L'equipaggio è formato da uomini che scappano per sfuggire alle mogli, all'obbligo del mantenimento dei figli, alle conseguenze di piccoli reati o addirittura a un omicidio colposo. Nessuno ci bada perché abbiamo bisogno di marinai sulla costa del Pacifico. E invece, ecco qui di nuovo: "Licenziato per inaffidabilità politica". Per favore, vuoi dirci che cosa facevi a Mosca?». «Il mio lavoro.» Marchuk prese da un cassetto un sigaro, uno spuntasigari e i fiammiferi. Arkady aveva sentito dire che il comandante era stato assegnato per un paio d'anni a Cuba, dove aveva cercato d'insegnare ai cubani a sfruttare il mare. Come gesto amichevole, l'Unione Sovietica aveva fatto in modo che Cuba avesse i migliori pescherecci e le migliori navi-fattorie. Modelli polacchi in grande stile. A quanto pareva, i cubani erano efficienti quando si trattava di tirare il pesce a bordo, ma non si curavano di congelarlo finché
era fresco. Marchuk l'aveva detto a Fidel, che in segno di gratitudine per la sua sincerità gli aveva riempito le braccia di rum, maracas e sigari e l'aveva rimandato a casa con il primo volo dell'Aeroflot. Marchuk allontanò il fumo azzurro agitando la mano. «Renko, sei a bordo della Stella Polare da circa sei mesi. Non sei sceso a terra neppure quando siamo tornati a Vladivostok.» Quando un marinaio sbarcava, doveva passare al controllo della Guardia Confinaria, un ramo del KGB. «Amo il mare» disse Arkady. «Sono il comandante della flotta dell'Estremo Oriente» disse Marchuk. «Sono un eroe del lavoro socialista, ma neppure io amo il mare fino a questo punto. Comunque volevo congratularmi con te. Il dottore ha modificato il suo referto. Zina Patiashvili era morta la notte prima, non stanotte. Come rappresentante del sindacato, il compagno Bukovsky dovrà preparare il rapporto in proposito.» «Senza dubbio il compagno Bukovsky è all'altezza del compito.» «È animato dalla migliore volontà. Tuttavia un terzo ufficiale non è un investigatore. Te escluso, a bordo non c'è nessuno.» «Mi sembra un giovane pieno d'iniziativa. Ha già trovato il settore fattoria. Gli auguro buona fortuna.» «Comportiamoci da persone serie. La Stella Polare ha un equipaggio di duecentosettanta persone tra marinai, meccanici e operai come te. Cinquanta sono donne. Siamo un villaggio sovietico in acque americane. La notizia di una morte fuori dal comune a bordo di questa nave troverà sempre un orecchio interessato. È indispensabile che niente faccia sospettare un insabbiamento o una mancanza d'interesse.» «Allora gli americani lo sanno già» fu il commento di Arkady. Marchuk dovette ammetterlo. «Il loro rappresentante principale è venuto a trovarmi. La situazione è ancora più complicata dal fatto che quella povera ragazza è morta due notti fa Parli inglese?» «Non ho occasione di parlarlo da molto tempo. E comunque gli americani che abbiamo a bordo parlano russo.» «Però non balli.» «Non ho ballato negli ultimi tempi.» «Due sere fa abbiamo avuto un ballo» rammentò Slava ad Arkady. «In onore dei pescatori di tutte le nazioni.» «Io stavo ancora pulendo i pesci. Sono andato a dare un'occhiata prima d'incominciare il turno.» Il ballo s'era svolto nella mensa. Dalla porta Ar-
kady aveva visto soltanto le figure che si dimenavano nelle luci riflesse da un globo di specchi. «Lei suonava il sassofono» disse a Slava. «Avevamo ospiti» disse Marchuk. «C'erano due pescherecci americani ormeggiati alla Stella Polare, e molti dei pescatori erano venuti al ballo. È possibile che tu voglia parlare con loro. Non conoscono il russo. Naturalmente non è un'indagine ufficiale: quella, come hai detto, dovrà essere svolta dalle autorità competenti quando torneremo a Vladivostok. Ma le informazioni devono essere raccolte subito, finché i ricordi sono ancora freschi. Bukovsky ha bisogno della collaborazione di qualcuno che abbia esperienza in materia e conosca l'inglese. Solo per oggi.» «Con tutto il rispetto» intervenne Slava, «posso fare io le domande giuste e senza bisogno dell'aiuto di Renko. Dobbiamo tenere presente che il rapporto sarà esaminato dalla flotta, dai dipartimenti del ministero, da...» «Non dimentichi il pensiero di Lenin: "La burocrazia è merda!"» disse Marchuk. Poi si rivolse ad Arkady. «La Patiashvili era al ballo, che si è svolto più o meno nell'orario in cui hai detto che è morta. Possiamo considerarci fortunati di avere a bordo della Stella Polare qualcuno con la tua specializzazione, e immaginiamo che anche tu ti ritenga fortunato di avere l'occasione di renderti utile alla tua nave.» Arkady guardò la montagna di carte sulla scrivania. «E la mia affidabilità politica?» Il sorriso di Marchuk appariva ancora più sorprendente nel contrasto con la barba. Un pirata, pensò Arkady. Era un aspetto che non appariva nel ritratto davanti al Circolo dei Marinai. «Abbiamo un esperto per quanto riguarda la tua affidabilità. Slava, un certo interesse per il marinaio Renko è stato espresso dal nostro amico, il compagno Volovoi. Non ci permetteremmo mai d'incominciare qualcosa senza di lui.» Nella mensa venivano proiettati i film due volte al giorno. Dal corridoio Arkady vedeva soltanto le immagini confuse su uno schermo piazzato sul palco dove due sere prima avevano suonato Slava e il suo complesso. Un aereo stava atterrando in un aeroporto moderno: un'ambientazione straniera. Le macchine si accostavano al marciapiedi del terminal: erano berline, magari vecchie di qualche anno e un po' ammaccate ma indiscutibilmente americane. Si sentivano voci dall'accento americano che si rivolgevano l'una all'altra, «Mr. Tale» e «Mr. Talaltro». L'obiettivo inquadrò un paio di scarpe straniere.
«Vigilanza all'estero» borbottò qualcuno mentre usciva. «Tutto sulla CIA.» Era Karp Korobetz. Con il torace a botte e l'attaccatura dei capelli che incominciava a un millimetro dalle sopracciglia, il capopesca somigliava alle statue massicce erette nel dopoguerra, il soldato che solleva il fucile, il marinaio che spara il cannone, come se la vittoria fosse stata conquistata dai cavernicoli. Era il lavoratore modello della Stella Polare. Nel corridoio c'era un tabellone con il punteggio della competizione in corso fra i tre turni: ogni settimana, ai vincitori spettava un gagliardetto dorato. Veniva assegnato un certo numero di punti per la quantità di pesce pescato, per la qualità di pesce lavorato, per la percentuale dell'importantissima quota. La squadra di Karp aveva vinto il gagliardetto per un mese dopo l'altro. E dato che la squadra di Arkady faceva lo stesso turno, avevano vinto anche loro. "Voi costruite il comunismo sfamando il popolo sovietico!" diceva lo striscione sopra il punteggio. Si riferiva a lui e a Karp. Il capopesca tirò fuori pigramente una sigaretta. Chi lavorava sul ponte non degnava di molta attenzione quelli che lavoravano sottocoperta. Diede appena un'occhiata a Slava. Sullo schermo, un agente segreto passava pacchetti bianchi a un altro. «Eroina» disse Karp. «O zucchero» disse Arkady. Anche lo zucchero era molto difficile da trovare. «È stato il capopesca Korobetz a trovare Zina» disse Slava, cambiando argomento. «Che ora era?» chiese Arkady. «Verso le tre» rispose Karp. «C'era nient'altro nella rete?» «No. Perché sei tu a fare queste domande?» chiese Karp. Il suo sguardo era cambiato, come se una statua avesse aperto gli occhi. «Sembra che il marinaio Renko abbia esperienza in questo genere di cose» disse Slava. «Gente che cade in mare?» chiese Karp. «La conosceva?» «La vedevo qui in giro. Serviva da mangiare.» L'interesse di Karp si accentuava. Provò a ripetere il nome di Arkady come se suonasse una campana. «Renko, Renko. Da dove vieni?» «Da Mosca» rispose Slava. «Mosca?» Karp emise un fischio. «Devi averne fatta una proprio grossa
per finire qui.» «Ma siamo qui, orgogliosi di essere lavoratori della flotta dell'Estremo Oriente» disse Volovoi che sopraggiungeva in quel momento e teneva d'occhio un altro nuovo arrivato, un ragazzo americano con le lentiggini e una gran massa di capelli, che si stava avvicinando con aria guardinga. «Bernie, entra, prego» disse Volovoi. «È un film di spionaggio. Molto emozionante.» «Vuoi dire che i cattivi siamo noi, no?» Bernie sorrise timidamente. Aveva un accento che si notava appena. «Altrimenti come potrebbe essere un film di spionaggio?» disse ridendo Volovoi. «Consideralo un film comico» suggerì Arkady. «Sicuro.» A Bernie l'idea piaceva. «Bene, divertiti» disse Volovoi, anche se aveva smesso di ridere. «Il compagno Bukovsky ti troverà un buon posto.» Il primo ufficiale condusse Arkady in fondo al corridoio, nella biblioteca di bordo, una stanza dove l'aspirante lettore era costretto a infilarsi di sbieco tra gli scaffali. La collezione era limitata, ed era interessante vedere quali autori vi erano rappresentati. Jack London era molto popolare, come le storie di guerra, la fantascienza e un genere letterario chiamato "i romanzi dei trattori". Volovoi congedò la bibliotecaria e sedette alla sua scrivania, scostò la teiera, i barattoli di colla e i libri con il dorso rotto per far posto a un fascicolo che tirò fuori dalla borsa. Arkady aveva sempre cercato di stare alla larga dall'ufficiale politico, di rimanere in ultima fila alle riunioni e di evitare le feste. Era la prima volta che loro due si trovavano soli. Sebbene Volovoi fosse il primo ufficiale della nave e portasse abitualmente giubbotto e stivali da pescatore, non toccava mai il timone, una rete o una carta nautica. Infatti, il primo ufficiale era il commissario politico: e c'era un altro ufficiale che si occupava di cose prosaiche riguardanti la pesca e la navigazione. Erano cose che confondevano le idee. Il primo ufficiale Volovoi era responsabile della disciplina e del morale, dei cartelli dipinti a mano che nel corridoio proclamavano "Il terzo turno vince il gagliardetto d'oro per la competizione socialista!". Era lui che a mezzogiorno leggeva il notiziario alla radio di bordo, e mescolava i telegrammi per gli orgogliosi padri di bambini appena nati a Vladivostok alle informazioni sul Mozambico rivoluzionario, agli annunci dei film e dei tornei di pallavolo. E soprattutto era lui che scriveva una valutazione sul lavoro e sul compor-
tamento politico di ogni membro dell'equipaggio, dal comandante in giù, e sottoponeva i suoi giudizi alla Sezione Marittima del KGB. Volovoi non era certo un soggetto debole. Era il campione di sollevamento pesi della nave, ed era quel tipo di individuo dai capelli rossi con gli occhi sempre arrossati, le palpebre e le labbra incrostate dall'eczema, le mani carnose e ben curate con il dorso coperto di pelo dorato. L'equipaggio aveva soprannominato "invalidi" gli ufficiali politici perché non facevano un vero lavoro: ma Fedor Volovoi era l'invalido più sano che Arkady avesse mai visto. «Renko» disse Volovoi, come per familiarizzarsi con un problema. «Investigatore capo. Licenziato. Espulso dal partito. Riabilitazione psichiatrica. Vedi, ho lo stesso fascicolo che ha il comandante. Assegnato al lavoro nel settore orientale della Repubblica Russa.» «Siberia.» «So dov'è il settore orientale, e noto che hai il senso dell'umorismo.» «Mi sono dato da fare per svilupparlo in questi ultimi anni.» «Bene, perché ho anche un rapporto più completo.» Volovoi mise sulla scrivania un fascicolo più voluminoso. «A Mosca ci fu un omicidio. E alla fine tu uccidesti il procuratore: un esito inaspettato. Chi è il colonnello Pribluda?» «Un ufficiale del KGB. Parlò in mio favore all'inchiesta, e alla fine fu deciso di non incriminarmi.» «Ma sei stato espulso dal partito e messo sotto osservazione psichiatrica. È la sorte di un innocente?» «L'innocenza non c'entrava.» «E chi è Irina Asanova?» Volovoi lesse il nome. «Un'ex cittadina sovietica.» «Intendi dire una donna che aiutasti a defezionare e che da allora ha diffuso una quantità di voci calunniose sulla tua sorte.» «Che voci sono?» chiese Arkady. «Sono molto lontane dalla verità?» «Sei rimasto in contatto con lei?» «Da qui?» «Sei stato interrogato in precedenza.» «Molte volte.» Volovoi sfogliò le pagine del fascicolo. «"Inaffidabilità politica."... "inaffidabilità politica". Lascia che ti dica che cosa trovo di tanto divertente, come primo ufficiale. Tra pochi giorni saremo a Dutch Harbor. Tutti, su questa nave, scenderanno a far spese; con un'eccezione. Tu. Perché tutti su
questa nave hanno un visto da marinaio numero uno, con un'eccezione... sempre tu. Devo presumere che abbia solo un visto numero due perché le persone che hanno motivo di sapere come stanno le cose sono convinte che non ci si possa fidare di te nei contatti con gli stranieri in un porto straniero. Tuttavia il comandante vuole che tu collabori con Bukovsky e addirittura lo aiuti a parlare con gli americani che abbiamo a bordo e con quelli dei pescherecci. È molto divertente... o molto strano.» Arkady alzò le spalle. «L'umorismo è una cosa davvero personale.» «Ma essere espulso dal partito...» L'invalido teneva a battere su quel chiodo, pensò Arkady. Non era tanto il licenziamento e l'esilio... la punizione vera, la paura di ogni apparatchik, era perdere la tessera del partito. Molotov, per esempio, era stato denunciato per aver compilato le liste di migliaia di vittime di Stalin da assassinare. Ma non si era trovato veramente nei guai fino a quando non gli avevano tolto la tessera. «L'appartenenza al partito era un onore troppo grande. Non lo meritavo.» «A quanto pare.» Volovoi continuò a rimuginare sul fascicolo. Forse le parole erano troppo dolorose. Alzò gli occhi verso gli scaffali, come se là non potesse trovare nulla di altrettanto sconvolgente. «Il comandante è iscritto al partito, è ovvio. Ma come molti suoi colleghi ha un carattere deciso, una personalità amante del rischio. È un esperto quando si tratta di pescare, evitare gli iceberg virando semplicemente a dritta o a sinistra. Ma la politica e la personalità umana sono più complicate, più pericolose. Naturalmente tiene a sapere cos'è successo alla ragazza morta. Ci teniamo tutti. Niente è più importante. Ecco perché è essenziale un adeguato controllo d'ogni eventuale indagine.» «Questo l'ho già sentito» ammise Arkady. «Ma non hai ascoltato. Allora eri iscritto al partito, eri un uomo importante. Vedo dal tuo fascicolo che non sei sceso a terra da quasi un anno. Renko, sei prigioniero su questa nave. Quando rientreremo a Vladivostok, mentre i tuoi compagni di cabina torneranno dalle amichette o dalle famiglie, tu sarai accolto dalla Guardia Confinaria, che fa parte del servizio di sicurezza dello Stato. Lo sai, altrimenti avresti lasciato la nave l'ultima volta che siamo tornati in patria. Non hai una casa, non hai un posto dove andare. La tua unica speranza è una valutazione fortemente positiva da parte della Stella Polare. E la valutazione la scrivo io.» «Che cosa vuole?» «Mi aspetto» disse Volovoi, «di venire informato minuziosamente e con
discrezione prima che sia fatto rapporto al comandante.» «Ah.» Arkady chinò la testa. «Be', non è un'indagine. Si tratta solo di fare qualche domanda per un giorno. Non sono io a decidere.» «Dato che Slava Bukovsky parla pochissimo l'inglese, è evidente che toccherà a te fare una parte delle domande. È necessario far domande e accertare la verità per poter raggiungere conclusioni esatte. È importante che nessuna informazione venga data agli americani.» «Potrò fare del mio meglio, non di più. Le va una morte accidentale? Avevamo pensato a un avvelenamento da cibo. Un omicidio?» «È importante anche proteggere il buon nome della nave.» «Il suicidio può avvenire in molte forme.» «E la reputazione della sfortunata lavoratrice.» «Potremmo dichiarare che è ancora viva ed eleggerla Reginetta della Festa dei Pescatori. Come preferisce. Lei scriva, e io firmo subito.» Volovoi chiuse il fascicolo, lo buttò nella borsa, scostò la sedia, si alzò e sembrò riempire la sua metà della biblioteca. Gli occhi rossi diventarono ancora più rossi e più fissi, nella reazione istintiva di un uomo che guarda un nemico naturale. Arkady sostenne il suo sguardo. Anch'io ti conosco... «Posso andare, compagno?» «Sì.» La voce di Volovoi era diventata secca. «Renko...» soggiunse mentre Arkady si voltava per uscire. «Sì?» «Mi sembra che la tua specialità sia il suicidio.» 4 Zina Patiashvili era stesa sul tavolo, con la testa appoggiata a un blocco di legno. Era stata carina, con quel profilo quasi greco che a volte hanno le georgiane. Labbra carnose, collo e arti eleganti, pelo pubico nero e capelli biondi. Che cosa aveva cercato di diventare, una scandinava? Era finita in mare, aveva toccato il fondo e ne era risalita senza segni apparenti di corruzione, a parte l'immobilità della morte. Dopo la tensione del rigor mortis, la carne si afflosciava sulle ossa: i seni si schiacciavano sulle costole, la bocca e la mascella erano allentate, gli occhi appiattiti sotto le palpebre semiaperte, e la pelle aveva un pallore luminoso chiazzato di lividi. E l'odore. La sala operatoria non era un obitorio dove si fa abbondante uso di formaldeide, e il corpo bastava a saturare la sala di un odore simile a quel-
lo del latte andato a male. Arkady accese una seconda Belomor con il mozzicone della prima e si riempì i polmoni. Tabacco russo: più forte era, meglio era. Su un diagramma medico tracciò quattro profili: anteriore, posteriore, destro, sinistro. Zina parve levitare nel flash della macchina fotografica di Slava e riassestarsi sul tavolo mentre la sua ombra svaniva. All'inizio il terzo ufficiale non aveva voluto saperne di assistere all'autopsia; ma Arkady aveva insistito perché non voleva che Slava, già ostile in partenza, non potesse più tardi sostenere che le risultanze erano prevenute o incomplete. Se quello era un ultimo sussulto di orgoglio professionale da parte di Arkady, lui era indeciso fra l'essere divertito o disgustato nei confronti di se stesso. Le avventure di uno sventrapesci! A quel punto, Slava scattava fotografie come un fotoreporter della Tass con esperienza in zona di guerra, mentre Arkady si sentiva male. «Tutto sommato» stava dicendo il dottor Vainu, «questo viaggio è stato una grande delusione. Sulla terraferma avevo un buon mercato di sedativi. Valeryanka, Pantalginum, persino pillole straniere. Ma le donne su questa nave sono tutte amazzoni. Non ci sono neppure molti aborti.» Vainu era un giovane tisico che di solito riceveva i pazienti in tuta da ginnastica e pantofole, ma per l'autopsia aveva indossato un camice da laboratorio con il taschino macchiato d'inchiostro. Come sempre, fumava senza interruzione le sigarette con l'anti-stormine per combattere il mal di mare. Teneva la sigaretta tra l'anulare e il mignolo e ogni volta che tirava una boccata la mano gli copriva la faccia come una maschera. Su un tavolino c'erano gli strumenti chirurgici: bisturi, estensori, pinze, una piccola sega rotante per amputazioni. Sul ripiano inferiore c'era un recipiente d'acciaio che conteneva gli indumenti di Zina. «Mi dispiace di aver sbagliato nell'indicare l'ora della morte» soggiunse Vainu con disinvoltura. «Ma chi avrebbe immaginato che un peschereccio la prendesse nella rete più di un giorno dopo che era caduta in acqua?» Arkady cercava di fumare e di disegnare nello stesso tempo. A Mosca era il patologo a fare tutto il lavoro, e l'investigatore si limitava a entrare e uscire. C'erano laboratori, squadre di specialisti, un apparato di professionisti, e la forza della routine. Una delle sue consolazioni, negli ultimi anni, era stato il pensiero che non avrebbe più avuto a che fare con le vittime... e tanto meno con una ragazza ripescata dal mare. Un lezzo salmastro si mescolava all'odore della morte: era il lezzo del pesce che era passato per la
catena della lavorazione, e adesso era quello della ragazza estratta dall'acqua nella stessa rete, con i capelli incrostati, le braccia, le gambe e i seni resi violacei dalle chiazze di sangue stagnante. «E poi, è molto difficile stimare l'ora del decesso in base al rigor mortis, soprattutto quando fa freddo» continuò Vainu. «È solo una contrazione causata dalle reazioni fisiche dopo la morte. Sapeva che se taglia un filetto di pesce prima del rigor mortis, la carne si contrae e diventa dura comunque?» La penna sfuggi dalla mano di Arkady e, quando si chinò per raccoglierla, la urtò con il piede. «Si direbbe che sia la tua prima autopsia.» Slava raccattò la penna e osservò il tavolo operatorio con aria clinica. Si rivolse al dottore. «Sembra piena di lividi. Pensa che sia stata urtata dall'elica?» «Ma gli abiti non sono strappati. Secondo la mia esperienza sono stati pugni, non l'elica, a ridurla così» dichiarò Vainu. Secondo la sua esperienza? Ma aveva sempre avuto a che fare con fratture e appendiciti. Tutto il resto lo curava con linimento e aspirina perché, diceva, l'infermeria si occupava principalmente di alcol e di droga. Per quello il tavolo aveva le cinghie per tener fermi i pazienti. Un mese prima la Stella Polare aveva finito la morfina. Arkady lesse le prime righe del diagramma: "Patiashvili, Zinaida Petrovna. Nata 28.8.61, Tbilisi, RSSG. Statura, m. 1,60. Peso, kg 48. Capelli: neri (tinti di biondo). Occhi: castani". Porse la cartelletta a Vainu e cominciò a camminare intorno al tavolo. Come un uomo che ha terrore dell'altezza si concentra su un gradino alla volta, Arkady parlava lentamente e passava da un dettaglio all'altro. «Dottore, indichi che i gomiti sono fratturati. I pochi lividi fanno pensare che si sono fratturati dopo la morte, e a una bassa temperatura corporea.» Trasse un respiro profondo e fletté le gambe della morta. «Scriva lo stesso per le ginocchia.» Slava si avvicinò, puntò la macchina fotografica e scattò un'altra istantanea, scegliendo l'angolazione come un regista al suo primo film. «Usa pellicole a colori o in bianco e nero?» chiese Vainu. «A colori» rispose Slava. «Sugli avambracci e sui polpacci» continuò Arkady, «ci sono ristagni di sangue, non dovuti a ematomi, ma causati probabilmente dalla posizione dopo la morte. Lo stesso sui seni.» Sui seni, il sangue sotto la pelle sembrava una seconda coppia di areole brunastre. Non era in grado di svolgere
quel compito, pensò Arkady. Avrebbe dovuto rifiutare. «Sulla spalla sinistra, sul lato sinistro della cassa toracica e sull'anca sinistra alcuni lividi leggeri, spaziati a intervalli regolari.» Prese una riga dal tavolo. «In tutto, dieci lividi evidenti, distanziati di circa cinque centimetri.» «Puoi tenere ferma quella riga?» protestò Slava, e scattò un'altra foto. «Credo che il nostro ex investigatore abbia bisogno di bere qualcosa» disse Vainu. Arkady era d'accordo. Le mani della ragazza sembravano di argilla, molle e fresca. «Le unghie non sono spezzate, e sotto non c'è traccia di tessuti. Il dottore provvederà a raschiarle e a esaminarle al microscopio.» «Ha bisogno di qualcosa da bere o di una gruccia» disse Slava. Arkady tirò una boccata profonda della Belomor prima di spalancare la bocca di Zina. «Sulle labbra e sulla lingua non appaiono ematomi o tagli.» Richiuse la bocca della morta e inclinò la testa per guardarle nelle narici. Strinse il naso, quindi sollevò le palpebre sulle iridi ellittiche. «Prenda nota di una chiazza nel bianco dell'occhio sinistro.» «Che cosa significa?» chiese Slava. «Non sono segni di un colpo diretto» continuò Arkady. «Probabilmente è stato causato da un colpo sulla parte posteriore del cranio.» Girò Zina e scostò dalla nuca i capelli irrigiditi dall'acqua salata. C'era un livido nero. Riprese la cartelletta dalle mani di Vainu e disse: «Tagli». Il dottore scelse un bisturi e, continuando a fumare la sigaretta con un lungo cilindro di cenere, effettuò un'incisione lungo le vertebre cervicali. Arkady sostenne la testa mentre Vainu sondava. «È il suo giorno fortunato» disse il dottore in tono asciutto. «Scriva che la prima vertebra e la base del cranio sono fratturate. Dev'essere un piccolo trionfo per lei.» Lanciò un'occhiata ad Arkady, poi alla sega. «Potremmo estrarre il cervello per essere sicuri. Oppure aprire il torace ed esaminare l'apparato respiratorio per vedere se c'è acqua di mare.» Slava fece una foto del collo e si raddrizzò, dondolandosi leggermente. «No.» Arkady appoggiò di nuovo la testa sul blocco e le chiuse gli occhi. Si stropicciò le mani sul giubbotto e accese una seconda Belomor con il mozzicone della prima, quindi frugò tra gli indumenti nel recipiente metallico. Se la donna era annegata, avrebbe avuto rotture dei vasi sanguigni nella bocca e nel naso, avrebbe avuto acqua nello stomaco e nei polmoni e, ogni volta che la si muoveva, avrebbe grondato acqua come una spugna. E poi, a Vladivostok c'erano tanti investigatori e tanti tecnici che sarebbero
stati felicissimi di tagliarla a pezzetti e di analizzarla fino alle componenti anatomiche. Il recipiente conteneva una scarpa di plastica rossa di fabbricazione sovietica, un paio di jeans, mutandine, camicetta di cotone bianco con l'etichetta di Hong Kong e una spilla con la dicitura "I ♥ L.A.". Una ragazza molto internazionale. In una tasca dei calzoni, un pacchetto di Gauloises fradicio. E una carta da gioco, una regina di cuori. Zina Patiashvili era stata una donna romantica. E un robusto preservativo sovietico. Previdente, anche. Arkady guardò di nuovo la faccia pallida, la cute che già si ritirava dalle radici nere dei capelli biondi. Era morta e si era lasciata alle spalle le sue fantasie. Arkady s'irritava sempre alle autopsie... con le vittime e non solo con gli assassini. Perché certi individui non si sparavano alla testa il giorno in cui nascevano? La Stella Polare virava per seguire i suoi pescherecci. Arkady si bilanciò istintivamente. Slava si puntellò contro il tavolo operatorio e nel contempo cercò di non toccarlo. «Sta perdendo l'abitudine al mare?» chiese Vainu. Il terzo ufficiale ricambiò l'occhiata. «Me la cavo benissimo.» Vainu sogghignò. «Come minimo dovremmo rimuovere le viscere» disse ad Arkady. Arkady tolse gli indumenti dal recipiente. Erano impiastricciati di sangue di pesce, strappati qua e là, ma non più di quanto ci si poteva aspettare dopo un soggiorno dentro una rete. Forse c'era una macchia d'olio su un ginocchio dei calzoni. Arkady spiegò la blusa e notò un segno arrugginito sul davanti: non era uno strappo ma un taglio. Tornò a osservare il corpo. C'erano chiazze marrone sugli arti, sui seni e intorno all'ombelico. Forse non era tutto sangue stagnante, forse era stato precipitoso nell'affermarlo, pur di allontanarsi dalla morta. E infatti, mentre tendeva la pelle del ventre intorno all'ombelico vide una trafittura, una stretta ferita lunga un paio di centimetri. Una ferita come avrebbe potuto lasciarla un coltello da pescatore. Tutti, a bordo della Stella Polare, avevano un coltello con il manico di plastica bianca e una lama a doppio taglio lunga venti centimetri per sventrare i pesci e tagliare le reti. In tutti gli angoli della nave c'erano cartelli che raccomandavano: "Tenetevi pronti per ogni evenienza: portate sempre il coltello con voi". Arkady teneva il suo nell'armadietto. «Lasci, faccio io.» Vainu scostò Arkady. «Avete trovato un bernoccolo e un graffio» disse Slava. «E con questo?» Arkady disse: «È più di quello che ci si può aspettare normalmente in
condizioni simili». Vainu si scostò barcollando dal tavolo operatorio. Arkady pensò che doveva aver aperto la ferita perché adesso ne usciva un breve tratto d'intestino, grigioviolaceo e viscido. Un altro tratto si sollevò come se avesse una vita propria e continuò a emergere dal ventre della ragazza attraverso una ghirlanda gorgogliante di acqua salata e di viscosità madreperlacea. «Una missine!» Missine o anguilla glutinosa. Indipendentemente dal nome, un essere primitivo ma efficiente. A volte la rete portava a galla un halibut lungo due metri, un colosso che avrebbe dovuto pesare duecentocinquanta chili e invece era solo un sacco di pelle e spine e un nido di missine. L'esterno spesso era intatto: la missine penetrava dalla bocca o dall'ano e si intrufolava nel ventre. Quando ne trovavano una nella fattoria le donne scappavano fino a che gli uomini l'avevano massacrata con le pale. La testa, un moncherino privo d'occhi, con le corna carnose e la bocca raggrinzita, guizzava qua e là contro lo stomaco di Zina Patiashvili. Poi l'intera missine, lunga come un braccio, scivolò fuori lentamente, si contorse a mezz'aria e cadde ai piedi di Vainu. Il dottore cercò di colpirla e il bisturi si spezzò in due sul pavimento. Poi sferrò un calcio e afferrò un altro bisturi dal tavolo operatorio. La missine si rotolò all'impazzata. La sua difesa principale era un viscidume madreperlaceo e glutinoso che impediva di afferrarla. Una di quelle bestie poteva riempire di glutine un secchio; quando mangiava, poteva coprire la preda d'un bozzolo che neppure uno squalo avrebbe toccato. La punta del bisturi si spezzò e volò in alto, ferendo Vainu alla guancia. Il dottore cadde riverso e guardò l'anguilla che gli si avvicinava contorcendosi. Arkady si lanciò nel corridoio e tornò con una scure da vigile del fuoco, e sferrò un colpo sulla missine dalla parte smussata. A ogni colpo l'animale si dibatteva e impiastricciava il pavimento. Arkady perse l'equilibrio nel viscidume, lo ritrovò, girò la scure con il filo verso il basso e tagliò l'anguilla in due. Le due metà continuarono a contorcersi fino a quando le ebbe dimezzate ancora. I quattro pezzi sussultarono in pozze di viscidume e sangue. Vainu si avvicinò barcollando all'armadietto, tolse gli strumenti dal recipiente per la sterilizzazione e versò l'alcol in due bicchieri per sé e per Arkady. Slava Bukovsky era sparito. Arkady ricordava vagamente di averlo visto precipitarsi verso la porta un attimo dopo l'apparizione dell'anguilla. «Questo è il mio ultimo viaggio» borbottò Vaimi.
«Perché nessuno si è accorto che non era andata a lavorare?» chiese Arkady. «Era forse una malata cronica?» «Zina?» Vainu strinse il bicchiere con entrambe le mani. «Non era il tipo.» Arkady vuotò il bicchiere in un sorso Aveva un po' il gusto d'antisettico ma non era male. Che tipo di medico si trovava di solito a bordo di una nave-fattoria? si chiese. Certamente non qualcuno animato dalla curiosità nei confronti dell'intera gamma delle disfunzioni fisiche, i parti, le malattie infantili, la geriatria. A bordo della Stella Polare non c'era neppure il rischio delle malattie tropicali, così frequente sulle navi. Il servizio medico sulle acque del Pacifico settentrionale era molto noioso e perciò toccava agli alcolizzati e ai giovani laureati assegnati contro la loro volontà. Vainu non era né l'uno né l'altro. Era estone, di una delle repubbliche baltiche dove i russi erano considerati truppe d'occupazione. Non aveva molta simpatia per l'equipaggio della Stella Polare. «Niente capogiri, mali di testa, svenimenti? Niente problemi con la droga? Non l'aveva in cura per qualcosa?» «Ha visto la sua cartella clinica. Assolutamente pulita.» «E allora come mai nessuno si è meravigliato dell'assenza di una lavoratrice in ottima salute?» «Renko, ho l'impressione che sia l'unico uomo a bordo che non conosceva Zina.» Arkady annuì. Cominciava ad avere anche lui la stessa impressione. «Non dimentichi la scure» disse Vainu mentre Arkady si avviava verso la porta. «Vorrei che esaminasse il corpo, per vedere se ci sono tracce di attività sessuale. Le prenda le impronte e abbastanza sangue per identificare il gruppo sanguigno. Temo che dovrà ripulire l'addome.» «E se...?» Il dottore lanciò un'occhiata alla missine. «Giusto» disse Arkady. «Tenga la scure.» Slava Bukovsky si stava sporgendo dal parapetto. Arkady si fermò accanto a lui come se fossero venuti a prendere una boccata d'aria. Sul ponte, montagne di sogliole gialle attendevano di venire spalate nello scivolo della fattoria. Fra due boma era tesa una rete americana di nailon e una spola per le riparazioni penzolava come se il lavoro fosse stato interrotto per un momento. Arkady si chiese se era la rete che aveva riportato a galla Zina. Slava osservava il mare.
A volte la nebbia agiva sull'acqua come un olio. La superficie era calmissima e nera, e alcuni gabbiani volteggiavano sopra un peschereccio che si scorgeva solo perché quelli americani erano vivaci come certe esche artificiali. Quello era rosso e bianco e i membri dell'equipaggio portavano impermeabili d'incerata gialla. Dondolava a poppa della Stella Polare e lo scafo arrugginito della nave-fattoria torreggiava dodici metri più in alto. Naturalmente gli americani uscivano in mare solo per poche settimane di seguito mentre la Stella Polare era in navigazione da sei mesi. Il peschereccio americano era un giocattolo sull'acqua, la Stella Polare era un mondo a sé. «Di solito, nelle autopsie questo non succede» disse Arkady a voce bassa. Slava si pulì la bocca con un fazzoletto. «Perché qualcuno l'avrà pugnalata dopo che era già morta?» «L'apparato digerente contiene colonie di batteri. Il colpo aveva lo scopo di far uscire i gas per impedire che tornasse a galla. Io posso continuare da solo per un po'. Perché non riprendere quando si sentirà meglio?» Slava s'irrigidì e piegò il fazzoletto. «La responsabilità è mia. Faremo tutto come in una normale indagine.» Arkady alzò le spalle. «In una normale indagine per omicidio, quando si trova un cadavere si esamina il terreno con una lente d'ingrandimento e i metal detectors. Si guardi intorno. C'è qualche onda in particolare che vuole esaminare?» «Piantala di dire "omicidio". Questo è allarmismo.» «No certo, con ferite di quel genere.» «Potrebbe essere stata l'elica» disse Slava. «Sì, se qualcuno gliel'ha data sulla testa.» «Non c'erano segni di lotta... l'hai detto tu. È il tuo atteggiamento, il problema più grande. Non permetterò che le tue pose antisociali mi compromettano.» «Compagno Bukovsky, io sono soltanto un operaio distaccato per un giorno dalla catena di produzione. Lei è un emblema del radioso futuro sovietico. Come potrei comprometterla?» «Non fare l'operaio con me. Volovoi mi ha detto tutto. Ne hai combinata una grossa, a Mosca. Il comandante Marchuk è stato pazzo a toglierti dal tuo lavoro.» «Perché l'ha fatto?» chiese Arkady. Era sinceramente incuriosito. «Non lo so.» Slava sembrava altrettanto confuso.
La cabina di Zina Patiashvili era identica a quella di Arkady in quanto a spazio e disposizione: quattro persone vivevano in quella che poteva passare per una camera di decompressione appena accettabile: quattro cuccette, un tavolo e una panca, un armadio e un lavabo. Ma l'atmosfera era diversa. Nell'aria non dominava l'odore del sudore maschile ma un potente miscuglio di profumi contrastanti. Non c'erano le pin-up di Gury e l'icona di Obidin; l'anta dell'armadio, invece, era decorata con cartoline illustrate cubane, banali biglietti d'auguri per la giornata internazionale della donna, foto di bambini con il fazzoletto dei Pionieri, fotografie di divi del cinema e cantanti ritagliate dalle riviste. C'era un'immagine sorridente del rotondetto Stas Namin, rock star dell'URSS, e una di Mick Jagger con la faccia contratta in una smorfia. «Quella era di Zina.» Natasha Chaikovskaya indicò Jagger. Le altre ex compagne di cabina di Zina erano "madame" Malzeva, la lavoratrice più vecchia della catena di Arkady, e una ragazza uzbeca molto minuta che si chiamava Dynama in onore dell'elettrificazione dell'Uzbekistan. I suoi genitori non le avevano fatto un favore perché, nelle zone più sofisticate dell'Unione Sovietica, dynama è una ragazza civettuola che si fa invitare a pranzo da un uomo e poi sparisce con la scusa di andare alla toilette. Per fortuna, gli amici la chiamavano Dynka. Gli occhi neri e ansiosi sembravano in equilibrio sui grandi zigomi. I capelli erano pettinati in due code di cavallo che sembravano ali nere. Data la mesta circostanza, Natasha aveva rinunciato al rossetto, ma non a un vistoso pettine che le tratteneva i capelli. A sua insaputa tutti la chiamavano Chaika, per via della corporatura che ricordava la tozza berlina. Avrebbe potuto stritolare Stas Namin con un abbraccio; Jagger non avrebbe avuto scampo. Era una lanciatrice di peso con l'anima di Carmen. «Zina era una brava ragazza, molto benvoluta, era la vita della nave» disse madame Malzeva. Come se tenesse corte nel suo salotto, portava uno scialle con la frangia a nappe e rammendava un cuscino di raso con onde applicate e l'invito VISITATE ODESSA. «Dove c'era allegria, c'era la nostra Zina.» «Zina era gentile con me» disse Dynka. «Veniva in lavanderia a portarmi i panini.» «Era un'onesta lavoratrice sovietica e sarà rimpianta da tutti» Natasha era iscritta al partito e come tutti gli iscritti al partito aveva il dono di parlare come un nastro registrato.
«Sono testimonianze preziose» disse Slava. Da una delle cuccette alte erano state tolte le coperte. In una scatola di cartone destinata a contenere trenta chili di pesce congelato c'erano vestiti, scarpe, lo stereo con le cassette, bigodini e spazzole, un quadernetto grigio, un'istantanea di Zina in costume da bagno, un'altra di lei e Dynka, e uno scrignetto delle Indie orientali coperto di stoffa colorata e pezzetti di specchio. Sopra la cuccetta una targhetta fissata alla paratia indicava il compito dell'occupante in caso d'emergenza. Zina era assegnata al corpo dei vigili del fuoco della cambusa. Arkady fu subito in grado di riconoscere chi occupava le altre cuccette. Una donna anziana ne aveva sempre una in basso: e in quel caso era arricchita da cuscini provenienti da altri porti, Soci, Tripoli, Tangeri, così che madame Malzeva poteva riposare su un morbido atlante. Sulla cuccetta di Natasha c'era una selezione di opuscoli come Per capire le conseguenze del deviazionismo socialdemocratico e Per avere una carnagione più pulita. Forse una cosa portava all'altra: sarebbe stato un vero trionfo per la propaganda. Sulla cuccetta di Dynka, in alto, c'era un cammello di peluche. Molto più di quanto facessero gli uomini, le donne erano riuscite a trasformare la cabina in una vera casa... quanto bastava perché lui si sentisse un intruso. «Ciò che ci interessa» disse Arkady, «è capire come mai la scomparsa di Zina fosse passata inosservata. Dividevate questa cabina con lei. Com'è possibile che non vi siate accorte che era sparita da un giorno e una notte?» «Era una ragazza molto attiva» disse la Malzeva. «E noi abbiamo turni diversi. Sai, Arkasha, noi lavoriamo di notte, lei lavorava di giorno. A volte passavano giorni e giorni senza che vedessimo Zina. È difficile pensare che non la rivedremo più.» «Dev'essere davvero sconvolta.» Arkady aveva visto piangere madame Malzeva durante i film di guerra, quando i tedeschi venivano colpiti. Tutti gli altri gridavano: «Ti sta bene, sporco nazista!» ma la Malzeva singhiozzava nella babushka. «Si era fatta prestare la mia cuffia per la doccia e non me l'ha mai restituita.» La donna alzò gli occhi completamente asciutti. «Sarebbe bene raccogliere le testimonianze di altri compagni di lavoro» suggerì Slava. «E i suoi nemici?» chiese Arkady. «C'era qualcuno che desiderava farle del male?» «No!» dissero in coro le tre donne.
«È una domanda ingiustificata» ammoni Slava. «Dimenticate che l'ho fatta. C'è altra roba di Zina?» Arkady scrutò il fotomontaggio sull'anta dell'armadio. «Suo nipote.» Dynka indicò incerta l'istantanea di un ragazzino bruno che teneva in mano un grappolo d'uva con gli acini grossi come fichi. «La sua attrice preferita.» Natasha additò una foto di Melina Mercouri, imbronciata e avvolta dal fumo di una sigaretta. Zina si era vista come un'ardente greca? «Qualche amico del cuore?» chiese Arkady. Le tre donne si guardarono come se si consultassero. Poi Natasha rispose: «Non aveva un uomo in particolare, per quanto ne sappiamo noi». «Non aveva un uomo» disse la Malzeva. Dynka ridacchiò. «No.» «La cosa migliore è fraternizzare con tutti i colleghi» disse Slava. «L'avete vista al ballo? Voi ci siete andate?» chiese Arkady. «No, Arkasha, non ci sono certo andata alla mia età» disse la Malzeva con un pizzico di civetteria. «E dimentichi che la lavorazione del pesce è continuata anche durante il ballo. Natasha, tu non stavi male?» «Sì.» Quando Slava, l'ex musicista, la guardò trasalendo, Natasha soggiunse: «Forse sono andata a dare un'occhiata». Vestita di tutto punto, pensò Arkady. «E tu eri al ballo?» chiese poi Arkady a Dynka. «Sì. Gli americani ballano come tante scimmie» disse lei. «Zina era l'unica capace di ballare come loro.» «E con loro?» chiese Arkady. «Ho l'impressione che ci sia una certa sessualità malsana quando ballano gli americani» disse madame Malzeva. «Il ballo aveva lo scopo di favorire l'amicizia tra i lavoratori delle due nazioni» sentenziò Slava. «Che importanza può avere con chi ha ballato Zina se ha poi avuto un incidente quella stessa notte?» Arkady rovesciò sulla cuccetta lo scatolone con gli effetti personali di Zina. Gli indumenti erano stranieri e molto, molto lisi. Nelle tasche non c'era niente. I nastri erano del tipo Rolling Stones e Dire Straits; il mangianastri era un Sanyo. Non c'erano documenti d'identità ma Arkady non si aspettava di trovarli: il libretto paga e il visto erano nella cassaforte di bordo. Nell'incavo della cuccetta c'erano i rossetti e i profumi. Per quanto tempo sarebbe rimasto nella cabina quel sentore di Zina Patiashvili? Nello scrignetto c'erano un filo di perle false e la metà di un mazzo di carte da
gioco, tutte regine di cuori. C'era anche un rotolo di biglietti da dieci rubli, tenuto insieme da un elastico. Per esaminare tutto sarebbe stato necessario più tempo di quanto potesse averne al momento. Rimise la roba nello scatolone. «È tutto qui?» chiese. «Tutti i nastri?» Natasha arricciò il naso. «I suoi preziosi nastri. Usava sempre la cuffia. Non ce li faceva mai ascoltare.» «Cosa speri di trovare?» chiese Slava. «Sono stanco di venire ignorato.» «Non la ignoro» disse Arkady. «Ma lei sa già che cos'è successo. Io sono più lento a capire e devo procedere passo per passo. Grazie, compagne» disse alle tre donne. «È tutto, compagne» aggiunse Slava in tono deciso e prese lo scatolone. «A questo penso io.» Sulla soglia, Arkady si soffermò per chiedere: «Si era divertita al ballo?». «Può darsi» rispose Natasha. «Compagno Renko, forse dovresti andare a ballare qualche volta. L'intelligentsia dovrebbe frequentare i lavoratori.» Arkady non sapeva perché Natasha avesse deciso di etichettarlo così: un posto dove si sventra il pesce non è frequentato dai filosofi. Nell'espressione di Natasha c'era qualcosa di minaccioso che preferiva evitare, e perciò chiese a Dynka: «Sembrava che avesse le vertigini? Che stesse male?». Dynka scosse la testa agitando le code di cavallo. «Era felice quando ha lasciato il ballo.» «A che ora? E dov'è andata?» «È andata a prua. Non so che ora fosse. La gente ballava ancora.» «Con chi era?» «Era sola ma era felice. Come la principessa d'una favola.» Era una fantasia molto più affinata di quelle che di solito riescono a mettere insieme gli uomini. Quelle donne erano convinte di navigare sugli oceani portandosi dietro tutti i normali inmghi di un appartamento femminile, come se non fosse possibile finire in mare e scomparire. Nei dieci mesi che Arkady aveva passato a bordo, aveva avuto sempre più forte la sensazione che l'oceano fosse un vuoto nel quale le persone potevano venire attratte da un momento all'altro. Avrebbero dovuto tenersi aggrappati alle cuccette, tutti, e stare molto attenti se uscivano da sottocoperta. Quando Slava e Arkady tornarono sul ponte, trovarono Vaimi piegato in due sul parapetto, con il camice sporco di sangue e glutine. La scure era ai suoi piedi. Alzò due dita.
«... ce n'erano ancora» balbettò, e tornò a girare la faccia verso il vento. Un vuoto oppure un pozzo troppo brulicante di vita. C'era solo l'imbarazzo della scelta. 5 Arkady seguì Slava verso prua. Gli sembrava quasi di respirare la scena: una figura solitaria al parapetto, un peschereccio a media distanza, il mare nero sotto la nebbia grigia. Era un sollievo dalla claustrofobia. «Guardati intorno» disse Slava. «L'esperto dovresti essere tu.» «Giusto.» Arkady si voltò a quell'ordine, anche se non c'era molto da vedere: verricelli e bitte illuminati da tre lampade che persino a mezzogiorno splendevano come lune velenose. Al centro del ponte c'era una scaletta scoperta che portava a un pianerottolo, direttamente al di sopra della rampa di poppa. Le rampe di poppa erano una caratteristica della pesca moderna: quella della Stella Polare incominciava dalla linea di galleggiamento e saliva al ponte di pesca dall'altra parte della sovrastruttura di poppa. Arkady riusciva a vederne solo la parte sotto il pozzetto, e tutto ciò che poteva vedere del ponte di pesca era la sommità dei boma e delle gru al di là del fumaiolo. Intorno al fumaiolo c'erano barili d'olio, rotoli di cime e di gomene. Sul ponte delle scialuppe, c'erano appunto le scialuppe appese. Da una parte c'era il necessario per i casi d'emergenza: scuri, picconi, grappini e badili, quasi che il fuoco potesse venire combattuto come un esercito straniero. «Allora?» chiese Slava. «Secondo quella ragazza Zina era diretta qui. Come una principessa delle favole. Cosa ne pensi?» «Niente di buono.» «Susan» mormorò Slava ad Arkady. «Suu-san?» chiese Arkady. Era un nome che si prestava alla pronuncia russa. «Sttt!» Slava arrossì. La figura al parapetto era piuttosto bassa e infagottata in una giubba di tela con cappuccio, calzoni informi e stivali di gomma. Arkady aveva sempre evitato gli americani. Scendevano raramente nel settore fattoria, e sui ponti aveva l'impressione di essere osservato, come se qualcuno si aspettasse che cercasse di prendere contatto, che compromettesse loro se non se stesso. «Sta guidando una rete.» Slava fermò Arkady a rispettosa distanza.
Susan Hightower voltava loro la schiena e parlava in una radio portatile. A quanto sembrava, rispondeva alternativamente all'Eagle in inglese e dava istruzioni in russo alla Stella Polare. Il peschereccio si avvicinò girandosi sulle onde. Dal basso giunse uno sferragliare. Arkady guardò nel pozzo e vide un cavo di boe bianche e rosse tutte sfregiate scorrere giù per il declivio arrugginito e solcato della rampa. «Se lei lavora» disse, «possiamo parlare con gli altri americani.» «È il rappresentante principale. Per cortesia dobbiamo parlare prima a lei» insistette Slava. Cortesia? Erano lì, tremanti e ignorati, e Slava era in preda agli scrupoli del galateo. Sopra l'acqua il cavo si tese, scorse per venticinque, cinquanta, cento metri, con ogni boa che galleggiava sulla sua cresta. Quando il cavo fu teso in tutta la sua estensione, il peschereccio americano si avvicinò mantenendosi affiancato. «Questo è molto interessante» dichiarò convinto Slava. «Sì.» Arkady voltò le spalle al vento. A quella longitudine non c'era terraferma tra il Polo Nord e il Polo Sud, e le brezze diventavano in fretta venti furiosi. «Sai che nella flotta sovietica ci avviciniamo molto per trasferire il pescato» continuò Slava. «Perciò gli scafi sono ammaccati...» «Gli scafi ammaccati sono la caratteristica della flotta sovietica» riconobbe Arkady. «Il sistema che ci hanno insegnato gli americani, quello chiamato no contact, è più pulito, tuttavia è più complicato e richiede maggiore abilità.» «Come il sesso fra i ragni» disse Susan senza voltare la testa. Arkady restò ad ammirare la tecnica in atto. Dal peschereccio americano, un uomo lanciò un grappino sopra il cavo, agganciò una boa e avvolse la sagola del grappino attorno a qualcosa che sembrava un paranco per le nasse da granchi al largo dell'isola di Sakhalin. Dopo che il paranco ebbe salpato la sagola, un altro pescatore fece scorrere il cavo lungo la fiancata fino alla gru di poppa, dove una rete stracarica di pesce copriva lo stretto ponte. «Contatto» disse Susan in russo alla radio. Come ragni che fanno l'amore? Un paragone interessante, pensò Arkady. Il cavo delle boe era relativamente sottile. Non solo i battelli erano distanti, ma si muovevano l'uno in relazione all'altro. Se si fossero allontanati troppo, il cavo si sarebbe spezzato per la tensione, se si fossero allontanati troppo poco, la rete non avrebbe lasciato il peschereccio o sarebbe discesa
verso il fondo, e la trazione verticale avrebbe potuto spezzare il cavo e mollare attrezzatura e pesci per un valore di centomila dollari americani. «Arriva» disse Susan mentre la rete scivolava giù dal ponte del peschereccio. Subito il peso ridusse di mezzo nodo la velocità della Stella Polare. Il peschereccio virò mentre gli argani sul ponte di pesca della nave-fattoria incominciavano ad avvolgere il cavo. Susan degnò Arkady di una sola occhiata quando si accostò al parapetto vicino a lei. Arkady pensava che doveva indossare molti strati di maglioni e pantaloni per apparire così informe, perché il viso era magro. Aveva gli occhi castani, la bocca carnosa, e quella concentrazione che si osserva in una ragazza quando esegue gli esercizi sull'asse d'equilibrio e se ne infischia del resto del mondo. «Cinquanta metri» disse lei in russo. Cominciarono ad arrivare i gabbiani. Era un mistero: non se ne vedeva uno, e all'improvviso comparivano a decine come se la nebbia fosse il mantello d'un mago. Dietro l'avanguardia di boe la rete si avvicinava, con la chioma di striscioline arancio-e-nere che grondavano acqua, si avvicinava alla Stella Polare. Dietro di loro un capopesca attraversò il ponte e scese correndo la scala interna per piazzarsi sul pianerottolo sopra la rampa. Il cavo teso si sollevò sgocciolante. Le boe salirono la rampa danzando. Trascinata dalla briglia d'acciaio, la rete uscì dall'acqua e si posò sulla sporgenza inferiore della rampa. «Piano!» ordinò Susan in russo. La Stella Polare rallentò fin quasi a fermarsi. Era necessaria molta prudenza per trascinare su trenta tonnellate di pesce che perdevano la galleggiabilità e raddoppiavano di peso quando lasciavano l'acqua. Sarebbe bastata una maggiore pressione sull'argano oppure un movimento in avanti della nave perché il cavo si spezzasse. D'altra parte, una fermata completa poteva spingere la rete contro le eliche. Piano piano, il cavo issò per metà la rete sulla rampa mentre la nave procedeva con le macchine al minimo. La rete si fermò come se fosse esausta. Grondava torrenti d'acqua, e granchi e stelle marine ricadevano in mare. Susan si rivolse ad Arkady. «È della fattoria?» «Sì.» «L'uomo del mistero, venuto dall'Abisso.» Slava tirò Arkady verso la ringhiera della scala. «Non disturbarla proprio adesso.»
Guardarono dall'alto il capopesca mentre la paratia di sicurezza della rampa si sollevava e due uomini con il casco, il salvagente e una cima di sicurezza intorno alla vita trascinavano pesanti cime giù per la rampa, fino alla rete. Più si avvicinavano e più lo scivolo era ripido. Un riflettore acceso nel pozzetto mostrava il punto dove, all'altezza del massimo rigonfiamento della rete, la rampa scendeva di colpo a perpendicolo. Il primo dei due uomini gridò, scivolò e si aggrappò alla cima di sicurezza. Era un marinaio che si chiamava Pavel, e i suoi occhi erano diventati bianchi per lo spavento. Dal pianerottolo il capopesca lo incoraggiò: «Sembri un ubriaco su una pista da ballo. Magari ti piacerebbe un paio di pattini». «Karp» disse Slava in tono d'ammirazione. Le spalle di Karp tendevano il maglione. Girò verso di loro la grossa testa e sogghignò mettendo in mostra i denti d'oro. Lui e la sua squadra stavano facendo un turno in più: era un'altra ragione per cui erano i preferiti del primo ufficiale. «Aspetta che arriviamo ai ghiacci» gridò. «Allora sì che Pavel pattinerà davvero sulla rampa.» Arkady ricordò la rete rammendata parzialmente che aveva visto qualche tempo prima sul ponte di pesca. «È stato lei a tirar fuori Zina?» gridò a Karp. «Sì.» L'oro spari dal sorriso. «Perché?» «Niente.» Per Arkady era interessante che Karp Korobetz, capopesca modello, avesse deciso di rovinare una costosa rete americana piuttosto che rovesciare il pesce e aspettare che emergesse il cadavere. Sotto di loro, Pavel lavorava per districare la briglia della rete in modo che il compagno potesse fissare i moschettoni e i cavi-messaggeri e alleggerire il peso sul cavo delle boe. Una cosa era se un cavo si spezzava e volava all'impazzata su un ponte aperto; nel tunnel chiuso di una rampa, sarebbe stato come una frusta dentro un barile. «Era al ballo?» gridò Arkady a Karp. «No» gridò Karp. «Ehi, Renko, non hai mai risposto alla mia domanda. Perché ti hanno fregato?» Arkady notò la lieve traccia di un accento moscovita. Susan si voltò. «C'è qualche problema?» Pavel cadde di nuovo e arrivò fin quasi alla rete prima che la cima di sicurezza lo trattenesse. Un'ondata salì la rampa e sollevò la rete, facendola rotolare pigramente addosso al pescatore. Arkady aveva visto altri uomini morire così. Il peso del pescato impediva ai polmoni di respirare e per me-
tà delle volte la rete era in acqua. Il compagno di Pavel gridò e tirò la cima: ma non servi a nulla perché Pavel era sotto venti tonnellate di pescato e di rete. Era inutile urlare. Un'altra ondata investi la rete che si rotolò ancora di più, come un tricheco che schiaccia un cucciolo. Quando si ritirò, l'ondata cercò di ritrascinarla in mare e la cima di sicurezza si spezzò. Karp saltò sulla rete... cosa contava un quintale in più, in con fronto a quelle tonnellate? All'ondata successiva si trovò immerso fino alla vita nell'acqua gelida. Si aggrappò con una mano alla rete e con l'altra trascinò Pavel fuori da una massa di striscioline di plastica che sembravano alghe. Karp rideva. Mentre Pavel sputacchiava e si arrampicava, il capopesca si issò fino alla briglia e aiutò a fissare i moschettoni. Finì tutto in pochi secondi. Arkady aveva notato che Karp non aveva mai esitato: s'era mosso con tale velocità che il salvataggio di Pavel era apparso, più che un atto di coraggio, il volteggiare di un ginnasta intorno alla sbarra. Il peschereccio tornò nella scia della Stella Polare, in attesa di comunicazioni sul pescato: tante tonnellate, tante sogliole, tanti granchi e tanto fango. I gabbiani si libravano intorno all'imboccatura della rampa in attesa che qualche pesce scivolasse tra le maglie della rete. «Qualcuno del settore fattoria è l'ultima cosa che ci occorre qui, adesso» disse Susan a Slava. «Lo porti nella mia cabina.» Non appena i moschettoni scattarono, gli uomini risalirono in fretta la rampa, aggrappandosi alle cime di sicurezza a ogni passo. Dietro di loro la rete cominciò a fremere. La Stella Polare aveva un Piano per il Viaggio: una quota di cinquantamila tonnellate di pesce. Tanti filetti congelati, tanta farina di pesce, tanto olio di fegato per una nazione affamata di proteine, per forgiare i muscoli che dovevano costruire il comunismo. Circa il dieci per cento si perdeva a bordo nei congelatori, il dieci per cento andava a male a terra, il dieci per cento se lo spartivano il dirigente del porto e il direttore della flotta, il dieci per cento si rovesciava per le strade sterrate che portavano ai villaggi dove poteva o non poteva esserci un refrigeratore funzionante in grado di salvare i filetti. Non era sorprendente che la rete salisse così premurosamente sul ponte di pesca. Slava condusse Arkady verso prua, passando accanto all'hangar bianco dell'officina. «Un accento incredibile, no? Perfetto» disse. «Susan è una donna fantastica. Parla meglio di quella ragazza uzbeka... come si chiama?» «Dynka.»
«Dynka, giusto. Nessuno parla più russo.» Era vero. I russi in ascesa, soprattutto, parlavano il cosiddetto ucraino del Politburo che era sempre più popolare. Dai tempi di Krusciov, i dirigenti ucraini del Paese avevano parlato in un russo rudimentale ed esitante, sostituendo le "w" alle "v" fino a quando tutti quanti al Cremlino, sia che venissero da Samarcanda sia che venissero dalla Siberia, avevano cominciato a esprimersi come tanti figli di Kiev. «Dica il suo nome» chiese Arkady. «Slawa.» Slava lo squadrò insospettito. «Non so com'è, ma sembra sempre che stai cercando di scoprire qualcosa.» Sulla linea scura di congiunzione dove la nebbia incontrava l'orizzonte c'era la luce di un altro peschereccio. Arkady disse: «Quanti battelli abbiamo con noi?». «Di solito quattro: Alaska Miss, Merry Jane, Aurora ed Eagle.» «E tutti erano al ballo?» «No. Sull'Alaska Miss aspettavano il cambio dell'equipaggio e l'Aurora aveva un problema con il timone. Dato che avevamo smesso di pescare per quella notte e stiamo per andare a Dutch Harbor, hanno deciso di partire prima per il porto. C'erano solo gli equipaggi di due pescherecci al ballo: gli stessi due che abbiamo adesso in mare.» «È un buon complesso il suo?» Cautamente, Slava rispose: «Non è il peggiore». Il ponte anteriore era diviso tra un campo di pallavolo da una parte e da una zona di carico. L'attraversarono. Il campo era coperto da reti: nonostante questo, ogni tanto una palla finiva in acqua e allora il comandante faceva tornare indietro la Stella Polare fino a quel puntolino ballonzolante, ed era un'impresa non molto diversa dal far virare nel fango denso una scrofa gigantesca. Ma i palloni da pallavolo erano molto rari nel Mare di Bering. Gli americani a bordo vivevano nella struttura di poppa, sul ponte sotto le cabine degli ufficiali e la sala comando. Susan non era ancora arrivata ma gli altri tre s'erano radunati nella sua cabina. Bernie era il ragazzo lentigginoso che Arkady aveva conosciuto davanti alla mensa, insieme a Volovoi. Day portava occhiali dalla montatura d'acciaio che sottolineavano la sua espressione seria di erudito. I due rappresentanti portavano jeans e maglioni che erano nel contempo trasandati e superiori agli indumenti russi. Lantz era un osservatore del Servizio Pesca Nazionale, incaricato di accertare che la Stella Polare non prendesse pesci di varietà, sesso e dimensioni
vietati. Stava per incominciare il turno, e indossava una tuta d'incerata, una camicia scozzese con le maniche di gomma, un guanto di gomma su una mano e un guanto chirurgico che pendeva come un fazzoletto dal taschino. Aveva l'aria semiaddormentata; stava sulla panca, raggomitolato perché era molto alto, e aveva una sigaretta in bocca. Mentre aspettavano Susan, Slava parlò con i tre in russo con la disinvoltura entusiasta che s'incontra fra amici e coetanei. La cabina di Susan non rappresentava un grande miglioramento rispetto agli alloggi dell'equipaggio. Due cuccette anziché una, e le aveva tutte per sé dato che era l'unica donna tra gli americani. C'era un piccolo frigorifero ZIL e l'aroma metallico del caffè solubile. Una macchina per scrivere e scatole per manoscritti sulla cuccetta superiore e, in altri scatoloni, vari libri... Pasternak, Nabokov, Blok. Arkady vide edizioni in russo che si sarebbero vendute in pochi secondi in qualunque libreria sovietica, e per centinaia di rubli in qualche via secondaria di Mosca. Era come imbattersi in scatoloni pieni d'oro. Susan li sapeva leggere? «Si spieghi di nuovo, per favore» chiese Day a Slava. «Lui chi è?» «I nostri operai hanno molte capacità. Il marinaio Renko è un lavoratore del settore fattoria, ma ha esperienza in fatto di indagini sugli incidenti.» «Mi dispiace moltissimo per Zina» disse Bernie. «Era così simpatica.» Lantz sbuffò un anello di fumo e chiese pigramente in inglese: «Come fai a saperlo?». «Cosa le è successo?» chiese Day. Arkady gemette fra sé quando Slava rispose: «Sembra che si sia sentita male, sia uscita sul ponte e forse abbia perso l'equilibrio». «E forse l'hanno pescata nella rete?» chiese Lantz. «Esattamente.» «Qualcuno l'ha vista cadere?» chiese Bernie. «No» rispose Slava. Era l'errore fondamentale di chi svolgeva un'indagine per la prima volta: la tendenza a rispondere alle domande invece di farle. «Era buio, vedete, e c'era nebbia dopo il ballo e Zina era sola. Cose che capitano in mare. Sono tutte le informazioni che abbiamo al momento, ma se sapete qualcosa...» Collaborare con Slava era come seguire un lemming. I tre americani alzarono le spalle e dichiararono all'unisono: «No». «Dovevamo aspettare Susan, ma non credo che abbiamo altre domande da fare» disse Slava ad Arkady. «Non ho domande da fare» disse Arkady, e passò all'inglese: «Parlate il
russo molto bene». «Siamo tutti studenti laureati» rispose Day. «Abbiamo accettato questo lavoro per perfezionarci in russo.» «E conoscete molto bene anche il nostro equipaggio.» «Tutti conoscevano Zina» disse Bernie. «Era molto popolare» dichiarò Day. Arkady si accorse che Slava traduceva mentalmente quel dialogo e cercava di seguirlo. «Lavorava nella cambusa dell'equipaggio» disse Arkady a Day. «Era lei che vi serviva?» «No, mangiamo nella mensa ufficiali. All'inizio del viaggio lavorava là, poi è stata trasferita.» «Vedevamo Zina sul ponte... al parapetto di poppa, per la precisione» disse Bernie. «Dov'è la vostra postazione?» «Appunto. C'è sempre un rappresentante della compagnia a poppa quando caricano a bordo il pescato. Zina veniva a guardare con noi.» «Lo faceva spesso?» «Sicuro.» «E la sua postazione è...?» Arkady si rivolse a Lantz con l'aria di scusarsi. «Il ponte di pesca.» «Era di turno quando hanno issata a bordo la rete con dentro Zina?» Lantz si scosse dal maglione la cenere della sigaretta e si raddrizzò un poco. Era molto alto ma aveva la testa piccola, con i capelli pettinatissimi del narcisista. «Faceva freddo, io ero entrato a bere un tè. Sanno che devono avvertirmi quando una rete sale la rampa.» Persino sottocoperta, nel baccano infernale del settore fattoria, Arkady capiva quando stava arrivando una rete, dall'acuto ronzio dell'argano idraulico e dal passaggio delle macchine da avanti mezza alla velocità minima quando la rete si sollevava dall'acqua, seguito dal ritorno alla mezza velocità mentre saliva la rampa. Lo sapeva persino nel sonno, quando il pescato arrivava a bordo. Non c'era stato bisogno che qualcuno andasse ad avvertire Lantz perché abbandonasse il bicchiere di tè. «Il ballo vi è piaciuto?» chiese Arkady. «Magnifico» rispose Bernie. «Soprattutto il complesso di Slava» disse Day. «Avete ballato con Zina?» chiese Arkady.
«Zina s'interessava di più alla banda dei motociclisti» disse Lantz. «Quale banda?» chiese Arkady. «I pescatori» rispose Bernie. «I pescatori americani, non i vostri.» «Caspita, parla l'inglese molto bene, davvero» disse Day. «Lavora nel settore fattoria?» «Al circuito sporco» disse Susan mentre entrava e buttava la giacca su una cuccetta. Si tolse il berretto di lana liberando i capelli biondi e corti. «Avete cominciato senza di me» disse a Slava. «Il capo rappresentante sono io. Sa che non deve parlare con i miei ragazzi senza di me.» «Mi scusi, Susan.» Slava aveva un tono contrito. «Purché sia ben chiaro.» «Sì.» Susan aveva preso il comando, era ovvio, con quel modo imperioso di inserirsi al centro di una situazione che a volte hanno le persone piccole. Girò lo sguardo intorno alla cabina come se facesse l'appello. «Era per Zina e il ballo» spiegò Bernie. «Il marinaio Renko, che è venuto con Slava, ha detto di non aver domande da fare, ma io credo che ne abbia.» «In inglese» disse Susan. «Sì, ho sentito.» Si rivolse ad Arkady. «Vuole sapere chi ha ballato con Zina? Chissà. Era buio e tutti si dimenavano avanti e indietro. A un certo momento balli con una persona, e un attimo dopo ti ritrovi a ballare con tre. Uomini o donne. È come una partita di pallanuoto senza l'acqua. E adesso parliamo di lei. Slava mi ha detto che ha esperienza in fatto d'incidenti.» «Il compagno Renko era investigatore della procura di Mosca» disse Slava. «E su cosa indagava?» chiese Susan ad Arkady. «Incidenti gravissimi.» Susan lo squadrò come se si fosse presentato a un'audizione per ottenere una parte e non se la cavasse molto bene. «È molto utile che si trovi a sventrare pesci nel settore fattoria della nave. Un investigatore venuto da Mosca che parla perfettamente l'inglese... e pulisce i pesci?» «Nell'Unione Sovietica c'è la sicurezza dell'impiego» fu la risposta di Arkady. «Magnifico» disse Susan. «Le consiglio di rivolgere tutte le altre domande ai cittadini sovietici. Zina è un problema sovietico. Se vengo a sapere che ha interrogato ancora qualche americano assegnato a questa nave, mi rivolgerò direttamente al comandante Marchuk.»
«Niente più domande» disse Slava, e spinse Arkady verso la porta. «Ne ho ancora una, invece» disse Arkady, e chiese agli uomini: «Non vedete l'ora di arrivare a Dutch Harbor, vero?». La domanda spezzò un poco la tensione. «Ancora due giorni» disse Bernie. «Poi andrò in albergo, prenderò la stanza migliore, farò una doccia calda e berrò sei birre ghiacciate.» «Suuu-san?» Ad Arkady piaceva pronunciare il nome così. Gli dava un suono russo. «Ancora due giorni e avrò finito» disse lei. «A Dutch vi arriverà un altro rappresentante principale, e io prenderò il volo dalla nebbia alla California, quindi può dirmi addio già adesso.» «E noi torneremo» assicurò Day a Slava. «Dovremo pescare per altri due mesi.» «Soltanto pescare» promise Slava. «Niente più domande. Dovremmo sempre tener presente che siamo compagni di navigazione e amici.» Arkady ricordava che durante il viaggio con partenza da Vladivostok, sulla Stella Polare c'erano state esercitazioni di camuffamento e di lotta alle radiazioni. Ogni marinaio sovietico sapeva che nella cassaforte del comandante c'era un plico sigillato da aprire solo dopo aver ricevuto l'annuncio in codice della guerra: e nel plico c'erano istruzioni per sfuggire ai sottomarini nemici, stabilire contatti con amici e occuparsi dei prigionieri. 6 Di solito Arkady non amava quei trasferimenti, ma stavolta era diverso. Niente di lussuoso. La gabbia aveva una catena al posto dello sportello, e un copertone sulla base per attutire gli scossoni all'arrivo, ma si sollevò dal ponte della Stella Polare con uno scatto sicuro del cavo della gru, ondeggiò nell'aria; per un momento, a metà del tragitto, gli sembrò di essere all'interno d'una gigantesca gabbia per uccelli che avesse preso il volo. Poi superarono la fiancata e cominciarono a scendere verso la Merry Jane. Accanto allo scafo torreggiante della nave-fattoria ogni peschereccio sembrava un giocattolo, anche se la Merry Jane era quaranta metri. Ostentava la caratteristica prua alta dei pescherecci del Mare di Bering, la timoneria a prua e il fumaiolo, un albero carico di antenne e lampade, un ponte di legno con una gru laterale, una rampa a poppa con argano e tre reti avvolte ordinatamente. Lo scafo era blu con bordi bianchi, la timoneria bianca con fregi blu: il peschereccio sembrava vivace come un giocattolo mentre si
strusciava contro il nero parabordo della nave-fattoria. Tre pescatori in tute d'incerata tennero salda la gabbia quando scese sul ponte. Slava sganciò la catena e uscì per primo. Arkady lo segui. Per la prima volta dopo quasi un anno aveva lasciato la Stella Polare. Adesso era su un natante americano. I pescatori fecero a gara per stringergli la mano e chiedergli con entusiasmo: «Fala português?». C'erano due Diego e un Marco, piccoli e bruni con gli occhi malinconici dei reietti. Non parlavano il russo e conoscevano poco l'inglese. Slava si affrettò a trascinarsi dietro Arkady su per la scaletta per andare a parlare con il capitano Thorwald, un norvegese dalla faccia rosea e dalla stazza di un orso. «Pazzesco, eh?» disse Thorwald. «È solo di proprietà americana, ecco tutto. I portoghesi passano dieci mesi in mare, per pescare qui, ma hanno le famiglie in patria. Qui guadagnano un patrimonio, in confronto a quello che prenderebbero a casa. Lo stesso vale per me. Be', io torno a spalare la neve dal marciapiedi e loro tornano a friggere le sardine. Ma due mesi sulla terraferma ci bastano e avanzano.» Il capitano della Merry Jane indossava un pigiama aperto sul petto che metteva in mostra le catene d'oro annidate in una quantità di pelo rosso. I russi, a quanto pareva, discendevano dai razziatori vichinghi: "russ" voleva dire rosso, come i capelli degli invasori. Thorwald aveva l'aria di un uomo disposto a svegliarsi solo per un saccheggio alla vichinga in piena regola. «Mi sembra che non parlino inglese» disse Arkady. «Così non si mettono nei guai. Sanno il loro mestiere, quindi non c'è molto bisogno di far conversazione. Si può dire quel che si vuole di loro, ma sono i migliori, dopo i norvegesi.» «È un grande elogio» osservò Arkady. «Bella barca.» Già la cabina di comando era una rivelazione. Il tavolo delle carte nautiche era di teak laccato e lucido come l'agata; sul pavimento c'era una moquette abbastanza folta per un membro del Comitato Centrale, e alle due estremità dell'ampia console imbottita c'era una ruota con una poltroncina girevole. La poltroncina di tribordo era circondata da monitor a colori per individuare i banchi di pesci, schermi radar e dati digitali delle radio. Thorwald infilò la mano nei pantaloni del pigiama e si grattò. «Sì, l'hanno costruita solida apposta per il Mare di Bering. Aspetti di vederci fra i ghiacci. Portare una barca come l'Eagle lassù per me è una vera pazzia. O portarci le donne.» «Conosceva Zina Patiashvili?» chiese Slava.
«Quando pesco, pesco. Quando sbatto, sbatto. Non mescolo mai le due cose.» «Molto saggio» commentò Arkady. Thorwald continuò come se non avesse sentito. «Non conoscevo Zina e non sono andato al ballo perché ero nel quadrato ufficiali con Marchuk e Morgan e cercavo di mostrargli dove debbono pescare. A volte ho l'impressione che i russi e gli americani non cerchino sul serio il pesce.» Slava e Arkady scesero in cambusa dove gli uomini stavano mangiando merluzzo salato accompagnato dal vino... non era il pasto abituale di mezzogiorno d'una nave sovietica. Pescare era un lavoro arduo, ma ancora una volta Arkady fu sorpreso dai lussi della Merry Jane: la grossa cucina con le sbarre scorrevoli per impedire al cibo di volar via con il mare agitato, il tavolo con i bordi imbottiti, la panca pure imbottita, la caffettiera ben fissata. C'erano molti tocchi nostalgici: da un cordone elettrico pendeva il modello di legno di una barca a vela con gli occhi dipinti a prua; e c'era un poster che mostrava un villaggio tutto candido su una spiaggia. Era molto diversa dalla cambusa del peschereccio dove Arkady aveva prestato servizio presso la costa di Sakhalin. Là i membri dell'equipaggio mangiavano senza avere neppure lo spazio per togliersi i giacconi e tutto quanto, zuppa d'avena, patate, cavoli, tè, sapeva di muffa e di pesce. Mentre mangiavano, i portoghesi guardavano un videotape. Fecero un cenno educato di saluto, ma non s'interessavano più ai visitatori. Arkady li capiva. Se qualcuno fosse venuto per fargli domande, avrebbe dovuto parlare la loro lingua. Dopotutto, quando i russi andavano ancora in giro in barche a remi i portoghesi avevano un impero che abbracciava il mondo. Sullo schermo c'era la cronaca isterica e l'azione languida di una partita di calcio. «Zina Patiashvili?» chiese Slava. «Qualcuno di voi conosce Zina? Qualcuno...» Si rivolse ad Arkady. «È tempo perso.» «Football» disse Arkady, e sedette. Il Diego seduto vicino a lui gli versò un bicchiere di vino rosso. «"Campeonado do Mundo". Lei?» «Portiere.» Lo era stato vent'anni prima, ricordò Arkady. «Attaccante.» Il pescatore indicò se stesso, poi l'altro Diego e Marco. «Attaccante. Terzino.» Puntò il dito verso il televisore. «Portogallo bianco, inglês righe. Va male.» Tutti i tre pescatori rabbrividirono, mentre una figura con la maglia a righe si liberava e segnava. Quante volte avevano già visto la registrazione
di quella partita? si chiese Arkady. Dieci, cento? Durante un lungo viaggio, un uomo tende a raccontare sempre la stessa storia. Quella era la tortura più raffinata dell'alta tecnologia. Mentre Diego staccava gli occhi dal televisore, Arkady gli mostrò la foto di Zina in compagnia di Dynka. «L'hai rubata» disse Slava. «Zina.» Arkady vide gli occhi del pescatore scorrere con imparzialità da una donna all'altra. Poi Diego alzò le spalle. Arkady mostrò la foto agli altri due e ottenne la stessa reazione; ma poi il primo Diego chiese di rivederla. «No baile» disse ad Arkady. «A loura da Rússia. A mulher com os americanos.» Assunse un'aria appassionata. «Entende? Com americanos.» «Zina ha ballato con gli americani. Come pensavo» disse Arkady. «Beba, beba.» Diego gli riempì il bicchiere. «Grazie.» «Muito obrigado» gli spiegò Diego. «Muito obrigado.» «De nada.» Arkady si teneva aggrappato alla sbarra centrale mentre la gabbia da trasporto scendeva verso il secondo peschereccio. Slava aveva un'aria sempre più infelice, come un uccello ingabbiato in compagnia di un gatto. «Questa faccenda manda all'aria i tempi del lavoro.» «La consideri una vacanza» disse Arkady. «Ah!» Slava guardò un gabbiano che stava librato davanti a uno sfiatatoio della sentina della Stella Polare, in attesa che ne uscisse qualcosa di commestibile. «Io so cosa stai pensando.» «Che cosa?» Arkady non capiva. «Che siccome ero sul podio potevo vedere con chi era Zina. Be', ti sbagli. Quando sei sul podio e suoni, hai le luci negli occhi. Chiedilo agli altri del complesso: ti diranno la stessa cosa. Non potevamo vedere nessuno.» «Lo chieda lei» disse Arkady. «La responsabilità è sua.» L'Eagle era più piccola della Merry Jane, rossa e bianca, più bassa sull'acqua, e aveva una gru laterale e un argano con un unico tamburo. Un'altra differenza era che sul ponte non c'era neppure un pescatore venuto a riceverli. Scesero sull'assito di legno dove c'erano soltanto gli avanzi dell'ultima pescata: platesse inerti e granchi scheletriti. «Non capisco» disse Slava. «Di solito sono molto cordiali.» «Se ne accorge anche lei?» chiese Arkady. «Una certa freddezza. In che
lingua dovremo parlare, a proposito? Svedese? Spagnolo? Che razza di americani saranno?» «Hai intenzione di mettermi in imbarazzo, no?» Arkady squadrò Slava. «Si è messo le scarpe da jogging e i jeans. È il ritratto del giovane comumsta. Credo che siamo pronti ad affrontare il capitano.» «L'ho capito.» «Se lo capisse le mancherebbe il cuore. Ha un aiutante della specie peggiore, qualcuno che non ha niente da perdere. Dopo di lei.» La cabina di comando dell'Eagle era più piccola di quella della Merry Jane e non aveva né moquette né rifiniture in teak, ma comunque era più di quello che Arkady avesse immaginato: una vera capsula spaziale con monitor a colori schierati intorno alla poltroncina del capitano, un cerchio di schermi radar e il verde catodico dei fish-finders che mostravano i banchi di pesci come mutevoli nuvole arancione. Le radio pendevano dal soffitto e i numeri color rubino galleggiavano tra le scariche dei canali aperti. I cappucci cromati della bussola e del ripetitore erano lucidi come cristalli. Uno splendore senza ingombri. L'uomo seduto sulla poltroncina del comandante era intonato all'ambiente. Di solito i pescatori sono sfregiati per essere esposti a coltelli, spine e corde che si spezzano, e con la pelle irruvidita dall'aria fredda e dalla salsedine; ma Morgan sembrava scorticato da qualcosa di più tagliente. Era magro, quasi scarno, con la faccia butterata e i capelli prematuramente grigi. Sebbene portasse berretto e maglietta, lui e la cabina di comando irradiavano una sensazione di ordine monacale, come di un uomo che era più felice da solo e perfettamente padrone della situazione. Mentre si alzava dalla poltroncina, Slava gli rivolse un cenno rispettoso e Arkady pensò che il terzo ufficiale sarebbe stato un ottimo cane. «George, questo è il marinaio Renko. Può chiamarlo Arkady.» E rivolto a questi, Slava disse: «Il capitano Morgan». Il capitano strinse in fretta la mano di Arkady. «Ci dispiace molto per Zina Pishvili.» «Patiashvili.» Slava alzò le spalle come se il nome fosse ridicolo o non avesse importanza. «Pashvili? Mi scusi.» Morgan disse ad Arkady: «Non parlo russo. Le comunicazioni da nave a nave passano tramite i rappresentanti della compagnia a bordo della Stella Polare. Forse dovrebbe chiedere a un rappresentante di venire con noi, perché al momento stiamo perdendo tempo che
dovremmo dedicare alla pesca, e questo significa che perdiamo denaro. Posso offrirvi qualcosa?». Sul tavolo delle carte nautiche c'erano un vassoio con tre bicchieri e una bottiglia di vodka sovietica. Era migliore di quella che i sovietici bevevano in patria: era qualità da esportazione. Sollevò la bottiglia di un millimetro come se misurasse una dose minima di ospitalità. «Oppure andate di fretta?» «No, grazie.» Slava era capace di afferrare un'allusione. «Perché no?» chiese Arkady. Slava sibilò: «Prima il vino e adesso la vodka?». «È come la festa di capodanno, no?» disse Arkady. Morgan versò mezzo bicchiere ad Arkady, rifletté un momento e ne versò uno per sé. Slava non ne volle. «Nazdrovya» disse Morgan. «Non è così?» «Cheers» disse Arkady. Arkady bevve la vodka in tre sorsi, Morgan in un sorso solo, seguito da un sorriso che mise in mostra i denti magnifici. «Lei non vuole un rappresentante della compagnia» disse. «Ne faremo a meno.» L'ultima cosa che Arkady desiderava era la presenza di Susan. «Bene, Arkady, chieda pure.» Morgan era così sicuro di sé che Arkady dubitava di riuscire a disorientarlo. «Questo battello è sicuro?» Slava trasalì. «Renko, non...» «Non importa» disse Morgan. «È un settantacinque piedi da Golfo con attrezzature per il Mare del Nord. Vuol dire che era stata costruita per far servizio tra le piattaforme petrolifere del Golfo del Messico, e poi è stata riattrezzata per venire qui nel periodo del boom dei granchi. Quando c'è stato il declino nella pesca dei granchi, hanno aggiunto l'argano e l'hanno corazzata ulteriormente per affrontare il ghiaccio. Gli investimenti più grossi sono stati fatti per la parte che conta, l'elettronica. Non abbiamo tutte le comodità del nostro amico dalla testa tonda e dei suoi tre nani a bordo della Merry Jane, però prendiamo più pesce di loro.» «Conosceva Zina?» «Di vista. Era sempre cordiale, si sbracciava a salutare.» «E ballava?» «Non ho avuto il piacere di ballare con lei. Ero nel quadrato a studiare le carte nautiche con i miei buoni amici, Marchuk e Thorwald.»
«Le piace pescare con i russi?» «È emozionante.» «Emozionante?» Arkady non l'aveva mai visto in quella luce. «In che senso?» «Dopo lo scalo a Dutch andremo a nord, verso i ghiacci. I comandanti sovietici sono intrepidi. L'anno scorso un'intera vostra flotta da pesca, cinquanta natanti, finì prigioniera dei ghiacci al largo della Siberia e per poco non la perdeste tutta. Perdeste una nave-fattoria, e se non andò a fondo anche tutto l'equipaggio fu perché si mise in marcia attraverso i ghiacci e arrivò in salvo.» «Erano battelli sovietici» disse Arkady. «Sì, e io non voglio fare la fine d'un battello sovietico. Non mi fraintenda: i russi mi sono simpatici, e per la pesca sono i soci ideali. I coreani rubano metà del pescato. I giapponesi sono troppo orgogliosi per rubare ma sono più freddi dei pesci.» Morgan era il tipo che sorrideva mentre riconsiderava una situazione. «Arkady, come mai non ricordo di averla mai incontrata a bordo della Stella Polare? È un ufficiale della flotta o un inviato dal ministero o che altro?» «Lavoro nel settore fattoria.» «Al circuito sporco» disse Slava. «E parla perfettamente l'inglese e indaga sugli incidenti? Direi che è un po' troppo qualificato per pulire il pesce.» Gli occhi di Morgan sembravano di vetro azzurro e avevano un'espressione così candida da far capire a Slava e Arkady che li considerava due bugiardi. «È stato un incidente?» «Senza il minimo dubbio» disse Slava. Morgan non aveva staccato lo sguardo da Arkady; lo spostò sulla rete che pendeva inerte, poi su due uomini dell'equipaggio in tuta d'incerata che salivano dal ponte, e infine di nuovo su Arkady. «Bene. È stata una piacevole visita. Ma non dimentichi che siamo in acque americane.» La cabina di comando si affollò quando i pescatori entrarono. Erano gli americani che incuriosivano Arkady da quando aveva sentito Lantz chiamarli "la banda dei motociclisti". In Unione Sovietica, dove due ruote collegate a un motore a scoppio erano il simbolo della libertà personale, i motociclisti venivano chiamati "Rockers". Le autorità cercavano sempre di incanalare i Rockers negli autodromi ufficiali, ma le bande gli scappavano come tanti mongoli scatenati, s'impadronivano d'interi villaggi e sparivano prima che potesse intervenire la polizia di Stato. Il pescatore più imponente aveva la faccia olivastra, le palpebre pesanti e
le braccia robuste e penzolanti di chi ha passato molto tempo a maneggiare reti e nasse. Non era un tipo docile e raffinato. Squadrò Axkady dalla testa ai piedi. «Cos'è questa stronzata?» «Questa, Coletti» spiegò Morgan, «è una joint venture. L'uomo che è venuto a trovarci con il nostro amico Slava parla l'inglese meglio di te. Vediamo di sbrogliarcela in fretta e senza grane.» «Renko, questo è Mike.» Slava presentò il pescatore più giovane, un aleutino dalla faccia larga e dai fini lineamenti asiatici. «Mike è un abbreviativo di Mikhail.» «Un nome russo?» chiese Arkady. «Da queste parti ci sono molti nomi russi.» Mike aveva la voce bassa, esitante. «Molto tempo fa c'erano parecchi cosacchi scatenati.» «Le Aleutine e l'Alaska appartenevano agli zar» disse Morgan ad Arkady. «Dovrebbe saperlo.» «Parla il russo?» Mikhail era uno che avrebbe potuto parlare con Zina. «No. Voglio dire, usiamo qualche espressione» spiegò Mike. «Ma senza sapere veramente cosa significa. Come quando ci si dà una martellata su un dito, giusto? Oppure quando andiamo in chiesa... una parte è in russo.» «C'è ancora una chiesa russa a Dutch Harbor» disse Slava. L'aleutino lanciò un'occhiata a Coletti, poi disse: «Ci dispiace molto per Zina. È difficile crederlo. Ogni volta che consegnavamo una rete piena, lei era a poppa e si sbracciava a salutarci. C'era sempre, giorno e notte, con il sole e con la pioggia». «Avete ballato con lei?» chiese Arkady. Fu Coletti a rispondere. «Sì, tutti.» «E dopo il ballo?» «Ce ne siamo andati prima che finisse la festa.» Coletti teneva la testa inclinata da una parte e studiava Arkady. «Zina stava ancora ballando?» «Se n'era andata prima di noi.» «Aveva l'aria di stare poco bene? Sembrava ubriaca, stordita? Nervosa, preoccupata, spaventata?» «No.» Coletti rispondeva alle domande come un miliziano moscovita, il tipo che non diceva mai nulla spontaneamente. «Con chi è andata via?» chiese Arkady. «E chi lo sa?» rispose un altro che era salito in cabina di comando dalla cambusa. Inarcò le sopracciglia con aria d'ironico interesse, come se la festa fosse cominciata senza di lui. Portava un cerchietto d'oro all'orecchio
sinistro, e un laccio di pelle gli tratteneva i capelli in una coda di cavallo. Aveva la barba molto rada, come quella di un attore giovane. Non tese la mano: se la stava pulendo con uno straccio unto. Disse: «Sono Ridley, l'ufficiale di macchina. Volevo fare anch'io le condoglianze. Zina era una gran cara ragazza». «Ha parlato con lei al ballo?» chiese Arkady. «Be'...» Ridley fece una pausa. «Il vostro comandante ci aveva preparato un rinfresco generoso, quando siamo saliti a bordo. Salsicce, birra, brandy. Poi siamo andati a salutare gli americani, Susan e i ragazzi. Sono vecchi amici, e così abbiamo bevuto ancora birra e vodka. Se non sbaglio, i vostri regolamenti vietano di tenere liquori a bordo, ma io li ho visti scorrere a fiumi tutte le volte che ho messo piede sulla Stella Polare. Poi c'è il fattore tempo. La Stella funziona sul fuso orario di Vladivostok, tre ore più avanti del nostro. Voi cominciate un ballo alle nove di sera, ma per noi è mezzanotte. E a quell'ora ci rilassiamo molto in fretta.» «È stato un bel ballo?» «Il miglior complesso di rock'n'roll del Mare di Bering.» A quel complimento, Slava scosse modestamente la testa. «Per la verità» soggiunse Ridley in tono da confessionale, «credo che ci comportiamo in modo imbarazzante quando andiamo sulla Stella Polare. Ci sbronziamo e cerchiamo di dimostrarci americani scatenati.» «No, no» disse Slava. «Sì, sì» disse Ridley. «I russi sono così ospitali. Noi ci sbronziamo e voi continuate a sorridere e a tirarci su quando finiamo per terra. Mi ero ubriacato tanto che ho dovuto rientrare presto.» Ogni equipaggio aveva un capo naturale. Persino nello spazio ristretto della cabina di comando dell'Eagle, Coletti e Mike si erano visibilmente accostati per gravitare intorno all'ufficiale di macchina. «Mi sembra di riconoscerla» disse Arkady. «Ridley ha passato due settimane sulla Stella Polare» spiegò Slava. Ridley annuì. «Il viaggio prima di questo. La compagnia vuole che impariamo le tecniche sovietiche. Posso assicurarvi che dopo aver lavorato con il loro materiale, la mia opinione sui pescatori sovietici è più alta che mai.» Arkady ricordava che Ridley gli era stato indicato da qualcuno. «Parla russo?» «No, ci arrangiavamo con il linguaggio dei segni. Non ho molta facilità con le lingue. Senta, avevo uno zio che abitava con noi. Studiava l'esperan-
to, la nuova lingua internazionale. Alla fine trovò una donna che studiava l'esperanto anche lei. Nello stato di Washington dovevano essere cinque in tutto. Comunque, lei venne a trovarci ed eravamo tutti in salotto in attesa del grande momento, per sentire due che si parlavano in esperanto... come uno spiraglio sul futuro. Ma bastarono dieci secondi per vedere che non si capivano. Lei chiedeva il vino e lui credeva che volesse sapere l'ora. Be', fra me e i russi è la stessa cosa. Mi dispiace. Per pura curiosità, ha combattuto in Afghanistan?» «Ero troppo vecchio per fare il mio "dovere internazionalista"» rispose Arkady. «E lei ha combattuto in Vietnam?» «Ero troppo giovane. Comunque, non ricordo di aver neppure detto buonanotte a Zina. Cos'è successo? È scomparsa?» «No, è ricomparsa.» Ridley dovette giudicare divertente la risposta, come se avesse trovato qualcuno con cui valeva la pena di parlare. «È ricomparsa... da dove?» «A quanto mi risulta» disse Morgan nel tentativo di riportare il dialogo su binari convenzionali, «il suo cadavere è stato ripescato dalla nostra rete ed è stato ritrovato quando il pesce è stato scaricato sulla Stella Polare.» «Gesù» disse Ridley. «Dev'essere stato un momentaccio. Era caduta in mare?» «Sì» rispose Slava. Coletti indicò Arkady. «Voglio sentirlo dire da lui.» «È troppo presto» rispose Arkady. «Un corno!» esplose Coletti. «Non sappiamo cos'è successo a Zina. Non sappiamo se ha fatto un bel tuffo ad angelo o che altro, ma noi avevamo lasciato quella fottutissima nave prima che succedesse qualcosa.» «Coletti.» Morgan gli si piazzò davanti. «Un giorno o l'altro ti spaccherò la testa, solo per il gusto di vedere un cervellino tanto piccolo.» Ridley spinse indietro Coletti, toccandolo appena. «Ehi, siamo tra amici. Prenditela calma come Arkady. Guarda come ci sta osservando.» «Sì.» Morgan si rivolse ad Arkady: «Chiediamo scusa. La fine di Zina è una tragedia, ma speriamo che non abbia conseguenze per la joint venture. Ci crediamo tutti». «Se non ci fosse, saremmo tutti disoccupati» disse Ridley. «E poi ci piace fare nuove amicizie, e sentire Slava che suona il sax e spiega la perestrojka e il nuovo modo di pensare dell'Unione Sovietica.» "Il nuovo modo di pensare" era uno slogan dei nuovi padroni del Cremlino, come se fosse possibile collegare i cervelli dei sovietici ad altri cir-
cuiti. «Lei ha un nuovo modo di pensare?» chiese Ridley ad Arkady. «Ci provo.» «Un uomo così importante deve tenersi al passo con i tempi» disse Ridley. «È solo un operaio del settore fattoria» disse Slava. «No» Coletti lo smentì in tono reciso, come se avesse informazioni speciali. «Io facevo il poliziotto e riconosco i miei colleghi dall'odore. È un poliziotto.» Venire sollevati nella gabbia sopra lo scafo della Stella Polare era come fluttuare attraverso un gigantesco sipario di acciaio suppurato. Slava era furibondo. «Abbiamo fatto la figura degli scemi. È una questione sovietica, non ha niente a che vedere con quelli.» «Così sembra» ammise Arkady. «E allora perché sei così allegro?» «Oh, penso a tutto il pesce che oggi non sono stato costretto a vedere.» «Tutto qui?» Arkady guardò in basso, oltre le sbarre della gabbia, e fissò il peschereccio. «L'Eagle ha lo scafo basso. Non dovrebbe spingersi fra i ghiacci.» «Cosa ne sai dei pescherecci?» chiese Slava. Arkady aveva navigato con il peschereccio di Sakhalin. Era piccolo, catturato ai giapponesi durante la guerra, con uno scafo in legno poroso intorno al motore diesel. Quando la pittura si scrostava, ricomparivano spettrali simboli giapponesi. Non era stato difficile trovare un ingaggio su un natante che stava a galla per miracolo, soprattutto quando il comandante doveva soddisfare una quota molto semplice: riempire la stiva di salmoni fino a che il battello cominciava a imbarcare acqua. Arkady, l'ultimo arrivato, era stato sistemato nel vano del cavo da tonneggio: quando veniva tirata su la rete, doveva correre curvo in tondo per avvolgere la cima irta di fili metallici sfrangiati. Via via che la cima riempiva il vano, Arkady girava in tondo carponi come un ratto in una cassa da morto, poi usciva per aiutare a scuotere la rete. Il secondo giorno non ce la faceva neppure ad alzare le braccia anche se poi, una volta abituato, si era ritrovato con le spalle robuste per la prima volta da quando aveva lasciato l'esercito. La lezione imparata su quel battello lurido era che i pescatori riuscivano ad andare d'accordo per lunghi periodi in uno spazio limitato. Tutto il resto, saper usare il grappino o riparare le reti o avvolgere i cavi, non contava niente se un uomo innervosiva i compagni. Su quel peschereccio Ar-
kady non aveva mai visto un antagonismo intenso come quello che aveva notato nella luccicante cabina di comando dell'Eagle. Slava era così agitato da far oscillare la gabbia. «Hai avuto un giorno di riposo, e non volevi altro.» «È stato interessante» ammise Arkady. «Gli americani rappresentano un cambiamento.» «Be', ti assicuro che non lascerai più la Stella Polare. Adesso cosa hai intenzione di fare?» Arkady alzò le spalle. «C'era gente in servizio speciale durante il ballo. Chiederò se qualcuno di loro ha visto Zina sul ponte o sottocoperta. Cercherò di scoprire quando gli americani hanno effettivamente lasciato la nave. Parlerò con le donne che lavoravano con lei in cambusa. E voglio parlare ancora con Karp.» «Dopo che avrai parlato con le donne, ci divideremo» disse Slava. «Io mi occuperò di Karp. Tu sentì quelli che lavorano sottocoperta... è più nel tuo genere.» La gabbia superò il parapetto e cominciò a scendere verso il ponte e i barili accatastati intorno al fumaiolo. «Tu disorienti la gente» disse Slava. «Gli uomini dell'Eagle di solito sono simpaticissimi, e Susan è generalmente un angelo. Perché tutti sono così nervosi? Siamo in acque americane.» «Una nave sovietica è territorio sovietico» disse Arkady. «Logico che siano nervosi.» 7 Fra gli squilli di tromba, le linee bianche si irradiarono da una stella rossa. Natasha premette il pulsante del fast-forward fino all'immagine del quadrante bianco di un orologio su sfondo blu. Poi di nuovo avanti fino all'emblema obliquo del notiziario di Novosti e all'immagine muta di un uomo che leggeva di fronte a due microfoni resoconti di eventi ormai superati, poi di nuovo avanti fino a che sul teleschermo comparve una ragazza snella con un'attillata tuta da ginnastica in lycra. Aveva una spruzzata di lentiggini sul naso, orecchini a cerchietto e trecce color ottone. Incominciò lo stretching come un salice che si piega in un vento forte. Nella mensa di bordo, di fronte allo schermo del televisore collegato al videoregistratore, venti donne della Stella Polare in tuta o in tenuta da aerobica s'inclinarono borbottando come solide querce. Quando la ragazza si
piegava in avanti e si accostava il naso alle ginocchia, loro accennavano leggeri inchini, e quando lei correva con leggerezza stando ferma, loro facevano il fracasso di una mandria in fuga. L'operaia Natasha Chaikovskaya era in prima fila, ma dietro di lei c'era Olimpiada Bovina, la massiccia capocuoca della mensa dell'equipaggio. Olimpiada aveva i capelli neri come il carbone e una quantità di nei. Come un nastro troppo piccolo per una scatola troppo grande, una fascia assorbisudore color azzurro-polvere le decorava la fronte. Il sudore grondava dalla fascia, sgorgava intorno agli occhietti e scorreva come un fiume di lacrime lungo le guance, mentre si sforzava di imitare l'acrobata aggraziata e instancabile sullo schermo. Quando Slava la chiamò, Olimpiada smise di trottare e ansimare con la malinconica riluttanza di una masochista. Parlarono con lei in un angolo della mensa. Aveva la voce sciropposa da mezzosoprano. «Povera Zina. È scomparso un sorriso dalla cambusa.» «Era una gran lavoratrice?» chiese Slava. «Sì, e sempre allegra. Così piena di vita. E scherzava. Non le piaceva rimestare i maccheroni. Noi cuciniamo spesso i maccheroni, lo sapete.» «Lo so» disse Arkady. «E allora Zina diceva: "Guarda, Olimpiada, è un ottimo esercizio per te". Sentiremo molto la sua mancanza.» Slava disse: «Grazie, compagna Bovina, può...». «Era una ragazza attiva?» chiese Arkady. «Certamente» rispose Olimpiada. «Giovane e graziosa. Un po' irrequieta?» «Era impossibile tenerla tranquilla in un posto.» Arkady disse: «Il giorno dopo il ballo non si è presentata al lavoro. Ha mandato qualcuno a cercarla?». «Avevo bisogno di tutti, in cambusa. Non posso lasciare che le mie ragazze vadano in giro per la nave. Sono responsabile per la mia cucina. Povera Zina, avevo paura che stesse poco bene o fosse troppo stanca per la notte prima. Le donne sono diverse, sapete.» «A proposito di uomini...» Arkady disse. «Li teneva in riga.» «C'era qualcuno che teneva un po' meno in riga degli altri?» Olimpiada arrossì, ridacchiò e si nascose la bocca con la mano. «Penserete che sia poco rispettoso. Non dovrei dirlo.» «Per favore» insistette Arkady. «Lo diceva Zina, non io.»
«Per favore.» «Diceva che, nello spirito del Congresso del partito, aveva intenzione di democratizzare i suoi rapporti con gli uomini. Lo chiamava "ristrutturazione dei maschi".» «Non c'erano per caso un uomo o due in particolare?» chiese Arkady. «A bordo della Stella Polare?» «E dove, se no?» «Non lo so.» Olimpiada optò d'improvviso per la discrezione. Slava disse: «Ci è stata molto utile, compagna Bovina». La capocuoca tornò pesantemente al suo posto per continuare gli esercizi. La ragazza sullo schermo allargò le braccia e le roteò: sembrava abbastanza leggera per poter volare. Grazie al potere della televisione quella giovane ballerina era diventata il nuovo ideale delle donne sovietiche, un'icona luminosa e scattante. Agili lituane, asiatiche che vivevano nelle tende di feltro e matrone armene che abitavano nei grattacieli seguivano il programma e copiavano ogni suo movimento. Grazie al videoregistratore potevano fare altrettanto anche le donne della Stella Polare, anche se, guardando le schiene abbondanti e le poderose braccia protese, Arkady non pensava tanto a uno stormo di uccelli quanto a una squadriglia di bombardieri al decollo. Il videoregistratore era un Panasonic, frutto dell'ultimo scalo a Dutch Harbor, ed era stato adattato alle frequenze sovietiche. A Vladivostok c'era un fiorente mercato nero per i videoregistratori giapponesi. Certo, erano buoni anche quelli migliori della produzione sovietica, come i Voronezh che anzi andavano benissimo per le videocassette sovietiche: però a stretto rigore non erano videoregistratori perché non registravano. E poi, come i binari delle ferrovie dell'URSS avevano uno scartamento maggiore di quelle straniere per scongiurare un'invasione per mezzo dei treni, i "videoregistratori" sovietici erano fatti in modo da usare cassette più grandi, per evitare un afflusso di pornofilm stranieri. «Le donne!» Slava era disgustato. «Ridurre a un livello così banale un argomento importante come la ristrutturazione. Sono stufo di sentirti far domande e partire in tante direzioni diverse. Ho le mie idee e non ho bisogno della tua collaborazione.» Olimpiada girò la testa e vide Slava che usciva a passo di carica dalla mensa. Natasha si girò a mezzo dal televisore e fissò su Arkady lo sguardo degli occhi neri. Quand'era bambino, Arkady aveva i soldatini di piombo, i cavalleggeri
dell'eroico generale Davydov, gli artiglieri dell'astuto generale Kutuzov e i granatieri della Grande Armata di Napoleone, e li teneva in una scatola sotto il letto, dove finivano per rotolare tutti insieme in una mischia quando la tirava fuori, giocava e li rimetteva a posto. Come tanti feriti, avevano perduto molto presto le uniformi originali e le facce dipinte; e Arkady li colorava di nuovo, ogni volta con minor cura. Skiba e Slezko sembravano due di quei granatieri verso la conclusione della loro carriera: minacciosi, con il mento screziato di rosa e grigio, e macchie d'oro nella dentatura. Erano identici, a parte il fatto che Skiba aveva i capelli neri e Slezko li aveva grigi. Erano sul ponte centrale, lo stesso posto dove stavano durante il ballo, quando avevano avuto il compito di tener d'occhio la gabbia da trasporto che aveva portato avanti e indietro i pescatori americani. «La Merry Jane era ormeggiata all'Eagle, che era ormeggiata alla nostra fiancata di tribordo?» chiese Arkady. «Preferiamo rispondere al terzo ufficiale» disse Skiba. «Posso riferire al comandante che avete rifiutato di rispondere alle domande.» Skiba e Slezko si guardarono intorno, poi si fissarono e pervennero telepaticamente a una decisione comune. «Andiamo in un posto meno in vista» disse Slezko. Entrò per primo, scese, girò intorno a un'officina, varcò una porta e arrivò in un locale umido e mal illuminato con lavabi e cubicoli. I lavabi erano macchiati di marrone dall'acqua usata a bordo; nei cubicoli c'erano sedili in cemento con i buchi. A Mosca, gli informatori volevano sempre che gli incontri avvenissero nei gabinetti pubblici; in un deserto, uno di loro sarebbe stato capace di dissotterrare un vespasiano per parlare li dentro. Skiba incrociò le braccia e si appoggiò alla porta come se fosse temporaneamente in mano al nemico. «Risponderemo a una o due domande.» «I battelli erano nelle posizioni che ho descritto?» chiese Arkady. «Sì.» Slezko chiuse l'oblò. «Secondo il nostro orario, quando se ne sono andati gli americani?» Arkady riaprì l'oblò. Skiba consultò un taccuino. «Il capitano e l'equipaggio dell'Alaska Miss sono tornati al loro battello alle ventitré e si sono allontanati subito. Uno dell'Eagle è tornato al suo peschereccio alle ventitré e ventinove; altri due e il capitano sono tornati alle ventitré e cinquantaquattro. L'Eagle è ripartita a mezzanotte e dieci.»
«Quando i pescherecci si sono allontanati, fin dove sono arrivati?» chiese Arkady. «A cento metri? O sono spariti del tutto alla vista?» «C'era troppa nebbia per poterlo dire» disse Slezko dopo aver riflettuto a lungo. «Quando gli americani se ne sono andati, li ha accompagnati qualche sovietico?» chiese Arkady. Mentre Skiba consultava il taccuino, lo sguardo di Arkady si posò sui giornali infilati nei cestini vicini ai cubicoli: i titoli gualciti annunciavano AUDACI RIFORM... e LA NUOVA ERA DELL... Skiba si schiarì la gola. «Susan, il rappresentante principale, è uscita con loro sul ponte. Il comandante Marchuk ha stretto la mano al capitano Morgan e gli ha augurato buona pesca.» «Nessuna fraternizzazione indebita» commentò Arkady. «Non c'era nessun altro?» «Nessuno» disse Skiba. «Dopo le dieci e mezzo, chi altro si è visto sul ponte?» «Oh.» Skiba sfogliò il taccuino, irritato, come se avesse previsto che gli sarebbe toccata una domanda a sorpresa. «Del comandante ho già parlato. Alle ventidue e quaranta, gli americani Lantz e Day si sono diretti a popp?» Si girò per essere sicuro. «Alle ventitré e quindici, la compagna Taratuta.» Era la bufetchitsa che si occupava dell'alloggio e dei pasti del comandante. «In che direzione è andata?» Mentre Slezko alzava prima la mano sinistra e poi la destra, Skiba si girò, prima verso la porta e poi nella direzione opposta. «Da poppa...» cominciò Slezko. «A prua» concluse Skiba. «Pensare in modi nuovi. Cosa significa?» chiese Gury. «I modi vecchi sono un'allusione a Breznev...» «No» lo corresse Arkady. «Magari si riferisce a Breznev, ma non dire il suo nome. Breznev non esiste più; esistono soltanto i problemi dei vecchi sistemi, l'ostruzionismo e la riluttanza.» «È sconcertante.» «Tanto meglio. Un buon leader sconcerta la gente almeno per metà del tempo.» Gury aveva passato un mese leggendo due libri americani, Per raggiungere la perfezione e Come diventare manager in un minuto. Era stata u-
n'impresa miracolosa, tenendo conto che capiva pochissimo l'inglese. Arkady gli aveva tradotto gran parte di quelle cronache dell'avidità affaristica e, almeno secondo Gury, la collaborazione li aveva resi amici. Adesso Arkady guardava Gury che collaudava i preservativi in una vasca piena d'acqua. Chi li adoperava li chiamava "galosce": nelle confezioni erano arrotolati nel talco, a coppie nei sacchetti di carta. La polvere di talco volava via quando Gury gonfiava un preservativo dopo l'altro, lo legava e lo immergeva nell'acqua. Un velo di talco gli copriva la giacca di pelle. Il posto che Gury aveva scelto per quel collaudo del consumatore era un serbatoio di carburante vuoto. Anche se doveva essere stato ripulito, l'aria conservava un odore acre e prometteva un mal di testa causato dal petrolio. In mancanza della vodka, molti marinai aspiravano i fumi, e poi venivano trovati mentre ridevano o piangevano irrefrenabilmente o ballavano rimbalzando contro le paratie. O forse Pensavano in Modi Nuovi, a quanto immaginava Arkady. Via via che le bollicine, grosse come quelle dello champagne, salivano alla superficie della vasca e scoppiavano attraverso uno strato di talco, Gury smaniava. «Altro che controllo della qualità! Qui si nota la mancanza dell'impegno della direzione e dell'integrità del prodotto.» Buttò il preservativo in un mucchio sempre crescente di campioni collaudati e scartati, ne tirò fuori un altro, lo gonfiò e lo tenne sott'acqua. Aveva in progetto non soltanto di comprare radio e mangianastri a Dutch Harbor, ma anche di portare a bordo clandestinamente una quantità di pile dentro a involucri elastici e impermeabili da nascondere in un barile di petrolio. Non era un problema procurarsi i preservativi. Gury gestiva lo spaccio di bordo. Il guaio era che il KGB aveva informatori dei quali non sapeva nulla neppure Volovoi. C'era sempre qualcuno che era a conoscenza del libro nascosto nel secchio di sabbia e delle calze di nailon nel vano dell'ancora. A meno che, naturalmente, lo stesso Gury non fosse uno degli orecchi misteriosi del Comitato per la Sicurezza dello Stato. Dovunque fosse andato Arkady, aveva trovato sempre un informatore diverso... a Irkutsk, nel mattatoio, e persino a Sakhalin. Quando era partito da Vladivostok a bordo della Stella Polare, aveva immaginato che uno dei suoi compagni di cabina fosse un informatore: ma sia che fosse Gury, Kolya oppure Obidin, la paranoia non può tenere a bada l'amicizia più di tanto. Adesso gli sembravano tutti buoni compagni. «Come farai a portare a bordo le pile?» chiese Arkady. «Perquisiranno
tutti quelli che tornano a bordo. E alcuni li faranno anche spogliare.» «Mi verrà un'idea.» Gury aveva sempre qualche idea. La più recente era un libro che insegnasse a Pensare in Modi Nuovi in un minuto. «La cosa più pazzesca» continuò, «è che credevo nella Ristrutturazione. Superavo la pianificazione statale, offrivo iniziative...» «E sei stato condannato per aver acquistato illegalmente un tostacaffè di proprietà dello Stato, venduto privatamente il caffè e averci mescolato una pari quantità di grano.» «Ero soltanto un imprenditore in anticipo sui tempi.» Le bollicine salirono alla superficie e scoppiarono. «Vendevi preservativi a Zina» disse Arkady. «Zina non voleva correre rischi.» Gury buttò nel mucchio l'ultimo preservativo difettoso, ne prese un altro e sternuti. «Almeno, non di quel genere.» «Li comprava regolarmente?» «Era una ragazza molto attiva.» «Con chi?» «Vorrai chiedere con chi non lo faceva. Non era una puttana, questo no; non si faceva pagare. Non le piaceva sentirsi obbligata. Era lei a scegliere. Una donna moderna. Aha!» Gury buttò un preservativo nel mucchio di quelli che avevano superato il collaudo. «La qualità sta migliorando.» «È davvero questa la meta del Paese?» domandò Arkady. «Una nazione d'imprenditori che selezionano allegramente preservativi, automobili, arredamenti firmati?» «Cosa c'è di male?» «Gogol vedeva la Russia come una troika che correva all'impazzata sulla neve in un turbine di scintille mentre le altre nazioni della terra assistevano piene di soggezione. Tu la vedi come il portabagagli d'una macchina pieno d'impianti stereo.» Gury arricciò il naso. «Io penso in Modi Nuovi. Tu evidentemente no.» «Chi erano gli amici di Zina?» chiese Arkady. «Uomini. Veniva a letto con te e poi non ci veniva più, ma lo faceva senza offenderti.» «Donne?» «Andava d'accordo con Susan. Hai parlato con lei?» «Certo.» «È bella. Hai presente come, a volte, dopo che una nave passa, la scia ri-
splende per la bioluminescenza? A volte, quando mi capita di perderla di vista sulla nave, ci sarà sempre quella specie di luce.» «"Bioluminescenza"? Forse potresti imbottigliarla e venderla.» «Sai» disse Gury, «mi preoccupa vederti così duro. Da quando ho saputo che eri un investigatore, ti vedo con occhi nuovi. Come se ci fosse qualcun altro dentro di te. Senti, io voglio solo far quattrini. L'Unione Sovietica sta per uscire dal secolo diciannovesimo, e ci saranno...» Si accorse che stava agitando in aria un preservativo mentre parlava, lo posò con un sospiro. «Sarà tutto diverso. Mi sei stato di grande aiuto con quei libri. Se li utilizzassimo in combinazione con le parole ispiratrici del partito...» Arkady conosceva a memoria quegli slogan. Erano piovuti addosso a tutti come una grandine che era salita alle caviglie e alle ginocchia. «Per esempio classe operaia, avanguardia della ristrutturazione, ampliamento e approfondimento ideologico e vittoria morale?» «Esattamente. Ma non come hai detto tu. Io credo nella ristrutturazione.» Gury si accorse che aveva ricominciato a sventolare il preservativo. «Comunque, non pensi che dobbiamo lasciarci alle spalle la stagnazione e la corruzione?» Poi notò l'occhiata che Arkady stava lanciando alla vasca. «Be', questa non la chiamerei corruzione... corruzione vera. La figlia di Breznev contrabbandava diamanti, organizzava orge e se la faceva con uno zingaro. Questa si è corruzione.» «Zina non aveva un uomo in particolare?» «Cominci a parlare da investigatore, e questo mi fa paura.» Gury collaudò un altro preservativo. «Te l'ho detto, era molto democratica. Era diversa dalle altre donne. Lascia che ti dia qualche consiglio. Scopri quello che loro vogliono sentirsi dire, e diglielo. Se fai le cose troppo sul serio, quelli ti prendono e t'inchiodano sulla croce come il Cristo di Obidin. Vacci con mano leggera.» Gury sembrava sinceramente preoccupato. Erano compagni di cabina e tutti e due avevano un passato burrascoso. Ora che Arkady ci pensava meglio, come poteva permettersi di criticare le aspirazioni di un altro, quando lui non ne aveva se non quella di restare nell'ombra e sopravvivere? Da dove spuntava quella intransigenza virtuosa? Credeva di averla soffocata molto tempo prima. «Bene, hai ragione tu» disse. «Penserò in Modi Nuovi.» «Bene.» Con aria di sollievo, Gury immerse un altro preservativo. «Modi nuovi e redditizi, se possibile.» A titolo di prova, Arkady diede un suggerimento. «Cerca di non nascon-
dere l'odore alla Guardia Confinaria. Adopera un altro sistema. Quando torneremo a Vladivostok, disorienta i cani facendogli fiutare qualcosa d'altro. Procurati un po' di orina di cane o di gatto e spruzzala su qualche cassa.» «Mi piace» disse Gury. «Il nuovo Arkady Per te c'è ancora speranza.» 8 Era sera quando Arkady tornò nella cabina del comandante. Le pareti verde-mare conferivano al locale un aspetto subacqueo. Intorno alla scintillante collezione di bicchieri e di bottiglie d'acqua minerale in mostra sulla scrivania stavano seduti Marchuk, il primo ufficiale Volovoi e un terzo uomo, non molto più alto di un bambino. Aveva le palpebre peste per il sonno perduto, i capelli scarmigliati come paglia e una pipa spenta in bocca. C'era un dettaglio che lo rendeva straordinario: Arkady non l'aveva mai visto prima. Slava aveva già incominciato. Aveva ai piedi un sacco di tela. «Dopo la visita all'Eagle ho conferito con il primo ufficiale Volovoi. Ci siamo trovati d'accordo nel ritenere che con l'aiuto degli attivisti e dei volontari del partito a bordo della nave avremmo potuto interrogare l'equipaggio della Stella Polare e accertare la posizione che ogni membro aveva la notte della scomparsa di Zina Patiashvili. Questo compito enorme è stato completato in due ore. Abbiamo scoperto che nessuno ha visto la Patiashvili dopo il ballo e che nessuno era presente quando è caduta in mare. Abbiamo indagato in particolare tra i compagni di lavoro della Patiashvili, per mettere a tacere le voci oltre che per stabilire la verità. Vi sono alcuni che per istinto vorrebbero trasformare un incidente in uno scandalo.» «Inoltre» disse Volovoi, «dovevamo tenere conto della nostra situazione particolare, dato che collaboriamo con cittadini stranieri in acque straniere. Una fraternizzazione indebita con questi stranieri ha costituito un fattore della morte tragica della Patiashvili? Era doveroso affrontare i fatti e fare domande precise.» Benissimo, pensò Arkady. Lui aveva corso qua e là per la nave mentre Slava e l'Invalido preparavano un bel discorso. «Questi sospetti sono stati sfatati più volte» disse Slava. «Compagni, in un tribunale socialista non esiste testimonianza di maggior peso dei pensieri di coloro che lavoravano a fianco della defunta. In cambusa ho sentito innumerevoli volte: "La Patiashvili era un'ottima assistente cuoca", "la Pa-
tiashvili non mancava mai al lavoro" e...» Slava abbassò la voce in segno di rispetto. «E "Zina era una brava ragazza". Gli stessi sentimenti sono stati espressi dalle sue compagne di cabina: "Era un'onesta lavoratrice socialista e sentiremo molto la sua mancanza". L'ha affermato Natasha Chaikovskaya, iscritta al partito e operaia decorata.» «Saranno tutti elogiati per le loro testimonianze così franche» intervenne Volovoi. Nessuno aveva ancora badato ad Arkady, e lui si domandava se doveva scomparire o mimetizzarsi fra i mobili. Un'altra sedia sarebbe stata utile. «Mi sono rivolto di nuovo al compagno Volovoi» riprese Slava rivolto al comandante. «Ho chiesto a Fedor Fedorovich: "Che tipo di ragazza era Zina Patiashvili?". E mi ha risposto: "Giovane e piena di vita ma politicamente matura".» «È tipico della gioventù sovietica» disse Volovoi. Per l'occasione aveva addosso una lucida tuta da ginnastica, tipica degli ufficiali politici. Arkady non aveva notato, prima di quel giorno, che i capelli rossi e corti del primo ufficiale ricordavano le setole sul grugno d'un porco. Slava disse: «Il capopesca, che ha trovato il cadavere, è rimasto molto sconvolto». «Korobetz» rammentò Volovoi agli altri. «La sua squadra è in testa nella competizione socialista.» «Ho interrogato lui e la sua squadra. Anche se l'aveva vista soltanto alla mensa, ricordava anche lui una lavoratrice tanto generosa.» Generosa nella distribuzione del purè? si chiese Arkady. Come se gli leggesse nella mente, l'Invalido gli lanciò una rapida occhiata malevola prima di continuare la sua parte del duetto. «Tuttavia dobbiamo affrontare il mistero di ciò che le è accaduto la notte in cui è morta. Non soltanto per lei ma anche per tutti i suoi compagni, perché possano superare questo spiacevole avvenimento e incanalare di nuovo tutto il loro impegno verso finalità produttive.» «Proprio così.» Slava era d'accordo. «Ed è quanto abbiamo fatto oggi. Abbiamo appurato che Zina Patiashvili era al ballo che si è svolto quella sera nella mensa. Io facevo parte del complesso e posso testimoniare che c'era molto caldo, generato in quello spazio limitato dal movimento dei ballerini. Questo mi ha indotto a chiedere alle donne che vi avevano partecipato se il caldo gli aveva dato fastidio. Moltissime hanno risposto di si: hanno dovuto lasciare la mensa e uscire sul ponte per prendere aria. Poi sono tornato all'infermeria e ho chiesto al medico di bordo se Zina Patia-
shvili si era lamentata di vertigini o emicranie. La sua risposta è stata affermativa. In precedenza, il dottor Vainu aveva effettuato l'autopsia della defunta. Gli ho chiesto se c'erano segni di violenza che non potevano essere accidentali. "No" ha risposto. C'era qualche segno che trovava difficile da spiegare? ho chiesto. Sì, c'erano le chiazze di colore diverso sul busto e sugli arti, e i lividi a intervalli regolari sulle costole e sui fianchi. E c'era anche una piccola ferita all'addome. «Compagni, non c'è nessun mistero. Io stesso ho ricostruito i passi di Zina Patiashvili nella notte della sua scomparsa. Nessuno l'ha vista nei corridoi che portano alla sua cabina o sul ponte di pesca. L'unico posto dove poteva essere andata è a poppa. Se è caduta direttamente in mare, sì, allora è difficile spiegare i segni osservati sul suo corpo. Tuttavia Zina Patiashvili, sola e al buio, non è caduta dal parapetto finendo direttamente in acqua, ma dalla ringhiera che circonda il pozzo aperto della rampa di poppa, e ha battuto la testa. Poi, scivolando sui gradini, si è causata anche i lividi alla fronte e agli arti.» Era un "anche" molto comodo, pensò Arkady. Marchuk studiò premurosamente il referto dell'autopsia che aveva davanti. Arkady provava comprensione per lui. Viktor Marchuk non sarebbe diventato comandante senza la tessera del partito, e non gli sarebbe stato permesso di pescare con gli americani se non fosse stato un apprezzato attivista. Era un uomo ambizioso, ma era un comandante che teneva al suo equipaggio. Lo sconosciuto sulla terza sedia teneva la testa appoggiata sulla mano, e aveva l'espressione illuminata di chi riconosce le note sbagliate nel recital d'un pianista dilettante. «C'è un pianerottolo su quella scala» osservò Marchuk. «Appunto» confermò Slava. «E il corpo di Zina Patiashvili è rimasto lì mentre durava il ballo. È rimasta così, schiacciata contro la ringhiera esterna del pianerottolo, il che spiega i lividi sulle costole e sui fianchi. Poi, quando il ballo è finito ed è ripreso il lavoro sulla Stella Polare, il corpo è rotolato con il movimento della nave. Come sapete, i nostri progettisti si prodigano per costruire le navi più sicure del mondo per i marinai sovietici. Purtroppo, non è possibile prevedere tutte le eventualità più strane. Non c'è una ringhiera di protezione all'interno del pianerottolo. Zina Patiashvili è rotolata ed è caduta sulla rampa. Più in alto c'è una paratia di sicurezza per proteggere chi dovesse cadere dal ponte di pesca, ma non chi cade dal pozzo. Priva di sensi, impossibilitata a gridare, Zina Patiashvili è scivolata lungo la rampa ed è piombata in acqua.»
Slava riferì la conclusione come se fosse un radiogramma. E nonostante tutto, Arkady vedeva la scena: la ragazza georgiana, con i jeans e i capelli decolorati, che lasciava l'atmosfera accaldata e fumosa del ballo; stordita, fissava il morbido oblio della nebbia e tornava imprudentemente indietro verso la ringhiera del pozzo... No, francamente, non riusciva a vederla: Zina, la ragazza con la regina di cuori nella tasca, sola, in quel modo... no, non era possibile. Inaspettatamente il comandante Marchuk chiese: «Cosa pensi di questa teoria, compagno Renko?». «Molto eccitante.» Slava continuò. «Non ho bisogno di spiegare a marinai veterani che Zina Patiashvili non poteva sopravvivere a lungo in quelle acque gelide. Cinque minuti, al massimo dieci. L'unica questione insoluta riguarda la ferita all'addome, una ferita che è stata sottoposta alla nostra attenzione dal marinaio Renko. Renko, però, non è un pescatore e non ha familiarità con l'attrezzatura da pesca. Ha mai maneggiato un cavo sfrangiato per l'attrito di trascinare quaranta tonnellate di pesce sulle rocce del fondale marino?» Be', sì, pensò Arkady. Ma non voleva interrompere quando il terzo ufficiale stava per arrivare al momento culminante o almeno a una conclusione. Slava aprì il sacco sul pavimento, tirò fuori un cappio di cavo d'acciaio del diametro d'un centimetro e lo mostrò trionfalmente. In alcuni punti i fili d'acciaio spuntavano a ventaglio. «Un cavo come questo, sfrangiato come questo» disse Slava. «È provato che il corpo di Zina Patiashvili è stato portato a galla nella rete. Noi marinai sappiamo che la rete è trascinata da cavi logori. Sappiamo che quando la rete viene trainata nell'acqua i cavi vibrano, e i fili d'acciaio spezzati si comportano come seghe. Ecco che cosa ha ferito Zina Patiashvili. Fine del mistero. Una ragazza è andata a ballare, si è sentita accaldata, è uscita da sola sul ponte per prendere aria, è caduta in mare e purtroppo è morta. Ma questo è tutto ciò che è accaduto.» Slava mostrò il pezzo di cavo a Volovoi, che lo guardò ostentando il massimo interesse, e allo sconosciuto, che lo respinse con un cenno, e a Marchuk, che stava leggendo un altro documento. Il comandante aveva un modo molto felino di accarezzarsi la barba nera mentre si concentrava sulle pagine. «Secondo il suo rapporto, lei raccomanda che non si proseguano le indagini a bordo, e che le eventuali questioni rimaste in sospeso vengano lasciate alle autorità competenti di Vladivostok.»
«Sì» confermò Slava. «Naturalmente spetta a lei decidere.» «C'erano anche altre raccomandazioni, ricordo» intervenne Volovoi. «Ho visto il rapporto solo per un momento.» «È esatto» rispose diligentemente Slava. Era davvero meraviglioso, pensò Arkady: quasi come una partita di ping-pong. «Se c'è una lezione da trarre da questo tragico incidente è che non bisogna mai dare per scontata la sicurezza. Propongo due precise raccomandazioni. Prima: durante le feste, dovranno esserci volontari di guardia sui due lati del ponte di poppa. Seconda, le feste dovranno svolgersi il più possibile durante il giorno.» «Sono raccomandazioni utili e sono sicuro che verranno discusse con grande interesse nella prossima assemblea plenaria» concluse Volovoi. «Tutta la nave la ringrazia per l'opera svolta, per la rapidità e la completezza della sua indagine e per il carattere chiaro e concreto delle conclusioni.» Gli aristocratici di Tolstoj parlavano un francese spumeggiante. I nipoti della rivoluzione parlavano un russo prosaico e misurato, come se ogni parola fosse lunga tanti centimetri e, messa scrupolosamente in fila con le altre, portasse inevitabilmente al consenso; e la pronunciavano educatamente e sobriamente perché lo spirito della democrazia sovietica imponeva che tutte le riunioni portassero all'unanimità. Era così anche se un operaio si presentava al comitato di fabbrica e faceva osservare che producevano automobili con tre ruote, oppure spiegava al comitato di una fattoria collettiva che stavano allevando vitelli con due teste. Quel genere di rivelazione non impediva mai a un comitato esperto di continuare la marcia in formazione compatta. Marchuk prese un bicchiere, bevve un sorso, accese un'altra sigaretta, una Player's dal ricco fumo straniero, e studiò il rapporto a testa china. L'angolazione metteva in risalto il taglio asiatico degli zigomi. Sembrava un uomo fatto per domare la taiga, non per destreggiarsi nei meandri del gergo burocratico. Lo sconosciuto dal maglione color beige sorrideva paziente come se fosse capitato per caso alla riunione ma non avesse fretta di andarsene. Marchuk alzò la testa. «Ha svolto l'indagine con il marinaio Renko?» «Sì» disse Slava. «Vedo solo la sua firma, qui in fondo.» «Perché non abbiamo avuto occasione di parlarci prima della riunione.» Marchuk accennò ad Arkady di avvicinarsi. «Renko, non hai niente da aggiungere?» Arkady rifletté per un momento e disse: «No».
«Allora vuoi firmare?» Marchuk gli porse una grossa stilografica, una Monte Cristo molto adatta a un comandante. «No.» Marchuk riavvitò il cappuccio della penna. La faccenda si prospettava abbastanza complicata. L'Invalido si versò un po' d'acqua e disse: «Dato che non è stato il marinaio Renko a fare la maggior parte del lavoro e le raccomandazioni sono tutte del terzo ufficiale, non c'è bisogno della firma di Renko». «Vediamo.» Marchuk si rivolse di nuovo ad Arkady. «Non sei d'accordo di lasciare a quelli di Vladivostok le questioni in sospeso?» «No.» «Allora con che cosa non sei d'accordo?» «Soltanto...» Arkady cercò le parole esatte. «Con i fatti.» «Ah.» Per la prima volta l'uomo dal maglione beige si scosse come se avesse finalmente sentito parlare in una lingua comprensibile. «Chiedo scusa» disse Marchuk. «Marinaio Renko, questo è l'ingegnere elettronico Hess della flotta. Ho chiesto al compagno Hess di dare il suo contributo alla riunione di stasera. Spiega a lui e a me perché non sei d'accordo con i fatti e invece lo sei con la conclusione.» La Stella Polare non vedeva la flotta da sei settimane, e non l'avrebbe rivista per altre quattro. Arkady si chiese dove era rimasto nascosto Hess per quel tempo, ma subito si concentrò sulla domanda che gli era stata rivolta. «Zina Patiashvili è morta la notte del ballo» disse. «Dato che nessuno l'ha vista sottocoperta mentre andava in cabina, è probabile che si sia recata in qualche altro compartimento di poppa o, come afferma il terzo ufficiale, sul ponte di poppa. Tuttavia quando qualcuno sviene si accascia, e non prende la rincorsa per scavalcare un parapetto che doveva arrivare all'altezza delle costole di Zina. La morte per annegamento ha segni caratteristici, che in Zina non sono presenti; e quando le apriranno lo stomaco e i polmoni a Vladivostok non vi troveranno acqua salata. I segni caratteristici presenti sul corpo, come i lividi sugli avambracci, i polpacci, i seni e il ventre, si formano solo dopo la morte quando un corpo resta accucciato per qualche tempo, e i lividi sulle costole e sui fianchi non derivano dall'essere rimasta appoggiata contro un parapetto, bensì dall'essere stata premuta con forza contro protuberanze molto dure. È stata uccisa sulla Stella Polare e nascosta a bordo. In quanto alla ferita al ventre, è stata inferta con un unico affondo d'un coltello affilato. Non c'erano graffi o slabbrature, e
la perdita di sangue è stata minima. I fatti sono questi: prima di venire gettata in acqua è stata colpita per impedire che risalisse alla superficie. Un'altra prova del fatto che la ferita non è stata causata da una rete che la riportava a galla è che si trovava a una profondità di trenta braccia, sul fondo del mare, e che c'è rimasta abbastanza a lungo perché le anguille glutinose penetrassero attraverso la ferita e facessero il nido nelle viscere.» «Nel suo rapporto non si parla delle anguille» disse Marchuk a Slava. I marinai le odiavano. «Vuole sapere altro?» «Prego.» «Le compagne della cambusa dichiarano che Zina Patiashvili era una lavoratrice indefessa, però gli americani dicono che compariva al parapetto di poppa, giorno e notte, ogni volta che il peschereccio Eagle consegnava un carico di pescato. Spesso questo coincideva con il turno di Zina, il che significa che abbandonava il lavoro quando voleva e spariva per mezz'ora alla volta.» «Sostieni che i sovietici mentono e che gli americani dicono la verità?» chiese Volovoi come se quella distinzione gli causasse una notevole incertezza. «No. Zina ha ballato con gli americani dell'Eagle. Ha ballato con loro e parlato con loro. Non credo che una donna corra al parapetto di poppa nel cuore della notte o sotto la pioggia per salutare un gruppo di conoscenti. Ci va per salutare un uomo in particolare. Gli americani mentono sicuramente, quando dicono di non sapere chi era.» «Vuoi dire che uno dei nostri ragazzi era geloso?» chiese Marchuk. «Sarebbe una calunnia» osservò Volovoi, come se questo rispondesse alla domanda del comandante. «Naturalmente, se c'è stato abbandono del lavoro nella cambusa, se qualche lavoratrice non si è impegnata per l'intero orario, ci sarà una severa censura.» «Acqua?» Marchuk alzò la bottiglia e guardò Volovoi. «Sì, grazie.» Le bollicine danzarono nel bicchiere dell'Invalido. Il sorriso di Marchuk era vagamente minaccioso, ma le parole continuarono a mantenersi molto calme e pratiche e sovietiche. «Il problema» disse il comandante, «è costituito dagli americani. Staranno a osservare se svolgiamo un'indagine aperta e lineare.» «Lo faremo» disse Volovoi. «A Vladivostok.» «Naturalmente» convenne Marchuk. «Tuttavia siamo in una situazione
unica che potrebbe richiedere un impegno più immediato.» Offri una sigaretta all'Invalido. Erano ancora entro i limiti di una discussione molto sovietica. A volte c'erano crisi impellenti, come alla fine d'ogni mese, quando si poteva soddisfare la quota fissata solo producendo automobili con tre ruote. A bordo di una nave-fattoria l'equivalente consisteva nel produrre il tonnellaggio imposto dalla quota, nel trasformare in farina di pesce tutto il pescato, fresco o marcio. «Il dottore è d'accordo con il compagno Bukovsky» osservò Volovoi. «Il dottore» ribatté Marchuk sforzandosi di prendere sul serio quel suggerimento, «ha sbagliato persino l'ora della morte, se non ricordo male. È un ottimo medico per i sani, ma lo è meno per i malati e i morti.» «Il rapporto può avere qualche lacuna» ammise Volovoi. Con aria di rammarico, Marchuk si rivolse a Slava. «Mi scusi, ma fa schifo.» Poi, a Volovoi: «Sono sicuro che ha fatto del suo meglio». L'ultima nave russa che la Stella Polare aveva visto era quella che era venuta a caricare tremila tonnellate di sogliole, cinquemila tonnellate di merlani, ottomila tonnellate di farina di pesce e cinquanta tonnellate di olio di fegato in cambio di farina, prosciutti, cavoli, film, posta personale e riviste. Quel giorno, Arkady aveva fatto parte della folla salita sul ponte per assistere alla scena. Non aveva notato un minuscolo ingegnere elettronico della flotta che si trasferiva a bordo con la gabbia. Sotto il ciuffo dei capelli, la faccia di Anton Hess era formata per metà dalla fronte: gli altri lineamenti erano compressi in un emisfero meridionale di sopracciglia arrotondate, naso aguzzo, labbro superiore carnoso e mento con fossetta, illuminato da due amabili occhi azzurri. Sembrava un direttore di cori tedesco, qualcuno che avesse collaborato con Brahms. Il primo ufficiale continuò a usare i toni misurati dell'autorità sovietica e dei fatti esposti con riluttanza, e decise di passare all'offensiva. «Marinaio Renko, per nostra informazione, è vero che sei stato allontanato dalla procura di Mosca?» «Sì.» «È anche vero che sei stato espulso dal partito?» «Sì.» Vi fu una pausa tetra, com'era logico attendersi quando un uomo aveva confessato d'essere affetto da due malattie incurabili. «Posso essere franco?» chiese Volovoi a Marchuk. «Prego.» «Fin dall'inizio ero contrario a coinvolgere nell'indagine questo lavorato-
re, soprattutto perché riguarda anche i nostri colleghi americani. Avevo già un dossier d'informazioni negative sul conto del marinaio Renko. Oggi ho chiesto via radio altre informazioni al KGB di Vladivostok perché non volevo giudicarlo in modo ingiusto. Compagni, abbiamo qui un uomo dal passato molto burrascoso. Nessuno vuole dire con esattezza che cosa successe a Mosca, se non che costui era coinvolto nella morte del procuratore e nella defezione di un'ex cittadina, Irina Asanova. Omicidio e tradimento: ecco la storia dell'uomo che vi sta davanti. Ecco perché è passato da un lavoro all'altro girando tutta la Siberia. Guardatelo bene: non ha certo avuto fortuna.» Questo era vero, ammise Arkady. I suoi stivali incrostati di squame e di viscidume secco non erano certamente le calzature di un uomo di successo. «Per la precisione» continuò Volovoi come se parlasse con grande sforzo, «lo stavano ricercando a Sakhalin quando si è imbarcato sulla Stella Polare. Non dicono il perché. Con un individuo come quello, può trattarsi d'un milione di cose. Posso essere sincero?» «Assolutamente» disse Marchuk. «Compagni, a Vladivostok non si occuperanno di quello che è successo a quella stupida di Zina Patiashvili, ma del fatto che su questa nave abbiamo mantenuto o no la disciplina politica. A Vladivostok non capiranno perché abbiamo coinvolto in un'indagine tanto delicata uno come Renko, un uomo politicamente tanto inaffidabile che non lo lasciamo sbarcare in un porto americano.» «Molto giusto» ammise Marchuk. «Anzi» disse Volovoi, «sarebbe più prudente non lasciar scendere a terra nessun membro dell'equipaggio. Fra due giorni arriveremo a Dutch Harbor. Potrebbe essere meglio non autorizzare nessuno a sbarcare.» Marchuk si oscurò a quella proposta. Si versò un altro po' d'acqua, studiando il filo argenteo del liquido. «Dopo quattro mesi di navigazione?» chiese. «Hanno navigato proprio per questo, per un giorno in porto. E poi, non è il nostro equipaggio a costituire il problema. Non possiamo impedire agli americani di scendere a terra.» Volovoi alzò le spalle. «I rappresentanti riferiranno alla compagnia, sì, ma la compagnia è per metà di proprietà sovietica. Quindi non farà nulla.» Marchuk spense la sigaretta e sfoggiò un sorriso più ironico che allegro. Sembrava che il galateo lo stesse stancando. «Gli osservatori riferiranno al governo americano, e i pescatori racconteranno chissà cosa. Finirà per correre la voce che ho nascosto un assassinio a bordo della mia nave.»
«Una morte è una tragedia» disse Volovoi. «Ma un'indagine è una decisione politica. Ogni ulteriore indagine a bordo sarebbe un errore. A questo proposito devo prendere posizione per conto del partito.» In mille comuni, fabbriche, università e tribunali, le stesse parole dovevano venire pronunciate nello stesso istante perché nessuna riunione seria fra dirigenti o procuratori era mai completa senza che qualcuno parlasse a nome del partito; e a quel punto le sottigliezze del dibattito finivano e il fumo delle sigarette veniva disperso dalla frase decisiva e ineluttabile. Ma questa volta Marchuk si girò verso l'uomo seduto alla sua destra. «Compagno Hess, ha niente da dire?» «Ecco» esordi l'ingegnere elettronico della flotta, come se gli fosse appena venuto in mente qualcosa. La sua voce aveva il timbro di un oboe incrinato, e parlava direttamente a Volovoi. «In passato, compagno, tutto ciò che ha detto sarebbe stato giustissimo. Mi sembra però che la situazione sia cambiata. Abbiamo una nuova dirigenza che ci esorta a un maggiore spirito d'iniziativa e un esame più franco dei nostri errori. Il comandante Marchuk è un esponente di questa nuova classe dirigente. Credo che dovremmo appoggiarlo. In quanto al marinaio Renko, anch'io ho chiesto informazioni via radio. Non è mai stato accusato d'omicidio o di tradimento. Anzi, risulta che ha garantito per lui il colonnello Pribluda del KGB. Può darsi che Renko sia politicamente avventato, ma nessuno ha mai messo in discussione le sue capacità professionali. Inoltre c'è una considerazione decisiva. Questo è un programma congiunto unico, da noi intrapreso insieme con gli americani. Non tutti approvano che sovietici e americani collaborino. Cosa sarà della nostra missione? Cosa sarà della cooperazione internazionale se si spargerà la voce che quando un sovietico fraternizza con gli americani finisce in mare con la pancia squarciata? Dovremmo impegnarci sinceramente adesso, e non soltanto a Vladivostok. Il terzo ufficiale Bukovsky ha molta energia, ma non ha esperienza in questo campo. Nessuno di noi l'ha, a eccezione del marinaio Renko. Procediamo con maggior fiducia e scopriamo che cosa è successo.» Per Arkady era una cosa strana, come assistere alla resurrezione dei morti. Per una volta non era stato l'Invalido ad avere l'ultima parola in un dibattito. Voiovoi disse: «A volte è opportuno sorvolare sulle spiacevoli dicerie del momento. È una situazione che dev'essere contenuta, non pubblicizzata. Riflettete: se la Patiashvili è stata assassinata come sostiene il marinaio Renko, allora abbiamo un omicida a bordo della nostra nave. Se incorag-
giamo un'indagine, indipendentemente dal fatto che sia svolta con intelligenza o inettitudine, quale sarà la reazione naturale di quell'individuo? Ansia e paura... e il desiderio di fuggire. Una volta a Vladivostok questo non gli sarà utile: un'indagine seria nel nostro porto lo scoprirà già nelle nostre mani. Qui, invece, la situazione è diversa. Il mare aperto, i pescherecci americani e, cosa ancor più pericolosa, un porto americano. Lo zelo prematuro porterà ad atti disperati. Non sarebbe possibile o addirittura logico che un criminale, temendo di venire scoperto, abbandoni il suo gruppo durante il turno a Dutch Harbor e cerchi di sottrarsi alla giustizia sovietica chiedendo asilo politico? Non è forse questo che ispira il comportamento di tanti cosiddetti transfughi? Gli americani sono imprevedibili. Appena una situazione diventa politica, sfugge di mano e si trasforma in una specie di circo dove la verità lotta con le menzogne. Certo, con il tempo riusciremmo a farci restituire quell'uomo; ma una nave sovietica apparirebbe nella giusta luce? Omicidio? Scandalo? Compagni, nessuno potrebbe sostenere in circostanze normali che questo equipaggio non meriti una sosta a terra dopo quattro mesi di duro lavoro in mare. Tuttavia non vorrei essere al posto del comandante che ha messo a repentaglio il prestigio e la missione di un'intera flotta perché il suo equipaggio potesse scendere a comprare scarpe da jogging e orologi stranieri». Dopo quell'impeccabile lavoro di vanga da parte dell'Invalido, Arkady pensò che la questione fosse di nuovo sepolta. Ma Hess replicò immediatamente. «Vediamo di risolvere le sue preoccupazioni. Un'indagine a bordo crea una situazione anomala, e una situazione anomala impedisce lo scalo in un porto. A me sembra che si possa risolvere tutto. Arriveremo a Dutch Harbor fra un giorno e mezzo, il tempo sufficiente per giungere a conclusioni più precise sulla morte di quella povera ragazza. Se fra trentasei ore apparirà ancora sospetta, potremo decidere di non concedere una licenza a terra all'equipaggio. Altrimenti, avrà la sua giornata in porto, come ha meritato. In entrambi i casi, nessuno potrà fuggire, e ci sarà comunque un'indagine completa ad attenderci quando torneremo a Vladivostok.» «E se fosse un suicidio?» chiese Slava. «Se la Patiashvili si fosse buttata in mare o sulla rampa o quel che è?» «E allora?» chiese Hess ad Arkady. «Il suicidio è sempre qualcosa di molto sfumato» intervenne Arkady. «C'è il suicida che fa i nomi dei suoi complici prima di chiudere a chiave il garage e accendere il motore della macchina. O il suicida che scrive "A
morte l'Unione Sovietica" sul muro della cucina prima di mettere la testa nel forno. O il soldato che dice: "Consideratemi un buon comunista" prima di lanciarsi alla carica contro una mitragliatrice.» «Intende dire che l'elemento politico è sempre diverso» osservò Hess. «Sarò io ad accertare questo elemento» disse Volovoi. «Sono ancora l'ufficiale politico.» «Sì» disse calmo Marchuk. «Ma non è il comandante.» «In una missione tanto delicata...» Hess interruppe Volovoi. «C'è più di una missione.» Vi fu un silenzio, come se la nave avesse virato verso una direzione nuova. Quando Marchuk offri una sigaretta a Volovoi, la fiammella dell'accendino illuminò una rete di vasi capillari che si estendeva negli occhi del primo ufficiale. Volovoi buttò fuori il fumo e disse: «Bukovsky può preparare un altro rapporto». «Bukovsky e Renko si bilanciano ottimamente, non le sembra?» chiese Hess. Poi si rivolse ad Arkady. «Mi sono appropriato della cabina del secondo ufficiale. La mia porta sarà sempre aperta per lei.» Volovoi incurvò le spalle sotto il peso del consenso che era la finalità delle decisioni sovietiche. Marchuk cambiò argomento. «Continuo a pensare a quella ragazza in fondo al mare e alle anguille. Renko, quante probabilità c'erano che una rete la raccogliesse? Una su un milione?» La partecipazione di Arkady alla riunione era avvenuta in seguito a un ordine; ma era anche un onore, come se un alluce venisse invitato a prender parte alle deliberazioni del cervello. La domanda di Marchuk era un gesto di conferma. «C'è una probabilità su un milione che io e il compagno Bukovsky riusciamo a trovare qualcosa» disse Arkady. «A Vladivostok ci sono veri investigatori e veri laboratori, e loro sanno che cosa devono trovare.» «L'importante è che l'indagine si svolga qui e subito» replicò Marchuk. «Riferisci i fatti via via che li scopri.» «No» disse Arkady. «Sono d'accordo con il compagno Volovoi: questo è meglio lasciarlo a Vladivostok.» «Mi rendo conto che sei riluttante» disse Marchuk in tono comprensivo. «L'importante è che puoi riscattarti...» «Non ho bisogno di riscattarmi. Ho accettato di impiegare una giornata facendo domande. La giornata è finita.» Arkady si avviò verso la porta.
«Compagni, buonanotte.» Marchuk si alzò sbalordito. La stupefazione si trasformò nella collera di un uomo potente che vede tradite le sue buone intenzioni. Intanto Volovoi s'era appoggiato alla spalliera della sedia: non riusciva a credere a quel colpo di fortuna. «Renko, ha detto che qualcuno ha ucciso la ragazza e non vuol scoprire chi è stato?» chiese Hess. «Non credo che ci riuscirei... e non m'interessa.» Marchuk disse: «Te lo ordino». «Mi rifiuto.» «Dimentichi che stai parlando al tuo comandante.» «E lei dimentica che sta parlando a un uomo che ha passato un anno al circuito sporco» Arkady aprì la porta. «Che cosa può farmi? C'è forse qualcosa di peggio?» 9 Il vento aveva respinto la nebbia fino a comprimerla in un unico banco fittissimo. Arkady stava attraversando il ponte per andare a letto quando vide al parapetto il suo compagno di cabina, Kolya. Le notti serene attiravano sempre Kolya sul ponte, come se la luna brillasse per lui solo. I capelli erano arricciati intorno al berretto di lana, e il naso lungo e aguzzo puntava in direzione dei fenomeni. «Arkasha, ho visto una balena. Soltanto la coda; ma s'è immersa verticalmente, quindi era una balena gobba.» Arkady ammirava Kolya perché, anche se il botanico era stato scacciato dalla terraferma, continuava a raccogliere dati scientifici. Aveva il coraggio di un monaco disposto, nonostante la mitezza, a farsi torturare per le sue convinzioni. Teneva fra le mani, splendente come un minuscolo corno francese, un vecchissimo sestante d'ottone. «Hai finito con il comandante?» chiese Kolya. «Sì.» Kolya ebbe la delicatezza di non fare altre domande, tipo: Perché non avevi detto ai tuoi amici che facevi l'investigatore? Perché non lo fai più? Cos'hai scoperto sul conto della ragazza morta? Disse allegramente: «Bene. Allora puoi aiutarmi». Porse un orologio ad Arkady. Era digitale e di plastica, di produzione giapponese. «Il pulsante in alto illumina il quadrante.»
«Perché lo fai?» chiese Arkady. «Per mantener viva la mente. Sei pronto?» «Sì.» Kolya accostò l'occhio al telescopio del sestante e inquadrò la luna, facendo girare l'indice lungo l'arco. Una volta l'aveva spiegato ad Arkady: i sestanti avevano il merito di essere arcaici, semplici e nel contempo complicati. In pratica, un paio di specchi montati sull'arco portava un'immagine della luna all'orizzonte, e l'arco indicava di quanti gradi era distante in quel preciso momento la luna dall'angolo retto con l'orizzonte. «Dimmi.» «10:15.31.» «22:15.31.» Kolya corresse la risposta riportandola all'ora nautica. Quand'era giovane pioniere, una volta Arkady si era dedicato alla navigazione celeste. Ricordava quando era circondato da almanacchi nautici, tabelle di riduzione, carte, diagrammi e regoli paralleli. Kolya faceva tutti i calcoli mentalmente. «Quanti almanacchi hai studiato a memoria?» chiese Arkady. «Sole, luna e Orsa Maggiore.» Arkady alzò la testa. Le stelle sembravano immensamente fulgide e lontane e avevano colore e profondità, come una notte sfolgorante. «C'è l'Orsa Minore.» Arkady guardò perpendicolarmente sopra la testa. «Qui la si vede sempre» disse Kolya. «A questa latitudine siamo sempre sotto l'Orsa Minore.» Quando Kolya faceva i calcoli i suoi occhi assumevano un'espressione fissa e assorta, quasi estatica. Arkady capiva che stava sottraendo la rifrazione della luna, aggiungeva la parallasse e procedeva con la declinazione del satellite. «Sei rimasto sotto l'Orsa Minore per troppo tempo. Stai dando i numeri» disse Arkady. «Non è più difficile che giocare a scacchi con gli occhi bendati.» Kolya sorrise, addirittura, per dimostrare che era in grado di parlare mentre pensava. «Non ti preoccupa mai il fatto che il sestante è basato sull'idea che sia il sole a ruotare intorno alla terra?» Kolya esitò per un secondo. «Diversamente da certi sistemi, funziona.» Dopo aver fissato la declinazione, la mente di Kolya avrebbe passato in rassegna le tavole imparate a memoria. Era il tipo di impresa che poteva stare a cuore a una personalità quietamente maniaca, come cercare le bale-
ne al buio. Ma non era tanto buio, in effetti. Le onde sollevavano i riflessi della luna e il mare sembrava respirare con lentezza e regolarità. Durante i primi mesi in mare, Arkady aveva passato parecchio tempo sul ponte nella speranza di vedere delfini, otarie e balene, per il gusto di osservarli mentre si muovevano. Il mare dava l'illusione della fuga. Ma dopo un po' s'era reso conto che la sola cosa posseduta da quegli esseri, mentre nuotavano di qua e di là, era un senso di finalità. Ed era ciò che lui non aveva. Si voltò a guardare l'Orsa Minore e la lunga coda che terminava con la stella Polare, la Stella del Nord. Una fiaba popolare russa affermava che la stella Polare era un cane inferocito e legato all'Orsa Minore da una catena di ferro, e se la catena si fosse spezzata sarebbe venuta la fine del mondo. «Non ti arrabbi mai, Kolya? Sei un botanico a centinaia di chilometri dalla terraferma.» «E a cento braccia appena dal fondale marino. E c'è sempre più terra. Le isole Aleutine sono ancora in corso di formazione.» «Io la chiamerei una prospettiva molto lunga» disse Arkady. Intuiva l'ansia dell'amico. Kolya diventava sempre ansioso quando Arkady era depresso. «Hai mai pensato quanto ci costano tutti i Volovoi di questo mondo?» Kolya aveva deciso di cambiare argomento, come se un enigma interessante fosse sempre un balsamo. «Quanto ci pagano?» «Credevo che stessi inquadrando la luna.» «Posso fare l'uno e l'altro. Quanto ci pagano?» Era complicato. La paga, a bordo della Stella Polare, era basata su un coefficiente che andava dal 2,55 per cento per il comandante fino allo 0,8 per un marinaio di seconda classe. Poi c'era un coefficiente polare di 1,5 perché si pescava nei mari artici, un premio del 10 per cento per un anno di servizio, un premio del 10 per cento quando si raggiungeva la quota assegnata alla nave e un premio che poteva arrivare anche al 40 per cento se si superava il piano. La quota era importantissima. Poteva venire aumentata o diminuita dopo che la nave lasciava il porto; ma di solito veniva alzata perché il dirigente della flotta doveva il suo premio al fatto di risparmiare sulle retribuzioni dei marinai. Il tempo di trasferimento fino alla zona di pesca era fissato in un certo numero di giorni, e tutto l'equipaggio ci rimetteva quando il comandante incappava in una tempesta: perciò a volte le navi sovietiche procedevano a tutta forza anche con la nebbia e il mare grosso. Nel complesso, il criterio per calcolare la paga di un pescatore so-
vietico era poco meno complicato dell'astronomia. Arkady tirò a indovinare: «Circa trecento rubli al mese per me». «Non male. Ma hai tenuto conto degli americani?» gli rammentò Kolya. Dato che c'erano gli americani a bordo, le regole per il lavoro erano diverse: una quota inferiore e un ritmo più lento, per convincere i visitatori del carattere umanitario dell'industria sovietica della pesca. «Diciamo trecentoventicinque rubli?» «Per un marinaio di prima classe, trecentoquaranta. Per te, duecentosettantacinque. Per un invalido come Volovoi, quattrocentosettantacinque.» «È incoraggiante» osservò Arkady. Ma lo divertiva il virtuosismo del compagno di cabina; e Kolya sorrise con decisione, come un giocoliere che si sfida ad aggiungere un'altra palla a quelle che già sta facendo giostrare nell'aria. «I pesci! Siamo qui per i pesci e non per la matematica, compagno Mer!» Volovoi uscì dall'ombra di un boccaporto. La tuta da jogging era iridescente nel chiaro di luna. C'era qualcosa di particolarmente soddisfatto nel suo passo, e Arkady comprese che il primo ufficiale l'aveva seguito trionfante dalla cabina di Marchuk. Come al solito, Kolya distolse automaticamente lo sguardo. Volovoi tese la mano e prese il sestante. «Che cos'è?» «È mio» disse Kolya. «Stavo facendo un rilevamento con la luna.» Volovoi lanciò un'occhiata sospettosa alla luna. «Perché?» «Per scoprire la nostra posizione.» «Tu pulisci il pesce. Perché hai bisogno di conoscere la nostra posizione?» «Per curiosità. È un vecchio sestante, un pezzo d'antiquariato.» «Dove sono le carte nautiche?» «Non ho nessuna carta nautica.» «Vuoi scoprire quanto siamo lontani dall'America?» «No. Volevo solo sapere dove siamo.» Volovoi aprì la lampo del giubbotto della tuta e vi infilò il sestante. «Il comandante sa dove siamo e questo deve bastare.» Prima di allontanarsi, l'Invalido non disse una parola ad Arkady. Non ne aveva bisogno. A letto. La cabina era nera come una tomba, una dimora molto appropriata. Kol-
ya si raggomitolò tra i suoi vasi da fiori mentre Arkady si toglieva gli stivali, si arrampicava in cuccetta e si stringeva il lenzuolo intorno alle spalle. L'aria era sfumata dall'odore d'aceto del distillato casereccio di Obidin. Prima di aver tratto il secondo respiro si addormentò. Era un sonno simile a un vuoto tenebroso, un sonno che conosceva bene. Nei pressi dei giardini di Mosca, della Biblioteca per l'Infanzia e il ministero dell'Educazione Nazionale, c'era una costruzione a tre piani con la recinzione grigia, l'Istituto Serbsky di Psichiatria Legale. La recinzione era sovrastata da fili sottilissimi, invisibili dalla strada. Fra il muro e l'istituto si aggiravano le guardie con i cani addestrati a non abbaiare. Al primo piano dell'istituto c'era la Sezione Quattro. Nel corridoio con il pavimento a parquet si aprivano tre corsie che Arkady aveva visto solo il giorno dell'arrivo e il giorno della partenza perché lo tenevano in fondo, in una cella d'isolamento con un letto, un gabinetto e una lampadina molto fioca. All'arrivo due inservienti, due vecchie in camice bianco, gli avevano fatto il bagno, e un altro paziente gli aveva rasato la testa, le ascelle e il pube, lasciandolo pulito e glabro come un neonato a disposizione dei dottori; e infine l'avevano rivestito d'un pigiama a righe e di una vestaglia senza cintura. Non c'erano finestre e il giorno e la notte non esistevano. La diagnosi era "sindrome preschizofrenica", come se i dottori fossero in grado di fare previsioni certe. Gli iniettavano caffeina sotto la pelle per renderlo loquace, e poi sodio barbital nelle vene del braccio per piegare la sua volontà. I dottori, seduti su sgabelli bianchi e tutti premurosi, chiedevano: «Dov'è Irina? L'amavi, sentirai la sua mancanza. Eravate d'accordo per ritrovarvi? Cosa pensi che faccia, adesso? Dove pensi che sia?». Passavano da un braccio all'altro, e poi alle vene delle gambe, ma le domande erano sempre le stesse, com'era sempre la stessa l'ironia della situazione. Dato che Arkady non immaginava dove fosse Irina o cosa stesse facendo, rispondeva a tutte le domande senza riserve, e dato che i dottori erano convinti che sapesse di più, credevano che nascondesse sempre qualcosa. «Siete illusi» gli diceva Arkady, e questo non migliorava la situazione. La frustrazione portava alle punizioni. Quella preferita dai dottori era la puntura lombare. Lo legavano al letto, gli spennellavano la spina dorsale con la tintura di iodio e inserivano l'ago con una pressione vigorosa. La puntura era un'esperienza duplice, la sofferenza dell'ago che penetrava e poi, per ore, gli spasmi esattamente simili alla buffa reazione delle zampe
d'una rana alla corrente elettrica. Era una fatica per tutti. Dopo un po' lo fecero vestire solo della vestaglia per arrivare prima alle vene. I dottori si toglievano i camici e lavoravano in uniforme, blu con le spalline rosse della milizia. Tra una seduta e l'altra lo tenevano tranquillo con l'aminazina. C'era un tale silenzio che sentiva attraverso le doppie porte insonorizzate lo scalpiccio delle pantofole nel corridoio durante il giorno, lo scricchiolio delle scarpe della guardia durante la notte. La luce non si spegneva mai. Lo spioncino della porta lampeggiava: era il dottore che faceva il giro. «È meglio parlare con noi e smetterla con questa paranoia. Altrimenti ci saranno sempre altre domande, un altro che t'interroga quando meno te l'aspetti. Diventerai pazzo sul serio.» Era vero. Arkady sentiva che stava perdendo l'autocontrollo. Sentiva giungere dalla strada, ogni tanto, il suono della sirena di una macchina della polizia o di un camion dei vigili del fuoco, dei clacson attutiti dal cemento, e s'imbronciava come un morto che sente violare la sua tomba. Lasciatemi in pace. Arkady si divincolava, stretto dalle cinghie. «Che cos'è una "sindrome preschizofrenica"?» Il dottore sorrise, incoraggiato. «È detta anche "schizofrenia torpida".» «Sembra una cosa terribile» dovette riconoscere Arkady. «Quali sono i sintomi?» «Sono moltissimi. Sospettosità e scarsa comunicativa... le riconosci? Apatia? Scortesia?» «Dopo le iniezioni, si» confessò Arkady. «Spirito polemico, arroganza. Un interesse anormale per filosofia, religione e arte.» «E c'è speranza?» «In certi casi, assolutamente» disse il dottore. Per la verità i dottori gli davano una speranza semplicemente perché non l'avrebbero portato lì se a Irina le cose non fossero andate bene. Per il KGB era una grande soddisfazione poter chiudere il caso d'un transfuga con l'annotazione "un altro emigrato finito all'obitorio" oppure "l'Occidente non era un letto comodo neppure per le puttane" oppure "l'hanno spremuta e poi l'hanno buttata fuori, e adesso vorrebbe tornare, ma naturalmente è troppo tardi". Quando gli chiedevano se stava cercando di contattarla, le sue speranze aumentavano. Forse Irina cercava di contattare lui? Cambiò approccio per proteggere Irina. Non voleva dire niente, neppure
nelle condizioni di massima debolezza; perciò pensava a lei il meno possibile per escluderla dalla propria mente. In un certo senso, i dottori riuscirono a raggiungere la schizofrenia che avevano predetto. Mentre si faceva coraggio pensando che lei era sopravvissuta, cercava di cancellare quel viso dalla sua memoria, di annullarla. Oltre alla vestaglia, Arkady aveva un boccale di smalto verde, oggetto ideale perché non poteva inghiottirlo né usarlo per tagliarsi le vene o per impiccarsi. A volte lo metteva davanti alla porta perché i dottori lo rovesciassero quando entravano. Poi non lo metteva più per una settimana, per creare un minimo d'incertezza. Un giorno entrarono in gruppo e portarono via il boccale. Quella volta usarono l'insulina. L'insulina era il tranquillante più primitivo. Induceva il coma. «Lascia che ti diciamo una cosa. Lei si è sposata. Sì, la donna che cerchi di proteggere non soltanto vive nel lusso concesso ai traditori, ma vive con un altro uomo. Ti ha dimenticato.» «Non ascolta neppure.» «Ma ci sente.» «Provate con la digitale.» «Potrebbe causargli uno shock, e allora non ci resterebbe più niente.» «Guardate il colorito. Fra un minuto gli batterete sul petto.» «Sta fingendo. Renko, stai fingendo.» «È bianco come la neve. Non finge.» «Merda.» «Meglio iniettare subito.» «Va bene, va bene. Accidenti.» «Guardate gli occhi.» «Gli sto facendo l'iniezione.» «Uno come quello è capace di sfuggirti fra le mani.» «Maledetto bastardo.» «Niente polso.» «Domani starà benone. Ricominceremo daccapo, ecco tutto.» «Niente polso.» «Domani chiacchiererà come un pappagallo, vedrai.» «Niente polso.» «Per me, finge.» «Credo che sia morto.»
No. Si nascondeva lontano, nel profondo. «È solo mezzo morto» disse un visitatore. Arricciò il naso schiacciato nel fiutare l'aria della cella d'isolamento. «Ti porto in un posto meno allegro, lontano da questa salubre stazione termale.» Arkady riconobbe la voce e si sforzò di concentrare lo sguardo sulla massiccia testa di slavo con gli occhi porcini e le guance cascanti che sembravano traboccare da un'uniforme marrone e rossa con la mostrina del KGB, stella e pugnale. «Maggiore Pribluda?» «Colonnello Pribluda.» Il visitatore indicò le spalline nuove, poi buttò un sacco di carta a un inserviente che era accorso. «Vestilo.» Era sempre interessante vedere l'effetto che aveva un bruto con l'uniforme giusta, persino sulla comunità dei medici. Arkady aveva pensato d'essere perduto per sempre come una larva al centro di un alveare, e invece in dieci minuti Pribluda l'aveva già portato per la strada. Insaccato in giacca e pantaloni troppo grandi di due misure... ma era fuori e rabbrividiva tra la neve, fino a che Pribluda lo spinse con un gesto sprezzante a bordo di una macchina. La macchina era una Moskvitch molto ammaccata, priva di tergicristalli e di specchietto retrovisore, non una Volga con targhe ufficiali. Pribluda si allontanò dal marciapiedi guardando avanti e indietro dal finestrino aperto, poi rovesciò la testa e scoppiò a ridere. «Non sono male come attore, eh? A proposito, hai una gran brutta cera.» Arkady si sentiva ridicolo. Stordito dalla libertà e sfinito da quei pochi passi, si accasciò contro la portiera. «Non aveva i documenti per il mio rilascio?» «Non certo con il mio nome. Non sono tanto stupido, Renko. Prima che se ne accorgano, sarai lontano da Mosca.» Arkady diede un'altra occhiata alle spalline di Pribluda. «L'hanno promosso? Congratulazioni.» «Grazie a te.» Pribluda era costretto a sporgere la testa e a tirarla dentro di continuo per guidare e parlare. «Quando sei tornato, mi hai fatto fare una figura magnifica. Lasciare che una ragazza scappasse e si vendesse per le strade di New York. Che segreti di Stato poteva avere? Eri un buon russo: avevi fatto quello che dovevi e poi eri tornato.» I fiocchi di neve si posavano sui capelli e sulla fronte di Pribluda, e lo facevano somigliare a un antico cocchiere. «Il problema era il procuratore. Aveva molti amici.»
«E anche lui era del KGB.» Per un isolato, Pribluda mantenne un'aria offesa. «Allora mi capisci» disse alla fine. «Tutti credono che tu sappia più di quello che sai. Per proteggersi, dovevano strizzarti come uno straccio fino a tirar fuori l'ultima goccia... e non mi riferisco all'acqua.» «Dov'è Irina?» chiese Arkady. Pribluda sporse la mano e tolse la neve dal parabrezza senza smettere di guidare. Poco più avanti una berlina Wartburg tedesco-orientale, che sembrava una vasca da bagno capovolta, fece testa-coda sui binari del tram. «Fascista!» Il colonnello si mise una sigaretta in bocca e l'accese. «Dimenticala. Per te è come se fosse morta... peggio che morta.» «Il che significa che è molto malata o sta molto bene.» «Per te non ha importanza.» La macchina svoltò a un cancello e avanzò sobbalzando su quelli che a una prima impressione sembravano imprevedibili solchi nel centro di Mosca, ma Arkady intravide un deposito ferroviario con le rampe sulle rotaie per permettere l'attraversamento ai camion. Sulla neve c'era una quantità di treni simili a eserciti corazzati, con vagoni piatti carichi di rotoli di cavi, trattori e pareti prefabbricate seminascosti da una coltre bianca. In lontananza, tra la neve che scendeva, spiccavano le guglie gotiche della stazione Yaroslav, la porta dell'Oriente. Pribluda fermò la macchina fra due treni passeggeri, uno con la locomotiva corta della tipica linea per pendolari, l'altro con le lunghe carrozze rosse del Rossiya, l'Espresso Transiberiano. Attraverso i finestrini, Arkady vedeva i passeggeri che prendevano posto. «Vuol scherzare?» «A Mosca sei circondato da nemici» disse Pribluda. «Non sei in grado di difenderti, e io non potrei salvarti due volte... Non qui. Sarebbe lo stesso a Leningrado, Kiev, Vladimir... in qualunque posto vicino. Devi andare dove nessuno abbia voglia di seguirti.» «Mi seguiranno.» «Ma saranno uno o due anziché venti, e potrai continuare a muoverti. Non capisci? Qui sei già morto.» «E là sarò praticamente morto.» «Questo ti salverà. Credimi. So come ragionano loro.» Arkady non poteva negarlo. La linea che separava Pribluda da "loro" era piuttosto sottile. «Sarà questione di due o tre anni» disse il colonnello. «Con il nuovo regime sta cambiando tutto... anche se non sempre in meglio per quanto mi
riguarda. Comunque, dagli una possibilità di dimenticarti, e poi ritorna.» «Be', è stata una bella scena» disse Arkady. «Ma mi ha tirato fuori troppo facilmente. Deve aver fatto un accordo.» Pribluda spense il motore. Per un momento non vi fu altro suono che il fruscio della neve: tonnellate e tonnellate di fiocchi bianchi che coprivano dolcemente la città. «Per farti restare vivo.» Il colonnello era esasperato. «C'è qualcosa di male?» «Che cos'ha promesso?» «Nessun contatto, neppure la possibilità di un contatto fra te e lei.» «C'era un solo modo per poter promettere "neppure la possibilità di un contatto".» «Smettila di giocare all'inquirente con me. Rendi sempre tutto più difficile.» Sotto la visiera del berretto, gli occhi di Pribluda erano piccoli e piantati profondamente come chiodi. Era strano vederlo imbarazzato. «Sono tuo amico o no? Andiamo.» Ognuna delle carrozze rosse sfoggiava falce e martello dorati e una targa con la scritta MOSCA-VLADIVOSTOK. Pribluda dovette portare di peso Arkady su per i gradini fino alla sezione delle vetture con i sedili di legno. Famiglie esotiche, con papaline e sciarpe vistose, accampate sui sacchi a pelo, le cuccette occupate da elettrodomestici nuovi ancora imballati... merci che si potevano trovare solo a Mosca. Bambini dalla carnagione scura che sbirciavano fra le tendine arrotolate. Donne che aprivano fagotti da cui uscivano odori da buffet, agnello freddo, kefir, formaggio. Studenti diretti agli Urali che sistemavano sci e chitarre. Pribluda parlò con la conduttrice, una donna massiccia che sfoggiava un berretto da comandante d'aereo e una gonna corta. Quando tornò indietro, infilò nel cappotto di Arkady un biglietto ferroviario, una busta piena di rubli e un permesso di lavoro. «Ho preso accordi» disse. «A Krasnoyarsk certi amici ti faranno scendere e ti metteranno su un aereo per Norilsk. Avrai un lavoro come guardiano, ma è meglio che non ci resti per molto tempo. Il fatto è che se superi il Circolo Polare sarà molto più difficile riportarti indietro. È solo questione di pochi anni, non di una vita.» Arkady non aveva mai odiato nessuno quanto un tempo aveva odiato Pribluda, e sapeva che Pribluda l'aveva ricambiato con altrettanto odio. Eppure adesso erano lì, quasi amici. Era come se tutti viaggiassero nel mondo al buio, senza mai sapere dove andavano, e seguissero alla cieca una strada che serpeggiava e saliva e discendeva. La mano che un giorno ti
faceva cadere, l'indomani ti aiutava ad alzarti. L'unica strada diritta era... quale? Il treno! «Dicevo sul serio a proposito della promozione» disse Arkady. «Mi fa piacere.» Sul marciapiedi una fila di conduttrici alzava le palette per segnalare che l'espresso era pronto alla partenza. La locomotiva sbloccò i freni ad aria e un fremito scorse lungo la fila delle vetture. Il colonnello indugiava ancora. «Sai che cosa dicono?» E sorrise. «Cosa dicono?» Arkady era un po' meravigliato. Pribluda non aveva fama d'essere spiritoso. «Dicono che certe acque sono troppo fredde persino per gli squali.» Se l'ospedale aveva lasciato Arkady in uno stato di stordimento, il deposito di Norilsk l'aveva paralizzato. Per impedire che gelassero, i motori dei camion venivano tenuti tutta la notte accesi, con il gasolio siberiano, il carburante meno costoso della terra. Oppure bisognava accendere fuochi sotto il blocco motore, ma lontano dai serbatoi e dai condotti d'alimentazione. Il problema era che la superficie era in realtà una sottile coltre di muschio e di terriccio sopra il permafrost, e quando il ghiaccio intorno ai fuochi si squagliava e tornava a gelarsi, il terreno diventava un acquitrino ghiacciato. Una notte, durante il secondo mese di lavoro, Arkady stava accendendo il fuoco nello spazio nero sotto una ruspa Belarus, un colosso a dieci ruote grande come una casa, quando aveva visto alcune figure che si avvicinavano dalla parte opposta. I camionisti indossavano stivali, giubbotti imbottiti, berretti. I due avevano cappotti e cappelli e si muovevano con prudenza schizzinosa sul ghiaccio tutto solchi. Uno di loro passò accanto a un mucchio di carbone, raccolse un piccone e lo portò con sé. I furti degli attrezzi, sacra proprietà dello Stato, non erano insoliti: per questo c'erano i guardiani notturni come Arkady. Se vuoi il piccone, tienilo, pensò. I due uomini si fermarono nell'ombra e attesero. La temperatura era dieci gradi sotto zero, e Arkady cominciava a gelare. Era come arrostire allo spiedo. Si cacciò un guanto in bocca per non battere i denti. Nel buio vide i due uomini che tremavano a braccia conserte e pestavano i piedi. Il loro respiro si cristallizzava e spioveva al suolo. Finalmente desistettero e, a passi rigidi, si avvicinarono al fuoco acceso nel bidone. Quello con il piccone lo sollevò e staccò piano piano le dita. Quando il piccone cadde e gli rimbalzò sul ginocchio sembrò non accorgersene. L'altro aveva molto freddo:
piangeva, e le lacrime gli si gelavano sulle guance in strisce ceree. Tentò di fumare, ma le mani tremavano troppo per riuscire a estrarre una sigaretta, e metà del pacchetto piovve nel bidone e sul ghiaccio. Alla fine, lentamente, curvi e incerti come se camminassero controvento in una bufera, si allontanarono. Arkady ne sentì cadere uno: un tonfo smorzato e un'imprecazione. Un minuto più tardi sentì le portiere d'una macchina che sbattevano, un motore che si avviava. Arkady si trascinò fino al bidone, versò cherosene sul fuoco, bevve una dose di vodka e l'indomani mattina non tornò all'ostello dove alloggiava. Andò all'aeroporto e prese un aereo diretto a est, sempre più all'interno della Siberia, come una volpe braccata che si addentra dove il bosco è più fitto. Poteva considerarsi abbastanza al sicuro. Data la scarsità di manodopera in Siberia, chiunque avesse la schiena robusta prendeva una paga doppia senza che nessuno gli facesse domande: c'era da posare le traversine delle ferrovie, segare il ghiaccio e macellare le renne, e anche i dirigenti siberiani dovevano raggiungere le rispettive quote. Un uomo dalla faccia incrostata di brina, che tagliava il ghiaccio con una sega portatile, poteva essere un alcolizzato, un delinquente, un barbone o un santo. Che rischi c'erano? Se la quota veniva realizzata, un apparatchik locale controllava i nomi su un elenco degli individui che interessavano alla milizia e al KGB. Ma ognuno di quei campi di lavoro era un puntolino minuscolo in un'area ampia il doppio della Cina. Per questo i lavoratori erano tanto apprezzati. La Siberia aveva appena quindici milioni di abitanti che fronteggiavano un miliardo di cinesi invidiosi. Prima che un agente della Sicurezza dello Stato avesse il tempo di arrivare, Arkady era già sparito. La cosa interessante era che, sebbene Irina fosse siberiana, non aveva mai visto una donna come lei in nessuno dei villaggi e in nessuno dei campi di lavoro da cui era passato. Certo, non c'era tra le uzbeche e le buriate, o fra le donne che facevano funzionare le betoniere, come tante mungitrici intorno a una vacca. E neppure fra le principesse dei Giovani Pionieri che venivano a posare sui trattori per sei mesi, e poi tornavano a casa in aereo dopo aver esaurito la loro quota di lavoro volontario per tutta la vita. Eppure a volte Arkady era capace di piazzarsi in un campo di lavoro e avere la certezza che la prossima donna che sarebbe saltata da un camion in mezzo al fango, con il giubbotto aperto, una sciarpa intorno ai capelli, il cestino del pranzo in mano, sarebbe stata Irina. Chissà come, lei era tornata, e per un concatenarsi di coincidenze incredibili era arrivata nello stesso
luogo dov'era lui. Gli si fermava il cuore, fino a quando la donna scendeva e alzava il viso. Allora aveva la certezza che Irina sarebbe stata la prossima. Era una sorta di gioco infantile. Perciò non pensava a lei. Alla fine del secondo anno, quand'era sfuggito alla Guardia Confinaria a Sakhalin, era tornato sul continente e aveva preso un treno diretto a sud per ritornare dopo tutto quel tempo a ricongiungersi con il rosso Espresso Transiberiano. Ma questa volta viaggiò sul terrazzino perché puzzava come una rete da pesca. A notte arrivò a Vladivostok, la "Signora dell'Oceano", il maggior porto sovietico sul Pacifico. Sotto gli alti lampioni i marciapiedi erano popolati di gente ben nutrita e ben vestita. Le motociclette correvano fra gli autobus. Di fronte alla stazione, una statua di Lenin additava il Corno d'Oro, la baia di Vladivostok, e sul tetto al di sopra della fronte ferrea di Lenin c'era un benvenuto in lettere al neon: AVANTI FINO ALLA VITTORIA DEL COMUNISMO! Avanti? Dopo due anni d'esilio, Arkady aveva in tasca due rubli. Il resto del suo denaro era rimasto sull'isola. Un ostello per marinai costava appena dieci copechi per notte, ma doveva anche mangiare. Seguì gli autobus fino all'amministrazione marittima, dove un tabellone mostrava la situazione di tutte le navi civili che avevano come porto base Vladivostok. Secondo il tabellone, la nave-fattoria Stella Polare era salpata quel giorno, ma quando Arkady arrivò ai moli vide che stava ancora caricando materiale e carburante. Le gru illuminate sollevavano i barili che avevano superato l'ispezione della Guardia Confinaria, formata da veterani dell'esercito che il KGB forniva di uniformi blu. I loro cani fiutavano ogni barile, anche se era difficile capire come potessero sentire qualche odore tra i vapori del gasolio e i vapori ammoniacali degli impianti frigoriferi. Al mattino Arkady fu il primo a entrare nel Circolo dei Marinai, dove un impiegato ammise che la Stella Polare era ancora in porto e aveva ancora bisogno di un operaio per il settore fattoria. Arkady portò il permesso di lavoro oltre una porta d'acciaio per farlo timbrare dalla Sezione Marittima del KGB. Sulla scrivania c'erano due telefoni neri per comunicare con gli uffici locali e uno rosso collegato direttamente con Mosca. Arkady ne fu sorpreso perché per la pesca costiera non esistevano quelle precauzioni. I telefoni neri non erano pericolosi, pensò: a meno che chiamassero Sakhalin. Se qualcuno si fosse preso il disturbo di controllare il suo nome al telefono rosso, per lui sarebbe finita lì. «Ci sono gli americani» avverti il capitano del KGB che dirigeva l'uffi-
cio. «Che cosa?» Arkady stava fissando i telefoni. «Ci sono gli americani, sulla nave. Si comporti con naturalezza e cordialità, ma non troppo. Anzi, è meglio non dire niente.» Il capitano timbrò il libretto di lavoro senza neppure guardarlo. «E questo non significa che si debba nascondere qualcosa.» Ma non era ciò che stava facendo Arkady... nascondersi? Prima in una lontananza profonda, all'ospedale psichiatrico. Poi, dopo che Pribluda l'aveva riportato alla vita, in Siberia e sulla nave... inerte e parzialmente morto? Adesso, mentre dormiva nella scomoda cuccetta, si chiese: "Non sarebbe bello essere di nuovo vivo?". Zina Patiashvili era ritornata. Forse avrebbe potuto ritornare anche lui. 10 Al mattino, dopo aver fatto la doccia e la barba, Arkady si avviò verso la bianca timoneria della Stella Polare e la cabina dell'ingegnere elettronico della flotta, per chiedere consiglio. «È fortunato» disse Anton Hess. «Mi ha trovato in un momento libero. Stavo appunto preparando il tè.» La cabina non era più grande di quelle dell'equipaggio, ma ci stava un uomo solo e non quattro, e quindi c'era posto per una scrivania e una carta alla parete che mostrava tutte le flotte da pesca dell'Unione Sovietica nel Pacifico settentrionale. Sopra un sottovassoio di gomma, sulla scrivania, al posto del samovar c'era una caffettiera come quelle che si potevano trovare in un appartamento di Mosca. Hess aveva l'aria che una volta Arkady aveva notato nei sommergibilisti di ritorno da un viaggio al Polo. Occhi rossi e un po' stralunati, passo pesante e incerto. I capelli erano irti e spettinati, come se si fosse azzuffato con un gatto, e il maglione emanava l'odore del tabacco da pipa. Il caffè colava in gocce nere e untuose. Hess ne versò due tazze, aggiunse una dose generosa di cognac, e ne porse una ad Arkady. «Alla faccia dei francesi» disse. «Perché no?» rispose Arkady. Il caffè gli diede un calcio al cuore, che cominciò a battere ansiosamente. Hess sospirò e si lasciò sprofondare con un movimento al ral-
lentatore su una sedia, e girò stancamente lo sguardo su un tubo di vetro verticale con un supporto e un cordone elettrico. Una lampada a ultravioletti. Luce solare. Vitamina D. Durante l'inverno, in Siberia, radunavano i bambini intorno a quelle lampade. Hess sorrise. «Mia moglie ha voluto che la portassi. Credo si voglia illudere che sono nel Pacifico meridionale. Il tè è buono?» Tè per caffè, francesi per americani. Hess aveva una disinvoltura fuorviante che ad Arkady sembrava appropriata. Non esisteva nessun ingegnere elettronico della flotta: era un titolo di comodo che permetteva a un ufficiale del KGB o del servizio segreto navale di passare da una nave all'altra. Tutto stava a vedere a quale dei due organismi apparteneva l'amabile Anton Hess. L'indizio più chiaro lo forniva Volovoi, che era l'ufficiale politico e che nei confronti di Hess era animato da rispetto e animosità. E inoltre, di quei tempi il KGB tendeva a essere un'organizzazione rigorosamente russa, e un cognome come Hess costituiva uno svantaggio. La marina invece promuoveva gli individui competenti, a eccezione degli ebrei. Sulla mappa, l'Alaska si protendeva nostalgicamente verso la Siberia. Oppure era il contrario? Comunque i pescherecci sovietici costellavano il mare dalla Kamchatka, attraverso l'arco delle isole Aleutine, fino all'Oregon. Arkady non aveva mai notato che la costa americana era completamente coperta. Naturalmente, nelle joint ventures sovietico-americane le navi sovietiche provvedevano alla lavorazione; ogni flotta aveva il suo contingente di pescherecci americani. Soltanto una grande nave-fattoria come la Stella Polare poteva operare indipendentemente con una propria famiglia di battelli americani. Il punto rosso che rappresentava la Stella Polare era due giorni a nord di Dutch Harbor, e nelle vicinanze non c'erano altre flottiglie. «Compagno Hess, scusi il disturbo.» Hess scosse la testa, esausto ma indulgente. «Non c'è di che. Se posso rendermi utile...» «Bene» disse Arkady. «Diciamo che Zina Patiashvili non si è accoltellata, massacrata e gettata in acqua accidentalmente.» «Ha cambiato idea.» Hess sembrava soddisfatto. «E diciamo che svolgiamo un'indagine. Non un'indagine regolamentare con investigatori e laboratori, ma con le modeste risorse a disposizione.» «Lei.» «Poi dobbiamo considerare la remota possibilità di scoprire qualcosa. O
di scoprire molte cose, alcune delle quali del tutto impreviste. Ecco perché ho bisogno del suo consiglio.» «Davvero?» Hess si tese in avanti con atteggiamento comunicativo. «Ecco, io ho una visione molto limitata... quella di un uomo che sventra i pesci nella stiva di una nave. Lei, invece, pensa in termini di tutta la nave, anzi di tutta la flotta. Il lavoro d'un ingegnere elettronico della flotta deve essere difficile.» Soprattutto così lontano dalla flotta, pensò Arkady. «Immagino che sia a conoscenza di fattori e considerazioni a me ignoti. Forse di fattori di cui non devo sapere niente.» Hess aggrottò la fronte, come se non riuscisse a immaginare quali potevano essere quei fattori. «Vuol dire che potrebbe esserci qualche motivo per non fare domande? E se questo motivo ci fosse, allora sarebbe meglio non far domande di nessun genere, piuttosto che smettere di farne dopo aver incominciato?» «Ha esposto la situazione molto meglio di quanto avrei potuto fare io» disse Arkady. Hess si stropicciò gli occhi, aprì la borsa del tabacco, riempì la pipa e la pressò. Era una pipa da ufficiale di rotta, fatta in modo da non dar fastidio mentre chi fumava osservava le carte nautiche. Hess l'accese aspirando l'aria, con un suono che ricordava quello di un termosifone. «Compagno, non riesco davvero a immaginare una ragione del genere. La ragazza, sembra, era molto comune, giovane, un po' leggera. Ma ho una soluzione per i suoi timori. Se trovasse qualcosa di insolito, qualcosa che la preoccupa, si ritenga libero di parlarne prima con me.» «A volte potrebbe essere difficile trovarla.» Dopotutto, pensò Arkady, fino a ieri sera non sapevo neppure che esistessi. «La Stella Polare è una nave molto grande, ma è soltanto una nave. Il comandante Marchuk e il suo ufficiale capo sanno sempre dove sono.» «L'ufficiale capo, non il primo ufficiale?» «Non il compagno Volovoi, no.» Hess sorrise a quell'idea. Arkady avrebbe voluto sapere qualcosa di più su di lui. Le comunità tedesche erano state invitate a insediarsi lungo il Volga per secoli e secoli fino alla Grande Guerra Patriottica, quando Stalin le aveva sradicate prima che venissero raggiunte dall'avanzata nazista e le aveva spedite in Asia da un giorno all'altro. Hess scrutava Arkady con lo stesso interesse. «Suo padre era il generale Renko, vero?» «Sì.»
«Dove ha prestato servizio militare?» «A Berlino.» «Davvero? E cosa faceva?» «Ero in una sala radio e ascoltavo gli americani.» «Un lavoro dei servizi segreti!» «No, niente di tanto importante.» «Ma teneva sotto sorveglianza i movimenti nemici. E non ha commesso errori.» «Non ho fatto scoppiare una guerra per sbaglio.» «È la prova migliore dell'efficienza dei servizi segreti.» Hess si spinse i capelli all'indietro, ma tornarono a rizzarsi come una barba ispida. «Mi dica che cosa le occorre.» «Ho bisogno di essere sollevato dal mio lavoro.» «Questo è ovvio.» Arkady parlava con voce normale, ma ogni parola gli faceva scorrere il sangue nelle vene e creava una sensazione inebriante. «Posso lavorare con Slava Bukovsky, ma ho bisogno di un assistente scelto da me. Dovrò interrogare molti membri dell'equipaggio, inclusi gli ufficiali.» «Tutte cose ragionevoli, purché siano fatte con discrezione.» «E interrogare gli americani, se sarà necessario?» «Perché no? Non avrebbero motivo di non cooperare. Dopotutto, si tratta semplicemente di accertamenti preliminari all'indagine ufficiale di Vladivostok.» «Sembra che non mi sia facile andare d'accordo con loro.» «Mi pare che la cabina della rappresentante principale sia proprio sotto la mia. Potrebbe andare a parlarle adesso.» «Tutto quello che dico la irrita.» «Siamo qui tutti insieme per pescare pacificamente. Le parli del mare.» «Il Mare di Bering?» «Perché no?» Hess teneva le mani incrociate sul ventre come un minuscolo Buddha tedesco. Aveva l'aria troppo tranquilla. Era del KGB? A volte non era facile capirlo. Arkady disse: «La prima volta che sentii parlare del Mare di Bering avevo otto anni. Avevamo l'enciclopedia. Un giorno ci arrivò una pagina nuova per posta. Tutti gli acquirenti ricevettero lo stesso inserto, con le istruzioni per eliminare Beria e aggiungere nuove, importantissime informazioni sul Mare di Bering. Beria era stato fucilato e non era più un eroe del-
l'Unione Sovietica. Fu una delle rare volte che vidi mio padre veramente felice perché gli faceva molto piacere eliminare il capo della polizia segreta». Se Hess era del KGB, l'indagine sarebbe finita lì. Il suo sorrìso, comunque, aveva l'espressione forzata di un uomo il cui nuovo cane ha la tendenza a mordere. «Lei ha ucciso il procuratore di Mosca, il suo superiore. In questo, Volovoi aveva ragione.» «È stata legittima difesa.» «Sono morti anche altri.» «Non li ho uccisi io.» «Un tedesco e un americano.» «Sì.» «Un brutto pasticcio. E ha aiutato una donna a defezionare.» «Non proprio.» Arkady alzò le spalle. «Mi è solo capitato di salutarla alla partenza.» «Ma non se n'è andato. A conti fatti, era ancora russo. Su questo possiamo contare. Conosce le foche?» «Le foche?» «D'inverno si nascondono sotto lo strato di ghiaccio, vicino a una buca, ed emergono solo per respirare. Non è un po' quello che sta facendo lei adesso?» Quando vide che Arkady non rispondeva, Hess disse: «Non faccia confusione tra noi e il KGB. Confesso che qualche volta sembriamo duri. Quand'ero cadetto, ai tempi di Krusciov, facemmo esplodere un ordigno atomico nell'Oceano Artico. Una bomba da cento megatoni, la più grande esplosa fino ad allora e in seguito. Per la precisione, era una testata da cinquanta megatoni chiusa in un involucro di uranio per raddoppiarne la potenza. Una bomba molto sporca. Non avvertimmo gli svedesi e i finlandesi, e tanto meno lo dicemmo ai nostri, che bevevano il latte sotto un fallout mille volte peggiore di quello di Chernobyl. Non lo dicemmo ai nostri pescatori in navigazione nell'Artico. Io ero terzo ufficiale e il mio compito era usare un contatore Geiger senza dirlo a nessun altro a bordo. Prendemmo uno squalo... misurava quattrocento roentgen. Cosa potevo dire al comandante... di ributtare in mare la sua quota? L'equipaggio avrebbe fatto domande, e la notizia si sarebbe diffusa. Ma lo facemmo sapere agli americani e Kennedy si spaventò abbastanza per correre al tavolo delle trattative e firmare un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari». Hess smise di sorridere e guardò Arkady negli occhi, come un boia che
per un momento mostra al figlio la faccia professionale. Poi si rischiarò. «Comunque per gran parte dell'equipaggio navigare sulla Stella Polare non è diverso dal lavoro in una fabbrica in qualche altro posto: in più c'è il fattore positivo della visita a un porto straniero, e quello negativo del mal di mare. Per qualcuno, però, c'è l'attrattiva della libertà: il fascino del grande mare. Siamo lontani dal porto. La Guardia Confinaria è dall'altra parte della terra e siamo nel mondo della Flotta del Pacifico.» «Questo significa che ho il suo appoggio oppure no?» «Oh, senza dubbio» rispose Hess. «Il mio appoggio e un interesse crescente.» Mentre usciva dalla cabina, Arkady vide gli informatori Skiba e Slezko che sgattaiolavano in fondo al corridoio. Camminate, non correte, non inciampate, pensò Arkady. Non spaccatevi le labbra prima di raccontare all'Invalido che un certo marinaio è andato a parlare con l'ingegnere elettronico. Portate la notizia come se fosse una tazza di tè versata personalmente da Hess. Non fatene traboccare neppure una goccia. Susan era a tavola nella sua cabina. Teneva la testa appoggiata a una mano e il fumo della sigaretta si sollevava a spire intorno ai suoi capelli scomposti. Era una posa molto russa, poetica e tragica. Slava era con lei. Mangiavano zuppa e pane che il terzo ufficiale doveva aver portato dalla cambusa. «Disturbo?» chiese Arkady. «Non mi sarei fermato, ma la porta era aperta.» «Ho l'abitudine di tenere la porta aperta quando viene a trovarmi un sovietico» disse Susan. «Anche se mi porta una colazione strana.» Senza la giacca e gli stivali sembrava una bambina. Gli occhi castani e i capelli biondi formavano un contrasto interessante, ma non unico. Il viso non era un ovale perfetto e non aveva gli zigomi slavi delle russe. La sigaretta faceva risaltare una bocca più carnosa, e agli angoli degli occhi c'erano quelle prime rughe che rendono una donna più vera. Ma era troppo magra, come se non assimilasse il vitto sovietico. Per la verità, la zuppa era un liquido piuttosto denso e screziato di grasso. Susan vi pescava pigramente ossa che lasciava ricadere. «È burro non salato» le fece notare Slava. «Ho raccomandato a Olimpiada di non metterci l'aglio. Comunque, dovrebbe visitare il lago Baikal. Contiene il sedici per cento dell'acqua dolce del mondo.» «E quanta ne è contenuta in questa scodella?» chiese Susan. «Mi stavo appunto chiedendo...» cominciò Arkady.
Slava respirò a fondo. Se Arkady intendeva rovinare l'intimità di un pasto raffinato, il terzo ufficiale gliel'avrebbe fatta pagare. «Renko, se hai qualche domanda, dovevi farla ieri. Mi sembra che ti cerchino, al circuito sporco.» «Ho notato una cosa» disse Susan. «Lei si sta sempre chiedendo... Che cosa?» «Le piace la pesca?» chiese Arkady. «Mi piace la pesca? Cristo, deve piacermi altrimenti non sarei qui, giusto?» «E allora faccia così.» Arkady le prese il cucchiaio dalla mano. «Peschi. Se vuole le ossa, continui come sta facendo, e raschi il fondo. Ma ogni cosa è a un livello diverso. I cavoli e le patate sono un po' più in alto.» «Il Baikal ha le foche indigene... i pesci ciechi...» Slava cercò di non perdere il filo del monologo. «Molte specie di...» «Prendere una cipolla è più difficile» spiegò Arkady. «Deve usare una rete pelagica a mezz'acqua, per catturarle. Ah!» Ne pescò una, trionfalmente. Una perla bruciata. «E la carne?» chiese Susan. «È uno spezzatino di carne.» «In teoria» Arkady le restituì il cucchiaio. Susan mangiò la cipollina. Slava perse la pazienza. «Renko, sei di turno.» «Potrà sembrare una domanda sciocca» disse Arkady a Susan, «ma mi stavo appunto chiedendo com'era vestita al ballo.» Susan rise, controvoglia. «Non era certo l'abito del gran ballo della scuola.» «E cioè?» «Crinolina e mazzetto di fiori appuntato sul corpino. Non importa, diciamo che avevo camicetta e jeans, come al solito.» «Camicetta bianca e blue jeans?» «Sì. Perché me lo domanda?» «Ha lasciato il ballo per respirare un po' d'aria? E magari è uscita sul ponte?» Susan tacque. Si appoggiò con la testa alla paratia e lo scrutò con un lampo di diffidenza. «Sta ancora facendo domande sulla morte di Zina.» Anche Slava era indignato. «È un capitolo chiuso. L'hai detto ieri sera.» «Be'» replicò Arkady. «Stamattina ho cambiato idea.» Susan disse: «Perché è così fissato con gli americani? Su una navefattoria dove ci sono centinaia di sovietici, torna sempre a prendersela con
noi. È come la mia radio: funziona a rovescio». Indicò con la sigaretta un altoparlante in un angolo della cabina. «All'inizio mi sono chiesta perché non funzionava. Poi mi sono arrampicata e ho trovato un microfono. Vede? Funzionava, ma non nel modo che mi aspettavo.» Inclinò la testa ed emise uno sbuffo di fumo che si diresse verso Arkady come una freccia. «Quando sbarcherò a Dutch Harbor, niente più radio finte e finti investigatori. Mai più. Qualche altra domanda?» «Io non ne sapevo niente» dichiarò Slava a Susan. «Si porterà via i suoi libri?» chiese Arkady. Sulla cuccetta superiore c'erano la macchina per scrivere e le scatole con i libri che Arkady aveva già avuto modo di ammirare. In Unione Sovietica la poesia e la carta igienica avevano in comune la scarsità nata dall'inefficienza dell'industria cartaria dell'URSS, nonostante ci siano le più grandi foreste del mondo. Susan chiese: «Vuol essere sicuro che spariscano con me? Oltre a essere un operaio del circuito sporco e un investigatore, è anche amante dei libri?». «Di certi libri.» «Chi preferisce?» «Susan è scrittrice» disse Slava. «A me piace Hemingway.» «Gli scrittori russi» disse Susan ad Arkady. «È russo e ha l'anima russa. Ne nomini uno.» «Ne ha tanti.» Tanti ottimi libri, più della biblioteca di bordo, pensò Arkady. «L'Akhmatova?» «Naturalmente.» Arkady scrollò le spalle. Susan recitò: «"Che cosa vuoi?" ho chiesto. "Stare con te all'Inferno" ha detto lui». Arkady proseguì con i versi successivi. «Lui ha alzato la mano scarna - e ha accarezzato leggermente i fiori: "Dimmi come ti baciano gli uomini, dimmi come baci".» Slava girò lo sguardo da Susan ad Arkady. «La conoscono tutti a memoria» disse Arkady. «La gente fa così, quando i libri non si trovano in vendita.» Susan lasciò cadere la sigaretta nello spezzatino, prese il primo libro che le capitò sottomano sulla cuccetta e lo scagliò ad Arkady. «Ecco il regalo d'addio» disse. «Basta con le domande. Sono stata fortunata perché è comparso solo alla fine del viaggio.»
«Be'» disse Arkady. «Può darsi che sia stata molto più fortunata di così.» «Sentiamo.» «Era vestita come Zina. Se è stato qualcuno a buttare in mare quella povera ragazza, può considerarsi fortunata perché non hanno buttato lei per errore.» 11 La cabina della defunta Zina Patiashvili aveva l'intimità di un sogno. Il semplice gesto di accendere la lampada diede ad Arkady la sensazione d'essere un intruso. Dynka, per esempio, apparteneva alla razza uzbeca: e c'era il suo cammello-giocattolo, un cammello battriano venuto da una Samarcanda in miniatura, che troneggiava sul cuscino della sua cuccetta. C'erano i cuscini ricamati di madame Malzeva: ognuno era come un sachet odoroso di talco e di pomate. Il suo album di cartoline illustrate straniere mostrava minareti e templi in rovina. Un ritratto di Lenin vegliava sulla cuccetta di Natasha Chaikovskaya, ma c'era anche un'istantanea della madre che sorrideva timida fra girasoli giganteschi, e una foto lucida di Julio Iglesias. Le paratie della cabina erano tinte d'un romantico marrone dalle campanelle di vetro sospese davanti all'oblò. La stanza dava un po' il capogiro: era una conchiglia di nautilo piena di colori, di pieghe e cuscini, di profumi contrastanti e forti come l'incenso, di vita racchiusa in un compartimento d'acciaio. C'erano più foto in vista di prima, come se la scomparsa di Zina avesse rimosso le ultime remore delle tre donne rimaste. L'anta del guardaroba era decorata da altri operai edili uzbechi e siberiani che sembravano ondeggiare nei riflessi acquei delle campanelle. Arkady stava guardando sotto il materasso a righe di Zina quando arrivò Natasha. Portava una tuta da ginnastica blu, l'indumento universale per gli sport sovietici. Il sudore le copriva le guance come una rugiada, ma si era appena data il rossetto. «Mi ricordi un corvo» disse ad Arkady. «Un divoratore di carogne.» «Sei molto osservatrice.» Arkady non le disse che gli ricordava la grossa berlina, la Chaika che era il suo soprannome: una Chaika sfiatata e coperta da un telone blu. «Facevo ginnastica sul ponte. Mi hanno detto che volevi vedermi qui.» Arkady aveva calzato un paio di guanti di gomma presi in infermeria, e doveva concentrarsi al massimo per utilizzare il senso del tatto. Quando
aprì una fenditura nel materasso, scivolò fuori una cassetta. "Van Halen" c'era scritto. Arkady frugò all'interno del materasso e trovò altri tre nastri e un dizionarietto inglese-russo. Lo sfogliò e notò certe parole sottolineate a matita. Le linee avevano la pesante assertività di una scolara, e lo stesso valeva per le parole... e tutte avevano a che fare con il sesso. «Una scoperta importante?» chiese Natasha. «Non proprio.» «Non dovrebbero esserci due testimoni per una perquisizione della polizia?» «Non è una perquisizione ufficiale. La tua compagna di cabina potrebbe essere morta per un incidente, o forse no. Il comandante mi ha ordinato di accertarlo.» «Ah!» «È quello che penso anch'io. Una volta facevo l'investigatore.» «A Mosca. Ho saputo tutto. Eri coinvolto in un intrigo antisovietico.» «Be', questa è una delle versioni. Il fatto è che da un anno lavoro nella stiva di questa nave. Naturalmente è un onore partecipare a un'attività che fornisce pesce al grande mercato sovietico.» «Noi sfamiamo l'Unione Sovietica.» «È uno slogan magnifico. Tuttavia, siccome non mi aspettavo questa particolare crisi, non mi sono tenuto in allenamento come investigatore.» Natasha aggrottò la fronte come se esaminasse un oggetto che non sapeva come maneggiare. «Se il comandante ti ha ordinato di svolgere un compito, dovresti farlo con orgoglio.» «Sì. Ma c'è un'altra limitazione. Natasha, noi lavoriamo insieme nel settore fattoria. Tu hai espresso l'opinione che certi uomini addetti a quel lavoro sono intellettuali inetti.» «Non sarebbero capaci di trovarsi l'uccello se non ce l'avessero attaccato.» «Grazie. Tu hai un'origine diversa, no?» «Due generazioni di operai addetti alle costruzioni idroelettriche. Mia madre era alla diga dell'alto Bratsk. Io ero capobrigata alla stazione idroelettrica di Bochugany.» «E sei un'operaia decorata.» «L'Ordine del Lavoro, sì.» Natasha accettò il complimento con aria impettita. «E sei iscritta al partito.» «Ho questo grande onore.»
«E sei una persona dotata d'intelligenza e d'iniziativa ma sottovalutata.» Arkady ricordava che quando Kolya aveva perso un dito, tranciato dalla sega, e il sangue gli sprizzava dalla mano sulla faccia, sul pesce e tutto intorno, era stata Natasha che gli aveva subito legato stretta la sciarpa intorno al polso, l'aveva fatto sdraiare con i piedi in alto e gli era rimasta accanto fino a che era arrivata la barella. Quando l'avevano portato all'infermeria, si era messa carponi per cercare il dito amputato, in modo che fosse possibile ricucirlo. «La stima del partito mi basta. Perché mi hai fatta venire qui?» «Perché hai lasciato il lavoro edile per pulire il pesce? Alle dighe si prende paga doppia, e alcune ricevono un premio per le zone artiche. Lavoravi all'aperto, all'aria pura, anziché nella stiva di una nave.» Natasha incrociò le braccia e arrossì. Un marito. Naturalmente. In un cantiere c'erano più uomini che donne, ma non quanto su una nave, dove duecento uomini sani erano intrappolati per mesi con una cinquantina di donne, molte delle quali erano già anziane... e così restava una proporzione di dieci a uno. Natasha girava sempre sul ponte in tuta, o con la giacca bordata di volpe oppure, quando c'era una giornata appena un po' tiepida, con un prendisole a fiorami che la faceva somigliare a una gigantesca camelia minacciosa. Arkady si sentiva imbarazzato dalla propria ottusità. «Mi piace viaggiare» disse Natasha. «Proprio come a me.» «Ma tu non scendi nei porti stranieri. Resti a bordo.» «Sono un purista.» «Hai un visto di seconda classe, ecco perché.» «Anche. E ho anche una curiosità di seconda classe. Sono così contento di lavorare nel settore fattoria che non ho partecipato alla vita sociale e culturale della nave.» «I balli.» «Appunto. È come se non ci fossi. Non so niente delle donne e degli americani... e in particolare di Zina Patiashvili.» «Era un'onesta lavoratrice sovietica e sentiremo molto la sua mancanza.» Arkady aprì il guardaroba. Gli abiti erano appesi alle stampelle, in ordine di appartenenza. Gli indumenti di Dynka, taglia da ragazzina, gli abiti frivoli di madame Malzeva, il gigantesco abito da sera rosso di Natasha, i prendisole, le tute color pastello. Arkady era un po' deluso dagli abiti di Dynka perché si aspettava qualche pittoresco ricamo uzbeco e calzoni do-
rati: invece vide soltanto una giacca cinese. «Hai già portato via i vestiti di Zina» disse Natasha. «Sì, erano stati preparati in perfetto ordine.» Tre cassetti del guardaroba contenevano biancheria, calze, sciarpe, pillole; c'era persino un costume da bagno, in quello di Natasha. «Cosa cerchi?» chiese Natasha. «Non lo so.» «Che razza d'investigatore sei?» Arkady si tolse dalla tasca uno specchietto e guardò sotto il lavabo e la panca per scoprire se là sotto c'era qualcosa fissato con un nastro adesivo. «Non rilevi le impronte digitali?» chiese Natasha. «Ci arriveremo più tardi.» Arkady controllò sotto le cuccette, e lasciò lo specchio appoggiato ai libri sul materasso di Zina. «Ho bisogno di qualcuno che conosce l'equipaggio. Non deve essere un altro ufficiale o qualcuno come me.» «Sono iscritta al partito ma non sono una spia. Rivolgiti a Skiba o Slezko.» «Ho bisogno di un assistente, non di un informatore.» Arkady aprì di nuovo il guardaroba. «Non ci sono più di tanti nascondigli in una cabina come questa.» «Per nascondere che cosa?» Sentì Natasha che si tendeva, accanto a lui. Aveva l'impressione di averla sentita fare così già una volta. Sembrò inclinarsi quando lui aprì di nuovo il suo cassetto. Era il costume da bagno, naturalmente, un bikini azzurro e verde che non sarebbe riuscita a infilarsi più in su delle ginocchia. Era il costume che Zina aveva indossato con gli occhiali da sole, sul ponte, in quella giornata calda. Il codice morale di una nave era simile al codice di un carcere. Il delitto più grave, più odioso dell'omicidio, era il furto. D'altra parte, era naturale spartirsi gli effetti personali di qualcuno che era morto. Ma il fatto che aveva tenuto il costume e l'aveva nascosto poteva costare a Natasha la sacra tessera del partito. «Scommetto che la tua cabina è come la mia» disse Arkady. «Tutti prendono e danno sempre qualcosa in prestito agli altri, no? A volte è difficile ricordare a chi appartiene qualcosa. Sono contento che abbiamo trovato questo.» «Era per mia nipote.» «Capisco.»
Arkady posò il bikini sul letto. Attraverso lo specchio, vide che Natasha continuava a tenere lo sguardo fisso sul guardaroba. Avrebbe dovuto vergognarsi, ma non aveva né il tempo né i mezzi per un'indagine scientifica e moralmente ineccepibile. Tornò accanto a Natasha e tornò a scrutare gli abiti appesi. In generale si poteva dire che le russe adulte subivano una metamorfosi che le provvedeva di una mole rubensiana come difesa contro gli inverni del nord. Zina era stata un'eccezione alla regola. L'unica delle sue tre compagne di cabina che avrebbe potuto portare qualcuno dei suoi indumenti era la piccola Dynka; e l'unico capo abbastanza vistoso per rientrare nello stile di Zina era la giacca rossa cinese della giovane uzbeca. In molti porti stranieri c'erano empori che vendevano oggetti scadenti, del tipo che potevano permettersi i marinai e i pescatori sovietici. Spesso quei negozi si trovavano in quartieri poveri, lontano dai moli, e allora si vedevano gruppi di sovietici che facevano chilometri e chilometri a piedi, per non spendere i soldi del taxi. Un souvenir molto apprezzato poteva essere una giacca rossa con draghi orientali dorati e tasche con chiusura a pressione. Il guaio era che si trattava del primo viaggio di Dynka, e non avevano ancora fatto scalo in nessun porto. Se avesse riflettuto un po', Arkady non avrebbe avuto bisogno di usare lo specchietto. Adesso si vergognava ancora di più. Mentre toglieva la giacca dalla stampella, gli occhi di Natasha si sgranarono come quelli di una bambina che vede per la prima volta all'opera un prestigiatore. «E questa» domandò, «Zina l'aveva prestata a Dynka prima del ballo?» «Sì.» Natasha aggiunse in tono di maggior sicurezza: «Dynka non avrebbe mai rubato niente. Zina si faceva sempre prestare denaro che non restituiva mai, ma Dynka non è il tipo che ruba». «È appunto quello che ho detto.» «Zina non la metteva mai. La rigirava fra le mani, ma a bordo non l'aveva mai messa. Diceva che la teneva per Vladivostok.» Le parole uscivano con sollievo dalle labbra di Natasha. Non lanciava più occhiate al guardaroba. «La rigirava fra le mani?» «Be', sì. La cuciva. La rammendava.» Ad Arkady la giacca sembrava nuova. Tastò l'imbottitura, l'orlo. L'etichetta diceva "Hong Kong - Rayon". «Un coltello?» «Un attimo solo.» Natasha trovò un coltello nella tasca di un grembiule
appeso accanto alla porta. «Dovresti portarlo sempre addosso» le rammentò Arkady. «Bisogna tenersi pronti per ogni evenienza.» Tastò l'imbottitura della schiena e delle maniche, poi premette l'orlo al collo e in fondo. Quando tagliò l'orlo al centro, gli cadde sul palmo della mano una pietra grande come una caramella. Fece scorrere l'orlo fra le dita, e a poco a poco il cavo della sua mano si riempì delle luci rosse, violette e blu di ametiste, rubini e zaffiri non tagliati. Non sembravano gemme di buona qualità. Mise le pietre in una tasca della giacca cinese e la chiuse, poi si sfilò i guanti di gomma. «Potevano venire dalla Corea, dalle Filippine o dall'India. Non siamo stati in nessuno di quei posti, quindi Zina le ha avute da un'altra nave. È una fortuna che Dynka non abbia cercato di passare davanti alla Guardia Confinaria con questa giacca addosso.» «Povera Dynka» mormorò Natasha, al pensiero che l'amica potesse venire arrestata per contrabbando. «E Zina, come avrebbe fatto a far passare le gemme?» «Le avrebbe inghiottite, avrebbe ricucito la giacca e sarebbe scesa a terra indossandola, proprio come aveva detto. Le pietre, le avrebbe recuperate più tardi.» Natasha era disgustata. «Sapevo che Zina aveva una gran faccia di bronzo. Sapevo che era georgiana. Ma questo...» Arkady attaccò mentre la Chaika era ancora sbalordita dal suo ragionamento elementare e dal suo colpo di fortuna. «Vedi, non sapevo che avesse una gran faccia di bronzo. Non so niente dell'equipaggio. Ecco perché ho bisogno di te, Natasha.» «Noi due?» «Abbiamo lavorato per sei mesi alla stessa catena della fattoria. Sei metodica e coraggiosa. Mi fido di te, come tu puoi fidarti di me.» Natasha lanciò un'occhiata alla giacca e al costume da bagno. «Altrimenti?» «No. Riferirò di averli trovati sotto il materasso di Zina. Io e il terzo ufficiale avremmo dovuto trovarli prima.» Natasha si scostò dagli occhi una ciocca di capelli madidi. «Non sono il tipo che fa la spia.» Aveva gli occhi piuttosto belli, neri come quelli di Stalin, ma belli. Facevano colpo, con la tuta blu.
«Non dovresti fare l'informatrice, ma solo far domande. E mi riferiresti quello che dicono gli altri.» «Non sono sicura.» «Il capitano vuole sapere cos'è successo a Zina prima che arriviamo a Dutch Harbor. Il primo ufficiale dice che non dovremmo neppure scendere a terra.» «Che bastardo! Tutto quello che fa Volovoi è far funzionare il proiettore. E noi abbiamo pulito il pesce per quattro mesi.» «Hai solo un altro turno alla fattoria. Saltalo. Lavorerai con me.» Natasha scrutò Arkady come se lo vedesse veramente per la prima volta. «Niente propaganda antisovietica?» «Faremo tutto secondo le norme leniniste» le assicurò Arkady. Un'ultima esitazione. «Davvero vuoi che lavori con te?» 12 Arkady si godeva la vista dalla cabina del gruista: i ponti superiori coperti di reti e assi, le gru gialle che incorniciavano la nebbia, i gabbiani che altalenavano nel vento. Davanti a lui, oltre le gru di prua, c'era una ragnatela di antenne protese per captare le basse frequenze radio. Una schiera di dipoli cercavano nella brezza le onde più corte. Due cerchi intrecciati erano un radio directional finder, e le antenne a forma di stella captavano le emissioni dei satelliti di passaggio. Nonostante tutte le apparenze, la Stella Polare non era sola. «Bukovsky è contento che sia stata scelta io?» chiese Natasha. «Lo sarà.» Arkady era compiaciuto perché il libro che gli aveva dato Susan era di Maldelstam, un poeta meraviglioso, urbano, tenebroso e probabilmente assai poco socialista per i gusti di Natasha. Anche se era soltanto una raccolta di lettere, Arkady l'aveva già nascosto premurosamente sotto il materasso come se fosse fatto di fogli d'oro. «Eccolo» disse Natasha. Il terzo ufficiale stava quasi volando sul ponte di prua. Girò intorno a un gruppo di meccanici che si lanciavano e si rilanciavano pigramente una palla sopra la rete. «E non mi sembra soddisfatto» soggiunse Natasha. Slava spari sottocoperta e Arkady ebbe l'impressione di sentire gli echi delle sue Reeboks mentre saliva di corsa tre rampe di scale. In un tempo da primato olimpico il terzo ufficiale uscì sul ponte superiore ed entrò nella
cabina della gru. «Cos'è questa storia di un altro assistente?» chiese ansimando. «E perché mi hai chiamato per farmi venire da te? Chi è il responsabile?» «Lei» rispose Arkady. «Ho pensato che qui avremmo potuto parlare in pace e respirare aria pura: una combinazione poco comune.» La cabina della gru offriva il massimo in fatto di privacy perché le finestre, sfondate e riparate alla meglio, erano inclinate verso l'interno e imponevano un'intimità forzata quando dentro c'era più di una persona. La vista, comunque, era notevole. Natasha disse: «Il compagno Renko pensa che potrò essere utile». «Ho avuto il benestare per la compagna Chaikovskaya dall'ingegnere elettronico della flotta e dal comandante» dichiarò Arkady. «Ma dato che il responsabile è lei, ho pensato che dovesse essere informato. E poi, devo fare un elenco degli effetti personali di Zina.» «L'abbiamo già fatto» disse Slava. «Abbiamo visto i suoi vecchi vestiti e abbiamo esaminato il cadavere. Perché non cerchi una lettera che annunci l'intenzione di suicidarsi?» «È raro che le vittime di un omicidio ne lascino. Sarebbe molto sospetto se fosse la prima cosa che troviamo.» Natasha rise, poi si schiarì la gola. Dato che occupava metà della cabina, le era difficile dare prova di sottigliezza. «E cosa farai?» Slava le lanciò un'occhiataccia. «Raccoglierò informazioni.» Slava rise rabbiosamente. «Magnifico. Causerai altre grane. Non riesco a crederlo. È il mio primo viaggio come ufficiale e mi nominano rappresentante del sindacato. Che cosa ne so io dei lavoratori? Che cosa ne so degli omicidi?» «Tutti devono imparare, prima o poi» disse Arkady. «Credo che Marchuk mi odii.» «Le ha affidato una missione d'importanza vitale.» Il terzo ufficiale si appoggiò contro la paratia, con la faccia contratta in un'espressione depressa, i capelli ricci afflosciati con autocommiserazione. «E voi due... una bella coppia venuta dal circuito sporco. Renko, cos'è questo tuo bisogno patologico di frugare sotto tutte le pietre? So che sarà Volovoi a scrivere il rapporto definitivo sulla faccenda. C'è sempre un Volovoi che fa queste cose... attenti!» La paratia sotto la cabina della gru rimbombò quando la palla la colpi, ricadde sul ponte e rotolò fra i piedi dei meccanici, che alzarono gli occhi
verso i tre con aria torva. «Visto?» disse Slava. «L'equipaggio ha già saputo che lo scalo a terra dipende dalla nostra cosiddetta indagine. Saremo fortunati se non finiremo con un coltello nella schiena.» Le gru venivano chiamate anche in un altro modo, pensò Arkady: forche. Una successione di forche gialle che navigavano nella nebbia. «Ma sai che cosa mi colpisce?» chiese Slava. «Più la situazione peggiora e più tu sei contento e felice. Che differenza fa se siamo in due o in tre? Credi davvero che riusciremo a scoprire qualcosa sul conto di Zina?» «No» ammise Arkady. Non poté fare a meno di notare che Natasha cominciava a lasciarsi contagiare dal pessimismo di Slava, perciò soggiunse: «Ma dobbiamo ispirarci a Lenin». «Lenin?» Natasha si rianimò. «Cosa diceva Lenin dell'omicidio?» «Niente. Però, a proposito dell'esitazione diceva: "Prima agire e poi vedere che cosa succede".» Con i guanti di gomma, Arkady allineò sul tavolo operatorio jeans e camicette con etichette straniere. Il libretto paga. Il dizionario. La foto di un ragazzino fra i grappoli d'uva. La cartolina con un'attrice greca dagli occhi di procione. L'armamentario intimo di bigodini e spazzole dov'erano ancora impigliati alcuni capelli ossigenati. Il mangianastri Sanyo con la cuffia e sei nastri occidentali. Un bikini per l'unica giornata di sole. Un notes a spirale. Lo scrignetto con le perle false, le carte da gioco e i biglietti da dieci rubli. Una giacca cinese ricamata con la tasca piena di gemme. Il libretto: Patiashvili, Z.N. Nata a Tbilisi, Repubblica Socialista Sovietica della Georgia. Scuola dell'industria alimentare. Tre anni nelle cambuse della flotta del Mar Nero, con base Odessa. Un mese a Irkutsk. Due mesi su una carrozza ristorante della linea principale Baikal-Amir. Diciotto al ristorante Corno d'Oro di Vladivostok. Quello sulla Stella Polare era stato il suo primo e unico viaggio nel Pacifico. Arkady accese una Belomor e aspirò il fumo bruciante. Era la prima volta che si trovava solo con Zina... non il cadavere freddo ma le testimonianze inanimate che racchiudevano un po' della sua anima. In un certo senso, fumare lo rendeva più intimo, amichevole. Odessa era sempre stata troppo ricca e mondana. Là non si accontentavano di contrabbandare pietre semipreziose: importavano lingotti d'oro dall'India per quelli del posto e sacchi di hashish dall'Afghanistan per spedirlo a Mosca con i camion. Odessa avrebbe dovuto essere l'habitat na-
turale per una ragazza come Zina. Irkutsk? Erano i giovani comunisti fanatici che si offrivano volontari per posare le traversine delle ferrovie o friggere le salsicce in Siberia, non certo una ragazza come Zina. Quindi a Odessa doveva essere accaduto qualcosa. Arkady srotolò i biglietti rosa da dieci rubli. Mille rubli: molti, per portarseli dietro in navigazione. Vladivostok. Era stata una mossa astuta, servire ai tavoli del Corno d'Oro. I pescatori si scolavano bottiglie intere per rifarsi del periodo di relativo proibizionismo vissuto in mare, e consideravano i premi guadagnati a fatica come fardelli onerosi da spartire con la prima donna calda che incontravano. Zina doveva essersela spassata bene. Sgualdrina. Contrabbandiera. A seconda delle idee politiche e dei pregiudizi, era facile considerare Zina una materialista corrotta o una tipica georgiana. Ma di solito erano gli uomini della Georgia, non le donne, gli esperti filibustieri. Zina era stata diversa fin dall'inizio. Arkady aprì a ventaglio le carte da gioco. Era una collezione, non un mazzo. Una quantità di carte sovietiche con gli angoli piegati, giovani contadine coloratissime da una parte, una stella e covoni di grano dall'altra. Carte svedesi con donne nude. Una regina Elisabetta d'Inghilterra nel Giubileo d'Argento. E tutte erano regine di cuori. Arkady non aveva sentito i Rolling Stones da molto tempo. Mise la cassetta nel mangianastri e premette il pulsante "Play". Dall'altoparlante uscì un fracasso come se qualcuno avesse buttato Jagger dall'alto sulla batteria e poi lo prendesse a botte con le chitarre. Certe cose non cambiavano mai. Avanti a ritmo accelerato. Gli Stones a metà del nastro. Avanti ancora. Gli Stones alla fine. Girò il nastro e ascoltò l'altra parte. Strappò da un rullo una striscia di carta per gli elettrocardiogrammi e cominciò a tracciare uno schizzo della nave; segnò la mensa dove si era svolto il ballo, la cabina di Zina e tutti i possibili percorsi fra l'una e l'altra. Aggiunse la posizione di tutti i membri dell'equipaggio di turno quella sera e della gabbia da trasporto sul ponte di pesca. Via gli Stones, avanti con i Police. «I suoi preziosi nastri» aveva detto Natasha. «Usava sempre la cuffia. Non ce li faceva mai ascoltare.» Avanti in fretta. Con il mare favorevole, la nave sembrava accelerare come se scendesse una collina alla cieca, sotto la neve. Non poteva vederlo, ma lo sentiva. Perché Zina si era imbarcata sulla Stella Polare? Per denaro? Avrebbe
potuto spillare molto di più ai marinai, al Corno d'Oro. Merci straniere? I pescatori avrebbero potuto portarle tutto ciò che voleva. Per viaggiare? Sì, ma per andare alle Aleutine? Via i Police, avanti con i Dire Straits. Arkady disegnò il ponte di poppa e il pozzo che portava alla rampa. C'era spazio per uccidere Zina, ma non per nasconderla. Che cosa aveva avuto in tasca? Le Gauloises, una carta da gioco, un preservativo. I tre grandi piaceri della vita? La carta era una regina di cuori d'una varietà per lui sconosciuta. Avanti in fretta. Disegnò l'Eagle sotto la Stella Polare. "Politicamente maturo" era l'etichetta che il partito usava per tutti i giovani che non erano pregiudicati, dissidenti o difensori sfegatati della musica occidentale, che era di per sé un'arena della sovversione. C'erano "hippies" vecchiotti che ascoltavano ancora i Beatles e migravano tra i monti Aitai per meditare e drogarsi con l'acido. I giovani tendevano ad essere '"breakers" che ballavano il rap, oppure "metallisty" che si inebriavano con la musica heavy-metal e gli indumenti di pelle. Nonostante i suoi gusti in fatto di musica e le assenze dalla cambusa e il fatto che andava a letto con chi capitava, secondo un arbitro tradizionalista come Volovoi, Zina era "un'onesta lavoratrice, politicamente matura". E questo aveva senso soltanto se si teneva conto che il primo ufficiale aveva il compito di tener d'occhio i provocatori stranieri. Avanti in fretta. Sgualdrina, contrabbandiera, informatrice. Un totale semplice e chiaro, come lo scorrere delle sferette d'un pallottoliere, elementare come un'addizione. Una ragazza georgiana. Istruzione limitata a scodellare le zuppe. A Odessa, passata al contrabbando. A Vladivostok, avventure un po' con tutti. In navigazione, ruolo d'informatrice. Una vita abissale incominciata e finita nell'ignoranza, senza morale, senz'anima, senza un solo pensiero riflessivo. Almeno, così sembrava. Arkady notò che sulla cassetta Van Halen la targhetta era stata perforata. La mise nel mangianastri e sentì una voce di donna con l'accento georgiano. «Canta, canta per me.» Era la voce di Zina; Arkady l'aveva sentita nella mensa. C'era un microfono inserito nell'angolo del mangianastri. Un uomo accompagnato da una chitarra rispose: Potete tagliarmi la gola, Potete tagliarmi i polsi, Ma non tagliate le corde della mia chitarra.
Lasciate che mi calpestino nel fango, Lasciate che mi spingano sott'acqua Ma non toccate le mie corde d'argento. Mentre ascoltava, Arkady trovò i cucchiaini in un cassetto della scrivania e cercò i cristalli di iodio. Non li trovò, e cercò le pillole di iodio. C'era un armadietto metallico chiuso da un lucchetto che conteneva i medicinali contro le radiazioni... in altre parole, per la guerra. Scassinò il lucchetto con un cacciavite; ma nell'armadietto c'erano soltanto due bottiglie di scotch e un opuscolo sulla distribuzione dello iodio e della vitamina E in caso di esplosioni nucleari. Trovò lo iodio in un armadietto aperto. «Cantane un'altra» disse Zina. «Una canzone della mala.» La voce maschile rise e sussurrò: «È il solo genere che conosco». Arkady non era in grado di dare un nome alla voce, ma conosceva la canzone. Non era occidentale, non era rock o rap. Era di un attore moscovita che si chiamava Vysotsky ed era diventato famoso, clandestinamente, in tutta l'Unione Sovietica scrivendo secondo lo stile russo più tradizionale le canzoni lamentose e rabbiose dei malavitosi, e cantandole accompagnato da una chitarra russa a sette corde, lo strumento più facile da suonare che esista sulla terra. La diffusione delle canzoni avveniva per mezzo dei magnatizdat, una specie di versione registrata dei samizdat. Poi Vysotsky aveva suggellato la propria fama quando era morto per un attacco cardiaco causato dal troppo alcol. La radio sovietica trasmetteva tali melensaggini "Amo la vita, l'amo, l'amo, l'amo", che ci sarebbe stato da credere che la gente si turasse le orecchie; ma la verità era che nessun altro Paese era così vulnerabile nei confronti della musica. Dopo settant'anni di socialismo, le canzoni della mala erano diventate il contro-inno dell'Unione Sovietica. L'uomo che cantava non era Vysotsky, ma non era male: La caccia ai lupi, la caccia ai lupi! Ai predoni grigi, vecchi e cuccioli. I battitori gridano, i cani corrono fino a crollare, C'è sangue sulla neve e i limiti rossi delle bandiere. Ma le nostre fauci sono forti, le nostre zampe sono veloci, E allora perché, rispondici, capobranco, Perché corriamo sempre verso gli sparatori, E non cerchiamo mai di correre oltre le bandiere?
Al termine del nastro, Zina diceva: «Lo so che è l'unico genere che conosci. È il genere che mi piace». Arkady apprezzava il fatto che fosse il genere che le piaceva. Ma il nastro successivo era del tutto diverso. Zina parlava con voce bassa e stanca. «Modigliani dipinse l'Akhmatova sedici volte. È il sistema giusto per conoscere un uomo, farsi ritrarre da lui. Alla decima volta devi cominciare a capire come ti vede veramente. «Ma io attiro gli uomini sbagliati. Non i pittori. Mi stringono come se fossi un tubetto di colore da vuotare in una strizzata. Ma non sono pittori.» La voce di Zina poteva sembrare dolce come il miele o stanca come la morte, a volte nella stessa frase come se suonasse distrattamente uno strumento. «Al circuito sporco c'è un uomo che pare interessante. Più pallido di un pesce. Occhi profondi, come un sonnambulo. Non mi ha notata. Sarebbe interessante svegliarlo. «Ma non ho bisogno di un altro uomo. Uno crede di dirmi cosa devo fare. Il secondo crede di dirmi cosa devo fare. Il terzo crede di dirmi cosa devo fare. Il quarto crede di dirmi cosa devo fare. Soltanto io so che cosa farò.» Una pausa, poi: «Loro mi vedono e basta, non possono sentirmi pensare. Non mi hanno mai sentita pensare». Cosa farebbero se ti sentissero ora? si chiese Arkady. «Lui mi ucciderebbe se mi sentisse pensare» continuò Zina. «Dice che i lupi si accoppiano per la vita. Credo che mi ucciderebbe e poi si ucciderebbe.» Il quinto nastro era stato privato della targhetta, e tappato con adesivo. La cassetta incominciava con un fruscio di stoffa e qualche tonfo smorzato. Poi un uomo diceva: «Zina». Era una voce più giovane, non il cantante. «Che razza di posto è?» «Zinushka.» «E se ci sorprendono?» «Il capo dorme. Sono io a dire chi va e chi viene qui dentro. Stai tranquilla.» «Vacci piano. Sei come un ragazzino. Come hai fatto a portare quaggiù tutta questa roba?» «Non c'è bisogno che tu lo sappia.» «Quello è un televisore?» «Toglili.» «Chiedi per favore.» «Per favore.» «Non voglio spogliarmi completamente.»
«Fa caldo. Ventun gradi centigradi, umidità quaranta per cento. È il posto più confortevole della nave.» «Come mai hai un posto così? Il mio letto è freddo.» «Io sarei sempre pronto a infilarmici, Zinushka, ma questo posto è più intimo.» «Perché c'è una branda? Dormi qui?» «Facciamo turni molto lunghi.» «Guardando la televisione. E sarebbe lavoro?» «Lavoro intellettuale. Non ci pensare. Su, Zinushka, aiutami.» «Sei sicuro che in questo momento non dovresti fare qualche importante lavoro intellettuale?» «No, mentre ritiriamo una rete.» «Una rete! Quando ti ho conosciuto al Corno d'Oro eri un bel tenente. E adesso guardati: in fondo a una stiva per il pescato. Come fai a sapere che stiamo ritirando una rete?» «Parli troppo e baci troppo poco.» «Così ti piace?» «Va meglio.» «E così?» «Molto meglio.» «E così?» «Zinushka.» Evidentemente il microfono era attivato dalle voci e Zina non aveva avuto la possibilità di disattivarlo. Il registratore era con ogni probabilità nella tasca della sua giacca da pescatore, sotto di lei o appesa accanto alla branda. Ad Arkady erano rimaste due sigarette. Una fiamma oscillava sul fiammifero, verso le dita. Aveva cinque anni. A sud di Mosca era estate, e nelle notti calde tutti dormivano sotto il portico, con le porte e le finestre aperte. Nella casetta non c'era l'elettricità. Le falene venivano a volare sopra le lampade e lui si aspettava sempre che prendessero fuoco come pezzetti di carta velina. Alcuni amici di suo padre, altri ufficiali, erano venuti per un buffet. Secondo l'esempio stabilito da Stalin, i pranzi cominciavano a mezzanotte e finivano in uno stato di torpida ubriachezza; e il padre di Arkady, uno dei generali prediletti dalla Guida dell'Umanità, seguiva quella moda; ma mentre gli altri si ubriacavano, si limitava ad arrabbiarsi. Allora caricava il grammofono e suonava sempre lo stesso disco. Era l'Orchestra Jazz Statale della
Moldavia, un complesso che aveva seguito le truppe del generale Renko sul secondo fronte ucraino e aveva suonato sulla piazza di ogni centro abitato il giorno dopo che era stato strappato ai tedeschi. Era Chattanooga Choo-Choo. Gli altri ufficiali non avevano portato le mogli e così il generale doveva permettere che ballassero con la sua. Loro erano soddisfatti perché le loro mogli non erano così alte e belle e flessuose. «Katerina, devi entrare nello spirito!» ordinava il generale. Dal portico, il piccolo Arkady sentiva il pavimento tremare sotto lo scalpiccio degli stivali. Non sentiva i passi della madre: era come se si muovesse nell'aria. Il peggio veniva sempre dopo che gli invitati erano usciti. Allora i suoi genitori andavano a letto, dietro un paravento in fondo al portico. Prima due voci bisbiglianti, una sommessa e implorante, l'altra con una rabbia che stringeva il cuore. Tutta la casa oscillava come un'altalena. Una mattina, Arkady faceva colazione con panini all'uva passa e tè, all'aperto, sotto le betulle. Sua madre era uscita in camicia da notte, una camicia di seta e merletti che suo padre aveva trovato a Berlino. Portava uno scialle per proteggersi dal fresco del mattino. I capelli neri e lunghi erano sciolti. Aveva sentito niente durante la notte? gli aveva chiesto. No, aveva risposto lui. Niente. Mentre sua madre si girava per tornare in casa, un ramo s'era impigliato nello scialle e glielo aveva tolto. Sulle braccia c'erano i lividi bluastri lasciati dalla stretta di altrettante dita. Lei aveva raccolto lo scialle, l'aveva rimesso sulle spalle e l'aveva annodato. Comunque, aveva soggiunto, era finita. Aveva gli occhi così sereni che Arkady le aveva quasi creduto. Adesso gli pareva di sentirlo. Chattanooga Choo-Choo. «Dico sul serio, Zina, il capo farebbe fuori te e me se lo scoprisse. Non puoi dirlo a nessuno.» «Se scoprisse che cosa? Questo?» «Smettila, Zina. Sto parlando sul serio.» «Questa tua stanzetta?» «Sì.» «A chi vuoi che importi? È come un club per ragazzini in fondo alla nave.» «Non scherzare.» Ogni nastro aveva una durata di trenta minuti. Quando la strisciolina ne-
ra scorreva, Zina non poteva spegnere il registratore. Il suo compagno avrebbe sentito il clic. «Prima mi dici "Zinka, ti amo", e subito dopo "Zina, sii seria". Hai le idee confuse.» «È un segreto.» «Sulla Stella Polare? Vuoi spiare i pesci? I nostri americani? Sono più scemi dei pesci.» «Questo lo pensi tu!» «Dici davvero?» «Tieni d'occhio Susan.» «Perché?» «Non ti dico altro. Non sto cercando d'impressionarti, ma di aiutarti. Dobbiamo aiutarci. È un viaggio molto lungo. Diventerei pazzo senza una come te, Zinka.» «Ah, abbiamo smesso di fare sul serio.» «Dove vai? Abbiamo ancora tempo.» «Tu ce l'hai, io no. Comincia il mio turno e quella carogna di Lidia cerca solo una scusa per mettermi nei guai.» «Un minutino?» Un fruscio di tela sul microfono, lo scricchiolio di una branda mentre qualcuno si alzava. «Torna al tuo lavoro intellettuale. Io devo andare a rimestare la zuppa.» «Merda! Aspetta almeno che guardi dallo spioncino, prima di uscire.» «Hai idea di quanto sei ridicolo?» «Bene, via libera. Vai.» «Grazie.» «Zinka, non dirlo a nessuno.» «A nessuno.» «Domani, Zinka?» La porta si chiudeva con riluttanza. Clic. L'altro lato del nastro cominciava senza registrazioni. Avanti in fretta. Non c'era niente. Arkady esaminò il blocco a spirale. Sul primo foglio era incollata una carta del Pacifico. Zina aveva aggiunto occhi e labbra all'Alaska, che si tendeva come un uomo barbuto verso una Siberia timida e femminile. Le Aleutine si allungavano verso la Russia come un braccio. L'ultima cassetta incominciava con i Duran Duran. Avanti in fretta. Sul secondo foglio c'era una foto dell'Eagle ancorata in una baia circon-
data da montagne innevate. Sul terzo foglio l'Eagle sguazzava in acque mosse. «... fare una baidarka» disse il nastro in inglese. «È come un kayak. Sai cos'è un kayak? Be', è più lunga e agile e con la poppa quadrata. Una volta le facevano di pelli e avorio, persino con le giunture in avorio, e così scorrevano meglio sulle onde. Quando arrivò Bering con le prime navi russe, non riusciva a credere che le baidarka fossero tanto veloci. Le migliori sono sempre venute da Unalaska. Ci capisci qualcosa?» «So cos'è un kayak» rispose Zina adagio, in inglese. «Bene, ti mostrerò una baidarka e vedrai. Le farò fare il giro della Stella Polare.» «Vorrei avere una macchina fotografica quando lo farai.» «E io vorrei che potessimo fare molto di più. Mi piacerebbe mostrarti il mondo. Andare dappertutto... California, Messico, Hawaii. Ci sono tanti posti meravigliosi. Sarebbe un sogno.» «Quando lo ascolto» diceva Zina sull'altro lato del nastro, «mi sembra di sentire il primo innamorato. Gli uomini sono bambini maligni, ma lui è come il primo innamorato, il più tenero. Forse è un tritone, un figlio del mare. Sul mare agitato, su una grande nave, sto aggrappata al parapetto. Giù, sul ponte piccolo, lui si tiene perfettamente in equilibrio e cavalca le onde. Ascolto la sua voce innocente. Sarebbe un sogno, dice.» Poi, per una dozzina di pagine, c'erano fotografie dello stesso uomo con i capelli scuri e lisci. Occhi scuri con le palpebre pesanti. Zigomi larghi, naso e bocca cesellati. L'americano. L'aleutino con il nome russo. Mike. Mikhail. Le fotografie, tutte scattate dall'alto e da lontano, lo mostravano sul ponte dell'Eagle mentre azionava la gru, stava in posa a poppa, rammendava una rete, salutava con la mano. Arkady fumò l'ultima sigaretta velenosa. Ricordava Zina sul tavolo operatorio, lì in quella stanza, la carne fradicia e i capelli ossigenati. Un corpo lontano dalla vita come una conchiglia sulla spiaggia. Ma la voce... era Zina, una donna che sulla nave nessuno aveva conosciuto. Era come se fosse entrata dalla porta, si fosse seduta nell'ombra di fronte alla scrivania, appena al di là del velo luminoso della lampada, avesse acceso una sigaretta fantasma e, poiché aveva trovato finalmente un orecchio comprensivo, confidasse tutto. Naturalmente Arkady avrebbe preferito che il laboratorio tecnico di Mosca impiegasse nella battaglia uno schieramento di solventi e reagenti e microscopi tedeschi grossi come mortai, e gascromatografi. Lui utilizzava
ciò che poteva. Allineò davanti al blocco a spirale i cucchiai, le pillole e le schede con le impronte digitali che Vaimi aveva ricavato dal cadavere. Schiacciò le pillole tra i cucchiai, avvolse il polsino intorno al manico del cucchiaio che conteneva lo iodio in polvere, accese un fiammifero e l'accostò. Avvicinò il cucchiaio al blocco in modo che i vapori dello iodio riscaldato salissero sulla pagina di fronte alla cartina. Il metodo esatto sarebbe stato impiegare cristalli di iodio su un bruciatore ad alcol in un recipiente di vetro. Arkady si disse che nello spirito del Nuovo Modo di Pensare annunciato dall'ultimo Congresso del partito, tutti i buoni sovietici erano disposti ad adattare la teoria all'applicazione pratica. I vapori di iodio reagivano in fretta con gli olii del sudore in un'impronta latente. Prima apparve il contorno spettrale di un'intera mano sinistra, color seppia come un'antica fotografia. Palmo, pollice e quattro dita allargate, come dovevano essere mentre Zina teneva fermo il blocco per incollare qualcosa. Poi i dettagli: spirali, delta, creste, anelli radiali. Arkady si concentrò sull'indice e lo confrontò con quello sulla scheda. Un doppio anello, come yin e yang. Un'isola alla sommità del delta destro. Un taglio nel delta sinistro. Erano le stesse impronte: era il blocco di Zina, e l'impronta della sua mano... era come se la tendesse verso di lui. C'erano altre due impronte, maschili a giudicare dalla grandezza, ruvide e frettolose. Mentre il fiammifero si consumava, la mano incominciò a sbiadire, e in un minuto scomparve. Rimise tutto in ordine. Aveva trovato Zina. Ora doveva trovare il tenente che la chiamava Zinushka 13 Sottocoperta tutto era costruito intorno alle stive del pescato. L'arca di Noè doveva aver avuto una stiva per il pescato. Quando aveva chiamato Pietro "pescatore d'uomini", Cristo doveva avere in mente le virtù di una stiva di quel genere. Se mai i cosmonauti arrivassero a veleggiare spinti dai venti solari e a raccogliere campioni della fauna galattica, avrebbero bisogno d'una specie di stiva per il pescato. Eppure per dieci mesi la Stella Polare aveva navigato con una stiva frigorifera, a prua, che non era operante. C'erano varie congetture per spiegare il perché: i tubi continuavano a spaccarsi, c'era un cortocircuito nella pompa, l'isolante di plastica lasciava filtrare chissà quale veleno. Comunque, il risultato era che le navi che venivano a ritirare il pescato dovevano presentarsi più spesso per caricare i pesci delle altre due stive della Stella
Polare. Un'altra conseguenza era che l'area intorno alla stiva inutilizzata era stata abbandonata a mucchi di doghe per botti e di lastre d'acciaio. E il passaggio diventava più frequentato via via che l'equipaggio tendeva a seguire un percorso più lungo ma più svelto per attraversare il ponte. Una fila di lampade illuminava il tratto fra la paratia e la stiva. L'accesso era una porta stagna, con una rampa per trasportare i carrelli di pesce surgelato. Il volano era bloccato da una catena e da un lucchetto enorme. Da un lato della porta c'era una pompa di calore, aperta per mostrare un groviglio convincente di fili non collegati. Dall'altra parte c'era un bidone pieno di grandi manovelle d'argano. Sul fondo del bidone si muovevano i ratti. La nave non era stata disinfestata da quando Arkady s'era imbarcato. La cosa interessante era che i ratti mangiavano pane, formaggio, vernice, tubi di plastica, fili elettrici, materassi e indumenti... tutto, in pratica, tranne il pesce congelato. Sembrava che fossero esistite due Zine. C'era la Zina puttanella conosciuta da tutti; e poi c'era la donna misteriosa che viveva in un mondo pieno di fotografie nascoste e di nastri tenuti segreti. Un nastro era pericoloso. Il tenente innamorato s'era vantato della temperatura della stiva del pescato e dell'umidità del 40 per cento. Arkady aveva sentito qualcuno prendersi il disturbo di parlare della percentuale di umidità una sola volta in vita sua: nella sala computer, alla sede centrale della milizia in via Petrovka, a Mosca. Fin lì, tutto bene. Arkady non aveva beghe con il servizio segreto della marina. Tutti i pescatori sovietici della costa del Pacifico sapevano che i sottomarini americani violavano continuamente le acque territoriali dei loro Paesi. Nelle notti buie, i periscopi emergevano nello Stretto dei Tartari. I nemici seguivano le navi da guerra sovietiche persino nel porto di Vladivostok. Ma Arkady non capiva cosa potesse captare una stazione d'ascolto dentro una stiva del pescato. Un ecoscandaglio rivelava soltanto quello che era direttamente sotto di te, e nessun sottomarino si sarebbe avventurato sotto i pescherecci. A quanto sapeva Arkady, un sonar passivo come gli idrofoni poteva captare le onde sonore da lontano; ma una vecchia navefattoria come la Stella Polare aveva un rivestimento di lastre metalliche inferiore alla norma... così sottile che risuonava come un tamburo e si incurvava a ogni ondata. Era stato saldato nel modo sbagliato, rivettato con rivetti bruciati e troppo piccoli, sigillato con mastice che colava, puntellato con assi che scricchiolavano come ossa. Tutto questo rendeva la nave più umana, in un certo senso, e ancora più affidabile nello stesso modo che un
veterano rattoppato, nonostante i mugugni, era più fidato di una recluta pimpante. Ma la Stella Polare marciava sull'acqua come una banda musicale, e il chiasso che faceva avrebbe coperto il sussurro di qualunque sottomarino. Arkady non s'interessava allo spionaggio. Nell'esercito, quando se ne stava per ore e ore in una sala radio sul tetto dell'Adler Hotel a Berlino, canticchiava sempre... da Presley a Prokoviev, un po' di tutto. Gli altri gli domandavano perché non voleva fare un turno al binocolo, per studiare la sala radio americana sul tetto dello Sheraton, a Berlino Ovest. Forse gli mancava l'immaginazione. Aveva bisogno di vedere un altro essere umano per provare interesse. Il fatto era che, nonostante la registrazione di Zina, dall'esterno la stiva del pescato sembrava una stiva del pescato. Il tenente aveva detto a Zina che avrebbe guardato dallo spioncino. Arkady non ne vedeva. La porta era viscida, e dava una sensazione sgradevole a toccarla. Pensò alle manovelle nel bidone, e dopo un attimo d'esitazione ne scelse una. Era come sollevare una sbarra da quaranta chili: quando l'avesse issata sulle spalle non sarebbe stato in grado di scacciare facilmente un ratto che vi fosse aggrappato. Bastò quel pensiero per farlo sudare. Ma non comparve nessun roditore, e quando inserì la sbarra e la torse, il lucchetto si aprì di scatto. Un altro pessimo voto per il Controllo di Qualità statale. Il volano non cedette fino a che Arkady non si puntellò con un piede contro la pompa. Girò con una serie di risentite proteste metalliche, e Arkady sospinse la porta. L'interno della stiva corrispondeva all'altezza di tre ponti della nave, una specie di pozzo d'aria buia rischiarato da una lampadina fioca alla sua altezza. Normalmente ogni livello di una stiva aveva il suo ponte, aperto al centro perché fosse possibile sollevare il pesce dal basso. Quella voragine era strana, come se non ci fosse mai stata l'intenzione di utilizzare la stiva. Una botola impermeabile copriva il ponte principale, in alto, e racchiudeva un odore irrancidito di pesce e di salsedine. Le pareti erano coperte da assi di legno appoggiate alle griglie dei tubi che di solito facevano circolare il liquido refrigerante. Una scala a pioli scendeva dalla botola al ponte inferiore, due livelli più in basso. Arkady si aggrappò ai gradini e chiuse la porta. Via via che scendeva, i suoi occhi si abituavano. Ogni tanto intravedeva i ratti che si arrampicavano sui tubi per allontanarsi da lui. I ratti non tentavano mai di entrare in un magazzino frigorifero funzionante, e questo attestava la loro intelligenza. Pensò che se avesse portato una lampada ta-
scabile sarebbe stata una manifestazione d'intelligenza da parte sua. C'erano tanti ratti che il suono dei loro movimenti era come il vento fra gli alberi. Avrebbero dovuto esserci ponti e argani e casse coperte di brina. Riempire un magazzino frigorifero era un'arte marittima. Le casse di pesce dovevano essere non soltanto accatastate ma anche separate da assi per permettere la circolazione di aria più fredda del punto di congelamento. Ma lì non c'era niente. A ogni livello c'erano una porta, un portalampadina e un termostato. Ogni livello era più buio, e quando smontò dall'ultimo piolo sul ponte inferiore era quasi cieco, sebbene sentisse che le pupille cercavano di dilatarsi. Era un abisso, pensò, il centro della terra. Accese un fiammifero. Il ponte era coperto da altre assi sopra una griglia di tubi collocati su una base di cemento. Vedeva bucce d'arancia, un'asse rotta, barattoli di colore vuoti e una coperta: qualcuno era venuto lì per aspirare i vapori. C'erano ossa disposte a pettine che spiegavano cos'era accaduto al gatto di bordo. Ma non vedeva un tenente del servizio segreto della marina, una branda, un televisore o un terminal di computer. Sotto la base c'era un doppio scafo con i serbatoi per il carburante e l'acqua, uno spazio sufficiente per nascondere merci di contrabbando, forse, ma non un'intera camera arredata. Arkady inserì l'asse spezzata fra le tavole delle pareti. Non si aprì nessuna porta segreta. Quando non ci riusciva con la delicatezza, sbatteva l'asse contro le tavole. Fra gli echi rombanti gli arrivavano proteste acutissime dalla galleria dei ratti: ma non saltò fuori nessun ufficiale del servizio segreto della marina. Mentre risaliva, Arkady aveva la sensazione di ritornare a galla, come se trattenesse il respiro e nuotasse in direzione della lampadina. La registrazione di Zina non aveva più senso. Forse aveva frainteso il dialogo. Forse avrebbe trovato un po' di vodka nell'ufficio di Vainu. Qualche sorso di vodka in un ambiente ben illuminato sarebbe andato benissimo. Quando arrivò alla lampadina, aprì la porta e si slanciò sul ponte. Ormai le manovelle nel barile e la pompa a calore avevano un'aria amichevole e familiare. Infilò il lucchetto rotto nel volano. Gury, il biznessman, gliene avrebbe procurato un altro. Mentre Arkady si avviava verso il settore fattoria si spense la lampada sopra l'intercapedine stagna, e poi quella sopra la pompa a calore. Qualcuno uscì dal buio e lo colpì allo stomaco. Mentre Arkady si piegava su se stesso, colto dalla nausea, lo sconosciuto gli cacciò in bocca una palla di stracci bagnati, gli legò strettamente un altro straccio sulla bocca, e poi gli
infilò un sacco sulla testa e le spalle, fino ai piedi. Sentì qualcosa di simile a una cintura stringersi sopra il sacco, intorno alle braccia e al petto. Reagì nel modo appropriato: respirò profondamente e fletté le braccia, e subito si sentì soffocare perché gli stracci che gli avevano infilato in bocca erano intrisi di benzina. La stoffa gli premeva la lingua contro il palato molle e quasi lo costringeva a inghiottirla. Soffiò cercando di liberare la lingua, e in quel momento sentì che la cintura veniva stretta più forte. Poi lo sollevarono... erano tre uomini, gli sembrava. E doveva essercene un altro, più avanti, per controllare se la via era libera e trattenere chiunque fosse venuto da quella parte; e forse c'era un altro ancora che li seguiva allo stesso scopo. Erano robusti: lo maneggiavano agevolmente, come se fosse una scopa. Arkady cercava di non lasciarsi soffocare dai vapori di benzina. Durante i viaggi lunghi, i marinai si riunivano per aspirare quei vapori e trovare una piacevole vertigine. Una spira acre gli scendeva nella gola. Avrebbero potuto buttarlo nella stiva del pescato: il corpo non sarebbe stato ritrovato per parecchi giorni. Quindi, forse il fatto che l'avessero stordito, imbavagliato e messo in un sacco era un buon segno. Non era mai stato sequestrato in tutti gli anni che aveva lavorato in procura, e non era molto sicuro del significato di certe sfumature; ma era chiaro che non intendevano ucciderlo subito. Probabilmente erano membri dell'equipaggio inferociti dalla prospettiva di perdersi la licenza a terra. Anche se era chiuso nel sacco, avrebbe potuto riconoscere una voce, se avessero bisbigliato qualcosa. Il tragitto fu breve. Si fermarono. Un volano girò. Arkady non aveva l'impressione che avessero svoltato a destra o a sinistra: erano tornati alla stiva? Le uniche entrate stagne, a quel livello, erano delle stive. La porta si aprì con il fragore secco del ghiaccio che si spezza. Una fornace emette una vampata ardente; un magazzino frigorifero, con una temperatura di quaranta gradi centigradi sotto zero, emette un fiotto d'aria gelida più debole; ma anche all'interno del sacco Arkady lo sentì e cominciò a scalciare e contorcersi. Troppo tardi. Lo buttarono dentro. L'urto fece sganciare la cintura. Arkady si alzò, ma prima che potesse strapparsi di dosso il sacco sentì la porta che si chiudeva, il volano che girava. Si trovò in piedi su una cassa di legno. Quando slegò il bavaglio e si tolse gli stracci dalla bocca, il primo respiro gli bruciò i polmoni. Era uno scherzo, doveva essere uno scherzo. Un vapore quasi liquido saliva dall'impiantito e scendeva ondeggiando lungo le pareti, e attraverso le assi
scorgeva la griglia dei tubi refrigeranti, inguainati di ghiaccio. I suoi piedi erano al centro di due pozze di vapore lattiginoso. I peli sul dorso delle mani si rizzarono e s'imbiancarono di brina. Via via che lasciava le sue labbra, l'alito si cristallizzava e cadeva in una fine neve scintillante. Arkady si fermò mentre stava per toccare il volano della porta. La pelle nuda si sarebbe attaccata al metallo. Copri il volano con il sacco e premette con tutto il suo peso ma non riuscì a smuoverlo. Gli uomini, là fuori, dovevano tenerlo bloccato, e non aveva la possibilità di sopraffarli. Gridò. Il magazzino frigorifero era protetto da uno strato isolante di fibra di vetro spesso dieci centimetri; persino l'interno della porta aveva quella specie d'imbottitura. Nessuno l'avrebbe sentito, a meno che qualcuno passasse proprio lì davanti. Durante l'ultima settimana, il pesce congelato era stato sistemato nella stiva di poppa per bilanciare meglio l'assetto della nave. Se era la stiva centrale, nessuno l'avrebbe sentito. In alto, irraggiungibile, c'era una botola stagna e isolata. Nessuno l'avrebbe sentito neppure attraverso quella. Due casse più sotto c'erano il falso ponte e l'accesso a un altro livello e a un'altra porta. Non poteva pensare di sollevare due casse; ognuna pesava duecentocinquanta chili. Su una c'era un telone gualcito e irrigidito dal ghiaccio. La stampigliatura sulle casse diceva: "Sogliole congelate Prodotto in URSS". Non era uno scherzo, eppure aveva qualcosa di comico. I veterani del nord conoscevano le fasi del congelamento. Arkady rabbrividiva. Rabbrividire andava bene. Il corpo riusciva a mantenere la propria temperatura per qualche tempo, grazie ai brividi. Ma perdeva un grado ogni tre minuti. Quando avesse perduto due gradi avrebbe smesso di rabbrividire, il suo cuore avrebbe iniziato a rallentare i battiti e a chiudere l'afflusso all'epidermide e agli arti per conservare il calore al centro: e quella era la causa del congelamento. Quando avesse perso undici gradi, il cuore si sarebbe fermato. Il coma sarebbe sopravvenuto in un momento intermedio. Gli restavano quindici minuti. C'era un altro problema. Presentava i primi sintomi classici di avvelenamento che aveva osservato nei marinai quando avevano assorbito i vapori: battiti delle palpebre, vertigine, intossicazione. A volte ululavano come iene; a volte ballavano e cercavano di arrampicarsi sulle pareti. Non riusciva a fare a meno di ridere. Si era imbarcato per morire tra quel ghiaccio? Era ridicolo. Le braccia sussultavano spasmodicamente come se un pazzo gli piegasse le ossa. Aveva già lavorato altre volte in un freddo simile... certo, con la
tuta imbottita, gli stivali di feltro e il cappuccio foderato di pelliccia. La brina creava una sua pelliccia bianca sulle scarpe e sui polsini. Barcollò, cercò di conservare l'equilibrio e di non infilarsi nello stretto spazio fra le casse: era sicuro che se fosse scivolato non sarebbe più riuscito a liberare la gamba. All'altezza del suo petto c'era una lastra perforata che copriva il termostato. Non poteva staccarla con le unghie: era un altro valido esempio dei casi d'emergenza per i quali un marinaio avrebbe dovuto portare sempre con sé il coltello. Estrasse faticosamente i fiammiferi dalla tasca e li lasciò cadere. Poiché cercava di non finire bocconi, raccattò a fatica la scatoletta con l'inchino aggraziato di un cicisbeo francese che raccoglieva dal pavimento il fazzoletto caduto a una dama. I fiammiferi gli sfuggirono di nuovo e questa volta si mise carponi per recuperarli. La fiammella era un minuscolo globo giallo sopraffatto dal freddo, ma una rugiada preziosa si formò sulla piastra del termostato quando si riscaldò. Il problema era che le mani gli sussultavano tanto che non riusciva a tener accostata la fiamma alla lastra per più di un secondo alla volta. Erano furbi, a ucciderlo in quel modo. Lo avrebbero fatto morire congelato e poi, a quanto poteva presumere, avrebbero portato il suo corpo in qualche posto perché si sgelasse, e infine l'avrebbero trasportato in un altro posto ancora perché venisse trovato. Ormai era accertato che Vainu non era il più esperto dei patologi, e la prova più ovvia che avrebbe scoperto sarebbero state le tracce dell'inalazione dei vapori, il tragico vizio dell'uomo dell'era del petrolio. Con l'approvazione ufficiale, avrebbero rimesso il suo cadavere nello stesso magazzino frigorifero fino all'arrivo a Vladivostok. Arkady si vedeva già tornare a casa in un blocco di ghiaccio. I fiammiferi erano ottimi, di legno con le capocchie di fosforo e cera, prodotti apposta per sfidare il maltempo. Sulla scatoletta c'era l'immagine della prua di una nave che fendeva un'onda arricciolata. Il fumaiolo era decorato da falce e martello. Tremava tanto che era difficile puntare la fiammella verso la lastra. All'improvviso, senza ragione, ricordò un caso di suicidio ancora più esemplare di quelli che aveva citato a Marchuk e a Volovoi. A Sakhalin, un marinaio s'era impiccato. Non c'erano state indagini perché il ragazzo aveva fissato la corda a falce e martello, sul fumaiolo. Gli avevano messo le pantofole di carta e l'avevano sepolto in un giorno perché nessuno aveva voglia di fare domande. Adesso, almeno, aveva smesso di tremare e riusciva a tenere saldo il
fiammifero. Abbassò gli occhi e vide che i calzoni erano coperti di una brina lanuginosa. Un pesce grosso come un halibut poteva gelare interamente e diventare duro come un sasso in un'ora e mezzo. La scatoletta gli schizzò dalle dita che stavano diventando bluastre e si muovevano lentamente. Quando si chinò per riprendere la scatola, le mani erano più goffe di un paio di uncini. Sfregò un altro fiammifero, la scatoletta cadde, rimbalzò sulla cassa e cadde tra questa e la parete. Arkady la sentì tintinnare sulle altre casse, giù giù fino al ponte. Con tutta la concentrazione di cui era capace accostò di nuovo la fiammella al termostato, e si meravigliò nel vedere che il calore si diffondeva visibilmente come una rugiada sulla piastra metallica. Era il suo ultimo fiammifero. Continuò a tenerlo mentre la fiamma bruciava sulle unghie. Aveva ancora un po' di benzina sulle mani, perché si era tolto gli stracci dalla bocca. Le fiammelle secondarie ardevano come candele sulle palme. Non gli facevano male. Le fissava perché erano straordinarie, come un'esperienza religiosa. A poco a poco spostò lo sguardo sugli stracci. Anche i pesci pensavano con altrettanta lentezza? si chiese. Mentre la fiammella del fiammifero si abbassava, la tese fra gli stracci, e gli stracci esplosero in un fuoco bellissimo, come un fiore. Spinse a calci gli stracci incendiati verso l'impiantito sotto la lastra. Gli stracci si snodarono in sfumature blu e viola che poi si trasformarono in un denso fumo nero. Intorno al fuoco, sulle assi e sulla cassa, si allargò un cerchio di ghiaccio bagnato che fondeva, tornava a formarsi e poi fondeva di nuovo. Arkady sedette accanto alle fiamme, con le braccia protese per raccogliere il calore. Ricordava quando una volta, in Siberia, aveva fatto un picnic, pesce congelato ridotto a trucioli, carne di renna congelata tagliata a striscioline, bacche congelate confezionate in ostie pressate e vodka siberiana che bisognava girare di continuo verso il fuoco, prima da una parte e poi dall'altra. L'anno prima, una guida dell'Intourist aveva portato un gruppo di americani nella taiga e aveva imbandito un pasto ancora più splendido, ma aveva dimenticato di girare la bottiglia. Dopo molti brindisi fatti con il tè tiepido all'amicizia internazionale, al rispetto reciproco e una maggiore comprensione, la guida aveva versato nei bicchieri la vodka quasi solidificata e aveva mostrato agli ospiti che andava bevuta in un unico sorso. «Così» aveva detto. Aveva inclinato il bicchiere, aveva bevuto ed era stramazzato, morto. Aveva dimenticato che la vodka siberiana è praticamente alcol puro e continua a scorrere a una temperatura che basta a congelare la gola e ad arrestare il cuore come un colpo di spada. Lo shock
è sufficiente per uccidere. Era triste, certo, ma era anche comico. Bastava pensare ai poveri americani che, seduti intorno al fuoco, guardavano la guida russa e dicevano: «Questo è un picnic siberiano». Era una lotta impari tra un fuoco di stracci e la caverna glaciale d'una stiva del pescato. Le fiamme si ridussero a occhi di luce, un nido di vermi luminosi attorcigliati, e poi a un'ultima esalazione di fumo nero sopra un involucro di ceneri. La cassa e l'impiantito erano appena macchiati, neppure carbonizzati. La benzina era un po' come la vodka siberiana. Di momento in momento, Arkady si sentiva sempre più siberiano. Finalmente, in navigazione al largo delle coste americane, aveva raggiunto quella distinzione felice. La brina riprese ad avanzare sui calzoni e sulle maniche. Sbatté le palpebre per impedire che il ghiaccio gli chiudesse gli occhi e vide l'alito esplodere in cristalli che salivano e quindi ricadevano in una pioggerella fine. Come avrebbe respirato un siberiano, altrimenti? Non sarebbe stato un'ottima guida? Ma per chi? Era meglio sdraiarsi. Tirò via il telone dalla cassa, per usarlo come coperta. Il telone scivolò, irrigidito dal ghiaccio, e rivelò Zina Patiashvili dentro a un sacco di plastica trasparente. Trasparente, sì, ma coperto all'interno da un fregio meraviglioso di cristalli di brina, come un rivestimento di diamanti. Era bianca come la neve e i capelli erano incipriati di ghiaccio. Aveva un occhio aperto, come se volesse vedere chi era venuto a tenerle compagnia. Arkady si raggomitolò nell'angolo più lontano da Zina. Non credette che il volano stesse ruotando davvero fino a che la porta si socchiuse. Natasha Chaikovskaya riempiva il vano della porta, con gli occhi e la bocca spalancati per la sorpresa nel vedere i resti del fuoco, e Zina, e poi lui. Si precipitò nella stiva e sollevò Arkady, dapprima delicatamente per non lacerargli la pelle a contatto del ghiaccio, poi come un sollevatore di pesi che inizia l'esercizio a strappo. Arkady non era mai stato sollevato da una donna. Probabilmente Natasha non l'avrebbe interpretato come un complimento. «Ho acceso un fuoco» le disse. Evidentemente era servito davvero a qualcosa. Aveva fatto abbassare la temperatura del termostato e i monitor sensibilissimi avevano fatto squillare le suonerie. «Hai sentito l'allarme?» «No, no, non c'è stato nessun allarme. Stavo passando per caso quando ti ho sentito.» «Gridavo?» Arkady non ricordava. «Ridevi.» Natasha si spostò, lo afferrò più saldamente per portarlo fuori.
Era spaventata ma anche disgustata, come se avesse a che fare con un ubriaco. «Ridevi come un pazzo.» 14 Mentre Izrael Izraelovich massaggiava delicatamente le mani di Arkady e Natasha si occupava dei piedi, il paziente reagiva con gli spasmi causati dall'ipotermia. Il direttore del settore fattoria guardava con aria sprezzante e delusa gli occhi di Arkady, che erano di un rosso vivo a causa dei vapori di benzina. «Potevo aspettarmi che qualcun altro bevesse o fiutasse i vapori, ma non tu» disse Izrael. «Ti sta bene, se poi finisci in una stiva frigorifera e per poco non muori congelato.» Il guaio era che la sensibilità ritornava con l'impressione della pelle che brucia, i capillari che scoppiano e le ondate di tremiti. Per fortuna nessuno dei suoi compagni di cabina era presente quando Izrael e Natasha lo avevano adagiato sulla cuccetta di Gury, una delle due in basso. Sepolto fra le coperte quando il senso del tatto era una tortura, aveva l'impressione di essere immerso tra frammenti di vetro. Le squame di pesce luccicavano sul maglione e sulla barba del direttore del settore fattoria; era arrivato di corsa dal circuito sporco per dare una mano a trasportare Arkady nella cabina. «Dobbiamo chiudere sotto chiave la benzina, le vernici e i solventi come se fossero liquori esteri di lusso?» «Gli uomini sono deboli» gli rammentò Natasha. Izrael espresse la sua opinione: «Un russo è come una spugna: non si può conoscere la sua vera forma se non è zuppo. Credevo che Renko fosse diverso». Natasha soffiò l'alito caldo sui piedi nudi, poi li massaggiò delicatamente: per Arkady era come se gli infilasse aghi roventi sotto le unghie. «Forse dovremmo portarlo dal dottor Vaimi» propose. «No» riuscì a dire Arkady. Gli sembrava di avere le labbra di gomma: un altro effetto dei vapori. Izrael disse: «Ho lasciato che mollassi la catena perché dovevi fare una specie di indagine per conto del capitano, non perché ti mettessi a dare i numeri». «Zina era nella stiva» disse Natasha a Izrael. «E dove dovremmo tenerla? Hai detto che lui aveva acceso un fuoco?» Izrael aveva l'aria preoccupata. «Ha scongelato qualche pesce?»
«Non ha scongelato neppure se stesso.» Natasha si occupò di un dito che era rimasto blu. «Se ha danneggiato i pesci...» Natasha disse: «I tuoi pesci possono andare a farsi fottere, scusa». «Io dico solo che se hai voglia di suicidarti non devi farlo nella mia stiva del pescato» disse Izrael ad Arkady, e gli massaggiò con energia l'altra mano. Natasha fu colpita da un'idea che le scavò un solco sulla fronte, come nella neve vergine. «Ha a che fare con Zina?» «No» mentì Arkady. Andate via, avrebbe voluto dire; ma non riusciva a balbettare più di una parola alla volta perché gli battevano i denti. «Cercavi qualcosa? Qualcuno?» chiese Natasha. «No.» Come poteva spiegarle che c'era un tenente ma forse non esisteva? Doveva smettere di tremare e far riposare un po' le terminazioni nervose traumatizzate. Allora avrebbe potuto ricominciare a fare domande. «Forse dovrei chiamare il comandante» disse Izrael. «No.» Arkady fece per alzarsi. «D'accordo, d'accordo, sembra che sia l'unica parola che ricordi» disse Izrael. «Ma se era un'aggressione, non mi sorprende. Non condivido il loro atteggiamento, ma posso assicurarti che l'equipaggio non è per niente soddisfatto di sentir circolare la voce che non si potrà scendere a Dutch Harbor per causa tua. Perché credi che si siano imbarcati su questo puzzolente barile di merda? Per il pesce? Vuoi mettere in pericolo tutti i loro mesi di lavoro per scoprire cosa è successo a Zina? La nave è piena di donne sceme. Perché te la prendi tanto?» Quando i tremiti si placarono, Arkady si rintanò in uno stato comatoso. Vedeva che gli avevano tolto gli indumenti gelati e gliene avevano messi di asciutti. Dovevano essere stati Izrael e Natasha... un atto erotico quanto vestire un pesce. Si vedeva sul nastro trasportatore, diretto verso la sega. Obidin e Kolya entrarono nella cabina, cercarono qualcosa e se ne andarono senza badare ad Arkady e al fatto che era sdraiato in una cuccetta non sua. A bordo d'una nave era buona educazione lasciare in pace chi dormiva. Quando si riprese, Natasha era seduta sulla cuccetta di fronte. Appena si accorse che era sveglio, gli disse: «Izrael Izraelovich si è chiesto perché t'importa tanto di Zina. La conoscevi?». Arkady si sentiva ridicolmente debole, come se l'avessero massacrato di botte e poi lasciato esposto troppo a lungo al sole mentre sonnecchiava.
Adesso, almeno, poteva parlare, in un torrente di parole fra un tremito e l'altro. «Sai che non la conoscevo.» «Credevo di sapere che non la conoscevi, ma mi sono domandata perché ti sta tanto a cuore.» Natasha lo guardò, poi distolse lo sguardo. «Immagino che sia utile prendersela a cuore, da un punto di vista professionale.» «Sì, è un trucco professionale, appunto. Natasha, che cosa fai qui?» «Ho pensato che potrebbero tornare.» «Chi?» Natasha incrociò le braccia come per fargli capire che non aveva voglia di scherzare. «Hai gli occhi rossi.» «Grazie.» «Tutti gli investigatori sono così?» Arkady ruttava nel sonno e tutta la cabina aveva preso l'odore di un garage invaso dai vapori di benzina. Quando Natasha aprì l'oblò per cambiare l'aria, dall'esterno giunse un canto lugubre: Dove siete, lupi, antiche bestie selvatiche? Dove siete, miei compagni dagli occhi gialli? Un'altra canzone della malavita, un'altra canzone sui lupi interpretata nel modo più sentimentale da un pescatore testardo. O magari da un meccanico con la tuta bisunta o addirittura da un ufficiale puritano come Slava Bukovsky perché in privato tutti cantavano le canzoni della mala. Ma cantavano soprattutto gli operai. Strimpellavano sulle chitarre, sempre accordate nel modo più primitivo. Sono circondato dai cani, nostri deboli parenti, Una volta li consideravamo nostre prede. Gli occidentali vedevano i russi come orsi torpidi. Gli uomini russi si vedevano come lupi agili e feroci e irrefrenabili. Era un'altra delle canzoni di Vysotsky. Per i suoi compaesani, gran parte del fascino di Vysotsky stava nei suoi vizi, nel fatto che beveva e guidava come un pazzo. Correva voce che aveva avuto un "siluro" impiantato nel deretano. Un "siluro" era una capsula di Antabuse che lo faceva star male quando ingeriva alcol. Eppure beveva lo stesso!
Io sorrido ai nemici con il mio ghigno di lupo, Snudo i mozziconi marci dei denti, E la neve macchiata di sangue si scioglie Sul cartello: "Non siamo più lupi!". Mentre Natasha richiudeva l'oblò, Arkady si svegliò completamente. «Riaprilo» disse. «Fa freddo.» «Riaprilo.» Troppo tardi. La canzone era finita. Attraverso l'oblò aperto poteva sentire soltanto il sospiro pesante dell'acqua che passava sotto di loro. La voce era la stessa che cantava nella registrazione di Zina. Forse, se avesse cantato ancora, Arkady l'avrebbe riconosciuta. Ma ricominciò a tremare, e Natasha chiuse con forza l'oblò. Quando la porta della cabina si aprì, Arkady si svegliò e si sollevò di scatto a sedere con il coltello in mano. Natasha accese la luce e lo squadrò, preoccupata. «Chi stavi aspettando?» «Nessuno.» «Bene, perché nelle tue condizioni non faresti paura neppure a un ghiro.» Natasha gli staccò le dita dal manico del coltello. «E poi, non hai bisogno di batterti. Hai l'intelligenza e così puoi vincere tutti gli altri.» «L'intelligenza non servirà a portarmi lontano dalla nave.» «L'intelligenza è una cosa meravigliosa.» Natasha posò il coltello. «Vorrei che fosse un biglietto. Per quanto ho dormito?» «Un'ora o due. Parlami di Zina.» Lei gli asciugò la fronte sudata e lo fece riadagiare sul cuscino. Arkady aveva ancora la mano inceppata per lo sforzo di stringere il coltello e Natasha cominciò a massaggiargli le dita. «Anche quando hai torto, mi piace sentire come ragioni.» «Davvero?» «È come ascoltare qualcuno che suona il piano. Perché si era imbarcata sulla Stella Polare... per contrabbandare le pietre?» «No, erano troppo scadenti. Natasha, voglio il coltello.» «Ma per lei sola le pietre potevano bastare.» «Un criminale sovietico lavora raramente da solo. Non trovi mai un delinquente sovietico solo sul banco degli imputati. Sono sempre dieci o venti.» «Se non è stato un incidente, e non voglio dire che non lo sia stato, forse
è stato un delitto passionale.» «Troppo ben congegnato. Il fatto che il sangue fosse stagnato in quel modo dimostra che doveva essere stata nascosta per almeno mezza giornata prima che la gettassero in acqua. Quindi hanno dovuto spostarla, prima per metterla da qualche parte e poi per buttarla fuori bordo. In quei giorni si pescava parecchio e c'era sempre gente sul ponte.» Arkady s'interruppe per riprendere fiato. Non era facile distinguere un massaggio terapeutico da una tortura. «Continua» disse Natasha. «Zina fraternizzava con gli americani, e questo poteva farlo solo con il permesso di Volovoi. Gli faceva da informatrice. In cambusa non la rimproveravano perché avevano ordine di lasciarla girare quanto voleva, e probabilmente teneva buona Olimpiada passandole cioccolata e brandy. Ma perché Zina andava sempre sul ponte di poppa quando l'Eagle consegnava il pescato? E solo quando era l'Eagle, non un altro battello? Per salutare a cenni un uomo con cui poteva ballare una sera ogni due o tre mesi? Il complesso di Slava è così straordinario? Forse la domanda deve essere posta in un altro modo? Cosa cercavano gli americani, quando consegnavano il pescato?» Arkady non accennò alla possibilità che ci fosse una stazione dei servizi segreti a bordo della Stella Polare. Nella registrazione, il tenente aveva invitato Zina a entrare in quella stazione mentre stavano caricando il pesce a bordo. La stazione funzionava solo fra un trasferimento del pescato e l'altro? Era una questione di reti... oppure riguardava gli americani? «Comunque» disse, «gli americani, i vari amanti, Volovoi... erano parecchi, quelli che si servivano di Zina, o forse era Zina a servirsi di loro. Non è necessario che siamo due genii. Ci basta avere un'idea della situazione.» Ricordava la voce registrata di Zina: «Uno crede di dirmi cosa devo fare. Il secondo crede di dirmi cosa devo fare». Arkady li contò mentalmente. Quattro uomini che contavano, e di uno di loro Zina sapeva che era capace di uccidere. «A chi ti riferisci?» chiese Natasha. «Un ufficiale, tanto per cominciare. Potrebbe essere compromesso.» «Quale?» Natasha era allarmata. Arkady scosse la testa. Aveva le mani d'un rosa acceso, come se le avesse appena tolte dall'acqua bollente. E gli davano appunto la stessa sensazione.
«Tu che cosa pensi?» le chiese. «Non sono d'accordo sul primo ufficiale Volovoi. In quanto agli americani, devono rispondere per sé. Per Olimpiada e la cioccolata, forse hai ragione.» Quando Arkady si svegliò di nuovo, Natasha era tornata con un gigantesco samovar, un'urna argentata con un rubinetto al posto del naso e le guance splendenti d'un caldo bonario. Mentre bevevano il tè nei bicchieri fumanti, Natasha afferrò una pagnotta rotonda. «Mia madre era camionista. Ricordi come costruivano i camion allora, quando le fabbriche rispettavano il piano secondo il peso lordo? I nostri camion pesavano il doppio dei più pesanti prodotti in ogni altra parte del mondo. Dovresti provare a guidarne uno sulla neve. «Il percorso attraversava un lago ghiacciato. Mia madre era una lavoratrice d'assalto, ed era sempre sul primo camion. Era molto benvoluta. Aveva un album di fotografie, e mi faceva vedere quella di mio padre. Anche lui era camionista. Forse non ci crederai, ma aveva un'aria da intellettuale. Leggeva tutto, era capace di discutere con chiunque. Mia madre diceva che era troppo romantico e che quello era il suo problema: era sempre nelle grane con i superiori. Dovevano sposarsi. Ma in primavera, con il disgelo, il camion di mio padre sprofondò sotto il ghiaccio. «Io sono cresciuta fra le dighe. Le ho sempre amate. Non c'è sulla terra niente di più bello e di più benefico per l'umanità. Gli altri studenti pensavano agli istituti speciali; ma io lasciai la scuola appena potei per arrampicarmi su un'impalcatura con una betoniera. Una donna può preparare il cemento né più né meno come un uomo. Il momento più emozionante è quando lavori di notte, sotto le luci alimentate dall'ultima diga che hai contribuito a costruire. Allora capisci di essere qualcuno. Ma molti uomini sono vagabondi perché guadagnano tanto. È il loro dilemma. Guadagnano tanti quattrini che finiscono per berseli o per spenderli in vacanze sul Mar Nero, oppure con le ragazze come Zina. Non si fanno una famiglia. E non è colpa loro. Sono i direttori dei cantieri che non hanno ritegno, offrono qualunque cosa pur di finire prima il loro progetto. Naturalmente gli uomini dicono: "Perché restare in un posto quando puoi venderti in qualche altro posto e incassare di più?". Ecco cos'è oggi la Siberia.» La rete salì la rampa di poppa, entrò nel cerchio di luce delle lampade al sodio, si sollevò sostenuta dai cavi del boma e dondolò come se fosse viva mentre l'acqua marina grondava dalle striscioline di plastica e scorreva sul-
la tolda in minuscole onde. Quaranta o cinquanta tonnellate di pescato, forse di più! La quota di metà notte in un'unica retata. I granchi danzavano sugli impiantiti di legno. I cavi tesi gemevano per il peso mentre il capopesca faceva lampeggiare il coltello e squarciava il ventre della rete da un'estremità all'altra. La rete parve spaccarsi e inondare il ponte fino al parapetto e alla scaletta del ponte delle scialuppe di una massa viva e fremente di anguille glutinose, azzurrognole nella luce... Arkady si svegliò con un sussulto, buttò via le coperte, infilò gli stivali, trovò il coltello e si lanciò contro la porta per uscire dalla cabina. Non era soltanto claustrofobia, ma la sensazione di essere sepolto vivo. Alzarsi dal letto non serviva a molto, se continuava a restare sotto quei ponti d'acciaio. Fuori, le luci erano soffocate da una nebbia notturna che non era peggio del fumo di un incendio. Aveva dormito tutto il pomeriggio. Era passato appena un giorno e mezzo da quando era stato presentato al cadavere di Zina Patiashvili, e si sentiva un cadavere anche lui. E in meno di dodici ore avrebbe dovuto scoprire qualcosa di sensazionale che risolvesse con soddisfazione di tutti il mistero della morte di Zina e permettesse all'equipaggio di scendere a terra. Inciampò contro il parapetto e si allontanò dal ponte di pesca in direzione della prua. I pescherecci erano spariti e non c'erano né le stelle né altre luci a guidare lo sguardo lontano dal chiarore fioco delle lampade della Stella Polare. Il ponte era deserto, e questo indicava che era ora di cena; tutti avevano adottato un orario unico, adesso che la nave-fattoria aveva smesso di pescare e si stava dirigendo verso il porto. Si agganciò con un braccio al parapetto per sostenersi. Il suo non sarebbe stato il solito, veloce giro del ponte. Sarebbe stata una passeggiata con tutto il tempo per pensare all'annegamento, alla paura che si avviluppava intorno al suo cuore come un sudario bagnato. Adottò l'officina come punto di riferimento. La sala comando era una meta lontana che si dissolveva nella nebbia. «L'amante della poesia.» Arkady si girò verso la voce di Susan. Non l'aveva sentita avvicinarsi. «Si concede una pausa di riposo?» chiese lei. «Mi piace l'aria marina.» «Si vede.» Susan si appoggiò al parapetto accanto a lui, ributtò all'indietro il cappuccio e accese una sigaretta, poi gli accostò agli occhi il fiammifero. «Cristo!» «Sono ancora rossi?» «Cosa le è successo?»
Arkady aveva i muscoli pieni di crampi; passavano dall'intorpidimento al bruciore e di nuovo all'intorpidimento. Si aggrappò al parapetto fingendo disinvoltura. Se ne sarebbe andato se avesse avuto la certezza che le gambe gli avrebbero permesso un'uscita dignitosa. «Stavo solo cercando di Vedere in Modi Nuovi. È uno sforzo.» «Oh, capisco» disse Susan guardandosi intorno. «Questa è la scena dell'incidente: ecco perché è qui. È sempre un incidente, vero?» «Un incidente inspiegato» ammise Arkady. «Sono sicura che troverà la spiegazione giusta. Non l'avrebbero scelto se non sapessero che ci riuscirà.» «Grazie per la fiducia.» Arkady sentì che le ginocchia gli si piegavano. Se lei lo disprezzava tanto, perché non se ne andava? «Mi domandavo...» disse Susan. «Adesso è lei che si domanda qualcosa?» «Be', ha interrogato i pescatori dei nostri battelli. Non avevano lasciato tutti la Stella Polare prima che capitasse qualcosa a Zina?» «Sembra di sì.» Ci tiene a saperlo, pensò Arkady. «Fa quasi sul serio, no? Ho sentito dire che Slava va in giro a cercare la lettera d'addio della suicida, ma lei insiste come se tenesse davvero a scoprire cos'è successo. Perché?» «È un mistero per tutti noi.» Anche se aveva in bocca lo stesso sapore d'un serbatoio di benzina, Arkady sentiva la necessità di fumare. Si frugò nelle tasche. «Ecco.» Susan gli mise la sua sigaretta fra le labbra e si scostò dal parapetto. In un primo momento Arkady pensò che quella reazione fosse ispirata da lui; poi vide che l'Eagle era uscita dalla nebbia e si era affiancata. Quando il peschereccio si accostò, distinse nella cabina di comando semibuia la figura di George Morgan. Nella luce del ponte, due pescatori in tute d'incerata legavano reti strappate e rifiuti da gettare in mare. Arkady riconobbe la faccia torva di Coletti e il sorriso aperto di Mike. L'immagine dell'aleutino era la stessa delle fotografie di Zina: innocente, senza ombre. Il ponte intorno agli uomini era bagnato e cosparso di platesse e granchi e sebbene il peschereccio beccheggiasse più della Stella Polare, gli americani sembravano radicati nelle loro pose, un po' inclinati in avanti e con le ginocchia rigide. Fra le due navi c'era un turbine di uccelli marini che si erano materializzati secondo l'abitudine. Erano un centinaio, librati sulle ali protese: sterne dal cappuccio nero e dalla coda biforcuta, procellarie dalla maschera e gabbiani candidi come il latte che altalenavano nel cielo.
Sembrava che qualcuno avesse gettato dalla nave un cesto di pezzi di carta, e che quei fogli avessero preso il volo e la seguissero. Il minimo tuffo d'uno degli uccelli causava ondate e fremiti di assestamento, e l'intero stormo vibrava e strideva. Mike agitò di nuovo la mano, e Arkady impiegò un attimo per accorgersi che un'altra persona aveva raggiunto lui e Susan al parapetto. Natasha gli parlò all'orecchio. «Ho trovato qualcuno che vuole parlarti. Sono andata nella tua cabina e non c'eri. Perché ti sei alzato?» Mentre stava descrivendo i benefici dell'aria pura, Arkady cominciò a tossire e un brivido lo fece piegare in due. Gli sembrava d'essere pieno di frammenti gelati che, quando si scioglievano, diffondevano correnti di freddo debilitante. Natasha tenne d'occhio Susan e continuò a parlare come se stessero prendendo il tè. «Adesso devo tenere la conferenza. Poi andremo dalla mia amica.» «La conferenza?» Susan si sforzava chiaramente di non sorridere. «Sono la rappresentante della Società Pansovietica del Sapere.» «Come ho potuto dimenticarlo?» esclamò Susan. Sarebbe stato meno crudele da parte sua ridere apertamente, perché Natasha aveva la vaga sensazione d'essere presa in giro, come una donna con la sottoveste che pende dietro al vestito si rende conto vagamente di essere oggetto dell'ilarità altrui, ma senza capire il perché. In uno scatto nervoso tolse la sigaretta dalle labbra di Arkady. «Nelle tue condizioni, è l'ultima cosa di cui hai bisogno.» Si rivolse a Susan. «È l'abitudine più disgustosa degli uomini sovietici. Fumare è contro natura.» Lanciò la sigaretta agli uccelli. Un gabbiano piegò le ali, l'afferrò al volo poi la lasciò cadere. Una procellaria avanzò planando, catturò la sigaretta che cadeva, ne mangiò metà e sputò il resto. Il filtro finì sull'acqua, e una sterna lo studiò incuriosita. «Devono essere uccelli russi» commentò Susan. Un'idea colpì Arkady mentre tossiva. Susan indossava una giacca da pescatore, e anche Natasha portava una giacca da pescatore: era la sola cosa che le due donne avevano in comune. Dov'era la giacca di Zina? Non ci aveva pensato prima perché nessuno indossava una giacca da pescatore a un ballo; e durante gli intervalli, quando la gente andava sul ponte riusciva a resistere per qualche minuto nell'aria sub-artica. Le donne sovietiche in particolare non mettevano la giacca, se poteva intralciare un abbraccio. Le loro figure solide racchiudevano anime così romantiche che la minima
brezza bastava a farle volare come colombe lontano da ogni prudenza. Mentre Arkady finiva di tossire e si raddrizzava, Susan accese un'altra sigaretta e la tenne per sé. «Renko, lei è l'investigatore o la vittima?» «Sa quello che fa» disse Natasha. «Per questo sembra il pranzo d'uno squalo?» «Ha un sistema.» Quale? si chiese Arkady. La voce di Morgan uscì dalla radio che Susan teneva in tasca. «Domanda a Renko cos'è successo a Zina. Tutti noi vogliamo saperlo.» Sul ponte dell'Eagle, Mike agitò di nuovo le braccia e fece cenno a Natasha, come se l'invitasse a scendere per visitare il peschereccio. Lei arrossì, ma alzò le spalle per far capire che la fraternizzazione era per lei qualcosa che apparteneva al passato. «Dobbiamo andare alla conferenza» disse in tono deciso. «Vogliono sapere cos'è successo a Zina» disse Susan. Arkady, poco sicuro che le gambe lo reggessero, le collaudò con qualche passo strascicato. «Cosa vuole che gli dica?» chiese Susan. «Gli dica...» Arkady s'interruppe. «Gli dica che continuano a saperne più di me.» 15 L'esaltante conferenza sull'ateismo scientifico tenuta nella mensa da Natasha Chaikovskaya, membro corrispondente della Società Pansovietica del Sapere, aveva un pubblico piuttosto numeroso, formato dal personale fuori servizio perché Volovoi stava in fondo e sorvegliava non solo le presenze ma anche l'entusiasmo del pubblico. Skiba e Slezko erano nell'ultima fila di banchi e fornivano all'Invalido quattro occhi in più. Il giorno prima di una sosta in un porto era sempre il più ansioso, perché i permessi potevano essere annullati per molte, diverse ragioni: perché non c'era tempo, perché il cambio del denaro non era stato completato, perché il clima politico non era propizio. Tutti pensavano a Dutch Harbor. Non solo sarebbe stata la prima volta che scendevano a terra in più di quattro mesi; ma era il vero scopo del viaggio, quelle benedette ore da passare in un negozio americano con le tasche piene di valuta straniera. Se un uomo voleva prendere il pesce e una
donna voleva pulirlo, poteva imbarcarsi su un peschereccio costiero, invece di passare la metà di un anno nel Mare di Bering. Le donne indossavano camicette a fiorami appena lavate, e avevano i capelli irti di bigodini. Fra gli uomini si notava una divisione più netta. La nave aveva aumentato la velocità per la corsa verso le Aleutine e aveva acceso gli scaldabagni per le docce, e quindi metà degli uomini erano tutti puliti e tirati a lucido e indossavano camicie di jersey. Gli altri, scettici, avevano ancora uno strato di barba e di sudiciume. «La religione» disse Natasha, leggendo da un opuscolo, «insegna che il lavoro non è contributo dato liberamente allo Stato, bensì un obbligo imposto da Dio. Un cittadino che abbraccia questa convinzione non economizza certo sui materiali.» Obidin, che era nella fila centrale, intervenne: «Dio ha economizzato quando ha creato il cielo e la terra? Quando ha creato l'elefante? Forse Dio non ci tiene a economizzare sui materiali». «I materiali dello Stato?» chiese indignata Natasha. «Perché stai cercando di metterle in testa idee sovversive?» Volovoi s'era avvicinato furtivamente ad Arkady. «È una semplice operaia. Perché coinvolgerla nel tuo sporco lavoro?» Natasha aveva trascinato Arkady alla conferenza. Lui, comunque, non sarebbe stato in grado di opporsi. Era in piedi perché aveva paura che se si fosse seduto non avrebbe avuto la forza di rialzarsi. Teneva le braccia conserte per dominare i tremiti. Qualcuno gridò a Obidin: «Stai zitto! Ascolta e impara!». «Due giorni fa, metà della nave non sapeva neppure chi fossi» continuò Volovoi. «Adesso sei l'uomo più odiato a bordo. Hai fatto troppo il furbo. Prima hai detto che Zina Patiashvili è stata assassinata. Adesso non puoi lasciare che tutti costoro, i tuoi compagni di lavoro, scendano a terra nel porto se non dici che non è stata affatto assassinata.» «Qualcuno sta spargendo la voce che la responsabilità è mia» disse Arkady. «È una voce sparsa da mille lingue» commentò Volovoi. Diede un'occhiata all'orologio. «Be', hai undici ore prima della grande decisione: Dutch Harbor si o no? Ammetterai il tuo errore o ti riterrai superiore a tutta la nave? Qualcuno potrebbe dire che arriverai a un compromesso. Non ti conosco molto bene ma conosco i tipi come te. Credo che terrai l'intero equipaggio all'ancora davanti a Dutch Harbor, senza lasciare che uno solo scenda a terra, piuttosto di confessare che hai avuto torto.»
«La scienza ha dimostrato» stava dicendo Natasha, «che la fiamma di una candela, in chiesa, produce un effetto ipnotico. In confronto, la scienza è l'elettrificazione della mente.» «Dopotutto» continuò Volovoi, «che cos'hai da perdere? Non hai la tessera del partito, non hai famiglia.» «Lei ha famiglia?» Arkady era incuriosito. Gli sembrava di vedere l'appartamento dell'Invalido in un grattacielo di Vladivostok: una moglie apatica, una nidiata di piccoli Volovoi con i fazzoletti rossi dei Pionieri, raccolti intorno a un televisore acceso. «Mia moglie è seconda segretaria del soviet cittadino.» Quindi non doveva essere tanto apatica, pensò Arkady. Era una compagna adatta a Volovoi, il martello e l'incudine su cui sarebbe stata forgiata la prossima generazione di comunisti. «E un figlio» soggiunse Volovoi. «Abbiamo un interesse nel futuro. Tu no. Tu sei la mela marcia, e non voglio che contamini la compagna Chaikovskaya.» Natasha passò dall'elettrificazione della mente all'evoluzione della carne, dall'Homo erectus all'Uomo socialista. Teneva quel corso di ripasso sull'ateismo perché a Dutch Harbor c'era la vecchia chiesa ortodossa, e bisognava contrapporre la scienza ai fantasmi. «Cosa le fa pensare che possa corromperla?» «Hai la parlantina sciolta» disse Volovoi. «Avevi un padre importante, a Mosca hai studiato nelle scuole speciali, hai avuto tutto quello che il resto di noi non aveva. Puoi riuscire a impressionarla, e a impressionare anche il comandante, ma io so che cosa sei. Sei antisovietico. Lo sento all'odore.» «Non c'è nessuna differenza» stava dicendo Natasha, «tra la fede in un'"intelligenza suprema" e l'interesse oggi di moda per gli alieni venuti da altre galassie.» Qualcuno protestò. «Statisticamente devono esistere esseri viventi nelle altre galassie.» «Però non vengono a visitarci» obiettò Natasha. «Come possiamo saperlo?» Era Kolya... chi altri? «Se hanno realizzato il volo intergalattico, senza dubbio sono anche in grado di camuffarsi.» Non c'era nessuno che irritasse Natasha quanto Kolya. Non aveva importanza che lavorassero fianco a fianco. Persino il fatto che era accorsa in suo aiuto quando si era tagliato il dito con la sega l'aveva fatta diventare ancora più ostile invece che amica. «Perché dovrebbero venire a visitarci?» chiese Natasha.
«Per vedere il socialismo scientifico in azione» disse Kolya, attirandosi numerosi mormorii di approvazione degli ascoltatori anche se, per Arkady, l'idea equivaleva a fare il giro del mondo per vedere un formicaio. «Noto che tu non sei ancora venuto a far visita a me» disse Volovoi. «Non ti sei curato d'informarmi dei tuoi progressi.» «Credo che sia già informato a sufficienza» disse Arkady pensando a Slava. «Comunque, io chiederei di vedere il suo dossier su Zina Patiashvili, e lei non me lo mostrerebbe.» «Appunto.» «Però posso indovinare che cosa dice: "Lavoratrice fidata, politicamente matura, spirito di cooperazione". Non faceva il suo lavoro, era una sgualdrinella che andava a letto con tutti, e lei doveva saperlo molto bene; il che significa che Zina era un'informatrice... non come Skiba o Slezko, ma lo era. Oppure andavate a letto insieme.» «Hai letto la Bibbia?» chiese Obidin. «Non è necessario leggere la Bibbia. È come dire che bisogna avere una malattia per essere dottore» disse Natasha. «Conosco la struttura della Bibbia, i libri, gli autori.» «I miracoli?» chiese Obidin. «Vergogna! Vergogna!» Gli ascoltatori intorno a Obidin insorsero. «L'esperta è lei! Non esistono i miracoli!» Obidin gridò: «Una donna muore assassinata, finisce in fondo al mare e ritorna alla nave dov'è stata uccisa, e voi dite che i miracoli non esistono!». Altri si alzarono infuriati e agitarono i pugni. «Bugiardo! Fanatico! Ecco i discorsi che ci impediscono di andare a Dutch Harbor!» Slezko si alzò e additò Arkady; era come guardare la canna del fucile d'un cecchino. «Ecco il provocatore che ci impedisce di scendere a Dutch Harbor!» «I miracoli esistono!» gridò Obidin. «Sarà un miracolo se sbarcherai vivo da questa nave» disse Volovoi ad Arkady. «Lo spero proprio. Non vedo l'ora che torni a Vladivostok e che scenda dalla scaletta fra le braccia della Guardia Confinaria.» Lidia Taratuta versò ad Arkady un bicchiere di vino corretto. Una bufetchitsa, responsabile della mensa ufficiali, aveva diritto a una cabina a due cuccette; ma sembrava che ne avesse una tutta per sé. Il suo colore preferito era senza dubbio il rosso. Un tappeto orientale marrone a motivi molto intricati era fissato alla paratia come un'enorme farfalla. C'erano candele
rosse nelle bugie d'ottone. Accanto alla cuccetta c'era un paio di stivali di feltro rosso. Nella cabina l'atmosfera era quella di un'attrice diventata un po' troppo voluttuosa con l'età. C'era una maturità un po' eccessiva nei capelli tinti e nelle labbra di Lidia. Un pendente d'ambra scendeva nel tepore di una camicetta semisbottonata. La camicetta esprimeva sventatezza e generosità, come se si fosse sbottonata da sé. Nella flotta da pesca sovietica, un comandante non aveva diritto di scelta: prendeva la nave, gli ufficiali e l'equipaggio che gli assegnavano. Ma c'era un'eccezione: la sua bufetchitsa. Marchuk aveva ben sfruttato quel privilegio. «Vuoi sapere con quali ufficiali andava a letto Zina? Pensi che fosse una sgualdrina? Come puoi giudicare? È un bene che lavori con Natasha perché mi rendo conto che non capisci le donne. Forse a Mosca avevi a che fare solo con le puttane: io non so come sia Mosca. Ci sono andata una volta sola come rappresentante del sindacato. D'altra parte, tu non sai com'è la vita a bordo di una nave. Quindi che cos'è peggio, il fatto che non capisci le donne o che non conosci la Stella Polare? Bene, forse non vorrai più mettere piede su un'altra nave. Ancora un po' di vino?» Dato che Natasha era piazzata davanti alla porta, nel caso che Arkady tentasse di scappare, lui accettò il bicchiere. Era il primo ad ammettere che non capiva le donne. E non sapeva assolutamente perché Natasha l'avesse condotto lì. «Non può lasciare la nave» disse Natasha. «È un investigatore, però è nei pasticci.» «Un uomo con un passato?» chiese Lidia. «Una fase d'inaffidabilità politica» disse Arkady. «Sembra un raffreddore di testa più che un passato. Gli uomini non hanno passato. Vanno da un posto all'altro come le foglie. Le donne hanno un passato. Io ho un passato.» Gli occhi di Lidia puntavano sulla foto in cornice di due bambine sedute come una coppia di cacatoa su una sedia, tutte e due vestite di bianco, tutte e due con fiocchi bianchi nei capelli. «Quello è un passato.» «Dov'è il padre?» chiese Arkady per educazione. «Che domanda. Non l'ho più visto da quando mi buttò giù dalle scale a calci, incinta di sei mesi. E adesso ho due figlie nell'asilo diurno di Magadan. Ci sono una bambinaia e un'assistente per trenta bambini. La bambinaia è vecchia e tisica, l'assistente è una ladra. Ecco chi alleva i miei angioletti. Le bambine hanno la tosse tutto l'inverno. Be', quelle donne prendono novanta rubli al mese, e sono costrette a rubare; così mando qualcosa tutte
le volte che sono in porto per essere sicura che le mie bambine non muoiano di fame o di polmonite prima che possa rivederle. Grazie a Dio posso andare per mare e guadagnare per loro, ma se mai mi capitasse di rivedere il loro padre gli taglierei l'arnese e lo userei come esca per i pesci. E che lui si tuffasse pure per riprenderlo, giusto, Natasha?» Una risatina salì alle labbra della Chaika, che poi tornò a fissare Arkady con aria seria. «Stai attenta: lui legge nel pensiero.» «Credetemi» disse Arkady, «non mi è mai capitato di capire una situazione meno di così.» Lidia si assestò il vestito. «Be', che cosa sai dei tuoi compagni d'equipaggio? Per esempio, cosa sai di Dynka?» Arkady si sentì colto alla sprovvista per la seconda volta. «Una ragazza simpati...» cominciò. «Sposata a quattordici anni con un alcolizzato» disse Lidia. «Un taxista. Ma se il suo Mahmet entra in una clinica per disintossicarsi, perde la licenza per cinque anni, e così lei deve procurargli l'Antabuse al mercato nero. Non poteva guadagnare tanto nel Kazakistan, e così deve lavorare qui. La vecchia nella cabina di Natasha, Elizavyeta Fedorovna Malzeva, se ne sta seduta a cucire tutto il giorno. Il marito era commissario di bordo nella flotta del Mar Nero, fino a che una passeggera l'accusò di stupro. È in un campo di lavoro da quindici anni. Lei tira avanti con una dose quotidiana di Valeryanka. Osservala a Dutch Harbor: cercherà di procurarsi un po' di Valium. Stessa storia. Così, compagno, sei circondato dalla fragilità, da donne con un passato, da sgualdrine.» «Non ho mai detto questo.» Per la verità, era stata Natasha la prima che aveva dato della sgualdrina a Zina, anche se probabilmente non sarebbe servito a nulla appellarsi alla coerenza. Comunque, non lottava più contro la situazione. Aveva sempre sospettato che, mentre gli uomini sono i poliziotti migliori, le donne sono i più abili investigatori. O almeno sarebbero un tipo diverso d'investigatori, perché raccolgono indizi diversi in modo diverso, e cercano tutt'intorno e a ritroso, in confronto al metodo degli uomini, che tirano dritto lungo un percorso prestabilito. «A lui interessano soprattutto gli americani» disse Natasha. «Abbiamo lasciato Susan che sogghignava sul ponte.» «Sta male?» chiese Lidia. Arkady era così abituato a tremare che non se ne accorgeva più. Natasha disse: «Non si riguarda. Va dove non dovrebbe e fa domande che dovrebbe evitare. Vuole scoprire chissà cosa su Zina e gli ufficiali».
«Quali ufficiali?» chiese Lidia. Arkady disse, in tono difensivo: «Ho semplicemente accennato a Natasha la questione degli ufficiali che vanno a letto con i membri dell'equipaggio». «Già» Lidia gli riempì di nuovo il bicchiere. «A bordo viviamo insieme per sei mesi consecutivi. Passiamo più tempo qui che con le famiglie. Naturalmente si stringono legami perché siamo umani. Siamo normali. Ma se cominci a scrivere queste cose nel tuo rapporto, puoi rovinare molta gente. Quando un nome finisce su un rapporto, non viene più cancellato. Visto da un estraneo, può fare un brutto effetto. Un'indagine su Zina diventa di colpo un'inchiesta su tutta la nave, sui dongiovanni e sulle sgualdrine. Capisci cosa intendo?» «Comincio a capire» disse Arkady. «Proprio vero» Natasha annuì. «È al tuo nome che ti riferisci» disse Arkady. «Tutti sanno cosa fa la bufetchitsa» disse Lidia. «Dirigo la mensa ufficiali, pulisco la cabina del comandante e lo faccio contento. È una tradizione, e lo sapevo il giorno che ho fatto domanda d'assunzione. Il ministero della Pesca lo sa. Sua moglie lo sa. Se non mi occupassi di lui a bordo, la violenterebbe sulla porta, quindi lo sa. Altri ufficiali hanno altre soluzioni. Vedi, questo ci rende umani, ma non criminali. Se accenni a questo nel tuo rapporto, costringerai il ministero e tutte le mogli che stanno a terra e che preferiscono baciare le fotografie dei mariti piuttosto d'imbarcarsi sulla Stella Polare... li costringerai a chiedere le nostre teste.» Lidia bevve un sorso di vino con ostentata signorilità. «Zina era diversa. Non era una puttana, ecco: ma per lei andare a letto con un uomo non significava niente. Non era capace d'affetto. Non credo che sia mai andata a letto più di una volta con qualcuno. Era fatta così. Naturalmente, quando mi sono accorta di quello che succedeva, sono intervenuta per togliere di mezzo la tentazione.» «Per esempio?» chiese Arkady. «Zina lavorava alla mensa ufficiali. L'ho trasferita a quella dell'equipaggio.» «Mi sembra che questo sia servito a diffondere la tentazione, non a eliminarla.» «Comunque» disse Lidia, «si era lasciata ossessionare dagli americani, quindi non c'è neppure bisogno di nominare i nostri bravi uomini sovietici.»
Arkady chiese: «Era ossessionata dagli americani in generale oppure da uno di loro in particolare?». «Vedi com'è acuto?» disse Natasha in tono d'orgoglio. Lidia rispose evasivamente. «Con Zina, chi poteva dirlo?» Arkady si batté le dita sulla testa come per stimolare le idee. Aveva ricevuto il messaggio che Lidia aveva comunicato, non fare i nomi degli ufficiali della nave nel suo rapporto... ma non capiva perché si fosse comportata così. «Sta pensando» spiegò Natasha. Sembrava che gli fosse riuscito di mettere in moto un nuovo mal di testa. «Eri andata al ballo?» «No» rispose Lidia. «Quella sera dovevo preparare un buffet nel quadrato ufficiali per gli americani. Salsicce, sottaceti, tante specialità che non hanno sulle loro barche. Eravamo troppo occupati per ballare.» «Eravamo?» «Io, il comandante Marchuk, il comandante Morgan e il comandante Thorwald. I membri degli equipaggi americani sono andati a ballare, ma i comandanti studiavano le carte, e io servivo e pulivo.» «Per tutta la serata?» «Sì. No, mi sono presa un momento di libertà per fumare una sigaretta sul ponte.» Arkady ricordò che alle undici e un quarto Skiba l'aveva vista avviarsi verso prua. «Qualcuno ti ha vista?» Lidia esitò, batté le palpebre e fece un sospiro profondo. «Non significa niente, ne sono sicura. Ho visto Susan al parapetto di poppa.» «Com'era vestita?» La domanda colse Lidia di sorpresa. «Ecco, portava una camicetta bianca e i jeans, mi pare.» «E com'era vestita Zina?» «Mi pare che avesse una camicetta bianca e jeans.» «Quindi hai visto anche Zina.» Lidia batté di nuovo le palpebre come se avesse incontrato un gradino imprevisto. «Sì.» «Dove?» «Sul ponte di poppa.» «Ti hanno notata?» «Non credo.» «Eri abbastanza vicina, quella notte, per sapere cosa indossavano quelle
due donne, e nessuna delle due ti ha notata?» «Ho una vista perfetta. Spesso il comandante dice che si augura di avere un ufficiale con la vista acuta come la mia.» «Quante volte hai navigato con il comandante Marchuk?» Gli occhi di Lidia s'illuminarono come due candele. «È il mio terzo viaggio con Viktor Sergeivich. È diventato uno dei principali comandanti della flotta durante il primo viaggio. Nel secondo, ha superato del quaranta per cento la nostra quota ed è stato nominato eroe dell'Unione Sovietica. È stato anche eletto delegato al Congresso del partito. A Mosca lo conoscono, fanno grandi progetti su di lui.» Arkady finì il vino e si alzò in piedi. Le gambe non erano in ottima forma ma lo reggevano. E finalmente il cervello funzionava. «Grazie.» «Posso procurarmi un po' di pesce affumicato» propose Lidia. «Potremmo bere ancora un po' di vino e mangiare un boccone.» Arkady si azzardò a muovere qualche passo. A quanto sembrava, ce l'avrebbe fatta ad arrivare alla porta. «Arkady» disse Natasha, «stai molto attento, quando scagli la prima pietra.» Il ponte di comando era rischiarato soltanto dal riflesso verde degli schermi del radar e del loran, dei displays della radio VHF e di quella a banda laterale, della sfera di vetro della bussola giroscopica e del quadrante lunare del telegrafo di macchina. Ai due lati c'erano le figure ai comandi dei timoni di sinistra e di dritta. Marchuk era al finestrino di tribordo, un timoniere era alla ruota. Arkady pensò che per una buona misura la Stella Polare si governava da sé. Con ticchettii meditabondi, il pilota automatico seguiva una rotta già prestabilita. I numeri luminosi che parevano aleggiare nell'aria erano soprattutto informazioni post factum, fornite dalla navefattoria mentre procedeva nella notte. «Renko.» Marchuk notò Arkady. «Bukovsky ti sta cercando. Dice che non gli hai riferito niente.» «Lo farò. Compagno comandante, possiamo parlare?» Arkady ebbe la sensazione che il timoniere s'irrigidisse. Gli operai del settore fattoria non venivano sul ponte di comando senza essere invitati. «Lasciaci» disse Marchuk all'uomo. «Ma...» Il regolamento stabiliva che sul ponte di comando dovevano esserci in qualunque momento due ufficiali oppure un ufficiale e un timoniere.
«Va bene così» gli assicurò Marchuk. «Mi metto io al timone. Il marinaio Renko scruterà i cieli e i mari per impedire che ci succeda qualcosa.» Dopo aver chiuso la porta alle spalle del timoniere, Marchuk si affacciò in sala navigazione per assicurarsi che non ci fosse nessuno, quindi si mise al timone. La paratia dietro di lui comprendeva un quadro di comandi antincendio e una cassetta di misuratori di radiazioni... questi dovevano servire in caso di guerra. Ogni volta che il pilota automatico ticchettava, la ruota del timone compiva un movimento appena percettibile. «Andava a letto con Zina Patiashvili?» chiese Arkady. Per un po' Marchuk non disse niente. Gli enormi tergicristalli spazzavano la neve dalla vetrata e attraverso le striature Arkady poteva scorgere gli argani delle ancore sul ponte di prua e i piccoli arabeschi che erano i cavi avvolti in senso antiorario ai due lati degli argani. Più oltre, nell'ampio fascio di luce del riflettore, appariva una muraglia compatta di neve. Sul ponte di comando faceva freddo, e i brividi riassalirono Arkady. Il monitor radar sul banco sotto la vetrata era un Foruna... giapponese. Il raggio sempre in movimento, un po' frammentato dalla neve, mostrava due blip che procedevano di conserva: dovevano essere l'Eagle e la Merry Jane. L'ecoscandaglio, almeno, era sovietico, un Kalmar, e annunciava che la Stella Polare faceva quindici nodi sul fondo, il che significava che la vecchia nave viaggiava con il favore del moto ondoso. Secondo gli accordi della joint venture, le navi sovietiche non erano autorizzate a usare gli ecoscandagli in acque americane; ma nessun comandante era disposto a navigare alla cieca quando non aveva gli americani fra i piedi. «È questo il modo di svolgere un'indagine?» chiese Marchuk. «Sparare accuse assurde?» «Sì, dati i limiti di tempo.» «Ho saputo che hai preso per assistente la Chaikovskaya. Una strana scelta.» «Non più del fatto che lei abbia scelto me.» «Sul banco ci sono le sigarette. Accendimene una.» Marlboro. Mentre Arkady gliela accendeva, il comandante lo scrutò al di sopra della fiamma. Era un tipo d'intimidazione che gli uomini energici usano per cogliere un'esitazione. «Hai la febbre?» «Un colpo di freddo.» «Slava chiama te e Natasha la sua "coppia di nullità". Cosa ne pensi?» «A Slava possono far comodo due nullità.» «Natasha ha detto qualcosa di me?»
«Mi ha presentato a Lidia.» «Lidia te l'ha detto?» Marchuk era sbalordito. «Senza volerlo.» Arkady spense il fiammifero e tornò accanto alla vetrata e al ritmo letargico dei tergicristalli. La nebbia aveva portato a quella neve. Se la nebbia era il pensiero, la neve era l'azione. «Aveva saputo che facevo domande sui rapporti tra Zina e gli ufficiali. Era preoccupata per la sua reputazione e mi ha confidato che aveva già un amante... lei. Perché? Come dice Lidia tutti quanti, inclusa sua moglie, sanno che va a letto con la bufetchitsa. Lo sapevo persino io. Lidia ha cercato di bloccare una sfilza di domande e ha voluto sacrificarsi al posto suo.» «Allora tiri a indovinare.» «Tiravo a indovinare. Quando?» La ruota ticchettò scattando verso destra, verso sinistra, ancora verso sinistra, e mantenne la rotta. Sul banco, l'ecoscandaglio indicava la profondità: dieci braccia. Il mare era poco profondo. Marchuk si schiarì la gola, o forse rise. «In porto. Ci sono rimasto mentre revisionavano la nave. Di solito, vedi, durante le riparazioni ho da fare perché i cantieri usano certa robaccia... lamine scadenti, saldature schifose, supporti incrinati per le caldaie. La marina militare si prende il meglio, e quindi è un lavoro a tempo pieno riuscire a ottenere ottone e rame e alternatori decenti. Ma quella volta era già tutto sistemato da altri. «Insomma, mi annoiavo e mia moglie era a Kiev per un mese. Lo so, è la tipica storia. Invitai alcuni uomini della marina militare che ci tenevano a mangiare in un vero ristorante per marinai. Il Corno d'Oro. Zina faceva la cameriera. Ci provammo tutti. Dopo che i miei ospiti si furono ubriacati quanto bastava per venir messi a letto, tornai. Fu l'unica volta. Non sapevo neppure il suo cognome. Puoi immaginare la mia sorpresa quando l'ho vista a bordo.» «Zina aveva chiesto d'imbarcarsi sulla Stella Polare?» «Me l'aveva chiesto, ma un comandante non ha tanta autorità.» Doveva essere vero, pensò Arkady. Se fosse stato Marchuk a farla ingaggiare, non l'avrebbe messa sotto gli occhi di Lidia Taratuta. «Ha visto Zina la sera del ballo?» «Ero nel quadrato ufficiali. Avevo fatto preparare un buffet per i pescatori americani.» «Di quali battelli?» «L'Eagle e la Merry Jane. Gli equipaggi sono andati a ballare e i comandanti sono rimasti a discutere sulle carte nautiche.»
«I comandanti hanno opinioni diverse?» «Altrimenti non sarebbero comandanti. Naturalmente, le qualifiche sono differenti. Un comandante sovietico deve studiare sei anni in un'accademia e fare due anni come secondo ufficiale su una nave costiera, poi due anni come secondo ufficiale su una nave oceanica, per ottenere alla fine la qualifica di comandante. C'è sempre qualcuno, e preferisco non far nomi, che crede che un padre al ministero possa aiutarlo a diventare ufficiale. Ma sono casi rari. Un comandante sovietico è diplomato in navigazione, elettronica, costruzioni marittime e diritto. Se un americano compra un battello, diventa comandante. Il fatto è che quando lasceremo Dutch Harbor ci dirigeremo verso i ghiacci. Là la pesca è buona, ma bisogna sapere quello che si fa.» «Lidia è rimasta con lei la notte del ballo?» «Per tutto il tempo.» Ad Arkady non piaceva l'idea di navigare fra i ghiacci. Il cielo era già ammantato di neve. Quando il mare si fosse coperto di ghiaccio che avrebbe lastricato l'acqua di bianco, sarebbe scomparsa anche quel po' di dimensionalità che restava. E poi, odiava il freddo. «Quant'è lontano da poppa il quadrato ufficiali?» chiese. «Un centinaio di metri. Dovresti saperlo.» «C'è qualcosa che non capisco. Lidia dice di essere uscita dal quadrato, di essere venuta qui in timoneria e di aver visto per caso Zina sul ponte di poppa. Ma da qui il ponte di poppa non si vede, neppure con gli occhi acuti di Lidia. Bisogna andarci. In totale sono duecento metri, avanti e indietro per l'intera lunghezza della nave, e Lidia li ha percorsi al freddo per fumare una sigaretta e ha visto per puro caso una giovane rivale che è morta la stessa notte. Perché Lidia avrebbe fatto una cosa simile?» «Forse è stupida.» «No. Io credo che l'ami.» Marchuk rimase in silenzio. La neve batteva sulla vetrata formando crateri umidi, quindi fuori non gelava. La neve pesante aveva calmato anche l'acqua, e la Stella Polare procedeva agevolmente nella notte. «Mi aveva seguito» disse Marchuk. «Avevo trovato sotto la porta un biglietto. Diceva che Zina voleva parlarmi. "Vediamoci a poppa alle undici." Tutto qui.» «Era di Zina?» «Ho riconosciuto la scrittura.» «Quindi aveva ricevuto altri biglietti.»
«Sì, una volta o due. Lidia aveva capito. Le donne intuiscono queste cose. Lidia è più gelosa di mia moglie. Comunque, Zina voleva soltanto sapere con chi sarebbe andata a Dutch Harbor. Non voleva ritrovarsi in compagnia di una delle vecchie. Le ho risposto che era Volovoi a fare l'elenco, non io.» «A Vladivostok, la notte con Zina, andò a casa sua?» «Non potevo portarla certo a casa mia.» «Me la descriva.» «Un appartamento in via Russkaya. Molto carino, per la precisione: statuette africane, stampe giapponesi, molte pistole. Ci abitava con un tale che era via. Avrei dovuto denunciarlo per le pistole, ma non avrei potuto spiegare come mai le avevo viste. Non avrebbe fatto una bella figura al quartier generale della flotta, un comandante che denuncia un uomo dopo essersela spassata con la sua donna. Non so perché ti racconto queste cose.» «Perché più tardi può negare tutto. Per questo ha scelto me, all'inizio; perché può respingere tutto quello che scopro, se non lo gradisce. Ma non capisco perché lei abbia voluto un'indagine, quando sapeva quali storie sarebbero saltate fuori. È stata una pazzia, o soltanto stupidità?» Marchuk rimase in silenzio così a lungo che Arkady ebbe l'impressione che non avesse sentito la domanda. Comunque, il comandante non era il primo uomo dotato di appetito sessuale. Quando finalmente Marchuk parlò, la sua voce traboccava di disgusto verso se stesso. «Ti dirò perché. Due anni fa avevo un peschereccio nel Mar del Giappone. Era notte, c'era un tempo orribile, un vento forza nove. Io cercavo di raggiungere la quota perché ero stato appena nominato comandante scelto. Comunque, misi i miei uomini sul ponte. Un'ondata ci investi di fianco. Succede. Quando passa, si fa la conta. Mancava un uomo. Gli stivali erano sul ponte ma lui non c'era più. L'ondata l'aveva trascinato oltre la fiancata? O giù per la rampa? Non lo so. Naturalmente smettemmo di pescare e lo cercammo. Di notte, con onde come quelle e con l'acqua così fredda, doveva essere morto per ipotermia in pochi minuti. O forse aveva inghiottito acqua ed era andato subito a fondo. Non lo rivedemmo mai più. Avvertii via radio il Comando della flotta a Vladivostok e segnalai il decesso. Mi ordinarono di continuare a cercarlo e di controllare a bordo per essere sicuro che non mancasse un giubbotto salvagente o qualcosa d'altro che potesse galleggiare. Andammo avanti e indietro per mezza giornata a esplorare l'acqua, a frugare la nave e contare giubbotti,
boe e barili. Solo quando fummo in grado di dichiarare che non mancava niente, il Comando della flotta comunicò che potevamo ricominciare a pescare. Il Comando della flotta non lo disse direttamente, ma tutti sapevamo il perché: perché il Giappone era appena a venti miglia nautiche. Per la mentalità del Comando, era possibile che il pescatore avesse deciso di defezionare e di farsi quelle venti miglia al buio, con il mare grosso e la temperatura prossima allo zero. Grottesco. Dovetti ordinare agli amici del morto di cercarlo, non per ritrovarlo e per restituire il corpo alla famiglia, ma come se fosse un prigioniero evaso, come se fossimo tutti prigionieri. Lo feci, ma mi dissi che non avrei più abbandonato il mio equipaggio alla mercé di Vladivostok. Zina non era perfetta? Neppure io lo sono. E tu devi scoprire cos'è successo.» «Per il suo equipaggio?» «Sì.» La neve aveva qualcosa di confortante e di soffocante nello stesso tempo. Il radar aveva pulsanti per regolare la luminosità, il colore, la distanza. Sullo schermo, davanti, non c'era niente se non i puntolini verdi sparsi dell'onda di ritorno. «Quanto manca per arrivare a Dutch Harbor?» «Dieci ore.» «Se vuol fare qualcosa per il suo equipaggio, lo lasci scendere a terra. In dieci ore non scoprirò niente.» «Tu rappresentavi il mio compromesso con Volovoi. Lui è il primo ufficiale in seconda, e hai sentito cos'ha detto.» «E lei è il comandante. Se vuole che l'equipaggio scenda a terra, può farlo.» Marchuk tacque di nuovo. La sigaretta si era ridotta a una brace fra le sue labbra. «Continua a cercare» disse finalmente. «Forse troverai qualcosa.» Arkady usci. Dall'esterno, Marchuk sembrava incatenato alla ruota del timone. 16 Quando Arkady arrivò nella sua cabina tremava tanto che decise di affrontare i brividi e di annientarli. Prese un asciugamani e scese nel ponte sottostante, nel piccolo locale delle docce con i pioli per attaccapanni e un cartello che diceva: "Un buon cittadino rispetta la proprietà altrui". Un al-
tro cartello, scritto a mano, consigliava: "Portate con voi gli oggetti di valore". Con il coltello infilato nell'asciugamani avvolto intorno alla vita, Arkady entrò nella sauna che era il massimo lusso della Stella Polare. Era stata costruita dall'equipaggio e anche se era molto piccola, era tutta di cedro rosso. Una cassa di cedro conteneva le pietre di fiume levigate e riscaldate dai tubi che portavano il vapore dalla lavanderia. Un secchio di cedro conteneva acqua e un mestolo, di cedro anche quello. Nell'aria aleggiava già una piacevole nebbiolina. Due paia di gambe penzolavano dalla panca superiore, ma sembravano troppo scheletrite per appartenere a due assassini. In un lussuoso stabilimento termale di Mosca come in una baita siberiana, era una convinzione dei russi che niente potesse eliminare i malanni come una sauna. Raffreddori, artriti, malattie nervose o dell'apparato respiratorio, e soprattutto i postumi della sbronza venivano leniti dall'azione balsamica del vapore; e dato che la piccola sauna della Stella Polare veniva utilizzata in continuazione, era sempre caldissima. I pori di Arkady si aprirono; sentì il prurito del sudore sul cuoio capelluto e sul petto. Anche se le mani e i piedi formicolavano dolorosamente, non erano diventati bianchi, il primo segnale del congelamento. Quando si fosse liberato dei tremiti, avrebbe potuto pensare lucidamente. Versò altra acqua sulle pietre che diventarono d'un nero splendente e poi, con la stessa rapidità, si stinsero nel grigio. Il vapore surriscaldato divenne più denso. C'era un fascio di rami di betulla in un angolo, per scacciare i veleni di una brutta sbornia, ma Arkady non aveva mai pensato che fosse il caso di autoflagellarsi, neppure con il pretesto dell'azione terapeutica. «Hai intenzione di prendere qualcosa?» chiese in inglese una voce che usciva dalla nuvola. Era l'osservatore del Servizio Pesca americano, Lantz. «Dutch è sulla rotta. Una quantità di pescherecci fanno tirate fino a Baja o addirittura in Colombia.» «Mi accontenterò della birra.» L'altra voce era quella del rappresentante che si chiamava Day. «Hai mai provato il rock? Devi fumarlo nella pipa. Molto intenso. Ti scioglie in fretta.» «No, grazie.» «Hai paura? Te lo procurerò io. Sembra una normale sigaretta.» «Non fumo neanche. Quando avrò finito qui, tornerò all'università. Non andrò a darmi al crack nello Yukon. Lascia perdere.» «Che palloso» disse Lantz mentre Day scendeva dalla nebbia e usciva
dalla porta. Si sentì Lantz che si soffiava il naso nell'asciugamani. Poi scivolò anche lui dalla panca. Era pelle e ossa, come una pallida salamandra dinoccolata. I suoi occhi inquadrarono finalmente chi stava seduto sulla panca inferiore. «Bene bene, guarda chi sta a curiosare e ad ascoltare gli altri di nascosto. Come va, Renko? Ha intenzione di correre a Dutch Harbor a spendere i suoi dollari americani?» «Non credo che ci andrò» disse Arkady. «Non ci andrà nessuno. Dicono che ha rovinato la festa a tutti.» «Può darsi.» «E ho sentito dire che anche se ci andranno tutti gli altri, lei non ci andrà. Dunque, Renko, che cos'è esattamente? Un poliziotto o un prigioniero?» «È un impiego molto ambito, lavorare su una nave oceanica.» «Se si può scendere a terra quando si fa scalo, non se si è bloccati a bordo. Povero compagno Renko.» «Sembra che mi stia perdendo molto.» «Sembra che abbia bisogno di molto, direi. E così dovrà accontentarsi di passeggiare sul ponte sperando che qualcuno le porti un pacchetto di sigarette. Patetico.» «Davvero.» «Le porterò una tavoletta di cioccolata. Sarà il gran momento del suo viaggio.» La porta risucchiò fuori il vapore quando Lantz se ne andò. Arkady aggiunse altra acqua nella cassa e tornò a lasciarsi cadere sulla panca. C'era da aver paura quando persino un americano capiva quant'era nei guai. E c'era da aver paura, perché aveva capito ben poco. Non aveva senso che Zina abbandonasse il ballo solo per chiedere a Marchuk chi sarebbe andato con lei a far spese a Dutch Harbor. Ma poi era rimasta sul ponte di poppa. Secondo gli appunti di Skiba e Slezko, Lidia aveva attraversato il ponte centrale alle 11 e 15, e in quel momento Zina era ancora viva e stava alla battagliola di poppa. Quattordici minuti dopo Ridley era tornato all'Eagle, e cinquantacinque minuti dopo il peschereccio s'era allontanato. Zina era troppo furba per cercare di defezionare quando c'era un battello americano attraccato alla nave-fattoria. Vladivostok avrebbe preteso che l'Eagle e la Merry Jane venissero perquisite e la società, che per metà era di proprietà sovietica, avrebbe acconsentito. Le due condizioni per riuscire a sparire, a quanto aveva detto Marchuk, erano che gli americani fossero abbastanza lontani perché risultasse impossibile raggiungerli a nuoto e che sulla
Stella Polare non mancasse un giubbotto salvagente o altre cose del genere. Se la defezione era impossibile, che cosa voleva Zina? Il pensiero di una birra gli si piantò in gola. I pescatori di Sakhalin guadagnavano denaro extra prelevando le casse di birra giapponesi legate alle nasse per i granchi e lasciando in cambio sacchi di uova di salmone. Gli sarebbe piaciuta una di quelle birre, fredda come il mare, non il liquido tiepido e da mal di testa preparato da Obidin. La porta della sauna si aprì, e in mezzo al vapore denso Arkady ebbe l'impressione che il nuovo venuto portasse le scarpe. Era imponente, nudo, a parte l'asciugamani legato intorno alla vita, e non aveva le scarpe. I piedi erano blu scuro, quasi violacei. Erano tatuati con un fregio di volute, con le dita che spiccavano come artigli verdi. Il motivo leonino che ricordava un grifone saliva fino alle ginocchia. Era quello che uno scienziato avrebbe chiamato mesomorfo, muscoloso e con il petto profondo poco meno che ampio. Alcuni dei tatuaggi più vecchi erano sbiaditi e confusi, ma Arkady riusciva a distinguere donne prosperose e incatenate che si arrampicavano sulle cosce, fino alle fiamme rosse che dilagavano intorno all'orlo dell'asciugamani. Lo stomaco era ornato di nubi azzurre. Sul lato destro della cassa toracica c'era una ferita sanguinante con il nome di Cristo, sul lato sinistro un avvoltoio stringeva un cuore. Il petto era chiazzato di tessuto cicatriziale. I dirigenti lo facevano, nei campi di lavoro: se un detenuto si faceva tatuare qualcosa che non approvavano, lo bruciavano con il permanganato di potassio. Le braccia dell'uomo erano maniche verdi: la destra era coperta da draghi stinti, la sinistra da nomi di prigioni, campi di transito e di lavoro: Vladimir, Tashkent, Potma, Sosnovka, Kolyma, Magadan e altri, un elenco di ampie esperienze personali. I tatuaggi si arrestavano ai polsi e al collo: l'effetto complessivo era che l'uomo indossasse una tuta scura attillata, oppure che la testa e le mani pallide levitassero. Un altro effetto era rivelare esattamente cos'era quell'individuo: un urka... un criminale di professione. Era il capopesca, Karp Korobetz. Rivolse un gran sorriso ad Arkady e disse: «Hai l'aria di stare di merda». «Io ti conosco» replicò Arkady. L'aveva capito nello stesso istante. Karp disse: «È stato una dozzina di anni fa. Quando hai cominciato a fare domande, mi sono detto: "Renko, Renko... conosco questo nome"». «Articolo 146, rapina a mano armata.» «Cercasti di farmi impiccare per omicidio» gli rammentò Karp. La memoria di Arkady aveva ripreso a funzionare. Dodici anni prima,
Korobetz era un ragazzo grande e grosso che sfruttava puttane vecchie il doppio della sua età nella sezione del Bosco di Maria, a Mosca. Di solito c'era un accordo fra i magnaccia e la milizia, soprattutto a quel tempo quando la prostituzione ufficialmente non esisteva; ma il ragazzo aveva preso l'abitudine di rapinare le vittime quando si erano tolti i calzoni. Un vecchio, un veterano con il petto carico di medaglie, aveva opposto resistenza, e Karp l'aveva fatto tacere con una martellata. A quel tempo aveva i capelli più chiari e più lunghi, con certe trecce eccentriche intorno agli orecchi. Arkady era comparso al processo solo per testimoniare come investigatore per l'omicidio. Ma c'era un'altra ragione per cui non aveva riconosciuto Korobetz. La faccia era cambiata; l'attaccatura dei capelli era più bassa. Se i prigionieri si tatuavano sulla fronte frasi come "Schiavo dell'URSS'', le direzioni dei campi facevano asportare la striscia di pelle, e così il cuoio capelluto veniva tirato in avanti. «Cosa ci avevi scritto?» Arkady indicò la fronte del capopesca. «"I comunisti bevono il sangue del popolo."» «Una scritta così lunga sulla fronte?» Arkady era impressionato. Guardò il petto di Karp. «E lì?» «"Partito eguale morte." L'hanno tolta con l'acido a Sosnovka. Allora ho scritto: "Il partito è un figlio di puttana". Dopo che hanno bruciato anche quella, la pelle era troppo ruvida per utilizzarla ancora.» «Una carriera molto breve. Be', Puškin morì giovane.» Karp scostò con la mano un filo di vapore. Gli occhi d'un blu-ardesia erano inseriti in un solco che attraversava la sommità del naso. Si pettinò con le dita i capelli bagnati: adesso erano lunghi in mezzo e corti sui lati, secondo lo stile sovietico; e il corpo era diventato simile a quello di un uomo di Neanderthal. Un Neanderthal disegnato a inchiostro. «Dovrei ringraziarti» disse Karp. «A Sosnovka ho imparato un mestiere.» «Non ringraziare me. Ringrazia quelli che rapinavi e pestavi: furono loro a identificarti.» «Mi hanno insegnato a fare mobiletti per televisori. Hai mai avuto un Melodya? Forse l'avevo fatto io. Naturalmente è stato molto tempo fa, prima della mia riabilitazione. Vedi com'è strana la vita? Adesso io sono un marinaio di prima classe e tu un marinaio di seconda, quindi sono più in alto di te.» «Il mare è un posto molto strano.» «Sei l'ultima persona che mi aspettavo d'incontrare sulla Stella Polare.
Cos'è successo al grande e potente investigatore?» «La terra è un posto molto strano.» «Per te tutto è strano, adesso. È quel che capita quando si perde la poltrona e la tessera del partito. Dimmi che cosa stai facendo per il cosiddetto ingegnere elettronico della flotta.» «Sto facendo qualcosa per conto del comandante.» «Il comandante può andare a farsi fottere. Dove credi di essere, a Mosca? Ci sono una decina di ufficiali sulla Stella Polare e tutti gli altri fanno parte dell'equipaggio. Abbiamo il nostro sistema: sbrighiamo le cose fra di noi. Dunque, che cosa fai?» «Faccio domande su Zina Patiashvili. Cosa sai di lei?» «Era un'onesta lavoratrice. Tutti abbiamo risentito della sua perdita.» Karp sfoderò un sorriso che mise in mostra i molari d'oro. «Vedi, ho imparato a dire tutte quelle fesserie.» Arkady si alzò. I loro occhi erano alla stessa altezza, anche se Karp era più grosso. «Sono stato uno stupido a non riconoscerti» disse. «E tu sei doppiamente stupido a dirmi chi sei.» Karp lo fissò con aria offesa. «Credevo che ti facesse piacere vedere che mi sono redento e sono diventato un lavoratore modello. Speravo che potessimo essere amici, ma vedo che non sei cambiato.» Poi, con una certa indulgenza, si tese verso di lui per dargli un consiglio. «In un campo c'era un tale che mi ricordava un po' te. Era un politico. Era un ufficiale dell'esercito che non aveva voluto guidare i suoi carri armati in Cecoslovacchia contro i rivoluzionari... qualcosa del genere. Io ero il suo caposezione, e non obbediva agli ordini. Credeva d'essere ancora lui a comandare. Sai, ci portavano a una derivazione della ferrovia, e noi abbattevamo gli alberi e li caricavamo. Un collettivo di boscaioli. Un sano lavoro rieducativo a trenta gradi sottozero. La parte pericolosa è quando metti i tronchi sul vagone: bisogna stare attenti che non rotolino e non cadano. È strano che fosse proprio quell'ufficiale così istruito ad avere l'incidente, e non aveva neanche capito com'era successo. Ha raccontato che lo avevano tenuto fermo sui binari e che qualcuno gli aveva spaccato le ossa con il manico di un'accetta. Le braccia, gli avambracci, le mani, le dita... tutto quanto. Immagina. Tu li hai visti, i cadaveri. Il corpo umano ha tante ossa. Ma io ero presente e non avevo mai visto niente di simile. È quello che succede quando fai un errore, e tutti i tronchi che stanno sul pianale di un vagone ti rotolano addosso. Diventò pazzo. Alla fine morì perché gli era scoppiata la milza. Scommetto che a quel punto lo preferiva, per non passare il resto della vita
come un uovo spaccato. Te ne parlo solo perché mi ricordi lui e perché una nave in pieno oceano è un posto tanto pericoloso. Ecco cosa volevo dirti. Dovresti essere prudente» concluse Karp mentre se ne andava. «Impara a nuotare.» Il tremito riassalì Arkady, ancora più forte. Si era mai spaventato tanto quando faceva l'investigatore? Forse era giusto che fosse venuto dalla lontana Mosca per trovarsi sulla nave con Karp Korobetz. Perché non l'aveva riconosciuto? Il cognome non era tanto comune. D'altra parte, forse neppure la madre di Karp l'avrebbe riconosciuto, adesso. Era stato il capopesca a buttarlo nella stiva frigorifera, e glielo confermavano i suoi brividi. Tre uomini l'avevano trasportato, e probabilmente uno li aveva preceduti, uno li aveva seguiti. Dovevano essere stati Karp e la sua squadra, gli organizzatissimi vincitori della competizione socialista. Il sudore della paura rendeva lucida la faccia di Arkady. Karp era pazzo: non era un semplice caso di "schizofrenia torpida". Ma non era neppure stupido: quindi perché avrebbe attirato l'attenzione su se stesso mentre Arkady aveva un'autorità temporanea? Che cosa aveva detto Karp, e che cosa aveva omesso? Non aveva accennato alla stiva del pescato: perché avrebbe dovuto farlo? Ma non aveva accennato neppure a Dutch Harbor. Tutti gli altri erano preoccupati per il permesso di sbarcare, ma Karp no: Karp voleva sapere di Hess. E soprattutto aveva voluto incutergli un certo terrore, e c'era riuscito. La porta della sauna tornò ad aprirsi. Arkady vide un piede scuro e subito allungò la mano dietro la schiena per prendere il coltello. Quando l'aria fredda che entrava dall'apertura sollevò i vapori, però, vide che il piede era calzato da una scarpa, una Reebok blu. «Slava?» Il terzo ufficiale agitava irritato la mano per scostare il vapore. «Renko, ti ho cercato dappertutto. L'ho trovata! Ho trovato la lettera!» Arkady non riusciva ancora a togliersi Karp dalla mente. «Cosa? Di cosa stai parlando?» «Mentre tu dormivi e facevi la sauna, io ho trovato la lettera d'addio di Zina Patiashvili. L'aveva scritta.» La faccia di Slava si protese, circondata da una ghirlanda di vapore. «Una lettera d'addio. È perfetta. Scenderemo a terra.» II TERRA
17 Dutch Harbor era circondata da una cerchia verde di scogli coperti da fitta erba subartica. Non c'erano alberi, non c'erano piante più grosse di un cespuglio, ma quando il vento soffiava sull'erba creava un effetto magico, come se le colline fossero un'onda. Il vero nome dell'isola era Unalaska, e su un lato della baia c'era un villaggio aleutino che aveva quel nome, una fila di case lungo la spiaggia che portavano a una chiesa russa ortodossa, di legno candido. La cittadina di Dutch Harbor, invece, era invisibile per Arkady, nascosta da un deposito di cisterne, al di là del frangiflutti che proteggeva un molo da carico con grandi mucchi di portelli arrugginiti e di neve marcia, e pompe di benzina e file di gabbie da mezza tonnellata chiamate nasse per granchi. Più indietro c'era un molo dov'erano attraccati i pescherecci e una grossa nave che era diventata un impianto per l'inscatolamento, con una recinzione di pali intorno allo scafo. E dietro a tutto questo, le colline di Unalaska salivano bruscamente verso le vette vulcaniche orlate di pietra nera e di neve. Era strano, pensò Arkady, come l'occhio finiva per diventare assetato di colori. Le nubi s'erano squarciate e chiazze di sole si spostavano sulla baia. Dalle scogliere più basse i pulcinella di mare si buttavano in mare come sassi. Le aquile s'innalzavano dalle rupi più alte e volteggiavano per ispezionare la Stella Polare: erano enormi, brune come orsi e con imperiose teste bianche. Era come essere in cima al mondo. Gli americani erano già scesi a terra con la barca del pilota. Susan se ne tornava a casa con una giacca da pescatore avuta in regalo e decorata da spille-ricordo. Prima di lasciare la nave aveva distribuito baci con la generosità di chi lascia una prigione. A bordo della barca del pilota, quando era venuta alla nave, c'era un nuovo capo rappresentante con una valìgia che conteneva centomila dollari, la valuta straniera per la visita a terra dell'equipaggio della Stella Polare. Tutto il personale aveva atteso mentre i biglietti di banca venivano contati e ricontati nella cabina del comandante. Dopo quattro mesi dedicati alla pesca, i compagni di lavoro di Arkady erano in fila lungo il parapetto di tribordo e scendevano i gradini della scaletta per prendere posto su una scialuppa che li avrebbe portati, con i dollari americani in tasca, nel porto tanto sognato. Certo, non lo davano a vedere. Un marinaio sovietico che si vestiva per un'occasione speciale non sempre si faceva la barba. Lucidava le scarpe, si allisciava i capelli e metteva la giacca sportiva anche se aveva le maniche troppo corte. E ostentava
anche la faccia meno impressionata del mondo, non solo a beneficio di Volovoi ma anche per se stesso, e quindi la sua previsione si rivelava solo nel modo guardingo in cui socchiudeva gli occhi. Ma c'era qualche eccezione. Sotto la visiera d'un berretto da contadino, lo sguardo di Obidin era fisso sulla chiesa al di là dello specchio d'acqua. Kolya Mer s'era riempito le tasche di vasetti di cartone e scrutava le colline come Darwin all'avvicinarsi della costa delle Galàpagos. Le donne avevano indossato gli abiti di cotone più carini sotto i soliti strati di maglioni e di pellicce di coniglio. Anche loro avevano facce chiuse da turiste, fino a che si scambiavano qualche occhiata e prorompevano in risatine nervose e poi salutavano a gesti Natasha che stava sul ponte delle scialuppe con Arkady. Natasha aveva le guance poco meno accese del rossetto e portava addirittura due pettinini, come se pensasse che a terra avrebbe avuto bisogno di munizioni in più. «È la prima volta che vado negli Stati Uniti» disse ad Arkady. «Non mi sembrano molto differenti dall'Unione Sovietica. Tu ci sei già stato. Dove?» «A New York.» «È diverso.» Arkady tacque un momento. «Sì.» «Bene, allora sei venuto a salutarmi?» Natasha sembrava sul punto di spiccare il volo sull'acqua per raggiungere i negozi che l'attendevano. Per la verità Arkady era venuto a vedere se Karp scendeva a terra. Finora il capopesca non l'aveva fatto. «Per ringraziarti e salutarti» disse. «È questione di poche ore.» «Anche così...» Natasha abbassò gli occhi e la voce, «È stata un'esperienza stimolante lavorare con te, Arkady Kirilovich. Non ti dispiace se ti chiamo Arkady Kirilovich?» «Come preferisci.» «Non sei affatto sciocco come credevo.» «Grazie.» «Siamo arrivati a una felice conclusione» disse Natasha. «Sì, il capitano ha proclamato ufficialmente chiusa l'indagine. Forse non ci sarà neppure un'inchiesta a Vladivostok.» «È stata una fortuna che il terzo ufficiale Bukovsky abbia trovato la lettera.»
«Più che una fortuna è stato incredibile» disse Arkady. Aveva guardato sotto il materasso di Zina molto prima che Slava ci trovasse quel pezzo di carta. «Natasha!» Le amiche passavano in fila e le facevano cenni smaniosi perché prendesse il suo posto. Natasha era pronta a correre, a navigare e a volare, ma aveva una ruga sulla fronte perché era stata presente quando Arkady aveva frugato nel letto di Zina. «Al ballo non sembrava tanto depressa.» «No» dovette riconoscere Arkady. Ballare e flirtare non erano i sintomi consueti della depressione. Per Natasha, l'ultima domanda era anche la più difficile. «Credi davvero che si sia uccisa? Possibile che abbia fatto una cosa così sconsiderata?» Arkady rifletté prima di rispondere perché sapeva che Natasha aveva vissuto diversi mesi per l'escursione di quel giorno ma sarebbe rimasta lealmente a bordo con lui se gliene avesse dato un motivo. «Credo che sia sconsiderato scrivere una lettera d'addio. Io mi rifiuto di farlo.» Indicò la scialuppa. «Presto, o ti perderai la gita a terra.» «Posso portarti qualcosa?» La fronte di Natasha s'era spianata. «L'opera completa di Shakespeare, una telecamera, un'automobile.» «Non posso prenderle.» Natasha era già sui gradini che scendevano al ponte. «Mi basta un frutto.» Natasha si fece largo a gomitate per raggiungere le amiche che stavano scendendo la scala. Erano come bambini, pensò Arkady, i bambini che a Mosca si vedono pestare i piedi davanti alla scuola nelle buie mattine di dicembre, infagottati fino alle faccette dure; poi la porta si apre sull'interno caldo della scuola e i loro occhi s'illuminano. Gli sarebbe piaciuto andare con loro. La scialuppa sembrava un sottomarino in emersione. Poteva caricare fino a quaranta passeggeri in fuga da una nave che affondava, ed era di quel color pastello che veniva chiamato "arancione internazionale". Per quel tragitto, i portelli erano spalancati e il timoniere e i passeggeri potevano stare all'aria aperta. Natasha salutò di nuovo con la mano, poi assunse una posa di risoluta sobrietà sovietica. Si staccarono dalla nave. Sulla scialuppa arancione, negli indumenti dai colori scialbi, i passeggeri sembravano diretti a un funerale o a una scampagnata. La Merry Jane si avvicinò per portare altra gente a terra; lungo il para-
petto si era formata un'altra coda. Fra quelli che aspettavano c'era Pavel, della squadra di Karp. Guardò Arkady e si passò l'indice sotto la gola. La terra aveva un suo odore, pensò Arkady. Unalaska aveva l'odore di un giardino, e lui desiderava camminare sulla terraferma e lasciare l'ambiente dove aveva vissuto per dieci mesi, lasciarlo anche per un'ora soltanto. Finora non aveva parlato a nessuno dell'aggressione. Cosa poteva dire? Non aveva visto Karp o gli altri. Sarebbe stata la sua parola contro quella di sei marinai di prima classe, politicamente affidabili e socialmente responsabili. Si poteva provare una sola cosa, che lui aveva aspirato vapori di benzina causandosi allucinazioni, per non parlare poi del fatto che aveva tentato di dar fuoco alla stiva del pescato. Il fumo chiazzava l'aria sopra il punto dove si doveva trovare Dutch Harbor. Quant'era grande la cittadina? Spire di nebbia più pulita avvolgevano i fianchi delle montagne. Ecco cos'erano: montagne che sorgevano direttamente dal fondo dell'oceano. Immaginò di sorvolarle e di scendere in una valle verde, abbastanza vicino per vedere le preziose orchidee palustri di Kolya Mer, abbastanza vicino per raccogliere un po' di terriccio nel cavo della mano. La scialuppa stava attraversando l'acqua di fronte alle case degli aleutini: un quadretto grazioso, la scialuppa arancione che passava accanto alla chiesa bianca. Arkady immaginò Zina là a bordo. «Che ironia» disse Hess, quando si affiancò ad Arkady. L'ingegnere elettronico della flotta splendeva in un lucido giubbotto nero, jeans e stivali siberiani di feltro. Arkady non l'aveva più visto dalla mattina precedente. Naturalmente Hess era piccoletto... forse abbastanza per muoversi nella nave passando per i fumaioli e i pozzi di ventilazione senza che nessuno lo vedesse. «Che cosa?» domandò Arkady. «L'unico membro dell'equipaggio che avrebbe potuto defezionare, l'unico la cui lealtà è stata messa veramente alla prova, è anche l'unico che non abbia il permesso di lasciare la nave.» «In fatto d'ironia siamo i primi al mondo.» Hess sorrise. I capelli irti s'inclinavano nella brezza; ma si guardava intorno, ben saldo nella posa d'un marinaio esperto. «Un bel porto. Durante la guerra gli americani avevano qui cinquantamila uomini. Se Dutch Harbor fosse nostra ce ne sarebbero ancora tanti, invece di pochi indigeni e delle reti da pesca. Be', gli americani pos-
sono permettersi di fare gli schizzinosi. Il Pacifico è un lago americano. Alaska, San Francisco, Pearl Harbor, Midway, le Marshall, le Figi, le Marianne. È tutto loro.» «Lei scende a terra?» «Per sgranchirmi le gambe. Potrebbe essere interessante.» Per un ingegnere elettronico della flotta forse no, pensò Arkady, ma per un ufficiale del servizio segreto della marina, sì, una passeggiata nel porto più importante delle Aleutine poteva essere utile Hess disse: «Mi permetta di congratularmi con lei per aver risolto il caso di quella povera ragazza». «Deve congratularsi con Slava Bukovsky. È stato lui a trovare la lettera. Io avevo frugato nello stesso posto e non l'avevo vista.» Arkady aveva esaminato la lettera quando Slava aveva smesso di sventolare la sua scoperta. Era scritta su un mezzo foglio rigato che doveva essere stato strappato dal blocco a spirale di Zina. La scrittura era sua; le impronte erano sue e di Slava. «Ma è stato davvero un suicidio?» «Una lettera d'addio è senza dubbio la prova di un suicidio. Naturalmente, una botta all'occipite e una coltellata al ventre dopo la morte provano qualcos'altro.» Hess sembrava assorto nella contemplazione del motopeschereccio che si affiancava alla Stella Polare. Era un ufficiale di linea? si chiese Arkady. Tenendo conto del fatto che in generale le promozioni per i tedeschi erano molto lente, non poteva essere più di un capitano di secondo rango. Ma se abitava vicino a Leningrado, vicino al Comando centrale della marina, e magari insegnava in un'accademia navale, poteva avere il titolo di professore. Hess aveva l'aria professorale. «Per il comandante è stato un sollievo sapere che lei era d'accordo con le conclusioni di Bukovsky. Gliel'avrebbe chiesto di persona, ma lei era a letto. Adesso ha l'aria di star meglio.» Il tremito aveva costretto Arkady a tornare in cabina, certo, e adesso stava in effetti molto meglio, abbastanza per accendere una Belomor e ricominciare ad avvelenarsi. Buttò via il fiammifero. «E per lei, compagno Hess» chiese, «è stato un sollievo?» Hess si permise un altro sorriso. «Mi sembrava una faccenda troppo comoda perché c'entrasse lei. Ma avrebbe potuto correggere Bukovsky e rivolgersi al comandante.» «Per impedire tutto questo?» Arkady guardò un marinaio portoghese che
aiutava madame Malzeva a passare dalla scaletta al ponte del motopeschereccio. Lei scese con eleganza, con lo scialle sulle spalle come se mettesse piede su una gondola. «È la ragione del loro viaggio. Non ho intenzione di rovinare questi due giorni a tutti. Volovoi è sceso a terra?» «No, è sceso il comandante. Conosce i regolamenti: a bordo ci deve essere sempre il comandante o il commissario. Marchuk è andato con la barca del pilota per assicurarsi che i commercianti di Dutch Harbor siano pronti per la nostra invasione. Ho saputo che l'attendono con impazienza.» Hess guardò Arkady. «Omicidio, dunque? Quando riprenderemo il mare ricomincerà a fare domande? Ufficialmente l'indagine è chiusa. Non avrà l'appoggio del comandante, e tanto meno la collaborazione di Bukovsky. Sarà completamente solo: un operaio che lavora nel settore fattoria. Mi sembra pericoloso. Anche se sapesse chi è il responsabile della morte della ragazza, forse farebbe bene a dimenticarlo.» «È possibile.» Arkady rifletté. «Ma se lei fosse l'assassino e sapesse che io so, mi lascerebbe vivere fino al ritorno a Vladivostok?» Hess considerò quella prospettiva. «No. Dovrei farla sparire.» «Quindi non ho niente da perdere.» «In tal caso» disse Hess, «venga con me.» Fece un cenno e Arkady lo seguì a poppa. Pensava che stessero andando in un posto tranquillo per parlare, ma Hess lo condusse al ponte delle scialuppe, sul lato di babordo. Dal parapetto una biscaglina scendeva verso un'altra scialuppa già in acqua. C'era soltanto il timoniere, che alzò la testa e agitò il braccio. Un ingegnere elettronico della flotta non poteva raggiungere la terra a bordo di un motopeschereccio affollato. «Andiamo a terra» disse Hess. «Venga con me a Dutch Harbor. Tutti gli altri si godono il permesso grazie a lei. Merita una ricompensa.» «Non ho il visto dei marinai di prima classe per scendere a terra, lo sa.» «Mi assumo la responsabilità» Hess aveva un tono disinvolto, ma si capiva che diceva sul serio. Il solo pensiero di andare a terra ebbe l'effetto di un bicchiere di vodka. La prospettiva cambiò, portò più vicine le case, la chiesa e le montagne. Il vento divenne più fresco contro la sua guancia, l'acqua sciabordò più forte contro lo scafo. Mentre Hess infilava un paio di guanti neri di vitello, Arkady si guardò le mani nude, la giacca di tela macchiata, i pantaloni ruvidi e gli stivali di gomma. Hess se ne accorse. «Si è fatto la barba» lo rassicurò. «Un uomo che si è fatto la barba può andare dappertutto.» «E il comandante?»
«Il comandante Marchuk sa che la nuova parola d'ordine è "iniziativa". E si fida della lealtà delle masse.» Arkady trasse un respiro profondo. «Volovoi?» «È sul ponte e guarda dall'altra parte. Quando la vedrà andare a terra, lei sarà già arrivato. Mi sembra un leone che trova la gabbia aperta. Esita.» Arkady si aggrappò al parapetto per non perdere l'equilibrio. «Non è tanto semplice.» «C'è una cosetta» disse Hess. Tirò fuori dal giubbotto imbottito un foglio e lo appoggiò contro la paratia. C'era, in due righe, il riconoscimento che la defezione da una nave sovietica era un crimine contro lo Stato per il quale, in assenza del colpevole, sarebbe stata punita la sua famiglia. «Lo firmano tutti. Ha famiglia? Ha moglie?» «Sono divorziato.» «La moglie andrà bene.» Quando Arkady ebbe firmato, Hess disse: «Un'altra cosa. In porto, niente coltelli». Arkady estrasse il coltello dalla tasca del giubbotto. Fino al giorno prima l'aveva lasciato nell'armadio. Adesso gli sembrava impossibile separarsene. «Glielo terrò io» promise Hess. «Purtroppo non le era stata assegnata in anticipo una somma in valuta straniera per questa visita inaspettata al porto. Non ha dollari americani?» «No, e neppure franchi o yen. Non ne avevo bisogno.» Hess piegò il foglio con cura e lo rimise nel giubbotto. Come un padrone di casa che ama soprattutto le feste improvvisate disse: «Allora sarà mio ospite. Venga, compagno Renko, le mostrerò la famosa Dutch Harbor». Se ne stavano in piedi davanti ai portelli aperti e respiravano i vapori pungenti dell'acqua lucida di petrolio. Arkady non s'era mai trovato tanto vicino all'acqua in quegli ultimi dieci mesi, e tanto meno alla terra. Mentre la scialuppa attraversava il porto, vide che le case degli aleutini s'incuneavano tra la montagna e la baia e parevano marciare con orgoglio dietro la chiesa bianca con la cupola a cipolla. C'erano luci accese alle finestre e figure umane nelle ombre: persino l'esistenza delle ombre sembrava miracolosa, dopo un anno di vita nella nebbia. E l'odore era travolgente: il sentore salmastro della sabbia grigia della spiaggia e, potente come la forza di gravità, l'alito dolce dell'erba verde e dei muschi. C'era persino un cimitero con le croci ortodosse, come se i morti potessero venire sepolti senza sprofondare fino in fondo all'oceano.
La scialuppa aveva un ponte di comando in miniatura; ma il timoniere, un ragazzo biondo con un maglione pesante, stava alla ruota esterna. Dietro di lui, su un'asta corta, una bandiera sovietica sventolava come un fazzoletto rosso. «Costruita per la guerra e poi lasciata andare in rovina» disse Hess, e indicò una casa sulla cresta di un dirupo. Metà della casa era crollata e metteva in mostra scale e ringhiere come l'interno di una conchiglia. Arkady vide su altre colline una mezza dozzina di edifici grigi. «Era la guerra in cui eravamo alleati» soggiunse Hess, per il piacere del giovane timoniere. «Come dice lei, capo» commentò il giovane. Protetta dalla terra che la cingeva, la baia interna era calma. Un cerchio riflettente e rovesciato di verde ondeggiante circondava la scialuppa. «Fu prima che lei nascesse» disse Arkady al ragazzo. Adesso lo riconosceva. Era un radiotecnico che si chiamava Nikolai. Sembrava uscito da un manifesto del reclutamento: capelli del colore del granturco, occhi di fiordaliso, le spalle ampie e il sorriso indolente dell'atleta. «Fu la guerra di mio nonno» disse Nikolai. Arkady si sentì vecchissimo, ma continuò la conversazione. «Dove prestava servizio?» «A Murmansk. Andò e tornò dall'America dieci volte» rispose Nikolai. «Fu silurato due volte.» «Ma è un lavoro duro anche quello che fa lei.» Nikolai alzò le spalle. «Un lavoro intellettuale.» Ormai Arkady aveva riconosciuto la voce del tenente di Zina. Gli sembrava di vedere il giovane che navigava con sicurezza fra le cameriere del Corno d'Oro, con le stellette che brillavano sulle spalline e il berretto di traverso. Arkady pensò, e non per la prima volta, che non era stato aggredito se non quando aveva cominciato a cercare l'aiutante di Hess. «Che bel porto.» Lo sguardo di Hess vagò dal deposito al molo di cemento lungo un chilometro e mezzo fino alla torre della radio sulla collina, come se contemplasse le bellezze di una sconosciuta isola tropicale. Forse nessuno l'aveva visto scendere nella scialuppa, pensò Arkady. Sarebbe stato molto semplice toglierlo di mezzo. Era abbastanza comune che le navi zavorrassero i rifiuti e li buttassero in acqua quando entravano in porto. Ogni scialuppa portava a bordo un'ancora e una catena di scorta. Ma la scialuppa continuò a scivolare sulla superficie iridescente, superò i lucidi colori dei pescherecci che Arkady non aveva mai visto, passò abbastanza vicino perché fosse possibile distinguere gli uomini che innaffiava-
no i ponti e issavano le reti per ripararle, e per sentire le grida di richiamo dai moli prima nascosti dietro lo scafo color ardesia della nave che sfornava scatolame. Quando le colline si strinsero più vicine e il porto divenne una insenatura, Arkady scorse i minuscoli fiori artici e le strisce di neve nascosti fra l'erba. L'aria gli portava in gola il sapore del fumo di legna. Quando la scialuppa superò la nave-stabilimento, l'insenatura si restrinse ancora e Arkady vide imbarcazioni pili piccole all'attracco, incluse alcune non più grandi di barche a remi, e un paio di idrovolanti monomotore, e l'arancione inconfondibile della prima scialuppa della Stella Polare. Slava Bukovsky era di vedetta, e guardava con una sorpresa sfumata di sbigottimento la scialuppa che si avvicinava. Più indietro c'erano cani che fiutavano intorno ai mucchi di rifiuti, aquile appollaiate sui tetti e, miracolosamente, uomini che camminavano sulla terraferma. 18 Kolya aveva dimenticato le orchidee siberiane e stava in fondo al corridoio come un viaggiatore di fronte a tre cartelli indicatori. Alla sua sinistra c'era una catasta di ricevitori stereo con la sintonizzazione digitale ed equalizzatori cromati a cinque bande e neri amplificatori d'alta tecnologia. Alla sua destra c'era una montagna di mangianastri Dolby-stereo del tipo twin-deck, che potevano riprodurre le cassette come se fossero conigli. Davanti a lui c'era una torre di ricevitori grandi come valigie, con i mangianastri, in un assortimento di plastica antiurto rosa, turchese e avorio per registrare la musica occidentale direttamente mentre veniva trasmessa. Kolya non trovava il coraggio di voltarsi indietro perché c'erano pile di mangianastri tascabili, portachiavi che fischiavano quando si battevano le mani, orsacchiotti che parlavano, orologi-calcolatori che registravano il chilometraggio percorso e misuravano il polso... l'armamentario abbagliante e innumerevole di una civiltà basata sul microchip dei computer. Kolya affrontava la situazione con la collaudata tecnica sovietica: indietreggiava e osservava ogni articolo con occhi da serpente, come se fosse un mastello di burro rancido. Era un atteggiamento molto indicato nell'Unione Sovietica dove lo scaffale degli articoli "già rotti al momento dell'acquisto" era a volte pieno più delle vetrine. Un acquirente sovietico esperto non lasciava il negozio con l'acquisto se prima non l'aveva tirato fuori dalla scatola, l'aveva acceso e si era assicurato che svolgesse una qualunque fun-
zione. Inoltre, gli acquirenti sovietici cercavano la data di compimento dell'articolo sulla targhetta della fabbrica, nella speranza di trovare un giorno a metà del mese, anziché alla fine, quando la direzione cercava di realizzare la sua quota di televisori, di videoregistratori o di automobili con o senza tutti i pezzi necessari, oppure al principio del mese quando gli operai erano ancora inebetiti per aver realizzato la quota. Li non c'erano scaffali carichi di articoli difettosi e non c'erano date sul cartellino della fabbrica; e quindi, dopo aver finalmente raggiunto l'agognata destinazione, Kolya e altri cento sovietici, uomini e donne, stavano storditi davanti alle radio e ai calcolatori stranieri e ad altri esotici prodotti elettronici che avevano tanto sognato. «Arkady!» Kolya era contento di vederlo. «Tu che hai già viaggiato... dove sono i commessi?» Era vero: sembrava che non ci fossero. Un negozio sovietico ha molto personale perché l'acquirente deve comprare in tre fasi: deve farsi fare uno scontrino da un commesso, pagare a un secondo, consegnare la ricevuta a un terzo... e tutti sono troppo occupati a conversare fra loro o al telefono per accettare di buonagrazia di essere disturbati da uno sconosciuto che pretende di comprare qualcosa. Inoltre, la merce di qualità, come il pesce fresco, le nuove traduzioni o i reggiseni ungheresi, i commessi sovietici la nascondono sotto il banco o nel retro, e siccome sono tipi orgogliosi non hanno nessuna fretta di vendere la merce scadente. Per loro si tratta di un'attività che li disgusta. «Prova con lei» suggerì Arkady. Una signora dall'aria della nonna sorrideva da un banco. Portava un maglione di mohair candido come una volpe artica, e aveva i capelli di uno sbalorditivo blu argentato. Sul banco davanti a lei c'erano arance e mele a fette e cracker spalmati di pàté. Un cartello su una macchina per il caffè elettrica diceva "Caffè" in russo. C'era un registratore di cassa, e la donna vi stava riponendo il denaro pagato da alcuni marinai smaliziati che avevano portato direttamente a lei gli stereo prescelti. Alle sue spalle un grande cartello, sempre in russo, annunciava: DUTCH HARBOR PORGE IL BENVENUTO ALLA STELLA POLARE! Kolya sembrò sollevato fino al momento in cui fu colpito da un altro pensiero. «Arkady, cosa fai qui? Non hai il visto giusto.» «Ho una dispensa speciale.» Arkady stava ancora cercando di riabituarsi alla terraferma. Persino una nave-fattoria rollava e beccheggiava, e dopo dieci mesi il suo organismo
non si fidava del terreno immobile. Le luci fluorescenti e i colori vivaci del negozio sembravano girargli intorno. «Credevo che fossi un operaio, e sei diventato un investigatore» disse Kolya. «Credevo che non potessi scendere a terra e invece eccoti qui.» «Sono confuso anch'io» ammise Arkady. Anche se Kolya avesse avuto altre domande da fare, i suoi occhi si erano posati su uno scaffale di cassette vergini ad alta fedeltà che esercitavano su di lui un'attrazione magnetica. Arkady aveva notato qualche altra occhiata di stupore lanciata nella sua direzione: ma tutti erano troppo occupati in quel breve soggiorno in paradiso per fargli domande. Uno si fermò: in fondo al corridoio Slezko, l'informatore, spalancò la bocca, allarmato, e un dente d'oro gli illuminò la faccia grigia. Aveva in mano una scatola di bigodini elettrici... la prova che chissà dove esisteva una signora Slezkova. «Uggh.» Un macchinista trasalì dopo aver addentato un cracker. «Con che carne è fatto questo pàté?» «È fatto di noccioline» spiegò Izrael. «È burro d'arachidi.» «Oh.» Il macchinista diede un altro morso. «Niente male.» «Renko, sei un vero Lazzaro» disse Izrael. «Continui a schizzare fuori. La faccenda di Zina non è finita, vero? Vedo la tua aria decisa e mi si stringe il cuore.» «Arkady, sei venuto!» Natasha gli strinse il braccio come se fosse comparso a un ballo. «Ecco la prova. Sei un cittadino degno di fiducia altrimenti non te l'avrebbero permesso. Cos'ha detto Volovoi?» «Non vedo l'ora di saperlo» rispose Arkady. «Cos'hai comprato finora?» Natasha arrossì. I soli acquisti nella sua borsa di rete erano due arance. «L'abbigliamento è di sopra» disse. «Jeans, tute e scarpe da jogging.» «Vestaglie e pantofole» intervenne madame Malzeva. Gury s'era messo al polso un pesante orologio da safari con la bussola fissata al cinturino, e si girava in varie direzioni mentre si avvicinava al banco, come se ballasse tutto solo. «Un po' di mela?» La donna dai capelli blu gliene offri una fetta. «Yamaha.» Gury tentò di parlare inglese. «Software, programmi, disks.» Arkady, che non aveva denaro, si sentiva come un guardone. Mentre le due donne si avviavano verso la scala, si ritirò nella direzione opposta. Passando dal reparto alimentari, vide Lidia Taratura che riempiva la borsa di confezioni di caffè solubile. Due meccanici avevano scelto una scatola di ghiaccioli: stavano appoggiati a un banco frigorifero con i ghiaccioli in mano come due ubriachi. Come potevano resistere? La pubblicità sovietica
consisteva in una direttiva: "Comprate...!". Sulla confezione ci poteva essere una stella, una bandiera o il profilo di una fabbrica. Le confezioni americane, invece, ostentavano immagini a colori di donne bellissime e irraggiungibili e di bambini adorabili che si godevano quei prodotti "nuovi e ancora migliorati". Lidia era arrivata ai detersivi e stava cominciando a riempire un carrello. Anche Arkady si fermò nel reparto frutta e verdura. Sì, la lattuga era un po' bruniccia e avvolta nel cellofan, le banane erano vecchiotte e chiazzate di scuro, e molti chicchi dei grappoli d'uva erano spaccati, ma era la prima frutta al naturale che vedesse da quattro mesi, e quindi si fermò per renderle omaggio. Poi l'unico membro dell'equipaggio della Stella Polare capace di resistere alle blandizie del capitalismo uscì sulla strada. Il pomeriggio nordico si era assestato in una luce che affievoliva lentamente e rivelava l'ampia piazza sterrata e infangata, il centro di Dutch Harbor. Da una parte c'era l'emporio, dall'altra l'albergo. Erano tutti e due involucri prefabbricati, pareti metalliche costolate e finestre scorrevoli, e così lunghi da dare l'impressione che qualche piano inferiore fosse sprofondato nel fango e fosse scomparso. Una vetrina di case prefabbricate più piccole stavano al riparo di una collina. C'erano containers per navi mercantili e carrelli ribaltabili per merci e rifiuti, e mucchi di tubi a suzione srotolati che venivano usati per scaricare il pesce. E soprattutto c'era fango. Le strade erano onde di fango congelate; camioncini e furgoni rollavano come barche quando attraversavano la piazza, e ogni veicolo aveva un bordo di fango. Ogni struttura costruita dall'uomo aveva le tonalità della terra, ocra o bruno, in una resa calcolata al fango. Macchiava persino la neve; eppure Arkady sarebbe stato disposto a sdraiarvisi e a sguazzare in quella stretta inflessibile e mordente. Davanti all'emporio c'erano una dozzina di sovietici; forse stavano rimandando l'atto decisivo dell'acquisto, o forse l'emozione li aveva costretti a concedersi una pausa e a uscire per fumare una sigaretta. Stavano in cerchio, come se fosse meno pericoloso guardare la cittadina al di sopra delle spalle di un altro. «Non è diverso da casa, sapete» disse uno. «Sembra la Siberia.» «Noi usiamo il cemento precompresso» disse un altro. «Il fatto è che è proprio come diceva Volovoi. E io non gli credevo.» «Questa sarebbe una tipica città americana?» chiese un terzo. «Così ha detto il primo ufficiale.» «Mi aspettavo qualcosa di diverso.»
«Noi usiamo il cemento.» «Non si tratta di questo.» Arkady si guardò intorno e vide tre strade che si diramavano dalla piazza. Una fiancheggiava la baia e raggiungeva il deposito, la seconda arrivava al lato della baia con il villaggio aleutino, la terza penetrava nell'entroterra. Prima, dalla nave, aveva notato altri ancoraggi e un aeroporto sull'isola. Il dialogo continuò. «Tutta quella roba da mangiare, tutte quelle radio. Vi sembra normale? Io ho visto un documentario. I loro negozi sono così pieni di roba da mangiare perché la gente non ha i soldi per comprarla.» «Oh, andiamo.» «È vero. L'ha detto Posner alla televisione. A lui gli americani sono simpatici, ma l'ha detto.» Arkady tirò fuori una Belomor, anche se una papirosa gli sembrava fuori posto. Aveva notato che l'emporio aveva una banca al piano terreno e diversi uffici al secondo. Nell'imbrunire le loro luci irradiavano un tepore da stufa. Dall'altra parte della strada l'hotel aveva finestre più piccole e meno vistose, a parte la sfolgorante vetrina d'un negozio di liquori che l'equipaggio aveva ricevuto l'ordine di evitare. «C'è un posto come quello, a casa. Un ostello per marinai, dieci copechi per notte. Chissà quanto fanno pagare, qui.» «Chissà quanti uomini mettono in ogni stanza.» Il primo piano dell'albergo sporgeva sopra il pianterreno e formava una specie di portico protetto che doveva servire durante le piogge o quando la neve si ammucchiava durante l'inverno. D'altra parte, la popolazione di Dutch Harbor si dimezzava in novembre, quando finiva la stagione della pesca. «Il fatto è che sentì parlare d'un posto per tutta la vita, e ti sembra fantastico. Un mio amico è andato in Egitto. Aveva letto tanto sui faraoni e i templi e le piramidi. Poi è tornato con certe malattie che neanche immaginate.» «Sttt, sta arrivando una di loro.» Una donna sulla trentina era diretta verso l'emporio. I capelli erano arricciati in una spuma bionda, la faccia era atteggiata in un'espressione di broncio. Nonostante il freddo indossava soltanto una giacca di coniglio, jeans e stivali alla cowboy. I cosmopoliti sovietici ammiravano la baia. Persino un guerriero africano armato di lancia avrebbe potuto passargli accanto senza distogliere la loro attenzione dall'acqua. Non guardarono la donna
se non quando fu passata oltre. «Non è male.» «Non è poi tanto diversa.» «È quello che volevo dire io. Non è meglio.» L'uomo tirò un calcio al fango, aspirò profondamente e squadrò con fare autorevole l'albergo, le colline e la baia. «Mi piace.» Uno a uno spensero le sigarette, si disposero in silenzio nei prescritti gruppi di quattro, si fecero coraggio con uno scambio di cenni e di alzate di spalle e cominciarono a rientrare nell'emporio. «Chissà» disse uno, «se qui si possono comprare stivali come quelli.» Arkady pensava al finale di Delitto e castigo, a Raskolnikov redento sulla riva del mare. Forse si era lasciato un po' sedurre dal modo in cui Dostoevskij aveva presentato l'interrogatore intelligente, quando aveva deciso di diventare investigatore; eppure, a metà della vita, per un capriccio del destino non era il poliziotto bensì il criminale, una specie di galeotto senza condanne che stava sulla riva del Pacifico come Raskolnikov, ma dall'altra parte dell'oceano. Quanto tempo sarebbe passato prima che Volovoi lo facesse trascinare di nuovo a bordo? Si sarebbe aggrappato al terreno come un granchio, quando fossero venuti a prenderlo? Non voleva andarsene. Era così riposante stare all'ombra di una collina nella certezza che quella collina, diversamente dalle onde, non gli sarebbe sfuggita sotto i piedi. L'erba che tremava nella brezza sarebbe stata l'indomani sullo stesso pendio. Le nubi si sarebbero raccolte intorno agli stessi picchi e si sarebbero illuminate come fiamme al tramonto. Persino il fango sarebbe ghiacciato e si sarebbe fuso secondo la stagione, ma sarebbe rimasto lì. «Quando l'ho visto non riuscivo a crederlo.» Susan era uscita dall'albergo e aveva attraversato la strada. La giacca, quella che aveva avuto addosso quando aveva lasciato la nave, era messa di traverso, i capelli erano spettinati e gli occhi stravolti, come se avesse pianto. «Poi mi sono detta: Naturale che sia qui. Voglio dire, avevo quasi creduto che qualcuno del circuito sporco potesse essere stato un investigatore, molto tempo prima. E parlasse inglese. Dopotutto, è il tipo d'uomo capace di essersi messo in un guaio così grosso da non poter ottenere un visto per scendere a terra. Era possibile. Poi ho guardato dalla porta dell'albergo, e che cosa ho visto? Lei, che stava qui come se fosse padrone dell'isola.» In un primo momento Arkady pensò che fosse sbronza. Le donne bevevano, persino le americane. Vide Hess e Marchuk che uscivano dall'alber-
go, seguiti da George Morgan. Tutti e tre erano in maniche di camicia, anche se il capitano dell'Eagle aveva il berretto in testa. «Qual è la versione di oggi?» chiese Susan. «Qual è la favola ufficiale?» «Zina si è suicidata» disse Arkady. «Ed è venuto a terra come ricompensa? Le pare che sia logico?» «No» confessò Arkady. «Proviamo in un altro modo.» Susan gli puntò contro l'indice come se fosse uno stecco affilato teso verso un serpente. «L'ha uccisa lei e come ricompensa è venuto a terra. Questo si che ha senso.» Morgan afferrò Susan per la manica della giacca e l'allontanò da Arkady. «Perché non pensi a quello che dici?» «Siete due bastardi.» Susan liberò il braccio. «Probabilmente vi siete messi d'accordo.» «Ti chiedo soltanto» disse Morgan, «di pensare a quello che dici.» Susan cercò di tornare verso Arkady girando intorno a Morgan, ma lui allargò le braccia. «Siete una bella coppia» disse lei. «Calmati» Morgan assunse un tono ragionevole. «Non dire niente di cui finiresti per pentirti. Perché può diventare un grosso pasticcio, Susan, lo sai.» «Che bella coppia di bastardi. Uno vale l'altro.» Susan si voltò disgustata e guardò il cielo... Un trucco per trattenere le lacrime: Arkady lo sapeva. Quando Morgan incominciò «Susan...» lei lo azzitti alzando la mano e senza aggiungere una parola tornò verso l'albergo. Morgan si rivolse ad Arkady con un sorriso tirato. «Mi dispiace, non so cosa le abbia preso.» Susan passò fra Marchuk e Hess e rientrò. I due raggiunsero Morgan e Arkady sulla strada. Il comandante sovietico aveva l'aria di chi ha già bevuto un bicchiere o due. Adesso era abbastanza freddo perché l'alito formasse nuvolette visibili. C'era un certo imbarazzo mascolino per il comportamento di Susan. «È naturale» disse Morgan. «Ha appena saputo che il suo sostituto è stato costretto a tornare a Seattle. Lei dovrà restare a bordo della Stella Polare.» «Questo spiega tutto» replicò Arkady. 19
Arkady e gli altri due sovietici bevevano birra a un tavolo in legno di sequoia. Quando qualcuno urtò contro il divisorio che li separava dal bar, Marchuk osservò: «Quando gli americani si sbronzano, diventano rumorosi. Un russo diventa più serio. Beve fino a quando cade con dignità, come un albero». Meditò sopra la birra per un momento. «Non hai intenzione di scappare?» «No» rispose Arkady. «Sia chiaro: una cosa è togliere un uomo dal circuito sporco e lasciarlo girare per la nave. Un'altra è permettergli di scendere a terra. Cosa credi che succeda a un comandante quando un suo marinaio defeziona? Un comandante che lascia scendere a terra uno con il tuo visto?» Marchuk si tese in avanti come per inchiodare Arkady con gli occhi. «Dimmelo tu.» «Probabilmente hanno ancora bisogno d'un guardiano notturno a Norilsk.» «Te lo dico io. T'inseguirei e ti ammazzerei personalmente. Certo, hai tutto il mio appoggio più cordiale, ma ho pensato che dovessi saperlo. Salute.» «Salute.» Arkady apprezzava la sincerità. «Congratulazioni.» George Morgan accostò una sedia e brindò toccando con la sua la bottiglia di Arkady. «Ho saputo che ha risolto il caso. Suicidio?» «Aveva lasciato una lettera.» «Che fortuna.» Morgan era ridiventato sicuro di sé. Non era una tigre dalla barba nera come Marchuk o uno gnomo come Hess, ma un professionista dalla faccia butterata dove spiccavano due occhi azzurri. «Stavamo dicendo che Dutch Harbor è un posto molto fuori dal comune» disse Hess. «Siamo più vicini al Polo Nord che al resto degli Stati Uniti» disse Morgan. «È strano.» Era diverso, pensò Arkady. Un bar sovietico era silenzioso, un ritrovo per uomini posati; quello era un'esplosione di suoni. Lungo il banco c'era una folla di omaccioni con camicie e berretti scozzesi, i capelli lunghi e la barba e una disinvoltura che sembrava portare naturalmente a scambiarsi pacche sulle spalle e a bere attaccati alla bottiglia. La folla e il chiasso sembravano raddoppiati da un lungo specchio sopra una fila di bottiglie. In un angolo, alcuni aleutini giocavano a biliardo. Ai tavoli c'erano donne, ragazze con la faccia tirata e i capelli di un biondo eccessivo, ma erano ignorate quasi tutte, a parte la cerchia dove pontificava Ridley. L'ufficiale
di macchina di Morgan si distingueva da tutti anche perché portava una camicia di velluto e una catena d'oro: sembrava un principe del Rinascimento che familiarizzasse con i contadini. Ridley si avvicinò ad Arkady. «Le signore vogliono sapere se avete un uccello con due teste.» «Qui com'è normale?» chiese Arkady. «Qui non è normale niente. Basta vedere tutti questi imprenditori americani che dipendono completamente da voi comunisti. È vero. Le banche tenevano i pescatori per le palle perché tutti quanti s'erano fatti fare grossi prestiti durante il boom dei granchi reali. Ecco perché qui ci sono persino battelli del Golfo come il nostro. Quando i granchi sparirono, tutti ci rimisero pescherecci, attrezzature, macchina, case. Lavoreremmo alle pompe di benzina, se non pescassimo. Poi sono arrivati i russi nel '78 e hanno cominciato a comprare tutto quello che riuscivamo a prendere. Grazie a Dio e alla cooperazione internazionale. Se dovessimo contare sugli Stati Uniti saremmo in braghe di tela. Vuole qualcosa di strano? Ecco qui.» «Quanto guadagnate?» «Dieci, dodicimila al mese.» Arkady calcolò che lui guadagnava circa cento dollari, secondo un cambio realistico al mercato nero. «È strano» dovette ammettere. Nel loro angolo, sotto una lampada fluorescente, gli aleutini giocavano a biliardo con cupa concentrazione. Portavano berretti, giacche imbottite e occhiali scuri, tutti tranne Mike, il marinaio dell'Eagle. Mike lanciò un grido soddisfatto mentre la palla rotolava verso una buca, spingeva dentro un'altra palla e si fermava appena in tempo. Tre ragazze aleutine dai giubbotti pastello erano sedute lungo una parete e parlottavano fra loro. Una ragazza bianca era seduta tutta sola contro la parete di fronte. Masticava una gomma e seguiva con gli occhi i tiri di Mike, senza badare agli altri. «Gli aleutini sono padroni dell'intera isola» disse Ridley ad Arkady. «La marina li aveva buttati fuori durante la guerra, poi Carter gliel'ha regalata, e adesso non hanno bisogno di pescare. Mike lo fa perché ama il mare.» «E lei?» chiese Arkady. «Lo ama anche lei?» Ridley non si era limitato a pettinarsi i capelli a coda di cavallo e a puntarsi le trecce dietro le orecchie; sembrava che avesse sovraccaricato gli occhi e il sorriso tagliente. «Lo odio. È contro natura far galleggiare l'acciaio sull'acqua. L'acqua salata è il nostro comune nemico. La vita è già abbastanza breve.»
«Il suo collega Coletti era nella polizia?» «Faceva il servizio di pattuglia, non era un investigatore bilingue come lei. A meno di contare l'italiano.» Arrivò la bottiglia di scotch, e Morgan versò. Ridley disse: «Quello che mi manca in mare è la civiltà, perché la civiltà è formata dalle donne, e in questo la Stella Polare ci batte. Prendete Cristo e Freud e Karl Marx e metteteli per sei mesi su una barca, e diventeranno primitivi e volgari come noi». «Il suo ufficiale di macchina è un filosofo» disse Hess a Morgan. «Per la precisione, negli anni Cinquanta avevamo certe navi per l'inscatolamento che partivano dalla Kamchatka e avevano a bordo settecento donne e una dozzina di uomini. Inscatolavano i granchi. Il procedimento richiedeva che il metallo non toccasse mai i granchi, e perciò adoperavamo rivestimenti speciali prodotti in America. Comunque, per ragioni di ordine morale, il vostro governo ordinò di non fornire più i rivestimenti per le scatolette comuniste, e la nostra industria dei granchi andò a rotoli.» Arkady ricordava molte delle storie che si raccontavano. C'erano stati disordini a bordo di quelle navi, c'erano state donne che avevano violentato gli uomini. Non era gran cosa, come civiltà. «Alle joint ventures.» Morgan alzò il bicchiere. In Unione Sovietica non si giocava a biliardo, ma Arkady ricordava i militari americani in Germania e la loro passione per quel gioco. Sembrava che Mike stesse vincendo; e riceveva baci augurali dall'amica che masticava il chewing-gum. Se lo zar non avesse venduto l'Alaska, gli aleutini avrebbero giocato a scacchi? Ridley seguì lo sguardo di Arkady. «Gli aleutini andavano a caccia di lontre marine per la Russia. Andavano a caccia di otarie, trichechi, balene. Adesso sono troppo indaffarati ad affittare i moli alla Exxon. Sono un branco di capitalisti americani indigeni. Non sono come noi.» «Io e lei?» «Sicuro. La verità è che i pescatori hanno molte pili cose in comune tra loro che con quelli sulla terraferma. Per esempio, sulla terraferma la gente ama le otarie. Quando io vedo un'otaria, vedo una ladra. Quando si passa davanti alle isole Ahelikoff sono lì in agguato... intere bande, quaranta o cinquanta alla volta. Non hanno paura. Si avvicinano alla rete. Diavolo, pesano trecento, trecentocinquanta chili l'una. Sono come quei maledetti orsi.» «Le otarie» spiegò Hess a Marchuk, e Marchuk roteò gli occhi per indi-
care che capiva. «Fanno due cose» disse Ridley. «Non si accontentano di fregare un solo pesce dalla rete e di filarsela. No, strappano un boccone dalla pancia di ogni pesce. Se nella rete ci sono i salmoni, rubano cinquanta dollari a morso. E poi, quando si è stancata, quella figlia di puttana, arraffa un ultimo pesce e si tuffa in acqua. Poi fa qualcosa di veramente carino. Risale a galla con il pesce in bocca e ti saluta con le pinne... come per dirti: "Vai a farti fottere, fesso". Ecco perché furono inventate le Magnum. Non credo che niente altro, a parte una Magnum, possa fermare un grosso maschio. Voi che cosa adoperate?» Hess tradusse la risposta di Marchuk. «Ufficialmente sono una specie protetta.» «Sicuro, è quello che dicevo anch'io. A bordo dell'Eagle ho un arsenale completo, apposta per loro. Dovrebbero essere protette.» Ridley annuì. Ridley aveva una qualità ambivalente, pensò Arkady; aveva il dono di fare la parte dell'individuo simpatico e del duro, senza perdere l'aria del poeta. L'ufficiale di macchina lo stava fissando. «A giudicare dalla sua espressione» disse, «c'è da pensare che sia omicidio.» «Omicidio di chi?» chiese Arkady. «Non di chi, ma di che cosa» rispose Ridley. «Delle otarie.» Marchuk alzò il bicchiere. «L'importante è che, sovietici o americani, siamo tutti pescatori e facciamo qualcosa che ci piace. Agli uomini felici.» «"La felicità è l'assenza di dolore."» Ridley vuotò il bicchiere e lo posò. «Ora sono felice. Mi dica» chiese ad Arkady, «la rende felice lavorare al circuito sporco, bagnato e infreddolito e coperto di budella di pesce?» «Al circuito sporco abbiamo un altro detto» rispose Arkady. «"La felicità è la massima concordanza tra realtà e desiderio."» «Una risposta intelligente. Salute» disse Morgan. «Chi l'ha detto? Tolstoj? Dostoevskij?» «Stalin» disse Arkady. «La filosofia sovietica è piena di sorprese.» «Da parte sua, si» disse Susan. Arkady non sapeva da quanto fosse in piedi accanto al tavolo. I capelli erano umidi e pettinati all'indietro, le guance erano bagnate e pallide e facevano sembrare più rossa la bocca, gli occhi più scuri. Il contrasto le conferiva un'intensità nuova. Ridley se n'era andato con Coletti in cerca di qualcuno disposto a giocare a carte. Marchuk era tornato a bordo per dare a Volovoi la possibilità di scendere a terra. Appena il primo ufficiale avesse saputo che Arkady era
sull'isola sarebbe volato come un carnefice con le ali. Comunque, due ore a terra erano sempre meglio di niente. Persino in un bar, ogni minuto era come tornare a respirare l'aria. Anche se il chiasso continuava ad aumentare, Arkady lo notava sempre meno. Susan era seduta con le gambe raggomitolate sotto di sé. Il viso era in ombra, entro un'aureola di capelli dorati. La solita maschera di animosità s'era incrinata e aveva rivelato un piano di mistero, più tenebroso e interessante. «Detesto Volovoi, ma posso credergli più facilmente di quanto creda a lei.» «Eccomi qui.» «Votato alla verità, alla giustizia e al modo di vivere sovietico?» «Votato a mollare la nave.» «Lo scherzo è proprio questo. Torneremo indietro tutti e due, e io non sono neppure russa.» «E allora se ne vada.» «Non posso.» «Chi la costringe a restare?» chiese Arkady. Susan accese una sigaretta, versò un po' di scotch sul ghiaccio e non rispose. «Quindi soffriremo insieme» disse Arkady. George Morgan e Hess si stavano spartendo la loro bottiglia. «Immagini» disse Morgan, «se facessimo tutto con il sistema della joint venture.» «Se cooperassimo veramente?» chiese Hess. «Se seppellissimo i sospetti e smettessimo di cercare di farci lo sgambetto l'uno con l'altro. Saremmo fatti per intenderci.» «Noi prendiamo i cinesi e voi i giapponesi?» «E ci dividiamo i tedeschi finché possiamo.» «Come descriverebbe l'inferno?» chiese Susan ad Arkady. Arkady rifletté. «Un Congresso del partito. Un discorso di quattro ore del segretario generale. No, un discorso eterno. I delegati, sparsi come sogliole, che ascoltano un discorso interminabile.» «Una serata immaginaria con Volovoi. Guardarlo mentre fa il sollevamento pesi. Lui è nudo o sono nuda io. In ogni caso, è orribile.» «La chiama Suu-san.» «Lo fa anche lei. Qual è il nome che pronuncia meglio?» «Irina.» «La descriva.»
«Capelli castano chiaro, occhi marrone molto scuro. Alta. Piena di vita e d'energia.» «Non è sulla nave.» «No.» «È a casa?» Arkady cambiò argomento. «Sulla Stella Polare le sono affezionati.» «I russi mi sono simpatici ma non mi piacciono i microfoni-spia nella mia cabina. Se dico che non c'è burro, mi servono all'improvviso un piatto di burro. Bernie ha una discussione politica con un marinaio, e il marinaio viene sbarcato. All'inizio si cerca di non dire niente di offensivo; ma dopo un po' per non perdere la ragione si comincia a parlare di Volovoi e dei suoi lumaconi. Per me la Stella Polare è un inferno. E per lei?» «È soltanto un limbo.» «Potrebbe essere tutto una joint venture» disse Hess. «La rotta marittima più breve tra l'Europa e il Pacifico passa dall'Artico, e noi potremmo mettere a disposizione i rompighiaccio, come la Stella Polare guida l'Eagle.» «E dovremmo affidarci a voi?» chiese Morgan. «Non credo che le cose siano cambiate fino a questo punto.» «Aveva simpatia per Zina» osservò Arkady. «Le ha regalato il costume da bagno, le ha prestato gli occhiali da sole. In cambio lei le dava... che cosa?» Susan impiegò molto tempo prima di rispondere. Era come tenere una conversazione al buio con un gatto nero. «Divertimento» disse finalmente. «Le parlava della California e Zina parlava di Vladivostok: uno scambio alla pari?» «Era una combinazione d'innocenza e di furberia. Una Norma Jean russa.» «Non capisco.» «Norma Jean si ossigenò i capelli e diventò Marilyn Monroe. Zina Patiashvili si è ossigenata i capelli ed è rimasta Zina Patiashvili. Stesse ambizioni, risultati diversi.» «Eravate amiche.» Susan gli riempì di nuovo il bicchiere al punto che lo scotch traboccò dall'orlo, poi riempì anche il proprio. «È un gioco norvegese» disse. «Il primo che fa traboccare il liquore deve bere. Se perdi per due volte, devi restare seduto sulla sedia mentre l'altro ti prende a botte in testa e cerca di farti cadere.» «Possiamo farlo senza le botte. Dunque, era amica di Zina» insistette
Arkady. «La Stella Polare è come una cella per gli esperimenti di deprivazione. Sa com'è raro incontrare qualcuno che sembra davvero vivo e imprevedibile? Il problema è che voi sovietici avete un'idea strana degli amici. Siamo tutti persone di buona volontà e amanti della pace, ma Dio non voglia che un sovietico e un americano diventino troppo intimi. Allora il sovietico finisce su una nave diretta in Nuova Zelanda.» «Zina non era stata allontanata.» «No. Perciò sapevamo che ci spiava, almeno in una certa misura. Ero disposta a sopportarlo perché era così viva, così divertente, e molto più sveglia di quanto immaginassero gli uomini.» «Con quali dei suoi uomini andava a letto?» «Come sa che andava a letto con qualcuno?» «Lo faceva di continuo: era una sua abitudine. Se c'erano quattro uomini americani a bordo, andava a letto almeno con uno di loro.» «Lantz.» Arkady ricordava Lantz, il magro e languido osservatore che aveva rivisto nella sauna. «Dopo che l'aveva avvertita? Non doveva essere stato Volovoi.» Arkady bevve un sorso. «Ottimo scotch.» La superficie del bicchiere strapieno di Susan tremolò ma senza traboccare. La luce al neon vi si rifletteva come una luna. «E lei con chi va a letto, sulla Stella Polare?» chiese Susan. «Con nessuna.» «Allora la Stella Polare è una deprivazione anche per lei. Salute.» Morgan alzò per la prima volta la testa verso Susan, poi tornò ad ascoltare Hess che gli descriveva l'ultima invasione di Mosca. «I giapponesi sono dappertutto, almeno negli alberghi migliori. Il miglior ristorante di Mosca è giapponese, ma è impossibile entrarci perché loro lo riempiono completamente.» Arkady disse: «Zina le aveva parlato della sua relazione con il comandante Marchuk, non è vero? Perciò non mi ha detto di averli visti al parapetto di poppa durante il ballo? Per non causargli imbarazzo?». «Era buio.» «Il comandante non crede che sia stato un suicidio. Lei le aveva parlato: era depressa?» «Lei è depresso?» ribatté Susan. «Ha impulsi suicidi?» Arkady si ritrovò nuovamente fuori strada. Non era più allenato agli interrogatori... era troppo lento e si lasciava disorientare dal flusso contrario
delle domande di Susan. «No, direi che sono spensierato e mi godo la vita. Naturalmente ero più spensierato quando ero iscritto al partito.» «Ci scommetto.» «È più difficile finire nei guai quando si ha la tessera.» «Davvero? Per esempio?» «Prendiamo il contrabbando. Senza la tessera del partito è una tragedia. Con la tessera è una comica.» «Perché?» «Ecco. Diciamo che si faccia beccare il secondo ufficiale. Compare davanti agli altri ufficiali e singhiozza: "Non so che cosa mi abbia preso, compagni. Non avevo mai fatto una cosa simile. Vi prego, datemi una possibilità di riscattarmi".» «E allora?» Susan s'era lasciata attirare nella luce. Hess e Morgan avevano smesso di parlare e stavano in ascolto. «Si vota» continuò Arkady, «e viene deciso di annotare una severa reprimenda sul dossier del partito del secondo ufficiale. Passano due mesi e c'è un'altra riunione.» «Sì?» disse Susan. «Il comandante dice: "Eravamo tutti delusi dal comportamento del secondo ufficiale e in certi momenti ho pensato che non avrei più voluto navigare con lui, però adesso vedo un sincero sforzo per riscattarsi".» «E l'ufficiale politico...» suggerì Susan. «L'ufficiale politico dice: "È tornato ad abbeverarsi alle fonti più limpide del pensiero comunista. Propongo che, in considerazione della sua rinascita spirituale, la severa reprimenda venga cancellata dal suo dossier del partito". Si può immaginare qualcosa di più comico?» Susan disse: «È un tipo buffo, Renko». «È un arrabbiato» disse Hess. «Così finisce se sei iscritto al partito» riprese Arkady. «Ma se non lo sei, se sei soltanto un lavoratore e ti fai sorprendere a contrabbandare videotapes o pietre preziose, il risultato è una condanna a cinque anni in un campo di lavoro.» «Mi dica qualcosa di Irina» chiese Susan. «Mi sembra interessante. Dov'è?» «Non lo so.» «Da qualche parte...» Susan allargò le braccia. «Là fuori?» «C'è gente così» disse Arkady. «Vede, c'è il Polo Nord e il Polo Sud. E
c'è il Polo dell'Inaccessibilità. Un tempo si credeva che tutti i ghiacci dell'Oceano Artico ruotassero intorno a un punto, un polo mitico circondato da lastroni intransitabili. Io penso che lei sia là.» Senza interrompersi, chiese: «Zina era depressa la sera del ballo?». «Non ho detto di averle parlato.» «Se l'aveva avvertita di stare alla larga dagli americani della Stella Polare, non l'avrebbe avvertita anche di lasciar stare gli americani dell'Eagle?» «Diceva che aveva trovato il vero amore. Questo non si può impedire.» «Quali sono state esattamente le sue parole?» «Ha detto che nessuno avrebbe potuto fermarla.» «Se state parlando di Mike» intervenne Morgan, «si sono incontrati solo a un paio di balli. Altrimenti non facevano altro che salutarsi da lontano. Comunque tutti i miei uomini erano tornati a bordo: quindi che importanza ha?» «A meno che Zina sia stata assassinata» disse Susan. Morgan reagì con il sorriso forzato di un uomo che non ha più molta pazienza con i sempliciotti. E sembrava che classificasse tutti in quella categoria, a parte Hess, pensò Arkady. «Ho finito le sigarette» disse Susan. «C'è un distributore nell'atrio. Può venire?» chiese ad Arkady. Arkady guardò Hess che annuì. Morgan scosse la testa guardando Susan, ma lei lo ignorò. «Staremo via un secondo appena» gli disse. Il distributore automatico offriva una dozzina di marche diverse ma Susan non aveva la moneta giusta. «E so che lei non ne ha di nessun genere.» «No» confermò Arkady. «Ho le sigarette in camera mia. Venga.» La camera di Susan era al primo piano, in fondo al corridoio, una gamma di suoni e di echi. Ogni stanza ospitava una discussione diversa o suonava un nastro differente. Susan toccò due volte le pareti per ritrovare l'equilibrio e Arkady si chiese fino a che punto era sbronza. Lei aprì la porta di una stanza che non era molto più grande della sua cabina a bordo della Stella Polare ma offriva due letti gemelli, una doccia, il telefono e, anziché una radio sovietica murata con due sole stazioni, un televisore su una scrivania. Sul comò c'erano lo scotch, un secchiello di plastica pieno di ghiaccio e una lampada snodabile. I letti erano accanto alla finestra e, sebbene fosse stretta e sporca e non avesse neppure i doppi vetri, Arkady si sentì immerso in un lusso stravagante.
Fuori il sole era scomparso e Dutch Harbor sprofondava nel buio. Dall'alto, Arkady vide i suoi compagni di navigazione che uscivano dall'emporio e si radunavano sulla strada, come se fossero riluttanti a tornare al molo anche se avevano le braccia appesantite da sacchetti di plastica pieni di acquisti. Erano abituati a stare in coda ore e ore per comprare un ananas o un paio di calze. Quello non era niente, era il paradiso. Le Polaroid lampeggiavano, catturavano un serrato schieramento di amici, biancazzurri in un porto americano. Natasha e Dynka. Lidia e Olimpiada. Su una collina sopra il deposito, un fuoco ardeva come un faro. Ridley aveva detto che c'erano sempre incendi: i ragazzi davano fuoco alle strutture di legno rimaste dai tempi della guerra. La nebbia s'era infittita intorno alla collina e trasformava le fiamme in un morbido baluginio. Arkady trovò l'interruttore della luce e lo fece scattare. «Cosa intendeva quando ha detto che io e Morgan avevamo combinato qualcosa insieme?» «Il capitano Morgan non sta molto attento alla gente che frequenta.» Susan spense l'interruttore. «Anch'io.» «Due giorni fa qualcuno ha cercato di uccidermi.» «Sulla Stella Polare?» «E dove, se no?» «Basta con le domande.» Susan gli tappò la bocca con la mano. «Sembri proprio vero» disse. «Ma devi essere falso perché è falso tutto quanto. Ricordi la poesia?» Gli occhi di Susan erano così scuri che Arkady si domandò quanto avesse bevuto. Sentiva l'odore umido dei capelli di lei. «Sì.» Sapeva a quale poesia si riferiva. «Recitala.» «"Dimmi come ti baciano gli uomini."» Susan si appoggiò a lui e nello stesso istante si alzò, accostando il viso al suo. Strano. Un uomo si considera quasi morto, freddo, inerte, poi appare la fiamma giusta e lui vi si precipita come una falena. Le labbra di Susan si schiusero. «Se fossi vero.» «Sono vero come te.» La sollevò e la portò fino al letto. Dalla finestra vide che la piazza era illuminata dai flash come in una celebrazione di fuochi d'artificio silenziosi: un'ultima ondata di fotografie prima che i visitatori felici, i suoi compagni di navigazione, tornassero al molo. Sulla strada, il lampo vivo di un flash illuminò Natasha in posa civettuola, con la giacca aperta su una collana di
vetro, la testa di profilo per mettere in mostra uno degli orecchini di vetro. Stranamente, Arkady si sentì un traditore mentre l'osservava dalla finestra di un albergo. Rimase accanto al letto, in uno di quei momenti che segnano una differenza decisiva per il resto di una vita. Sulla strada un lampo azzurro illuminò Gury e Natasha e bloccò incidentalmente per un attimo Mike, l'aleutino, che stava uscendo dall'albergo. «Cosa succede?» chiese Susan. Un altro flash inondò la sorridente madame Malzeva che stringeva una pezza di raso, e inquadrò anche Volovoi che entrava a precipizio. «Devo andare» disse Arkady. «Perché?» chiese Susan. «C'è Volovoi. Mi sta cercando.» «Te ne andrai con lui?» «No.» «Hai intenzione di scappare?» Susan si sollevò a sedere. «No. Su quest'isola non potrei neppure se volessi. Dipendete troppo da noi. A chi altri venderebbero il loro pesce, i pescatori? Chi altri viene fin qui per comprare stereo e scarpe? Se un sovietico cercasse di scappare, lo riconsegnereste appena preso.» «Allora dove vai?» «Non lo so. Non torno alla nave. Per ora.» 20 Mentre saliva la collina, Arkady sentiva l'erba folta che cedeva e poi tornava a sollevarsi dopo i suoi passi. Laggiù l'albergo era inondato dalla luce elettrica, con le finestre luminose allineate a mezz'aria lungo il marciapiedi che era un fascio di luce ancora bianca. Una figura sul marciapiedi sembrava muoversi al rallentatore: Volovoi che guardava prima a destra e poi a sinistra. Gli ultimi sovietici stavano raggiungendo i compagni sulla strada, e alcuni si stavano già avviando verso i moli come l'avanguardia di una mandria. Alcuni degli uomini attesero mentre Lantz entrava nel negozio di liquori. Quando tornò, distribuì bottiglie di vodka da mezzo litro a tutti, e quelli le infilarono nei calzoni. Anche Natasha e Lidia indugiavano, come per dare un ultimo abbraccio alla serata. America? Con tutti quei sovietici per la strada avrebbe potuto essere un villaggio russo, con i cani russi che
abbaiavano nei cortili, e l'erba russa che ammantava le colline. Arkady immaginava Kolya che, al buio, dissotterrava tenere orchidee e Obidin che varcava la porta della chiesa. Aveva attraversato la strada lontano dall'albergo e stava procedendo accanto all'emporio. La costruzione aveva le vetrine solo lungo la facciata: perciò s'era avventurato nell'ombra del retro e quindi aveva manovrato fra le costruzioni prefabbricate, lunghe case metalliche con le finestre di alluminio inondate dai colori mutevoli dei televisori accesi. Due cani, bianchi e neri e con gli occhi chiari, abbaiarono contro di lui; ma i padroni non si fecero vedere. Nel deposito c'erano buche e pezzi di automobili e tubi a suzione coperti di neve; tuttavia scivolò una volta sola prima di raggiungere la collina. Mike era molto più avanti, e teneva il fascio della lampada tascabile puntato sul sentiero. Finora non s'era voltato a guardare. La terra era così seducente: era buia, ma solida sotto i piedi. Ogni tanto Arkady calpestava cuscini soffici d'erba o di muschio. I lupini secchi gli sfioravano le mani. Non vedeva bene le montagne vulcaniche che si ergevano come muraglie nella nebbia, ma ne sentiva la presenza. Nel porto, le luci delle navi all'ancora erano più distinte: quelle della Stella Polare aleggiavano su una distesa nera inclinata. E se fosse fuggito? Non c'erano alberi per nascondersi, e c'erano poche case dove chiedere rifugio. C'era un aeroporto dall'altra parte dell'isola. Cosa avrebbe potuto fare? Saltare su una ruota mentre decollava un aereo? I ciuffi d'erba facilitavano la salita. La neve era racchiusa sul pendio settentrionale, e c'era abbastanza luce per sfumare d'azzurro i cumuli. Dopo dieci mesi in mare era come salire in paradiso. Un vento freddo, preannuncio del prossimo inverno, sollevava vapori odorosi di terra dagli arbusti carichi di bacche e dal muschio. Sembrava che anche Mike si divertisse mentre seguiva la lampada tascabile con un'andatura tranquilla. Nel punto dove il sentiero confluiva in una strada sterrata la nebbia diventava più fitta. In certi punti il terreno diventava spiovente su entrambi i lati, e Arkady poteva distinguere la differenza fra il suolo e l'abisso soprattutto grazie al suono della brezza marina che saliva verso la sommità della scogliera. Sapeva da quale parte doveva andare perché il fuoco, per quanto oscurato, era più vicino e più vivace, come un faro. Poi, in pochi passi, la nebbia si dissipò e spari intorno a lui. Era come se fosse risalito alla superficie di un secondo oceano e di una seconda catena di montagne. La nebbia si estendeva pesante, immobile e spumosa sotto un cielo notturno sereno e brillante come lo spazio aperto. Le vette dei monti
aleggiavano come isole più piccole, nascondigli di scoscesa roccia nera e di ghiaccio rischiarato dalle stelle. La strada finiva nella località dell'incendio. Intorno a quel chiarore Arkady vide i segni di una batteria militare abbandonata: bastioni di terra trasformati in monticelli erbosi, lamine dei cannoni diventate cerchi di ruggine, cavalietti di filo spinato. Tra le fiamme si vedevano assi, molle di letti, bidoni di benzina e copertoni. Al di là del fuoco, Mike aprì una porta massiccia, inserita nella collina. Per la prima volta Arkady si accorse che portava con sé un fucile. Le stelle erano così vicine. L'Orsa Minore era ancora incatenata alla stella Polare. Il braccio di Orione si protendeva sopra l'orizzonte come per scagliare le stelle. Nei dieci mesi trascorsi sul Mare di Bering, Arkady non aveva mai visto una notte così limpida: eppure era sempre stata presente al di sopra della nebbia. Girò intorno al fuoco e arrivò alla porta. Era di ferro, inserita in un'intelaiatura di cemento: l'ingresso di un bunker costruito in tempo di guerra. Il cemento era scheggiato e macchiato dalla ruggine, ma aveva resistito agli anni e ai vandali. Un lucchetto nuovo mostrava che qualcuno se ne era appropriato; e la porta girò facilmente sui cardini ben oliati. «Mike!» chiamò Arkady. Una lampada a cherosene era accesa sul pavimento, e in quella luce Arkady vide che qualcuno aveva fatto il possibile per trasformare il bunker in un loft per pescatori. Una rete pendeva artisticamente dal soffitto. Sulle pareti c'erano scaffali carichi di stelle marine, conchiglie di abalone, mascelle di piccoli squali. C'erano una branda e librerie costruite con cassette da frutta, piene di tascabili e di riviste, e barili di cordame recuperato, di ganci da traino contorti e sugheri spaccati. Quando vide il fucile sulla branda, Arkady respirò un po' meglio. «Mike?» Su un supporto, al centro del bunker, c'era il kayak più grande che Arkady avesse mai visto. Era lungo almeno sei metri, basso e stretto con due aperture rotonde, e sebbene non fosse ancora finito, si notava che era agile ed elegante. Arkady ricordava di aver sentito la voce, nella registrazione di Zina, che parlava di un'imbarcazione indigena, una baidarka: l'uomo aveva promesso di portarla a fare un giro intorno alla Stella Polare. Più esaminava la barca e più Arkady era colpito. Lo scafo era di legno con giunture d'osso. Le centine erano di legno incurvato, legate con tendini. Non si vedeva neppure un chiodo in tutta la struttura. Soltanto il rivestimento era un
compromesso con la modernità: una copertura di tessuto in fibra di vetro cucito fino all'apertura posteriore con fili di nailon. Su un banco da lavoro c'era un assortimento di coltelli e di lime, aghi e spago sottile, pennelli, una maschera antigas, un asciugacapelli elettrico e taniche da due litri di resina epossidica. Era una sostanza molto volatile; c'erano secchi di sabbia ai lati del banco e l'aria aveva un sentore pungente e tossico, per via di un campione che era stato dipinto sul rivestimento. «Vieni fuori» chiamò Arkady. «Voglio soltanto parlare.» Dal modo in cui la prua s'incurvava all'indietro, era facile immaginare la baidarka che si piegava e volava leggera sulle onde. Arkady capiva anche perché Zina era attratta da Mike. Un tritone, l'aveva chiamato, un romantico che sognava di navigare con lei in tutte le località del Pacifico. Com'era diverso da lui, che desiderava soltanto restare sulla terraferma. L'asciugacapelli indicava che doveva esserci l'elettricità. Arkady trovò una prolunga sul pavimento e la seguì fino a una coperta appesa in fondo al bunker; la scostò e scopri una seconda stanza, più piccola. C'era un generatore a benzina e il tubo di scarico comunicava con un condotto che dava all'esterno. Un bidone di benzina era rovesciato sul fianco e la lampada tascabile irradiava la sua luce. Appena oltre la soglia, Mike era disteso come se abbracciasse il pavimento. L'occhio sinistro era aperto e aveva la lucentezza di un sasso scuro e bagnato. Arkady non riuscì a sentire un respiro, un battito del polso. D'altra parte, non vedeva neppure una goccia di sangue. Mike era entrato nel bunker precedendolo di pochi passi, aveva acceso la lampada a cherosene, poi era andato al generatore. Anche i giovani potevano avere attacchi di cuore. Arkady girò l'aleutino, gli sbottonò la camicia e gli batté sul petto mentre Mike lo fissava con un occhio solo. «Su, su» incitò Arkady. Mike portava una medaglia religiosa appesa a una catenella di sferette metalliche: tintinnava dietro, contro il collo, ogni volta che Arkady gli batteva sul petto. Era troppo caldo per essere morto, troppo giovane e forte, con una barca costruita per metà. «Mikhail! Su!» Arkady gli aprì la bocca, soffiò e aspirò l'odore di birra. Gli batté di nuovo sul petto come se dentro ci fosse qualcuno da svegliare. La medaglia ticchettava e Mike lo guardava con l'occhio sempre più velato. Poteva essere stato un colpo, pensò Arkady, e mise le dita nella bocca per liberare la lingua. Toccò qualcosa di assurdamente duro; e quando estrasse la mano, aveva i polpastrelli macchiati di rosso. Apri la bocca di
Mike per quanto era possibile, guardò all'interno alla luce della torcia elettrica e trovò una punta che sporgeva dalla lingua come una spina argentea. Girò con delicatezza la testa del ragazzo, a lato, e alla base del cranio scostò i folti capelli neri da due ovali d'acciaio che sembravano una lorgnette all'antica aggrovigliata nei capelli. I maschi americani amavano certe affettazioni: orecchini, anelli massicci, fermagli di cuoio per le trecce. Ma quei due ovali lucidi erano impiantati nella testa: erano l'impugnatura di un paio di forbici che era stato affondato come una piccozza da ghiaccio, senza spargere una goccia di sangue, attraverso il cranio. La medaglia di Mike ci aveva battuto contro. Una mano non può applaudire, un solo oggetto metallico non può tintinnare. Il corpo si abbandonò quasi con riconoscenza quando Arkady lo riadagiò. Volovoi entrò nel bunker. Dietro di lui c'era Karp. «È morto» disse Arkady. Il primo ufficiale e il capopesca sembravano più interessati al bunker che al cadavere. «Un altro suicidio?» chiese Volovoi mentre si guardava intorno. «Può anche dire così.» Arkady si alzò. «È Mike dell'Eagle. L'ho seguito ed è entrato qui non più d'un minuto prima di me. Non è uscito nessuno. Chi l'ha ucciso potrebbe essere ancora qui.» «Ne sono sicuro» disse Volovoi. Arkady girò il raggio della lampada tascabile sulla seconda camera del bunker. Oltre al generatore c'erano soltanto le pareti nude, coperte di scarabocchi. In un angolo c'era una pozza d'acqua, e sopra la pozza un condotto striato di ruggine che saliva attraverso il soffitto a prova di bomba fino a una botola chiusa. La botola era irraggiungibile anche se c'erano due flange spezzate che un tempo avevano sostenuto una scala. «Doveva esserci una corda, qui, o una scala a pioli» disse Arkady. «Chi è uscito se l'è portata dietro, probabilmente, e poi ha chiuso la botola.» «Noi ti stavamo seguendo.» Karp prese il fucile dal letto e lo ammirò. «E non abbiamo visto uscire nessuno.» «Perché seguivi un americano?» chiese Volovoi. «Diamo un'occhiata fuori» propose Arkady. Karp gli bloccò il passo. «Perché lo seguivi?» chiese di nuovo Volovoi. «Per chiedergli di Zi...» «L'indagine è conclusa» disse Volovoi. «Non c'era un motivo ammissibile per seguire qualcuno. O per lasciare la nave contrariamente agli ordini, sparire alla vista dei tuoi compatrioti, allontanarti di notte e di nascosto da
un porto straniero. Ma non mi sorprende; non mi sorprende niente di quello che fai. Pestalo.» Karp piantò la canna del fucile come una lancia contro la schiena di Arkady, fra le scapole, poi con il movimento misurato di un contadino che usa una falce, lo colpì dietro le ginocchia. Arkady cadde a terra ansimando. Volovoi sedette sulla branda e accese una sigaretta. Prese dalla libreria una rivista sciupacchiata, aprì il paginone centrale e la buttò via arrossendo di disgusto. «Questo dimostra che ho ragione. Tu hai già ucciso, secondo il tuo dossier. Adesso vuoi disertare, passare dall'altra parte, disonorare i tuoi compagni e la tua nave alla prima occasione che ti è capitata. Hai scelto il più debole degli americani, questo indigeno, e siccome non ha voluto aiutarti l'hai ucciso.» «No.» Volovoi guardò Karp e il capopesca abbassò il fucile contro le costole di Arkady. La giacca assorbì in parte la violenza del colpo, ma Karp era un uomo robusto e s'impegnava con entusiasmo. «La lettera d'addio scritta da Zina Patiashvili» disse Volovoi, «è stata trovata nel letto della morta. Ho chiesto a Natasha Chaikovskaya perché non avevi frugato lì. Mi ha risposto che l'avevi fatto: ma non avevi segnalato nessuna lettera.» «Perché non c'era.» Nonostante il freddo umido del bunker, il primo ufficiale sudava. Era per la fatica della salita, e poi Arkady aveva notato in passato che un interrogatorio era un lavoro duro per tutti. Nella luce della lampada, i capelli tagliati a spazzola di Volovoi erano una corona di aculei. Naturalmente Karp, che faceva il lavoro più pesante, sudava come Vulcano nella fucina. «Mi avete seguito insieme?» chiese Arkady. «Le domande le faccio io. Non ha ancora capito» disse Volovoi a Karp in tono lamentoso. Karp tirò un calcio nello stomaco di Arkady. Finora era un normale lavoro di polizia, pensò Arkady: buon segno, era ancora un'intimidazione, niente d'irreversibile. Poi il capopesca inchiodò il collo di Arkady sul pavimento con il calcio del fucile e gli sferrò un calcio più violento, un calcio che riuscì a entrare nello stomaco e a uscire dalla spina dorsale. «Fermati» disse Volovoi. «Perché?» chiese Karp. Aveva alzato il piede per sferrare un terzo calcio.
«Aspetta.» Volovoi sorrise con fare indulgente. Un capo non poteva spiegare tutto a un collaboratore. Arkady si sollevò su un gomito. Era importante non essere totalmente inerte. «Mi aspettavo qualcosa di simile» disse Volovoi. «La ristrutturazione può essere necessaria a Mosca, ma qui siamo molto lontani. Qui sappiamo che quando si smuovono le pietre, si svegliano i serpenti. Daremo un esempio.» «Di che cosa?» chiese Arkady, che cercava di tenere in piedi il dialogo. «Un esempio di quanto possa essere pericoloso incoraggiare gli elementi come te.» Arkady si trascinò contro il banco da lavoro. Non si mise a sedere: non voleva sembrare troppo a suo agio. «Non mi sento incoraggiato» disse. «State pensando a un processo?» Karp disse: «Nessun processo. Non l'hai visto davanti a un giudice, non hai sentito come rigira le parole». «Non ho ucciso io quel ragazzo» disse Arkady. «Se non siete stati voi, allora in questo momento il colpevole sta scendendo tranquillo la collina.» Si chinò di scatto perché vide il movimento del calcio del fucile, che invece di spaccargli la faccia fece cadere a terra i barattoli sul banco. Adesso aveva paura perché, anche se poteva sopportare un pestaggio autorizzato ufficialmente e mantenuto entro certi limiti, la situazione stava sfuggendo al controllo. «Compagno Korobetz!» intimò Volovoi a Karp. «Basta!» «Dirà un sacco di bugie» rispose Karp. Volovoi si rivolse ad Arkady. «Korobetz non è un intellettuale; ma è un lavoratore formidabile e accetta le direttive del partito, una cosa che tu non hai mai fatto.» A parte la cicatrice bianca a metà della fronte bassa, dov'era stata asportata la pelle, la faccia di Karp era rossa. «Quali direttive?» Arkady si piegò più vicino a un coltello che era caduto con i barattoli. «L'abbiamo sorpreso a scappare, l'abbiamo sorpreso a uccidere qualcuno» insistette Karp. «Non è necessario che sia vivo.» «Non spetta a te decidere» disse Volovoi. «Ci sono molte domande cui bisogna trovare una risposta. Per esempio, sapendo che Renko è un individuo pericoloso e squilibrato, chi ha convinto il comandante a lasciarlo scendere in un porto straniero? Cosa stava tramando Renko con questa
cricca di americani? Il Pensiero Nuovo è necessario per accrescere la produttività del lavoro, ma in fatto di disciplina politica il nostro Paese è diventato troppo permissivo. Un anno fa non avrebbe avuto il permesso di scendere a terra. Ecco perché è importante dare un esempio.» «Non ho fatto niente» disse Arkady. Volovoi ci aveva pensato. «Ci sono la tua indagine provocatoria, il tentativo di raggirare il capitano e l'equipaggio della Stella Polare, la defezione appena hai messo piede in terra straniera. Chissà in che altro sei coinvolto! Faremo a pezzi la nave, smonteremo ogni paratia, ogni serbatoio. Marchuk capirà. Tutti i comandanti capiranno.» «Ma Renko non è un contrabbandiere» disse Karp. «Chi lo sa? E poi, si trova sempre qualcosa. Quando avrò finito, la Stella Polare sarà ridotta a pezzettini.» «E per te questa è ristrutturazione?» chiese Karp. Volovoi perse la pazienza. «Korobetz, non ho intenzione di discutere di politica con un pregiudicato.» «Te la mostro io una discussione» disse Karp. Raccattò il coltello dal pavimento prima che Arkady potesse afferrarlo, si girò verso la branda e affondò la lama fino all'impugnatura nella gola di Volovoi. «Ecco come discutono i pregiudicati» disse Karp mentre stringeva la nuca di Volovoi per premerlo contro il coltello. Volovoi si dibatté. Un fiotto di sangue investi il muro. La faccia si gonfiò, gli occhi si sgranarono in un'espressione incredula. «Come? Non fai più discorsi?» chiese Karp. «La ristrutturazione risponde alle esigenze di... che cosa? Non ti sento. Parla più forte. Risponde alle esigenze della classe operaia! Dovresti saperlo!» Un uomo può dedicarsi al sollevamento pesi, può tenersi in forma, ma non è la stessa cosa del vero lavoro; ed era evidente che i muscoli di Volovoi erano di stucco in confronto a quelli di Karp. Il primo ufficiale si dibatteva, ma il capopesca gli teneva il coltello piantato nella gola come se stringesse una leva. Era così che facevano nei campi quando gli urka scoprivano un informatore. Colpivano sempre alla gola. «Esigenze di maggior lavoro? Davvero?» disse Karp. La faccia di Volovoi divenne più scura, gli occhi divennero più bianchi, come se tutti i discorsi che aveva ancora dentro fossero soffocati e la pressione aumentasse. La lingua spenzolò. «Credevi che avrei continuato a leccarti il culo in eterno?» chiese Karp. Mentre diventava nero in faccia, Volovoi fece piegare la branda all'in-
dietro contro il muro e tese di scatto le mani. Gli occhi traboccavano d'indignazione e di sorpresa, come se stesse osservando qualcun altro, come se non potesse accadere a lui. No, pensò Arkady. Volovoi non è più sorpreso. È morto. «Doveva stare zitto» disse Karp ad Arkady. Strattonò il coltello prima da una parte e poi dall'altra prima di estrarlo. Arkady avrebbe voluto fuggire a precipizio, ma il massimo che riuscì a fare fu rimettersi in piedi con una latta di resina epossidica in mano per difendersi. «Hai esagerato.» «Sicuro» ammise Karp. «Ma loro diranno che hai esagerato tu.» Volovoi era ancora seduto diritto, come se stesse per partecipare di nuovo alla conversazione. Dal collo al petto sembrava scoppiato sotto il peso del sangue. Arkady chiese: «Sei mai stato in un ospedale psichiatrico?». «Tu si? Capisci?» Karp sorrise. «Comunque sono guarito. Sono un uomo nuovo. Lascia che ti faccia una domanda.» «Fai pure.» «Ti piace la Siberia?» «Cosa?» «M'interessa la tua opinione. Ti piace la Siberia?» «Certo.» «Che cavolo di risposta è? Io amo la Siberia. Il freddo, la taiga, la caccia, ma soprattutto la gente. Gente vera, come gli indigeni. Quelli di Mosca sembrano duri, ma sono come tartarughe. Portali all'est, tirali fuori dal guscio, e puoi calpestarli come vuoi. La Siberia è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata. È come casa mia.» «Bene.» «E la caccia.» Karp pulì il coltello sulla manica di Volovoi. «Alcuni vanno in elicottero e sparano con i Kalashnikov. A me piace il Dragunov, un fucile da cecchino con il mirino telescopico. Certe volte non sparo nemmeno. Per esempio, lo scorso inverno una tigre è entrata a Vladivostok e ha cominciato ad ammazzare i cani. Una tigre feroce nel centro della città. Naturalmente i miliziani le hanno sparato. Sai, io non l'avrei ammazzata: l'avrei portata lontano dalla città e l'avrei lasciata andare. Ecco la differenza fra te e me. Io non avrei ucciso la tigre.» Appoggiò Volovoi contro il muro. «Per quanto tempo pensi che possa restare così? Pensavo di abbinarli. Sai, per simmetria.» La simmetria era sempre un feticcio interessante, pensò Arkady. C'era
un lucchetto alla porta del bunker, lo ricordava. Se fosse riuscito ad uscire avrebbe potuto chiudere dentro Karp. «Ma non andrebbe bene» disse Arkady. «Non vorrai lasciare qui tre morti assassinati. È una questione aritmetica. Non posso essere una vittima anch'io.» «Non era nel mio primo progetto» confessò Karp. «Ma Volovoi era troppo fesso. Per tutta la vita ho ascoltato i fessi come te e lui. Zina...» «Zina?» «Zina diceva certe parole che ti liberavano o ti fregavano o ti facevano sentire sottosopra. Ogni parola, ogni singola parola, era un'arma, o una catena o un paio d'ali. Tu non conoscevi Zina. E anche tu non la conoscevi» soggiunse Karp rivolgendosi a Volovoi. L'ufficiale politico, con la testa inclinata, sembrava ascoltasse. «Un Invalido non vuol discutere con uno che viene dai campi di lavoro? Potrei dirti tante cose dei campi.» Si rivolse ad Arkady. «Grazie a te.» «E ti ci rimanderò.» «Bene, se ci riesci» ribatté Karp, e allargò le braccia come per dire: Siamo arrivati finalmente al punto, un punto che trascende le parole. E aggiunse, come conclusione personale: «Avresti fatto meglio a restare a bordo». Quando Arkady lanciò la latta di resina epossidica, Karp alzò con noncuranza l'avambraccio e la latta rimbalzò. In due passi, Arkady attraversò la camera e spinse la porta, ma la mano di Karp lo trascinò indietro. Arkady schivò la lama del coltello e afferrò il polso di Karp nella presa che gli aveva insegnato un istruttore della milizia a Mosca, e Karp rise divertito. Lasciò cadere il coltello ma scaraventò Arkady contro la libreria. I tascabili svolazzarono via come tanti uccelli. Quando Arkady tentò nuovamente di raggiungere la porta, Karp lo sollevò e lo scagliò al di sopra della baidarka e contro il muro di fronte, facendo cadere sul pavimento una pioggia di mascelle di squalo e di conchiglie iridescenti. Poi spinse di lato la barca. Stava un po' chino nella posa preferita dagli urka, con due dita protese verso gli occhi, un atteggiamento che Arkady aveva visto altre volte. Si slanciò passando al di sotto della mano e colpì Karp alla bocca. Il pugno non lo arrestò, quindi Arkady lo colpì allo stomaco, e fu come cercare di sfondare il cemento, poi colpì di nuovo con una gomitata al mento, e fece cadere Karp con un ginocchio a terra. Karp ruggì, placcò Arkady e lo spinse prima contro un muro e poi contro
un altro, fino a che Arkady alzò un braccio e si aggrappò alla rete appesa al soffitto. Quando Karp lo tirò giù, Arkady non mollò un lembo della rete, gliel'avvolse intorno alla testa e lo sgambettò. Si lanciò per la terza volta verso la porta, inciampò nelle centine della barca e prima che potesse rialzarsi Karp l'afferrò per la caviglia. A terra non aveva speranze contro il peso superiore del capopesca; e Karp gli si buttò addosso senza preoccuparsi delle sue reazioni fino a che Arkady gli fece cadere sulla testa un bariletto pieno di catene. Arkady si liberò. Stava cercando di aprire la porta quando il bariletto gli passò in volo accanto all'orecchio, centrò il battente e lo richiuse. Karp lo strappò via dalla maniglia e lo scaraventò sulla branda accanto a Volovoi. Come se volesse commiserarlo, il morto vacillò e si appoggiò contro la spalla di Arkady. Karp sfilò dal giubbotto il coltello a doppio taglio che i marinai venivano esortati a portare sempre per i casi d'emergenza. Sulla branda, nello stesso istante, Arkady trovò il coltello che il capopesca aveva lasciato cadere pochi minuti prima. Karp fu più svelto, e il suo fendente avrebbe squarciato Arkady dall'ombelico in su: ma Volovoi perse definitivamente l'equilibrio e si accasciò di traverso, davanti ad Arkady. Il coltello si piantò nel corpo del primo ufficiale e per un momento, mentre stava proteso in avanti con la lama bloccata nel bersaglio sbagliato, Karp rimase vulnerabile dal cuore al collo. Arkady esitò. E poi fu troppo tardi. Karp rovesciò il letto con un calcio intrappolandolo contro il muro. Mentre cercava di alzarsi, Arkady perse il coltello. Karp lo sollevò di peso e lo lanciò al di sopra del cadavere di Mike, nella camera più piccola, poi indugiò per liberare il coltello prima di seguirlo. Arkady non poteva smuovere il generatore, ma riuscì a sollevare il bidone di benzina. Karp si aspettava quella mossa: si chinò e attese che il bidone fosse volato oltre prima di scavalcare Mike. Si sentì un rumore di vetro infranto. Quel suono doveva essere venuto prima che Karp entrasse nella camera; ma più tardi Arkady ricordò la sorpresa del capopesca, illuminato alle spalle da un bagliore bianco come se il sole fosse sorto all'improvviso dietro di lui. L'esplosione della lampada a cherosene e del bidone di benzina fu seguita dal sibilo della resina epossidica sparsa che s'incendiava. La benzina dilagava, i libri prendevano fuoco, e poi il lenzuolo della branda, l'angolo del banco. Karp tentò un affondo contro Arkady, ma con una svogliatezza sconcertata. Vi fu una seconda esplosione quando il secchio pieno di resina epossidica scoppiò e le fiam-
me salirono al soffitto. Tutto intorno si sparsero densi fumi acri. «Meglio ancora» disse Karp. Agitò il coltello un'ultima volta e riattraversò correndo la stanza in fiamme; sembrava un demone che fuggisse dall'inferno. Apri la porta del bunker e si voltò per lanciare un ultimo sguardo ad Arkady con gli occhi illuminati dalle fiamme. Poi corse fuori e la porta si chiuse. La baidarka s'incendiò, con le centine nere nell'involucro trasparente che trasudava gocce brucianti di resina epossidica. Il soffitto era già nascosto dal fumo velenoso che avanzava come un nembo temporalesco. Arkady era in piedi accanto a Mike. Una scena straordinaria, pensò: tempesta, fuoco, l'aleutino proteso verso la sua barca in fiamme, Volovoi su una pira funebre rovesciata, con una manica avvolta dal fuoco. Pensò a una frase che aveva letto una volta in una guida turistica francese: "Merita una visita". A volte la sua mente lo faceva, quando cedeva al panico: si lanciava in viaggi misteriosi all'ultimo momento. C'erano due possibilità: morire bruciato in una camera o soffocato nell'altra. Con la mano sulla bocca, Arkady attraversò precipitosamente la camera in fiamme e si avventò contro la porta. La porta cedette un po': non era chiusa dal lucchetto, ma solo tenuta bloccata da Karp, dall'esterno. Come nella stiva del pescato. Le idee semplici erano le più efficienti. Le fiamme si avvicinavano ai piedi di Arkady. Si chinò al di sotto del fumo, ansando tra un colpo di tosse e l'altro. Sarebbero bastati cinque minuti, al massimo dieci. Poi Karp avrebbe aperto la porta per controllare la riuscita del suo piano. Arkady tirò il catenaccio interno della porta. Una volta aveva conosciuto un patologo che sosteneva che la capacità più notevole di Renko consisteva non già nello sfuggire alle situazioni disastrose, ma semplicemente nel complicarle. Trattenne il respiro, riattraversò le fiamme e raggiunse un barile, lo portò nella seconda camera. Il barile era pieno di ciarpame, la collezione di pezzi di rete. Con l'occhio del pescatore, scelse la striscia più lunga di rete di nailon. Illuminata dalle fiamme sulla soglia, l'acqua nell'angolo era diventata una pozza dorata. Intravedeva le flange spezzate alla sommità del condotto sotto la botola chiusa. Mise il barile capovolto nell'acqua e vi sali. Si alzò in punta di piedi e riuscì a lanciare la striscia di rete abbastanza in alto per arrivare alla flangia. La botola non era a tenuta d'aria e ormai il fumo cominciava a entrare nella camera, serpeggiando lungo il soffitto, e seguiva la corrente d'aria fino al punto dove Arkady si teneva in equilibrio. Quando agganciò la flangia, il barile si rovesciò e ro-
tolò via. Mentre si arrampicava sulla rete, sentì le bottiglie che si spezzavano come note musicali nel frastuono del fuoco, sempre più simile al fragore delle onde. Quando aprì la botola il fumo l'avvolse come se cercasse di trascinarlo indietro: ma ormai era uscito e si rotolava sull'erba bagnata dalla nebbia, giù verso il mare. III GHIACCIO 21 I primi segni della presenza dei ghiacci furono alcuni piccoli frammenti, bianchi e levigati come marmo, che galleggiavano sull'acqua nera; e anche se la Stella Polare con la sua scorta di quattro pescherecci si muoveva agevolmente nel vento, c'era un senso crescente di apprensione e d'isolamento. Sottocoperta si sentiva un rumore nuovo, lo scricchiolio del ghiaccio che strusciava contro la linea di galleggiamento. Sul ponte, tutti s'inclinavano all'indietro per studiare le attrezzature che sovrastavano il ponte di comando e le gru: le barre che ruotavano lentamente, i cerchi intrecciati, le antenne a stella e lineari che fornivano le indicazioni a mezzo radar, VHF, onde corte, radio e satelliti. Il senso della realtà lontana diventava sempre più importante via via che i frammenti di ghiaccio sparso lasciavano il posto a un labirinto interminabile di lastroni rotondi e lisci. I pescherecci stavano accodati alla Stella Polare, specialmente l'Eagle, che era stata costruita per il clima caldo del Golfo del Messico, non per il Mare di Bering. Verso sera il vento aumentò, come se scivolasse più veloce sul ghiaccio che sull'acqua, e portò una pioggerella sottile che ghiacciava sulla vetrata della plancia. Per tutta la notte, i marinai usarono le pompe per rimuovere il ghiaccio dai ponti della nave-fattoria con l'acqua delle caldaie. I pescherecci, ancora più vulnerabili al peso destabilizzatore del ghiaccio, facevano altrettanto, e avanzavano nel buio in un corteo fumante. L'Alaska Miss, con l'elica ammaccata da un lastrone di ghiaccio, all'alba tornò indietro. Le altre rimasero perché là c'era il pesce. Nella luce del mattino, videro che il ghiaccio si era saldato in una banchisa compatta. Davanti a loro si estendeva un guscio bianco e piatto sotto un arco azzurro; nella scia della Stella Polare si apriva una strada di acqua nera dove i pescherecci, distanziati d'un miglio l'uno dall'altro, immergevano le reti. Per qualche ragione inspiegata i pesci di fondo, in particolare le sogliole, pre-
ferivano l'oceano appena all'interno della coltre di ghiaccio e vi si ammassavano quasi a strati. Dall'acqua emergevano reti cariche di trenta o quaranta tonnellate, e il pesce e le maglie e le striscioline di plastica si coprivano immediatamente di abbaglianti cristalli di ghiaccio, e sembrava che i pescherecci estraessero gemme dal mare. In un certo senso era vero. Gli americani stavano diventando ricchi e i sovietici raddoppiavano la produzione quotidiana prevista dal piano. Ma la Stella Polare aveva la bandiera a mezz'asta. L'intera quota del viaggio era stata dedicata alla memoria di Fedor Volovoi. Erano stati spediti messaggi di condoglianze alla famiglia del morto; e messaggi di solidarietà erano arrivati dal Comando della flotta a Vladivostok e dalla sede della società a Seattle. La cellula del partito aveva incaricato Slava Bukovsky di svolgere le mansioni di ufficiale politico. Volovoi sarebbe tornato in patria nella stiva frigorifera dei viveri numero due dentro a un sacco di plastica accanto a quello contenente Zina Patiashvili, che era stato appunto trasferito perché tutto lo spazio nella stiva del pescato sarebbe stato necessario. A bordo si bisbigliava che la gola del primo ufficiale non era soltanto carbonizzata. Quale rappresentante del sindacato con l'incarico di riempire i moduli in caso di morte, Slava smentiva le dicerie, ma con tutte le nuove mansioni il terzo ufficiale sembrava più afflitto dalla depressione che ispirato dalla grande opportunità. Arkady era tutto dolorante dopo il pestaggio di Karp, ma non era peggio che se fosse ruzzolato giù da una scala molto lunga. Nel circuito sporco, mezza tonnellata di sogliole scorreva come un fiume vivo dallo scivolo a intervalli di dieci minuti, e bisognava sventrarle, pulirle e privarle di pinne e coda. Erano così incrostate di ghiaccio che Obidin, la Malzeva, Mer e gli altri erano intirizziti dalle dita alle spalle. Tra il suono delle seghe e il brusio incessante dei motivetti allegri trasmessi dalla radio giungevano i tonfi del ghiaccio lungo lo scafo. La prua della Stella Polare era stata progettata per sfondare uno strato di ghiaccio dello spessore di un metro. Ma lo scafo protestava. L'intera paratia tremava, e le lastre si piegavano verso l'interno e verso l'esterno come pelli di tamburo. Mentre faceva passare i pesci attraverso la sega, Natasha continuava a lanciare ad Arkady occhiate interrogative; ma lui ascoltava l'avanzare della nave, il ghiaccio che resisteva e poi scoppiava sotto la prua, un suono simile allo schiantarsi della terra. Marchuk aveva l'aria di chi ha scalato una montagna. La nebbia, mai
troppo lontana, era ritornata sotto forma di un pulviscolo che ghiacciava sulla vetrata della plancia; e quindi era uscito sul ponte di comando esterno. Il cappotto, gli stivali, i guanti e il berretto erano orlati di ghiaccio in ogni piega, e la barba aveva lo scintillio della brina. Adesso, mentre stava dietro la scrivania, l'acqua incominciava a raccogliersi sul pavimento. Aveva le orecchie arrossate perché non aveva rinunciato al berretto per quello di lana con i copriorecchi, più adatto agli uomini meno importanti. Anton Hess non era uscito sul ponte, ma era infagottato in due maglioni e portava guanti come quelli di Marchuk. Una nave sovietica è surriscaldata - il vanto d'una casa russa è il piacevole tepore - ma nulla poteva restare caldo su quella coltre di ghiaccio. Sotto la fronte e i capelli irti, gli occhi di Hess erano incavati per lo sfinimento. Erano due uomini forti, eppure apparivano incerti, persino spaventati, come sull'orlo di un abisso. Per la prima volta nelle loro vite navigavano senza un cane da guardia del partito... peggio ancora, con un cane da guardia morto in frigorifero. Accanto ad Arkady ma non con lui, anzi distante il più possibile per quanto poteva manifestarlo con la sua espressione, c'era Slava Bukovsky. Era lo stesso gruppo che s'era riunito già una volta nella cabina del comandante, con un'eccezione inevitabile. «Chiedo scusa perché non ci siamo riuniti subito dopo aver salpato l'ancora» disse Marchuk. «La situazione non era chiara, e poi la mia attenzione è sempre presa dalla radio, quando ci avviciniamo ai ghiacci. Gli americani non ci sono abituati, quindi debbo guidarli per mano. Dunque, compagno Bukovsky, ho letto il suo rapporto, ma forse vorrebbero ascoltarlo anche gli altri.» Slava ne approfittò per farsi avanti, allontanandosi ancora di più da Arkady. «Il mio rapporto si basa su quello americano. Ce l'ho qui.» Non appena Slava aprì la borsa, i fogli scivolarono sulla moquette. Arkady pensò che se Marchuk avesse avuto la coda, l'avrebbe vista fremere. Il terzo ufficiale trovò il foglio che cercava. Lesse: «Le autorità competenti di Dutch Harbor...». «Chi sono le autorità competenti?» l'interruppe Hess. «Il comandante dei vigili del fuoco. Ha detto che sembrava un incendio accidentale» continuò Slava. «L'indigeno Mikhail Krukov era stato avvertito molte volte della pericolosità dei materiali infiammabili usati nella costruzione delle sue barche, ed è certo che c'erano una lampada a cherosene, benzina e alcol. L'incidente è accaduto in una costruzione di cemento che risale al tempo della guerra, un bunker senza ventilazione sufficiente e
senza le dovute precauzioni per il generatore. Sembra che gli indigeni si siano appropriati senza permesso di parecchie strutture militari abbandonate. Krukov era molto noto, sull'isola, come costruttore di barche. Gli americani pensano che ne stesse mostrando una a Volovoi, che abbiano bevuto qualcosa insieme e che poi, in quel poco spazio, ci sia stato un incidente e la lampada a cherosene si sia rotta, abbia appiccato fuoco al materiale tossico, e che questo sia esploso. Fedor Volovoi, a quanto pare, è stato ucciso immediatamente dai frammenti di vetro. L'indigeno è morto per le ustioni e il fumo.» «Mikhail Krukov?» Marchuk inarcò le sopracciglia. «Un nome russo?» «Lo chiamavano Mike» disse Slava. «Erano ubriachi?» chiese Hess. «È questo che sostengono le autorità competenti?» «Come i nostri, anche i loro indigeni hanno un'eccessiva passione per l'alcol» disse Slava. Marchuk sorrise come un uomo che ha sentito una barzelletta mentre va alla forca. Si rivolse ad Arkady. «Volovoi non beveva e odiava le barche. Ma il rapporto dice così, ed è quello che devo riferire a Vladivostok. Ho la sensazione che tu abbia qualcosa da aggiungere.» La nave tremò quando investi un lastrone di ghiaccio più grande. Arkady attese fino a che lo scricchiolio passò. «No» disse. «Niente?» chiese Marchuk. «Eppure ti considero una sicura fonte di sorprese.» Arkady scrollò le spalle. Poi, come per un ripensamento, chiese a Slava: «Chi ha trovato i cadaveri?». «Karp.» «Karp Korobetz, un capopesca» spiegò il comandante a Hess. «Era andato a cercare Volovoi in compagnia di un ufficiale di macchina dell'Eagle.» «Ridley» disse Slava. «Ha mostrato a Karp la strada per arrivare al bunker.» «A che ora hanno scoperto i corpi?» chiese Arkady. «Verso le dieci di sera» rispose Slava. «Hanno dovuto sfondare la porta.» «Sentito?» Marchuk sottolineò le parole a beneficio di Arkady. «Hanno dovuto sfondare la porta. Era chiusa dall'interno. Ecco, questo mi piace.» «Karp e Ridley sono entrati nel bunker?» chiese Arkady a Slava. «Si sono guardati intorno?»
«Credo.» Slava sussultò quando Marchuk si batté il berretto contro uno stivale per scrollare via l'acqua. Poi il comandante si rimise il berretto e accese una sigaretta. «Continui» disse a Slava. «Volovoi è stato trovato nella camera più grande del bunker e l'americano in una seconda camera» disse Slava. «In quella c'è una specie di botola, ma non è stata trovata una scala.» «Era impossibile salire dall'interno» disse Marchuk. «È un vero enigma.» «Io non ho visto molto a Dutch Harbor» disse Arkady. «Davvero?» chiese Marchuk. «Comunque, non ho notato grandi attrezzature mediche» continuò Arkady. «Un dottore ha esaminato i cadaveri?» «Sì» rispose Slava. «In un laboratorio?» «No.» Slava assunse un tono difensivo. «Senza dubbio si è trattato di incendio ed esplosione e i cadaveri erano in pratica troppo bruciati per spostarli.» «Per gli americani va bene così?» chiese Arkady. Marchuk disse: «Avrebbero dovuto portare i cadaveri in aereo sul continente; e non gli lasceremo certo Volovoi. Il suo corpo verrà esaminato a Vladivostok. Comunque il capitano Morgan ha accettato il rapporto». «Per pura curiosità» chiese Arkady, «chi è comparso sulla scena dopo Korobetz e Ridley?» «Morgan» lesse Slava. «Anche lei accetta il rapporto?» chiese Arkady a Marchuk. «Naturalmente. Muoiono due uomini, uno dei loro e uno dei nostri, e tutto sembra indicare che si sono sbronzati e hanno causato accidentalmente l'incendio che li ha uccisi. È quel tipo di grana che noi e gli americani preferiamo dimenticare in fretta. In una joint venture, la parola d'ordine è cooperazione.» Il comandante si rivolse a Slava. «Volovoi era un vero stronzo. Spero che possa mettersi nei suoi panni.» Si volse di nuovo verso Arkady. «Ma che figura pensi che farò, quando tornerò a Vladivostok con due dei miei dentro ai sacchi? Immagini che razza di circo scoppierà? Cosa comanderò, la prossima volta? Una chiatta dei rifiuti a Magadan? Lungo la Kamchatka fanno ancora galleggiare il legname: forse mi riserveranno un tronco.» «Lei era sceso a terra con la mia autorizzazione» disse Hess ad Arkady.
«A quanto pare, stava ancora raccogliendo informazioni sulla ragazza morta, Zina Patiashvili.» «La ringrazio» disse Arkady. «È stato molto tonificante rimettere piede sulla terraferma.» «Ma adesso abbiamo tre morti anziché uno» continuò Hess. «E dato che uno era il vigile difensore del partito, quando torneremo in patria il partito avrà parecchie domande da fare.» «In un certo senso...» Marchuk fissò Arkady. «In un certo senso collego tutto a te. T'imbarchi: c'è un morto. Scendi a terra: altri due morti. In confronto a te, Giona era un portafortuna.» «Vede, il problema è proprio questo: lei dov'era, Renko?» chiese Hess. «Volovoi era uscito dall'albergo per cercarla. Nessuno è stato in grado di trovare l'uno o l'altro di voi due; e la prima volta che rivediamo il commissario, è su una collina, morto bruciato insieme a un indiano...» «Un aleutino» disse Slava. «C'è nel mio rapporto.» «Comunque un indigeno al quale Volovoi non aveva mai parlato prima. Perché mai stava bevendo su una collina con un costruttore di barche, se non beveva mai? Perché era là, mentre stava cercando lei?» chiese Hess ad Arkady. «Vuole che cerchi di scoprirlo?» Hess sorrise a quella risposta per una reazione professionale, come se avesse visto un portiere parare un tiro difficile e poi lanciare il pallone nella rete avversaria. «No, no» intervenne Marchuk. «Non vogliamo più il tuo aiuto. Mi sembra di vedere le facce che farebbero a Vladivostok se cercassimo di spiegare perché ti abbiamo incaricato di indagare sulla morte di Volovoi. Se ne occupa il compagno Bukovsky.» «Ancora? Congratulazioni» disse Arkady a Slava. «Ho già interrogato il marinaio Renko» disse Slava. «Sostiene che dopo aver lasciato Susan, dato che era ubriaco e non si sentiva bene, è andato dietro l'albergo e si è addormentato. Poi non ricorda più niente fino a quando si è trovato in acqua dopo essere caduto dal molo.» Marchuk disse: «Izrael, il direttore del settore fattoria, mi ha detto che l'altro giorno ti eri ubriacato in una stiva frigorifera e per poco non sei morto assiderato. Non mi sorprende che abbia perduto la tessera del partito». «L'ubriachezza segreta è la peggiore» ammise Arkady. «Ma, comandante, ha appena detto di aver accettato il rapporto degli americani, e per loro
è stato un incendio casuale. Allora su che cosa sta indagando il compagno Bukovsky?» «Sto mettendo insieme quello che abbiamo scoperto» disse Slava. «Questo non significa che vado in giro a far domande.» «È il sistema d'indagine migliore.» Arkady annuì. «Una linea retta senza curve pericolose. A proposito» disse a Hess, «potrei riavere il mio coltello? L'ha preso lei prima che scendessimo a terra.» «Dovrei cercarlo.» «La prego. È proprietà dello Stato.» Marchuk schiacciò la sigaretta in un portacenere e lanciò un'occhiata all'oblò, un disco opaco. «Be', i tuoi giorni da investigatore sono finiti di nuovo. La morte di Zina Patiashvili è una faccenda chiusa fino a che arriveremo a casa. Signori, il pesce ci aspetta.» Si alzò, tirò in avanti la visiera del berretto, prese il mozzicone schiacciato e lo usò per accendere un'altra sigaretta. Dopo Dutch Harbor, tutti fumavano le Marlboro. «Renko, mi sei simpatico, ma devo dire che se il nostro compagno Volovoi non fosse morto nell'incendio, se per esempio avesse la gola tagliata... sospetterei subito di te. Non riusciamo a immaginare come avresti potuto uccidere due uomini e salvarti dall'incendio. Mi piace il fatto che sei caduto in acqua: avrebbe eliminato l'odore del fumo e l'erba dagli stivali.» Poi rialzò il colletto del cappotto. «I miei americani aspettano. È come condurre un gruppo di bambine attraverso uno stagno ghiacciato.» 22 Dal parapetto di poppa, Susan puntò il binocolo sulla scia della Stella Polare. Aveva la giacca abbottonata fino al mento e, come una sciatrice, portava le muffole e un berretto di lana. «Vedi niente?» chiese Arkady. «Stavo osservando l'Eagle. Un peschereccio del Golfo non dovrebbe essere qui.» «Ti stavo cercando.» «Che buffo» disse lei. «Io ti stavo evitando.» Per abitudine, Arkady si guardò alle spalle per vedere se c'era Karp nei pressi. «È difficile, su una nave.» «A quanto pare.» «Posso vedere?» chiese Arkady. Susan gli porse il binocolo. Arkady studiò prima l'acqua che arrivava al-
la rampa della Stella Polare, le onde di un blu quasi tropicale che fluivano e defluivano nella strozza arrugginita. L'acqua così fredda sembrava fusa. L'acqua di mare incominciava a cristallizzarsi a 5 gradi sotto lo zero, e dato che era così carica di sale all'inizio non formava un velo compatto bensì trasparente, che ondulava sulle increspature nere e diventava via via grigio quando si solidificava. I pescherecci dovevano restare vicini alla nave madre. Attraverso il binocolo, Arkady poteva vedere la Merry Jane che passava accanto all'Eagle mentre portava una rete gonfia sul ponte. L'Eagle stava appena posando la sua rete; e quando un'onda la sollevò, Arkady scorse chiaramente due uomini dell'equipaggio con le tute d'incerata gialla. Gli americani non usavano le saracinesche di sicurezza. L'acqua saliva e scendeva liberamente sulla rampa, e gli uomini calcolavano con perfetto tempismo ogni movimento, e saltavano sugli scalini delle gru quando le onde più alte irrompevano sopra le frisate. Il binocolo era un 10x50, e quindi Arkady poté vedere che l'ex poliziotto Coletti azionava le leve idrauliche della gru. Il secondo pescatore gettava in acqua i granchi caduti; e solo quando si voltò, Arkady riconobbe la fronte accigliata e il sogghigno di Ridley. «Due uomini soli?» chiese Arkady. «Non hanno rimpiazzato Mike?» «Sono capitalisti. Una percentuale risparmiata.» Posare una rete era un'operazione delicata anche nelle circostanze ideali, e cioè con il mare calmo e molto spazio per manovrare. L'Aurora aveva già ingarbugliato i suoi cavi intorno a un'elica ed era tornata a velocità ridotta verso Dutch Harbor. Nella timoneria Morgan, con il berretto da baseball e il giaccone imbottito, azionava alternativamente i comandi della nave e quelli dell'argano. «Perché non sei rimasto in albergo con me?» chiese Susan. «Te l'ho detto: Volovoi stava arrivando per riportarmi a bordo.» «Forse sarebbe stato meglio. Adesso ci sarebbe più gente viva.» Arkady, che era sempre piuttosto lento nelle reazioni, abbassò finalmente il binocolo e notò che le guance di Susan erano arrossate non solo per il freddo. Che figura aveva fatto quando l'aveva lasciata all'improvviso? La figura del vigliacco, del seduttore? Più probabilmente, la figura del buffone. «Mi dispiace d'essermene andato» disse. «Troppo tardi» disse Susan. «Non stavi semplicemente evitando Volovoi. Ti ho osservato dalla finestra quando hai attraversato la strada. Stavi seguendo Mike.» Il vapore dell'alito di Susan sembrava disprezzo reso vi-
sibile. «Hai seguito Mike, e Volovoi ha seguito te. Adesso quei due sono morti, e tu fai una crociera nell'Artico.» Arkady era venuto per scusarsi; ma come sempre sembrava ci fosse tra loro una barriera magnetica che non poteva varcare. Comunque, cosa poteva dire? Che Mike era già morto quando l'aveva trovato? Che un capopesca modello aveva tagliato la gola al primo ufficiale, sebbene avesse testimoni per provare che si trovava dove diceva di trovarsi, mentre lui, Arkady, non ne aveva? Oppure: Che cosa stavi cercando in acqua? «Puoi raccontarmi che cos'è successo?» «No» ammise lui. «Lascia che ti dica cosa penso. Penso che in passato fossi davvero un investigatore. Fingi di tentare di scoprire la verità su Zina, però ti è stata offerta la possibilità di lasciare la nave se riesci a far ricadere la colpa su un americano. Avrebbe dovuto essere Mike, ma adesso è morto e dovrai trovare un altro. Quello che non capisco... sono io. A Dutch Harbor ti avevo creduto veramente. Poi ti ho visto attraversare la strada per rincorrere Mike.» Arkady incominciò a scaldarsi. «Hai detto a qualcun altro che l'ho seguito?» Nonostante la collera, Susan tornò a guardare l'Eagle. Arkady scrutò di nuovo con il binocolo. Il peschereccio si abbassò e spari dietro un'onda lunga; quando risali, Ridley e Coletti s'erano arrampicati sulla gru per evitare l'acqua che altrimenti gli sarebbe arrivata alle ginocchia. Nella timoneria, Morgan aveva preso il binocolo e adesso stava osservando Arkady. «Ci resterà vicino, no?» «Sì, se non vuole restare incastrato nel ghiaccio» disse Susan. «È un uomo fedele alle sue convinzioni?» «Crede in certe cause.» «Un fanatico?» Un'ondata simile a una roccia levigata e striata di spuma crebbe fra i due uomini, acquistò slancio mentre si avventava verso la Stella Polare, e piombò sulla rampa della nave-fattoria. Morgan continuò a tenere il binocolo puntato sul suo obiettivo. «Sempre meglio di un ipocrita» disse Susan. «Volevi far ingelosire Morgan?» chiese Arkady. «Per questo mi hai invitato in camera tua?» Susan alzò la mano per schiaffeggiarlo, ma si trattenne. Perché? si chiese Arkady. Pensava che uno schiaffo fosse troppo banale, troppo borghese?
Assurdo. Il sabato sera, la metropolitana di Mosca risuonava di schiaffoni. Gli altoparlanti della nave gracidarono. Erano le 15, l'ora della selezione di musica leggera della Radio della flotta; incominciava con una rumba che faceva pensare alle spiagge cubane e alle palme svettanti. Le maracas socialiste attaccarono un ritmo latino. Arkady disse: «Questa musica mi ricorda una cosa. Prima di Dutch Harbor dovevi lasciarci per andare in vacanza. Suusan, perché sei tornata su questa nave sovietica che detesti così cordialmente? Per i pesci? Per la soddisfazione di raggiungere la quota?». «No, ma potrebbe valerne la pena, per vederti marcire di nuovo al circuito sporco.» La sala radio era la prima cabina di babordo dietro il ponte di comando. Nikolai, il giovane che aveva pilotato la scialuppa per portare Hess e Arkady a Dutch Harbor, stava facendo pigramente il cruciverba di un giornale sportivo quando entrò Arkady. Il banco era occupato da radio, amplificatori e una fila di cartelle rigide, una con la striscia rossa dei codici segreti, ma restava spazio per un fornello elettrico e una pentola. Molto intimo. La rumba entrava e usciva al trotto dall'altoparlante. Non doveva essere un servizio sgradevole. Spesso i giovani tenenti specializzati in elettronica venivano assegnati alle flotte dei pescherecci per fare un giro nei porti stranieri. Anche con la tuta da ginnastica e le pantofole Nikolai aveva l'aria dell'ufficiale fresco di accademia, la prospettiva di una brillante carriera. Alzò pigramente gli occhi verso Arkady. «Di qualunque cosa si tratti, nonno, sono occupato.» Arkady si assicurò che fuori non ci fosse nessuno, poi chiuse la porta, rovesciò con un calcio la sedia del marconista e gli piantò un piede sul petto. «Tu sbattevi Zina Patiashvili. La portavi in una stazione dei servizi segreti di questa nave. Se lo scopre il tuo capo, finirai in un campo di lavoro, e quando uscirai potrai considerarti fortunato se avrai ancora denti e capelli.» Nikolai era riverso sul pavimento. Non aveva lasciato cadere la matita e i suoi occhi erano due perfette pozze azzurre. «È una balla.» «Raccontalo a Hess.» Arkady aveva davanti un giovane che stava vivendo tutti i terrori di una caduta libera: un mondo comodo e promettente era diventato di colpo un abisso.
«Come l'hai scoperto?» chiese Nikolai. «Così va meglio.» Arkady gli tolse il piede dal petto e l'aiutò ad alzarsi. «Raddrizza la sedia. Siediti.» Nikolai obbedì prontamente: era sempre un buon segno. Arkady alzò un po' di più il volume dell'altoparlante nel momento in cui la rumba svaniva e lasciava il posto a un canto popolare bulgaro. Mentre il tenente stava seduto sull'attenti, Arkady pensò ai diversi modi possibili per condurre l'interrogatorio: come ex amante di Zina, come ricattatore, come incaricato di continuare l'indagine a bordo. Ma aveva bisogno di un approccio che potesse far precipitare nella disperazione un aggressivo ufficiale del servizio segreto della marina, come se fosse già finito nelle mani del nemico più disprezzato dai militari. Scelse volutamente le parole inverosimili con cui il KGB incominciava sempre i colloqui più informali. «Stai calmo. Se hai la coscienza a posto, non hai motivo di preoccuparti.» Nikolai si rattrappì sulla sedia. «È successo una volta sola. Mi aveva riconosciuto perché ci eravamo visti a Vladivostok. Credevo che facesse la cameriera: come potevo sapere che sarebbe venuta a bordo? Forse avrei dovuto dirlo a qualcuno, ma lei mi ha pregato di non farlo perché l'avrebbero rimandata indietro con la prima nave venuta a portar via il pescato. Mi ha fatto pena, e poi una cosa ha portato all'altra.» «E ha portato Zina sulla tua branda.» «Non l'avevo premeditato. Non c'è intimità a bordo di una nave. E quella è stata l'unica volta.» «No.» «Sì, invece!» «Vladivostok» disse Arkady. «Il Corno d'Oro.» «La sorvegliavi già allora?» «Parlamene.» La storia di Nikolai non era molto diversa da quella di Marchuk. Era andato al Corno d'Oro con alcuni amici della base, e tutti avevano notato Zina, che però sembrava attratta soprattutto da lui. Quando aveva terminato il turno l'aveva portato a casa sua; avevano ascoltato la musica, avevano ballato e fatto l'amore, poi Nikolai se n'era andato e l'aveva rivista solo a bordo della Stella Polare. «Credevo che l'indagine su Zina fosse finita» disse. «Ho sentito che eri tornato al settore fattoria.» «Era una brava cameriera?» «Al contrario.»
«Di che cosa parlavate?» Arkady ebbe la sensazione che la mente del marconista si bloccasse come un coniglio che si domanda da che parte deve scappare. Non solo era implicato nel tradimento del suo servizio a bordo; ma l'interrogatorio aveva spaziato pericolosamente nel passato e l'aveva implicato di nuovo, almeno per una coincidenza. L'ipotesi più grave era che Zina si fosse infiltrata nelle attività segrete della flotta del Pacifico non una sola volta ma due, e tutte e due tramite Nikolai. Non inevitabilmente come agente straniero, certo; il KGB cercava sempre di infiltrarsi fra i militari con un'insistenza ossessiva, e il servizio segreto della marina metteva continuamente alla prova la vigilanza dei propri ufficiali per scoprire se era possibile violare la sua stessa sicurezza. Come tanti altri uomini in una situazione simile, Nikolai decise di dichiararsi colpevole di un reato minore, a riprova della sua sincerità. «A Vladivostok ho le migliori radio riceventi del mondo. Posso captare la radio delle Forze Armate americane, Manila, Nome. A volte devo ascoltarle per forza, e così registro... soltanto la musica e soltanto per me, mai a scopo di lucro. Avevo offerto un nastro a Zina, per amicizia, e le ho detto che dovevamo andare in qualche posto per ascoltarlo. Bene, siamo stati insieme, ma abbiamo parlato solo di musica. Lei voleva che riproducessi i nastri e vendessi le copie per suo tramite. Era una vera georgiana. Le ho detto di no. Siamo andati a casa sua e abbiamo ascoltato i nastri, ma è stato tutto.» «Non proprio tutto. Hai avuto quello che volevi: sei andato a letto con lei.» Arkady chiese com'era l'appartamento di Zina, e la descrizione di Nikolai fu molto simile a quella di Marchuk. Un appartamento in un palazzo relativamente nuovo, forse di una cooperativa. Televisione, videoregistratore, stereo, stampe giapponesi e spade da samurai alle pareti. Porte e bar rivestiti in plastica rossa. Una collezione di armi da fuoco in una vetrina chiusa a chiave. Anche se non c'erano fotografie, era chiaro che lì abitava anche un uomo, e Nikolai aveva immaginato che l'amico di Zina fosse ricco e potente, forse qualcuno che aveva guadagnato milioni con il mercato nero oppure un pezzo grosso del partito. «Tu sei iscritto al partito?» chiese Arkady. «Sono un giovane comunista.» «Parlami delle radio che ci sono qui.» Nikolai fu ben contento di smettere di parlare di Zina Patiashvili e di dif-
fondersi su argomenti più tecnici. La sala radio della Stella Polare aveva una radio VHF con una portata di una cinquantina di chilometri per comunicare con i pescherecci, e due radio più grandi a banda unica con una portata molto più ampia. Una delle due era sintonizzata di solito sulla radio della flotta. La seconda serviva per le conferenze radio con le altre navi sovietiche sparse sul Mare di Bering o per i contatti con il quartier generale della flotta a Vladivostok e la sede della società a Seattle. Nel tempo libero, la radio sorvegliava un canale d'emergenza, che tutte le navi tenevano aperto. Nella cabina c'era anche un apparecchio a onde corte per captare Radio Mosca e la BBC. «Ti mostrerò un'altra cosa.» Nikolai tirò fuori da sotto il banco una ricevente non più grossa d'un romanzo storico. «Una radio CB. Ha una portata molto ridotta, ma è così che si parlano i pescherecci quando non vogliono che li ascoltiamo. Una ragione di più per averla.» L'accese e si sentì la voce di Thorwald, il capitano della Merry Jane, che parlava con il suo accento norvegese: «... quei fottuti russi hanno ripulito il fottuto George's Bank e stanno ripulendo la fottuta costa africana fino a non lasciare neanche un pesce. Almeno faremo un po' di fottuti quattrini...». Arkady spense il CB. «Dimmi qualcosa di più sul conto di Zina.» «Non era una vera bionda. Però era scatenata.» «Non mi riferisco al sesso. Di cosa parlavate?» «Di registrazioni. Te l'ho detto.» Nikolai aveva l'espressione confusa di uno studente che cerca di cooperare ma non sa cosa vuole l'insegnante nuovo. «Il tempo?» suggerì Arkady. «Per lei, tutti i posti erano troppo freddi, a parte la Georgia.» «La Georgia?» «Diceva che gli uomini georgiani sono capaci di sbattere tutto quello che si muove.» «Il lavoro?» «Aveva una filosofia antisovietica, per il lavoro.» «Gli svaghi?» «Ballare.» «Gli uomini?» «Quattrini.» Nikolai rise. «Non so perché dico così, dato che a me non ne ha mai chiesti. Ma aveva un modo di guardarti, per un momento, come se fossi l'uomo più bello e desiderabile della terra, ed è una sensazione molto erotica; e poi un minuto dopo ti liquidava con gli occhi come se non
potessi essere all'altezza delle sue aspettative. Io dicevo: "Perché mi guardi con tanta freddezza?" e lei: "Sto immaginando che non sei un marinaretto ma un afghantsi, un soldato mandato a combattere contro Allah e tutti i suoi fanatici, e che sei appena tornato dentro a una bara foderata di zinco, e questo mi rattrista". Frasi crudeli, così... e mentre facevamo l'amore.» «E le armi nell'appartamento? Ne parlava?» «No. Avevo l'impressione che se l'avessi chiesto avrei fatto una brutta figura ai suoi occhi. Diceva che quell'uomo, e non so chi fosse, dormiva con una pistola sotto il cuscino. E io ho pensato: Be', è tipico dei siberiani.» «Lei ti faceva domande?» «Solo sulla mia famiglia, su casa mia, e chiedeva se scrivevo spesso come un bravo figliolo e se mandavo pacchetti di caffè e tè.» «La marina militare non ha un suo sistema speciale perché i pacchi non arrivino aperti molti mesi dopo la spedizione?» «La marina militare favorisce i suoi.» «E Zina ti ha chiesto di mandare un pacchetto per lei?» Il giovane spalancò gli occhi ancora di più, con l'aria di un vitello. «Sì.» «Tè?» «Sì.» «Il pacchetto era già pronto da portar via?» «Sì. Ma all'ultimo momento ha cambiato idea, e così non l'ho preso. È stata un'altra volta che mi ha dato una delle sue occhiate, come se non fossi all'altezza di quello che voleva.» «Quando vi siete incontrati sulla Stella Polare, ti ha spiegato come mai era a bordo?» «Mi ha detto solo che al ristorante si annoiava, che era stufa di Vladivostok e della Siberia. Quando le ho chiesto come aveva fatto a procurarsi la tessera del sindacato marittimi, mi ha riso in faccia e mi ha detto che l'aveva comprata: che altro? Ci sono regolamenti molto precisi, ma sembrava che per Zina non contassero.» «Era diversa?» Nikolai cercò le parole, poi rinunciò. «Avresti dovuto conoscerla.» Arkady cambiò argomento. «Le nostre radio a banda unica... che portata hanno?» «Varia secondo le condizioni atmosferiche. Il comandante può dirtelo. Un giorno riusciamo a prendere il Messico, il giorno dopo niente. Ma quelli dell'equipaggio della nave spesso chiamano a casa, anche a Mosca, tra-
mite un collegamento per radiotelefono. È molto utile per il morale.» Arkady chiese: «Altre navi possono sentire queste conversazioni?». «Se stanno ascoltando il canale giusto possono sentire la parte della conversazione in arrivo, ma non quello che diciamo noi.» «Bene. Fai una chiamata per me al Comando della milizia di Odessa.» «Facilissimo.» Nikolai era ansioso di accontentarlo. «Naturalmente, tutte le chiamate devono essere autorizzate dal comandante.» «Non vorrai chiedere l'autorizzazione per questa chiamata. Anzi, non vorrai neppure annotarla. Riepiloghiamo la situazione» disse Arkady, perché il marconista era un giovane che aveva bisogno di istruzioni precise. «Come ufficiale di marina, per il semplice fatto di aver lasciato entrare la Patiashvili nella tua postazione sulla Stella Polare puoi essere incriminato per aver tradito la sacra missione a te affidata. Dato che c'era in corso una relazione, si prospetta la questione della cospirazione per commettere atti di tradimento. Anche se ti limitavi a cercare di sedurre una cittadina, puoi venire comunque incriminato per attività lesive dell'alta posizione della donna sovietica, per la mancata denuncia delle armi da fuoco illegali, per il furto di proprietà statali, i nastri, e per la diffusione di propaganda antisovietica... la musica. In ogni caso, la tua carriera di ufficiale di marina è finita.» Nikolai l'ascoltava con l'aria di chi ingoia un pesce intero. «Nessun problema. Forse ci vorrà un'ora per stabilire un contatto con Odessa, ma ce la farò.» «A proposito, dato che sei appassionato di musica, dov'eri durante il ballo?» «Ero impegnato con gli altri miei doveri.» Nikolai abbassò gli occhi per indicare, su uno dei ponti inferiori, la stazione del servizio segreto che Arkady doveva ancora trovare. «È strano che parli di musica. I nastri che aveva Zina nell'appartamento di Vladivostok? In parte era rock, ma erano soprattutto magnatizdat. Sai, le canzoni della mala.» «"Tagliatemi la gola ma non tagliate le corde della mia chitarra"?» «Esattamente! Allora la conoscevi.» «La conosco adesso.» Mentre usciva, Arkady dovette ammettere di fronte a se stesso che era stato duro con il giovane, più duro di quanto fosse necessario. L'errore di Nikolai era stato quello di chiamarlo "nonno". Arkady si sorprese a passarsi la mano sulla faccia. Davvero sembrava vecchio? Non sentiva di esserlo.
23 Sotto la cuccetta di Gury c'era un sacco di nailon nuovo, pieno di bottino di plastica: walkmen della Sony, orologi Swatch, altoparlanti Aiwa, WaterPiks, Marlboro e un telefono di Topolino. All'anta del guardaroba erano fissate con il nastro adesivo le foto polaroid di Obidin, con la barba pulita e pettinata, davanti alla chiesa di Unalaska come un beato che posa modestamente su una nuvola accanto al Signore. L'interno del guardaroba era odoroso delle esalazioni delle file di barattoli delle bevande caserecce insaporite con la frutta fresca e in scatola acquistata nell'emporio di Dutch Harbor. Se qualcuno allungava la mano per prendere la giacca veniva aggredito dai fumi zuccherosi di pesche, ciliegie ed esotici mandaranci. Ma l'angolo più botanico della cabina era costituito dagli scaffali di Kolya, con gli esemplari raccolti sull'isola e portati a bordo nei vasetti di cartone: muschi pelosi aggrappati a una pietra annidata nelle pagine bagnate della "Pravda"; un cespuglietto in miniatura dalle piccolissime bacche violacee; le foglie di un'iris nana; una Castilleia coccinea che conservava ancora un petalo rosso-fuoco. Kolya faceva da guida a Natasha: con l'oblò merlettato dal ghiaccio, il suo angolo di cabina sembrava una serra. Era la prima volta che riusciva a far colpo su di lei. «Tutti i viaggi di esplorazione scientifica si concludevano così» spiegò. «Cook e Darwin riempivano le loro piccole navi: esemplari botanici nelle stive, bulbi nei ripostigli delle catene, alberi del pane in coperta. Perché dovunque c'è vita. La parte inferiore dei lastroni di ghiaccio intorno a noi è coperta di alghe. E questo attira i minuscoli essermi che, a loro volta, attirano i pesci. Naturalmente, poi vengono i predatori: foche, cetacei, orsi polari. Siamo circondati dalla vita.» La mente di Arkady era rivolta a una botanica di tipo diverso. Era seduto al tavolino a fumare una delle sigarette di Gury, e pensava alla canapa selvatica, migliaia di ettari di lussureggiante canapa selvatica della Manciuria, carica di polline narcotico, con le foglie e i fiori che crescevano come rubli dispensati gratis nell'accidentato paesaggio asiatico. Ogni autunno scoppiava quella che i siberiani chiamavano "febbre dell'erba", e tutti accorrevano in campagna come volontari del partito, anzi, con zelo ancora più grande, per provvedere al raccolto. Spesso non era necessario mettersi in viaggio perché cresceva dappertutto... lungo le strade, nei campi di patate, nei filari di pomodori. Era chiamata anasha, e veniva portata a sacchi con i camion verso Mosca, dove si fumava nelle sigarette confezionate a mano
oppure nelle pipe. C'era anche il plan. Hashish. Il plan arrivava in pani d'un chilo dall'Afghanistan e dal Pakistan, e poi viaggiava lungo percorsi diversi, in parte sui camion dell'esercito, in parte su traghetti che attraversavano il Mar Nero e il Mar Caspio, e poi dalla Georgia proseguiva verso il nord e Mosca. «Gli orsi polari vagano per centinaia di chilometri sulla banchisa» stava dicendo Kolya a Natasha. «Nessuno sa come trovano la strada. Hanno due metodi per cacciare: aspettano accanto alle buche dove le foche emergono per respirare, oppure nuotano sotto il ghiaccio e spiano l'ombra delle foche sopra di loro.» O i papaveri, pensò Arkady. Quanti collettivi georgiani superavano di parecchio le loro quote del fiore magico? Quanti venivano nascosti, quanti venivano disseccati e confezionati, quanti venivano trasformati in morfina e poi comparivano a Mosca come se fossero portati dal vento? Dal punto di vista di un investigatore, Mosca era un'Eva innocente, circondata da giardini pericolosi e perennemente sedotta da untuosi serpenti georgiani, afghani e siberiani. Il "tè" che Zina aveva chiesto a Nikolai di spedire era senza dubbio un pane di canapa, anasha. Poi aveva cambiato idea, probabilmente perché era una cosa da poco; ma voleva dire che esisteva almeno una parte di una organizzazione. «Hai trovato tutti questi fiori lungo la strada e vicino all'emporio?» chiese Natasha. «Be', bisogna sapere dove guardare» rispose Kolya. «Il seme della bellezza è dovunque.» Natasha s'era pettinata i capelli all'indietro per mettere in mostra gli orecchini di cristallo comprati a Dutch Harbor. «Non sei d'accordo, Arkady?» «È innegabile.» «Hai visto che il compagno Mer ha passato il tempo a terra in modo molto costruttivo, invece di ubriacarsi vergognosamente e di cadere in acqua?» «Kolya, m'inchino al tuo zelo scientifico.» Arkady notò che il blocco a spirale del suo compagno di cabina, con la rilegatura grigia in finta pelle di coccodrillo, era del tipo che veniva venduto nello spaccio della nave, come quello di Zina. «Posso?» Lo sfogliò. Su ogni pagina, Kolya aveva annotato ogni pianta con il nome comune, il nome latino, e il posto e l'ora in cui l'aveva raccolta. «Eri solo quando sei caduto?» chiese Natasha. «È meno imbarazzante.»
«Susan non era con te?» «Non c'era nessuno.» «Potevi farti male.» Kolya era preoccupato. «Finire in acqua di notte, un po' sbronzo.» «Mi domandavo che cosa conti di fare quando torneremo a Vladivostok» disse Natasha ad Arkady. «Quand'era vivo, il compagno Volovoi insinuava che avresti potuto avere difficoltà con la Guardia Confinaria. Potrebbero esserti utili valutazioni positive dei tuoi compagni di lavoro, soprattutto se iscritti al partito. E poi, magari potresti aver voglia di andare in qualche altro posto. Sullo Yenisei stanno incominciando i lavori per certi bellissimi progetti idroelettrici. Premi per il lavoro nell'Artico, un mese di vacanza a scelta. Con le tue qualità, impareresti a far funzionare una gru in pochissimo tempo.» «Grazie, ci penserò.» «Quanti ex investigatori di Mosca possono dire di aver costruito una diga?» chiese Natasha. «Non molti.» «Potremmo tenere una vacca. Voglio dire, tu potresti tenere una vacca, se volessi. Chiunque la vuole tenere, può farlo. In un prato privato. O magari un maiale. O persino i polli, però bisogna avere un posto caldo per tenere i polli durante l'inverno.» «Vacche? Polli?» Arkady scosse la testa. Che cosa significava? «Lo Yenisei è interessante» disse Kolya. «È molto interessante» insistette Natasha. «Una bellissima taiga di pini e larici. Cervi e pernici selvatiche.» «E lumache commestibili» disse Kolya. «Però, se volessi, potresti tenere una vacca. E lo spazio per una motocicletta. Picnic in riva al fiume. Un'intera città piena di gente giovane e di bambini. Tu...» «Zina s'intendeva un po' di navi?» l'interruppe Arkady. «Capiva la terminologia, sapeva come vengono chiamate le varie parti di una nave?» Natasha non riusciva a credere alle sue orecchie. «Zina? Ricominciamo con Zina?» «Cosa poteva intendere quando parlava di "stiva del pescato"?» «È morta. Ormai è una faccenda chiusa.» «La stiva oppure qualcosa che stava vicino?» chiese Arkady. «Zina non capiva niente delle navi, non capiva niente del suo lavoro, pensava solo al suo interesse e adesso è morta» disse Natasha. «Perché ti
affascina tanto? Quand'era viva t'infischiavi di lei. Capisco che te ne sei occupato quando il comandante ti ha ordinato di svolgere un'indagine. Ma adesso il tuo interessamento è morboso, negativo e disgustoso.» Arkady infilò gli stivali. «Forse hai ragione» disse. «Scusami, Arkasha, non avrei dovuto parlare così. Scusami.» «Non devi scusarti perché sei stata sincera.» Arkady prese la giacca. «Odio il mare» disse rabbiosamente Natasha. «Avrei dovuto andare a Mosca. Avrei potuto trovare un posto in una fabbrica tessile e cercare un marito.» «Le fabbriche tessili sono un inferno» osservò Arkady, «e avresti dovuto vivere in un dormitorio, con una tenda fra il tuo letto e quello di una vicina. C'è troppo affollamento, non ti piacerebbe. Un fiore grande merita molto spazio.» «È vero.» La frase le piaceva. Sottocoperta, a prua, sembrava che la Stella Polare non spezzasse il ghiaccio ma avanzasse attraverso un paesaggio invisibile, rovesciando case e alberi e sradicando macigni. Arkady non si sarebbe sorpreso se avesse visto rami o letti sfondare la paratia d'acciaio arrugginito. Cosa pensavano i ratti? Avevano abbandonato la terra molte generazioni prima. Quel chiasso evocava ricordi e strani sogni nei roditori addormentati? Zina aveva detto "stiva del pescato", ma in realtà doveva intendere il ripostiglio delle catene vicino alla stiva. Era il punto più basso e più avanzato della nave, ed era uno spazio tuttofare solitamente pieno di gomene e catene, un angolo buio che un nostromo scrupoloso poteva visitare al massimo due volte durante un viaggio. Solo uno spioncino nel portello stagno lasciava capire che poteva essere qualcosa di diverso dal solito. Prima che Arkady potesse bussare, il portello si aprì con uno schiocco d'aria, come una bottiglia. Appena entrò e il portello si richiuse dietro di lui, sentì la pressione sui timpani. Una lampadina rossa rivelava Anton Hess seduto su una poltroncina girevole. In quella luce, la torre di capelli irti sembrava sghemba. Aveva distolto gli occhi da tre monitor collegati all'ecoscandaglio della plancia: sugli schermi, tre mari verdi fluivano sopra tre fondali color arancio, ed Hess sembrava un mago chino su vasche di colori fluorescenti. Da una parte c'erano due schermi del loran, con i collimatori luminosi indicanti la longitudine e la latitudine sulle carte simili a quelle che Arkady aveva visto sull'Eagle: e tutto questo era molto più avanzato degli apparecchi nel ponte di
comando di Marchuk. Dall'altra parte c'era un oscilloscopio e qualcosa che sembrava un mixer acustico per tecnici del suono, completo di cuffia. Sopra a questo c'era uno schermo che mostrava in mezzi toni grigi il corridoio fra lo stanzino e la stiva del pescato, il corridoio dove Arkady si trovava un momento prima. C'erano un piccolo computer e altri apparecchi che non riusciva a distinguere bene nella fioca luce rossa anche se tutto quanto, incluse la poltroncina e la branda, era stipato in un'area non molto più grande d'un ripostiglio. Un sommergibilista doveva trovarsi a casa sua. «Mi sorprende che abbia impiegato tanto tempo per trovarmi» disse Hess. «Sorprende anche me.» «Sieda.» Hess indicò la branda. «Benvenuto nella nostra piccola stazione. Purtroppo non è permesso fumare perché l'aria non circola: ma è come per i paracadutisti, che si ripiegano da soli il paracadute. L'ho progettato io, quindi non posso prendermela con nessun altro.» Una ragione per cui lo spazio era così limitato, notò Arkady, era il pesante isolamento acustico su ogni superficie; c'era persino un falso ponte sui pannelli isolanti, e smorzava lo stridore del ghiaccio contro l'acciaio. Quando i suoi occhi si abituarono, vide un'altra ragione. Sul ponte, dove le paratie s'incontravano, c'era un emisfero bianco d'un metro di diametro. Quella cupoletta sembrava il coperchio di qualcosa di molto più grande, inserito nel fondo della nave. «Sbalorditivo» disse Arkady. «No, è patetico. È un tentativo disperato di correggere l'ingiustizia della geografia e il fardello della storia. Tutti i porti sovietici importanti si trovano di fronte a una strozzatura, o sono chiusi dai ghiacci per sei mesi all'anno. Quando lascia Vladivostok, la nostra flotta deve passare tra le isole Curili oppure per lo Stretto di Corea. In guerra, con ogni probabilità non potremmo far uscire neppure una nave di superficie. Grazie a Dio abbiamo i sottomarini.» Sui tre schermi, Arkady vide un segnale arancione che ascendeva come un'onda: i pesci dei fondali che salivano per mangiare. Nessuno sapeva perché i pesci amassero mangiare durante il maltempo. Hess porse ad Arkady qualcosa di lucido: una borraccia di brandy a temperatura corporea. «Sott'acqua siamo eguali?» «Se lasciamo da parte il fatto che loro hanno un numero doppio di testate. E che possono tenere di pattuglia il sessanta per cento dei loro mezzi lanciamissili, mentre noi possiamo arrivare al massimo al quindici. Inoltre
i loro sottomarini sono più silenziosi, più veloci e scendono a profondità maggiori. E qui spunta l'ironia, Renko. So che lei apprezza l'ironia quanto me. L'unico posto dove i nostri sottomarini possono nascondersi senza pericoli è sotto il ghiaccio dell'Artico, e l'unico modo in cui gli americani possono inseguirci dal Pacifico consiste nell'attraversare il Mare di Bering e lo Stretto di Bering. Per una volta, siamo noi a strozzarli.» Padrone di casa e visitatore brindarono alla geografia. Quando Arkady si assestò, la branda scricchiolò sotto di lui; pensò a Zina sulla stessa coperta. In quell'occasione non c'erano state conferenze. «Quindi anche lei ha la sua quota di pesce, in un certo senso» disse. «Non devo prenderlo, ma solo ascoltare. Lei sa che la Stella Polare è stata in bacino di carenaggio.» «Mi domandavo che genere di lavori avevano fatto. Nessuno ha notato qualche miglioramento che abbia a che fare con la pesca.» «Qualche orecchio in più.» Hess indicò la cupoletta bianca. «Si chiama sonar a rimorchio. È un sistema passivo, un cavo con gli idrofoni, che si srotola da un verricello elettrico in quell'intercapedine. Sui sottomarini, l'intercapedine è montata a poppa. Sulla Stella Polare l'abbiamo montata vicino alla prua per evitare che il cavo s'impigli in una rete americana.» «E poi ritirate il cavo prima che consegnino una rete» disse Arkady. Ecco perché Nikolai aveva avuto tempo da dedicare a Zina: perché stavano portando un carico di pescato. «Non è un sistema molto efficace per le grandi profondità, ma qui l'acqua è bassa. I sottomarini, persino i loro, odiano l'acqua bassa: corrono verso lo stretto, e più filano veloci, più fanno chiasso e noi li sentiamo. Ognuno ha un suono diverso.» Hess si girò verso un supporto con un computer, un monitor e un assortimento di floppy disks. «Qui abbiamo le firme di cinquecento sottomarini, loro e nostri. Così scopriamo le loro rotte e le loro missioni. Naturalmente potremmo fare lo stesso a bordo di uno dei nostri sottomarini o delle nostre navi idrografiche, ma i loro sottomarini li evitano. La Stella Polare è soltanto una nave-fattoria in mezzo al Mare di Bering.» Arkady ricordava la carta nella cabina dell'ingegnere elettronico della flotta. «Una delle cinquanta navi-fattorie sovietiche lungo la loro costa?» «Esattamente. Questo è il prototipo.» «Mi sembra piuttosto sofisticato.» «No» disse Hess. «Lasci che le spieghi che cosa è davvero sofisticato, nel campo della raccolta elettronica delle informazioni. Gli americani
piazzano monitor ad alimentazione nucleare al largo della costa siberiana. Sono contenitori con sei tonnellate di apparecchi e una scorta di plutonio, e possono continuare a trasmettere all'infinito sotto il nostro naso. I loro sottomarini entrano nel porto di Murmansk e piazzano idrofoni sui nostri. Si divertono quando trovano qualche trofeo. Naturalmente, se riuscissero a mettere le mani sul nostro cavo lo presenterebbero a Washington in una di quelle conferenze stampa che sanno organizzare tanto bene, come se non avessero mai visto in vita loro un barattolo legato a uno spago.» «E il suo cavo è un barattolo legato a uno spago?» «Microfoni fissati a uno spago di trecento metri, in sostanza.» Hess si concesse un mezzo sorriso. «Il software è interessante: era stato programmato in California per seguire le balene.» «Non le capita mai di scambiare una nave per una balena?» «No.» Hess tese le dita e toccò lo schermo rotondo dell'oscilloscopio come se fosse una sfera di cristallo. Sembrava fabbricato a mano, come accadeva spesso ai prodotti d'alta tecnologia forniti dal ministero per le Apparecchiature Elettriche. «Le balene e i delfini sembrano fari nello spazio. Certe balene si possono sentire fino a mille chilometri di distanza... note di basso profondo con le onde lunghe delle basse frequenze. Poi ci sono gli altri suoni: i pesci, le foche che inseguono i pesci, i trichechi che scavano il fondo marino con le zanne. In complesso, è come il suono di un'orchestra che accorda di continuo gli strumenti. Poi si sente un certo sibilo che non ci dovrebbe essere.» «Lei è musicista?» chiese Arkady. «Da bambino credevo che sarei diventato violoncellista.» Arkady guardò i monitor e l'immagine ripetuta dei pesci color arancio che ascendevano in un mare verde elettrico. La cupoletta bianca era fissata con i morsetti, quindi era asportabile. Se bisognava fare qualcosa al verricello, che altro avrebbe potuto fare Hess? Far scendere un sommozzatore? «Perché crede che l'avessi tolta dal circuito sporco?» continuò Hess. «Sento qualcosa di sospetto: la ragazza morta, Zina Patiashvili, correva a poppa tutte le volte che l'Eagle veniva a consegnare un carico di pescato. Per salutare un giovane indigeno? Non diciamo sciocchezze. L'unica risposta possibile è che segnalasse al capitano Morgan se avevamo calato il cavo o no.» «È visibile?» «Durante i collaudi no; ma lei doveva aver visto qualcosa, oltre alla rete di Morgan.»
«Dicono che Morgan sia un ottimo pescatore.» «George Morgan ha pescato nel Golfo di Thailandia, al largo di Guantànamo e di Grenada. Dovrebbe saper pescare. Perciò ho appoggiato un'indagine. Meglio scoprire la verità e far cadere un traditore dall'albero troppo presto anziché troppo tardi. Ma, Renko, devo dirle che ci sono stati troppi morti. Prima la ragazza, poi Volovoi e l'americano... E lei continua a serpeggiare dentro e fuori, dentro e fuori in questa storia.» «Posso scoprire di pili su Zina.» «E il nostro primo ufficiale finito arrosto? No, lasceremo fare a Vladivostok. Per il momento ci sono già troppi interrogativi... per esempio, lei in che modo è coinvolto?» «Qualcuno sta cercando di uccidermi.» «Non è abbastanza. Zina-Susan-Morgan, ecco la concatenazione che cerco. Si inserisca e avrà giustificato il mio interesse. Il resto non mi riguarda.» «Non le importa di quello che è successo a Zina?» «In se stesso, non m'importa, naturalmente.» «Le interesserebbero le prove di un giro di contrabbando?» Hess rise, inorridito. «Mio Dio, no. È come invitare il KGB a ficcare il naso negli affari dello spionaggio. Renko, si sforzi di vedere un po' al di là della piccola delinquenza. Mi dia qualcosa di concreto.» «Per esempio?» «Susan. Vi ho osservati a Dutch Harbor. Renko, lei deve avere un fascino patetico irresistibile. Quella ragazza è attratta. Le stia più vicino. Così servirà il suo Paese e se stesso. Trovi qualcosa sul conto di Susan e di Morgan, e farò venire una nave apposta per riportarla a terra.» «Lettere incriminanti, codici segreti?» «Piazzeremo altri microfoni nella cabina di Susan. Oppure possiamo mettere una trasmittente addosso a lei.» «Possiamo farlo in molti modi diversi.» «Come preferisce.» «Ecco, no, non credo» disse Arkady dopo qualche attimo di riflessione. «Per la verità sono venuto per un'altra ragione.» «Quale?» Arkady si alzò per scrutare meglio negli angoli dello stanzino. «Volevo vedere se il cadavere di Zina era stato nascosto qui.» «E allora?» La luce era fioca, ma lo spazio era limitato. «No» decise Arkady.
I due uomini si guardarono. Hess aveva l'espressione mesta di chi ha rivelato confidenze e aspirazioni a un orecchio sordo. «La piccola delinquenza è la mia passione» disse Arkady in tono di scusa. Il portello si aprì con uno schiocco. «Aspetti» disse Hess mentre Arkady stava per uscire. Frugò in un cassetto e tirò fuori un oggetto luccicante. Era il coltello di Arkady. Glielo porse. «Proprietà dello Stato, giusto? Buona fortuna.» Arkady si voltò a guardare mentre usciva. Sotto lo schermo bianco e nero, Anton Hess aveva l'aria sfinita. Gli schermi colorati avevano una gaiezza fuori posto, come se fossero sintonizzati su una lunghezza d'onda più felice. Dietro il loro lucore, la cupoletta annidata sul pavimento isolato sembrava la punta di un uovo vulnerabile che l'ingegnere elettronico della flotta si portava in giro per il mondo. 24 La pioggia sferzava la Stella Polare con gocce orizzontali che diventavano perle di molle ghiaccio spugnoso. L'equipaggio lavorava sotto le lampade, e innaffiava la nave con il vapore bollente delle caldaie, e il ponte di pesca fumava come se fosse in fiamme. C'erano corde tese attraverso la tolda e gli uomini si aggrappavano per non cadere a ogni rollio. Portavano i caschi sotto i cappucci foderati di pelliccia, e sembravano una squadra di operai edili siberiani... tutti tranne Karp, che era ancora in maglione come se il maltempo non lo sfiorasse. «Rilassati.» Karp tese solennemente la mano quando Arkady si avvicinò. Aveva una radio appesa alla cintura. «Goditi il tonificante clima di Bering.» «Non mi hai dato la caccia.» Arkady contò gli uomini per assicurarsi che fossero tutti in vista. Ai due lati del ponte, i merlani straboccavano. Circondati dalla nebbia fumante e resi lucidi dalla pioggia che ghiacciava, i pesci scintillavano come armature d'argento sotto le lampade. «Non è che tu abbia qualche altro posto dove andare.» Karp tirò giù un bozzello per staccare il ghiaccio dalla carrucola con il manico del coltello. L'operatore della gru era fuori dalla cabina. I pescherecci non si affiancavano: il ghiaccio lo impediva. Tutto il ponte era velato dal vapore. «Probabilmente potrei buttarti fuori in questo momento e non se ne accorgerebbe nessuno.»
«E se finissi sul ghiaccio e non affondassi?» ribatté Arkady. «Dovresti riflettere di più. Sei troppo impulsivo.» Karp rise. «Hai le palle quadrate, devo riconoscerlo.» «Cos'aveva detto Volovoi perché l'accoltellassi?» chiese Arkady. «Forse è stato perché aveva giurato che avrebbe smantellato la nave, al nostro ritorno a Vladivostok? Accoltellarlo non è servito a niente. Il KGB ci salterà addosso quando torneremo.» «Ridley dichiarerà che sono rimasto con lui tutta la serata» Karp finì di scalpellare il ghiaccio con la lama. «Provaci a dire qualcosa a proposito di Volovoi, e ricadrà su di te.» «Lascia perdere Volovoi.» Arkady tirò fuori una papirosa, una sigaretta in grado di resistere alla pioggia, al nevischio e alla neve. «Io continuo a interessarmi a Zina.» Avvolto fino alla cintura in un turbine di nubi, Pavel procedeva lungo il parapetto, maneggiando un tubo d'acqua fumigante. Karp gli accennò di stare lontano. «Zina?» chiese ad Arkady. «Qualunque cosa facesse, non lo faceva da sola: non era il suo modo di agire. Se mi guardo intorno, mi rendo conto che l'unico con cui avrebbe lavorato sei tu. Hai detto a Slava che la conoscevi pochissimo.» «Era una compagna di lavoro, niente di più.» «Un'altra che lavorava come te?» «No, io sono un lavoratore modello.» Karp teneva a quella distinzione. Allargò le braccia. «Tu non sai niente dei lavoratori perché non lo sei veramente. Pensi che il circuito sporco faccia schifo?» Batté leggermente il coltello sul petto di Arkady per sottolineare ciò che diceva. «Hai mai lavorato in un mattatoio?» «Sì.» «Un mattatoio per le renne?» «Sì.» «E giravi in mezzo alle budella con un'incerata sulle spalle?» «Sì.» «Lungo l'Aldan?» L'Aldan era un fiume della Siberia orientale. «Sì.» Karp tacque per un momento. «Il direttore del collettivo è un koryak che si chiama Sinaneft, e andava in giro su un pony?» «No, era un buriato di nome Korin e guidava una Moskvitch con gli sci al posto delle ruote anteriori.» «Hai lavorato davvero là.» Karp aveva un'aria divertita. «Korin aveva
due figli.» «Due figlie.» «Una era tatuata. Buffo, vero? Per tutto il tempo che sono stato nei campi, tutto quel tempo in Siberia, pensavo che se c'era un po' di giustizia al mondo io e te ci saremmo incontrati di nuovo. E il destino era dalla mia parte.» Sopra di loro, l'operatore della gru si portò una tazza in cabina. Dall'altra parte del ponte l'americano Bernie si stava dirigendo verso poppa. Infagottato in un parka, avanzava lentamente lungo la corda come un bambino che ha appena imparato a camminare. Dalla radio di Karp uscì la voce gutturale di Thorwald: annunciava che la Merry Jane stava per arrivare con un carico di pescato. Il capopesca rinfoderò il coltello e subito il ritmo del lavoro cambiò. I tubi non lanciarono più getti d'acqua, i cavi furono trascinati alla rampa. «Non sei stupido, ma non pensi mai più in là del tuo naso» disse Arkady. «Dovevi restare in Siberia o contrabbandare videotapes o jeans... roba piccola.» «Lascia che ti dica una cosa» replicò Karp, e tolse un po' di ghiaccio dalla giacca di Arkady. «Tu sei come un cane che è stato buttato fuori di casa a calci. Vivi di quello che trovi nei boschi, per un po', e credi di poterti imbrancare con i lupi. Ma in fondo vuoi soltanto abbattere un lupo perché ti lascino tornare in casa.» Tolse un cristallo di ghiaccio dai capelli di Arkady e bisbigliò: «Non arriverai vivo a Vladivostok». Erano diventati come tanti animali invernali, e portavano i giubbotti anche quando mangiavano. Al centro del lungo tavolo c'era una pentola di zuppa di cavoli che puzzava di bucato e che veniva consumata accompagnata da aglio crudo offerto su piatti a parte insieme con il pane scuro, il goulash e il tè così fumante da far apparire la mensa nebbiosa quanto una sauna. Izraelovich prese posto sulla panca a fianco di Arkady. Come al solito, il direttore del settore fattoria aveva una quantità di squame di pesce sulla barba, come se fosse arrivato a guado fino alla mensa. «Non puoi ignorare il tuo dovere di socialista» mormorò ad Arkady. «Devi riprendere il tuo posto di lavoro insieme con i tuoi compagni, o ti farò rapporto.» Natasha era seduta di fronte ad Arkady. Portava ancora la cuffia bianca che era obbligatoria sul lavoro, per impedire che qualche capello finisse nel pesce. «Dai ascolto a Izrael Izraelovich» disse ad Arkady. «Credevo che stessi
male. Sono andata nella tua cabina e non c'eri.» «Olimpiada ci sa fare con i cavoli.» Arkady offri a Natasha un mestolo di zuppa, ma lei scosse la testa. «Dov'è Olimpiada? Non l'ho vista.» Izraelovich disse: «Ti farò rapporto al comandante, al sindacato e al partito». «Sarà interessante, farmi rapporto a Volovoi. Natasha, non prendi un po' di goulash?» «No.» «Almeno un po' di pane?» «Grazie, mi basta il tè.» Natasha se ne versò con garbo una tazza. «È una faccenda seria, Renko.» Izrael si servi di zuppa e di pane. «Non puoi andare in giro per la nave come se avessi ordini speciali da Mosca.» Addentò un chiodo di garofano e rifletté. «A meno che tu non li abbia davvero.» «Sei a dieta?» chiese Arkady a Natasha. «Sto cercando di resistere.» «Perché?» «Ho le mie ragioni.» Con i capelli tirati indietro e trattenuti dalla cuffia, gli zigomi spiccavano di più, gli occhi scuri sembravano più grandi e più dolci. Obidin, che era seduto vicino a lei, si riempì il piatto di goulash e lo esaminò per cercare la carne. «A quel che ho sentito dire, molti pensano che non dovremmo più pescare dove abbiamo trovato Zina» disse. «Per rispetto ai morti.» «È ridicolo.» Gli occhi di Natasha divennero duri, al pensiero di Zina. «Non siamo tutti fanatici religiosi. Viviamo nell'evo moderno. Hai mai sentito una cosa simile?» chiese a Izrael. «Hai mai sentito parlare di Kuryeka?» chiese a sua volta Izrael, nascondendo un sorriso nella barba. «Stalin c'era stato esiliato dallo zar. Poi, quando comandava lui, mandò un esercito di prigionieri a Kuryeka per rimontare la sua vecchia baracca e costruirle intorno un hangar pieno di riflettori che illuminavano ventiquattr'ore su ventiquattro la baracca e una sua statua di marmo. Una statua gigantesca. Una notte, anni dopo la sua morte, trascinarono fuori la statua di nascosto e la buttarono nel fiume. E tutte le imbarcazioni deviavano per non passarci sopra.» «Come fai a saperlo?» chiese Arkady. «Come credi che un ebreo possa diventare siberiano?» ribatté il direttore del settore fattoria. «Mio padre aveva lavorato alla costruzione dell'han-
gar.» Addentò il pane. «Non ti farò rapporto subito» disse ad Arkady. «Ti darò tempo un giorno o due.» Mentre andava in sala radio, Arkady sentì una voce che sembrava quella registrata sul nastro di Zina. La voce e il suono della chitarra, sonanti e romantici, provenivano dall'infermeria. Non sembrava che fosse il dottor Vainu. Su un lontano mare tempestoso Naviga un brigantino pirata. Era una vecchia canzone da campeggiatori, anche se un campeggiatore doveva essere molto sbronzo e probabilmente incapace di girare intorno a un albero, per apprezzare quei versi piagnucolosi. La bandiera nera garrisce nella brezza. Capitan Flint canta a voce spiegata. E noi brindiamo e incominciamo La nostra canzone. Quando Arkady entrò nell'infermeria la musica cessò. «Merda, merda, credevo di aver chiuso» disse il dottor Vainu mentre si precipitava a bloccare il passo ad Arkady. In fondo al corridoio, Arkady vide l'ampio didietro di Olimpiada Bovina che si precipitava in un ambulatorio. Il dottore indossava tuta da ginnastica e pantofole e aveva i capelli un po' spettinati, le pantofole scambiate. Arkady avrebbe pensato che la Bovina e Vainu non potessero fare coppia più di uno schiacciasassi e uno scoiattolo. «Non può entrare così!» protestò il dottore. «Sono entrato.» In cerca del cantante, Arkady precedette Vainu lungo il corridoio, fino alla sala operatoria dove un lenzuolo copriva il tavolo. Lo scatolone con gli effetti personali di Zina era ancora su un banco. «Questo è l'ufficio di un medico!» Vainu si controllò la chiusura lampo. Accanto al tavolo c'era un vassoio d'acciaio con una beuta e, a giudicare dall'odore di vernice nell'aria, bicchieri pieni di alcol di grano. C'era anche un cioccolatino mangiato a metà e farcito di crema. Arkady appoggiò la mano sul lenzuolo. Era ancora caldo, come il cofano di un'automobile che si è fermata da poco.
«Non può fare irruzione così» disse Vainu in tono meno convinto. Si appoggiò a un banco e accese una sigaretta per calmarsi. Sul banco, accanto allo scatolone, c'era un mangianastri giapponese nuovo, con i minuscoli altoparlanti stereo. Arkady premette il pulsante "Rewind", quindi "Play". «... La bandiera nera sventola nella brezza.» Poi "Stop". «Chiedo scusa» disse. Comunque, non era l'altro cantante. La voce tonante del colonnello Pavlov-Zalygin volava sui fili del telefono e sulle onde dell'etere, fin da Odessa. Era calma e profonda e baritonale e ricordava ad Arkady che, mentre i ghiacci si spostavano verso sud nel Mare di Bering, in Georgia stavano ancora pigiando l'uva, e sul Mar Nero i traghetti erano ancora pieni degli ultimi turisti dell'anno. Il colonnello era ben lieto di aiutare un collega che navigava tanto lontano, anche se per farlo doveva ripescare certi vecchi dossier. «Patiashvili? Sì, conoscevo il capo, ma da un po' di tempo i superiori sono molto ligi alle leggi. Gli avvocati s'impicciano di tutto, ci accusano di violenza, presentano appello contro sentenze assolutamente valide. Mi creda, si trova meglio lei che è sul mare. Dovrei studiare il caso e richiamarla.» Arkady ricordava che, se stavano ascoltando il canale sovietico, altre navi potevano sentire metà della conversazione. Era meglio limitare al massimo le chiamate, anche ammettendo che avesse la possibilità di farne un'altra. Nikolai studiava i quadranti della banda unica: gli aghi ondeggiavano pazzamente. «È il maltempo» disse ad Arkady. «La ricezione peggiora.» «Non c'è il tempo» disse Arkady nel ricevitore. «Pubblicano sui giornali le lettere dei delinquenti» disse Pavlov-Zalygin. «Sulla "Literaturnaia Gazeta"!» «La ragazza è morta» spiegò Arkady. «Be'» disse il colonnello. «Mi lasci pensare.» C'era un divario di tempo di quattro secondi in ogni trasmissione, e aggravava la confusione. Anziché un microfono, la radio aveva un ricevitore del telefono con un fregio a margherita, un abbellimento antiquato. Arkady pensò che tutta la tecnologia moderna, a bordo della Stella Polare, si trovava nella stiva con Hess. «Il guaio è che non avevamo niente di concreto contro la ragazza» disse Pavlov-Zalygin in tono riluttante. «Niente che potessimo portare in tribunale. Perquisimmo il suo appartamento, la fermammo, ma non trovammo
mai abbastanza elementi per incriminarla. A parte questo, l'indagine fu un grande successo.» «Un'indagine... su che cosa?» «Ne parlarono i giornali, persino la "Pravda"» dichiarò con orgoglio il colonnello. «Un'operazione internazionale. Cinque tonnellate di hashish georgiano partito da Odessa per Montreal su un mercantile sovietico. Roba di ottima qualità, in pani nascosti nei containers con la dicitura "lana grezza". La dogana scopri la droga qui. Di solito facciamo gli arresti e distruggiamo il carico illegale, ma quella volta decidemmo di collaborare con i canadesi e di fare arresti da noi e da loro.» «Una joint venture.» «Appunto. L'operazione fu un successo, lei dovrebbe...» «Sì. In che modo era coinvolta Zina Patiashvili?» «Il capo dell'organizzazione era il suo amico. Lei aveva lavorato per sei mesi nella cambusa del mercantile; anzi, era l'unico mercantile su cui aveva lavorato veramente. L'avevano vista sul molo quando avevano fatto il carico, ma...» Le scariche diventavano più forti e facevano sobbalzare l'ago del wattmetro. «... al procuratore. Comunque, l'allontanammo dalla città.» «E gli altri che erano coinvolti sono ancora nei campi?» «Campi a stretto regime, assolutamente. So che c'è stata un'amnistia, ma non è come quella di Krusciov, quando facemmo uscire tutti. No, quando...» «Lo perdiamo» disse Nikolai. «Ha detto che la ragazza ha lavorato per sei mesi su quel mercantile, ma il suo libretto indica che ha lavorato nella flotta del Mar Nero per tre anni» disse Arkady. «Non lavorava in cambusa. Con... raccomandazioni e i soliti titoli...» «Titoli? Che cosa faceva?» chiese Arkady. «Era una nuotatrice.» La voce del colonnello diventò di colpo chiara e tonante. «Rappresentava la flotta del Mar Nero in tutte le riunioni agonistiche. Prima ancora, aveva fatto parte della squadra di nuoto della sua scuola. Qualcuno diceva che avrebbe potuto essere selezionata per le Olimpiadi se avesse avuto un po' di disciplina.» «Era una ragazza piccola, con i capelli scuri tinti di biondo?» Arkady non riusciva a credere che stessero parlando della stessa donna. «Sì, sì, ma aveva i capelli scuri. Era attraente anche se volgare... stranie-
ri... Pronto? Pronto...?» La voce del colonnello svanì come una nave avvistata nella tempesta, passando da un banco di scariche a uno ancora più fitto. «È andato.» Nikolai guardò l'ago che ballava come impazzito. Arkady tolse la comunicazione e si appoggiò alla spalliera mentre il tenente lo fissava con ansia. E ne aveva motivo. Una cosa era, per un marconista giovane e virile, lasciar entrare un'onesta cittadina in un posto d'ascolto segreto allo scopo di sedurla; ma era ben diverso rivelare quel posto d'ascolto a una criminale. «Mi dispiace.» Nikolai non resse più la tensione. «Volevo farti venire prima in sala radio, quando la comunicazione era migliore, ma c'era un gran casino per il peschereccio che abbiamo perso, con tutte le chiamate a Seattle e alla flotta. È stata l'ultima consegna della Merry Jane,» «Thorwald?» «Sì, il norvegese. Dice che la colpa è nostra, ma per noi è sua perché ha cercato di trasferire più del carico massimo. Ha perso la rete e l'attrezzatura. Sembra che sia impossibile tentare il recupero con questo ghiaccio, e così ha dovuto tornare a Dutch Harbor.» «Siamo rimasti soltanto con l'Eagle?» «La società ha già mandato a raggiungerci altri tre pescherecci. Non lasceranno certo una nave-fattoria come la nostra a dipendere da un solo peschereccio.» «Zina ti aveva detto che era una nuotatrice?» Nikolai si schiarì la gola. «Mi aveva detto solo che sapeva nuotare.» «Al Corno d'Oro, al ristorante, c'era qualcun altro che hai riconosciuto? Qualcuno che è sulla nave?» «No. Senti, devo sapere del tuo rapporto. Cosa dirai di me? Adesso sai tutto.» «Se sapessi tutto non continuerei a far domande.» «Sì, sì, ma farai il mio nome nel rapporto?» Nikolai si avvicinò. Era quel tipo di ragazzo che cercava di leggere i voti a rovescio sul registro del professore, pensò Arkady. «Non ho il diritto di chiederlo; ma ti prego, pensa cosa mi succederà se nel tuo rapporto ci saranno commenti negativi sul mio conto. Non è per me. Mia madre lavora in una fabbrica di scatolame. Le mando sempre una pezza della stoffa che usano in marina e lei ci fa gonne e calzoni, e li vende agli amici. Vive per me, e una brutta storia come questa la ucciderebbe.» «Vuoi dire che sarei io il responsabile se il tuo tradimento verso il dove-
re causasse la morte di tua madre?» «No, no, naturalmente.» A Vladivostok avrebbero ascoltato le registrazioni di Zina qualunque cosa succedesse ad Arkady. Il tenente sarebbe finito al fresco già per il fatto che l'aveva lasciata entrare nel ripostiglio delle catene. «Collabora» disse. Non vedeva l'ora di uscire dalla sala radio. «Vedremo cosa succede.» «Ricordo un'altra cosa, a proposito del denaro» disse Nikolai. «Zina non ne chiedeva mai. Voleva che le portassi una carta da gioco, una regina di cuori. Non come pagamento, come...» «Come ricordo?» «Così sono andato dall'ufficiale addetto alla ricreazione e gli ho chiesto un mazzo di carte. Roba da non credere, ne abbiamo uno solo a bordo. E la regina di cuori mancava. Lui doveva saperlo, dal modo come sorrideva.» «Chi era l'ufficiale addetto alla ricreazione?» chiese Arkady. Tuttavia, dato che era l'incarico meno importante che potesse avere un ufficiale, c'era un solo nome probabile. «Slava Bukovsky.» Chi altro? 25 Arkady trovò Slava seduto nell'ombra di una cuccetta superiore. Portava la cuffia di un walkman e soffiava nella bocchetta d'un sassofono, dondolando a tempo i piedi scalzi. Arkady sedette in silenzio al tavolo della cabina come se fosse arrivato a metà di un concerto. Era accesa solo la lampada sulla scrivania, ma poteva vedere l'arredamento: la stessa scrivania, gli scaffali con i libri, un piccolo frigo e un orologio in una custodia impermeabile come se la cabina di Slava fosse quella che aveva maggiori probabilità di venire allagata. Si disse che non doveva essere troppo sprezzante: fino a quel momento Slava era riuscito a nascondere ogni legame con Zina. Sullo scaffale c'erano i soliti volumi degli ufficiali addetti alla ricreazione, libri sui giochi più popolari e sulle canzoni raccomandate, oltre a tomi austeri sul pensiero leninista e sulla propulsione diesel. Il secondo ufficiale, compagno di cabina di Slava, studiava per venire promosso primo ufficiale. Slava gonfiava le guance, chiudeva gli occhi, si dondolava leggermente, e dalla bocchetta uscivano belati sentimentali. C'erano un calendario fissato a un gagliardetto, la foto di un gruppo di ragazzi intorno a una motoci-
cletta con Slava nel sidecar, e un elenco con gli slogan del Primo Maggio di quell'anno. Il Numero 14, Lavoratori del complesso agro-industriale! Il vostro dovere patriottico è fornire generi alimentari al Paese in poco tempo!, era sottolineato. Il terzo ufficiale si tolse la cuffia, trasse un'ultima nota lamentosa dalla bocchetta, la lasciò cadere e guardò finalmente Arkady. «Back in the USSR» disse. «I Beatles.» «L'avevo riconosciuta.» «So suonare tutti gli strumenti. Dinne uno.» «Zither.» «Uno strumento normale.» «Liuto, lira, tamburo d'acciaio, sitar, zampogna di Pan, chong chai di Formosa?» «Hai capito benissimo cosa voglio dire.» «Fisarmonica?» «La so suonare. Sintetizzatore, batteria, chitarra.» Slava fissò Arkady con aria sospettosa. «Che cosa vuoi?» «Ricorda lo scatolone di effetti personali che ha portato via dalla cabina di Zina? Ha avuto modo di guardare il blocco a spirale?» «No, non ne ho avuto il tempo perché ho dovuto interrogare cento persone quello stesso giorno.» «Lo scatolone è ancora nell'infermeria. Ho appena controllato quel blocco in cerca di impronte digitali, con più cura di quanto avevo fatto il primo giorno. Ci sono quelle di Zina e le sue. Le ho confrontate con le impronte sulla lettera d'addio che ha trovato.» «Be', ho guardato quel blocco, e con questo? Peccato, avresti dovuto chiedermelo di fronte a qualcuno. Comunque, perché continui a girare per la nave senza neppure degnarti di comparire al settore fattoria?» «Non abbiamo molti pesci da pulire. Non sentiranno la mia mancanza.» «Perché il comandante non ti fa smettere?» Arkady ci aveva pensato. «È un po' come l'Ispettore generale. Ricorda la storia del sempliciotto che capita in città e viene scambiato per un funzionario dello zar? E poi, un omicidio cambia tutto. Nessuno sa bene che cosa fare, soprattutto adesso che non c'è più Volovoi. Finché non discuto gli ordini, per un po' posso ignorarli. Finché gli altri non sanno che cosa so... ecco cosa li spaventa.» «Quindi si tratta soltanto di scoprire il tuo bluff?» «Più o meno.»
Slava si sollevò a sedere. «Potrei salire in plancia e dire al comandante che un certo marinaio di seconda classe trascura il lavoro per tempestare l'equipaggio di domande che ha ricevuto l'ordine di non fare?» «Potrà salire meglio se si mette le scarpe.» «D'accordo.» Slava infilò la bocchetta nel taschino e saltò agilmente dalla cuccetta. Arkady tese la mano sulla scrivania per prendere un portacenere mentre il terzo ufficiale infilava gli stivali. «Hai intenzione di aspettare qui?» chiese Slava. «Proprio qui.» Slava mise la casacca. «C'è altro che dovrei dirgli?» «Gli dica di lei e di Zina.» La porta sbatté. Slava se n'era andato. Arkady pescò una sigaretta dalla tasca dei calzoni e trovò una scatoletta di fiammiferi nel portamatite sulla scrivania. Studiò il disegno sulla scatoletta: c'era la parola "Prodintorg" scritta su un nastro. La Prodintorg si occupava del commercio estero per quanto riguardava gli animali e i prodotti animali: pesce, granchi, caviale, cavalli da corsa e animali per gli zoo... un approccio alle meraviglie della natura secondo la mentalità di un grossista. Aveva appena acceso la sigaretta quando Slava tornò e si appoggiò alla porta con la schiena. «Cos'hai detto a proposito di Zina?» «Lei e Zina.» «Stai tirando di nuovo a indovinare.» «No.» Una vita trascorsa inchinandosi all'autorità finiva per condizionare la gente. Slava sedette sulla cuccetta inferiore e si strinse la testa fra le mani. «Oh, Dio. Quando lo verrà a sapere mio padre.» «Può darsi che non lo venga a sapere. Ma deve dirlo a me.» Slava alzò la testa, sbatté le palpebre, e respirò profondamente, come se fosse in iperventilazione. «Mi ammazzerà.» Arkady lo incalzò. «Credo che avesse già cercato di dirmelo un paio di volte, ma io non ero stato attento. Per esempio, non avevo capito come mai Zina fosse stata assegnata a questa nave. È molto raro che qualcuno abbia tanta influenza sul Comando centrale della flotta.» «Oh, lui aveva cercato di accontentarmi, a modo suo.» «Parla di suo padre?» Arkady sollevò la scatola di fiammiferi. «È viceministro.» Slava tacque un momento. «Zina insisteva: voleva imbarcarsi su questa nave per starmi vicino. Che scherzo! Non appena ab-
biamo lasciato il porto è finito tutto, come se non ci fossimo mai conosciuti.» «È stato suo padre a fare la telefonata per farla imbarcare sulla Stella Polare e poi, quando glielo ha chiesto, ha ordinato di imbarcare anche Zina?» «Lui non dà mai ordini. Chiama il comandante del porto e chiede se c'è una buona ragione perché qualcuno non possa venire piazzato in qualche posto o perché non si possa fare qualcosa. Dice semplicemente che il ministero è interessato alla faccenda, e tutti capiscono. Tutto: la scuola giusta, l'insegnante giusto, una macchina del ministero per accompagnarmi a casa. Vedi, il primo segno della ristrutturazione è stato quando non ha potuto farmi entrare nella flotta del Baltico, ma solo in quella del Pacifico. Ecco perché Marchuk mi detesta.» Slava fissò nel buio come se vedesse un fantasma a una scrivania con una batteria di telefoni. «Tu non hai avuto un padre così.» «L'avevo, ma l'ho deluso molto presto e nel modo più completo» gli assicurò Arkady. «Tutti commettiamo sbagli. Non poteva sapere che avevo già guardato sotto il letto, dove ha trovato la lettera d'addio. O più esattamente dove ha messo la lettera proveniente dal blocco a spirale che aveva portato via dalla cabina. Io non l'avevo capito subito. C'era qualcos'altro, nel blocco, che io non ho visto?» Slava fu sopraffatto da una risata nervosa. «Altre lettere d'addio... due o tre su un foglio. Ho buttato via il resto. Quante volte poteva suicidarsi?» «Quindi eccola là a dirigere il complesso di bordo, e a guardare una donna che aveva aiutato a imbarcarsi, mentre ballava con i pescatori americani e non la degnava di un'occhiata.» «Non lo sapeva nessuno.» «Lei lo sapeva.» «Non lo sopportavo. Durante l'intervallo sono andato a fumare in cambusa per non vederla. Zina è entrata e uscita e non mi ha neppure guardato. Non poteva più servirsi di me, quindi era come se non esistessi.» «Questo non era scritto nel suo rapporto.» «Nessuno ci ha visti. Una volta ho cercato di parlarle, un giorno nel quadrato ufficiali, e lei mi ha risposto che l'avrebbe detto al comandante, se l'avessi infastidita ancora. Allora ho capito cosa c'era fra quei due, il comandante e Zina. E se lui avesse saputo di me? Non ero così stupido da raccontare che forse ero stato l'ultimo a vederla viva.» «È andata così?» Slava svitò la banda della bocchetta ed esaminò l'interno. «Incrinata. È
già abbastanza difficile trovare un sassofono in vendita, e quando se ne ha uno è impossibile trovare un'ancia di ricambio. Ti tengono in pugno in un modo o nell'altro.» Rimise a posto l'ancia, delicatamente, come se incastonasse un rubino in un anello. «Non lo so. Ha tirato fuori un sacchetto di plastica da una pentola. Il sacchetto era fermato con nastro adesivo. L'ha infilato sotto la giacca ed è uscita sul ponte. Ho tentato molte volte di capire. Ho pensato che quelli sul ponte l'avessero vista dopo di me, però non hanno mai parlato della giacca e del sacchetto. Non sono un investigatore molto abile.» «Com'era grande il sacchetto? Di che colore era?» «Uno di quelli grandi. Nero.» «Vede? Questo lo ricorda. Come sta andando il suo rapporto su Volovoi?» «Ci stavo appunto lavorando quando sei entrato.» «Al buio?» «Che importanza ha? Cosa posso dire di credibile? Hanno l'abitudine di controllare i polmoni, no, per vedere se è morto davvero per un incendio?» Slava rise rabbiosamente. «Marchuk dice che se farò un buon lavoro caldeggerà la mia ammissione a una scuola del partito... ed è un modo come un altro per dirmi che non diventerò mai comandante.» «Forse non dovrebbe. E il ministero?» «Lavorare agli ordini di mio padre?» La domanda era una risposta anche troppo eloquente. «E la musica?» Dopo un lungo silenzio, Slava disse: «Prima di trasferirci a Mosca vivevamo a Leningrado. Conosci Leningrado?». Fino a quel momento, Arkady non s'era reso conto che Slava fosse tanto solo. Quel giovane molle, seduto nell'ombra, era fatto per un ufficio moquettato con vista sulla Neva, non per il ponte di comando di una nave del Pacifico settentrionale. «Sì.» «I campi di pallacanestro vicino alla Prospettiva Nevsky? No? Be', quando avevo cinque anni andavo sempre là, e c'erano certi negri americani che giocavano. Non avevo mai visto niente del genere: come se venissero da un altro pianeta. Tutto quel che facevano era diverso... i tiri così disinvolti, e poi come ridevano... così forte che mi tappavo le orecchie con le mani. Non erano neppure una squadra di cestisti. Erano musicisti che dovevano suonare alla Casa della Cultura, ma poi il concerto era stato annul-
lato perché suonavano jazz. E allora giocavano a pallacanestro, ma potevo immaginare come dovevano suonare... come angeli negri.» «Che genere di musica suonava?» «Rock. Avevamo un complesso, alle medie superiori. Scrivevamo da soli le canzoni, ma c'era la censura della Casa della Creatività.» «Dovevate essere molto popolari» disse Arkady. «Era musica antiregime. Sono sempre stato un liberale. Gli idioti a bordo di questa nave non lo capiscono.» «È così che conobbe Zina? A un ballo? Oppure al ristorante?» «No. Conosci Vladivostok?» «Più o meno come conosco Leningrado.» «Io odio Vladivostok. Vicino allo stadio c'è una spiaggia dove vanno tutti, l'estate. Conosci la scena: un molo coperto di teli di spugna, materassini gonfiabili, scacchiere, grumi di lozione abbronzante e tanta anatomia che preferiresti non vedere.» «E non le piace?» «No, grazie. Mi facevo prestare una barca a vela, un sei metri, e navigavo nella baia. Bisogna restare vicino alla spiaggia, perché c'è il canale riservato alla marina militare. Naturalmente, la maggior parte della gente non va oltre il punto dove l'acqua gli arriva alla cintura, o la linea delle boe, e certamente non oltre le barche a remi dei bagnini. Basta il fracasso per far impazzire, gli strilli e gli spruzzi, e i bagnini che fischiano. Ma su una barca a vela sfuggivo a tutti quanti. Eppure c'era una nuotatrice che si spingeva al largo, tanto che non ho potuto fare a meno di notarla. Doveva aver nuotato sott'acqua per un tratto, per superare i bagnini. Io mi ero distratto al punto che ho lasciato sgonfiare la vela. C'era una cima che pendeva in acqua, e lei l'ha afferrata e si è issata a bordo, come se ci fossimo messi d'accordo prima. Poi si è sdraiata sul ponte per riposare e si è tolta la cuffia. Allora aveva i capelli scuri, quasi neri. Sai che l'acqua forma tante piccole gocce, al sole, e sembrava che fosse coperta di diamantini. Rideva come se per lei fosse la cosa più naturale del mondo schizzare fuori dall'acqua per salire sulla barca di qualcuno che non aveva mai visto. Abbiamo navigato tutto il pomeriggio. Poi mi ha detto che voleva che la portassi in discoteca: ma dovevamo darci appuntamento là. Non voleva che passassi a prenderla. Poi si è tuffata in acqua ed è sparita. «Dopo la discoteca, abbiamo fatto una passeggiata in collina. Non mi ha mai permesso di andare a prenderla o di lasciarla al suo appartamento. Pensavo che fosse così modesto da farla sentire in imbarazzo. Capivo dal-
l'accento che era georgiana, ma non gliene facevo una colpa. Potevo parlarle di qualunque cosa, e sembrava che capisse sempre. Adesso, ripensandoci, mi rendo conto che non parlava mai di sé, se non per dire che aveva la licenza di marittimo e che voleva imbarcarsi con me sulla Stella Polare. Mi tirava scemo... e infatti lo ero. Tirava scemi tutti.» «Secondo te chi l'ha uccisa?» «Può essere stato chiunque. Ma avevo paura che un'indagine per un omicidio avrebbe finito prima o poi per puntare su di me: e perciò sono un vigliacco, non soltanto uno scemo. Mi sbaglio?» «No.» Arkady non poteva smentirlo. «L'acqua della baia era fredda?» «Dov'era Zina? Gelata.» Slava, seduto sulla cuccetta superiore, sembrava sospeso nel buio. Arkady disse: «Prima mi ha detto che questo è il suo secondo viaggio». «Sì.» «Li ha fatti tutti e due con il comandante Marchuk?» «Sì.» «A bordo della Stella Polare c'è qualcun altro con cui ha già navigato?» «No.» Slava rifletté. «Nessun ufficiale, voglio dire. Altrimenti, soltanto Pavel e Karp. Sono in un guaio?» «Temo di sì.» «Non ero mai stato in un guaio prima d'ora. Non ho mai avuto abbastanza coraggio. È tutto nuovo, una nuova gamma di possibilità. E adesso cosa intendi fare?» «Andare a letto.» «È presto.» «Be', quando si è in un guaio, persino andare a letto può essere esaltante.» Sul ponte, Arkady sentiva la nave che si allontanava dal vento, e questo significava che Marchuk aveva portato la Merry Jane fino al margine dello strato di ghiaccio e poi aveva virato a nord, per addentrarvisi di nuovo. La pioggia faceva risplendere il ghiaccio intorno alla Stella Polare come il blu di un campo elettrico. Rimase nascosto nell'ombra fino a quando i suoi occhi si abituarono. Slava non sapeva niente del Corno d'Oro e dell'appartamento dove Zina aveva portato Nikolai e Marchuk; quindi fin dall'inizio l'aveva trattato in modo diverso. Niente ristorante per marinai, niente appartamento con un arsenale vietatissimo che avrebbe potuto spaventare il sensibile terzo ufficiale. Forse lei non aveva mai visto Slava fino al giorno in cui era salita
sulla barca a vela; ma l'aveva visto il capopesca. Da un momento all'altro Karp poteva lanciarsi da una cima o schizzare fuori da una botola. «Rilassati» aveva detto. Perché non l'aveva ancora ucciso? Arkady se lo domandava. Non era certo una questione d'intelligenza o di fortuna. Gli ufficiali occupavano la timoneria della Stella Polare, il loro regno dell'ignoranza; ma il resto dei corridoi semibui e dei ponti sdrucciolevoli della nave-fattoria erano il regno del capopesca. Arkady poteva sparire quando voleva Karp. Dopo Dutch Harbor, ogni giorno era stato un giorno di grazia. Era vivo, lo sapeva benissimo, solo perché un terzo morto sarebbe stato inaccettabile per Vladivostok. La Stella Polare avrebbe ricevuto l'ordine di rientrare immediatamente in porto. E quando una nave tornava sotto l'ombra del sospetto, veniva circondata dalla Guardia Confinaria e l'equipaggio doveva restare a bordo, mentre procedevano le minuziose perquisizioni. Tuttavia Karp doveva liberarsi di lui. Per il momento, il problema del capopesca rappresentava la ragione per cui Arkady era ancora vivo. Karp stava ancora riflettendo, e prendeva tempo: cosa avrebbe potuto dire Arkady a Marchuk che non costituisse un indizio contro lui stesso più che contro chiunque altro? Karp aveva un alibi e testimoni per il momento in cui era morto il primo ufficiale. Comunque, nonostante quel "Rilassati" Arkady attraversò il ponte da una gora di luce all'altra come se collegasse tra loro una serie di punti. I membri dell'equipaggio erano già a letto, e nella cabina di Arkady l'unico sveglio era Obidin. «Alcuni dicono che una nave sta per venire a prenderti, Arkady. Altri dicono che sei della Ceka.» Ceka era il vecchio nome tradizionale del KGB. «Alcuni dicono che non lo sai neppure tu.» L'odore del liquore fatto in casa saliva dalla barba di Obidin come il profumo del polline da un cardo. Arkady si tolse gli stivali e si arrampicò nella cuccetta. «E tu che cosa pensi?» «Sono stupidi, naturalmente. Come se il comportamento umano potesse venire definito in termini politici.» «La politica non ti piace, eh?» Arkady sbadigliò. «La tortuosità subdola di un politicante è insondabile. Presto il Cremlino farà causa comune con l'altro diavolo.» «Quale diavolo?» Gli americani, i cinesi, gli ebrei? «Il papa.» «Fate silenzio» disse la voce di Gury. «Vogliamo dormire.» Grazie a Dio, pensò Arkady.
«Arkady» disse Kolya dopo un momento. «Sei sveglio?» «Cosa c'è?» «Hai notato come sta diventando carina Natasha?» 26 Nel sogno, Arkady vedeva Zina Patiashvili allontanarsi a nuoto dalla spiaggia di Vladivostok, che era esattamente come l'aveva descritta Slava, a parte il fatto che i bagnanti erano tutte foche e si crogiolavano al sole e giravano verso il cielo gli occhi orientaleggianti dalle lunghe ciglia. Zina indossava il costume che aveva sfoggiato sul ponte in quella giornata di sole. Aveva gli stessi occhiali scuri, e i capelli erano biondi, non avevano neppure le radici scure che la tradivano. Era una giornata luminosa. Le boe erano sgranate come caramelle intorno a un settore riservato ai bambini. Dai vicini cantieri il mare aveva portato alcuni tronchi, e i ragazzi vi salivano come se fossero canoe da guerra. Zina si allontanava nella baia, superava persino le barche a vela che pattinavano sulla superficie, e si girava sul dorso, per guardare gli alberi verdi della città, i palazzi degli uffici e gli archi romani dello stadio. Lo stadio della Dynamo. Ogni città aveva i suoi Dynamo, Spartak, Torpedo. Perché non c'erano squadre con nomi come Torpore o Inerzia? Zina si tuffava dove l'acqua era più fredda e tranquilla e la luce vi penetrava d'angolo, come attraverso le persiane d'una stanza, fino a un livello nel contempo trasparente e nero, e a grandi bracciate si portava verso il fondale silenzioso. Un pesce le sfrecciava davanti alla faccia, branchi di pesci le passavano accanto, aringhe scintillanti come una pioggia di monete, torrenti blu di scorpenidi, l'ombra mobile di una razza che guizzava da due fasci di luce sempre più fragorosi come un treno in avvicinamento. Le mascelle d'acciaio delle reti a strascico aravano il fondale sui due lati, e sollevavano pennacchi di fango turbinoso. Le luci fissate al cavo lampeggiavano abbaglianti, ma Zina poteva vedere il fondo che esplodeva nell'avanzare del cavo a terra, e i geyser di sedimenti e le ondate di pesci si sollevavano nel tentativo di sfuggire alla rete che ruggiva e li ingoiava. Una muraglia d'acqua la spingeva dapprima lontana e poi la risucchiava nel gorgo, nella vibrazione di basso profondo delle maglie tese, nelle nubi di sedimenti e di squame luccicanti. Arkady si svegliò e si mise a sedere nel buio, fradicio di sudore come se fosse appena risalito dal mare. Aveva detto a Natasha che si trattava sem-
plicemente di vedere ciò che si aveva davanti agli occhi: non c'era bisogno di essere un genio. Come si pratica il contrabbando in mare aperto? Che cosa c'era che andava e veniva venti volte al giorno? E il capopesca, dove avrebbe nascosto quello che riceveva? E poi affiorò un'altra risposta ovvia: in che punto della Stella Polare era stato aggredito? Questa volta Arkady portò una torcia elettrica. I ratti fuggivano lontano dai fasci luminosi, scivolavano tra le assi, e punti rossi luminescenti lo fissavano mentre scendeva la scaletta della stiva di prua. I tubi refrigeranti brulicavano di ratti che andavano e venivano con destrezza. Se non altro, con una lampada il tragitto era più breve. Posò i piedi sul fondo della stiva e ricordò che l'ultima volta aveva raccattato un'asse e aveva cominciato a battere contro le pareti nel tentativo di stanare un tenente del servizio segreto della marina, mentre in realtà stava probabilmente con i piedi sul coperchio dello scrigno del tesoro. Il raggio della torcia elettrica inquadrò l'asse, gli stessi barattoli di colore e la coperta, lo stesso scheletro del gatto. Ma l'altra volta il gatto era al centro del pavimento. Questa volta era raggomitolato in un angolo. A terra c'erano segni che sembravano spellature. Li toccò. Non erano spellature, ma acqua. Il portello si aprì e Pavel, il marinaio della squadra di Karp, si affacciò. Portava un casco e una giacca fradicia e cercava di sbirciare oltre il chiarore della torcia elettrica. «Ancora qui?» chiese. Poi vide chi era, sbatté il portello e lo chiuse dall'esterno. Arkady salì la scala fino al livello superiore. Il portello era chiuso. Continuò fino al livello più alto, quello da cui era entrato nella stiva, mentre il cuore gli batteva come se fosse prigioniero e faceva volare le mani sulle grappe. Apri il portello con un calcio, corse alla scala e scese. Quando arrivò al livello inferiore davanti alla stiva, Pavel non c'era più; ma le orme bagnate sul metallo indicavano come tante frecce la direzione dov'era andato. C'erano molte altre orme di altri stivali sullo stesso percorso. Arkady si mise a correre per cercare di raggiungerlo. Le orme conducevano a poppa, passavano davanti alla stiva del pescato numero due, quindi salivano la scala per emergere accanto alla gru di prua sul ponte di pesca. Non c'era traccia di Pavel né di altri. La pioggia spazzava le assi e cancellava le orme. Arkady mise in tasca la torcia elettrica e tirò fuori il coltello. La lampada principale dell'argano era spenta; quelle della gru erano incrostate di ghiaccio. Dall'altra parte del ponte, l'imboccatura della rampa di
poppa era nera. A quel punto non aveva più bisogno delle frecce. Era sorprendente che mettesse piede sulla rampa solo ora, per la prima volta. Le luci della gru toccavano la superficie scabra delle pareti e gli strati sovrapposti di ghiaccio in cima allo scivolo. A ogni passo, comunque, la luce impallidiva e l'angolo diventava più ripido. Molto più avanti la prua della Stella Polare urtò il ghiaccio più spesso e tremò. Là a poppa, nella cassa di risonanza della rampa, il fremito si trasformò in un lamento. Un'onda salì la rampa e si placò con un sospiro, nello stesso modo in cui l'audiomeccanica di una conchiglia amplificava ed esagerava il suono e l'orecchio interno valutava il battito del cuore. Se Arkady fosse scivolato in quel punto, tra lui e l'acqua c'era soltanto la saracinesca di sicurezza. Si aggrappò come meglio poté al fianco della rampa quando sentì la superficie che cominciava a venir meno sotto i suoi piedi. Sopra di lui, accanto al pozzo, c'era una seconda, fievole intrusione della luce. Vide che la catena della saracinesca di sicurezza era tesa sul gancio fissato alla parete della rampa: la saracinesca era stata alzata. Incominciò a scivolare, troppo tardi per afferrare il gancio. Appena un poco, all'inizio, quel primo millimetro che rivela una situazione, e poi con uno slancio che cresceva via via che l'angolo della rampa diventava più netto. A braccia larghe, con la faccia in avanti, le dite affondate nel ghiaccio, vide il contorno bianco di un'onda salire verso di lui mentre il coltello rotolava lontano tintinnando. La rampa si apriva sul nero del varco aperto e del cielo, sul rombo delle eliche e, ai lati, su ali di ghiaccio. Mentre l'acqua saliva a precipizio, la sua mano trovò una corda sul fianco della rampa. L'attorcigliò intorno al polso, disperatamente. Quando si fermò, scorse più in basso un uomo piazzato ad angolo come un alpinista nelle onde che investivano il fondo della rampa. La cima di sicurezza era annodata intorno alla sua cintura. Karp indossava un maglione scuro e un berretto di lana calcato sulla fronte bassa, e teneva fra le mani qualcosa che sembrava un cuscino. «Troppo tardi» disse ad Arkady. Lanciò il cuscino nell'acqua. Dal modo in cui urtò la superficie e sprofondò, il pacco doveva essere zavorrato. «Un patrimonio» disse Karp. «Tutto quello che avevamo. Ma hai ragione tu. Smonteranno la nave a pezzettini quando torneremo a Vladivostok.» Karp si inclinò all'indietro e con le mani libere accese una sigaretta. Era tranquillo, rilassato. La scia aveva una luminescenza che dissipava l'oscurità. Arkady si rimise in piedi.
«Mi sembri spaventato, Renko.» «Lo sono.» «Prendi.» Karp si spostò, porse la sigaretta ad Arkady e se ne accese un'altra. Gli brillavano gli occhi mentre scrutava la rampa, più in alto. «Sei venuto solo?» «Sì.» «Lo scopriremo.» L'attenzione di Arkady era rivolta alla pioggia e a una luce che oscillava in lontananza come una lampada nella brezza. Era l'Eagle, duecento metri più indietro. «E quello che hai buttato in acqua... se la rete lo raccogliesse?» «L'Eagle non sta pescando in questo momento. Sono occupati a togliere il ghiaccio con i getti d'acqua bollente. Brutta faccenda, con una barca di quel tipo. Come sapevi che mi avresti trovato qui?» Arkady decise di non parlare di Pavel. «Volevo vedere dov'era entrata in acqua Zina.» «Qui?» «Ha lasciato la giacca e un sacchetto qui o sul pianerottolo, quando è andata al ballo. Che aspetto aveva, nella rete?» chiese Arkady. Karp tirò una lunga boccata dalla sigaretta. «Hai mai visto un annegato?» chiese. «Sì.» «Allora lo sai.» Karp si voltò a guardare la luce dell'Eagle che svaniva in uno scroscio di pioggia. Sembrava che non avesse fretta, come se aspettasse un amico. «Il mare è pericoloso, ma dovrei ringraziarti per avermi tirato fuori da Mosca. A fare il ruffiano e il rapinatore guadagnavo... quanto? Venti o trenta rubli al giorno? Per il resto del mondo, i rubli non sono neppure valuta accettabile.» «Tu non sei nel resto del mondo. Nell'Unione Sovietica un pescatore guadagna parecchi rubli.» «E a cosa serve? La carne è razionata, lo zucchero è razionato. La ristrutturazione è una buffonata. L'unica differenza è che adesso è razionata anche la vodka. Chi è un criminale? Chi è un contrabbandiere? Le nostre delegazioni vanno a Washington e tornano con vestiti, impianti igienici, lampadari. Il segretario generale faceva collezione di automobili sportive, la figlia faceva collezione di diamanti. Nelle repubbliche succede lo stesso. Quel dirigente del partito ha palazzi di marmo; quell'altro ha valigie così piene d'oro che non si riesce a sollevare dal pavimento. Un altro ha una
flotta di camion che trasportano esclusivamente papaveri, e che sono protetti da pattuglie motorizzate. Renko, tu sei l'unico che non capisco. Sei come un dottore in un bordello.» «Be', sono un romantico. Comunque, tu aspiravi a qualcos'altro. Ma perché proprio la droga?» Le spalle di Karp erano tempestate di gocce di pioggia ghiacciate: il loro profilo ricordava ad Arkady la nebbiolina che, in una camera di Wilson, rivela la traccia rugiadosa degli ioni. «È l'unico sistema che permette a un lavoratore di guadagnare parecchio, se non gli manca il fegato» rispose Karp. «Ecco perché i governi odiano la droga... perché non possono controllarla. Controllano la vodka e il tabacco, ma non la droga. Guarda l'America. Si arricchiscono persino i negri.» «E pensi che succederà lo stesso anche in Unione Sovietica?» «Succede già adesso. Puoi comprare le munizioni in una base dell'Armata rossa nel Turkmenistan, portarle oltre il confine e venderle agli afghani che combattono contro di noi. I dushmany hanno i magazzini stracolmi di cocaina. È meglio dell'oro: è la nuova valuta. Ecco perché tutti hanno paura dei reduci... non solo perché sono drogati ma anche perché sanno cosa succede veramente.» «Ma tu non fai parte di una grande organizzazione afghana» disse Arkady. «Tu traffichi con il prodotto siberiano, l'anasha. Qual è il tasso di scambio mentre le reti vanno avanti e indietro?» Il sorriso di Karp lampeggiò d'oro nell'oscurità. «Un paio di pani da parte nostra per una cucchiaiata da parte loro. Sembra ingiusto, ma sai quanto rende un grammo di cocaina in un pozzo petrolifero della Siberia? Cinquecento rubli. Hai capito che ci servivamo delle reti: sei stato davvero furbo.» «Ma non capisco come riuscite a far passare l'anasha sotto il naso della Guardia Confinaria e a caricarla sulla Stella Polare.» Il capopesca diventò confidenziale, come se fosse un vero peccato che loro due non potessero sedersi vicini e spartirsi una bottiglia. Nel contempo, Arkady intuiva che Karp stava recitando una parte e si divertiva di una situazione che teneva interamente sotto controllo. «Questo l'apprezzerai» disse Karp. «Che materiale può chiedere un capopesca? Reti, aghi, catene, cime. Il cantiere fornisce sempre quanto c'è di peggio, puoi starne certo. Qual è il tipo di cordame che costa meno?» «La canapa.» La canapa della Manciuria veniva coltivata legalmente per produrre corde e sacchi; l'anasha era semplicemente la sua versione impol-
linata e potente. «Mettevate l'anasha nella corda. La canapa nella canapa.» Arkady si sentiva costretto ad ammirarlo. «E alla fine scambiamo robaccia per oro. Due chili valgono un milione di rubli.» «Ma adesso dovrai rinnovare l'ingaggio per altri sei mesi, per portare un secondo carico.» «È un inconveniente.» Karp guardò pensieroso la rampa. «Non come quello che sta per capitare a te, ma un inconveniente. Hai detto che sei venuto qui sotto la pioggia, a metà della notte, solo per vedere dov'era finita in mare Zina? Non ci credo.» «Credi ai sogni?» «No.» «Non ci credo neanch'io.» «Sai perché avevo ammazzato quel figlio d'un cane a Mosca?» chiese all'improvviso Karp. «Nel deposito della ferrovia, con la prostituta?» «Sì, quello per cui mi hai incastrato.» «Dunque non era stato un incidente. L'avevi fatto apposta?» «Sono passati quindici anni e non puoi incriminarmi per la seconda volta.» «Dunque, perché lo uccidesti?» «Sai chi era la puttana? Era mia madre.» «Lei non lo disse. Portava un altro cognome.» «Be', sicuro, quel figlio d'un cane lo sapeva, e disse che l'avrebbe raccontato a tutti. Non è stato un mio colpo di pazzia.» «Avresti dovuto dirlo allora.» «Mia madre avrebbe avuto una condanna più severa.» Arkady ricordava una donna volgare, molto dipinta, con i capelli d'un rosso sfacciato. A quel tempo la prostituzione non esisteva ufficialmente, ma era stata condannata per complicità nella rapina. «Com'è finita?» «È morta in un campo di lavoro. Facevano giacche imbottite per la Siberia, quindi forse tu e io ne abbiamo indossata una. Avevano una quota, come tutti. Ma è morta felice. C'erano molte donne con i bambini piccoli, una specie di asilo con il filo spinato, e lasciavano che lei facesse le pulizie. Mi scriveva che si trovava bene, con i bambini. Però è morta di polmonite; con ogni probabilità se l'era beccata per colpa di uno di quei mocciosi. È strano, quello che ti può uccidere.» Karp sfilò un coltello dalla
manica. Arkady si voltò nel sentire un rumore di passi. Contro lo sfondo del chiarore fioco del ponte di pesca, scorse qualcuno con il casco in testa che scendeva la rampa e si teneva aggrappato alla cima di sicurezza di Karp. «È Pavel» disse Karp. «Ce ne ha messo ad arrivare. Dunque sei venuto veramente solo.» Arkady cominciò a risalire, afferrandosi alla cima con una mano dopo l'altra. Karp fu più svelto. Anche se aveva la cima legata in vita, sembrava non averne bisogno per procedere agevolmente sul pendio ghiacciato. Più in alto, la figura sul ponte si fermò. Arkady avrebbe dovuto spostarsi per passare; e sapeva che appena avesse mollato la cima sarebbe scivolato lungo la rampa e sarebbe piombato in acqua. Sentiva che gli stivali slittavano. Come faceva Karp a salire con tanta sveltezza, come un diavolo che volasse su per una scala? «Valeva la pena di aspettare» disse Karp. Scosse la corda facendo scivolare di nuovo Arkady, e lo afferrò per la giacca. «Arkady?» chiamò Natasha. «Sei tu?» «Sì.» La figura in cima alla rampa non era Pavel. Adesso che erano più vicini, Arkady si accorse che quello che sembrava un casco era in realtà una sciarpa annodata sui capelli. «Chi c'è con te?» chiese Natasha. «Korobetz» disse Arkady. «Lo conosci.» Aveva l'impressione di sentire le riflessioni che si svolgevano nella mente del capopesca. Sarebbe stato possibile uccidere lui e anche Natasha prima che quest'ultima arrivasse al ponte di pesca e gridasse? «Siamo vecchi amici.» Karp continuò a tener stretto Arkady. «Ci conosciamo da molto tempo. Dacci una mano.» «Vai sul ponte» disse Arkady a Natasha. «Io ti seguo.» «Voi due?» chiese insospettita Natasha. «Amici?» «Va'» ordinò Arkady. E rimase dov'era, per impedire a Karp di passare. «Cosa succede, Arkady?» Natasha non si mosse. «Aspetta» le disse Karp. «Aspetta là» soggiunse Pavel mentre scendeva la rampa, più in alto di Natasha. Dalla mano libera penzolava una scure. Arkady sferrò un calcio alla gamba di Karp. Il capopesca atterrò sullo stomaco e scivolò giù per la rampa, per tutta la lunghezza della cima di sicurezza. Arkady si augurò che finisse in acqua, invece si fermò appena al
di sopra dell'inizio della scia. Si rimise subito in piedi e riprese a scalare la curva della rampa; ma nel frattempo Arkady aveva raggiunto il gancio che tratteneva la catena della saracinesca. Liberò la catena e, dapprima con la riluttanza della ruggine, poi con uno slancio crescente, la saracinesca si abbassò e con uno scatto metallico si chiuse in faccia a Karp, imprigionandolo nel tratto inferiore dello scivolo. Arkady passò davanti a Natasha. Sentì che Karp scuoteva la saracinesca come se sperasse di dilaniare con le mani la rete metallica. Poi il rumore cessò. «Renko» disse la voce del capopesca. Pavel esitò mentre Arkady si avvicinava. I suoi occhi erano cavità rotonde. Aveva paura di Karp, più che di Arkady. «Stai rovinando tutto. Lui l'aveva detto.» La risata di Karp riempì la rampa. «Dove hai intenzione di scappare?» «Togliti di torno.» Natasha pronunciò le parole magiche e Pavel indietreggiò. 27 «Siamo una coppia formidabile» disse Natasha. Era ancora euforica per il modo in cui s'era risolta la situazione sulla rampa. Gli occhi le brillavano e una lunga ciocca di capelli sfuggiva alla sciarpa. Arkady la condusse nella mensa, e scoprirono che era stata trasformata in una sala da ballo. Gli altoparlanti non avevano dato l'annuncio. Il terzo ufficiale Slava Bukovsky, incaricato della ricreazione, per tenere alto il morale aveva radunato spontaneamente il suo complesso e aveva fatto sapere che avrebbero fatto un po' di musica. Dato che non c'erano reti cariche da prendere a bordo ed era una nottataccia, tutti quanti si erano rintanati, annoiatissimi, nelle cabine. Adesso si rintanavano allegramente, tutti insieme, nella mensa. Questa volta non c'erano gli americani, neppure i rappresentanti, e per qualche ragione misteriosa non c'era neppure il rock. Il globo di specchi roteava, e i riflessi si disperdevano come fiocchi di neve sui ballerini che si muovevano con una lentezza sognante. Sul palco, Slava spremeva dal sassofono un blues dolce e mesto. Arkady e Natasha sedettero su una panca in fondo, insieme a Dynka e a madame Malzeva. «Vorrei che ci fosse il mio Ahmed.» La giovane uzbeca giunse le mani. «Ho sentito i musicisti della flotta del Mar Nero.» La Malzeva si drappeggiò una babushka sulle spalle, con dignità, ma si sbilanciò quanto ba-
stava per aggiungere: «In verità, non è tanto male». Natasha bisbigliò all'orecchio di Arkady: «Dovremmo andare dal comandante e raccontargli cos'è successo». «Che cosa potremmo dire? Tu hai visto soltanto me e Karp. Un capopesca ha tutte le ragioni per trovarsi sulla rampa, io no.» «C'era Pavel con la scure.» «È tutto il giorno che spaccano ghiaccio. Forse è un eroe del lavoro.» «Sei stato aggredito.» «Sono stato io a far cadere la saracinesca sul muso di Karp, non viceversa; e tu l'hai sentito soltanto dire che siamo amici. Quell'uomo è un santo.» La canzone successiva raccontava una vicenda sciropposa d'amor zingaresco. La ragazza al sintetizzatore traeva suoni simili a quelli di una chitarra mentre Slava produceva una melodia ricca e squillante. Era spudorata e irresistibile. La pista era una lenta marea di ballerini. «Tu e Karp siete come un topo e un serpente» osservò Natasha. «Non potete stare nella stessa tana.» «Non sarà ancora per molto tempo.» «Perché eri sulla rampa?» «Vuoi ballare?» chiese Arkady. In Natasha si compì una metamorfosi. La luce si irradiava non soltanto dagli occhi, ma anche dal viso. Come se fosse venuta al ballo avvolta in una pelliccia di zibellino, si tolse lentamente la giacca e la sciarpa, le consegnò a Dynka e poi si sfilò il pettine dai capelli, per farli ricadere in onde morbide. «Pronta?» chiese Arkady. «Certo.» Era diventata morbida anche la voce. Erano una coppia inverosimile, bisognava ammetterlo: l'iscritta modello del partito e un piantagrane del circuito sporco. Mentre Arkady la guidava fra i tavoli verso la pista, Natasha sosteneva le occhiate sbalordite degli altri con uno sguardo nel contempo imperioso e sereno. I ballerini sovietici non pretendono di avere a disposizione molto spazio: si urtano inevitabilmente, come sferette metalliche in una bottiglia. È un aspetto gioviale del ballo, soprattutto di un ballo che si svolgeva in mezzo alla banchisa mentre il vento dell'Artico copriva di ghiaccio gli oblò. Nonostante la statura e la robustezza, Natasha sembrava volare fra le braccia di Arkady, e gli sfiorava incerta la guancia con la guancia accaldata. «Scusami se ho gli stivali» disse. Arkady rispose: «No, sono io che devo scusarmi per i miei».
«Ti piacciono le canzoni romantiche?» «Non so resistere.» «Anch'io.» Natasha sospirò. «So che ti piace la poesia.» «Come lo sai?» «Ho trovato il tuo libro.» «Davvero?» «Quando stavi male. Era sotto il materasso. Non sei il solo che sa dove cercare.» «Davvero?» Arkady si scostò per un momento. Gli occhi di Natasha esprimevano una franchezza spaventosa. «Non era neppure un libro di poesie» le disse. «Soltanto saggi e lettere di Mandelstam.» Non aggiunse che era un regalo di Susan. «Be', i saggi sono troppo intellettuali» ammise Natasha. «Ma mi sono piaciute le lettere alla moglie.» «A Nadezhda?» «Sì, ma la chiamava in tanti altri modi. Nadik, Nadya, Nadka, Nadenka, Nadyusha, Nanusha, Nadyushok, Nanochka, Nadenydh, Niakushka. Dieci nomi speciali in tutto. Un vero poeta.» E gli appoggiò la guancia contro la guancia, con maggiore fermezza. Slava e il suo sassofono s'erano lanciati nella canzone ed estraevano ambra da una linfa sciropposa. I ballerini giravano lentamente sotto il globo rotante. Il soffitto basso e le luci lampeggianti avevano qualcosa, come il riflesso di una grotta, che metteva a suo agio l'anima russa. «Ho sempre ammirato il tuo lavoro nel settore fattoria» confidò Natasha. «E io ho sempre ammirato il tuo.» «Il modo in cui maneggi i pesci» disse lei. «Soprattutto quelli più difficili come il merluzzo.» «Ma tu tagli le spine così... così bene.» Non era molto esperto in quel genere di discorsi, pensò Arkady. Natasha si schiarì la gola. «Quel guaio che hai avuto a Mosca... sai, penso che forse il partito abbia commesso un errore.» Un errore? Per Natasha era come dichiarare che il nero poteva essere bianco, o come ammettere che forse era grigio. «Stranamente» disse Arkady, «questa volta non aveva sbagliato.» «Chiunque può essere riabilitato.» «In generale succede dopo che uno è morto. Non preoccuparti. Si vive anche fuori del partito. Forse più che nel partito.» Natasha diventò contemplativa. La concatenazione dei suoi pensieri so-
migliava molto alla linea Baikal-Amur, con le sezioni incompiute e i tunnel che si diramavano in direzioni misteriose. La poesia, i pesci, il partito. Arkady si chiese quale argomento avrebbe scovato adesso. «So che c'è un'altra» disse Natasha. «Un'altra donna.» «Sì.» Lei aveva sospirato? C'era da augurarsi di no. «Era inevitabile» disse finalmente Natasha. «Voglio sapere solo una cosa.» «Quale?» «Non è Susan?» «No, non è Suu-san.» «E non era Zina?» «No.» «Una che non è a bordo?» «Non è a bordo ed è lontana.» «Molto lontana?» «Moltissimo» assicurò Arkady. «Mi basta.» Natasha gli appoggiò la testa sulla spalla. Bene, pensò Arkady, aveva ragione Ridley. Era una cosa molto civile, forse era addirittura il massimo della civiltà, quei pescatori maschi e femmine che ballavano il valzer con gli stivali ai piedi sul Mare di Bering. Il dottor Vainu stringeva Olimpiada come se facesse rotolare un macigno. Dynka ballava con uno dei macchinisti, tenendolo distante con le braccia tese in un atteggiamento piuttosto islamico. Alcuni uomini ballavano con altri uomini, alcune donne con altre donne, tanto per tenersi in esercizio. Alcuni s'erano cambiati e indossavano maglie di bucato, ma in maggioranza erano venuti com'erano, nello spirito d'un raro avvenimento improvvisato. Anche Arkady si stava godendo il ballo perché ormai s'era fatto un'idea delle ultime ore vissute da Zina sulla terra. Era piacevolmente indicativo, essere finito lì a ballare con Natasha, come se da un momento all'altro Zina potesse passargli accanto ballando. «Eccolo.» Natasha s'irrigidì. Karp stava passando fra le panche in fondo alla mensa, perfettamente a suo agio, e scrutava le figure nella semioscurità. Arkady guidò Natasha verso il podio. «Kolya ci tiene a ballare con te» disse. «Davvero?» «Se lo vedi, dagli una possibilità. È un uomo intelligente, uno scienziato, un botanico che ha bisogno di scendere dalle nuvole.»
«Preferirei aiutare te» disse Natasha. «Allora, un minuto dopo che me ne sarò andato, spegni le luci per qualche secondo.» «Si tratta ancora di Zina, no?» La voce di Natasha assunse un tono avvilito. «Perché t'interessa tanto?» Arkady fu costretto a trovare una risposta. «Detesto il suicidio.» Slava aveva un'aria strana, come se fosse improvvisamente libero, come se il sassofono fosse una bacchetta da rabdomante che gli aveva permesso di individuare la sua anima. Mentre il terzo ufficiale emetteva melodie lamentose, Arkady e Natasha raggiunsero la porta della cambusa. «Zina non si è uccisa?» chiese Natasha. «No.» «Chi l'ha uccisa?» «Ecco, questa è la cosa più strana. Non credo che sia stato lui.» La cambusa era una gamma piuttosto angusta di lavelli d'acciaio, vassoi ammonticchiati e ammaccati come scudi di guerrieri, torri di ciotole bianche per la zuppa, cucine industriali sotto file di tegami appesi, grossi come vasche da bagno. Il regno di Olimpiada Bovina. I cavoli erano immersi nell'acqua che sobbolliva: o venivano preparati per la colazione o si stavano riducendo in colla. Un grande cucchiaio stava ritto in un recipiente di pastella indurita. Arkady sapeva che stava seguendo lo stesso percorso fatto da Zina durante l'altro ballo, sette sere prima. Secondo Slava, aveva preso un sacchetto di plastica da una pentola. Cosa c'era nel sacchetto? Perché proprio di plastica? Poi i testimoni l'avevano vista sul ponte. Arkady aprì la porta del corridoio quanto bastava per vedere Pavel che aspirava con aria ansiosa una sigaretta e spiava quelli che lasciavano la festa. Dopo un momento la musica finì tra grida di «Luce!» e «Non pestarmi i piedi, cretino!». Pavel si affacciò subito nella mensa, mentre Arkady lasciava la cambusa e si avviava furtivamente lungo il corridoio. E chi poteva esserci, se non Kolya Mer, appoggiato al parapetto a godersi i piaceri della pioggia che si trasformava in una neve bagnata e appiccicosa, portata dal vento in raffiche orizzontali sotto la nebbia bassa? Afferrò Arkady per il braccio quando gli passò accanto. «Volevo parlarti dei fiori.» «I fiori?» «Dove li ho presi.» Le dita spuntavano nude dai guanti tagliati di Kolya. «Gli iris?»
«Ho detto a Natasha che li ho trovati lungo la strada davanti all'emporio di Dutch Harbor. Ma per la verità crescono più in alto. Ho visto che hai controllato il mio taccuino, quindi sai che li ho trovati sulla collina. Ti ho visto seguire l'americano.» Kolya respirò profondamente per farsi coraggio. «Volovoi me l'aveva chiesto.» «Hai incontrato Volovoi sulla collina?» «Ti cercava. Ha persino minacciato di portarmi via le piante se non gli avessi detto dov'eri. Ma non gliel'ho detto.» «Ti credo. Era solo?» Rispondi di no, pensò Arkady. Rispondi che il primo ufficiale Volovoi era con Karp Korobetz, e andremo subito a parlare con Marchuk. «Con quella nebbia non ho visto» disse Kolya. Karp poteva uscire sul ponte da un momento all'altro, pensò Arkady, a meno che si stesse già spostando sotto coperta per impedirgli di raggiungere la parte anteriore della nave. Kolya stava guardando il cielo. «Come stanotte. Fra poco smetterà di nevicare e allora diventerà fittissima. Peccato non avere più il sestante.» «Non serve a molto senza le stelle» disse Arkady. «Rientra. Trova qualcuno e balla.» Adesso che aveva lasciato la festa, Arkady sentiva il cambiamento del beccheggio. Il riverbero delle eliche era più profondo, il che significava che la Stella Polare stava rallentando. Ma il torrente di fiocchi scintillanti creava l'illusione che la nave-fattoria volasse come una slitta. Sentiva sotto i piedi il tremore delle macchine e lo sgretolarsi del ghiaccio sotto la prua corazzata. In alto, la neve ondeggiava sui boma e sulle gru, rivestiva le antenne, gli anelli direzionali e le barre del radar, che brillavano nella luce delle lampade intensificata dal piano di nebbia sovrastante. Se ci si affidava alla testimonianza dei sensi, si aveva l'impressione che la Stella Polare volasse tra due mari, uno sotto e uno sopra. Un rumore frettoloso di passi risuonò dietro di lui. Più avanti, qualcun altro scese la scala buia di prua. Arkady passò oltre la rete da pesca che circondava il campo di pallavolo. La neve s'era posata sulle maglie e l'aveva trasformata in una tenda di tulle di ghiaccio che tremava nel vento. La lampada irradiava un chiarore indistinto. Attraverso quello schermo, Arkady vide le due figure che si accostavano e parlavano tra loro. Era pentito di non aver prelevato un coltello nella cucina. L'attrezzatura per la pallavolo era stata portata via. Non poteva difendersi brandendo un sostegno della
rete; non c'era neppure una palla. Prima una figura e poi l'altra avanzarono sul campo, seguendo Arkady. Immaginò che si sarebbero divisi, invece rimasero affiancati. Il fondo della rete era legato alle gallocce e bloccato dal ghiaccio: da lì non poteva passare. Forse poteva arrampicarsi come una scimmia? Molto improbabile. Il ponte era ghiacciato. Se ne avesse colpito uno, forse sarebbero caduti entrambi. «Renko? Sei tu?» L'altra figura accese un fiammifero. Nella fiamma guizzante, Arkady scorse due facce con le fronti da gnomo e sorrisi ansiosi con molti denti d'oro. Skiba e Slezko, i due lumaconi di Volovoi. «Cosa volete?» chiese Arkady. «Siamo dalla tua parte» disse Slezko. «Hanno intenzione di farti fuori stanotte» disse Skiba. «Non vogliono che arrivi vivo a domattina.» «Chi?» domandò Arkady. «Lo sai» rispose Slezko, nella tipica maniera sovietica. Perché dire di più? «Sappiamo ancora fare il nostro lavoro» disse Skiba. «Ma non abbiamo più nessuno cui riferire.» Il fiammifero si spense. La rete si gonfiò nel vento come una vela di ghiaccio. «Non ci sono più disciplina e vigilanza e linee di comunicazione» disse Slezko. «Per essere sinceri, non sappiamo come fare.» Skiba disse: «Devi aver fatto qualcosa che gli scotta perché ti stanno cercando in tutta la nave. Ti taglieranno la gola nella tua cabina, se ci saranno costretti. O sul ponte». «Perché siete venuti a dirmelo?» chiese Arkady. «Siamo venuti a riferirlo» disse Slezko. «Non facciamo altro che il nostro dovere.» «E siete venuti a riferire proprio a me?» Skiba disse: «Ci abbiamo pensato parecchio. Dobbiamo riferire a qualcuno, e tu sei l'unico con l'esperienza necessaria per prendere il suo posto». «Il posto di chi?» «Di Volovoi. E di chi se no?» disse Slezko. Skiba disse: «Pensiamo che probabilmente sei stato mandato dall'organo competente, a vedere dal modo in cui ti comporti ultimamente». «Quale organo competente?»
«Lo sai» disse Slezko. Lo so, pensò Arkady. Il KGB. Era pazzesco. Skiba e Slezko erano stati ben felici di riferire su di lui come nemico del popolo finché Volovoi era vivo. Ma dopo che Volovoi era morto erano come cani da guardia disorientati. Non aspiravano tanto alla devozione, quanto a un'altra mano che tenesse il guinzaglio. Be', un contadino seminava il grano, un calzolaio faceva le scarpe, gli informatori avevano bisogno di un nuovo Volovoi. Avevano semplicemente promosso Arkady da vittima a padrone. «Grazie» disse Arkady. «Terrò presente il vostro consiglio.» «Non capisco proprio perché non li arresti» disse Skiba. «Sono soltanto operai.» Slezko disse: «Non sarai al sicuro finché non ti deciderai a farlo». «Il mio consiglio» disse Arkady «è che stiate attenti alla vostra pelle.» Nel buio, Skiba mormorò mestamente: «In tempi come questi, nessuno è al sicuro». Sul ponte di comando, la neve che cadeva era illuminata dalle luci di poppa e della timoneria e l'occhio poteva seguire ogni singolo fiocco, uno o due tra i milioni e milioni che fluivano dalle tenebre e turbinavano intorno alla vetrata già innaffiata con il vapore bollente e ora coperta da un velo di ghiaccio. I tergicristalli scostavano ritmicamente la neve, ma il ghiaccio si stava accumulando di nuovo negli angoli. Tanto, pensò Arkady, cosa c'è da vedere, se non nebbia e ghiaccio lungo una direttrice che si estendeva oltre il Polo e fino all'Atlantico? All'interno, la lampada appesa al soffitto era fioca. Gli schermi del radar e dell'ecoscandaglio irradiavano aloni verdi. La bussola giroscopica galleggiava in un globo di luce. Marchuk era al timone, Hess accanto alla vetrata. Nessuno dei due sembrava sorpreso di vedere Arkady nel ponte di comando. «Il compagno Giona» disse il comandante a voce bassa. Il timoniere non c'era e la sala di navigazione era vuota. Il telegrafo di bordo era regolato tra "Lentissimo" e "Stop". «Perché stiamo rallentando?» chiese Arkady. Il comandante gli rivolse un sorriso triste. Mentre tirava fuori una sigaretta sembrava un uomo che contempla la vita dall'ultimo gradino della ghigliottina. Hess, investito dall'ombra in movimento di un tergicristallo, sembrava distanziato di un unico passo. «Avrei dovuto lasciarti dov'eri» disse Marchuk ad Arkady. «Eri sparito
nel circuito sporco, nel ventre della balena. Dovevamo essere impazziti quando ti abbiamo tirato fuori.» «Ci stiamo fermando?» chiese Arkady. «Abbiamo un piccolo problema» ammise Hess. «Ci sono altri problemi, oltre a lei.» La luce che proveniva dall'esterno era pallida e fredda, e l'ingegnere elettronico della flotta sembrava particolarmente sbiancato agli occhi di Arkady, come se tutte le lampade solari della terra fossero sprecate nel suo caso. «Il suo cavo?» suggerì Arkady. «Gliel'ho detto» rammentò Hess a Marchuk. «Oggi ha trovato la mia stazione.» «Bene, la sua stazione è una perla in un'ostrica, quindi un uomo con le capacità di Renko doveva trovarla, inevitabilmente. Una ragione di più perché avrei fatto meglio a lasciarlo dov'era.» Poi il comandante disse ad Arkady: «Gli ho detto che il fondale su cui passiamo era troppo basso e accidentato, ma ha calato lo stesso il cavo». «Un cavo da idrofono è progettato apposta per non impigliarsi» disse Hess. «I sottomarini lo usano di continuo.» «E adesso qualcosa s'è impigliato al cavo» disse Marchuk. «Forse un pezzo d'una nassa per granchi, forse una testa di tricheco, con le zanne che strusciano sul fondale. Non possiamo avvolgere il cavo e la tensione è troppo forte per permetterci di andare più veloci.» «Qualunque cosa lo blocchi, finirà per staccarsi» disse Hess. «Nel frattempo» intervenne Marchuk, «dobbiamo procedere molto adagio mentre avanziamo nel ghiaccio con un vento forza sette. I comandanti della marina militare devono essere maghi.» Quando aspirava il fumo, la brace della sigaretta si rispecchiava nei suoi occhi. «Scusatemi, avevo dimenticato: nella marina militare i cavi vengono calati dai sottomarini, non da navi-fattoria che avanzano nel ghiaccio.» La Stella Polare tremava e sussultava un po' nell'onda nascosta sotto la banchisa. Arkady non era un ingegnere, ma sapeva che per rompere il ghiaccio, per quanto una nave fosse grande, aveva bisogno di una certa velocità. Se andava troppo lentamente, a marce troppo basse, prima o poi i motori diesel si sarebbero bruciati. «Morgan è un comandante che sa il fatto suo?» chiese. «Lo vedremo» disse Marchuk. «Un battello come l'Eagle dovrebbe essere a cercare gamberetti in vista delle palme da cocco, e non dovrebbe avvi-
cinarsi ai ghiacci. Le onde sono forti e la prua e il ponte non sono abbastanza alti. Morgan non dovrebbe muoversi controvento, ma è costretto a venirci dietro per non restare bloccato. Era già carico di ghiaccio e troppo appesantito.» Arkady notò qualcosa. Il silenzio. Un ponte di comando aveva sempre una radio sintonizzata sulla frequenza dell'SOS. Marchuk seguì lo sguardo di Arkady verso la radio a banda unica; poi lasciò la ruota per alzare il volume. C'era un suono intenso di scariche, come una pioggia di spilli. «Morgan non ha ancora lanciato segnali d'emergenza» disse Hess. «Non ha chiamato affatto» disse Marchuk. «Può darsi che una delle sue antenne si sìa spezzata.» Arkady chiese: «Perché non lo chiamate?». Al largo di Sakhalin, i pescherecci si parlavano sempre durante il maltempo. «Non risponde» spiegò Marchuk. Hess disse: «Morgan può capire, dalla nostra velocità, che qualcosa va storto, e con ogni probabilità sa che il cavo è calato in mare. È quello che vuole, un pezzo del cavo. Siamo noi nei guai, non lui. Per lui le condizioni del tempo sono l'ideale». Sullo schermo radar la fascia d'acqua libera aperta dalla Stella Polare era uno stretto viottolo di punti verdi: il mare rimandava il segnale del radar. In mezzo a quel viottolo, circa mezzo chilometro più indietro, c'era il blip dell'Eagle. Il resto dello schermo era vuoto. Arkady premette il tasto per il raggio dei 50 chilometri. Non c'era comunque nulla, tranne l'Eagle. Da Seattle erano partiti altri pescherecci, ma il tempo pessimo li avrebbe fatti ritardare. «Anche Morgan ha il radar» disse Hess. L'elettronica era la sua specializzazione. Aveva ritrovato un po' del solito aplomb, e la torre di capelli irti sembrava rizzarsi. «E un ecoscandaglio direzionale. Se qualcosa s'è impigliato nel cavo, se ne accorgerà. Probabilmente è l'occasione che stava aspettando.» Marchuk disse: «Se ha perso il supporto dell'antenna radio, ha perso anche il radar». Il pilota automatico girò la ruota spostandola di un'intaccatura. «Comandante» disse Hess, «posso capire la sua solidarietà per un altro pescatore. Se Morgan lo fosse, ma non lo è. Il suo pesce siamo noi. Manterrà il silenzio e ci starà vicino per vedere se commettiamo un errore, per esempio aumentare la velocità. Qualunque cosa sia impigliata al cavo, potrebbe sollevarlo alla superficie proprio a fianco dell'Eagle.»
«E se il cavo si spezza?» chiese Arkady. «Non si spezzerà se manteniamo questa velocità» disse Hess. «E se si spezza?» chiese Marchuk. «Non si spezzerà» disse Hess. Qual era lo strumento musicale preferito da Hess? Il violoncello. L'ingegnere elettronico della flotta ricordava ad Arkady un violoncellista che tentava di suonare mentre le corde saltavano una a una. Hess ripeté: «Non si spezzerà. Ma se succedesse, il cavo ha una galleggiabilità negativa; se ci fermassimo, andrebbe a fondo. L'unico problema sarebbe tornare a Vladivostok e alla flotta del Pacifico dopo aver perso un cavo con gli idrofoni. Il nostro viaggio è già stato abbastanza disastroso, comandante. Non abbiamo bisogno di altre disgrazie». «Perché Morgan non risponde alle nostre chiamate?» chiese Marchuk. «Gliel'ho spiegato. A parte la radio, l'Eagle procede normalmente. Tutto il resto è frutto della sua immaginazione.» Hess aveva perso la pazienza. «Vado giù. Forse riuscirò ad avvolgere in parte il cavo.» Si soffermò davanti ad Arkady. «Spieghi al comandante che Zina Patiashvili non correva al parapetto di poppa ogni volta che l'Eagle si avvicinava all'unico scopo di lanciare baci. A quanto pare, di baci ne riceveva già abbastanza dal mio marconista. Se Zina fosse ancora qui, l'ammazzerei con le mie mani.» L'ingegnere elettronico della flotta se ne andò passando per il ponte di comando scoperto. Prima che la porta sbattesse, un turbine di fiocchi di neve entrò, volteggiò nel buio e spari. Sulla vetrata, i tergicristalli stendevano il ghiaccio in ventagli argentei. «È una vera ironia» disse Marchuk. «Dopo tutto il tempo passato in bacino di carenaggio per impiantare il cavo, è l'unica cosa che si è rotta.» Il comandante si appoggiò al banco. Posò la mano in un gesto affettuoso sul ripetitore della bussola, l'aprì e lo richiuse. «Continuo a pensare che le cose cambieranno, Renko, che la vita potrà diventare qualcosa di onesto e sincero, che ci sono dignità e qualità positive in tutti coloro che sono disposti a lavorare con impegno. Certo, gli umani non sono perfetti, io non sono perfetto. Ma almeno decenti. Sono un idiota? Dimmi, quando arriveremo a Vladivostok, riferirai di me e Zina?» «No. Ma porteranno le fotografie di tutti gli ufficiali e di tutti i membri dell'equipaggio al ristorante dove lavorava Zina, e i dipendenti la riconosceranno.» «Quindi sono spacciato in ogni caso.» No, sono io quello che è spacciato in ogni caso, pensò Arkady. Karp e la
sua squadra mi daranno la caccia finché mi troveranno. Marchuk era tutto preso dal dramma più importante del cavo impigliato. Come poteva spiegargli perché Karp voleva aggredirlo, quando le prove del contrabbando erano sparite? Nel migliore dei casi avrebbe fatto la figura del pazzo; più probabilmente, si sarebbe messo nei guai per la morte di Volovoi e dell'aleutino. «Sai come fu consegnata questa nave?» chiese Marchuk. «Sai in che condizioni viene consegnata una nave quando esce dal cantiere?» «Come nuova?» «Meglio che nuova. La Stella Polare fu costruita in un cantiere polacco, e fu consegnata completa di tutto, servizi da tavola, biancheria, tende, lampade, tanto che si sarebbe potuto prendere il mare immediatamente. Ma non prendono subito il mare, mai. Sale a bordo il KGB. Salgono a bordo quelli del ministero. Si portano via i servizi da tavola nuovi e li rimpiazzano con altri vecchi, si portano via la biancheria e le tende e sostituiscono le lampadine con altre così deboli da far diventare ciechi. Esattamente come se svuotassero una casa. Tolgono le tubature di buona qualità e le sostituiscono con altre di piombo. Rubano persino i materassi e le maniglie delle porte. Rimpiazzano la roba buona con quella schifosa. Poi consegnano la nave ai pescatori sovietici e dicono: "Compagni, prendete il mare!". Questa era una bella nave, una buona nave.» Marchuk chinò la testa, lasciò cadere il mozzicone della sigaretta e lo calpestò. «Dunque, Renko, adesso sai perché la Stella Polare si muove tanto lentamente. C'era qualcos'altro?» «No.» Il comandante fissò la vetrata luminosa e cieca. «Peccato per noi e l'Eagle» disse. «La joint venture è una cosa ottima. L'altra strada riporterebbe all'epoca delle caverne, no?» 28 Arkady percorse il corridoio della timoneria senza sapere dove andava. Non poteva tornare in cabina ad aspettare. Al ballo non sarebbe stato al sicuro. Era quel tipo di situazione caratteristico delle prigioni, l'ideale per un urka come Karp. Le luci si sarebbero spente, e quando si fossero riaccese lui sarebbe già finito in fondo alla rampa dentro a un sacco zavorrato. Oppure l'avrebbero trovato in qualche angolo deserto con un barattolo di vernice accanto, vittima dei vapori aspirati per vizio. E sarebbe stata una le-
zione morale per tutti. «Non abbiamo finito il nostro gioco» disse Susan. Arkady tornò indietro verso la porta aperta. Era passato oltre senza farci caso perché la cabina era al buio. «Non aver paura» disse Susan. Accese le lampade del soffitto e le tenne accese quanto bastava perché Arkady vedesse i fili staccati che pendevano dalla radio e dalla base della lampada della scrivania. Era seduta sulla cuccetta inferiore, con i capelli bagnati e spettinati come se avesse appena fatto la doccia. Era scalza e indossava i jeans e una camicia ampia di denim. Gli occhi castani sembravano neri. Teneva in mano un bicchiere pieno fino all'orlo. In cabina c'era odore di scotch. Susan spense la luce con l'interruttore accanto alla cuccetta. «Chiudi la porta» disse. «Mi pareva che non chiudessi mai la porta quando viene a trovarti un sovietico.» «C'è sempre una prima volta. Le navi sovietiche non improvvisano mai le feste da ballo, ma ho sentito dire che adesso ne state facendo una. Tutti i miei ci sono andati, quindi è una notte con molte prime assolute.» Arkady chiuse la porta e cercò a tentoni dove aveva visto una sedia vicino alla cuccetta. Susan accese la sua lampadina, una venti watt non molto più luminosa d'una candela allo stremo. «Per esempio, mi sono ripromessa di andare a letto con il primo uomo che fosse passato davanti alla mia cabina. Poi sei passato tu, Renko, e ho cambiato idea. L'Eagle è in difficoltà, no?» «So con certezza che smetterà di nevicare.» «Hanno perso il contatto radio un'ora fa.» «Li inquadriamo ancora sul radar. Non sono molto indietro.» «E allora?» «E allora la loro antenna radio è probabilmente coperta di ghiaccio. Sai cosa succede da queste parti.» Susan gli mise in mano un bicchiere e versò dalla bottiglia fino a che lo scotch ondeggiò all'orlo. «Ricorda» disse, «il primo che lo rovescia prende una botta in testa.» Arkady aggrottò la fronte. «Di nuovo il gioco norvegese?» «Sì. Non per niente li chiamano teste tonde.» «C'è una versione americana?» «Ti sparano» disse Susan. «Ah, una versione abbreviata. Io ho un'altra idea. Diciamo che il primo che rovescia lo scotch dice la verità.»
«È la versione sovietica?» «Vorrei poter rispondere di sì.» «No» disse Susan, «puoi sapere tutto, tranne la verità.» «In questo caso» disse Arkady, e bevve un sorso, «barerò al gioco.» Anche Susan bevve. Aveva bevuto molto più di lui, anche se non sembrava sbronza. La lampada della cuccetta dava più un barlume di chiarore che una vera illuminazione, ma il riflesso nei suoi occhi e l'espressione di collera non risultavano addolciti. «Non hai scritto lettere d'addio, vero?» chiese Susan. Arkady posò il bicchiere sul pavimento per tirar fuori una sigaretta. «Accendine una anche per me» disse lei. «È una vera arte, scrivere lettere d'addio» Arkady accese due Belomor con un fiammifero e gliene mise una nella mano. Le dita erano lisce, non ruvide e rovinate dalla fatica di pulire il pesce freddo. «Parli da esperto?» «Da studente. Le lettere d'addio costituiscono un ramo della letteratura troppo spesso ignorato. C'è la lettera d'addio pensosa, quella amara, quella carica di rimorsi, e raramente c'è una nota comica perché incombe sempre un senso di formalità. Di solito chi la scrive firma con il proprio nome, oppure conclude in qualche altro modo: "Ti amo", "È meglio così", "Consideratemi un buon comunista".» «Zina non l'ha fatto.» «E di solito la lettera viene lasciata dove verrà ritrovata contemporaneamente al cadavere, oppure quando si scopre che qualcuno è scomparso.» «Zina non ha fatto neppure questo.» «E invariabilmente, dato che è l'ultimo messaggio di chi scrive, viene usato un foglio intero. Non un pezzetto, non una mezza pagina strappata da un blocco... non certo per l'ultima lettera della vita. A proposito, come va quello che stai scrivendo?» Arkady lanciò un'occhiata alla macchina per scrivere e ai libri di Susan. «Sono bloccata. Credevo che la nave fosse il posto ideale per scrivere, ma...» Susan fissò la paratia come se scrutasse un ricordo evanescente. «Troppa gente, troppo poco spazio. No, non è giusto. Gli scrittori sovietici lavorano in appartamenti che dividono con altri, no? Io ho questa cabina tutta per me. Ma è come avere finalmente l'occasione di ascoltare la voce della tua conchiglia e scoprire che non c'è nessun suono.» «Penso che sulla Stella Polare sarebbe molto difficile sentire la voce
d'una conchiglia.» «È vero. Sai, Renko, sei strano, molto strano. Ricordi quella poesia, quella...» «"Dimmi come ti baciano gli uomini, dimmi come baci"?» «Proprio quella. Ricordi gli ultimi versi?» chiese Susan, e recitò: «"Oh, capisco, il suo gioco è che lui sa/ Intimamente, ardentemente,/ Non vuole nulla da me,/ Perciò non ho nulla da rifiutare." Sei tu. Tra tutti gli uomini a bordo di questa nave, sei l'unico che non voglia niente». «Questo non è vero» disse Arkady. Voleva restare vivo, pensò. Voleva sopravvivere a quella notte. «Che cosa vuoi?» chiese Susan. «Voglio sapere cos'è successo a Zina.» «Che cosa vuoi da me?» «Sei stata l'ultima persona che ha visto Zina prima della sua scomparsa. Mi piacerebbe sapere che cosa ti ha detto.» «Capisci quello che intendo?» Susan rise sommessamente, quasi fra sé. «E va bene. Quello che ha detto? Sinceramente?» «Prova.» Susan bevve un sorso, con maggiore moderazione. «Non lo so. Il gioco sta diventando pericoloso.» «Te lo dirò io, quello che credo ti abbia detto» rispose Arkady. «Credo che ti abbia detto che sapeva cosa rimorchiava la Stella Polare quando non ritirava le reti, e che avrebbe potuto darti informazioni sulla stazione che controlla il cavo.» Susan alzò le spalle. «Quale cavo? Di cosa diavolo stai parlando?» «Ecco perché Morgan è dov'è, e perché tu sei qui.» «Parli come Volovoi.» «Non è un gioco facile» disse Arkady. Lo scotch era buono: dava un sapore dolce persino a una papirosa. «Forse sei una spia» disse Susan. «No, non ho una visione globale. Mi trovo meglio su una scala più modesta e più umana. E direi che tu sei piuttosto una dilettante, non una professionista. Ma ti sei imbarcata sulla nave, e se Morgan ti dice di restarci, ci resti.» «Be', io invece ho una visione globale. Non penso che Zina sarebbe stata tanto ansiosa di abbandonare una nave americana.» «Zina...» Arkady s'interruppe e tese l'orecchio. Non era tanto un suono di passi nel
corridoio, quanto il suono di passi che si erano fermati davanti alla porta. Lungo il corridoio c'erano sei cabine, con le scale alle due estremità che portavano al ponte di comando e al ponte principale. Un altro passo scese di corsa la scala e si fermò. La porta della cabina accanto si aprì e si chiuse. Un'altra porta si aprì dall'altra parte del corridoio. Si sentì bussare alla porta di Susan. «Suusan?» disse Karp. Susan guardò Arkady spegnere la sigaretta. C'era panico nei suoi occhi? si chiese lui. Gli occhi di Susan avevano un'espressione affascinata. Karp bussò più forte. «È sola?» chiese attraverso la porta. «Vada via» disse lei senza distogliere gli occhi da Arkady. La maniglia della porta girò, resistette alla pressione. Almeno era una porta metallica, pensò Arkady. Nelle abitazioni sovietiche le porte e le intelaiature si potevano abbattere a calci con tanta facilità che le serrature avevano funzioni puramente decorative. Susan si alzò, prese dalla cuccetta superiore una cassetta e un mangianastri e incominciò a suonare in sordina un brano di James Taylor. «Suu-san?» chiamò di nuovo Karp. «Se ne vada» rispose lei. «O lo dirò al comandante.» «Apra» ordinò Karp. Urtò la porta con la spalla, probabilmente; e la serratura, quasi persuasa, per poco non saltò. «Aspetti» disse Susan, e spense la lampada della cuccetta. Mentre Arkady si spostava con la sedia dalla linea della visuale, Susan prese il bicchiere, attraversò la cabina e socchiuse la porta. L'antina a specchio sopra il lavabo era semiaperta, e Arkady si accorse che si era messo quasi di fronte all'immagine riflessa di Karp. Il capopesca, che era più alto di Susan di tutta la testa, scrutò all'interno della cabina. Nella luce fioca del corridoio il resto della sua squadra stava intruppato come un branco di lupi dietro al capo. La cabina era buia... abbastanza buia, si augurò Arkady, perché non lo vedessero. «Mi sembrava di aver sentito diverse voci» spiegò Karp. «Volevamo essere sicuri che non fosse successo niente di brutto.» Susan disse: «Succederà qualcosa di brutto se andrò dal comandante e gli dirò che i membri del suo equipaggio fanno irruzione nella mia cabina». «Chiedo scusa.» Karp sembrava guardare Arkady in faccia, mentre parlava. «Era per il suo bene. Abbiamo sbagliato. Ci scusi.» «Siete scusati.»
«Molto bello.» Karp non tolse il piede dalla porta e ascoltò la musica in sordina, un uomo che cantava accompagnato da una chitarra. Finalmente abbassò lo sguardo su Susan e il suo sorriso di apprezzamento si trasformò in un'espressione premurosa. «Suu-san, sono soltanto un marinaio, ma devo avvertirla.» «Di che?» «Bere da soli non va bene.» Quando Susan richiuse la porta, Arkady restò immobile. I passi si allontanarono, troppo all'unisono. Rimase in ascolto, sentì Susan che attraversava la cabina e alzava il volume del mangianastri anche se le parole erano stranamente molli e insignificanti. La sentì posare il bicchiere: dal tintinnio sembrava vuoto. Dopo sei mesi in quello spazio limitato, Susan sapeva muoversi li dentro anche al buio. Attraversò di nuovo la cabina, e Arkady sentì le dita toccarlo sulla tempia sudata. «Danno la caccia a te?» chiese lei. Arkady le posò la mano sulla bocca, leggermente. Era sicuro che fuori c'era ancora qualcuno. Susan gli prese il polso e si infilò la mano nella camicia. Aveva il seno piccolo. Arkady sfilò la mano per sbottonare gli altri bottoni. Quando Susan lo attirò a sé, la sentì abbandonarsi. Le baciò il viso e la sollevò. Come se fosse possibile tornare al momento in cui, a Dutch Harbor, se ne era andato all'improvviso. Susan sembrava non avere peso. Il resto del mondo divenne silenzioso, come se il nastro suonasse in un'altra cabina e l'ascoltatore nel corridoio fosse a bordo di un'altra nave, su un altro mare. Camicia e calzoni si afflosciarono sul pavimento senza far rumore. Le donne erano così? I capelli umidi sulla nuca? I denti che mordevano e le labbra che cedevano nello stesso istante? Quanto tempo era passato? La giacca e gli indumenti di Arkady caddero, abbandonati come una vecchia pelle. Forse era questo, essere vivo: il cuore che martellava nel petto, un secondo cuore che rispondeva dal di fuori e dava la sensazione d'essere doppiamente vivo. Il suo corpo era come un altro uomo che era stato sepolto e adesso, lasciato libero, aveva preso il potere. E lo trascinava. Susan gli si aggrappava, gli si attorceva attorno. Storditi, urtarono barcollando la paratia e poi Arkady fu dentro di lei. A che punto l'antagonismo si trasforma, gira e diventa desiderio? L'ardore è così ambivalente, oppure è soltanto mascherato? Perché i sospetti racchiudono già in sé le risposte? Come aveva previsto che Susan avrebbe
avuto quel sapore? «Ho capito d'essere in un guaio» bisbigliò lei, «quando ho saputo di Volovoi e di Mike e il mio pensiero è stato: Cos'è successo ad Arkady?» Si raggomitolò contro di lui come se morisse, perfino mentre lo teneva più stretto dentro di sé. Arkady la sorresse, assecondò il suo movimento. In piedi, erano come due che camminano nel buio su una corda tesa, così in alto che il buio è preferibile. «Susan...» «Un'altra prima assoluta» gli disse lei all'orecchio. «Il mio nome.» Si lasciarono affondare lentamente, e Susan si stese riversa sul pavimento. Arkady sentì i grandi occhi castani che l'osservavano. Occhi felini, occhi notturni. Le gambe di Susan si allargarono come ali. Come Arkady l'aveva sorretta mentre erano in piedi, adesso era Susan che lo portava sempre più nel profondo, verso la torcia invisibile nel buio, come se il freddo metallo del ponte all'improvviso emanasse calore. «Mi piace il tuo nome» mormorò Arkady. «Susan. Suuu-san. Come Susanna e i vecchioni?» «Era una vergine, credo. Conosci la Bibbia?» «Conosco una storia interessante con elementi di voyeurismo, cospirazione...» Arkady s'interruppe per accendere una sigaretta con la sigaretta di lei. «... e di seduzione e di vendette.» Erano sulla cuccetta, appoggiati al cuscino e alle coperte piegate. Arkady non aveva freddo. Il mangianastri era sul pavimento, puntato verso la porta. Ogni volta che la cassetta finiva, Susan la girava, e ricominciava la musica. «Sei uno strano investigatore» disse lei. «Ti piacciono i nomi?» «C'è Ridley. In inglese, riddle vuol dire enigma, no? Morgan? Non c'è un pirata che si chiamava Morgan?» «Karp?» «Un pesce, un grosso pesce.» «E Renko? Cosa significa?» «Figlio di. Fedorenko sarebbe figlio di Fedor. Io sono semplicemente figlio... di qualcosa.» «Troppo vago.» Susan gli passò un dito intorno al contorno delle labbra. «Un investigatore sempre più strano. Ma del resto, io sono una strana vergine. Noi due facciamo una coppia perfetta.» Almeno per una notte, pensò Arkady. La porta esisteva come un'esile li-
nea di luce nell'oscurità. Se Karp attendeva ancora là fuori, la sua squadra era probabilmente sul ponte. Avrebbero cercato di sbirciare attraverso l'oblò ma avrebbero visto solo una tenda chiusa. Arkady prese il bicchiere. «Non abbiamo finito il gioco.» «Il gioco della verità? Guardami, non sono abbastanza sincera? Lo sarò ancora di più. Avevo lasciato la porta aperta, nel caso che tu passassi. Non sapevo cosa dire. Mi esasperi.» Con voce più bassa, Susan si corresse. «Mi esasperavi. Poi ho ammesso di fronte a me stessa che questo rituale di animosità fra noi era dovuto al fatto che eri l'ultima persona dalla quale volevo sentirmi attratta.» «Forse siamo una coppia ideale di falene.» Ma era qualcosa di più, e lo sapeva. Era tornato alla vita; e quando l'aveva tenuta fra le braccia si era trovato finalmente vivo del tutto, come se l'ardore di Susan avesse sgelato una serratura ghiacciata dentro di lui. Anche se erano intrappolati in una piccola cabina d'acciaio in mezzo alla banchisa, era vivo, fosse pure per una notte soltanto. O forse era la razionalizzazione d'una falena? «Mi ha reclutata ad Atene» disse Susan. «Morgan?» «Sì, George. Facevo un corso di greco per laureati perché era la passione della mia vita... o almeno lo credevo. Lui era il comandante di uno yacht di proprietà di un ricco saudita, che gli mandava telegrammi per dirgli di andare ad aspettarlo di qua o di là. Il saudita non compariva mai, ma George doveva portare lo yacht da Cipro a Tripoli e poi di nuovo in Grecia. Mi ha reclutata quando finalmente ho capito che il saudita non esisteva. «La mia seconda passione erano gli studi di slavistica. George diceva che ero molto dotata per le lingue straniere. Lui non lo è anche se parla discretamente l'arabo. Così, mi ha pagato gli studi in Germania. Lo vedevo a Natale e per una settimana in estate. Ma quando ho finito gli studi, mi ha detto che era passato all'attività privata. Non voleva più avere a che fare con il governo, mi ha detto. «A Rodi aveva una piccola società, specializzata nell'aggirare gli embargo. Cambiavano le etichette sui prodotti in scatola provenienti dal Sud Africa, sulle arance israeliane, sul software di Taiwan. Avevamo sempre clienti angolani, cubani, sovietici. George diceva che i comunisti si fidano di te purché tu ci guadagni, e che si fidano ancora di più se gli riservi una fetta della torta. «Era logico. George non doveva più obbedire alle direttive. Niente
commissioni di controllo, niente scartoffie, bastava un pranzo a Ginevra ogni due settimane con qualcuno della CIA. George doveva andare comunque là alla sua banca, e quindi era comodo. «George è furbo. È stato il primo a notare la joint venture della pesca e le possibilità per i sovietici, perché era sicuro che voi faceste la stessa cosa che faceva lui. In una settimana ha liquidato la sua società e si è trasferito a Seattle. C'era una quantità di battelli disponibili. Credo che ne abbia scelto apposta uno poco adatto, per non dare nell'occhio. Di sicuro avrebbe potuto trovare un equipaggio migliore. «Dunque, conosco George da quattro anni e da tre mi ha reclutata. Per un anno sono stata in Germania, per un anno ho lavorato a Rodi e da un anno sono su una nave sovietica. In tutto questo tempo, io e lui siamo stati insieme veramente per sei mesi in tutto. Due giorni negli ultimi sei mesi. È troppo difficile restare innamorati di qualcuno, in simili condizioni. E ho finito per aspettare uno come te. Sono abbastanza sincera?» Le navi erano come le donne, o le donne erano come le navi? Qualcosa cui aggrapparsi in un sogno? Fuori nel corridoio Arkady sentì le voci degli americani, stanchi per l'ora tarda e per il ballo, che tornavano nelle loro cabine. Non aveva l'orologio. Passò adagio la mano dal centro della fronte di Susan, come se ne tracciasse il profilo. Una volta aveva pensato che avesse il viso scarno e triangolare: ma adesso gli sembrava la cornice adatta per una bocca così mobile e per gli occhi distanti, l'unico viso adatto per un taglio di capelli tanto infantile. Quando le passò la mano sullo stomaco, Susan si girò verso di lui, come una barca calda e accogliente dalla vela dorata. «Zina aveva accennato d'aver visto qualcosa nell'acqua» disse Arkady. «E aveva parlato anche di un ufficiale della marina militare che aveva visto a bordo, il marconista.» Susan era sdraiata con la testa sul petto di Arkady. Si passavano una Winston, una delle sigarette di lei. «Pensavi che fosse un agente provocatore?» «All'inizio sì. Aveva detto a Volovoi di aver fumato l'erba con Lantz. Era quanto bastava per solleticarlo.» «E quanto bastava per poter girare quanto voleva per la nave» disse Arkady. Le restituì la sigaretta e le posò la mano dove l'angolo della mascella s'inseriva nel collo. «Zina era troppo scatenata per simulare. Troppo intelligente» disse Su-
san. «Gli uomini non lo capivano.» «Li manovrava?» «Volovoi, Marchuk, Slava. Non so quanti altri. Forse tutti, tranne te.» «Parlava di Vladivostok, della sua vita in quella città?» «Diceva solo che aveva servito in un ristorante e aveva sempre dovuto difendersi dalla corte dei marinai.» «Allora, perché s'era imbarcata sulla Stella Polare?» chiese Arkady. «Era la stessa storia.» «Me lo chiedevo anch'io. Era il suo segreto.» «Parlava di un uomo a Vladivostok?» «Marchuk e il marconista.» «Armi da fuoco?» «No.» «Droga?» «No.» «Allora, cosa pensi che facesse Zina tutte le volte che ti raggiungeva al parapetto di poppa?» Susan rise. «Non ti stanchi mai di fare questa domanda, vero?» «No.» Arkady sentì la vena del collo di Susan palpitare più forte. «Non mi stanco mai delle domande intelligenti. Era per il pesce? Perché le interessava soltanto il pescato dell'Eagle?» «Le interessavano gli uomini, non i pesci» disse Susan. «Mike era sull'Eagle.» Arkady immaginava Zina al parapetto di poppa, mentre si sbracciava per salutare il peschereccio americano. Aveva molta importanza chi rispondeva al saluto? «Anche Morgan era sull'Eagle» disse. «Quello che Morgan voleva da Zina era la conferma che c'era qualcosa di simile al cavo. Lei non era in grado di fornirgli dettagli precisi. Altrimenti, lui non sapeva che farsene.» «E Zina cosa voleva da lui?» chiese Arkady. «Troppo.» «È questo che le hai detto la sera del ballo? È questo che le hai detto poco prima che sparisse?» «Ho cercato di spiegarle che nell'ottica di George non era molto preziosa.» «Perché no?» Quando Susan non rispose, Arkady chiese: «Cosa intendevi quando hai detto che se fosse stata su una nave americana non avrebbe voluto andarsene?».
«Lo sai già. Voleva defezionare.» Arkady le appoggiò la testa sulla spalla. Come un cuscino sulla luna, pensò. «Vuoi lasciare la Stella Polare?» chiese Susan. «Sì.» La sentì trattenere il respiro prima di mormorare: «Io posso aiutarti». Arkady teneva una sigaretta in una mano e un fiammifero nell'altra, ma non l'accese. Si concentrò sul morbido tremore del seno di Susan. «Come?» «Hai bisogno di protezione. Posso chiedere a Marchuk di darti mansioni d'interprete. Al circuito sporco sei sprecato. Così potremo passare più tempo insieme.» «Ma come puoi aiutarmi a lasciare la Stella Polare?» «Potremmo vedere.» «Che cosa dovrei fare?» «Niente. Chi è Hess?» Arkady accese il fiammifero, un piccolo bagliore giallo, e lasciò che si consumasse lo zolfo. «Dobbiamo smettere di fumare?» «No.» Arkady aspirò. Fumo acre di tabacco sovietico. «È il nostro Morgan. Un altro pescatore.» «Hai visto il cavo, vero?» «Ho visto il coperchio. Non c'era molto da vedere.» «Ma sei sceso là sotto.» Prima di spegnere il fiammifero Arkady tese la mano verso il pavimento per prendere il bicchiere. Era semipieno; conteneva lo scotch rimasto. «Dobbiamo smettere di bere?» «No. Tornaci e dai un'altra occhiata.» «Hess non mi lascerà entrare.» Arkady spense la fiamma e bevve metà dello scorch. «Tu puoi entrare. Sembra che tu riesca sempre ad andare dove vuoi, su questa nave.» Lui le passò il bicchiere. «Fino a quando Karp mi beccherà.» «Sì, fino ad allora.» Susan inghiottì in un sorso il liquore rimasto e girò la testa dall'altra parte. «Allora potremo portarti via o fuori.» Arkady si sollevò sul gomito come se potesse realmente vederla. I capelli di Susan erano ancora umidi sotto le sue dita. Le girò il viso verso di lui.
«Via o fuori? E cosa significa?» «Esattamente quello che ho detto.» La bottiglia era vuota e le Winston erano consumate tutte in una nuvola di fumo. Come se fossero andati in fumo lui e Susan. «Io ti voglio dentro, non fuori» disse lei. La lampada della cuccetta era più un barlume che una luce, ma Arkady poteva vedere gli occhi che lo fissavano e poteva vedere se stesso riflesso in quegli occhi. Dentro di lei e fuori. «Hess non ha parlato della lunghezza?» chiese Susan. «O del numero degli idrofoni? Della portata? Ha computer e software. Sarebbe bene se potessi portarmi un dischetto, meglio ancora se potessi procurarti un idrofono.» Arkady accese una Belomor. «Non lo trovi noioso?» chiese. «Spiare di continuo non ti sembra un'interminabile partita a carte?» «George si è informato sul tuo conto quando abbiamo fatto scalo a Dutch Harbor. Ha una linea anti-intercettazioni, là. Voleva sapere se eri proprio tutto vero.» Susan prese la sigaretta. «L'FBI dice che non ci si può fidare di te.» «Anche il KGB. Almeno su qualcosa sono d'accordo.» «Non hai una buona ragione per voler andar via?» Gli occhi di Susan erano sgranati, e cercavano di vederlo nella luce delle scintille della papirosa, il falò dei cospiratori russi. «A Dutch Harbor avevi insinuato che io e Morgan potevamo aver assassinato Zina insieme. Gli assassini ti attirano?» chiese Arkady. «No.» «E allora perché l'hai detto? Vuoi che mi fidi di quell'uomo?» «Non è stata colpa di George.» «E di chi, allora?» Quando Susan non rispose, Arkady disse: «Tu e Zina eravate sul ponte di poppa. Il ballo non era ancora finito; era buio e l'Eagle era ormeggiata alla Stella Polare. Là, al parapetto, le hai detto che chiedeva troppo. Lei che cosa ti ha risposto?». «Ha risposto che non potevo fermarla.» «Qualcuno l'ha fermata. Ti ha mostrato un sacchetto di plastica?» «Un sacchetto?» «Sì, e conteneva un asciugamano e qualche indumento. S'era fatta prestare una cuffia da bagno da una compagna di cabina, e non l'aveva mai restituita.»
«Non lo so. E poi tu sei diverso, Arkady. Sei un fattore noto, e se riuscirai a procurarmi qualcosa che ha Hess, potremo aiutarti davvero. In patria non c'è niente per te, no? Perché dovresti aver voglia di tornare?» «Puoi davvero aiutarmi? Puoi fare in modo che scompariamo da qui e ci troviamo a passeggiare per una strada, o seduti in un caffè, o a letto dall'altra parte del mondo?» «Devi sperare.» «Se vuoi aiutarmi, dimmi che cosa faceva Zina al parapetto di poppa, tutte le altre volte. Prima che scoprisse qualcosa sul conto di Morgan o del marconista o del cavo. Perché ci andava?» Susan spense la luce. «È strano, questa notte è stata come tenere le mani sopra una fiamma.» «Dimmi.» Susan rimase in silenzio al buio per un minuto, poi disse: «Non lo sapevo. Non lo sapevo con certezza. All'inizio pensavo che fosse un gesto amichevole, o che la mandasse Volovoi. A volte ti accorgi di qualcosa che non va intorno a te, ma non riesci a capire che cos'è esattamente. Quando siamo diventate amiche, non ci ho più fatto caso perché mi piaceva averla vicina. Solo quando sei comparso tu ho ricominciato a fare domande, e soltanto a Dutch Harbor ho capito, quando mi è stato comunicato che dovevo tornare sulla Stella Polare e contribuire a evitare che si facesse troppo chiasso. Dovevamo tenere unita la squadra e affrontare i problemi via via che si presentavano. Adattarsi e risolvere: ecco cosa si deve fare quando si lavora nel settore privato. Non c'è un rimpiazzo pronto e nessuno provvede a tirarti fuori. Accetti i compromessi, e gli individui che ingaggi per il lavoro sporco sono più sporchi ancora. George ha preso il controllo. Sistemerà tutto. È indistruttibile, non come noi. Aveva capito molto prima di me cosa faceva Zina al parapetto; e se dice che farà un accordo con la sua parte, lo farà. Non è stato lui a ucciderla, questo posso assicurartelo». «Perché pensavi che l'avessi uccisa io?» «Perché eri troppo inverosimile. Un investigatore uscito dal settore fattoria? E poi, perché quella sera Zina aveva detto che sarebbe ritornata.» «Sarebbe ritornata?» Arkady pensò alla ragazza che si avventurava a nuoto nella baia di Vladivostok, si faceva prestare una cuffia da bagno, chiudeva un sacco di plastica con il nastro adesivo. Continuava a non avere senso. C'erano due Zine: la Zina che si sdilinquiva per Mike e ascoltava i Rolling Stones, e la Zina con le registrazioni segrete. Se avesse defezionato per passare sull'Eagle avrebbe portato via i nastri e avrebbe lasciato
una falsa lettera d'addio, e non pagine di appunti. E sapeva bene che non era il caso d'inscenare un finto suicidio quando c'era nelle vicinanze un peschereccio americano. «Da dove?» Quando Susan riprese a parlare sembrava esausta. «George aveva detto che aveva bisogno di qualcosa di meglio dei pescatori, ed è quello che ha avuto. Ha bisogno di un po' di tempo per portare l'equipaggio sotto controllo. Non sapeva di Zina. Non poteva far niente per la faccenda di Mike e Volovoi; è semplicemente rimasto sorpreso di non trovare là anche te.» Arkady pensò a Karp. «Dillo a Marchuk.» «Non posso dirlo a nessun altro. Sono pronta a smentire ogni parola, e tu lo sai.» «Sì» dovette ammettere Arkady. «È stato soltanto un gioco» disse lei. «Un gioco del "se".» «Qualcosa come: "E se non spuntasse più il mattino?"» chiese Arkady. La mano di Susan cercò la sua. «Ora rispondi tu a una domanda. Se adesso potessi fuggire, sparire dalla Stella Polare e andare in America, lo faresti?» Arkady ascoltò la propria risposta, incuriosito come se fosse semplicemente un gioco. «No.» Nello spazio stretto della cuccetta, i loro corpi addormentati erano vicini, mentre la Stella Polare si sollevava lentamente sull'angolo della prua corazzata e si riabbassava, stritolando il ghiaccio. Il suono era smorzato, non molto più intenso di un vento che rinfresca la pelle o di un tuono distante che si allontana ancora di più. Arkady scostò la tenda dall'oblò di un grigio luminoso. Non era lo scintillio della neve: era più denso e più soffice. L'alba di un nuovo giorno nel Mare di Bering. «Ci siamo fermati» disse. Lo stridore dell'acciaio contro il ghiaccio era cessato anche se, attraverso il pavimento, sentiva che le macchine erano in funzione. La nave pareva librata in un vuoto: non era silenziosa, ma era immobile e circondata dal silenzio. «E l'Eagle?» chiese Susan. «Se noi non ci muoviamo, non si muovono neppure loro.» Arkady raccolse dal pavimento calzoni e camicia. «È il gioco di seguire il capo, e finalmente il capo siete voi?» Susan si sollevò a sedere. «Appunto.» «Con tanti saluti alle joint ventures. L'Eagle non è stata costruita per na-
vigare fra i ghiacci, e Marchuk lo sa.» Arkady si abbottonò la camicia. «Vai in sala radio» disse. «Cerca di contattare Dutch Harbor. Oppure prova con il canale d'emergenza.» «E tu dove vai?» Arkady infilò i calzettoni. «A nascondermi. La Stella Polare è una nave molto grande.» «Per quanto tempo potrai continuare a stare nascosto?» «Farò finta che sia una forma di competizione socialista.» Calzò gli stivali e prese la giacca dalla sedia. Una sorta di foschia avvolgeva Susan come un velo di polvere. Era immobile. Muoveva soltanto gli occhi per seguire Arkady con lo sguardo fino alla porta. «Non hai intenzione di nasconderti» concluse. «Dove vai?» Arkady lasciò ricadere la mano. «Credo di sapere dov'è morta Zina.» «Questa notte è stato solo per via di Zina?» «No.» Arkady si girò verso di lei. «Perché hai un'aria così felice?» Lui quasi si vergognava. «Perché sono vivo. Siamo vivi tutti e due. Penso che non siamo falene.» «D'accordo.» Susan si protese verso di lui. «Ti dirò la stessa cosa che avevo detto a Zina. Le avevo detto: "Non andare".» Ma Arkady se n'era già andato. 29 La Stella Polare stava in fondo a un pozzo candido. La nebbia la circondava da ogni parte, e la luce del sole riflessa dalla banchisa e imprigionata dalle spire di nebbia produceva un'illuminazione nel contempo indistinta e opprimente. La nave splendeva; il ghiaccio si era formato su ogni superficie. Il ponte era una pista di pattinaggio opalescente. La rete intorno al campo di pallavolo scintillava come una casa costruita cristallo su cristallo. In alto, le antenne pendevano pesanti come vetri. Il ghiaccio sugli oblò sembrava formare opache lenti aggiuntive, e rendeva lucido come vetro il legname ammonticchiato sulla sovrastruttura. La nave sembrava un pesce emerso dall'Artico. «Il cavo che non poteva impigliarsi, naturalmente, è bloccato sul fondo» disse Marchuk. Aveva preso in disparte Arkady in un angolo del ponte di
comando, lontano dal timoniere. Il comandante non aveva dormito durante la notte. Aveva la barba lunga; e quando si tolse gli occhiali scuri gli occhi apparvero segnati. «Dobbiamo restare fermi mentre Hess è giù, a srotolare e arrotolare il cavo nella speranza di tirar via il suo aggeggio.» «Si sa niente dell'Eagle?» Arkady fece la domanda che Susan aveva fatto a lui. I tergicristalli riuscivano a impiastricciare il ghiaccio sulla vetrata. D'altra parte la nave non stava andando da nessuna parte, e non si vedeva altro che una nebbia accecante. Arkady socchiuse gli occhi e stimò che la visibilità fosse d'un centinaio di metri. «Ringrazia il cielo perché sei sulla nave giusta, Renko.» «Non ci sono state chiamate?» «La loro radio non funziona» disse Marchuk. «Tre tipi diversi di radio e di apparecchi di riserva, e non ne funziona neppure uno?» «Forse è caduto l'albero. Sappiamo che s'erano coperti d'una crosta di ghiaccio e che il rollio era molto forte. È possibile.» «Mandi qualcuno a vedere.» Marchuk si frugò nelle tasche in cerca d'un pacchetto di sigarette, poi si appoggiò al banco davanti alla vetrata e tossi, il che era quasi come fumare una sigaretta. Si schiarì la gola. «Sai che cosa farò quando torneremo a casa? Farò una cura del riposo. Niente alcol e niente fumo. Andrò da qualche parte, nei pressi di Soci, dove ti ripuliscono, ti fanno le fumigazioni con lo zolfo e ti immergono nei fanghi caldi. Voglio restare in quei fanghi per almeno sei mesi, fino a che puzzerò come un uovo cinese. È allora che capisci d'essere guarito. Verrò via roseo come un neonato. E allora potranno spararmi.» Lanciò un'occhiata al timoniere e poi oltre la porta della sala navigazione, dove il secondo ufficiale lavorava con aria impegnata sulle carte nautiche. La Stella Polare era attanagliata dal ghiaccio ma non aveva smesso di muoversi perché lentamente e inesorabilmente si muoveva la banchisa. «Quando ci si spinge tanto a nord, agli apparecchi succedono cose strane. Ci sono illusioni, e non solo per i nostri occhi. Un segnale radio sale a perpendicolo e rimbalza. Il magnetismo è così forte che i segnali di radiodirezione vengono assorbiti. Non è necessario andare nello spazio per trovare un buco nero... l'abbiamo qui.» «Mandi qualcuno a vedere» ripeté Arkady. «Non sono autorizzato a farlo fino a che il cavo non sarà stato debitamente recuperato. Se si è impigliato in qualcosa che tende a galleggiare
potrebbe essere proprio sotto lo strato di ghiaccio, e allora può darsi che lo si veda.» «Chi è il comandante di questa nave? Lei o Hess?» «Renko!» Marchuk arrossì, fece per estrarre le mani dalle tasche e ve le infilò di nuovo. «Chi è il marinaio di seconda classe che dovrebbe essere riconoscente perché non è incatenato alla sua cuccetta?» Arkady si avvicinò al radar. Anche se l'Eagle era ancora due chilometri dietro la Stella Polare, il punto verde sullo schermo era indistinto. «Non stanno affondando» disse Marchuk. «Sono semplicemente intrappolati nel ghiaccio, e il ghiaccio non dà la stessa eco del metallo pulito. Hess dice che sono in buone condizioni: le loro radio sono in grado di funzionare, e sanno dov'è il suo cavo. L'hai sentito? Ha detto che nei guai siamo noi, non loro.» «E se spariranno completamente dallo schermo, Hess le dirà che l'Eagle si è trasformata in un sottomarino. Susan arriverà qui tra un secondo. Come ha intenzione di comportarsi con lei e con gli altri americani che abbiamo a bordo?» «Gli farò un'analisi franca e completa nel quadrato ufficiali» disse Marchuk in tono asciutto. «L'importante è tenerli lontani da poppa finché non avremo recuperato il cavo.» La nave-fattoria e il peschereccio erano bloccati nella banchisa, con le prue verso sud-est, puntate in direzione dei battelli che stavano arrivando da Seattle, anche se nessuno di loro appariva sullo schermo, per quanto Arkady premesse sui tasti dello schermo radar per ampliarne il raggio. Regolò di nuovo la portata sui cinque chilometri, per inquadrare l'Eagle a 300 gradi. Marchuk disse: «Se fra un'ora il compagno Hess non avrà ancora recuperato il cavo, lo taglierò personalmente e uscirò dai ghiacci. Ci vorrà tempo perché con questo freddo l'acqua è densa e il cavo affonderà lentamente. Poi potrò tornare indietro a togliere l'Eagle dai pasticci. Ti assicuro che non lascerò morire altri pescatori. Sono come te: voglio portarli nell'acqua libera». «No» disse Arkady. «Io li preferisco dove sono.» Marchuk voltò le spalle ai tergicristalli in movimento. Sotto di lui, la prua sollevò il ponte, con la ruggine e la vernice verde velate da uno strato spettrale di ghiaccio. Oltre la frisata c'era soltanto il biancore: né acqua né cielo né distinzione dell'orizzonte. «Non posso permettere a nessuno di lasciare la nave» disse Marchuk.
«Innanzi tutto, non sono autorizzato. In secondo luogo sarebbe inutile. Hai provato a camminare sui laghi gelati?» «Sì.» «Non è la stessa cosa. Questo non è il lago Baikal. Il ghiaccio formato dall'acqua salata è solido appena la metà di quello d'acqua dolce: somiglia più alle sabbie mobili che al cemento. Dai un'occhiata. In una nebbia così, non puoi vedere dove vai. Perderesti la strada nell'arco di cento passi. Se un pazzo si avventurasse sul ghiaccio, prima dovrebbe dire addio a tutti. No, non posso permetterlo.» «Lei ha mai camminato sul ghiaccio, qui?» chiese Arkady. La figura di Marchuk, profilata contro la vetrata, s'inchinò al ricordo. «Sì.» «Com'era?» «Era...» Il comandante allargò le braccia. «Bellissimo.» Da un armadietto del materiale d'emergenza, Arkady prese due giubbotti salvagente e una pistola lanciarazzi. I giubbotti erano fatti di parallelepipedi di plastica rivestiti in cotone arancione, con le tasche per i fischietti che mancavano, e le cinghie che si legavano in vita sopra il maglione. La pistola era una vecchia Nagant, con la canna rimpiazzata dal tubo tozzo per sparare i razzi. Il ponte di pesca sembrava deserto. Mentre l'attraversava notò, troppo tardi, qualcuno che spiava dall'alto della cabina della gru. Pavel era un'ombra dietro il vetro della cabina, a parte la faccia che scrutava attraverso un'incrinatura triangolare. Ma non reagì. Solo quando arrivò sottocoperta a poppa Arkady si rese conto che con il cappuccio alzato e i giubbotti che l'infagottavano sotto la giacca era diventato irriconoscibile, almeno da una certa distanza. «Arkady, sei tu?» Gury era nel corridoio accanto alla cucina, e si passava da una mano all'altra un pilmeni bollente. La farina gli copriva le spalle del giubbotto di pelle come forfora. Arkady trasalì: poi si accorse che a sorprenderlo era stata l'assoluta normalità di Gury e dei vapori di cavolo che uscivano dalla mensa. La gente non era occupata con il pescato e poteva stare sottocoperta a giocare a domino o a scacchi, a guardare un film o a fare un sonnellino. La nave poteva essersi fermata per qualche ragione inspiegata... ma le ragioni venivano spiegate molto di rado. Sentivano le macchine che andavano al minimo e, nel frattempo, la vita continuava.
«Questo devi proprio vederlo. Sono i soliti ravioli a forma di stronzo e farciti di carne, ma...» Gury diede un morso, trangugiò metà del pilmeni e mostrò la metà rimasta. «E allora?» chiese Arkady. Con un sorriso malizioso, Gury accostò il pilmeni agli occhi di Arkady come se mostrasse un anello con un diamante. «Niente carne. Non intendo dire che come al solito non c'è carne ma solo cartilagine e ossa. Voglio dire che non si avvicina neppure a un anno luce da un mammifero. Farina di pesce e sugo.» «Ho bisogno del tuo orologio.» Gury era sbalordito. «Vuoi sapere che ora è?» «No.» Arkady tolse il nuovo orologio da safari dal polso di Gury. «Voglio solo prendere a prestito il tuo orologio.» «Prendere a prestito? Sai, di tutte le espressioni della lingua russa, incluse "fottere" e "ammazzare", "prendere a prestito" è probabilmente la più abominevole. Leasing, time-sharing... ecco le parole che dobbiamo imparare.» «Allora ti rubo l'orologio.» La bussola inserita nel cinturino indicava persino i gradi. «Sei un uomo onesto.» «Hai intenzione di fare rapporto a Olimpiada perché adultera il nostro vitto?» Gury impiegò un momento per seguire quel discorso. «No, no. Pensavo che quando torneremo a Vladivostok potremmo aprire un ristorante. Olimpiada è un genio. Con una socia come lei potrei guadagnare un patrimonio.» «Buona fortuna.» Arkady si mise l'orologio. «Grazie.» Gury fece una smorfia. «Come sarebbe, "Buona fortuna"?» Assunse un'aria ancora più preoccupata mentre Arkady si avviava verso il ponte di pesca. «Dove vai così conciato? Riavrò il mio orologio?» Arkady proseguì verso il ponte di poppa, assumendo volutamente l'andatura di un uomo più pesante. Non si voltò indietro al ponte delle scialuppe, nell'eventualità che qualcuno della squadra di Karp fosse di guardia. Il gagliardetto rosso, al parapetto di prua, pendeva irrigidito dal ghiaccio. Poche orme avevano deturpato la patina lucente della tolda. Accanto al pozzo sopra la rampa di poppa c'erano un paio di uomini dall'aria paziente con i bracciali rossi dei volontari dell'ordine pubblico: Skiba e Slezko con gli occhiali da sole e i berretti di coniglio. Quando Arkady si avvicinò, lo ri-
conobbero. Fecero per bloccargli il passo, ma accennò ai due di scostarsi. Era un gesto che aveva visto molto spesso a Mosca, un gesto brusco e più della mano che del braccio, ma sufficiente per provocare la reazione condizionata, per allontanare i pedoni dai cortei di automobili, per mandare i cani a correre intorno a un perimetro, accomiatare gli inservienti e disperdere i prigionieri. Slezko disse: «Il comandante ha ordinato...». «Non è permesso a nessuno...» disse Skiba. Arkady gli prese gli occhiali. «Aspetta» disse Slezko. E porse ad Arkady le sue Marlboro. «Compagni.» Arkady li salutò militarmente. «Consideratemi un cattivo comunista.» Scese nel pozzo. Al pianerottolo, la piattaforma dove di solito i capipesca stavano a osservare le reti che salivano dal mare, la cima era incollata al parapetto dal ghiaccio, e dovette liberarla con un calcio. Quando la lasciò cadere, la vide pendere in un lungo ricciolo. Scavalcò il parapetto e si avvolse la cima intorno alla manica. Scendere lungo quella cima non era molto diverso dallo scivolare lungo un ghiacciolo. Atterrò sui tacchi, slittò, si lasciò andare e continuò a slittare per il resto del piano inclinato, fino alla banchisa. In alto, sopra di lui, Skiba e Slezko stavano al parapetto di poppa come due faine che si sporgessero da una rupe. Arkady si rimise in piedi, si orientò con la bussola dell'orologio di Gury. Il ghiaccio era solido come pietra. S'incamminò. Avrebbe dovuto mettere due maglie, due paia di calzettoni, e stivali di feltro. Almeno aveva un buon paio di guanti, un berretto di lana sotto il cappuccio e due giubbotti salvagente che assicuravano un notevole isolamento termico. Più camminava e più si riscaldava. E meno se ne curava. Gli occhiali non servivano tanto a ombreggiare la nebbia luminosa trapassata dal sole, quanto a definirla per fargli scorgere nitidamente i veli del vapore bianco che ondeggiavano tutto intorno. Una volta aveva provato una sensazione molto simile guardando dal finestrino di un aereo che volava tra le nubi. Il ghiaccio era solido, bianco com'è il ghiaccio marino quando perde la salsedine. Era lucido come uno specchio anche se non poteva vedere la propria immagine ma soltanto una foschia aerata e imprigionata nel ghiaccio. Quando si voltò, la nave stava svanendo nella nebbia. E usciva dal contesto, pensò Arkady. La Stella Polare non era più una nave nell'acqua ma piuttosto un cuneo grigio caduto dal cielo.
Due chilometri ad andatura sostenuta. Venti minuti, forse mezz'ora. Quanti potevano vantarsi di aver camminato sul mare? Si chiese se Zina aveva alzato gli occhi dalle onde verso la torreggiante fiancata grigia della nave. Per lui era molto più agevole: l'acqua era piatta, gelata, come un pavimento d'alabastro. Quando si voltò indietro di nuovo, la Stella Polare era scomparsa. Era ancora orientato su 300 gradi anche se l'ago della bussola oscillava da una parte all'altra. Così vicino al polo magnetico l'attrazione verticale era tanto forte che la punta dell'ago sembrava tirata a destra e a sinistra con un filo. Non c'era niente altro cui riferirsi: niente all'orizzonte, anzi, neppure un orizzonte, una linea di congiunzione tra il ghiaccio e la nebbia. Ogni direzione era identica, inclusi l'alto e il basso. Un biancore totale. Per prima cosa voleva controllare i guardaroba delle cabine dell'Eagle, quindi i ripostigli e la sala macchine. Zina era stata nascosta da qualche parte. Marchuk aveva avuto ragione, quando aveva parlato d'illusioni. Arkady vedeva davanti a sé un antiquato disco nero a 78 giri che roteava da solo, in silenzio, in mezzo al ghiaccio. Come se la sua mente avesse deciso di colmare il vuoto bianco con il primo oggetto che aveva estratto dalla memoria. Controllò la bussola. Forse stava camminando in cerchio. Poteva accadere, nella nebbia. Certi scienziati affermavano che i viaggiatori si perdevano in quel modo perché una gamba era più robusta dell'altra; altri citavano addirittura l'effetto di Corioli causato dalla rotazione terrestre, nella presunzione che gli uomini non fossero in grado di decidere la direzione in cui andare più di quanto lo potessero il vento o l'acqua. Il disco prese a girare più veloce quando si avvicinò, poi ondeggiò, incontrollabilmente. Agli ultimi passi di Arkady, tremolò e si dissolse in un cerchio approssimativo di acqua nera come il catrame, orlato da ghiaccio spezzato e intriso di sangue rosso. A volte gli orsi polari sfondavano la buca usata da una foca per respirare, proprio nel momento in cui la foca affiorava. Gli orsi si spingevano a caccia per due o trecento chilometri sui ghiacci marini. Di solito il rumore di un rompighiaccio li metteva in fuga, ma la Stella Polare era ferma. Arkady non aveva sentito nulla, quindi non doveva essere accaduto da pochi minuti. D'altra parte non c'erano macchie di sangue o tracce che si allontanassero dalla breccia. L'orso aveva trascinato sott'acqua la preda: o non era ancora risalito, oppure s'era diretto a nuoto, sotto il ghiaccio, verso un'altra buca. Il ghiaccio sembrava esploso. A giudicare dal sangue intorno all'orlo,
forse era esplosa anche la foca. Uno o due frammenti di ghiaccio ondeggiavano nell'acqua a testimonianza delle correnti che si muovevano sotto la banchisa. Ecco, sarebbe stata una conclusione imprevista per un'indagine, pensò Arkady: finire divorato da un orso. Una prima assoluta? In Russia no, certo. La foca doveva essere rimasta molto sorpresa. Conosceva quella sensazione. Consultò ancora la bussola e si rimise in marcia. Sentì, più avanti, uno scricchiolio secco. In un primo momento pensò che l'orso stesse emergendo dal ghiaccio; poi si rese conto che forse la banchisa si stava spaccando. Sull'acqua aperta, per effetto della marea e delle correnti, la banchisa si spostava, si spezzava e si ricomponeva. Non si sentiva in pericolo. L'acqua portava i suoni più rapidamente e più lontano dell'aria secca. La nebbia non attutiva i rumori: anzi, li amplificava. Se il ghiaccio si spaccava, con ogni probabilità stava avvenendo in distanza. Arkady si augurava che l'ago della bussola smettesse di saltare. Da quanti minuti camminava? Venti, secondo l'orologio. Chissà com'era il controllo della qualità nelle fabbriche giapponesi. Non c'era traccia dell'Eagle: ma quando si guardava indietro riusciva a scorgere al limite della visibilità qualcosa che lo seguiva: una figura così indistinta da sembrare un'apparizione. Una striscia di ghiaccio grigio incominciò a traballare sotto i suoi piedi. Si spostò di lato sul ghiaccio più bianco, e si orientò di nuovo. Il ghiaccio tendeva a frantumarsi su un asse sudovest-nordovest, la direzione sbagliata per il suo percorso. E questo lo stimolava a stare attento. L'oggetto dietro di lui si muoveva con un passo regolare e allungato, come un orso: ma era eretto ed era nero. Arkady si era ormai reso conto d'essersi perduto. O si era allontanato ad angolo, oppure aveva sottovalutato la distanza dell'Eagle. Quando la nebbia si muoveva, fluiva da sinistra a destra. Per la prima volta notò lo spostamento laterale di qualcosa che aveva creduto un banco stazionario e che forse l'aveva portato fuori strada. La nube fluiva anche in avanti e lo avviluppava. Dietro di lui, a meno di cento metri, l'inseguitore mostrava di avere due gambe, due braccia, una testa e una barba. Marchuk. Skiba e Slezko dovevano essersi precipitati dal comandante, ed era tipico d'un siberiano come Marchuk inseguirlo da solo. Dopo pochi passi Arkady s'immerse nella nebbia e Marchuk scomparve. Il comandante non l'aveva chiamato. Ciò che Arkady voleva, adesso, era arrivare all'Eagle prima che Marchuk lo raggiungesse e gli ordinasse di
tornare alla Stella Polare. Avrebbero potuto salire insieme a bordo del peschereccio, purché Arkady potesse guardarsi intorno. Anzi, si sarebbe sentito più sicuro se Marchuk fosse stato con lui, dato che Ridley e Coletti lavoravano con Karp. Morgan, probabilmente, non lo faceva anche se nessun comandante poteva essere del tutto all'oscuro di quanto succedeva sulla sua barca. Sebbene camminasse alla cieca nella nebbia, con l'occhio della mente Arkady vedeva le sue orme che procedevano diritte come una freccia verso l'Eagle. Erano perfette, magnetiche... a meno che, naturalmente, avesse già mancato il peschereccio e adesso si stesse dirigendo verso il Circolo Polare. Lo scricchiolio si ripeté, questa volta più distinto. Non era ghiaccio che s'incrinava: era ghiaccio che veniva preso a martellate, e gli impatti erano seguiti da echi simili a quelli del vetro che s'infrange. Arkady si sorprese a girare la testa per identificare la provenienza del rumore. Il suono poteva essere fuorviante nella nebbia, perché poteva sembrare troppo vicino; resistette alla tentazione di mettersi a correre perché sarebbe stato facile deviare verso una direzione sbagliata. Ormai la nebbia lo investiva come una successione di ondate che cercassero di trascinarlo via. Immagina, pensò, quanto coraggio ci voleva per nuotare, sia pure per pochi metri, nell'acqua così fredda. Aveva visto alcuni uomini cadere da un peschereccio e restare vittime dello shock prima di venire salvati. All'improvviso il martellare divenne fortissimo. L'Eagle emerse a meno di dieci metri da lui, sollevata e inclinata dal ghiaccio. Il peschereccio rosso e bianco era diventato un'ombra grigia. Tuttavia la nebbia che lo sferzava dava l'impressione che volasse su un mare agitato. La Stella Polare, che aveva aperto la strada, si era coperta di ghiaccio formato dalla neve pulita. L'Eagle, nella sua scia, si era ammantata di spruzzi salmastri che gelando erano diventati un ghiaccio grigio e avevano prodotto formazioni grottesche come stalattiti, quasi cristallizzate dall'abbassarsi della temperatura. Il ghiaccio pareva scendere in cascate dalla scaletta della timoneria e defluire dagli ombrinali. I ghiaccioli che grondavano dalle frisate erano radicati nella banchisa. Coletti era fuori dalla timoneria e, con la fiamma ossidrica, fondeva il ghiaccio intorno alla finestra. La fiamma gli illuminava la faccia olivastra. La luce nel ponte di comando era fioca come quella di una candela, ma Arkady scorse una figura sulla poltroncina del capitano. Ridley staccava a martellate il ghiaccio dalle grappe dell'albero dell'antenna radio. In cima all'albero i dipoli erano spariti e le
antenne a frusta erano piegate a 90 gradi. Il ghiaccio ne pendeva come sartiame lacero: il massimo che Morgan poteva ricevere era qualche scarica. La nebbia si spostò e nascose di nuovo l'Eagle. Non l'avevano visto. Arkady cominciò ad avviarsi verso la poppa. Di quanto precedeva Marchuk? Dieci passi? Venti? Il rumore avrebbe attirato anche il comandante. Arkady vide la rampa di poppa quando stava quasi per salirvi. C'era una rete avvolta sull'argano, in alto, e le striscioline di plastica nera e arancio erano trasformate in un sudario di ghiaccio opaco. La nebbia investiva il battello con tanta forza da lasciare una scia spettrale, un tunnel scuro in fondo al quale Marchuk era già visibile. Comunque il comandante non poteva più rimandarlo indietro. Tutto andava nel modo dovuto. Quando la figura che lo seguiva si staccò più chiaramente dalla nebbia, Arkady vide che la barba era in realtà un maglione rialzato fino a coprire la bocca. Quando fu più vicino, Karp abbassò il maglione. Era meglio equipaggiato di Arkady: aveva gli occhiali neri e stivali siberiani di feltro. In una mano stringeva una scure. Per un momento Arkady esaminò le alternative possibili. Doveva correre fino al Polo Nord? Oppure tentare di raggiungere le Hawaii? La rampa dell'Eagle era bassa ma sdrucciolevole, e Arkady vi si issò sullo stomaco. Sul ponte, pesci e granchi erano cementati nel ghiaccio. C'erano frange di ghiaccioli. Lassù, nella nebbia, sull'albero, Ridley aveva raggiunto la barra del radar, racchiusa in un involucro bianco di ghiaccio. I capelli lunghi e la barba del pescatore erano coperti dalla brina formata dall'alito. Con l'attenzione di un orafo, incominciò a battere per liberare la barra. Arkady calcolò che la distanza dalla rampa alla timoneria era di quindici metri: ma quelli più esposti erano i primi cinque, fino al ponte di riparo lungo la fiancata. Karp si stava avvicinando. Portava la scure come un'ala di scorta, e sembrava planare sul ghiaccio. 30 Arkady copri correndo i pochi passi che lo portarono all'ombra del ponte di riparo. Non vedeva più il ponte di comando, ma neppure chi era là poteva vedere lui. Più indietro, Karp salì la rampa con il passo sicuro del lupo di mare. Arkady si insinuò nella timoneria passando da una wet-room che si apri-
va sulla cambusa dell'Eagle. Si tolse gli occhiali nel vedere la luce fioca che filtrava attraverso due oblò incrostati di ghiaccio: era come aggirarsi nella semioscurità di una nave naufragata sul fondo. C'era una panca intorno a un tavolo, con cuscini antiscivolo. Pentole e tegami erano appoggiati alle ringhierine sopra la cucina. Verso prua c'erano le porte di due cabine e la scaletta che portava in alto al ponte di comando e in basso alla sala macchine. Nella cabina di babordo c'erano due cuccette, anche se soltanto quella inferiore aveva l'aria di venire usata. Arkady si accorse subito che non c'era un guardaroba di tipo sovietico dove sarebbe stato possibile nascondere un corpo. Alla paratia era appesa una panoplia per fucili, ed era vuota. Tastò sotto il materasso in cerca di una pistola, un coltello, qualcosa. Sotto il cuscino sporco c'era una rivista con donne nude. Sotto la cuccetta c'era un cassetto pieno di indumenti sporchi, altre riviste di donne nude, di armi e di tattiche di sopravvivenza; un calzettone con un rotolo di biglietti da cento dollari; una pietra per affilare piuttosto consumata; una stecca di sigarette, e una scatola vuota di cartucce per doppietta. «Coletti» mormorò Karp mentre entrava. Sembrava un boscaiolo che si fosse avviato nella taiga per abbattere gli alberi. Non portava una giacca imbottita né un giubbotto salvagente, ma soltanto due maglioni, guanti pesanti, stivali, berretto e occhiali scuri rialzati sulla fronte. Non aveva neppure il fiato corto. «Mi hai reso il compito più semplice» disse. «Sbarazzarmi di te sulla nave era un po' difficile. Qui puoi sparire, e nessuno saprà mai che mi sono neppure allontanato.» La scure proveniva con ogni probabilità dall'ampio assortimento dell'attrezzatura antincendio custodita sul ponte delle scialuppe della Stella Polare, e Arkady sospettava che Karp l'avesse portata per una ragione pratica: sfondare il ghiaccio e sbarazzarsi d'un cadavere. Come al solito, il piano del capopesca aveva il pregio della semplicità. Dall'esterno giungevano i suoni della battaglia contro il ghiaccio: sembravano i colpi di maglio di una fonderia. Gli americani non si erano ancora accorti che a bordo c'era qualcun altro. «Perché sei venuto qui?» chiese Karp. «Per cercare tracce di Zina.» Nella tasca della giacca di Arkady c'era una pistola lanciarazzi: sarebbe stato un lampo accecante in una cabina così piccola. Quando Arkady mosse la mano, Karp gliela spostò con un colpo della scure.
«Un'altra indagine?» «No, è una faccenda solo mia. Non lo sa nessun altro. Non interessa a nessuno, oltre a me.» Il polso di Arkady era intorpidito dalla botta con la scure. Era come trovarsi con le spalle al muro di fronte a un lupo, pensò. Karp disse: «Quando muore qualcuno, di solito accusi me». «Sei rimasto sorpreso quando l'hai vista dentro la rete. Avresti potuto rovesciarla insieme al pescato in modo che nessuno la notasse, e buttarla in mare più tardi. Invece hai tagliato la rete per tirarla fuori. Non sapevi. Non lo sapevi neppure ieri sera sulla rampa.» Con noncuranza, Karp allontanò di nuovo la mano di Arkady dalla tasca. Non era giusto, morire così impotente; tuttavia il panico gli stava disattivando il cervello. «Tu cerchi di prendere tempo» disse Karp. Arkady era troppo spaventato per farlo. «Non vuoi sapere chi l'ha ammazzata?» chiese. Adesso si, stava cercando di guadagnare tempo. «Perché dovrei?» «L'avevi portata a bordo tu» disse Arkady. «Dovevo essere più furbo, a Mosca. Per molto tempo non ho capito neppure come mai Zina era riuscita a farsi assegnare alla Stella Polare. Era intervenuto Slava, naturalmente. Ma chi l'aveva indicato a Zina mentre navigava nella baia? Chi aveva già fatto un viaggio con Slava?» «Un equipaggio intero.» «Ma soltanto tre si sono imbarcati sulla Stella Polare: Marchuk, tu e Pavel. E tu l'avevi visto dal molo.» «Il figlio di papà sulla barchetta. Solo grazie al padre ha potuto sistemarsi su una nave vera.» «Con Slava, Zina aveva fatto la parte dell'innocentina. Per questo non l'aveva mai portato nel tuo appartamento.» Karp si tolse gli occhiali da sole. «Sapevi che era il mio?» «Un uomo con molti quattrini, pistole e fucili, e il coraggio di trafficare con la droga.» Arkady parlava in fretta: era meraviglioso, l'effetto che l'adrenalina aveva sulla capacità di sommare due più due. «L'unico uomo a bordo della Stella Polare che corrisponda alla descrizione sei tu. Dato che Zina guadagnava bene al Corno d'Oro, si sarebbe imbarcata soltanto per qualcosa di meglio dei rubli. A bordo stavate lontani uno dall'altra, ma non quanto affermavi tu. Hai detto che non la vedevi mai se non alla mensa; ma ogni volta che l'Eagle portava un carico di pesce la vedevi sul ponte di poppa. Prima ancora che conoscesse qualche uomo di qualche battello, era
al parapetto ad aspettare l'Eagle. Era ai tuoi ordini.» «Questo è vero» ammise Karp con orgoglio. «Non sei poi tanto stupido.» Arkady pensava agli americani che stavano lassù, circondati dalle scariche della radio, e martellavano sul ghiaccio. Lui e Karp parlavano a voce bassa come cospiratori. Nessuno sapeva che erano a bordo. «La paura di Volovoi» disse Arkady. «L'ossessione della sua esistenza era il contrabbando. Doveva per forza esaminare tutti i pacchi, persino quelli lanciati da un battello sovietico a un altro. Qual è la parola d'ordine?» «Vigilanza.» Karp sorrise controvoglia. Sollevò la scure e l'appoggiò sulla spalla. «Tieni le mani bene in vista.» «L'unica cosa che Volovoi non poteva fermare era la rete che andava avanti e indietro. Come facevi a sapere quando stava per arrivare un pacchetto?» «È molto semplice» disse Karp. «Ridley agitava le braccia, se avevano qualcosa da consegnare oltre al pesce, e se invece non avevano niente le agitava Coletti. A me bastava guardare dove stava Zina al parapetto: a dritta o a sinistra. Poi dicevo agli uomini sulla rampa che la rete sembrava pesante oppure no.» «E se era sì, dovevano trovare un pacchetto impermeabile fissato alla cima della rete?» «Sei molto acuto. Pavel lo staccava e lo infilava nel giubbotto salvagente. Poi Zina faceva un segnale, se noi mandavamo un pacco a loro. Renko, a cosa serve? Non te ne andrai vivo.» «Quando non te ne preoccupi più, puoi imparare molte cose.» «Già.» Karp riconobbe la validità del concetto. «E m'interessa Zina» soggiunse Arkady. «Gli uomini erano sempre interessati a Zina. Era come una regina.» Karp girò lo sguardo in direzione del coro dei martelli sul ponte, poi lo riabbassò. Arkady non aveva mai visto due occhi così attenti. «Avresti potuto raggiungermi sul ghiaccio?» chiese. «Se avessi voluto.» «Avresti potuto uccidermi un minuto o dieci minuti fa?» «Sicuro.» «Allora anche tu vuoi sapere cos'è successo a Zina.» «Voglio solo sapere cosa intendevi ieri sera sulla rampa, quando hai detto che Zina era stata buttata in acqua.»
«Semplice curiosità.» Karp aveva l'immobilità metallica d'una statua. Dopo un lungo silenzio disse: «Continua, compagno investigatore. Zina era andata al ballo...». «C'era andata e aveva flirtato con Mike, ma non l'ha salutato quando lui si è ritrasferito sull'Eagle perché era andata sul ponte di poppa quarantacinque minuti prima. Là è stata vista da Marchuk, Lidia e Susan. Mezz'ora prima che Mike si ritrasferisse, nessuno ha più avuto modo di vedere Zina sulla Stella Polare. E quando lui è tornato sull'Eagle, era già morta.» Arkady estrasse lentamente dalla giacca un pezzo di carta e lo aprì perché Karp lo vedesse. Era una copia del referto di Vainu. «È stata uccisa da un colpo all'occipite. Le è stata inferta una coltellata all'addome perché non galleggiasse. È stata nascosta in qualche posto a bordo di questo peschereccio, piegata su se stessa e infilata in uno spazio ristretto che le ha lasciato segni regolari sul fianco. Ecco cosa sono venuto a cercare: quel nascondiglio. Un guardaroba, uno sgabuzzino, una stiva, un bidone.» «È un pezzo di carta.» Karp respinse il foglio. «Quel posto è qui o non c'è. Devo guardare nell'altra cabina» disse Arkady, ma non osò muoversi. Karp rigirò pensosamente il manico della scure. La lama luccicò come una moneta. Karp aprì la porta con uno spintone. «Guarderemo insieme.» Mentre attraversavano la cambusa, Arkady sentì i martelli che sferravano colpi potenti come se gli americani cercassero di aprirsi un varco per tornare a casa. Sentiva la scure puntata contro la schiena e il sudore che gli colava lungo la spina dorsale. Karp lo sospinse nella cabina di tribordo. Sulla cuccetta c'era una vera coperta. Un ripiano con la ringhierina conteneva libri di filosofia, elettronica e meccanica dei motori diesel. Alla paratia erano appese una fondina e la foto di un uomo che mostrava la lingua. L'uomo era Einstein. «Ridley» mormorò Arkady. «Zina è sparita dalla Stella Polare... e poi?» chiese Karp. «Ricorda: le avevi indicato Slava mentre navigava sulla barca a vela.» Arkady parlava più in fretta. Il cassetto della cuccetta di Ridley conteneva indumenti puliti e piegati con cura, cinturini di cuoio per i polsi e orecchini d'argento a borchia; foto di Ridley che sciava in compagnia di due donne e brindava con una terza; volumi di preghiere indiane; un mazzo di carte; un gioco di scacchi elettronico; una spilla con la figura di Minnie. Arkady prese le carte, le fece scorrere e le sparse sulla cuccetta. «Volevo che s'imbarcasse sulla nave, e Bukovsky era bene ammaniglia-
to. E allora?» «A Zina piaceva fare visita agli uomini sulle loro barche, e per una nuotatrice come lei doveva sembrare uno scherzo arrivare in poche bracciate all'Eagle mentre era attraccata alla Stella Polare. È scesa in acqua dalla rampa di poppa, con la cuffia per doccia di madame Malzeva in testa, e le scarpe e gli abiti di ricambio in un sacco di plastica nera legato a un polso. Probabilmente dal parapetto era invisibile.» «Perché avrebbe dovuto farlo?» «Era il suo metodo. Passava da uomo a uomo e da barca a barca.» «No, questo non risponde alla mia domanda» disse Karp. «Non avrebbe corso un rischio simile solo per una visita. Dunque, compagno investigatore, perché avrebbe dovuto farlo?» «Anch'io mi sono posto la stessa domanda.» «E allora?» «Non lo so.» Karp usò la scure come una mano per spingere Arkady contro la paratia. «Vedi, Renko, hai proprio sbagliato quando hai detto che Zina mi avrebbe lasciato.» «Andava a letto con altri uomini.» «Per servirsi di loro. Non aveva importanza. Ma gli americani erano soci. Era diverso.» «Era qui.» «Adesso che mi guardo intorno non vedo nessun posto dove potrebbero averla messa. Non ci sono tracce.» Karp diede un'occhiata al cassetto aperto. «Se speravi di trovare una pistola, scordalo. Su questa barca tutti portano sempre un'arma addosso.» «Dobbiamo continuare a cercare» disse Arkady. Ricordava quando aveva lottato con il capopesca: l'ultimo posto dove poteva desiderare di tentare di schivare una scure era una cabina così piccola. Karp rivolse l'attenzione alle carte da gioco sparse sulla cuccetta. Continuò a tenere alta la scure, e le esaminò. «Non muoverti» intimò. Posò la scure per prenderle e passarle meticolosamente in rassegna, una a una. Quando ebbe terminato ricompose il mazzo e lo rimise nel cassetto. Gli occhi porcini rimpicciolirono nel viso mesto e sbiancato dall'amore. Per un momento, Arkady pensò che Karp sarebbe stramazzato sul pavimento. Invece riprese la scure e disse: «Cominciamo dalla sala macchine». Quando aprì la porta della cambusa, sopra di loro incominciò un altro furioso assalto contro il ghiaccio. Il capopesca alzò distrattamente gli occhi
come se fosse il suono di un acquazzone. I due motori diesel dell'Eagle vibravano sui letti d'acciaio: uno principale a sei cilindri e un ausiliario a quattro. Era il regno di Ridley, quel vano caldo sotto il ponte dove bisognava manovrare per girare intorno a pulegge e contralberi, generatori e pompe idrauliche, valvole e condutture. I tubi bassi, le protezioni delle cinghie e le altre cose pericolose erano dipinti di rosso. Fra i motori si passava camminando su lastre metalliche zigrinate. Mentre Karp si aggirava di qua e di là, Arkady si portò nel vano di prua, un laboratorio per riparazioni con utensili, cinghie appese, un tavolo con una morsa e una filettatrice, un porta-attrezzi con seghe e trapani. C'era anche quella che sembrava la porta di una cella frigorifera: però, dato che l'Eagle consegnava il pescato alla Stella Polare, perché mai ne avrebbe avuto bisogno? Quando aprì la porta, fu costretto a ridere. Fino all'altezza della vita di un uomo erano accatastati i pani resinosi, color mogano, di canapa della Manciuria, l'anasha. Bene, era così che funzionavano le grandi società. Dato che il rublo non era valuta pregiata e convertibile, gli affari internazionali si erano sempre conclusi a mezzo di baratti. Gas naturale sovietico, petrolio sovietico... perché non anasha sovietico? Nella parte più stretta della cella frigorifera c'erano un tavolo e una sedia, cuffia e oscilloscopio, amplificatore ed equalizzatore, doppia console e uno schedario di floppy disks. Era più o meno come la stazione di Hess, ma l'hardware era più lucido e compatto, e aveva nomi come EDO e Raytheon. E sotto il tavolo, inevitabilmente, c'era una cupoletta di fibra di vetro. Arkady prese un dischetto dello schedario. L'etichetta diceva "Menu Bering. SSBN-Los Angeles, USS Sawtooth, USS Patrick Henry, USS Manwaring, USS Ojai, USS Roger Owen". Diede un'occhiata agli altri dischetti. Le etichette dicevano: "SSBN-Ohio", "SSGN", "SSN". Sulla tavola c'era una cartelletta con un foglio diviso in colonne che elencavano "Data", "Natante", "Posizione", "Ora della trasmissione", "Durata". L'ultima trasmissione era stata quella del Roger Owen, due giorni prima. Arkady aprì il cassetto. C'era un assortimento di manuali e di schemi. Li sfogliò: "Simulatore acustico..." "Cavo da rimorchio ricoperto di polietilene con sezione acustica e modulo isolato..." "Il tamburo dell'argano attraversa assialmente..." C'era un volume con la dicitura in rosso: "Non deve essere asportato da questo ufficio". Il titolo era "Assegnati alla Riserva, Depennati, Smantellati... 1.1.83". Alla voce "sottomarini", Arkady scopri che il Roger Owen era stato demolito un anno prima, e che l'USS Manwaring e
l'USS Ojai erano stati tolti dal servizio. Si andava profilando uno scherzo magnifico. Le apparecchiature elettroniche erano simili a quelle di Hess, ma con una differenza. All'estremità del cavo di Morgan non c'era un idrofono per ascoltare: c'era un trasmettitore acustico impermeabile che emetteva suoni. I dischetti erano registratori, e tutti i sottomarini che vi figuravano erano stati depennati o demoliti. Morgan ed Hess giravano nel Mare di Bering: una spia lanciava segnali falsi che l'altra spia raccoglieva trionfalmente. Hess doveva essersi convinto che i sommergibili americani fossero numerosi quanto i pesci. Arkady rimise a posto il volume ma intascò i dischetti. Karp, in sala macchine, non gli prestava attenzione come se ciò che faceva Arkady a quel punto non avesse la minima importanza. Tornarono insieme nell'umidità intermedia della wet-room, fra gli impermeabili appesi e gli stivali, quindi uscirono di nuovo. Sotto il ponte di riparo c'erano rotoli di rete merlettati di ghiaccio, sacchi di boe, un banco per saldature con la morsa, ripostigli e bidoni pieni di pale e grappini. Il martellare, sopra le loro teste, era intermittente; ma ormai nulla avrebbe potuto fermare Karp. L'Eagle aveva stive per il pescato che non aveva mai usato da quando aveva cominciato a consegnare le reti piene alle navifattoria. Con la scure, il capopesca cominciò a scalpellare il ghiaccio che copriva i boccaporti. Il ghiaccio si spaccava e volava via in lampi iridescenti. Dovette usare un grappino per sollevare la botola. E dopo tanta fatica, la stiva era vuota. Arkady si occupò dei ripostigli sotto il ponte di riparo. Tolse dal primo cime e blocchi; dal secondo, gambali di gomma, guanti, tute d'incerata strappate, teloni impermeabili. In precedenza il ripostiglio doveva aver contenuto cavi metallici, perché sul fondo c'era un miscuglio di lubrificante e di ruggine. Una bara. Vedeva chiaramente i segni dove erano rimasti appoggiati le ginocchia e gli avambracci di Zina. Lungo una parete c'era una fila di sei dadi sporgenti, distanziati di cinque centimetri l'uno dall'altro, che le avevano lasciato i segni sui fianchi. «Vieni a vedere» bisbigliò Arkady. Karp si chinò e si rialzò tenendo fra le dita un ciuffo di capelli biondi con le radici scure. Quando Arkady tese la mano per prenderlo, sentì qualcosa sfiorargli la nuca. «Cosa ci fate qui?» Ridley premette con maggior fermezza la canna fredda della pistola contro la testa di Arkady mentre Coletti entrava con una doppietta.
«È una visita non ufficiale?» Morgan era a metà della scaletta della timoneria. Ridley e Coletti sembravano gonfiati dai giubbotti imbottiti che indossavano sotto le tute impermeabili. Le mani sinistre, calzate di guanti pesanti, erano enormi; le mani destre erano nude perché gli indici potessero posarsi sui grilletti. Le bocche erano screpolate e coperte dalla brina formata dall'alito, le facce erano in armonia con un peschereccio drappeggiato di bianco. Morgan, invece, con il giubbotto di piumino e il berretto, sembrava giunto da un clima diverso. A parte gli occhi, che avevano sfaccettature cristalline come il ghiaccio. Portava appesa alla spalla una tozza arma automatica militare, con il caricatore più lungo della canna. «Cercate la vodka?» chiese Morgan. «Qui non ne troverete.» «Ci ha mandati la Stella Polare» disse Arkady. «Probabilmente il comandante Marchuk apprezzerebbe una chiamata che l'avvertisse che ce l'abbiamo fatta ad arrivare.» Morgan indicò l'albero. Nonostante le fatiche di Ridley, la barra del radar era ancora bloccata, le antenne piegate e inguainate nel ghiaccio. «Le nostre radio non funzionano. E poi, voi due non avete l'aria di una squadra di soccorso ufficiale.» «Eravamo qui a crepare assiderati per sghiacciare questa bagnarola, abbiamo sentito martellare sul ponte, siamo venuti e vi abbiamo trovati a frugare fra la nostra roba come due barboni. Sai cosa significa "barbone"?» Ridley premette più forte la canna della pistola contro la nuca di Arkady. «Credo di sì.» «Ho l'impressione» disse Morgan, «che sulla Stella Polare nessuno sappia che ve ne siete andati. E se anche lo sanno, non hanno modo di sapere che tu e il capopesca siete arrivati da noi. Cosa stavate cercando?» «Zina» disse Arkady. «Ancora?» chiese il capitano. «E stavolta l'abbiamo trovata, o almeno abbiamo trovato l'unica prova della sua presenza a bordo.» «Cioè?» «Una ciocca di capelli. Ho prelevato un campione della morchia sul fondo di questo ripostiglio, e credo sia la stessa delle macchie sui suoi calzoni. Naturalmente preferirei portarmi via il ripostiglio intero.» «Naturalmente» disse Morgan. «Bene, ripuliremo il ripostiglio prima che torniate alla Stella Polare. In quanto ai capelli, avreste potuto procurarveli chissà dove.»
La sola cosa che Arkady riusciva a vedere dell'arma di Ridley era il tamburo di una grossa pistola, una pistola da cowboy. Il fatto che gliela puntasse alla nuca ricordava il modo in cui erano stati uccisi Mike e Zina: ma chi li aveva eliminati era un artista del coltello. Karp non accennava ad aiutarlo; stava immobile e inseguiva con gli occhi, disperatamente, un dialogo che sembrava non capire. Il grappino gli pendeva dalla mano. «Considera la situazione» disse Ridley a Morgan. «Noi abbiamo molto da perdere, e anche tu hai molto da perdere.» «Stai alludendo all'anasha?» chiese Arkady. Ridley tacque per un momento, poi disse a Coletti: «Sono stati là sotto». «E a questo punto io mi dissocio» disse Morgan a Ridley. «Non vi permetterò di uccidere qualcuno davanti a me.» «Mio caro capitano» disse Ridley che dominava la scena come al solito. «Siamo intrappolati in questo fottutissimo ghiaccio. Se Renko torna indietro e riferisce quello che ha visto, ti troverai qui altri cinquanta sovietici molto incuriositi. È una questione che riguarda la sicurezza nazionale, giusto?» «Voi pensate solo a proteggere la vostra droga» disse Morgan. «Anch'io sono capace di passare alle insinuazioni personali» rispose Ridley. «A Dutch Harbor, Renko si stava sbattendo la tua donna. Te l'ha portata via sotto il naso. E probabilmente da allora continua a sbatterla sulla Stella Polare.» Morgan guardò Arkady. Il momento per la smentita venne e passò. «Cosa ne dici?» insistette Ridley. «Bene! Capitano, adesso hai intenzione di lasciarlo tornare alla base?» «Ecco la differenza tra me e te» disse Morgan. «Io sono un professionista e tu sei un piccolo delinquente avido.» «Anche noi abbiamo diritto alla nostra parte.» Arkady chiese: «Perché non avete scaricato l'anasha a Dutch Harbor?». «Mike era pazzo di Zina» disse Ridley. «Aveva spifferato tutto al capitano. Poi, dopo che lui è morto, con tutti quegli aleutini che ci tenevano d'occhio, non vedevamo l'ora di lasciare il porto. Scaricheremo poi, sul continente.» Ridley si girò verso Morgan. «Giusto, capitano? Abbiamo interessi diversi, certuni razionali, certuni puramente patriottici. La questione è...» continuò, e passò al russo per parlare a Karp. «Tu di che squadra sei? Sei il socio di Renko, o sei il nostro?» «Parli il russo» osservò Arkady. «Meglio dell'esperanto» rispose Ridley.
«Ho seguito Renko per sbarazzarmi di lui» disse Karp. «E allora fallo» disse Ridley. «Lascia andare Renko» ordinò Morgan. Ridley sospirò e chiese a Coletti: «Chi ha voglia di sentire queste prediche stronze del capitano Bligh?». Arkady rimase sbalordito dalla fulminea reazione di Morgan. Coletti si voltò, prese la mira e sparò, ma colpì soltanto una finestra accanto alla scala mentre Morgan balzava via. Ma, finché Morgan era ancora a mezz'aria, Coletti sparò dalla seconda canna. Il giubbotto esplose. Il capitano piombò sul ponte, coperto di piume e di sangue. «Come una fottutissima anitra.» Coletti aprì la doppietta e caricò una cartuccia. Morgan si contorceva contro il verricello per cercare di alzarsi e prendere l'arma automatica che era finita sotto di lui. La spalla destra e l'orecchio sembravano una poltiglia rossa. La mascella era impallinata. «Tocca a te» disse Ridley a Karp. «Volevi Renko? Fallo fuori.» «Chi ha ucciso Zina?» chiese Karp. Coletti stava accanto a Morgan e gli puntava la doppietta alla testa. Ma si fermò nel sentire la voce di Karp. «Renko ci ha detto che è annegata» disse Ridley. «Sappiamo che Zina è stata qui» disse Arkady. «Al ballo avevi finto di essere sbronzo. Sei tornato presto a bordo dell'Eagle e hai aspettato che arrivasse a nuoto.» «No» disse Ridley. «Ero sbronzo. L'ho già spiegato.» «Zina ti ha seguito» disse Arkady. «Abbiamo trovato i segni e i suoi capelli. Non c'è dubbio che sia stata qui.» «E va bene, sono tornato e all'improvviso è comparsa a bordo.» Benché Ridley fosse dietro di lui, Arkady sentiva la pistola tremare. «Senti, Karp, tutto dipendeva dal fatto che ognuno di noi si comportasse in modo normale e restasse al suo posto: gli americani qui, i sovietici là, una vera joint venture.» «Zina era molto piacente» disse Arkady. «Chi l'ha uccisa?» ripeté Karp. Coletti sollevò la doppietta che teneva puntata contro Morgan. «Nessuno» disse Ridley. «Zina è saltata fuori con un piano pazzesco. Aveva il sacchetto di plastica e voleva portarsi via una delle nostre tute per sopravvivenza, per poterla mettere la volta successiva, quando si sarebbe calata in acqua. Una pazzia. Aveva intenzione di buttarsi mentre eravamo
lontani: poi avremmo dovuto raccoglierla a distanza di molte miglia dalla Stella Polare. Diceva che l'avrebbero data per morta, se non gli fosse mancato niente dell'attrezzatura da salvataggio.» «Sono sicuro che avete ottime tute per sopravvivenza.» Arkady non poteva fare a meno di ammirare il piano di Zina. Era venuta sull'Eagle per quello, naturalmente. «Poteva anche funzionare.» «Karp, mi considero responsabile» disse Ridley. «Le ho risposto che era la tua ragazza e che avrebbe dovuto tornare alla Stella Polare com'era venuta. Immagino che non ce l'abbia fatta.» «Ti manca una carta» disse Karp. Ridley esitò. «Mi manca una carta?» «La regina di cuori» disse Karp. «Zina se le faceva dare dai suoi amanti.» Coletti era esasperato. «Di cosa cavolo sta parlando Karp?» «Non lo so, ma credo che abbiamo un altro socio che non va» disse Ridley. «Tieni sotto tiro quello scimmione.» Allontanò la pistola dalla testa di Arkady. «Meglio risparmiare i proiettili.» Estrasse dalla tuta una piccozza da ghiaccio. Quando Arkady tentò di girarsi, Ridley gliela piantò nel petto. La violenza del colpo lo fece cadere sulla tolda. Finì seduto contro il ripostiglio e infilò la mano nella giacca. Ridley si rivolse a Karp. «Zina mi aveva sedotto. Chi poteva resisterle dopo quattro mesi in mare? Ma... ricattarmi perché l'aiutassi a defezionare?» Alzò l'arma. «Voi vivete in un mondo diverso. Un mondo fottutamente diverso.» Arkady sparò con la lanciarazzi. Aveva puntato alla schiena di Ridley, ma il razzo rimbalzò contro il berretto dell'ufficiale di macchina e lo fece divampare come un fiammifero. Ridley si strappò dalla testa il berretto incendiato. Nel momento in cui si voltava di scatto verso Arkady, un ragno nero gli volò sopra la spalla e gli si distese sulla faccia. Era il grappino che il capopesca aveva tenuto nella mano. Una delle punte affondò nella guancia, un'altra nell'orecchio. Karp avvolse la sagola intorno al collo di Ridley, togliendogli l'aria per gridare. Coletti cercò di prendere la mira, ma Karp e l'ufficiale di macchina erano troppo vicini. Karp avvolse la sagola intorno a Ridley come se legasse le doghe di una botte. Ridley sparò due volte con la pistola da cowboy, senza colpire nessuno. La terza volta il cane batté a vuoto. Strabuzzò gli occhi e lasciò cadere la pistola.
«Gesù Cristo» disse Coletti. Arkady si liberò della piccozza. La punta era rossa di sangue, ma il resto era affondato nei due giubbotti salvagente. «Ti è rimasta una sola cartuccia.» Morgan indicò la doppietta di Coletti. Era finalmente riuscito a impugnare la sua arma automatica e adesso la teneva puntata contro il marinaio. Ridley si dibatté mentre Karp lo strattonava indietro, lungo la frisata, spezzando i ghiaccioli che tintinnavano come sonagli. A volte un peschereccio prendeva un halibut, un pesce che era grande il doppio di un uomo e si divincolava come un uomo, e bisognava ucciderlo al più presto possibile piantandogli uno spuntone acuminato nel cervello. Con le braccia legate strette, Ridley sembrava un po' un pesce tirato in secco, anche se Karp non si decideva a finirlo. Arkady si rialzò. «Dove sono la giacca e il sacchetto di Zina?» «Li abbiamo buttati in mare molto tempo fa» rispose Coletti. «Nessuno li troverà mai. Voglio dire, quante probabilità c'erano che venisse a galla dentro una fottutissima rete?» «Ridley ha ucciso Zina. Ha ucciso anche Mike?» chiese Arkady. «Non sono stato io. Ero al bar. Ho i testimoni» disse Coletti. «Che importanza ha?» «Vorrei essere assolutamente certo.» Karp lanciò l'estremità libera della sagola quattro metri più in alto, al di sopra della gru di poppa, l'afferrò mentre discendeva e cominciò a issare Ridley. L'ufficiale di macchina era robusto, la sagola slittava senza attrito sulla superficie ghiacciata. Adesso aveva smesso di scalciare. «Come va?» chiese Arkady a Morgan. «Niente di rotto. Ho morfina e penicillina.» Morgan sputò sul ponte, una pioggia di perline di saliva. «Sono pallini d'acciaio. Meno peggio del piombo.» «Davvero?» Arkady ricordava che Susan aveva definito Morgan invulnerabile. Forse non era impenetrabile, pensò, ma abbastanza invulnerabile. «Neppure un superuomo può governare un peschereccio con un braccio solo.» «Io e il capitano troveremo una soluzione.» La faccia di Coletti aveva tutta la tensione di chi sta cercando di fare nuove valutazioni. «Posso dirti una cosa: ho più probabilità di te. Fin dove credi che ti lascerà arrivare Karp?» Karp legò la sagola intorno alle leve idrauliche della gru, in modo che
Ridley ondeggiasse sospeso. La testa sembrava svitarsi dalle spalle, da est a ovest. «Siamo su un peschereccio americano in acque americane» disse Morgan. «Non ha nessuna prova, per la precisione.» Quando Karp si scostò di un passo dalla gru, Coletti alzò la doppietta. «Ho ancora una cartuccia» disse ad Arkady. «Portati via quello psicopatico.» Karp squadrò Coletti, per calcolare la distanza e la possibilità di schivare una rosa di pallini. Ma il fuoco che l'aveva animato sembrava spento. Arkady lo raggiunse. «E adesso sai la verità.» «Renko» chiamò Morgan. «Sì, Morgan?» «Torni indietro» disse Morgan. «Rimetterò in funzione le radio e dirò a Marchuk che la situazione è sotto controllo.» Rispettosamente, Arkady girò lo sguardo sul peschereccio coperto di ghiaccio, la finestra sfondata, il berretto di Ridley che fumava ancora sulla tolda, e lo stesso Ridley che penzolava dalla gru. «Bene» disse. «Allora può dire al comandante Marchuk che stanno per tornare due dei suoi pescatori.» 31 Arkady tirò fuori le sigarette di Slezko e le offri a Karp. La marcia aveva l'apparenza della passeggiata. «Conosci la canzone Ginger Moll?» chiese Karp. «Sì.» «"Perché ti sei depilata le sopracciglia, sgualdrina? E perché hai messo il berretto azzurro, puttana?"» La voce tenorile di Karp si levò nell'aria, un po' roca. «Ecco, eravamo io e Zina. Mi trattava come uno straccio. "Sai che sono pazzo di te, sarei felice di passare tutto il tempo a rubare per te, ma da un po' stai esagerando."» «Ho sentito le tue canzoni in un suo nastro.» «Le mie canzoni le piacevano. Ci siamo conosciuti così. Ero andato al Corno d'Oro, una tavolata di amici. Cantavamo e ci divertivamo, e ho visto che ci guardava e ascoltava dall'altra parte del ristorante. Mi sono detto: "Quella è per me!" Una settimana dopo è venuta a stare nel mio appartamento. Andava a letto con chi capitava, ma per lei non aveva importanza, quindi come potevo essere geloso? Agiva al di fuori di ogni regola. Aveva
un solo punto debole, la sua fissazione per l'Occidente: lo vedeva come un paradiso. Era il suo unico difetto.» «Ho trovato una giacca con una quantità di gemme cucite nell'orlo.» «Le gemme le piacevano» ammise Karp. «Ma poi l'ho vista conquistare la Stella Polare. Per quanto fossi disposto a pagare, non sarei riuscito a farla accettare a bordo. Poi abbiamo scoperto Slava, e Zina se l'è sbrigata con Marchuk. Quando abbiamo lasciato il porto, si è fatta strada a modo suo. Se ti avesse voluto, avrebbe potuto averti.» «In un certo senso è stato così.» Arkady pensò alle registrazioni. Secondo la bussola procedevano in linea retta verso la Stella Polare. La nebbia causava un effetto strano: sembrava che non guadagnassero terreno. A ogni passo erano circondati dalla stessa periferia di nebbia accecante, come se fingessero soltanto di camminare. Il dolore sordo s'era diffuso dal petto di Arkady al resto del corpo. Viva il tabacco, sedativo dei poveri. Morgan poteva comunicare via radio a Marchuk che stavano ritornando due uomini: ma chi poteva provare che uno di loro non aveva perso l'orientamento, o incontrato un orso, o aveva messo i piedi sul ghiaccio molle ed era sparito dalla faccia scintillante della terra? «Hai conosciuto Ridley quando ha passato quelle due settimane a bordo della Stella Polare?» chiese Arkady. «La seconda settimana mi ha detto: "La religione è l'oppio dei popoli". L'ha detto in russo. Poi ha detto: "La cocaina è il grande affare delle masse". E allora ho capito. Quando sono tornato a Vladivostok, ho parlato a Zina di questa occasione fantastica, e ho detto che era un peccato che lei non potesse imbarcarsi. Invece ha trovato il sistema. Che cos'è il destino? Gli uccelli volano da un nido in Africa fino a un ramo a Mosca. Ogni inverno lo stesso nido, ogni estate lo stesso albero. È magnetismo? Riescono a capirlo dall'angolazione del sole? Tutte le anguille del mondo nascono nel Mar dei Sargassi; poi ognuna raggiunge il fiume predestinato, e a volte ci arriva dopo aver nuotato per anni. Zina era nata in Georgia: che cosa l'aveva condotta in Siberia e poi sul mare?» «Le stesse cose che mi hanno condotto a te» disse Arkady. «E cioè?» «Omicidio, denaro, avidità.» «Qualcosa di più» insistette Karp. «Un posto per respirare. In questo momento, io e te siamo più liberi di quanto potremmo mai essere. Morgan non denuncerà quanto è successo a Ridley: era pronto ad ammazzare anche
lui. Io ho buttato in mare quello che contrabbandavo. Finora non ho fatto niente di male.» «E Volovoi? Quando a Vladivostok vedranno che ha la gola tagliata, faranno parecchie domande.» «Cazzo! Non riesco a filare diritto neppure se voglio.» «Peccato.» Karp tirò una boccata dal mozzicone della sigaretta. «Leggi e regole» disse. «È come la linea blu che vedi sul muro a scuola. Una linea blu su uno schifoso muro intonacato. In ogni stanza, in ogni corridoio, in ogni scuola. Quando incominci, è al livello della spalla, e quando cresci scende alla cintura, ma c'è sempre. Voglio dire, sembra che esista in tutto il Paese. Nei campi di lavoro, stessa linea. Nell'ufficio della milizia, stessa linea. Sai dove si ferma? Io credo che si fermi a Irkutsk.» «Per me, a Norilsk.» «Più a est, niente linea. Forse siamo rimasti senza colore, o forse non si può dipingere la Siberia. Sai, quello che mi brucia di più è che Ridley fosse andato a letto con Zina. Lei prendeva sempre una carta da gioco, una regina di cuori, come trofeo. Hai visto le carte sulla cuccetta di Ridley? Ho controllato il mazzo. La regina di cuori non c'era. Così ho capito che era stata sull'Eagle.» Arkady rialzò la manica della giacca e porse una carta con una regina stilizzata, ammantata di cuori. «L'ho fatta sparire prima di spargere le carte» disse. «Carogna!» «Ce ne hai messo a capirlo.» «Bastardo spudorato.» Karp si fermò e fissò la carta con aria incredula. «Eri l'unico che credevo onesto.» «No» replicò Arkady. «Non lo sono quando mi trovo intrappolato in una cabina con un uomo armato di scure. Comunque è servito a qualcosa: abbiamo scoperto chi l'ha uccisa.» «È stato lo stesso uno sporco trucco.» Karp buttò via la carta. Ripresero a camminare. «Ricordi il direttore del mattatoio?» chiese Karp. «Le sue figlie avevano allevato una renna come animale da compagnia, e un giorno quella era finita nel recinto sbagliato, e le ragazze cominciarono a correre per cercarla in tutto il mattatoio. Era da ridere. Chi riesce a distinguere una renna morta da un'altra? Poco più tardi, una delle ragazze se ne andò. Era la più simpatica.» Davanti a loro, molto prima di quanto Arkady si aspettasse, e sempre più
nitido a ogni passo, c'era il foro che era servito alla foca per respirare. Sulla superficie sempre uguale, era una pozza nera con un cerchio di ghiaccio rosso, una frattura sorprendente nella nebbia. Karp incominciò a rallentare automaticamente e a guardarsi intorno. «Avremmo dovuto sbronzarci insieme, noi due.» Buttò il mozzicone in acqua. Anche Arkady buttò il suo. Inquinamento del Mare di Bering, pensò: un altro reato. «Morgan ha comunicato via radio alla Stella Polare che saremmo tornati in due» rammentò a Karp. «Ammesso che sia riuscito a rimettere in funzione la radio. Comunque, qui fuori è pericoloso. Una comunicazione non vuol dire niente.» Il foro era più rotondo di quanto ricordasse Arkady. Aveva un diametro di due metri appena, ma dava definizione alla nebbia. Un Polo dell'Inaccessibilità finalmente raggiunto. In parte il ghiaccio era intriso di sangue, in parte era tinto di rosa. L'acqua nera lo lambiva con schiaffetti ritmici. Là dentro, pensava Arkady, c'era un palpito che un uomo avrebbe potuto scoprire se fosse rimasto a osservare abbastanza a lungo. «La vita è merda» disse Karp. Con uno sgamoetto fece cadere Arkady, gli montò a cavalcioni sulla schiena e cominciò a torcergli il collo. Arkady rotolò su se stesso, avventò una gomitata contro la mascella del capopesca, e lo buttò riverso. «È un'eternità che continuo a cercare di ammazzarti» disse Karp. «E allora piantala.» «Ormai non posso» ribatté Karp. «Comunque, ho visto altri feriti come te. Credo che sia più grave di quanto immagini.» Lo colpì al petto, sulla ferita, e Arkady ebbe la sensazione che il polmone si fosse sgonfiato. Non riuscì a muoversi. Quando Karp sferrò un altro pugno, gli sembrò che tutta l'aria abbandonasse il suo corpo. Il capopesca lo girò, gli sedette addosso, gli schiacciò le spalle contro l'orlo del ghiaccio. «Mi dispiace» disse, e gli spinse sott'acqua la testa. Mille bollicine d'aria gli esplosero dalla bocca. Vide l'aria argentea nelle ciglia e nei capelli. L'acqua era incredibilmente fredda come ghiaccio fuso, pungente e salata ma trasparente, non nera, e ingrandiva l'immagine di Karp che si sporgeva in avanti per spingerlo sotto. Aveva davvero un'espressione di rincrescimento, come se celebrasse un battesimo sgradevole ma necessario. La mano di Arkady emerse dall'acqua, lo afferrò per il maglione e lo tirò giù. Nel momento in cui Karp indietreggiò, Arkady uscì dall'acqua stringen-
do con l'altra mano la piccozza da ghiaccio che Ridley aveva usato per ferirlo. Premette la punta insanguinata contro il collo di Karp, e gli torse la mascella all'indietro. Karp roteò gli occhi mentre cercava di spiare la piccozza. Perché non trafiggerlo? si chiese Arkady. Perché non premeva con tutto il suo peso, perché non perforava la vena e continuava a premere fino alle vertebre? Occhio per occhio... non era l'occasione ideale? Karp si rotolò sul fianco. Era illeso, a parte un graffio; ma sembrava che le forze l'avessero abbandonato, come se la gravità di tutta una vita gli fosse piombata all'improvviso sul petto. «Basta» disse. «Comunque morirai assiderato. Non ci vorrà molto» disse Karp. Era seduto accanto all'acqua, a gambe incrociate, e si rilassava con una sigaretta in bocca, come un siberiano perfettamente a suo agio. «Hai la giacca fradicia. Diventerai un blocco di ghiaccio ambulante.» «Allora muoviti» ingiunse Arkady. Era già difficile stabilire che cosa fosse peggio: il dolore sordo della ferita o i tremiti del freddo. «Stavo pensando.» Karp non si mosse. «Come pensi che sarebbe stata la vita per Zina se ce l'avesse fatta? È una di quelle cose sulle quali potresti passare il resto della vita a meditare. Hai mai conosciuto qualcuno che sia passato dall'altra parte?» «Sì, ma non so come se la cava.» «Almeno puoi domandartelo.» Karp lanciò uno sbuffo di fumo che aveva lo stesso colore della nebbia: sembrava circondato da un mondo lanuginoso di fumo. «Stavo pensando. Pavel se la fa già sotto come un coniglio. Hai ragione, quando arriveremo a Vladivostok non molleranno fino a che qualcuno non parlerà... Pavel o uno degli altri. Non ha importanza che tu torni alla nave o no. Sono spacciato.» «Confessa il contrabbando» disse Arkady. «Testimonia e ti daranno appena quindici anni per Volovoi. Potresti uscire dopo dieci.» «Con i miei precedenti?» «Sei un capopesca che ha vinto molte competizioni socialiste.» «Come tu eri un operaio del circuito sporco, nella squadra che ha vinto le stesse competizioni? Bei vincitori, io e te! No, sarebbe omicidio aggravato. Non voglio rimetterci i denti in un campo di lavoro. Non voglio essere sepolto in un campo. Hai mai visto quei piccoli cimiteri, appena fuori dal recinto? Poche margherite per le anime dei miserabili che non ce l'hanno fatta. No, non fa per me.» Sui capelli e sulle sopracciglia di Arkady si era formato il ghiaccio. La
giacca era tutta incrostata e quando si muoveva le maniche scricchiolavano come se fossero di vetro. «L'Alaska è un po' lontana. Andiamo. Possiamo discutere mentre raggiungiamo la nave. Ci servirà per scaldarci.» «Ecco.» Karp si alzò in piedi e si sfilò il maglione. «Hai bisogno di mettere qualcosa di asciutto.» «E tu?» Karp tolse la giacca ad Arkady e lo aiutò a mettere il maglione. Sotto ne portava un altro. «Grazie» disse Arkady. Sopra i giubbotti salvagente, il maglione poteva dargli l'isolamento necessario. «Se camminiamo abbastanza svelti, possiamo farcela tutti e due.» Karp gli tolse un po' di ghiaccio dai capelli. «Uno che ha vissuto in Siberia per tanto tempo dovrebbe sapere che gran parte del calore si perde dalla testa. Fra un minuto avrai le orecchie congelate. È uno scambio.» Calcò il berretto sulla testa di Arkady e lo tirò sopra le orecchie. «Tu cosa ci guadagni?» chiese Arkady. «Le sigarette.» Karp le tirò fuori dalla giacca prima di restituirgliela. «Certe volte mi preoccupo per te. Ce ne deve essere qualcuna asciutta.» Staccò la metà di una sigaretta che non era infradiciata e l'accese con il mozzicone che stava per buttare. Arkady aveva la sensazione che il suo sangue si trasformasse in ghiaccio, ma Karp non mostrava di avere freddo. «Felicità!» Buttò fuori uno sbuffo di fumo. «Era uno dei cartelli che c'erano nel campo. "Trovate felicità nel lavoro!" e "Il lavoro vi rende liberi!". Fabbricavamo macchine fotografiche... Nuova Generazione. Cercale.» «Ti decidi a venire?» «L'ultimo giorno a Vladivostok, io e Zina siamo andati a fare un picnic fuori città, sulla scogliera. C'è un faro, sul capo, che sembra un castello grigio con una candela rossa e bianca in cima. È fantastico. Le onde battono ai piedi degli scogli. Le foche sporgono la testa dall'acqua. In cima alle scogliere, i pini sono tutti piegati dal vento. Vorrei aver avuto una macchina fotografica, quel giorno.» Tenendo la sigaretta fra le labbra, Karp si tolse l'altro maglione. Sembrava comunque vestito perché i tatuaggi degli urka gli coprivano il tronco e le braccia fino al collo e ai polsi. «Non vieni?» chiese Arkady. «Oppure puoi andare nei boschi. Non è la taiga, non è quello che si aspetta la gente. È una foresta mista... abeti e aceri sulle colline, fiumi lenti coperti di ninfee. Ti viene voglia di dormire nel bosco per poter sentire una
tigre. Non riuscirai mai a vederne una e poi sono protette. Ma sentire una tigre di notte... è una cosa che non dimentichi più.» Karp si sfilò calzoni e stivali e restò nudo. Strinse fra le labbra il mozzicone della sigaretta: stava fumando una brace. Il freddo gli arrossò la pelle e fece spiccare le decorazioni tatuate. «Non farlo» disse Arkady. «L'importante è che nessuno può dire che io abbia mai fatto del male a Zina. Neppure una volta. Se ami qualcuno, non gli fai del male, e non scappi. Tanto, lei non sarebbe rimasta.» I tatuaggi erano ravvivati dall'aria. Draghi orientali si arrampicavano sul braccio di Karp, artigli verdi spuntavano sui piedi, donne d'inchiostro azzurro si avvinghiavano intorno alle colonne delle cosce, e a ogni respiro fumante l'avvoltoio gli beccava il cuore. Ancora più vivide erano le cicatrici bianchicce, strisce morte attraverso il petto, dove le accuse erano state cancellate dall'acido. Sulla fronte stretta si allargava una fascia livida. Il resto della pelle si arrossava, i muscoli tremavano e sussultavano per la reazione al freddo e animavano ogni tatuaggio. Arkady ricordava che tortura era stata per lui nella stiva frigorifera, sebbene fosse vestito. A ogni secondo, Karp doveva impiegare visibilmente uno sforzo maggiore per pronunciare una parola e persino per pensare. «Torna indietro con me» disse Arkady. «Perché? Hai vinto tu.» Ormai Karp tremava tanto che stentava a tenersi diritto; ma trasse un'ultima boccata bruciante prima di lasciar cadere nell'acqua il mozzicone che era soltanto una scintilla. Allargò le braccia in un gesto trionfante. «"Io sorrido ai miei nemici con il mio ghigno da lupo, snudo i moncherini marci dei denti. Non siamo più lupi".» Sogghignò, respirò profondamente e si tuffò. Arkady lo vide scendere a nuoto in verticale, con bracciate potenti, seguito da una scia di bollicine d'aria glutinose. I tatuaggi sembravano appropriati, più simili a squame che a una pelle umana nell'acqua crepuscolare sotto il ghiaccio. A circa quattro metri di profondità parve bloccato temporaneamente, fino a quando buttò fuori l'aria che aveva nei polmoni e scese verso uno strato d'acqua più buio. Poi una corrente lo afferrò e cominciò a trascinarlo via. Le piante dei piedi non erano tatuate. Dopo che il resto del corpo era scomparso, Arkady continuò a vedere i piedi che nuotavano ancora, due pesci pallidi nell'acqua nera.
32 Arkady guardava dall'alto l'antenna del radar, i cannoni grigi, i tubi lanciasiluri della motovedetta. Per tutta la notte, i marinai inviati dal servizio segreto della marina erano saliti e scesi dalla Stella Polare per portar via le casse sigillate delle apparecchiature. Adesso, prima dell'alba, era venuto per Anton Hess il momento di andarsene. Come un attore tra un cambio del costume e l'altro, l'ingegnere elettronico della flotta indossava ancora una giacca da pescatore sopra i calzoni dalla piega militare. «È stato gentile a venirmi a salutare. Sono sempre stato convinto che avrebbe potuto rivelarsi utile con lo stimolo giusto e una giusta ricompensa. Dunque, eccoci qui.» «Al buio» disse Arkady. «No, in piena luce.» Hess lo fece allontanare di qualche passo dal parapetto. «Non immagina neppure quanta soddisfazione possa dare al KGB un insuccesso del servizio segreto della marina. L'apprezzeranno molto.» Il sospiro finì in una risata. «Ha visto la faccia di Morgan quando abbiamo liberato l'Eagle dai ghiacci? Certo, soffriva per le ferite. Ma soprattutto sapeva cosa ci aveva portato lei.» Appena era stata liberata dal ghiaccio, l'Eagle s'era diretta verso l'Alaska continentale, mentre la Stella Polare aveva annullato il restante periodo di pesca. La nave aveva fatto trasbordare su una pilotina Susan Hightower, gli altri rappresentanti americani e Lantz al largo di Dutch Harbor. «L'unica cosa che non ho capito è stata Susan quando se n'è andata» disse Hess. «Perché aveva quell'aria divertita?» «Per uno scherzo tra di noi. Le ho detto che il suo aiuto era stato prezioso.» Dopotutto, era stata lei a suggerirgli cosa doveva rubare, anche se Arkady aveva messo in pratica il suggerimento su un'altra nave. Nikolai attendeva nella gabbia da trasporto insieme a un soldato della fanteria di marina. Il giovane marconista non aveva l'aria contenta; d'altra parte non era ai ferri. Il soldato, con una faccia da luna piena tra il colletto dell'uniforme nera da fatica e il berretto, aveva un fucile d'assalto. Per un momento Hess parve restio ad andarsene, come ogni uomo che riflette al termine di un viaggio lungo e fortunato. «Renko, lei capisce che il suo nome non potrà figurare a proposito di quei dischetti. Non vogliamo contaminarli. Vorrei poterle riconoscere la sua parte di merito.» «La mia parte di merito per le voci di sottomarini demoliti anni fa? Lei
ascoltava sottomarini che non esistono» disse Arkady. «Non ha importanza. Morgan era compromesso, e questa volta siamo noi ad avere il trofeo.» «Sono suoni di niente.» «D'accordo, spettri e fantasmi che sibilano nel buio. C'è chi ha fatto carriera per molto meno.» Hess entrò nella gabbia e agganciò la catena. «Lasci che le dica una cosa, Renko. Una ripresa dopo l'altra, non finisce mai. Tornerò.» «Ecco un'altra ragione perché Susan sorrideva» disse Arkady. «Lei non tornerà.» Hess non era disposto a perdere il buonumore. «Comunque.» Tese la mano e strinse quella di Arkady. «Non dobbiamo stare a discutere. Ha fatto un buon lavoro. E si è alzato presto per salutarmi.» «Non proprio.» «Comunque...» insistette Hess. «Buona fortuna.» Arkady strinse la mano a Nikolai. Quando la motovedetta se ne andò, la Stella Polare accelerò di nuovo. I pescherecci costieri diventavano sempre più numerosi d'ora in ora, sull'orizzonte notturno. A un chilometro di distanza formavano un'abbagliante fila di lampade per la pesca: ogni barca aveva la sua costellazione, ed era una scena molto diversa dal commiato a Dutch Harbor. Era stato un pomeriggio umido, con quella specie di umidità che era una seconda pelle, e gli americani stipati in plancia per la volata fino al porto... tutti tranne Susan che stava sul ponte e non salutava con la mano ma non staccava gli occhi dalla nave che stava lasciando. Una vita strana, pensò Arkady: aveva sempre amato soprattutto ciò che stava per perdere. Aveva sentito lo sguardo di Susan attraverso la fascia d'acqua sempre più ampia, l'aveva sentito fortemente come se fossero a letto insieme. Ci doveva essere in lui una qualche carenza che determinava legami futili. «Compagno Giona.» Marchuk raggiunse Arkady. «Comandante.» Arkady si scosse dai suoi pensieri. «Mi è sempre piaciuta la pesca notturna.» «Farà giorno fra un minuto.» Marchuk si appoggiò al parapetto. Cercava di assumere un comportamento disinvolto, anche se per la prima volta in quel viaggio portava l'uniforme blu con quattro galloni d'oro ai polsi e i galloni d'oro sul berretto, chiazze luminose nella luce fioca del ponte. «La ferita va meglio?»
«Rientrava nel campo della capacità professionale di Vainu» rispose Arkady, che comunque non si azzardava a respirare profondamente. «Peccato per la quota.» «Abbiamo modificato la quota» Marchuk scrollò le spalle. «È il bello delle quote. Ma abbiamo fatto buona pesca. Avremmo dovuto limitarci a pescare.» Con lo spuntare dell'aurora, le luci dei pescherecci cominciarono a svanire tra i profili di gru e boma contro uno sfondo d'ombre che si disperdevano. Le catene risuonavano attraverso la superficie dell'acqua mentre la flotta azionava le reti. Nel crepuscolo, stormi di gabbiani si spostavano da un'imbarcazione all'altra. Sul ponte della Stella Polare continuavano ad affluire altri membri dell'equipaggio. Arkady li scorgeva grazie ai punti di luce delle sigarette sul ponte delle scialuppe e lungo il parapetto. «Non eri tu il Giona» soggiunse Marchuk. «Sai, alla radio stanno cominciando a chiamarti l'investigatore Renko, qualunque cosa possa significare.» Più in basso, una fila di ombre angolose passò in volo con i becchi ripiegati, sfiorò l'avvallamento dietro l'onda di prua. I pellicani erano già all'opera. «Potrebbe significare qualunque cosa» disse Arkady. «È vero.» I pescherecci baluginavano in una foschia grigia che non era nebbia ma l'esalazione normale del mare. Era quel momento intermedio in cui l'occhio doveva completare ogni nave, connettere qui una prua e là un fumaiolo, dipingerli, popolarli, dargli vita. Arkady alzò gli occhi verso il ponte delle scialuppe, dove Natasha aveva girato il viso verso il sole che spuntava, con gli occhi luminosi, i capelli neri profilati d'oro per un momento. Accanto a lei, Kolya controllava l'orologio e Dynka si alzava in punta di piedi per scrutare a est. Lungo il parapetto, Arkady vide Izrael con addosso un maglione senza squame di pesce, così pulito da sembrare un agnello robusto; Lidia, con il viso rigato di lacrime; Gury che inforcava gli occhiali neri. Arkady non si era alzato per salutare Hess. Ciò che aveva atteso tutta la notte stava spuntando in quel momento. I gabbiani si dispersero sopra la Stella Polare, quasi fossero trasportati dalla luce che investiva la nave-fattoria come un vento. Le nubi s'illuminarono. I finestrini dei pescherecci balenarono e finalmente dall'oscurità sorse la costa bassa e verde di casa.
Ringraziamenti Ringrazio il comandante Boris Nadein e l'equipaggio della Sulak; il comandante Mike Hastings e l'equipaggio dell'Oceanic; Sharon Gordon, Dennis McLaughlin e William Turner per l'ospitalità che mi hanno offerto nel Mare di Bering. Una collaborazione preziosa mi è stata data inoltre da Martin Arnold, Kathy Blumberg, Knox Burger, il dottor Gerald Freedman, il professor Robert Hughes, il comandante James Robinson e Katherine Sprague. Devo soprattutto molta gratitudine ad Alex Levin e al comandante Vladil Lysenko per la loro pazienza. C'è una nave-fattoria sovietica che si chiama Stella Polare. Né questa né la Sulak sono la Stella Polare del libro, che è frutto della fantasia. FINE