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NICCI FRENCH SOTTO LA PELLE (Beneath The Skin, 2000) A Katie e Chris D'estate i loro corpi assorbono il caldo. Il calore penetra nei pori della loro carne nuda, luce calda che entra nella loro oscurità. La immagino che sfrigola dentro di loro, le eccita. Un liquido scuro, scintillante sotto la pelle. Si tolgono i vestiti, gli spessi strati che indossano d'inverno, e si fanno toccare dal sole: sulle braccia, sulla nuca. Il sole si infila tra i loro seni e loro reclinano la testa per prenderlo sul viso. Chiudono gli occhi, aprono la bocca, le labbra dipinte o naturali. Il calore pulsa sul selciato su cui camminano, le loro gambe nude si aprono, le gonne leggere ondeggiano al ritmo del loro passo. Donne. In estate le osservo, le odoro e le imprimo nella memoria. Si guardano riflesse nelle vetrine dei negozi, tirano dentro la pancia, raddrizzano le spalle, e io le osservo. Le guardo mentre si guardano. Le vedo quando pensano di essere invisibili. Quella rossa con il prendisole arancione, per esempio. Ha una spallina attorcigliata sulla spalla, le lentiggini sul naso, una macchia sulla clavicola. Non porta reggiseno. Quando cammina, dondola le braccia pallide e vellutate e mostra i capezzoli attraverso la stoffa tesa del vestito. Ha seni piccoli. Ossa del bacino nette. Porta dei sandali senza tacco. Il secondo dito del piede è più lungo dell'alluce. Ha occhi verdi, color fango, come il fondo di un fiume. Ciglia chiare che batte troppo spesso. Labbra sottili; una traccia di rossetto agli angoli della bocca. È incurvata per il caldo; solleva un braccio per asciugarsi le gocce di sudore dalla fronte e mostra un'ascella coperta da una peluria rossiccia, non rasata forse da un paio di giorni. Anche le gambe non sono rasate di fresco; una carta vetrata umidiccia. Ha la pelle arrossata, i capelli appiccicati sulla fronte. Odia il caldo; il caldo la distrugge. Quella con i seni grossi, il pancione e la massa di capelli scuri dovrebbe soffrire di più il caldo: tutti quei chili, quella carne. E invece si lascia penetrare dal sole, non lo combatte. Apre il grosso corpo morbido. Ha dei cerchi di sudore sulla maglietta verde, sotto le braccia, e gocce di sudore lungo il collo, oltre le trecce spesse e diritte. Il sudore le brilla sui peli scuri delle braccia, sulle gambe forti nelle scarpe dal tacco alto. Sotto le
ascelle ha una folta peluria. Il resto del corpo lo conoscerò quando lo vedrò. Ha anche una peluria scura sul labbro superiore. Ha la bocca rossa, umida, come una prugna matura. Sta mangiando una pizzetta in una carta oleata marrone macchiata di unto. Affonda i denti bianchi nella pasta. Un semino di pomodoro le è rimasto appiccicato sul labbro superiore e l'olio le cola sul mento senza che lei lo asciughi. La gonna le è rimasta presa nella fessura del sedere e si solleva leggermente. Il caldo può rendere le donne disgustose. Le secca come insetti nel deserto. Crepa la pelle dei loro volti sopra il labbro superiore e sotto gli occhi. Il sole succhia loro tutti gli umori. Succede soprattutto alle donne anziane, che cercano di nascondere le braccia rugose nelle maniche lunghe, il volto sotto i cappelli. Altre irrancidiscono, marciscono, senza che la pelle riesca più a contenere il degrado del loro corpo. Quando si avvicinano, ne sento l'odore. Sotto il deodorante, il sapone, e il profumo che si spruzzano sui polsi e dietro le orecchie, avverto odore di marcio e putrido. Ma altre si aprono come fiori al sole; pulite e fresche, con la pelle liscia, i capelli serici tirati indietro o lasciati ricadere sciolti intorno al volto. Mi siedo su una panchina in un parco e le osservo mentre mi passano davanti, da sole o in gruppo, premendo l'erba sbiadita con i piedi caldi. La luce le fa brillare. Quella donna nera, per esempio, con il vestito giallo e la luce del sole che rimbalza sui piani lucidi della sua pelle, i capelli folti e grassi. Sento la sua risata mentre passa, un suono ghiaioso che sembra provenire da un posto segreto sepolto profondamente nel suo corpo forte. Le osservo soprattutto nelle zone d'ombra: le pieghe delle ascelle, i solchi dietro le ginocchio, la fessura oscura tra i seni. I loro punti segreti? Pensano che nessuno le guardi. A volte riesco a vedere quello che hanno sotto i vestiti. Per esempio quella donna con la camicia bianca senza maniche e la bretella del reggiseno che continua a caderle sulla spalla. È grigia, sporca per l'uso. Si è messa una camicia pulita, ma non si è preoccupata di cambiare il reggiseno. Ha pensato che nessuno se ne sarebbe accorto, ma io noto queste cose. La sottoveste che spunta dall'orlo della gonna. Lo smalto scheggiato di un'unghia. La macchia che cercano di coprire con il trucco. Il bottone spaiato. La striatura di polvere, la riga di sporco intorno a un colletto. L'anello che è diventato troppo stretto con gli anni, il dito che gli si gonfia intorno. Mi passano davanti. Le vedo da una finestra, quando pensano di essere sole. La donna che dorme, di pomeriggio in cucina, nella casa in fondo al-
la stradina tranquilla dove a volte mi reco. La testa piegata con una strana angolazione. Tra un minuto si sveglierà di soprassalto chiedendosi dove si trova. La bocca aperta, cascante. Sulla guancia una riga sottile di saliva come la scia di una lumaca. La donna che sale su un'auto, il vestito sollevato che lascia vedere per un attimo le mutande. Le cosce tremolanti. Il segno di un bacio focoso celato dalla sciarpa messa ad arte. La donna incinta, l'ombelico che si intravede attraverso il tessuto sottile del vestito. La donna con un bambino in braccio, le macchie di latte sulla camicetta, una piccola chiazza di vomito sulla spalla, dove il bimbo poggia la testa. E sorriso che mostra le gengive gonfie, infiammate; il dente davanti spezzato; la capsula di porcellana. La riga marrone lungo la spartizione dei capelli biondi, dove la crescita rivela la tintura. Le unghie spesse e gialle dell'alluce che tradiscono l'età. Il primo segno di vene varicose sulle gambe bianche, un verme violaceo sotto la pelle. Nel parco, sdraiate sull'erba con il sole a picco su di loro. Sedute fuori dai pub con la schiuma della birra sulle labbra. In metropolitana, intorno a me; la loro carne calda che preme nell'aria chiusa. O sedute accanto a me, che mi sfiorano la coscia con la loro. A volte apro loro una porta e le seguo nell'atrio fresco di una biblioteca, di una galleria, di un negozio, e osservo il loro modo di camminare, di voltare il capo o mettersi i capelli dietro le orecchie. Il modo di sorridere e di distogliere lo sguardo. O di guardarti diritto negli occhi. Ancora per qualche settimana in città sarà estate. PARTE PRIMA ZOE UNO Non sarei diventata famosa se non fosse stato per il cocomero. E non sarei venuta in possesso del cocomero se non fosse stato per il caldo. Perciò è meglio che cominci dal caldo. Faceva caldo. Ma ciò potrebbe darvi l'idea sbagliata. Potrebbe farvi pen-
sare a spiagge deserte sul Mediterraneo e a bibite colorate in bicchieri ornati da piccoli ombrellini. Nulla del genere. Il caldo era una specie di grosso cane vecchio grasso puzzolente rognoso unto scoreggiante che aveva ricoperto Londra all'inizio di giugno e continuava ad aleggiarci sopra da circa tre settimane. Era diventato sempre più umidiccio e vischioso e il cielo di giorno in giorno era passato dal blu a una mescolanza di gialli e grigi industriali. Holloway Road sembrava un gigantesco tubo di scappamento con i gas delle macchine tenuti in basso, a livello della strada, da sostanze inquinanti ancor più velenose che stavano al di sopra. Noi pedoni ci tossivamo praticamente in faccia come cani appena usciti da un laboratorio di studio sugli effetti del tabacco. All'inizio di giugno avevo trovato piacevole mettermi i vestiti estivi e sentirli leggeri sulla pelle. Ma alla fine della giornata erano sudici e macchiati e tutte le mattine dovevo lavarmi i capelli nel lavandino. Normalmente la scelta dei libri da leggere in classe era dettata dai principi fascisti imposti dal governo, ma quella mattina mi ero ribellata e avevo letto una storia di Brer Rabbit che avevo trovato in una scatola di cartone piena di vecchi libri per bambini quando ero andata a sgombrare l'appartamento di mio padre. C'erano vecchi registri scolastici, lettere scritte prima che io nascessi, chincaglieria di cattivo gusto che mi aveva fatto riaffiorare alla mente un mare di ricordi nostalgici. Avevo tenuto tutti i libri pensando che un giorno avrei avuto dei figli e avrei letto loro gli stessi libri che mi aveva letto la mamma prima di morire e lasciare a papà il compito di mettermi a letto ogni sera. E le letture serali ad alta voce si erano perse e nei miei ricordi erano diventate una cosa preziosa. Tutte le volte che leggevo ad alta voce ai bambini, una parte di me aveva la sensazione di trasformarsi in una versione attenuata e sbiadita di mia madre; e di leggere alla bambina che io ero stata. Mi piacerebbe dire che la classe rimase incantata da quel piccolo classico della letteratura per l'infanzia d'altri tempi. In effetti forse ci furono un po' meno lamentele, dita nel naso, sguardi al soffitto o gomitate rispetto al solito. Ma ciò che soprattutto emerse quando alla fine discutemmo il racconto fu che nessuno sapeva che cosa fosse un cocomero. Ne disegnai uno sulla lavagna con un gesso verde e uno rosso. Il cocomero non è molto difficile da disegnare e ci riesco anch'io. Vuoto totale. Così dissi che, se fossero stati bravi, il giorno dopo avrei portato loro un cocomero, e in effetti nell'ultima ora si comportarono bene in modo quasi allarmante. Sulla via del ritorno scesi una fermata dopo del solito, oltre la
svolta di Seven Sisters Road, e mi inoltrai tra le bancarelle dei fruttivendoli. Nella prima che trovai, traboccante di frutta, comprai un mezzo chilo di ciliegie e le divorai subito avidamente. Erano aspre, succose, pulite; mi fecero pensare al paese di campagna dove ero cresciuta, all'ombra verde al cui riparo ci sedevamo quando il sole tramontava. Erano da poco passate le cinque e il traffico stava già cominciando a paralizzarsi. I gas delle macchine mi soffiavano caldi sul viso, ma mi sentivo quasi allegra. E anche la folla intorno a me sembrava di buonumore, con addosso vestiti dai colori brillanti. Riuscii perfino a sopportare una vicinanza con il prossimo di sei o sette metri, invece dei soliti undici dettati dalla mia claustrofobia urbana. Comprai un cocomero delle dimensioni di una palla di pallacanestro e del peso di una boccia da bowling. Il fruttivendolo dovette mettermelo dentro quattro sacchetti, uno dentro l'altro, e non c'era modo di trasportarlo agevolmente. Molto cautamente mi misi il sacchetto in spalla, rischiando di perdere l'equilibrio e di finire in mezzo alla strada, e cominciai a portare il cocomero come un uomo con un sacco di carbone in spalla. Ero solo a trecento metri da casa e potevo farcela. Mentre attraversavo Seven Sisters Road e giravo in Holloway Road la gente mi guardava. Dio solo sa che cosa avranno pensato vedendo un ragazza bionda, vestita modestamente, piegata in due nello sforzo di trasportare un malloppo, pesante quasi quanto lei, in un sacchetto della spesa. Poi accadde. Quale fu la sensazione in quel momento? Un impulso, un colpo, un attimo subito passato. Ricostruii quello che era accaduto ripercorrendone le varie fasi nella mente, parlandone con altre persone e ascoltando il racconto altrui. Un autobus stava venendo verso di me nel controviale. Mi aveva quasi raggiunto quando vidi saltar giù una persona dalla piattaforma posteriore. L'autobus stava marciando a tutta birra, almeno per quanto è possibile in Holloway Road nelle ore di traffico. La gente normale non salta giù dagli autobus in quel modo, neppure i londinesi, così dapprima pensai che il tizio stesse attraversando la strada in modo avventato dietro l'autobus. Ma la velocità con cui colpì l'asfalto, perdendo quasi l'equilibrio, mi convinse che doveva esser saltato giù dall'autobus. Poi vidi che si trattava di due persone, apparentemente legate insieme. Quella dietro era una donna, più vecchia ma non vecchia, che quando arrivò a terra perse l'equilibrio e cadde malamente a gambe all'aria. Vidi che andava a schiantarsi contro un bidone, battendo la testa sul selciato. Lo udii. L'uomo si liberò. Aveva una borsa, quella di lei. La teneva con tutte e due le mani all'altezza del petto. Qualcuno urlò. Lui prese a scappare a tut-
ta velocità. Aveva un sorriso strano, teso, e gli occhi vitrei. Correva diritto verso di me, tanto che mi dovetti scostare. Ma non mi limitai a questo. Feci scivolare giù dalla spalla il cocomero. Mi piegai all'indietro e cominciai a farlo dondolare. Dovetti piegarmi all'indietro altrimenti sarebbe caduto trascinandomi con sé. E in effetti se avesse continuato nel suo moto circolare attorno a me avrei finito per perderne il controllo, invece andò a fermarsi contro l'uomo, colpendolo in pieno nello stomaco. Si dice che c'è un punto particolare. Quando giocavo a rounders alle elementari e dovevo colpire la palla, quasi sempre la prendevo con il bordo della mazza e la facevo cadere pateticamente di lato. Ma qualche volta la palla centrava il punto giusto e quasi senza sforzo si librava in volo. E questo succede anche alle mazze da cricket, a quelle da baseball e alle racchette da tennis. Hanno tutte un punto particolare, perfetto per colpire la palla. E questo borsaiolo si prese il mio cocomero in quel punto, il punto perfetto dell'arco. Il cocomero lo colpì nello stomaco con un tonfo incredibile e lui si accasciò all'improvviso, come se i vestiti non fossero più sorretti da un corpo e cercassero di piegarsi da soli sul marciapiede. Non cadde come un albero, ma come un alto edificio demolito alla base con l'esplosivo. Un minuto, e non restano che polvere e calcinacci. Non avevo pensato a che cosa fare se l'uomo si fosse alzato e mi avesse assalito. Il cocomero era buono solo per un colpo. Ma non riuscì ad alzarsi. Grattò la terra con le unghie per un po' e poi fummo circondati dalla folla. Allora non lo vidi più e pensai alla donna. Qualcuno mi fermò, cercando di parlarmi, ma io mi liberai. Mi sentivo la testa leggera, ero come esilarata. Avevo voglia di ridere o parlare come una pazza. Ma per quella donna non c'era proprio nulla da ridere. Era accasciata sul marciapiede con la faccia a terra e intorno a lei c'era parecchio sangue, scuro e denso. Pensai fosse morta, ma di tanto in tanto aveva un fremito alla gamba. Era vestita in modo elegante, con un tailleur grigio con la gonna corta. In quel momento mi venne da pensare a lei che faceva colazione quella mattina e poi andava a lavorare e ritornava a casa pensando a quello che avrebbe fatto la sera, facendo progetti mondani e piacevoli e poi le succedeva questa cosa all'improvviso e la sua vita cambiava. Perché non aveva semplicemente lasciato andare quella stupida borsa? Magari le era rimasta impigliata al braccio. La gente le stava intorno con aria imbarazzata, sperando che un'autorità, un dottore o un poliziotto, venisse avanti e si facesse carico della situazione nel modo dovuto. Ma niente. «C'è un dottore?» domandò una donna vicina a me.
Maledizione. Nel secondo semestre del mio tirocinio da insegnante avevo seguito per due giorni un corso di pronto soccorso. Mi feci avanti e mi inginocchiai vicino alla donna ferita. Sentii intorno a me come un senso di sollievo da parte della gente. Sapevo somministrare le medicine ai bambini, ma in questo caso non riuscivo a pensare a nulla da fare se non applicare una regola fondamentale: «Quando si è in dubbio, non fare nulla». La donna era svenuta. Intorno al viso e alla bocca c'era molto sangue. Mi venne in mente un'altra frase: «La posizione di sicurezza». Le voltai il viso verso di me il più delicatamente possibile. Alle mie spalle sentii sospiri ed espressioni di disgusto. «Qualcuno ha chiamato un'ambulanza?» domandai. «L'ho chiamata io con il cellulare» rispose una voce. Respirai profondamente e poi ficcai le dita nella bocca della donna. Aveva i capelli rossi e la pelle molto chiara. Era più giovane di quello che mi era sembrato all'inizio e probabilmente molto bella. Mi domandai di che colore avesse gli occhi, dietro le palpebre chiuse. Forse verdi: capelli rossi e occhi verdi. Le feci uscire dei grumi di sangue dalla bocca. Mi guardai la mano sporca di rosso e vidi un dente o il pezzo di un dente. La donna gemette, poi dette un colpo di tosse. Un buon segno, probabilmente. Udii avvicinarsi una sirena. Alzai gli occhi. Fui spinta da parte da un uomo in divisa. Per me andava benissimo. Con la sinistra trovai in tasca un fazzoletto di carta e mi pulii attentamente le dita dal sangue e dal resto. Il cocomero. Non avevo più il cocomero. Ritornai indietro a cercarlo. Il borsaiolo ora era seduto in mezzo a due poliziotti, un uomo e una donna, che lo guardavano. Vidi il mio sacchetto di plastica blu. «È mio» dissi prendendolo. «Mi era caduto.» «È stata lei» fece una voce. «È stata lei a fermarlo.» «L'ha messo dannatamente K.O.» disse qualcun altro, e una donna lì vicino si mise a ridere. L'uomo mi osservò. Mi sarei aspettata uno sguardo vendicativo, ma sembrava solo perplesso. «È vero?» mi domandò la poliziotta in modo leggermente sospettoso. «Sì» risposi cautamente. «Ma ora devo andare.» Il poliziotto si fece avanti. «Abbiamo bisogno di qualche altro particolare, mia cara.» «Che cosa volete sapere?» Tirò fuori un taccuino. «Cominciamo con il suo nome e indirizzo.»
E qui accadde un'altra cosa buffa. Dovevo essere più sconvolta di quello che pensassi. Il mio nome mi venne in mente, ma con un certo sforzo. Ma non ricordavo l'indirizzo, anche se la casa era mia e ci vivevo da diciotto mesi. Dovetti prendere l'agenda dalla tasca e legger loro l'indirizzo, con la mano che mi tremava talmente che non riuscivo quasi a decifrare quel che c'era scritto. Devono aver pensato che fossi matta. DUE Ero arrivata alla E del registro: E come Damian Everatt, un bimbette magro con enormi occhiali tenuti insieme da nastro adesivo, orecchie che sembravano di cera, bocca sempre aperta, ansiosa, e ginocchia piene di croste per via delle cadute in cortile provocate dalle spinte degli altri ragazzini. «Presente, signorina» sussurrò, mentre Pauline Douglas faceva capolino alla porta già aperta della classe. «Posso dirti una parola veloce, Zoe?» disse. Mi alzai, lisciai il vestito con apprensione e la raggiunsi. Nel corridoio c'era una piacevole corrente d'aria, ma notai che sul viso ben incipriato di Pauline scendeva una goccia di sudore e i suoi capelli grigi normalmente impeccabili erano umidicci sulle tempie. «Ho ricevuto la telefonata di un giornalista della "Gazette".» «Cos'è?» «Un giornale locale. Vogliono parlarti per via delle tue eroiche azioni.» «Che cosa? Ah, quella roba. È...» «Parlavano di un cocomero.» «Be', sì, ecco, vedi...» «Vogliono anche mandare un fotografo. Zitti!» L'intimazione era rivolta al circolo di bambini che ronzavano dietro di noi. «Mi dispiace che ti abbiano disturbato. Dì loro di andarsene.» «Ma no, niente affatto» disse Pauline con fermezza. «Siamo d'accordo che verranno alle dieci e quarantacinque, durante l'intervallo.» «Ne sei sicura?» La guardai con espressione dubbiosa. «Potrebbe rivelarsi una buona pubblicità.» Lanciò un'occhiata al di sopra della mia spalla. «È quello?» Mi voltai a guardare l'enorme frutto innocente striato di verde, posato sullo scaffale dietro di noi. «Sì, è lui.» «Devi essere più forte di quello che sembri. Bene, allora ci vediamo do-
po.» Ritornai a sedermi dietro la cattedra e ripresi il registro. «Dove eravamo? Sì, Kadijah.» «Presente, signorina.» Il giornalista era un signore di mezza età, basso e grasso, con peli che gli uscivano dalle narici e spuntavano da sotto il colletto della camicia. Non riuscii a capire bene il suo nome, e la cosa mi mise in imbarazzo visto che lui invece conosceva così bene il mio. Bob qualcosa, mi pareva. Aveva il viso congestionato e grandi aloni di sudore sotto le ascelle. Mentre scriveva i suoi scarabocchi stenografici su di un quadernetto sbrindellato, il pugno grassoccio continuava a scivolare lungo la penna. Il fotografo che lo accompagnava sembrava avere diciassette anni: aveva capelli scuri cortissimi, un orecchino all'orecchio e jeans così stretti che quando si accucciava sul pavimento con la macchina fotografica pensavo che si sarebbero strappati. Bob mi faceva le domande e intanto il fotografo vagava per la classe fissandomi da angolazioni differenti attraverso l'obiettivo. Mi ero pettinata e messa un po' di trucco prima che arrivassero. Era Louise ad aver insistito, mi aveva spinto nella sala degli insegnanti e mi aveva seguito con una spazzola in mano. Ma ora desideravo essermi impegnata di più. Ero seduta là con il mio vecchio vestito color crema con l'orlo tutto storto e mi sentivo a disagio. «Che cosa ha pensato prima di decidere di colpirlo?» «L'ho colpito e basta. Senza pensarci.» «Non era spaventata?» «No, non ne ho avuto il tempo.» Scribacchiava sul suo taccuino. Avevo la sensazione di dover fare dei commenti più intelligenti o divertenti su quello che era accaduto. «Di dov'è lei? Haratounian è un nome strano per una ragazza bionda.» «Di un paese vicino a Sheffield.» «Quindi è a Londra da poco.» Non aspettò la mia risposta. «E insegna ai bambini dell'asilo, vero?» «Veramente si chiama scuola materna.» «Quanti anni ha?» «Ventitré.» «Mmmm.» Mi guardò con aria meditabonda, come uno che valuta un animale poco promettente a un'asta agricola. «Quanto pesa?» «Che cosa? Quarantotto chili circa, mi pare.»
«Quarantotto chili» ripeté ridacchiando. «Fantastico. E lui era un tipo grosso, non è vero?» Succhiò la penna. «Pensa che la società sarebbe migliore se tutti intervenissero come ha fatto lei?» «Ma, non saprei» balbettai cercando di dire qualcosa di coerente. «E se il cocomero non fosse andato a segno? Se avesse colpito la persona sbagliata?» Zoe Haratounian, portavoce della gioventù inarticolata. Il giornalista aggrottò la fronte e non fece neanche finta di scrivere quello che avevo detto. «Che effetto le fa essere un'eroina?» Fino ad allora era sembrato quasi divertente, ma ora cominciavo a essere un po' irritata. Ma naturalmente non riuscivo a esprimerlo con parole che avessero un minimo di senso. «È successo e basta» risposi. «Non voglio salire sul piedistallo. Sa se la donna che è stata borseggiata se l'è cavata?» «Sì, solo un paio di costole rotte e avrà bisogno di qualche dente nuovo.» «Penso di riprenderla con il cocomero» disse il fotografo. Bob annuì. «Sì, quello è il fulcro della storia.» Prese il cocomero dallo scaffale e venne avanti barcollando. «Accidenti» esclamò mettendomi il cocomero sulle ginocchia. «Non mi stupisce che l'abbia mandato K.O. Ora mi guardi, alzi un po' il mento. Sorrida, cara. È un'eroina, no? Ecco, così va benissimo.» Sonisi finché il sorriso non mi rimase stampato in faccia. Attraverso la porta vidi che Louise mi guardava sogghignando e anche a me venne da ridere. Poi vollero fotografarmi con cocomero e bambini. Feci la parte della macstrina pedante di campagna, per poi scoprire che Pauline era già d'accordo. Il fotografo suggerì di tagliarlo. Era di un rosa intenso, lussureggiante, più chiaro vicino alla scorza, con semi neri lucidi e un profumo fresco, fibroso. Lo tagliai in trentadue fette, una per ciascun bambino e una per me. Erano tutti intorno a me sull'asfalto mezzo liquefatto del cortile con la fetta di cocomero in mano e un sorriso per la macchina fotografica. Tutti insieme. Uno, due, tre, clic. Il giornale locale uscì il venerdì successivo e io ero in prima pagina. La mia foto era enorme, circondata da bambini e fette di cocomero. «La nostra eroina e il cocomero.» Non molto brillante. Daryl aveva un dito nel naso e Rose la sottana presa nelle mutandine, ma per il resto tutto a posto.
Pauline era contenta. Attaccò l'articolo nella bacheca dell'atrio, dove i bambini pian piano lo distrassero, e poi mi disse che aveva telefonato un giornale nazionale, che erano interessati anche loro alla storia. Aveva provvisoriamente preso un appuntamento nell'intervallo del pranzo, per intervista e fotografie. Potevo saltare la riunione. Se lo ritenevo opportuno, naturalmente. Aveva chiesto alla segretaria della scuola di comprare un altro cocomero. Pensai con ciò di aver concluso. Ero stupita di come una storia riuscisse ad andare avanti per inerzia. Quasi non riuscii a riconoscere la donna fotografata in una delle pagine interne del «Daily Mail» del giorno successivo, schiacciata da un enorme cocomero, sovrastata da un enorme titolo. Non mi assomigliava, con quel sorriso cauto e i capelli biondi tirati ordinatamente dietro le orecchie; e certamente non parlava come me. Non c'erano già abbastanza notizie al mondo? Al fondo della pagina successiva c'era un articolo molto breve su un autobus che era caduto da un ponte nel Kashmir, uccidendo un incredibile numero di persone. Forse se a bordo ci fosse stata una maestra inglese bionda di ventitré anni avrebbero dato più spazio alla notizia. «Stupidaggini» disse Fred, quando gli raccontai più o meno queste cose quel giorno stesso, in serata. Stava mangiando delle patatine fritte ammollate dall'aceto dopo che eravamo stati al cinema a vedere un film in cui uomini con bicipiti gonfiati si colpivano a vicenda sulle mascelle facendo rumori come di schioppettate. «Non sminuirti. Ti sei comportata da eroina. Hai avuto una frazione di secondo per decidere che cosa fare e hai fatto la cosa giusta.» Mi prese il mento nella mano sottile e callosa. Ebbi l'impressione che non stesse vedendo me, ma la donna della fotografia con il suo sorrisino appiccicaticcio. Mi baciò. «Certi diventano eroi saltando sopra una granata, tu lo sei diventata con un cocomero. Questa è l'unica differenza. Andiamo a casa tua, ti va? È ancora presto.» «Ho una pila alta un metro di compiti e di moduli da guardare.» «Solo per un momento.» Buttò il resto delle patatine in un bidone traboccante spazzatura, mi mise il lungo braccio intorno alle spalle e ci incamminammo sul marciapiede evitando le cacche di cane. In mezzo al gas degli scappamenti e il puzzo di fritto delle botteghe di kebab e di patatine, lui sapeva di sigarette ed erba tagliata. Aveva arrotolato le maniche della camicia e i suoi avambracci erano abbronzati e graffiati. I capelli biondi gli ricadevano sugli occhi. Era
fresco nel caldo industriale della sera. Non riuscii a dirgli di no. Fred era il mio nuovo ragazzo o il mio nuovo qualcosa. E probabilmente eravamo proprio al punto giusto. Avevamo terminato i primi tempi difficili e imbarazzanti in cui bisogna fare gli attori davanti a un pubblico esigente, e si ha disperatamente bisogno di risate e applausi. Solo che in quel caso non avevo affatto bisogno di risate. Ed eravamo ancora lontani dallo stadio in cui si gira per l'appartamento nudi e l'altro neanche ci fa caso. Lui aveva fatto il giardiniere quasi tutto l'anno ed era magro e forte. Gli si vedevano i muscoli sotto la pelle. Era abbronzato su braccia, collo e viso, ma latteo sul petto e sul ventre. E non avevamo neanche raggiunto lo stadio in cui ognuno si spogliava e piegava i vestiti sulla propria sedia in modo un po' clinico e istituzionale. Quando arrivavamo al mio appartamento -sembrava che dovesse essere sempre il mio appartamento - avevamo ancora un gran desiderio di stare insieme. Un'urgenza che rendeva tutto il resto meno importante. A volte in classe, nei pomeriggi in cui i bambini erano irrequieti e io stanca e svogliata per il caldo, pensavo a Fred e alla serata che mi aspettava e la giornata si schiariva. Dopo accendemmo le sigarette, sdraiati sul letto della mia cameretta, ascoltando musica e i clacson della strada di sotto. Qualcuno gridò fortissimo: «Puttana, sei una puttana, te la farò pagare». Sentimmo dei passi risuonare sul marciapiede, una donna urlare. Io mi ci ero abituata, più o meno. Non mi svegliavano più di notte, come all'inizio. Fred accese la lampada sul comodino illuminando lo squallore dell'appartamento. Come avevo potuto comprarlo? Come avrei fatto a rivenderlo? Anche se l'avessi abbellito, se avessi fatto fuori le tendine arancioni lasciate dall'ultimo proprietario, se avessi messo la moquette sulle tavole sudicie del pavimento, e carta alle pareti di legno dipinte di beige, se avessi ridipinto i telai scrostati delle finestre, appeso specchi e stampe alle pareti, se avessi fatto intervenire un arredatore, non penso sarei riuscita a nascondere quanto fosse brutto e angusto. Un qualche costruttore aveva ricavato questo buco da uno spazio già piccolo. La finestra del cosiddetto soggiorno era tagliata a metà dalla parete che mi divideva dall'appartamento accanto, in cui a volte sentivo un vicino che non avevo mai visto urlare oscenità a qualche povera donna. In un impeto dettato dal dolore e dalla solitudine avevo usato tutti i soldi che mio padre mi aveva lasciato alla sua morte per comprare un posto da poter chiamare casa. Però non mi era mai sembrata
una casa, e ora che i prezzi degli immobili stavano aumentando ero bloccata. Con quel clima, anche se avessi lavato i vetri delle finestre tutte le mattine, la sera sarebbero di nuovo stati ricoperti di polvere grassa. «Faccio il tè.» «Non ho latte.» «C'è della birra nel frigo?» domandò Fred speranzoso. «No.» «Che cos'hai?» «Cereali, credo.» «A che servono i cereali senza il latte.» Era una constatazione piuttosto che una domanda a cui avrei dovuto rispondere. Stava infilandosi i pantaloni nella maniera metodica che riconoscevo. Mi avrebbe dato un bacetto sulla guancia e se ne sarebbe andato. Lo scopo della visita era finito. «Vanno bene da sgranocchiare» dissi vagamente. «Come le patatine fritte.» Stavo pensando alla donna che era stata borseggiata; al modo cui era volata per aria come una bambola rotta gettata dalla finestra. «A domani» disse. «Sì.» «Con i ragazzi.» «Bene.» Mi sedetti sul letto e contemplai i compiti che dovevo correggere. «Dormi bene. Guarda che qui c'è della posta che non hai aperto.» La prima lettera era una bolletta, che guardai e poi misi sopra la pila delle altre bollette, sul tavolo. L'altra era una lettera scritta con caratteri grossi, rotondeggianti: Cara signorina Haratounian, dal suo nome suppongo non sia inglese, anche se dalle fotografie che ho visto si direbbe il contrario. Non sono razzista, naturalmente, e conto tra i miei amici molte persone come lei, ma... Posai la lettera sul tavolo e mi massaggiai le tempie. Dannazione. Un pazzo. Proprio quello che mi ci voleva. TRE
Fui svegliata dal campanello. Dapprima pensai si trattasse di uno scherzo o di un ubriaco che aveva scambiato la mia porta per l'entrata di un ricovero. Scostai le tendine della finestra della camera che dava sulla strada e schiacciai la faccia contro il vetro per vedere chi fosse, ma non ci riuscii. Guardai l'orologio. Le sette passate da poco. Non aspettavo nessuno a quell'ora. Non avevo indosso nulla, così mi infilai un impermeabile di plastica di un giallo brillante e scesi. Aprii il portone solo di pochi centimetri. Il palazzo dava direttamente su Holloway Road e non volevo fermare il traffico con il mio aspetto. Era il postino e il mio cuore ebbe un tonfo. Quando il postino ti vuole dare la posta personalmente, di solito non sono buone notizie. Di solito deve farti firmare qualche orribile ingiunzione stampata in rosso con cui ti minacciano di staccarti il telefono o roba del genere. Ma sembrava abbastanza allegro. Dietro di lui vedevo gli albori di un giorno ancora fresco, ma che sarebbe stato certamente molto caldo. Non avevo mai visto quel postino prima di allora, così non so se fosse o no una novità, ma aveva indosso dei pantaloni corti piuttosto belli in crespo di lana blu e una camicia azzurra pulita a maniche corte. Doveva essere la divisa estiva, ma era carina. Lui non era proprio giovane, ma aveva un'aria da postino di Baywatch, così rimasi sulla porta a guardarlo con interesse e anche lui mi guardò con una certa curiosità. Poi mi accorsi che l'impermeabile che avevo addosso era piuttosto striminzito e leggermente aperto in mezzo. Me lo strinsi al petto probabilmente peggiorando le cose. Stava cominciando a sembrare la scena di una di quelle commedie erotiche inglesi degli anni Settanta che a volte si vedono in televisione il venerdì notte, al ritorno dal pub. Pornografia per tristi bastardi. «Appartamento C?» domandò. «Sì.» «C'è posta per lei» disse. «Non entrava nella cassetta.» Ecco di che cosa si trattava. Una quantità di buste tutte diverse tenute insieme con degli elastici. Che scherzo era quello? Mi ci vollero parecchie manovre complicate per prendere quel pacco di lettere con una mano e tenere chiuso l'impermeabile con l'altra. «Il suo compleanno, vero?» commentò il postino con una strizzatina d'occhi. «No» risposi e chiusi la porta con il piede nudo. Portai le lettere di sopra e le rovesciai sul tavolo del soggiorno. Poi ne presi una, con la busta di un delicato lilla, ma sapevo già di cosa si trattava.
Uno degli svantaggi di avere un trisnonno o un trisavolo emigrato dall'Armenia circa cento anni prima, senza nulla se non una ricetta per fare lo yogurt, era la facilità con cui si veniva individuati sull'elenco telefonico. Perché non aveva cambiato nome come altri immigrati? Lessi la lettera. Cara Zoe Haratounian, ho letto della sua impresa eroica sul giornale di questa mattina. Per prima cosa mi permetta di congratularmi con lei per il coraggio che ha mostrato nell'affrontare quella persona. Se posso permettermi di abusare ancora un poco della sua pazienza... Alzai gli occhi e poi li riabbassai sulla pagina successiva e quella ancora dopo. C'erano cinque fogli e la signora Janet Eagleton aveva scritto su entrambi i lati con inchiostro verde. Posai la lettera rimandando la lettura a più tardi. Aprii una busta che sembrava più normale. Cara Zoe, congratulazioni. Hai agito in modo brillante e se più persone si comportassero come te Londra sarebbe una città migliore. Dalla fotografia sul giornale penso anche che tu sia molto bella e questa è la vera ragione per cui ti scrivo. Mi chiamo James Gunter, ho venticinque anni e penso di essere presentabile, ma ho sempre avuto problemi a incontrare la ragazza giusta. Perciò, cara signorina "Giusta", se tu volessi... Piegai la lettera e la posai sopra quella della signora Eagleton. Aprii un'altra busta voluminosa come un pacco. Dentro c'era un mucchio di fogli mezzo piegati e mezzo arrotolati. Vidi dei diagrammi, delle frecce, delle colonne. La prima pagina comunque iniziava come una lettera indirizzata proprio a me. Cara Signorina Haratounian (è un nome interessante. Che lei sia una seguace di Zoroastro? Me lo faccia sapere al numero della mia casella postale, sottoscritto. Riprenderò questo argomento - Zoroastro - più avanti). Lei ha delle difese contro le forze dell'oscurità, ma come sa ci sono altre forze a cui non si può resistere facilmente. Sa che cos'è un kunderbuffer? Se sì, può saltare ciò che segue e ricominciare a legge-
re la sezione che segnerò per sua comodità con un asterisco. Gliene faccio uno a mo' di dimostrazione (*). Per sua comodità contrassegnerò altre sezioni con due (2) asterischi, per evitarle una non necessaria confusione. Misi la lettera sopra quella di James Gunter. Andai in bagno e mi lavai le mani. Ma non mi bastò, avevo bisogno di una doccia. Che era sempre una gran scocciatura nel mio appartamento. Mi piacevano le docce con porte di vetro smerigliato e in cui si poteva stare in piedi. Una volta ero uscita con un tale la cui unica qualità, a ripensarci, era una doccia con sei tipi di getto differenti, oltre a quello normale. Ma farsi la doccia nel mio appartamento significava accucciarsi nella vasca da bagno e lottare con i rubinetti decrepiti e il tubo che si arrotolava. Ciò nonostante mi stesi nella vasca con una spugna sulla faccia e l'acqua che mi cadeva addosso. Era come stare sotto una coperta calda e bagnata. Poi uscii e andai a vestirmi per il lavoro. Preparai il caffè e accesi una sigaretta. Mi sentivo un po' meglio. Se la pila di lettere fosse scomparsa mi sarei sentita ancora meglio, ma era sempre là, sul tavolo, imperturbabile. Tutte quelle persone sapevano dove vivevo. A dir la verità, non proprio tutte. Da un'altra veloce ispezione notai che parecchie lettere mi erano state inoltrate dai giornali a cui erano originariamente indirizzate. Alcune probabilmente erano carine. E almeno, pensai, quella gente scriveva invece di telefonare o venire di persona. In quel momento squillò il telefono facendomi sobbalzare. Non era un ammiratore, era Guy, l'agente immobiliare che avrebbe dovuto vendere il mio appartamento. «Ho un paio di persone che vorrebbero dare un'occhiata alla proprietà.» «Bene» dissi. «Lei ha le chiavi. E che ne è di quella coppia che è venuta a vedere l'appartamento lunedì? Cosa ne pensano?» Non che ci sperassi, a dir la verità. Lui era sembrato un tipo lugubre. Lei parlava in modo gentile, ma non dell'appartamento. «Non erano convinti della zona» rispose Guy con disinvoltura. «Ed era anche un po' piccolino per loro. E poi pensavano che avesse bisogno di troppi lavori per essere sistemato. Insomma, non erano proprio entusiasti.» «Oggi non faccia venire la gente troppo tardi. Ho invitato degli amici a bere qualcosa.» «Compleanno?» Feci un profondo respiro.
«Vuole veramente saperlo, Guy?» «Be'...» «Faccio una festa per celebrare una ricorrenza: sei mesi da quando l'appartamento è in vendita.» «Non possono essere già sei mesi.» «Sì, lo sono.» «Non mi sembrano sei mesi.» Mi ci volle un po' per convincerlo. Dopo la telefonata mi guardai intorno abbastanza disperatamente. Degli sconosciuti sarebbero venuti a vedere questa stanza. Quando mi ero trasferita a Londra mia zia mi aveva dato un libro di istruzioni basilari e pratiche per occuparsi di una casa e c'erano consigli su come mettere in ordine quando si avevano solo quindici minuti. Ma avendone solo uno, di minuto? Feci il letto, raddrizzai il tappetino vicino alla porta, sciacquai la tazza del caffè e la misi capovolta vicino al lavandino. Trovai una scatola di cartone in un armadio, ci misi dentro tutte le lettere e la ficcai sotto il letto. Un minuto e mezzo, abbastanza per arrivare in ritardo a scuola. Di nuovo. In ritardo e sudata, e ancora non faceva troppo caldo. «Allora, mia cara, che cosa possiamo fare per rendere questo posto più vendibile?» Louise era alla finestra che dava su Holloway Road con una bottiglia di birra e una sigaretta. «È molto semplice» risposi. «Far fuori la strada. Far fuori il pub qui a fianco e la bottega di kebab subito oltre. Poi ristrutturare globalmente. Non è orribile? Fa veramente schifo, no? L'ho odiata dal momento in cui l'ho comprata e anche se dovessi perderci dei soldi voglio andarmene. Voglio prendere in affitto un appartamentino grazioso con un giardino o qualcosa del genere. Dovremmo essere nel pieno di un boom delle compravendite. Ci deve pur essere qualche pazzo da qualche parte.» Presi una boccata dalla sigaretta. «A dire la verità son già venuti un sacco di pazzi a vedere questo appartamento. Ma bisogna trovare il pazzo giusto.» Louise si mise a ridere. Era venuta presto per aiutarmi a preparare, per fare due chiacchiere in santa pace e fondamentalmente perché era una brava persona. «Ma non sono venuta fin qui per parlare dell'appartamento. Voglio sapere di questo nuovo tipo. Verrà stasera?» «Vengono tutti.»
«Cosa significa tutti? Ne hai più di uno, di ragazzi?» Feci un sorrisetto. «No. Esce sempre con una banda di amici. Si conoscono da quando erano alle elementari o qualcosa di altrettanto ridicolo. Sono come quelle confezioni da sei birre, che non si possono vendere separatamente.» Louise aggrottò la fronte. «Non è una di quelle strane cose tipo a letto in cinque, vero? Perché altrimenti voglio sapere tutti i particolari.» «No, ogni tanto ci lasciano da soli.» «Come l'hai conosciuto?» Accesi un'altra sigaretta. «Li ho incontrati tutti insieme. Qualche settimana fa sono andata a un party in una galleria a Shoreditch. Uno di quei tipici disastri. La persona che conoscevo non si era fatta viva, così mi sono messa a gironzolare per le stanze con un drink, facendo finta di avere qualche ragione importante per starmene per conto mio. Sai com'è, no?» «Stai parlando a una campionessa in questo genere di faccende» rispose Louise. «Be', sono andata di sopra e c'era un gruppo di ragazzi piuttosto bellini intorno a un flipper, che giocavano, urlavano e ridevano, divertendosi come nessun altro. Uno di loro, non Fred a dir la verità, si è guardato intorno, mi ha visto e mi ha chiesto se volevo giocare. E io ho accettato. Ci siamo divertiti e la sera successiva ci siamo di nuovo incontrati in città.» Louise sembrava pensierosa. «Allora hai dovuto affrontare la difficile decisione di scegliere con chi uscire?» «Non è andata proprio così. Il giorno successivo Fred mi ha telefonato a casa e mi ha chiesto di uscire. Gli ho domandato se aveva il permesso della banda e lui mi è sembrato un po' imbarazzato.» Mi sporsi dalla finestra. «Eccoli che arrivano.» Louise diede una sbirciata fuori. Erano in fondo alla strada e non ci avevano notato. «Sembrano carini» disse cerimoniosamente. «Fred è quello in mezzo, con la grossa borsa, quello con i capelli di un castano molto chiaro, quasi biondi.» «Bene, ti sei presa il più carino.» «Quello con quel soprabito lungo è Duncan.» «Come fa a portare una cosa del genere con questo caldo?»
«Gli piace avere l'aria del pistolero da spaghetti-western. Non se lo toglie mai. Gli altri due sono fratelli, i fratelli Burnside. Quello con il berretto e gli occhiali è Graham e quello con i capelli lunghi Morris. Ciao!» urlai ai ragazzi in basso. Loro guardarono in su, sorpresi. «Ci piacerebbe venir su» urlò Duncan, «ma sfortunatamente dobbiamo andare a una festa.» «Chiudi il becco» risposi. «Ecco, prendi.» Lanciai un mazzo di chiavi e, devo ammetterlo, con gran stile Graham si tolse il berretto e le prese con quello. Poi i ragazzi entrarono scomparendo dalla nostra vista. «Svelta» disse Louise. «Abbiamo trenta secondi. Chi di loro devo sposare? Chi è il più promettente? Lascia pure fuori Fred per il momento.» Pensai per due secondi. «Graham, fa l'assistente di un fotografo.» «Bene.» «Duncan e Morris lavorano insieme. Con i computer. Non so bene che cosa facciano, ma non importa, no? Duncan è l'anima di tutte le feste; Morris è abbastanza timido, preso da solo.» «Sono i due fratelli, vero?» «No, quelli sono Morris e Graham. Duncan è quello con i capelli rossi. È completamente diverso.» «Bene. Allora per il momento i due del computer sembrano i più promettenti. Morris il fratello timido e Duncan il rosso caciarone.» I ragazzi entrarono nella stanza, riempiendola. Quando avevo detto loro della festa, mi avevano domandato sfacciatamente che tipo di ragazze ci sarebbero state e per strada facevano un sacco di chiasso, ma nell'appartamento, quando presentai loro Louise, furono più quieti ed educati. Mi piaceva questo, di loro. Fred si fece avanti e mi diede un lungo bacio, che non potei fare a meno di pensare fosse una dimostrazione pubblica. Era affetto o stava marcando il suo territorio? Poi tirò fuori una specie di drappo dai colori vivaci. «Ho pensato che ti sarebbe stato utile. Da appendere davanti alla macchia di umidità» disse. «Grazie, Fred.» Guardai il drappo con aria dubbiosa. Era un po' troppo variopinto, con colori stridenti. «Ma immagino che a quelli che vengono a vedere l'appartamento sia permesso sollevare i drappeggi per vedere che cosa c'è sotto.»
«Almeno c'è qualcuno che viene a vedere l'appartamento. Appendilo, dai.» «Va bene.» «Zoe mi ha detto che siete dei geni con i computer» disse Louise a Duncan. Morris, che stava con noi, arrossì leggermente, e fu una cosa carina. «Il fatto che lei lo pensi» rispose Duncan, aprendo una lattina di birra, «non vuol dire molto. È solo perché le abbiamo insegnato a usare il computer.» Bevve un sorso. «A dir la verità è stata un'impresa considerevole, come insegnare a uno scoiattolo a trovare le nocciole.» «Ma gli scoiattoli sono bravissimi a trovare le nocciole» obiettò Morris. «È vero» rispose Duncan. «Ma sono già bravi» insistette Morris. «Vero. Ora Zoe è brava al computer come uno scoiattolo a trovare nocciole.» «Ma avresti dovuto dire che era come insegnare a uno scoiattolo a fare il giocoliere.» Duncan sembrò perplesso. «Ma è impossibile insegnare agli scoiattoli a fare i giocolieri.» Riempii il bicchiere di Louise. «Potrebbero continuare in questo modo per ore» dissi. «È una di quelle cose che li tiene uniti. Ha a che fare con l'essere andati all'asilo insieme.» Andai a prendere delle patatine in cucina e Louise venne con me, tenendo d'occhio i ragazzi in soggiorno. «È proprio carino» disse, accennando a Fred. «Che cosa fuma? Sembra molto rilassato. Esotico.» «E un po' hippy, ma è bello essere rilassati.» «Fa sul serio?» Bevvi un sorso dal suo bicchiere. «Te lo dirò tra un po'.» Arrivarono gli altri. John, un maestro simpatico della nostra scuola, che mi aveva chiesto di uscire con lui qualche giorno troppo tardi, e un paio di ragazze che avevo conosciuto tramite Louise. La festa divenne un vero e proprio anniversario in miniatura. Dopo un paio di drink cominciavo a sentirmi bendisposta verso tutti loro, questo nuovo circolo di amici. Io ero tutto ciò che avevano in comune. Un anno fa ero sola e persa e non conoscevo nessuno di loro, e ora stavo facendo una festa nella mia cosiddetta casa, di venerdì sera. Improvvisamente ci fu un tintinnio. Era Fred che batteva su una bottiglia di vetro con una forchetta.
«Silenzio, silenzio» disse, quando si era già fatto silenzio. «Per quanto non sia abituato, eccetera eccetera. Vorrei che mi concedeste la vostra attenzione per dire che questo appartamento mi piace, e che mi piacerebbe se noi tutti alzassimo i bicchieri e ci augurassimo di incontrarci di nuovo qui tra sei mesi a passare un'altra bella serata.» Ci fu un generale brindisi. Fui accecata dal flash di Graham che scattava fotografie. Lo faceva in continuazione: chiacchieravi e lui alzava la macchina fotografica e te la puntava addosso, come un terzo occhio. Era abbastanza sconcertante, come se mentre parlava o ti ascoltava fosse in realtà sempre in cerca di una buona posa. «Inoltre» continuò Fred, «è il nostro anniversario.» Ci guardammo intorno stupiti, io per prima. «Sì, sono nove giorni che Zoe e io ci siamo... ehm...» Fece una pausa. «Insomma, messi insieme.» Ci furono risolini sommessi dietro di me da parte di Duncan e Graham, non di altri. Per un momento ebbi la sensazione di essere presa in trappola in una cena al club del rugby. «Fred» dissi, ma lui alzò una mano per fermarmi. «Aspetta» continuò. «Sarebbe triste se questa sera non fosse segnata da qualcosa di solenne, ma... che cos'è questo?» Pronunciò le ultime parole con un tono stupito pateticamente falso, chinandosi a rovistare dietro la mia poltrona. Da lì tirò fuori un grosso pacco avvolto in carta marrone. «O è uno dei pacchi degli ammiratori anonimi di Zoe oppure deve essere un regalo.» «Stupidi» dissi, ma in modo gentile. Sembrava un quadro. Strappai la carta e vidi che cos'era. «Bastardi» feci ridendo. Avevano incorniciato la pagina del «Sun» con il titolo «Io e il mio cocomero» e in caratteri più piccoli: «Biondina mette K.O. borseggiatore». «Discorso» esclamò Louise con la mano sulla bocca a mo' di altoparlante. «Discorso.» «Bene» cominciai, ma fui subito interrotta dal campanello. «Aspettate un minuto.» Andai ad aprire la porta e mi trovai davanti un uomo con un vestito di velluto a coste marrone e delle scarpe di gomma. «Sono venuto a vedere l'appartamento» disse. «Non disturbo?» «Venga, si accomodi» gli risposi con slancio. Mentre lo accompagnavo su per le scale si sentirono le voci dei miei ospiti. «Sta dando una festa, mi pare» mi disse. «Sì, è il mio compleanno.»
QUATTRO Gradatamente il flusso delle lettere cominciò a scemare. Il fiume divenne un rigagnolo e poi si seccò del tutto. Per un po' era stato divertente. Una volta portai un pacco di lettere con me quando dovevo vedermi con Fred e i ragazzi. Andammo a sederci a un tavolo all'aperto in un bar di Soho, bevemmo birra gelata e ce la spassammo a leggere ad alta voce qualche brano scelto. Poi, mentre Morris e Duncan si lanciavano in una delle loro conversazioni impenetrabili, sfidandosi a nominare i sette nani o i sette saggi o i sette peccati capitali, io ne parlai più seriamente con Graham e Fred. «È il pensiero di queste persone, in tutta l'Inghilterra, che si mettono a scrivere lettere di otto pagine a una tizia che non conoscono neanche, e cercano il mio nome sull'elenco telefonico, e vanno a comprare il francobollo... Mi turba. Possibile che non abbiano di meglio da fare?» «No, non hanno niente di meglio» rispose Fred. Mi mise una mano sul ginocchio. «Tu sei una dea. Tu e il tuo cocomero. Ti abbiamo tutti amata già da prima. Ora sei diventata una fantasia per gli uomini. Una bellissima donna potente. Tutti noi desideriamo che una donna come te passeggi sui nostri corpi con i tacchi a spillo.» Poi si piegò in avanti e mi sussurrò nell'orecchio con il fiato caldo: «E sei tutta mia». «Smettila» dissi. «Non è divertente.» «Ora sai che cosa significa essere una celebrità» disse Graham. «Goditelo finché puoi.» «Per l'amor del Cielo, possibile che non ci sia nessuno che mi capisca? Morris, che cos'hai da dire in mio favore?» «Giusto» intervenne Fred. «Morris, come consiglieresti a una bella donna di affrontare la celebrità?» Si piegò in avanti e diede dei colpetti gentili sulle guance a Morris. A volte i ragazzi mi sconcertavano, come se stessero seguendo dei rituali di una strana cultura esotica che non conoscevo. Uno di loro diceva o faceva qualcosa a un altro e io non riuscivo a capire se fosse uno scherzo, un insulto o un insulto scherzoso. Non sapevo se la vittima avrebbe riso o si sarebbe arrabbiata. Per esempio, Fred non sembrava mai dire nulla di carino a Morris, tuttavia parlava di lui come del suo miglior amico. Ci fu un silenzio improvviso e io sentii una stretta allo stomaco. Morris socchiuse gli occhi e si passò le dita tra i capelli. La prima volta avevo pensato che lo facesse per far notare come fossero lunghi e folti.
«Chi sa nominare dieci film in cui ci sia una lettera?» domandò. «Morris!» esclamai furiosamente. «Lettera da una sconosciuta» fece Graham. «Lettera a tre mogli» disse Duncan. «La lettera scarlatta» disse Fred. «Troppo facile» ribatté Morris. «Dieci film in cui ci sia una lettera, ma non la parola "lettera" nel titolo.» «Per esempio?» «Casablanca.» «Non ci sono lettere in Casablanca.» «Sì che ci sono.» «No che non ci sono.» La conversazione seria era terminata. Poi smisi anche di leggerle. Alcune le riconoscevo già dalla busta e non le aprivo neanche. Ad altre davo un'occhiata affrettata e le gettavo nella scatola di cartone con il resto. Non erano neppure più divertenti. Alcune erano tristi, altre oscene, ma la maggior parte erano semplicemente noiose. Se volevo ricordarmi che vivevo in mezzo allo squallore, mi bastava solo guardare fuori della finestra, i cui infissi, a proposito, stavano marcendo. Ragazzi su macchine scassate con la mano sul clacson e il volto rosso per l'ira. Vecchi soli con i carrelli della spesa che si facevano largo barcollando tra la folla, borbottando tra sé e sé. Ubriachi seduti sui portoni di negozi sbarrati un po' più in giù lungo la strada, con i pantaloni aperti, lo sguardo lascivo e la puzza di piscio e whisky. Inoltre la follia mi entrava anche dalla porta di casa sotto forma degli eventuali compratori dell'appartamento. Per esempio un tizio di cinquant'anni circa, molto piccolo, con orecchie a cavolfiore e una gamba più corta dell'altra volle mettersi in ginocchio sul pavimento e dare dei colpi sul battiscopa, come un dottore che ausculta i polmoni a un paziente. Io rimasi in piedi accanto a lui senza sapere che cosa fare, sussultando alla musica che entrava in casa dal pub. O la giovane donna, probabilmente della mia età, con dozzine di borchie d'argento sui lobi delle orecchie a formare una specie di cresta protuberante, che portò con sé i tre cani enormi e puzzolenti mentre ispezionava l'appartamento. Il pensiero di quello che sarebbe diventato dopo una settimana se ci si fossero stabiliti mi fece venire il voltastomaco. C'era a malapena spazio per una persona. Uno dei cani mangiò le vitamine che avevo lasciato sul tavolo e un altro si accucciò vicino alla porta d'ingresso facendo delle puzze orribili.
La maggior parte dei visitatori rimaneva solo pochi minuti, quel tanto per non far la figura dei maleducati, e poi se ne andava. Qualcuno non si fece scrupolo di essere sgarbato, qualche coppia disse ad alta voce quello che pensava. Forse se la conoscenza fosse rimasta superficiale, casuale, Guy mi sarebbe sembrato un normale membro della razza umana. Ma poiché non riusciva a vendere il mio appartamento, stavamo diventando soci a lungo termine. Era sempre vestito con eleganza, aveva un gran numero di completi e cravatte colorate, alcune delle quali con personaggi dei cartoni animati. Per quanto facesse caldo, non sudava. O, piuttosto, sudava con discrezione, una sola goccia di sudore sul viso. Profumava di dopobarba e colluttorio. Pensavo che il mio appartamento, con il tempo, significasse solo un fallimento per lui, e quindi cercasse di evitarlo. Non c'era bisogno di una guida esperta per visitarlo. Eppure lui continuava ad accompagnare visitatori, anche a ore inconsuete, di sera e nei finesettimana. Non mi sarei dunque dovuta sorprendere quando, dopo che una signora magra e dall'aspetto ansioso se l'era svignata, Guy mi guardò intensamente negli occhi e mi disse: «Penso che una di queste sere dovremmo andare a bere qualcosa insieme, Zoe». Avrei dovuto zittirlo con una scenata monumentale, buttargli in faccia tutto l'odio che covavo per lui e la sua abbronzatura fasulla e i suoi eufemismi oltraggiosi, ma non mi venne in mente niente, così invece bofonchiai: «Penso che dovremmo abbassare il prezzo». L'uomo che era venuto la sera del mio party ritornò con un metro a nastro, un taccuino e una macchina fotografica. Fu di sera, non tardi, una volta che Fred era nello Yorkshire Dales a fare uno strano lavoro per una TV regionale: nel giro di trentasei ore doveva trasformare un grande giardino incolto per un programma che sarebbe andato in onda tra un anno. Mi aveva chiamato da un pub con la voce alterata dall'alcol e dal desiderio, e mi aveva detto le cose che immaginava mi avrebbe fatto quando fosse ritornato. Non era ciò che avevo bisogno di ascoltare: stavo combattendo con il computer. Cercavo di fare un grafico circolare. Era sembrato così semplice quando Duncan, o era stato Morris?, me l'aveva mostrato. Sullo schermo continuava ad apparire la scritta ERRORE. Fumavo e bestemmiavo mentre l'uomo che avrebbe o non avrebbe comprato il mio appartamento curiosava gironzolandomi intorno. Misurava i pavimenti, apriva credenze, sollevava il tappeto logoro e l'orrendo drappo di Fred e ispezionava la macchia di umidità, che sembrava espandersi nonostante il tempo
fosse caldo e secco; l'uomo apriva i rubinetti del bagno e rimaneva a guardare il misero getto d'acqua. Quando andò in camera da letto e sentii che apriva i cassetti, andai a vedere. «Che cosa sta facendo?» «Guardavo» rispose indifferente, curiosando nel guazzabuglio delle mie mutande e reggiseni e calze smagliate. Chiusi il cassetto con un calcio e ritornai in cucina. Avevo fame, ma quando aprii il frigorifero ci trovai dentro solo un sacchetto di cipolloni vetusti, un panino bianco su cui cresceva della muffa, un sacchetto marrone vuoto con dentro dei noccioli di ciliegie, e una lattina di Coca Cola. Nel reparto dei surgelati c'era un sacchetto di gamberoni, probabilmente scaduti da parecchio tempo, e un sacchetto di piselli. Allora bevvi la Coca stando vicino al frigo, poi ritornai al computer e scrissi: «Il nostro scopo è quello di formare non solo dei lettori competenti, ma anche dei lettori interessati. Un programma attentamente studiato fornisce agli studenti la possibilità di rafforzare...» Dannazione. Non ero diventata maestra per scrivere relazioni di quel genere. Tra non molto avrei cominciato a scrivere frasi come «livello di apprendimento soddisfacente» e cose del genere. Mi misi in bocca tre pastiglie di vitamine e le masticai con rabbia. Poi presi i quaderni con il compito, se non è una parola troppo grande per definirlo, che avevo assegnato alla classe e che avevo portato a casa. Avevo chiesto a tutti i miei allievi di disegnare una delle loro storie preferite. Qualcuno di quei disegni era incomprensibile. Le linee a zigzag di Benjamin dovevano rappresentare «Il lupo cattivo». Arte astratta, probabilmente. Jordane aveva disegnato un grosso cerchio verde, nient'altro, per «La principessa sul pisello». Molti avevano tratto le storie da film di Disney: Bambi e Biancaneve e cose del genere. Li guardai, scrissi dei commenti incoraggianti e li misi in una cartelletta sotto la tavola. «Vado, ora.» L'uomo era sulla soglia con la macchina fotografica intorno al collo. Si batteva la penna contro i denti e mi stava fissando. Vidi che la calotta pelata al centro della testa era di un rosa crudele e anche i suoi polsi erano bruciati dal sole. Bene. «Bene.» Non una parola sulla possibilità di ritornare. Bastardo. Uscii pochi minuti dopo di lui per andare a vedere un film con Louise e altre sue amiche che non conoscevo. Era bello star seduta al buio con un gruppo di donne, sgranocchiare pop-corn e ridacchiare. Mi fece sentire al
sicuro. Ritornai piuttosto tardi. Era buio, non c'erano stelle in cielo. Aprii la porta e sullo zerbino vidi una lettera, che qualcuno doveva aver infilato nel buco della posta. L'indirizzo era scritto in corsivo, con grande precisione, in nero. Non sembrava un altro pazzo. Aprii la lettera stando sulla porta. Cara Zoe, quand'è che una persona come te, giovane, graziosa e sana, comincia ad avere paura della morte? È una cosa che mi chiedo. Tu fumi (a proposito, hai una macchia di nicotina sul dito). A volte ti droghi. Mangi cose poco sane. Vai a letto tardi e il giorno successivo non stai male. Probabilmente pensi che vivrai per sempre, che sarai giovane ancora per molto tempo. Zoe con i denti bianchi e la fossetta quando sorridi, non sarai giovane a lungo. Ti avverto. Hai paura, Zoe? Ti sto osservando. Non me ne andrò via. Arrivai sul bordo del marciapiede fissando la lettera. Folle di persone mi passavano accanto urtandomi. Sollevai la mano sinistra e vidi una macchia gialla sul dito medio. Appallottolai la lettera e la gettai in un bidone insieme a tutta l'altra spazzatura, tutta l'immondizia della vita altrui. Oggi ha un vestito azzurro chiaro con le spalline. Le arriva alle ginocchio e l'orlo è leggermente sporco di polvere di gesso, ma lei non l'ha ancora notato. Non porta il reggiseno. Si è depilata le ascelle; le gambe sembrano lisce, morbide. Sulle unghie dei piedi ha uno smalto tenue, che sull'alluce sinistro sta cominciando a scheggiarsi. Ha sandali piatti, blu, vecchi, scalcagnati. È abbronzata, i peli sulle braccia sono dorati. A volte riesco a intravedere la zona ascellare, lattea; la pelle più bianca dietro le ginocchio; se si piega vedo che il color miele delle spalle e della gola si sbianca nella fessura tra i seni. I capelli sono raccolti in alto. Si sono schiariti al sole, per cui sotto sono assai più scuri che sopra. Porta dei piccoli orecchini d'argento a forma di fiorellini. A volte, spesso, li rigira tra l'indice e il pollice. Ha i lobi delle orecchie piuttosto lunghi. Il solco verticale sopra il labbro superiore è molto pronunciato. Quando ha caldo, come oggi, il sudore vi si raccoglie. Di tanto in tanto se lo asciuga con un fazzoletto di carta. Ha i denti bianchi, ma ho visto parecchie otturazioni in fondo alla bocca. Luccicano quando ride o sbadiglia. Non si è truccata. Vedo la punta chiara delle ciglia, le labbra leggermente screpolate. Sul
naso ha uno spruzzo di lentiggini che non aveva l'ultima volta che l'ho osservata. La macchia gialla sul medio è scomparsa. Bene. Non ha anelli. Al polso porta un orologio dal quadrante grande, con Topolino al centro. Come cinturino usa un nastro. Quando ride emette un suono come di campanelle. Se le dicessi che la amo riderebbe di me producendo quel suono. Penserebbe che non lo dico sul serio. Le donne fanno così. Trasformano le cose grandi e serie in piccole e ridicole. L'amore non è ridicolo. È una questione di vita o di morte. Un giorno, presto, lo capirà anche lei. Capirà che il suo modo di sorridere, o di spalancare gli occhi quando ascolta, il modo in cui il seno si appiattisce quando mette le mani sopra la testa, capirà che queste cose contano. Sorride troppo facilmente. Ride troppo facilmente. È una civetta. Porta vestiti da poco prezzo. Attraverso il vestito riesco a vederle le gambe e a intuire la forma del capezzolo. Non è molto accurata. Parla molto velocemente con una voce leggera, roca. Dice «seé», non «sì». Ha gli occhi grigi. Non è ancora spaventata. CINQUE Tutti sanno che le scuole, quasi ovunque tranne forse in paesi particolarmente operosi come il Giappone, finiscono alle quattro o alle tre e mezza, ma i piccoli a cui insegno io escono anche prima, alle tre e un quarto. Persino chi non sa nulla di bambini ne è consapevole. Vedono per strada bimbi e bimbe condotti per mano dalle mamme o trascinati dalle babysitter, con zainetti e cestini del pranzo. Avevo scoperto presto che una metà del traffico londinese nell'ora di punta era costituito dai grossi veicoli adibiti al trasporto di bambini in uniforme dall'aria depressa che, dalle belle case a cui appartenevano venivano portati alle lontanissime scuole considerate degne di loro. Perché naturalmente, e anche questo l'avevo scoperto di recente, uno dei principali status symbol dei genitori londinesi è la distanza delle scuole dei loro bambini. La scuola di quartiere è per i bambini poveri, come quelli a cui insegno io. La cosa più divertente quando la gente scopre che sono un'insegnante è che mi invidia perché ho tanto tempo libero e tante vacanze. Buffo, visto che è uno dei motivi meno degni per cui ho scelto questo lavoro. I miei risultati scolastici non erano stati molto brillanti, così non avevo potuto fare studi importanti, tipo curare i micini ammalati, come avrei voluto quando ero molto più giovane. L'unica scelta rimasta era insegnare ai bambini pic-
coli. Cosa che non mi dispiaceva. I bambini mi piacevano, mi piaceva la loro trasparenza, la loro avidità, la loro potenzialità. E non mi dispiaceva l'idea di stare intorno a una sabbiera tutto il giorno a soffiare nasi e aiutare a mescolare tinte. Invece avevo scoperto che il mio lavoro era più simile a quello di un contabile in uno zoo. E si lavorava di più dei contabili. Stava per arrivare un'ispezione ufficiale. Dopo che i bambini erano stati presi e riportati alle loro case o appartamenti, noi avevamo riunioni, programmazione, moduli da riempire. Stavamo a scuola fino alle sette, alle otto, alle nove e Pauline avrebbe fatto bene a installare un letto e una stufetta da campo a scuola, perché sembrava averci messo le radici. Quella sera me ne andai prima, perché avevo un appuntamento con un tizio per l'appartamento. Naturalmente l'autobus ci mise secoli ad arrivare, così quando arrivai a casa, di corsa, con soli cinque minuti di ritardo, alle sette e trentacinque, il tizio era già sulla porta che leggeva un giornale. Un pessimo inizio. Gli avevo dato troppo tempo per valutare il quartiere. Fortunatamente sembrava immerso in ciò che stava leggendo. Magari non aveva notato il pub o non ne aveva soppesato tutte le conseguenze. Aveva indosso un vestito un po' strano, con i risvolti di traverso, che probabilmente costava un mucchio di soldi. Doveva avere trent'anni, o meno. Aveva i capelli molto corti e un aspetto fresco in quel caldo soffocante. «Mi dispiace» dissi ansimando. «L'autobus.» «Non importa» fece lui. «Nick Shale. Lei è la signorina Haratounian?» Ci stringemmo la mano secondo lo stile continentale. E lui sorrise. «Che cosa c'è di divertente?» «Me l'ero raffigurata come una padrona di casa vecchia e arcigna» disse. «Ah» risposi, sforzandomi di sorridere per gentilezza. Aprii il portone. Sullo zerbino c'era la solita spazzatura, volantini di pizzerie da asporto, di imprese di pulizie, di taxi e una lettera recapitata a mano. Riconobbi immediatamente la scrittura. Era quel folle che mi aveva già mandato una lettera. Quando? Cinque giorni prima. Era venuto fino alla mia porta. Che noia e che rabbia. Che cosa antipatica. Guardai un momento la lettera e poi Nick, che aveva un'espressione perplessa sul viso. «Che cosa ha detto?» gli domandai. «La borsa. Posso portargliela io?» Gliela lasciai senza parlare. Con molta abilità riuscii a fargli fare il giro dell'appartamento in tre minuti, mostrandogli tutti i lati interessanti ed evitando con disinvoltura i
punti di cui non c'era proprio da vantarsi. Di tanto in tanto Nick faceva una domanda di quelle a cui ero ormai abituata. «Perché vuole cambiar casa?» Pensava di mettere in trappola una vecchia volpe come me così facilmente? «Voglio avvicinarmi al lavoro» mentii. Guardò fuori della finestra. «Il traffico è un problema?» domandò. «Non ci ho mai pensato» risposi. Questa era una bugia piuttosto grossa, ma per lo meno lui non si mise a ridere. Posai la lettera sul tavolo, senza aprirla. «Ci sono molti negozi a portata di mano.» Si mise le mani in tasca e andò in mezzo al soggiorno, come se stesse cercando di capire come ci si sentiva da proprietari. E in effetti sembrava un nobile nella sua piccola tenuta. «Non è di Londra, vero?» mi domandò. «Perché me lo chiede?» «Non parla con accento londinese. Sto cercando di capire da dove viene. Il suo cognome sembrerebbe armeno, ma lei non ha l'accento armeno. Non che sappia com'è l'accento armeno. Magari gli armeni parlano proprio come lei.» Diventavo piuttosto suscettibile quando le persone che venivano a vedere l'appartamento entravano nell'area personale, come se dovessimo diventare grandi amici, ma non potei fare a meno di sorridere. «Vengo da un villaggio vicino a Sheffield.» «Differente da Londra?» «Sì.» Facemmo entrambi una pausa di meditazione. «Riguardo all'appartamento, ci penserò» disse Nick con un'espressione sincera. «Le dispiacerebbe se ritornassi a dare un'altra occhiata un po' più avanti?» Mi venne il dubbio che non fosse l'appartamento a interessargli, ma non me ne importava poi molto. Anche una briciola di interesse era già qualcosa. «Va bene» risposi. «Posso telefonarle direttamente o devo passare per l'agenzia?» «Come vuole. Sono quasi sempre al lavoro.» «Che cosa fa?» «Sono maestra di scuola materna.» «Bello. Un sacco di vacanze.» Sorrisi con un certo sforzo. «Il suo numero di telefono, me lo può dare per favore?»
Glielo dettai e lui lo scrisse su quello che sembrava un grosso calcolatore. «Mi ha fatto piacere conoscerla, ehm...?» «Zoe.» «Zoe.» Lo sentii scendere velocemente le scale, a due gradini alla volta, e rimasi sola con la lettera. Per un po' feci finta che non mi importasse. Mi preparai un caffè istantaneo e accesi una sigaretta. Poi la aprii e la stesi sul tavolo davanti a me: Cara Zoe, potrei sbagliarmi, ma non mi sembra spaventata quanto vorrei. Come sa, la sto osservando. Forse quando leggerà questa lettera, la starò guardando. Era stupido, ma girai lo sguardo intorno, come a sorprendere qualcuno. Come ho detto prima, quello che mi interessa veramente è osservarla dentro, scoprire quei pezzetti di lei che lei non vedrà mai, ma io sì. Forse lei si sente sicura in quel suo orribile appartamentino che non riesce a vendere. Ma non è così. Per esempio, la finestra sul retro. È facile arrampicarsi usando la tettoia che c'è nel cortile e poi saltar dentro. Dovrebbe metterci una chiusura come si deve, quella che ha ora non serve a nulla. E per questo che ho lasciato aperta la finestra. Vada a vedere. P.S. Sembra felice quando dorme. Essere morti è solo come essere addormentati per sempre. Rimisi il foglio sul tavolo. Attraversai la stanza e uscii sul pianerottolo. La finestra che si affacciava sul giardino a cui non mi era permesso accedere era effettivamente sollevata di un mezzo metro. Ebbi un brivido. Mi sembrò quasi che l'appartamento si fosse fatto gelido, come una cantina, anche se sapevo che era una serata calda e afosa. Ritornai nel soggiorno e mi sedetti davanti al telefono. Avrei voluto sentirmi male. Ma era un'emergenza? Era una cosa di cui preoccuparsi? Decisi per un compromesso. Cercai il numero del posto di polizia più
vicino sull'elenco telefonico e chiamai. Ebbi una discussione leggermente complicata con una donna al centralino che sembrava cercar scuse per mettere giù il telefono. Le dissi che qualcuno era entrato in casa mia e lei mi domandò che cosa aveva rubato e che danni aveva fatto. Le dissi che non c'erano danni e non sapevo se fosse stato rubato qualcosa. «E una faccenda che riguarda la polizia?» disse la voce stancamente. «Sono stata minacciata» risposi. «Minacciata con violenza.» La discussione continuò ancora per parecchi minuti e poi la donna, dopo aver parlato con una terza persona, coprendo malamente il microfono con la mano, disse che qualcuno avrebbe fatto dei controlli a tempo debito, qualunque cosa significasse. Andai da una finestra all'altra, serrandole quanto si poteva, facendo scorrere i chiavistelli. Come se qualcuno potesse arrampicarsi su una finestra al primo piano completamente in vista su Holloway Road. Non accesi né televisione né stereo. Volevo essere in grado di udire qualsiasi rumore. E cominciai a fumare una sigaretta dopo l'altra bevendo una birra. Un'ora dopo il campanello suonò. Andai alla porta sulla strada, ma non l'aprii. «Chi è?» Da dietro la porta sentii un suono soffocato. «Che cosa?» Un altro suono soffocato. Goffamente sollevai lo sportello a molla della cassetta per le lettere e guardai fuori. Vidi una divisa blu scuro. Aprii la porta. C'erano due poliziotti. L'auto era parcheggiata alle loro spalle. «Volete entrare?» Non risposero, si scambiarono uno sguardo ed entrarono. Feci loro strada su per le scale. Entrambi si tolsero il cappello quando furono in casa. Mi domandai se fosse un'antica forma di rispetto nei confronti di una donna. Tanto per rendere le cose più difficili, la polizia mi metteva sempre in tensione. Cercai di ricordare se in casa ci fosse niente di illegale: nel frigorifero o su qualche mensola. Mi pareva di no, ma il cervello non mi funzionava molto bene, perciò non ne ero sicura. Indicai la lettera sul tavolo. Forse non avrei dovuto toccarla. Poteva essere una prova. Uno dei poliziotti si fece avanti e si chinò sul tavolo per leggerla. Gli ci volle parecchio tempo. Vidi che aveva un lungo naso romano, con una gobba nel punto in cui si congiungeva al capo. «Ha ricevuto un'altra lettera da questa persona?» domandò infine. «Sì, qualche giorno fa. Mi pare mercoledì.» «Dov'è?» Me l'aspettavo. «L'ho gettata via» dissi sentendomi leggermente in col-
pa, poi velocemente ricominciai a parlare, prima che potesse rimproverarmi. «Mi dispiace, so di aver fatto una cosa stupida, ma ero molto turbata.» Ma il poliziotto non si arrabbiò, né mi parve preoccupato. E nemmeno particolarmente interessato. «Ha controllato la finestra?» «Sì, era aperta.» «Ce la può mostrare?» Li portai fuori della stanza. Mi seguirono con una certa riluttanza, come se avessi chiesto loro di fare troppo per una sciocchezza simile. «Laggiù c'è il giardino del pub» mormorò l'altro poliziotto guardando fuori della finestra. Naso Romano annuì. «Potrebbe aver visto la finestra di là.» Si voltarono e ritornarono nel soggiorno. «Le viene in mente qualcuno che possa averle mandato questa lettera? Un ex fidanzato, un collega, o qualcosa del genere?» Feci un respiro profondo e raccontai loro la storia del cocomero e delle lettere che avevo ricevuto. Si misero a ridere. «Ah, allora è lei!» esclamò Naso Romano allegramente. Poi si rivolse all'altro: «Danny è stato il primo a intervenire in quel caso». Si voltò di nuovo verso di me. «Bel colpo. Abbiamo appeso la sua fotografia alla centrale. Per noi è un'eroina.» Ridacchiò. «Un cocomero, eh? Meglio che un manganello.» Ci fu un gracchiare alla sua radio. Premette un bottone e una voce disse qualcosa che non distinsi. «Va bene, veniamo tra un minuto. Ci vediamo là.» Mi guardò di nuovo. «Questo spiega tutto allora.» «Che cosa?» «Quando si finisce sul giornale queste cose succedono.» «Ma è entrato in casa, mi ha minacciato.» «Lei non è di Londra, vero? Come ha detto che si chiama?» «Haratounian. Zoe Haratounian.» «Buffo nome. Italiano, no?» «No.» «C'è un sacco di gente stramba in giro.» «Ma non ha commesso un reato?» Naso Romano scrollò le spalle. «Ha rubato qualcosa?» domandò. «Non so, ma mi pare di no.» «Ci sono segni di forzature?» «Non mi pare, no.» Lanciò un'occhiata al compagno e poi fece un cenno verso la porta, che
chiaramente significava: «Andiamocene da qui appena riusciamo a far star zitta questa tizia». «Ci telefoni se succede qualcosa di serio» disse accentuando in modo poco piacevole, anche se non rudemente, la parola «serio». Si voltarono per andarsene. «Non prendete la lettera?» «La tenga lei, cara. La metta in un cassetto o al sicuro da qualche parte.» «Non devo fare nessuna dichiarazione ufficiale? Non devo riempire dei moduli?» «Se avrà ancora dei guai, faremo tutto questo, cara. Va bene? Ora vada a dormire. Abbiamo del lavoro da fare.» E andarono al lavoro. Guardai fuori della finestra mentre la loro auto partiva e si dileguava in mezzo a tutte le altre luci e ai rumori della città soffocante. SEI Fuori, su Holloway Road, si sentiva una musica ad alto volume, come se per strada si stesse svolgendo un party notturno leggermente sinistro. Qualcuno batteva le mani con forza. Si udì il suono di un clacson. La notte afosa tratteneva tutti gli odori: spezie, cipolle fritte, gas di scarico, patchouli, aglio, cannella e l'inaspettato effluvio di rose. Ogni tanto un debole alito di vento faceva sventolare le tendine alla finestra spalancata, altrimenti il calore era spesso, fitto, denso. Era notte fonda ma non c'erano né stelle, né luna, solo i lampioni, che mandavano nella stanza un bagliore arancione, sporco. E il rumore. Gente. Automobili. Per un momento provai il desiderio di essere in mezzo a una foresta, o a un deserto, o in mezzo al mare. Non tenni gli occhi chiusi. Guardavo Fred e lui guardava me, sorridendo leggermente, sicuro di sé, mentre il sudore della sua fronte mi cadeva sul viso e sul collo, e le nostre mani scivolavano sui corpi madidi. Per me lui era ancora sconosciuto: la fronte alta, la bocca piena, il corpo lungo, sottile, liscio, piuttosto morbido. Anche dopo una sera di danze e sesso sapeva di pulito, di lievito. Sapone al limone e terra, erba e birra. Scostai il lenzuolo umido e lui si allungò nel letto stretto, mise le mani dietro la testa e mi sorrise. «È stato bello» mormorai. «Grazie» rispose.
«Non dovresti rispondere così. Dovresti dire qualcosa come: "Anche per me".» Fred scosse il capo. «Hai mai fatto sesso in modo più bello di questo?» Non potei fare a meno di ridacchiare. «Stai dicendo sul serio? Vorresti che ti dicessi: "Oh, Fred, non sapevo che potesse essere così"?» «Chiudi il becco.» Lo guardai. Non stava sorridendo. L'avevo ferito. Aveva un'espressione umiliata e arrabbiata. Uomini. Mi sedetti a gambe incrociate, feci scivolare due sigarette fuori dalla scatola che stava sul pavimento, le accesi tutte e due e gliene diedi una. «Non ho mai fatto l'amore con un giardiniere prima.» Lui aspirò il fumo e poi lo soffiò facendo un anello perfetto, che rimase nell'aria un secondo prima di dissolversi. «Non sono un giardiniere. Faccio il giardiniere. Do una mano.» «Come se io dicessi: non sono un'insegnante, faccio l'insegnante?» Soffiò un altro anello di fumo e lo guardò. «Tu sei un'insegnante. Io appena potrò cambierò lavoro.» «Ah» mi sentii invadere da un'onda di risentimento. «Grazie tante. Be', e tu hai mai fatto l'amore con un'insegnante?» Alzò le sopracciglia e poi il suo viso si illuminò di un sorriso pieno di desiderio. «Non con un'insegnante famosa.» Non volevo pensarci. Per tutta la sera avevo bevuto, riso, danzato, mi ero stordita e avevo cercato di non pensare. Ne avevo abbastanza di stupide battute sui cocomeri, di articoli di giornale che mi chiamavano «Zoe la biondina» e di lettere strampalate sullo zerbino. Di persone che non conoscevo che pensavano a me, che fantasticavano su di me. Magari proprio in questo momento fuori dell'appartamento c'era qualcuno che cercava di sbirciare dentro, che aspettava che Fred se ne andasse. Mi sentivo completamente sobria, ora. Buttai la sigaretta nel bicchiere vicino al letto e la sentii sfrigolare. «Quelle ultime lettere...» «Non pensarci» disse Fred in modo spiccio. Chiuse gli occhi. «Che cosa fai nel finesettimana?» «Mi hanno spaventato. Erano... non so come dire, piene di risolutezza.» «Mmmm.» Mi accarezzò i capelli dolcemente. «Pensavamo di fare un picnic sabato. Fuori città. Ci vuoi venire?» «Fate sempre tutto in gruppo?» Si chinò a baciarmi il seno. «Qualcosa riesco a farla per conto mio. E poi
che problema c'è?» «Nessuno.» Ci fu un momento di silenzio. «Rimarresti qui stanotte, Fred? Voglio dire, se ti va.» Fu come se gli avessi detto che c'era una bomba sotto il cuscino. Spalancò gli occhi e si tirò su a sedere. «Mi dispiace, devo essere alla casa di non so quale vecchia signora vicino a Wimbledon domani mattina presto.» Si infilò i boxer, i calzoni di cotone. Dio, che veloce era a vestirsi. La camicia, i bottoni, le calze, le scarpe da sotto il letto, un colpetto alle tasche per essere sicuro che ci fossero ancora tutte le monete. La giacca dallo schienale della sedia. «L'orologio» gli dissi seccamente. «Grazie. Merda, guarda l'ora. Ti chiamo domani e ci mettiamo d'accordo.» «Va bene.» «E non preoccuparti.» Mi passò le mani sul viso, mi baciò sul collo. «Donna bellissima, buonanotte.» «Ciao.» Dopo che se ne fu andato mi alzai per chiudere la finestra del soggiorno, nonostante il caldo. La stanza divenne più claustrofobica che mai. Guardai Holloway Road. Ancora qualche ora e sarebbe stato mattino. Andai a controllare la finestra del pianerottolo, cosa che avevo fatto già parecchie volte quella sera. Presi l'orologio dal bagno: l'una e quarantacinque. Se solo fosse già stata mattina. Ero stanca, ma non avevo sonno, e quando si ha paura il tempo non passa mai. Il sudore mi pizzicava la pelle improvvisamente fredda. Raccolsi il lenzuolo dal pavimento e mi asciugai il corpo prima di avvolgermelo intorno e accendere un'altra sigaretta. Peccato che non ci fosse tè in casa. Forse da qualche parte c'era del whisky. Andai in cucina e avvicinai una sedia all'alta credenza. C'era un mucchio di bottiglie vuote, che un giorno o l'altro avrei dovuto portare al riciclo, ma niente whisky. Trovai invece del liquore alla menta che uno dei miei genitori mi aveva regalato a Natale e che non avevo mai toccato. Me ne versai un sorso in una tazza che aveva perso il manico; era verde, viscoso e dolce in modo nauseante, e mi scivolò in gola come una palla di fuoco. «Puah!» esclamai forte e notai che si era fatto silenzio, si sentiva solo ogni tanto il tremito causato dal passaggio di un camion, i passi di un ritardatario sotto la finestra. Erano le due e un quarto.
Mi trascinai in bagno avvolta nel lenzuolo, mi lavai i denti e mi sciacquai il viso bollente. Poi andai a stendermi sul letto e cercai di distrarmi. Ma non riuscivo. Continuavo a ripensare alle due lettere. La prima l'avevo buttata via, ma me la ricordavo quasi tutta. La seconda l'avevo messa sulla scrivania. La polizia ovviamente non era convinta che fosse della stessa persona, ma io ne ero sicura. Non avevano dato peso alle lettere; non sapevano che cosa voleva dire essere una donna sola in uno squallido appartamento in Holloway Road, con la paura che fuori ci fosse qualcuno a spiarla. Nonostante tutto andai a prendere la lettera e la rilessi, stesa sul letto. Sapevo che quell'uomo mi aveva guardata con molta attenzione. Aveva visto cose che neppure io avevo notato di me stessa, come il dito macchiato. Mi stava studiando più attentamente di un amante. Forse mi voleva imparare a memoria, come dovesse fare un esame. Era stato qui, lo sapevo, checché ne pensasse la polizia, e aveva guardato le mie cose, le aveva toccate. Magari aveva passato in rassegna le lettere, le fotografie, i vestiti. Magari si era portato via qualcosa. Mi aveva visto addormentata. Voleva vedermi dentro, diceva. Non essermi dentro: vedermi. Mi sentii venire la nausea, ma forse era solo il liquore alla menta che ancora mi ricopriva l'interno della bocca con una patina collosa, e i drink che avevo bevuto prima, e il sesso sudaticcio, la stanchezza e oh, dannazione. Chiusi gli occhi e ci misi sopra un braccio per essere al buio completo. Londra accovacciata fuori della mia finestra era piena di occhi. Udii una goccia di pioggia, poi un'altra. Non riuscivo a smettere di pensare, a rallentare la mente. Continuavo a rimuginare sulla lettera. «Come ho detto prima.» Questa era la cosa buffa. Che cosa aveva detto? Voleva vedere dentro di me. Come aveva detto prima. Ma non l'aveva detto prima. Cercai di ricostruire nella mente la prima lettera, quella che avevo gettato via. Ne ricordavo solo dei frammenti. Ma avrei ricordato quella frase. Che cosa voleva dire? Un pensiero che avrei preferito ignorare mi colpì. Mi alzai con la bocca secca, misi giù dal letto le gambe e andai nel soggiorno a prendere da sotto il sofà la scatola di cartone con le lettere. Ce n'erano a dozzine, alcune neanche aperte. Ci avrei messo secoli. Ritornai nella camera da letto, infilai una vecchia tuta, mi versai un'altra tazza dell'orribile liquore, accesi una sigaretta e cominciai. Mi bastava dare un'occhiata a ogni lettera, anche se di fatto capivo se era sua o no già dalla busta. Mia cara Zoe... Signorina Haratounian... Ritorna
da dove sei venuta, puttana... Hai trovato Gesù?... Sorridi, ma hai gli occhi tristi... Ti sta bene... Se volesse fare una donazione alla nostra associazione... Mi sembra di averla incontrata da qualche parte... Se lei è una seguace di... Le scrivo dalla prigione... Le vorrei dire una parola di saggezza conquistata con il sudore della fronte... Ed eccola. Improvvisamente sentii il cuore battere forte, galoppare. La gola mi sembrò diventare troppo stretta per respirare. Quella scrittura, quel corsivo nero. Presi la busta, che non era stata aperta. C'era il francobollo, il mio indirizzo, il numero di codice postale. Bevvi con furia un lungo sorso di liquore, poi passai un dito sotto il lembo ripiegato della busta e la strappai. La lettera era concisa ma chiara. Cara Zoe, voglio vedere dentro di te e poi voglio ucciderti. Non c'è nulla che tu possa fare per fermarmi. Non ancora, almeno. Ti scriverò di nuovo. Fissai le parole finché non divennero sfocate. Il mio respiro si era fatto ansante, irregolare. Sulla finestra le gocce di pioggia estiva battevano lente, pesanti. Balzai in piedi e spinsi il sofà contro la porta di casa. Presi il telefono e feci il numero di Fred con dita tremanti, impacciate. Squillò a lungo. «Sì?» disse con la voce impastata di sonno. «Fred, sono Zoe.» «Zoe? Che ore sono, maledizione?» «Che cosa? Non so. Fred, ho ricevuto un'altra lettera.» «Gesù, Zoe, sono le tre e mezza.» «Dice che mi ucciderà.» «Senti...» «Puoi venire? Ho paura. Non so a chi altri chiederlo.» «Zoe, ascolta.» Lo sentii accendere un fiammifero. «Non devi preoccuparti.» Aveva la voce gentile ma insistente, come se stesse parlando a un bambino piccolo che ha paura del buio. «Non corri alcun pericolo.» Fece una pausa. «Senti, se hai così paura, chiama la polizia.» «Per favore, Fred, per favore.» «Stavo dormendo, Zoe.» Ora la sua voce era fredda. «Ti consiglio di fare altrettanto.» Smisi di insistere. «Va bene.» «Ti telefono.»
«Va bene.» Chiamai la polizia. Al telefono venne un uomo a cui non avevo mai parlato prima e che prese nota di tutti i dettagli con una lentezza esasperante. Dovetti sillabargli il mio nome due volte, H come hotel, A come ancora. Ogni volta che sentivo un rumore, mi irrigidivo e il cuore mi batteva all'impazzata. Ma naturalmente nessuno poteva entrare, era tutto serrato con chiavi e chiavistelli. «Attenda un minuto, signorina.» Aspettai, fumando un'altra sigaretta. La bocca mi sembrava diventata un posacenere. Alla fine mi disse di recarmi al posto di polizia la mattina dopo. Avrei preferito che i poliziotti venissero subito a proteggermi e a risolvere il caso, ma per il momento non avrei ottenuto che questo. Per lo meno il tono monotono e di routine della sua voce ebbe un effetto rassicurante. Cose come questa accadevano di continuo. A un certo punto mi addormentai. Quando mi svegliai erano quasi le sette. Guardai fuori della finestra. Aveva piovuto abbondantemente e la pioggia aveva pulito la strada. Le foglie sui pochi alberi avevano un aspetto meno arido e accartocciato e il cielo era blu. Mi ero dimenticata che il cielo fosse blu. SETTE Questa volta ebbi a che fare con poliziotti più importanti, il che era già qualcosa. Quelli che erano venuti all'appartamento somigliavano a dei giocatori di rugby del liceo, mentre l'ispettore con cui parlai alla polizia sembrava piuttosto un professore di geografia. Forse vestito un po' meglio dei professori di geografia che avevo avuto, in blu e con una cravatta seria. Era pesante, robusto. Quasi grasso. Disse di essere il sergente Aldham. Non fui portata in un ufficio o formalità simili. Ci incontrammo nell'atrio, poi lui digitò un numero su una tastiera e fui introdotta nella vera sede della polizia. La prima volta lo digitò in modo errato e dovette ripeterlo, più lentamente, imprecando a denti stretti. Mi portò alla sua scrivania e mi disse di sedere di fianco, cosa che mi fece sentire ancora di più una studentessa convocata dal professore dopo la scuola. O, in questo caso, prima della scuola. Avevo dovuto telefonare a Pauline per dirle che sarei arrivata tardi e lei non era stata molto contenta. Non era un buon momento, mi a-
veva risposto. Aldham lesse le due lettere molto lentamente corrugando la fronte. Io passai cinque minuti a dimenarmi sulla sedia e a guardarmi intorno, a osservare la stanza e la gente che arrivava, che parlava al telefono. Un paio di poliziotti stava ridendo per qualcosa che non riuscii a sentire, in fondo alla sala. Poi Aldham sollevò gli occhi. «Vuole una tazza di tè?» «No, grazie.» «Io ne prendo una.» «Allora va bene.» «Biscotti?» «No, grazie.» «Io ne prendo uno.» «È un po' presto.» Dopo parecchio tempo ritornò portando goffamente i bicchieri di plastica, tanto caldi che quasi non riusciva a tenerli in mano. Inzuppò un biscotto integrale nel suo tè e poi morsicò con cura la lunetta bagnata. «Allora che cosa ne pensa?» «Che cosa ne penso io? Be', ma... questo è compito suo, no?» «Non so. Che cosa diceva l'altra lettera?» «Era orribile, e l'ho buttata via. Diceva cose strane su ciò che mangio. E sulla paura di morire. Sembrava che mi stesse spiando.» «O forse la conosce.» «Mi conosce?» «Potrebbe essere uno scherzo. Non pensa che potrebbe essere lo scherzo di un amico?» Non seppi che cosa rispondere. «Un individuo mi sta minacciando. Non mi sembra uno scherzo.» Aldham si agitò sulla sedia, a disagio. «Ci sono persone che hanno un senso dello humour un po' strano» commentò. Ci fu silenzio. Stavo disperatamente pensando: mi sbaglio? La faccio troppo grossa? «Attenda un momento» mi disse alla fine. «Mi faccia parlare con una persona.» Prese una cartellina dalla scrivania e vi inserì le due lettere. Poi con cartellina e bicchiere del tè attraversò a passi pesanti la sala e scomparve dalla mia vista. Guardai l'orologio. Quanto ci sarebbe voluto? Dovevo tirar fuori i quaderni dalla borsa e mettermi a lavorare su un angolo della scrivania di Aldham? Non ero molto in vena. Quando Aldham ritornò, era accompagnato da un altro funzionario in giacca e cravatta. Un tizio più piccolo e
sottile, grigio, che sembrava più in alto nella scala gerarchica. Disse di essere l'ispettore Carthy. «Ho guardato le sue lettere, signorina... ehm...» Mormorò qualcosa che vagamente somigliava al mio nome. «Ho letto le lettere e il sergente Aldham mi ha aggiornato sul caso. Si tratta effettivamente di una questione antipatica.» Si guardò intorno e prese una sedia da una scrivania non occupata. «Il problema è, che cosa sta succedendo esattamente?» «Sta succedendo che qualcuno mi minaccia ed è entrato nel mio appartamento.» Carthy fece una smorfia. «Vengo molestata e ciò è un reato, non è vero?» «In certe circostanze. Capiamo le sue preoccupazioni» disse, «ma è difficile sapere come procedere esattamente.» «Non pensa che questa persona sia pericolosa?» «Forse sì e forse no. Senta, signorina, ho saputo che lei ha avuto altre lettere di questo genere.» Feci l'ennesimo resoconto del mio momento di fama e i due ispettori si scambiarono un breve sorriso. «La signorina del cocomero?» fece Carthy. «È stato un gran gesto. Abbiamo attaccato la sua fotografia presa dal giornale in una bacheca da qualche parte. Qui tutti la considerano un'eroina. Magari dovrebbe andare a salutare i ragazzi prima di andarsene. Ma a proposito delle lettere: penso che con ogni probabilità siano una conseguenza della sua notorietà. Là fuori ci sono tante persone tristi che pensano in questo modo di allacciare dei rapporti.» Persi la pazienza. «Mi dispiace, ma mi pare che lei non stia prendendo la cosa con la dovuta serietà. Questa persona non si è limitata a scrivere lettere, è entrata nel mio appartamento.» «Può darsi.» Carthy fece un lungo sospiro. «Bene, pensiamo a un paio di cosette.» Fece una piccola pausa. «Il suo appartamento, per esempio. È facile introdursi?» Scrollai le spalle. «È un appartamento normale. Ha un'entrata su Holloway Road e un cortile posteriore che confina con il giardino di un pub.» Carthy scribacchiò su un grosso taccuino che teneva in equilibrio sul ginocchio. Non capii se stesse prendendo appunti o solo scarabocchiando. «Molte persone vengono a trovarla a casa?» «Che cosa intende dire?» «Una alla settimana? Due? In media.» «Non saprei. Ho degli amici. Alcuni di loro sono venuti una sera della
scorsa settimana. Ho un nuovo ragazzo che viene abbastanza spesso.» Continuava a scribacchiare. «Ah, e l'appartamento è in vendita da sei mesi.» Carthy alzò un sopracciglio. «Il che significa che parecchia gente viene a vederlo, vero?» «Ovviamente.» «Quante persone?» «Molte. In questi sei mesi devono essere state una sessantina, settanta, forse anche di più.» «Qualcuno è venuto più di una volta?» «Sì. È una cosa auspicabile.» «E nessuno le è sembrato strano per qualche motivo?» Non potei fare a meno di sghignazzare. «I tre quarti almeno. Voglio dire, sono dei completi sconosciuti che vengono a ficcare il naso nei miei armadi, aprono i cassetti. Cercare di vendere casa vuol dire questo.» Carthy non sorrise. «Le molestie di questo genere sono dettate da motivi diversi. Il più comune è di natura privata.» Sembrava imbarazzato. «Le dispiace se le faccio qualche domanda personale?» «No, se può servire.» «Ha detto di avere un nuovo ragazzo. Quanto nuovo?» «Due o tre settimane. Molto nuovo.» «E ciò significa che una relazione precedente è finita?» «Non esattamente.» «Cioè?» «Voglio dire che prima non avevo una relazione.» «Ma di recente ha avuto relazioni personali, voglio dire... sessuali?» «Sì, abbastanza di recente.» Non potei evitare di arrossire. «Finite dolorosamente?» «No, non proprio. Sono uscita con qualche ragazzo in periodi differenti.» «Qualche?» Lui e Aldham si scambiarono un'occhiata d'intesa. «Senta, non è quello che sembra.» Mi ero innervosita. Sapevo che cosa stavano pensando e anche che qualsiasi cosa avessi detto non avrebbe che peggiorato la situazione. La cosa più assurda era che, paragonata a praticamente tutte le ragazze che conosco, sono una monaca, e una monaca imbranata, goffa e poco pratica: «Sono uscita, ho avuto, insomma lo chiami come vuole, due uomini nell'ultimo anno circa.» Mi guardarono con insi-
stenza, come se non fossero per niente convinti di un numero così basso. «E l'ultimo è stato mesi fa.» «È finita malamente?» Pensai a quando ero seduta di fronte a Stuart in un caffè vicino a Camden Lock. Feci una risatina triste. «Non funzionava. In ogni caso, l'ultima cosa che ho saputo di lui è che stava girando per l'Australia in autostop. Potete cancellarlo dall'elenco dei sospetti.» Carthy premette il pulsante della sua penna biro e si alzò. «Il sergente Aldham la aiuterà a compilare un modulo di denuncia e a fare una breve dichiarazione.» «Che cosa farete?» «Gliel'ho detto.» «Voglio dire, per prenderlo.» «Se succede qualche altra cosa, faccia una telefonata ad Aldham e cominceremo di lì. E sia ragionevolmente prudente nella vita privata per un po'.» «Gliel'ho detto, ho un ragazzo.» Annuì brevemente e si voltò borbottando tra i denti qualcosa che non riuscii a capire. OTTO Arrivai a scuola in ritardo. Più tardi ancora di quello che avevo detto. Quando uscii dal posto di polizia ero così stanca che le gambe quasi non mi reggevano. Mi sentivo la pelle polverosa, sporca sotto il vestito di cotone. La testa mi prudeva. La bocca sapeva di sigarette. Le spalle erano piene di piccoli bubboni malefici, bolle di stress. Quando uscii alla luce del sole, gli occhi, che sembravano sprofondati nelle orbite, pulsarono dolorosamente. Li socchiusi contro la luce abbagliante e frugai nella borsa in cerca degli occhiali da sole. Maledizione, li avevo dimenticati. Come pure le vitamine. E mi era rimasta solo una sigaretta. Per un momento pensai di ritornare a casa a fare un bagno, lavarmi i denti e rimettermi in sesto prima di andare a scuola. O anche solo andare in uno dei parchi vicini e sedermi su una delle chiazze di erba ingiallita vicino a un laghetto, a guardare le anatre, oppure a stare con gli occhi chiusi. Invece comprai due pacchetti di sigarette e un paio di occhiali da sole da poco prezzo in una bancarella lungo la strada, poi entrai in un caffè con aria colpevole. Ordinai due tazze di caffè nero e un uovo in camicia con pa-
ne tostato. Mangiai lentamente, guardando la gente che passava fuori della vetrina sporca. Un rasta con un berretto giallo. Una coppia di adolescenti, mano nella mano, che ogni due passi si fermava a baciarsi. Un gruppo di turisti giapponesi con macchine fotografiche e golfini. Dovevano sicuramente essersi persi. Un uomo che portava nel marsupio un bambino, di cui si vedeva solo un ciuffo di capelli. Una donna che urlava a un ragazzino minuscolo con la faccia paonazza, accanto a lei. Una donna indiana avvolta in un sari scarlatto che, con i sandali delicati, camminava cautamente tra le cacche dei cani e la spazzatura. Uno stormo di scolaretti con le sacche per la piscina, condotti in fila, sulla strada rumorosa e satura di gas di scarico, da una giovane donna dall'aria pesta che mi fece pensare a me. Un ciclista con pantaloncini gialli fosforescenti che zigzagava a testa bassa nel traffico, sulle due ruote sottili. Una donna con un cappello dalle larghe falde, il seno come una mensola e un barboncino minuscolo, che sembrava essere entrata nella storia sbagliata. Anch'io ero entrata in una storia sbagliata. Magari in questo preciso momento quell'individuo mi stava osservando. Magari avrei potuto vederlo, se solo avessi saputo dove guardare. Che cosa avevo fatto perché mi accadesse una cosa del genere? Accesi una sigaretta e bevvi il caffè amaro che si stava raffreddando. Ero così in ritardo che qualche minuto in più non avrebbe fatto alcuna differenza. Prima di prendere l'autobus in Kingsland Road, passai acconto a una cabina telefonica e sentii lo stupido impulso di telefonare a mia madre. Mia madre che non era più in vita da dodici anni. Volevo solo che mi dicesse che tutto sarebbe finito bene. Quando arrivai, Pauline fu gentile e gelida. Disse che un tale di nome Fred mi aveva chiamata e aveva lasciato detto di ritelefonargli in giornata, sul cellulare. Non sembrava molto contenta di prendere messaggi dal ragazzo di un'insegnante assente. L'assistente che mi stava sostituendo aveva messo ai bambini dei grembiulini di plastica e li stava facendo giocare con colori e grossi pennelli. Dissi loro di fare il proprio ritratto, che poi avremmo appeso al muro per farlo vedere ai genitori. Raj si dipinse con il viso rosa pallido, i capelli castani e le gambe che gli partivano direttamente dal mento. Eric, che non sorride mai, si disegnò con una larga bocca rossa che andava da un'orecchia all'altra. Stacey rovesciò dell'acqua sul disegno di Tara e Tara le diede un pugno sul collo. Damian cominciò a piangere facendo colare le lacrime sul disegno. Lo portai in un angolo e gli do-
mandai che cosa c'era che non andava e lui mi disse che tutti ce l'avevano con lui, lo chiamavano femminuccia, in cortile gli davano spintoni e lo chiudevano a chiave in bagno. Lo guardai: era una creaturina pallida e mocciosa con i vestiti che gli pendevano dal corpo ossuto e le orecchie sporche. Fred voleva che andassi a vederlo giocare a calcetto quella sera. Giocavano tutti i mercoledì, disse, era una delle attività regolari dei ragazzi. Era allegro e rilassato, come se la notte passata non fosse successo niente. Mi disse che stava tagliando le rose appassite nei quartieri residenziali, ma continuava a pensare al mio corpo. Pauline mi pregò di preparare il materiale sull'ora di lettura per la fine della settimana e mi domandò se pensavo di farcela. «Sicuro» risposi senza grande convinzione, con la testa che mi pulsava. Di solito andando a scuola compro un panino con formaggio e pomodori alla paninoteca, ma quel giorno me ne ero scordata, così mentre gli altri insegnanti mangiavano panini salutisti e frutta io presi le patate bollite e i fagioli al forno dall'obesa inserviente della mensa, seguiti da un fumante budino con la crema. Ma mi confortò, mi fece sentir meglio. Feci scrivere ai bambini la lettera M seguendo la linea tratteggiata del libro. M come mela, mulino e medicina. «E merda» aggiunse Barny in mezzo alle urla di ammirazione dei suoi amici. Era un bambino di quattro anni, nato ad agosto, il più piccolo della classe. Durante l'ora di discussione parlammo della prepotenza. Mentre dicevo che tutti dovevano cercare di essere gentili con tutti, non guardai Damian. I bambini mi fissavano con occhi crudeli e innocenti e Damian, seduto accanto a me, strappava dei peluzzi dal tappeto con gli occhi che nuotavano dietro le spesse lenti. «Va meglio?» gli domandai mentre uscivamo. «Mmm» borbottò con la testa ciondolante. Vidi che aveva il collo e le orecchie sporchi. Improvvisamente provai irritazione nei suoi confronti, desiderio di scuoterlo da quella sua condizione senza speranze. Forse anch'io ero così, pensai: forse anch'io mi facevo calpestare dagli altri. Era incredibile quanto rumore riuscissero a fare dieci uomini. Non solo urlando l'uno contro l'altro, ma grugnendo, sbuffando, ululando, strillando, percuotendo il terreno, urtandosi a vicenda, dandosi calci negli stinchi, tanto che mi sembrava di sentire rumore di ossa che si spezzavano. Ero stupita di non vedere fiotti di sangue, corpi su barelle, cazzottature. Ma alla fine
dell'ora erano tutti sudati, puzzolenti e felici, si battevano manate sulle spalle. Mi sentivo un po' stupida a stare a bordo campo a guardarli come una tifosa. C'erano altre tre donne, che si conoscevano e dovevano far parte del gruppo che il mercoledì andava a vedere gli uomini che si spappolavano. Una certa Annie, una Laura e un'altra il cui nome non capii e non volli chiedere di nuovo. Mi domandarono come avevo conosciuto Fred e furono carine e socievoli, ma con qualche riserva, come se Fred si portasse dietro una ragazza diversa ogni settimana, pensai, e loro non volessero concedersi troppo. Avrei dovuto fare il tifo per Fred, quando mi passò davanti di corsa con gli occhi vitrei, urlando qualcosa, ma non ci riuscii. Dopo venne a mettermi un braccio intorno alle spalle e mi diede un bacio. «Sei sudato.» Non me ne importava molto, ma d'altra parte non è che provassi poi un gran piacere a livello primitivo, ormonale. «Mmm.» Mi strofinò il muso contro. «E tu sei tutta fresca e deliziosa.» Dopo il lavoro ero andata da Louise a fare il bagno e lei mi aveva prestato un paio di pantaloni grigi di cotone e un top di maglia senza maniche. Non avevo voglia di ritornare a casa mia. «Andiamo a bere qualcosa?» «D'accordo.» L'ultima cosa di cui il mio corpo aveva bisogno era un drink, ma desideravo compagnia. Finché fossi stata con altre persone, in un locale pubblico, ero al sicuro. Solo il pensiero che si sarebbe fatto di nuovo buio e sarei stata di nuovo sola nel mio appartamento mi faceva venire i brividi. «Ci vediamo dopo la doccia.» Quel qualcosa da bere finì con l'essere parecchio da bere, in un pub buio il cui padrone evidentemente li conosceva bene. «E sta ricevendo un sacco di lettere folli» continuò Fred come se fosse tutto uno scherzo. La sua mano mi cinse il fianco e cominciò ad accarezzarmi le costole. Mi girai nervosamente, accesi un'altra sigaretta e buttai in gola il resto della mia birra. «Anche una in cui la minacciano di ucciderla. Non è vero, Zoe?» «Sì» mormorai. Non volevo parlarne. «Che cos'ha detto la polizia?» domandò Fred. «Non molto» risposi. Feci un tentativo di mettere la cosa sul ridere. «Non preoccuparti, Fred. Sicuramente sarai il sospettato numero uno.»
«Non posso essere io» disse allegramente. «Perché no?» «Be'... ehm.» «Non mi hai mai visto dormire» dissi e immediatamente avrei voluto non averlo detto, ma Fred si limitò a guardarmi perplesso. Fu un sollievo quando Morris cominciò a raccontarmi che avevano l'abitudine di andare in quel pub le sere del quiz. «È veramente crudele» disse. «È troppo facile. E come rubargli il denaro. Siamo fortunati che non ci abbiano mai portati nel vicolo sul retro per romperci i pollici.» «Lo spaccone» disse Graham. «Che cosa?» interruppi io. «Il mio stupido fratello ti sta seccando?» «Non essere crudele» dissi. «No, no» riprese Morris. «È un'altra citazione. È quello che ha detto Herman Mankiewicz di Joseph Mankiewicz.» E sorrise rivolto a suo fratello. «Ma alla fine è stato Joseph ad avere più successo.» «Mi dispiace» intervenni. «Ma non so chi siano queste persone.» Sfortunatamente cominciarono a spiegarmelo. Per me quell'interloquire tra vecchi amici e fratelli era una miscela di battute, ritornelli, riferimenti oscuri e di solito pensavo che la cosa migliore fosse tenere la testa bassa e aspettare che il discorso si spostasse su un argomento che riuscivo a seguire. Dopo poco quello scambio di battute frenetico e competitivo cessò e mi ritrovai di nuovo a parlare con Morris. «Stai con qualcuna di...» dissi a bassa voce, facendo un cenno discreto nella direzione delle ragazze intorno al tavolo. Morris fece l'evasivo. «Be', Laura e io siamo una specie di...» «Di che cosa?» intervenne Laura. Era una donna grossa con i capelli lisci e castani raccolti in uno chignon. «Stavo dicendo a Zoe che hai orecchie da pipistrello.» Pensai che Laura si arrabbiasse con Morris. Io l'avrei fatto. Ma cominciavo a capire che le tre ragazze stavano ai margini del gruppo, parlavano per lo più tra di loro, ed erano cooptate nella conversazione generale solo quando era necessario. Il che accadeva piuttosto raramente. I ragazzi, ben lavati e con gli occhi luccicanti dopo la partita, sembravano più che mai dei bambini. Per quale ragione ero stata inserita nel loro piccolo gruppo? Come pubblico? Morris mi si avvicinò tanto che per un momento pensai
volesse strusciarsi contro il mio orecchio. Invece mormorò: «È finita». «Che cosa?» «Tra me e Laura. Solo che lei non lo sa ancora.» La guardai. Era seduta dall'altra parte del tavolo, ignara della sentenza che incombeva sulla sua testa. «Perché?» domandai. Lui si strinse nelle spalle e io non potei più sopportare di parlare di lei. «Come va il lavoro?» gli domandai non sapendo che altro dire. Morris si accese una sigaretta prima di rispondere. «Stiamo tutti aspettando» rispose. «Che cosa vuoi dire?» Aspirò una lunga boccata di fumo e bevve un sorso ancor più lungo di birra. «Guardaci» rispose. «Graham è assistente di un fotografo in attesa di fare il fotografo. Duncan e io andiamo in giro a mostrare a delle segretarie idiote come far funzionare i loro software, cosa che si potrebbero benissimo leggere sul manuale, e aspettiamo che una o due delle nostre idee dia dei frutti. Da come stanno le cose adesso una mezza idea basterebbe per guadagnare un patrimonio.» «E Fred?» Morris sembrò riflettere. «Fred scava e semina in attesa di decidere chi è.» «Ma nel frattempo è abbronzato e ha le braccia muscolose» intervenne Graham che stava origliando. «Mmm» feci io. Rimanemmo al pub un sacco di tempo e bevemmo troppo, specialmente i ragazzi. In seguito Morris andò a sedersi vicino a Laura, su richiesta, anzi su comando di lei, e Duncan venne a sedersi vicino a me. Dapprima si mise a parlare del suo lavoro con Morris, dei viaggi quotidiani, del fatto che lavoravano separatamente, ognuno in un'azienda diversa, a insegnare a degli idioti con poco tempo e troppi soldi a far funzionare i loro computer. Poi mi parlò di Fred, mi disse da quanto si conoscevano, e come fosse antica la loro amicizia. «C'è solo una cosa che non posso perdonare a Fred» disse. «Che cosa?» «Tu. Non è stata una battaglia leale.» Mi sforzai di ridere. Lui mi fissò. «Noi pensiamo che tu sia la migliore.» «La migliore di che cosa?» «Semplicemente la migliore.» «Noi?»
«Noi, i ragazzi.» Fece un gesto circolare indicando la tavolata. «Fred lascia sempre le sue donne alla fine» disse. «E va bene, attraverseremo quel ponte quando ci arriveremo, no?» «Posso averti dopo?» «Che cosa?» «No, la voglio io» intervenne Graham dall'altro lato del tavolo. «E io?» fece Morris. «L'ho detto prima io» ribatté Duncan. Una parte di me si rese conto che si trattava di una delle loro schermaglie scherzose, e magari in un altro momento avrei riso e avrei partecipato al gioco civettando, ma non allora. Fred si spinse contro di me e allungò una mano sui miei pantaloni, i pantaloni di Louise. Improvvisamente mi sentii venir la nausea. L'atmosfera pesante e rumorosa del pub mi stava soffocando. «Ora di andare» dissi. Mi diede un passaggio sul suo camioncino, accompagnando a casa per via Morris e Laura. Doveva aver passato i limiti di un bel po'. «Non ti importa che parlino di me in quel modo?» «Sono solo gelosi» rispose. Gli raccontai che la polizia mi aveva fatto domande sulla mia vita personale. «Mi hanno fatto sentire come se fosse colpa mia. Mi hanno domandato della mia vita sessuale.» «Una storia lunga?» Nei suoi occhi c'era un luccichio. «Una storia molto corta.» «Così tanti?» Fischiò. «Non essere stupido.» «Allora pensano che si tratti di uno dei tuoi ex amanti?» «Forse.» «Ma qualcuno ti sembrava un po' pazzo?» «No.» Ebbi un'esitazione. «Anche se, quando si comincia a pensarci su, tutti naturalmente sembrano un po' strani, un po' sinistri. Nessuno è proprio normale, non ti pare?» «Neppure io?» «Tu?» Lo guardai mentre guidava, le mani sottili sul volante. «Neanche tu.» Sembrò soddisfatto. Lo vidi sorridere.
Mi spinse indietro sul sedile, mi baciò con tanto impeto che sentii il sapore del sangue sulle labbra, e mi premette una mano sul petto, ma non chiese di salire. E dopo la notte passata avevo imparato la lezione. Non glielo chiesi neanch'io. Lo salutai fingendo allegria in modo ragionevolmente convincente, ma invece di andare a casa mi recai alla più vicina cabina telefonica sulla strada ancora affollata. Chiamai Louise, forse sarei potuta andare a dormire da lei. Ma il telefono squillò a lungo e lei non rispose. Rimasi con la cornetta all'orecchio, finché un uomo con una cartella gonfia cominciò a battere sul vetro con ira. Non conoscevo nessun altro così bene da farmi invitare a passare la notte, non avevo altri posti in cui andare. Gironzolai per la strada per qualche minuto, poi mi dissi di non essere stupida. Ritornai alla porta di casa, la aprii, raccolsi la posta - la bolletta del gas e una cartolina di mia zia - e andai di sopra. Nessuna lettera consegnata a mano. Le finestre erano tutte chiuse. Sul tavolo c'era la bottiglia del liquore alla menta senza il tappo. Non c'era nessuno. NOVE «Penso che sia sinceramente interessato.» «Chi? Fred?» «No, questo tizio che vuole rivedere l'appartamento. Dio solo sa perché, ma mi pare che gli interessi. Se solo gli piacesse. Odio questo posto, tu lo sai, Louise. Lo odio profondamente. Odio ritornarci la sera. Se solo potessi andarmene, magari le lettere smetterebbero di arrivare e quel folle non si farebbe più vivo.» Louise si guardò intorno. «A che ora viene?» «Alle nove circa. Un'ora strana per vedere un appartamento, non ti pare?» «Significa che abbiamo quasi due ore.» «Sei sicura di voler sprecare il tuo prezioso giovedì sera in questo modo, Louise?» «Sarei stata davanti al televisore a cambiare canale e mangiare cioccolato. Mi hai salvata da me stessa. In ogni modo mi piace questa sfida.» Guardai trucemente l'appartamento. «È una bella sfida.» Louise si tirò su le maniche con l'aria, piuttosto preoccupante, di voler lavare il pavimento. «Da dove cominciamo?» Voglio bene a Louise. È una ragazza pratica e generosa. Anche quando
si comporta in modo avventato o terribile ha sempre i piedi per terra. Ha spesso crisi di riso, piange ai film sentimentali, mangia troppi dolci e poi fa delle diete folli, disperate e assolutamente non necessarie. Si mette gonne che fanno alzare a Pauline le sopracciglia perfettamente arcuate, e scarpe con la zeppa, magliette con strane scritte, enormi orecchini e un anello all'ombelico. È piccola, testarda, sicura di sé, risoluta, con un mento affilato e deciso e il naso all'insù. Nulla sembra abbatterla. È un carrarmato. Quando arrivai alla Laurier School, Louise mi prese sotto la sua ala, anche se era là solo da un anno. Mi diede consigli, mi indicò i genitori seccanti, mi offriva i suoi panini a pranzo, quando mi dimenticavo di portarli, mi prestava assorbenti e aspirine. E divenne il mio punto di riferimento nel fluido caos di Londra. E ora eccola qua, che metteva in ordine la mia vita. Cominciammo dalla cucina. Lavammo i piatti e li riponemmo ordinatamente nella credenza, pulimmo le superfici, spazzammo il pavimento, lavammo i vetri della finestra che guardava sul giardinetto del pub. Louise insistette che togliessi le padelle e le pentole appese sopra la stufa. «Facciamo spazio» disse, guardandosi intorno con gli occhi socchiusi come se fosse diventata un'arredatrice consumata. Nel soggiorno, quattro metri per tre e mezzo, svuotò i portacenere, spinse la tavola sotto la finestra per nascondere almeno parzialmente la carta scrostata delle pareti, rivoltò i cuscini del divano che erano macchiati e passò l'aspirapolvere sul tappeto, mentre io mettevo in ordine giornali e lettere e buttavo via la spazzatura. «Queste sono le lettere?» mi domandò indicando la scatola di cartone. «Sì.» «Mi fanno rabbrividire. Perché non le butti via?» «Dovrei? Pensavo che magari potevano servire alla polizia.» «Perché? Hai messo da parte le lettere del pervertito, no? Buttale via. Trattale da spazzatura quali sono.» Prese un sacchetto della spazzatura e io ci gettai dentro tutte le buste color lavanda, le lettere scritte con inchiostro verde, i manuali di istruzioni sull'autodifesa, le tristi biografie. La cosa mi sollevò lo spirito. Louise scese in Holloway Road a comprare dei fiori mentre io pulivo il bagno con una vecchia camicia di flanella. Ritornò con delle rose gialle per il soggiorno e una pianta con verdi foglie carnose per la cucina. «Dovresti metter su della musica classica quando arriva.» «Non ho giradischi o cose del genere.» «Possiamo fargli un caffè. O una torta. Farà buona impressione.»
«Ho solo del caffè solubile e anche se avessi gli ingredienti, cosa che non è, non mi metterò a fare nessuna stupida torta.» «Non importa» rispose lei, un po' troppo vivacemente, tagliando i gambi alle rose. «Mettiti almeno del profumo. Posso usare questo barattolo come vaso per i fiori? Ecco, non ha un bell'aspetto?» Era vero. L'appartamento era migliorato e ora che Louise era con me, con le sue ciglia appuntite, la bocca scarlatta, le unghie vermiglie e il vestito verde attillato, ci stavo meglio. Era solo un normale appartamentino dietro un pub, dopo tutto, non una bara. «Questa faccenda mi ha veramente sopraffatta» dissi. Louise riempì il bollitore elettrico. «Dove diavolo lo attacco? Non c'è neanche una presa libera. Questa è un'altra cosa di cui ha bisogno il tuo appartamento, un impianto elettrico completamente nuovo.» Con un gesto drammatico staccò una spina. «Puoi sempre venire a stare da me, se ti fa piacere. Non ho un letto in più, ma ho un pezzette di pavimento libero. Vieni questo finesettimana, se ti va.» Dovetti reprimere un singhiozzo. «Sei veramente carina» fu l'unica cosa che riuscii a dirle. La camera da letto aveva un aspetto più o meno ordinato, a parte il fatto che non avevo ancora fatto il letto e il cesto della roba sporca era quasi pieno. Mettemmo il cesto nell'armadio e sprimacciammo il guanciale. Louise ripiegò l'angolo del lenzuolo nello stesso modo di mia madre. Poi si guardò intorno soffermandosi sugli oggetti sopra il comò. «Che cosa diavolo è questa strana collezione di cianfrusaglie?» «Roba che mi ha mandato la gente.» «Come le lettere?» «Sì. La polizia ha voluto vedere anche queste cose.» «All'inferno» disse cominciando a esaminarle. C'era un fischietto che mi sarei dovuta mettere al collo per difesa. Un paio di piccole mutandine di seta. Un sasso liscio e tondo che sembrava l'uovo di un uccello. Un piccolo orsacchiotto. «Perché diavolo ti hanno mandato questo?» domandò Louise, prendendo un pettine rosa sporchiccio. «Me l'hanno mandato con delle istruzioni. Bisogna sfregarlo sotto il naso. A quanto pare fa scappare gli assassini.» «Se stanno fermi mentre tiri fuori il pettine. Questo è carino, però.» Stava guardando un bel medaglione d'argento infilato in una catenina. «Sembra un oggetto di valore.»
«Si apre e dentro c'è una ciocca di capelli.» «Chi te l'ha mandato?» «Non lo so. È arrivato avvolto in un foglio di giornale con un articolo sugli eroi di strada. È bellissimo, no?» «E queste sono interessanti.» Stava guardando un mazzo di carte da gioco pornografiche. Ispezionò la figura di una donna con i seni pneumatici in mano. «Uomini» commentò. Io rabbrividii nonostante il caldo. Nick Shale arrivò poco dopo le nove e io ebbi il tempo di fare un bagno e mettermi un paio di jeans puliti e una camicia di cotone gialla. Volevo avere l'aria ordinata, come l'appartamento. Raccolsi i capelli e spruzzai una goccia di profumo dietro le orecchie. Lui aveva dei calzoncini da jogging e, quando si tolse lo zainetto di tela, vidi una macchia scura di sudore a forma di v sulla maglietta. «Le ho portato un regalino» disse porgendomi un sacchetto di carta marrone. «Albicocche che ho comprato alla bancarella qui vicino. Erano irresistibili.» Arrossii. Era come se mi avesse portato dei fiori. Non pensavo che i potenziali acquirenti di appartamenti dovessero fare regali ai proprietari. Le albicocche erano dorate e vellutate, quasi luminose. «Grazie» dissi timidamente. «Non me ne offre una?» Le mangiammo in piedi nell'angusta cucina, e lui mi disse che la volta successiva mi avrebbe portato delle fragole. Io feci finta di non notare l'accenno a un altro incontro. «Non vuole dare un'altra occhiata all'appartamento?» «Certo.» Passò da una camera all'altra, osservando attentamente i soffitti come se potessero esserci degli affreschi di valore. C'erano solo molte ragnatele negli angoli, che Louise e io non avevamo notato. In camera da letto aprì l'armadio a muro e gettò un'occhiata al cesto della roba sporca con un sorrisetto. Poi alzò gli occhi e mi guardò. «Non mi dispiacerebbe un bicchiere di vino.» «Non ne ho.» «Allora ho fatto bene a portarlo io.» Aprì lo zainetto e ne tirò fuori una snella bottiglia verde. Era ancora fredda e aveva delle goccioline di umidità sul collo.
«Ha un cavatappi?» Non che la cosa mi facesse molto piacere, ma andai a prendere il cavatappi. Lui mi voltò la schiena e aprì la bottiglia. Gli porsi un bicchiere e un calice e lui versò del vino in entrambi con mano ferma e gesto lento, in modo da non rovesciare nulla. Mi disse che viveva a Norfolk, ma voleva comprare un appartamento a Londra perché ci passava due o tre notti alla settimana. «Allora il mio appartamento diventerebbe un pied-à-terre» dissi. «Che onore.» «Salute.» «Devo andare, ora» dissi, mentendo naturalmente. Non avevo appuntamenti nel finesettimana. «Già, è abbastanza tardi» fece lui vuotando il bicchiere. Non risposi. Non vedevo che bisogno c'era di giustificarmi con un uomo che non conoscevo. «Riprenda la bottiglia» dissi. «No, la tenga lei» rispose, accingendosi a uscire. «E per l'appartamento?» «Mi piace» disse. «La richiamo.» Udii la porta di sotto richiudersi. Anche lui mi piaceva. Mi domandai come fosse la sua scrittura. DIECI Il giorno dopo in classe mi sembrava di essere un robot, che faceva la parte della maestra di scuola materna in maniera abbastanza credibile. Il robot fece una lezione a tutta la classe sulla formazione delle lettere, mentre io pensavo ad altro. Dovevo disfarmi dell'appartamento. Questo pensiero continuava ad assillarmi, come un rovello, in maniera tormentosa. Avevo la sensazione che se avessi potuto chiudermi alle spalle la porta di quel poco accogliente pezzette di spazio, ritagliato in un edificio ancor meno accogliente, su una strada rumorosa, avrei potuto mettere fine anche ad altre cose. Ciò che in verità avrei dovuto fare era rendere l'appartamento più sicuro, ma non mi sembrava giusto, come lavare una bottiglia rotta. L'unico modo di rendere quel posto migliore e più sicuro era lasciarlo. Nient'altro avrebbe funzionato. A cominciare dal finesettimana successivo mi sarei data seriamente da fare per cercare un altro appartamento. Ero troppo giovane quando avevo comprato l'appartamento. I soldi che mio padre mi aveva lasciato quando era morto mi erano sembrati come
soldi del Monopoli. Ce n'erano troppi per essere veri. Mi aveva detto di comprarmi un posto in cui vivere; era stata quasi un'intimazione in punto di morte. Pensava che quando si possiede una casa propria si è al sicuro dal mondo, qualsiasi cosa succeda. Io ero una brava figliola, anche se non ero più una figlia, poiché non avevo più genitori. Ero sola e molto spaventata e feci quello che mi aveva detto. Molto velocemente. E poiché mi ero trasferita a Londra da un tranquillo paesino, il mio primo impulso era stato comprare qualcosa che fosse proprio in città, dove le cose accadevano, dove c'erano negozi, mercati, gente e rumore. Ed effettivamente avevo trovato tutte queste cose. «Zoe?» Fui svegliata da ciò che a me pareva un sonno e a un osservatore avrebbe potuto sembrare un'attività frenetica (fui quasi sorpresa di trovarmi in mano un pezzo di gesso e di vedere sulla lavagna una grossa B e una P che avevo tracciato con cura senza nemmeno rendermene conto). Mi voltai. Era Christine, una delle maestre di sostegno. Nella nostra scuola c'erano mille occasioni che richiedevano il suo intervento e spesso la si vedeva seduta dietro scrivanie improvvisate in corridoio, con bambini che avevano problemi: erano maltrattati, malnutriti, appena arrivati da un paese in guerra dell'Europa orientale o dell'Africa centrale, e via dicendo. «Pauline ti vuole vedere» mi disse. «È urgente. Ti sostituisco io.» «Perché?» «C'è una madre con lei. Mi pare che sia arrabbiata per qualche motivo.» «Oh.» Sentii come un dolore sordo allo stomaco, la sensazione di un colpo imminente. Guardai la classe. Di che cosa si poteva trattare? Nella nostra classe c'era un gran viavai. Bambini che si trasferivano, a volte anche fuori del paese, spesso senza che i genitori dessero neanche una parola di preavviso. Altri, pieni di problemi, prendevano il loro posto. Avevamo bambini sotto tutela del tribunale o dei servizi sociali. Feci un rapido conto. Trentuno. C'erano tutti. Nessuno se n'era andato a casa senza che l'avessi notato. Non dovevo dare medicine a nessuno. Nessuno aveva la bava alla bocca. Mi sentii meglio. Non doveva essere troppo grave. Mentre percorrevo la breve distanza che mi separava dall'ufficio di Pauline pensavo che, anche se odiavo il mio appartamento, amavo quella scuola. Nel vestibolo c'era una piccola piscina di mattoni con pesci grossi e grassi. Ci immersi la punta delle dita in segno di buon auspicio, come facevo sempre quando ci passavo accanto. La scuola era su una delle arterie
principali di Londra. Tutto il giorno era scossa dal rumore dei camion diretti in East Anglia o dall'altra parte del fiume, nel Kent e sulla costa meridionale. Per andare al più vicino parco striminzito e rognoso bisognava condurre i bambini in fila lungo la strada e far loro attraversare due incroci pericolosi. Ma questo era proprio ciò che mi piaceva della scuola. Era un altro mondo, come un monastero in mezzo al rumore e alla polvere. Anche quando i bambini correvano e urlavano sembrava un rifugio. Forse erano solo quegli stupidi pesci a farmi sentire in quel modo, e probabilmente mi sbagliavo di grosso. Mi ricordai di alcuni libri di scienze che avevo letto da ragazzina su come l'acqua conduceva i suoni meglio dell'aria. I pesci probabilmente passavano tutta la vita a lamentarsi del rumore del traffico e a desiderare di essere in un posto più tranquillo. Cercai di ricordare che cosa provavo quando mettevo la testa sott'acqua, nella vasca, per sciacquarmi i capelli. Si sentivano i camion passare, fuori? Non ricordavo. Pauline era presso la porta semiaperta insieme con una donna che riconobbi. Non stavano parlando né facendo niente. Evidentemente erano rimaste ad aspettarmi in silenzio. Vedevo quella donna tutti i giorni alla fine della scuola, che indugiava sulla porta della classe. Era la madre di Elinor. Le feci un cenno di saluto, ma lei non mi vide. Cercai di ripensare a com'era Elinor quella mattina. Era turbata? Non mi sembrava. Cercai di raffigurarmi la bambina nella classe che avevo appena lasciato, ma non mi venne in mente nulla di insolito. «Chiudi la porta» mi disse Pauline, facendomi entrare. La madre rimase fuori. Pauline mi indicò una sedia di fronte alla sua scrivania. «È Gillian Tite, la madre di Elinor.» «Sì, lo so.» Notai che Pauline era pallida e stava tremando. O era profondamente turbata o così arrabbiata da non riuscire quasi a controllarsi. «Hai dato compiti per casa la scorsa settimana?» «Sì, se si possono chiamare compiti.» «Di che cosa si trattava?» «Era una cosa da fare per divertimento. Avevamo parlato delle favole e avevo chiesto loro di disegnare una delle loro favole preferite sull'album da disegno.» «Che cosa hai fatto con i loro compiti?» «Sto cercando di insegnare loro a fare i compiti e a consegnarli in una data stabilita, così ho raccolto gli album mercoledì. Mi sembra fosse mer-
coledì. E poi li ho guardati.» Mi ricordavo di averlo fatto seduta al tavolo, mentre quello strano individuo che era venuto a vedere l'appartamento apriva il cassetto delle mie mutande. Era il giorno in cui avevo trovato la lettera sullo zerbino della porta. «Ho scritto dei commenti carini e li ho restituiti ai bambini il giorno dopo. Non so se la madre di Elinor si aspettasse un voto, ma sono troppo piccoli per i voti.» Pauline mi ignorò. «Ricordi che cosa ha disegnato Elinor?» «No.» «Ciò significa che non hai guardato i disegni?» «Certo che li ho guardati. Li ho seguiti quando hanno cominciati a farli in classe e ho scritto il titolo sotto ciascuno di essi. Poi li ho riguardati tutti a casa, una volta finiti. Non ho passato proprio ore a esaminare ogni disegno, ma li ho guardati tutti e ho scritto un commento su ognuno.» «La madre di Elinor è venuta da me in lacrime» disse Pauline. «Questo è il disegno di Elinor. Dacci un'occhiata.» Spinse un album dall'aspetto familiare attraverso la scrivania. Era aperto e riconobbi la mia scrittura al fondo della pagina. «La Bella Addormentata nel bosco.» Elinor aveva fatto un tentativo abbastanza infelice di copiare le parole. La B era capovolta e le ultime parole erano sbavate e stinte come se Elinor avesse perso le forze. Ma il disegno era differente. Non era il disegno di una bambina. A dir la verità erano rimaste tracce degli scarabocchi di Elinor qui e là, ma erano state modificate e completate. C'era una ragazza ben disegnata stesa su un letto in una camera. Che era la mia camera. La mia camera da letto. Pauline non poteva saperlo, ma io sì. Sul muro c'era il quadro della mucca, che avevo da sempre, e lo specchio con una borsa a tracolla attaccata al bordo. Avevo intenzione di metterla via, ma non l'avevo ancora fatto. Sul letto la Bella Addormentata non stava dormendo e non era la Bella Addormentata. Ero io. Perlomeno aveva i miei occhiali. Il letto sembrava un tavolo di obitorio. E il corpo che c'era sopra era coperto da grosse incisioni da cui uscivano pezzi di organi, di intestini. Parti del corpo, soprattutto intorno alla vagina, la mia vagina, erano così mutilate da essere irriconoscibili. Improvvisamente mi sentii male. Sentii salirmi alla bocca la bile, che riuscii a inghiottire. Ma mi bruciò la gola e mi fece tossire. Presi un fazzoletto di carta dalla tasca e mi pulii la bocca. Restituii l'album a Pauline. Lei mi guardò negli occhi. «Se si tratta di una specie di scherzo molto strano, allora è meglio che tu me lo dica subito. Dimmi solo una cosa, sei tu che hai fatto una cosa del genere?»
Non risposi. Non riuscivo a parlare. Pauline picchiettò sul tavolo come per cercare di svegliarmi. «Zoe, ti rendi conto della tua posizione? Che cosa ti aspetti che faccia?» Gli occhi mi pizzicavano. Dovetti resistere per non piangere. Dovevo essere forte, non crollare. «Chiama la polizia» dissi. UNDICI Dapprima Pauline era dubbiosa ed esitante, ma io insistetti. Non avrei lasciato il suo ufficio se non avesse fatto qualcosa. Carthy mi aveva dato il suo biglietto da visita, ma le mani mi tremavano al punto che dovetti rovistare un bel po' nella borsa per trovarlo. Pauline era visibilmente sorpresa mentre io faticosamente facevo il numero sul biglietto da visita. Probabilmente si aspettava che componessi istericamente il numero del pronto intervento. «Non è un fatto nuovo» le dissi a mo' di spiegazione. «In un certo senso.» Chiesi di Carthy. Non c'era, così al suo posto mi passarono Aldham, un misero sostituto. Al telefono feci una scenata. Gli dissi che doveva venire subito alla scuola. Aldham era riluttante, ma io urlai che se non veniva avrei presentato formale reclamo, e lo minacciai in tutti i modi che mi vennero in mente. Alla fine promise che sarebbe venuto. Gli diedi l'indirizzo della scuola e misi giù il telefono. Accesi una sigaretta. Pauline cominciò a dire qualcosa riguardo al divieto di fumare ovunque eccetto che nella sala insegnanti, ma io le risposi che mi dispiaceva, si trattava di un'emergenza. «Ritorni in classe?» mi domandò. «Non è il caso» risposi. «È meglio che parli con la polizia. Devo sapere che cosa dicono. Li aspetto qui.» Ci fu un lungo silenzio. Pauline mi fissava come se fossi un animale feroce e imprevedibile che bisognava trattare con cautela. Perlomeno così mi sembrava. Io sentivo che sarei esplosa al minimo movimento. Alla fine scrollò le spalle. «Parlerò con la signora Tite, fuori» disse tranquillamente. «Sì» risposi senza neanche capire bene quello che diceva. Pauline si fermò sulla porta. «Vuoi dire che è stato qualcun altro a fare quel disegno?» Spensi la sigaretta e ne accesi un'altra. «Sì» dissi. «Mi sta succedendo una cosa orribile. Proprio orribile. Devo risolvere questa faccenda.»
Pauline cominciò a dire qualcosa, poi si fermò e mi lasciò sola nel suo ufficio. Non mi accorsi neanche che il tempo passava. Fumavo una sigaretta dopo l'altra. Presi un giornale dalla scrivania di Pauline, ma non riuscii a leggerlo. Dopo circa una mezz'ora sentii delle voci fuori e poi Aldham entrò scortato da Pauline. Lei gli aveva già raccontato quello che sapeva. Non sprecai tempo a salutarlo. «Senta» dissi indicando l'album da disegno che era ancora aperto dove l'avevo lasciato. «Quella sono io. E questa è la copia esatta della mia camera da letto. Non è possibile vedere questo dal pub.» Forse Pauline l'aveva avvertito dello stato di agitazione in cui ero, perché Aldham non reagì, non mi disse nulla. Si limitò a guardare il disegno, poi borbottò qualcosa fra i denti. Sembrava perplesso. «Dov'è stato fatto questo disegno?» domandò sollevando lo sguardo su di me. «Come faccio a saperlo?» Mi ci volle uno sforzo per calmarmi, per riuscire a concentrarmi. «Era semplicemente in una pila di album della scuola. Li ho ritirati lo scorso venerdì.» «Dove li ha custoditi?» «In classe. Lo scorso mercoledì li ho portati a casa e il giorno successivo li ho riportati a scuola.» «Li ha mai persi di vista?» «Certo che li ho persi di vista. Che cosa pensa, che sia stata a far loro la guardia? Mi scusi. È solo che... Cristo. Mi scusi. Mi faccia pensare. Sì, sono uscita a vedere un film con delle amiche. Devo esser stata fuori per due, tre ore, mi pare. Era il giorno in cui ho trovato la lettera sullo zerbino. Quella di cui le ho parlato. La prima lettera, o meglio quella che pensavo fosse la prima e che ho buttato via.» Aldham arricciò il naso e annuì. «Bene» fece. Sembrava sconcertato e ansioso. Evitava di guardarmi negli occhi. «Quando ha restituito gli album?» «Gliel'ho detto, la mattina successiva. Li ho tenuti a casa solo una sera. Ne sono sicura, assolutamente.» «E questo disegno non è stato scoperto che oggi?» Pauline si fece avanti. «La madre l'ha trovato solo oggi» disse. «Sono stati manomessi altri album?» domandò Aldham. «Non lo so» risposi. «Non penso, ma non so. Io...» «Controlleremo» intervenne di nuovo Pauline. Accesi un'altra sigaretta. Sentivo il cuore battere forte e la fronte, le
braccia e le gambe che pulsavano. «Allora, che cosa ne pensa?» domandai. «Aspetti.» Tirò fuori un cellulare dalla tasca e si ritirò in un angolo. Lo udii chiedere dell'ispettore Carthy, poi mormorò qualcosa. Evidentemente Carthy non era irreperibile per tutti. Udii dei frammenti di quello che diceva. «Dobbiamo parlarne a Stadler? Sì, l'ispettore Stadler. E a Grace Schilling?... Potresti farle uno squillo? E mandare un poliziotto con i documenti. Manda Lynne, che è brava in queste faccende. Ci incontriamo là... Bene, a dopo.» Aldham si rimise in tasca il telefonino e si rivolse a Pauline. «Non le dispiace se la signorina Haratounian viene con noi?» «Ovviamente no» disse Pauline. Mi guardò, questa volta con aria preoccupata. «Va tutto bene?» «È tutto a posto» rispose Aldham. «Dobbiamo semplicemente eseguire degli accertamenti di routine.» Prese di tasca un fazzoletto e lo usò per prendere l'album di Elinor. «Va bene?» disse. Fu un viaggio piuttosto lungo attraverso Londra. Il traffico, permanentemente congestionato, di venerdì era ancora peggiore, inoltre un camion aveva bloccato la strada cercando di svoltare nel cortile di un cantiere, così Aldham prese una scorciatoia e rimase incastrato in una rete di stradine residenziali dalle parti di Balls Pond Road. «Stiamo andando al posto di polizia?» gli domandai. «Dopo, forse» rispose, interrompendo un momento di rivolgere insulti agli altri automobilisti. «Ora andiamo a trovare una donna che se ne intende di psicotici di questo genere.» «Che cosa ne pensa di quel disegno?» «Che gente, eh?» Ma non era chiaro se stesse parlando dell'artista o di una vecchietta che stava attraversando la strada molto lentamente. Non chiesi delucidazioni. Dopo circa un'ora arrivammo davanti a quella che sembrava una scuola, ma che un'insegna identificava come la Welbeck Clinic, in una zona residenziale. Alla reception una poliziotta stava leggendo dei documenti in una cartellina. Quando ci vide la chiuse, si avvicinò e la diede ad Aldham. «Lei stia qui» mi disse Aldham. «La mia collega Burnett le terrà compagnia.» «Lynne» fece lei con un sorriso rassicurante. Aveva una voglia violacea
sulla guancia e grandi occhi. In un'altra situazione mi sarebbe piaciuta. Stavo per accendere l'ennesima sigaretta, ma era veramente verboten, così andai con Lynne a sedermi sugli scalini dell'ingresso e le offrii una sigaretta, che lei, da brava ragazza, accettò. Probabilmente solo per tenermi compagnia. Non disse niente, cosa che francamente mi fu di sollievo. Dopo dieci minuti Aldham riemerse e con lui c'era una donna alta con un lungo soprabito grigio. Aveva i capelli biondi legati in modo casuale, una cartella di pelle e una borsa di tela color kaki. Non mi sembrava molto più vecchia di me. Trent'anni forse. «Signorina Haratounian, le presento la dottoressa Schilling» disse Aldham. Ci stringemmo la mano. Lei mi guardò con gli occhi socchiusi, come se fossi un esemplare insolito da esaminare. «Mi dispiace molto» disse. «Sono già in ritardo per una riunione, ma volevo parlarle brevemente.» Improvvisamente mi sentii annientata. Avevo fatto tutto quel viaggio, avevo attraversato Londra per parlare con una donna mentre scendeva in fretta gli scalini di una clinica. «Allora che cosa ne pensa?» «Penso che questa faccenda debba esser presa seriamente.» Lanciò ad Aldham un'occhiata tagliente. «Forse doveva esser presa seriamente un pochino prima.» «Ma potrebbe essere uno scherzo, non è vero?» «È uno scherzo» disse con aria preoccupata. «Ma non ha fatto nulla. Voglio dire che non ha fatto nulla per nuocermi fisicamente.» Davanti alla sua serietà volevo ritornare a credere che la cosa fosse solo uno stupido scherzo. «Esattamente» aggiunse Aldham un po' troppo enfaticamente. «Il problema» disse la dottoressa Schilling, rivolta più ad Aldham che a me, «è che...» Si interruppe. Che cosa stava per dire? Deglutì. «La signorina Haratounian non è protetta a sufficienza.» «Mi chiami Zoe» le dissi. «È meno complicato.» «Zoe, vorrei parlarle più a lungo lunedì mattina per esaminare la cosa in dettaglio. Vorrei incontrarla qui alle nove.» «Ho un lavoro.» «Questo è il suo lavoro» rispose. «Per il momento. Ora devo andare, ma... Quel disegno, quella è veramente la sua camera da letto?» «L'ho già detto.»
La dottoressa Schilling era nervosa, spostava il peso da un piede all'altro. Se fosse stata una scolaretta della mia classe, l'avrei mandata al bagno. «Ha un ragazzo, vero?» mi domandò. «Sì, Fred.» «Vivete insieme?» Feci un sorrisetto forzato. «Non passa mai la notte con me.» «Che cosa? Mai?» «No.» «È una relazione sessuale?» «Sì, abbiamo fatto tutto, se è quello che intende.» Guardò Aldham. «Vada a parlargli.» «Se pensa che potrebbe essere Fred» dissi, «si sbaglia. A parte il fatto che non potrebbe essere lui perché, be'... semplicemente perché no.» Lei annuì, gentile ma per nulla convinta. «Inoltre la notte in cui quell'individuo ha manipolato il disegno lui non c'era. Era nel Dales, che lavorava a un giardino con parecchie altre persone. Non è ritornato se non la sera successiva. Penso che sia stato anche ripreso dalla TV dello Yorkshire, se vuole la prova.» «Ne è sicura?» «Al cento per cento.» «Vada ugualmente a parlargli» disse ad Aldham. Poi a me: «Ci vediamo lunedì, Zoe. Non voglio spaventarla e potrebbe anche non essere nulla, ma penso che sarebbe una buona idea se non passasse la notte da sola nel suo appartamento per un po'. Doug» doveva essere Aldham, «controlla le sue serrature, va bene? A lunedì, allora». Aldham e io ritornammo all'auto. «È stata... ehm, una cosa veloce» commentai. «Non le dia troppo retta» disse Aldham. «Al dieci per cento dice stronzate e al novanta per cento cerca di pararsi il culo.» «Ha detto che lei dovrebbe parlare con Fred. Non lo farà, vero?» «Dobbiamo pur cominciare da qualche parte.» «Ora?» «Sa dove si trova?» «Sta lavorando a un giardino.» «In un giardino, vuol dire.» «No, Fred dice che lavora a un giardino. In questo modo gli sembra più artistico. Dove siamo ora?» «Hampstead.»
«Penso che sia da queste parti. Ha detto che era a nord di Londra.» «Bene. Sa l'indirizzo?» «Potrei chiamarlo al cellulare. Ma non si può aspettare?» «La prego» disse Aldham offrendomi il suo telefono. Trovai il numero sulla rubrica e lo digitai. «Posso parlargli prima io?» Aldham sembrò perplesso. «Per quale ragione?» «Non so. Per gentilezza forse.» Vidi Fred prima che lui vedesse me. Era in fondo al lungo giardino posteriore di una casa incredibilmente imponente. Si muoveva lento lungo un lato e portava in spalla uno Strimmer allacciato con delle bretelle. Indossava un berretto da baseball con la visiera indietro, jeans strappati, una maglietta bianca e pesanti scarponi da lavoro. Aveva anche una visiera per gli occhi e un paraorecchie, per cui l'unico modo di farmi notare era toccarlo sulla spalla. Lui trasalì leggermente, anche se gli avevo telefonato per avvertirlo. Spense la macchina e si slacciò l'imbracatura. Tolse la visiera e il paraorecchie. Sembrava come stordito dal rumore, anche se era cessato, e dalla luce accecante. Eravamo in pieno sole, presso un'aiuola di gigli. Fred era sudato fradicio. Non si avvicinò e mi guardò sorpreso, in collera. È una di quelle persone, pensai, a cui piace tenere ogni cosa in compartimenti separati: il lavoro e le relazioni sociali dovevano restare divisi, come il sesso e il sonno. Io le avevo mescolate e a lui la cosa non andava giù. «Ciao» disse con tono interrogativo. «Ciao» risposi baciandolo e carezzandogli la guancia bagnata. «Scusami. Vogliono parlare con te. Io gli ho detto che non era necessario.» «Ora?» disse cautamente. «Stiamo lavorando. Non posso fermarmi.» «Io non c'entro» continuai. «Volevo solo dirti di persona che mi dispiace che tu venga coinvolto in questa faccenda.» Improvvisamente sembrò irrigidirsi. «Che cos'è tutto questo casino?» Gli feci un riassunto di quello che era successo a scuola, ma pareva che non ascoltasse. Era come uno di quegli orribili uomini che alle feste ti lanciano occhiate oltre la spalla per guardare una ragazza più bella di te vicino al buffet. In questo caso Fred continuava a osservare Aldham che gironzolava all'altro capo del giardino, vicino alla porta di casa. «E così ha detto che dovrei star lontana dal mio appartamento nei prossimi giorni.» Mi interruppi e guardai Fred. Aspettavo che dicesse qualcosa, che mi
commiserasse, che mi invitasse a stare con lui finché tutta la faccenda non fosse finita, se volevo. Aspettavo che mi mettesse le braccia al collo e mi dicesse che sarebbe andato tutto bene, che lui mi sarebbe stato vicino. Il suo viso lucido di sudore sembrava una maschera. Non riuscivo a capire che cosa stesse pensando. Poi i suoi occhi si abbassarono sul mio seno. Mi sentii arrossire per l'umiliazione e avvertii il primo subbuglio di una grande collera. «Io...» cominciò, poi si fermò e si guardò intorno. «Va bene, gli parlerò per un minuto. Non ho niente da dirgli però.» «Un'altra cosa» dissi senza sapere che l'avrei detto. «Penso che dovremmo smettere di vederci.» Ciò fermò i suoi occhi erranti, leggermente lascivi; la sua aria vaga e sconnessa. Mi fissò. Vidi che sulla tempia gli pulsava una vena, i muscoli delle mascelle si contraevano e allentavano. «E perché, Zoe?» disse poi. Con voce di ghiaccio. «Forse non è un buon momento» risposi. Si liberò dell'enorme Strimmer e lo depose sull'erba. «Mi stai lasciando?» «Sì.» Una vampa gli passò sul bel viso. Aveva gli occhi freddi. Mi guardò dall'alto in basso, come se fossi in mostra in vetrina e lui dovesse decidere se comprarmi o no. Poi arricciò le labbra in un sorrisetto. «Chi cavolo credi di essere?» Lo guardai, osservai il suo volto sudato e gli occhi gonfi. «Sono spaventata» risposi. «Ho bisogno di aiuto e non mi pare che tu sia disposto a darmelo, vero?» «Sei una puttana» disse, «una puttana presuntuosa.» Mi voltai e mi allontanai. Volevo andarmene di lì al più presto; andare in un posto sicuro. Ha i capelli sciolti sulle spalle. Avrebbero bisogno di uno shampoo. La riga è scura, un po' unta. Nell'ultima settimana è invecchiata. Ha delle rughe che vanno dalle narici agli angoli della bocca, ombre scure sotto gli occhi, un solco sulla fronte, come se stesse per ore con le sopracciglia aggrottate. La pelle ha un aspetto non del tutto sano, è pallida e come opaca sotto l'abbronzatura. Oggi niente orecchini. Ha un paio di vecchi pantaloni di cotone, color avena penso si chiami, e una camicia bianca con le maniche corte. I pantaloni sono larghi e avrebbero bisogno di una stirata.
Alla camicia manca un bottone. Mordicchia il lato del dito medio della mano destra senza accorgersene. Si guarda spesso intorno, senza mai soffermare gli occhi su una persona per più di un secondo. A volte li socchiude, come se avesse problemi a mettere a fuoco. Fuma in continuazione, accendendo una sigaretta con il mozzicone dell'altra. Dentro di me il sentimento cresce. Quando sarò pronto lo saprò. E saprò quando lei sarà pronta. È come l'amore: lo si sa. Non c'è nulla di più certo. La certezza mi riempie, mi rende forte e deciso. Lei diventa più debole e piccola. La guardo e penso tra me: io ho fatto questo. DODICI Bussai violentemente alla porta. Perché non veniva? Dai, per favore, vieni presto. Non riuscivo a respirare. Sapevo di doverlo fare, tutti devono respirare, ma quando ci provavo non riuscivo, almeno non bene. Mi sembrava di avere una pressione insopportabile sul petto. Feci qualche respiro poco profondo, una serie di disperati singulti. Sentivo un doloroso cerchio alla testa e tutto mi sembrava sfocato. Per favore aiutatemi, ma non riuscivo a dirlo, a urlare. Avevo un groppo in gola, nei polmoni, che mi impediva di prendere fiato. Non riuscivo più a stare in piedi, tutto stava diventando confuso e grigio scuro. Caddi in ginocchio sulla porta. «Zoe? Zoe! Per l'amor del Cielo, Zoe, che cosa è successo?» Louise si inginocchiò vicino a me, avvolta in un telo da bagno e con i capelli bagnati. Mi mise un braccio intorno alle spalle e il telo si aprì, ma a lei non importava, cara Louise, e non badava alle persone che ci passavano accanto, ci lanciavano strane occhiate e forse attraversavano perfino la strada per evitarci. Cercai di parlare, ma non riuscii a emettere che uno strano suono, come un balbettio. Lei mi prese tra le braccia e cominciò a dondolarmi. Nessuno mi aveva fatto una cosa del genere da quando era morta la mamma. Ero ridiventata una bambina piccola e un'altra persona si stava finalmente prendendo cura di me. Oh, quanto mi era mancato; quanto mi era mancato avere una mamma. Louise mormorava cose senza senso e mi diceva che tutto sarebbe andato bene, sarebbe finito bene. Mi diceva di inspirare ed espirare, dentro e fuori, con calma. Dentro e fuori. Pian piano ricominciai a respirare. Ma non riuscivo ancora a parlare. Solo a piagnucolare come una bimba. Sentivo lacrime calde sgorgare dagli occhi chiusi, scivolarmi sulle guance bollenti. Non avrei più voluto muovermi, mai più. Le membra mi
sembravano pesanti, troppo pesanti per potersi muovere. Mi sarei addormentata lì, subito. Louise mi aiutò ad alzarmi, tenendosi il telo chiuso con una mano, e mi condusse di sopra al suo appartamento. Mi fece sedere sul sofà e si accomodò accanto a me. «È stato un attacco di panico» mi disse. «Tutto qui, Zoe.» Il panico se n'era andato, ma era rimasta la paura. Era come stare sotto un'ombra fredda, dissi a Louise. Era come guardare giù dalla cima di un edificio così alto che non si vedeva il suolo. Avrei voluto acciambellarmi e dormire finché non fosse finito tutto. Avrei voluto che ci pensasse qualcun altro a risolvere le cose e a far ritornare tutto com'era prima. Avrei voluto mettermi le mani sulle orecchie e sugli occhi e pensare che questa brutta cosa sarebbe sparita. «Un giorno» mi disse Louise cercando di rassicurarmi, «ripenserai a tutto questo come a una brutta esperienza passata, una storia da raccontare agli amici.» Ma io non riuscivo a crederci, non riuscivo a credere che sarebbe finita. Per me il mondo era cambiato. Rimasi con Louise nel suo appartamento a Dalston, vicino al mercato. Non avevo un altro posto in cui andare. Lei era la mia amica e mi fidavo di lei, e quando era nelle vicinanze, piccola, robusta e gentile, mi sentivo meno spaventata. Niente mi sarebbe successo se Louise mi era vicina. Per prima cosa feci un bagno nella sua vasca, molto più comoda della mia. Mi distesi nell'acqua bollente e Louise si sedette sul wc con una tazza di tè e mi lavò la schiena. Mi raccontò della sua infanzia a Swansea, di sua madre, non sposata, e di sua nonna che era ancora viva; di pioggia, tegole grigie, cumuli di nuvole, colline. Aveva sempre saputo che sarebbe venuta a stare a Londra, disse. E io le raccontai del mio paesino, che non era un vero e proprio paese, ma piuttosto una manciata di case sparse con un ufficio postale. Di mio padre che guidava il taxi di notte e dormiva di giorno, e che era morto in modo tranquillo e modesto, non volendo neanche in quella circostanza attirare l'attenzione su di sé. E poi le raccontai di mia madre, morta quando avevo dodici anni; di come nei due anni prima di morire si fosse allontanata sempre più da me, nella sua terra di dolore e paura. Io stavo accanto al suo letto e le tenevo la mano fredda e ossuta, e sentivo che stava diventando una sconosciuta. Le raccontavo le cose che facevo durante il giorno o le portavo i messaggi degli amici, e intanto desideravo esser fuori a giocare o in camera mia a leggere e ascoltare musica, o da qualsiasi altra
parte ma non lì, in quella camera da malata che aveva un odore strano, con quella donna le cui ossa si vedevano attraverso la pelle e i cui occhi mi fissavano. Ma appena me ne andavo mi sentivo in colpa, strana e spaesata. E poi, quando morì, non desiderai altro che ritornare nella sua camera a tenerle la mano sottile e a raccontarle della mia giornata. A volte, dissi, ancora stentavo a credere che non l'avrei più rivista. Le raccontai che dopo di allora non ero mai riuscita a capire bene che cosa volevo fare o dove volevo essere. Tutto era diventato vago e senza senso. Ero finita a fare la maestra a Hackeney. Ma un giorno me ne sarei andata, avrei fatto qualcos'altro. Un giorno avrei avuto dei bambini miei. Louise telefonò e ordinò delle pizze. Io presi in prestito la sua vestaglia di un rosso brillante e ci sedemmo sul divano a mangiare fette di pizza gocciolanti, a bere vino rosso a buon mercato e a guardare Ricomincio da capo sul videoregistratore. L'avevamo già visto tutte e due, naturalmente, ma ci era sembrata una scelta sicura. Un paio di volte squillò il telefono e lei rispose parlando a bassa voce, con una mano sul ricevitore e lanciandomi occhiate di tanto in tanto. Una volta era per me: il sergente Aldham. Per uno stupido momento pensai che forse mi avrebbe detto che l'avevano preso. Speranza vana. Stava solo facendo un controllo. Mi ripeté di non andare all'appartamento da sola, di non stare sola con nessun uomo che non conoscevo bene, e mi disse che volevano di nuovo parlarmi lunedì, con la dottoressa Schilling. Un lungo colloquio, ripeté. «Stia attenta, signorina Haratounian» fece, e il fatto che pronunciasse in modo corretto il mio nome mi allarmò quasi di più del suo tono onesto e rispettoso. Avevo voluto che mi prendessero sul serio, e ora lo stavano facendo. Louise insistette a cedermi il suo letto, mentre lei si avvolse in un lenzuolo sul divano. Pensavo che non sarei riuscita a dormire ed effettivamente rimasi sveglia per un po', con la testa che brulicava di pensieri come pipistrelli impazziti, privi di radar. La notte era calda e pesante e non riuscivo a trovare un angolo fresco sul cuscino. L'appartamento di Louise era in una strada tranquilla. Udii miagolare bellicosamente dei gatti, il rumore metallico del coperchio di un bidone della spazzatura, un uomo solitario che cantava «O Little Town of Bethlehem». Ma poi dovetti prendere sonno, perché non ricordavo altro che l'odore di toast bruciato e la luce del giorno attraverso le tende a righe blu, i granellini di polvere che ballavano nei raggi di sole. In soggiorno squillò il telefono, poi Louise fece capolino
in camera da letto per chiedermi: «Tè o caffè?» «Caffè, per favore.» «Toast o toast?» «Niente.» «Allora toast.» Scomparve e io mi alzai a fatica, ma non mi sentivo troppo male. Non avevo nulla da mettermi addosso se non i vestiti che mi ero tolta la notte precedente, e li infilai sentendomi poco pulita. Dopo aver mangiato pane tostato e bevuto caffè, telefonai a Guy per sapere se c'erano novità riguardo all'appartamento. Aveva una voce imbarazzata e leggermente ansiosa, per nulla allegra e melliflua come al solito. «Ho sentito che non è un bel momento per lei» disse. La polizia doveva avergli parlato. «Non proprio brillante. Nessuna novità per la vendita?» «Il signor Shale vuole rivedere l'appartamento. Decisamente serio. Penso che stia abboccando all'amo. È solo questione di dargli lo strattone finale.» «Di che cosa sta parlando?» domandai cautamente. «Penso che sia pronto a fare un'offerta» rispose Guy. «Il problema è che chiede se oggi, a mezzogiorno, potrebbe rivederlo.» «Non potrebbe mostrarglielo lei?» Di nuovo la risatina irritante. «Potrei, ma ci sono dei problemi. Verrò anch'io, comunque.» «Sì, basta con gli sconosciuti.» Così decidemmo di incontrarci all'agenzia a mezzogiorno, Guy, io e Nick Shale. Mi sembrava che tre fosse un numero sicuro. Poi saremmo andati a piedi al mio appartamento, avremmo dato un'occhiata e ce ne saremmo andati nel giro di pochi minuti. Louise insistette che prendessi un taxi e rimanemmo intrappolate nel traffico per mezz'ora, inveendo contro le auto e arrivando in ritardo. I due uomini mi stavano aspettando, Guy in un vestito leggero blu e Nick in jeans e maglietta bianca. Ci stringemmo la mano in modo formale. Quando arrivammo all'appartamento, Guy aprì la porta con le sue chiavi e io entrai per prima. Nick si fece da parte per lasciarmi passare. Dentro c'era un odore strano. Dolciastro ma con un sentore di marcio. Nick arricciò il naso e mi guardò interrogativamente . «Devo aver lasciato fuori dal frigo qualcosa» dissi. «Non vengo qui da qualche giorno.» Veniva dalla cucina. Aprii la porta. L'odore era più forte, ma non riusci-
vo ancora a identificarlo. Guardai sui ripiani. Niente. Nella pattumiera, ma era vuota. Aprii il frigorifero. «Oh, Dio!» esclamai. La luce interna non si accese. Il frigo era caldo. Il guaio, però, non era troppo serio. Il latte era andato a male, ma nel frigo non c'era molto altro. Il cattivo odore, tuttavia, veniva da sopra, dal piccolo reparto dei surgelati nella parte superiore del frigo. E quando l'aprii non potei fare a meno di gemere. Un gran pasticcio. Una scatola di gelato al caffè si era capovolta e il contenuto si era rovesciato su un pacchetto aperto di gamberoni. L'odore dei gamberoni vecchi di un giorno mescolato a quello del gelato sciolto mi fece quasi vomitare. «Maledizione!» «Zoe.» Guy mi mise la mano sulla spalla e io feci un balzo e mi allontanai. «È stato solo uno stupido contrattempo, Zoe.» «Aspetti» dissi. «Devo chiamare la polizia.» «Che cosa?» fece lui con un'espressione perplessa, quasi imbarazzata. Io mi volsi verso di lui. «Stia zitto. Stia zitto e non mi venga vicino.» «Zoe...» «Stia zitto.» Stavo praticamente urlando. Lui cominciò a parlare poi alzò le mani in segno di resa. «Va bene, va bene.» Gettò un'occhiata a Nick con l'espressione apprensiva di chi vede andare in fumo la possibilità di vendita. Non importava. L'unica cosa che mi interessava era rimanere viva. Sapevo il numero a memoria. Lo feci e chiesi di Carthy e questa volta lui venne al telefono. Niente più perdite di tempo. Disse che sarebbe venuto subito. E in meno di dieci minuti era lì, con Aldham e un altro funzionario che aveva una grossa borsa di pelle e che si infilò dei sottili guanti non appena varcò la soglia. Guardarono il caos nel frigo e andarono in un angolo a mormorarsi delle cose. Carthy mi fece delle domande, ma non riuscivo a capirle. Mi disse qualcosa riguardo alla protezione della polizia. Gli altri due erano in cucina. Guy disse che loro dovevano andarsene, ma Carthy disse di no, che dovevano aspettare sulle scale. «È di nuovo stato qui. Non lo sopporto.» Aldham andò da Carthy e gli mormorò qualcosa all'orecchio. Sembrava un po' scosso. Poi venne da me e mi parlò con molta calma. «Zoe, non c'erano messaggi, vero?» «Non so. Non ne ho visti, ma non ho guardato.»
«Noi abbiamo guardato e non ne abbiamo trovati.» «Allora?» «Abbiamo controllato il frigorifero. La spina è stata tolta per inserire il bollitore elettrico.» «Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere?» «Penso che si sia trattato di un errore. Comune.» «Ma io non farei...» E poi mi fermai e mi ricordai che Louise aveva preparato il tè e aveva tirato via una spina per collegare il bollitore. Maledizione, mi sentii arrossire. Ci fu un momento di silenzio. Aldham guardò il tappeto, Carthy guardò me. E io guardai lui. «Mi ha detto di stare all'erta» dissi alla fine. «Naturalmente» rispose Aldham gentilmente. «È facile per voi» continuai. «Io non faccio che pensare alla morte.» «Lo so» disse Aldham ora quasi sussurrando. Mi mise la mano sulla spalla con una certa esitazione. «Mi chiedo se la stiamo allarmando troppo. Mi dispiace.» Mi liberai. «Lei... lei...» Ma non mi venne in mente nulla di abbastanza maleducato. Mi voltai e scappai fuori, stranamente cosciente che li stavo lasciando tutti nel mio appartamento. TREDICI Quando ritornai all'appartamento di Louise, lei mi stava aspettando. Aveva il viso coperto da una maschera cosmetica bianca per la pelle, che le lasciava libero solo un cerchio roseo intorno agli occhi, dandole un'aria sorpresa. Mentre le raccontavo quello che era successo, mi resi conto di dare per scontato che sarei rimasta ad abitare lì. Ma lei facilitò le cose. «Stai quanto ti pare.» «Dormo sul divano, però.» «Come vuoi.» «E pago l'affitto.» Aggrottò la fronte producendo delle crepe nella maschera. «Se ti fa stare meglio, ma non è necessario. Da' solo l'acqua alle piante. Io me ne dimentico sempre.» Stavo meglio. Il terrore che avevo provato il giorno prima si stava allentando. Non avrei più dovuto dormire nel mio appartamento, non avrei più dovuto vedere Guy o mostrare a estranei la mia casa, lasciare che loro met-
tessero il naso nei miei cassetti, mi fissassero il seno; non avrei più dovuto coricarmi al buio in quel luogo, ad ascoltare, aspettare, cercare di respirare normalmente. Non avrei neanche più dovuto vedere Fred né i ragazzi. Mi sentivo come se mi fossi disfatta di una pelle sporca e soffocante. Sarei stata con Louise, avremmo cenato davanti al televisore, ci saremmo dipinte a vicenda le unghie dei piedi. Lunedì avrei visto la dottoressa Schilling. Lei avrebbe saputo che cosa fare. Era un'esperta. Louise insistette che non aveva programmi per il finesettimana, e anche se sospettavo che avesse rinunciato a tutto per me ne fui così sollevata che protestai solo debolmente. Ci comprammo delle baguette francesi farcite con pomodori e formaggio e andammo al parco lì vicino, dove sedemmo sull'erba secca e gialla. Il sole era feroce, l'aria soffocante e il parco sovraffollato: gruppi di adolescenti che giocavano a frisbee o stavano all'ombra degli alberi; famiglie con attrezzatura da picnic, palle e corde per saltare; ragazze con magliette scollatissime che prendevano il sole; gente con lattine di birra, cani, macchine fotografiche, aquiloni, biciclette, pane per le anatre. Tutti con vestiti leggeri e colorati e sorrisi sulle labbra. Louise si ficcò la camicia nel reggiseno e si stese con le braccia sotto la testa. Io mi sedetti accanto a lei a fumare una sigaretta dopo l'altra e a guardare la fiumana di gente che mi passava davanti. Aspettavo di vedere un viso noto, o che mi guardasse come se mi conoscesse. Ma non notai nulla del genere. «Sai una cosa?» domandai. «Che cosa?» rispose Louise con voce sognante. «Sono stata passiva.» «No, non è vero.» «Sì. Desideravo che qualcun altro risolvesse questa faccenda per me. Non volevo essere scocciata.» «Non essere sciocca, Zoe.» «È vero. Penso che sia l'effetto di Londra. Voglio perdermi tra la folla, non essere notata da nessuno. E invece devo guardare me stessa. Ecco che cosa devo fare. Guardare me stessa e cercare di capire perché qualcuno dovrebbe aver preso di mira proprio me. Chi potrebbe fare una cosa del genere.» «Domani» disse Louise. «Guarderai te stessa domani. Oggi limitati ad aver cura di te.» Lasciai che il sole mi scaldasse la pelle sotto i vestiti sporchi. Ero stanca. Più di quanto lo fossi mai stata. Mi dolevano gli occhi, erano come pieni di
sabbia, le gambe mi sembravano troppo pesanti per muoversi. Avrei voluto fare dei lunghi bagni, dormire per ore tra lenzuola pulite, mangiare cibi sani, carote crude, mele verdi, bere spremute d'arancia e tisane. Non riuscivo più neanche a immaginare di passare la serata in un club a ubriacarmi o a stordirmi, di essere di nuovo toccata da un uomo. La vita calda, sudaticcia, frenetica che avevo vissuto a Londra mi riempiva di un orrore vago e diffuso. Tanto rumore e tanta fatica. Forse, pensai, la smetterò anche con le sigarette. Ma non ero ancora pronta. Passammo davanti a un negozio allegro di vestiti per bambini - tutine di cotone colorate e magliette a righe, giubbotti imbottiti rossi, rosa e gialli e Louise mi trascinò dentro. «Hai la taglia di un bambino» mi disse, esaminandomi. «Sei dimagrita troppo e ti devi rimpolpare un po'. Ma nel frattempo compriamo un paio di cosette.» Così, mentre la commessa ci guardava con una certa aria di disapprovazione, scelsi qualche capo e li portai nello stanzino per provarli. Mi infilai uno scamiciato grigio di velluto a coste, per tredicenni, e mi guardai allo specchio. Bene. Mi faceva sembrare senza seno e senza sesso. Era giusto per me. Poi lo tolsi e misi una maglietta graziosissima, con dei fiorellini ricamati sopra. «Fammi vedere» gridò Louise. «Dài, non puoi andare a fare spese con un'amica e non trasformare l'occasione in una passerella di moda.» Aprii le tendine ridacchiando, piroettando per farmi ammirare. «Che cosa ne pensi?» «Prendila» mi ordinò. «Non è troppo piccola per me?» «Lo sarà dopo che sarai stata con me per qualche giorno e ti sarai adeguata alle mie abitudini culinarie. Ma ora no, ti sta benissimo.» Mi mise una mano sulla spalla. «Sembri un fiore, cara.» In seguito Louise e io andammo, con la sua auto rantolante, al supermercato a far rifornimento. Per un sacco di tempo ero andata avanti mangiando a casaccio, patatite una volta, una tavoletta di cioccolata un'altra, panini preconfezionati nella fumosa sala dei professori. Erano settimane, forse mesi, che non cucinavo qualcosa seguendo una ricetta e mettendo insieme dei veri ingredienti. «Preparo io la cena stasera» dissi audacemente. Misi nel carrello della pasta fresca, cipolle, aglio e pomodori pelati italiani, un barattolo di erbe secche miste, lattuga, cetriolo, dei mango e delle fragole. Una vaschetta di
panna. Una bottiglia di Chianti. Comprai un pacchetto di mutandine economiche, del deodorante, una salvietta, spazzolino da denti e dentifricio. Non mi lavavo i denti dalla mattina del giorno precedente. Dovevo andare a prendere qualcosa nell'appartamento. «Domani» disse Louise in modo deciso. «Lasciamo quest'incombenza per domani. Ci andremo insieme con la mia auto. Fino ad allora hai i vestiti da bambina.» Presi delle rose avvolte nel cellophane nella zona delle casse e le aggiunsi al nostro carrello. «Non so come ringraziarti, Louise.» «Allora non farlo.» A cena venne anche un'amica di Louise, una certa Cathy. Era straordinariamente alta e magra, aveva il naso aquilino e orecchie molto piccole. Louise evidentemente le aveva parlato di me, perché mi trattava con cautela, gentilmente, come se fossi un'invalida. La pasta era scotta, ma il sugo di pomodoro buono, e poi tutti sono capaci di tagliare il mango e le fragole e di mischiarli insieme in un'insalatiera. Louise accese delle candele e con la cera fusa le attaccò a vecchi piattini. Io mi sedetti al tavolo di cucina, con il nuovo scamiciato grigio e un senso di irrealtà. Avevo un vuoto allo stomaco, ma non riuscii a mangiare molto. E neanche a parlare molto. Mi bastava star seduta lì con loro ad ascoltarle, le parole che mi ronzavano alla superficie della mente con leggerezza. Bevemmo il Chianti, poi quasi tutto il vino bianco che aveva portato Cathy, e guardammo un vecchio film alla televisione, un specie di thriller, ma io non riuscii a concentrarmi sui dettagli della trama. La mia mente vagava e ogni tanto perdevo una scena e non riuscivo a capire come mai, in quella successiva, il protagonista irrompesse in un magazzino, che cosa tramasse o che cosa sperasse di trovarci. Fuori cominciò a piovere. Andai a dormire prima che Cathy se ne andasse. Mi acciambellai sul divano con indosso la camicia da notte di Louise, e mi addormentai sentendole parlare in cucina, a volte ridacchiare, e provai un senso di sicurezza. Il giorno successivo, dopo colazione, andammo al mio appartamento a prendere i vestiti. Non volevo ancora sgombrare tutto, anche se non avevo nessuna intenzione di tornare a viverci, ma solo prendere le cose essenziali. Stava ancora piovendo piuttosto forte. Louise non riuscì a trovare nessun parcheggio vicino all'appartamento, così si fermò su una doppia riga gialla a qualche metro dalla porta di casa e io le dissi che avrei fatto una
corsa di sopra. «Non mi ci vorrà che un paio di minuti.» «Sei sicura di non volere che venga su con te?» Scossi il capo e sorrisi. «Vado solo a dirgli addio.» Anche se me ne ero andata da un giorno appena, l'appartamento aveva già assunto un'aria di squallore e abbandono, come se sapesse che non mi interessava più. Andai in camera da letto e presi un po' di vestiti dal guardaroba. Due paia di calzoni, quattro magliette, parecchie mutande, reggiseni e calze. Scarpe da ginnastica. Per ora mi sarebbe bastato. Ficcai tutto in una grossa sacca, poi andai in bagno, mi tolsi i vestiti sporchi che avevo addosso e li buttai in un angolo. La roba da lavare l'avrei presa in seguito. In un altro momento. Udii un clic, come la porta di una credenza che si chiudeva. Non è niente, dissi a me stessa. L'immaginazione gioca brutti scherzi. Ritornai in camera da letto e trovai della biancheria pulita. Chiusi le tende e me la infilai davanti allo specchio. Vidi il mio volto riflesso, segni scuri sotto gli occhi. Il corpo nudo, braccia e gambe abbronzate, pancia bianca. Indossai le mutande e presi la maglietta nuova dal sacchetto che mi ero portata, quella che secondo Louise mi faceva sembrare un fiore, e la infilai. Era stupido, ma non riuscivo a pensare di mettermi nulla che avesse l'odore dell'appartamento, della mia vecchia vita. Volevo essere pulita e nuova. Mentre tiravo giù la maglietta sul seno, senza nessun avvertimento mi sentii afferrare al collo e avvertii un peso sulla schiena. Persi l'equilibrio e caddi pesantemente con quel peso sopra di me, che mi spingeva la faccia coperta dalla maglietta contro il tappeto. Ero tramortita, dolorante. Sentii la mano coprirmi la bocca attraverso la maglietta, una mano calda che sapeva di sapone, il sapone alla mela del mio bagno. L'altra mano era stretta intorno alla mia cassa toracica, proprio sotto il seno. «Puttana, sei una puttana.» Cominciai a contorcermi, a divincolarmi cercando di urlare. Ma non riuscii a raggiungere nulla, ero bloccata. Lui non emise suoni, sentivo solo il suo respiro, un respiro caldo e soffice sul mio orecchio. Alla fine smisi di lottare. Fuori qualcuno strillò, una sirena si avvicinò e poi sparì in lontananza. Andando da qualche altra parte. La presa intorno al collo si allentò. Cercai di muovermi e di urlare, ma lui mi afferrò alla gola. Non potevo fare nulla. Non potevo muovermi, lottare o urlare. Pensai a Louise, seduta in automobile fuori, che mi aspettava, anche se ora non mi sembrava vicina, ma molto, molto lontana. Presto
probabilmente sarebbe venuta a cercarmi. Ma non abbastanza presto. Che stupido, morire in questo modo, prima di aver iniziato. Prima di aver avuto una vita. Che stupido. Molto lentamente il pavimento sembrò sollevarsi e venirmi incontro. Sentii la testa rimbalzare sulle tavole del pavimento, i piedi scivolare sul legno. Sentii la pioggia picchiettare gentilmente sulla finestra. Non riuscivo a parlare, non avevo più parole da dire, né tempo per dirle, ma da qualche parte dentro di me, in profondità, una voce stava dicendo: No, per favore, no. Per favore. PARTE SECONDA JENNIFER UNO Sembrava che stesse succedendo di tutto, ma a dir la verità la nostra casa all'ora di colazione somiglia sempre a una specie di castello medievale, con asini e porci e servi della gleba che arrivano in cerca di rifugio al primo sentore di guai. Nelle settimane subito dopo il trasloco era diventata ancor più caotica, se è possibile, e il castello medievale aveva un cantiere proprio al centro. Clive era uscito di casa prima del solito, alle sei, perché stava lavorando a qualche tipo di orripilante transazione. Tutti i giorni, poco prima delle otto, Lena porta i due ragazzi più grandi a scuola con l'Espace. Lena è la nostra governante o au-pair, una ragazza molto carina, svedese, furiosamente bionda, magra e giovane, anche se ha questa cosa alla narice che mi fa sussultare ogni volta che la vedo. Dio solo sa che cosa dev'essere soffiarsi il naso. Poi aveva cominciato ad arrivare gente. Mary, naturalmente, la nostra preziosa donna delle pulizie, che ci aveva seguiti a Primrose Hill. È un vero tesoro, eccetto che devo passare tanto tempo a starle dietro, a dirle che cosa deve fare e poi a controllare che l'abbia fatto, che, come ho detto a Clive, farei prima a fare le pulizie da sola. E poi tutti gli altri, le persone che dovrebbero ristrutturare la casa, ma che la stanno riducendo a una topaia, piena di polvere di mattoni. L'impianto elettrico e quello idraulico erano stati completati alla fine della settimana precedente e da quel momento in poi il meglio che si poteva dire della casa era che qualsiasi cosa sarebbe stato un miglioramento.
Ciò nonostante ero soddisfatta. Questo era ciò che avevo sempre voluto, che Clive mi aveva sempre promesso. Un progetto. La casa era ridotta alle sole pareti e alle tavole dei pavimenti, alle travi e alle assi del tetto. E adesso l'avrei trasformata in una casa di cui essere fieri. Lo so che bisognerebbe innamorarsi di una casa, ma di questa non sarà possibile innamorarsi se non tra sei mesi almeno. Prima ci vivevano due cari vecchietti, e sembrava una libreria di testi usati in cui nessuno entrava dagli anni Cinquanta. Il problema non era che cosa cambiare, ma che cosa tenere. Avevo passato quattro mesi insieme a Jeremy, il nostro intelligente architetto, con la testa sui disegni, carburandolo a cappuccini. La conclusione era stata semplice. Buttar giù tutto. Metter su un nuovo tetto. Poi cucina e camera da pranzo nel seminterrato, soggiorno al piano terra, lo studio di Clive al primo piano sul retro e le camere da letto ancora sopra. L'attico per la governante. I bagni a sinistra, a destra e al centro. Una suite per Clive e me. La doccia per i ragazzi nella speranza che si convincessero a lavarsi ogni tanto. Così quella mattina Jeremy era spuntato alle otto e mezza circa con Mick per cercare di risolvere un problema a un arco o a una trave o qualcosa del genere. Poco dopo era arrivato Francis, il giardiniere che ci eravamo portati dietro per mettere a posto (e con ciò intendo dire rifare completamente) quello che passava per essere il giardino. Una cinquantina di metri quadrati, non male per Londra, ma sembrava una gigantesca gabbia per conigli, prima che arrivasse Francis. L'esercito di elettricisti e idraulici per fortuna se ne era andato, ma Mick veniva ancora con il suo entourage. tè e caffè per tutti, naturalmente, non appena fosse tornata Lena a farlo. In mezzo a tutto questo dovevo anche portare Christopher, che aveva quattro anni, all'asilo a cui l'avevo iscritto quando ci eravamo trasferiti qui. Avevo qualche dubbio su questo asilo, nessuna uniforme, solo tute blu, sabbiere gigantesche e pittura con le mani sempre e ovunque. Ma non valeva la pena cambiare. A settembre sarebbe andato a Lascelles, che era una scuola molto per bene e, cosa ancor più importante, non me ne sarei più dovuta occupare, cosa che mi dava un certo sollievo. Poi di nuovo a casa e finalmente una sosta; un caffè e un'occhiata velocissima al giornale e alla posta prima di cominciare il lavoro, cioè andare in giro a controllare che nessuno buttasse giù il muro sbagliato e inseguire gente per telefono. Il mio fedele factotum, Leo, sarebbe dovuto passare; gli avevo preparato, con il sudore della fronte, un elenco di cose da fare. E dovevo discutere seriamente con Jeremy della cucina. Quella era la parte
più difficile del progetto. Il fatto è che, in qualsiasi altra parte della casa, se c'è qualcosa che non va ci si può vivere comunque. Ma se la porta del frigorifero, aprendosi, blocca il cassetto dei coltelli, ti verrà il nervoso venticinque volte al giorno fino a quando sarai vecchia e avrai i capelli grigi. L'ideale sarebbe costruire la cucina, viverci per sei mesi, e poi rifarla. Ma neppure Clive era così ricco da potersi permettere una cosa del genere. O così paziente. Lena rientrò e le diedi istruzioni. Poi, mentre si metteva in moto, bevvi un caffè e finalmente mi dedicai alla posta e al giornale. Avevo la regola ferrea di non passare sul giornale più di cinque minuti, quando era tanto. Non c'è nulla di interessante sul giornale, in ogni caso. Poi la posta. In genere il novanta per cento della posta è per Clive. Il rimanente dieci per cento è diviso tra i bambini, gli animali e me. Adesso, a dire il vero, non avevamo animali in casa. Nel 1999 le nostre bestie ammontavano a un gatto, che si era perso o era morto o si era trovato una casa migliore da qualche altra parte a Battersea, e a un criceto, sepolto in una bara anonima in fondo al giardino di Battersea. Stavo pensando di prendere un cane. Ho sempre detto che non si dovrebbero tenere cani a Londra, ma ora che siamo a due minuti da Primrose Hill a volte mi sorprendo a meditare sulla questione. Ma non ne avevo ancora parlato con Clive. Di conseguenza la posta la sbrigavo velocemente, di solito limitandomi a fare una pila di tutto ciò che era indirizzato a Clive o comunque lo riguardava. Idem con le bollette. Riconoscevo una bolletta a venti metri di distanza, senza neanche doverla aprire. Idem con tutto ciò che era indirizzato alla Signora e Signor Hintlesham. Poi facevo una pila di queste lettere, le portavo di sopra e le depositavo sulla scrivania dello studio di Clive: che ci pensasse lui quando ritornava a casa o, con più probabilità, durante il finesettimana. Dopo di ciò rimasero due lettere per Josh e Harry, messaggi in duplice copia da Lascelles sulle attività sportive; pubblicità e richieste di denaro che buttai diritto nel cestino; e infine c'era una lettera per me. Tutte le volte che ricevevo posta indirizzata a me, risultava sempre essere il conto di un acquisto per corrispondenza, oppure la lettera di una ditta di vendite per corrispondenza che aveva avuto il mio indirizzo da un'altra ditta di vendite per corrispondenza. Ma questa era differente. Il nome e l'indirizzo erano scritti a mano con cura. E non riconoscevo la scrittura. Non era la mamma o un amico o un parente. Era una situazione nuova e la volli assaporare. Mi versai un'altra
tazza di caffè, ne bevvi un sorso e poi aprii la busta. Conteneva un foglietto di carta piegato, molto più piccolo della busta, e vidi subito che non c'era scritto molto. Lo stesi sul tavolo: Cara Jenny, spero non ti dispiaccia se ti chiamo Jenny. Ma vedi, penso che tu sia molto bella. E che abbia un buonissimo odore e una bellissima pelle. E io ti ucciderò. Sembrava una cosa completamente cretina. Cercai di pensare a chi poteva avermi fatto uno scherzo del genere. Clive aveva degli amici con un senso dell'umorismo assolutamente orrido. Per esempio, una volta era andato a un addio al celibato in onore di un amico, un certo Seb, ed era stato proprio orripilante, con due spogliarelliste che erano venute a fare gli auguri e tutti con i colletti sporchi di rossetto. Jeremy venne dì sotto e cominciammo a parlare dei problemi della cucina. In quegli ultimi giorni terribilmente caldi volevo vedere se i lucernari di sopra si potevano aprire. Su «Casa e giardino» avevo notato dei buffi saliscendi che si potevano aprire con delle corde. Mostrai la figura a Jeremy, ma lui non ne fu molto colpito. Non lo era mai, se l'idea non era sua. Così ci mettemmo a discutere. Era buffo. Però cocciuto. Poi mi ricordai della lettera e gliela feci vedere. A lui non venne da ridere. Non la trovò per nulla divertente. «Hai idea di chi potrebbe essere stato?» mi domandò. «No.» «Faresti meglio a chiamare la polizia.» «Oh, non essere sciocco. Probabilmente è solo uno scherzo. Mi renderei ridicola.» «Non importa. E non importa se è solo uno scherzo. Devi chiamare la polizia.» «La farò vedere a Clive.» «No» disse con fermezza. «Chiama subito la polizia. Se ti vergogni lo farò io per te.» «Jeremy...» Fu inflessibile. Chiamò il centralino, si fece dare il numero del locale posto di polizia e poi non solo lo compose, ma mi passò il telefono come se fossi una bimba che telefonava alla nonna. Il telefono squillò a lungo. Gli feci una linguaccia. «Probabilmente non c'è nessuno... Oh, pronto? Senta, potrebbe sembrarle una cosa stupida, ma
ho appena ricevuto questa lettera.» DUE Parlai per qualche minuto con una ragazza che aveva il tono di chi telefona per illustrarti un qualche tipo di infissi di metallo. Io ero dubbiosa e lei sembrava annoiata, e disse che avrebbe fatto venire qualcuno, ma probabilmente non subito; io risposi che non mi importava e non ci pensai più. Ritornai da Jeremy, che si stava versando un'altra tazza di caffè dal selfservice di casa Hintlesham, come Clive aveva battezzato la comune in cui eravamo appollaiati. I due cari vecchietti avevano buttato giù tramezzi a destra e a manca, avevano sostituito tutte le porte, eliminato i caminetti e i cornicioni. Sapevo che molti avevano fatto cose del genere negli anni Sessanta, per far finta di vivere in un appartamento in cima a un palazzo moderno, invece che nella villetta semi-indipendente al termine di una schiera di edifici della prima età vittoriana. Gran parte del lavoro sarebbe consistito nel ridare alla casa lo stile che le apparteneva. L'unico posto in cui avrei fatto un compromesso era la cucina. Le cucine vittoriane erano luoghi angusti per cameriere e cuochi e noi speravamo di trattarci un po' meglio, ma volevo che ci fosse un po' dell'atmosfera del tempo. Il punto era evitare quello che Jeremy chiamava casa colonica stile Ikea. Lo avevo costretto a rifare i disegni almeno otto volte. C'era anche un infido pilastro che dovevamo aggirare. Io avrei voluto abbattere quell'orrore, ma Jeremy diceva che la parte dietro della casa sarebbe caduta. Stavamo proprio discutendo la sua ultima idea brillante, quando suonarono alla porta. Come al solito lasciai che fosse Lena ad aprire, dato che le sole persone che venivano a casa erano operai che portavano secchi di pittura o radiatori o strani tubi di rame. Gridò il mio nome dalla cima delle scale. Sentirsi chiamare con un urlo nella propria casa per me equivaleva più o meno a masticare una lamina di latta. Salii di sopra. Lena era ancora alla porta. «Se è per me, non potresti venire a dirmelo?» «È quello che sto facendo» mi rispose con aria innocente. Rinunciai e mi avvicinai. Vidi che sui gradini dell'entrata c'erano due poliziotti in uniforme. Sembravano giovani e a disagio, come una coppia di boy-scout che chiede di lavare l'automobile e non sa che reazione aspettarsi. Mi venne tristezza.
«Signora Hintlesham?» «Sì, siete stati molto gentili a venire, ma non penso che sia così importante.» Mi sembrarono ancor più imbarazzati. «Ma entrate, visto che siete qui.» Si pulirono entrambi i piedi sullo zerbino con immensa cura prima di seguirmi dentro e poi di sotto, nella rudimentale cucina. Jeremy mi lanciò un'occhiata, come per dire: devo tagliare la corda? Scossi il capo. «Ci vorrà solo un minuto» gli dissi. Indicai la lettera che era ancora vicino alla stufa. «Credo si tratti di una sciocchezza senza importanza. Posso offrirvi una tazza di tè o qualcosa?» Uno di loro rispose: «No, signora» e poi tutti e due guardarono la lettera, mentre io ritornavo al lavoro con Jeremy. Dopo pochi minuti alzai gli occhi e vidi che uno dei poliziotti era uscito dalla porta-finestra, e stava in giardino a parlare alla radio. L'altro si stava guardando intorno. «Cucina nuova?» domandò. «Sì» risposi e ritornai di proposito a Jeremy. Non ero in vena di intavolare una discussione sull'arredamento della cucina con un giovane poliziotto. L'altro ritornò dentro. Non so se fosse la divisa, gli stivali neri, o il fatto che si fossero tolti il cappello, ma il seminterrato piuttosto ampio mi sembrò angusto. «Avete finito?» domandai. «No, signora Hintlesham. Ho appena parlato con un altro funzionario della polizia, che verrà qui tra poco.» «Per quale ragione?» «Vuole dare un'occhiata alla lettera.» «Avrei intenzione di uscire, più tardi.» «Non ci vorranno che un paio di minuti.» Emisi una specie di sbuffo di irritazione. «Speriamo!» esclamai in tono risentito. «Ma non è uno spreco di tempo per tutti?» Mi risposero con un'alzata di spalle a cui non era facile controbattere. «Avete intenzione di aspettare qui?» «No, signora. Staremo fuori, in auto, finché non arriverà il sergente.» «D'accordo.» Si trascinarono fuori goffamente. Io andai di sopra con Jeremy, e la cosa si rivelò opportuna, poiché era arrivata una latta di vernice National Trust di un colore completamente sbagliato. Assicurarsi che le cose ordinate arrivassero senza errori e le cose da fare fossero effettivamente fatte era un lavoro più che a tempo pieno. Si trattava di una delle prime scoperte che avevo fatto durante questo terribile periodo di ristrutturazione della casa.
Mentre ero al telefono a cercare di risolvere la faccenda della vernice con una tizia idiota, sentii suonare il campanello, e stavo ancora parlando quando entrò un uomo vestito di grigio con la faccia da topo. Gli feci un cenno mentre cercavo o di cavare qualcosa dalla donna al telefono o, per meglio dire, di ficcarle qualcosa in testa. Ma era imbarazzante arrabbiarsi con una sconosciuta intanto che un altro sconosciuto stava lì fermo ad aspettare. Così tagliai corto la telefonata. Il signore che aspettava disse di essere il sergente Aldham. Lo accompagnai nel seminterrato. Esaminò la lettera da vicino, chinandosi, e poi lo sentii imprecare tra i denti. Grugnì e alzò gli occhi. «Ha la busta?» «Be', ehm, no, penso di averla buttata nella spazzatura.» «Dove?» «Nell'armadietto vicino al lavandino.» Non potevo crederci, ma andò al bidone della spazzatura, sollevò il coperchio e cominciò a rovistarci dentro come un barbone. «Mi dispiace, ma temo che ci siano anche dei resti di tè e caffè.» Tirò fuori una busta stropicciata, umidiccia e macchiata di marrone. La maneggiò con attenzione, tenendola per un angolo, e la depositò vicino alla lettera. «Mi scusi un momento» disse e prese il telefono cellulare. Mi ritirai dall'altro lato della stanza e misi la teiera sul fuoco, riuscendo a captare frammenti della conversazione. «Sì, decisamente», «Penso di sì», «Non le ho ancora parlato». Poi sembrò ricevere una sfilza di cattive notizie, perché il dialogo, da parte sua, divenne una serie di domande stridule: «Che cosa?», «Sei sicuro?» Alla fine emise un sospiro rassegnato e ripose il telefono in tasca. Aveva il volto arrossato e respirava affannosamente, come se avesse corso. Rimase qualche momento in silenzio. «Stanno arrivando altri due funzionali» disse con tono opaco. «Vorrebbero interrogarla, se è possibile» aggiunse balbettando. Aveva un aspetto abbattuto, da cane bastonato. «Che cosa diavolo sta succedendo?» protestai. «Non è che una stupida lettera. Come una telefonata oscena, no?» Aldham si rianimò per un momento. «Ha avuto telefonate di questo genere?» «Telefonate oscene? No.» «Riesce a collegare questa lettera a qualcosa? Altre lettere, un conoscente, un fatto qualsiasi.» «Assolutamente no. A meno che non sia uno stupido scherzo.» «Le viene in mente nessuno che potrebbe farle uno scherzo del genere?»
Ero perplessa. «Non sono un'esperta di scherzi. È più il campo di Clive.» «Clive?» «Mio marito.» «E al lavoro?» «Sì.» In seguito le cose divennero un po' sgradevoli. Aldham gironzolava con aria imbarazzata. Io cercai di riprendere a fare le mie cose, ma il suo viso grigiastro e malinconico aveva un effetto scoraggiante. Fu un sollievo quando il campanello suonò, circa un quarto d'ora dopo. Andai ad aprire e Aldham un po' assurdamente mi seguì. Questa volta alla porta c'era una vera e propria folla: due ispettori dall'aria leggermente più importante, seguiti da un paio di poliziotti in divisa e da altre due persone, tra cui una donna. In strada vidi due macchine della polizia e due altre macchine parcheggiate in doppia fila. Il signore più anziano era quasi calvo, con i capelli grigi tagliati molto corti. «Signora Hintlesham?» disse con un sorriso rassicurante. «Sono l'ispettore capo Links, Stuart Links.» Ci stringemmo la mano. «E l'ispettore Stadler.» Stadler non sembrava affatto un poliziotto, ma un politico o uno dei colleghi di Clive. Era vestito di scuro, elegante, e aveva una cravatta discreta. Era anche molto bello. Un tipo un po' spagnoleggiante, forse. Alto, ben piazzato, con i capelli molto scuri, quasi neri, pettinati all'indietro. Anche lui mi strinse la mano. Aveva una stretta curiosa, morbida, e mi premette il palmo con le dita come se cercasse di capire qualcosa. Abbastanza sconcertante. Ora, pensai, si porterà la mia mano alla bocca e la bacerà lentamente. «Siete in tanti» dissi. «Mi dispiace» rispose Links. «Il dottor Marsh, di medicina legale con la sua assistente, Gill, ehm...» «Gill Carlson» intervenne la donna con risolutezza. Era piccola e carina, un tipo acqua e sapone. Il dottor Marsh sembrava un maestro di scuola trasandato. «Probabilmente si starà chiedendo come mai siamo venuti in tanti» disse Links. «In effetti...» «Una lettera come quella che ha ricevuto è una specie di minaccia. Dobbiamo valutare quanto sia seria. E nel frattempo dobbiamo garantire la sua
incolumità.» Links mi parlava guardandomi negli occhi. Poi lentamente spostò lo sguardo su Aldham, che sembrava sempre più abbiettamente imbarazzato. «D'ora in poi ce ne occupiamo noi» disse quietamente. Aldham mi mormorò qualcosa, probabilmente un saluto, e se ne andò passandoci davanti. «Perché è venuto?» domandai. «Un equivoco» rispose Links. Si guardò intorno. «Si è trasferita da poco?» «A maggio.» «Cercheremo di non crearle troppo disturbo, signora Hintlesham. Desidererei vedere la lettera e poi farle una o due domande, e questo è tutto, spero.» «Di sotto» feci io debolmente. «Una casa magnifica.» «Lo sarà» risposi. «Deve essere costata parecchio.» «In effetti...» mi interruppi perché non avevo nessuna intenzione di imbarcarmi in una discussione sul valore degli immobili. E così, qualche momento dopo, mi ritrovai seduta al tavolo di una cucina completata solo a metà, con due ispettori. Per motivi che assolutamente non comprendevo, i due poliziotti in divisa gironzolavano per la casa e per il giardino. La lettera fu letta da tutti, poi sollevata con delle pinzette e inserita in una cartellina di plastica trasparente. La busta stropicciata e molliccia fu messa in un sacchetto di politene. Un reperto per ciascuno degli esperti, che se ne appropriarono e se ne andarono. Prima di parlarmi, i due uomini dissero qualcosa tra di loro a bassa voce e io lo trovai irritante. Poi si rivolsero a me. «Sentite» intervenni, «posso solo dirvi che non ho nulla da dirvi. È una lettera orribile e stupida e questo è tutto. Altro non so.» I due uomini sembrarono pensosi. «Sì» fece Links. «Le faremo solo un paio di domande di routine. Lei si è trasferita di recente in questa casa. Viveva anche prima in questa zona?» «No, vivevamo molto distanti, a sud del fiume, a Battersea.» «Conosce la Laurier School?» «Perché?» Links si appoggiò allo schienale della sedia. «Stiamo cercando dì vedere se ci sono dei legami con altre lettere simili.
Ha bambini?» «Sì, tre ragazzi.» «Laurier è una scuola materna statale dalle parti di Kingsland Road, a Hackney. L'ha mai presa in considerazione per i suoi bambini?» Non potei sopprimere un sorriso. «Una scuola materna statale a Hackney? Sta dicendo sul serio?» I due uomini si scambiarono un'occhiata. «O magari ha incontrato una delle maestre. Una certa Zoe Haratounian, per esempio.» «No, che cosa ha a che fare questa scuola con la mia lettera?» «Ci sono stati, ehm... degli incidenti collegati alla scuola. Forse ci potrebbe essere un legame.» «Che tipo di incidenti?» «Lettere come quella che ha ricevuto lei. Ma possiamo continuare con le domande? Questa lettera le è arrivata completamente inaspettata? Non riesce a collegarla a qualche altro episodio, a una persona, per quanto lontanamente?» «No.» «Vorrei stabilire quanta gente ha accesso a questa casa. Vedo che sta facendo fare dei lavori.» «Vero. Al momento casa mia è una specie di porto di mare.» Sorrise. «Di quale agente immobiliare si è servita?» «La nostra vecchia casa è stata venduta da Frank Dickens. Un bel branco di squali.» «Si è mai servita dell'agenzia di Clarke?» Mi strinsi nelle spalle. «Forse. Erano secoli che cercavo di vendere. Devo essere sull'agenda di quasi tutti gli agenti immobiliari di Londra.» Si scambiarono di nuovo delle occhiate. «Farò dei controlli» disse Stadler. Uno dei poliziotti venne giù, accompagnato da un'altra donna. Alta, capelli biondi legati disordinatamente sopra la testa, come se fossero stati acconciati da un cieco in una stanza buia. Portava un tailleur che avrebbe avuto bisogno di una stirata. Al braccio aveva un impermeabile e una borsa. Era affannata e senza fiato. Entrambi gli ispettori la guardarono e le fecero un cenno di saluto. «Buongiorno, Grace» disse Links. «Grazie per essere venuta subito.» Poi si rivolse di nuovo a me. «Le potrà parere strano, ma qualcuno l'ha presa di mira. Non sappiamo perché. Non sappiamo chi sia questa persona,
né niente di lui. Ma abbiamo lei. Non possiamo controllare quest'individuo, ma possiamo osservare lei.» Improvvisamente mi sentii allarmata e irritata. Questa faccenda stava diventando seccante. «Che cosa intendete dire con "osservare" me?» «Le presento la dottoressa Grace Schilling. È una psicologa assai nota ed è una specialista delle patologie di... be', di persone che fanno questo genere di cose. Le sarei grato se parlasse con lei.» Lanciai un'occhiata alla dottoressa Schilling. Mi sarei aspettata che arrossisse o sorridesse alle lusinghe di Links, ma non lo fece. Invece guardava me con gli occhi socchiusi. Mi sentii come un insetto attaccato a una carta con uno spillo. «Signora Hintlesham» fece Grace, «possiamo andare in un posto tranquillo?» Mi guardai intorno. «Non so se ci siano posti tranquilli da queste parti» risposi con un sorriso forzato. TRE «Mi scusi il disordine» dissi mentre attraversavamo la stanza in punta di piedi, per evitare gli scatoloni, e andavamo a raggiungere un divano. «Tra una ventina d'anni questa stanza sarà un salotto.» Lei si tolse la giacchetta di lino spiegazzata e si sedette sulla vecchia e scomoda poltrona di vimini. Era alta e magra, con capelli biondo scuro e dita lunghe e sottili. Senza anelli. «Grazie di avermi concesso un po' del suo tempo, signora Hintlesham.» Inforcò un paio di occhiali, di quelli senza montatura, prese dalla borsa un taccuino e una matita e scrisse qualcosa in alto, che poi sottolineò. «A dire la verità, non ho molto tempo da concederle. Come può vedere sono molto occupata. Ho un sacco di cose da sistemare prima che ritornino i ragazzi.» Mi sedetti e lisciai la gonna sulle ginocchia. «Vuole un caffè, un tè o qualcosa?» «No, grazie. Cercherò di essere veloce. Volevo più che altro conoscerla.» Ero agitata. Non capivo bene che cosa stava succedendo, perché fosse così seria. «Molto onèstamente, mi sembra che la polizia stia prendendo la cosa un po' troppo sul serio, non le pare? Voglio dire, si tratta solo di una stupida
lettera. Non volevo neanche chiamarli e ora mi sembra che improvvisamente casa mia sia diventata Piccadilly Circus.» Sembrava fosse immersa nei suoi pensieri e non prestasse molta attenzione a quello che stavo dicendo. «No» rispose. «Ha fatto la cosa giusta.» «Mi scuso terribilmente, ma non riesco a ricordare il suo nome. La mia memoria è un colabrodo. Senilità precoce, temo.» «Grace. Grace Schilling. Deve sembrarle piuttosto strano tutto questo.» «Niente affatto, a dire il vero. Ho detto alla polizia che pensavo si trattasse di uno scherzo.» Era la dottoressa Schilling ad avere il tailleur e il taccuino; era lei la dottoressa. Tuttavia si rigirava a disagio sulla poltrona come se non sapesse esattamente che cosa dire. Naturalmente quella orribile poltrona è di una scomodità tale da mettere a disagio chiunque, ma non capivo a che gioco stesse giocando. «Non voglio farle una lezione di psicologia. Voglio solo aiutarla.» Si interruppe un momento, come per decìdere come continuare. «Come sa ci sono uomini che prendono di mira una donna a caso. Questa lettera che lei ha ricevuto è ovviamente differente.» «Me ne rendo conto.» «Quell'individuo l'ha vista e l'ha scelta. Mi chiedo se le è stato vicino. Dice che lei ha un buon odore. Che ha una bellissima pelle. Che cosa pensa di questi commenti?» Risi leggermente imbarazzata. Ma lei non rise. Si fece più vicina e mi osservò. «Effettivamente ha una bella pelle» disse. Non lo disse per complimento, ma come stesse facendo un'interessante osservazione scientifica. «Be', la curo. Ho una crema speciale.» «Le accade spesso di notare che gli uomini la trovano attraente?» «Che domanda. Non riesco a capire come ciò la possa aiutare. Vediamo. Alcuni degli amici di Clive mi fanno la corte sfacciatamente. E suppongo che ci siano uomini che mi guardino come, sa... come fanno gli uomini.» Grace Schilling non disse nulla, semplicemente continuò a osservarmi con quell'espressione leggermente ansiosa sul viso. «Ho quasi quarant'anni, per l'amor del Cielo» dissi per rompere il silenzio. Lo dissi a voce più alta di quello che avevo inteso. «Lavora, Jenny?» «Non nel modo in cui intende lei» risposi piuttosto bellicosamente.
«Non ho un lavoro come il suo. Ho i bambini e questa casa.» Prendi questa, pensai con soddisfazione. «Non lavoro da quando sono rimasta incinta di Josh, cioè da quindici anni. Clive e io siamo sempre stati d'accordo che avrei smesso. Facevo la modella. Non come probabilmente pensa lei. Mi fotografavano le mani.» Sembrò perplessa. «Le mani?» «Sa, quei tabelloni pubblicitari dello smalto per unghie e cose del genere, dove compaiono solo mani gigantesche. All'inizio e a metà degli anni Ottanta molte di quelle mani erano le mie.» Lanciammo entrambe un'occhiata alle mie mani, posate sulle ginocchia. Cercavo di averle sempre curate. Andavo dalla manicure una volta alla settimana, stavo attenta alle cuticole, mi mettevo una crema costosa che usavo da sempre e non lavavo mai niente senza i guanti. Ma non erano più quelle di una volta. Innanzitutto erano più grassocce. Non riuscivo a togliermi né l'anello di fidanzamento né la fede, neppure con il burro. La dottoressa Schilling sorrise per la prima volta. «È un po' come se qualcuno si fosse innamorato di lei» disse poi. «Da lontano. Come in una favola. Potrebbe essere una persona che le è vicino. Oppure un uomo che non ha mai visto prima o che vede tutti i giorni. Sarebbe utile passare in rassegna gli uomini che incontra, vedere se qualcuno di loro si comporta in maniera strana, poco appropriata, verso di lei.» Grugnii. «I ragazzi tanto per cominciare» dissi. «Magari potrebbe descrivermi la sua vita.» «Mio Dio, vuol dire una giornata-tipo della mia vita?» «Voglio farmi un'idea delle cose che per lei sono importanti.» «Ma è ridicolo. Come pensa di prendere un folle cercando di scoprire quello che penso della mia vita?» Non rispose, ma questa volta la battei al suo stesso gioco. Non parlai e mi misi anch'io a osservarla. Udii in lontananza un forte schianto, come se qualcuno avesse fatto cadere qualcosa di pesante. Probabilmente uno di quegli stupidi poliziotti. «Passa molto tempo con i suoi figli?» «Sono la loro mamma, no? Anche se a volte mi sembra di essere soprattutto la loro autista non pagata.» «E con suo marito?» «Clive è follemente occupato. È...» e mi interruppi. Non capivo perché avrei dovuto dare a quella donna una spiegazione dettagliata di qualcosa che neanch'io capivo. «Al momento non ci vediamo quasi mai.»
«Da quanto è sposata? Quindici anni?» «Sì, sedici in autunno.» Dio così tanto? Feci involontariamente un sospiro. «Ero molto giovane.» «E lo descriverebbe come un matrimonio felice, intimo?» «A lei non lo descriverei in nessun modo.» «Jenny.» Avvicinò ancora la sedia a me e per un orribile momento pensai che mi avrebbe preso la mano con aria comprensiva e affettuosa, e la cosa mi avrebbe fatto star male. «Là fuori c'è un uomo che dice di volerla uccidere. Per quanto possa sembrare ridicolo, dobbiamo prenderlo seriamente.» Mi strinsi nelle spalle. «È un matrimonio come un altro» dissi. «Non so che cosa vuole che le dica. Abbiamo i nostri alti e bassi, i nostri stupidi battibecchi, come tutti.» «Ha parlato a suo marito della lettera?» «Me l'ha già domandato un ispettore. Gli ho lasciato un messaggio al lavoro. Telefonerà più tardi.» Mi guardò come se mi trapassasse, facendomi sentire a disagio. Non parlammo per un lungo momento. «Jenny» disse infine, «so che una delle cose che prova, o che proverà, è quella di essere violata. E ciò che è peggio, anche alcuni dei nostri sforzi per aiutarla la faranno sentire violata. Ci sono cose che devo sapere.» Diede un'occhiata alla casa caotica, e fece di nuovo un sorrisetto d'intesa. «Mi consideri una specie di detective della casa, che va in cerca dei punti in cui ci possono essere perdite d'acqua.» «Continui» feci in tono di amara derisione. Lei si chinò di nuovo verso di me. «Suo marito le è sempre stato fedele, Jenny?» «Che cosa?» Lei ripeté la domanda, come se non ci fosse niente di strano. Io la guardai con irritazione e mi sentii arrossire. Stavo cominciando ad avere mal di testa. «Dovrebbe chiederlo a lui» risposi più freddamente possibile. Scrisse qualcosa sul taccuino. «E lei?» «Io?» grugnii. «Non diciamo sciocchezze. Quando diavolo troverei il tempo di tradirlo, anche se lo volessi, a meno di non farlo con il giardiniere, il garzone, o il maestro di tennis? Non incontro nessun altro. Senta, lei dice che sta solo facendo il suo lavoro e che deve farmi questo tipo di domande, ma ora che l'ha fatto vorrei veramente riprendere ciò che ho inter-
rotto, per quello che è possibile, almeno.» «Trova che queste domande siano invadenti?» «A dir la verità, sì. So che è un punto di vista poco alla moda, ma mi piace mantenere private le cose private.» Finalmente si alzò, ma non era ancora pronta ad andarsene. «Jenny» cominciò. Mi irritava che continuasse a chiamarmi per nome. Non le avevo detto di farlo. Mi sembrava come uno di quegli agenti delle assicurazioni che tengono un piede nella porta. «Tutto quello che voglio, che tutti noi vogliamo, è fermare questo tipo e uscire dalla sua vita. Se le viene in mente qualcosa che le sembra significativo per un motivo qualsiasi, lo faccia sapere alla polizia o a me. Lasci che siamo noi a giudicare che cos'è o non è importante. Non abbia alcun imbarazzo a raccontarci qualsiasi cosa, le raccomando.» Sembrava quasi pregarmi. La cosa mi fece sentir meglio, con un maggiore controllo della situazione. «D'accordo. Mi metterò d'impegno.» «Ci conto.» Si voltò per andarsene. «E, Jenny?» «Sì.» Esitò, poi ci ripensò. «Niente. Abbia cura di sé.» In seguito se ne andarono tutti, tranne Stadler, quello con gli occhi da camera da letto. Mi disse che avrebbero aperto la mia posta la mattina, per la mia sicurezza. «Basta con i brutti shock» aggiunse con un sorriso pericolosamente vicino a essere un'avance. Veramente! Io gli risposi con uno sguardo di fuoco. «E» aggiunse, come per un ripensamento, «lasciamo un paio di poliziotti fuori della casa.» «Questa faccenda sta superando ogni limite» dissi. «È solo una precauzione» rispose dolcemente. «Durante il giorno ci sarà invece, quasi sempre, una donna poliziotto.» Sorrise. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non mi venne in mente niente che non fossero oscenità, così mi limitai a lanciare un'occhiata di fuoco. «È qui ora. Aspetti un momento.» Andò alla porta e gridò: «Lynne! Lynne, puoi venire qui un momento? Signora Hintlesham, le presento Lynne Burnett. Lynne, la signora Hintlesham». Lynne era piccolina quasi quanto me, ma molto più giovane, avrebbe quasi potuto essere mia figlia. Aveva i capelli castani, le sopracciglia chiare e una voglia sulla guancia sinistra che sembrava un livido, come se fos-
se andata a sbattere la faccia poco prima. Mi sorrise, ma io rimasi seria. «Cercherò di non starle tra i piedi» disse. «Me lo auguro» feci io con tono irato. Di proposito voltai le spalle a lei e a Stadler finché non uscirono e rimasi di nuovo beatamente sola. La cucina era piena di tazze vuote, e vicino alla porta che dava sul giardino c'era un paio di mozziconi di sigaretta. Il meno che avrebbero potuto fare, pensai, era lasciar pulito prima di andarsene. Telefonai di nuovo a Clive, ma era ancora impegnato. Lena riportò a casa Christo e Josh. Harry sarebbe stato riaccompagnato da un'altra mamma dopo gli allenamenti di football. Raccontai a Josh in termini vaghi e rassicuranti che avevo ricevuto uno stupido messaggio e che fuori c'era la polizia. Pensavo che sarebbe stato un po' allarmato o colpito, ma si limitò ad appoggiarsi contro la porta della cucina, a mordicchiarsi il labbro inferiore e scrollare le spalle prima di andar su di corsa, nella sua camera da letto, con due panini al burro di arachidi e un bicchierone di latte. Non capivo dove mettesse tutto quel cibo. Non volevo neanche pensare a quello che combinava nella sua camera. Chiudeva le tende e ascoltava musica ad alto volume o accendeva il computer e si metteva a giocare, e accendeva l'incenso, probabilmente per coprire l'odore delle sigarette che fumava di nascosto. Facevo pulire la sua stanza e cambiare le lenzuola sempre da Mary. Io non ci mettevo mai piede, gli urlavo solamente attraverso la porta di fare i compiti, esercitarsi al sassofono, abbassare la musica, portar giù la roba sporca. Era diventato grande di colpo. Aveva cambiato voce, gli erano venuti dei piccoli foruncoli sulla fronte e una soffice peluria sul labbro superiore. Ed era diventato altissimo. Molto più di me. Gli era venuto quell'odore strano, da uomo, che si sentiva anche se si copriva di lozioni e gel, come tutti i ragazzi di oggi. Non come quando eravamo giovani noi. Christo era troppo piccolo per capire, naturalmente; e non gli dissi niente, mi limitai ad abbracciarlo forte. Lui è il mio piccolino. Poi presi l'automobile per andare al negozio di materiali di recupero, ma era già chiuso, così non potei prendere i ganci di cui avevo bisogno. L'ultima goccia. Clive telefonò per dire che sarebbe tornato tardi, così dopo che anche Harry arrivò a casa, e dopo aver messo a letto Christo con una favola, cenai con Josh e Harry. Lasagne che avevo tirato fuori dal freezer in anticipo, con piselli e, per dolce, gelato con crema al cioccolato. Nessuno parlò molto. Io li guardai ingoiare la cena come se fosse carburante, ma non mangiai
granché. Faceva troppo caldo. I ragazzi sparirono di nuovo nelle loro stanze, io mi versai un bicchiere di vino bianco e andai a sedere al piano di sotto con il televisore acceso, a sfogliare delle riviste. Avevamo bisogno di un tavolo da pranzo. Sapevo come lo volevo, di legno scuro, rustico, lungo e semplice, un tavolo fratino. Di recente ne avevo visto uno che mi era piaciuto molto, con intarsi di colori diversi sulla superficie, come nelle navi. Ma Jeremy mi aveva detto che prima dovevo trovare le sedie perfette; che trovare le sedie era più difficile. Mi aveva raccontato di un suo cliente che aveva aspettato otto anni per scovare le sedie giuste. Gli avevo risposto che io non ero così paziente. Clive non era ancora tornato a casa. Dalla camera di Josh proveniva il rimbombo della sua orribile musica elettronica. Tirai le tende e così vidi i due poliziotti seduti in auto. Dopo che avremo comprato il tavolo dovremo dare una cena, pensai. Mi sarei messa il vestito nero e il collier di diamanti che mi aveva regalato Clive per i quindici anni di matrimonio. Presi un libro di cucina e lo sfogliai per vedere le ricette estive. Tanto per cominciare, champagne. Poi zuppa ghiacciata di cerfoglio e cetrioli, tonno insaporito con coriandolo, sorbetto di albicocche, vino bianco freddo, e sulla tavola quelle rose color pesca del giardino, che Francis aveva piantato appena eravamo arrivati. Misi il bicchiere contro la fronte. Faceva così caldo. Sentii la chiave girare nella serratura. Poi il bacio di Clive sulla guancia. Clive era grigio per la stanchezza. «Dio, che giornata» disse. «Ci sono le lasagne, se vuoi.» «No, ho cenato con dei clienti.» Lo osservai: costoso vestito grigio fumo, scarpe nere lucide, cravatta grigia e rossa che gli avevo regalato a Natale, una pancia non prominente ma visibile sotto la camicia ben stirata, qualche filo d'argento fra i capelli scuri, un accenno impercettibile di doppio mento, qualche ruga sulla fronte alta. Un uomo distinto. Avevo sempre pensato che per qualche strano motivo fosse più bello quando era esausto, la sera tardi, subito dopo aver varcato la porta di casa. Al mattino, prima di indossare la maschera da avvocato, era indaffarato, pignolo, nervoso, distratto. Si tolse la giacca e la appese con cura allo schienale di una sedia, poi sedette sul sofà sospirando. Aveva dei cerchi di sudore sotto le ascelle. Andai in cucina e ritornai con due bicchieri di vino bianco molto freddo. Avevo ancora mal di testa. «Ho avuto una giornata incredibile» cominciai. «Davvero?» si tolse le scarpe, allentò la cravatta, cambiò il canale della televisione con un click del telecomando. «Raccontami.»
Ma non riuscii a trasmettergli quanto la faccenda mi sembrasse strana e quanto seriamente la polizia l'avesse presa. Probabilmente non riuscii a raccontarglielo bene. Quando finii, bevve un sorso di vino e distolse gli occhi dallo schermo. «Be', mi fa piacere che qualcuno apprezzi la tua pelle, Jens.» Poi aggiunse: «Sono sicuro che è solo un pazzoide. Non voglio folle di poliziotti dappertutto in casa». «No. E pazzesco, vero?» QUATTRO Non scendevo mai di sotto senza essermi prima truccata, neppure durante il fmesettimana. Sarebbe stato come scendere nuda. Appena sentivo uscire Clive la mattina, e udivo la porta chiudersi dietro di lui, mi alzavo e facevo la doccia. Mi strofinavo il corpo con una spugna fibrosa per eliminare la pelle morta. Poi mi sedevo alla toilette, che secondo Clive sembrava quella del camerino di un'attricetta, e mi esaminavo. Intorno allo specchio c'erano luci che mi illuminavano senza pietà. Ieri mi ero trovata nelle sopracciglia qualche pelo grigio, e rughe che l'anno scorso non avevo: piccole ma orribili, sopra il labbro superiore e agli angoli della bocca, quando ero stanca mi davano un'espressione depressa e triste. E un accenno di borse sotto gli occhi. A volte gli occhi mi dolevano, probabilmente a causa della polvere in casa. Ma non avevo nessuna intenzione di cominciare già a portare gli occhiali. La mia pelle non aveva più il fiore della gioventù, checché ne dicesse quello stupido che mi aveva scritto la lettera. Una volta avevo una pelle molto bella. Quando ci conoscemmo, Clive mi diceva che avevo una pelle di pesca. Ma era tanto tempo fa. Adesso non mi diceva più cose del genere. A volte pensavo che certi complimenti andrebbero fatti quando non sono più veri. Mi guardavo allo specchio e pensavo che la mia pelle ora somigliava più alla buccia di un pompelmo. Qualche giorno prima mi ero messa il vestito verde per andare alla festa della scuola, e Clive mi aveva detto di indossare un abito di cui i miei figli non si dovessero vergognare. Eliminavo tutti i peluzzi disordinati tra le sopracciglia e, orrore, sul mento, poi cominciavo con il fondotinta, che mescolavo con una crema idratante in modo da stenderlo più facilmente. Poi mi mettevo intorno al naso e sotto gli occhi un formidabile correttore per nascondere le rughe. Me l'aveva consigliato la mia amica Caro. Era incredibilmente costoso. A volte cercavo di calcolare quanti etti di trucco portavo in viso. Per tutto il giorno
doveva sembrare invisibile. Un leggero tocco di beige sulle palpebre, una traccia appena visibile di matita intorno agli occhi, un tocco di mascara che non appiccicasse le ciglia, forse del lucida-labbra. Poi mi sentivo meglio. Mi piaceva il viso che mi guardava dallo specchio: era piccolo, ovale e luminoso, pronto ad affrontare il mondo. La colazione fu terribile come al solito. In mezzo al caos bussarono alla porta. Era la poliziotta, Lynne Burnett, ma questa volta in abiti borghesi. Aveva una gonna grigia, una camicetta blu e un golfino di lana. Era elegante, in modo un po' anonimo, ma per qualche motivo mi irritò l'idea che avesse indossato quei vestiti per andare dalla signora Hintlesham. Per adeguarsi all'ambiente, senza dubbio. «Mi chiami Lynne» disse. Ma lo dicevano tutti. Volevano tutti fare gli amici. Avrei preferito che si limitassero a fare il loro lavoro. Mi disse che il suo primo compito era guardare la mia posta non appena fosse arrivata. «Assaggerà anche il mio pranzo?» domandai sarcasticamente. Lei arrossì e la sua voglia divenne livida. Squillò il telefono; era Clive, già arrivato al lavoro. Cominciai a descrivergli quello che stava succedendo, ma lui mi interruppe per dirmi che Sebastian e sua moglie sarebbero venuti a cena sabato. «Ma non c'è ancora il tavolo da pranzo» protestai. «E abbiamo solo metà cucina.» «Jens, la documentazione che stiamo preparando per la fusione del prossimo mese ha più di duemila pagine. Se riesco a coordinare una cosa del genere, penso che tu possa organizzare una cena per un cliente.» «Naturalmente. Va bene, la farò, volevo solo dire...» Entrò Mary con uno scopone in mano e cominciò a pulire ostentatamente intorno ai miei piedi. Quando ricominciai a parlare, Clive aveva riagganciato il telefono. Mi voltai a guardarmi attorno, e naturalmente scorsi Lynne. Era ovvio che ci fosse, ma fui leggermente delusa. Una parte di me aveva sperato che fosse scomparsa, passata, come il mal di testa. Ma ora, dopo la telefonata, avevo sia il mal di testa sia Lynne. «Vado fuori a parlare con il giardiniere» dissi gelidamente. «Suppongo che voglia venire a conoscerlo.» «Sì» rispose. Con i lunghi capelli intrecciati, Francis aveva l'aria di appartenere a una carovana diretta a Stonehenge, ma in verità era un genio assoluto. Suo padre si era distinto in Marina e lui era andato a scuola a Marlborough. Lo si sarebbe anche potuto immaginare al lavoro nella City come Clive, a parte i
capelli lunghi un metro, la pelle sorprendentemente scura e le braccia forti e nerborute che si sviluppano solo trasportando cose pesanti per tutto il giorno. Molti lo consideravano bello. Non volevo sapere della sua vita personale, che mi pareva di capire fosse piuttosto piena, ma lui era una delle poche persone di cui mi fidavo ciecamente. Lo presentai a Lynne, che arrossì. Ma mi sembrava arrossisse in continuazione. «Lynne è qui perché uno sconosciuto mi ha scritto una lettera folle» dissi. Francis sembrò giustamente perplesso. «E Francis lavora qui a tempo pieno per ancora un mese, almeno.» «Che cosa fa?» domandò Lynne. Francis mi guardò. Io annuii e lui scrollò le spalle. «Prima abbiamo versato cemento e pietrisco per livellare il terreno, poi l'abbiamo ricoperto di terra e ora stiamo progettando il giardino, tracciando i sentieri.» «Fa tutto questo da solo?» domandò ancora Lynne. Francis sorrise. «Naturalmente no» intervenni io. «Francis ha una collezione di ragazzi sbandati che vengono a lavorare per lui quando ne ha bisogno. Ci sono frotte di giardinieri di serie B a Londra. Sono come i piccioni e le volpi.» Gli lanciai un'occhiata nervosa. Forse avevo superato i limiti. La gente era così permalosa. Lynne prese il taccuino e cominciò a fare domande sul suo orario di lavoro e sullo steccato e gli accessi alla casa. Annotò anche il nome di tutti i lavoranti saltuari di cui si era servito. Fu un sollievo uscire di casa, seppur tardi. O questo fu quello che pensai, prima che Lynne mi dicesse che sarebbe venuta con me. «Non dice sul serio.» «Mi dispiace, Jenny.» Mi chiamava Jenny, anche se non gliel'avevo permesso. «Non so esattamente quanto durerà la nostra protezione, ma per oggi dovrà sopportarmi.» Stavo per arrabbiarmi quando suonarono alla porta. Era Stadler, così feci a lui le mie rimostranze. Ma mi rispose con il suo sorriso ufficiale. «È per la sua sicurezza, signora Hintlesham. Sono qui solo per un controllo di routine. Ha niente in contrario se controlliamo il suo telefono?» «Che cosa comporta?» «Nulla di seccante. Non se ne accorgerà nemmeno.» «D'accordo, allora» bofonchiai. «Vogliamo stilare un elenco delle persone con cui lei ha a che fare, per
cui nei prossimi giorni le sarei grato se si mettesse con Lynne a sfogliare la sua agenda, il diario, cose del genere. Se non le dispiace.» «È necessario?» «Più elementi abbiamo, più velocemente riusciremo a venire a capo di questa faccenda.» Non ero quasi più in collera. Provavo solo un leggero disgusto. La prima fermata fu al magazzino di oggetti di recupero per i ganci di ottone. Stavo quasi per comprare una finestra rotonda di vetro anticato proveniente da una vecchia chiesa, ma all'ultimo minuto cambiai idea. Lynne, fortunatamente, non entrò nel negozio. Entrò invece nei negozi di Hampstead, o rimase sulla porta a guardare con sguardo neutrale le vetrine piene di vestiti. Dio solo sa che cosa avranno pensato i commessi. Io feci finta di non conoscerla. Avevo bisogno di qualcosa per sabato. Portai una bracciata di abiti nel camerino, ma quando uscii indossando una camicetta rosa con delle perline per guardarmi nel lungo specchio, incontrai lo sguardo di Lynne che mi osservava dalla vetrina. Uscii senza comprare nulla. «Trovato quello che cercava?» mi domandò, quando ce ne andammo. Come se fossimo amiche che vanno insieme a far compere. «Non stavo cercando niente, in realtà» risposi tra i denti. Entrai dal macellaio a comprare le salsicce che piacciono tanto ai ragazzi, poi gironzolai intorno al negozio di mobili antichi lì vicino. Avevo adocchiato uno specchio con una cornice dorata. Costava 375 sterline, ma pensavo di poterlo avere per meno. Sarebbe stato benissimo nell'ingresso, dopo che l'avessimo fatto tinteggiare. Avevo appuntamento con Laura per pranzo, così, dopo aver ritirato le targhette con il nome di Christo, da applicare ai vestiti quando sarebbe andato a Lascelles, discesi la collina, sempre seguita a ruota da Jenny. Laura mi stava già aspettando. Avrebbe dovuto essere un pranzetto divertente, ma non lo fu. Lynne era seduta fuori in auto che mangiava un panino. La vedevo mentre giocherellavo con la mia insalata di rucola e peperoni rossi arrostiti. Leggeva un libro in edizione tascabile. Se fosse entrato un uomo con un'accetta probabilmente non avrebbe neanche alzato gli occhi. Non riuscivo a concentrarmi su quello che Laura mi stava dicendo, così mi congedai dicendo che ero di corsa. Fermata successiva: Tony in Primrose Hill. Normalmente adoravo andare dal parrucchiere. Mi sentivo coccolata a star seduta in quella stanzetta
piena di specchi e acciaio, carrelli colmi di lozioni colorate, l'odore del vapore e dei profumi, il piacevole rumore crepitante delle forbici che tagliavano i capelli. Ma quel giorno non funzionava. Avevo caldo, ero irritata, giù di morale. La testa pulsava e mi sentivo i vestiti appiccicati addosso. Il nuovo taglio di capelli non mi piacque; metteva troppo in risalto il naso e il viso appariva troppo ossuto. Nel traffico, sulla via di casa, fui presa da una specie di collera sorda e a ogni semaforo mi imballavo. Lynne si tenne pazientemente dietro di me. A volte era così vicina che le vedevo le lentiggini nello specchietto. Le feci una linguaccia, sapendo che non poteva vederla. Per il resto della giornata mi seguì come un cane fedele, uno di quei cani a cui si vorrebbe dare un calcio. Mi seguì quando portai Christo a giocare da un amichetto che abitava nella stessa strada, un bimbo magro che si chiamava Todd. Che cosa sarà saltato in mente ai genitori per chiamare il figlio con un nome del genere? Poi andai a prendere i ragazzi, perché era il giorno libero di Lena. I mercoledì erano sempre un incubo. Josh dopo la scuola aveva il club di computer, in una stanza che puzzava di piedi sudati. Di solito quando andavo a prenderlo stava con un altro ragazzo che veniva chiamato Scorpione o Ragno o un altro di quei loro stupidi soprannomi. Josh si era dato il soprannome di Ganimede, poi l'aveva cambiato in Eclissi, perché l'altro gli sembrava troppo effeminato. Era la sua parola d'ordine. Il suo miglior amico si chiamava Phreak, scrìtto con Ph. Prendevano queste cose molto sul serio. Ma questa volta trovai Josh sprofondato in una sedia e il ragazzo dall'aria dolce che veniva a insegnare loro tutte le settimane era accovacciato vicino a lui e gli stava parlando seriamente. Ricordavo che, quando l'avevo incontrato per la prima volta qualche settimana prima, mi aveva detto che al club lo chiamavano Hacker. Dovevo aver fatto una faccia strana, perché mi aveva spiegato che non era il suo vero nome, ma che lo potevo chiamare Hack. «È questo il suo vero nome?» gli avevo domandato, ma lui si era messo a ridere. I ragazzi erano ancora in divisa, ma Hack aveva dei jeans antidiluviani tutti strappati e una maglietta con delle scritte giapponesi. Era molto giovane e aveva capelli scuri, lunghi e riccioluti. Avrebbe quasi potuto essere uno degli studenti. Dapprincipio pensai che Josh avesse avuto un incidente, che gli fosse sanguinato il naso, ma quando mi avvicinai alzarono lo sguardo e vidi che aveva pianto. Aveva gli occhi cerchiati di rosso. Ne fui
stupita. Non lo vedevo piangere da non so quanto tempo. Lo faceva sembrare molto più piccolo e vulnerabile. Com'era magro e pallido, pensai, con la sua fronte a bozze e il pomo d'Adamo sporgente. «Josh, stai bene? Che cosa c'è che non va?» «Niente.» Aveva un tono arrabbiato più che triste. Si alzò di scatto. «Ci vediamo il prossimo semestre, a settembre, Hack.» Hack: cioè «mercenario». Non c'era davvero da meravigliarsi che Josh fosse così turbato. «O forse ci perderemo di vista. Magari per un amore estivo» rispose Hack. «Che cosa?» feci io. «È una canzone» rispose lui. «Va tutto bene?» «Che cosa? Quello?» disse facendo un cenno verso Josh. «Non è un problema, signora Hintlesham.» «Jenny» lo corressi, come ogni settimana. «Chiamami Jenny.» «Scusa, Jenny.» «Mi sembra sconvolto.» Hack non sembrava preoccupato. «Probabilmente è la scuola, l'estate, tutte queste cose insieme. Inoltre è stato sconfitto al computer.» «Forse ha un calo di zuccheri.» «Sì, può essere. Gli dia dello zucchero, Jenny.» Lo guardai. Non capivo se mi stesse prendendo in giro. Harry era dall'altro lato della scuola, nell'ampia sala piena di correnti che una volta all'anno diventava un teatro per la recita scolastica. Quando Josh e io entrammo, Harry era all'estremità del palcoscenico, con una veste gialla che gli scendeva sui calzoni e un boa di piume al collo. Aveva il viso scarlatto. Quella vista sembrò rallegrare Josh. Sul palcoscenico c'era una truppa variopinta di ragazzini, un paio dei quali aveva addosso dei travestimenti come Harry. «Harry» lo chiamò un uomo con i baffetti, la testa a forma di proiettile e capelli cortissimi. Probabilmente omosessuale. «Harry Hintlesham, tocca a te. Dài! Devi entrare quando Roley dice la sua battuta!» Harry salì faticosamente sul palco, inciampando nel vestito. «Sei tu, invidioso Oberon» mormorò tra i denti. Aveva i capelli appiccicati alla testa per il sudore. «Fate, andiamo giù, ho rinnegato...» «Via» ruggì l'ometto baffuto. «"Andiamo via", non "giù", ragazzo: "via",
e parla più forte, per l'amor del Cielo. Le prove sono terminate, non possiamo permettere ai genitori di vederci in questo stato. Non saremo pronti prima di Natale. E, a proposito di genitori, la tua bella mamma è arrivata, Titania. Va' "via". Buonasera, signora Hintlesham. Lei illumina il nostro squallido antro.» «Jenny. Buonasera.» «Cerchi di far entrare in testa a suo figlio le battute.» «Cercherò.» «E veda se riesce a fargli usare il deodorante.» È morta. Naturalmente. Come volevo. Naturalmente. E mi sento defraudato. Naturalmente. Non pensiamoci. Un'altra. Un'altra lei. Si trucca troppo. Ha come una maschera spalmata sul viso. Sul suo volto tutto è lucido e curato, le labbra, le ciglia scure, la pelle cremosa, i capelli ben pettinati. È come un quadro che viene costantemente ritoccato e rifinito. Un 'immagine da mostrare al mondo. Ma non può nascondersi da me. Immagino il suo viso nudo: le rughe intorno agli occhi, alle narici, alla bocca; le labbra pallide, soffici, nervose. Mentre cammina per strada lancia continuamente occhiate al proprio riflesso nelle vetrine per controllare che tutto sia a posto. Ed è sempre tutto a posto. Vestiti stirati, capelli perfetti. Le unghie curate e dipinte di un rosa pallido, come pure le unghie dei piedi, in sandali costosi. Le gambe sono lisce. Sta diritta, con le spalle indietro e il mento sollevato. È pulita, ordinata, brilla di energia e vivacità. Tuttavia l'ho osservata. Vedo oltre il suo sorriso, che non è vero, e dietro la sua risata che, se la si ascolta attentamente, molto attentamente, è forzata e fragile. È come una corda di violino troppo tesa. Non è felice. Se fosse felice, o folle di paura, o piena di desiderio, diventerebbe bellissima. Si libererebbe del suo guscio e farebbe uscire il suo vero io. Non è consapevole di non essere felice. Solo io lo so. Solo io posso vederle dentro e liberarla. Mi sta aspettando, sigillata dentro di sé, ancora non toccata dal mondo. Il fato mi sorride. Ora lo so. Dapprima non capivo di essere diventato invisibile. Nessuno mi può vedere. Posso continuare all'infinito. CINQUE Era molto tardi, quasi mezzanotte, ma faceva ancora indecentemente
caldo. Anche se avevo aperto le finestre di sopra, il vento che entrava era bollente, come se venisse dal deserto. Clive non era ancora tornato. La sua segretaria, Jan, aveva telefonato e aveva detto a Lena che sarebbe venuto molto tardi ed ora era molto tardi e lui infatti non c'era ancora. Come al solito gli avevo lasciato dei panini nel frigo e me n'ero mangiato uno anch'io. La casa era tranquilla. Lena era uscita per Dio sa quale motivo fino a Dio sa quale ora. I ragazzi dormivano. Verso le undici avevo fatto un giro delle loro camere a spegnere le luci. Dormiva anche Josh, esausto dalle fatiche di una serata passata al telefono. Tutto a posto. Cominciai a fare i bagagli di Josh e Harry che l'indomani avrebbero preso l'aereo. Nelle prossime settimane la casa sarebbe stata tranquilla per parecchie ragioni differenti. In generale non ero particolarmente amante delle bevande alcoliche. Clive adorava il vino, a me non interessava granché. Ma quella sera il caldo era soffocante e avevo i nervi a fior di pelle, così mi venne l'idea di farmi un gin and tonic, quasi l'avessi visto reclamizzato su una rivista. Immaginai una bella donna provocante, molto abbronzata, in un luogo esotico, con un drink così gelato che il bicchiere era cosparso di luccicanti goccioline di rugiada. Sarebbe stata provocantemente sudata e tra un sorso e l'altro si sarebbe portata il bicchiere alla fronte. Sarebbe stata sola, ma ovviamente in attesa di un uomo che doveva essere bellissimo. Così andai a prepararmi questo drink. Incredibilmente, non c'erano limoni in casa, a parte una fettina avanzata e piuttosto secca, su un ripiano della porta del frigo, che sarebbe più o meno bastata. Preparai il gin and tonic e poi mi accorsi che avevo bisogno di mangiare qualcosina. Non trovai che uno di quei pacchetti di patatine al formaggio che metto nel sacchetto del pranzo di Chris. Mi sedetti e cominciai a sgranocchiarle, ma non ci volle nemmeno un minuto a finirle. Nel drink avevo messo poco gin, così pensai che potevo ben farmene un altro da portarmi di sopra, in bagno. Non stavo sudando nel modo carino e sexy della ragazza della pubblicità sulla rivista immaginaria. Avevo la camicetta bagnata sulla schiena, il reggiseno umido e chiazze scure di bagnato ai bordi delle mutandine. Avevo la pelle appiccicosa e puzzavo. Forse stavo marcendo. L'acqua del bagno era tiepida, spumeggiarne. Quando fui a metà del secondo drink, non mi importava più molto di nulla. Per esempio, anche se avevo messo nell'acqua una schiuma piuttosto forte, mi ci lavai i capelli e poi li risciacquai senza preoccuparmi di farlo con la doccia. Di solito non
facevo così. A proposito, quel giorno avevo ricevuto una seconda lettera. Poco dopo pranzo si era susseguita una serie di persone con consegne da fare: la pittura giusta, i termosifoni che sarebbero dovuti arrivare un mese fa e cose del genere. Per casa c'era una specie di squadra di rugby che marciava avanti e indietro, e alla fine Lena aveva trovato una busta indirizzata a me sullo zerbino. Me l'aveva portata e io avevo capito subito di che cosa si trattava. La aprii comunque e la lessi. Cara Jenny, sei una donna bellissima. Ma non quando sei in compagnia. Solo quando sei sola e cammini per strada. A volte, quando sei soprappensiero, ti mordi il labbro superiore. E canticchi fra te e te. Ti guardi e io ti guardo. Questo ci accomuna. Ma un giorno ti guarderò da morta. Mi fece rabbrividire, ovviamente, ma soprattutto mi irritò. Anzi mi infuriò. Per giorni, due interi giorni, avevo avuto intorno Lynne, tanto gentile e cara ma incombente, con i suoi modi un po' irritanti e un po' compiacenti, un po' troppo determinata per offendersi quando la rimbrottavo. E poi l'automobile della polizia parcheggiata fuori. Gli agenti che mi tenevano d'occhio, che controllavano ogni mia mossa. E questo era il risultato. Così, dopo aver letto la lettera andai a cercare Lynne. Era al telefono. Mi piazzai davanti a lei finché non riagganciò, imbarazzata. «Ho qualcosa per lei» dissi porgendole la lettera. E immediatamente fu come se avesse il fuoco sotto i piedi. Dopo meno di dieci minuti Stadler era seduto in cucina e mi fissava dall'altro lato del tavolo. «Ha detto sullo zerbino?» mi domandò con un sussurro. «L'ha trovata lì Lena» risposi acidamente. «Evidentemente si arrangia da solo a consegnare la posta. Per essere onesta mi chiedo che senso abbia tutto questo spiegamento di forze se poi quell'individuo riesce a venire fino a casa a portare una lettera.» «È veramente sconcertante» commentò Stadler passandosi la mano sui capelli. Mia nonna diceva con disapprovazione: «E bello e lo sa», riferendosi a uomini come Stadler. «Non ha visto nessuno che si avvicinava alla casa?» «Per tutto il giorno c'è stato un andirivieni di gente che entrava e usciva di casa.»
«Le è stato consegnato nient'altro?» «Sì, un mucchio di cose.» «Potrebbe descrivermi le persone che hanno fatto le consegne?» «Non li ho incontrati. Può parlarne con Lena.» Mi stavo aggirando indaffarata in cucina e Stadler era seduto al tavolo con aria tetra, poveretto. «Mi spieghi che cosa state effettivamente facendo per risolvere il caso» dissi. «Facendo?» ripeté, come se non riuscisse a capire. «Sì, mi scusi se sono stupida, ma me lo spieghi per bene, per favore.» Mise la mano sulla mia e ve la tenne, calda e pesante. «Signora Hindesham, Jenny, stiamo facendo tutto quello che possiamo. Stiamo analizzando le lettere, cercando di scoprire da dove viene la carta, esaminando le impronte digitali in casa sua nel caso quell'individuo sia riuscito a entrare. Come sa» tentò un sorriso contrito, che però non gli si addiceva, «stiamo controllando tutti i suoi amici, conoscenti, contatti, gente che lavora o ha lavorato per lei, per cercare di trovare legami tra lei e, ehm, le altre persone che sono state oggetto di lettere di questo genere. E poi, naturalmente, finché non lo prenderemo, cerchiamo di proteggerla.» Tolsi la mano da sotto alla sua. «Ma ha veramente senso continuare con tutto ciò?» domandai. «Che cosa?» «Tutta questa faccenda di aprire le lettere, di sorvegliare la casa.» Ci fu un lungo silenzio. Stadler sembrava aver difficoltà a decidere che cosa dire. Poi alzò il capo e mi fissò con i suoi occhi molto scuri, quasi troppo scuri. «Si tratta di una cosa seria» disse. «Ha letto le lettere. Quest'uomo minaccia di ucciderla.» «In effetti sono piuttosto sgradevoli» ammisi, «ma mi sembra che sia il genere di cose a cui ci si deve abituare stando a Londra, come le telefonate oscene, il traffico, le cacche dei cani sui marciapiedi e cose così.» «Forse» disse Stadler. «Ma dobbiamo prenderle seriamente. Tra un minuto mi metterò in contatto con l'ispettore capo Links e gli suggerirò - ma sono sicuro che sarà d'accordo - di rendere questo ambiente più sicuro.» «Che cosa intende?» «Tutti i lavori in corso devono essere interrotti. Temporaneamente.» «Ma è una cosa da pazzi.» Ero atterrita. «Gli artigiani hanno una lista di attesa di almeno sei mesi. La prossima settimana Jeremy deve andare in Germania. All'inizio della prossima settimana arriveranno gli stuccatori.
Vuole vedere la mia agenda? I lavori non sono una cosa che si possa interrompere e poi riprendere così, quando se ne ha voglia.» «Mi dispiace, signora Hintlesham, ma è importante.» «Importante per chi? Non sarà mica importante solo per voi, perché non sapete fare bene il vostro lavoro?» Stadler si alzò. «Mi dispiace» disse. «Mi dispiace che non siamo ancora riusciti a prendere questo psicopatico. Ma è difficile. Normalmente si segue un certo iter, si va a bussare a ogni porta, si cercano testimoni. Ma quando un pazzo prende di mira una persona a caso, non si può più seguire il normale percorso delle indagini. Si può solo sperare che faccia un passo falso.» Dovetti trattenermi dallo scoppiargli a ridere in faccia, invece rimasi in silenzio, gelida. Quest'uomo ridicolo voleva la mia simpatia. Voleva la mia solidarietà, perché fare il poliziotto era molto difficile. Mi venne voglia di buttarlo fuori di casa, lui e tutti gli altri. «Non dobbiamo dimenticare» continuò, «che l'ha minacciata seriamente. Noi vogliamo prenderlo, ma la nostra priorità è la sua sicurezza. Non vogliamo correre alcun rischio a questo proposito. L'alternativa potrebbe essere che lei se ne vada in qualche luogo più protetto.» Mi sentii come se avessi un vulcano in procinto di eruttare nello stomaco. La seconda prospettiva era ancora peggiore, così dovetti acconsentire all'interruzione dei lavori, pur in preda a una specie di fredda furia. Gli domandai quando voleva che gli operai se ne andassero e rispose: subito, mentre era lì lui. Così cominciai a rincorrere tutti come il buttafuori di un night-club e li cacciai bruscamente. Seguì una mezz'ora di telefonate e mezze spiegazioni a gente esterrefatta e vaghi tentativi di prendere impegni per il futuro. Finii il gin and tonic, uscii dal bagno e mi avvolsi in un asciugamano grande e soffice. Nel bagno faceva così caldo e c'era tanto vapore che, per quanto mi strofinassi con l'asciugamano, la pelle rimase appiccicosa. Andai in camera da letto. Le porte dell'armadio a muro erano completamente coperte da specchi. Li avrebbero dovuti togliere la prossima settimana. Mi fermai davanti a uno di essi e mi guardai mentre asciugavo i capelli e il corpo. Sentivo ancora la pelle umidiccia per il caldo, buttai l'asciugamano sulla moquette e rimasi nuda a osservarmi. Non lo facevo quasi mai, non nuda e senza trucco. Cercai di immaginare che sensazione avrebbe potuto trasmettere questo mio corpo nudo a chi l'avesse visto per la prima volta; poteva essere attra-
ente. Socchiusi gli occhi e piegai la testa di lato, ma non riuscii a provare alcuna sensazione. Probabilmente succedeva a tutte le coppie sposate da anni, con i bambini e il lavoro e cose così: si diventava come una parte dell'arredamento, non ci si notava quasi più, se non quando qualcosa non funzionava. Forse era per questo che altre cose, voglio dire altre persone, potevano sembrare più attraenti. Cercai di immaginare com'era stato quando Clive e io ci eravamo visti nudi per la prima volta, e la cosa strana fu che non ci riuscii assolutamente. Ricordavo la prima volta in cui avevamo fatto l'amore. Fu nel suo primo appartamento a Clapham. Ricordavo tutti i particolari. Il film che eravamo andati a vedere prima, quello che avevamo mangiato dopo, perfino quali vestiti indossavo, che lui mi aveva tolto, ma quello che avevo provato quando ci eravamo visti nudi per la prima volta... era svanito. Prima di allora avevo avuto solo un ragazzo sul serio. Sul serio per me, almeno. Era un fotografo, un certo Jon Jones. Ora era abbastanza famoso. Il suo nome compariva su «Harper's» e «Vogue». Doveva fare un servizio su uno smalto per le unghie usando le mie mani e da lì partì la cosa. Ero molto nervosa, veramente molto nervosa, riguardo al sesso. Non sapevo che cosa fare. Più che altro ero obbediente. Non so se il sesso fosse veramente eccitante, tecnicamente, ma l'idea di farlo, di farlo con lui, lo era. Mi ero abbandonata a questo sogno e mi ritrovai nuda in mezzo alla stanza, con la luce accesa e le tende aperte. Come pure le finestre. Mi mossi per andare a chiudere le tende, ma poi mi fermai. Che cosa importava se qualcuno mi vedeva? Era poi così male? Rimasi un momento ferma con il vento caldo che entrava dalla finestra. Avrei dato qualsiasi cosa per un alito di vento fresco. Faceva troppo caldo per chiudere la finestra. Mi limitai a spegnere la luce: era la stessa cosa. Mi stesi sul letto, sulla schiena, senza coprirmi. Anche un lenzuolo sarebbe stato una tortura. Toccai la fronte e i seni. Stavo già di nuovo sudando. Feci scorrere le dita giù lungo il ventre e tra le gambe. Sentii umido e calore. Mi toccai delicatamente guardando il soffitto. Che cosa si provava a essere visti nudi per la prima volta? Che cosa si provava a essere desiderati? A essere desiderati sessualmente? A essere guardati. A essere voluti. SEI Sono brava a far valigie. Preparo sempre io le valigie di Clive, quando
deve partire per qualche giorno. Gli uomini sono incapaci di piegare decentemente le camicie. Ora dovevo fare i bagagli dei ragazzi, che stavano per andare in un campeggio estivo immerso nella natura, nel Vermont. Avevamo scoperto questo posto tramite un amico di un amico di un amico di lavoro di Clive. Tre settimane di arrampicate, windsurf, fuochi sulla spiaggia e, nel caso di Josh, probabilmente occhiate a ragazzine in pantaloncini sgambati. Gli avevo detto qualcosa del genere mentre gli sistemavo con cura le magliette, i pantaloncini, i costumi e i calzoni in valigia. Era tetro. «Ci vuoi solo fuori dai piedi» bofonchiò. Tutto quello che diceva, ora, era in una specie di borbottio che non riuscivo a capire mai bene. Mi sembrava di star diventando sorda. «Dài, Josh, ma se l'anno scorso ti sei divertito tanto. Harry non pensa che sia un periodo troppo lungo.» «Io non sono Harry.» «Non dirmi che ti mancherò» gli dissi, scherzando. Lui mi guardò fisso negli occhi. Aveva enormi occhi marrone scuro e li sapeva usare per assumere un'aria di patetico rimprovero, come un somarello. Notai quanto fosse pallido e ossuto: le clavicole sporgevano come pomelli, i polsi erano una massa di tendini. Quando si tolse la camicia per mettersi i vestiti puliti per il volo, le costole sembravano una scala a pioli che si arrampicava sul suo corpo magro. «L'aria fresca ti farà bene. E non farà male neanche a questa stanza. Non apri mai le finestre?» Non rispose, limitandosi a guardare la strada di sotto con aria scontenta. Battei le mani per scuoterlo. «Sbrigati, tuo padre ti porterà all'aeroporto tra un'ora.» «Sei sempre di fretta.» «Non ho nessuna intenzione di mettermi a discutere con te proprio prima che tu parta per le vacanze.» Si voltò a guardarmi. «Perché non ti cerchi un lavoro?» «Dov'è il tuo deodorante? Ce l'ho un lavoro. Essere tua madre. Saresti il primo a lamentarti se non ti portassi avanti e indietro a feste e club, non ti preparassi la cena e non ti lavassi i vestiti.» «E che cosa fai mentre Lena fa il tuo lavoro?» «Sistemo questa casa. E non mi sembra che la cosa ti dispiaccia poi tanto. Allora, che cosa vuoi fare in questo poco tempo che ti rimane, prima di partire? Perché non vai a trovare Christo? Gli mancherai.» Josh si sedette al computer. «Tra un minuto. Voglio dare un'occhiata a
questo nuovo gioco. È appena uscito.» «Questa è una delle ragioni per cui è un bene che tu te ne vada. Altrimenti passeresti tre settimane al buio davanti a un monitor. In ogni modo, finché sei qui, potresti anche togliere le lenzuola dal letto e metterle fuori per Mary.» Silenzio. Mentre stavo uscendo dalla sua camera, mi fermai un momento. «Josh?» Silenzio. «Ti mancherò? Per l'amor del Cielo, Josh.» Stavo gridando, ora. Lui si era voltato, imbronciato. «Che cosa?» «Niente.» Lo lasciai immerso in un gioco di combattimento in cui ogni colpo risuonava come un albero abbattuto. Abbracciai Harry, anche se lui sembrava pensare che undici anni fossero troppi per essere abbracciati e rimase piuttosto rigido tra le mie braccia. Era un ragazzino appassionato, senza i bronci di Josh, grazie a Dio. Era come me, non stava a rimuginare. Lo si capiva semplicemente guardandolo, con quei capelli castani riccioluti, il naso camuso e le gambe tozze. Accanto a lui Josh sembrava un fuscèllo, il collo magro che usciva dal colletto troppo largo della camicia. Lo baciai sulle guance. «Divertiti, Josh. Sono sicura che andrà benissimo.» «Mamma...» «Caro, devi andare, tuo padre è in auto. Fa' il bravo e non metterti nei guai. Ci vediamo fra tre settimane. Ciao, cari. Arrivederci.» Li salutai con la mano finché non scomparvero dalla vista. «Andiamo, Chris: ora saremo solo tu e io per le prossime tre settimane.» «E Lena.» «Be', sì, naturalmente anche Lena. E in effetti Lena tra poco ti porterà allo zoo con un pranzo al sacco. La mamma ha una giornata indaffaratissima.» Una giornata indaffaratissima per preparare quella stupida cena che Clive mi aveva appioppato. Non ricordavo più quando era stata l'ultima volta che ero rimasta sola in casa. Era strano sentirla vuota, che quasi echeggiava. Nessun Josh, Harry, Chris e Lena, nessun Clive, Mary, Jeremy o Leo o Francis; nessun rumore di martelli, fischiettare di operai che dipingevano le pareti, nessuna scampanellata alla porta per consegnare ghiaia, carta da parati, o cavi elettrici. Be', ero quasi sola. Ovviamente c'era ancora Lynne, in giro da qualche parte, come un calabrone che ogni tanto entrava nella
stanza ronzando e poi volava via. Questa casa una volta era un cantiere, cioè non proprio il massimo. Ora era diventata un cantiere abbandonato: carta da parati mezzo attaccata nelle stanze vuote, assi di legno pronte per essere posate nella stanza che un giorno doveva diventare la sala da pranzo, lenzuola sui mobili del soggiorno che avrebbe dovuto essere tinteggiato ma non lo sarà, giardino pieno di erbacce e buche. Non sapevo se la polizia sarebbe mai riuscita a trovare l'uomo che mi stava molestando, ma certamente era riuscita a bloccare i miei piani. E quella dottoressa Schilling si era anche abbastanza seccata con me. Era ritornata e mi ero di nuovo dovuta sorbire quell'espressione grave e sollecita che, ci avrei scommesso, provava davanti allo specchio. E aveva continuato a scavare nella mia vita, su Clive, gli uomini in generale, continuando a scavare su quelle faccende. Diceva che faceva parte della normale routine delle indagini. A volte mi sembrava che del criminale non gliene importasse nulla. Che quello che voleva realmente fosse risolvere gli altri miei problemi. Cambiarmi, farmi diventare un'altra. Chi? Una come lei, probabilmente. Avrei avuto voglia di dirle che non ero una porta che un giorno si sarebbe aperta su un giardino incantato dentro di me. Mi dispiaceva, ma io ero fatta così: io, Jenny Hintlesham, moglie di Clive, madre di Josh, Harry e Chris. Doveva prendermi così o lasciarmi. A dir la verità avrei preferito che mi lasciasse, mi lasciasse sola a continuare la mia vita. Non mi piaceva molto cucinare, ma mi piaceva preparare cene per gli ospiti, se ne avevo il tempo. Quel giorno ne avevo in abbondanza. Lena non sarebbe ritornata prima dell'ora del tè e Clive andava direttamente dall'aeroporto al golf. Avevo sfogliato velocemente i libri di ricette, che erano ancora in una scatola di cartone sotto le scale. A causa del caldo avevo deciso di preparare una cena molto estiva: fresca, croccante, con fiumi di buon vino bianco. Le tartine con i funghi di bosco le avrei confezionate all'ultimo minuto, il gazpacho l'avevo preparato la notte scorsa, tardi, mentre Clive era seduto davanti al televisore. Il secondo, triglie in salsa di pomodoro e zafferano da servire fredde, lo avrei cucinato ora. Prima preparai il sugo, una roba italiana, ricca, con olio d'oliva, cipolle, aromi dell'orto (Francis era riuscito a piantare in giardino almeno le erbe aromatiche, prima che i lavori fossero sospesi), un bel po' di aglio, pomodori pelati italiani. E quando si era ben addensato, un goccio di vino rosso, uno di aceto balsamico e un po' di zafferano. Io adoro lo zafferano. Distesi le sei triglie
su un lungo piatto e versai sopra il sugo. Dovevano cuocere per mezz'ora a calore moderato e poi le avrei messe nella dispensa. Per dessert avevo scelto un'enorme crostata di albicocche. Ha sempre un aspetto spettacolare e le albicocche sono bellissime in estate. Stesi la pasta (l'avevo comprata già pronta: c'è un limite a tutto) e la disposi in una tortiera. Poi feci la crema di mandorle con mandorle tritate, zucchero, burro e uova e la versai sopra la pasta. Infine tagliai a metà le albicocche e ve le misi sopra. Ecco fatto: in forno caldo per venti minuti ed era pronta. Perfetta con una montagna di panna. Il vino e lo champagne erano già nel frigo. I riccioli di burro anche. I panini integrali li avrei presi nel pomeriggio e l'insalata verde l'avrei preparata poco prima di cena. Avremmo dovuto cenare in cucina, anche se si trattava di un cliente importante di Clive, però tirai fuori il séparé cinese in modo che la cucina fosse divisa a metà, e misi sul tavolo la tovaglia bianca di pizzo, quella che mi aveva regalato mia cugina al matrimonio. Con le posate d'argento e un mazzo di rose gialle e arancioni in un vaso di vetro il risultato era brillante, anche se improvvisato. Avevo invitato anche Emma e Jonathan Barton. Chissà che tipi erano questo Sebastian e sua moglie. Mi immaginavo un uomo d'affari grassoccio, col pancione e un reticolo di venuzze sul naso, e una moglie dura, ambiziosa, con i capelli biondi tinti e i fianchi grossi, vestita da donna del capo. Non invidio le donne di quel genere, anche se a volte nei miei confronti si dimostrano condiscendenti. Quella sera volevo esser bella. Emma Barton aveva fianchi rotondi, seni grossi e labbra piene che dipingeva di rosso brillante anche di mattina, quando portava a scuola i bambini. A me sembrava un po' ovvia, ma agli uomini piaceva. Il problema era che stava invecchiando. Doveva avere la mia età, forse anche qualche anno di più. E i labbroni e le smancerie vanno bene quando si hanno venti o trent'anni, a quaranta sono ridicoli, a cinquanta decisamente patetici. Conoscevamo i Barton da sempre. Dieci anni fa lui le stava sempre addosso, era furiosamente possessivo, ma ora gli occhi gli si posavano su donne che somigliavano all'Emma di dieci anni prima. Alle sei feci un lungo bagno e mi lavai i capelli. Di sotto sentii aprirsi la porta, e Lena e Chris rientrare. Indossai una vestaglia e mi sedetti davanti allo specchio. Quella sera ci voleva un bel po' di trucco. Non solo il fondotinta, ma anche del fard sulle guance, ombretto grigio-verde, matita nera, il mio amato correttore, rossetto color prugna, il mio profumo preferito die-
tro le orecchie e sui polsi. Me ne sarei spruzzata un'altra goccia in seguito. Di solito, tra un piatto e l'altro, venivo in camera a ritoccarmi il viso e potenziare il profumo. Mi dava coraggio. Scelsi un vestito nero lungo, con spalline sottili, e sopra una giacchetta di pizzo marrone rossiccio con il collo e i polsini contornati di velluto nero, che avevo comprato in Italia l'anno scorso per una piccola fortuna. Scarpe con il tacco alto. Il mio collier di diamanti e gli orecchini pendant. Mi esaminai nel lungo specchio, girando lentamente in modo da osservarmi da ogni angolo. Nessuno avrebbe detto che avevo quasi quarant'anni. Era una gran fatica rimanere giovani. Udii Clive entrare. Dovevo andare a dare la buonanotte a Chris e assicurarmi che fosse sistemato prima che arrivassero tutti. E poi ricordarmi di mettere i cioccolatini sulla credenza. Chris era bruciato dal sole e di cattivo umore. Lo lasciai che ascoltava una audiocassetta di Roald Dahl con la lucina della notte accesa, e pregai che non si mettesse a fare un capriccio durante la cena. Clive era sotto la doccia. Scesi e mi infilai sul vestito un ampio grembiule, poi misi i funghi di bosco sulle tartine, la lattuga tagliata nell'insalatiera. Con il pesce bisognava servire di contorno solo insalata verde. L'eleganza stava nella semplicità. Il cielo fuori della finestra di cucina era del colore dei lamponi. Rosso di sera, bel tempo si spera. Josh e Harry dovevano essere arrivati alla colonia. «Ciao» disse Clive. Era abbronzato e radioso, ed emanava un'aura di successo intorno a sé. «Sei elegante. Ma quella cravatta non l'avevo mai vista» commentai. Volevo che mi dicesse quanto ero chic quella sera. Si toccò il nodo. «Infatti, è nuova.» Suonarono alla porta. Né Sebastian né sua moglie Gloria erano come me li ero figurati. Sebastian era alto e sorprendentemente pelato. Sarebbe stato distinto, in modo un po' sinistro, à la Hollywood, se non avesse avuto un'aria palesemente nervosa. Nei suoi confronti Clive aveva un vago atteggiamento di disprezzo, un tocco di arroganza. Con un'improvvisa intuizione, capii che Clive l'avrebbe maltrattato nella trattativa sull'acquisto delle azioni dell'azienda, e che questa cena era una crudele finzione di amicizia. Gloria, cacciatrice di teste della City, era molto più giovane del marito, probabilmente non aveva ancora trent'anni. E i suoi capelli, di un biondo quasi d'argento, non
erano tinti, dopo tutto. Aveva gli occhi celesti, braccia sottili e abbronzate, caviglie eleganti, una delle quali ornata con una catenina d'argento, e indossava un semplicissimo vestito di lino e quasi niente trucco. Mi fece sentire troppo vestita e fece apparire Emma trasandata. Gli uomini non avevano occhi e orecchie che per lei, mentre stavamo sul portico ancora in costruzione a bere champagne. E lei sapeva di essere molto carina. Continuava ad abbassare le ciglia e fare sorrisetti d'intesa. La sua risata era un piccolo tintinnio d'argento, un campanello delicato. «Bella cravatta» disse a Clive, facendogli quel sorriso. Mi venne voglia di rovesciarle addosso il vino. Si conoscevano già, ma suppongo sia normale con il loro lavoro. Lei, Sebastian, Clive e Jonathan facevano gruppo e parlavano dei Footsie e del mercato delle vendite, mentre Emma e io rimanevamo a reggere il moccolo. «Questo nome, l'indice Footsie, mi fa sempre ridere» dissi ad alta voce, decisa a non essere ignorata. Gloria si voltò educatamente verso di me. «Anche lei lavora nella City?» mi domandò, anche se sapevo che sapeva che non ci lavoravo. «Fortunatamente no.» Feci una sonora risata e bevvi un sorso di champagne. «No, non posso neanche permettermi una mano di bridge. Clive e io abbiamo deciso che, quando avessimo avuto dei figli, io avrei smesso di lavorare fuori di casa. Lei ha bambini?» «No. Che cosa faceva prima?» «La modella.» «Modella di mani» si intromise Emma. La mia amica Emma. «Ha delle belle mani» commentò Sebastian, piuttosto rigido. Io le feci ondeggiare davanti a tutti. «Sono state la mia fortuna» dissi. «Una volta portavo sempre i guanti, anche durante i pasti. Talvolta me li mettevo anche a letto. Pazzesco, vero?» Jonathan versò altro champagne nei bicchieri. Gloria parlava a bassa voce a Clive, che le sorrideva. Di sopra Chris cominciò a piangere. Io finii in fretta lo champagne. «Scusatemi tutti e continuate. Il dovere mi chiama. Vi avviserò quando la cena è pronta. Intanto servitevi di tartine.» Voltai la audiocassetta a Chris, gli diedi di nuovo il bacio della buonanotte e gli dissi anche che se mi avesse chiamata di nuovo mi sarei arrabbiata. Poi andai in camera da letto. Misi altro rossetto, spazzolai i capelli e spruzzai del profumo nella scollatura. Mi sentivo leggermente brilla. Avrei voluto essere a letto, tra lenzuola pulite e stirate. E da sola, per favore: gra-
zie. Con la zuppa bevvi acqua frizzante, ma poi con il pesce passai al magnifico Chardonnay, con il brie al chiaretto e con la crostata di albicocche a un buon vino da dessert. Alla fine il caffè mi diede un attimo di lucidità nella confusione alcolica. «Che manipolatrice, quella Gloria» dissi in seguito a Clive, mentre mi toglievo il trucco con un dischetto di cotone e lui si lavava i denti. Si sciacquò la bocca con cura. Mi guardò mentre avevo un occhio già struccato e uno no, e disse: «Sei ubriaca». Ebbi l'improvviso e sconcertante impulso di dargli uno schiaffo, di ficcargli le mie forbicine da unghie nella pancia. «Sciocchezze» dissi ridendo. «Sono solo un po' brilla, caro. È andato tutto molto bene, non ti pare?» SETTE Il mio grande vizio erano i cataloghi, ordinare per posta. È pazzesco, in un certo senso, perché non era affatto da me. Se c'è una cosa in cui credo, è che gli oggetti di casa devono essere quelli giusti. Il pensiero di possedere un oggetto di ripiego, scelto solo perché un po', o molto, meno caro, e vederselo davanti, nell'angolo di una stanza ad accusarti anno dopo anno, per me è una tortura. Bisogna toccare le cose prima di comprarle, camminarci intorno, cercare di capire e sentire come staranno nello spazio che si è pensato per loro. Allora non avrei dovuto sprecare il tempo con i cataloghi. Gli asciugamani che sembravano soffici in fotografia potevano rivelarsi sintetici al tatto, quando arrivavano, o di una sfumatura differente da quella immaginata, che strideva con la cornice di legno del bellissimo specchio trovato al mercatino l'estate precedente. Le posate per l'insalata potevano sembrare pesanti, e invece essere leggere e scomode. So che teoricamente c'è la possibilità di restituire gli oggetti comprati e ottenerne il rimborso, ma per una ragione o l'altra non lo si fa mai. Non avevo giustificazioni e Clive disprezzava queste cose, quando se ne accorgeva, ma poi anche lui aveva i suoi cataloghi di vini, che sfogliava la sera tardi. Così quando arrivavano dei cataloghi non resistevo a non dar loro un'occhiata e ci trovavo sempre qualcosa che mi colpiva: una tuta o una maglietta da baseball per i ragazzi, un ingegnoso portapenne, un cucchiaio con speciali scanalature, una sveglia divertente, un cestino per la carta straccia
che sarebbe potuto andar bene nello studiolo di sopra. Quasi sempre queste cose finivano in soffitta o in fondo a una credenza, ma qualche volta si rivelavano utili. In ogni caso era divertente quando arrivavano, recapitate da un corriere che richiedeva una firma alla consegna. Era come un compleanno in più. Anzi, meglio, in un certo senso. A voler essere sarcastica, potrei dire che mentre i ragazzi, e un signore che non nominerò, si dimenticano spesso di un compleanno, la posta non manca mai di consegnare la lampada ordinata, anche se non te ne importa poi molto. Perfidamente queste ditte di vendita per corrispondenza passano il tuo nome ad altre ditte, soprattutto quando capiscono che sei un probabile, patetico compratore di cose inutili. È un po' come essere la ragazza più popolare della scuola. Tutti vogliono essere tuoi amici, anche se non sempre tu vuoi essere amica di tutti. A volte ricevevo la pubblicità delle cose più straordinarie. Solo la scorsa settimana era arrivata la brochure di una ditta che vendeva poncho di pelo di lama. Per ventinove sterline e novantanove; due per trentanove e novantanove, come se chi non vive nelle Ande potesse mai volerne uno. Non li avevo presi in considerazione neanche per un secondo. Tutto questo come preludio a ciò che accadde lunedì, quando scesi di sotto a metà mattina e vidi la solita pila di fogli e foglietti sullo zerbino. Non vera posta, ma il solito mucchio di stupidi volantini colorati che offrivano pizza a domicilio con una Coca omaggio, o la pulizia dei vetri, o una valutazione della casa, o la sostituzione degli infissi originali con altri di metallo a doppi vetri. E in mezzo a essi c'era una busta che diceva: «Offerta speciale di interni vittoriani». E io la aprii. Scommetto che nessuno saprebbe dire come fa ad aprire una lettera. Lo si fa tutti i giorni, ma sempre senza pensarci. Io invece sono stata costretta a soffermarmici. Si prende la lettera e la si gira in modo che la faccia con l'indirizzo sia rivolta in basso. Se è ben chiusa, si cerca di sollevare un angolo o di strapparlo leggermente in modo da fare un buco, vi si inserisce l'indice e si strappa la busta facendolo scorrere lungo la piegatura. Questo fu ciò che feci e la cosa strana fu che non sentii alcun male. Aprii la busta e vidi una specie di luccichio metallico e poi notai che la busta sembrava bagnata qua e là e macchiata di rosso. Fu allora che sentii non esattamente male, ma come un dolore sordo nella mano destra. Abbassai gli occhi e stranamente mi ci vollero parecchi minuti per capire quello che avevo davanti agli occhi. C'era sangue ovunque: schizzi sui pantaloni color fulvo, gocce sul pavimento, e le mie dita
ne erano tutte intrise. Non capivo, così guardai stupidamente dentro la busta come se fosse piena di tintura rossa che stava colando sul pavimento. E vidi dei pezzetti di metallo. Lamine piatte attaccate con delle graffette a un pezzo di cartoncino. Non capii subito che cos'erano e poi improvvisamente mi venne in mente mio padre, seduto sul bordo della vasca, che si radeva, e io bambina che lo guardavo e mi sembrava Babbo Natale con quella schiuma bianca sul viso. Erano lamette di vecchio tipo. Mi guardai le dita. Un rivolo di sangue stava gocciolando sul tavolo. Alzai la mano e la esaminai. Nell'indice c'era un taglio profondo e livido. Lo sentivo pulsare e buttare sangue. Fu allora che cominciò a farmi male e io mi sentii venir meno, mi sentii contemporaneamente fredda e bollente. Non urlai né piansi. Non mi sentivo male, ma le gambe cedettero e scivolai sul pavimento, sul sangue, e rimasi là, accasciata. Non so per quanto tempo. Probabilmente solo pochi minuti prima che Lena scendesse e mi venisse in aiuto, e poi comparisse Lynne con la bocca spalancata in una O perfetta.
Ha pantaloni color crema e una camicia marrone rossiccio. Ha la mano bendata e ogni tanto se la tiene con l'altra, quella sana, cautamente, come se fosse un uccellino ferito. Ha i capelli tirati dietro le orecchie in un modo che le fa sembrare il viso ancora più sottile del solito, gli zigomi più scarni. Sembra già più vecchia. La sto facendo invecchiare. Oggi è senza orecchini e senza profumo. Ha un rossetto rossastro che la fa apparire più pallida. Si è messa uno strato di cipria troppo spesso, riesco perfino a vederne dei granelli sulla guancia, sulla fronte. Cammina come in sogno, strascinando i piedi sul pavimento. Ha le spalle curve. Di tanto in tanto aggrotta le sopracciglia, come se volesse ricordare qualcosa. Si mette la mano contro il cuore. Vuole sentire la vita battere contro il palmo. Anche l'altra lo faceva. Si teneva con tanta cura e ora si sta lasciando andare. Pezzo per pezzo, il guscio si sta rompendo. La vedo. Vedo i tratti di lei che non ha mai voluto mostrare a nessuno. La paura stravolge le persone. A volte sento il desiderio di ridere. Sta venendo così bene. Questa è tutta la mia vita. È ciò che aspettavo. OTTO
«Le fa male?» L'ispettore capo Links mi venne vicino. Troppo vicino. Ma allo stesso tempo sembrava lontano. «Mi hanno dato delle pillole contro il dolore.» «Bene, dobbiamo farle qualche domanda.» «Oh, per l'amor del Cielo.» La polizia per certe cose poteva anche andar bene. Mi avevano fatto passare davanti a tutti al pronto soccorso, mi avevano dato un passaggio all'ospedale e poi a casa e mi avevano fatto il tè. Era il resto che era un problema. «So che è un periodo difficile, ma abbiamo bisogno della sua collaborazione.» «Perché? Ne ho abbastanza delle vostre domande. A me sembra una faccenda piuttosto semplice. Là fuori c'è un folle che continua a venire a casa mia. Non riuscite ad arrestarlo mentre infila le buste attraverso la porta?» «Non è così semplice.» «Perché no?» Links fece un profondo respiro. «Se un tizio è veramente deciso a fare qualcosa, allora...» si interruppe bruscamente. «Allora che cosa?» «Vogliamo esaminare qualche nome.» «Fate pure. Volete una tazza di tè? È nella teiera.» «No, grazie.» «Le dispiace se io lo prendo?» Mi versai una tazza, ma poi, per non so quale ragione, misi la teiera su un piatto ed essa molto lentamente cominciò a traballare e andò a frantumarsi sul pavimento di piastrelle di ceramica, facendo un gran fracasso. Il tè bollente schizzò dappertutto. «Mi dispiace, deve essere la mia tnano. Che goffa sono.» «Mi permetta di aiutarla.» Links cominciò a raccogliere i cocci della teiera e Lynne asciugò il pavimento, rendendosi utile una volta tanto. Poi ci rimettemmo a sedere al tavolo della cucina. Lynne passò una cartellina a Links, che la aprì. C'era un elenco di nomi, quasi tutti accompagnati da una foto. C'erano professori, un giardiniere, un agente immobiliare, un architetto, mestieri di tutti i generi; alcuni avevano vestiti eleganti altri erano in maglietta, ben rasati o con la barba di qualche giorno. Il dolore, le pillole o lo shock mi avevano resa lenta e come sognante. Mi sembrava quasi buffo guardare quell'elenco di persone incolori che non avevo mai incontrato. «Chi sono? Delinquenti?» Links era a disagio. «Non le posso dire tutto» spiegò, «per ragioni legali.
Ma quello che le posso dire è che stiamo cercando di stabilire se ci sia qualche legame anche remoto tra lei e, ehm...» Sembrò cercare la parola giusta. «Ambienti in cui sono stati riportati problemi simili. Se c'è qualcuno, qui, che le fa venire in mente qualcosa, potrebbe esserci utile. Anche solo lontanamente. Questo agente immobiliare, per farle un esempio. Non le voglio suggerire niente, ma un agente immobiliare ha accesso a molte proprietà. E lei si è trasferita di recente dopo aver cercato casa in molte zone di Londra.» «Sì, ho incontrato centinaia di agenti immobiliari. Ma non sono per niente brava a ricordare i volti. Perché non lo chiedete a lui?» «L'abbiamo fatto» rispose Links. «Non siamo riusciti a trovare il suo nome sui suoi registri. Ma il modo di tenere aggiornati i registri delle agenzie immobiliari sembra abbastanza casuale.» Lo guardai di nuovo. «Potrei averlo incontrato, ma a dir la verità gli agenti immobiliari si somigliano un po' tutti, non è vero?» «Così potrebbe averlo incontrato?» «Non lo so. Volevo solo dire che se lei dimostrasse che l'ho incontrato, non direi che è impossibile.» Links non sembrò molto soddisfatto della risposta. «Le posso lasciare queste fotografie, se vuole.» «Perché quel pazzo dovrebbe fare una cosa del genere?» domandai. «Darsi tanto da fare per commettere una cosa orribile?» Links incontrò i miei occhi e per la prima volta apparve afflitto e incapace di nasconderlo. «Non lo so.» «Be', comunque non ho certo bisogno di farglielo notare, no?» Risposi aspramente. Proprio in quel momento in casa c'erano otto poliziotti, che giravano come formiche, riponendo delle piccole cose in scatolette e sacchetti di plastica, parlottando negli angoli, guardandomi come se fossi un animale ferito. Non potevo andare da nessuna parte senza scontrarmi con uno di loro. Erano molto educati, a modo loro, ma non c'era praticamente luogo in cui potessi rimanere da sola. Alzai la voce. «Quello che vorrei sapere è che cosa state facendo tutti voi, mentre io mi scervello per aiutarvi.» «Le posso assicurare che anche noi stiamo lavorando sodo» rispose. E a dire il vero sembrava un po' stanco. Mentre andavo di sopra incontrai un poliziotto che stava scendendo con una catasta di carte. Andai in bagno e chiusi a chiave la porta, appoggiandomici per un momento. Poi andai al lavandino e mi spruzzai dell'acqua
fredda sul viso con la mano sana. Il sangue cominciava ad affiorare attraverso la garza che mi fasciava l'altra mano. Mi sedetti davanti alla toilette e ritoccai il trucco con l'inetta mano sinistra. Avevo l'aria piuttosto malconcia. I capelli avrebbero avuto bisogno di uno shampoo. Con quel caldo bisognava lavarli praticamente tutti i giorni. Mi spalmai della crema sotto gli occhi e misi il lucida labbra. Dovevo ammettere che questa faccenda mi stava pesando. Avrei desiderato che Clive ritelefonasse, per poter parlare con qualcuno che non fosse un poliziotto. Gli avevo già detto della mia mano e lui era rimasto molto turbato e aveva insistito a voler parlare con Stadler al telefono. Gli aveva fatto una sfilza di domande ringhiose, ma non si era precipitato a casa, come avevo sperato, con un mazzo di fiori. Poi l'ispettore Stadler volle sapere un sacco di particolari sulla mia vita. Ci ritirammo nel salottino, perché Mary voleva lavare il pavimento della cucina. «Come va la mano, signora Hintlesham?» mi domandò con quella voce morbida, profonda e insistente. Per via del caldo si era tolto la giacca e arrotolato le maniche della camicia. Sulla fronte aveva delle goccioline di sudore. Mi faceva le domande guardandomi sempre direttamente negli occhi, mi dava la sensazione che volesse cogliermi in fallo. «Bene» risposi, il che non era proprio vero. Mi bruciava. I tagli da rasoio sono sempre orribili, aveva detto il dottore quando mi aveva medicato. «Quest'individuo ovviamente sa che si faceva fotografare le mani per lavoro.» «Forse.» Prese due libri e io mi accorsi che si trattava della mia agenda e della mia rubrica. «Possiamo esaminare qualche cosa?» Sospirai. «Se dobbiamo. Come ho già detto all'altro funzionario, ho molto da fare.» Lui mi guardò dolcemente, in un modo che mi fece arrossire. «È per il suo bene, lo sa, signora Hintlesham.» E così vidi la mia vita scorrere sotto gli occhi. Cominciammo con l'agenda. Lui la sfogliò pagina dopo pagina, facendomi domande su nomi, posti, appuntamenti. La parrucchiera, dissi, e quello era un controllo dal dentista per Harry. Pranzo con Laura, Laura Offen. Decodificai iniziali, descrissi negozi, spiegai accordi con operai e professori privati di francese e maestri di tennis, pranzi, caffè, promemoria. Andammo sempre più indietro nel tempo, esa-
minando eventi che avevo dimenticato, che non riuscivo più a ricordare: le trattative per la casa, gli agenti immobiliari, gli ispettori, i dottori delle piante e gli architetti dei giardini. L'anno scolastico. La mia vita sociale. Tutti i particolari della mia giornata. Continuava a chiedermi dove si trovava Clive quando era successa una cosa e l'altra. Alla fine arrivammo al primo giorno dell'anno; Stadler chiuse l'agenda e aprì la rubrica. Passammo in rassegna ogni singolo nome. Portai Stadler nella vecchia e polverosa soffitta della mia vita sociale. Tante persone erano scomparse o morte. Coppie che si erano separate. E amici che avevo perso di vista, o che non si erano più fatti sentire. Mi venne da pensare a come ero stata popolare negli ultimi anni. Ma quel pazzo poteva veramente trovarsi fra quei nomi? Come se non bastasse, Stadler tirò fuori i conti di Clive per la casa. Cercai di dirgli che non mi occupavo di quelle faccende, che faceva tutto Clive, che io non avevo testa per i numeri. Ma lui non sembrava ascoltare: 2.300 sterline per le tende del soggiorno che non avevamo ancora appeso; 900 sterline per l'agrimensore; 3.000 sterline per il lampadario a bracci; 66 per il batacchio del portone di cui mi ero innamorata al mercato di Portobello. I numeri cominciarono a sfocarmisi davanti agli occhi. Non riuscivo a raccapezzarmi. Non mi ricordavo che le mattonelle di ceramica fossero così costose. Terribile come le spese lievitino. Quando finimmo, lui mi guardò e io pensai, quest'uomo sa di me più di chiunque altro al mondo, a parte Clive. «Ma tutto questo è rilevante?» domandai. «Questo è il problema, signora Hintlesham, non lo sappiamo. Per il momento abbiamo solo bisogno di informazioni. Quante più possibili.» Poi mi disse di stare attenta, come mi aveva già detto Links. «Non vogliamo che le succeda nient'altro, vero?» Aveva un tono ragionevolmente gaio. Fuori le foglie sugli alberi erano diventate scure, di un verde sporco. Pendevano flosce dai rami, quasi incapaci di muoversi alla tiepida e pigra brezza. Il giardino sembrava un deserto: la terra era arida e crepata come un vecchio piatto di terracotta; alcune delle piante che Francis aveva piantato di recente cominciavano a languire. La nuova piccola magnolia non sembrava in grado di sopravvivere. Tutto si stava rinsecchendo. Telefonai di nuovo a Clive. La sua segretaria mi disse che era uscito. Aggiunse che le dispiaceva, ma non sembrava affatto dispiaciuta.
La dottoressa Schilling fu differente. Non entrò marciando con una pila di nomi sotto il braccio e un mucchio di domande da fare. Guardò la mia mano, srotolando le bende e tenendomi le dita tra le sue, che erano fresche e sottili. Disse che era molto dispiaciuta, sembrava scusarsi personalmente. Con mio orrore, improvvisamente mi venne voglia di piangere, ma non l'avrei certamente fatto davanti a lei. Le avrei fatto un piacere troppo grosso. «Vorrei farle qualche domanda, Jenny.» «A che proposito?» «Potremmo parlare di lei e Clive?» «Pensavo che l'avessimo già fatto.» «Ci sono altri particolari. È d'accordo?» «Suppongo di sì, ma senta...» cambiai posizione, a disagio. «... tutto ciò non mi sembra giusto. Voglio che mi assicuri che le sue domande riguarderanno solamente questo caso. Lei probabilmente pensa che io sia completamente matta e che abbia una vita orrenda, ma io ne sono contenta. È chiaro? Non ho bisogno del suo aiuto, e se anche ne avessi bisogno, non lo vorrei.» La dottoressa Schilling fece un sorriso imbarazzato. «Non penso niente di tutto ciò» rispose. «Bene. Volevo solo essere chiara.» «Sì» disse la dottoressa Schilling e abbassò gli occhi su un taccuino che aveva aperto sulle ginocchia. «Voleva sapere di me e Clive.» «Non le dispiace che stia fuori casa tanto a lungo?» «No.» Aspettò, ma io non aggiunsi altro. Conoscevo il trucco. «Pensa che le sia fedele?» «Me l'ha già domandato.» «Ma lei non ha risposto.» Feci un sospiro di impazienza. «Visto che l'ispettore come si chiama, Stadler, sa anche quando mi devono venire le mestruazioni, suppongo di poterle raccontare anche della mia vita sessuale. Se veramente lo vuole sapere, proprio dopo la nascita di Harry ha avuto una... una cosa.» «Una cosa?» Sollevò le sopracciglia. «Sì.» «Per quanto tempo?» «Non lo so con precisione. Un anno, forse. Diciotto mesi.» «Allora non è stata solo una cosa, no? È stato qualcosa di più serio.»
«Non mi avrebbe mai lasciato. Lei era solo un extra. Gli uomini sono così prevedibili, no? Io ero stanca, ingrassata.» Mi toccai la pelle sotto gli occhi. «Invecchiata.» «Jenny» mi disse gentilmente, «lei aveva solo, vediamo, non aveva ancora trent'anni quando è nato Harry.» «Più o meno.» «Che cosa ha provato?» «Non voglio parlarne, mi dispiace.» «D'accordo. Ce ne sono state altre?» Scrollai le spalle. «Forse.» «Non lo sa?» «Non voglio saperlo, grazie tante. Se ha qualche stupida cotta, preferisco che la tenga per sé.» «Lei pensa che abbia delle relazioni?» «Gliel'ho appena detto, forse sì o forse no.» Senza volerlo mi passò per la mente l'immagine di Clive che guardava Gloria. La scacciai. «E lei?» «Come le ho detto l'altra volta, quando me l'ha domandato, no.» «Mai?» «No.» «Non ci è andata nemmeno vicina?» «Oh, la smetta, per l'amor del Cielo.» «Ha una vita sessuale soddisfacente con suo marito?» Scossi la testa. «Mi dispiace, ma non posso.» «D'accordo.» Ancora una volta fu inaspettatamente gentile. «Pensa che suo marito la ami?» Socchiusi gli occhi. «Se mi ama?» «Sì.» «È una parola grossa.» Non rispose. Feci un respiro. «No.» «Pensa di piacergli?» Mi alzai in piedi. «Ne ho abbastanza» dissi. «Lei se ne andrà e questa conversazione per lei non sarà che una serie di appunti, ma io continuerò a pensarci e non voglio. Non è Clive che mi manda lamette di rasoio, allora perché vuole sapere queste cose?» Andai alla porta. «Le è mai passato per la mente che quello che fa è piuttosto crudele? Ora io ho molto da fare, così se mi vuole scusare...» La dottoressa Schilling se ne andò e io rimasi sola in soggiorno. Mi sentivo come se mi avessero capovolta e svuotata sul pavimento.
NOVE Sentivo il vento mormorare tra le foglie. Avrei voluto aprire la finestra, far entrare la brezza notturna in tutte le stanze, ma non potevo. Non dovevo. Tutte le finestre dovevano rimanere chiuse, sbarrate. Dovevo stare al sicuro. L'aria all'interno era viziata. Pesante, calda, morta. Ero prigioniera in casa e il mondo era chiuso fuori e tutto stava ritornando caotico, brutto: la carta da parati cadeva dalle pareti, l'intonaco era incompleto, mancavano delle tavole al pavimento e sotto si vedevano i buchi scuri, luridi. La polvere di anni e anni stava riaffiorando in superficie. Tutto quel lavoro non finito, tutti i miei sogni di spazi perfetti: bianco luminoso, giallo limone, grigio ardesia, verde pisello, l'atrio di due colori, il fuoco nel camino che gettava ombre sulla morbida moquette color crema, il grande pianoforte con sopra i gladioli, i tavolini rotondi e sopra i drink in bicchieri di cristallo, le stampe illuminate dalle apposite luci, le ampie vedute, dalle finestre, di prati verdi e graziosi cespugli. Ero sudata. Girai il cuscino per cercare un punto più fresco. Fuori gli alberi stormirono. Non era completamente buio, i lampioni gettavano nella stanza una luce di un arancione sporco e riuscivo a intravedere le forme dei mobili che mi circondavano: la toilette, la poltrona, l'alta sagoma dell'armadio, i due quadrati più pallidi delle finestre. E vedevo che Clive non c'era. Che ore erano? Mi sedetti sul letto e strizzai gli occhi per vedere i numeri luminosi sulla sveglia. Vidi un sette diventare un otto e poi un nove. Le due e mezza e non era ancora a casa. Lena era fuori fino all'indomani mattina, dal suo ragazzo, così in casa c'ero solo io, io e Chris, e tutte quelle camere vuote che si stavano disintegrando. Fuori c'era un'auto della polizia. Il dito pulsava, la gola mi faceva male, gli occhi bruciavano. Non era proprio più possibile dormire. Mi alzai e lanciai un'occhiata al mio vago riflesso nel lungo specchio. Con la camicia da notte bianca di cotone sembravo un fantasma. Andai piano nella camera di Chris. Dormiva con un piede sotto il ginocchio dell'altra gamba e le braccia in alto, come un ballerino. La coperta era ammucchiata sul pavimento accanto a lui. Aveva i capelli appiccicati in fronte, la bocca leggermente aperta. Forse, pensai, dovrei portarlo a casa di mamma e papà a Hassocks. Magari ci dovrei andare anch'io, dovrei andarmene da questo orrore. Potrei semplicemente prendere l'auto e partire. Perché no? Che cosa mi fermava e perché non ci avevo pensato prima?
Andai in cima alle scale e guardai giù. Nell'atrio la luce era accesa, ma le stanze erano tutte buie. Deglutii. Improvvisamente mi fu difficile respirare. Che cosa stupida. Totalmente stupida. Ero al sicuro, senza dubbio. Fuori c'erano due uomini, tutte le porte e le finestre erano serrate. Sulle finestre del pianterreno c'erano delle brutte sbarre e in casa c'era l'allarme, una lucina che si accendeva ogni volta che passava qualcuno. Andai in quella che sarebbe dovuta diventare la camera degli ospiti e accesi la luce. La carta era stata applicata solo su metà di una parete, le altre erano solo state preparate. I rotoli di carta da parati erano arrotolati in un angolo, in attesa, vicino alla scala pieghevole e a un tavolo su cavalietti. Il letto di ottone era smontato sul pavimento. La stanza sapeva di muffa. Sentii salirmi in petto come una bolla calda di collera; se avessi aperto la bocca, sarebbe uscito un urlo. Un urlo prolungato, che avrebbe spezzato il silenzio della notte e avrebbe svegliato la città, avvertendo tutti di stare all'erta. Strinsi le labbra. Dovevo metter ordine nella mia vita. Nessun altro l'avrebbe fatto per me, era chiaro. Clive non c'era. Leo, Francis, Jeremy e tutti gli altri se ne erano andati, come se non ci fossero mai stati. Mary mi strisciava intorno come se fossi contagiosa, ed ero fortunata se svuotava i cestini della cartastraccia. Domani le avrei detto che non avevo più bisogno di lei. I poliziotti erano tutti stupidi e incompetenti. Se fossero stati alle mie dipendenze, li avrei già licenziati. Avrei dovuto contare solo su me stessa. Solo su di me, d'ora in poi. Sentii l'occhio destro fremere per un tic. Quando ci misi il dito sopra, lo sentii pulsare, come se avessi un insetto sotto la pelle. Presi la scatola della colla per la carta da parati e lessi le istruzioni. Sembrava abbastanza semplice. Perché la facevano tanto difficile? Avrei cominciato con questa stanza e poi avrei continuato con la mia vita, rimettendo tutto a posto, come era prima. Clive ritornò a casa una mezz'ora dopo. Udii le chiavi nella serratura ed ebbi un momento di panico, finché non lo sentii togliersi le scarpe e andare silenziosamente in cucina, dove aprì il rubinetto dell'acqua. Non smisi di fare ciò che stavo facendo. Non avevo tempo, volevo finire prima di mattina. «Jenny» mi chiamò, quando entrò in camera da letto. «Jens, dove sei?» Non risposi e continuai a spalmare la colla sulla carta. «Jens» gridò lui, questa volta dal bagno, che un giorno o l'altro sarebbe stato rivestito di piastrelle italiane. Il bordo della mia camicia da notte era intriso di colla, ma
non m'importava. Anche la benda alla mano era sporca di colla, e il dito pulsava come non mai. La parte più difficile era applicare la carta diritta e senza bolle. A volte mettevo troppa colla e la macchia affiorava alla superficie. Ma si sarebbe asciugata. «Che cosa diavolo stai facendo?» Clive era in piedi sulla soglia della camera con addosso la camicia bianca, i boxer rossi e le calze che gli aveva portato l'anno scorso quello stupido di Babbo Natale. «Che cosa ti sembra?» «Jens, è notte fonda.» «E allora?» Non disse nulla, diede un'occhiata intorno alla stanza come se non sapesse dove si trovava. «Che cosa importa se è notte fonda? Che importa che ore sono? Se nessuno lo farà, lo farò io. E puoi essere sicuro che nessuno lo farà. Se c'è una cosa che ho imparato è che se vuoi che sia fatta una cosa, devi fartela da solo. Stai attento a dove metti i piedi, per l'amor del Cielo. Rovinerai tutto e io dovrò ricominciare da capo e non ho tempo. Hai avuto una buona giornata? Una buona giornata in ufficio fino alle tre del mattino, caro?» «Jens.» Salii sulla scala con la carta appiccicosa in mano, che si riarrotolò. «E colpa mia» continuai. «Ho lasciato andare tutto in rovina. Prima non me ne accorgevo, ma ora lo vedo. Un paio di lettere sciocche e lasciamo andare in rovina la casa, permettiamo che si riempia di sozzura. È stupido.» «Jens, smettila. Tra l'altro è tutta storta. E hai colla nei capelli. Scendi subito da quella scala.» «La voce del padrone» dissi sibilando. «Ti stai comportando da squilibrata.» «Già! E come dovrei comportarmi, secondo te? Togli la mano dalla mia caviglia.» Lui arretrò. Io sentii un forte dolore dietro gli occhi. «Jenny, vado a telefonare al dottor Thomas.» Lo guardai. «Tutti usano quel tono di voce con me, come se avessi qualcosa che non va. Non ho nulla che non vada. Devono solo prendere quell'individuo e ritorneremo alla normalità. E tu» gli agitai il pennello intriso di colla davanti al viso rivolto in su, spruzzandolo, «tu sei mio marito, in caso l'avessi dimenticato, caro. Nel bene e nel male, e questo è il male.» Cercai di lisciare la carta sul muro, piegandomi in modo doloroso con la camicia da notte umida che mi batteva contro gli stinchi e corpuscoli di povere e sporcizia che mi cadevano sui piedi, ma si formarono un sacco di
brutte pieghe. «Non ci sono speranze» dissi, guardandomi intorno. «Non ci sono proprio speranze.» «Vieni a letto.» «Non sono per niente stanca, grazie.» E in effetti non lo ero. Fremevo di energia e collera. «Ma se vuoi aiutarmi, telefona alla dottoressa Schilling e dille che quando va bene è noioso, grazie tante. Lei capirà. Sei patetico in calzini» aggiunsi, sprezzante. «Va bene, fa' quel che vuoi» rispose con un tono tra il compatimento e l'indifferenza. «Io vado a letto. Tu fa' quel che vuoi. E tra parentesi, quella striscia va messa nell'altro verso.» Alle sei Clive uscì per andare al lavoro. Mi salutò e se ne andò, ma io non mi preoccupai di rispondergli. Chris si alzò da solo. Gli gridai di prepararsi la colazione. Venne a guardarmi per qualche minuto, con l'aria di stare per mettersi a piangere. La vista di lui in piedi, con il pigiama blu con gli orsetti, l'aria triste e il pollice in bocca, mi fece bruciare di rabbia e impazienza. Quando cercò di abbracciarmi, me lo scrollai di dosso, dicendogli che ero tutta appiccicosa. Poi arrivò Lena, e lui le andò incontro come se io fossi la matrigna cattiva. Per casa girava una nuova poliziotta e finta amica, una donna piccola con un viso da volpe che disse di essere l'agente Page e controllò tutte le finestre. Venne nella camera degli ospiti e mi salutò con voce cauta, facendo finta di trovar normale che stessi mettendo su la carta alle pareti in camicia da notte. La ignorai. Idiota. Non mi servivano a niente, non mi davano alcuna sicurezza. Quando finii le pareti, feci un bagno. Mi lavai i capelli tre volte, feci la ceretta alle gambe, rasai le ascelle, tolsi i peluzzi tra le sopracciglia, misi un nuovo smalto alle unghie e mi truccai più del solito, applicando al viso un sacco di fondotinta perché avevo la pelle stranamente macchiata, un po' di fard per dar colore alle guance, e la matita sugli occhi. Sembravo una maschera. Avevo difficoltà a tenere ferma la mano. Il rossetto continuava a sbavare, dandomi l'aria di una vecchia ubriacona. Alla fine riuscii a metterlo per bene: un velo di discreto color prugna, quasi invisibile. Mi guardai, ero di nuovo io: Jennifer Hintlesham, perfetta. Scelsi una gonna nera di stoffa sottile, sandali neri e una fresca camicia bianca. Volevo apparire professionale, chic, a mio agio. Ma la sottana mi ballava in vita. Dovevo aver perso peso. Be', anche le cose brutte hanno un lato positivo.
Dissi a Lena di portare Chris all'acquario di Londra e poi di comprargli il pranzo. Chris avrebbe voluto stare con me, ma io gli mandai un bacio e gli dissi di non fare lo sciocchino, che avrebbe passato una bella giornata. Diedi a Mary il salario di una settimana e le dissi di non ritornare. Passai un dito sulla cima del forno a microonde e le mostrai la polvere. Lei si mise le mani sui fianchi e rispose che non aveva nessuna intenzione di continuare a lavorare per me comunque, questo lavoro le faceva venire i brividi. Feci un elenco. Due elenchi. Il primo di cose da fare in casa e non mi ci volle molto. Il secondo per Links e Stadler e fu più complicato. Mi ci vollero quattro tazze di caffè forte per completarlo. Avevano detto che tutto ciò che ricordavo poteva essere importante, vero? La dottoressa Schilling e Stadler arrivarono insieme, con aria grave e misteriosa. Li invitai nello studio di Clive. «Non ci sono problemi» dissi loro. «Non preoccupatevi. Ho deciso di dirvi tutto. Volete un caffè? No? Vi dispiace se lo prendo io?» Rovesciai un bel po' di caffè sulla scrivania e l'asciugai con un documento che stava vicino al computer e aveva la scritta «Senza pregiudizio» in cima. «Jenny...» «Aspettate. Ho fatto un elenco di cose che pensavo doveste sapere. Ho cercato di telefonare a quella donna, Haratounian.» La dottoressa Schilling lanciò un'occhiata a Stadler, come a ordinargli di dirmi qualcosa. Stadler le rispose aggrottando la fronte. «Ho incontrato un mucchio di uomini strani, se volete sapere» continuai. «A dire il vero tutti mi sembrano strani. Nessuno in particolare, ma tutti in un modo o nell'altro.» Feci una risatina e bevvi un sorso di caffè. «Il mio primo ragazzo, il mio unico ragazzo se non si conta Clive, si chiamava Jon Jones. Faceva il fotografo e lo fa ancora. Forse lo conoscete, ritrae modelle praticamente nude, e io l'ho incontrato quando facevo la modella, solo che ero una modella di mani, naturalmente, quindi non dovevo togliermi la camicetta, non in pubblico per lo meno, ma lui mi ha fatto centinaia di foto in privato. Quando ci siamo lasciati, anche se allora non mi sembrava che ci stessimo lasciando, voglio dire che non lo sapevo, capivo solo che lui lentamente perdeva interesse e io non sapevo più se ci saremmo rivisti o no, bene, quando ciò accadde, più o meno quando incontrai Clive, gli chiesi di restituirmi le foto e lui si mise a ridere e mi disse che aveva i diritti d'autore, così dovrebbe ancora averle da qualche parte.»
«Jenny» mi interruppe la dottoressa Schilling, «vuole mangiare qualcosa?» «Non ho fame» risposi, bevendo un altro sorso di caffè con una certa veemenza. «Stavo mettendo su dei chili sui fianchi prima di tutto ciò. Non penso di essere una donna molto sensuale.» Mi piegai in avanti e sibilai tra i denti: «La terra non si muove per me». La dottoressa Schilling mi tolse la tazza del caffè di mano. Notai che aveva lasciato un cerchio sulla scrivania di Clive, ma che importava. Dopo l'avrei pulita con quel prodotto meraviglioso e sarebbe scomparsa, come per magia. Avrei lavato anche i vetri delle finestre, così sarebbe sembrato che non ci fossero barriere tra me e il mondo esterno. «Non è quello che volevo dire, ma lei continua a farmi domande sulla mia vita sessuale. Ho fatto un elenco di uomini che penso si comportino in modo strano verso di me.» Glielo sventolai davanti. «È abbastanza lungo, devo dire. Ma ho messo degli asterischi vicino a quelli più strani, per aiutarvi.» Diedi un'occhiata all'elenco strizzando gli occhi. Quella mattina la mia scrittura era piuttosto scomposta, o forse ero troppo stanca per andare diritto, anche se non mi sentivo stanca. Stadler mi prese l'elenco di mano. «Posso avere una sigaretta?» gli domandai. «So che lei fuma, anche se non lo fa davanti a me, perché l'ho vista fuori della finestra. Io la osservo, sa, ispettore Stadler, la osservo mentre lei osserva me.» Lui prese un pacchetto di sigarette dalla tasca, ne tolse due e le accese, poi me ne passò una. Fu un gesto stranamente intimo, e io feci un balzo indietro e mi misi a ridacchiare. «Gli amici di Clive sono strani» dissi tossendo in modo eccessivo. Quando aspirai il fumo la terra mi ballò sotto i piedi e gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Hanno l'aria rispettabile, ma scommetterei che hanno tutti un'amante o la vorrebbero. Gli uomini sono come animali allo zoo. Bisogna metterli in gabbia per evitare che scappino dappertutto. Le donne sono le guardiane dello zoo. Questo è il matrimonio, non pensa? Cerchiamo di addomesticarli. Così magari il matrimonio è come un circo, più che uno zoo. Boh, non so. «Ho cercato di pensare a tutti coloro che sono venuti in questa casa, anche quelli che non compaiono nella rubrica o nell'agenda. Non so da dove cominciare. Ovviamente ci sono tutti quelli che lavorano nel giardino e nella casa. Tutti sanno come si comportano questi tizi. Ma per essere onesti, gli uomini si comportano nello stesso modo ovunque. Proprio ovunque.
I padri dei bambini alla scuola di Harry, o i ragazzi al club di computer di Josh. Ci sono un bel po' di strani tipi là. E...» Avrei voluto continuare, ma la dottoressa Schilling mi mise una mano sulla spalla. «Jenny, venga con me, le preparo la colazione» disse. «È ancora solo ora di colazione? Mio Dio. Be', almeno ho tempo di pulire le camere dei ragazzi. Ma non ho ancora passato in rassegna l'elenco per bene.» «Venga.» «Mi sono liberata di Mary, sa.» «Davvero?» «Quindi ora sono da sola. Be', da sola con Chris e Clive. Ma loro non contano.» «Che cosa intende dire?» «Non mi aiuteranno, no? Gli uomini di solito non lo fanno. Almeno questa è stata la mia esperienza.» «Pane tostato?» «Qualsiasi cosa. Non mi importa. Mio Dio, questa cucina è un disastro, no? Che disordine! Come diavolo riuscirò a sistemare tutto senza l'aiuto di nessuno?» DIECI Dopo, le cose divennero un po' vaghe. Dissi di voler andare a fare spese e penso di aver anche cominciato a cercare il soprabito. Ma non riuscii a trovarlo e intorno a me tutti continuavano a dirmi di non uscire. Sentivo arrivare voci da ogni direzione e sembravano anche gracchiare dall'interno, da dentro il cranio, come api che mi ronzavano intorno al cervello aspettando di pungermi. Cominciai a urlare a tutti di andarsene e di lasciarmi in pace. Le voci ammutolirono ma mi sentii afferrare per un braccio. Ero in camera da letto e la dottoressa Schilling mi era così vicina che sentivo il suo fiato sul viso. Mi diceva qualcosa che non capivo. Sentii un dolore al braccio e poi tutto, molto lentamente, divenne buio e silenzioso. Mi sembrava di essere in fondo a un pozzo nero. Ogni tanto ne emergevo e vedevo dei volti, che mi dicevano cose che non capivo, poi sprofondavo di nuovo nella confortante oscurità. Quando mi svegliai, tutto mi parve completamente diverso. Grigio e freddo, e in generale orribile. Una poliziotta era seduta accanto al letto. Mi guardò, si alzò e uscì dalla camera. Avrei voluto ritornare a dormire, ricadere nell'incoscienza, ma non ci
riuscii. Pensai a quello che avevo fatto e decisi che era meglio non pensarci. Non sapevo che cosa mi fosse preso, ma non aveva senso indugiarvi. Poi la dottoressa Schilling e Stadler entrarono. Sembravano leggermente nervosi, come se fossero entrati nell'ufficio della direttrice. Mi parve buffo, ma probabilmente pensavano che avrei continuato a comportarmi in maniera stupida. Dovevo star meglio, perché mi sentii irritata dalla presenza di quelle due persone nella mia camera da letto. Abbassai gli occhi e vidi che avevo addosso la camicia da notte verde. Chi mi aveva spogliata e messo la camicia? Chi era presente quando venivo spogliata? Un'altra cosa a cui era meglio non pensare. Stadler rimase sulla porta, ma la dottoressa Schilling venne avanti con in mano uno di quei tazzoni di terracotta francese che in verità uso per i bambini. La gente non capisce queste cose. La cucina Hintlesham era una faccenda complicata che capisco solo io. Dio solo sa che cos'altro combinavano là sotto. «Le ho portato del caffè» disse. «Nero, come piace a lei.» Mi sedetti e presi il tazzone caldo tra le mani. Le bende mi rendevano un po' goffa, ma mi proteggevano dal calore. «Vuole la vestaglia?» «Grazie. Quella di seta.» Posai il caffè sul comodino e mi avvolsi nella vestaglia con molte contorsioni. Pensai a quando avevo tredici anni e mi contorcevo così per mettermi il costume da bagno nascosta da un asciugamano che mi avvolgevo intorno. Ero ancora stupida come allora. A nessuno importava di vedermi. La dottoressa Schilling accostò una sedia e Stadler si mise al fondo del letto. Ero decisa a non parlare. Non avevo nulla di cui scusarmi e desideravo solamente che se ne andassero. Ma non ero mai riuscita a sopportare i silenzi, così fui io a rompere il ghiaccio. «Mi sembra l'ora delle visite in ospedale» dissi, con più di una traccia di sarcasmo. Loro non fecero commenti. Rimasero a guardarmi con odiose espressioni di simpatia e solidarietà. Se c'è una cosa che non sopporto è essere compatita. «Dov'è Clive?» «È rimasto a vegliarla durante la notte. Oggi è martedì. Lui è dovuto andare al lavoro, ma gli farò uno squillo tra un minuto per dirgli come sta.» «Deve essere stufa di me» dissi alla dottoressa Schilling. «È buffo» rispose, «perché stavo pensando alla stessa cosa. Voglio dire l'opposto, suppongo. Penso che lei debba essere piuttosto stufa di me. Abbiamo parlato di lei.»
«Ci avrei scommesso.» «Non male, però. Una delle cose di cui abbiamo discusso... o piuttosto parlato...» Lanciò un'occhiata a Stadler, ma lui stava giocherellando con il nodo della cravatta e non sembrava prestare attenzione, «... è che pensiamo di non essere stati abbastanza aperti con lei e io vorrei fare qualcosa per correggere questa situazione. Jenny...» Fece una breve pausa. «Jenny, per prima cosa desidero scusarmi se lei mi ha trovata invadente. Penso che sappia che di solito faccio la psichiatra. Ma in questa circostanza il mio compito è fare il possibile per aiutare la polizia a catturare quest'individuo pericoloso.» Mi parlava con grande gentilezza, come un dottore che si rivolge a un bambino a letto con la febbre. «Lei è diventata l'oggetto dell'attenzione ossessiva di un individuo. Uno dei modi di prendere costui è scoprire che cosa ha attratto la sua attenzione e ciò a volte comporta una certa invadenza da parte mia nei suoi confronti. Ma voglio semplicemente dirle che so che lei ha già un dottore molto bravo e non voglio prendere il suo posto. Né voglio dirle come deve vivere.» Le feci una specie di broncio sarcastico, se è possibile. Improvvisamente ebbi davanti a me l'immagine di quei due che decidevano di trattarmi con delicatezza e «sensibilità». Quella buffa Jenny Hintlesham che doveva essere presa con i guanti. «Penso che abbia scoperto che sono un po' matta» dissi. Volevo che fosse una battuta sprezzante, ma venne fuori in modo tutto sbagliato. La dottoressa Schilling non sorrise. «Vuol dire ieri?» Non dissi nulla. Non intendevo parlare di ciò che era successo ieri. «Lei è sotto pressione. Siamo qui che cerchiamo di fare qualcosa per aiutarla, ma la pressione è su di lei. È lei a essere in una posizione difficile. Voglio che sappia che la capiamo.» Sollevai la mano bendata e la guardai. Forse era la mia immaginazione, ma mi sembrava che il dito mi facesse più male quando lo guardavo. «Sente il mio dolore, vero?» dissi con amarezza. «Non voglio la sua simpatia» aggiunsi con calma. «Voglio solo che lei faccia finire tutto questo.» Mi aspettavo che la dottoressa Schilling si seccasse, si innervosisse, ma lei non reagì quasi. «Lo so» rispose. «L'ispettore Stadler le parlerà di questo.» Scostò un po' la sedia, e Stadler si avvicinò. Aveva l'espressione di un amabile poliziotto di campagna che va in una scuola elementare per tenere ai bambini una lezione sulla sicurezza stradale. Era strana sul suo viso libertino. Si prese una sedia. «Tutto bene, Jenny?» disse.
Fui leggermente scioccata che mi chiamasse per nome, ma annuii. Era molto vicino. Notai per la prima volta che aveva una fossetta sul mento. Erano tentatrici, quelle fossette. «Lei si starà chiedendo come mai non riusciamo a prendere quest'uomo. È il nostro lavoro o no? Non starò a farle una lezione, ma il fatto è che la maggior parte dei delitti sono molto facili da risolvere. Perché chi li commette non presta tanta attenzione. Qualcuno colpisce qualcun altro, o ruba, e un terzo li vede e la cosa finisce qui. Li prendiamo ed è fatta. Ma la persona che le manda quelle lettere è diversa. Non è un genio, ma questo è il suo hobby e ci mette un sacco di energia. Avrebbe potuto benissimo mettersi una giacca a vento e andare a guardar passare i treni. Ma invece ha deciso di prendere di mira lei.» «Mi sta dicendo che non riuscite a prenderlo?» «È difficile prenderlo nel solito modo.» «È riuscito ad arrivare fin sotto casa. Sotto il vostro naso.» «Le chiediamo venia» disse Stadler con un sorriso imbarazzato. «Ma è di fondamentale importanza» lo interruppe la dottoressa Schilling. «Potrebbe assalire le donne se volesse. Il suo obiettivo è invece mostrare che ha potere e controllo su una donna.» «Non mi interessa la psicologia di quest'uomo» intervenni seccata. «A me sì» rispose la dottoressa Schilling. «La sua psicologia è uno dei nostri principali mezzi per prenderlo. Dobbiamo usarla. E uno dei modi per farlo è cercare di vedere le cose come le vede lui. Non è carino per lei, temo.» «Dipendiamo da lei» continuò Stadler. «Ci dispiace metterla in uno stato di pressione ancora maggiore, ma vorremmo che lei pensasse alla sua vita e ci facesse sapere se ci trova qualcosa fuori dell'ordinario.» «Non si tratta di un comune guardone» disse la dottoressa Schilling. «Potrebbe essere una persona in cui lei si imbatte per strada più spesso di quanto crede. Potrebbe essere un amico che improvvisamente le presta un po' più di attenzione, o un po' meno. Vuole far sfoggio del suo potere, per cui è importante che lei valuti attentamente le persone che la circondano, e quello che potrebbero avere di diverso o di fuori posto. Quest'individuo vuole dimostrare che può farle ciò che vuole.» Sbuffai. «Non è tanto questione di cose nuove che spuntano fuori, ma di vecchie che scompaiono» dissi. Stadler alzò gli occhi bruscamente. «Che cosa intende?»
«Nulla che potrebbe servirle. Non ha mai fatto trasloco? Ci son voluti due camion per trasferire la nostra roba e sono convinta che ce ne sia ancora uno che sta girando per l'autostrada con tutti gli oggetti che non sono entrati negli altri due. Scarpe, elettrodomestici vari, il mio maglione preferito, dica lei.» «Tutto ciò è accaduto durante il trasloco?» «Non sia ridicolo. Quest'individuo non avrebbe potuto rubare tutta quella roba a meno che non fosse venuto con un camion e quattro aiutanti. Anche voi avreste notato una cosa simile.» «Comunque...» disse Stadler come perso in un pensiero. Si piegò verso la dottoressa Schilling e le mormorò qualcosa, evidentemente una cosa così interessante da dover essere tenuta segreta. Poi alzò lo sguardo. «Jenny, ci può fare un favore?» Sembrava una specie di mercatino dell'usato organizzato da un pazzoide cieco. Dopo aver avvertito per telefono, i due mi portarono in una stanza speciale della polizia dove, mi disse Stadler, c'erano degli oggetti in mostra. In auto la dottoressa Schilling mi aveva preso una mano, un gesto che mi aveva fatto rabbrividire, e aveva detto che avrei dovuto guardare quegli oggetti e dire ciò che mi veniva in mente. L'unica cosa che mi venne in mente era che fosse una miserabile accozzaglia di cianfrusaglie. Quella roba mi fece quasi ridere. Un pettine, dei mutandoni rosa piuttosto volgari, un orsacchiotto soffice, un sasso, un fischietto, delle carte pornografiche. «Onestamente» dissi, «non riesco a capire che cosa vi aspettiate...» E proprio in quel momento sentii come se mi avessero dato un pugno nello stomaco e la scossa contemporaneamente. Eccolo. Il buffo piccolo medaglione. Mi vennero alla mente tutte insieme cose diverse. Un giorno e una notte a Brighton per il nostro primo anniversario. Negli anni seguenti eravamo andati in posti più belli, ma quello era stato l'anniversario migliore. Avevamo passeggiato per tutte quelle stradine interne piene di negozietti e avevamo riso degli orridi souvenir, e poi avevamo individuato quel medaglione in una gioielleria e Clive era entrato e l'aveva comprato. E mi venne in mente anche un altro stupido pensiero. Quella notte in albergo Clive mi aveva tolto tutti i vestiti, ma mi aveva lasciato al collo il medaglione, che pendeva tra i seni. L'aveva baciato e poi mi aveva baciato i seni. Era pazzesco pensare quali strane cose si ricordavano. Mi sentii avvampare e dovetti trattenermi dallo scoppiare a piangere. Lo presi e sentii
il peso familiare nel palmo. «Carino, vero?» disse Stadler. «È mio» risposi. Sul suo viso comparve un'espressione totalmente idiota. Quasi comica. «Che cosa?» rantolò. «Me l'ha regalato Clive» risposi come in sogno. «L'avevo perso.» «Ma... ne è sicura?» «Certo. Sul retro c'è un piccolo fermaglio che lo apre e dentro c'è una ciocca di miei capelli. Ecco, guardi.» Lui lo osservò. «Sì» disse. Anche la dottoressa Schilling stava fissando il medaglione con aria inebetita. Poi si guardarono a bocca aperta. «Aspetti» fece lui. «Aspetti.» E uscì dalla stanza di corsa. UNDICI Non capivo. Non ci capivo nulla. Assolutamente nulla. Mi sembrava di aver davanti uno di quegli orribili giochi per computer che Josh riceve per posta e che illuminano il suo viso imbronciato, ma di cui io non capisco nulla, neppure la lingua, l'alfabeto in cui sono scritti. Per me sono solo puntini, sbarrette, segni e codici. Mi voltai a guardare la dottoressa Schilling, sperando che mi spiegasse che cosa stava succedendo, ma lei si limitò a uno dei suoi sorrisi rassicuranti e senza senso, che mi facevano rabbrividire. Poi guardai di nuovo il medaglione, posato in mezzo alla curiosa accozzaglia di oggetti. Allungai una mano e lo toccai con un dito, leggermente, come se potesse scoppiarmi in faccia. «Vorrei ritornare a casa» dissi, senza veramente intenderlo, ma tanto per rompere il silenzio di quella stanzetta incolore. «Subito» rispose la dottoressa Schilling. «Vorrei mangiare qualcosa. Sono affamata.» Lei annuì, ma in modo assente. Era leggermente accigliata. «Quando è stata l'ultima volta che ho mangiato? Mi sembrano passati secoli.» Cercai di passare in rassegna gli ultimi giorni, ma era come scrutare nel buio. «C'è qualcuno che mi può dire come sia finito qua il mio medaglione?» «Sono sicura che...» Ma fu interrotta da Stadler che ritornava con Links. Erano entrambi molto agitati quando vennero a sedersi di fronte a me. Links sollevò il meda-
glione tenendolo per la catena. «È proprio sicura che appartiene a lei, signora Hintlesham?» «Certo che lo sono. Clive deve anche averne una fotografia da qualche parte. L'ha fatta per l'assicurazione.» «Quando l'ha perso?» Ci dovetti pensar su. «È difficile dirlo. Mi ricordo di averlo indossato a un concerto. Era il 9 di giugno, il giorno prima del compleanno di mia madre. Un paio di settimane dopo volevo mettermelo a una festa di lavoro di Clive, ma non sono riuscita a trovarlo.» «Che giorno era?» «Mio Dio, la mia agenda ce l'ha lei. Ma era giugno, la fine di giugno.» Stadler abbassò gli occhi su un taccuino che aveva sulle ginocchia e fece un cenno del capo come se fosse soddisfatto. «Che cos'ha di importante? Dove l'avete trovato?» Stadler mi guardò negli occhi e io cercai di sostenerne lo sguardo. Per un istante pensai che mi avrebbe detto qualcosa, ma quel momento passò e lui riabbassò gli occhi sul taccuino con un'espressione di segreta soddisfazione sul volto. Nella stanza ci fu un breve e strano silenzio, che ruppi dicendo ad alta voce: «Per favore, qualcuno può dirmi che cosa sta succedendo?» Ma lo dissi senza convinzione. La mia irritazione sembrava essersi dissolta. «Non capisco.» «Signora Hintlesham» intervenne Links, «possiamo solamente affermare...» «Non ora» lo interruppe bruscamente la dottoressa Schilling, alzandosi. «Ora riporterò a casa Jenny. È stata sottoposta a forti tensioni, non è stata bene. Più tardi.» «Affermare che cosa?» «Venga, Jenny.» «Non mi piacciono i segreti. Non mi piace che si sappiano cose di me che io non so. L'avete preso? È di questo che si tratta?» La dottoressa Schilling mi mise una mano sotto il gomito e io mi alzai. Perché diavolo avevo indosso quei pantaloni di cotone? Erano anni che non li mettevo; non mi stavano per niente bene. Si comportavano tutti in maniera strana. La casa era piena di un nuovo genere di energia, come se le tendine fossero state tirate su, le finestre spa-
lancate. Nessuno mi diceva niente, naturalmente, ma la dottoressa Schilling ritornò con me e con una poliziotta dall'aria annoiata. Links e Stadler comparvero poco dopo. Non facevano che rivolgersi cenni, e mormorare, e lanciarmi occhiate, e distogliere gli occhi quando io alzavo i miei. La dottoressa Schilling non sembrava contenta come gli altri. «Pensa di poter chiamare suo marito, signora Hintlesham?» domandò Stadler seguendomi in cucina. «Perché non può telefonargli lei?» «Vorremmo parlargli. Abbiamo pensato che fosse più gentile che lo chiamasse lei.» «Quando?» «Immediatamente.» «Per quale motivo?» «Abbiamo bisogno di chiarire un paio di punti.» «Abbiamo un party questa sera. È importante.» «Prima riusciremo a parlargli, prima sarete liberi.» Presi il telefono. «Sarà seccato» dissi. Fu molto seccato. Il telefono squillò. Erano Josh e Harry che chiamavano dall'America. Per loro era mattina presto, ma sembrava che stessero chiamando da dietro l'angolo e che dovessero entrare di corsa in casa da un momento all'altro. Harry mi disse che aveva catturato una specie di pesce persico nel lago e aveva imparato ad andare sul windsurf. Josh mi domandò come andavano le cose a casa con la voce un po' da bambino un po' da adulto, come gli succedeva quando era molto emozionato. «Bene, caro.» «Ci sono ancora i poliziotti?» «Penso che stiano facendo progressi.» Fui percorsa da un'ondata di speranza. «Dobbiamo star qui ancora due settimane?» «Non essere sciocco caro, ti stai divertendo un mondo. Avete abbastanza soldi fino alla fine?» «Sì, ma...» «E vi ho messo in valigia i vestiti giusti? Oh, e ricordati di dire a Harry che nel tuo zaino ci sono altre pile per il suo walkman.» «Sì.» Riagganciai il telefono con la sensazione che la conversazione non fosse
stata un gran successo. Christo mi passò vicino, trascinandosi dietro una coperta. Quando vidi il suo viso imbronciato e sudicio fui invasa dai sensi di colpa. «Ciao, Christo» gli dissi. «Mamma può avere un abbraccio?» Lui si voltò verso di me. «Non sono Christo» mi rispose. «Sono Alexander. E tu non sei la mia mamma.» Lena lo chiamò dalla sua stanza, con quell'accento svedese cantilenante, e lui sollevò la testa bionda. «Vengo, mamma» urlò, lanciandomi uno sguardo di trionfo mentre correva via. Cambiai i calzoni con un prendisole giallo dalla vita bassa e misi degli orecchini. Mi guardai allo specchio. Non ero truccata. Avevo il volto sottile e pallido, i capelli scompigliati, gli occhi stranamente brillanti, anche se la pelle di sotto era sottile come carta velina e sulla guancia avevo un lungo graffio rosso. Come me l'ero fatto? Non mi riconoscevo quasi più. La dottoressa Schilling mi ordinò di mangiare l'omelette, che aveva preparato usando le erbe aromatiche che avevo messo da parte per la cena dopo il cocktail party. Pazienza. La mangiai in quattro forchettate, quasi senza masticare, mandando giù bocconi di pane nero, leggermente stantio, a ogni forchettata. Non mi ero resa conto di essere tanto affamata. Intanto lei mi guardava con il mento appoggiato a una mano, fissandomi come se la stupissi. Presto, pensai, riprenderò il controllo di tutto, pulirò la casa, richiamerò gli operai, il giardiniere, la donna delle pulizie, respirerò profondamente e troverò l'energia per essere di nuovo Jenny Hintlesham. Domani. Ricomincerò domani. Ma per il momento provavo una sorta di piacere nell'essere passiva, nell'essere accudita. Non mi sembrava più di stare a casa mia, ma semplicemente in un posto dove dovevo aspettare che succedesse qualcosa. Tutti stavano aspettando che succedesse qualcosa. Spalancai gli occhi di scatto. Una chiave girò nella serratura, una porta sbatté rumorosamente, passi pesanti risuonarono nell'ingresso. «Jenny. Jens, dove sei?» Grace Schilling si alzò insieme a me. Stadler e Links si precipitarono nell'ingresso prima di noi. Ci ritrovammo tutti presso le scale. «Che cosa sta succedendo?» Clive era irritato. Aveva parlato ad alta voce e bruscamente, tanto che mi fece venire mal di testa. Poi vide una scatola con i suoi preziosi documenti sul pavimento dell'atrio e sulla fronte cominciò a pulsargli una vena per la collera.
«Signor Hintlesham» lo salutò Stadler, «la ringrazio di essere venuto.» Era molto più alto di Clive, che accanto a lui appariva tozzo e accaldato. «Sì?» Si rivolgeva a Stadler come a un funzionario di rango particolarmente basso. «Vorremmo che venisse con noi» disse Links. Clive lo fissò. «Che cosa vuol dire? Perché non qui?» «Vorremmo che lei facesse una deposizione. Sarebbe meglio.» Clive guardò l'orologio. «Per l'amor del Cielo, mi auguro per voi che sia una cosa importante.» «Prego» disse Stadler, tenendo la porta aperta a Clive che, prima di uscire, si voltò verso di me. «Telefona a Jan e inventati qualcosa» mi disse in modo tagliente. «Qualsiasi cosa, purché non ci faccia apparire stupidi. E chiama anche Becky. Va' a quel party e cerca di essere allegra, come se tutto fosse normale, capito?» Gli misi una mano sul braccio, ma lui la scosse via violentemente. «Sono stufo di questa roba» disse. «Stufo marcio.» Grace Schilling andò con loro, abbottonandosi la lunga giacchetta con decisione prima di varcare la soglia. Telefonai all'ufficio di Clive e dissi a Jan che Clive aveva mal di schiena. «Di nuovo?» commentò lei sarcasticamente, per chissà quale ragione a me oscura. Dissi la stessa cosa a Becky Richards due ore dopo e lei si mise a ridere con simpatia. «Gli uomini sono dei tali ipocondriaci, non è vero?» Diedi un'occhiata alla sala, le donne erano tutte in nero e gli uomini in abito scuro. Per fortuna conoscevo di vista la maggior parte degli invitati, ma improvvisamente sentii di non avere energia per attaccare discorso. Non riuscivo a pensare a nulla da dire. Mi sentivo totalmente vuota. DODICI Clive non arrivava e io mi sentivo sempre più fuori posto in quella festa, a giocherellare con il bicchiere, guardare i quadri, passare da una stanza all'altra come se dovessi incontrarmi con qualcuno da qualche parte. Mi accorsi, quasi con un senso di orrore, che essere a un party da sola era diventata per me un'esperienza cui non ero affatto preparata. Ero a disagio. A volte, scherzando, dicevo a Clive che andando insieme alle feste sapevo benissimo che in realtà la gente voleva vedere lui, e io ero lì solo come la
signora Clive. Così quando Becky mi annunciò che alla porta c'era una persona che mi cercava, provai un senso di sollievo più che di imbarazzo. «Un poliziotto» mi disse con un certo stupore, ma con tatto. Perché noi tutti sappiamo che cosa significa la presenza di un poliziotto alla porta di persone normali: un incidente, una morte, una sparizione. Ma io non ero più una persona normale come loro. Andai alla porta senza preoccupazioni. C'era Stadler con un poliziotto in divisa che non avevo mai visto prima. Becky mi girò attorno per un momento, cercando di rendersi utile e di curiosare. Il poliziotto non parlò e io mi voltai a guardarla con aria interrogativa. «Se posso essere d'aiuto, mi troverete dentro» disse, e se ne andò riluttante. Mi voltai di nuovo verso il poliziotto. «Mi dispiace disturbarla» disse. «Sono stato mandato a comunicarle che suo marito non la raggiungerà. Lo stanno ancora interrogando.» «Oh» risposi, «ci sono problemi?» «Stiamo solo cercando di chiarire alcuni particolari.» Rimanemmo sulla soglia della casa di Becky a guardarci. «A dir la verità non ho molta voglia di ritornare alla festa.» «Possiamo darle un passaggio a casa, se desidera» mi propose Stadler. Poi aggiunse: «Jenny» e io arrossii violentemente. «Vado a prendere il soprabito.» Nessuno mi parlò, nel breve tragitto verso casa. Stadler e l'altro poliziotto mormorarono qualcosa tra loro un paio di volte. A casa Stadler mi accompagnò su per gli scalini. Mentre giravo la chiave nella serratura ebbi la sensazione, per un assurdo momento, che stessimo ritornando a casa da una serata passata insieme e che ci stessimo dando la buonanotte. «Clive ritornerà a casa questa sera?» domandai con tono fermo, come per dimostrare a me stessa che si trattava di una stupidaggine. «Non lo so» rispose Stadler. «Per che cosa lo state interrogando?» «Abbiamo bisogno che lui confermi alcuni particolari delle indagini.» Mentre parlava, Stadler si guardava intorno con indifferenza. «Ah, c'è anche un'altra cosa. In seguito a questa svolta delle indagini vorremmo fare una perquisizione accurata della casa domani mattina. Ha obiezioni?» «Non credo. Non riesco a immaginare che ci sia ancora qualcosa da scoprire. Dove volete fare la perquisizione?» Stadler assunse di nuovo un'aria indifferente. «In vari luoghi. Di sopra.
Forse nello studio di suo marito.» Lo studio di Clive. Era stata la prima stanza della nuova casa che avevamo reso abitabile, cosa un po' strana visto che nessuno l'avrebbe usata se non lui. In tutte le case che avevamo avuto, Clive aveva sempre insistito su un punto: una stanza che fosse la sua tana privata, per le sue cose. Quando avevamo deciso la destinazione delle stanze, mi ricordavo di aver protestato con una risata perché io non avevo il mio santuario personale, e lui aveva risposto che non importava poiché tutta la casa era il mio santuario. Lo studio non era propriamente sbarrato, ma non ce n'era bisogno. Ai ragazzi era proibito entrarci sotto pena di torture e morte. Io non ne ero affatto esclusa, ovviamente. A volte ci entravo, quando Clive stava lavorando ai suoi conti o scrivendo lettere e lui non si arrabbiava né mi diceva di andarmene. Ma si voltava verso di me, prendeva il caffè o ascoltava quello che avevo da dirgli, poi aspettava che me ne andassi. Diceva che non riusciva a lavorare se c'ero io. Così fu con un senso del proibito che, dopo aver fatto un giro a controllare la casa ed essermi infilata camicia da notte e vestaglia, andai nel suo studio. Accesi la luce e quando andai a chiudere le tende per non sentirmi osservata, provai un senso di colpa. Lo studio era a immagine di Clive: ordinato, preciso, ben organizzato, quasi spoglio. Alle pareti pochi quadri: un piccolo acquerello sfumato di una barca a vela che aveva ereditato da sua madre; una vecchia stampa della sua scuola privata, che gli avevano regalato da ragazzo; una fotografia di lui con un gruppo di colleghi a una cena per celebrare qualcosa, tutti con il sigaro in bocca, il volto arrossato, i bicchieri vuoti e le braccia intorno alle spalle del vicino, e Clive con l'aria leggermente a disagio e spiritata. Non gli faceva piacere essere toccato, specialmente da altri uomini. Lo studio di mio marito. Che cosa c'era che potesse suscitare interesse? Non mi sarei messa a curiosare tra le sue cose, naturalmente. L'idea di fare una cosa del genere mentre lui era alla polizia mi sembrava terribilmente sleale. Volevo solamente dare un'occhiata. Poteva essere importante se avessi dovuto parlare in suo favore. Questo era ciò che mi dicevo. Lo studio conteneva due schedali, uno alto e marrone, l'altro basso, tozzo e di metallo grigio. Li aprii entrambi e sfogliai le cartelline di documenti, che erano di una noia mortale. Documenti sul mutuo, libretti di istruzioni, ricevute, conti, fatture, garanzie, lettere di contabili a non finire. Provai per Clive un piccolo rigurgito d'amore. Faceva tutto questo perché non do-
vessi farlo io. Lasciava a me la parte creativa e interessante dei lavori e lui si sobbarcava quella noiosa. Ed era tutto a posto, tutto perfetto. Non c'era nulla in sospeso, nessun conto non pagato o lettera non risposta. Che cosa avrei combinato senza di lui? Non guardai i singoli documenti. Volevo solo controllare che non ci fossero cartelline contenenti cose non noiose. Chiusi il secondo schedario. Mi sembrava tutto molto stupido. Non c'era nulla che potesse essere di interesse per la polizia a meno che non volessero verificare le condizioni del nostro mutuo. Sarebbe stata solo l'ennesima pista sbagliata. Gliel'avrei potuto dire subito anch'io, se solo me l'avessero domandato. Aprii il piano scorrevole della scrivania, facendo un rumore orribile. Mi guardai intorno nervosamente. Stavo attenta a non fare nulla che non si potesse disfare nel giro di pochi secondi, nel caso suonassero alla porta. Non c'era nulla di interessante in ogni modo. Clive aveva la regola ferrea di rimettere sempre in ordine la scrivania prima di alzarsi. Sul suo piano infatti non c'era nulla se non penne, matite, gomme, un temperamatite elettrico piuttosto costoso, elastici, graffette, tutti nel loro apposito contenitore. C'erano dei casellari con buste, fogli, cartoncini, etichette. Se non altro la polizia sarebbe rimasta colpita. Non rimanevano che i cassetti. Mi sedetti sulla sua sedia. Sopra le mie ginocchia c'era un cassetto poco profondo. Cartoline. Le esaminai. Tutte bianche. Poi i cassetti sui lati. Libretti di assegni, nuovi e finiti. Brochure per le vacanze invernali. Una pila di documenti di Matheson Jeffries, il posto in cui lavorava. Tutti incredibilmente tediosi. Il cassetto in basso a destra conteneva buste marroni piuttosto gonfie. Esaminai quella in cima. Era piena di lettere scritte a mano. Tutte con la stessa calligrafia. Sbirciai la fine di una di esse. Era una lunga lettera su tre fogli di carta, firmata «Gloria». So che una delle scorrettezze peggiori è leggere la corrispondenza altrui. Mi venne in mente il detto: «Nessuno sente mai parlar bene di se stesso origliando». Sapevo che non avrei dovuto leggere quelle lettere, che avrei dovuto rimetterle al loro posto e andare a dormire senza pensarci più. Ma mi venne anche in mente che il giorno dopo la polizia avrebbe potuto leggerle. Non sarebbe stato meglio avere un'idea di quello che contenevano? Scesi a un compromesso: mi misi a sfogliarle leggendo una frase qua e una là. Potrebbe sembrare difficile capirci qualcosa in questo modo, ma le parole mi balzavano davanti in modo inequivocabile: «caro... mi manchi disperatamente... ripenso alla notte passata... contando le ore». Stranamen-
te il mio primo sentimento non fu di collera contro Clive o contro Gloria. All'inizio provai più che altro disprezzo per la banalità delle lettere. Dovevano per forza esprimersi con le stesse frasi trite e ritrite di tutti? Non avrebbero potuto far di meglio? Poi pensai a lei quella sera a cena, quando l'avevo incontrata; la rividi che si chinava a mormorargli qualcosa, o gli lanciava sguardi attraverso il tavolo, e le guance mi si infiammarono. Rimisi attentamente le lettere nella busta. L'ultima era la più recente. Non avrei dovuto leggerle, non mi avrebbero procurato altro che dolore e umiliazione. Ma volli leggerne un altro pezzo. Un paragrafo intero, non solo una frase. Avrei concesso a Gloria un paragrafo per riscattarsi. L'ultimo della lettera più recente. Dovevo sapere qual era la mia posizione. «E ora devo chiudere, mio caro. Sto scrivendo dall'ufficio ed è ora di tornare a casa. Mi è insopportabile non poterti vedere, ma a settembre avremo Ginevra.» Ginevra. Un viaggio di lavoro. Non me ne aveva ancora parlato. «Sembra orribile dirlo, ma a volte anch'io la odio, quasi quanto te.» Posai la lettera e deglutii con fatica, ma il nodo in gola non andò giù. Mi odiava. Allora mi odiava. Non mi amava né mi voleva bene. Non era neppure indifferente. Mi odiava. Abbassai di nuovo gli occhi sulla lettera. «Ma non dobbiamo. Escogiteremo un sistema e prima o poi riusciremo a stare insieme. Troveremo il modo. Quando me l'hai detto, ti ho creduto. Tutto il mio più grande amore, Gloria.» Piegai la lettera e la infilai attentamente in fondo alla busta, al suo posto. Guardai le altre buste gonfie nel cassetto e il pensiero di quello che contenevano mi riempì di desolazione. Sollevai quella che era in cima e sotto c'era una fotografia. Di una donna, ma non era Gloria. Era a una festa. Aveva un bicchiere in mano e lo alzava in modo scherzoso rivolto al fotografo, ridendo. Era diversa da tutte le donne che conoscevo. Strano. Piccola, magra e molto giovane. Capelli biondo scuro, gonna corta, camicetta buffa. Tutto molto casual. Per un assurdo momento pensai che era simpatica, che avrebbe potuto essere una mia amica, e poi mi venne male, una gran rabbia, e non potei più sopportare di guardare. Rimisi la foto sotto la seconda busta e chiusi il cassetto. Uscii dallo studio ricordando di spegnere la luce. TREDICI
Ero al buio. La mia vita era diventata un luogo oscuro. Tutto ciò che avevo dato per scontato mi stava crollando addosso. Avevo pensato che fuori ci fosse qualcuno che voleva farmi del male, e mi era sembrata una cosa terribile, ma ora capivo che non avevo neppure più un posticino in cui sentirmi al sicuro. Né fuori né in casa, accanto alla persona a cui ero sposata da quindici anni. Non ero più sicura neanche nella mia stanza, nel mio letto. Da nessuna parte. Josh e Harry erano in America, in una tenda in montagna, lontani da casa. Christo faceva finta che non fossi più sua madre. E Clive mi odiava: almeno questo era ciò che aveva detto a Gloria. A letto, quella notte, ripetei tra me quella parola, quasi provandola, come si fa con le pile posandovi la lingua. Mi odiava. Odiava. La parola mi bruciava nel cervello. Mio marito mi odiava. Da quanto, mi domandai, mi stava odiando? Da quando aveva incontrato Gloria o da prima? Da sempre? Fuori gli alberi fremettero a un debole soffio di vento. Immaginai degli occhi, là fuori, che fissavano la finestra. Forse mio marito mi voleva morta. Mi misi a sedere sul letto e accesi la luce accanto a me. Era ridicolo. Una cosa folle a pensarci. Però, perché la polizia lo stava trattenendo così a lungo? All'alba, dopo una notte di sogni confusi, andai nella camera di Christo e mi sedetti accanto a lui mentre dormiva. Un po' di luce stava già filtrando attraverso le tende; sarebbe stata un'altra giornata infuocata. Christo si era tirato via le coperte e aveva la giacchetta del pigiama sbottonata. Teneva stretto nel pugno il delfino di peluche che Lena gli aveva comprato allo zoo. Aveva la bocca leggermente aperta e ogni tanto bofonchiava qualcosa di incomprensibile. Oggi, pensai, lo manderò con Lena dai miei genitori. Avrei dovuto farlo prima. Questo non era un posto per bambini. La polizia arrivò presto. Tre poliziotti si recarono nello studio di Clive come fossero un corpo d'assalto. Feci finta che non ci fossero. Preparai una colazione elaborata a Christo e Lena, ma Lena, che non mangiava mai nulla, si limitò a piluccare con la forchetta il pomodoro al forno e spinse il resto del cibo ai bordi, facendo una montagnola per dare l'impressione di aver mangiato. E Christo, dopo aver rotto il rosso dell'uovo fritto e averlo sparso per tutto il piatto, disse che non gli piaceva e chiese i suoi cereali al cioccolato. Qual è la parolina magica, gli dissi automaticamente. Per favore. Per favore, poteva non mangiare quel disgustoso in-
truglio? La polizia se ne andò con alcuni scatoloni. Solo pochi mesi prima erano stati portati e ammucchiati a caso da un gruppo di traslocatori sgarbati e nervosi. Christo non domandò dov'era suo padre, perché di solito Clive era già uscito quando lui si svegliava. Usciva prima che si svegliasse e ritornava a casa dopo che era già andato a dormire. Mi odiava. Mio marito mi odiava. La cucina era in gran confusione. A dir la verità lo era tutta la casa, da quando avevo mandato via Mary. L'avrei pulita domani. Non oggi. Mi guardai le gambe nude. Dovevo di nuovo farmi la ceretta, pensai, e lo smalto alle unghie stava già cominciando a scheggiarsi. «Tutto bene, signora Hintlesham?» mi domandò Lena con la sua voce cantilenante. Che ragazza carina, così bionda e magra nel suo minuscolo prendisole, le braccia delicate appena abbronzate. Forse piaceva anche a Clive. La fissai finché il suo volto cominciò a sfocarsi. «Signora Hindesham?» «Bene.» Mi toccai il viso. La pelle sembrava sottile e vecchia. «Ho dormito male...» tergiversai. «Voglio vedere i cartoni.» «Non adesso, Christo.» «Voglio vedere i cartoni!» «No.» «Stupida.» «Christo!» Gli afferrai il braccio e lo pizzicai con forza. «Che cosa hai detto?» «Niente.» Gli lasciai andare il braccio e mi girai verso Lena, che aveva l'aria intimidita. «Oggi è un po' complicato» le dissi vagamente. «Forse potresti andare con Christo al parco, fare un picnic, farlo giocare.» «Non voglio fare il picnic.» «Per favore, Christo.» «Voglio stare con te.» «Non oggi, caro.» «Dài, Chrissy, vieni a scegliere i vestiti.» Lena si alzò. Non c'era da meravigliarsi che Christo la adorasse. Non si arrabbiava mai, gli parlava con quella buffa voce cantilenante. Mi presi la testa tra le mani. Dappertutto polvere e sporcizia. Roba da
stirare. Nessuno che mi aiutasse. Clive ancora alla polizia, che veniva interrogato. Che domande gli avevano fatto? Odia sua moglie, signor Hintlesham? Quanto la odia? Tanto da spedirle delle lamette? Christo e Lena uscirono insieme, mano nella mano. Christo aveva dei pantaloncini corti rossi e una maglietta a strisce. Fissai i resti della loro colazione che si raffreddavano nei piatti. E la finestra che aveva bisogno di essere lavata. Sulla lampada sopra di me c'era una ragnatela. Dov'era il ragno, mi domandai? Suonarono alla porta. Trasalii. Era Stadler, spiegazzato e sudato, con la barba di un giorno. Aveva l'aria di non aver dormito. «Posso farle solo un paio di domande, Jenny?» Ora mi chiamava sempre Jenny, come se fossimo amici o amanti. «Altre domande?» «Una» rispose con un sorriso stanco. Andammo di sotto, dove lui rifiutò l'offerta di caffè e colazione. Si guardò intorno. «Dov'è Lynne?» domandò. «Seduta fuori in auto. Le sarà passato accanto.» «Bene» disse lui ottusamente. Non sembrava del tutto sveglio. «Voleva farmi una domanda?» «Sì. Solamente un particolare. Si ricorda dov'era domenica diciotto luglio?» Feci un debole tentativo di ricordare e poi cedetti. «Lei ha la mia agenda, no?» «Sì. Quel giorno lei ha scritto solamente: "Comprare il pesce".» «Ah, sì, ora ricordo.» «Che cosa ha fatto?» «Sono rimasta a casa a cucinare.» «Con suo marito?» «No.» Stadler trasalì visibilmente, poi fece un sorriso di malcelato trionfo. «Non capisco perché sia stupito. Come sa, Clive non è quasi mai in casa.» «Sa dov'era?» «E dovuto uscire. Affari importanti. « «Ne è sicura?» «Sì. Stavo cucinando la cena per noi. La mattina mi ha detto che doveva uscire.» Ricordavo bene quell'occasione. Era il giorno libero di Lena. Harry e
Josh avevano gironzolato per casa e battibeccato e poi erano usciti ognuno con i propri amici; Christo aveva guardato la televisione quasi tutto il giorno e giocato con il Lego, ed era andato a dormire presto, sfibrato dal caldo e dal nervoso, e io ero andata a sedermi in cucina con la giornata rovinata alle spalle e di fronte la tavola con la bellissima cena che avevo preparato, i calici per il vino e i fiori del giardino. E Clive non era ritornato. «È stato fuori tutto il giorno, allora?» «Sì.» «Può dirmi con più precisione da che ora a che ora?» La mia voce suonò monotona e triste. «È uscito troppo presto per andare al supermercato. È ritornato a mezzanotte circa. Forse anche un po' dopo. Non era ancora a casa quando sono andata a dormire.» «È disposta a sottoscrivere tutto questo?» Scrollai le spalle. «Se vuole. Suppongo che non mi dirà per quale ragione è così importante.» Stadler mi sorprese afferrandomi la mano e tenendola tra le sue. «Jenny» disse dolcemente, con voce carezzevole, «le posso solo dire che presto sarà tutto finito, se ciò la può confortare.» Mi sentii avvampare. «Oh» fu tutto quello che riuscii a dire, come una specie di scema del villaggio. «Ritornerò presto» disse lui. Non avrei voluto che se ne andasse, ma non glielo potevo dire, ovviamente. Ritirai la mano. «Bene» risposi. Mi sdraiai sul letto in una macchia di sole. Non riuscivo a muovermi. Sentivo le gambe pesanti e il cervello torpido, come se fossi sott'acqua. Andai a fare un bagno freddo, chiusi gli occhi e cercai di non pensare. Poi mi misi a girare da una camera all'altra. Perché mai mi era piaciuta questa casa? Era brutta, fredda, sgradevole. Me ne sarei andata, avrei ricominciato altrove. Avrei desiderato che Josh mi chiamasse, volevo dirgli che non doveva stare in America se lo odiava tanto. Non ne valeva la pena, adesso lo capivo. Andai nella camera dei ragazzi e sfiorai con un dito i loro vestiti nel guardaroba, i loro trofei sulle mensole. Eravamo così lontani. Colsi la mia immagine nel lungo specchio nell'ingresso, una donna sottile di mezz'età con i capelli unti e le ginocchia ossute, che andava avanti e indietro come un'anima in pena in una casa troppo grande per lei.
Fuori il cielo era velato dallo smog e dall'afa. Forse avremmo potuto trasferirci in campagna, in un piccolo cottage con le rose intorno alla porta. Avremmo potuto avere una piscina e un faggio su cui i ragazzi si sarebbero arrampicati. Aprii il frigo e guardai dentro. In quel momento suonarono alla porta. Non ero in grado di parlare. Assolutamente. Non poteva essere vero. Continuavo a scuotere la testa come se in questo modo potessi far chiarezza in quella confusione. Links mi si avvicinò, come se fossi miope e sorda oltre che pazza. «Ha sentito quello che ho detto, signora Hintlesham?» «Che cosa?» «Suo marito, Clive Hintlesham» lo disse sillabando, lettera per lettera. «Un'ora fa. L'abbiamo accusato dell'assassinio di Zoe Haratounian la mattina del diciotto luglio 1999.» «Non capisco» ripetevo. «È una follia.» «Signora Hintlesham, Jenny...» «Una follia» ripetevo. «Follia.» «Il suo avvocato è con lui. Comparirà al tribunale di St. Steven's domani mattina. Chiederanno la libertà provvisoria dietro cauzione, ma la richiesta sarà respinta.» «Chi è questa donna? Che c'entra con Clive? Con me e con le lettere?» Links era a disagio. Fece un respiro e parlò con voce bassa e paziente, anche se non c'era nessun altro intorno ad ascoltare. «Non posso entrare nei particolari, ma viste le particolari circostanze ho pensato di doverla preparare. Sembra che suo marito avesse una relazione con questa donna. Pensiamo che le abbia donato il medaglione. Abbiamo trovato una sua fotografia tra le carte di suo marito.» Doveva essere la fotografia che avevo visto la notte passata: un viso ridente, pieno di vita, un bicchiere in mano sollevato in un brindisi al futuro che non avrebbe avuto. Deglutii e fui pervasa da un'ondata di nausea. «Ciò non vuol dire che l'abbia uccisa.» «Anche la signorina Haratounian ha ricevuto delle lettere come la sua. Scritte dalla stessa persona. Crediamo che suo marito l'abbia minacciata e poi uccisa.» Lo guardai. Un puzzle si andava componendo, ma la figura che ne emergeva non aveva senso, era uno scarabocchio di immagini violente. Un incubo. «Mi sta dicendo che è stato Clive a scrivermi quelle lettere? Non
mi sembrava affatto la sua scrittura.» «Per ora ci limitiamo a dire che suo marito è accusato di aver assassinato la signorina Haratounian.» «Mi dica quello che pensa.» «Signora Hintlesham...» «Me lo deve dire. Mi sembra tutto un controsenso.» Links rimase in silenzio per un momento, cercando visibilmente di decidere che cosa dire. «È una faccenda molto dolorosa. Vorrei tanto che le fosse risparmiata. Ma è possibile che abbia fatto fuori quella donna, qualunque sia il motivo. Sembra comunque che nessuno sapesse che la conosceva. Per questa ragione, se lei fosse... insomma, fosse stata minacciata dalla stessa persona che ha commesso quell'assassinio, lui non sarebbe stato sospettato.» Un altro lungo silenzio. «Questa è un'interpretazione possibile» continuò a disagio. «Mi dispiace.» «Mi odiava tanto?» Links non disse nulla. «L'ha ammesso?» «Sta ancora negando di aver conosciuto la signorina Haratounian» rispose Links seccamente. «Cosa piuttosto assurda.» «Voglio vederlo.» «E suo diritto. Ne è sicura?» «Voglio vederlo.» «Non ci credi, vero Jenny? Jens. Non puoi credere a un'accusa così ridicola, no?» Nella sua voce udii una mescolanza di irritazione e paura. Aveva il volto arrossato e sporco, i vestiti macchiati. Lo guardai fisso. Mio marito. Le guance incominciavano a essere cascanti, il collo grosso, gli occhi erano leggermente iniettati di sangue. «Jens.» «Perché non dovrei crederci?» «Jens, sono io, Clive, tuo marito. So che ultimamente le cose non andavano proprio bene, ma sono io.» «Non andavano proprio bene» ripetei. «Siamo sposati da quindici anni, Jens. Mi conosci. Digli che è ridicolo. Quel giorno ero con te. Lo sai che ero con te, Jens.» Una mosca si posò sulla sua guancia e lui la scacciò via violentemente. «Dimmi di Gloria» gli chiesi. «È vero?» Lui arrossì e cercò di parlare, poi si fermò.
Lo guardai: gli uscivano dei peli dalle narici, aveva uno strato di sporcizia sul collo, la pelle screpolata vicina alle orecchie, la forfora nei capelli. Era bello solo quando si metteva in ordine. Non era una di quelle persone, come Stadler per esempio, che erano persino più belle dopo una notte insonne. Che potevano star su tutta la notte ed essere ancora sexy. «Non penso che ci sia nulla di cui parlare, no?» «Sì» rispose. «Sì, io penso di sì.» «Ciao.» «Vedrai» gridò. «Vedrai che te ne pentirai. Stai facendo il più grande errore della tua piccola, stupida vita.» Sbatté i pugni sul tavolo che stava tra di noi e il poliziotto di guardia, con la faccia da luna piena, si alzò. «Te la farò pagare. Vedrai se non te la farò pagare.» Ora fuori di casa c'era solo un poliziotto che rimaneva in automobile, mezzo addormentato dietro un giornale. Nello studio di Clive sembrava fossero passati i ladri. La casa era un cantiere. Il giardino sembrava una terra di nessuno, con l'erba ingiallita e le ortiche nelle aiuole che Francis aveva disposto per i fiori e i cespugli profumati. Aprii una bottiglia di champagne e ne bevvi un bicchiere, ma mi fece stare male. Dovevo mangiare qualcosa, ma non mi sembrava possibile. Avrei voluto che venisse Grace Schilling a farmi un'altra di quelle omelette con le erbe aromatiche, semiliquida e buona. Avrei voluto che Josh mi chiamasse e mi dicesse che ritornava a casa. Rimasi seduta da sola in cucina. Ero umiliata ed ero libera. QUATTORDICI Un giorno di attività frenetica mi calmò. Era ciò di cui avevo bisogno. Mi impedì di rimuginare troppo sulle cose, smorzò il frastuono che avevo in testa e che non riuscivo a far cessare con nessuna pillola. La mattina era assolata e non ancora afosa e quando mi sedetti al tavolo di cucina con Lynne mi sentivo quasi tranquilla. Lynne era di nuovo in divisa. C'era nell'aria un senso di fine, di cose che si chiudevano, dell'imminente momento dei saluti. Avevamo bevuto quasi un'intera caffettiera e stavamo sbocconcellando del pane tostato che avevo preparato. Lynne mi chiese se poteva fumare e io non solo le risposi di sì, ma mi feci anche offrire una sigaretta e andai a cercare un piattino da usare come portacenere. La prima boccata mi sembrò peccaminosa, come quando avevo quattor-
dici anni, le successive furono tranquillizzanti. Forse nella nuova vita avrei ricominciato a fumare. «Una volta fumavo per dimagrire» dissi. «Almeno quella era una conseguenza positiva. Smisi quando rimasi incinta di Josh. Il sedere e le cosce non sono mai più state le stesse.» Lynne sorrise e scosse il capo. «Vorrei avere la sua figura» commentò. La guardai con occhio critico. «Non ne sarebbe contenta, non mi ha visto bene come mi vedo io.» Fumammo le nostre sigarette, io sentendomi una dilettante, dopo tutti quegli anni. Avrei avuto bisogno di più allenamento. «Allora ha avuto da fare?» mi domandò Lynne. «Ci sono un sacco di cose da sistemare.» «Quando parte?» «Partirò per Boston questa sera.» «I ragazzi lo sanno già?» Mi venne quasi da ridere. «Informare Josh per telefono che suo padre... be', non mi sembrava tanto una buona idea. Sono sicura che anche la dottoressa Schilling consiglierebbe di dirglielo a voce.» «Probabilmente è meglio.» «E ho passato quasi tutto il pomeriggio al telefono con il mio architetto e i vari artigiani e Francis, il mio brillante giardiniere. Ritornerò con i ragazzi all'inizio della prossima settimana e riprenderemo i lavori.» Lynne si accese un'altra sigaretta, poi notò il mio sguardo desideroso e ne accese una anche a me. «Non le sembra strano?» disse. «Ricominciare con i lavori?» «Questa volta sarà diverso. È per questo che ho dovuto passare tanto tempo al telefono. Verranno a mettere un po' d'ordine, dare il bianco alle pareti, piantare dei cespugli nel giardino. Poi metterò la casa in vendita.» Lynne spalancò gli occhi per la sorpresa. «Ne è sicura?» «Veramente mi piacerebbe bruciarla con tutto quello che c'è dentro e andarmene via. Ma venderla può bastare.» «Ci si è appena trasferita.» «Non la sopporto più. Non sono stata felice qui. Suppongo che non sia colpa della casa, ma...» «Ha parlato con la dottoressa Schilling?» «Perché avrei dovuto?» risposi con un tono leggermente bellicoso. «Il compito di Grace Schilling era usare la sua competenza professionale per prendere l'uomo che mi stava molestando. Ebbene, è stato preso.» Mi in-
terruppi. «Mi dispiace, non intendevo urlare.» «Non importa.» «In effetti questo non deve esser stato il suo lavoro più divertente.» «Perché?» «Proteggere una poveraccia con un gran brutto carattere.» Lynne divenne seria. «Non deve dire queste cose. È stato orribile. Eravamo molto preoccupati per lei. E lo siamo ancora.» «Ancora?» «Vede, siamo contenti di aver preso la persona che faceva queste cose, ma ci dispiace per lei che fosse il signor Hintlesham.» Mi ci volle un momento per rispondere. Lanciai uno sguardo oltre le spalle di Lynne, al giardino. Era difficile pensare che anche un genio come Francis sarebbe riuscito a trasformarlo in qualcosa di vendibile in una quindicina di giorni. Era tutto da vedere. «Continuano a venirmi in mente dei dettagli del nostro matrimonio e mi chiedo come sia potuto accadere. Certamente abbiamo avuto delle difficoltà, ma non capisco perché sia arrivato a odiarmi fino a questo punto. Che cosa gli ho fatto? Che cosa gli ha fatto quella poveraccia di Zoe, a parte andare a letto con lui?» Lynne mi guardò negli occhi, senza abbassarli. L'avevo detto per provocarla, ma non rispose. «E anche se mi odiava tanto, perché desiderare di uccidermi? E di farmi soffrire? L'avrebbe veramente fatto? Mi dica qualcosa.» Lynne fu leggermente sfuggente. «Devo stare attenta» rispose. «Per via dell'udienza e tutto il resto. Ma ci sono persone che fanno cose di questo genere. Il signor Hintlesham aveva incontrato un'altra. Sapeva che lei non gli avrebbe concesso il divorzio.» Scrollò le spalle. «L'ultimo assassinio di cui mi sono occupata era un ragazzo di quattordici anni che ha ucciso la nonna perché non gli dava i soldi per comprare un biglietto della lotteria. Uno dei miei capi soleva dire che non ci sono requisiti particolari per essere assassini.» «Allora l'avrebbe fatto. Pensa che sarà dichiarato colpevole?» Lynne fece una pausa prima di rispondere. «Per portare in tribunale una persona dobbiamo avere un settantacinque percento di probabilità che sia condannata. Da quello che so, suo marito è stato accusato senza esitazioni. Ci sono le prove che avesse dei legami con la ragazza morta, Zoe, e che abbia cercato di mentire al riguardo. Non ha alibi. Ha minacciato lei, aveva una relazione con un'altra donna e quindi un movente. Mi sembra ci siamo motivi a sufficienza.»
«E se l'assassinio viene giudicato separatamente?» domandai per sicurezza. «Nessuna possibilità. Avete ricevuto le stesse lettere e ciò rende i casi inseparabili.» «A volte penso che sia innocente e venga condannato ingiustamente, altre che sia colpevole e riesca a uscire. È furbo. È un avvocato. Non so che cosa pensare.» «Non ne uscirà» rispose Lynne con fermezza. Bevemmo il caffè e finimmo le sigarette. «Ha già fatto le valigie?» mi domandò. «È nella lista delle cose da fare. Mi porterò solo un borsone.» Guardò l'orologio. «Credo sia meglio che vada.» «Mi sembrerà strano non essere più sorvegliata.» «Non smetteremo completamente. Continueremo a tenerla d'occhio.» Feci un sorriso leggermente sarcastico. «E questo significa che non siete ancora del tutto convinti?» «Solo per sincerarci che stia bene.» E se ne andò. Non pranzai. Non ne ebbi il tempo. Fare le valigie fu un tantino più complicato di quello che avevo lasciato credere a Lynne. Normalmente sono una campionessa mondiale nel fare bagagli, ci metto sempre dentro le cose giuste nella quantità giusta, ma mi sentivo un po' strana e facevo tutto un po' più lentamente del solito, come se fossi sott'acqua o sulla luna. E oltre a far le cose più lentamente dovevo anche pensarci con più attenzione. Inoltre il telefono continuava a suonare. Ebbi una conversazione piuttosto lunga con l'avvocato di Clive. Fu una specie di minuetto, ognuno che danzava intorno all'altro. Non capivo bene se eravamo dalla stessa parte e alla fine mi domandai se non dovessi anch'io prendermi un avvocato. Parecchie persone telefonarono cercando Josh: il suo maestro di violino, quel tizio, Hack, del club di computer, che mi disse che Josh gli aveva chiesto di portargli un gioco, e Marcus, uno dei suoi amici; poi mi chiamarono un paio di amici miei, o di Clive, che avevano capito che ci stava succedendo qualcosa di strano. Li congedai con una serie di scuse, per non ricorrere alle bugie. Nello stato in cui ero pensai che fosse meglio uscire di casa molto in anticipo, così prenotai un taxi e corsi a chiudere le finestre e tirare le tende. Avevo telefonato a Mary. Sarebbe venuta ad accendere le luci la sera. Che
cosa c'era da rubare, in ogni caso? I ladri sarebbero stati i benvenuti. Ancora una cosa. Sarebbe stato un lungo volo, avevo bisogno di scarpe morbide. Ne avevo un paio di scollate e carine, di tela blu. Dov'erano? Le avevo mai tirate fuori da quando avevamo traslocato? Poi mi venne in mente: erano nell'armadio della camera da letto. In cima. Corsi di sopra. Nella camera da letto, la nostra camera da letto avrei detto una volta, diedi uno sguardo in giro. Non mi sembrava di aver dimenticato niente. Bussarono alla porta. Non alla porta d'ingresso. Un colpo alla porta della camera da letto. «Signora Hintlesham?» «Che cosa c'è?» domandai allarmata. Un viso spuntò dalla porta. Per un momento fui completamente disorientata e non riconobbi quel volto fuori del suo solito ambiente. Un bel ragazzo in jeans e maglietta e giacchetta nera. Capelli lunghi e scuri. Chi era? «Hack. Che cosa...?» «Non è il mio vero nome. È solo un nome per far colpo sui ragazzi.» «Qual è il suo vero nome, allora?» «Morris. Morris Burnside.» «Bene, Morris Burnside, vado di fretta. Devo andare all'aeroporto.» «Il gioco» disse, porgendomi un vistoso pacchetto. «Le ho telefonato, si ricorda? Mi scusi, ma la porta era aperta e sono entrato. L'ho chiamata, dal piano di sotto.» «Be', è fortunato ad avermi trovato. Il taxi sarà qui da un momento all'altro.» Aveva il fiatone, come se fosse venuto di corsa. «Sì, sono veramente contento perché... Non si tratta solo del gioco. Ho visto il giornale della sera. C'è un articolo su suo marito, che è stato accusato.» «Che cosa? Mio Dio, temevo che una cosa del genere potesse accadere.» «Mi dispiace molto, signora Hindesham. E so quanto sarà difficile per Josh.» «Sì, lo so. Aspetti un momento, sto cercando di prendere queste scarpe. Ecco.» «È per questa ragione che volevo venire subito a trovarla. Vede, ci ho pensato su e il signor Hindesham non può essere colpevole.» «È molto carino da parte sua, Morris, ma...» Mi infilai le scarpe. Era quasi ora di andare. «No, non è solo questo. So come dimostrare che suo marito è innocen-
te.» «Che cosa vuol dire?» «È una prova che non lascia dubbi. Quando troveranno il suo corpo sapranno che non è stato lui.» «Che cosa?» domandai ottusamente, sentendomi invadere da un'ondata di paura. Lui mi venne vicino. Fece un movimento improvviso e vidi qualcosa lampeggiarmi sopra la testa e poi stringermi al collo. Ora lui era contro di me, sentivo il suo fiato caldo sul viso. Mi guardava. «Non può parlare» mi disse quasi in un sussurro. Aveva il viso così vicino al mio che avrebbe potuto baciarmi. «Può a malapena respirare. Una stretta e sarà morta.» Ora aveva il volto arrossato, congestionato, mi fissava, ma quando parlò aveva una voce quasi gentile. «Non importa, ora. Non può più fare nulla.» Persi il controllo. Mi sentii calda e bagnata tra le gambe. Mi stavo facendo la pipì addosso. La sentii scivolare e cadere sulle tavole del pavimento. Pensai alle acque che si rompevano. Per fortuna Christo non c'era. Era dai miei genitori. E anche Josh e Harry erano via. Il suo viso si increspò per il disgusto. «Guardi che cos'ha fatto» disse. «Con i vestiti addosso.» Era l'ultima cosa che avrei visto, il suo viso, e avrei voluto chiedergli perché, ma non potevo. «Mi dispiace per il taxi» disse. «Pensavo di avere più tempo. Tempo di mostrarle il mio amore, ma purtroppo non ne ho molto.» Strinse ancora la corda e la tenne con una mano. Con l'altra prese qualcosa da una tasca. Una lama. «Ti amo, Jenny» mi disse. Avrei voluto solo sprofondare nell'oscurità, nell'oblio. Ma non accadde. Non ci riuscii. PARTE TERZA NADIA UNO Avevo fretta. In effetti non era vero, ma pensavo che se me ne fossi convinta sarei riuscita a combinare qualcosa. Quando poi mi fossi resa conto dell'inganno, sarebbe stato troppo tardi. Avrei di nuovo avuto la mia vita
sotto controllo. Trovai sotto il letto una vecchia gonna di cotone e la indossai, insieme a una maglietta nera senza maniche che ne copriva la parte superiore e nascondeva la macchia di cioccolato. Un bambino scalmanato doveva essermi venuto addosso con una tavoletta di Mars in mano o qualcosa del genere. Mi diedi un'occhiata allo specchio. I capelli sembravano uno di quegli sciami di api dei fumetti e avevo ancora un baffo di pittura sulla guancia. Caffè. Era un inizio. Trovai una tazza e la sciacquai in bagno, dove riempii anche il bollitore. Il lavandino della cucina era inutilizzabile per via di una montagna di piatti e pentole incrostati. Una volta finito di compilare i moduli delle tasse, li avrei lavati. Questa era un'altra buona idea. Quell'odiosa e malsana pila di terraglia mi avrebbe costretto, con il ricatto, a mettere le cose in ordine. Portai alla scrivania il caffè e mezza tavoletta di cioccolato. D'ora in poi avrei anche cominciato a fare colazione con muesli e frutta fresca. Quattro portate di verdura e sei di frutta. Questo intendevo mangiare tutti i giorni. Il cioccolato veniva da un fagiolo, no? Tanto valeva sbrigare la faccenda delle tasse. I moduli giacevano sulla tastiera del computer. Mi erano stati inviati parecchie settimane prima, ma li avevo messi nel cassetto con tutte le altre lettere non aperte e avevo cercato di non pensarci. Max diceva sempre che sarei dovuta andare da un terapista, solo per la mia incapacità di aprire la posta. A volte la lasciavo chiusa per settimane. Non sapevo perché. Mi rendevo conto che era solo un modo di procurarsi guai. E non mi succedeva solo con la posta indesiderata, come bollette e multe della biblioteca. Non aprivo neanche gli assegni, le lettere degli amici, le offerte di lavoro, che avrei anche potuto accettare. Dopo, mi dicevo. Lo farò dopo. Quando il cassetto sarà pieno. Il dopo era arrivato. Buttai giù dalla sedia un pacchetto di biscotti e un cappello di paglia, mi sedetti, accesi il computer e mi trovai davanti lo schermo di un luminoso verde. Cliccai su «Conti» e poi su «Spese». Bene, molto bene. Lavorai per un'ora. Rovistai intorno e dietro alla scrivania, nelle tasche delle giacche. Aprii buste. Decifrai vecchie ricevute e fatture. Stavo dando forma alla mia vita. Decisi di stampare tutto per essere più sicura, ma sullo schermo apparve una finestra che diceva «ERRORE SCONOSCIUTO DI TIPO 18». Che cosa significava? Cliccai di nuovo, ma il cursore non si mosse. Era tutto bloccato. Colpii i tasti furiosamente, come se potessi sbloccarli con la forza fisica. Non accadde niente. E ora? Che cosa dovevo
fare? La mia vita, la mia nuova vita organizzata era andata a finire dietro lo schermo e io non riuscivo più a raggiungerla. Mi presi la testa tra le mani e cominciai a bestemmiare e piagnucolare. Diedi ancora qualche colpo al computer, poi lo accarezzai pregandolo: «Per favore, d'ora in poi farò la brava». Avrei dovuto consultare il manuale, ma non l'avevo. Il computer era l'eredità di un amico di Max. Poi ripensai al biglietto da visita che avevo trovato sotto il tergicristallo la settimana precedente. C'era il numero di telefono di un esperto di computer. Sul momento ci avevo riso sopra e l'avevo gettato da qualche parte. Ma dove? Aprii il cassetto più in alto della scrivania: tamponi, gomma da masticare, penne, nastro adesivo, carta da pacchi, uno Scarabeo da viaggio, una manciata di fotografie che non riconoscevo nemmeno più. Rovesciai il contenuto della borsa: spiccioli, fazzoletti di carta appallottolati, una vecchia chiave, un mazzo di carte da gioco, un paio di biglie, un orecchino, degli elastici, un rossetto, una palla da giocoliere e alcuni cappucci di penne. Guardai nel portafogli in mezzo alle carte di credito, alle ricevute, alle banconote straniere e all'istantanea di Max fatta a una macchinetta per strada. Buttai via la foto. Ma nessun biglietto da visita. E non lo trovai sotto i cuscini del divano, né nella teiera sbeccata dove metto le cianfrusaglie, o nel cassetto dei gioielli o sulla pila di carte sul tavolo di cucina. Dovevo averlo usato come segnalibro. Andai in camera da letto e sfogliai i libri che avevo letto o guardato recentemente. Trovai un quadrifoglio secco in Jane Eyre, e in una guida di Amsterdam il volantino pubblicitario di una pizzeria che consegnava a domicilio. Me l'ero messo in tasca? Che cosa avevo indosso quel giorno? Cominciai a rovistare tra giacchette, pantaloni, pantaloncini corti, e tra i vari vestiti sparpagliati nella camera da letto e nel bagno, in attesa del giorno del bucato. Lo scoprii dentro uno stivale di pelle scamosciata, sotto una poltrona. Doveva esserci caduto dentro, come una foglia, quando l'avevo gettato via. Lo lisciai e lo lessi: «PROBLEMI CON IL COMPUTER?» diceva in grassetto. «TELEFONATEMI E LI RISOLVERÒ TUTTI, PICCOLI o GRANDI CHE SIANO.» In caratteri più piccoli c'era il numero di telefono, che composi immediatamente. «Pronto.» «Lei è l'esperto di computer?» «Sì.» Dalla voce sembrava giovane, simpatico e molto intelligente.
«Grazie al Cielo. Il mio computer si è bloccato. E dentro c'è tutto, la mia vita intera.» «Dove abita?» Mi sentii sollevata. Fantastico. Mi ero immaginata di dover attraversare Londra con il computer in braccio. «Camden. Abbastanza vicino alla fermata della metropolitana.» «Che ne dice di stasera?» «Perché non subito? Per favore. Non glielo chiederei se non fosse un'emergenza.» Si mise a ridere. Era una risata carina, da ragazzo. Rassicurante. Come quella di un dottore. «Vedrò quello che posso fare. È in casa durante il giorno?» «Sempre. Sarebbe fantastico.» Gli diedi velocemente il mio indirizzo e numero di telefono, prima che potesse cambiare idea. Poi aggiunsi: «A proposito, il mio appartamento è una vera e propria chiavica». Mi guardai attorno. «Dico sul serio. E io mi chiamo Nadia, Nadia Blake.» «A presto.» DUE Meno di mezz'ora dopo bussò alla porta. Un servizio di un'efficienza quasi assurda. Come uno di quei tipi che sanno fare un po' di tutto, e che mio padre aveva sempre intorno, quei signori che esistevano nei bei tempi andati, quando c'erano ancora gli spazzacamini e i lampionai. Una di quelle persone che vengono a casa ad aggiustare le cose. Anzi meglio, perché non apparteneva ai bei tempi andati. Non era uno di quegli uomini di mezza età in tuta che ti chiama signora e ha un taccuino in mano, e un camioncino con su scritto il nome della ditta, che alla fine per sturare il cesso ti fa pagare come se te l'avesse rifatto. Era uno di noi, solo un po' più giovane. Un po' più giovane di me, ad ogni modo. Era alto, vestito in modo casuale con scarpe da ginnastica, pantaloni grigi, maglietta e una giacchetta malmessa, che doveva tenergli un gran caldo in quella stagione. Aveva la pelle chiara, i capelli lunghi e scuri che gli arrivavano alle spalle. L'aria cordiale, per nulla chiusa e taciturna come di solito hanno i fanatici di computer. «Salve» mi disse porgendomi la mano. «Sono Morris Burnside, il riparatore di computer.» «Fantastico. Perfetto. Io sono Nadia.»
Lo feci entrare. «I ladri?» fece guardandosi intorno. «No, ti ho detto al telefono che la casa era un casino. Riordinare è la prima voce nel mio elenco di cose da fare urgentemente.» «Stavo scherzando. È una casa simpatica. Con delle bellissime porte che danno sul giardino.» «Sì, fa molto casa di campagna. Anche il giardino è sull'elenco di cose da rimettere in sesto, ma un po' più in basso.» «Dov'è il paziente?» «Di qua.» La macchina malata era in camera da letto. Per usarla ci si doveva sedere sul letto. «Vuoi una tazza di tè?» «Caffè. Con il latte e senza zucchero.» Ma gli rimasi accanto per vedere come avrebbe reagito di fronte a quel problema. In un certo senso un po' perverso, era come andare dal dottore con un piccolo malanno. Se poi era una cosa ragionevolmente seria, ci si sentiva fieri, come se si avesse dato al dottore un problema degno della sua attenzione. Se invece era una sciocchezza, ci si vergognava un po'. Volevo avere un computer sano e nello stesso tempo volevo fornire a Morris, l'esperto di computer, una sfida, e fargli capire che non si era precipitato qui invano. Si tolse la giacca e la gettò sul letto. Strano. Mi aspettavo braccia magre e sottili e invece erano muscolose e forti. E aveva le spalle larghe. Doveva far palestra. Io non ero alta neanche un metro e sessanta ed ero un fuscello, e mi sentii ancor più piccola vicino a lui. «Space Buddy» dissi. «Che cosa?» fece lui, poi abbassò gli occhi e sorrise. «La mia maglietta? Non so chi faccia queste scritte. Suppongo sia un computer in Giappone dove qualcuno ha messo insieme i fili sbagliati.» «Allora» dissi. «Come puoi vedere è bloccato. Di solito do un colpo sulla tastiera e qualcosa succede, ma questa volta non ho ottenuto nessun risultato.» Si sedette sul letto e guardò lo schermo. «È comparsa la scritta "ERRORE SCONOSCIUTO DI TIPO 18", se questo ti dice qualcosa. Mi chiedevo se non fosse più semplice togliere la spina e poi riaccenderlo. Ma magari in questo modo si rovina.» Morris si piegò lentamente in avanti. Con la mano sinistra premette alcuni tasti sul lato sinistro della tastiera e con la mano destra premette il tasto di invio. Lo schermo divenne nero e poi il computer si riavviò. «Tutto qui?» domandai.
Lui si alzò e afferrò la giacchetta. «Se ti succede di nuovo, schiaccia questi tre tasti contemporaneamente e poi il tasto di invio. Se non funziona, ci dovrebbe essere un forellino qui dietro.» Sollevò il computer e soffiò via un po' di polvere. «Ecco, qui. Infilaci dentro un fiammifero. Funziona quasi sempre. Se no, togli la spina.» «Mi dispiace» dissi senza fiato. «Non so nulla di queste cose, mi dispiace veramente. Un giorno o l'altro imparerò. Farò un corso.» «Non stare a perder tempo» rispose lui. «Le donne non sono fatte per i computer. È per questo che sono stati inventati gli uomini.» Andavo abbastanza di fretta, perché dovevo rimettere insieme le mie cose, ma non me la sentii di sbatterlo subito fuori. «Ti faccio il caffè, se riesco a trovarlo.» «Posso andare in bagno?» «Sì, di là. Mi scuso in anticipo del suo stato.» «Quanto ti devo?» «Non preoccuparti, non mi devi nulla per quello che ho fatto.» «E ridicolo. Devi pur avere una tariffa per la chiamata.» Sorrise. «Mi basta il caffè.» «Come fai a guadagnarti da vivere se vai in giro senza farti pagare? Sei una specie di Gandhi?» «No, no, faccio un sacco di cose con i computer, i software, per le scuole e roba così. Questo è solo un hobby.» Si interruppe un momento. «E tu che cosa fai?» Mi sentivo sempre un po' sprofondare sottoterra quando dovevo avventurarmi in questo tipo di spiegazioni. «Non è proprio un lavoro, né tantomeno una carriera, ma al momento faccio l'animatrice. Alle feste di bambini.» «Che cosa?» «Sì, io e il mio socio, Zach, andiamo alle feste a intrattenere i bambini con dei giochetti, gonfiando palloncini e trasformandoli in animali, facendo il teatrino di burattini.» «Incredibile» commentò Morris. «Non sono proprio una fisica nucleare, ma più o meno mi guadagno da vivere. È per questo che devo tenere i conti in ordine. E mi scuso tanto, Morris, di averti fatto perdere tempo. Mi dispiace. Non credo che il mio travestimento da signora indifesa ti abbia divertito.» «Non potevi fartelo sistemare dal tuo ragazzo?»
«Perché pensi che abbia un ragazzo?» gli domandai con un'espressione un po' sorniona. Morris arrossì. «Niente, ho solo notato la schiuma da barba in bagno. Due spazzolini, questo genere di cose.» «Oh, quel genere di cose. Max, cioè la persona con cui stavo, si è lasciato dietro un po' delle sue cose quando se ne è andato, un paio di settimane fa. Quando mi metterò a fare le pulizie, tutta quella roba finirà dritta nel bidone della spazzatura.» «Mi dispiace.» Non avevo voglia di parlarne. «Allora il mio computer è a posto» dissi vivacemente, finendo di bere il caffè. «Di quand'è? Di tre anni fa?» «Non lo so. Apparteneva a un amico di un amico.» «Non capisco come fai a usarlo. Non è un po' come attraversare una palude avvolti in cotone idrofilo?» disse Morris. Guardò il computer con gli occhi socchiusi. «Ha bisogno di più memoria. Di criceti più veloci. Questo è il problema.» «Criceti più veloci? Scusa, ma che cosa significa?» Sorrise. «Scusa. È un modo di dire.» «Da bambina avevo un criceto e non era poi tanto veloce.» «Voglio solo dire che la tua è una macchina dell'età della pietra.» «Non è una gran bella notizia.» «Con un migliaio di sterline potresti farti una macchina molto più potente. Potresti navigare con Internet, avere un tuo sito web. C'è un programma in grado di tenere tutti i tuoi conti. Potrei inserirtelo, se tu volessi, diventare il tuo consulente personale di computer.» Cominciai a sentirmi un po' frastornata. «È veramente gentile da parte tua, Morris, ma penso che tu mi abbia scambiato per una donna che riesce a cavarsela nel mondo.» «No, Nadia, ti sbagli. Un computer adeguato ti renderà tutto più semplice. Ti darà controllo.» «Smettila» lo interruppi con fermezza. «Non voglio un computer che faccia di più, semmai uno che faccia di meno. Non voglio un sito web. Ho da stirare la roba di sei mesi.» Morris sembrò deluso. Posò la tazza del caffè sul tavolo. «Se cambi idea, hai il mio numero di telefono.» «Certo.» «E magari potremmo... potremmo incontrarci per un drink una volta o
l'altra.» Suonarono alla porta. Zach. Grazie al cielo. Devo dire che statisticamente il settantanove percento delle persone di sesso maschile che incontro mi chiede di uscire. Perché non intimorisco di più gli uomini? Lo guardai. Le arpe non suonarono. Decisamente no. «È il mio socio. Temo di dovermene andare. E...» Feci una pausa per essere gentile. «Al momento non sono... pronta. Mi dispiace.» «Certo» disse Morris senza guardarmi negli occhi. «Capisco perfettamente.» Fu carino da parte sua. Mi seguì alla porta e lo presentai a Zach. «Morris è un signore che aggiusta i computer gratuitamente.» «Davvero?» rispose Zach con aria interessata. «Io sono completamente perso con il mio. C'è una possibilità che tu possa venire a dare un'occhiata?» «Mi dispiace» rispose Morris. «Era un'offerta unica, che non si ripeterà più.» «È quello che mi capita sempre» commentò Zach tristemente. Morris mi fece un cenno gentile con la testa e se ne andò. L'ho trovata. La perfetta terza. È piccola, come le altre, ma forte e piena di energia. Sprizza vivacità da tutti i pori. Ha la pelle di miele, i capelli castani lucidi, ma tutti spettinati, occhi tra il verde e il marrone, nocciola, e lentiggini color rame spruzzate sul naso e sulle guance. Colori autunnali per la fine dell'estate. Mento risoluto, denti bianchi. Sorride facilmente, piega leggermente la testa indietro quando ride, gesticola quando parla. Non è timida, questa qui, ma a suo agio con se stessa. Come un gatto vicino al fuoco. La sua pelle sembra calda. Aveva la mano calda e asciutta quando me l'ha stretta. Appena l'ho vista ho capito che era giusta per me. È la mia sfida. Il mio amore. Nadia. TRE «Dobbiamo preparare nuovi giochetti o qualcosa del genere» Zach mi guardava accigliato al di sopra di uno spumeggiante frappè rosa. «Qualcosa di nuovo, in ogni caso.» «Perché?» «Se veniamo invitati di nuovo nella stessa casa.» Il mio repertorio consisteva in due giochi di magia (tre, se si contava la
bacchetta che si divideva in segmenti quando premevo una piccola leva alla base, e che stupiva sempre i bambini dai quattro anni in giù). Il primo consisteva nel mettere una sciarpa di seta bianca dentro a una borsa vuota (i bambini sapevano che era vuota perché facevo mettere loro la manina sudicia dentro la borsa, prima di iniziare) e poi, quando la toglievo, la sciarpa usciva colorata di rosso e di nero. Nel secondo facevo scomparire e riapparire delle palle. Erano trucchi elementari, rudimentali. Ma nel corso degli anni li avevo perfezionati. Il punto era far guardare i bambini in un'altra direzione. Poi, se rimanevano senza fiato, resistere alla tentazione di ripetere il gioco. E non dire a nessuno, neanche ai genitori curiosi, qual era il trucco. Una volta l'avevo detto a Max. Gli avevo fatto il gioco delle palle e lui era rimasto stupefatto. E si era incuriosito. Continuava a chiedermi come avevo fatto. Così gli avevo rivelato il trucco e lui era rimasto deluso. Che cosa si aspettava? Lo avevo rimproverato. Non era che uno stupido trucchetto. Sapevo anche fare il giocoliere. Solo con tre palle, come tutti. Nulla di speciale. Ma non lo facevo solo con le palle colorate piene di semi: anche con le banane e le scarpe e le tazze e gli orsacchiotti e gli ombrelli. I bambini si divertivano un mondo quando mi capitava di rompere un uovo. Pensavano che lo facessi di proposito, per farli ridere. Zach era molto più bravo di me con il teatrino dei burattini. Io sapevo fare solo due voci differenti, che poi a dir la verità si somigliavano molto. A volte giocavamo a cucinare con i bambini. Andavamo alla festa con tutti gli ingredienti e insegnavamo loro a fare belle torte, glasse appiccicose e hamburger, e a tagliare con i coltelli speciali dei panini rotondi che poi farcivamo con il prosciutto. Alla fine loro mangiavano tutto e noi ripulivamo. E se eravamo fortunati la mamma ci faceva una tazza di tè. Io ero il clown, il buffone che fa rumore e caos, e racconta storielle divertenti, e inciampa nei suoi stessi piedi. Zach era la spalla, triste e serio. Quel giorno tornavamo dalla festa di una bambina di cinque anni che si chiamava Tamsin. C'era una stanza piena di bambine tiranniche in vestiti che le facevano sembrare meringhe, e io ero sudata ed esausta dopo tutti i giochi e gli urli. Avevo voglia di tornare a casa, fare un sonnellino e leggere un giornale immersa nella vasca da bagno. «Insetti» disse Zach improvvisamente. «Ho sentito dire che c'è un tizio che porta insetti e rettili alle feste dei bambini e glieli fa toccare. E loro rimangono incantati.» «Non ho nessuna intenzione di tenere insetti e rettili nel mio apparta-
mento.» Tracannò rumorosamente il frullato con aria pensierosa. «Potremmo procurarci degli insetti che morsicano i bambini. Ma no, non funzionerebbe, i genitori ci denuncerebbero. Dovremmo cercare un insetto che trasmetta ai bambini una grave malattia, che però scoppi dopo molto tempo.» «Mi sembra una buona idea.» «Non odi la canzoncina di buon compleanno?» «Profondamente.» Ci scambiammo un sorriso. «Sei stata terribile oggi con i giochi di prestigio.» «Lo so. Sono fuori allenamento. Non ci prenderanno mai più. Ma meglio così, visto che il papà di Tamsin mi ha messo le mani addosso.» Mi alzai per andarmene. «Vuoi che prendiamo un taxi insieme?» «No, non importa.» Ci salutammo con un bacio e ognuno se ne andò per la propria strada. Ritornare a casa nelle ultime settimane, da quando Max se ne era andato, mi sembrava strano. Mi ero appena abituata alla sua presenza: alla tavoletta del cesso alzata, all'armàdio pieno di suoi vestiti e camicie, al succo d'arancia fresco e al bacon nel frigorifero, a un altro corpo nel letto, alla voce che la notte mi diceva che ero bellissima e la mattina mi incitava ad alzarmi imprecando, perché ero di nuovo in ritardo. Una persona per cui cucinare e che cucinava per me, che mi lavava la schiena e mi obbligava a fare colazione. Una persona con cui fare dei progetti e per cui cambiare abitudini. A volte mi aveva dato fastidio quel limite alla mia libertà. Mi diceva sempre di essere più ordinata, più organizzata. Mi considerava una sciattona. E una sognatrice. Quello che prima lo affascinava di me, aveva cominciato a irritarlo. Ma ora il dividere la vita con qualcuno mi mancava. Dovevo di nuovo imparare a vivere da sola. A godere delle delizie del vivere da soli: mangiare cioccolato a letto e farsi il porridge per cena, e vedere il video di The Sound of Music, e attaccare foglietti al muro con le puntine, e non preoccuparsi di non essere di buon umore. Avrei incontrato qualcun altro e avrei ricominciato daccapo con questo gioco inebriante, delizioso, allarmante. Tutti i miei amici si stavano sistemando. Facevano il lavoro per cui avevano studiato, con pensione e prospettive di carriera. Avevano mutui, lavatrici, orari. Molti erano sposati e avevano dei bambini. Forse era questo il
motivo per cui Max e io ci eravamo separati. Era ovvio che non avremmo mai aperto un conto in banca insieme né avuto bambini con i suoi capelli e i miei occhi. Stavo cominciando a fare dei calcoli contorti e allarmanti su quanto tempo mi rimanesse da vivere; su quante cose avrei potuto ancora fare. Avevo ventotto anni. Non fumavo, o fumavo molto raramente, mangiavo molta frutta e verdura, facevo le scale a piedi invece di prendere l'ascensore e andavo a correre. Avrei dovuto avere all'incirca altri cinquant'anni davanti, forse sessanta. A sufficienza per imparare a svilupparmi da sola le foto, andare in battello sulle rapide e vedere l'aurora boreale. E incontrare l'uomo dei miei sogni. O gli uomini dei miei sogni, più probabilmente. La scorsa settimana avevo letto su un giornale un articolo che diceva che presto le donne avrebbero potuto avere bambini fino a sessant'anni, e mi ero sentita sollevata. Probabilmente quella sera avrei incontrato Max alla festa a cui ero stata invitata. Mentre ritornavo a casa in mezzo al traffico, promisi a me stessa di farmi molto carina. Mi sarei lavata i capelli e avrei messo il vestito rosso e avrei riso, flirtato e ballato, e lui si sarebbe reso conto di che cosa aveva perso. E avrebbe visto che non me ne importava un tubo. Non mi sentivo sola senza di lui. Effettivamente mi lavai i capelli. Stirai il vestito. Feci un lungo bagno pieno di essenze e misi candele tutto intorno al bordo della vasca, anche se era pieno giorno. Poi mangiai due fette di pane tostato con il burro e una pescanoce fresca e lucida. Max non venne alla festa e dopo un po' smisi di sbirciare tutti quelli che entravano per vedere se arrivava. Incontrai un certo Robert, un avvocato con sopracciglia folte, e Terrence, un gran seccatore. Ballai in modo abbastanza scatenato con Gordon, il mio ex che mi aveva presentato Max tanti mesi prima. Feci due chiacchiere con Lucy, la festeggiata, che compiva trent'anni, e il suo nuovo ragazzo, alto almeno due metri e con i capelli ossigenati. Per parlarmi doveva piegarsi e mi faceva sentire una nana o una bambina. Alle undici e mezza me ne andai in un ristorante cinese a mangiare un boccone con le mie vecchie amiche Cathy e Mel. Mi sbronzai leggermente, ma in modo molto piacevole. Cotolette, spaghetti viscidi e vino rosso a buon mercato, finché non cominciai ad avere freddo, con solo quel sottile vestito rosso addosso. Avevo freddo ed ero stanca. E improvvisamente ebbi voglia di tornare a casa e ficcarmi nel lettone.
Era l'una passata quando rientrai. Camden Town si svegliava dopo la mezzanotte. I marciapiedi brulicavano di gente strana, o pazza scatenata o mezzo addormentata. Un uomo con una coda di cavallo verde cercò di afferrarmi, ma quando gli dissi di andare a quel paese alzò le spalle e mi sorrise. Vicino a casa mia una ragazza bellissima con quasi niente addosso piroettava sul marciapiede, come un mulinello. Nessuno ci faceva caso. Varcai barcollando la porta d'ingresso e accesi la luce dell'atrio. Sullo zerbino c'era una lettera. La presi ed esaminai la scrittura, ma non la riconobbi. L'indirizzo era scritto in nero, in un corsivo molto ordinato: SIGNORINA NADIA BLAKE. Infilai il dito nella linguetta e strappai la busta. QUATTRO «Ha anche rovistato per casa?» «Che significa?» Links indicò la confusione che regnava nell'appartamento, i cuscini sul pavimento, le carte impilate sul tappeto. «No, questa è opera mia. Ho avuto molto da fare ultimamente, ma ora vi porrò rimedio.» L'ispettore capo rimase un momento confuso, come se si fosse appena svegliato e non ricordasse bene dov'era. «Ehm, signorina...» «Blake.» «Ecco, signorina Blake, le dà fastidio se fumo?» «Faccia pure.» Mi guardai intorno e trovai un posacenere che per caso aveva la forma di Ibiza. Così cominciai a preoccuparmi delle possibili associazioni con la droga, ma a quanto pareva l'ispettore capo Links aveva cose più importanti per la testa. Non aveva l'aspetto di una persona sana. Un mio zio aveva avuto tre infarti e continuava a fumare, anche se aveva così difficoltà ad aspirare che non riusciva quasi a tenere la sigaretta accesa. E un amico di Max stava venendo fuori da un grosso esaurimento nervoso e avevano anche dovuto costringerlo a ricoverarsi, senza il suo consenso. Questo era stato un anno prima, ma lui parlava ancora con una voce tremula, come se cercasse di non piangere. Links mi fece pensare a tutti e due. Guardarlo accendere la sigaretta fu un piccolo evento carico di suspense. Le dita gli tremavano al punto che non riusciva quasi ad avvicinare il fiammifero alla
punta della sigaretta e quando accadeva era solo per un insufficiente nanosecondo. Sembrava che l'operazione avvenisse sulla coffa di una nave nel Mare del Nord, invece che nel mio soggiorno relativamente privo di correnti d'aria. «Sta bene?» gli domandai. «Posso offrirle qualcosa? Una tazza di tè?» Links cominciò a parlare, ma fu interrotto da un attacco di tosse che sembrava molto dolorosa. Non poté far altro che scuotere il capo. «Miele e limone?» Continuava a tremare. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto dall'aria sporca e si asciugò gli occhi. Quando parlò, fu con voce molto bassa, tanto che io dovetti avvicinarmi per poterlo udire. «Si tratta di...» Fece una pausa. Continuava a perdere il filo di ciò che stava dicendo. «Stabilire chi ha accesso alla casa.» «Sì» risposi stancamente. «L'ha già detto. Mi sembra fin troppo disturbo per una stupida lettera. Sarà comunque difficile, perché ho spesso ospiti. Il mio ragazzo abitava con me, e poi in casa mia c'è un continuo viavai. Sono stata fuori per un paio di mesi e una mia amica è venuta a stare qui, e quando c'era lei la casa era praticamente aperta a tutti.» «Dov'è ora questa sua amica?» mi domandò Links in un sussurro. «Penso che sia a Praga. Doveva fare un lavoro là prima di ritornare a Perth.» Links lanciò uno sguardo al suo collega. L'ispettore Stadler sembrava più affidabile di Links. Un po' sciupato, forse, ma in modo stranamente attraente. Era rimasto completamente impassibile. Aveva capelli lisci pettinati all'indietro, zigomi pronunciati e occhi scuri, che teneva fissi su di me, come se fossi molto interessante, ma in maniera leggermente bizzarra. Mi sentii più un incidente automobilistico che una donna. Poi parlò per la prima volta: «Ha idea di chi potrebbe averle mandato quella lettera? Ha mai avuto esperienze simili? Telefonate anonime, incontri strani?» «Oh, una serie infinita di incontri strani» risposi. Links si rianimò un po'. «Per il mio lavoro ogni settimana vado in una casa diversa. Ma sarà meglio chiarire che non sono una ladra.» Non fecero neanche un accenno di sorriso. «Io e il mio socio facciamo gli animatori alle feste dei bambini. E incontriamo gente veramente incredibile. Le posso assicurare che essere palpata dal padre di un bambino che ha appena compiuto cinque anni, dopo che gli avevamo fatto uno spettacolo e mentre la madre è in cucina ad accendere le candeline sulla torta, è un'esperienza che fa vacillare la fiducia nel genere umano.»
Links spense la sigaretta fumata a metà e ne accese un'altra. «Signorina, ehm» diede un'occhiata al taccuino, «Signorina, ehm.» Aveva difficoltà a leggere gli appunti. «Ehm, Blake. Abbiamo ragione di credere che recentemente, voglio dire negli ultimi mesi, altre donne siano state oggetto delle attenzioni di questo individuo.» Continuava a lanciare occhiate a Stadler, come in cerca di appoggio morale. «Perciò uno degli scopi delle nostre indagini è stabilire, cercare di stabilire possibili legami tra lei e loro.» «Chi sono?» Links ebbe un altro attacco di tosse. Stadler non fece nessun tentativo di inserirsi nel discorso. Rimase seduto a fissarmi. «Be'» continuò, «non credo sia opportuno in questa fase delle indagini fornire informazioni di questo genere. Potrebbero essere di ostacolo.» «Teme che io cerchi di mettermi in contatto con loro?» Links tirò fuori il fazzoletto e si soffiò il naso. Io lanciai un'occhiata a Stadler. Per la prima volta non la ricambiò. Sembrava aver trovato una cosa più interessante da guardare nel suo taccuino. «La terremo al corrente dei progressi dell'indagine, per quanto possibile» aggiunse Links. «Indagini? Ma si tratta solo di una lettera.» «È necessario prendere queste cose sul serio. Abbiamo anche una psicologa, la dottoressa Grace Schilling, che è un'esperta in ehm.... Dovrebbe essere qui...» guardò l'orologio, «da un momento all'altro.» Ci fu silenzio. «Senta» dissi, «non sono stupida. Circa un anno fa qualcuno è entrato in casa mia. Senza rubare niente a dire il vero. Probabilmente è stato disturbato da me. Ma la polizia è arrivata solo dopo un giorno e non ha scoperto un bel niente. Ora ricevo una sola lettera di minaccia e sembra un affare di stato. Che cosa c'è dietro? Non avete dei veri delitti da risolvere?» Stadler chiuse con un colpo il taccuino e se lo mise in tasca. «Siamo stati accusati di non essere abbastanza attenti alle offese contro le donne» rispose. «Prendiamo molto sul serio questo genere di minacce.» «In effetti mi sembra giusto.» La dottoressa Schilling era il genere di donna che invidiavo un po'. Doveva esser stata molto brava a scuola, aver preso voti fantastici e aveva ancora l'aria intelligente. Era elegante, e anche in questo mostrava intelligenza. Aveva bellissimi capelli biondi e lunghi, ma se li doveva essere accon-
ciati più o meno in tre secondi e mezzo per far vedere che non gli dava grande importanza. Certamente non era il tipo di persona che si potrebbe sorprendere a testa in giù davanti a un gruppo di bambini urlanti. Se avessi saputo che sarebbe venuta, avrei messo in ordine l'appartamento. L'unica cosa che mi irritava era l'interesse serio, quasi triste, con cui mi si rivolgeva, come se stesse presentando un programma religioso alla televisione. «Mi pare di capire che ha avuto una relazione finita da poco» disse. «Le posso assicurare che quella lettera non è stata scritta da Max. Per un sacco di ragioni, compreso il fatto che lui avrebbe avuto difficoltà anche a scrivere un biglietto al lattaio. E poi è stato lui a lasciarmi.» «Comunque si trova in uno stato d'animo vulnerabile.» «Più che altro sono incazzata.» «Quanto è alta, Nadia?» «Non metta il dito nella piaga. Io cerco di non pensarci. Meno di un metro e sessanta. Una nana emotivamente vulnerabile. È qui che vuole arrivare? Perché se è così, ha fatto centro.» Lei non mostrò neanche un'ombra di sorriso. «Devo essere preoccupata?» Rimase silenziosa piuttosto a lungo. Quando riprese a parlare, lo fece con grande precisione. «Non credo che sarebbe... produttivo allarmarsi. Ma penso che dovrebbe comportarsi come se prendesse la lettera sul serio, per sicurezza. È stata minacciata. Dovrebbe comportarsi come se la minaccia fosse vera.» «Pensa sul serio che qualcuno mi voglia uccidere senza ragione?» Apparve pensierosa. «Nessuna ragione? Forse. Ci sono uomini che pensano di avere ragioni molto buone per assalire o uccidere le donne. Potrebbero non essere ragioni valide per lei o per me, ma la cosa non è particolarmente rassicurante, non le pare?» «No, per me no.» «No» ripeté la dottoressa Schilling a voce così bassa da non essere quasi udibile, come se parlasse a un'altra persona, a una persona che non potevo vedere. CINQUE Rimasero per un tempo interminabile. Dopo un paio di ore Links ricevette una chiamata e barcollò via, ma Stadler e la dottoressa Schilling restarono. Mentre la dottoressa Schilling parlava con me, Stadler uscì e ri-
tornò con sandwich, bibite, latte e frutta. Poi fece con me il giro dell'appartamento per esaminare i dispositivi di sicurezza (decisamente da migliorare), intanto che la dottoressa si ritirava in cucina e preparava il tè. La sentii perfino lavare i piatti. Infine ritornò con le tazze in mano. Stadler si tolse la giacca e arrotolò le maniche della camicia. «C'è un panino con tonno e cetriolo, uno con salmone e cetriolo, uno con insalata di pollo e uno con prosciutto e senape» annunciò. Io scelsi quello al prosciutto, la dottoressa Schilling quello al tonno, e la cosa mi fece pensare che il tonno era molto più sano e che nella mia scelta c'era qualcosa di squallido e frivolo. «Lei lavora nella polizia?» le domandai. Aveva la bocca piena e non poté che scuotere la testa, mentre cercava a fatica di inghiottire il boccone. Mi sentii trionfante. L'avevo sorpresa in un momento poco dignitoso. «No, no» rispose infine, come se l'avessi insultata. «Sono solo una consulente.» «E qual è il suo vero lavoro?» «Lavoro alla Welbeck Clinic.» «In che modo?» «Grace è troppo modesta» intervenne Stadler. «È una psichiatra molto nota. Lei è fortunata ad averla al suo fianco.» La dottoressa gli lanciò un'occhiata tagliente e arrossì, più per irritazione o insofferenza, mi parve, che per imbarazzo. Tutti quegli sguardi e quelle allusioni. Mi sentii un'intrusa in un gruppo di vecchi amici che usano un loro gergo speciale e hanno un felice passato di lavoro in comune. «Quello che volevo dire» continuai, «è che io faccio l'animatrice alle feste dei bambini. Normalmente non ho problemi di tempo, di orario, durante la settimana, quando tutti gli altri sono in ufficio. Ma lei, dottoressa Schilling...» «Per favore, Nadia, mi chiami Grace» mormorò. «D'accordo, Grace. So che i dottori sono occupatissimi. L'ho scoperto quando ne ho avuto bisogno. Devo confessare sinceramente che è molto piacevole stare qui seduti a chiacchierare e sono assolutamente disposta a parlare della mia vita, a raccontare tutti i particolari che volete sapere. Ma mi stavo solo chiedendo come mai una psichiatra così importante come lei venga qui, a sedersi sul pavimento di uno schifoso appartamento di Camden Town e a mangiare un panino al tonno. E non guarda l'orologio, non riceve telefonate al cellulare. Mi sembra strano.»
«Non è strano» intervenne Stadler pulendosi la bocca. Aveva scelto il panino al salmone. Sicuramente quello al prosciutto era il meno caro, oltre a essere il più nocivo alla salute. «Quello che vogliamo è organizzare un piano d'azione. Vogliamo assicurarle protezione informalmente e lo scopo di questo incontro è decidere in che modo. Per quello che riguarda la dottoressa Schilling, lei è un'autorità in questioni di molestie di questo tipo e la sua presenza ha due obiettivi. Il più importante, naturalmente, è aiutarci a trovare la persona che le ha inviato quelle minacce. Per fare ciò deve esaminare la sua vita, cercare di capire che cosa in lei ha attratto questo folle.» «È colpa mia, allora?» dissi. «Sono io ad averlo attratto?» «Non è affatto colpa sua» rispose subito Grace. «Ma lui l'ha scelta.» «Penso che lei si sbagli» continuai. «Io credo che sia un individuo che manda lettere orribili alle donne perché ne ha paura. Che c'è di tanto importante?» «Non è vero» rispose Grace. «Una lettera come quella è un atto di violenza. Un uomo che manda una lettera del genere ha, be', potrebbe aver oltrepassato il limite. Deve essere considerato pericoloso.» La guardai perplessa. «Pensa che non mi sia spaventata abbastanza?» Lei finì il tè, quasi volesse prendere tempo. «Posso darle dei consigli su quello che dovrebbe fare» rispose. «Non penso di doverle dire che cosa provare. Mi dia la sua tazza. Vado a prendere dell'altro tè.» Argomento chiuso. Stadler tossì. «Quello che vorrei fare» disse, «se non le dispiace, è parlare un momento della sua vita, dei suoi amici, delle persone che incontra, delle sue abitudini, di questo genere di cose, insomma.» «Lei non ha l'aspetto del poliziotto» commentai. Lui trasalì leggermente. Poi sorrise. «Com'è l'aspetto da poliziotto?» Era difficile metterlo in imbarazzo, almeno per me. Non avevo mai incontrato nessuno, prima di allora, che mi guardasse negli occhi come faceva lui, quasi come se cercasse di vedermi dentro. Che cosa cercava di scoprire? «Non so. Semplicemente lei non mi sembra un poliziotto. Sembra, ehm...» E mi interruppi perché stavo per dirgli che era troppo bello per essere un poliziotto, un commento molto sciocco e lontano mille miglia dall'essere appropriato alla situazione, e in ogni caso Grace era arrivata con dell'altro tè. «Normale» finii la frase in ritardo. «Tutto qui?» fece lui. «Pensavo avrebbe detto qualcosa di più carino.»
Feci una smorfia. «Penso che sia carino non sembrare un poliziotto.» «Dipende da quello che si pensa dei poliziotti.» «Vi ho interrotti?» domandò Grace con un tono leggermente ironico. Squillò il telefono. Era Janet. Voleva sapere come e quando ci saremmo viste. Coprii il microfono. «È una delle mie migliori amiche» dissi sussurrando. «Avevamo appuntamento per un drink, stasera. A proposito, non è stata lei a mandare la lettera.» «Non stasera» fece Stadler. «Dice sul serio?» «Ci dia retta.» Feci un'altra smorfia e mi scusai con Janet. Fu molto comprensiva, naturalmente. Avrebbe voluto chiacchierare, ma tagliai corto. Grace e Stadler sembravano un po' troppo interessati alla mia conversazione. «È uno scherzo?» domandai. «Che cosa vuol dire?» «Sto cominciando a sentirmi perseguitata, ma non da quel triste bastardo che mi ha scritto la lettera. Mi sento come un insetto attaccato a un cartoncino con uno spillo; si sta ancora divincolando e qualcuno già lo esamina al microscopio.» «È questo ciò che prova?» mi domandò Grace seriamente. «Oh, adesso non incominci, per l'amor del Cielo. Non mi dica che cosa significa questa fantasia.» Mi ero scaldata. In ogni modo era solo una parte di ciò che provavo. Rimanemmo seduti sul pavimento per tutto il pomeriggio e io feci il tè, poi il caffè con dei biscotti che avevo scovato in un barattolo. E tirai fuori i foglietti che chiamo diario, passai in rassegna l'agenda con gli indirizzi e dissertai sulla mia vita. Di tanto in tanto uno dei due faceva una domanda. Cominciò a piovere, per la prima volta da giorni e giorni, e all'improvviso. Non mi sentivo più uno strano esemplare esaminato prima di venire sezionato, ma in compagnia di due nuovi amici un po' strani. Star seduti sul pavimento con la pioggia che batteva alle finestre era rassicurante come poche cose. «È davvero capace di fare numeri da giocoliere?» mi domandò Stadler a un certo punto. «Se so fare il giocoliere?» ripetei con tono di sfida. «Guardi.» Osservai la stanza intorno a me. In una ciotola c'era della frutta. Quando afferrai due mele raggrinzite e un mandarino, si sollevò un nugolo di moscerini. Probabilmente c'era un frutto che stava andando a male.
Ci avrei pensato dopo. «Mi stia a guardare.» Cominciai a lanciare in aria la frutta, poi, molto attentamente, camminai avanti e indietro per la stanza. Infine inciampai in un cuscino e la frutta cadde a terra. «Tanto per darle un'idea generale.» «Sa fare anche altri giochi?» Sbuffai sprezzantemente. «Giocare con quattro palle è molto noioso. Se ne tengono due in ogni mano e si gettano su e giù senza avvicendamento.» «E con cinque?» «Cinque è per i folli. Imparare a giocare con cinque palle significa star seduti in una stanza da soli per tre mesi e non fare nient'altro. Me lo riservo per quando mi manderanno in prigione o mi farò monaca o rimarrò bloccata su un'isola deserta. Sono solo bambini piccoli e in ogni caso si tratta semplicemente di una fase della mia vita, che mi serve per capire che cosa fare dopo.» «Niente scuse» fece Stadler. «Vogliamo vedere cinque palle, non è vero?» «Come minimo» disse Grace. «State zitti o vi farò assistere ai miei trucchi di magia.» SEI Non saprei spiegare che cosa accadde dopo. Almeno non spiegarlo in modo che abbia un minimo di senso. Grace Schilling se ne andò. Nel salutarmi mi posò le mani sulle spalle e mi fissò per un momento, come se volesse baciarmi o piangere. O dire qualcosa di molto importante. Poi Stadler mi comunicò che avevano dato incarico a una poliziotta, una certa Burnett, di tenermi d'occhio. «Non si piazzerà qui, vero?» «No, volevo spiegarglielo. Lynne Burnett avrà l'incarico di proteggerla. Di notte lei o, più probabilmente, altri agenti rimarranno fuori di casa sua, in automobile. Non una macchina della polizia. Durante il giorno passerà del tempo in casa, ma come e quando lo deciderete voi.» «Di notte?» «Sarà solo per un periodo.» «E lei, sarà da queste parti?»
Mi guardò per un paio di secondi di troppo, tanto che stavo pensando di dire qualcos'altro, quando suonarono alla porta. Trasalii, battei le palpebre e gli sorrisi in modo vago. «Dev'essere Lynne» disse. «Non va ad aprire?» «È casa sua.» «Ma deve essere per lei.» Si voltò e andò ad aprire. Lynne era più giovane di me, anche se non di molto, e abbastanza carina. Aveva una grande voglia violacea su una guancia e non era vestita da poliziotta. Portava dei jeans e una maglietta, e aveva una giacchetta azzurra in mano. «Nadia Blake» mi presentai porgendole la mano. «Mi scuso per il disordine, ma non aspettavo visite.» Sorrise e arrossì. «Cercherò di non starle tra i piedi, per quanto possibile, a meno che non mi voglia intorno per qualche ragione» disse. «E sono piuttosto brava a mettere ordine. Nel caso lo desideri» aggiunse precipitosamente. «Mi è sfuggito un po' tutto di mano» dissi. Lanciai uno sguardo a Stadler e sorrisi, ma lui non ricambiò; si limitò a guardarmi pensosamente. Andai in camera da letto e mi sedetti sul letto, aspettando che se ne andasse. Mi sentivo stanca e strana. Che cosa stava succedendo? Che cosa dovevo fare tutta la sera con Lynne che mi gironzolava per casa? Non potevo neanche rilassarmi andando a letto presto con un toast al formaggio. Avrebbe potuto essere peggio. Per cena cucinammo uova fritte e fagioli, e Lynne mi raccontò tutto dei suoi sette fratelli e sorelle e di sua madre che faceva la parrucchiera. Si mise anche a fare un po' d'ordine, come se avesse bisogno di tenere le mani occupate. Poi se ne andò. Non per andarsene veramente. Uscì e si sistemò nell'auto. Dopo quella notte, mi disse, ci sarebbero stati altri poliziotti là fuori; dopotutto lei doveva pur dormire ogni tanto. Feci un lungo bagno. Rimasi in acqua finché la punta delle dita non si raggrinzì e quando uscii guardai fuori della fessura in mezzo alle tendine e vidi l'automobile. Che cosa stava facendo Lynne? Leggeva o ascoltava la radio? Non riuscivo a capirlo. Probabilmente non le era permesso fare nulla che la potesse distrarre. Mi domandai se sarei dovuta scendere con della minestra o un caffè. Poi andai a dormire. Il giorno successivo Lynne mi seguì nei negozi e mi rimase accanto mentre scrivevo delle lettere. Ci fu un accenno di imbarazzo quando Zach
mi chiamò e decidemmo di passare in rassegna l'agenda degli impegni. Posai il telefono, le rivolsi un'occhiata e bofonchiai qualcosa. Lei disse immediatamente che avrebbe aspettato fuori. «È solo che...» «Va benissimo.» Quella sera, sul presto, suonarono alla porta e lei andò ad aprire. Era Stadler. Aveva una cartella molto professionale ed era vestito di scuro. «Salve, ispettore» gli feci dolcemente. «Sostituirò Lynne per qualche momento.» Aveva un'espressione impassibile e neanche l'ombra di un sorriso. «Tutto bene?» «Bene, grazie.» «Vorrei farle qualche domanda.» Andò a sedersi sul divano e io di fronte a lui, sulla poltrona. «Allora quali sono queste domande, ispettore?» Aveva delle belle mani. Lunghe, con unghie curate. Aprì la cartella e rovistò tra le carte. «Vorrei sapere dei suoi ex fidanzati.» «Ne ho già parlato.» «Lo so, ma...» «Sa una cosa? Penso che preferirei parlare delle mie relazioni passate con Grace Schilling.» Fece un profondo respiro. Sembrava a disagio e la cosa non mi dispiaceva. «Potrebbe trovare utile...» cominciò, ma lo interruppi. «Non ho molta voglia di raccontarle altri particolari sulla mia vita sessuale.» Allora alzò gli occhi, mi guardò diritto in viso e non li abbassò più sugli appunti. Mi alzai e gli voltai le spalle. «Ho voglia di un bicchiere di vino, e lei? Non mi dica "No, sono in servizio".» «Magari un sorso.» Versai a entrambi un bicchiere di vino bianco. E non scarso. Uscimmo in ciò che rimaneva del giardino. Il mio giardino dà su un complesso industriale dove vengono immagazzinati dei container, ma era comunque una risorsa piacevole per non stare sempre tappata in casa. Aveva smesso di piovere e l'aria era più fresca di quanto fosse stata per settimane. Le foglie del pero luccicavano. «Ho intenzione di dare presto una bella sistemata a questo giardino» dissi mentre eravamo in mezzo alle piante neglette. «Mi sembra la fiera delle
Trifidi. Le erbacce stanno avendo il sopravvento.» «Almeno è protetto dagli sguardi altrui.» «Vero.» Bevvi un sorso di vino. Sapeva molte cose di me: lavoro, famiglia, amici, ragazzi e amanti: i risultati dei miei esami; quello che mi sarebbe piaciuto avere, come un'auto sportiva decappottabile, una voce più intonata e maggiore dignità; e ciò di cui avevo paura: gli ascensori e le grandi altezze, i serpenti e il cancro. Avevo parlato con lui e con Grace di cose intime, segrete e stupide, come si fa con un amante, a letto dopo il sesso, quando fuori è buio. Eppure non sapevo nulla di lui, nulla di nulla. La cosa mi faceva sentire strana. Ci avvicinammo. Ci sono, pensai: un altro grosso errore che stava per verificarsi. Ma mentre lo pensavo rimasi impigliata con un piede in un rovo. Caddi con le ginocchia nell'erba alta e bagnata e mi caddero pure gli occhiali. Lui si inginocchiò accanto a me e mi prese per il gomito. «Su, si alzi» disse con voce rauca. «Venga, Nadia.» Gli misi le mani intorno al collo. Lui mi guardò fisso. Non riuscivo a capire a che cosa stesse pensando; che cosa volesse. Lo baciai sulla bocca con forza. Aveva le labbra fresche, la pelle tiepida. Non mi respinse e non rispose al bacio, lì per lì. Rimase inginocchiato e mi tenne allacciata. Gli vidi le rughe sul volto, intorno agli occhi e alla bocca. «Mi aiuti, allora» dissi. Mi rimise in piedi e restammo vicini in quel giardino incolto. Era molto più grande e robusto di me, largo e alto; nascondeva il sole. Feci scorrere il pollice sul suo labbro inferiore. Gli presi la grande testa tra le mani. Lo baciai di nuovo, più forte, più a lungo. Mi sentivo completamente ubriaca, come se avessi bevuto sei bicchieri di vino e non mezzo. Gli misi le mani sulla schiena, sotto la camicia, e lo premetti contro di me. Era solido e grande. Teneva le mani lungo i fianchi. Gliene presi una e la portai alla mia guancia bollente, poi lo ricondussi in soggiorno attraverso le doppie porte. Si sedette su una sedia e mi guardò. Mi sbottonai la camicia e gli sedetti a cavalcioni. «Stadler» dissi. «Cameron.» «Non dovrei farlo» disse. Nascose la testa tra i miei seni e io gli misi una mano tra i capelli. «Davvero, non dovrei.» Finalmente aveva gli occhi chiusi. Poi fu sopra di me, sul pavimento; sotto la schiena sentii una scarpa, una vecchia spazzola mi pungeva il piede sinistro, c'era polvere dap-
pertutto, e lui mi tirò su la gonna e si infilò dentro di me, su quel vecchio pavimento sporco. Nessuno di noi parlò. Dopo rotolò via da me e mi rimase accanto, disteso sulla schiena, le braccia sotto la testa. Rimanemmo distesi in questo modo per dieci minuti, più o meno, fianco a fianco, fissando il soffitto e non dicendo niente. Quando Lynne ritornò, Cameron parlava al telefono e in modo molto professionale e io leggevo una rivista. Ci salutammo formalmente, ma poi lui disse a Lynne di aver dimenticato di controllare qualcosa e mi seguì in camera da letto con la cartella sotto il braccio. Chiuse la porta, mi distese sul letto e mi baciò di nuovo, nascondendomi la testa contro il collo per smorzare i gemiti e mi disse che sarebbe ritornato non appena avesse potuto. Passai il resto della serata a letto, fremendo, facendo finta di leggere, ma senza girare neanche una pagina né leggere una parola. SETTE «Allora qual è il piano?» domandai a Lynne a colazione. Penso di essere dotata di una buona dose di risorse, ma il mio cervello non riusciva ad assimilare ciò che mi era accaduto. Il giorno prima avevo fatto sesso con un uomo che conoscevo appena, ora stavo facendo colazione non con quell'uomo, ma con una donna che conoscevo appena. Quella mattina mi ero risvegliata da un sogno turbolento che avevo dimenticato immediatamente, e poi mi era venuto in mente quello che era successo il giorno prima e quello prima ancora. Mi ero sentita strana, immersa in una realtà violenta come un fumetto, poi avevo guardato fuori della finestra e avevo scorto Lynne, seduta sul sedile anteriore dell'auto, che guardava davanti a sé ottusamente. Che lavoro. Al confronto il mio richiedeva molto più impegno intellettuale. In circa due minuti mi ero lavata e vestita, e avevo anche spazzolato capelli e denti, poi ero andata a dare un colpetto al vetro della sua automobile, facendola sobbalzare. Bella protezione. Le dissi che sarei andata a prendere qualcosa per fare colazione insieme e lei si offrì di venire con me. Insistette. Al forno comprammo dei croissant. Lei pagò la sua metà. Mi passò per la mente di farglieli pagare tutti, visto che io di solito non facevo mai colazione se non nelle occasioni speciali. Ritornammo, preparai il caffè e trovai un vasetto con circa un millimetro
di marmellata di fragole dentro. Ci sedemmo a tavola. E fu allora che le domandai qual era il piano. «Abbiamo la responsabilità della sua sicurezza» rispose meccanicamente. Addentai un bel boccone dal mio croissant e lo mandai giù con un gran sorso di caffè. Una volta infranta la regola di non fare colazione, volevo godermela per bene. Ci fu una lunga pausa, non per riflettere ma per consumare. Mi sembrava di essere un pitone che inghiottiva un cervo. Finalmente ci riuscii. «Benissimo, ma non pensa che sia tutta una ridicola esagerazione?» «È per il suo bene.» «Avete intenzione di sorvegliarmi per il resto della vita solo perché un tizio mi manda una lettera?» «Vogliamo prendere l'individuo che manda quelle lettere.» «E se non ci riuscite? Non potete continuare in questo modo.» «Vedremo, quando sarà il momento.» Di fronte a una sciocchezza del genere non restava altro da aggiungere sull'argomento. «Sono piuttosto imbarazzata» continuai. «La mia vita è già abbastanza ridicola quando ci sono solo io qui. Lei è fantastica, Lynne, e non la sto criticando, ma il pensiero di fare tutto ciò che faccio con una poliziotta che mi fissa non è una prospettiva allegra.» «Ne parleremo» rispose Lynne con un'espressione seria, come se avessi sollevato un argomento importante. Ma fummo interrotte dal campanello. Andai alla porta, mentre Lynne rimase indietro, attenta. Era Cameron. Guardò oltre la mia spalla e fece un cenno di saluto a Lynne. «Buongiorno, signorina Blake.» «No, per favore, mi chiami Nadia, ispettore. Siamo molto informali qui.» «Nadia» fece con una specie di debole mormorio, «sono venuto a dare il cambio a Lynne per un paio di ore.» «Bene» risposi cercando di sembrare vivace e spontanea. «E per fare un programma per la giornata» continuò. «Non so se ha già degli impegni.» «Sì» dissi. «Alle quattro e mezza devo essere con Zach a una festa di bambini a Muswell Hill. E ne ho altre due nel finesettimana. Forse di più, se qualcun altro mi chiama.» «Nessun problema. Lynne la accompagnerà.»
«Potrebbe essere un po' inopportuna.» «Starò fuori, seduta in auto» intervenne Lynne. «Le darò un passaggio.» «Di bene in meglio.» Lynne aveva ancora mezzo croissant e del caffè nella tazza. «Non c'è fretta» disse Cameron, senza che ce ne fosse bisogno. E difatti Lynne non aveva fretta. Sorbì il caffè lentamente e giocherellò con il croissant. Stava per comprare un appartamento e cominciò a farmi domande su come avevo trovato il mio. Se prima ne avevo un altro e l'avevo venduto. Era una storia molto lunga, e più cercavo di farla breve, più diventava lunga. Nel frattempo Cameron gironzolava per la stanza ispezionandola con aria esperta e metodica. Prendeva oggetti, apriva cassetti. Non potevo fare a meno di sentire che, mentre lo faceva, mi guardava, continuava a trovare cose che non avrei voluto trovasse. Alla fine esaurimmo l'argomento e Lynne si rivolse a lui. «Nadia ha dei problemi riguardo ai nostri piani.» «Fondamentalmente perché non so quali siano» intervenni. «Li discuterò io con lei» fece Cameron come a chiudere la conversazione, e si voltò. Lynne continuava a tenere in mano la tazza del caffè. Non ne aveva avuto abbastanza di me? Non aveva un lavoro da fare? «Allora ti rivedrò qui verso l'una?» le domandò Cameron. «Uscite?» fece lei. «Qualsiasi cosa faremo, saremo di nuovo qui all'una.» Lei annuì. «Bene, a presto, Nadia.» «Arrivederci, Lynne.» Uscì. Vidi le sue gambe salire gli scalini esterni per raggiungere il marciapiede. Poi scomparvero. Eravamo soli. Mi voltai verso Cameron. «Riguardo a ieri...» E lui mi fu addosso, mi strinse come se fossi incredibilmente preziosa, mi toccò il viso con le mani, mi accarezzò i capelli. Lo allontanai un poco e lo guardai negli occhi. «Io» balbettai, «io non...» «Non posso...» mormorò e mi baciò di nuovo. Sentii le sue mani dietro di me, sulla schiena, poi sotto la maglietta, che cercavano il reggiseno e scoprivano che non c'era. «Vuoi che smetta?» «Non so. No.» Mi prese per mano e mi condusse in camera da letto. Fu diverso dal
giorno prima: più rilassato, lento, intenzionale. Mi sedetti sul letto. Lui andò alla finestra e chiuse le tende. Poi chiuse la porta della camera. Tolse la giacca, allentò la cravatta e se la sfilò. Mi resi conto che il sesso con un uomo che doveva togliersi giacca e cravatta era un'esperienza quasi unica per me. «Non riesco a smettere di pensare a te» disse, come se fosse un sintomo. «Ti vedo quando chiudo gli occhi. Che cosa devo fare?» «Spogliarti.» «Come?» Abbassò gli occhi e sembrò quasi sorpreso di trovarsi ancora vestito. Si spogliò come in sogno, gettando i calzoni su una sedia e continuando a guardarmi. Allungai le braccia verso di lui. «Aspetta» disse. «Aspetta. Lasciami fare. Nadia.» Giacqui in una nebbia di piacere e poi finalmente fu dentro di me, e in seguito, quando fu finito e rimanemmo intrecciati, lui rimase a guardarmi, accarezzandomi i capelli, ripetendo il mio nome come se fosse una specie di incantesimo. Dopo ci staccammo e io mi appoggiai a un cuscino. «È stato bellissimo» dissi. «Nadia» ripeté lui, «Nadia.» «E sono confusa.» L'incantesimo si era rotto. Lui si allontanò leggermente e un'ombra gli attraversò il viso. Si morsicò il labbro. «Posso essere onesto con te?» Improvvisamente mi sentii gelare. «Certo.» «Questo lavoro è la mia vita, e questo...» «Vuoi dire questo» feci io indicando il letto. Annuì. «È assolutamente vietato. Maledettamente, fottutamente vietato.» «Non lo dirò a nessuno. È questo che vuoi?» «No» fece lui cupamente. «E allora che cosa?» domandai. Lui non rispose. «Che cosa diavolo vuoi?» «Sono sposato. Mi dispiace. Mi dispiace tanto.» E cominciò a piangere. Ero distesa sul letto con un ispettore nudo che piangeva accanto a me. Dopo circa diciotto ore di relazione eravamo già passati dalla lussuria ai pianti e alle recriminazioni. Ero delusa. Non dissi nulla. Non gli diedi un colpetto sulla spalla, non lo accarezzai e non gli dissi che andava tutto bene. Alla fine fece un profondo sospiro, segno che si stava riprendendo. «Nadia?» «Sì?»
«Di' qualcosa.» «Che cosa vuoi che dica?» «Sei arrabbiata con me?» «Oh, Cameron, vai al diavolo. E suppongo che tua moglie non ti capisca.» «No, no, non so. So solo che ti desidero. Non voglio prenderti in giro, Nadia, te lo prometto. Ti desidero. Tutto questo significa tanto per me che non so che cosa fare. Che cosa pensi? Nadia, dimmi che cosa pensi.» Mi voltai e guardai l'orologio a forma di rana che avevo sul comodino. Poi mi chinai e lo baciai sul petto. «Che cosa penso? Ho una regola: non andare a letto con gli uomini sposati. Mi fa star male. Non posso fare a meno di pensare alla moglie. Ma penso che sia soprattutto un problema tuo, non mio. E penso anche che Lynne sarà qui tra circa sette minuti.» La fretta con cui ci rimettemmo addosso i vestiti fu quasi divertente. Ci fece sentire come compiici. «Stavo pensando di mettermi degli altri pantaloni» dissi, «tanto per verificare l'abilità di Lynne come ispettore.» «No, no» disse Cameron allarmato. «D'accordo.» E ci baciammo, sorridendoci attraverso il bacio. Sposato. Perché doveva essere sposato? Questo accadde di mercoledì. Giovedì ebbe solo il tempo di parlarmi al telefono, mentre Lynne era presente; una strana conversazione con dichiarazioni appassionate da parte sua e laconici assensi da parte mia. Sì. Sì. Naturalmente. Sì. Anch'io lo provo. Certo. Venerdì mattina una squadra di uomini venne a mettere nuove serrature a ogni porta e sbarre di ferro a ogni finestra. Dopo pranzo arrivò lui, e Lynne fu inviata a fare un rapporto. Avemmo il tempo di fare un bagno. «Mi piacerebbe vedere il tuo spettacolo» mi disse. «Vederti quando ti esibisci.» «Vieni domani. Facciamo gli animatori a un gruppo di bambini di cinque anni proprio qui vicino, a Primrose Hill.» «Non posso» rispose guardando da un'altra parte. «Oh» feci io freddamente, odiandomi. «Questioni familiari.» «Non posso liberarmi, lo farei se potessi.» «Benissimo.» Ecco la ragione per cui non andavo a letto con gli uomini sposati: la vergogna, la sofferenza, il senso di colpa. «Sei arrabbiata?»
«Niente affatto.» «Sei sicura?» «Vorresti che lo fossi?» Mi prese la mano e se la portò alla guancia. «Sono innamorato di te, Nadia. Mi sono innamorato.» «Non dirlo. Mi spaventa. Mi fa sentire troppo felice.» Pensano di essere invisibili, ma io li vedo. Si baciano. La mia ragazza e il poliziotto si baciano. Rotolano sul pavimento. Quando lui va alla finestra per chiudere le tende, gli vedo sul viso l'espressione ottusa ed ebbra di chi è innamorato. Io la amo di più. Nessuno la può amare come la amo io. Gli altri cercano tutti nella direzione sbagliata. Cercano l'odio. Amore: questa è la chiave. OTTO Le bambine di cinque o sei anni erano le spettatrici migliori. Erano dolci e piene di ammirazione, stavano sedute in file ordinate con i loro vestitini setosi color pastello, le scarpe di vernice e le trecce ai capelli. Quando chiedevo a una di loro di venire ad aiutarmi, si metteva il dito in bocca e parlava sussurrando. I maschi di otto o nove anni erano i peggiori. Ci prendevano in giro, urlavano, dicevano di conoscere i trucchi, si davano spintoni e venivano a curiosare nella mia scatola dei giochi. Sghignazzavano quando facevo cadere la palla. Dicevano che lo spettacolo dei burattini era per femminucce. Cantavano «Buon compleanno» con tono sarcastico. Facevano scoppiare tutti i palloncini. Zach e io avevamo una regola irrevocabile: nessuno al di sopra dei nove anni. Quel party era per maschietti di cinque anni e c'erano una o due bambine che se ne stavano ai margini. Si teneva in una casa grande e bella a Primrose Hill, con una scalinata che conduceva alla porta d'ingresso, un atrio delle dimensioni di una palestra, una cucina grande quanto il mio appartamento; il soggiorno, ricoperto da un tappeto chiaro e spesso, era pieno di bambini. C'erano delle portefinestre che davano su un giardino lungo e curato, con un portico, una vasca di pesci rossi, una serie di pergolati, aiuole dai bordi netti, rose bianche. «Accidenti» sibilai a Zach. «Sta' attenta a non rompere niente» mi sussurrò lui in risposta.
Il bambino che compiva gli anni si chiamava Oliver, era piccolo, grassottello e aveva le guance rosse per l'eccitazione. I suoi amichetti gli ronzavano attorno come atomi mentre lui strappava la carta in cui erano avvolti i regali. Sua madre, una certa signora Wyndham, era molto alta, molto magra, aveva l'aria di essere molto ricca e sembrava già tremendamente irritata dalla festa che stava solo cominciando. Lanciò a me e a Zach uno sguardo alquanto dubbioso. «Ci sono ventiquattro bambini» disse. «Tutti scatenati. Sa come sono i maschi.» «Lo sappiamo» rispose Zach cupamente. «Nessun problema» dissi io. «Se i bambini vanno in giardino per un paio di minuti, noi possiamo preparare.» Entrai nel soggiorno e battei le mani. «Bambini, andate fuori. Vi chiamiamo quando lo spettacolo sta per cominciare.» Ci fu una fuga precipitosa fuori delle portefinestre. La signora Wyndham corse dietro di loro dicendo con voce gemente qualcosa sulla sua camelia. Zach e io montammo il teatro dei burattini. L'avevamo fabbricato noi con sega e martello. Sulla tela avevamo dipinto delle montagne blu, un bosco verde, l'interno di una casetta. Avevamo perfino costruito noi uno dei burattini, un leone, con la cartapesta. Era stato un lavoraccio, ci erano voluti secoli, e sembrava uno gnocco di plastilina secca con un muso incerto dipinto sulla superficie asimmetrica e piena di protuberanze. Gli altri li avevamo comprati in un negozio specializzato. Il nostro repertorio era costituito da un paio di commediole, scritte da Zach. Dopotutto era uno scrittore. Almeno così diceva, quando gli chiedevano che cosa faceva. E poi magari aggiungeva, come per un ripensamento, che per sovvenzionare la scrittura faceva anche altre cose, come l'animatore alle feste per bambini. I suoi spettacoli con i burattini erano corti, complicati e con troppe voci diverse. Quel giorno i protagonisti erano un bambino, una bambina, un mago, un uccello, una farfalla, un clown e una volpe. Alla fine io ero sempre molto esausta. Zach sapeva della lettera, naturalmente, e della polizia, e di tutte le precauzioni che prendevano. Aveva conosciuto Lynne proprio quel giorno, perché gli avevamo dato un passaggio a Primrose Hill. Si era seduto davanti, accanto a lei e le aveva parlato della teoria del caos e di come la popolazione dell'India stesse per superare il miliardo, mentre lei si destreggiava nel traffico con aria intontita.
Intanto che montavamo il teatrino, mi domandò se fossi spaventata da quella faccenda. «No» risposi esitante, agganciando il sipario davanti al minuscolo palcoscenico. Ma dovevo dirlo a qualcuno. «A dir la verità mi eccita.» «Sembra un po' perverso.» «Il fatto è che... Zach, sai tenere un segreto?» Non aspettai che mi rispondesse. Sapevo già che non ne era capace. Aveva fama di essere una specie di portinaia pettegola. «Ho una storia con uno dei poliziotti.» «Che cosa?» «Lo so, è un po' strano, ma...» «Nadia.» Mi prese per le spalle perché interrompessi quello che stavo facendo. «Sei matta? Non puoi farlo.» «Non posso?» Zach si mise a gesticolare, come se le parole non bastassero a esprimere tutto il suo disappunto. «Non va. È sbagliato. È come avere una relazione con il proprio dottore. Si sta approfittando di te, della tua vulnerabilità. Non lo capisci? Senti, sono sicuro che tu la vedi come una cosa bellissima, pura e importante, ma ti sei appena lasciata con Max e stai già finendo nel letto di un altro, che oltretutto dovrebbe proteggerti.» «Chiudi il becco, Zach.» «Una figura paterna. Devi smetterla, Nadia.» «È sposato» aggiunsi tristemente. Il solo dirlo mi fece male al cuore. Zach ghignò, sarcastico. «Ma naturalmente.» «È molto attraente. Voglio dire, non avrei mai pensato...» Rabbrividii al pensiero di quella mattina, solo poche ore prima, quando aveva dato il cambio a Lynne per un'ora e avevamo fatto l'amore in bagno, contro la parete di piastrelle, armeggiando con i vestiti, ansiosi. «Nadia» disse Zach con urgenza. «Maledizione, arrivano.» I bambini stavano rientrando dal giardino. Dopo lo spettacolo chiesi a Oliver di darmi una mano a fare i miei patetici trucchetti di magia: la bacchetta magica si spezzò tutte le volte che lui la toccava, i bambini gridarono «Abracadabra!» più forte che poterono, e la signora Wyndham rimase sul vano della porta molto sulle spine. Poi chiesi ai bambini di portarmi gli oggetti più strani da far piroettare in aria. Un demonietto mi portò una grattugia che aveva trovato in cucina, ma io pensai che la signora Wyndham non sarebbe stata molto contenta di vedere sangue sul suo tappeto. Scelsi un melone, un portatovaglioli e una bacchet-
ta di tamburo, e riuscii a non farli cadere. Zach gonfiò i palloncini e li trasformò in animali. Poi i bambini corsero in cucina a mangiare salsicciotti infilati su stecchini, biscotti ripieni di marmellata e una torta di compleanno a forma di trenino. E la festa finì. Zach aveva una voglia matta di una sigaretta così io lo spinsi fuori. «Ti dispiace» disse, «rimettere tu in ordine?» «No, dài, svignatela.» «Ricordati quello che ti ho detto, Nadia.» «Certo, certo. Ora vattene, socio.» «Non lo lascerai, vero?» Chiusi gli occhi per un momento, per pensare alla sua bocca contro la mia gola. «Non lo so. Non so che cosa dire.» Genitori e baby-sitter cominciarono ad arrivare. Le mamme si distinguevano dalle governanti a un miglio di distanza. Smontai il teatrino e cominciai a rimetterlo nella scatola. Una bella ragazza venne da me con una tazza di tè. «La signora Wyndham mi ha chiesto di portarle questa.» Aveva i capelli biondo cenere e un accento buffo, cantilenante. La accettai con gratitudine. «È la governante di Oliver?» «No, sono venuta a prendere Chris. Abita qui vicino.» Prese una marionetta e la esaminò, mettendoci la mano dentro. «Deve essere duro, il suo lavoro.» «Non come il suo. Ne ha solo uno, di bambini?» «Ce ne sono altri due più grandi, Harry e Josh, ma sono a scuola. Anche questa marionetta va nella scatola?» «Grazie.» Bevvi il tè e cominciai a sgombrare. Ero diventata un'artista in questo. Lei rimase a guardarmi. «Da dove viene?» domandai. «Parla l'inglese in modo fantastico.» «Dalla Svezia. Dovevo ritornare a casa, ma ci sono stati un po' di problemi.» «Ah» dissi vagamente. Dov'era la bacchetta magica? Avrei scommesso che Oliver se l'era tenuta e aveva scoperto come faceva a dividersi in segmenti. «Be', grazie, ehm...» «Lena.»
«Lena.» Scomparve in cucina, dove le varie governanti si erano radunate a parlare dei ragazzi e della vita notturna, mentre i loro bambini si ficcavano in bocca pezzi del trenino di cioccolato. Poi cominciarono a congedarsi in mezzo a frasi come: «Dì grazie», «Dov'è il mio sacchetto della festa?» e «Harvey ce l'ha blu, anch'io lo voglio blu». Raccolsi la mia roba. Per fortuna fuori c'era Lynne con la sua auto. C'erano dei vantaggi a essere seguiti da una poliziotta timida e ostinata. Nell'atrio un ragazzino biondo venne a sbattere contro di me. Aveva delle macchie viola sotto gli occhi e un baffo di cioccolato sopra la bocca. «Ciao» dissi, allegra e decisa a uscire il più in fretta possibile. «Mia mamma è morta» disse lui, fissandomi con occhi brillanti. «Oh, davvero» gli risposi, guardandomi attorno. La mamma era probabilmente in cucina o da quelle parti. «Sì, la mamma è morta. Il papà dice che è andata in Paradiso.» «Davvero?» «No» continuò lui, succhiando un lecca-lecca. «Io non credo sia andata così lontano.» «Be'...» «Un uomo l'ha uccisa.» «Non può essere vero.» «Lo giuro» insistette lui. Lena ritornò con la giacchetta del bimbo. «Dai, Chris, a casa» disse. Lui la prese per mano. «Prima voglio il sacchetto della festa.» «Mi ha detto che sua mamma è stata uccisa» dissi a Lena. «Sì» rispose lei semplicemente. «Come? È vero?» Misi giù la scatola e mi chinai vicino a Chris. «Mi dispiace tanto» mormorai scioccamente. Non sapevo che cosa dire. «Posso avere subito il sacchetto della festa?» Diede uno strattone alla mano di Lena con impazienza. «Quando è successo?» domandai a Lena. «Due settimane fa. Una cosa terribile.» «Mio Dio.» La guardai affascinata. Non avevo mai conosciuto nessuno che si fosse trovato vicino a un morto assassinato. «Com'è successo?» «Nessuno lo sa.» Scosse la testa, facendo dondolare i capelli d'argento. «È successo in casa.»
La guardai a bocca aperta. «Che cosa orribile. Orribile per tutti.» La signora Wyndham arrivò con un sacchetto per Chris. Era tre volte più grosso degli altri. «Ecco il tuo sacchetto, caro» disse e gli stampò un bacio in fronte. «Se posso fare qualcosa...» Sospirò, come se solo il guardare il bimbo le facesse male. «Piccolo innocente.» Poi lanciò uno sguardo verso di me. «Le porto quello che le devo, signorina Blake. Sarò da lei in un minuto, ho già preparato tutto.» «Ho due pacchetti di caramelle e Thomas ne ha solo uno» disse Chris con aria di trionfo. «E ho anche una pallina magica.» «Eccole il suo compenso, signorina Blake.» Il suo tono conclusivo mi fece capire che non saremmo più stati chiamati. «Grazie.» Caricai in spalla i miei arnesi e feci per andare. «Buona fortuna» dissi alla giovane governante. «Grazie.» Ci avviammo insieme verso l'atrio. Non potevo ancora andarmene: Zach sarebbe tornato a casa per conto proprio e dovevo salutarlo. «Hanno anche rubato?» domandai a Lena. «No.» «Scriveva delle lettere» intervenne Chris vivacemente. «Che cosa?» Lena annuì e sospirò. «Sì» disse. «Era orribile. Scriveva lettere in cui diceva che l'avrebbe uccisa. Come lettere d'amore.» «Come lettere d'amore» ripetei ottusamente. «Sì.» Lena sollevò il bambino e lui le mise le gambe intorno alla vita. «Su, Chris.» «Aspetti, aspetti un minuto. Non aveva chiamato la polizia?» «Oh, sì. C'erano molti poliziotti.» «Ed è morta lo stesso?» domandai, sentendomi gelare. «Sì.» «Come si chiamavano?» «Chi?» «I poliziotti. Come si chiamavano?» «Perché vuole saperlo?» «Non ricorda i nomi?» «Ricordarli? Li vedo tutti i giorni. Ci sono Links e Stadler. E una psico-
loga, la dottoressa Schilling. Perché? Che cosa c'è?» «Niente di importante.» Le sorrisi mentre le viscere mi bruciavano. «Pensavo di conoscerli.» NOVE «Sta bene, Nadia?» «Che cosa?» Mi guardai attorno, spaventata, senza quasi sapere dove mi trovavo. Ero seduta vicino a Lynne, sulla sua automobile. Lei mi si era avvicinata e mi osservava con lo sguardo preoccupato di un'amica. «Sembra pallida.» «Mi è venuto improvvisamente un terribile mal di capo. Non le dispiace se non parliamo per un po'?» «Posso andare a prenderle qualcosa?» , Scossi la testa, mi lasciai scivolare indietro sul sedile e chiusi gli occhi. Non volevo vederla. Avevo paura di parlare. Lynne mise in moto l'auto e ci dirigemmo verso casa. Mi sembrava di avere il cranio pieno di liquido bollente, e di doverlo tenere stretto tra le mani perché non scoppiasse. Improvvisamente mi ricordai di non aver salutato Zach. L'avevo lasciato là, in mezzo alle macerie della festa. Be', al diavolo. Ero stata catapultata in un mondo nuovo, un orribile mondo oscuro, e avevo bisogno di capire dove mi trovavo, ma prima avrei dovuto aspettare che cessasse quel fragore in testa. Soprattutto, nel breve tragitto fino a casa, dovevo star bene attenta a non vomitare dappertutto nella nuova auto della polizia che Lynne guidava. Pensai a quando ci si rovescia dell'acqua bollente su una mano. Immediatamente non si prova dolore, ma si sa che dopo un secondo il male sarà atroce. Sapevo che dovevo far decantare quello che avevo udito per capirlo meglio. Per ora sentivo solo una voce in lontananza ripetermi che un'altra donna aveva ricevuto lettere come la mia, ed era morta, era stata assassinata. Una donna aveva passato quello che avevo passato io e alla fine era stata uccisa. E solo un paio di settimane prima. Quando io e Max ci stavamo lasciando lei era ancora viva, ed era preoccupata delle minacce, e si sarà domandata quando tutta quella brutta faccenda sarebbe finita, e ora c'erano dei bambini senza la mamma. L'automobile si fermò. Stavo respirando affannosamente. «Siamo a casa» mi disse una voce all'orecchio. «Ha bisogno di aiuto?» «Penso che andrò subito a stendermi per un po'.»
«Preferisce che io stia fuori, in auto?» Improvvisamente mi sentii come se mi avessero immerso il viso in acqua gelata. Completamente lucida. Ma decisi di continuare a far finta di stare male. «No, no, certo che no. La voglio in casa, dove mi può essere d'aiuto.» «Ne è sicura?» «Solo che non sarò molto loquace. Devo avere l'emicrania.» «Vuole prendere qualcosa?» «Voglio solo rimanere stesa al buio.» Entrammo in casa e io mi ritirai in camera da letto. Chiusi la porta e controllai che la finestra fosse ben chiusa. E tirai le tende. Come Cameron. Come il fottuto ispettore Cameron Stadler. Mi stesi sul letto a faccia in giù. Mi sentivo come una bambina di cinque anni. Avrei voluto tirarmi le coperte sulla testa per sentirmi al sicuro, in modo che nessuno mi trovasse. Solo che non sarei stata al sicuro. Lui mi avrebbe trovata. Per la prima volta in vita mia non ero al sicuro nel mio letto. Avevo bisogno di poter vedere. Misi il cuscino contro la testiera del letto e mi ci appoggiai sopra. In quel modo vedevo ogni punto della camera. Ma qual era il vantaggio? Sarebbe stato meglio essere uccisi senza vedere. Cercai di ripercorrere nella mente la conversazione con Lena. Avevo difficoltà a ricostruirla. Per un momento tentai assurdamente di vedere la cosa con occhi ottimisti. Magari era matta. Ma anche in quello stato febbrile non fui capace di convincermi. Aveva nominato Links, Grace Schilling, Cameron. Viveva da queste parti. Non potevano essere coincidenze. Tutti i venerdì mi arrivava gratuitamente un giornale locale. Non lo aprivo mai. Non mi interessava sapere quali erano i nuovi sensi unici, o essere aggiornata sui servizi sociali di quartiere, perciò lo mettevo direttamente nell'armadietto sotto il lavandino, pronto per essere accartocciato e ficcato dentro alle scarpe bagnate o cose del genere. Le scarpe non mi si erano bagnate da tempo, quindi le copie degli ultimi due mesi dovevano ancora essere là, una sull'altra. Uscii dalla camera da letto e dissi a Lynne che mi sentivo un po' meglio. Avrei fatto del tè per tutte e due. Ciò mi avrebbe dato quel paio di minuti di cui avevo bisogno. Cominciai dalla copia di cinque settimane prima. Nulla, e neanche in quella successiva. Solo una retata di drogati al mercato, un incendio in un magazzino, e articoli pubblicitari. Ma in un numero successivo, che corrispondeva a circa due settimane prima, c'era l'articolo che mi interessava, in piccolo e in una pagina interna, e le mani cominciarono a tremare tanto che
temetti di essere scoperta da Lynne per il crepitio della carta. Il titolo diceva «DELITTO A PRIMROSE HILL». Velocemente strappai la pagina. L'acqua bolliva. La versai sulle bustine del tè. «Biscotti, Lynne?» «No, per me no, grazie.» Avevo un altro paio di minuti. Lisciai l'articolo sul banco della cucina: Una donna, madre di tre bambini, è stata assassinata nella sua casa da 800.000 sterline a Primrose Hill, la scorsa settimana. La polizia ha dichiarato che Jennifer Hintlesham, 38 anni, è stata trovata morta il 3 agosto. Si sospetta si tratti di uno sconosciuto intrufolatosi in casa nel tardo pomeriggio. «È una tragedia» ha commentato l'ispettore capo Stuart Links, parlando delle misure che intendeva prendere per le indagini. «Si prega chiunque abbia informazioni di mettersi in contatto con il posto di polizia di Stretton Green.» Eccolo. Lo lessi e rilessi come se la disperazione mi potesse rivelare qualche altra informazione. Non si faceva menzione di lettere. Cercai di vedere le cose in una maniera un po' più ottimista, pensando che forse avevo messo in bocca alla governante alcune delle cose che mi aveva detto. Ma la verità si impose con una desolazione di cui riuscii quasi a sentire il sapore: secco, metallico. Lena mi aveva dato le informazioni spontaneamente. Io non le avevo chiesto niente. I poliziotti erano gli stessi. Presi le due tazze di tè, ma la mano sinistra tremava tanto che il tè bollente mi si rovesciò addosso. Dovetti posarle di nuovo tutte e due sul tavolo e riempirle ancora. Portai una tazza a Lynne e poi tornai a prendere la mia, insieme a un biscotto. Andai a sedermi vicino a lei e la guardai. Le avevano dato l'incarico di sorvegliarmi perché non aveva conosciuto l'altra donna, o perché l'aveva conosciuta? Aveva preso il tè anche con Jennifer Hintlesham, facendo finta di esserle amica, dicendole che tutto sarebbe finito bene, che non correva pericoli? Bevvi un sorso di tè. Era troppo caldo, mi scottai la lingua e cominciai a tossire. Quando mi ripresi, immersi il biscotto nel tè e ne mordicchiai il bordo caldo e molle. Poi iniziai a parlare con un tono casuale. «Mi sembra ancora strano che solo per una lettera una poliziotta venga incaricata di stare da me per giorni e giorni. Lo fate tutte le volte che qualcuno riceve una minaccia?»
Lynne era a disagio. O forse ora la sua espressione imperturbabile mi sembrava una maschera. «Sto semplicemente seguendo la routine.» «E se qualcuno entrasse in casa e mi assalisse, lei mi verrebbe in soccorso?» le domandai con un sorriso. «È questa l'idea?» «Non succederà nulla del genere» rispose, e per un momento la odiai come non avevo mai odiato nessuno. Avrei voluto saltarle addosso come una pazza e ficcarle le unghie in faccia. Chi stava cercando di consolare? Ma l'odio si placò e divenne solo un dolore sordo. Mandai giù un sorso di tè bollente il più velocemente possibile. Avevo bisogno di tempo per riflettere. Squillò il telefono. Zach. Gli dissi che avevo l'emicrania. «L'emicrania? Come fai a saperlo?» «Perché mi sembra questo. Devo andare a stendermi.» Effettivamente ritornai a letto. Cercai di ricordare quanti più particolari potevo dei giorni appena passati, che avevo preso tanto alla leggera. Ogni ricordo era come un oggetto in una casa, e a riprenderlo, a riesaminarlo, ora mi sembrava diverso. Pensai soprattutto a Cameron. Cameron seduto nell'angolo che mi guardava, quasi avidamente. Cameron che mi toglieva i vestiti come se fossi un meraviglioso oggetto di valore che si poteva rompere. Cameron che mi accarezzava con tenerezza, infinita attenzione e precisione. Cameron con la testa tra i miei seni. Che cosa aveva detto? «Devo essere onesto con te.» Onesto. La sera uscii con Lynne e andammo a comprare pesce fritto e patatine. Le mangiucchiai, bevvi una bottiglia di birra e non dissi quasi una parola. Lynne continuava a lanciarmi occhiate. Sospettava che io sospettavo? Poi andai a dormire, anche se era ancora presto; non era nemmeno buio. Rimasi ad ascoltare i rumori della strada, del sabato sera a Camden Town. Continuavo a pensare all'altra donna e più ci pensavo più mi sentivo terrorizzata, come una macchia di umidità che si allarga. Alla fine mi addormentai e feci dei sogni frammentati. Quando mi svegliai dimenticai immediatamente i sogni, come mi capita sempre. Ma ne ero contenta, come se una parte di me lo facesse di proposito, per difesa. Il telefono stava squillando. Sgusciai fuori del letto e andai a rispondere. Era Cameron. Sussurrava. «Ho solo un momento» disse. «Mi manchi tanto.» «Bene» risposi. «Ho una disperata voglia di vederti» sibilò. «Non posso non stare con te. Mi sono messo d'accordo per essere libero nel pomeriggio. Posso venire a
trovarti verso le quattro?» «Sì.» Passai il giorno come avvolta in una nebbia scura. Uscii con Lynne per un paio d'ore; andammo al mercato di Camden Lock, ma solo perché così era più facile non parlare, o almeno non parlare di nulla di importante e non dover ascoltare altre bugie. Cameron arrivò esattamente alle quattro. Aveva i jeans e una camicia blu. Non si era sbarbato. L'aspetto era più arruffato del solito. E notai che era più bello che mai, meno controllato. Disse a Lynne che l'avrebbe sostituita per un paio d'ore. C'erano delle questioni riguardanti la settimana successiva che voleva discutere con me. Lynne indugiò un po', come suo solito. Si era accorta di quello che stava succedendo? E come non avrebbe potuto? Ma in quell'occasione trovai l'indugio quasi insopportabile. Sentii che faticavo a resistere, che avrei potuto farmi del male. Alla fine udii il rumore dei suoi piedi sugli scalini che portavano al marciapiede. Cameron gentilmente richiuse la porta alle sue spalle e si voltò verso di me. «Oh, Nadia» disse. Io andai verso di lui. Mi ero preparata per quel momento tutto il giorno, dall'istante in cui gli avevo parlato al telefono. Allungò le braccia verso di me. Io serrai i pugni più forte che potei. Quando mi fu a pochi centimetri di distanza lo guardai diritto negli occhi e poi, con tutta la mia forza, gli diedi un pugno in faccia. DIECI Si portò le mani al viso. Per proteggersi o per colpire? Io gli rimasi davanti, a mento in su, quasi sfidandolo a reagire. Ma lui abbassò le mani e fece un passo indietro. «Che cosa diavolo...?» Non parlò a voce alta, ma in modo freddo. Lo sguardo era freddo. Il suo bel viso aveva un'espressione ottusa, stupida e cattiva. Vidi con soddisfazione che gli colava sangue dal naso, dove l'aveva colpito il mio anello. «Io so, ispettore Stadler.» «Che cosa?» «Tutto.» «Di che cosa stai parlando?» «Ti ha eccitato?»
«Che cosa?» ripeté. «Che cosa?» Si asciugò il sangue dal naso e poi si guardò le dita. «Ti ha eccitato, vero? Ti eccita pensare di scopare una donna che sta per morire.» «Sei isterica» disse con la voce piatta per il disprezzo. Gli puntai un dito contro il petto. «Jennifer Hintlesham. Ti dice niente questo nome?» La sua espressione cambiò, nello sguardo si fece strada una debole luce di comprensione. «Nadia» disse. Fece un passo verso di me con la mano in avanti, come se fossi un animale selvatico che bisogna blandire. «Nadia, per favore.» «Stai dove sei, tu... tu...» Non riuscii a trovare un appellativo abbastanza denigratorio. «Che cosa credevi? Come hai potuto farmi una cosa del genere? Ti eccitava pensare a me morta?» Il suo viso si placò. «Ti abbiamo detto che prendevamo le minacce seriamente» disse con sguardo inespressivo. «Maledetto ipocrita.» Gli diedi uno schiaffo sulla guancia. Volevo fargli male, mutilarlo, polverizzarlo. «Non posso crederci» dissi. «Non posso credere di averlo fatto con te.» Lo guardai disgustata. «Un uomo sposato che si eccita a scopare la donna che dovrebbe proteggere.» «Ti stiamo proteggendo.» Allora stupii me stessa scoppiando in lacrime. «Nadia.» La sua voce era dolce ora, con un accenno di trionfo. «Cara, Nadia, mi dispiace. Mi odiavo per non potertelo dire.» Sentii su di me le sue mani e sobbalzai. «Stanimi lontano» gridai attraverso le lacrime. «Non sto piangendo per causa tua. Sono spaventata, non capisci? Sono così spaventata che mi sembra di avere un buco nel petto.» «Nadia...» «Sta' zitto.» Presi un fazzoletto di carta dalla tasca e mi soffiai il naso. Poi guardai l'orologio. «Lynne ritornerà tra un'ora e ho bisogno che tu risponda a qualche domanda. Vado a lavarmi la faccia.» «Aspetta» disse. «Non ti toccherò, te lo prometto, ma posso solo dirti che quello che è successo tra noi non è stato, voglio dire, non è, non vorrei che nessuno...» Si fermò e mi guardò con un'espressione che era ossequiosa e risentita al tempo stesso. Aveva paura di me, ora. In bagno mi sciacquai il viso e le mani e mi lavai i denti. Avevo un gusto cattivo in bocca. Mi guardai nello specchio. Non ero diverr sa dal soli-
to. Ma come potevo essere la stessa? Sorrisi, e la mia immagine riflessa ricambiò il sorriso allegramente. L'odio si era placato. Mi sentivo fredda, calma e spettrale. Anche Cameron sembrava intorpidito. Ci sedemmo al tavolo, uno di fronte all'altro, come due sconosciuti. Sembrava impossibile che un paio di giorni prima mi tenesse il capo tra le mani come se fosse l'oggetto più adorato del mondo, toccandomi sotto i vestiti. Rabbrividii al ricordo. «Come l'hai scoperto?» mi domandò. «Il nord di Londra è un piccolo paese. Specialmente la zona dei ricchi. Ho incontrato la governante, Lena.» Non rispose, ma vidi un leggero cenno di riconoscimento. «Mi ha parlato delle lettere. E di te. Sei sicuro che sono della stessa persona?» Evitò di guardarmi negli occhi. «Sì» rispose. «Anche a lei scriveva lettere come quella che ha scritto a me, e poi l'ha uccisa?» «Sì.» «Ma non la stavate sorvegliando?» «Sì, ma poi sono intervenute delle complicazioni.» «Comunque è riuscito a introdursi nella sua casa e a ucciderla.» «Non la stavamo proprio sorvegliando, a quel punto.» «Perché no? Non ci credevate?» «Niente affatto» replicò, piccato. «Ci credevamo eccome, dopo...» Si interruppe bruscamente. «Che cosa?» «Niente.» «Che cosa?» «Nadia, devi sapere che stiamo prendendo tutte le precauzioni per proteggerti.» «Che cosa? Dopo che cosa? Dimmelo.» «Sapevamo che le lettere alla signora Hintlesham andavano prese molto sul serio» mormorò, a voce così bassa che lo udii a stento. «Perché?» Lo osservai e fu allora che capii. La nuova consapevolezza mi inondò di orrore al punto che non riuscii quasi a respirare. Lo guardai fisso. La voce mi uscì come un mormorio roco. «Non è stata la prima, vero?» Cameron scosse il capo. «Chi altri?» «Una ragazza, una certa Zoe Haratounian. Viveva a Holloway.»
«Quando?» «Cinque settimane fa.» «Come?» Cameron scosse di nuovo il capo. «Per favore, Nadia. Non fare domande. Ti stiamo sorvegliando. Fidati di noi.» Non riuscii a reprimere una risata cattiva. «So quello che provi, Nadia.» Sprofondai il capo nelle mani. «No, non lo sai. Non lo so io, quello che provo. Come potresti tu?» «Che cosa hai intenzione di fare?» Sollevai la testa e gli lanciai uno sguardo furente. Voleva sapere se l'avrei tradito? Un bambino; bambino crudele e vanitoso. «Ho intenzione di vivere» risposi. «Naturalmente.» Lo disse con voce conciliatoria, con un tono melenso. Sembrava un dottore che parla a un paziente sul punto di morire. «Pensi che morirò, vero?» «Niente affatto. Assolutamente no.» «Un pazzo» dissi. La paura mi salì in gola, come bile. Il sangue pulsava nelle orecchie. «Un assassino.» Suonarono alla porta. La sorridente, timida, bugiarda Lynne. Cameron disse a voce bassa: «Per favore, non dire a nessuno di noi». «Va' a farti fottere. Sto pensando.» UNDICI Per qualche strana ragione, l'incontro con Lynne mi divertì. Aveva tentato di fare a Cameron qualche domanda tecnica sui turni della settimana successiva, ma lui non era stato quasi in grado di parlare o di guardare, né lei né me, negli occhi. Si accarezzava la guancia dolcemente, come a cercare di capire con la punta delle dita se il mio pugno avesse lasciato qualche segno rivelatore. Poi mormorò qualcosa riguardo al fatto che doveva andarsene. «Ne parleremo domani» dissi. «Di cosa?» domandò mesto. «Dell'organizzazione.» Mi guardò duramente, poi scrollò le spalle e se ne andò. Quasi con sorpresa, mi ritrovai da sola con Lynne. Non avevo pensato a che cosa le avrei detto dopo aver parlato con Cameron.
«Qualcosa da bere?» le domandai. Non sono il tipo di persona che ha bisogno di bere alcolici, ma in quel momento mi ci voleva. «Una tazza di tè sarebbe perfetta.» Così andai a mettere il bollitore sul fuoco. Mi sembrava di stare sempre a prepararle il tè, come se fossi sua nonna. Per lei una tazza e una bustina. Per me, trovai in fondo a un mobiletto una bottiglia di whisky che qualcuno mi aveva portato una volta dal duty-free. Ne versai un dito in un bicchiere e poi aggiunsi dell'acqua del rubinetto. Andammo in giardino. Anche se era già sera faceva ancora ferocemente caldo. «Salute» dissi, toccando la sua tazza con il mio bicchiere e bevendo un sorso di whisky, che mi bruciò la gola. Lo sentii sfrigolare giù, all'interno del mio corpo e finire in pancia. Il giardino era un disastro, naturalmente, ma il fatto che l'erba fosse tanto alta me lo faceva sentire come un rifugio da tutte quelle orribili cose che c'erano fuori e che si udivano ancora: il traffico, la musica di uno stereo in un appartamento vicino. Andammo in un angolo dove c'era un cespuglio. Era ricoperto da grappoli di fiori conici color porpora. E intorno svolazzavano farfalle bianche e marroni, come pezzetti di carta portati dal vento. «Mi piace venire qui la sera» dissi. Lynne annuì. «Voglio dire d'estate. Non sotto la pioggia. Mi piace guardare i fiori e chiedermi quali nomi avranno. Lei sa niente dei fiori?» Lynne scosse il capo. «Peccato.» Bevvi un altro sorso. Ora dovevo parlare. «Le devo delle scuse» dissi, proprio mentre si stava portando la tazza alle labbra per accertarsi che il tè non fosse troppo caldo. Fu sorpresa. «Per quale ragione?» «Ieri le ho domandato se tutto questo, tutta questa protezione, non fosse esagerata. Mi chiedevo come mai faceste tutto ciò. Ma a dir la verità lo sapevo.» Lynne rimase paralizzata nell'atto di portarsi la tazza alla bocca. Continuai. «Vede, è successa una cosa buffa. Ieri, alla festa dei bambini, ho parlato con la governante di uno di loro e assolutamente per caso ho scoperto una cosa. Che lei lavora, lavorava, per una certa Jennifer Hintlesham.» Devo riconoscere a Lynne un certo sangue freddo. Non mostrò nessuna reazione. Semplicemente evitò di guardarmi negli occhi. «La conosce?» le domandai. Lynne non rispose subito. Abbassò gli occhi sul tè. «Sì» disse a voce così bassa che a stento riuscii a udirla.
Fui assalita da un pensiero, o piuttosto da una sensazione. L'avevo provata qualche volta con Max, quando andavamo da qualche parte e per qualche ragione intuivo che ci era già stato prima con un'altra ragazza. E anche se sapevo che era stupido, tutto diventava un po' triste, grigio. «Anche con lei faceva queste cose? Con Jennifer? Andavate a prendere il tè in giardino?» Lynne era in trappola. Ma non poteva scappare. Doveva stare lì a sorvegliarmi. «Mi dispiace» rispose. «È stato spiacevole non potergliene parlare, ma avevo istruzioni precise. Pensavano che sarebbe stato troppo traumatico per lei.» «Jennifer sapeva dell'altra donna uccisa?» «No.» Involontariamente spalancai la bocca. Ero sbalordita. Non riuscivo a pensare che cosa dire. «Io... Allora ha mentito anche a lei» fu tutto ciò che alla fine mi uscì fuori. «Non è così» rispose, sempre evitando di guardarmi. «Fu una decisione presa all'inizio. Pensavano che non fosse giusto spaventarla troppo.» «Neanche lei. Voglio dire, non volevate spaventare troppo neanche Jennifer?» «Giusto.» «Allora, mi faccia capire bene: lei non sapeva che l'individuo che le mandava quelle lettere aveva già ucciso una donna?» Lynne non rispose. «E non ha potuto prendere delle decisioni su come proteggere se stessa.» «Non è andata così.» «In che senso non è andata così?» «Non sono stata io a prendere questa decisione, ma sono sicura che è stata per il meglio. Pensavano fosse per il meglio.» «La vostra strategia per proteggere Jennifer e anche la prima donna, quella Zoe, non ha funzionato molto bene.» Bevvi un lungo sorso di whisky, che mi fece tossire. Non ero abituata all'alcol. Mi sentivo triste e spaventata, e stavo male. «Mi dispiace, Lynne, sono sicura che per lei tutto questo sia orribile, ma per me è molto peggio. Questa è la mia vita, sono io che dovrò morire.» Lei mi si avvicinò. «Non dovrà morire.» Indietreggiai. Non volevo che quelle persone mi toccassero. Non volevo
la loro compassione. «Non capisco, Lynne. È rimasta con me per giorni, nella mia casa, a bere tè e mangiare insieme. Le ho parlato della mia vita. Mi ha visto gironzolare qui intorno scalza, stravaccata sul divano, mezza nuda. Mi ha visto credere in lei, avere fiducia. Non capisco. Che cosa stava pensando?» Lynne rimase in silenzio e neanch'io parlai per un po'. Sorseggiavo il whisky. «Pensa che sia stupida?» continuai. «È solo che non mi piace che tutti sappiano di me qualcosa che io non so. Che cosa avrebbe provato lei, se fosse stata al mio posto?» «Non lo so.» Bevvi un altro sorso di whisky. Ho una resistenza incredibilmente bassa a ogni tipo di droga, e stava cominciando a farmi effetto: fisicamente provavo piacere, perché avevo un fisico resistente, ma per la testa non andava bene. Mi stava diventando difficile continuare a essere in collera, anche se la paura era ancora lì, che pulsava in qualche punto profondo dentro di me. Sentivo l'alcol dappertutto, sia dentro che fuori di me, e mi sembrava rendesse il mondo più soffice, più morbido nella luce dorata di quella serata estiva nel nord di Londra. «Ha dovuto sorvegliare anche la prima donna?» «Zoe? No. L'ho incontrata solo una volta. Poco prima... insomma...» «E Jennifer?» «Sì, con lei ho passato parecchio tempo.» «Com'erano? Mi somigliavano?» Lynne vuotò la tazza di tè. «Mi dispiace davvero tanto che sia stata tenuta all'oscuro, ma è assolutamente proibito divulgare questo tipo di informazioni. Mi dispiace.» «Non capisce quello che sto dicendo?» Alzai la voce con una certa amarezza. «Non ho mai incontrato queste due donne. Non so neanche che aspetto avevano. Ma ho una cosa molto importante in comune con loro. Vorrei sapere di loro. Potrebbe essere d'aiuto.» Il viso di Lynne era diventato inespressivo. Improvvisamente assunse l'aspetto di un'impiegata dietro una scrivania. «Questo lo deve domandare all'ispettore capo Links. Io non sono autorizzata a dare queste informazioni.» Sul suo viso passò un lampo di interesse umano. «Senta, Nadia, non è a me che deve chiedere. Non ho visto i documenti del caso. Sono sempre rimasta ai margini, come lei.» «Io non sono ai margini. Mi piacerebbe. Io sono esattamente nel buco
nero al centro. Allora le cose stanno così: vuole solo che mi fidi di lei, che abbia fiducia che lei sia migliorata nel suo lavoro?» Andasse a farsi fottere, pensai. Andassero tutti a farsi fottere. Entrammo in casa, quasi senza guardarci. Lei preparò dei panini con rimasugli di prosciutto che aveva trovato in frigo e andammo a sederci davanti al televisore senza parlare. Quasi non notai quale programma trasmettevano. Dapprima pensai con rabbia a scene della mia vita recente, conversazioni con Lynne, Links, Cameron. Mi venne in mente quando ero stata a letto con Cameron, il modo in cui mi aveva guardata. Cercai di immaginare la carica erotica di un corpo nudo come il mio, il corpo di una donna che presto sarebbe morta e non lo sapeva. Che cosa significava essere un amante il cui unico rivale era un assassino? Rendeva il sesso più eccitante? Più ci pensavo, più l'idea di lui che accarezzava il mio corpo mi faceva venir voglia di vomitare, come se dei ratti mi avessero rosicchiato i seni e il sesso. Non avevo mai veramente avuto paura prima. Non ero paurosa. Mi innamoravo e mi arrabbiavo con facilità, e mi innervosivo, eccitavo, rallegravo spesso. Gridavo, piangevo, ridevo. Questi sentimenti li avevo a fior di pelle e li esprimevo apertamente. Ma la paura era nascosta in profondità. Ora avevo paura, ma quel sentimento non annullava tutte le altre emozioni, come avviene per la collera, per esempio, o quando si è preda di un desiderio improvviso. Era più come allontanarsi dalla luce del sole, entrare in una zona d'ombra: dava una sensazione di freddo, di mistero. Si penetrava un mondo differente. Non sapevo a chi rivolgermi. Pensai ai miei genitori, ma subito scartai l'idea. Erano vecchi e nervosi. Erano sempre stati in ansia per me, anche quando non ce n'era nessuna ragione. Zach, il caro, malinconico Zach. O forse Janet. Chi era calmo e forte come una roccia? Chi mi avrebbe ascoltata? Chi mi avrebbe salvata? E poi, senza volerlo, cominciai a pensare alle donne che erano morte. Non sapevo nulla di loro a parte il nome, e il fatto che Jennifer Hintlesham aveva tre bambini. Mi ricordavo il volto birichino, da cherubino, del suo bambino piccolo. Due donne. Zoe e Jenny. In che modo si somigliavano, che cosa avevano provato? Dovevano essere state sveglie a letto, al buio, come me, con la stessa gelida paura che scorreva per il corpo, come me. La stessa solitudine. E ora le donne unite da quel folle non erano più due, ma tre: Zoe, Jenny e Nadia. Nadia ero io. Perché io? pensavo distesa sul letto, ascoltando i suoni della notte. Perché loro e perché io? E, semplicemente, perché?
Ma anche allora, raggomitolata tra le coperte, con il cuore che batteva e gli occhi che bruciavano, sapevo di dover superare quello stato di terrore cieco e disperato. Non potevo semplicemente stare rannicchiata a letto ad aspettare che accadesse qualcosa o che qualcuno mi portasse via da quell'incubo. Piangere sotto le lenzuola non mi avrebbe salvata. E sentii che una piccola parte dentro di me si disponeva all'azione. Mi addormentai all'alba e il mattino seguente, quando mi svegliai inebetita per la stanchezza e i sogni strani, non mi sentivo affatto meglio o più coraggiosa. Ma più forte sì. Alle dieci chiesi a Lynne se poteva uscire un momento dalla stanza perché dovevo fare una telefonata privata. Lei disse che sarebbe andata ad aspettare in auto e quando se ne andò, chiudendo con forza la porta dietro di sé, chiamai Cameron al lavoro. «Sono disperato» mi disse non appena arrivò al telefono. «Bene. Lo sono anch'io.» «Mi dispiace tanto che tu ti senta tradita. Mi fa tanto male.» «Potresti fare qualcosa per me.» «Qualsiasi cosa.» «Voglio vedere i documenti di questo caso. Non solo quelli che riguardano me, ma anche quelli delle altre due donne.» «Questo non è possibile. Non sono a disposizione del pubblico.» «Lo so, però li voglio vedere lo stesso.» «È assolutamente fuori discussione.» «Voglio che tu mi ascolti molto attentamente, Cameron. Secondo me ti sei comportato male con la faccenda del sesso. Forse scopare con una vittima potenziale ti dava una specie di eccitazione malata. Ma a me è piaciuto, e io sono adulta, eccetera eccetera. Non mi interessa punirti. Voglio dirtelo chiaro e tondo. Ma se non mi porti i documenti andrò a parlare a Links della nostra relazione sessuale e probabilmente mi farò un pianto e gli accennerò al mio stato di vulnerabilità e cose così.» «Non faresti una cosa del genere.» «E andrò a dirlo a tua moglie.» «Non lo faresti. Sarebbe...» Ebbe un colpo di tosse, come se stesse soffocando. «Non devi dirlo a Sarah. È depressa, non sarebbe in grado di affrontare questa cosa.» «Non mi interessa. Portami i documenti.» «Non faresti una cosa del genere» ripeté lui con voce strozzata. «Non ne saresti capace.» «Ascolta attentamente quello che dico. C'è un uomo che ha ucciso due
donne e ora ha intenzione di uccidere me. In questo momento non mi interessa affatto la tua carriera né tanto meno mi importa di come si senta tua moglie. Se vuoi cercare di giocare d'azzardo con me, fallo. Io voglio i documenti qui domani mattina e voglio averli un tempo sufficiente per poterli leggere attentamente. Poi li potrai portare via.» «Non posso farlo.» «Vedi tu.» «Cercherò.» «E li voglio tutti.» «Farò quello che posso.» «Fallo, e pensa alla tua carriera. Pensa a tua moglie.» Quando posai il telefono mi aspettavo che sarei scoppiata a piangere o mi sarei vergognata di me stessa, invece guardai il mio riflesso nello specchio sopra il caminetto. E con una certa sorpresa scorsi un volto amico. DODICI Sgombrai il grande tavolo del soggiorno, ma non c'era ancora spazio a sufficienza. Dopo che Cameron si era liberato di Lynne, gli ci vollero tre viaggi per portare su i documenti che aveva in automobile. Erano stipati in due cartelle gonfie e due scatoloni di cartone, suddivisi in cartelline rosse, blu e beige. Le mise sul tavolo e, quando non ci fu più posto, sul tappeto. Quando ebbe finito aveva il fiatone, il viso pallido e bagnato di sudore. La sua pelle era di uno stanco pallore grigiastro. «Tutto qui?» domandai ironicamente, quando scaricò l'ultima pila ai miei piedi. «No.» «Ho detto che volevo tutto.» «Ci sarebbe voluto un camioncino per portare tutto. Questi sono i documenti effettivi, quelli ai quali ho accesso diretto. In ogni modo, non capisco a che cosa ti possano servire. Li troverai praticamente incomprensibili.» Si sedette sulla scomoda poltrona di vimini nell'angolo. «Hai due ore. E se dici in giro che hai visto questa roba, sono finito.» «Zitto» gli feci, prendendo dei fogli a caso. «Come sono ordinati?» «Non metterli in disordine. I documenti nelle cartelline beige sono quasi tutti deposizioni. Nelle blu si trovano i nostri rapporti e documenti. Nelle rosse, i risultati delle autopsie e dei rilevamenti della Scientifica sulla scena del delitto. Questo in linea di massima. Comunque è tutto scritto sulla
copertina.» «Ci sono fotografie?» «Negli album sul pavimento, ai tuoi piedi, ci sono le foto scattate sulle scene dei delitti.» Abbassai gli occhi. Mi sembrava strano che la polizia mettesse le fotografie degli omicidi nello stesso tipo di album che la gente usa per le foto delle vacanze. Improvvisamente mi venne freddo. Era stata una buona idea? «Magari le guarderò tra un minuto. Volevo solo vedere com'erano.» Cameron si avvicinò e cominciò a frugare sul tavolo, mormorando tra sé. «Ecco, questa» disse. «E anche questa.» Quando allungai il braccio, mi prese la mano. «Mi dispiace.» Mi scostai. Avevo fretta. «Va' via» gli ordinai. «Va' in giardino. Ti chiamerò quando sarò pronta.» «Oppure?» disse lui stancamente. «Oppure telefonerai a mia moglie?» «Non riesco a leggere se stai qui.» «Non è una lettura piacevole, Nadia» disse dopo un momento. «Lasciami sola.» Lentamente e con riluttanza lasciò la stanza. Ebbi un momento di esitazione ad aprire la prima cartella, perfino a toccarla, come se fosse percorsa da corrente elettrica. Avevo la sensazione che avrei aperto una porta e sarei entrata in una stanza che avrebbe per sempre cambiato la mia vita. Mi avrebbe reso differente. Aprii la cartellina e la vidi. Un'istantanea pinzata a un foglio di carta. Zoe Haratounian. Nata l'11 febbraio 1976. Guardai la foto più da vicino. Doveva essere in vacanza. Era appoggiata a un muretto e sullo sfondo c'era un cielo di un blu intenso. La luce tagliente la costringeva a socchiudere gli occhi (aveva un paio di occhiali da sole in mano) e rideva, diceva qualcosa a chi la stava fotografando. Aveva indosso un gilet verde e dei calzoni corti neri, flosci. I capelli biondi le arrivavano alle spalle. Era carina? Probabilmente sì, ma era difficile dirlo. Certamente sembrava simpatica. Era una foto felice, quel tipo di foto che si appende su un tabellone di sughero in cucina, vicino alla lista della spesa e al numero del più vicino posteggio di taxi. In quella cartellina c'erano anche degli appunti scritti a macchina. Era proprio ciò che cercavo. Ragazzo, amici, datore di lavoro, riferimenti ad altre cartelle, numeri di telefono, indirizzi. Avevo preso un taccuino a questo scopo. Annotai alcuni nomi e numeri, facendo attenzione che Cameron
non mi vedesse. Sfogliai i documenti. C'era un'altra foto, un ritratto in bianco e nero che sembrava essere stato fatto per un documento. Sì, era carina. Avevo visto nella fotografia precedente che era magra, ma aveva il viso leggermente tondo. Sembrava molto giovane. Anche se aveva un'espressione seria, nei suoi occhi brillava qualcosa, come se, proprio nel momento in cui veniva fotografata, stesse per scoppiare in una risatina maliziosa. Chissà com'era la sua voce. Aveva un nome straniero, ma era nata vicino a Sheffield. Chiusi la cartellina e la misi attentamente da parte. Ora la seconda. Jennifer Charlotte Hintlesham, nata nel 1961, aveva un aspetto completamente diverso. A dire il vero si trattava di una fotografia più formale, fatta in uno studio. La si poteva immaginare sul tavolo di un soggiorno, in una cornice d'argento. Jennifer era più appariscente di Zoe. Non era bellissima, ma sicuramente si faceva notare. Aveva occhi grandi e scuri e zigomi pronunciati, che lo sembravano ancor di più nel viso lungo e sottile. Aveva qualcosa di antiquato: indossava una maglietta a girocollo e una collana di perle. I capelli erano castano scuro, molto curati e lucidi. Mi fece pensare a una di quelle stelline del cinema inglese degli anni Cinquanta, che nei Sessanta furono dimenticate. Zoe mi era sembrata molto più giovane di me; Jennifer Hintlesham, invece, sembrava maggiore di una generazione. Non tanto perché avesse un viso più vecchio del mio. Gli unici volti che sembrano più avvizziti del mio, soprattutto di prima mattina, sono quelli dissotterrati da una torbiera dopo duemila anni di mummificazione. Però aveva un'aria adulta. Mi sarebbe piaciuto fare amicizia con Zoe, ma non credo che sarei stata il tipo di Jennifer. Guardai di nuovo il documento. Marito e tre figli, nomi ed età. Maledizione. Presi appunti di queste informazioni. Mi venne in mente una cosa. Guardai tra le cartelline dello stesso schedario. Come pensavo, ce n'era anche una con il mio nome. La aprii e vidi una mia foto. Nadia Elizabeth Blake, nata nel 1971. Rabbrividii. Magari tra qualche settimana sarebbe stata più gonfia e ne sarebbe stata aperta un'altra. Guardai l'orologio. Che cosa diavolo fare adesso? E che senso aveva tutto ciò, a parte soddisfare una curiosità? Quando avevo undici anni, nella piscina vicino a casa nostra c'era un trampolino alto cinque metri. Non avevo mai avuto il coraggio di tuffarmi da lì, finché un giorno, semplicemente, salii come se fosse stata una scala qualsiasi e mi buttai senza pensarci. Dovevo fare la stessa cosa ora.
Presi il primo album di fotografie, che aveva la copertina di plastica di un rosso sgargiante. Avrebbe dovuto contenere fotografie di bambine che spengono candeline e ragazzini che tirano calci a una palla sulla spiaggia. Lo aprii e cominciai a girare le pagine meccanicamente. Non c'era molto da vedere. Tornai all'inizio per controllare. Sì, era la scena del delitto di Zoe Haratounian. Il suo appartamento. E lei. A faccia in giù sul tappeto. Non era nuda o niente del genere. Aveva le mutande e una maglietta. E non sembrava morta. Sembrava addormentata. Stretto intorno al collo aveva un nastro o una cravatta o qualcosa del genere. C'erano varie foto che la mostravano in diverse angolazioni. Continuavo a guardare le mutande e la maglietta. Era il pensiero di lei che si metteva quei vestiti la mattina e non sapeva che non se li sarebbe mai più tolti. Uno di quegli stupidi pensieri che non si riescono a levare di testa. Lo posai e presi il secondo album. La scena del delitto a casa di Jennifer Hintlesham. Cominciai a sfogliarlo coscienziosamente, come avevo fatto con il precedente, ma poi mi fermai. Questo album era completamente diverso. C'era una sola fotografia, una sola scena, ma la vidi a segmenti: occhi spalancati con lo sguardo fisso, un filo di ferro intorno alla gola, vestiti strappati o tagliati, gambe allargate e qualcosa, una specie di sbarra di ferro, conficcata dentro di lei, non si vedeva bene dove. Gettai via l'album e corsi al lavandino. Ci arrivai appena in tempo per sputare il vomito che mi era salito in bocca. Vomitai a lungo, dolorosamente, svuotandomi. Poi abbassai gli occhi sul lavandino e mi venne quasi da ridere. Era pieno di piatti sporchi. Adesso ancora più sporchi. Mi lavai il viso con acqua tiepida, poi fredda, e dopo mi imbarcai nella rigovernatura di piatti più disgustosa della mia vita, e sono una che di piatti sporchi ne ha lavati, avendo condiviso la casa con un'altra ragazza e due ragazzi, all'università. L'attività mi ridiede un senso di stabilità e fui in grado di tornare al tavolo e chiudere l'album delle foto senza guardarlo. Non avevo più molto tempo. Avrei dovuto essere selettiva. Sfogliai velocemente i documenti nelle cartelline, soffermandomi a tratti, a seconda del contenuto. Vidi le piantine dell'appartamento di Zoe e della casa di Jennifer. Diedi una scorsa alle deposizioni dei testimoni. Erano così lunghe e prolisse che era quasi impossibile capire con un'occhiata quello che dicevano. Il ragazzo di Zoe, Fred, parlava della paura crescente di Zoe e dei suoi sforzi per calmarla. L'amica, Louise, sembrava distrutta. Era seduta in auto, fuori dell'appartamento, mentre Zoe veniva strangolata. Le deposizioni dei testimoni dell'assassinio di Jennifer riempivano tre grosse cartel-
line. Non potei far molto di più che vedere chi fossero gli interrogati, soprattutto persone che lavoravano per lei. Gli Hintlesham sembravano dar lavoro uno stuolo di artigiani. Guardai con più attenzione i rapporti dei medici legali sulle due donne morte. Quello di Zoe era molto semplice: era stata strangolata con la cintura della sua vestaglia. Le contusioni sul corpo erano dovute alla forza con cui era stata tenuta ferma sul pavimento mentre veniva strangolata. Il tampone vaginale e anale non mostrava segni di violenza sessuale. Il rapporto sulla morte di Jennifer era molto più lungo. Ne annotai qualche particolare: era stata strangolata con un filo di ferro, che le aveva lasciato un solco sottile e profondo sul collo; il corpo mostrava ferite, lacerazioni, tagli, la rottura del perineo. Aveva perso molto sangue e sulla scena del delitto c'erano anche vaste tracce di urina. Se l'era fatta addosso. Una grossa cartellina era dedicata all'analisi delle lettere. C'erano le fotocopie delle lettere inviate a Zoe e a Jennifer, e io le lessi con la sensazione, perversamente colpevole, di leggere lettere d'amore rubate. E infatti erano lettere d'amore, con promesse e giuramenti. C'era anche un disegno, che raffigurava Zoe mutilata. Stranamente, di tutti gli orrori che avevo visto quel giorno, fu quel disegno orribile e crudo a farmi piangere. Fu quello a farmi indugiare sul pensiero di quanta ingegnosità folle una persona stesse impiegando per distruggerne un'altra. Sorvolai sulle analisi. C'erano tentativi di collegare le lettere a persone che Zoe conosceva: il suo ragazzo Fred, un ex fidanzato, un agente immobiliare, una persona potenzialmente interessata a comprare il suo appartamento. Tuttavia le linee tracciate sul disegno (come confermavano anche, diceva un'annotazione, le ferite inflitte a Jennifer Hintlesham) mostravano senza dubbio che l'assassino era mancino. Nessuno dei sospettati lo era. C'erano cartelline con i rapporti della Scientifica sulle scene dei delitti: polvere, pezzetti di tessuto, capelli e molto altro. Per lo più erano così tecnici che non riuscivo neanche a capire se fosse stato scoperto qualcosa di significativo. Non sembrava. All'inizio c'era una paginetta che conteneva un sommario dei risultati delle indagini ed era stato inviato a Links, Cameron e altri membri della squadra omicidi. Vi si affermava chiaramente che non erano stati trovati indizi significativi nei campioni prelevati dalle due scene del delitto. I capelli e le tracce di tessuto trovati sui vestiti di Zoe, sul tappeto, sul copriletto e su altri capi di abbigliamento appartenevano solo ai recenti abitatori dell'appartamento: Fred e Zoe stessa. L'analisi dei capelli e delle tracce di tessuto presenti sulla scena del delitto di Jennifer
Hintlesham era più complicata. C'erano parecchi campioni non identificati, dovuti alla presenza di un gran numero di persone nell'edificio. Tuttavia nei due luoghi dei delitti non era stato reperito nulla che dimostrasse un collegamento, se non il medaglione di Jennifer, trovato nell'appartamento di Zoe, e la fotografia di Zoe, trovata nell'appartamento di Jennifer. Notizie poco rallegranti. Diedi una scorsa anche a un mucchio di annotazioni, che sottolineavano i vari stadi dell'inchiesta, compreso il risultato di un'indagine interna informale contrassegnata con la scritta «TOP SECRET». Fu allora che venni a sapere che avevano tolto la sorveglianza a Jennifer Hindesham perché suo marito, Clive, era stato accusato dell'assassinio di Zoe Haratounian. Che fottuto casino. Proprio quando stavo per richiamare dentro Cameron, cominciai a sfogliare il contenuto di una cartellina, apparentemente documenti di routine. Alla fine l'occhio mi cadde su un messaggio fotocopiato. Proveniva da Links, diretto a un certo dottor Michael Griffen, ed era stato inviato per conoscenza anche a Stadler, Grace Schilling, Lynne e un'altra dozzina di persone i cui nomi non mi dicevano niente. Iniziava come la risposta a quelle che sembravano critiche da parte del dottor Griffen riguardo alle procedure svolte sulle scene dei delitti, soprattutto nell'appartamento di Zoe Haratounian, che parevano esser state poco corrette: Farò tutto il possibile per assicurare che nel futuro la scena del delitto venga sigillata con prontezza ed efficacia. Mi rendo conto che la soluzione di questo caso risiede nelle mani degli scienziati e dei medici legali, soprattutto a causa delle difficoltà pratiche che comporta la protezione personale. Le forniremo tutta la cooperazione possibile. Urlai a Cameron di venire dentro e lui entrò dopo un secondo. Mi aveva spiato dalla finestra? Ma che importava? «Guarda» gli dissi, porgendogli il messaggio. «Qui si parla di una futura scena del delitto. Non è proprio un esempio di fiducia nelle vostre capacità.» Lui guardò il messaggio e poi lo rimise nella cartellina. «Sei stata tu a voler vedere questi documenti. Ovviamente dobbiamo prevedere ogni eventualità.» «Forse dal mio punto di vista le cose appaiono differenti. Quel delitto
futuro sarebbe il mio, no?» «Allora, cosa ne pensi?» «È stato orribile. Ma sono contenta di sapere.» Cameron cominciò a rimettere insieme i documenti e infilarli nelle cartelle e nelle scatole. «Non ci somigliamo molto» dissi. Lui rimase un momento in silenzio. «Come?» «Pensavo che saremmo state simili. So che è difficile dirlo dalle fotografie e da pochi dettagli, ma mi sembra che siamo completamente diverse. Zoe era più giovane e più dolce di me, scommetto. Inoltre aveva un lavoro vero. E Jennifer sembra un membro della famiglia reale. Non penso che mi avrebbe degnata di uno sguardo.» «Forse no» rispose Cameron pensieroso, e in quel momento sentii una punta di gelosia. Lui l'aveva vista, le aveva parlato. Conosceva il suono della sua voce, aveva notato i suoi piccoli gesti buffi, quelle cose che non vengono mai scritte su un rapporto. «Siete tutte piccoline» disse. «Che cosa?» «Siete tutte minute e magre. E vivete nel nord di Londra.» «Allora queste sono le conclusioni a cui siete arrivati? Sei settimane circa di indagini, due donne morte, e tutto quello che sapete è che questo assassino non sceglie delle energumene alte un metro e ottanta che vivono in ogni parte del mondo.» Aveva finito di rimettere le cartelline nelle scatole. «Devo andare» disse. «Lynne sta per arrivare.» «Cameron?» «Sì?» «Non lo dirò né a tua moglie, né a Links, né a nessuno.» «Bene.» «Ma l'avrei fatto.» «È quello che ho pensato.» Eravamo tutti e due leggermente imbarazzati ora. L'imbarazzo che si prova quando si è con qualcuno che ci ha visto nudi e che ora non ci interessa più. Avevo voglia di ritirarmi nella mia camera a piangere e a pensare alla morte per un paio d'ore. «Nadia?» «Sì?»
«Mi dispiace per tutto. È stato così... Così...» Si interruppe e si fregò il viso, poi si guardò intorno come se temesse che Lynne potesse già essere entrata nella stanza senza che ce ne fossimo accorti. «Ho un'altra cosa.» «Che cosa?» Capii dal tono della sua voce che non erano buone notizie. Lui tirò fuori dall'interno della giacca dei fogli. Due fogli. Li aprì e li stese sul tavolo. «Le abbiamo intercettate in questi ultimi giorni.» «Come?» «Una è stata inviata per posta. L'altra mi pare sia stata fatta passare attraverso la porta.» Li fissai. «Questa è la prima» disse indicando il foglio sulla sinistra. Cara Nadia, voglio scoparti fino alla morte. E voglio che tu ci pensi. «Oh» feci io. «E questa è arrivato due giorni fa.» Cara Nadia, non so che cosa ti stia dicendo la polizia. Non possono fermarmi. E lo sanno. Tra qualche giorno, una settimana o due, sarai morta. «Volevo essere onesto con te.» «Sai, per me era stato di un certo conforto aver ricevuto una sola lettera. Pensavo che magari aveva deciso di ammazzare qualcun'altra.» «Mi dispiace» disse lui guardandosi intorno. «Devo andare a portare questa roba in macchina. Ma mi dispiace molto.» «Morirò, vero? Voglio dire, è questo che pensi, vero?» Aveva già una scatola in mano. «No, no» disse andando verso la porta. «Andrà tutto bene.» TREDICI «Vado a Camden Market» dissi. «Subito.» Lynne rimase perplessa. Era sabato mattina, da poco passate le nove, e penso che si fosse abituata al fatto che io stessi a letto fino a tardi per essere un po' da sola. Negli ultimi due giorni ero rimasta chiusa nel mio incubo con quelle fotografie che continuavano a ronzarmi per la testa. Zoe che
sembrava semplicemente addormentata; Jenny oscenamente mutilata. E ora invece ero pronta a uscire. Mi ero lavata e vestita e mi sentivo stranamente socievole. «Ci sarà un sacco di gente» disse incerta. «Proprio quello che voglio. Folla, musica, vestiti e gioielli a poco prezzo. Voglio comprarmi un mucchio di cose inutili. Non c'è bisogno che lei venga con me.» «Ma certo che verrò.» «Deve, vero? Povera Lynne, che deve sgambettarmi dietro tutto il giorno, essere sempre gentile, e dire bugie. Le mancherà la vita normale, vero?» «Mi va benissimo così.» «Vedo che non ha la fede. Ha un ragazzo?» «Sì.» Il suo volto si colorì del solito rossore, la voglia si infiammò. «Chissà quanto desidera che tutto ciò finisca. In un modo o nell'altro. Su, sono solo cinque minuti di strada.» Lynne aveva ragione. Era una giornata calda, il cielo era di un blu scolorito e sporco e Camden Market era affollatissimo. Lynne aveva calzoni di lana e scarpe pesanti. I capelli le scendevano sul viso in ciocche sudate. Probabilmente si stava sciogliendo, pensai con soddisfazione, lo mi ero messa un vestito senza maniche giallo limone e dei sandali piatti, e avevo i capelli legati indietro. Mi sentivo fresca e leggera. Ci facevamo largo tra la folla e il calore che si sollevava dall'asfalto. Mi guardavo attorno e fui percorsa da un'ondata di euforia solo per il fatto di essere di nuovo in mezzo a quel grande mare di gente. Rasta, punk, ciclisti, ragazze in abitini colorati o gonne dipinte a mano, uomini con visi butterati e occhi curiosi, adolescenti che camminavano dinoccolati con quella finta aria di noncuranza che, grazie a Dio, poi si perdeva crescendo. Alzai la testa e inspirai l'aria densa di patchouli e marijuana e incenso e candele profumate e onesto sudore. C'erano bancarelle che vendevano spremute fresche agli angoli e io comprai per tutte due un bicchiere di spremuta di mango e arancia e un pretzel. Poi acquistai venti sottili bracciali d'argento per cinque sterline e me li infilai al polso, dove con mio grande piacere cominciarono a tintinnare. Mi comprai una sciarpa leggera di seta, un paio di orecchini ad anello, dei fermagli sgargianti per i capelli. Nulla che non potessi indossare immediatamente. Non volevo aver niente in mano. Poi, mentre Lynne sta-
va esaminando delle sculture in legno, me la svignai. Fu facilissimo. Scesi velocemente le scale che portavano al canale e poi me la filai lungo il viottolo che conduceva alla strada principale. C'era sempre un sacco di folla e non ero che un corpo in mezzo agli altri. Mi muovevo a zigzag tra la gente e se anche Lynne fosse venuta a cercarmi lì, non mi avrebbe potuta vedere. Nessuno avrebbe potuto vedermi. Neppure lui con i suoi occhi a raggi x. Ero da sola, finalmente. Mi sentii libera, come se mi fossi scossa di dosso tutta la spazzatura che mi si era attaccata nelle ultime settimane: paura, desiderio e irritazione scomparirono. Stavo bene come non mi capitava da giorni. Sapevo dove volevo andare. Avevo programmato quel giro la notte passata. Dovevo fare svelta, prima che qualcuno scoprisse dov'ero. Dovetti suonare il campanello varie volte. Pensai che fosse uscito, anche se le tende delle finestre al piano superiore erano ancora chiuse. Ma poi udii dei passi e un'imprecazione a bassa voce. L'uomo che mi aprì la porta era più alto e giovane di quanto mi aspettassi, e più bello. Aveva i capelli chiari, che gli cadevano sulla fronte, e occhi chiari nel viso abbronzato. Aveva addosso solo un paio di jeans e nient'altro. Sembrava ancora mezzo addormentato. «Sì?» La sua voce non era esattamente gentile. «Sei Fred?» Gli dissi cercando di sorridere. «Sì. Ti conosco?» Parlava con una sicurezza indifferente. Immaginai Zoe accanto a lui, il suo volto carino, ansioso, che lo guardava. «Mi dispiace averti svegliato, ma è una cosa urgente. Posso entrare?» Lui sollevò le sopracciglia. «Chi sei?» «Mi chiamo Nadia Blake. Sono qui perché sono minacciata dallo stesso individuo che ha ucciso Zoe.» Pensavo che sarebbe stato sorpreso, ma la cosa lo colpì come un pugno nello stomaco. Per un momento pensai che cadesse all'indietro. «Come?» «Posso entrare?» Arretrò di un passo e tenne la porta aperta. Sembrava sconvolto. Gli passai davanti senza che riuscisse a dire niente. Mi seguì di sopra, in un piccolo soggiorno disordinato. «Mi dispiace per Zoe» dissi. Mi guardava attentamente. «Come hai saputo di me?» «Ho visto il tuo nome in un elenco di testimoni.»
Si passò la mano sui capelli arruffati e poi si strofinò gli occhi. «Caffè?» «Grazie.» Andò nella cucina adiacente e io mi guardai intorno. Pensavo che ci sarebbe stata una fotografia di Zoe o qualcosa di lei, ma non vidi niente. Scorsi delle riviste sul pavimento: manuali di orticoltura, una guida alla vita notturna di Londra, una guida TV. Su una mensola c'era una pila di sassi rotondi, ne presi uno che sembrava un uovo d'anatra di marmo e lo soppesai nel palmo della mano. Poi lo rimisi cautamente a posto, raccolsi un cappello marrone di feltro appoggiato sul bordo della poltrona e lo feci roteare sull'indice. Volevo sentirmi vicina a Zoe, ma lei mi sembrava totalmente assente. Da un altro scaffale presi un'anatra di legno e la esaminai. Quando Fred ritornò la rimisi velocemente al suo posto. «Che cosa stai facendo?» mi domandò sospettosamente. «Solo giocherellando. Scusami.» «Ecco il caffè.» «Grazie.» Mi ero dimenticata di dirgli che non mi piaceva con il latte. Fred si sedette sul divano, che sembrava essere stato portato su da una discarica, e mi indicò la poltrona. Teneva la sua tazza con entrambe le mani e ci guardava dentro. Non parlava. «Mi dispiace per Zoe» ripetei, perché non sapevo che altro dire. «Sì» fece lui stringendosi nelle spalle e guardando altrove. Che cosa mi ero aspettata? Avevo sentito come un legame tra di noi, perché lui aveva conosciuto Zoe e avevo pensato che ciò me lo rendesse, per un motivo totalmente irrazionale, più vicino di qualsiasi altro dei miei amici. «Che tipo era?» «Che tipo?» Levò gli occhi in alto immusonito. «Carina, attraente, allegra, cose così. Ma che cosa vuoi da me?» «Lo so che è stupido, ma mi piacerebbe sapere delle cose sciocche di lei: non so, il suo colore preferito, i suoi vestiti, i suoi sogni, che cosa ha provato quando ha ricevuto quelle lettere, tutto...» Rimasi senza fiato. Lui sembrava a disagio, quasi disgustato. «Non posso esserti d'aiuto.» «La amavi?» gli domandai a bruciapelo. Lui mi fissò come se avessi detto una cosa oscena. «Ci divertivamo.» Si divertivano. Sentii male al cuore. Non la conosceva neanche veramente, o non voleva svelarmela. Si divertivano: che epitaffio.
«Ma non ti chiedi mai che cosa deve aver provato? Voglio dire quando era minacciata e poi quando è stata uccisa?» Lui prese un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi da un tavolino basso vicino al divano. «No» rispose accendendosi una sigaretta. «La fotografia di lei che ho visto sembrava molto vecchia. Ne hai una più recente?» «No.» «Nessuna?» «Non faccio fotografie.» «O qualche cosa di lei che potrei vedere. Avrai pure qualcosa.» «Per quale ragione?» disse con il volto duro e ostinato. «Mi dispiace, devo sembrarti una specie di sciacallo. Ma sento un legame con queste due donne.» «Cosa intendi per due donne?» «Zoe e poi Jennifer Hintlesham, la seconda donna che è stata uccisa.» «Che cosa?» fece balzando in avanti. Posò la tazza sul tavolo rovesciando un bel po' di caffè. «Che diavolo?» «Mi dispiace, non lo sapevi. La polizia lo tiene segreto. Io l'ho scoperto per caso. C'è un'altra donna che ha ricevuto le stesse lettere. È stata uccisa qualche settimana dopo Zoe.» «Ma... ma...» Fred sembrò perdersi nei pensieri. Poi mi guardò con un'intensità completamente nuova. «Quella seconda donna...» «Jennifer.» «È stata uccisa dallo stesso uomo?» «Sì.» Fece un piccolo fischio. «Maledizione» esclamò. «Lo so.» Il telefono squillò, forte come una sveglia, e sobbalzammo entrambi. Fred alzò il ricevitore e mi voltò le spalle. «Sì, sì, sono in piedi.» Una pausa, poi: «Vieni adesso, e dopo andiamo a prendere Duncan e Graham». Riagganciò il telefono e si voltò di nuovo verso di me. «Ho un amico che sta arrivando» disse per congedarmi. «Buona fortuna, Nadia. Mi dispiace, ma non posso esserti d'aiuto.» Tutto qui? Non poteva essere. Lo fissai smarrita. «Addio, Nadia» ripeté, spingendomi alla porta. «Sta' attenta.»
Percorsi la strada verso la metropolitana a testa bassa, quasi alla cieca. Povera Zoe, pensai. Fred mi aveva dato l'impressione di un uomo quasi completamente privo di immaginazione, bello e indifferente. Non doveva esser stato molto carino verso di lei, quando aveva ricevuto le lettere, nonostante avesse dichiarato il contrario alla polizia. Ripensai a ciò che aveva detto, non molto, nulla per cui fosse valsa la pena di sfuggire alla sorveglianza della polizia. Fui percorsa da un brivido di paura. Ero da sola, nessuno mi stava proteggendo. Immaginai, tra la folla del sabato, degli occhi che mi seguivano. Improvvisamente mi si parò davanti un ragazzo dai capelli scuri, il viso pallido, i denti che luccicavano dietro il sorriso. Chi era? «Ciao, sembri lontana mille miglia.» Lo guardai fisso. «Sei Nadia, vero? La donna con il computer antidiluviano?» Ah, ecco, mi ricordai chi era. E sorrisi sollevata. «Sì, mi dispiace, ehm...» «Morris. Morris Burnside.» «Certo. Ciao.» «Come stai, Nadia? Come ti va?» «Che cosa? Ah, bene» risposi assente. «Senti, mi dispiace molto, ma vado veramente di fretta.» «Non ti tratterrò. Sei sicura di star bene? Sembri un po' in ansia.» «No, sono solo stanca. Be', arrivederci, allora.» «Arrivederci, Nadia. Abbi cura di te, e a presto.» La casa era bellissima. L'avevo vista in fotografia, naturalmente, ma nella realtà era molto più maestosa, lontana dalla strada e immersa in un giardino, con una scalinata che portava alla porta d'ingresso, un porticato e glicini che si arrampicavano sui muri bianchi. Esprimeva solidità, buon gusto e ricchezza. Sapevo della ricchezza, ma ora ne sentivo il profumo. Alzai gli occhi a dare uno sguardo alle finestre del primo piano. In una di quelle camere Jennifer era morta. Mi tirai indietro i capelli e giocherellai nervosamente con le bretelle del mio vestitino di cotone a buon mercato. Poi andai rapidamente alla porta e bussai con il batacchio di ottone. Stranamente mi aspettavo che fosse Jennifer ad aprire la porta: mi aspettavo di vedere il suo viso sottile e i capelli scuri e lucidi, incorniciati nel vano della porta. Sarebbe stata gentile, in quel modo coltivato e leggermente sorpreso che doveva rivolgere a persone come me, rozze e incaute, e
che significava «va' al diavolo». «Sì?» Non era Jennifer, ma una donna alta ed elegante con i capelli biondi pettinati all'indietro, orecchini, pantaloni neri di buon taglio e camicetta di seta color albicocca. Avevo letto della relazione di Clive nei documenti e più o meno sapevo chi fosse quella signora. «Posso fare qualcosa per lei?» «Vorrei parlare con Clive Hintlesham, per favore. Sono Nadia Blake.» «Si tratta di una cosa urgente?» domandò con gelida cortesia. «Come può probabilmente sentire, abbiamo ospiti.» Effettivamente udivo voci che provenivano a tratti dall'interno della casa. Era mezzogiorno di sabato e il povero vedovo aveva organizzato una festicciola con la sua amante. Sentivo il tintinnare dei bicchieri. «Sì, si tratta di una cosa urgente.» «Entri, allora.» L'ingresso era immenso e fresco e lì il suono delle voci arrivava più forte. Jennifer viveva qui, pensai, guardandomi attorno. Questa era la casa che voleva trasformare nella sua casa dei sogni, ma ora c'era quest'altra donna a presiedere ai lavori, che evidentemente erano stati ripresi. La stanza davanti a me era piena di scale e barattoli di vernice. I mobili in fondo all'ingresso erano coperti con delle lenzuola. «Può aspettare qui?» mi domandò. Ma io la segui all'interno. Insieme entrammo in un ampio soggiorno, visibilmente dipinto da poco di un grigio ardesia, con ampie porte-finestra che davano su un giardino sistemato di recente. Sul caminetto, in una cornice ovale d'argento, c'era una foto di tre bambini. Nessuna di Jennifer. Anche a me sarebbe capitata una cosa così, se fossi morta? Le acque mi si sarebbero richiuse sopra in questo modo? Nel soggiorno si trovavano dieci o dodici persone, tutte con un bicchiere in mano e riunite in gruppetti. Forse erano gli amici di Jennifer e ora erano venuti a dare il benvenuto alla nuova padrona di casa. La donna si avvicinò a un uomo dall'aspetto solido, con i capelli brizzolati e il volto quadrato. Gli mise una mano sulla spalla e mormorò qualcosa all'orecchio. Lui alzò lo sguardo tagliente su di me e mi venne incontro. «Sì?» mi disse. «Mi dispiace interromperla» feci io. «Gloria ha detto che mi deve parlare.» «Sono Nadia Blake. Sono minacciata dallo stesso uomo che ha ucciso Jennifer.»
Non mostrò segni di sorpresa. Si guardò solo intorno furtivamente come per controllare che nessuno ci stesse ascoltando. «Be', e che cosa vuole?» «Che significa? Sua moglie è stata assassinata. Ora quest'individuo vuole uccidere me.» «Mi dispiace molto» disse con voce calma. «Ma perché è venuta qui?» «Pensavo che lei mi potesse dire qualcosa su Jennifer.» Lui bevve un sorso di vino e mi condusse all'estremità della sala. «Ho detto alla polizia tutto quello che era rilevante. Non riesco sinceramente a capire che cosa ci faccia lei qui. È stata una tragedia e ora sto cercando di continuare a vivere come meglio posso.» «Mi sembra che se la stia cavando piuttosto bene» gli dissi guardandomi intorno. Si imporporò. «Che cosa ha detto?» sibilò furiosamente. «Per favore, ora se ne vada, signorina Blake.» Fui pervasa da un'ondata di rabbia e mortificazione e cominciai a balbettare delle scuse, quando vidi un ragazzo, un adolescente, seduto da solo vicino alla finestra. Era magro e pallido, con i capelli biondi e unti, profonde occhiaie e foruncoli sulla fronte. Aveva tutta la disperante malagrazia e goffaggine dell'adolescente maschio; tutta la disordinata e terrorizzata confusione di un figlio che ha perso sua madre. Josh, il figlio maggiore. Lo fissai e i nostri occhi si incontrarono. Aveva occhi immensi e scuri, come quelli di un cagnolino. Molto belli su un viso ordinario. «Me ne vado» dissi tranquilla. «Mi dispiace averla disturbata. È solo che ho paura. Sto cercando aiuto.» Lui mi fece un cenno del capo. Forse non aveva il viso crudele, a dire il vero, ma solo un po' stupido e compiaciuto. Forse era solo un uomo ordinario. Un po' più debole e un po' più egoista. «Mi dispiace» disse a sua volta scrollando le spalle come per significare che non poteva aiutarmi. «Grazie.» Mi voltai sui tacchi, cercando di non piangere, cercando di non badare al fatto che tutti mi stavano guardando come se fossi una pezzente che si era introdotta in casa a forza. Nell'ingresso un bambino piccolo mi passò davanti pedalando furiosamente su un triciclo e poi si fermò. «So chi sei. Sei il clown» urlò. «Lena, il clown è venuto a trovarci. Vieni a vedere.» QUATTORDICI
«Prendo tutto» dissi con fermezza. «Uova e pancetta, pane fritto, patate, pomodori, salsiccia, funghi. E che cos'è quello?» La donna dietro il banco ispezionò il contenuto del recipiente di metallo. «Sanguinaccio.» «Bene, prendo anche quello. E una teiera di tè. E lei?» Lynne era leggermente impallidita, forse a vedere tutto quello che mi veniva messo nel piatto. «Oh, un pezzo di pane tostato. Del tè.» Portammo i vassoi fuori del locale, nel giardino soleggiato che si trovava all'estremità del parco. Eravamo arrivate appena aveva aperto ed eravamo le prime. Scelsi un tavolo in un angolo e vi posammo piatti, tazze e teiere di metallo. Cominciai a mangiare. Attaccai per prima cosa le uova fritte, rompendo il tuorlo in modo che si spandesse per il piatto. Lynne mi guardava con una certa disapprovazione, almeno mi sembrava. «Non è il suo genere, questa roba?» le domandai, pulendomi la bocca con il tovagliolo di carta. «Per me è un po' presto.» Sorseggiava il tè lentamente e prendeva dei microscopici bocconi di pane tostato. Era una mattina bellissima. Gli uccellini, ormai domestici, saltellavano intorno alle gambe dei tavoli in cerca di briciole, gli scoiattoli si rincorrevano lungo i rami dei grandi alberi oltre il muro, nel vero e proprio parco. Per qualche meraviglioso secondo feci finta che Lynne non ci fosse. Mangiavo la mia colazione da infarto e la mandavo giù con grandi sorsate di tè color mogano. «Vuole che vada a sedermi a un altro tavolo» mi domandò Lynne, «quando arriva la sua amica?» «Non importa, la conosce.» «Che cosa?» domandò con aria stupefatta. Mi stavo divertendo. Doveva essere per via del giocoliere che era in me. «È Grace Schilling.» Presi trionfante un boccone di pomodoro al forno con un pezzo di bacon. «Ma...» balbettò Lynne. «Mmh?» Fu l'unica cosa che riuscii a dire con la bocca piena. Vedevo che cercava di decidere quale domanda farmi, delle quattordici che aveva in mente. «Chi... chi l'ha deciso?» «Io.»
«Ma l'ispettore capo Links lo sa?» Scrollai le spalle. «Forse la dottoressa Schilling gliel'ha comunicato. La cosa non mi riguarda.» «Ma...» «Eccola.» La dottoressa Schilling stava avanzando tra i tavolini, che ora erano quasi tutti occupati da gente con bambini e coppie che avevano aperto i giornali della domenica, e non ci aveva ancora individuate. Come al solito era vestita con eleganza, forse solo un po' meno formalmente. Aveva dei calzoni blu scuro che le arrivavano alla caviglia e un maglioncino nero con lo scollo a v. E portava gli occhiali da sole. Ci vide e venne verso di noi. Si tolse gli occhiali e li posò sul tavolo insieme a un mazzo di chiavi e, fui stupita di vedere, un pacchetto di sigarette. Ci guardò con circospezione. Aveva la sua solita espressione sicura di sé e io mi sentii come se fossi stata colta in un porcile con la testa nel trogolo. Ma mi stavo divertendo. «Prende qualcosa per colazione?» le domandai. «Non sono una che fa colazione, veramente.» «Caffè nero e una sigaretta?» «Di solito è tutto quello che riesco a inghiottire.» Lanciai uno sguardo a Lynne, che era sbalordita. «Potrebbe andare a prendere un caffè alla dottoressa Schilling?» le chiesi. Lynne se la filò. «È un po' come avere un'assistente personale» dissi con un sorriso. «Non mi dispiace. Ha parlato con Links?» Si accese una sigaretta. «Gli ho detto che lei aveva chiesto di vedermi.» «Non va bene?» «È stato sorpreso.» Pulii quello che era rimasto del rosso dell'uovo con il pane fritto. «Le vorrei chiedere di essere discreta.» «Che cosa vuole dire?» «Ho visto i documenti del caso. Alcuni, almeno. Non proprio attraverso i canali normali, perciò preferirei che non si sapesse in giro.» Era sbalordita. Ovviamente. Stavo cominciando ad abituarmi a quell'espressione. Aspirò una lunga boccata dalla sigaretta e cambiò posizione sulla sedia. Era a disagio. Pensava di aver perso il controllo della situazione? Speravo di sì. «Allora perché me lo dice?»
«Devo farle alcune domande. So che voi tutti mi avete mentito.» Alzò gli occhi all'improvviso, aprì la bocca per parlare, ma si trattenne. «Non importa. Non mi importa più. Deve sapere che ho appreso di Zoe e di Jennifer. Ho visto i rapporti sull'autopsia. Non mi faccio illusioni. Voglio solo che lei sia franca con me.» Lynne ritornò con il caffè. «Le dispiace se rimango qui?» domandò. «Penso che sia meglio che questa chiacchierata rimanga confidenziale, Lynne, scusi» le risposi. Lei arrossì e si spostò a un tavolo vicino. Io ritornai a Grace Schilling. «In generale non ho opinioni né in un senso né nell'altro sulle capacità della polizia, ma mi capirà se le dico che non ho grande fiducia nella loro capacità di proteggermi contro questo assassino. Lei, loro, voi, avete tenuto sotto sorveglianza due donne che sono entrambe state uccise.» «Nadia» mi interruppe Grace. «Capisco quello che prova, ma ci sono state ragioni per quanto è accaduto. Nel caso della signorina Haratounian...» «Zoe.» «Sì. In quel caso non si è dato il dovuto peso alla minaccia finché non è stato troppo tardi. Nel caso della signora Hintlesham c'è stato un problema.» «Vuole dire l'arresto del marito?» «Sì, quindi lei deve capire che la sua situazione è completamente diversa.» Mi versai un'altra tazza di tè. «Grace, forse lei non mi ha inteso. Non sono qui per cercare di segnare dei punti contro di lei, o per raccogliere informazioni per una denuncia, o per essere rassicurata. Ma per favore non mi offenda dicendo che non devo essere preoccupata. Ho visto il promemoria della polizia, che avrà visto anche lei, in cui si parla di come ci si dovrà comportare sulla scena del mio delitto.» Grace si accese un'altra sigaretta. «Che cosa vuole da me?» domandò impassibile. «Nelle cartelline che ho visto non c'erano i suoi rapporti. Forse perché dicevano cose su di me che non mi sarebbero piaciute. Ho bisogno di sapere quello che sa.» «Non credo di sapere niente di utile.» «Perché io? Speravo che i rapporti mostrassero qualcosa che avevamo in comune, ma non sono riuscita a trovare niente oltre al fatto che siamo tutte minute.»
Grace ci rifletté su. Aspirò un'altra lunga boccata dalla sigaretta. «Sì» rispose. «E siete tutte attraenti, in modi diversi.» «Bene, è molto carino...» «E tutte vulnerabili. I sadici prendono di mira le donne nello stesso modo in cui gli animali scelgono le loro prede. Prediligono quelle che sono esitanti, insicure. Zoe Haratounian era nuova di Londra, insicura di sé. Jenny Hintlesham era intrappolata in un matrimonio infelice. Lei si è separata da poco dal suo ragazzo.» «Tutto qui?» «Potrebbe essere sufficiente.» «Mi può dire qualcosa su questo individuo?» Lei fece di nuovo una pausa. «Ci saranno degli indizi, ce ne sono sempre. È solo questione di riconoscerli. Un famoso criminologo francese, il dottor Locarde, una volta disse una frase celebre: "Tutti i criminali lasciano qualcosa di sé sulla scena del delitto, non importa quanto minuscola, e si portano sempre via qualcosa". Finché non scopriamo quali sono questi indizi, e lo scopriremo, tutto quello che posso dire è che probabilmente è un bianco. Probabilmente tra i venti e i trent'anni. Di statura superiore alla media. Forte fisicamente. Istruito, probabilmente laureato. Ma sono sicura che queste cose le ha dedotte da sola.» «Lo conosco?» Grace spense la sigaretta, fece per parlare, si interruppe e per la prima volta sembrò veramente infelice. Ed ebbe difficoltà a riprendersi. «Nadia» rispose alla fine, «vorrei tanto poterle dire qualcosa di utile. Mi piacerebbe affermare che non è una persona che conosce bene, perché spero che in quel caso la polizia avrebbe stabilito dei legami con le altre donne. Ma potrebbe essere un amico, potrebbe essere una persona che ha incontrato una volta e poi se ne è dimenticata, o potrebbe essere uno che l'ha vista una volta sola.» Mi guardai intorno. Ero contenta di aver scelto di incontrarla in una mattina di sole, con i bambini che correvano di qua e di là facendo un gran baccano. «Non è una questione di dormire tranquilla» dissi. «Al momento non oso chiudere gli occhi perché mi vedo davanti la fotografia di Jenny Hintlesham per terra morta con... Be', sono sicura che l'ha vista. Non riesco ad accettare che ci sia qualcuno che ho incontrato e che va in giro, conduce una vita normale dopo aver fatto una cosa simile.»
Grace stava facendo scivolare una delle sue lunghe dita sottili lungo il bordo della sua tazza. «È una persona molto organizzata. Prenda le lettere, per esempio, e il sistema di recapitarle.» «Ma ancora non riesco a credere che la polizia non sia riuscita a proteggere queste donne dopo che lui aveva detto quello che avrebbe fatto.» Grace scosse il capo vigorosamente. «Nelle ultime settimane ho fatto qualche ricerca. Ci sono stati parecchi casi di questo genere. Uno qualche anno fa a Washington D.C. Un uomo scriveva lettere di minaccia a delle donne. Il marito della prima donna assunse delle guardie del corpo armate e lei fu comunque assassinata in casa. La seconda era protetta dalla polizia ventiquattr'ore su ventiquattro e fu torturata e uccisa in camera da letto, mentre il marito era in casa. Mi dispiace raccontarle questi fatti, ma mi ha chiesto di essere franca. Alcuni di questi individui si considerano dei geni. Non lo sono, sono piuttosto persone con un hobby ossessivo. E hanno un motivo. Vogliono far soffrire le donne e poi ucciderle, e dedicano tutte le loro energie, risorse e intelligenza a questo scopo. La polizia fa del proprio meglio, ma è difficile combattere questa fermezza di proposito.» «Che cosa è successo al killer di Washington?» «Alla fine è stato preso sulla scena di un delitto.» «Hanno salvato la donna?» Grace distolse lo sguardo. «Non ricordo. Tutto ciò che posso dire è che non si tratta di uno psicopatico qualsiasi che vive in una scatola di cartone sotto un ponte. È probabilmente un individuo che ora si sta comportando perfettamente bene. Ted Bundy, di ritorno dopo aver commesso due omicidi, secondo la sua ragazza non sembrava neanche stanco.» «Chi è questo Ted Bundy?» «Un altro uomo che uccideva le donne.» «Ma perché darsi tanto da fare?» protestai. «Perché non assalire semplicemente le donne in una stradina buia?» «Tutto questo daffare è parte del piacere. Quello che voglio dire, Nadia, è che lei deve abbandonare tutte le idee basate sul buonsenso per cercare di capire la sua personalità e le sue ragioni. A lui non interessano i suoi soldi. Non la odia nemmeno. Almeno, non è così che vede la cosa. Probabilmente crede di amarla. Pensi alle lettere che le manda: sono lettere d'amore, anche se perverse. Le donne che sceglie diventano un'ossessione per lui.» «Insomma è uno che ha l'hobby di andare a osservare i treni e io sono il treno.» «Be', più o meno.»
«Ma perché? Non capisco tutti questi sforzi, scrivere lettere, fare un disegno, correre grandi rischi per recapitare le lettere e poi uccidere donne normali in modo orribile. Perché?» Guardai Grace negli occhi. Il suo viso sembrava quasi una maschera, era senza espressione. «Lei pensa che le cose terribili debbano avere motivi seri. Prima o poi questo individuo verrà preso e qualcuno, forse io, parlerà con lui della sua vita. Magari da bambino è stato picchiato selvaggiamente o ha subito abusi sessuali da parte di uno zio, o ha sofferto di una ferita al capo che gli ha procurato lesioni cerebrali. Questa sarà la ragione. Naturalmente ci sono tante persone che sono state picchiate selvaggiamente, o che hanno subito abusi sessuali o ferite, e che non diventano dei maniaci sessuali psicopatici. È ciò che gli piace fare. Perché ci piace fare quello che ci piace?» «Che cosa pensa succederà?» Si accese un'altra sigaretta. «Sta diventando sempre più crudele. Nel primo assassinio ha agito secondo le esigenze del momento. Probabilmente non l'ha neanche guardata in faccia, come se volesse eliminare la sua individualità. Nel secondo è stato molto più violento e invasivo. È un modello ricorrente. I delitti diventano più violenti e incontrollati e il colpevole viene preso.» Improvvisamente ebbi la sensazione che una nuvola avesse oscurato il sole. Alzai gli occhi, ma non c'erano nuvole. Il cielo era di un bellissimo blu. «Dovrebbe essere utile per la prossima persona che sceglierà.» Ci alzammo entrambe per andarcene. Cercai Lynne con gli occhi, ma lei evitò il mio sguardo. Mi rivolsi di nuovo a Grace. «Come si sente negli ultimi due mesi? È contenta del modo in cui ha condotto le indagini?» Prese gli occhiali da sole, le chiavi e il pacchetto di sigarette. «Avevo smesso di fumare... quando?... Cinque anni fa, mi pare. Continuo a ripensarci, e a pensare a che cosa avrei potuto fare di diverso. Quando lo prenderemo, probabilmente lo capirò.» Fece un sorriso afflitto. «Non si preoccupi. Non chiedo la sua simpatia.» Tirò fuori di tasca un biglietto e me lo porse. Era un biglietto da visita. «Mi chiami quando vuole.» Lo presi e lo guardai in modo poco convinto. «Non penso che riuscirà ad arrivare in tempo» dissi. QUINDICI
Quando ero all'università - si suppone per imparare a diventare grande e ad affrontare il mondo reale - avevo un'amica che morì di leucemia. Si chiamava Laura, aveva i piedi piccoli, le guance rosa come due mele e una risata volgare. Si ammalò al primo anno e morì prima degli esami finali. Ci abituammo tremendamente presto al fatto che fosse morta e che non fosse più tra noi, e solo ogni tanto la ricordavamo con un moto di rimpianto e di sentimentalismo. Ma ora io pensavo molto a lei. In un modo strano e non particolarmente piacevole mi sentivo più vicina a lei, e a Jenny e a Zoe che non avevo mai incontrato, che non ai miei amici viventi. Sentivo distanti anche Zach e Janet. Sembravano spaventati dalla mia situazione, ma anche imbarazzati. Mi telefonavano troppo spesso, ma venivano a trovarmi troppo poco, e quando ci incontravamo non c'era nulla di cui riuscissimo veramente a parlare, perché io ero nell'ombra e loro al sole. Quando eravamo insieme eravamo a disagio. Era come se io fossi andata oltre, in un altro luogo, in cui loro non potevano entrare e da cui io non potevo uscire. Mi venne in mente con un brivido che Laura aveva detto la stessa cosa verso la fine, quando era chiaro a tutti noi che non ce l'avrebbe fatta. Aveva detto, o piuttosto urlato, che si sentiva come se fosse in una sala d'attesa e presto la porta dall'altra parte si sarebbe aperta e lei l'avrebbe dovuta attraversare. Mi ricordo di aver provato un brivido di terrore a sentire quelle parole. Mi ero immaginata quella porta che si apriva su un vuoto nero e il passaggio da una stanza illuminata e ammobiliata dentro in un abisso. Laura aveva passato tutti gli stadi che si attraversano quando si deve affrontare la morte: incredulità, collera, dolore, terrore e alla fine una specie di accettazione sbalordita e intontita, forse perché era indebolita dalle cure e dall'alternarsi di speranza e disperazione. Una sera, dopo che era morta, tra alcuni di noi si accese una antipatica disputa, alimentata anche dall'aver bevuto troppo. Ci si chiedeva se sarebbe sopravvissuta o avrebbe potuto vivere più a lungo nel caso avesse lottato di più, invece di cedere e lasciarsi andare. In passato l'immagine del lasciarsi andare e morire, per me, era una mano che gentilmente si scioglieva dalla mano di una persona amata, ora, dopo aver visto le foto e aver letto i rapporti sul caso, era più vicina a quella di due mani aggrappate a un cornicione che un pesante scarpone costringe a pedate a staccarsi. Qualcuno aveva detto che Laura avrebbe dovuto lottare di più, come se fosse morta per colpa sua, e non semplicemente per una brutale sfortuna. Io avrei lottato. Non sapevo se avrebbe fatto la minima differenza, ma
non era questo il punto. Non sarei rimasta rannicchiata in una maledetta sala d'attesa a fissare la porta sulla parete opposta, con il cuore in gola, la bocca secca, lo stomaco sottosopra, in preda a quel terrore cieco, disumano provato negli ultimi giorni. Avevo visto le foto e i rapporti del caso. Avevo parlato con Grace. Non nutrivo molta fiducia in Links e in Cameron, in parte perché avvertivo che neanche loro avevano grande fiducia in se stessi e, anche se non lo ammettevano, stavano aspettando che morissi. Quindi ero sola. Assolutamente sola. E avevo sempre odiato aspettare. Una cosa era certa. Non potevo continuare a star seduta nel mio appartamento, cercando di nascondermi da Lynne e dalle mie paure. Lo strano era che né Lynne né io parlavamo della mia possibile morte. Era un argomento tabù. Discutevamo solo di piani, di cose pratiche: dove sarei andata e dove lei mi avrebbe aspettato. Non mangiavamo più insieme, neppure le patatine per strada o il pane tostato a colazione. Avevo smesso di trattarla come una specie di ospite o di amica. Il giorno dopo l'incontro con Grace Schilling andai a pattinare sul ghiaccio con Claire, un'attrice a riposo, più a riposo che attrice. Sapeva pattinare all'indietro e fare incredibili giravolte. Lynne e un'altra poliziotta erano rimaste a sedere da una parte, con aria tetra, a guardarmi mentre andavo a sbattere contro i bambini e li facevo ruzzolare come birilli finendo poi sopra di loro in un folle groviglio di gambe e braccia. In seguito, quello stesso giorno, mi autoinvitai da Zach e gli chiesi di chiamare anche altri amici, cosa che fece diligentemente. Lynne aspettò fuori mentre mangiavamo tacos e io bevevo troppo vino rosso e dicevo sciocchezze ad alta voce. Ritornai all'automobile solo alle due del mattino. E continuamente, anche quando mi intossicavo di alcol o flirtavo con un certo Terence che era palesemente gay e molto imbarazzato dalle mie avance, cercavo di pensare a che cosa fare dopo. Grace aveva detto che gli individui come quelli erano sempre parecchi passi avanti a noi: più concentrati, determinati, ostinati. Io volevo riuscire a essere un passo davanti a lui. Il mattino successivo mi svegliai con un tremendo mal di testa e la bocca secca. Avevo la nausea, e quando tirai le tende la luce mi colpì come una staffilata negli occhi. Andai in cucina barcollando a bere due bicchieri d'acqua, ignorando l'espressione di simpatia e di leggero rimprovero di Lynne. Poi preparai una grossa teiera di tè e la portai in camera da letto. Mi sedetti a gambe incrociate sul letto con indosso un gilet grigio sbrindellato e un paio di pantaloni di tuta e fissai il mio riflesso nello specchio lun-
go dell'armadio. In quei giorni mi guardavo più spesso, forse perché non mi davo più per scontata. Non avrei dovuto apparire diversa, più tragica? Da quello che vedevo, nulla nel mio aspetto esteriore era cambiato. Ero sempre io, una donna piccolina con le lentiggini sul naso, i capelli spettinati e i postumi di una sbornia. Suonarono alla porta e udii Lynne andare ad aprirei Rimasi in ascolto, ma riuscii a distinguere solo qualche borbottio. Poi bussarono alla porta della mia camera da letto. «Sì?» «C'è un tizio che è venuto a trovarla.» «Chi?» Ci fu un'esitazione di qualche frazione di secondo dall'altra parte della porta. «Josh Hindesham» disse Lynne in un sussurro. «Suo figlio.» «Oh, mio Dio. Aspetti un momento.» Saltai su dal letto. «Lo faccia accomodare.» «Ne è sicura? Non so se Links...» «Farò in un minuto.» Mi precipitai in bagno, inghiottii tre aspirine per il mal di testa, mi spruzzai dell'acqua fredda in viso e mi spazzolai i denti vigorosamente. Josh. Il ragazzo seduto vicino alla finestra con l'acne dell'adolescenza e gli occhi scuri di Jenny. Andai in soggiorno e gli porsi la mano. «Buongiorno, Josh.» La sua mano era fredda e molle. Non alzò gli occhi , ma borbottò qualcosa fissando il pavimento. «Può andare ad aspettare fuori in auto, Lynne?» le chiesi. Lei uscì, gettandomi un'occhiata ansiosa mentre si chiudeva la porta alle spalle. Josh passava da un piede all'altro nervosamente. Aveva una tuta scura un po' troppo piccola, e i capelli unti che gli cadevano sugli occhi. Avrebbe avuto bisogno che qualcuno gli comprasse dei vestiti, gli dicesse di farsi il bagno, di lavarsi i capelli e di usare il deodorante. Non immaginavo Gloria a fare una cosa del genere. «Caffè o tè?» gli chiesi. «Sto bene così» borbottò. «Un succo?» Ma a pensarci non avevo succhi di frutta nel frigorifero. «No, grazie.» «Siediti.» Gli indicai il divano. Lui si appollaiò sul bordo, mentre io macinavo dei chicchi di caffè aspet-
tando che l'acqua bollisse. Vidi che aveva mani e piedi molto grandi, polsi ossuti. Era chiaro di pelle e aveva gli occhi cerchiati di rosso. Mi sembrava conciato male, ma non vedevo da vicino un adolescente da dieci anni. Tutti i ragazzi al di sopra dei nove anni per me erano un mistero. «Come hai fatto a trovarmi?» «Ho guardato nelle Pagine Gialle sotto "Animatori". Christo mi ha detto che lei fa il clown.» «Astuto.» Mi sedetti di fronte a lui con la tazza di caffè in mano. «Senti, Josh, mi dispiace per tua mamma.» Lui fece un cenno con il capo e si strinse nelle spalle. «Sì» disse. Signor Distaccato. «Deve mancarti.» Dio, perché non stavo zitta? Sussultò e cominciò a mangiarsi un'unghia. «Non è che avesse poi molto tempo per me» disse. «Aveva sempre fretta, o era arrabbiata per qualcosa.» Mi sentii in obbligo di prendere le parti di lei. «Suppongo che con tre bambini, la casa e tutto il resto...» dissi, facendo finta di bere un sorso dalla tazza vuota. Nadia, la terapista dilettante. «Hai qualcuno con cui parlare di tutte queste cose? Degli amici, un dottore?» «Sto bene» rispose. Rimanemmo in silenzio, e tanto per fare qualcosa mi versai un'altra tazza di caffè e la ingurgitai. «E lei?» mi domandò improvvisamente. «Io?» «Ha paura?» «Cerco di essere positiva.» «Sogno mia mamma» cominciò lui, «tutte le notti. Non che viene uccisa o cose così. I sogni sono belli, felici, di mamma che mi accarezza i capelli e mi abbraccia, anche se lei accarezzava i capelli solo a Christo. Diceva che ero troppo grande per quelle cose.» Arrossì violentemente. «Nessuno mi dice com'è morta esattamente» continuò. «E questo non fa che peggiorare le cose.» «Josh...» «So affrontare la verità.» Pensai alla fotografia del corpo di Jenny e guardai quel ragazzino goffo e coraggioso davanti a me. «Rapidamente» gli risposi. «È morta rapidamente. Non si è accorta di quello che le stava succedendo.» «Anche lei mi sta mentendo. Pensavo che mi avrebbe detto la verità.»
Feci un respiro profondo. «Josh, la verità è che non lo so. Tua madre è morta. Non soffre più ora.» Mi vergognavo di me stessa, ma non sapevo che cosa fare. Josh si alzò improvvisamente e cominciò a camminare per la stanza. «Fa davvero il clown?» «L'animatrice.» Prese le mie palle da giocoliere. «È capace a fare giochi con queste?» Gli presi di mano le palle e cominciai a buttarle in aria. Lui mi guardò, non particolarmente colpito. «Voglio dire fare dei veri giochi. Conosco un sacco di persone che sanno far girare in aria tre palle.» «Provaci.» «Io non sono un animatore.» «No» gli risposi seccamente. «Le ho portato una cosa.» Attraversò la stanza e andò a prendere una busta gialla dal suo zainetto. Dentro c'erano dozzine di fotografie, quasi tutte scattate durante le vacanze nel corso di diversi anni. Io le sfogliai, orribilmente consapevole che Josh mi stava alle spalle respirando affannosamente. Jenny molto magra e abbronzata, in bikini giallo, su una spiaggia sabbiosa, sotto una fetta di cielo blu. Jenny in jeans ben stirati e una polo verde, sottobraccio a un rigido Clive, che sorrideva carina alla macchina fotografica. Lei era tanto più bella di lui. Jenny con un Josh molto più piccolo, mano nella mano; con in braccio un bimbo senza capelli che probabilmente era Chris; seduta su un prato circondata da tutti e tre i suoi figli. Jenny con i capelli lunghi, con i capelli corti, con i capelli sfumati. Jenny sugli sci, protesa con decisione in avanti e con le racchette saldamente tenute indietro. In gruppo e da sola. Quella che mi commosse di più era una foto scattata senza che lei se ne accorgesse e si mettesse in posa. Era di profilo e leggermente sfocata. Sul viso aveva una ciocca di capelli lucidi. La guancia era morbida, le labbra leggermente aperte e la mano un po' sollevata. Era pensierosa, quasi triste. Senza corazza sembrava una persona di cui dopo tutto avrei potuto essere amica. Qualcos'altro mi colpì come una lama: era una donna interessante. Capivo come avrebbe potuto catturare l'attenzione di un uomo, come la gente potesse esserne affascinata. Mio Dio. Posai le foto e mi voltai verso Josh. «Povero ragazzo» gli dissi e lui allora cominciò a piangere, ma cercando di non farlo: inghiottendo le lacrime,
tirando su con il naso, singhiozzando piano il suo dolore e ripetendo «Gesù» sottovoce, con il viso nascosto nel braccio piegato. Gli misi una mano sulla spalla e aspettai, e alla fine lui si raddrizzò, pescò in tasca un fazzoletto di carta tutto appallottolato e si soffiò il naso rumorosamente. «Mi dispiace» fece. «Non lo dire. È bello che tua madre abbia qualcuno che piange per lei.» «Dovrei andare ora» disse raccogliendo le fotografie e rimettendole nella busta. «Starai bene?» «Sì.» Si asciugò il naso con una manica. «Ti do il mio biglietto da visita, così se vuoi telefonarmi non devi più cercarmi sulle Pagine Gialle. Aspetta un momento.» Andai alla scrivania in camera da letto e Josh si fermò sul vano della porta. Era così magro. Sembrava che dovesse cadere se non aveva qualcosa a cui appoggiarsi. Era un mucchietto d'ossa. «Non è proprio molto ordinata» commentò. Uno stronzetto impertinente. «Vero. Non ti aspettavo, perciò non ho riordinato per te.» Sorrise imbarazzato. «E ha un computer antidiluviano.» «Così mi è stato detto.» Rovistai nei cassetti in cerca di un biglietto da visita. «È collegata a Internet?» «Collegata? No.» Si sedette e cominciò a battere sulla tastiera. Guardava lo schermo come se fosse un oblò e dall'altra parte ci fosse qualcosa di comico. «Quanto è grande il suo hard disk?» «Non ne ho la più pallida idea.» «Questo è il problema. Ha bisogno di più potenza. Il suo computer è come una zanzara che cerca di trascinare un camion. Ha bisogno di un sistema dotato di memoria adeguata.» «Giusto» dissi, sperando che chiudesse il becco. «Di criceti più veloci.» Trovai il biglietto da visita. «Ecco. Nadia Blake, animazione, giochi di prestigio, marionette, e...» Poi mi fermai di colpo. «Che cosa? Che cosa diavolo hai detto?» «Non si arrabbi. È solo che un computer è quasi inutile senza un adeguato...» «No, che cosa hai detto esattamente?»
«Che aveva bisogno di maggiore potenza.» «No, le precise fottute parole.» Josh si fermò un momento a pensare e poi per la prima volta lo vidi ridere. «Mi scusi, è una stupida espressione. Criceti più veloci. Significa più potenza.» «Da dove viene quell'espressione?» «È solo una metafora. Probabilmente deriva dal fatto che i criceti corrono in tondo sulla ruota. Non ci ho mai riflettuto bene.» «No, no, no. Da chi l'hai sentita dire?» «Da chi?» Josh fece una smorfia. «Oh, solo da un tipo al club di computer della nostra scuola.» «Chi? Uno studente?» «No, Hack: uno dei tipi che ci aiuta nel club. È stato molto carino con me, soprattutto da quando è morta la mamma.» Stavo tremando. «Hack? Che genere di nome è?» «È il suo soprannome. Il suo nom de guerre.» Cercai di controllarmi. Strinsi le mani. «Josh, sai qual è il suo vero nome?» Lui aggrottò la fronte. Per favore, per favore, per favore. «Si chiama Morris, mi pare. È molto esperto di computer, ma le dirà la stessa cosa che le ho detto anch'io.» SEDICI Le mani mi tremavano a tal punto che non riuscivo quasi a comporre il numero di telefono. Mi feci passare Links. Avevo scoperto che, se si insisteva, lui c'era sempre. Links fu cauto e distante al telefono. Da quando mi ero data alla latitanza non sapeva bene come trattarmi. Ero sicura che gli sarebbe piaciuto accusarmi di qualcosa, ma a quanto pareva non avevo infranto leggi. Però, dalla sua posizione di debolezza, poteva quantomeno essere scostante. «Sì?» fece. «Poco fa ho parlato con Joshua Hintlesham.» «Che cosa?» «Il figlio di Jennifer Hintlesham.» «Lo so. Come mai ha parlato con lui?» «È venuto a trovarmi.» «Come? Come fa a sapere chi è lei?»
Se fosse stato a portata di mano, penso che mi sarei avvicinata e l'avrei scosso, gli avrei dato un colpetto sulla testa con le nocche. «Non si preoccupi di ciò. Non importa. Il punto è che ho scoperto una persona che conosciamo entrambe.» «Che cosa vuol dire?» «Qualche giorno fa avevo problemi con il computer e ho chiamato un tizio di cui avevo avuto il biglietto da visita per caso. Un certo Morris. Era una cosa molto semplice, ma io non so niente di computer. E l'altro giorno, quando sono sfuggita alla vostra vigilanza, per caso mi sono imbattuta in lui per strada. E stato molto gentile. Io non ci ho fatto caso. Poi Josh, mi ha detto che frequenta il club di computer della sua scuola, e uno dei tizi che aiuta i ragazzi è questo Morris.» Ci fu una lunga pausa al telefono. Gli avevo dato qualcosa da masticare. «È la stessa persona?» «Mi sembra di sì.» Non potei evitare di aggiungere: «Potrebbe non voler dire niente. Vuole che faccia delle ricerche?» «No, no» fece istantaneamente. «Decisamente no. Le facciamo noi. Che cosa sa di lui?» «Si chiama Morris Burnside. Dovrebbe avere sui venticinque anni. Non posso dire molto altro. Sembrava carino, intelligente. Ma devo dire che chiunque sappia accendere un computer mi sembra una specie di genio. A Josh piace molto. Non sembra sballato. È abbastanza bello. Con me non è stato timido o strano. Niente del genere.» «Lo conosce bene?» «Non lo conosco affatto. Come ho detto, l'ho solo incontrato due volte.» «Ha cercato di mettersi in contatto con lei?» Ripassai nella mente i nostri incontri. Non mi venne in mente niente. «Penso che fosse attratto da me. Gli ho detto che avevo da poco lasciato il mio ragazzo. Lui mi ha chiesto di uscire, ma io l'ho scoraggiato. Nei nostri incontri non c'è stato nulla di spiacevole. Si è offerto di aiutarmi a comprare un computer nuovo, più potente. Gli ho detto di no, ma non mi sembra sia una ragione sufficiente per cercare di uccidermi.» «Sa dove abita?» «Ho il suo numero di telefono. Lo vuole?» Glielo lessi dal biglietto da visita, quello che ero stata tanto contenta di trovare due settimane prima. «Bene, ora lasci fare a noi e non provi a mettersi in contatto con lui.» «Gli parlerete?»
«Faremo un controllo.» «Potrebbe non essere niente.» «Vedremo.» «Potrebbe non essere la stessa persona.» «Controlleremo.» Quando riagganciai il telefono avrei voluto crollare, piangere, svenire, essere messa a letto e accudita. Ma c'era solo Lynne che mi gironzolava intorno, come una mosca fastidiosa che avrei voluto schiacciare. Era stata ad ascoltare la fine della telefonata con crescente interesse. Ora mi guardava in attesa. Voleva essere aggiornata. Il cuore mi fece un tonfo. A volte mi sembrava di avere una au-pair in casa senza avere un bambino da affidarle. Dovevo uscire. Velocemente, senza neanche darmi il tempo di pensare, presi il telefono e feci un numero. «Tu l'hai incontrato.» Zach si fermò, come se non riuscisse a camminare e pensare allo stesso tempo. «Quando?» «L'altro giorno. Quando sei venuto e questo ragazzo che mi aveva aggiustato il computer stava uscendo. L'hai incontrato allora.» «Quel tizio che non ha voluto esser pagato?» «Esatto.» «Capelli color sabbia?» «No, capelli lunghi, scuri.» «Hai visto i miei capelli?» Zach si avvicinò a una vetrina per guardarsi. Eravamo in Camden High Street e stavamo entrando e uscendo dai negozi, a volte provandoci qualcosa ma senza comprare niente. Lynne era venti metri indietro con le mani in tasca. «Li sto perdendo» continuò Zach. «Dovrei raderli a zero, se fossi coerente. Che ne pensi?» Si voltò con il volto ansioso verso di me. «Lasciali come sono. Non penso che tu stia bene con la testa rasata.» «Che cos'ha che non va la mia testa?» «Come ti stavo dicendo, è saltato fuori che questo tizio, che si chiama Morris, conosceva anche il figlio di una delle donne che sono state uccise.» «Vuoi dire che potrebbe esser stato lui a ucciderle?»
«Be', è l'unico legame che abbiamo trovato.» «Ma non è possibile. So che l'ho visto per otto secondi appena, ma mi sembrava una persona normale.» «E allora? Ho parlato con la psicologa, che è un'esperta di queste cose. Mi ha detto che probabilmente è una persona che sembra normale. Prego tanto che sia lui. Se solo potessero prenderlo e rinchiuderlo, la mia vita ricomincerebbe.» Presi Zach per mano. «Sai, ero assolutamente convinta che sarei morta. Hanno cercato di proteggere anche queste altre due donne e non ci sono riusciti. Sono state uccise. Continuo a pensare alla morte. Al fatto di esser morta. Ho avuto tanta di quella paura.» Le lacrime cominciarono a scorrermi dagli occhi. Non era precisamente l'ora o il luogo opportuno, con tutta quella folla che ci passava accanto. Zach mi mise le braccia intorno alle spalle e mi baciò sulla fronte. Sapeva essere carino a volte. Poi prese dei fazzoletti di carta abbastanza puliti dalla tasca e me li diede. Io mi asciugai il viso e mi soffiai il naso. «Avresti dovuto chiedermi aiuto» disse. «Che cosa avresti fatto?» «Qualcosa. Per esempio, sulla questione della morte. Pensa a quando non eri ancora nata. Eri morta da milioni, miliardi di anni, ma non la trovi una cosa spaventosa, no?» «Invece sì.» Improvvisamente qualcuno mi venne al fianco. Lynne. «C'è un messaggio dall'ispettore capo Links. Vorrebbe vederla immediatamente.» «Che cosa è accaduto?» Lynne scrollò le spalle. «Mi ha solo detto che la vuole vedere.» Alla polizia furono molto gentili con me. Mi condussero velocemente in un bell'ufficio, lontano dalle scrivanie dell'open space. Mi fecero accomodare, mi portarono un tè con due biscotti su un piattino e dissero che Links sarebbe arrivato subito. E infatti Links arrivò con Cameron dopo che ero riuscita a malapena a bere un paio di sorsi di tè e a mordere un pezzetto di biscotto inzuppato. Erano entrambi seri e formali. Cameron si sedette sul divano di lato e Links dietro la scrivania. Dunque era il suo ufficio. «Le hanno portato il tè?» Io sollevai la tazza. Non c'era molto da aggiungere. «Voglio dirle subito che abbiamo interrogato Morris Burnside e l'abbiamo eliminato dai sospetti.»
La stanza sembrò roteare, dandomi una sensazione di vertigine e di nausea. «Che cosa?» «Le assicuro che si tratta di un passo positivo.» «Ma come avete fatto a scagionarlo così velocemente?» Aveva preso una graffetta dalla scrivania e l'aveva srotolata, in modo da farla diventare diritta. Ora stava cercando di riportarla alla forma precedente. Anch'io ci avevo provato varie volte, ma non aveva mai funzionato molto bene. Comunque quell'attività gli permetteva di non guardarmi in viso. «Ho saputo dalla dottoressa Schilling che lei ha scoperto gli altri due assassinii, cioè: che questa inchiesta comprende anche l'assassinio di due donne. L'analisi dei documenti mostra con inequivocabile certezza che la persona che ha commesso l'assassinio di Zoe Haratounian e Jennifer Hintlesham è la stessa che le manda le lettere di minaccia. E non lo indicano solo i documenti.» Ora Links parlava come se fosse in preda a una grande sofferenza. «Sappiamo che l'assassino si è dato pena di mettere un oggetto appartenente alla signora Hintlesham nell'appartamento della signorina Haratounian per, diciamo così, intorbidare le acque.» Srotolò di nuovo la graffetta. «La mattina che Zoe Haratounian fu assassinata, Morris Burnside era a Birmingham, a un congresso che è durato per tutto quel finesettimana. Era responsabile di uno stand, si occupava delle presentazioni. Abbiamo fatto un paio di telefonate. Ci sono numerosi testimoni che l'hanno visto là per tutta la domenica, dalla mattina alla sera. «Non avrebbe potuto svignarsela?» «No.» «Come ha reagito all'interrogatorio?» «Naturalmente era leggermente scioccato. Ma è stato molto gentile e disposto a collaborare. Un ragazzo simpatico.» «Era arrabbiato?» «Niente affatto. In ogni modo non gli abbiamo detto che è stata lei a darci il suo nome.» Mi piegai in avanti e posai la tazza sulla scrivania. «Posso lasciarla qui?» «Sì, certamente.» Non mi rimaneva nient'altro. Mi sentivo come svuotata. Avevo pensato di essere uscita da quell'incubo e invece dovevo ritornarci dentro. E non ne avevo più la forza. Ero troppo stanca. «Credevo che fosse tutto finito» dis-
si, come intontita. «Non le succederà niente» mi consolò Links sempre senza guardarmi in viso. «Continueremo a proteggerla.» Mi alzai e guardai attorno cercando la porta, in sogno. «Deve considerarlo un passo positivo. Abbiamo eliminato un sospetto potenziale. È un progresso.» Mi guardai attorno di nuovo. «Che cosa?» domandai. «Una persona di meno di cui occuparci.» «Su appena sei miliardi da prendere in considerazione. Oh, suppongo che possiamo eliminare anche le donne e i bambini. E questo ci porta probabilmente a due miliardi. Meno uno.» Links si alzò. «Stadler la accompagnerà fuori.» Più che accompagnarmi, dovette portarmi fuori. In corridoio si fermò in un angolo tranquillo. «Tutto bene?» Gemetti qualcosa. «Devo vederti.» «Che cosa?» «Penso a te in continuazione. Voglio aiutarti, Nadia. Ho bisogno di te e credo che tu abbia bisogno di me. Hai bisogno di me.» Mi toccò il braccio. «Eh?» Mi ci volle un po' di tempo per capire quello che stava facendo. Mormorai qualcosa e poi lo scacciai. «Non mi toccare. Non mi toccare mai più.» DICIASSETTE La paura si impossessò nuovamente di me. Sentivo le gambe molli, le viscere sottosopra. Strisciai a letto e rimasi sdraiata a fissare il soffitto, cercando di non pensare e allo stesso tempo di pensare disperatamente. Qualche ora di speranza e di giubilo e ora? Ora ero di nuovo daccapo, da dove ero partita qualche giorno prima, o forse una settimana prima. Solo che non mi sembravano giorni, ma mesi e anni, un'orribile, spaventosa eternità di paura. Mi addormentai e svegliai e addormentai di nuovo. Dormivo di un sonno viziato e appiccicoso, poco profondo, abitato da sogni inquietanti come alghe spesse che ondeggiavano sotto la superficie dell'acqua. Era buio, poi vidi una debole luce e infine fu di nuovo giorno. Fuori della finestra il cielo era d'acciaio. Rimasi a letto ad ascoltare un uccello che cantava, fuori. Diedi un'occhiata all'orologio. Le sei e mezzo. Mi tirai
le coperte sulla testa. Che cosa fare della mia vita quel giorno? La prima cosa fu telefonare a Zach. Mi rispose con una voce impastata di sonno. «Zach, sono io, Nadia. Scusa, ma dovevo. Non era lui, sai. Non era Morris. Non poteva essere lui.» «Merda.» «Già. Che cosa devo fare adesso?» Mi accorsi che stavo piangendo. Sentivo il gusto salato delle lacrime in bocca, il solletico al naso, le lacrime che mi colavano giù per il collo. «Sei sicura?» «Sì, non è lui.» «Merda» ripeté. Capii che stava cercando di pensare a qualcosa da aggiungere per farmi vedere la faccenda sotto una luce un po' meno deprimente. «Sono di nuovo al punto di partenza, Zach. Mi prenderà. Non ce la faccio più. Non posso andare avanti così. È inutile.» «Sì che ce la farai, Nadia. Su.» «No.» Mi passai la manica della camicia da notte sul viso bagnato di lacrime e muco. Avevo le ghiandole e la gola che mi dolevano. «No, non ce la faccio.» «Ascoltami. Sei coraggiosa. Ho fiducia in te.» Continuò a ripetere che ero coraggiosa e che aveva fiducia in me. E io continuavo a piangere, a tirar su con il naso e a dire: «Sono da sola» e «No, non ce la faccio». Ma per qualche motivo ripetere quelle parole mi risollevò un po' e i miei lamenti sì fecero più deboli. Riuscii persino ridacchiare quando Zach giurò che sarei arrivata ai cent'anni. Mi fece promettere che avrei preparato qualcosa per colazione. Disse che mi avrebbe richiamata dopo un'oretta e che più tardi sarebbe passato a trovarmi. Ubbidientemente tostai del pane piuttosto raffermo e lo mangiai, accompagnandolo con una tazza di caffè nero. Rimasi in cucina a fissare fuori della finestra. C'era gente che passava e io pensavo: potrebbe essere lui, potrebbe essere quel tizio con il cappello da baseball e i pantaloni larghi, le labbra atteggiate a un fischio che non sentivo. O quell'altro con le cuffie, che portava a spasso un cane petulante. Oppure il tizio con la barba e i capelli radi, curvo nella giacca a vento imbottita in una bollente giornata di fine agosto. Chiunque. Poteva essere chiunque. Cercai di non pensare a Jenny morta. Se ripensavo a quella fotografia, venivo presa da un panico che mi serrava la gola. Prima di vedere le cartel-
le di documenti, il killer era stato una minaccia astratta, quasi irreale. Ma non c'era nulla di astratto nel volto dolce di Zoe, o nel cadavere grottesco di Jenny, e in quel momento sentii che in una parte di me si svegliava un odio personale contro quell'assassino: un sentimento intimo e determinato. Rimasi seduta al tavolo di cucina e mi aggrappai a quel sentimento, lasciai che assumesse una forma più chiara. Quell'individuo non era una nuvola, un'ombra, un miasma. Era un uomo che aveva ucciso due donne giovani e ora voleva uccidere me. Lui contro di me. Trovai una lettera chiusa che mi informava già dalla busta che avevo vinto un premio e cominciai ad annotare dei pensieri. Che cosa sapevo? Quell'individuo aveva ucciso Zoe verso la metà di luglio, Jenny all'inizio di agosto. Come aveva detto Grace, stava rincarando le dosi. Un medaglione di Jenny, scomparso da mesi, era stato trovato nell'appartamento di Zoe, una fotografia di Zoe era stata trovata tra le carte di Clive, ma questi erano gli unici legami tra le due donne. Mentre tra me e Jenny l'unico legame, debole e rivelatosi insignificante, era Morris. Pensai alle altre persone che erano state interrogate: Fred, naturalmente, ma mai come indiziato, eliminato dall'elenco dei sospetti prima ancora che Zoe fosse uccisa; Clive; l'agente immobiliare Guy; un uomo d'affari di nome Nick Shale; un ex ragazzo di Zoe di ritorno da un giro intorno al mondo; la squadra di architetti, costruttori, giardinieri e donne delle pulizie di Jenny. E ora Morris. Tutto quello che la polizia era riuscita a ottenere, mi sembrava, era eliminare dei sospetti. Bevvi un sorso del caffè che nel frattempo si era raffreddato. E io, con che cosa rimanevo? Rimanevo con il mio caffè davanti al tavolo di cucina, a cercare pateticamente di fare la detective da sola, guardando gli uomini fuori della finestra e domandandomi di ognuno se era o non era lui. Stavo sbattendo la testa contro lo stesso muro su cui la polizia la batteva da settimane. Andai in camera da letto e trovai il pezzette di carta su cui avevo scritto i nomi e gli indirizzi presi dai documenti che mi aveva portato Cameron. Li fissai finché le scritte non cominciarono a ballarmi davanti agli occhi. Poi, in mancanza di un'idea migliore, trassi un profondo respiro e sollevai il telefono. «Buongiorno, qui Clarke. In cosa posso esserle utile?» Una voce femminile piena di falso entusiasmo. «Ho sentito che state vendendo un appartamento in Holloway Road. Mi interesserebbe vederlo, se possibile.»
«Attenda un attimo, per favore» disse e mi lasciò per un paio di minuti ad ascoltare Bach suonato su una pianola elettrica per bambini. Poi una voce maschile si annunciò con un colpetto discreto di tosse. «Sono Guy, posso esserle utile?» Ripetei la mia richiesta. «Bene, è in un'ottima posizione. Molto vicino alla fermata della metropolitana di Holloway Road.» «Lo potrei vedere oggi stesso?» «Certamente. Che ne dice di oggi pomeriggio?» «Ci sarà il proprietario?» «Glielo mostrerò io stesso.» Ero fortunata. Composi un altro numero dell'elenco. Non so veramente perché proprio quello. Forse perché, di tutte le persone di cui avevo letto la testimonianza, mi era sembrata l'unica triste. «Pronto?» Come cominciare? Decisi di andare diritta al punto. «Sono Nadia Blake. Lei non mi conosce. Vorrei parlarle di Zoe.» All'altro capo del filo ci fu silenzio. Non riuscivo neanche a sentire il respiro. «Mi scusi, non intendevo turbarla.» «Chi è lei? Una giornalista?» «No, sono una come Zoe. Voglio dire, sto ricevendo delle lettere dall'uomo che l'ha uccisa.» «Oh, Dio, mi dispiace. Nadia, ha detto?» «Sì.» «Posso fare qualcosa?» «Mi piacerebbe incontrarla.» «Sì, naturalmente. Sono in vacanza. Sono un'insegnante.» «Che ne dice se ci vediamo all'appartamento di Zoe alle due?» «All'appartamento di Zoe?» «Me lo farò mostrare.» «Perché?» «Vorrei vederlo.» «Ne è sicura?» Sembrava dubbiosa. Forse pensava che fossi matta. «Volevo solo cercare di capire Zoe.» «Verrò. È strano. Lei non ha idea.» Avevo quattro ore prima dell'appuntamento. Quel giorno c'era un'altra
poliziotta a sorvegliarmi, una certa Bernice. Le dissi che volevo andare a vedere un appartamento in Holloway Road poco prima delle due, e lei non batté ciglio, si limitò a fare un cenno del capo e a prendere nota su un taccuino che portava con sé. Forse non conosceva il vecchio indirizzo di Zoe o forse si stavano tutti annoiando ad aspettare che succedesse qualcosa. Poi feci un lungo bagno, mi lavai i capelli e rimasi immersa nell'acqua saponata finché la pelle delle dita si increspò. Misi lo smalto alle unghie dei piedi e indossai un vestito che non avevo quasi mai portato. Lo tenevo in serbo per un'occasione speciale, una festa importante in cui avrei incontrato il mio prossimo Principe Azzurro, ma ora mi sembrava stupido aspettare. Avrei ben potuto indossarlo per l'appartamento di Zoe, per Louise e per Guy. Era aderente, di un bellissimo turchese chiaro, con le maniche corte e la scollatura rotonda. Indossai anche una collana, dei piccoli orecchini e un paio di sandali. Avevo l'aspetto fresco ed elegante, come se stessi andando a una festa, a bere champagne in qualche giardino pieno di verde. Magari. Misi il rossetto per completare l'immagine. A mezzogiorno Bernice venne a dirmi che c'erano due ragazzi che volevano vedermi. Sbirciai fuori della finestra dell'ingresso e vidi Josh che si dimenava nervosamente vicino all'entrata. Vicino a lui c'era un tizio con i capelli scuri spettinati e una giacchetta di tela nera. Aveva un pacchetto di sigarette in una mano e un mazzo di fiori nell'altra, e sorrideva davanti alla porta che stavo per aprire. Quando, per un paio di ore giubilanti, avevo pensato che Morris fosse l'assassino, mi era parso di ricordare un viso da assassino: astuto e con gli occhi fissi, come quelli di uno squalo. Ora vidi che aveva il volto di un ragazzino che era carino. Mi sembrò tenero mentre preparava il sorriso per me e teneva sollevato il bouquet avvolto nella carta. «Venite su, tutti e due.» Josh borbottò qualcosa e venne su barcollando, inciampando nei lacci sciolti delle scarpe. Morris mi porse i fiori. «Dovrei esser io a regalarti i fiori, per scusarmi dei miei sospetti» gli dissi. «Ma grazie, sono bellissimi.» D'impulso mi alzai sulla punta dei piedi e lo baciai sulla guancia. Bernice chiuse la porta dietro di noi come un carceriere. «Spero non ti dispiaccia che ti capitiamo in casa in questo modo» disse Morris, osservandomi mentre riempivo d'acqua un vaso e ci mettevo dentro i fiori. «Hack ha pensato che dovevamo incontrarci tutti e tre» aggiunse Josh.
Stava aggirandosi senza sosta per il soggiorno come l'altra volta, prendendo oggetti e rimettendoli giù, facendo scorrere le dita un po' ovunque. «Siediti, Josh. Mi rendi nervosa. Sono contenta di vedervi. È un po' strano.» «Che cosa?» «Dài, guardaci.» Cominciai a ridacchiare come una sciocca e Josh si unì a me per una sorta di gentilezza nervosa. Morris ci guardava perplesso. «Come fai a ridere?» domandò appena smisi di ridacchiare istericamente. «Qua fuori c'è qualcuno che ti vuole uccidere!» «Avresti dovuto vedermi questa mattina. O ieri, quando ho scoperto che dopotutto non eri tu. Spero che tu non la prenda nel modo sbagliato se ti dico che speravo veramente molto che fossi tu.» «La speranza è una cosa crudele» disse Morris scuotendo il capo gravemente. Guardai Josh con preoccupazione. «Stai bene?» «Benissimo.» Non mi sembrava affatto, aveva un aspetto orribile; era verdognolo e aveva gli occhi iniettati di sangue. Mi alzai e lo spinsi sul divano. «Quando è stata l'ultima volta che hai mangiato?» «Non ho fame.» «Adesso ti preparo qualcosa da mangiare. Della pasta, magari, se ne ho. Ne vuoi anche tu un piatto?» domandai a Morris. «Ti aiuto» rispose lui. «Tu stai qui a riposarti» disse poi a Josh, dandogli un colpetto sulla spalla. «Recupera le forze.» Josh si lasciò cadere all'indietro e chiuse gli occhi. Sul volto gli apparì un debole sorriso. Morris tagliò i pomodori. Trovai mezzo pacco di torciglioni. Li rovesciai rumorosamente in un piatto e misi la pentola sul fuoco. «Hai molta paura?» mi domandò, proprio come aveva fatto Josh. «Va e viene. Cerco di essere forte.» «Bene» commentò lui, continuando a tagliare. «Ti stanno aiutando?» «Chi?» «La polizia.» «Più o meno» risposi freddamente. Non avevo voglia di parlarne. Avevo trovato una lattina di olive nere snocciolate. Quando la pasta fu pronta, la condii con una manciata di olive e olio. Aveva un'aria minimalista ed elegante. Avrei dovuto metterci anche il parmigiano e il pepe nero per completare l'opera, ma pazienza. Morris
stava ancora tagliando i pomodori, molto lentamente e metodicamente, in piccoli cubi. «Come te lo immagini?» mi domandò. «Non me lo immagino» risposi, sorprendendomi della mia fermezza. «Penso alle donne, a Zoe e a Jenny.» Mise i pomodori in un'insalatiera. «Se c'è qualcosa che posso fare, chiedi pure.» «Grazie» risposi senza essere molto incoraggiante. Avevo già abbastanza amici. Mentre mangiavamo raccontai a Josh e a Morris dell'appuntamento per andare a vedere l'appartamento di Zoe. Tutti e due sembrarono ammutolire per lo stupore. «Perché non venite con me?» chiesi improvvisamente, subito pentendomi dell'invito. Josh scosse il capo. «Gloria ci porta tutti a conoscere sua madre» disse amaramente. Sembrava stare molto meglio dopo la pasta, anche se aveva messo da parte, lungo il bordo del piatto, tutte le olive. «Sì» disse Morris con un sorriso. «Io verrò con te.» «Ho appuntamento là con un'amica di Zoe. Una ragazza che si chiama Louise.» «Buffo» disse Morris. «Perché buffo?» Morris sembrò un po' preso in contropiede. «Hai conosciuto persone che conoscevano la madre di Josh e ora stai per conoscere un'amica di Zoe. Mi sembra strano.» «Sì? A me sembra una cosa che devo fare.» Lui mormorò qualcosa che sembrava un vago assenso. Quando finì la pasta si alzò e pescò un sottile cellulare dalla tasca della giacca. «Controllo i messaggi in segreteria» disse. Andò alla finestra, premette dei tasti sul telefono e si mise in ascolto con il volto aggrottato. «Merda» disse alla fine, abbottonandosi la giacca. «Ho una chiamata urgente. Devo rinunciare ad accompagnarti all'appartamento. Mi dispiace. Scusami, dopo averti promesso che ti avrei aiutato...» «Non importa.» Mi prese la mano e me la strinse. Poi se ne andò. Gli piacevo, l'avevo capito subito. Gli ero piaciuta dalla prima volta che mi aveva visto, quando era venuto ad aggiustare il computer. Non capiva che ora ero mille miglia
lontana da quel genere di cose, così lontana che mi sembrava impossibile sentirne di nuovo il desiderio, un giorno. Josh se ne andò poco dopo. Alla porta lo baciai sulla guancia e gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Arrivederci» gli dissi il più allegramente possibile. «Abbi cura di te.» Lui, prima di scomparire, borbottò: «Anche tu. Voglio dire, anche tu abbi cura di te». DICIOTTO Guy aveva un completo color cioccolato, una cravatta con Bart Simpson raffigurato sopra, e un gran sorriso. Aveva denti molto bianchi ed era abbronzato. Mi strinse la mano con fermezza. Chiese se poteva chiamarmi Nadia e poi continuò a ripetere il mio nome, come se l'avesse appena imparato in un corso di lingua. Mentre apriva la porta d'ingresso una voce dietro di noi disse: «Nadia?» Mi voltai e vidi una donna circa della mia età e più o meno alta come me. Aveva una maglietta gialla senza maniche e una gonna rosso vivo, così corta che copriva a stento la curva delle natiche. Sotto, le gambe erano nude, abbronzate e ben fatte. I capelli castani e lucidi erano legati in una coda di cavallo, e le labbra dipinte di un rosso simile a quello della gonna. Sembrava vivace, attenta, combattiva. Mi sollevò lo spirito. «Louise? Sono contenta che tu sia venuta.» Lei sorrise in modo rassicurante. Insieme attraversammo un atrio sudicio e salimmo su per le scale strette. «Il soggiorno» disse Guy, senza che ce ne fosse alcun bisogno, mentre entravamo in una stanza stretta, che puzzava di muffa e di chiuso. Alle piccole finestre c'era un paio di tendine arancioni mezzo chiuse e io andai ad aprirle. Che appartamentino deprimente. «Le chiederei una cosa» dissi a Guy, «le dispiacerebbe se lo esaminassimo da sole, senza di lei? Se lei potesse aspettarci fuori?» «Non avete...?» «No» rispose Louise. Poi, mentre usciva, «Che verme!» esclamò. «Zoe non lo poteva soffrire. Le aveva chiesto di uscire. Continuava a importunarla.» Ci sorridemmo tristemente. Sentii le lacrime salirmi agli occhi. Zoe, con quel bel sorriso, viveva qui. Dietro quella porta era morta. «Mi piace il suono del suo nome» dissi. «Mi piacerebbe...» e mi inter-
ruppi. «Era meravigliosa» continuò Louise. «Odio dover dire "era". I bambini a scuola la adoravano. E anche gli uomini. Aveva qualcosa...» «Sì?» Louise girava per l'appartamento notando cose che certamente a me non potevano dire niente. Quando parlò, fu quasi a se stessa. «Aveva perso la mamma quando era ancora piccola. E in un certo senso aveva proprio l'aria di chi non ha avuto una mamma. Faceva venir voglia di proteggerla. Forse è per questo che...» «Che cosa?» «Chi lo sa? Perché una donna viene presa di mira?» Mi guardò negli occhi. «Me lo sono domandato anch'io» dissi. Gironzolai per la stanza guardandomi attorno: nulla era ancora stato portato via, anche se qualcuno aveva ovviamente messo tutto a posto. I libri erano allineati con cura negli scaffali, sul piccolo tavolo vicino alla finestra, accanto a un taccuino rigato, c'erano un paio di matite, un righello e una gomma. Aprii il taccuino e sulla prima pagina era annotata una serie di idee per le lezioni, elencate con cura, numerate, scritte da Zoe con una grafia ordinata a lettere piccole e tondeggianti. Sul muro c'era una pagina di giornale incorniciata, con la foto di Zoe circondata da dozzine di bambini piccoli e un cocomero in mano. Andammo in cucina. Sul piano accanto al lavandino c'erano delle tazze, in un vaso dei fiori secchi. Vicino al bollitore una bottiglia di vino bianco. Il frigo era aperto e vuoto. «Ora l'appartamento è di sua zia» disse Louise, come rispondendo a una mia domanda. Presi una calcolatrice posata sul tavolo, premetti qualche bottone a caso e guardai i numeri apparire sullo schermo. «Era terrorizzata?» «Sì. Stava a casa mia. Era completamente fuori di testa, ma l'ultimo giorno sembrava più calma. Pensava che tutto si sarebbe risolto bene. Io ero qui fuori, sai.» Louise fece un cenno con il capo verso la strada. «La aspettavo in auto sulle strisce gialle. L'ho attesa a lungo, poi a un certo punto l'ho chiamata con il clacson e ho imprecato contro di lei. Quindi ho suonato il campanello di casa. Alla fine ho chiamato la polizia.» «Allora non hai visto il suo corpo?» Louise mi guardò con gli occhi socchiusi.
«No» rispose infine. «Non me l'hanno permesso. Solo in seguito mi hanno portata a vedere l'appartamento. Non ci volevo credere. Era scesa dall'auto dicendomi che ci sarebbe voluto un minuto.» «Tutto bene, ragazze?» gridò Guy dalle scale. «Non ci vorrà più molto» gli risposi, anch'io gridando. Insieme andammo nella camera da letto. Le lenzuola erano state tolte, piegate e poggiate sulla sedia. Aprii l'armadio. Dentro c'erano ancora i vestiti. Non ne aveva molti. Sul ripiano in basso si trovavano tre paia di scarpe. Sfiorai con una mano un vestito celeste, una giacchetta di cotone con l'orlo scucito. «Conoscevi Fred?» domandai a Louise. «Sì, era carino. Comunque meglio che fosse finita. Non era molto comprensivo. È stato un sollievo per lei, quando lo ha lasciato.» «Non lo sapevo.» Chiusi per un momento gli occhi e ripensai alla foto di lei morta, stesa tranquillamente per terra, come se stesse dormendo. Forse non aveva sofferto. Aprii gli occhi e vidi Louise che mi guardava preoccupata. «Che cosa ci fai qui? Che senso ha tutto questo?» «Non lo so. Speravo di capire qualcosa, ma non ho idea di che cosa. Forse sto solo cercando Zoe.» Sorrise. «Stai cercando un indizio?» «Stupido, no? Manca qualcosa?» Louise si guardò attorno. «Anche la polizia me l'ha domandato, ma io non lo so davvero. L'unica cosa che ho notato era una specie di tela appesa al muro che le aveva regalato Fred. Non c'era più.» «Sì, l'ho visto nei rapporti sulla scena del delitto.» «Mi sembra una cosa buffa da rubare. Non doveva valere nulla.» «La polizia ha pensato che l'assassino se ne sia servito per portarci via della roba.» Louise sembrò perplessa. «Perché non prendere una busta di plastica dalla cucina?» «Non so. Non penso che ci si comporti in maniera molto razionale subito dopo aver ucciso qualcuno.» «Mah. Non aveva molta roba. Magari sua zia è già venuta a servirsi. E poi la polizia deve aver rimosso degli oggetti. Ma perlopiù mi sembra che tutto sia come me lo ricordavo. Un posto deprimente, no?» «Sì.» «Lei lo odiava. Specialmente alla fine. Non rende l'idea di com'era Zoe.»
Louise ritornò in soggiorno e si sedette sul divano. «Il suo ultimo giorno siamo andate a far compere insieme. Solo per acquistarle un paio di cose da mettersi prima di venire a riprendere la sua roba. Ha comprato delle mutande e un reggiseno, delle calze, e poi ha detto che voleva una maglietta. Le mie erano troppo grandi per lei. Era molto magra e con tutta quella paura aveva perso ancora peso. Così siamo finite in un negozio di roba per bambini vicino a casa mia e lei ha trovato un vestito estivo leggero e una maglietta bianca con dei piccoli fiori ricamati sopra. Sull'etichetta c'era scritto: ANNI 11-12. Le andava perfettamente. Se l'è provata nel camerino e quando è uscita era così dolce, con i capelli tutti scompigliati, le braccia magre e il volto che brillava. Ridacchiava, con quella maglietta per bambini addosso.» Louise aveva gli occhi pieni di lacrime, ma non fece nulla per asciugarli. «È così che la ricordo. Aveva ventitré anni, un vero lavoro da persone adulte, un appartamento suo e cose del genere. Ma quando penso a lei, la vedo che ridacchia con addosso dei vestiti da bambina. Era così piccolina, così giovane.» Pescò dalla borsa un fazzoletto di carta e si asciugò il viso. «Quando è stata uccisa aveva addosso quella maglietta. Tutte le cose nuove. Era pulita e fresca come un fiore.» «Ragazze» ci chiamò Guy, facendo capolino alla porta. Restò piuttosto perplesso vedendoci abbracciate al centro del soggiorno, e con le lacrime agli occhi. Io non sapevo bene per chi stessi piangendo, ma rimanemmo in quella posizione a piangere per un bel po' e, prima di andarsene, Louise mi prese il viso tra le mani e lo tenne così per un momento, fissandomi. «Buona fortuna, Nadia, mia nuova amica» disse. «Ti penserò.» DICIANNOVE Il giorno dopo, poco prima delle sette di sera, ero stesa sul divano di casa mia quando suonarono alla porta. Fino a quel momento la giornata era andata storta. Avevo passato la notte a pensare a Zoe e a Jenny, che ora consideravo delle amiche. Forse anche più che amiche. E a pensare a me che stavo percorrendo un sentiero già percorso da loro. A volte vedevo le loro tracce e sapevo che anche loro avevano provato quello che provavo io. Loro ci erano passate prima e quella mattina presto, con la luce che filtrava dalle tendine, pensai che mi stavano aspettando in un luogo oscuro, nel nulla. Avevano pensato alla morte? Che cosa avevano fatto? Non mi importava
delle precauzioni che avevano preso, ma volevo sapere se avevano cominciato a vivere in maniera diversa. Che cosa si fa quando si pensa di avere solamente un giorno o una settimana da vivere? Si considera la vita più preziosa? Avrei dovuto pensare con maggior chiarezza, leggere libri importanti? Non sapevo neanche se avevo dei libri importanti in casa. Mi alzai, preparai il caffè e poi andai a controllare sugli scaffali. Trovai un libro di poesie che qualcuno mi aveva regalato per il compleanno. Erano poesie pensate per essere imparate a memoria, ma io non riuscivo neanche a leggerle. Ci doveva essere qualcosa che non andava nel mio cervello. Non riuscivo a seguire il senso. Il significato era come una canzone proveniente dalla casa accanto, a volume troppo basso per permettermi di capire che canzone fosse. Rimisi il libro sullo scaffale e accesi il televisore. Il giorno precedente avevo pensato a modi costruttivi di usare il resto della vita. Quel giorno invece lo passai davanti al televisore. Guardai dapprima un programma su alcune donne che avevano avuto una relazione con il fidanzato della sorella, poi uno di cucina abbinato a un gioco, un telefilm degli anni Settanta e un documentario dall'aria vecchiotta che parlava di una barriera corallina da qualche parte. I subacquei avevano le basette. Vidi un mucchio di previsioni del tempo. Se fossi morta a ventotto anni e qualcuno avesse scritto il mio necrologio, cosa che non sarebbe accaduta, che cosa avrebbe avuto da dire? «Negli ultimi anni ha trovato una sua nicchia come animatrice di un certo successo alle feste dei bambini.» Zoe era maestra, anche se era lei stessa poco più che una bambina. Jenny aveva tre figli. Aveva Josh, che era già quasi un uomo. Mi addormentai sul divano, mi svegliai, guardai la fine di un western, una partita a bowling, un programma di quiz, uno di cucina e fu allora che suonarono alla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti Josh e Morris. Un umido aroma di cucina indiana penetrò in casa. Morris stava discutendo con una poliziotta. «Sì, ci conosce. E l'altra poliziotta che viene qui ha i nostri nomi e indirizzi, ma se vuole glieli posso ridare.» Si voltò e mi vide. «Abbiamo preso delle pietanze indiane ed eravamo da queste parti, così abbiamo pensato di venire a trovarti.» Li guardai assente. Non erano loro a farmi quell'effetto, ma la giornata passata a guardare la televisione. Loro, anzi, mi tranquillizzarono. «Va bene» continuò Morris. «Non preoccuparti. Possiamo andare a cercare una panchina o un androne da qualche parte e mangiare lì. Sotto un
lampione, nella pioggia.» Non potei fare a meno di sorridere. Il giorno era ancora luminoso e soleggiato. «Non fate gli stupidi, entrate.» La poliziotta sembrava riluttante. «Non ci sono problemi, li conosco.» Entrarono portando con sé quel meraviglioso profumo e depositarono i tre sacchetti sul tavolo. «Di certo hai già un appuntamento per cena» disse Morris. «A dir la verità, no» confessai. Si tolsero entrambi la giacca e la buttarono in un angolo. Sembravano essere di casa. «Ho salvato Josh da una soirée da incubo a casa sua ed eravamo in cerca di una donna.» Josh sorrise in maniera così goffa che ebbi quasi voglia di abbracciarlo, ma l'avrei messo in imbarazzo. Cominciarono a scartare i contenitori avvolti in carta argentata. «Non sapevamo qual è il tuo grado di tolleranza del piccante» disse Morris togliendo il coperchio di cartone ai contenitori, «così abbiamo preso tutta la gamma, dal poco piccante al piccantissimo, un po' di tutto comprese parecchie verdure. Birra per gli adulti e Josh dovrà accontentarsi di quella leggera.» Inarcai un sopracciglio. «Puoi bere, Josh?» «Certo» rispose lui aggressivamente. Lasciai correre. Avevo già abbastanza cose di cui preoccuparmi. Tirai fuori piatti, bicchieri e posate. «Che cosa avreste fatto se non fossi stata in casa?» «Morris era sicuro che ci saresti stata» disse Josh. «Davvero?» feci rivolgendo a Morris un'occhiata un po' ironica. Lui sorrise. «Non volevo prenderti in giro» disse, «ma pensavo che saresti stata abbastanza scossa.» «Lo ero. Non è un periodo molto bello.» «Lo capisco. Allora mangia.» Così facemmo, e la cena fu molto buona. Avevo bisogno di una cena disordinata e un po' selvaggia, con un sacco di cose una sopra l'altra e la possibilità di intingere pezzetti di carne in salse diverse. Ci sfidammo a mangiare dei bocconi della categoria del piccantissimo con bicchieri di birra gelata vicini. Mi parve che Morris barasse e inghiottisse solo un pezzetto piccolo di quella pietanza, facendo finta di essere coraggioso, ma Josh fece
un paio di respiri profondi e poi si mise in bocca un discreto cucchiaio pieno di carne piccante, la masticò e la mandò giù. E immediatamente cominciarono a uscirgli dalla fronte dei rivoli di sudore. «Stai per eruttare» gli dissi. «Teniamoci alla larga.» «No, sto bene» rispose Josh con una voce strozzata che ci fece ridere. Era la prima volta che gli vedevo sul volto un'espressione più allegra del solito ghigno imbarazzato e goffo, e io stessa non riuscivo a ricordare quand'era stata l'ultima volta che avevo riso senza ritegno. Non avevo avuto molte ragioni per farlo. «Ora tu» disse Josh. Con eleganza esagerata riempii un cucchiaio e lo mangiai. Loro rimasero a guardarmi come se fossi un fuoco artificiale che ci mettesse molto a scoppiare. «Come hai fatto?» domandò Morris alla fine. «Adoro il cibo piccante e riesco a mangiarlo come una vera signora.» «Siamo impressionati» disse Josh sgomento. Io allora bevvi velocemente un enorme sorso di birra gelata. «Tutto bene?» mi domandò Josh. «Avevo solo sete» risposi con indifferenza. Dopo pochissimo non rimasero che degli avanzi freddi. Mentre sparecchiavo la tavola, mettendo semplicemente un contenitore dentro l'altro e gettandoli nella spazzatura, i ragazzi andarono al mio famoso computer. Vi si accucciarono davanti e io li sentii ridere e sospirare. Mi versai un altro bicchiere di birra. Mi sentivo piacevolmente brilla. «So che è una macchina ridicola.» «No, è grande» disse Josh cliccando da conoscitore con il mouse. «Hai tutte queste versioni primordiali di programmi. Tutti questi 1.1 e 1.2. È equivalente a un parco di dinosauri. Aspetta un momento, che cos'è questo?» Scoprimmo che nel mio computer si celava da qualche parte un gioco di solitario con le carte che io non avevo mai trovato. Conoscevo le regole? No. Così, dopo aver urlato e litigato per i comandi, cominciarono a giocare. «È come passare la serata con due ragazzini di tredici anni» feci. «E allora?» intervenne Josh. Sembrava esser più rilassato. Certamente era più a suo agio con me, non aveva più quella sorta di rispetto imbarazzato, angosciato. Ordinarono urlando dell'altra birra e io portai loro due lattine fredde gelate.
«Mi sembra di essere diventata la principessa Leia di Guerre stellari» dissi. Josh si voltò e mi guardò pensieroso. «Più una Chewbacca, direi.» «Chi?» «Non importa.» Forse essere un po' troppo brilla non era una buona cosa. Andai a fare il caffè e me ne versai una tazza. Molto forte, molto caldo. «C'è il caffè» urlai. Josh era completamente assorbito dal gioco. Per il momento non esistevo più per lui. Ma Morris venne a versarsene una tazza. «C'è del latte?» «Lo vado a prendere.» «Stai qui, lo troverò.» Andò in cucina e io osservai Josh, che fissava lo schermo presissimo. Aveva le braccia incredibilmente sottili e bianche. Era ancora un ragazzino, anche se alto. Morris ritornò. «Bell'appartamento, molto tranquillo» commentò. «Stai cercando casa?» gli domandai. «Se è così dovresti andare a dare un'occhiata a quello che ho visto ieri. Che però non è molto tranquillo.» «Come è andata?» «Non so. Non sapevo bene che cosa ci facevo là. È stato probabilmente un gesto stupido, ma mi sembrava importante. Ho parlato con l'amica di Zoe, Louise. Simpatica. Mi ha fatto sentire più vicina a Zoe.» Morris bevve un sorso di caffè. «Riesci veramente a sentirti vicina a persone che non hai mai conosciuto?» «Be', in un certo senso mi sento legata a Zoe e a Jenny.» «Hai sentito della frana in Honduras la scorsa settimana?» «No.» «Hanno trovato più di duecento corpi. Non sanno neanche quante siano le persone disperse.» «Terribile.» «Nel mio giornale c'era solo un trafiletto nelle pagine dell'estero. Se fosse successo in Francia avrebbero dato alla notizia molto più rilievo, e se fosse successo in un paese di lingua inglese sarebbe finita in prima pagina.» «Mi dispiace, devi scusarmi se al momento sono un po' troppo assorbita da me stessa. È questo continuo senso di paura e di nausea. È per questo che sono così.» Morris si piegò in avanti e posò delicatamente la tazza di caffè su una ri-
vista, come se una macchia di caffè potesse in qualche modo diminuire il valore del tavolo da quattro soldi. «Davvero ti senti in questo modo?» mi domandò con simpatia. «Sì» risposi. «Cerco di non pensarci, di dimenticarmene, ma il pensiero è sempre in agguato. Sai quando sei un po' malato e tutto quello che mangi ha un retrogusto strano? Ecco come mi sento.» «Se vuoi parlarne, per me va bene. Puoi dirmi che cosa provi. Qualsiasi cosa.» «È carino da parte tua, ma non c'è nulla di complicato. Voglio solo che finisca.» Morris si guardò intorno. Josh era ancora assorbito dal gioco. «Quali sono i tuoi piani?» «Non so. Avevo la stupida idea di cercare per conto mio degli indizi, ma penso che sia una perdita di tempo. La polizia ha setacciato tutto.» «Che cosa cercavi?» «Non lo so. Non è ridicolo? Cercare un ago in un pagliaio è una cosa, ma cercare in un pagliaio qualcosa che non si sa neanche che cosa sia è un'altra, non ti pare? Forse sto solo cercando un po' di paglia. Ho dato un'occhiata ai rapporti della polizia.» «Ti hanno fatto vedere i loro rapporti?» mi domandò Morris bruscamente. Scoppiai a ridere. «Più o meno.» «Che cosa dicevano? C'erano anche i rapporti delle autopsie?» «Più che altro roba burocratica. C'erano delle fotografie orribili. Meglio non sapere quello che è stato fatto a Jenny. L'ho davanti agli occhi ogni volta che li chiudo.» «Posso immaginarlo. Hai saputo niente?» «Non proprio. Voglio dire: un sacco di informazioni, ma niente che mi potesse servire. È stato orribile, ma inutile. Speravo che magari avrei potuto riconoscere qualcosa, un legame, qualcosa che ci collegasse: Zoe, Jenny e Nadia, le tre strane sorellastre.» «Hai trovato me» rispose lui con un sorriso. «Sì. Non preoccuparti, Morris, ti sto ancora tenendo d'occhio. E c'era anche l'agente immobiliare, Guy, che avrebbe potuto essere un legame tra Zoe e Jenny. Mi è sembrato un tipo abbastanza strano. Ma conosco un poco le leggi di probabilità. Vivevamo tutte al nord di Londra, sarebbe strano che tra noi non ci fosse qualche tipo di relazione. Chissà quante volte sia-
mo andate negli stessi negozi, ci siamo passate accanto per strada. Ma non è importante. Il problema è che continuo a pensarci. Ci deve essere qualcosa. Ci deve essere. Ho parlato con una psicologa e lei ha accennato a questo principio per cui l'assassino porta sempre qualcosa sulla scena del delitto e si prende anche sempre qualcosa. È un'idea inquietante, non ti pare?» Morris si strinse nelle spalle. «Insomma, mi ossessiona. Mi sembra di aver tutto in testa. Ho il pagliaio in testa e sento che lì ci sono due pagliuzze che, messe insieme, mi salverebbero la vita.» «Ci riuscirai senz'altro. Non devi abbandonare le speranze.» «A volte penso che ci riuscirò. Sai qual è il vero problema? È quando a volte mi capita di pensare a come sarà attraversare tutto questo e poi tornare a vivere una vita normale e diventare vecchia.» Dovetti interrompermi e riprendere fiato prima che le lacrime cominciassero a scorrermi sul volto. Mi accorsi che Josh era venuto vicino. Gli versai una tazza di caffè. «Questa sera è tutto un po' così, inaspettato e casuale.» Rimanemmo in silenzio per un momento. Josh era tornato a sembrare grande, seduto sul divano con due adulti. Bevemmo il caffè scambiandoci ogni tanto uno sguardo e un sorriso. «Allora quello che hai cercato di fare» prese a dire Morris, «è trovare collegamenti fra te e le altre due donne, Zoe e... ehm, la mamma di Josh.» «Sì.» «Ci ho pensato anch'io e se non ti dispiace vorrei dire una cosa che mi è venuta in mente e che probabilmente è sciocca, ma...» «Di' pure. Almeno non continuo a parlare da sola.» «Ho pensato che c'è un legame ovvio tra voi tre.» «Che cosa?» «Sembra una barzelletta, ma chi sono le persone che avete in comune?» «Chi?» Guardai prima Morris poi Josh. Improvvisamente Josh sorrise nel suo modo incerto. «Io lo so» disse compiaciuto. «Insomma chi? Ditemelo, dai.» «Devi cercare di indovinare.» Ora mi stava prendendo in giro, come un irritante fratellino minore. «Maledizione, dimmelo, Josh, o ti torco il naso.» Alzai la mano in modo minaccioso. «Va bene, va bene. La polizia.»
«Sono stati sempre gli stessi uomini?» domandò Morris. «Penso di sì, ma...» «A dire il vero nella mia brillante idea c'è una grossa pecca.» «Quale?» «La prima donna. Zoe. La polizia ha saputo di lei solo dopo che aveva ricevuto la prima lettera.» «Già.» Tornammo a tacere. Improvvisamente sentii come una piccola scarica elettrica alla nuca. Era il genere di cosa che stavo cercando. «Non è vero» dissi. «Che cosa?» domandò Morris. «Quello che hai detto, che hanno saputo di lei solo dopo la prima lettera.» «Che vuoi dire? Come facevano a sapere di lei prima?» «Era nei rapporti. Poco prima di ricevere i messaggi Zoe era apparsa sui giornali. Aveva bloccato un borseggiatore per strada. L'aveva colpito con un cocomero. È diventata famosa, hanno messo la sua foto sui giornali. La polizia ha saputo di lei.» «Non parlavo seriamente, ma comunque... Potrebbe valer la pena di pensarci su, vedere se ti hanno trattato in modo un po' strano. Suppongo che si siano comportati con il solito stile distaccato della polizia.» Alzai gli occhi nervosamente. Dovevo far finta che non ci fosse stato nulla di strano. «Sì, mi pare il solito stile.» Sapevo di non essere brava a mentire. Avrebbe risposto così chi diceva la verità? «Tutto bene?» mi domandò Morris. «Sì, naturalmente. Perché non dovrebbe?» Ora la mia mente stava correndo. C'erano troppe cose a cui pensare, troppo su cui riflettere. «Vuoi dire che potrebbe essere un poliziotto?» «Che cosa ne pensi, Josh?» Josh scosse la testa perplesso. «No, non potrebbe essere. Sarebbe troppo strano. Tranne che... No, è una cosa stupida.» «Che cosa? Sputa il rospo» incalzai. «Non so se hai sentito che prima che mia madre... be', lo sai: hanno messo dentro mio padre perché hanno trovato una cosa che apparteneva a mia madre nell'appartamento dell'altra donna, Zoe. Chi altri avrebbe potuto mettercelo?» Ci fu silenzio come in una caverna buia.
«Devo pensarci su. Mi sembra una specie di cruciverba. Ma non sono abbastanza intelligente per risolverlo.» «Mi dispiace» intervenne Morris. «Ho paura di averti messo una pulce nell'orecchio. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa.» «No, non essere stupido. Vale la pena pensarci su. Solo che non posso crederci. Che cosa devo fare?» Morris ejosh si scambiarono un'occhiata e scrollarono le spalle. «Bada a te stessa» disse Morris. «Tieni gli occhi aperti.» Fece un cenno a Josh. «Dobbiamo andare» gli disse. Li accompagnai alla porta. «Che cosa devo fare?» ripetei pateticamente. «Pensaci su e anche noi lo faremo. Magari riusciremo a trovare qualcosa. Ricordati che noi siamo dalla tua parte.» Chiusi la porta e non andai neanche a sedermi. Rimasi lì in piedi a pensare, cercando di trovare il bandolo della matassa. La testa mi doleva. Sono qui, nel cuore delle cose. Invisibile. Sono di fronte a lei e lei mi sorride in quel suo modo, con gli occhi socchiusi. Ride alle mie battute. Mi mette la mano sulla spalla. Mi ha baciato sulla guancia: un bacio morbido, secco, che mi brucia la pelle. Lascia sgorgare le lacrime dagli occhi e non se le asciuga. Non si fida più di molte persone, ma si fida di me. Sì, si fida di me completamente. Quando sono con lei non devo ridere. La risata mi cresce dentro come una bomba. Lei è forte, flessibile. Si piega, ma non si spezza. Non è crollata. Ma anch'io sono forte. Sono più forte di lei, più forte di chiunque. Sono intelligente, più intelligente di quegli sciocchi che vanno in cerca di indizi che non ci sono. E sono paziente. Aspetterò finché sarà necessario. Osservo, aspetto e, dentro di me, rido. VENTI «Tu» dissi. «Io» rispose Cameron. Ci guardammo. «Oggi ho preso il posto di Lynne. Ordini superiori.» «Oh.» Ero andata alla porta con addosso una vestaglia striminzita e i capelli scompigliati, pensando si trattasse di Lynne o Bernice. Non volevo che Stadler mi vedesse in quello stato. Lui abbassò gli occhi sul mio petto, sulle mie gambe nude e io istintivamente portai la mano alla gola e lo vidi
fare un sorrisetto. «Vado a vestirmi» dissi. Indossai dei jeans e una maglietta molto semplice. Mi pettinai e mi diedi una rassettata. Faceva meno caldo, sembrava quasi di sentire profumo d'autunno nell'aria, un senso di frescura. Avevo voglia di vedere l'autunno: le foglie che ingiallivano, il cielo grigio, la pioggia sferzata dal vento. Le pere nell'albero in giardino, le more nel cimitero vicino casa. Pensai alle passeggiate nel bosco dalle parti di casa dei miei, al rumore delle foglie secche sotto gli scarponi. Pensai a quando mangiavo fette di pane tostato imburrato seduta vicino al caminetto a casa di Janet. Piccole cose. Sentivo Cameron in cucina, a suo agio tra i vari arnesi. Ripensai a quello che aveva detto Morris il giorno prima e che in effetti poteva essere vero. Ripercorsi con la mente quello che era successo tra me e Cameron, mentre lui sfaccendava. Aveva nascosto la testa tra i miei seni, gemendo; mi aveva inchiodata a terra; era stato selvaggio, brutale, gentile. Quando mi aveva fissato con gli occhi pieni di desiderio, che cosa aveva visto? Che cosa vedeva ora? Dovevo temerlo? Feci un profondo respiro e andai a raggiungerlo in cucina. «Caffè?» mi domandò. «Grazie.» Ci fu silenzio. Poi dissi: «Ho deciso di andare a trovare i miei oggi. Stanno vicino a Reading». «Bene.» «Vorrei che rimanessi ad aspettare fuori. Non intendo dire loro di te.» «Sono ansiosi?» «Non è questo. Non sanno niente, non gliel'ho detto.» Comunque erano molto ansiosi. Ed era per questo motivo che non avevo detto loro niente. Tutte le volte che avevo preso il telefono, mi era venuta in mente la voce mite e nervosa di mia madre che non riusciva mai a celare una nota di panico. Aspettava sempre cattive notizie da me. Tutte le volte che sentiva la mia voce all'altro capo del filo, pensava che le avrei comunicato una brutta notizia e che i suoi vaghi timori avrebbero trovato una giustificazione. Non era mai stata sicura di me, non so perché. Non aveva fiducia nella mia capacità di badare a me stessa e di costruirmi una vita. Ma oggi avrei raccontato loro tutto. Dovevo farlo. «Nadia, dobbiamo parlare...» Posò la sua tazza e si piegò verso di me. «Volevo chiederti qualcosa...» «Di noi. Di te e me.» «Io volevo chiederti di Zoe e di Jenny.»
«Nadia, dobbiamo parlare di quello che è successo.» «No.» Cercai di mantenere la voce risoluta. Mi concentrai sul fatto che dovevo tenere ferma la mano con la tazza del caffè. «Non dici sul serio.» Lo guardai. Alto e solido come un muro tra me e il resto del mondo. Aveva mani forti, spesse, pelose. Mani che mi avevano stretto, accarezzato, che avevano accarezzato tutti i miei posti segreti. Aveva occhi che mi fissavano, mi spogliavano. «Mi sono innamorato di te» disse con voce roca. «L'hai detto a tua moglie?» Trasalì, poi disse: «Lei non c'entra. Si tratta solo di me e te qui, nel tuo appartamento». «Dimmi di Zoe e Jenny» ribadii. «Non mi hai mai parlato di loro. Che tipi erano?» Lui scosse il capo con irritazione, ma io insistei. «Me lo devi.» «Non ti devo niente» disse, ma alzò le mani in segno di resa, poi chiuse gli occhi un momento. «Zoe. Non l'ho conosciuta molto bene. Non ho quasi avuto l'occasione... L'ho vista per la prima volta in un'enorme fotografia su un giornale, appesa in una bacheca in centrale dopo che lei aveva atterrato un borseggiatore con un cocomero. Per i ragazzi era diventata una specie di eroina, e anche l'occasione per battutacce.» «Ma che tipo era?» «Non l'ho mai incontrata.» «E Jenny? Devi averla conosciuta bene.» Lo guardai in viso. «Jenny era molto diversa.» Sorrise quasi al ricordo, poi si controllò. «Minuta. Siete tutte minute» aggiunse pensosamente. «Ma forte, energica, intensa, oscura, arrabbiata. Un filo da torcere. Intelligente, impaziente, a volte anche abbastanza folle.» «Infelice?» «Anche.» Mi mise una mano sul ginocchio e io la lasciai stare per un momento, anche se il suo tocco mi diede un'ondata di repulsione. «Ma se glielo si diceva, ti staccava la testa a morsi. Una tigre.» Mi alzai per liberarmi della sua mano e versai dell'altro caffè, per fare qualcosa. «Tra poco dobbiamo andare» dissi. «Nadia.» «Non voglio arrivare tardi.» «Quando sono a letto di notte, ti vedo, vedo il tuo viso, il tuo corpo.» «Stammi lontano.»
«Ti conosco.» «Pensi che tra poco morirò.» Prima di uscire telefonai a Links, in presenza di Cameron, e gli dissi che l'ispettore Stadler mi avrebbe accompagnato dai miei genitori e che saremmo ritornati nel tardo pomeriggio. Avvertii una nota di stupore nella voce di Links: non capiva come mai gli telefonassi per comunicargli una notizia del genere. Non mi importava. Ripetei il messaggio, forte e chiaro, perché sia lui che Cameron non potessero fare a meno di sentirlo. Non parlammo molto durante il viaggio. Gli indicavo la strada in modo stringato e lui guidava e mi lanciava occhiate pesanti. Stavo seduta con le mani sulle ginocchia e cercavo di guardare fuori del finestrino, ma avvertivo il suo sguardo insistente. «Che cosa fanno i tuoi genitori?» mi domandò prima di arrivare. «Papà era insegnante di geografia, ma è andato in pensione presto. Mamma faceva cose strane, ma per lo più è stata a casa a badare a me e a mio fratello. Ecco: qui, a questo incrocio. Ricordati che non devi entrare.» La casa dei miei era una villetta semindipendente degli anni Trenta, molto simile alle altre di quella via cieca. Cameron ci si fermò davanti. «Aspetta un minuto» disse mentre mettevo la mano sulla maniglia della porta. «Devo dirti una cosa.» «Che cosa?» «È arrivata un'altra lettera.» Mi gettai indietro sullo schienale del sedile e chiusi gli occhi. «Mio Dio» mormorai. «Mi hai fatto promettere di dirti tutto.» «Che cosa c'era scritto?» «Era breve. Diceva solamente: "Sei coraggiosa, ma non ti gioverà". Qualcosa del genere.» «Tutto qui?» Aprii gli occhi e mi voltai verso di lui. «Quando è arrivata?» «Quattro giorni fa.» «Avete dedotto qualcosa dal messaggio?» «Lo usiamo per approfondire le nostre valutazioni psicologiche.» «Niente» dissi con un sospiro. «Comunque penso che non cambi molto. Lo sappiamo che è ancora in giro, no?» «Sì.» «Ci vediamo tra un paio d'ore.»
«Nadia.» «Che cosa?» «Sei coraggiosa.» Lo guardai fisso. «Veramente.» Continuai a guardarlo. «Vuoi dire coraggiosa come Zoe e Jenny?» Non rispose. La mamma aveva preparato lo stufato d'agnello con il riso, che era scotto e tutto appallottolato, e insalata verde. Quando ero ragazzina, adoravo lo stufato d'agnello. Come si fa a dire alla propria madre che certe cose cambiano? Era duro, cartilaginoso e c'erano troppe schegge d'osso. Papà aveva stappato una bottiglia di vino rosso, anche se nessuno di loro due beveva a pranzo. Erano così contenti di vedermi. Mi trattavano con tutti i riguardi, come se fossi un'estranea. E mi sentivo un'estranea in compagnia di quei due vecchietti gentili, che oltretutto non erano ancora neanche vecchi. Erano sempre stati cauti e continuavano a esserlo. Anche con me erano stati attenti: mi aspettavano alzati quando uscivo di sera, mi mettevano una bottiglia d'acqua calda nel letto nelle notti di gelo, mi dicevano di indossare un golfino quando faceva freddo, facevano la punta alle mie matite prima dell'inizio della scuola. Mi facevano diventar matta con tutte quelle attenzioni, quel pensare a tutti i dettagli della mia vita. Ora il ricordo mi dava nostalgia: sentivo un groppo in petto. Pensai di aspettare dopo pranzo per dirglielo. Bevemmo il caffè nel soggiorno, con dei cioccolatini alla menta. Vedevo Cameron seduto dietro il volante. Mi schiarii la gola. «Devo dirvi una cosa.» «Sì?» Mamma mi guardò con apprensione. «Io... c'è un uomo che...» mi interruppi e vidi che sul suo viso spuntava un'espressione di piacere. Pensava che finalmente avessi trovato un ragazzo serio. Non aveva mai considerato Max come una possibilità reale. Non riuscii a continuare. «Oh, niente, davvero.» «No, vai avanti. Dicci. Vogliamo sapere, vero, Tony?» «Dopo.» Mi alzai bruscamente. «Prima voglio che papà mi mostri quello che sta succedendo in giardino.» Le prugne stavano maturando sull'albero e nell'orto crescevano i fagiolini e le patate. Nella serra c'erano i pomodori, e papà insisté che portassi via con me un vassoio di plastica di pomodori ciliegini. «Tua madre ha messo da parte per te dei vasetti di marmellata di frago-
le.» Gli presi la mano. «Papà, so che abbiamo avuto delle discussioni» i compiti, le sigarette, il bere, il trucco, star su fino a tardi, la politica, la droga, i ragazzi, la mancanza di ragazzi, un lavoro serio eccetera «ma volevo dirti che sei stato un bravo padre.» Grugnì qualcosa, imbarazzato, e mi diede un colpetto sulla spalla. «Tua madre si starà domandando come mai ci mettiamo tanto.» Li salutai nell'ingresso. Non riuscii ad abbracciarli bene perché avevo in mano i pomodori e la marmellata. Premetti la guancia contro quella di mamma e aspirai l'odore noto di vaniglia, cipria, sapone e naftalina. Odori dell'infanzia. «Arrivederci» dissi sorridendo e salutandoli con la mano. «Ciao.» Per un attimo pensai che non li avrei più rivisti, ma non si possono pensare queste cose, altrimenti come si fa a salire in auto, sorridere e andare avanti? Per tutto il viaggio di ritorno feci finta di dormire. Dopo che ebbe fatto il giro di ispezione dell'appartamento, chiesi a Cameron di uscire. Volevo stare un po' sola. Lui cominciò a protestare, ma il cicalino che aveva alla cintura suonò e io lo spinsi fuori e chiusi la porta. Andai a sedermi sull'orlo del letto, con le mani sulle ginocchia. Chiusi gli occhi, poi li riaprii. Mi ascoltai respirare, aspettando che quella sensazione di panico se ne andasse. Poi il telefono squillò, rimbombandomi nel cervello. Allungai la mano e lo sollevai. «Nadia.» La voce di Morris era roca e con un tono di urgenza. «Sì?» «Sono io. Non dire niente. Ascolta, Nadia: ho scoperto una cosa. Non posso dirtela al telefono. Dobbiamo incontrarci.» Sentii la paura prendermi allo stomaco come un grosso tumore. «Che cosa c'è?» «Vieni a casa mia prima che puoi. Devo farti vedere una cosa. C'è qualcuno con te?» «No, è fuori.» «Chi c'è?» «Stadler.» Sentii Morris inspirare. Quando tornò a parlare, lo fece con molta calma e lentezza. «Cerca di non portartelo dietro, Nadia. Ti aspetto.»
Riagganciai il telefono e mi alzai. Allora era Cameron. La paura si attenuò e mi sentii forte, piena di energia e di chiarezza. Eravamo arrivati al punto. L'attesa era terminata, e con essa la sofferenza e il terrore. Io ero pronta ed era ora di andare. VENTUNO Uscendo dal portone mi sentivo lucida. Sapevo che cosa avrei fatto. Le cose erano diventate semplici. Lo strato di paura c'era ancora, ma era come receduto un poco. Cameron uscì dall'auto e mi venne incontro con lo sguardo interrogativo, anche speranzoso. «Vado qui vicino a prendere qualcosa per cena» dissi. Camminammo vicini. Non dissi altro. «Mi dispiace» fece lui infine. «Per tutto. Vorrei solo sistemare le cose. Tra te e me.» «Di che cosa stai parlando?» Non rispose. Attraversammo la strada e continuammo a camminare sul marciapiede finché non raggiungemmo Marks and Spencer. Non volevo discutere con lui, non dovevo far nulla per destare i suoi sospetti. Gli misi la mano sul braccio. Un contatto, ma nulla di eccessivo. «Mi dispiace, ma in questo momento non riesco ad affrontare le cose in maniera razionale. Non è il momento.» «Capisco.» Mi voltai per entrare nel negozio. Feci un sospiro. «Esco tra un minuto.» «Ti aspetto qui.» «Hai bisogno di qualcosa?» «Non preoccuparti.» Marks and Spencer di Camden Town ha una piccola uscita sul retro. Attraversai il negozio, uscii e nel giro di pochi minuti stavo scendendo con la scala mobile alla fermata della metropolitana, con l'aria calda che mi soffiava in viso. Guardai dietro di me, ma lui non c'era. Seduta in metropolitana durante il breve viaggio, cercai di capire qualcosa di quello che aveva detto Morris. Mi sentivo come fossi stata intrappolata per settimane in una fitta nebbia, che non stava proprio sparendo, ma diventando più rada, permettendomi di vedere i contorni del paesaggio. Se era un poliziotto, se era Cameron, quello che prima era sembrato impossibile diventava semplice. La polizia aveva facile accesso all'appartamento di Zoe, alla casa di Jenny e - ebbi un tuffo al cuore - al mio. Ma perché a-
vrebbero fatto una cosa del genere? Perché Cameron avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Dovevo solo pensare allo sguardo di Cameron per conoscere la risposta. Mi vennero in mente i primi incontri con la polizia, Cameron in un angolo con gli occhi fissi su di me. Cameron nel mio letto. Non ero mai stata guardata né toccata in quel modo, come se fossi un oggetto infinitamente attraente e strano. Mi ero sentita come se volesse guardarmi, toccarmi, penetrarmi, assaggiarmi nello stesso tempo, come se nulla gli potesse bastare. Era stato meravigliosamente eccitante in principio e ora mi sembrava spaventosamente chiaro. Essere vicino alla donna che stava terrorizzando, possederla, scoprirne tutti i segreti doveva eccitarlo. Ma che prove c'erano? Morris aveva scoperto qualcosa che avrei potuto usare per accusarlo? L'appartamento di Morris era a due passi dalla fermata della metropolitana. La strada principale era affollatissima, ma lui viveva in una viuzza secondaria che mi fu difficile trovare. La prima volta la superai senza accorgermene, poi chiesi informazioni e la trovai. Era un vicolo malmesso e, quel sabato sera, deserto. In fondo trovai una porta con un biglietto da visita vicino al campanello che diceva «BURNSIDE». Suonai. Seguì un lungo silenzio. Era uscito? Poi udii una serie di giri di chiave e chiavistelli che venivano tirati e la porta si aprì. Morris aveva un aspetto incredibile, pieno di vita. Indossava dei pantaloni larghi con grandi tasche dappertutto e una maglietta con le maniche corte, e aveva i piedi nudi. Negli occhi brillava qualcosa, una luce vivace, magnetica. Aveva addosso un'energia, sembrava un campo magnetico. Era un uomo attraente e inoltre - e qui provai un tuffo al cuore - si credeva innamorato. Sperai che non avesse ingigantito le cose, solo nella speranza di attirarmi a sé. «Nadia» disse con un sorriso di benvenuto. Rimase sulla porta e guardò alle mie spalle. Anch'io mi voltai. Non c'era nessuno nella stradina. «Come hai fatto a seminarlo?» «Sono una maga.» «Entra. Non ho messo in ordine.» A me il posto sembrava ordinalissimo. Entrammo direttamente in un soggiorno piccolo e accogliente con una porta in fondo che dava su un breve corridoio. «Era un magazzino?» «Una specie di laboratorio, mi pare. È di un amico che si trova all'estero. Me ne sto occupando per conto suo.»
L'unica cosa fuori posto era un asse da stiro con il ferro accanto. «Stavi stirando? Sono molto colpita.» «Solo questa camicia.» «Pensavo fosse nuova.» «Questo è il trucco. Se si stirano, i vestiti sembrano nuovi.» Sorrisi. «Il vero trucco è mettersi dei vestiti nuovi.» Gironzolai per la stanza. Era diventata una specie di abitudine guardare le case altrui. L'istinto della ficcanaso mi portò davanti a un grande tabellone di sughero appeso al muro su cui erano puntati menù di ristorantini, biglietti da visita di idraulici ed elettricisti e, cosa più interessante di tutte, delle piccole istantanee. Morris a una festa, su una bici, su una spiaggia, con una ragazza. «Carina» dissi. «Cath.» «È la tua ragazza?» «Be', c'è stato qualcosa.» Sorrisi dentro di me. Doveva essere la sua ragazza. Se un uomo dice di una ragazza che c'è stato qualcosa, è come se cercasse di nascondere la fede al dito. Voleva rendere ambiguo il suo stato. «Dove sono le altre?» «Che cosa?» «Le altre foto. Molte puntine e poche fotografie.» Qui e là sul tabellone c'erano molti spazi vuoti. «Oh, di alcune mi ero stufato.» Si mise a ridere. «Saresti brava come ispettore.» «A proposito, spero che la cosa che devi dirmi sia davvero importante, perché l'ispettore Stadler sarà molto arrabbiato. Sarò fortunata se riuscirò a cavarmela solo con l'accusa di far perdere tempo alla polizia.» Morris mi fece segno di sedermi al tavolo e si accomodò di fronte. «Stavo ripensando all'interrogatorio che mi hanno fatto Stadler e... chi era quell'altro?» «Links?» «Sì, e mi sono convinto che ci sia qualcosa di strano in Stadler. Il modo in cui parlava delle altre due donne era proprio strano e volevo discuterne con te. E poi volevo allontanarti da lui.» «Hai delle prove?» «Che cosa?»
«Pensavo che avessi trovato qualcosa da usare contro di lui.» «Mi dispiace, ne sarei stato contento.» Cercai di riflettere. La nebbia che mi era sembrata diradarsi si stava di nuovo infittendo. Poi improvvisamente fui attraversata da un'ondata di gelo. «Non funziona, in ogni caso» dissi ottusamente. Morris sembrò stupito. «Che cosa?» «La teoria della polizia. Mi ero eccitata all'idea di Zoe e del cocomero, che stabiliva il legame tra lei e la polizia prima che arrivassero le lettere. Ma questo non spiega Jennifer.» «Perché?» «Il suo medaglione è stato portato nell'appartamento di Zoe prima che lei morisse, prima che Jennifer cominciasse a ricevere le lettere, prima che chiamasse la polizia.» «La polizia potrebbe aver finto di aver trovato il medaglione.» Ci riflettei su per un momento. «Be', forse» dissi, poco convinta. «Tuttavia non spiega perché Jenny. Perché prendersela con lei?» «Stadler potrebbe averla vista da qualche parte.» «Questo si può dire di chiunque. La teoria si basava sul fatto che la polizia aveva a che fare con tutte le donne.» Mi sentivo depressa e malconcia. «È stato tutto un errore. È meglio che vada.» Morris si piegò in avanti e mi toccò il braccio. «Rimani un pochino. Solo un poco, Nadia.» «Sarebbe stato così bello» dissi con voce atona. «Era una teoria così bella, è un peccato doverla abbandonare.» «Di nuovo nel pagliaio» disse Morris. Mi sorrideva come se fosse divertente. Aveva i denti, gli occhi, il viso che brillavano. «Sai una cosa?» dissi come in sogno. «Che cosa?» «Mi sembrava strano non aver mai incontrato Zoe e Jenny, ma ora è diverso. A volte penso a noi come sorelle, ma sempre più spesso mi sembra che siamo la stessa persona. Abbiamo vissuto le stesse esperienze. Siamo state sveglie di notte con le stesse paure. E moriremo nello stesso modo.» Morris scosse il capo. «Nadia...» «Shhh» gli feci, come a un bambino piccolo. Stavo quasi parlando a me stessa e non volevo che il mio sogno a occhi aperti fosse interrotto. «Quando sono andata all'appartamento con Louise, l'amica di Zoe, è stato
strano. Era quasi come se lei fosse stata la mia migliore amica, come se ci riconoscessimo. Buffo: quando si è messa a raccontare di quando era andata a fare compere con Zoe l'ultimo pomeriggio, era quasi come se stesse parlando di una giornata di compere trascorsa insieme a me. Anche lei ha provato la stessa cosa. L'ho avvertito.» E in quel momento, di colpo, la nebbia si sollevò e il paesaggio mi si rivelò, freddo e duro sotto il sole, e finalmente capii. Senza più dubbi. Avevo continuato a meditare sui rapporti della polizia fin da quando lo avevo notato. «Che cosa c'è?» Sobbalzai. Mi ero quasi dimenticata di Morris. «Che cosa?» «Non mi sembri del tutto presente. A che cosa stavi pensando?» «Stavo pensando che quando Zoe è stata uccisa aveva addosso la maglietta comprata con Louise. Buffo, no?» «Non lo so. Dimmi perché è buffo. Dimmelo, Nadia.» «Un peccato sporcarla» risposi. Morris mi fissò come per cercare di leggermi nella mente. Pensava che fossi diventata matta? Bene. Mi piegai sul tavolo e gli presi la mano. Era appiccicosa. La mia era fredda e secca. Gli presi la destra tra le mani e gliela strinsi. «Morris, vorrei tanto una tazza di tè.» «Sì, subito, Nadia.» Continuava a sorridere, come se non riuscisse a smettere. Si alzò e andò in cucina. Io gettai un'occhiata alla porta di ingresso. C'erano vari chiavistelli e pomelli e inoltre la casa era in fondo a una strada deserta. Mi alzai e mi avvicinai al tabellone di sughero. «Serve aiuto?» gridai. «No» mi rispose, gridando di rimando dalla cucina. Esaminai il tabellone. Sotto c'era una scrivania con dei cassetti. Aprii il primo più piano che potei. Libretti di assegni, ricevute. Aprii il secondo. Cartoline. Il terzo. Cataloghi. Il quarto. Una pila di fotografie. Ne presi un paio. Più o meno sapevo che cosa avrei trovato, ma ugualmente ebbi un brivido di orrore. Morris con un paio di persone e con Fred. Morris con Cath e con Fred. Morris con altra gente e con Fred. Misi una foto nella tasca posteriore dei jeans. Magari l'avrebbero trovata sul mio cadavere. Chiusi il cassetto e ritornai a sedermi al tavolo. Mi guardai intorno. Doveva funzionare. Svuotai la mente. No, sbagliato. Non la svuotai: la riempii. Di immagini. Mi forzai a pensare alla foto di Jenny morta. In tutti i detta-
gli. Che cosa avrebbe fatto Jenny se fosse stata seduta qui, dov'ero io? Morris ritornò portando non so come una teiera, due tazze, un cartone di latte e un pacchetto di biscotti alla crusca. Mise il tutto sul tavolo e si sedette. «Aspetta un momento» dissi prima che versasse il tè. «Voglio farti vedere una cosa.» Mi alzai e girai intorno al tavolo. «È una specie di trucco di magia.» Lui mi sorrise di nuovo. Un sorriso molto carino. Sembrava felice, eccitato. Aveva una luce negli occhi. «Non so molto di magia» continuai, «ma la prima cosa che si impara è non dire mai al pubblico che cosa stai per fare, perché se il trucco non riesce puoi sempre dire che lo hai fatto apposta. Guarda.» Tolsi il cappuccio alla teiera, la sollevai e molto velocemente gliela rovesciai in faccia. Un po' di tè si versò anche su di me, ma non me ne accorsi neppure. Lui lanciò un urlo animalesco. Nello stesso istante afferrai il ferro da stiro con entrambe le mani. Avevo una sola occasione e dovevo fargli male. Lui si era portato le mani al viso. Sollevai il ferrq e glielo picchiai con tutte le mie forze sul ginocchio destro. Udii un rumore di qualcosa che si spezzava e un altro urlo. Lui si piegò e scivolò giù dalla sedia. Che altro? Pensai alla fotografia. Ero incandescente come un attizzatoio. Vidi che aveva la caviglia sinistra esposta e lo colpii di nuovo con il ferro. Altro rumore di ossa che si spezzavano e altro urlo. Indietreggiai, ma nel farlo sentii che una mano mi afferrava i calzoni. Sollevai di nuovo il ferro, ma lui mollò la presa. Indietreggiai ancora, fuori della sua portata. Lui si dimenava scompostamente sul pavimento, gemendo. Quel poco che vedevo del suo viso era di un rosso livido. «Se ti avvicini di un centimetro, ti rompo tutte le ossa. Sai che sono capace di farlo. Ho visto le foto. Ho visto che cosa hai fatto a Jenny.» Continuavo a indietreggiare senza togliergli gli occhi di dosso. Mi guardai intorno rapidamente e vidi il telefono. Sempre con il ferro in mano, trascinando il cordoncino sul pavimento, lo raggiunsi e composi il numero. VENTIDUE Riagganciai il telefono e rimasi ferma, il più lontano possibile da lui. Era ancora accasciato sul pavimento, che gemeva e ansimava. Mi domandai se stesse raccogliendo le forze, se si sarebbe alzato e mi sarebbe venuto ad-
dosso. Dovevo andare a colpirlo un'altra volta? Dovevo andare alla porta e cercare di uscire? Non riuscivo a muovermi. Non c'era nulla che potessi fare. Improvvisamente cominciai a tremare in ogni parte del corpo. Mi appoggiai al muro cercando di calmarmi. Gli vidi tentare un movimento, prima vago poi più deciso. Stava cercando di rimettersi in piedi, gemendo per lo sforzo. Capii subito che non aveva possibilità di alzarsi, le gambe erano chiaramente fuori uso. Riuscì solo a trascinarsi dolorosamente sul pavimento. Si appoggiò alla libreria. Si tirò leggermente su e si voltò in modo da potermi vedere. Aveva il viso ustionato, con vesciche sulle guance e sulla fronte, un occhio quasi chiuso, la saliva che gli usciva dalla bocca e gli colava sul mento. Tossì. «Che cosa hai fatto?» Non parlai. «Non capisco. Non sono stato io.» Tenni il ferro ben stretto in mano. «Un movimento e ti spappolo qualche altro osso.» Si girò un poco e urlò. «Gesù, mi fa così male.» «Perché l'hai uccisa? Aveva dei bambini. Che cosa ti aveva fatto?» «Sei pazza. Non sono stato io, te lo giuro, Nadia. Te l'hanno detto. Ero a cento miglia di distanza quando Zoe è stata uccisa.» «Lo so.» «Che cosa?» «Lo so che non hai ucciso Zoe. L'avresti fatto, ma non hai avuto tempo. Hai ucciso Jenny.» «Ti sbagli, lo giuro. Oh, mio Dio, che cosa mi hai fatto in faccia? Che cosa mi hai fatto?» Piangeva. «Mi avresti uccisa, come hai ucciso lei.» Avevo difficoltà a parlare. Respiravo affannosamente e il cuore batteva all'impazzata. «Lo giuro, Nadia» disse quasi in un sussurro. «Chiudi quella fottuta bocca. Ho visto le fotografie. Nel cassetto.» «Che cosa?» «Di te e Fred. Quelle che hai tolto prima che arrivassi.» Non perse una battuta. «Ammetto di aver nascosto le fotografie. Mi sono fatto prendere dal panico perché potevano essere male interpretate. Ma ciò non significa che ho
ucciso qualcuno.» «E il modo in cui ti sei fatto prendere dal panico quando dovevamo incontrare Louise all'appartamento?» «No, ho ricevuto veramente un messaggio. Nadia, ti stai confondendo...» Non so che cosa mi aspettavo. Forse avrei voluto che lui ammettesse quello che aveva fatto e dicesse qualcosa, magari di totalmente inadeguato, che mi desse una spiegazione. Ora mi rendevo conto che non avrebbe ceduto, che non sarei mai riuscita a capire. Avrebbe continuato a mentire e magari avrebbe finito con il credere lui per primo a tutte le sue menzogne. Fissai il suo viso sfregiato, il corpo tremante, l'occhio aperto che mi guardava. «Dovrei ucciderti» dissi. «Dovrei finirti prima che arrivi la polizia.» «Sì, forse dovresti. Perché non sono stato io, Nadia, e non ci sono prove contro di me. Mi lasceranno andare e manderanno te in prigione. Ma ne saresti capace? Ne saresti capace, Nadia? Avresti il coraggio di uccidermi?» «Mi piacerebbe.» «Allora fallo. Vieni, cara. Dài.» La saliva gli colava sul mento. Cercò di sorridere. «Mi piacerebbe farti soffrire tanto quanto tu hai fatto soffrire Zoe e Jenny.» «Ti aiuterò» disse e, gemendo e ansimando, cominciò a trascinarsi sul pavimento verso di me come un'orribile lumaca, grossa e grassa. Procedeva molto lentamente. «Avvicinati ancora e ti spacco la testa» dissi con il ferro ben stretto in pugno. «Fallo, tanto andrai in prigione comunque. Mi lasceranno andare. E anche se non lo faranno, riuscirò lo stesso a uscire presto. Non sarebbe meglio farmi fuori?» «Smettila, smettila» gridai e cominciai a piangere. Mi sembrava che stesse strisciando nel mio cervello così come strisciava sul pavimento. Stavo per lanciargli contro il ferro da stiro, quando sentii dei colpi alla porta e delle voci che urlavano il mio nome. Mi guardai attorno, fuori c'erano delle luci. Corsi ad aprire la porta. Si rivelò una cosa facile, non ci volle che un paio di secondi. Una confusione di persone mi passò accanto, un paio di poliziotti in divisa e Cameron. Al di sopra della sua spalla vidi due macchine della polizia e un'altra che stava arrivando. Cameron osservò la scena. Era sudato, aveva la cravatta rovesciata sulla spalla. «Che diavolo hai fatto?»
Non dissi nulla, mi chinai soltanto a posare il ferro da stiro sul pavimento. «Hai chiamato un'ambulanza?» Scossi il capo. Gridò qualcosa a uno dei poliziotti, che uscì. «Mi ha assalito» disse Morris. «È impazzita.» Cameron continuava a guardare me e Morris, molto perplesso. «È ferito?» domandò a Morris. «Certo, molto. Sto impazzendo per il dolore.» Cameron venne vicino e mi mise una mano sulla spalla. «Tu stai bene?» sussurrò. Annuii. Continuavo a guardare Morris accasciato sul pavimento e tutte le volte che gli lanciavo un'occhiata lui la ricambiava. Mi fissava con un occhio che non sembrava mai chiudersi. Un poliziotto si chinò su di lui a dirgli qualcosa, ma lui continuava a fissarmi. «Siediti» mi disse Cameron. Mi guardai attorno. Fu lui a dovermi accompagnare a una delle sedie al tavolo. Mi sedetti in modo da non dover più vedere Morris. Se avessi continuato a vederlo, avrei vomitato. «Ora Nadia, ti devo dire una cosa prima di iniziare tutte le procedure. Ascoltami bene. Non sei obbligata a dire nulla. Ma nel caso tu decida di parlare, e se venissi accusata, qualsiasi cosa tu dica potrebbe essere usata contro di te. Hai anche il diritto di chiamare un avvocato. Se lo desideri, possiamo fartene avere uno. Hai capito?» Annuii. «No, lo devi dire ad alta voce.» «Ho capito. Desidero parlare.» «Allora, che cosa è successo?» «Guarda nel cassetto. Laggiù.» Andò alla porta e urlò qualcosa a un poliziotto nei pressi. Un'ambulanza arrivò rumorosamente. Un uomo e una donna in tuta verde entrarono di corsa e si chinarono sopra Morris. Cameron mi fissava. Prese di tasca dei sottili guanti di plastica, più simili a quelli economici forniti alle pompe di benzina che a quelli usati dai chirurghi. Aprì il cassetto e guardò le fotografie. «Conosceva Fred» dissi. La scena stava diventando ridicola. Cameron guardò le foto con aria stupefatta. Morris gemeva per il dolore mentre gli tagliavano i calzoni per levarglieli. Poi arrivò Links.
«Che diavolo...?» fece, cercando di capire che cosa stesse succedendo. «Ha ferito Morris con un ferro da stiro» rispose Cameron. «Che diavolo... Perché?» «Dice che è stato lui a compiere i delitti.» «Ma...» Cameron diede a Links una delle fotografie. Links la guardò e poi guardò me. «Sì, ma in ogni caso...» Si voltò verso Cameron. «L'hai avvertita?» «Sì. È disposta a parlare.» «Bene. E Burnside?» «Non sono ancora riuscito a parlargli.» Links si piegò su Morris e gli mostrò la fotografia. In risposta lui si limitò a scuotere la testa e a gemere. Poi Links venne a sedersi vicino a me. Ora mi sentivo calma, lucida. «Morris l'ha assalita?» «No» risposi. «Se mi avesse assalita adesso sarei morta. No, non morta: moribonda. Mi starebbe uccidendo.» «Ma, Nadia» disse Links con tono gentile, «sa che Morris Burnside non avrebbe potuto uccidere Zoe Haratounian. Non era a Londra.» «Lo so, e so chi ha ucciso Zoe.» «Che cosa? Chi?» «L'ho capito all'improvviso. Eravate tutti convinti che dovesse essere stata uccisa dalla persona che le mandava quelle lettere. Ma non avete pensato alla possibilità che arrivasse un altro ad ucciderla, prima?» «Perché qualcun altro avrebbe dovuto ucciderla?» «Ho riflettuto su quello che mi ha detto Grace Schilling. Che l'assassino lascia sempre qualcosa di sé sulla scena del delitto e si porta sempre via qualcosa. L'ha sentito dire anche lei?» Lanciai un'occhiata a Cameron che era intento a esaminare il contenuto del cassetto. «Ho visto il rapporto sulla scena del delitto. Si ricorda che cosa diceva della maglietta che indossava quando è stata trovata?» «Sì, ma come diavolo è riuscita...» «Ricorda quello che diceva?» «C'erano le stesse tracce che abbiamo trovato nell'appartamento, sugli altri vestiti, sui tappeti, sul letto. Appartenevano a lei e al suo ex ragazzo.» «Ma la maglietta non avrebbe dovuto avere tracce di Fred. Lei era arrivata portandosela in una busta di plastica. L'aveva comprata il giorno prima con la sua amica, Louise.» Voltai il capo per guardare Morris. Mi stava
ascoltando. «Fred ha lasciato tracce sulla maglietta di Zoe mentre la stava strangolando.» Mi sembrò di cogliere una debolissima traccia di sorriso sul viso di Morris. «Non lo sapevi, vero?» gli dissi. «Il tuo amico ha ucciso Zoe prima che potessi farlo tu.» Guardai Stadler e Links. «Due assassini, vedete. Due. Non avete riflettuto sul perché gli assassinii fossero così differenti? Non c'è stata nessuna escalation. Sono stati compiuti da due persone diverse. È stata questa la ragione di tanta violenza, vero Morris? Hai punito Jenny perché ti eri perso Zoe?» «Non so di che cosa stai parlando.» «Ma la cosa ha avuto i suoi lati positivi» continuai. «Ti sei trovato con un alibi perfetto. Ti ha dato la possibilità di osservarmi in primo piano, di vedermi soffrire da vicino.» «Ma come ha fatto Fred a ucciderla?» domandò Links. «La signorina Haratounian non aveva neanche l'intenzione di ritornare all'appartamento.» «Probabilmente non era premeditato» risposi. «Ci stavo proprio pensando mentre ero seduta qui. Pensavo a quella strana cosa che è stata rubata, quel tessuto appeso al muro che Fred le aveva regalato. Chi avrebbe pensato di rubarlo? Non penso che sia stato rubato, penso che Fred se lo sia ripreso, che fosse andato a riprendere le sue cose. A un certo punto è arrivata Zoe e lui ha preso la cintura della sua vestaglia e l'ha strangolata. «Per questa ragione i rapporti sulla scena del delitto sono così difficili da interpretare. Le cose che si è portato via appartenevano a lui. Quello che ha portato sulla scena, c'era già. Altre sue impronte e tracce varie. E aveva anche un alibi inattaccabile. La polizia sapeva che non era stato lui a scrivere le lettere. E chi altri avrebbe ucciso Zoe se non l'uomo che la stava minacciando? Buffo, vero, Morris? Tu e Fred sareste stati una squadra perfetta, se solo l'aveste saputo.» Gli infermieri avevano issato Morris su una barella e gli stavano mettendo un'ipodermoclisi. «Non gli guardate nelle tasche?» «Perché?» «Non so. Penso che avesse l'intenzione di assalirmi.» Cameron lanciò un'occhiata a Links, che annuì. I bei pantaloni nuovi di Morris erano tagliati a metà. Avevano un numero infinito di tasche e Cameron cominciò a frugarci dentro. Poi vidi che aveva in mano qualcosa di luccicante. Un filo metallico.
«Che cos'è questa roba?» domandò a Morris. «Stavo facendo delle riparazioni» rispose. «Che tipo di riparazioni richiede una corda per pianoforte legata a cappio?» Non rispose, e invece mi fissò e mi disse in un sussurro: «Cara, ritornerò. Cara». Gli infermieri portarono fuori la barella. Links gridò a uno dei poliziotti in divisa: «Due di voi lo seguano all'ospedale. Per strada avvertitelo dei suoi diritti. Tenetelo sott'occhio, non lasciate che nessuno si avvicini». Lo guardai uscire. Lui continuò a fissarmi con l'occhio che brillava, finché non svoltarono. Il volto amico dell'assassino. Mi sorrideva attraverso la maschera di sangue e vesciche. «E Fred?» domandai. Links sospirò. «Andremo subito a interrogarlo. O il prima possibile.» «E io? Posso andare?» «Le daremo un passaggio a casa.» «Ci andrò a piedi. E da sola.» Links mi si parò davanti con risolutezza. «Signorina Blake, se si rifiuta di salire su un'auto della polizia e di rimanere sotto la nostra protezione, la farò trattenere.» «Penso» dissi con tutta la freddezza possibile, «di essere più al sicuro per conto mio.» «Molto bene» rispose pesantemente. Sul viso gli passò un'ombra di paura: la paura delle conseguenze, di vedersi distrutta la carriera. «Sono sempre stata più al sicuro per conto mio.» VENTITRÉ Che cosa feci in seguito? Che cosa si fa quando la vita ci viene restituita? Passai il primo giorno e la prima notte a casa dei miei. Aiutai mio padre a dipingere il capanno del giardino e rimasi distesa a faccia in giù sul copriletto stinto di ciniglia nella mia vecchia camera da letto con l'odore di naftalina e polvere nel naso, mentre mia madre sfaccendava ansiosamente in cucina, preparando tazze di tè con il latte e biscotti allo zenzero che non mangiai. Tutte le volte che i suoi occhi orlati di rosso si posavano su di me, mi dava un colpetto sulla spalla o mi accarezzava con circospezione i
capelli. Avevo raccontato loro un po' di quello che era successo, ma omettendone la maggior parte. Le cose più importanti. Poi ritornai a casa e pulii l'appartamento. Il mio primo pensiero era stato di andarmene immediatamente, fare i bagagli e ricominciare da un'altra parte. Ma che senso aveva? Non potevo ricominciare con me stessa. Non volevo. Allora aprii le portefinestre e indossai un paio di vecchi calzoni di cotone che sembrava mi avessero regalato per farmi uno scherzo e che di certo non avevo comprato io. Accesi la radio in modo da inondare tutte le camere di musica allegra e sciocca. Passai in rassegna tutti i cassetti. Riempii sacchi della spazzatura di calze smagliate, vecchie buste, rimasugli di sapone indurito, rotoli vuoti di carta igienica, penne che perdevano, formaggi ammuffiti. Raccolsi i giornali e le bottiglie da portare al riciclo. Piegai i vestiti e li riposi nell'armadio, riempii il cesto del bucato con la roba sporca, feci delle pile dei conti da pagare, versai candeggina giù per il lavandino e il gabinetto e ovunque sembrava essercene bisogno. Sbrinai il frigo, lavai il pavimento della cucina e le finestre. Spolverai. Mi ci vollero due giorni. Lavorai due giorni interi, dalla mattina alla sera. Fu una specie di meditazione. Senza veramente pensare, lasciai frullare per il cervello i pensieri, i ricordi, senza cercarli, senza risalire alle loro origini. Non ero né euforica né sollevata, ma poco per volta sentivo che stavo ritornando alla mia vita. Presi il biglietto da visita di Morris dalla scrivania e ripensai al suo occhio brillante che mi guardava mentre veniva portato via. Lo buttai via con l'altra spazzatura nel sacco dell'immondizia. Accartocciai i foglietti con gli appunti presi mentre scorrevo i documenti che Cameron aveva sottratto per me; buttai via anche quelli, ma non prima di aver copiato l'indirizzo di Louise. Raccolsi due bottoni dal pavimento. Erano di Cameron? Li tenni per un momento nel palmo della mano, prima di depositarli in una scatola da scarpe, che da quel momento in poi avrebbe contenuto i miei strumenti da cucito. Ascoltai i messaggi sulla segreteria telefonica. Ce n'erano molti, perché la storia era arrivata ai media. Avevano persino pubblicato foto di noi tre, Zoe, Jenny e io (anche se non so come abbiano fatto ad appropriarsi di una mia foto), in cima alla terza pagina del «Participant», come se fossimo morte tutte e tre. O fossimo tutte vive. Messaggi di giornalisti e amici che improvvisamente volevano mettersi in contatto. Cameron telefonò varie volte con una specie di smania segreta, sibilante; e chiamarono persone che avevo incontrato solo una volta o due, eccitate dalla scoperta di cono-
scere una persona che improvvisamente e brevemente era stata un po' famosa. Non risposi più al telefono. Non fino alla mattina presto del quarto giorno, una bellissima mattina ventosa, con il sole che entrava attraverso le porte-finestre aperte e le prime foglie autunnali sparse sotto il pero, dove avevo abbracciato e baciato Cameron la prima volta. Stavo pensando di cominciare con il giardino, di tagliare le ortiche, quando il telefono squillò e la segreteria telefonica si inserì. «Nadia» disse una voce che mi fece smettere di versare acqua bollente su una bustina di tè. «Nadia, sono Grace. Grace Schilling.» Pausa. «Nadia, se è in ascolto, potrebbe rispondere?» Poi: «Per favore, si tratta di una cosa urgente». Andai al telefono. «Ci sono.» «Grazie. Senta, potremmo vederci? C'è una cosa importante che vorrei dirle.» «Non me la può dire per telefono?» «No, devo vederla.» «Molto importante?» «Penso di sì. Posso venire da lei tra, diciamo, tre quarti d'ora?» Lanciai uno sguardo alla mia casa lustra, che sapeva di candeggina e detersivi. «Non qui. A Heath?» «Bene, allora alle dieci vicino al padiglione.» «D'accordo.» Arrivai in anticipo, ma lei c'era già. Era una mattina calda, ma Grace era avvolta in un soprabito lungo, come se fosse inverno. Aveva i capelli tirati austeramente indietro e il suo viso sembrava stranamente piatto, più vecchio e stanco di come lo ricordavo. Ci stringemmo la mano con formalità e ci incamminammo su per la collina, dove un signore solitario stava facendo volare un enorme aquilone acrobatico rosso, che sobbalzava al vento. «Come sta?» mi domandò, ma io mi limitai a stringermi nelle spalle. Non volevo parlare della mia salute mentale con lei. «Che cosa c'è?» Si fermò, prese un pacchetto di sigarette, ne accese una mettendo le mani a coppa e aspirò profondamente. Poi mi guardò con fermezza, con i suoi occhi grigi. «Mi dispiace, Nadia.» «È questa la cosa importante?» «Sì.»
«Bene.» Diedi un calcio a una pietra sul nostro cammino e la guardai rotolare sull'erba. Sopra di noi l'aquilone rosso danzava, librandosi e cadendo a capofitto. «E come vorrebbe che le rispondessi?» Si accigliò, ma non rispose. «Vuole che la perdoni o qualcosa del genere?» le domandai con curiosità. «Voglio dire, non sono io a essere morta.» Trasalì. «Non posso semplicemente abbracciarla e dire: "Ecco, è tutto passato".» Fece un gesto di impazienza con la mano, come per scacciare una nuvola di moscerini tra di noi. «Non voglio niente del genere. Le sto dicendo che mi dispiace perché mi dispiace.» «L'hanno mandata? Si tratta di una specie di scuse di gruppo?» Sorrise e prese una boccata dalla sigaretta. «Dio, no. È proibito a tutti avere contatti con i testimoni» un altro sorriso secco, «quando le procedure legali e le inchieste interne sono in corso. E i documentari televisivi.» «È nei guai, allora?» «Oh, sì» rispose in tono vago. «Ma va bene. Dovremmo essere tutti nei guai, Nadia. Quello che abbiamo fatto è stato...» Si controllò. «Stavo per dire imperdonabile. È stato poco professionale. Stupido. Cieco. Sbagliato.» Lasciò cadere la sigaretta per terra e la schiacciò con la punta della scarpa sottile. «Forse dovrei registrare questa conversazione e inviarla all'avvocato di Clive. Sì, ci ha denunciati. Come anche la zia di Zoe. Ma a dir la verità non mi importa. Mi importa di Zoe e di Jennifer. E di lei. Mi dispiace per quello che ha passato.» Lasciammo il sentiero e ci dirigemmo giù per la collina, verso il laghetto increspato dal vento. Le foglie cadevano a frotte. Sulla sponda del laghetto c'era un bambino piccolo con la sua mamma, che gettava pezzetti di pane alle anatre grasse e indifferenti. «Non è stata del tutto colpa sua» dissi con cautela. «Non ha preso lei la decisione, no? Voglio dire la decisione di non dirci quello che stava accadendo.» Mi guardò senza rispondere: aveva deciso di prendersi tutta la colpa, di non tergiversare. «Per quello che vale» continuai, «penso che nei limiti della situazione, lei non sia stata così disonesta come avrebbe potuto.» «Grazie, Nadia, ma non penso che metterò quest'esperienza nel mio curriculum. È strano» continuò, «io che parlo sempre di avere il controllo della propria vita, mi sono lasciata scappare le cose di mano. Un passo ha por-
tato al successivo: per tenere la stampa fuori della morte di Zoe, per non spaventare la gente, per non fare la figura degli incompetenti o peggio; e prima che loro, che noi ce ne accorgessimo eravamo su questa strada e non potevamo più svoltare. E abbiamo finito con il dire una menzogna dopo l'altra, e non proteggere le persone che ci erano state affidate.» Mi sorrise mestamente. «Non è una scusa, in ogni modo.» «Tutta quella paura» dissi io. «Sì.» «Non sono mai stata veramente capace di credere in Dio, e lei?» Scosse il capo. «Ci sono queste due donne a cui mi sento legata, anche se non le ho mai incontrate. E poi ci sono questi due uomini, che ho incontrato, naturalmente. E lei?» Fece un respiro profondo. «Ho incontrato Fred quando è stato interrogato dopo la morte di Zoe, e poi naturalmente ho incontrato Morris, dopo che lei aveva scoperto che oltre a conoscere lei conosceva anche Jennifer Hintlesham.» «Ho bisogno del suo aiuto in questo, Grace. Lei queste cose le sa. Sembravano persone normali. Avrebbe potuto immaginare, quando li ha incontrati, che potevano essere dei killer? C'era niente in loro? Voglio dire: per esempio, in Fred. C'erano episodi di violenza nel suo passato?» «Ci sono ora.» «Voglio dire...» «So che cosa vuole dire. Vuole che dica che quegli uomini sono diversi, no? Vuole mettere loro un'etichetta, quella di pericolosi. O di pazzi.» Ci fermammo presso la sponda del laghetto e lei accese un'altra sigaretta. «Ed è quello che succederà, naturalmente. Persone come me interrogheranno Morris e scopriranno che è stato maltrattato o trascurato, picchiato o viziato, che ha visto un video o è caduto a testa in giù da un quadrato svedese. E poi magari spunterà qualcuno che dirà alla stampa di essere stato preso a pugni da Fred cinque anni fa, o qualcosa del genere. E ci saranno politici e intellettuali che si affanneranno a spiegare perché queste loro manie non sono state individuate.» «E allora?» «Non c'era niente da individuare. Quando la gente commette un delitto, di solito è contro qualcuno che conosce. Questo è ciò che dicono i numeri. Fred è stato piantato da Zoe, era umiliato e furioso, e poi, per sfortuna di tutti e due ma soprattutto di Zoe, si è trovato solo con lei. E l'ha uccisa. È
tutto qui. Succede in continuazione. Non ha tendenze assassine più di un sacco di persone, solo che lui ha commesso un delitto e non è stato scoperto subito perché la donna riceveva delle lettere di minaccia da un'altra persona.» «Confortante» dissi seccamente. «Non pensavo che lei volesse essere confortata. Non credo che mi abbia mai chiesto davvero un conforto. Non è il suo stile, vero? Morris... be', Morris è diverso, naturalmente, e forse si potrebbe definire pazzo, nello stesso modo in cui si può definire pazzo chiunque commette delitti insensati. O malvagio, se lei crede in questo tipo di termini. Ma tutto ciò non ci porta da nessuna parte, no? Perché quello che la tormenta è che per tutto questo terrore e orrore e morte non c'è etichetta, non c'è ragione.» «Sì.» «Esattamente.» Ritornammo sul sentiero che avevamo lasciato e per qualche minuto non parlammo. «Posso farle una domanda, Nadia?» «Certo.» «C'è una cosa che mi tormenta. Come diavolo è riuscita a vedere i rapporti?» «Oh, quello. Sono stata a letto con Cameron Stadler e poi l'ho ricattato.» Mi guardò come se le avessi dato uno schiaffo in faccia. Era comica. «Non me lo chieda» dissi. «Non credo che voglia saperlo.» Allora cominciò a ridere, un suono incerto e non del tutto allegro, ma io mi unii a lei e presto ci tenevamo per le braccia ridacchiando come adolescenti. Poi lei smise improvvisamente e ridivenne seria. «Non può sentirsi in colpa per il resto della vita» le dissi. «Vuole scommettere?» «No davvero.» Arrivammo a una biforcazione del sentiero e lei si fermò. «Io vado per di qua» disse. «Allora arrivederci, Nadia.» «Arrivederci.» Mi porse la mano e io gliela strinsi. Poi cominciai a camminare verso casa, sotto l'aquilone che stava ancora svolazzando per aria. «Nadia!» Mi voltai. «Sì?» «Ci ha salvati» mi disse gridando. «Noi, lei, le donne che sarebbero venute dopo. Ci ha salvati tutti.» «È stata solo fortuna, Grace. Sono stata fortunata.»
VENTIQUATTRO Faceva troppo freddo per nevicare. Il cielo era di un blu gelido e i marciapiedi luccicavano a causa della gelata notturna. Il fiato mi usciva come una densa nuvoletta, gli occhi lacrimavano, sentivo il naso rosso e dolorante e il mento mi prudeva sopra la lana ruvida della sciarpa vecchia e logora. Il vento tagliava come un coltello. Camminavo velocemente, con la testa abbassata. «Nadia? Nadia!» Fece una voce giovane e allegra dall'altra parte della strada. Mi voltai e socchiusi gli occhi. «Josh?» Era lui. Era in mezzo a un gruppo di ragazzini e ragazzine della sua età, tutti infagottati in giacche e cappelli pesanti, che si davano spintoni; ma lui attraversò la strada e mi venne incontro. «Vi raggiungo dopo» gridò agli amici con un gesto di saluto. Sembrava più robusto di come lo ricordavo, meno pallido e magro. Si fermò a due passi da me e ci sorridemmo, leggermente imbarazzati. «Joshua Hintlesham, ti ho pensato» dissi con allegria. «Come stai?» «Sono viva.» «Bene» fece lui, quasi come ci fosse un dubbio sulla questione. Si guardò intorno nervosamente. «Avrei dovuto chiamarti. Mi son sentito così male. A pensare che venivo a trovarti con Morris e tutto quanto.» Erano passati più di cinque mesi da quando era venuto a sedersi sul mio divano, un patetico mucchio d'ossa. Non sapevo che cosa dirgli, perché tra di noi erano passate troppe cose: una montagna di orrore, paura, dolorose perdite. «Hai tempo per un caffè o qualcosa del genere?» Mentre parlava si tolse il cappello di lana e vidi che si era tinto i capelli di un arancione sgargiante e portava un orecchino. «E i tuoi amici?» «Non importa.» Ci incamminammo insieme senza parlare fino a raggiungere un piccolo caffè italiano. Dentro era buio, caldo e fumoso e sul bancone c'era una macchina per l'espresso che sibilava e scoppiettava. «Beatitudine» sospirai, e mi tolsi cappotto, cappello, sciarpa e guanti. «Sei mia ospite» disse lui facendo l'indifferente, con aria soddisfatta di
sé e giocherellando con gli spiccioli in tasca. «D'accordo, ragazzo ricco. Prendo un cappuccino.» «Niente da mangiare?» domandò speranzoso. Non volli deluderlo. «Uno di quei croissant con le mandorle sopra.» Andai a sedermi a un tavolino d'angolo e lo guardai mentre ordinava. Il figlio maggiore di Jenny, chino sul bancone, con i capelli arancioni, che faceva l'uomo, il disinvolto e il sicuro di sé davanti a me. Doveva aver compiuto quindici anni, calcolai. Era quasi un uomo ormai. Tra qualche anno avrebbe finito le scuole. Mi posò davanti il cappuccino e il croissant. Per sé aveva ordinato una cioccolata calda e la sorseggiava con cura, piccoli baffi di spuma si andavano formando sul suo labbro superiore. Ci sorridemmo di nuovo. «Avrei dovuto chiamarti» ripeté. Sorseggiavamo le nostre bevande e ci guardavamo da sopra il bordo delle tazze. «Ho sentito che hai conciato ben bene Morris.» «O me o lui.» «Veramente l'hai colpito con un ferro da stiro?» «Sì.» «Devi avergli fatto molto male.» «Sì.» «Suppongo che dovrei esserne contento. Sai quelle bande di yakuza in Giappone? Quando uccidono uno, continuano a fare quello che hanno deciso di fargli fino a quando perde i sensi. Poi lo portano fuori e gli passano sopra con un'automobile finché non ha tutte le ossa spappolate. Dicono che la sofferenza si collochi a un livello neurale molto primitivo e che la si provi anche se si è in coma o moribondi.» «Carino» commentai, facendogli una smorfia. «Per un po' pensavo che avrei dovuto fare qualcosa a Morris. Pensavo a quando usciva con me dopo aver fatto quello che ha fatto a mia madre.» «Credo che fosse parte del suo divertimento.» «Poi ho pensato: che vada a farsi fottere. Magari, forse, quando uscirà.» «Non uscirà finché non sarà un vecchio rimbambito.» «Un vecchio rimbambito con un ginocchio artritico» fece Josh con un sorrisetto. «Lo spero. Fred uscirà prima. Ne stavo parlando con Links. Il processo non si farà che il prossimo anno, ma per un delitto da poco come strangolare la tua ex ragazza perché ti ha mollato, la condanna non è più di otto o
dieci anni.» Posò la tazza sul tavolo e si passò il pollice sul labbro superiore, pulendosi i baffi di cioccolato. «Non so che cosa voglio chiederti» disse frustrato. «Ho pensato tanto a tutte le domande che avrei voluto farti, ma ora non so che cosa chiederti. So che cosa è successo e tutto quanto, ma non è questo.» Si accigliò e mi guardò, indifeso, con quei suoi grandi occhi che mi avevano sempre fatto pensare a Jenny. E improvvisamente mi sembrò molto più giovane, come il Josh che ricordavo dalla nostra disastrosa estate. «Pensi che ci sia qualcosa che posso spiegarti?» «Sì» borbottò e posò un dito su un mucchietto di zucchero sul tavolo. Mi ricordavo di aver detto quasi la stessa cosa a Grace, qualche mese prima a Heath. Sospirai. «Tua madre è stata uccisa da Morris per divertimento. Poi Morris ha preso di mira me e se non fossi stata fortunata tu potresti essere seduto qui, ora, con la donna che avrebbe scelto dopo, o quella ancora successiva. Non c'è una ragione. Avrebbe potuto essere chiunque: è successo a Jenny. E mi dispiace molto» aggiunsi dopo una pausa. «Va bene» bofonchiò continuando a fare disegni nello zucchero, senza alzare gli occhi. «Come va la scuola?» «Ora vado in un'altra scuola. Cambiare è stata una buona idea.» «Sì.» «È più bella. Ho degli amici.» «Bene.» «E vedo una persona.» «Vuoi dire che hai una ragazza?» «No, una persona con cui parlare di quello che è successo.» «Bene, anche questa è una buona cosa.» Lo guardai senza sapere che cosa dire. «E tu?» «Io?» «Che cosa fai ora?» «Questo e quello.» «Vuoi dire le stesse cose che facevi prima?» «No» dissi vigorosamente. Gli indicai la piccola sacca di nylon che avevo messo sotto la sedia. «Sai che cosa c'è qui dentro?» «Che cosa?» «Oltre al resto, cinque palle da giocolieri.»
Mi guardò senza capire. «Cinque» ripetei. «Che cosa ne pensi?» «Incredibile» commentò, finalmente colpito. «La mia più ferma intenzione è smetterla con questo lavoro, ma nel frattempo non sono rimasta proprio con le mani in mano.» «Fammi vedere.» «Qui?» «Dài, fammi vedere.» «Lo vuoi veramente?» «Devo vederlo.» Mi guardai intorno. Il locale era quasi vuoto. Presi le palle dalla sacca, tre in una mano e due nell'altra, e mi alzai. «Mi stai guardando?» «Sì.» «Devi concentrarti.» «Lo sto facendo.» Cominciai. Ci riuscii per circa un secondo, poi le palle caddero dappertutto. Una colpì Josh, un'altra la mia tazza vuota. «Tanto per darti un'idea generale» dissi, mettendomi a quattro zampe per andare a prendere una palla finita in un angolo sotto il tavolo. «È tutto qui?» «Be', se fosse facile, sarebbero capaci tutti.» «No, sei stata grande» disse e cominciò a ridere senza riuscire a fermarsi. Forse quello fu il mio regalo a Josh, e il mio addio: Nadia la buffona, quella che non era morta, che cercava di fare la giocoliera con le palle colorate in un piccolo caffè buio. Il petto mi si sollevò in una risata, o forse un singhiozzo. Raccolsi le palle e le rimisi nella sacca. «Devo andare» dissi. «Anch'io.» Ci baciammo sulla porta del caffè, un bacio per guancia, e poi uscimmo nel freddo feroce. Poco prima di prendere ognuno la propria strada mi disse: «Porto ancora fiori sulla sua tomba, sai». «Sono contenta.» «Non dimentico.» «Oh Josh. A volte è giusto dimenticare. Tutti dobbiamo farlo.» Ma mentre percorrevo la stradina lungo il canale, verso casa, ci ripensai. Io non potevo dimenticarle. Non volevo dimenticarle, le donne che erano
morte. Zoe e Jenny. Sapevo che non c'erano più, che non ci sarebbero mai più state, queste donne che non avevo mai conosciuto. Ma mi sorprendevo a credere che le avrei viste, svoltando in una via, salendo su un autobus affollato e facendomi strada per trovare un posto libero, scrutando tra la folla in cerca dell'amico che dovevo incontrare, aprendo gli occhi la mattina dopo un sogno che era sembrato vero, anche dopo che era finito. Conoscevo così bene i loro visi, meglio del viso di chiunque altro, meglio di quello di mia madre, di mio padre, di quello di un amante contemplato con passione e speranza. Conoscevo i loro visi come il mio allo specchio. Li avevo fissati a lungo in cerca di un indizio, pregando che mi rivelassero il loro significato, che mi aiutassero. La curva di un naso, di un mento, il sorriso, il luccichio dei denti, le rughe sulla fronte, il piccolo solco tra gli occhi. Ogni linea, ruga, solco, piega, ombra, neo, ferita. Non le avevo mai incontrate eppure mi mancavano. Non le avevo conosciute allora e le conoscevo adesso, quando era troppo tardi. Le conoscevo in un modo in cui nessuno avrebbe mai potuto conoscerle. E loro avrebbero conosciuto me. Magari non ci saremmo piaciute, ma sotto la pelle eravamo sorelle, perché la loro paura era stata la mia, e il rimpianto il mio rimpianto, la rabbia, il panico, la violazione, il senso di impotenza, la consapevolezza che l'orrore si stava avvicinando sempre più. Sapevo quello che avevano provato. L'avevo provato anch'io. Gli altri pian piano le avrebbero dimenticate, le avrebbero lasciate andar via. Era questo che doveva avvenire quando una persona moriva. Le persone che avevano detto di amarla, l'avrebbero detto a un'altra. Ma era giusto. Era il solo modo di continuare a vivere. Impazziremmo se ci ricordassimo tutto, e ci aggrappassimo a tutto. Allora, pian piano, loro se ne sarebbero andate. Tutti i loro difetti, e le abitudini irritanti, e i modi sarebbero svaniti, e loro sarebbero diventate figure vaghe, meno vivide, meno umane. Superfici vuote e luminose in cui gli altri potevano guardarsi riflessi. Le loro tombe sarebbero state visitate sempre meno spesso; solo negli anniversari e nelle occasioni speciali. La gente avrebbe raccontato la storia di come le aveva conosciute, perché la prossimità alla tragedia fa sentire importanti. Si sarebbe parlato di loro con voce riverente e discreta: non era terribile, quello che era successo a Zoe, a Jenny? Non era triste? Ma io non potevo dimenticarle in questo modo. Le dovevo portare con me dovunque andassi, attraverso la vita che mi era stata restituita, gli anni che loro non avevano avuto, per tutto l'amore, le perdite, i cambiamenti che loro non avevano mai conosciuto. Tutti i giorni avrei dato loro l'addio.
FINE