NARRATIVA
NARRATIVA
Giulio Angioni
La pelle intera
Editing Giancarlo Porcu Grafica Nino Mele Imago multimedia © 2007, Edizioni Il Maestrale Redazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro Telefono e Fax 0784.31830 E-mail:
[email protected] Internet: www.edizionimaestrale.com ISBN 978-88-89801-25-3
Il Maestrale
Giulio Angioni
La pelle intera
Editing Giancarlo Porcu Grafica Nino Mele Imago multimedia © 2007, Edizioni Il Maestrale Redazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro Telefono e Fax 0784.31830 E-mail:
[email protected] Internet: www.edizionimaestrale.com ISBN 978-88-89801-25-3
Il Maestrale
L’ultima guerra… si tingerà di rosa, perché ci ricorderà la giovinezza. Ennio Flaiano, Diario degli errori
L’ultima guerra… si tingerà di rosa, perché ci ricorderà la giovinezza. Ennio Flaiano, Diario degli errori
Calamandrana: Celemendrene… Che ci faccio qui di notte in un inverno più che inverno, guardia armata nella nebbia monferrina che diventa brina sulla canna del fucile, che ci faccio? Calamandrana: Celemendrene: Cilimindrini… Battere i piedi, piano, qui a Calamandrana fuori dalla scuola requisita a caserma di Legione, su e giù, avanti e indietro con il mauser a spallarm. Fango e freddo. Quanto tempo all’alba? Calamandrana: Celemendrene: Cilimindrini: Colomondrono… Non sembra vero. Niente mi sembra vero. E questo gioco scemo, ripetere sul passo il nome lungo in a, Calamandrana, vocalizzarlo in tutti i modi, gioco scemo così: Calamandrana, Celemendrene, Cilimindrini, Colomondrono, Culumundrunu… Dietrofront! Dietrofront su culumundrunu, familiare e tondo come a Fraus mi era quello di Teresa Culumannu, culo grande, culo mandrone, culo poltrone. Culumundrunu… come farebbe ridere anche Anselmo Frett, lui con la sua ultima sui sardi e sulle nostre u quando diceva delle u che intasano i telefoni occupati da tu tuu tuuu, tutta la STIPEL intasata dai sardi, non se ne può più ù ù ù ù nel duro inverno lungo del quarantaquattro-quarantacinque, magari l’ultimo di questa guerra spaccatutto che a ridere fa ridere, sì, come la melagrana, caduta a terra e fracassata.
Calamandrana: Celemendrene… Che ci faccio qui di notte in un inverno più che inverno, guardia armata nella nebbia monferrina che diventa brina sulla canna del fucile, che ci faccio? Calamandrana: Celemendrene: Cilimindrini… Battere i piedi, piano, qui a Calamandrana fuori dalla scuola requisita a caserma di Legione, su e giù, avanti e indietro con il mauser a spallarm. Fango e freddo. Quanto tempo all’alba? Calamandrana: Celemendrene: Cilimindrini: Colomondrono… Non sembra vero. Niente mi sembra vero. E questo gioco scemo, ripetere sul passo il nome lungo in a, Calamandrana, vocalizzarlo in tutti i modi, gioco scemo così: Calamandrana, Celemendrene, Cilimindrini, Colomondrono, Culumundrunu… Dietrofront! Dietrofront su culumundrunu, familiare e tondo come a Fraus mi era quello di Teresa Culumannu, culo grande, culo mandrone, culo poltrone. Culumundrunu… come farebbe ridere anche Anselmo Frett, lui con la sua ultima sui sardi e sulle nostre u quando diceva delle u che intasano i telefoni occupati da tu tuu tuuu, tutta la STIPEL intasata dai sardi, non se ne può più ù ù ù ù nel duro inverno lungo del quarantaquattro-quarantacinque, magari l’ultimo di questa guerra spaccatutto che a ridere fa ridere, sì, come la melagrana, caduta a terra e fracassata.
Ridi ridi, tanto sei un amico, legionario scelto Anselmo Frett, ridi a ripetere la sfilza di paesi monferrini setacciati in cerca di ribelli, banditi, partigiani, badogliani, di tutti i resti sparsi intorno ad Asti della Repubblica Partigiana dell’Alto Monferrato: Frinco, Rinco, Tonco, Zanco… E adesso questo qui, Calamandrana. In che provincia sta? Asti, Alessandria, Cuneo? Comunque in Monferrato. Calamandrana, il nome, mi è piaciuto subito, pare un nome nostro e sa di mare e d’isola. Il luogo sembra un brivido di freddo, però il nome ti viene voglia di spezzarlo: Cala-Mandrana, Cala-Mandrona, Cala-Poltrona. Gioca e gioca e arrivi ai calamari, ohi i calamari, un bel cartoccio di quelli fritti ad anellini, che davano a un soldo sul lungomare di via Roma. Gioca e gioca coi suoni, ma è per colpa dei sapori che dimentico la parola d’ordine, a lungo, con spavento. E poi meno male che mi torna al quinto su e giù: Vision d’amore. Controparola: Liebestraum. L’Aurelia nera a parafanghi sporchi frena sgomma e scricchiola nel fango. Pattuglia di ritorno, partita tre ore fa sul punto della muta, io guardia montante. Partita via sgommando su verso Canelli, eccola qui di nuovo a guardia già smontante. Lo vedo subito dentro l’Aurelia, pallido, la barba lunga, Ricu Gross, quello della Quaglina, mani dietro legate con la corda. Mi sembra ancora che pare mio padre, questo paisàn che mi rivedo adesso dopo tanto tempo. Lui però non mi vede. Certo che lui non vede uno come me, di sentinella. Chissà che cosa vede Ricu Gross preso così e portato su dalla pattuglia, per i gradini della scuola che adesso è una caserma. E se pure mi vede come fa a riconoscermi in divisa, mento in su, elmetto e retina mimetica: il ra-
gazzino di cinque anni fa su da lui a vendemmiare alla Quaglina? Io sì, lo riconosco subito. Sento perfino puzza d’aglio. Scatto i tacchi e stringo il mauser freddo e umido di brina sotto i guanti. Ricu Gross, quanto tempo. Ricu Gross, preso, legato, portato qua da noi. Mi passano davanti in fretta su per i gradini della scuola. Di nuovo puzza d’aglio, puzza di sòma d’ài, pane sfregato d’aglio: puzza di spavento, perché la paura per me da quando sono legionario e anche prima ha sempre avuto quell’odore. E Ricu Gross adesso è lì che sembra mio padre spaventato, come tutti gli altri presi da noi altri, con le mani legate sul sedere. Inciampa tre volte sui gradini, la terza volta Siro Gans capopattuglia per aiutarlo a tirarsi su gli assesta una piattonata tra le scapole, e Ricu Gross legato ricade col muso sulla pietra della scalinata, scalciando all’indietro, a vuoto. Lo tirano su che ha il naso rotto, il sangue gli cola fin sul petto, mani legate e non si può pulire, gli occhi spauriti di domande. È lui, sono sicuro, è Ricu Gross, il muso fatto in sangue. Come la volta dell’uva fragola.
Ridi ridi, tanto sei un amico, legionario scelto Anselmo Frett, ridi a ripetere la sfilza di paesi monferrini setacciati in cerca di ribelli, banditi, partigiani, badogliani, di tutti i resti sparsi intorno ad Asti della Repubblica Partigiana dell’Alto Monferrato: Frinco, Rinco, Tonco, Zanco… E adesso questo qui, Calamandrana. In che provincia sta? Asti, Alessandria, Cuneo? Comunque in Monferrato. Calamandrana, il nome, mi è piaciuto subito, pare un nome nostro e sa di mare e d’isola. Il luogo sembra un brivido di freddo, però il nome ti viene voglia di spezzarlo: Cala-Mandrana, Cala-Mandrona, Cala-Poltrona. Gioca e gioca e arrivi ai calamari, ohi i calamari, un bel cartoccio di quelli fritti ad anellini, che davano a un soldo sul lungomare di via Roma. Gioca e gioca coi suoni, ma è per colpa dei sapori che dimentico la parola d’ordine, a lungo, con spavento. E poi meno male che mi torna al quinto su e giù: Vision d’amore. Controparola: Liebestraum. L’Aurelia nera a parafanghi sporchi frena sgomma e scricchiola nel fango. Pattuglia di ritorno, partita tre ore fa sul punto della muta, io guardia montante. Partita via sgommando su verso Canelli, eccola qui di nuovo a guardia già smontante. Lo vedo subito dentro l’Aurelia, pallido, la barba lunga, Ricu Gross, quello della Quaglina, mani dietro legate con la corda. Mi sembra ancora che pare mio padre, questo paisàn che mi rivedo adesso dopo tanto tempo. Lui però non mi vede. Certo che lui non vede uno come me, di sentinella. Chissà che cosa vede Ricu Gross preso così e portato su dalla pattuglia, per i gradini della scuola che adesso è una caserma. E se pure mi vede come fa a riconoscermi in divisa, mento in su, elmetto e retina mimetica: il ra-
gazzino di cinque anni fa su da lui a vendemmiare alla Quaglina? Io sì, lo riconosco subito. Sento perfino puzza d’aglio. Scatto i tacchi e stringo il mauser freddo e umido di brina sotto i guanti. Ricu Gross, quanto tempo. Ricu Gross, preso, legato, portato qua da noi. Mi passano davanti in fretta su per i gradini della scuola. Di nuovo puzza d’aglio, puzza di sòma d’ài, pane sfregato d’aglio: puzza di spavento, perché la paura per me da quando sono legionario e anche prima ha sempre avuto quell’odore. E Ricu Gross adesso è lì che sembra mio padre spaventato, come tutti gli altri presi da noi altri, con le mani legate sul sedere. Inciampa tre volte sui gradini, la terza volta Siro Gans capopattuglia per aiutarlo a tirarsi su gli assesta una piattonata tra le scapole, e Ricu Gross legato ricade col muso sulla pietra della scalinata, scalciando all’indietro, a vuoto. Lo tirano su che ha il naso rotto, il sangue gli cola fin sul petto, mani legate e non si può pulire, gli occhi spauriti di domande. È lui, sono sicuro, è Ricu Gross, il muso fatto in sangue. Come la volta dell’uva fragola.
Cinque anni fa, ad Asti ero arrivato da sei giorni, dopo mare e treno, umido e sconforto, con una delusione marinara di una notte a vomiti nel camerone giù sottocoperta dove il mare sciacquava i pavimenti sotto le brande a castello tre su tre; poi sul treno che urlava tre volte di spavento prima d’infilarsi in galleria; e poi troppi pasti di minestra di riso con secondo di castagne secche nel silenzio del refettorio, mentre uno di terza ginnasiale leggeva Sangue armeno per tutti a voce alta, con un accento disossato, trentino, che diceva di stragi e sangue sparso dai turchi maomettani. – Domani a vendemmiare, – dice il prefetto la sera prima a fine cena dopo la preghiera di grazie al Signore del cibo che ci aveva dato, e sembrava un annuncio di grande avvenimento. Lo era. E fa gruppi e luoghi: Bricco Morra, Quaglina, Portacomaro, Bergoglio, Madonna di Viatosto... Sette gruppetti a vendemmiare, niente scuola e studio. Uva a volontà. Noi siamo andati in quattro a La Quaglina, tre piemontesi e io più piccolo di tutti. Sveglia alle tre, poi chissà quanto a piedi, troppo, il fiato corto già fumante al primo autunno su e giù per le colline. Io sempre l’ultimo arrancando, cercavo di stare con Borgogno che parlava con Miroglio. – Ma questa qui è una gita, una scampagnata? – gli chiedeva Miroglio, e io con lui. Borgogno spiega: per noi sì, questa è una scampagnata fuori porta, Ricu Gross fa un ingaggio giornaliero in lavori
Cinque anni fa, ad Asti ero arrivato da sei giorni, dopo mare e treno, umido e sconforto, con una delusione marinara di una notte a vomiti nel camerone giù sottocoperta dove il mare sciacquava i pavimenti sotto le brande a castello tre su tre; poi sul treno che urlava tre volte di spavento prima d’infilarsi in galleria; e poi troppi pasti di minestra di riso con secondo di castagne secche nel silenzio del refettorio, mentre uno di terza ginnasiale leggeva Sangue armeno per tutti a voce alta, con un accento disossato, trentino, che diceva di stragi e sangue sparso dai turchi maomettani. – Domani a vendemmiare, – dice il prefetto la sera prima a fine cena dopo la preghiera di grazie al Signore del cibo che ci aveva dato, e sembrava un annuncio di grande avvenimento. Lo era. E fa gruppi e luoghi: Bricco Morra, Quaglina, Portacomaro, Bergoglio, Madonna di Viatosto... Sette gruppetti a vendemmiare, niente scuola e studio. Uva a volontà. Noi siamo andati in quattro a La Quaglina, tre piemontesi e io più piccolo di tutti. Sveglia alle tre, poi chissà quanto a piedi, troppo, il fiato corto già fumante al primo autunno su e giù per le colline. Io sempre l’ultimo arrancando, cercavo di stare con Borgogno che parlava con Miroglio. – Ma questa qui è una gita, una scampagnata? – gli chiedeva Miroglio, e io con lui. Borgogno spiega: per noi sì, questa è una scampagnata fuori porta, Ricu Gross fa un ingaggio giornaliero in lavori
eccezionali e per i preti è un’opera di carità cristiana, dicono. A Miroglio è bastato. Ma io chiedo a Borgogno: – E i preti quanto ci guadagnano a giornata per ognuno di noi? Borgogno fa una smorfia e allunga il passo. Il cielo attira i nostri sguardi: c’è prima l’aurora oppure l’alba? Sembra di essere in un bagno di latte appena munto. Bello. – Prima c’è l’alba e poi l’aurora, – dice Miroglio. E in cima ai primi albori ci aspettava lui, sull’aia, Ricu Gross enorme col mantello nero. Dritto in cima è proprio uno che aspetta, ne’! Assomiglia a mio padre, a parte i baffi biondastri e quel mantello nero. I buoi al carro e sul carro la bigoncia: – ’Nduma boia crin! – dice soltanto. E noi giù lungo la riva dietro il carro. Strano come Ricu Gross guidava i buoi per la cavezza, senza briglie, due bianchi a corna sparse, lunghe, senza una vera domatura, come cani al guinzaglio. Mio padre riderebbe. In Piemonte ci sono contadini come noi, mi aveva detto babbo, solo un po’ diversi. In quanto ai buoi, diversi da far ridere, parola mia. Nella vigna due donne indaffarate già tagliavano uva nera con un uomo secco e zitto che però mi è parso attento a tutto. Era una vigna di mezza collina, grande a filari con paletti per tenere su le viti, non come signorine giù da noi ma come militari in piazza d’armi. Tutta barbera, l’ho capito dopo. Zitti e sotto a lavorare di falcetto. Massimo mormoravano. Una delle due donne, la più giovane era già tutta scamiciata, le si vedevano i peli rossicci nelle ascelle: – Ancoei bucìn sliàa, ne’? – ci ha detto piano come per saluto. Ho guardato Miroglio: – Oggi vitelli
slegati, – mi traduce, e fa una specie di muggito, piccolo. Ah sì, secondo lei noi qui a vendemmiare invece che a scuola siamo come vitelli liberi sul prato, slegati, scatenati. Speriamo. Mi hanno messo aiutante di Borgogno e Ricu Gross a caricare e scaricare i bigoncini pieni d’uva nel bigoncio grande già sul carro. Tutto organizzato, senza vuoti. L’uomo muto e secco tagliava l’uva e aiutava nel trasporto. Babbo non riderebbe, di questa efficienza piemontese: Ooh issa! Proprio la donna scamiciata è stata la prima a parlare a voce alta, perché aveva fatto la scoperta, un ceppo di uva bianca in tutto quel barbera. È successo altre volte lungo la giornata, e ogni volta facevano una specie di festa, per l’uva bianca. Le donne la mettevano da parte lì sul carro, sotto una coperta, come un bambino che dormiva. Quando si è visto il sole su dalle colline, la donna scamiciata si è impegnata a cantare di una certa Maria Giuana che stava sull’uscio a filare ed è passato il dottore e le ha detto come va?… A ogni pausa gli altri aggiungevano in coro un trulalarà. L’hanno cantata tanto tutto il giorno che ho finito per capire e per riuscire a fare anch’io trulalarà giocando alla terza sotto e sopra. Una storia d’amore. Triste però, d’amore e morte. Verso le nove, colazione. A noci e sòma d’ài, riuniti in piedi vicino alla vascona tonda per il verderame. Io mangio noci e pane e faccio festa senza l’aglio che loro ci sfregano sopra come un rito sacro: – Ma l’è bun, – mi dicevano offesi. – Va là, Faccetta Nera. – Ormai Ricu Gross mi chiamava solo più Faccetta Nera. Ci riprovo, con l’aglio sfregato un po’ sul pane: peggio della cipolla soffritta nella solita minestra di mia
eccezionali e per i preti è un’opera di carità cristiana, dicono. A Miroglio è bastato. Ma io chiedo a Borgogno: – E i preti quanto ci guadagnano a giornata per ognuno di noi? Borgogno fa una smorfia e allunga il passo. Il cielo attira i nostri sguardi: c’è prima l’aurora oppure l’alba? Sembra di essere in un bagno di latte appena munto. Bello. – Prima c’è l’alba e poi l’aurora, – dice Miroglio. E in cima ai primi albori ci aspettava lui, sull’aia, Ricu Gross enorme col mantello nero. Dritto in cima è proprio uno che aspetta, ne’! Assomiglia a mio padre, a parte i baffi biondastri e quel mantello nero. I buoi al carro e sul carro la bigoncia: – ’Nduma boia crin! – dice soltanto. E noi giù lungo la riva dietro il carro. Strano come Ricu Gross guidava i buoi per la cavezza, senza briglie, due bianchi a corna sparse, lunghe, senza una vera domatura, come cani al guinzaglio. Mio padre riderebbe. In Piemonte ci sono contadini come noi, mi aveva detto babbo, solo un po’ diversi. In quanto ai buoi, diversi da far ridere, parola mia. Nella vigna due donne indaffarate già tagliavano uva nera con un uomo secco e zitto che però mi è parso attento a tutto. Era una vigna di mezza collina, grande a filari con paletti per tenere su le viti, non come signorine giù da noi ma come militari in piazza d’armi. Tutta barbera, l’ho capito dopo. Zitti e sotto a lavorare di falcetto. Massimo mormoravano. Una delle due donne, la più giovane era già tutta scamiciata, le si vedevano i peli rossicci nelle ascelle: – Ancoei bucìn sliàa, ne’? – ci ha detto piano come per saluto. Ho guardato Miroglio: – Oggi vitelli
slegati, – mi traduce, e fa una specie di muggito, piccolo. Ah sì, secondo lei noi qui a vendemmiare invece che a scuola siamo come vitelli liberi sul prato, slegati, scatenati. Speriamo. Mi hanno messo aiutante di Borgogno e Ricu Gross a caricare e scaricare i bigoncini pieni d’uva nel bigoncio grande già sul carro. Tutto organizzato, senza vuoti. L’uomo muto e secco tagliava l’uva e aiutava nel trasporto. Babbo non riderebbe, di questa efficienza piemontese: Ooh issa! Proprio la donna scamiciata è stata la prima a parlare a voce alta, perché aveva fatto la scoperta, un ceppo di uva bianca in tutto quel barbera. È successo altre volte lungo la giornata, e ogni volta facevano una specie di festa, per l’uva bianca. Le donne la mettevano da parte lì sul carro, sotto una coperta, come un bambino che dormiva. Quando si è visto il sole su dalle colline, la donna scamiciata si è impegnata a cantare di una certa Maria Giuana che stava sull’uscio a filare ed è passato il dottore e le ha detto come va?… A ogni pausa gli altri aggiungevano in coro un trulalarà. L’hanno cantata tanto tutto il giorno che ho finito per capire e per riuscire a fare anch’io trulalarà giocando alla terza sotto e sopra. Una storia d’amore. Triste però, d’amore e morte. Verso le nove, colazione. A noci e sòma d’ài, riuniti in piedi vicino alla vascona tonda per il verderame. Io mangio noci e pane e faccio festa senza l’aglio che loro ci sfregano sopra come un rito sacro: – Ma l’è bun, – mi dicevano offesi. – Va là, Faccetta Nera. – Ormai Ricu Gross mi chiamava solo più Faccetta Nera. Ci riprovo, con l’aglio sfregato un po’ sul pane: peggio della cipolla soffritta nella solita minestra di mia
madre. Mio padre l’odia, l’aglio. Mai entrato l’aglio in casa nostra. Lo stesso a pranzo, seduti lì per terra vicino al pozzetto per il verderame. In più le acciughe, quattro a testa. Buone, col pane. Loro tutti se le rovinavano ancora con l’aglio sul pane. E il vino. Poi Ricu Gross ha portato un’uva né bianca né nera e tutti a mangiarne, distesi, allegri, che quest’anno è buona, ne’, sì proprio buona. Io me la metto in bocca e resto lì paralizzato. Era tutta la mattina che mi chiedevo quand’è che qui si può mangiare l’uva, senza il coraggio di chiedere a nessuno e non avevo visto mai nessuno mangiare l’uva nera. Tanto meno la bianca bambina sotto la coperta. Riprovo a masticare, peggio ancora. Penso che mi hanno fatto uno scherzo, che ci hanno messo aglio e sale sulla mia uva, così imparo. E sputo piano nella mano e senza dar nell’occhio seppellisco tutto nella terra. Ma Ricu Gross mi sta guardando, ferma il masticare, gli occhi come chi non crede ai suoi occhi: – Non ti piace? Io niente e lui mi guarda il grappolo che tengo in mano e poi lo prende e me lo tiene fermo qui davanti al muso: – È uva fragola, mica grama, buona, uva da tavola. – Sarà che qui non siamo a tavola, – dico e il muto e secco ride con rumore di ferraglia. – Eh ma l’è più buona così in vigna sulla riva, – dice quella coi peli nelle ascelle. A quell’ora sapevo che era la sorella piccola di Ricu Gross, che adesso si è messo anche lui a ridere forte, e ha detto in lingua sua qualcosa che però ho capito: da noi in Sardegna siamo morti di fame, figurarsi se sappiamo che cos’è una tavola. – E i piatti ce li avete? – mi fa la sorella. E io: – Piatti? No. Cos’è, roba che si mangia, i piatti?
Il muto e secco ride con quel suo rumore di ferraglia. Quando abbiamo ripreso a vendemmiare Ricu Gross è ripartito con le sue domande su cosa e come e quando si mangia giù da noi. Preso di mira. Strano, Ricu Gross mi faceva le domande, poi mi spiegava lui stesso come stanno le cose, giù da noi. L’ha menata così per un bel po’. Anche i miei compagni davano una mano a spiegarmi com’è la Sardegna e come sono i sardegnoli. Io piazzavo ogni tanto una parola. Alla fine tutti sapevano che da noi si mangia carne cruda, gatti, vermi, soprattutto sassi, e si veste orbace. Però anche il Duce e gli altri capi a Roma e ad Asti vestono l’orbace. Sì ma loro mica con l’orbace così sulla pelle come fate voi laggiù che vivete nelle grotte scure. – E allora, – mi fa Ricu Gross, – ti piace qui in Piemonte, ne’, Faccetta Nera? – Sì. – A parte l’aglio e l’uva fragola. Ma questo non l’ho detto. – Perché ci sei venuto qua da noi? Mi vergognavo a dirgli che mi ero imbarcato in una fantasia di mia madre di avere un figlio prete: – Per vedere la Juve e il Toro. – Bravo, Faccetta Nera, – e Ricu Gross giù una manata sulla schiena che mi toglie il fiato. Senza fiato non potevo neanche dirgli che ci ero venuto perché si sa che il Piemonte è meglio in tutto. Come se l’avessi detto, il muto e secco ha riso con rumore di ferraglia. Finita la giornata, sull’aia, la sorella di Ricu Gross mi ha mostrato il pergolato d’uva fragola, mi ci ha portato sotto: – Ci vuoi riprovare? Vedi che ce n’è tanta, bella matura, ne’?
madre. Mio padre l’odia, l’aglio. Mai entrato l’aglio in casa nostra. Lo stesso a pranzo, seduti lì per terra vicino al pozzetto per il verderame. In più le acciughe, quattro a testa. Buone, col pane. Loro tutti se le rovinavano ancora con l’aglio sul pane. E il vino. Poi Ricu Gross ha portato un’uva né bianca né nera e tutti a mangiarne, distesi, allegri, che quest’anno è buona, ne’, sì proprio buona. Io me la metto in bocca e resto lì paralizzato. Era tutta la mattina che mi chiedevo quand’è che qui si può mangiare l’uva, senza il coraggio di chiedere a nessuno e non avevo visto mai nessuno mangiare l’uva nera. Tanto meno la bianca bambina sotto la coperta. Riprovo a masticare, peggio ancora. Penso che mi hanno fatto uno scherzo, che ci hanno messo aglio e sale sulla mia uva, così imparo. E sputo piano nella mano e senza dar nell’occhio seppellisco tutto nella terra. Ma Ricu Gross mi sta guardando, ferma il masticare, gli occhi come chi non crede ai suoi occhi: – Non ti piace? Io niente e lui mi guarda il grappolo che tengo in mano e poi lo prende e me lo tiene fermo qui davanti al muso: – È uva fragola, mica grama, buona, uva da tavola. – Sarà che qui non siamo a tavola, – dico e il muto e secco ride con rumore di ferraglia. – Eh ma l’è più buona così in vigna sulla riva, – dice quella coi peli nelle ascelle. A quell’ora sapevo che era la sorella piccola di Ricu Gross, che adesso si è messo anche lui a ridere forte, e ha detto in lingua sua qualcosa che però ho capito: da noi in Sardegna siamo morti di fame, figurarsi se sappiamo che cos’è una tavola. – E i piatti ce li avete? – mi fa la sorella. E io: – Piatti? No. Cos’è, roba che si mangia, i piatti?
Il muto e secco ride con quel suo rumore di ferraglia. Quando abbiamo ripreso a vendemmiare Ricu Gross è ripartito con le sue domande su cosa e come e quando si mangia giù da noi. Preso di mira. Strano, Ricu Gross mi faceva le domande, poi mi spiegava lui stesso come stanno le cose, giù da noi. L’ha menata così per un bel po’. Anche i miei compagni davano una mano a spiegarmi com’è la Sardegna e come sono i sardegnoli. Io piazzavo ogni tanto una parola. Alla fine tutti sapevano che da noi si mangia carne cruda, gatti, vermi, soprattutto sassi, e si veste orbace. Però anche il Duce e gli altri capi a Roma e ad Asti vestono l’orbace. Sì ma loro mica con l’orbace così sulla pelle come fate voi laggiù che vivete nelle grotte scure. – E allora, – mi fa Ricu Gross, – ti piace qui in Piemonte, ne’, Faccetta Nera? – Sì. – A parte l’aglio e l’uva fragola. Ma questo non l’ho detto. – Perché ci sei venuto qua da noi? Mi vergognavo a dirgli che mi ero imbarcato in una fantasia di mia madre di avere un figlio prete: – Per vedere la Juve e il Toro. – Bravo, Faccetta Nera, – e Ricu Gross giù una manata sulla schiena che mi toglie il fiato. Senza fiato non potevo neanche dirgli che ci ero venuto perché si sa che il Piemonte è meglio in tutto. Come se l’avessi detto, il muto e secco ha riso con rumore di ferraglia. Finita la giornata, sull’aia, la sorella di Ricu Gross mi ha mostrato il pergolato d’uva fragola, mi ci ha portato sotto: – Ci vuoi riprovare? Vedi che ce n’è tanta, bella matura, ne’?
Sì, ce n’era tanta. Troppa. – Tiri su le mani e ci arrivi anche tu. – E tira su le braccia e mostra le due ascelle color miele. Ci provano tutti. Allungo anch’io le mani, prendo e metto in bocca… e lo schifo di prima. La sputo lì davanti a tutti. E allora Ricu Gross ha perso la pazienza, offeso a modo suo, e non assomigliava più per niente a babbo, o forse sì, a babbo che si toglieva la cinghia. Ha preso un grappolone d’uva fragola e me lo ha messo in mano con solennità. Era e non era un gioco, tutto un po’ troppo misterioso, specialmente quando Ricu Gross ridendo come un ubriaco si è messo a mangiarla e a strizzarsela lui stesso in faccia l’uva fragola, si è bagnato il viso con le bucce rosse come grumi di sangue. Poi anche gli altri, tutti a fare quel gioco di mangiare e strizzarsi in faccia l’uva fragola, tutti sporchi di mosto, ridendo, gridando, ballando sull’aia. E il muto e secco è ricomparso con una armonica a bocca e tutti a scavallarsi a suon di musica, anche noi a cantare di Maria Giuana che stava sull’uscio a filare, trulalarà, e poi a parlare col dottore che passava di lì, trulalarà… Solo Borgogno caposquadra se ne stava in disparte, ci faceva capire che non era roba per noi altri quella roba lì sull’aia dopo la vendemmia.
– Per farci buoni, – mormora Cerina il più piccolo, serio, pantaloni corti e calze alle calcagna. – Per farci furbi, – dice Miroglio sputando un fuscello. – Be’, io ci sono venuto perché qui da voi è tutto meglio, no? – dico io. – Meglio che da voi sì, – dice Miroglio cupo, chissà perché. E Cerina: – Ma siete davvero tutti morti di fame voialtri laggiù? – Eh sì, voi invece qui ne avete di bella roba, magari qui siete pure immortali, magari imparo anch’io. – Prima impara a mangiare l’uva fragola, – dice Borgogno, e mi sgambetta dal di dietro. Io ruzzolo un poco giù lungo la riva. Mi levo su contro di lui più grande e grosso con i pugni pieni di erba e terra. Miroglio si intromette, ma in quel momento il vento ci porta giù dalla Quaglina ancora i canti dei vendemmiatori con l’armonica dell’uomo muto e secco. E noi tutti a guardare in su tra le fronde di acacia. – Sembrano fate e gnomi, – dice Cerina. – O diavoli e streghe, – dice Borgogno, e riparte in discesa in testa a tutti con le mani profonde nelle tasche.
Venendo giù di nuovo verso Asti c’era intorno una luce blu mai vista prima. Sembravamo finiti dentro un quadro. Era stata una gita. Vitelli slegati. Borgogno camminava mani in tasca: – Perché gli hai detto quella cosa a Ricu Gross, che sei venuto qua in collegio per la Juve e per il Toro? – Boh, secondo te perché sono venuto? E tu? Lui ha fatto spallucce.
Sì, ce n’era tanta. Troppa. – Tiri su le mani e ci arrivi anche tu. – E tira su le braccia e mostra le due ascelle color miele. Ci provano tutti. Allungo anch’io le mani, prendo e metto in bocca… e lo schifo di prima. La sputo lì davanti a tutti. E allora Ricu Gross ha perso la pazienza, offeso a modo suo, e non assomigliava più per niente a babbo, o forse sì, a babbo che si toglieva la cinghia. Ha preso un grappolone d’uva fragola e me lo ha messo in mano con solennità. Era e non era un gioco, tutto un po’ troppo misterioso, specialmente quando Ricu Gross ridendo come un ubriaco si è messo a mangiarla e a strizzarsela lui stesso in faccia l’uva fragola, si è bagnato il viso con le bucce rosse come grumi di sangue. Poi anche gli altri, tutti a fare quel gioco di mangiare e strizzarsi in faccia l’uva fragola, tutti sporchi di mosto, ridendo, gridando, ballando sull’aia. E il muto e secco è ricomparso con una armonica a bocca e tutti a scavallarsi a suon di musica, anche noi a cantare di Maria Giuana che stava sull’uscio a filare, trulalarà, e poi a parlare col dottore che passava di lì, trulalarà… Solo Borgogno caposquadra se ne stava in disparte, ci faceva capire che non era roba per noi altri quella roba lì sull’aia dopo la vendemmia.
– Per farci buoni, – mormora Cerina il più piccolo, serio, pantaloni corti e calze alle calcagna. – Per farci furbi, – dice Miroglio sputando un fuscello. – Be’, io ci sono venuto perché qui da voi è tutto meglio, no? – dico io. – Meglio che da voi sì, – dice Miroglio cupo, chissà perché. E Cerina: – Ma siete davvero tutti morti di fame voialtri laggiù? – Eh sì, voi invece qui ne avete di bella roba, magari qui siete pure immortali, magari imparo anch’io. – Prima impara a mangiare l’uva fragola, – dice Borgogno, e mi sgambetta dal di dietro. Io ruzzolo un poco giù lungo la riva. Mi levo su contro di lui più grande e grosso con i pugni pieni di erba e terra. Miroglio si intromette, ma in quel momento il vento ci porta giù dalla Quaglina ancora i canti dei vendemmiatori con l’armonica dell’uomo muto e secco. E noi tutti a guardare in su tra le fronde di acacia. – Sembrano fate e gnomi, – dice Cerina. – O diavoli e streghe, – dice Borgogno, e riparte in discesa in testa a tutti con le mani profonde nelle tasche.
Venendo giù di nuovo verso Asti c’era intorno una luce blu mai vista prima. Sembravamo finiti dentro un quadro. Era stata una gita. Vitelli slegati. Borgogno camminava mani in tasca: – Perché gli hai detto quella cosa a Ricu Gross, che sei venuto qua in collegio per la Juve e per il Toro? – Boh, secondo te perché sono venuto? E tu? Lui ha fatto spallucce.
Adesso qui a Calamandrana Ricu Gross non ride, col viso fatto in sangue, mica di uva fragola. Grugnisce. È l’ora della muta. Odori di latte e di miscela di caffè dentro la scuola, cozzi di gavette. Io a stomaco vuoto metto a posto tutto e c’è anche da pulire la gavetta, prima di caffelatte a volontà. Ci inzuppo il pane. Altri legionari prendono il caffè, nell’aula grande delle elementari di Calamandrana. Due freddolosi laggiù in piedi davanti alla stufa, due della pattuglia che ha portato Ricu Gross. Li conosco: Piero Frosch e Guelfo Grimm. Mi avvicino mangiando. – Chi è l’uccellino? – provo a chiedere. – Quello a domani non arriva, l’uccellino in gabbia, – dice Piero Frosch senza guardarmi. Guelfo Grimm non abbocca. Posa la gavetta sulla stufa e si mette a posto la giubba sul sedere. È figlio di un sarto dell’esercito, ci tiene alla divisa. Finisce il caffè, si arrotola un tipo di tabacco che non trovi più dal tabaccaio, ti lascia un raschio in gola e tira un filo azzurro quando espiri. Allungo a Piero Frosch il mio pacchetto, una Giubek già fuori: – Dove l’avete preso? – A casa del diavolo, su a Cassinasco. – A Cassinasco? Piero Frosch mi guarda male, ma prende la mia Giubek: – Sotto il letto della sorella.
Adesso qui a Calamandrana Ricu Gross non ride, col viso fatto in sangue, mica di uva fragola. Grugnisce. È l’ora della muta. Odori di latte e di miscela di caffè dentro la scuola, cozzi di gavette. Io a stomaco vuoto metto a posto tutto e c’è anche da pulire la gavetta, prima di caffelatte a volontà. Ci inzuppo il pane. Altri legionari prendono il caffè, nell’aula grande delle elementari di Calamandrana. Due freddolosi laggiù in piedi davanti alla stufa, due della pattuglia che ha portato Ricu Gross. Li conosco: Piero Frosch e Guelfo Grimm. Mi avvicino mangiando. – Chi è l’uccellino? – provo a chiedere. – Quello a domani non arriva, l’uccellino in gabbia, – dice Piero Frosch senza guardarmi. Guelfo Grimm non abbocca. Posa la gavetta sulla stufa e si mette a posto la giubba sul sedere. È figlio di un sarto dell’esercito, ci tiene alla divisa. Finisce il caffè, si arrotola un tipo di tabacco che non trovi più dal tabaccaio, ti lascia un raschio in gola e tira un filo azzurro quando espiri. Allungo a Piero Frosch il mio pacchetto, una Giubek già fuori: – Dove l’avete preso? – A casa del diavolo, su a Cassinasco. – A Cassinasco? Piero Frosch mi guarda male, ma prende la mia Giubek: – Sotto il letto della sorella.
Accendo il cerino, con qualche fatica: – Alla sorella di Ricu Gross? Piero Frosch fa due tirate, guarda la punta se è venuta bene accesa, poi ne fa un’altra e il fumo giù dal naso che poi gli si avvita risalendo intorno al viso: – E chi sarebbe questo Ricu Gross? – Quello che stava sotto il letto di sua sorella. Piero Frosch più tardi viene da me, tutti e due in branda per la notte persa: – Son zordato ’nzentinella, – ripete spiritoso alla romana. Ma non sa come incominciare, si vede. Tira fuori il suo pacchetto di Giubek. Io gli faccio cenno di no: – Capo Franco Wolf quest’oggi li ha girati, – dice. – Con quello sotto il letto della sorella? – Com’è che l’hai chiamato tu? – Ricu Gross. – Com’è che lo conosci? – Ci sono andato una volta a vendemmiare, tempo fa, da studente. Ma stava ad Asti, alla Quaglina, non a Cassinasco. – Si chiama Enrico Grosso. È un fittavolo. – Si è guardato intorno e ha abbassato la voce: – Sua sorella è un bel pezzo di figa. Faccio spallucce: – Sarà vecchia adesso. – Gallina vecchia fa buon brodo. Quanti ne hai tu? – Quasi diciotto. – Quasi vero, con un aumento di otto mesi. Col capitano Berger l’età me l’ero aumentata di un anno sano sano. – Sì, stanotte quella lì strillava proprio come una gallina. – E tu?
– E io mi sono tolto la voglia, ma mica di torcerle il collo. – No, dicevo: tu quanti anni hai? – Ventuno. E sbadigliamo tutti e due da smascellarci. La sorella di Ricu Gross mi si offre stesa sulla meliga, le braccia alzate, mani sotto la nuca e con le ascelle aperte color rame chiaro: – Faccetta Nera, – mi ripete aperta, sorridente e odorosa di uva fragola, e il muto secco ci dà dentro sull’aia con l’armonica… Ma è la branda che oscilla, smossa bruscamente… da Siro Gans che mi guarda con gli occhi sporgenti nel faccione montanaro: – Oh, sveglia! A rapporto, da Capo Franco Wolf. – A rapporto su che? Stavo sognando… Che ore sono? – Sbrigati. Lui ti sta aspettando. – Ce li ha girati? Siro Gans fa spallucce: – Sbrigati, – e se ne va. Sono appena le nove. Mi sbarbo e lavo un po’ la faccia. Alla mia giubba manca una mostrina. La ritrovo per terra quasi sotto il letto. Prendo la giubba di Anselmo Frett, stazzonata ma intera. Chissà dov’è a quest’ora Anselmo Frett ferito a una gamba. In corridoio di piantone c’è uno nuovo, biondo stinto, la divisa stirata. Più in là davanti alla scala che va giù in guardina due legionari armati fino ai denti. Il piantone non mi lascia bussare alla porta del Capo ma ci bussa lui, tre tocchi secchi, precisi, disciplinati.
Accendo il cerino, con qualche fatica: – Alla sorella di Ricu Gross? Piero Frosch fa due tirate, guarda la punta se è venuta bene accesa, poi ne fa un’altra e il fumo giù dal naso che poi gli si avvita risalendo intorno al viso: – E chi sarebbe questo Ricu Gross? – Quello che stava sotto il letto di sua sorella. Piero Frosch più tardi viene da me, tutti e due in branda per la notte persa: – Son zordato ’nzentinella, – ripete spiritoso alla romana. Ma non sa come incominciare, si vede. Tira fuori il suo pacchetto di Giubek. Io gli faccio cenno di no: – Capo Franco Wolf quest’oggi li ha girati, – dice. – Con quello sotto il letto della sorella? – Com’è che l’hai chiamato tu? – Ricu Gross. – Com’è che lo conosci? – Ci sono andato una volta a vendemmiare, tempo fa, da studente. Ma stava ad Asti, alla Quaglina, non a Cassinasco. – Si chiama Enrico Grosso. È un fittavolo. – Si è guardato intorno e ha abbassato la voce: – Sua sorella è un bel pezzo di figa. Faccio spallucce: – Sarà vecchia adesso. – Gallina vecchia fa buon brodo. Quanti ne hai tu? – Quasi diciotto. – Quasi vero, con un aumento di otto mesi. Col capitano Berger l’età me l’ero aumentata di un anno sano sano. – Sì, stanotte quella lì strillava proprio come una gallina. – E tu?
– E io mi sono tolto la voglia, ma mica di torcerle il collo. – No, dicevo: tu quanti anni hai? – Ventuno. E sbadigliamo tutti e due da smascellarci. La sorella di Ricu Gross mi si offre stesa sulla meliga, le braccia alzate, mani sotto la nuca e con le ascelle aperte color rame chiaro: – Faccetta Nera, – mi ripete aperta, sorridente e odorosa di uva fragola, e il muto secco ci dà dentro sull’aia con l’armonica… Ma è la branda che oscilla, smossa bruscamente… da Siro Gans che mi guarda con gli occhi sporgenti nel faccione montanaro: – Oh, sveglia! A rapporto, da Capo Franco Wolf. – A rapporto su che? Stavo sognando… Che ore sono? – Sbrigati. Lui ti sta aspettando. – Ce li ha girati? Siro Gans fa spallucce: – Sbrigati, – e se ne va. Sono appena le nove. Mi sbarbo e lavo un po’ la faccia. Alla mia giubba manca una mostrina. La ritrovo per terra quasi sotto il letto. Prendo la giubba di Anselmo Frett, stazzonata ma intera. Chissà dov’è a quest’ora Anselmo Frett ferito a una gamba. In corridoio di piantone c’è uno nuovo, biondo stinto, la divisa stirata. Più in là davanti alla scala che va giù in guardina due legionari armati fino ai denti. Il piantone non mi lascia bussare alla porta del Capo ma ci bussa lui, tre tocchi secchi, precisi, disciplinati.
Entro, richiudo la porta, saluto e Capo Franco Wolf mi lascia sull’attenti, senza rispondere, senza alzare gli occhi dalle carte che sta leggendo, le sfoglia in piedi dritto e teso sul lato destro corto della scrivania, fumando. Come nell’alloggio del maggiore Berger su a Salorno, nell’angolo a sinistra c’è un sacco da boxe pronto all’uso, anche se Capo Franco Wolf preferisce prendere a cazzotti gli arrestati, e anche gli arrestati preferirebbero i suoi cazzotti al resto che li aspetta da altre mani, dice Anselmo Frett. Sulla parete di fronte dietro la scrivania la solita carta geografica con il Reich tedesco che arriva fino a Verona e a Trieste e Fiume, in nero di matita la Linea Gotica e la Sardegna ricoperta da una cartolina postale delle Regie Poste. Sedici mesi e mezzo senza posta da casa, neanche verificata per censura, come scrivono adesso sulle buste. Tre anni che non vado giù dai miei. Del mare nemmeno il sentore. Sulla scrivania di Capo Franco Wolf resta a sgasarsi un boccalone di birra con la spuma appiccicata ai bordi di ceramica. A lui piace così, a Capo Franco Wolf con quella testa a punta, naso a punta, mento a punta: – Sì, facciamo il punto della situazione, – dice dopo troppo tempo, da dietro il fumo della sigaretta. Io scatto sull’attenti, anche se c’ero già. – Riposo. Questo Grosso Enrico, com’è che lo conosci? – Io? Grosso Enrico? – Sì tu, Grosso Enrico, lo conosci? – Sìgnorsì. Signornò. – Vogliamo deciderci? – Capo, non so cosa rispondere. – Lo conosci o no?
– Sì e no. Ci sono andato a vendemmiare, da studente. – E poi? – E poi lui mi ha dato l’uva fragola. Lui mi guarda male: – E poi? – E poi niente. Io non sono di qui. – Appunto. Da chi sei stato reclutato? – Dal maggiore Berger, allora capitano. – Ecco, ma bravo. Legionario Brau, sull’attenti e subito fuori la terza regola interna alla Legione, los, aber dalli! – Terzo: il passato è finito, sepolto, non se ne parla più. – Commento! – Non si parla con nessuno del proprio passato, nemmeno con se stessi. – Che cos’è il passato? – Il passato è tutto quanto è stato vissuto dal legionario fino al suo giuramento: il legionario nasce il giorno del suo sacro giuramento. – Bene legionario Brau. E qual è la tua età? – Due mesi e un giorno. – Bene legionario Brau. E quand’è che hai conosciuto il ribelle Grosso Enrico? – Mai conosciuto. – Sicuro, legionario Brau? – Signorsì. – Da chi sei stato reclutato? – Non lo so più signore, dimenticato. – Bene. Riposo, ab, puoi andare. Saluto e riposo. Poi già sulla porta: – Signore, avrei una domanda. Ma lui è di nuovo sulle carte. Mi fa un salutaccio con
Entro, richiudo la porta, saluto e Capo Franco Wolf mi lascia sull’attenti, senza rispondere, senza alzare gli occhi dalle carte che sta leggendo, le sfoglia in piedi dritto e teso sul lato destro corto della scrivania, fumando. Come nell’alloggio del maggiore Berger su a Salorno, nell’angolo a sinistra c’è un sacco da boxe pronto all’uso, anche se Capo Franco Wolf preferisce prendere a cazzotti gli arrestati, e anche gli arrestati preferirebbero i suoi cazzotti al resto che li aspetta da altre mani, dice Anselmo Frett. Sulla parete di fronte dietro la scrivania la solita carta geografica con il Reich tedesco che arriva fino a Verona e a Trieste e Fiume, in nero di matita la Linea Gotica e la Sardegna ricoperta da una cartolina postale delle Regie Poste. Sedici mesi e mezzo senza posta da casa, neanche verificata per censura, come scrivono adesso sulle buste. Tre anni che non vado giù dai miei. Del mare nemmeno il sentore. Sulla scrivania di Capo Franco Wolf resta a sgasarsi un boccalone di birra con la spuma appiccicata ai bordi di ceramica. A lui piace così, a Capo Franco Wolf con quella testa a punta, naso a punta, mento a punta: – Sì, facciamo il punto della situazione, – dice dopo troppo tempo, da dietro il fumo della sigaretta. Io scatto sull’attenti, anche se c’ero già. – Riposo. Questo Grosso Enrico, com’è che lo conosci? – Io? Grosso Enrico? – Sì tu, Grosso Enrico, lo conosci? – Sìgnorsì. Signornò. – Vogliamo deciderci? – Capo, non so cosa rispondere. – Lo conosci o no?
– Sì e no. Ci sono andato a vendemmiare, da studente. – E poi? – E poi lui mi ha dato l’uva fragola. Lui mi guarda male: – E poi? – E poi niente. Io non sono di qui. – Appunto. Da chi sei stato reclutato? – Dal maggiore Berger, allora capitano. – Ecco, ma bravo. Legionario Brau, sull’attenti e subito fuori la terza regola interna alla Legione, los, aber dalli! – Terzo: il passato è finito, sepolto, non se ne parla più. – Commento! – Non si parla con nessuno del proprio passato, nemmeno con se stessi. – Che cos’è il passato? – Il passato è tutto quanto è stato vissuto dal legionario fino al suo giuramento: il legionario nasce il giorno del suo sacro giuramento. – Bene legionario Brau. E qual è la tua età? – Due mesi e un giorno. – Bene legionario Brau. E quand’è che hai conosciuto il ribelle Grosso Enrico? – Mai conosciuto. – Sicuro, legionario Brau? – Signorsì. – Da chi sei stato reclutato? – Non lo so più signore, dimenticato. – Bene. Riposo, ab, puoi andare. Saluto e riposo. Poi già sulla porta: – Signore, avrei una domanda. Ma lui è di nuovo sulle carte. Mi fa un salutaccio con
la mano, senza tirare su lo sguardo. Schiaccia la cicca a terra con il tacco, tira su il boccalone di birra. Io chiudo la porta. Meglio così. Era una domanda sul futuro. Mai accorto prima, ma il futuro non c’è nel regolamento della Legione. Non si contempla nell’eternità del Reich millenario.
Piero Frosch adesso in camerata sta di nuovo in branda, non ci sta tutto e con le scarpe in fuori frena il passo tra i letti. – Gliel’ho dovuto dire, al capo, – mi fa quando gli arrivo davanti, io mi devo fermare e lui tira su gli occhi dalle sue foto di donnine nude: – Com’è andata? Faccio spallucce. Vado a sdraiarmi anch’io. Siamo soli. Metto le mani sotto la nuca. Studio il soffitto con le macchie gialle. Fuori sulla strada si sente il moto in folle dell’Aurelia. Poi ordini secchi, con un riverbero fino da noi. – La rana nera si prepara al salto sulla preda, – dice in cantilena Piero. Frosch. Rana significa il suo nome, rana o rospo. Mi ricordo che indosso la giubba di Anselmo Frett. La tolgo e la rimetto a posto sulla spalliera della sedia. – L’uccellino, l’hanno messo di là con gli altri quattro, a studiare, – dice. Io zitto tiro fuori l’ago e il filo e mi metto a ricucire la mostrina rossa sulla giubba. Anche lui zitto. Non resiste molto: – Com’è che l’hai chiamato? – Dimenticato. – Ricu Gross? Penso ma non dico che così lo chiamano dalle sue parti, Ricu Gross.
la mano, senza tirare su lo sguardo. Schiaccia la cicca a terra con il tacco, tira su il boccalone di birra. Io chiudo la porta. Meglio così. Era una domanda sul futuro. Mai accorto prima, ma il futuro non c’è nel regolamento della Legione. Non si contempla nell’eternità del Reich millenario.
Piero Frosch adesso in camerata sta di nuovo in branda, non ci sta tutto e con le scarpe in fuori frena il passo tra i letti. – Gliel’ho dovuto dire, al capo, – mi fa quando gli arrivo davanti, io mi devo fermare e lui tira su gli occhi dalle sue foto di donnine nude: – Com’è andata? Faccio spallucce. Vado a sdraiarmi anch’io. Siamo soli. Metto le mani sotto la nuca. Studio il soffitto con le macchie gialle. Fuori sulla strada si sente il moto in folle dell’Aurelia. Poi ordini secchi, con un riverbero fino da noi. – La rana nera si prepara al salto sulla preda, – dice in cantilena Piero. Frosch. Rana significa il suo nome, rana o rospo. Mi ricordo che indosso la giubba di Anselmo Frett. La tolgo e la rimetto a posto sulla spalliera della sedia. – L’uccellino, l’hanno messo di là con gli altri quattro, a studiare, – dice. Io zitto tiro fuori l’ago e il filo e mi metto a ricucire la mostrina rossa sulla giubba. Anche lui zitto. Non resiste molto: – Com’è che l’hai chiamato? – Dimenticato. – Ricu Gross? Penso ma non dico che così lo chiamano dalle sue parti, Ricu Gross.
Abbassa la voce: – Facevi lo studente, tu? Faccio solo un cenno e continuo a cucire. – Io stavo al Michelerio. – Già, – mi scappa detto: solo certa gente finisce alla Legione, uno studente sardegnolo sbandato come me e uno del Michelerio come lui, figlio di enne enne. E come se l’avessi detto, lui si tira su seduto sulla branda e si stiracchia. Mostra boscose ascelle nere. – Sì, stavo al Michelerio: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate, lì non si mangiano altro che patate… Io qui però sto meglio adesso alla Legione. Cosa ci manca? E si avvicina, si siede sul bordo della mia branda, ritira fuori il pacchetto di Macedonia: – Tu come fai veramente di cognome? – mi offre la sigaretta. – Dimenticato. Fuori l’Aurelia parte con un rombo scuro. – Frigerio mi hanno messo, a me, poi questi adesso mi hanno messo Frosch. Tu studiavi dai preti? Ci sei mai stato nella figa fino al collo, tu? – Dove? – Eh, nella figa su dentro fino al collo: mai? – No! – Tutti ci sono stati nella figa fino al collo, anche preti e frati e monache e studenti come te e figli di nessuno come me, prima di nascere. – Dimenticato. – Prendi una Giubek dài! Dicono che ti hanno visto a Santa Chiara in corso Alfieri. Eravamo vicini, testone. E che studi hai fatto? – L’estate scorsa ho fatto l’ammissione al liceo, alla Fulgor. – Ce l’ha assicurata la carriera qui nella Legione uno come te.
Terminata la cucitura, taglio il filo coi denti. Prendo una Macedonia: – I gradi tanto li so già attaccare alla divisa. – Io suonavo il bombardino al Michelerio, nella banda, quella di processioni e funerali. Accendiamo, prima io: – Il bombardino? – La tromba che scoreggia, prr prr prr… Facevo il tempo e il passo, lento da funerale ricco, svelto da funerale povero… – Hai una bella carriera nei polmoni, qui in Legione, da trombettiere. Mi guarda torvo con la faccia da guerriero, non da trombettiere: – E a te questo nome strano, Efis, te l’hanno messo loro? – Sì e no. – Rispondo. – Come sarebbe? Come fai tu veramente di cognome? – A me l’hanno lasciato come stava, il mio cognome vero, Brau. Dicevano che Brau li fa pensare alla birra. In compenso mi hanno tolto un pezzo del nome, così l’hanno rifatto sardo schietto, Efis da Efisio, come si dice al mio paese, Efis Brau come mio nonno, anche se non è un nome di animale come gli altri. Efis Brau per loro è già bello tedesco. – Ger-ma-ni-co! Attento a come parli, sardegnolo. – Germanico tedesco oppure crucco, ganz egal. – Bel casino. E Capo Grande Wolf lo sai da dove viene? – Brunico, da su di lì, dai crucchi nostri: da un luogo dove alle galline devono appendere un sacchetto qui dietro sul culo, per le uova, che non ruzzolino giù dalla montagna. Rido giù dal naso. Lui di gola, forte. Si guarda at-
Abbassa la voce: – Facevi lo studente, tu? Faccio solo un cenno e continuo a cucire. – Io stavo al Michelerio. – Già, – mi scappa detto: solo certa gente finisce alla Legione, uno studente sardegnolo sbandato come me e uno del Michelerio come lui, figlio di enne enne. E come se l’avessi detto, lui si tira su seduto sulla branda e si stiracchia. Mostra boscose ascelle nere. – Sì, stavo al Michelerio: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate, lì non si mangiano altro che patate… Io qui però sto meglio adesso alla Legione. Cosa ci manca? E si avvicina, si siede sul bordo della mia branda, ritira fuori il pacchetto di Macedonia: – Tu come fai veramente di cognome? – mi offre la sigaretta. – Dimenticato. Fuori l’Aurelia parte con un rombo scuro. – Frigerio mi hanno messo, a me, poi questi adesso mi hanno messo Frosch. Tu studiavi dai preti? Ci sei mai stato nella figa fino al collo, tu? – Dove? – Eh, nella figa su dentro fino al collo: mai? – No! – Tutti ci sono stati nella figa fino al collo, anche preti e frati e monache e studenti come te e figli di nessuno come me, prima di nascere. – Dimenticato. – Prendi una Giubek dài! Dicono che ti hanno visto a Santa Chiara in corso Alfieri. Eravamo vicini, testone. E che studi hai fatto? – L’estate scorsa ho fatto l’ammissione al liceo, alla Fulgor. – Ce l’ha assicurata la carriera qui nella Legione uno come te.
Terminata la cucitura, taglio il filo coi denti. Prendo una Macedonia: – I gradi tanto li so già attaccare alla divisa. – Io suonavo il bombardino al Michelerio, nella banda, quella di processioni e funerali. Accendiamo, prima io: – Il bombardino? – La tromba che scoreggia, prr prr prr… Facevo il tempo e il passo, lento da funerale ricco, svelto da funerale povero… – Hai una bella carriera nei polmoni, qui in Legione, da trombettiere. Mi guarda torvo con la faccia da guerriero, non da trombettiere: – E a te questo nome strano, Efis, te l’hanno messo loro? – Sì e no. – Rispondo. – Come sarebbe? Come fai tu veramente di cognome? – A me l’hanno lasciato come stava, il mio cognome vero, Brau. Dicevano che Brau li fa pensare alla birra. In compenso mi hanno tolto un pezzo del nome, così l’hanno rifatto sardo schietto, Efis da Efisio, come si dice al mio paese, Efis Brau come mio nonno, anche se non è un nome di animale come gli altri. Efis Brau per loro è già bello tedesco. – Ger-ma-ni-co! Attento a come parli, sardegnolo. – Germanico tedesco oppure crucco, ganz egal. – Bel casino. E Capo Grande Wolf lo sai da dove viene? – Brunico, da su di lì, dai crucchi nostri: da un luogo dove alle galline devono appendere un sacchetto qui dietro sul culo, per le uova, che non ruzzolino giù dalla montagna. Rido giù dal naso. Lui di gola, forte. Si guarda at-
torno e mi bisbiglia con la mano a fianco della bocca: – E te, com’è che ti hanno beccato? – Re-clu-ta-to! Bada a come suoni, trombettiere.
Beccato, reclutato? Scovato e raccattato. Come uno dei tanti a fare la Legione con onore fedeltà e coraggio. Piombo ai traditori, onore a chi combatte. Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la camicia grigia. Meglio grigia che nera… Mi sveglio. Freddo cane. È solo pomeriggio. Sono rimasto solo qui a dormire. Non c’è più nemmeno Piero Frosch. Voleva sapere come sono stato beccato. Come se fosse facile, capire come sei finito alla Legione. Nemmeno Anselmo Frett me l’ha saputo dire bene. L’Otto Settembre lui era a Gradisca d’Isonzo. Un mese dopo l’hanno rastrellato i tedeschi. Internato in Germania in una fabbrica di munizioni è arrivato un tale a reclutare. Tornare in Italia? Come no? Anche da finto crucco, anche rinculando fino a Marsico Nuovo di Lucania, dove la sua numerosa famiglia ha ricevuto due volte il premio di Mussolini per le famiglie numerose. I tedeschi l’hanno portato a Muensingen, Stoccarda, per farlo legionario. Domani o dopo vado a visitare Anselmo Frett all’ospedale ad Asti, decido quando sono tutto sveglio. Freddo. Devo riempire il bidoncino di segatura nella stufa in camerata. Vado a prenderne in cantina. La cantina è suddivisa in due: lo studio e il deposito della segatura, con un’unica porta principale e due seconda-
torno e mi bisbiglia con la mano a fianco della bocca: – E te, com’è che ti hanno beccato? – Re-clu-ta-to! Bada a come suoni, trombettiere.
Beccato, reclutato? Scovato e raccattato. Come uno dei tanti a fare la Legione con onore fedeltà e coraggio. Piombo ai traditori, onore a chi combatte. Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la camicia grigia. Meglio grigia che nera… Mi sveglio. Freddo cane. È solo pomeriggio. Sono rimasto solo qui a dormire. Non c’è più nemmeno Piero Frosch. Voleva sapere come sono stato beccato. Come se fosse facile, capire come sei finito alla Legione. Nemmeno Anselmo Frett me l’ha saputo dire bene. L’Otto Settembre lui era a Gradisca d’Isonzo. Un mese dopo l’hanno rastrellato i tedeschi. Internato in Germania in una fabbrica di munizioni è arrivato un tale a reclutare. Tornare in Italia? Come no? Anche da finto crucco, anche rinculando fino a Marsico Nuovo di Lucania, dove la sua numerosa famiglia ha ricevuto due volte il premio di Mussolini per le famiglie numerose. I tedeschi l’hanno portato a Muensingen, Stoccarda, per farlo legionario. Domani o dopo vado a visitare Anselmo Frett all’ospedale ad Asti, decido quando sono tutto sveglio. Freddo. Devo riempire il bidoncino di segatura nella stufa in camerata. Vado a prenderne in cantina. La cantina è suddivisa in due: lo studio e il deposito della segatura, con un’unica porta principale e due seconda-
rie per i due locali. Lo studio è dove stanno gli uccellini, i nostri prigionieri: – Perché studio? – Perché lì dentro devono studiare la lezione. E recitarla all’interrogatorio, – mi ha spiegato Siro Gans. – Interrogatorio? – Già, voi studentelli dite interrogazione. Qui è interrogatorio. Lo studio però è sempre studio. Il voto? Qui costa molto caro, il voto, certe volte vale la pelle intera. Il piantone armato se ne sta molle alla porta principale. E mentre sto riempiendo il bidone della segatura sento nello studio uno che fischia calmo e attento un brano della Pastorale di Beethoven, e poi sopra di lui sgradevole la voce del Capo Franco Wolf, minacciosa, dura, imitazione guasta del maggiore Berger, perché lo copia in tutto lui il maggiore Berger. Lo copia male: – Tu, Grosso Enrico, los, seguimi! E Capo Franco Wolf viene fuori impettito dallo studio. Dietro di lui c’è Ricu Gross: dietro di lui, non davanti, e Capo Franco Wolf non tiene un’arma in mano. Io sono fermo in ombra e guardo e vedo e credo di vedere male mentre loro due se ne vanno affiancati in corridoio come due amiconi a spasso giù per corso Alfieri una domenica mattina di anteguerra. Dentro lo studio il fischio prigioniero è ancora impegnato nella Pastorale. Sto per sbucare in corridoio e in corridoio vedo venire fuori dalla sua stanza Capo Franco Wolf con Ricu Gross. Si fermano l’uno di fronte all’altro come all’osteria, e il Capo gli tocca la faccia, gli controlla il
naso che prima sanguinava, e poi due pacche sulla spalla per finire. Io non mi mostro. Loro vanno di sotto, giù in guardina. Porte sbattute, voce più dura di Capo Franco Wolf che tratta male il prigioniero, però recitando, si sente che fa il duro con il prigioniero Ricu Gross, lo mette in gattabuia a calci in culo. Aspetto. E quando Capo Franco Wolf ritorna su da solo io mi faccio vivo e scatto sull’attenti: – Richiesta di licenza per domani o dopo. – Zweck, scopo? – Visita in ospedale ad Asti al legionario scelto Anselmo Frett ferito in azione di combattimento. – Fai richiesta scritta. E va, poi si volta: – È uno con le palle il legionario scelto Anselmo Frett. Non mi piace quando dice che Anselmo Frett è uno con le palle, però mi sento dire: – Signorsì. Se posso chiedere, scusate, questo Grosso Enrico, preso stanotte… Sono già pentito, ma lui fa con voce meno certa, salutando e via: – La Dreckarbeit qui tocca a noi. – Al mondo ci dev’essere sempre chi fa die Dreckarbeit, il lavoro sporco, – aveva detto a cena Capo Franco Wolf la domenica che si sono dovuti fucilare quei tre dietro la stazione di Alba, dopo quattro giorni di battaglia: tre spie, dicevano, e Siro Gans a capo del plotone mi hanno detto che poi ci ha pisciato sopra ai fucilati, ma io non ci credo. – Lavoro sporco? – mi era scappato di chiedergli lì a tavola.
rie per i due locali. Lo studio è dove stanno gli uccellini, i nostri prigionieri: – Perché studio? – Perché lì dentro devono studiare la lezione. E recitarla all’interrogatorio, – mi ha spiegato Siro Gans. – Interrogatorio? – Già, voi studentelli dite interrogazione. Qui è interrogatorio. Lo studio però è sempre studio. Il voto? Qui costa molto caro, il voto, certe volte vale la pelle intera. Il piantone armato se ne sta molle alla porta principale. E mentre sto riempiendo il bidone della segatura sento nello studio uno che fischia calmo e attento un brano della Pastorale di Beethoven, e poi sopra di lui sgradevole la voce del Capo Franco Wolf, minacciosa, dura, imitazione guasta del maggiore Berger, perché lo copia in tutto lui il maggiore Berger. Lo copia male: – Tu, Grosso Enrico, los, seguimi! E Capo Franco Wolf viene fuori impettito dallo studio. Dietro di lui c’è Ricu Gross: dietro di lui, non davanti, e Capo Franco Wolf non tiene un’arma in mano. Io sono fermo in ombra e guardo e vedo e credo di vedere male mentre loro due se ne vanno affiancati in corridoio come due amiconi a spasso giù per corso Alfieri una domenica mattina di anteguerra. Dentro lo studio il fischio prigioniero è ancora impegnato nella Pastorale. Sto per sbucare in corridoio e in corridoio vedo venire fuori dalla sua stanza Capo Franco Wolf con Ricu Gross. Si fermano l’uno di fronte all’altro come all’osteria, e il Capo gli tocca la faccia, gli controlla il
naso che prima sanguinava, e poi due pacche sulla spalla per finire. Io non mi mostro. Loro vanno di sotto, giù in guardina. Porte sbattute, voce più dura di Capo Franco Wolf che tratta male il prigioniero, però recitando, si sente che fa il duro con il prigioniero Ricu Gross, lo mette in gattabuia a calci in culo. Aspetto. E quando Capo Franco Wolf ritorna su da solo io mi faccio vivo e scatto sull’attenti: – Richiesta di licenza per domani o dopo. – Zweck, scopo? – Visita in ospedale ad Asti al legionario scelto Anselmo Frett ferito in azione di combattimento. – Fai richiesta scritta. E va, poi si volta: – È uno con le palle il legionario scelto Anselmo Frett. Non mi piace quando dice che Anselmo Frett è uno con le palle, però mi sento dire: – Signorsì. Se posso chiedere, scusate, questo Grosso Enrico, preso stanotte… Sono già pentito, ma lui fa con voce meno certa, salutando e via: – La Dreckarbeit qui tocca a noi. – Al mondo ci dev’essere sempre chi fa die Dreckarbeit, il lavoro sporco, – aveva detto a cena Capo Franco Wolf la domenica che si sono dovuti fucilare quei tre dietro la stazione di Alba, dopo quattro giorni di battaglia: tre spie, dicevano, e Siro Gans a capo del plotone mi hanno detto che poi ci ha pisciato sopra ai fucilati, ma io non ci credo. – Lavoro sporco? – mi era scappato di chiedergli lì a tavola.
Mi aveva guardato, gli occhi blu ingrigiti, Capo Franco Wolf, aveva fermato il cucchiaio pieno sulla traiettoria della meta che gli serviva per dire questa cosa, tutti gli occhi intorno abbassati sui piatti: – Sì, Dio ha bisogno degli uomini. E in questo caso ha bisogno di noi, per fare il lavoro sporco, per liberare il mondo dall’immondizia comunista. In questo Dio ci ha dato carta bianca. Con queste confidenze che si prendeva col Buondio, a me sembrava di sentire don Ranieri, anche se il prete bellico don Ranieri tra le sue storie spavalde non ne aveva di donne come Capo Franco Wolf. – E mo’ ci dice chi è il vice di Dio adesso qui in Italia, – mi aveva detto piano lì di fianco Anselmo Frett a tavola. E infatti quello cita come se leggesse da un suo libro interiore: – Se da un abitato si spara su soldati germanici o alleati, sia raso al suolo. A meno che non vengano consegnati i responsabili. Firmato Albert Kesselring. In ogni tempo è stato così, in guerra. Ende, Schluss. – Noi lavoriamo per Dio, – insiste Anselmo Frett a bocca piena, per me solo, – ma Dio non lavora per noi. – Per fortuna, – mi scappa. Nessuno mi ha sentito. Neanche io.
No, le piattonate e il naso rotto e i calci in culo io non riesco a farli stare insieme con le pacche sulle spalle. No, se naso, culo e spalle sono di Ricu Gross, e sono legionarie le mani che danno piattonate col fucile e poi battono le pacche sulle spalle, e poi di nuovo calci in culo. Le pacche sulle spalle di Ricu Gross fanno a pugni anche con ciò che mi ha fatto capire prima Piero Frosch, della sorella di Ricu Gross. Piero Frosch con me prima si è vantato o no di avere ripassato la sorella di Ricu Gross con altri quattro, a Cassinasco, dopo che l’hanno tirato fuori da sotto il letto di sua sorella? M’infilo il cappotto, in tasca un pacchetto di Macedonia e me ne vado in cerca degli altri della pattuglia di stanotte su per Cassinasco. Qualcuno sarà in giro nei paraggi. Trovo Guelfo Grimm che passa al solito il suo tempo in camerata avvoltolando sigarette di trinciato forte, e poi ne fa commercio. Gli dico: – Quanto ne vuoi per due? Guelfo Grimm mi sputa quasi su una scarpa un frusto di tabacco che gli è rimasto tra le labbra mentre inumidiva con la lingua la cartina: – Non sono in vendita. – Puoi sempre darmene una in regalo. – Non siamo mica stati reclutati insieme, tu e io.
Mi aveva guardato, gli occhi blu ingrigiti, Capo Franco Wolf, aveva fermato il cucchiaio pieno sulla traiettoria della meta che gli serviva per dire questa cosa, tutti gli occhi intorno abbassati sui piatti: – Sì, Dio ha bisogno degli uomini. E in questo caso ha bisogno di noi, per fare il lavoro sporco, per liberare il mondo dall’immondizia comunista. In questo Dio ci ha dato carta bianca. Con queste confidenze che si prendeva col Buondio, a me sembrava di sentire don Ranieri, anche se il prete bellico don Ranieri tra le sue storie spavalde non ne aveva di donne come Capo Franco Wolf. – E mo’ ci dice chi è il vice di Dio adesso qui in Italia, – mi aveva detto piano lì di fianco Anselmo Frett a tavola. E infatti quello cita come se leggesse da un suo libro interiore: – Se da un abitato si spara su soldati germanici o alleati, sia raso al suolo. A meno che non vengano consegnati i responsabili. Firmato Albert Kesselring. In ogni tempo è stato così, in guerra. Ende, Schluss. – Noi lavoriamo per Dio, – insiste Anselmo Frett a bocca piena, per me solo, – ma Dio non lavora per noi. – Per fortuna, – mi scappa. Nessuno mi ha sentito. Neanche io.
No, le piattonate e il naso rotto e i calci in culo io non riesco a farli stare insieme con le pacche sulle spalle. No, se naso, culo e spalle sono di Ricu Gross, e sono legionarie le mani che danno piattonate col fucile e poi battono le pacche sulle spalle, e poi di nuovo calci in culo. Le pacche sulle spalle di Ricu Gross fanno a pugni anche con ciò che mi ha fatto capire prima Piero Frosch, della sorella di Ricu Gross. Piero Frosch con me prima si è vantato o no di avere ripassato la sorella di Ricu Gross con altri quattro, a Cassinasco, dopo che l’hanno tirato fuori da sotto il letto di sua sorella? M’infilo il cappotto, in tasca un pacchetto di Macedonia e me ne vado in cerca degli altri della pattuglia di stanotte su per Cassinasco. Qualcuno sarà in giro nei paraggi. Trovo Guelfo Grimm che passa al solito il suo tempo in camerata avvoltolando sigarette di trinciato forte, e poi ne fa commercio. Gli dico: – Quanto ne vuoi per due? Guelfo Grimm mi sputa quasi su una scarpa un frusto di tabacco che gli è rimasto tra le labbra mentre inumidiva con la lingua la cartina: – Non sono in vendita. – Puoi sempre darmene una in regalo. – Non siamo mica stati reclutati insieme, tu e io.
Stringo i pugni in tasca. Lui è un nonno. Non è con uno come lui che mi confido sul modo del reclutamento: – Posso ricambiare: Giubek o Macedonia? – E come le hai avute tu le Macedonia? – Prima. Sono di prima. – Dunque non se ne parla. Chiederti il passato di prima del reclutamento, un tranello che tendono ai pivelli. Ma le cose di prima sono un’attrazione. Come le sigarette buone di anteguerra: – Me le ha regalate il maggiore Berger, una stecca. – Non gli dico che Berger mi ha regalato anche una stecca di Muratti turche e una di Serraglio. Guelfo Grimm mi guarda dritto in faccia per la prima volta, con la cartina nuova tra le dita, mi mette in mano la cartina e versa una porzione buona di trinciato. – Piero Frosch mi ha detto di ieri notte a Cassinasco. Lui tira su lo sguardo: – Detto cosa? – Della donna… – Sì ma non si arrotola mica così la sigaretta. – Non si nasce imparati. – Cartina e tabacco, non riesco a fare meglio con le dita. Dice: – Che donna? – La sorella dell’uccellino preso sotto il letto della sorella. Lui fa un’alzata di spalle: – Adesso puoi leccare. Io lecco l’orlo e arrotolo: l’affare regge. Gli offro una Macedonia dal pacchetto quasi intero: – E com’è andata? – È andata che abbiamo recitato la commedia. – La commedia? – Per spaventare un po’ la gente a Cassinasco. – Avete preso lui e ripassato lei?
Guelfo Grimm si accende la Macedonia: – Lui preso, sì, ma solo così, e lei poi neanche toccata. – Capisco. – Mica tanto. – Tutta una commedia, noi altri e quei due di Cassinasco. Metto in bocca e lui mi accende. Faccio una tirata: – Be’, però qui Siro Gans su per le scale gli ha quasi rotto il calcio del mauser sulla schiena, a lui, al fratello. – Si è preso un cicchetto da Capo Franco Wolf, per quelle piattonate sulle scale. Quello non vale niente a recitare, Siro Gans. – E la sorella? – Non male, ma strillava troppo. Questo sì. Era la sua parte in commedia. – Già. Tieniti il resto del pacchetto.
Stringo i pugni in tasca. Lui è un nonno. Non è con uno come lui che mi confido sul modo del reclutamento: – Posso ricambiare: Giubek o Macedonia? – E come le hai avute tu le Macedonia? – Prima. Sono di prima. – Dunque non se ne parla. Chiederti il passato di prima del reclutamento, un tranello che tendono ai pivelli. Ma le cose di prima sono un’attrazione. Come le sigarette buone di anteguerra: – Me le ha regalate il maggiore Berger, una stecca. – Non gli dico che Berger mi ha regalato anche una stecca di Muratti turche e una di Serraglio. Guelfo Grimm mi guarda dritto in faccia per la prima volta, con la cartina nuova tra le dita, mi mette in mano la cartina e versa una porzione buona di trinciato. – Piero Frosch mi ha detto di ieri notte a Cassinasco. Lui tira su lo sguardo: – Detto cosa? – Della donna… – Sì ma non si arrotola mica così la sigaretta. – Non si nasce imparati. – Cartina e tabacco, non riesco a fare meglio con le dita. Dice: – Che donna? – La sorella dell’uccellino preso sotto il letto della sorella. Lui fa un’alzata di spalle: – Adesso puoi leccare. Io lecco l’orlo e arrotolo: l’affare regge. Gli offro una Macedonia dal pacchetto quasi intero: – E com’è andata? – È andata che abbiamo recitato la commedia. – La commedia? – Per spaventare un po’ la gente a Cassinasco. – Avete preso lui e ripassato lei?
Guelfo Grimm si accende la Macedonia: – Lui preso, sì, ma solo così, e lei poi neanche toccata. – Capisco. – Mica tanto. – Tutta una commedia, noi altri e quei due di Cassinasco. Metto in bocca e lui mi accende. Faccio una tirata: – Be’, però qui Siro Gans su per le scale gli ha quasi rotto il calcio del mauser sulla schiena, a lui, al fratello. – Si è preso un cicchetto da Capo Franco Wolf, per quelle piattonate sulle scale. Quello non vale niente a recitare, Siro Gans. – E la sorella? – Non male, ma strillava troppo. Questo sì. Era la sua parte in commedia. – Già. Tieniti il resto del pacchetto.
Don Pissavino, detto don Pisciavino perché in tempo di pace si occupava dei vini, da cantiniere economo, scendeva dalla sua stanza nel torrione, ogni mattina dopo messa, e risaliva la sera a sole basso, cappellone di paglia, grembiulone di tela azzurro scuro e quella roncola lucente penzoloni al fianco della tonaca sporca e malandata sopra un corpo lungo nodoso e contorto. – Cesare armato con gli occhi grifagni, – mi recitava se ci incontravamo mentre andava ai suoi lavori quotidiani: – A dare manforte nello sforzo bellico. Era sempre nell’orto, in vigna, nel noccioleto in riva al fossato, sotto le mura e lo sprofondo del torrione. Ortaggi e conigli. Le due monache del castello insinuavano che lui il breviario non lo diceva. Degradato, dicevano. Non sospeso a divinis, questo no, ma messo da parte. Ogni mattina gli servivo messa io, alle cinque e tre quarti, puntuale. La domenica andava in bici a dire messa a Callianetto, la patria contadina di Gianduia senza carnevale da tre anni, solo quaresima e digiuno: – Questa è un’opportunità, fratelli, per metterci alla prova. – Secondo me non ci credeva neanche lui, all’opportunità. Non quanto don Ranieri che quest’anno appena tornato dalla Russia ci ha tenuto un quaresimale con attente descrizioni delle pene dell’inferno e della carne, che imputridisce nella tomba. Don Pissavino invece aveva rifiutato di andare cap-
Don Pissavino, detto don Pisciavino perché in tempo di pace si occupava dei vini, da cantiniere economo, scendeva dalla sua stanza nel torrione, ogni mattina dopo messa, e risaliva la sera a sole basso, cappellone di paglia, grembiulone di tela azzurro scuro e quella roncola lucente penzoloni al fianco della tonaca sporca e malandata sopra un corpo lungo nodoso e contorto. – Cesare armato con gli occhi grifagni, – mi recitava se ci incontravamo mentre andava ai suoi lavori quotidiani: – A dare manforte nello sforzo bellico. Era sempre nell’orto, in vigna, nel noccioleto in riva al fossato, sotto le mura e lo sprofondo del torrione. Ortaggi e conigli. Le due monache del castello insinuavano che lui il breviario non lo diceva. Degradato, dicevano. Non sospeso a divinis, questo no, ma messo da parte. Ogni mattina gli servivo messa io, alle cinque e tre quarti, puntuale. La domenica andava in bici a dire messa a Callianetto, la patria contadina di Gianduia senza carnevale da tre anni, solo quaresima e digiuno: – Questa è un’opportunità, fratelli, per metterci alla prova. – Secondo me non ci credeva neanche lui, all’opportunità. Non quanto don Ranieri che quest’anno appena tornato dalla Russia ci ha tenuto un quaresimale con attente descrizioni delle pene dell’inferno e della carne, che imputridisce nella tomba. Don Pissavino invece aveva rifiutato di andare cap-
pellano in Russia con l’Armir, dicevano. Lui non ne parlava: – Scarpe rotte eppur bisogna andare, – salmodiava a volte andando giù nell’orto. E non voleva aiuto, non il mio, nell’orto e nei lavori vari: – Solus eris, – diceva, – meglio soli che male accompagnati. – Chi sono qui per voi le cattive compagnie? – gli ho chiesto dopo messa mentre lo aiutavo a svestire i paramenti. – I salvatori della patria, – mi risponde schivando: – Ma quando tutto va in malora… Guardati attorno, ascolta. E com’è che si salva la baracca? – Come? Boh, combattendo? – No, si salva coltivando, orto campo e vigna… O vivremo del lavoro, o pugnando si morrà. Ma tu va là che adesso sei il padrone del castello, devi stare in panciolle per un po’, fare il riposo del guerriero, dopo la vittoria. La mia vittoria era il successo all’esame di quinta ginnasiale. Difficile vederla in quella prospettiva: – Stanotte ho sognato il fantasma della castellana, sì, della marchesa: aveva la faccia di suor Maria Costanza. – Giusto. Se c’è una castellana, qui, è suor Maria Costanza, – dice riemergendo con la testa fuori dal camice: – Attento a non diventarle suo servo della gleba, basto io. Lei sì che comandava, suor Maria Costanza con un corpo e una faccia da sergente: – Brau vieni qui, Brau corri là. È un mese che ci stai tra i piedi, ne’. L’estate del quarantaquattro al castello di Frinco, solo nella bastiglia smisurata, spesso mangiavo in cucina: – E la cucina piange, – diceva suor Maria Costanza, che aveva inaugurato una preghiera nuova all’offertorio della messa, che invocava salvezza all’Italia, ai pro-
fughi e ai prigionieri la patria, a tutti Signore la tua pace, pegno dell’eterna felicità nel cielo amen. Prima dell’Otto Settembre si pregava per la vittoria, s’invocava la gloria, per l’Italia e le sue armi. Don Ranieri reduce di Russia ci faceva cantare che noi siamo arditi della fede, siamo araldi della croce. – Non ha ancora capito che quello è uno dei più grandi fiaschi della nostra storia, – diceva don Pissavino di don Ranieri e della sua campagna di Russia. Nemmeno a me piaceva don Ranieri, che ci slogava le ossa a scatti energici e ginnastiche alle sei del mattino nei cortili gelidi di Santa Chiara. E aveva più degli altri la stramba fissazione di molti in Norditalia di affibbiare a quelli di altre parti ciò che a loro non piace e non va bene, e a se stessi ciò che hanno deciso che va bene. Da lui ho capito che un sardo in Piemonte è uno da meno, e quando gli ho chiesto se allora devo vedere a questo modo tutti i sardi, anche mio padre e mia madre, lui è rimasto un po’ perplesso, e ha taciuto per acconsentire. E hai voglia di tornare a casa, dopo due anni con il mare chiuso. E non fai le vacanze qui al castello, cosa vuoi di più? E in tutto il castello solo io, don Pissavino e due monache in cucina. Lontano da don Ranieri e dalla sua marziale disciplina. Solo che a Frinco comandava lei, la Castellana, e affamava il popolo. Io le citavo slogan alla Masaniello, alla Cola di Rienzo, una volta perfino Carlo Marx, così a memoria. Passer deliciae meae puellae… anche questo potevo citare a memoria. Per esempio a Mafalda, la pastorella, ogni mattina, sull’erba fresca e bella. – Mafalda è il nome di una principessa, – dice Mafalda arrossendo un pochino. Per antico privilegio della sua famiglia aveva licenza di pascolo sul grande prato giù per la discesa
pellano in Russia con l’Armir, dicevano. Lui non ne parlava: – Scarpe rotte eppur bisogna andare, – salmodiava a volte andando giù nell’orto. E non voleva aiuto, non il mio, nell’orto e nei lavori vari: – Solus eris, – diceva, – meglio soli che male accompagnati. – Chi sono qui per voi le cattive compagnie? – gli ho chiesto dopo messa mentre lo aiutavo a svestire i paramenti. – I salvatori della patria, – mi risponde schivando: – Ma quando tutto va in malora… Guardati attorno, ascolta. E com’è che si salva la baracca? – Come? Boh, combattendo? – No, si salva coltivando, orto campo e vigna… O vivremo del lavoro, o pugnando si morrà. Ma tu va là che adesso sei il padrone del castello, devi stare in panciolle per un po’, fare il riposo del guerriero, dopo la vittoria. La mia vittoria era il successo all’esame di quinta ginnasiale. Difficile vederla in quella prospettiva: – Stanotte ho sognato il fantasma della castellana, sì, della marchesa: aveva la faccia di suor Maria Costanza. – Giusto. Se c’è una castellana, qui, è suor Maria Costanza, – dice riemergendo con la testa fuori dal camice: – Attento a non diventarle suo servo della gleba, basto io. Lei sì che comandava, suor Maria Costanza con un corpo e una faccia da sergente: – Brau vieni qui, Brau corri là. È un mese che ci stai tra i piedi, ne’. L’estate del quarantaquattro al castello di Frinco, solo nella bastiglia smisurata, spesso mangiavo in cucina: – E la cucina piange, – diceva suor Maria Costanza, che aveva inaugurato una preghiera nuova all’offertorio della messa, che invocava salvezza all’Italia, ai pro-
fughi e ai prigionieri la patria, a tutti Signore la tua pace, pegno dell’eterna felicità nel cielo amen. Prima dell’Otto Settembre si pregava per la vittoria, s’invocava la gloria, per l’Italia e le sue armi. Don Ranieri reduce di Russia ci faceva cantare che noi siamo arditi della fede, siamo araldi della croce. – Non ha ancora capito che quello è uno dei più grandi fiaschi della nostra storia, – diceva don Pissavino di don Ranieri e della sua campagna di Russia. Nemmeno a me piaceva don Ranieri, che ci slogava le ossa a scatti energici e ginnastiche alle sei del mattino nei cortili gelidi di Santa Chiara. E aveva più degli altri la stramba fissazione di molti in Norditalia di affibbiare a quelli di altre parti ciò che a loro non piace e non va bene, e a se stessi ciò che hanno deciso che va bene. Da lui ho capito che un sardo in Piemonte è uno da meno, e quando gli ho chiesto se allora devo vedere a questo modo tutti i sardi, anche mio padre e mia madre, lui è rimasto un po’ perplesso, e ha taciuto per acconsentire. E hai voglia di tornare a casa, dopo due anni con il mare chiuso. E non fai le vacanze qui al castello, cosa vuoi di più? E in tutto il castello solo io, don Pissavino e due monache in cucina. Lontano da don Ranieri e dalla sua marziale disciplina. Solo che a Frinco comandava lei, la Castellana, e affamava il popolo. Io le citavo slogan alla Masaniello, alla Cola di Rienzo, una volta perfino Carlo Marx, così a memoria. Passer deliciae meae puellae… anche questo potevo citare a memoria. Per esempio a Mafalda, la pastorella, ogni mattina, sull’erba fresca e bella. – Mafalda è il nome di una principessa, – dice Mafalda arrossendo un pochino. Per antico privilegio della sua famiglia aveva licenza di pascolo sul grande prato giù per la discesa
del castello esposta a solatio. Non pascolava i suoi caprin come nella canzone, ma una bella mucca, sola e maestosa, Rosamunda, regina della stalla, salvata a tutte le requisizioni belliche da un padre podestà, perché Rosamunda è cieca e però anche così, Rosamunda, tu sei tutto per me! – E Lili Marleen dove l’hai lasciata? – le dico, ma lei niente. Poco male, era tanto per attaccare, perché dalle vacanze dell’anno scorso era cresciuta più di un palmo e chissà quanti chili, ma ben sistemati nei punti giusti. Dice che a lei piacciono tanto i balli a palchetto, in piazza o sulle aie. Ma non ci sono più da anni adesso, che peccato. Né carnevali né feste patronali. Ma gli uomini sempre lo stesso a sperperare la paga all’osteria, quelli che la guerra non ha schiodato. Lei però si è fatta la permanente: – Mio padre non voleva ma la mamma sì. E mi sta bene ne’? – Sì, certo, le stava bene, col sole ad accenderle i capelli, e nel fare il movimento di mostrarmi la permanente mi dava modo di far scivolare il mio sguardo giù nel petto dove in mezzo alle due cose non visibili ho scoperto un gran bel neo che le stava proprio bene e le ho detto che i francesi quelle cose lì le chiamano grains de beauté, ma è stata scienza sprecata, non le ho fatto effetto. Però voleva compagnia, la Mafalda sul prato a cercare margherite, con la sua finta timidezza giocando a nascondino col mio finto brio, mentre sua madre ogni volta che era lì a badare a Rosamunda non ha fatto altro che un fitto noncurante sferruzzare. Però alla fine del pascolo un giorno mi ha detto: – Le hai messo gli occhi addosso, ne’? E io tutto rosso: – Sì, ma solo gli occhi. Un giorno a Mafalda ho portato un passerotto, e il mio latino di Catullo.
Don Pissavino mi lasciava fare. O non mi vedeva? Mi vedeva: – Bada alla Castellana, che già bada a te che badi alla pastorella, – mi ha detto un giorno mentre mi portava a Callianetto a servir messa, io seduto in canna sulla bici, lui pedalando con la tonaca tenuta ai pantaloni con due molle da bucato, un fazzolettone bianco da tasca annodato sulla testa come un muratore. Io sono stato zitto. Quel giorno a Callianetto nella predica don Pissavino si mette a dire a quelle donne: – E che cos’è in fondo il cristianesimo, quello vero di Cristo? Non quello di chi dice Signore Signore e poi sbudella o lascia sbudellare i vostri maschi in guerra, no, il vero cristianesimo ci insegna che valiamo il tanto che siamo d’aiuto agli altri, non di danno, come adesso in guerra, che ogni male è lecito. Di ritorno in canna su in salita io gli ho detto: – Sono d’accordo con voi. – Io sono meno d’accordo con me stesso. Ma su cosa? – Sul vero cristianesimo. Vi dicono un eretico, un mezzo protestante. – La verità nessuno ce l’ha in tasca, neanche se in tasca ha l’ultima edizione dei Vangeli. – In cima alla salita ha aggiunto: – Però non si parla come ho fatto io quest’oggi a quelle mie donnette senza uomini. – Avete parlato benissimo. – Sì, ma quelle il loro Dio non lo vogliono perdere, lo pregano a modo loro, e io le ho trattate da bigotte. Mi ero costruito una radio a galena. Sentivo il giornale-radio di Titta Arista, di quel trombone di Titta
del castello esposta a solatio. Non pascolava i suoi caprin come nella canzone, ma una bella mucca, sola e maestosa, Rosamunda, regina della stalla, salvata a tutte le requisizioni belliche da un padre podestà, perché Rosamunda è cieca e però anche così, Rosamunda, tu sei tutto per me! – E Lili Marleen dove l’hai lasciata? – le dico, ma lei niente. Poco male, era tanto per attaccare, perché dalle vacanze dell’anno scorso era cresciuta più di un palmo e chissà quanti chili, ma ben sistemati nei punti giusti. Dice che a lei piacciono tanto i balli a palchetto, in piazza o sulle aie. Ma non ci sono più da anni adesso, che peccato. Né carnevali né feste patronali. Ma gli uomini sempre lo stesso a sperperare la paga all’osteria, quelli che la guerra non ha schiodato. Lei però si è fatta la permanente: – Mio padre non voleva ma la mamma sì. E mi sta bene ne’? – Sì, certo, le stava bene, col sole ad accenderle i capelli, e nel fare il movimento di mostrarmi la permanente mi dava modo di far scivolare il mio sguardo giù nel petto dove in mezzo alle due cose non visibili ho scoperto un gran bel neo che le stava proprio bene e le ho detto che i francesi quelle cose lì le chiamano grains de beauté, ma è stata scienza sprecata, non le ho fatto effetto. Però voleva compagnia, la Mafalda sul prato a cercare margherite, con la sua finta timidezza giocando a nascondino col mio finto brio, mentre sua madre ogni volta che era lì a badare a Rosamunda non ha fatto altro che un fitto noncurante sferruzzare. Però alla fine del pascolo un giorno mi ha detto: – Le hai messo gli occhi addosso, ne’? E io tutto rosso: – Sì, ma solo gli occhi. Un giorno a Mafalda ho portato un passerotto, e il mio latino di Catullo.
Don Pissavino mi lasciava fare. O non mi vedeva? Mi vedeva: – Bada alla Castellana, che già bada a te che badi alla pastorella, – mi ha detto un giorno mentre mi portava a Callianetto a servir messa, io seduto in canna sulla bici, lui pedalando con la tonaca tenuta ai pantaloni con due molle da bucato, un fazzolettone bianco da tasca annodato sulla testa come un muratore. Io sono stato zitto. Quel giorno a Callianetto nella predica don Pissavino si mette a dire a quelle donne: – E che cos’è in fondo il cristianesimo, quello vero di Cristo? Non quello di chi dice Signore Signore e poi sbudella o lascia sbudellare i vostri maschi in guerra, no, il vero cristianesimo ci insegna che valiamo il tanto che siamo d’aiuto agli altri, non di danno, come adesso in guerra, che ogni male è lecito. Di ritorno in canna su in salita io gli ho detto: – Sono d’accordo con voi. – Io sono meno d’accordo con me stesso. Ma su cosa? – Sul vero cristianesimo. Vi dicono un eretico, un mezzo protestante. – La verità nessuno ce l’ha in tasca, neanche se in tasca ha l’ultima edizione dei Vangeli. – In cima alla salita ha aggiunto: – Però non si parla come ho fatto io quest’oggi a quelle mie donnette senza uomini. – Avete parlato benissimo. – Sì, ma quelle il loro Dio non lo vogliono perdere, lo pregano a modo loro, e io le ho trattate da bigotte. Mi ero costruito una radio a galena. Sentivo il giornale-radio di Titta Arista, di quel trombone di Titta
Arista diceva don Pissavino, e poi Giovanni Ansaldo e Mario Apelius vantare l’appetito gagliardo dell’Italia fascista rinnovata a Nord. Mi centellinavo il successo delle nostre ritirate in tutti i fronti e il Trio Lescano coi suoi tulli tulli tullipan. Finita la galena quando l’alleato germanico sgomberava da Parigi, ho chiesto libri a don Pissavino: – Scegli, – mi fa, e mi mette in mano una grammatica tedesca e una inglese: – La lingua del momento o la lingua del futuro? – Non ci sarebbe una terza possibilità? – Sì che c’è. – E li ha rimessi via. Mi ha dato Il conte di Montecristo. L’ho letto in due giorni e mezza notte, rintanato lontano dalla Castellana. Il terzo giorno sono risuscitato a fianco di don Pissavino giù nel noccioleto. Era un pomeriggio di agosto interminabile. Don Pissavino indaffarato con le api sembrava la caricatura di una di quelle signore con la veletta sulla faccia giù dal cappellino. Ha avuto un soprassalto: – Vieni via che pungono, masnà. – E mi ha tirato via. – Dove si va? – Vieni qua con me, – e mi fa strada verso il fossato, deciso e dritto perché aveva già pensato tutto: – Guarda là, – mi fa. L’acqua verdastra del fossato antico largo un trenta metri quell’estate era calata molto più del solito nei cinque anni che passavo le vacanze a Frinco: – Segui la linea verde del vecchio livello dell’acqua, da sotto il torrione. Vai avanti una decina di metri sulla destra. Cosa vedi? Io vedevo, vedevo… sì, vedevo chiaramente la parte superiore di un’antica porta in mattoni a sesto acuto, murata malamente, però meravigliosamente medievale.
– Ecco, bravo. L’hai letto Robinson Crusoe? Fossi in te, prima farei un poco il Robinson, costruirei una zattera robusta e una pagaia… Quanti anni hai? Sedici, hai ancora l’età per queste cose. Io quarantasette, quasi giusto il triplo, quindi dammi retta. Allora, arriva fino lì alla porta medievale e fatti furbo, gioca al conte di Montecristo quando stava rinchiuso nella rocca in mezzo al mare: scava. Poi ne riparliamo, prima d’incontrare l’Abate Faria. Lì c’è il vecchio noce caduto, lì ci sono gli attrezzi. Io sono sempre qui a portata di voce. Sei grande e vaccinato, anche se hai l’età che uno si dice il mondo è mio, ne faccio quel che voglio, per un poco illuditi, lavora quanto vuoi, dall’alba al tramonto e non di più. E lasciamoci in pace. Ah, la pace, figliolo, la pace: pax candida veni. Io qui devo badare alle mie api. Posto t’ho innanzi, omai per te ti ciba. – Ho già l’età che si comincia a dare retta ai vecchi, – gli ho detto. Mi sembrava una cosa gentile, anche intelligente, ma mi ha guardato come se non mi riconoscesse. Non l’ho lasciato sempre in pace don Pissavino con i suoi cento lavori. Ormai sapevo che la sua solitudine era dedizione agli altri, me compreso. Leggevo senza riprendere fiato finché c’era luce. Gli ho chiesto altre letture per la sera, la notte, il buio che allontana dagli anfratti del castello, quando erano impossibili e proibite quelle esplorazioni. E con che mezzi poi, senza la luce elettrica, oscuramenti a parte? Rubando le candele dell’altare? Don Pissavino, un amicone, mi ha dato Guerra e pace di Tolstoi: – Non per dare soddisfazione alla guerra, – dice, – ma per tenerla a bada. – E mi ha spiegato che questa è una guerra mondiale, la seconda, la prima è
Arista diceva don Pissavino, e poi Giovanni Ansaldo e Mario Apelius vantare l’appetito gagliardo dell’Italia fascista rinnovata a Nord. Mi centellinavo il successo delle nostre ritirate in tutti i fronti e il Trio Lescano coi suoi tulli tulli tullipan. Finita la galena quando l’alleato germanico sgomberava da Parigi, ho chiesto libri a don Pissavino: – Scegli, – mi fa, e mi mette in mano una grammatica tedesca e una inglese: – La lingua del momento o la lingua del futuro? – Non ci sarebbe una terza possibilità? – Sì che c’è. – E li ha rimessi via. Mi ha dato Il conte di Montecristo. L’ho letto in due giorni e mezza notte, rintanato lontano dalla Castellana. Il terzo giorno sono risuscitato a fianco di don Pissavino giù nel noccioleto. Era un pomeriggio di agosto interminabile. Don Pissavino indaffarato con le api sembrava la caricatura di una di quelle signore con la veletta sulla faccia giù dal cappellino. Ha avuto un soprassalto: – Vieni via che pungono, masnà. – E mi ha tirato via. – Dove si va? – Vieni qua con me, – e mi fa strada verso il fossato, deciso e dritto perché aveva già pensato tutto: – Guarda là, – mi fa. L’acqua verdastra del fossato antico largo un trenta metri quell’estate era calata molto più del solito nei cinque anni che passavo le vacanze a Frinco: – Segui la linea verde del vecchio livello dell’acqua, da sotto il torrione. Vai avanti una decina di metri sulla destra. Cosa vedi? Io vedevo, vedevo… sì, vedevo chiaramente la parte superiore di un’antica porta in mattoni a sesto acuto, murata malamente, però meravigliosamente medievale.
– Ecco, bravo. L’hai letto Robinson Crusoe? Fossi in te, prima farei un poco il Robinson, costruirei una zattera robusta e una pagaia… Quanti anni hai? Sedici, hai ancora l’età per queste cose. Io quarantasette, quasi giusto il triplo, quindi dammi retta. Allora, arriva fino lì alla porta medievale e fatti furbo, gioca al conte di Montecristo quando stava rinchiuso nella rocca in mezzo al mare: scava. Poi ne riparliamo, prima d’incontrare l’Abate Faria. Lì c’è il vecchio noce caduto, lì ci sono gli attrezzi. Io sono sempre qui a portata di voce. Sei grande e vaccinato, anche se hai l’età che uno si dice il mondo è mio, ne faccio quel che voglio, per un poco illuditi, lavora quanto vuoi, dall’alba al tramonto e non di più. E lasciamoci in pace. Ah, la pace, figliolo, la pace: pax candida veni. Io qui devo badare alle mie api. Posto t’ho innanzi, omai per te ti ciba. – Ho già l’età che si comincia a dare retta ai vecchi, – gli ho detto. Mi sembrava una cosa gentile, anche intelligente, ma mi ha guardato come se non mi riconoscesse. Non l’ho lasciato sempre in pace don Pissavino con i suoi cento lavori. Ormai sapevo che la sua solitudine era dedizione agli altri, me compreso. Leggevo senza riprendere fiato finché c’era luce. Gli ho chiesto altre letture per la sera, la notte, il buio che allontana dagli anfratti del castello, quando erano impossibili e proibite quelle esplorazioni. E con che mezzi poi, senza la luce elettrica, oscuramenti a parte? Rubando le candele dell’altare? Don Pissavino, un amicone, mi ha dato Guerra e pace di Tolstoi: – Non per dare soddisfazione alla guerra, – dice, – ma per tenerla a bada. – E mi ha spiegato che questa è una guerra mondiale, la seconda, la prima è
quella del Quindici-Diciotto. Guerra mondiale, uno ci si sente anche importante, in una guerra mondiale. Ma prima di finire Guerra e pace, in guerra c’ero anch’io, mondiale e monferrata, armi e bagagli e giovinezza giovinezza!
Non ho rubato le candele dell’altare, ma resti e mozziconi in sacrestia, fiammiferi in cucina. Esplorazione lunga, in cantine umide, gallerie al salnitro, cunicoli, cameroni di roccia che per me erano segrete medievali, nemici interrati, morti di stenti, gli amanti spremuti e rifiutati delle altere castellane e delle pallide margravie e specialmente lei, La Marchesa, che dei sotterranei ha fatto un fatato labirinto dove perdersi per sempre. Là sotto un giorno ho visto una lontana luce tremolante. Fermo. Prendi fiato. Anzi non fiatare. Senti, ascolta. C’è qualcuno che traffica là in fondo, con rumori tombali. Scappa, sì scappa scappa scappa… Poi mi pento. E mi vergogno. E torno indietro… Calma. Ci si abitua a tutto, anche al cuore che spara come una mitraglia. Al giorno d’oggi tutti invocano coraggio. Mi avvicino, senza far rumore, la mia luce mimetizzata. All’ultima curva una figura, una donna vestita in panni antichi, e in mano una spada! Spengo la mia luce. Oddio la Marchesa, proprio lei, livida di luce! Via, via, stavolta più lontano. Poi mi fermo. Mi schiaccio alla parete, fredda, umida. E il fantasma laggiù che batte e picchia, passando chissà cosa a fil di spada. Io di nuovo vergogna. Avanzo a lume spento, voltandomi ogni tanto al chiarore dall’esterno. Ecco, ci siamo, piano: uomo, sii uomo, sei un uomo ormai. Gli ultimi passi e guardo: la Marchesa, di spalle questa vol-
quella del Quindici-Diciotto. Guerra mondiale, uno ci si sente anche importante, in una guerra mondiale. Ma prima di finire Guerra e pace, in guerra c’ero anch’io, mondiale e monferrata, armi e bagagli e giovinezza giovinezza!
Non ho rubato le candele dell’altare, ma resti e mozziconi in sacrestia, fiammiferi in cucina. Esplorazione lunga, in cantine umide, gallerie al salnitro, cunicoli, cameroni di roccia che per me erano segrete medievali, nemici interrati, morti di stenti, gli amanti spremuti e rifiutati delle altere castellane e delle pallide margravie e specialmente lei, La Marchesa, che dei sotterranei ha fatto un fatato labirinto dove perdersi per sempre. Là sotto un giorno ho visto una lontana luce tremolante. Fermo. Prendi fiato. Anzi non fiatare. Senti, ascolta. C’è qualcuno che traffica là in fondo, con rumori tombali. Scappa, sì scappa scappa scappa… Poi mi pento. E mi vergogno. E torno indietro… Calma. Ci si abitua a tutto, anche al cuore che spara come una mitraglia. Al giorno d’oggi tutti invocano coraggio. Mi avvicino, senza far rumore, la mia luce mimetizzata. All’ultima curva una figura, una donna vestita in panni antichi, e in mano una spada! Spengo la mia luce. Oddio la Marchesa, proprio lei, livida di luce! Via, via, stavolta più lontano. Poi mi fermo. Mi schiaccio alla parete, fredda, umida. E il fantasma laggiù che batte e picchia, passando chissà cosa a fil di spada. Io di nuovo vergogna. Avanzo a lume spento, voltandomi ogni tanto al chiarore dall’esterno. Ecco, ci siamo, piano: uomo, sii uomo, sei un uomo ormai. Gli ultimi passi e guardo: la Marchesa, di spalle questa vol-
ta. Forse grido, perché lei si volta, forse mi vede, grida anche lei e scappa. Scappo anch’io. Paura sì, però curiosità. Torna indietro, cretino! Ma quale marchesa, ce ne saranno state almeno cento di marchese, e tu qui temi La Marchesa, scemo di guerra! Ma sì andiamo, appena mi si calma la mitraglia in petto e in gola. Faccio luce, non sono più figlio delle tenebre. In mezzo a una sala bassa con volta a crociera di mattoni a vista c’è un mozzicone di cero di chiesa, acceso e tremolante, così tutto trema. Qualcuno si avvicina adagio, da un altro cunicolo di fronte: la Marchesa! Mi schiaccio in una nicchia senza forma, vedo solo metà di questa scena madre dove nella luce tremula compare suor Maria Costanza, brandendo una pala, in guardia pronta a tutto. Mi tengo dal ridere. Sapesse che il nemico sono io. Ma qui, altro che ridere a crepapancia, qui c’è da mangiare a crepapancia, è la dispensa dei quaranta ladroni. Mucchi di mele, pere, noci e nocciole, letti di patate, salami e prosciutti appesi al soffitto e alle pareti e molte altre cose impacchettate messe in pile e mucchi. Un gatto soffia e miagola lontano. La suora si fa il segno della croce e si rilassa. Poggia la pala alla parete, prende patate e mele nel grembiule a sacca e se ne va, con codazzo d’ombre. Alla buonora. Aspetto a lungo fermo. Nel silenzio riaccendo il mozzicone striminzito che rivela rosari di salami e scaloni di formaggio, sacchi e ceste pieni di ogni bene, riso, pasta, fagioli, olio e lardo, zucchero, perfino cioccolata e caffè vero, the, carcadè, fiammiferi, steariche, sapone, acqua Brioschi, biscotti Mellin, miele artificiale e cento cose di anteguerra. Un’abbondanza da vertigini, mi gira la testa. Ma rifletto: mai mandato me la Castel-
lana per qualcosa alla grotta di Cuccagna. Sfido io. Ma io qui sono Alì Babà! Fa capolino il gatto, scuro zampe bianche, come avesse i calzini di lana, mi vede e non mi vede e se ne va. Alla faccia di tutte le tessere annonarie, faccio il primo assalto, volpe nel pollaio, saccheggio il bendidio. E avanti così per qualche giorno, finché suor Maria Costanza mi fa notare il mio poco appetito alla solita broda. Io zitto là sotto a esplorare, cunicoli, passaggi, grotte e gallerie, umane e disumane, sconnesse o abbandonate come nuove, terriccio e polvere, non polvere dei secoli ma sempiterna, senza storia. Mai parlato a don Pissavino, anche se ogni tanto mi è parso che a modo suo chiedesse nuove. Un giorno gli ho chiesto come mai nei sotterranei del castello non c’erano topi, ratti, pipistrelli. – Di questi tempi, bestie e cristiani sfollano in campagna.
ta. Forse grido, perché lei si volta, forse mi vede, grida anche lei e scappa. Scappo anch’io. Paura sì, però curiosità. Torna indietro, cretino! Ma quale marchesa, ce ne saranno state almeno cento di marchese, e tu qui temi La Marchesa, scemo di guerra! Ma sì andiamo, appena mi si calma la mitraglia in petto e in gola. Faccio luce, non sono più figlio delle tenebre. In mezzo a una sala bassa con volta a crociera di mattoni a vista c’è un mozzicone di cero di chiesa, acceso e tremolante, così tutto trema. Qualcuno si avvicina adagio, da un altro cunicolo di fronte: la Marchesa! Mi schiaccio in una nicchia senza forma, vedo solo metà di questa scena madre dove nella luce tremula compare suor Maria Costanza, brandendo una pala, in guardia pronta a tutto. Mi tengo dal ridere. Sapesse che il nemico sono io. Ma qui, altro che ridere a crepapancia, qui c’è da mangiare a crepapancia, è la dispensa dei quaranta ladroni. Mucchi di mele, pere, noci e nocciole, letti di patate, salami e prosciutti appesi al soffitto e alle pareti e molte altre cose impacchettate messe in pile e mucchi. Un gatto soffia e miagola lontano. La suora si fa il segno della croce e si rilassa. Poggia la pala alla parete, prende patate e mele nel grembiule a sacca e se ne va, con codazzo d’ombre. Alla buonora. Aspetto a lungo fermo. Nel silenzio riaccendo il mozzicone striminzito che rivela rosari di salami e scaloni di formaggio, sacchi e ceste pieni di ogni bene, riso, pasta, fagioli, olio e lardo, zucchero, perfino cioccolata e caffè vero, the, carcadè, fiammiferi, steariche, sapone, acqua Brioschi, biscotti Mellin, miele artificiale e cento cose di anteguerra. Un’abbondanza da vertigini, mi gira la testa. Ma rifletto: mai mandato me la Castel-
lana per qualcosa alla grotta di Cuccagna. Sfido io. Ma io qui sono Alì Babà! Fa capolino il gatto, scuro zampe bianche, come avesse i calzini di lana, mi vede e non mi vede e se ne va. Alla faccia di tutte le tessere annonarie, faccio il primo assalto, volpe nel pollaio, saccheggio il bendidio. E avanti così per qualche giorno, finché suor Maria Costanza mi fa notare il mio poco appetito alla solita broda. Io zitto là sotto a esplorare, cunicoli, passaggi, grotte e gallerie, umane e disumane, sconnesse o abbandonate come nuove, terriccio e polvere, non polvere dei secoli ma sempiterna, senza storia. Mai parlato a don Pissavino, anche se ogni tanto mi è parso che a modo suo chiedesse nuove. Un giorno gli ho chiesto come mai nei sotterranei del castello non c’erano topi, ratti, pipistrelli. – Di questi tempi, bestie e cristiani sfollano in campagna.
Di nuovo inaspettato nel silenzio sotterraneo una mattina un rumore troppo nuovo, poi riflessi di luce, e un passo lento, a tratti, con lunghi riverberi, come a sporgersi in giù nella cisterna di mia nonna. Spengo il moccolo, il cuore in gola. Vengono a sloggiarmi, finita la Cuccagna. Il passo si avvicina, minaccioso, sicuro di sé, lampi di luce rossa. Mi dico di star fermo ma sto già scappando. – Wer ist da? Chi è là? Mi fermo, sulla schiena e sui palmi il fresco acquoso da parete sotterranea. – Ist jemand da? C’è qualcuno? Zitto e fermo. Anche l’altra presenza zitta e ferma, al buio. A lungo. Troppo a lungo. Muovo io per primo. – Halt, zur Stelle! Fermo, fermo lì! Col cavolo che mi fermo. Io scappo, scappo eccome. – Halt, halt oder ich schiesse. Fermo o sparo. Mi fermo. Figurarsi se questo non ti spara: due colpi, tutti e due in tedesco. La luce accosta, mi fruga in faccia, in tutto il corpo, i buchi nella maglia. – Wer sind Sie? Chi è lei? Mi accorgo di avere le mani alzate. Le alzo anche di più e faccio un gesto di resa e d’ignoranza capitale: – Nix kaputt, – mi scappa di bocca, come mio padre a Caporetto, e le mille altre volte raccontando. – Ach so, niente paura, giovanotto.
Di nuovo inaspettato nel silenzio sotterraneo una mattina un rumore troppo nuovo, poi riflessi di luce, e un passo lento, a tratti, con lunghi riverberi, come a sporgersi in giù nella cisterna di mia nonna. Spengo il moccolo, il cuore in gola. Vengono a sloggiarmi, finita la Cuccagna. Il passo si avvicina, minaccioso, sicuro di sé, lampi di luce rossa. Mi dico di star fermo ma sto già scappando. – Wer ist da? Chi è là? Mi fermo, sulla schiena e sui palmi il fresco acquoso da parete sotterranea. – Ist jemand da? C’è qualcuno? Zitto e fermo. Anche l’altra presenza zitta e ferma, al buio. A lungo. Troppo a lungo. Muovo io per primo. – Halt, zur Stelle! Fermo, fermo lì! Col cavolo che mi fermo. Io scappo, scappo eccome. – Halt, halt oder ich schiesse. Fermo o sparo. Mi fermo. Figurarsi se questo non ti spara: due colpi, tutti e due in tedesco. La luce accosta, mi fruga in faccia, in tutto il corpo, i buchi nella maglia. – Wer sind Sie? Chi è lei? Mi accorgo di avere le mani alzate. Le alzo anche di più e faccio un gesto di resa e d’ignoranza capitale: – Nix kaputt, – mi scappa di bocca, come mio padre a Caporetto, e le mille altre volte raccontando. – Ach so, niente paura, giovanotto.
La luce si sposta sulla parete di fronte e io lo vedo, l’alleato germanico in divisa e stivaloni, pistolone puntato, occhi celesti e naso forte, che invece di sparare canta: – Niun mi tema, se anco armato mi veda… – Mette via lento la pistola: – Otello, ultimo atto, ultima scena. Io però amo meglio Richard Wagner. – Chi se ne frega! – Le parole, ancora fuori di bocca per conto loro. – Uno non può dire questo con le mani alzate. Le abbasso, e come se avessi buttato giù chissà che cosa, fuori c’è uno scoppio, con schianti e vibrazioni anche là sotto, e la pernacchia di un aereo che s’impenna e si allontana. – Scheisse! – dice l’alleato germanico, – Scheisse nochmal! Los, komm! Komm mal mit mir, vieni con me, tu giovanotto, – e mi fa cenno di seguirlo, sul ponte levatoio di quel tu, per la strada da cui è venuto. Io faccio per riprendere la mia, dalla parte opposta, verso il fossato e la zattera di Robinson, ma lui si riarma di torcia e pistolone e mi si mette dietro, in tedesco e chiaro: – Schnell, vorwaerts, laufen!
Lo spezzone d’aereo ha preso in pieno la Opel lasciata dal capitano Berger sulla salitella, ha danneggiato il portale del castello e ammutolito le rane nel fossato. – E quando se ne va adesso questo qui? – chiedeva suor Maria Costanza, i fianchi tintinnanti delle chiavi. – Perché sarà venuto? – Lo chieda a lui, – le rispondeva don Pissavino, – e già che c’è gli chieda anche perché ci è piovuto addosso, quell’esseesse. – Per attirare su di noi le bombe demoplutogiudaiche, – dico io saputo. – E lei lo sa, sorella, chi sono le esseesse? – Servono fagiolini, subito! E datemi del voi, prete scavallato. Il capitano Berger si è presentato con solennità, con ferramenta di medaglie e di decorazioni sulla giacca, prima di tutti a don Pissavino, si è detto felice di fare la sua conoscenza, e anche se don Pissavino non si è detto altrettanto felice, l’alleato germanico gli ha stretto la mano con inchino e sbattimento di tacchi, pronto a passare quel giorno e quella notte al castello lì con noi. Di sopra, non in sotterraneo. Sì, ma a che fare? Don Pissavino ha deciso che da unico maschio adulto della rocca aveva i suoi doveri.
La luce si sposta sulla parete di fronte e io lo vedo, l’alleato germanico in divisa e stivaloni, pistolone puntato, occhi celesti e naso forte, che invece di sparare canta: – Niun mi tema, se anco armato mi veda… – Mette via lento la pistola: – Otello, ultimo atto, ultima scena. Io però amo meglio Richard Wagner. – Chi se ne frega! – Le parole, ancora fuori di bocca per conto loro. – Uno non può dire questo con le mani alzate. Le abbasso, e come se avessi buttato giù chissà che cosa, fuori c’è uno scoppio, con schianti e vibrazioni anche là sotto, e la pernacchia di un aereo che s’impenna e si allontana. – Scheisse! – dice l’alleato germanico, – Scheisse nochmal! Los, komm! Komm mal mit mir, vieni con me, tu giovanotto, – e mi fa cenno di seguirlo, sul ponte levatoio di quel tu, per la strada da cui è venuto. Io faccio per riprendere la mia, dalla parte opposta, verso il fossato e la zattera di Robinson, ma lui si riarma di torcia e pistolone e mi si mette dietro, in tedesco e chiaro: – Schnell, vorwaerts, laufen!
Lo spezzone d’aereo ha preso in pieno la Opel lasciata dal capitano Berger sulla salitella, ha danneggiato il portale del castello e ammutolito le rane nel fossato. – E quando se ne va adesso questo qui? – chiedeva suor Maria Costanza, i fianchi tintinnanti delle chiavi. – Perché sarà venuto? – Lo chieda a lui, – le rispondeva don Pissavino, – e già che c’è gli chieda anche perché ci è piovuto addosso, quell’esseesse. – Per attirare su di noi le bombe demoplutogiudaiche, – dico io saputo. – E lei lo sa, sorella, chi sono le esseesse? – Servono fagiolini, subito! E datemi del voi, prete scavallato. Il capitano Berger si è presentato con solennità, con ferramenta di medaglie e di decorazioni sulla giacca, prima di tutti a don Pissavino, si è detto felice di fare la sua conoscenza, e anche se don Pissavino non si è detto altrettanto felice, l’alleato germanico gli ha stretto la mano con inchino e sbattimento di tacchi, pronto a passare quel giorno e quella notte al castello lì con noi. Di sopra, non in sotterraneo. Sì, ma a che fare? Don Pissavino ha deciso che da unico maschio adulto della rocca aveva i suoi doveri.
Gli si è messo davanti: – Come la Gallia, – ha incominciato, – il castello è diviso in partes tres… – Na schoen, padre, io sono specialista in architettura militare, con un dottorato in fortezze medievali italiane. Don Pissavino ha alzato le mani nella resa. Però ha chiesto: – E il nostro castello è un suo oggetto di studio? Il capitano Berger si è messo a ridere molto sonoro, e sempre ridendo in vari modi ha fatto una ricognizione sistematica, da fondo a capo e poi da capo a fondo, con molta Ausfuerlichkeit. Era lì per questo. E io dietro all’alleato germanico, che mi voleva lì con lui. Mi attirava la divisa, gli stivali, le sue decorazioni, insegne e medaglie, tutta la ferraglia sul suo petto, l’orologio al polso che ogni tanto guardava e ci batteva sopra due volte con l’indice teso. Gli altri alla larga, imboscati e imboscando le cose. Perlustravo anch’io. Sono riuscito a tenerlo lontano dalla Grotta di Cuccagna. Berger s’informava anche di me: – Questi vogliono fare di te uno di loro, un pretino. Ma tu che cosa vuoi? Io facevo spallucce. Affari miei. Tanto non lo sapevo. E non volevo dargli soddisfazione. Ma gli ho chiesto: – Perché? E lui con tutte quelle cose addosso, tutta la segnaletica sulla divisa, tutta la sua sicurezza, tutto quel suo lui tutto e gli altri niente, mi fa: – Es hat seine Gruende, una ragione c’è. – E niente più, né in tedesco né in italiano. A cena mi ha voluto vicino, seduto di fronte, lontano da don Pissavino cupo e chiuso o con sorrisi d’ironia preoccupata. Suor Maria Costanza non ci teneva a stecchetto come al solito. Berger mangiava tutto, anche
le castagne secche bollite, il mio tormento, peggio dell’uva fragola. – Io scommetto che tu ami meglio fare l’ufficiale pilota. Mi stringo nelle spalle, mai posto il problema, che cosa amo meglio. – O di cavalleria? Ecco sì, mettiamola in cavalleria. Con le sue erre gutturali mi diceva la vile crudeltà dei bombardamenti angloamericani: – La guerra è guerra, ma questo è terrorismo! L’abbazia di Montecassino rasa al suolo, Torino bombardata sette volte. La mia città, Colonia, una maceria, anche la cattedrale più antica di Germania. Selvaggi, primitivi, Naturvoelker! Suor Maria Costanza lo ascoltava dandogli ragione con tutto il suo corpo e non sembrava più la Castellana. Ci ha portato salame e fagiolini. Anche a don Pissavino, che non ne ha voluto, così la suora ha dato tutto a noi due, salame e fagiolini: – Stangenbohnen, was? – dice allegro l’alleato germanico davanti al piatto di fagiolini all’olio d’oliva. Poi suor Maria Costanza ci ha portato una bottiglia di Barolo. Don Pissavino si è dichiarato astemio. – Ciucche tristi di guerra, – mi dice dopo cena don Pissavino. Ero brillo e loquace: – Il capitano Berger dice che i tedeschi amano gli italiani. – Sì, ma non ci stimano. E nemmeno si fidano. – E accenna a suor Maria Costanza, in estasi per i complimenti dell’alleato germanico. – E la sventurata rispose, – dice don Pissavino lasciando il sommo Dante per quel baciapile di Manzoni, ma dicendo di lei perché in-
Gli si è messo davanti: – Come la Gallia, – ha incominciato, – il castello è diviso in partes tres… – Na schoen, padre, io sono specialista in architettura militare, con un dottorato in fortezze medievali italiane. Don Pissavino ha alzato le mani nella resa. Però ha chiesto: – E il nostro castello è un suo oggetto di studio? Il capitano Berger si è messo a ridere molto sonoro, e sempre ridendo in vari modi ha fatto una ricognizione sistematica, da fondo a capo e poi da capo a fondo, con molta Ausfuerlichkeit. Era lì per questo. E io dietro all’alleato germanico, che mi voleva lì con lui. Mi attirava la divisa, gli stivali, le sue decorazioni, insegne e medaglie, tutta la ferraglia sul suo petto, l’orologio al polso che ogni tanto guardava e ci batteva sopra due volte con l’indice teso. Gli altri alla larga, imboscati e imboscando le cose. Perlustravo anch’io. Sono riuscito a tenerlo lontano dalla Grotta di Cuccagna. Berger s’informava anche di me: – Questi vogliono fare di te uno di loro, un pretino. Ma tu che cosa vuoi? Io facevo spallucce. Affari miei. Tanto non lo sapevo. E non volevo dargli soddisfazione. Ma gli ho chiesto: – Perché? E lui con tutte quelle cose addosso, tutta la segnaletica sulla divisa, tutta la sua sicurezza, tutto quel suo lui tutto e gli altri niente, mi fa: – Es hat seine Gruende, una ragione c’è. – E niente più, né in tedesco né in italiano. A cena mi ha voluto vicino, seduto di fronte, lontano da don Pissavino cupo e chiuso o con sorrisi d’ironia preoccupata. Suor Maria Costanza non ci teneva a stecchetto come al solito. Berger mangiava tutto, anche
le castagne secche bollite, il mio tormento, peggio dell’uva fragola. – Io scommetto che tu ami meglio fare l’ufficiale pilota. Mi stringo nelle spalle, mai posto il problema, che cosa amo meglio. – O di cavalleria? Ecco sì, mettiamola in cavalleria. Con le sue erre gutturali mi diceva la vile crudeltà dei bombardamenti angloamericani: – La guerra è guerra, ma questo è terrorismo! L’abbazia di Montecassino rasa al suolo, Torino bombardata sette volte. La mia città, Colonia, una maceria, anche la cattedrale più antica di Germania. Selvaggi, primitivi, Naturvoelker! Suor Maria Costanza lo ascoltava dandogli ragione con tutto il suo corpo e non sembrava più la Castellana. Ci ha portato salame e fagiolini. Anche a don Pissavino, che non ne ha voluto, così la suora ha dato tutto a noi due, salame e fagiolini: – Stangenbohnen, was? – dice allegro l’alleato germanico davanti al piatto di fagiolini all’olio d’oliva. Poi suor Maria Costanza ci ha portato una bottiglia di Barolo. Don Pissavino si è dichiarato astemio. – Ciucche tristi di guerra, – mi dice dopo cena don Pissavino. Ero brillo e loquace: – Il capitano Berger dice che i tedeschi amano gli italiani. – Sì, ma non ci stimano. E nemmeno si fidano. – E accenna a suor Maria Costanza, in estasi per i complimenti dell’alleato germanico. – E la sventurata rispose, – dice don Pissavino lasciando il sommo Dante per quel baciapile di Manzoni, ma dicendo di lei perché in-
tenda io, e torna a Dante per essere più chiaro: – Sai che pensavo guardandoti mangiare il salame col tedesco? Che con Dante si può dire tutto: E in se medesmo si volgea co’ denti. Capisci? Mangiavi te stesso. Lo dice il Poeta. Non sarà spiritoso, però è vero. – Che cosa? – Che sei un salame, Efisio Brau.
– Sì, tempi di paura, – mi dice passeggiando sugli spalti il capitano Berger: – Ma anche di coraggio e sacrificio. – E mi offre una sigaretta. L’accetto. La prima vera sigaretta tutta intera in vita mia. Riesco a fumarla tutta, senza mandare il fumo nei polmoni, solo un po’ di tosse e qualche batticuore, mentre lui mi spiega cose che so già, dette e ridette qui dal nostro don Ranieri e da ogni voce della mia radio a galena: che il fascismo oggi rinasce in Norditalia rifacendosi alle origini, coi diciotto punti del congresso di Verona. Di nuovo adesso in Berger c’è solo il suo modo di dire il nome di Veroonaa. E poi la nazionalizzazione delle fabbriche, l’espropriazione delle terre incolte, gli utili agli operai, la civiltà europea solidaristica contro le demoplutocrazie filogiudaiche… – Già, quelle dei cinque pasti al giorno, – mi viene da dire, come alla radio Mario Apelius, come don Ranieri. E via coi grandi temi, che l’uomo è lupo all’uomo, e anche cane e gatto, e la guerra è levatrice della storia, anche di questa nostra storia: – Ma noi, lo sai tu giovanotto cosa siamo noi, cosa dobbiamo essere? – Noi? Io e voi e don Pissavino e le due suore? – Leggi qui. Cosa c’è scritto? Gott mit uns, c’è scritto qui sulla mia fibbia della cinta: Dio con noi. Non con le suore e con me e con don Pissavino, che non l’abbiamo scritto su una fibbia così bella grossa?
tenda io, e torna a Dante per essere più chiaro: – Sai che pensavo guardandoti mangiare il salame col tedesco? Che con Dante si può dire tutto: E in se medesmo si volgea co’ denti. Capisci? Mangiavi te stesso. Lo dice il Poeta. Non sarà spiritoso, però è vero. – Che cosa? – Che sei un salame, Efisio Brau.
– Sì, tempi di paura, – mi dice passeggiando sugli spalti il capitano Berger: – Ma anche di coraggio e sacrificio. – E mi offre una sigaretta. L’accetto. La prima vera sigaretta tutta intera in vita mia. Riesco a fumarla tutta, senza mandare il fumo nei polmoni, solo un po’ di tosse e qualche batticuore, mentre lui mi spiega cose che so già, dette e ridette qui dal nostro don Ranieri e da ogni voce della mia radio a galena: che il fascismo oggi rinasce in Norditalia rifacendosi alle origini, coi diciotto punti del congresso di Verona. Di nuovo adesso in Berger c’è solo il suo modo di dire il nome di Veroonaa. E poi la nazionalizzazione delle fabbriche, l’espropriazione delle terre incolte, gli utili agli operai, la civiltà europea solidaristica contro le demoplutocrazie filogiudaiche… – Già, quelle dei cinque pasti al giorno, – mi viene da dire, come alla radio Mario Apelius, come don Ranieri. E via coi grandi temi, che l’uomo è lupo all’uomo, e anche cane e gatto, e la guerra è levatrice della storia, anche di questa nostra storia: – Ma noi, lo sai tu giovanotto cosa siamo noi, cosa dobbiamo essere? – Noi? Io e voi e don Pissavino e le due suore? – Leggi qui. Cosa c’è scritto? Gott mit uns, c’è scritto qui sulla mia fibbia della cinta: Dio con noi. Non con le suore e con me e con don Pissavino, che non l’abbiamo scritto su una fibbia così bella grossa?
Ma non gliel’ho detto, anche perché ho notato l’assenza del gracidio notturno delle rane del fossato. Lui ha fatto uno scatto in avanti, alla parete col quadro di Gerusalemme assediata dai crociati, Goffredo di Buglione sul destriero scalpitante. Berger se lo guarda bene molleggiandosi sui tacchi, mani sul sedere. Poi si volta serio: – Sì, noi siamo i crociati del ventesimo secolo. E se noi perdiamo la guerra, chi fermerà il comunismo ateo? – E la congiura demoplutogiudaica? – Genau. Giusto. Tu capisci. – Be’, l’ho già sentito dire. Però… – Però… schiess doch, dimmi! – Be’, lo dicevate anche voi, qui adesso c’è paura. – Naturale. Siamo in guerra. E in guerra c’è paura. Ma non solo in guerra. Le paure cambiano, la paura resta. – Qui però tutti hanno paura anche dei coraggiosi crociati del ventesimo secolo. L’alleato germanico ride con furbizia: – Ma in tempi di paura, meglio stare dalla parte di chi fa paura, sì? – Anche quell’aereo, prima, ci ha fatto paura, no? In cielo c’era solo una grande luna piena, di quelle che ridimensionano i guai di questo mondo. Il capitano Berger me la mostrava come fosse sua, la luna, finché non ha guardato l’orologio al polso, ci ha battuto su l’indice due volte e mi ha ordinato: – Pensaci, giovanotto. La notte porta consiglio. *** – Tu parli franco. Anche io devo essere franco con te, giovane Brau.
Il capitano Berger mi sta salutando. I suoi grigi armigeri sono venuti a prenderlo col nuovo sole, arcigni, rumorosi di due side-car in fila per uno. Berger mi rispiega che loro delle Waffen Schutzstaffeln (e mostra le SS alle mostrine) stanno recrutando giovani italiani, fedeli alla patria e all’alleato germanico: – Il nemico è forte, – mi dice sugli spalti del castello tra due merli ghibellini: – Il nemico è ricco. E ha più mezzi e armi, e uomini. – E in Alta Italia, dice, ha ribelli e banditi dalla sua parte, badogliani, comunisti. Anche da queste parti fino a tre mesi fa c’era una sedicente Repubblica Partigiana dell’Alto Monferrato, figurarsi! – Ma pacta sunt servanda. Non possiamo sbagliare. Wie alt bist Du, giovanotto, quanti anni hai? – Diciassette e mezzo. – Di nuovo le parole mi uscivano da sole. Avevo sedici anni e tre mesi. – Bene. E tu sei del Sud, sì? – Sardo, di Sardegna. – Ausgezeichnet, benissimo! Sei uomo ormai, e la guerra sta all’uomo come la maternità alla donna. Da qualunque madre, le Waffen Schutzstaffeln nascono col Drang nach Sueden, e dopo l’inverno sfonderemo a Sud, verso il mare e il sole. Il Drang nach Sueden io ce l’ho, ce l’ho eccome io la spinta verso Sud. Eravamo davanti alla porta della cappella del castello. Il capitano Berger ha guardato l’orologio al polso con i suoi due colpetti sopra con l’indice teso, si è levato il berretto e ha fatto una specie di riverenza, molto militare ed elegante. Si rimette il berretto e mi fa: – Dice il duce, meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora. Pensaci. Io torno fra tre giorni, domenica.
Ma non gliel’ho detto, anche perché ho notato l’assenza del gracidio notturno delle rane del fossato. Lui ha fatto uno scatto in avanti, alla parete col quadro di Gerusalemme assediata dai crociati, Goffredo di Buglione sul destriero scalpitante. Berger se lo guarda bene molleggiandosi sui tacchi, mani sul sedere. Poi si volta serio: – Sì, noi siamo i crociati del ventesimo secolo. E se noi perdiamo la guerra, chi fermerà il comunismo ateo? – E la congiura demoplutogiudaica? – Genau. Giusto. Tu capisci. – Be’, l’ho già sentito dire. Però… – Però… schiess doch, dimmi! – Be’, lo dicevate anche voi, qui adesso c’è paura. – Naturale. Siamo in guerra. E in guerra c’è paura. Ma non solo in guerra. Le paure cambiano, la paura resta. – Qui però tutti hanno paura anche dei coraggiosi crociati del ventesimo secolo. L’alleato germanico ride con furbizia: – Ma in tempi di paura, meglio stare dalla parte di chi fa paura, sì? – Anche quell’aereo, prima, ci ha fatto paura, no? In cielo c’era solo una grande luna piena, di quelle che ridimensionano i guai di questo mondo. Il capitano Berger me la mostrava come fosse sua, la luna, finché non ha guardato l’orologio al polso, ci ha battuto su l’indice due volte e mi ha ordinato: – Pensaci, giovanotto. La notte porta consiglio. *** – Tu parli franco. Anche io devo essere franco con te, giovane Brau.
Il capitano Berger mi sta salutando. I suoi grigi armigeri sono venuti a prenderlo col nuovo sole, arcigni, rumorosi di due side-car in fila per uno. Berger mi rispiega che loro delle Waffen Schutzstaffeln (e mostra le SS alle mostrine) stanno recrutando giovani italiani, fedeli alla patria e all’alleato germanico: – Il nemico è forte, – mi dice sugli spalti del castello tra due merli ghibellini: – Il nemico è ricco. E ha più mezzi e armi, e uomini. – E in Alta Italia, dice, ha ribelli e banditi dalla sua parte, badogliani, comunisti. Anche da queste parti fino a tre mesi fa c’era una sedicente Repubblica Partigiana dell’Alto Monferrato, figurarsi! – Ma pacta sunt servanda. Non possiamo sbagliare. Wie alt bist Du, giovanotto, quanti anni hai? – Diciassette e mezzo. – Di nuovo le parole mi uscivano da sole. Avevo sedici anni e tre mesi. – Bene. E tu sei del Sud, sì? – Sardo, di Sardegna. – Ausgezeichnet, benissimo! Sei uomo ormai, e la guerra sta all’uomo come la maternità alla donna. Da qualunque madre, le Waffen Schutzstaffeln nascono col Drang nach Sueden, e dopo l’inverno sfonderemo a Sud, verso il mare e il sole. Il Drang nach Sueden io ce l’ho, ce l’ho eccome io la spinta verso Sud. Eravamo davanti alla porta della cappella del castello. Il capitano Berger ha guardato l’orologio al polso con i suoi due colpetti sopra con l’indice teso, si è levato il berretto e ha fatto una specie di riverenza, molto militare ed elegante. Si rimette il berretto e mi fa: – Dice il duce, meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora. Pensaci. Io torno fra tre giorni, domenica.
Quel giorno ho continuato a fare l’Abate Faria, e soprattutto Alì Babà. Ma avevo un grande vuoto nello stomaco. Lo stesso il giorno dopo. E tanto va la gatta al lardo che suor Maria Costanza mi pesca nell’antro di Cuccagna: – Eccolo qua il topo a due zampe! – Ero seduto mani in tasca su un sacco di castagne secche, in meditazione su chi ero e sul Drang nach Sueden. Mi sono sentito degradato, da gatto a topo. Le dava man forte l’altra suora mezzo scimunita, per frugarmi, e ne risulta mezzo pacchetto di cerini e una stearica. La Castellana non poteva perquisirmi anche lo stomaco. – Che ci fai coi fiammiferi? – chiedeva Suor Costanza. – Gioca al Buondio che fa luce nelle tenebre, – diceva don Pissavino: – Ma sì, sorella, chi non ha bisogno di luce in tempi come questi? La Castellana ha minacciato: – Dico tutto al signor Prefetto. – La spiona, perché il signor Prefetto era don Ranieri, mica un don Pissavino qualsiasi, imboscato a Frinco ad allevare conigli e a confessare le comari a Callianetto. Don Ranieri, il capitano Ranieri, metteva tutti quanti sull’attenti e unò duè, scat-ta-re: aveva te-
mano pacchetti che ogni tanto odorava tutta in estasi, lei prima sempre zitta e indaffarata, orchestrava il buonumore con le pentole e cantava: I soldai dla Svizzera A ’l magna patate e caffè Un due tre… Poi viene fuori che il capitano Berger aveva fatto recapitare da un motociclista pacchi e pacchetti di cioccolata e caffè vero, zucchero bianco e latte condensato.
nuto testa a Stalin, lui, sul Don. Si presentava a tutti sempre rigido così: – Piacere, capitano Ranieri, cappellano militare, reduce di Russia contro i senzadio. – Secondo don Pissavino mai nessuno gli ha risposto che il piacere era suo. Don Ranieri era atteso al castello di Frinco la mattina dopo, con altri sfollati da Asti, due volte bombardata, preti, suore, probandi, coadiutori e matti dell’ospizio. Le cavallette. Erano già arrivate le avanguardie in bicicletta fino su al castello. In cucina per la sbobba quel mezzogiorno ho trovato la suora in seconda con i baffi neri che ballava con in
Quel giorno ho continuato a fare l’Abate Faria, e soprattutto Alì Babà. Ma avevo un grande vuoto nello stomaco. Lo stesso il giorno dopo. E tanto va la gatta al lardo che suor Maria Costanza mi pesca nell’antro di Cuccagna: – Eccolo qua il topo a due zampe! – Ero seduto mani in tasca su un sacco di castagne secche, in meditazione su chi ero e sul Drang nach Sueden. Mi sono sentito degradato, da gatto a topo. Le dava man forte l’altra suora mezzo scimunita, per frugarmi, e ne risulta mezzo pacchetto di cerini e una stearica. La Castellana non poteva perquisirmi anche lo stomaco. – Che ci fai coi fiammiferi? – chiedeva Suor Costanza. – Gioca al Buondio che fa luce nelle tenebre, – diceva don Pissavino: – Ma sì, sorella, chi non ha bisogno di luce in tempi come questi? La Castellana ha minacciato: – Dico tutto al signor Prefetto. – La spiona, perché il signor Prefetto era don Ranieri, mica un don Pissavino qualsiasi, imboscato a Frinco ad allevare conigli e a confessare le comari a Callianetto. Don Ranieri, il capitano Ranieri, metteva tutti quanti sull’attenti e unò duè, scat-ta-re: aveva te-
mano pacchetti che ogni tanto odorava tutta in estasi, lei prima sempre zitta e indaffarata, orchestrava il buonumore con le pentole e cantava: I soldai dla Svizzera A ’l magna patate e caffè Un due tre… Poi viene fuori che il capitano Berger aveva fatto recapitare da un motociclista pacchi e pacchetti di cioccolata e caffè vero, zucchero bianco e latte condensato.
nuto testa a Stalin, lui, sul Don. Si presentava a tutti sempre rigido così: – Piacere, capitano Ranieri, cappellano militare, reduce di Russia contro i senzadio. – Secondo don Pissavino mai nessuno gli ha risposto che il piacere era suo. Don Ranieri era atteso al castello di Frinco la mattina dopo, con altri sfollati da Asti, due volte bombardata, preti, suore, probandi, coadiutori e matti dell’ospizio. Le cavallette. Erano già arrivate le avanguardie in bicicletta fino su al castello. In cucina per la sbobba quel mezzogiorno ho trovato la suora in seconda con i baffi neri che ballava con in
Uno dice, il destino. Per me c’è stato. Una notte tardi sono uscito dal castello. Me ne sono andato. La testa fuori dal sacco, mi dicevo, ma senza un luogo dove andare, i perché mi scoppiavano in testa più forti delle bombe demoplutogiudaiche. Che cosa sto facendo? Furioso contro non so cosa, via, fuori le mura del castello, via dal medioevo, proprio mentre tutti guardavano dagli spalti il terzo bombardamento della città di Asti, e don Pissavino per la prima volta incapace di citare Dante, per dire questo orrore nuovo giù dal cielo: – Dante, Inferno, canto trentaquattresimo, – che non esiste. Dopo il primo attacco aereo, da Asti sono fuggiti a rottadicollo i capoccioni con mezzi privati di trasporto, che la benzina loro qui ce l’hanno ancora, loro. Chi è rimasto in città si rintana: – Dovunque come a Sodoma e Gomorra, – ha predicato don Pissavino alle donne di Callianetto, chiuse negli scialli anche d’agosto. Ho preso il largo dalla parte del fossato, forse in cerca del canto delle rane ancora mute dal giorno della bomba sulla Opel del capitano Berger. E sono andato oltre: Tecum fugis, mi è parso di sentire don Pissavino dagli spalti. Adesso al buio inciampavo su ogni asperità del suolo nella grande notte estiva quando i grilli, come se niente fosse, hanno preso il posto delle bombe.
Uno dice, il destino. Per me c’è stato. Una notte tardi sono uscito dal castello. Me ne sono andato. La testa fuori dal sacco, mi dicevo, ma senza un luogo dove andare, i perché mi scoppiavano in testa più forti delle bombe demoplutogiudaiche. Che cosa sto facendo? Furioso contro non so cosa, via, fuori le mura del castello, via dal medioevo, proprio mentre tutti guardavano dagli spalti il terzo bombardamento della città di Asti, e don Pissavino per la prima volta incapace di citare Dante, per dire questo orrore nuovo giù dal cielo: – Dante, Inferno, canto trentaquattresimo, – che non esiste. Dopo il primo attacco aereo, da Asti sono fuggiti a rottadicollo i capoccioni con mezzi privati di trasporto, che la benzina loro qui ce l’hanno ancora, loro. Chi è rimasto in città si rintana: – Dovunque come a Sodoma e Gomorra, – ha predicato don Pissavino alle donne di Callianetto, chiuse negli scialli anche d’agosto. Ho preso il largo dalla parte del fossato, forse in cerca del canto delle rane ancora mute dal giorno della bomba sulla Opel del capitano Berger. E sono andato oltre: Tecum fugis, mi è parso di sentire don Pissavino dagli spalti. Adesso al buio inciampavo su ogni asperità del suolo nella grande notte estiva quando i grilli, come se niente fosse, hanno preso il posto delle bombe.
Ho dormito in un campo di granturco, finito il sentiero tra i coltivi. Una luna da leggerci il giornale. Se pure dormivo, non dormivo del tutto, col pensiero a che cosa mi stava succedendo, anche poi sognando di tornei cavallereschi medievali alla Ivanhoe, e io disarcionato, sempre, come d’inverno con la slitta lungo la discesa del portale del castello, e poi lasciato nudo nella polvere, sotto il sole e la luna, illuso e disilluso di illusioni necessarie, perché il suolo mi è franato sotto i piedi, stavo sospeso sopra un vuoto. Poi dormendo sul serio ho sognato il mio sogno di don Pissavino magro nei suoi paramenti che ripete: – Troppo ce l’hai con la tua stessa giovinezza, – mentre rotolo giù per le scale del castello sulla passatoia rossa che suor Maria Costanza ha sollevato all’altro capo in cima per tirarla su dopo che ci è passato sopra l’impettito capitano Berger, mentre don Ranieri prete bellico mi sgrida: – Tu fai tutto senza riflettere, tu scriteriato, per te ci vuole disciplina militare! Mi sveglia il primo sole, o la pastorella con un quadrifoglio carezzato sotto il naso? E invece è la lingua di un cane sulla faccia. Un randagio, uno come me, ma timido amico di tutti, senza stare lì tanto ad annusarti scarpe e pantaloni. Randagi di guerra. Ho mangiato la meliga pensando alla dispensa sotterranea del castello. E rimpiangendo la sciacquetta calda di cicoria e latte in polvere di suor Maria Costanza nostra Castellana. Le cipolle d’Egitto. O forse l’aglio, quello della sòma d’ài. Ero diretto a Sud, ci avevo il Drang nach Sueden. E proprio lui, il capitano Berger quella domenica mattina si è fermato al mio fianco con la Opel nera scoperchiata lungo lo stradone tra Castellalfero e Frinco:
– Ti stavo cercando, ragazzo. Ti stanno cercando anche quelli del castello. Ma io ho questo qui, l’occhio di lince, meglio dello Spirito Santo, – e mi ha mostrato il binocolo che gli pendeva al petto giù a tracolla, più minaccioso della sua pistola. E io, scappa via per i campi, mi dicevo, è anche per non fare i conti col tedesco che sono scappato ieri notte, me ne rendevo conto solo adesso. Invece stavo fermo, pensando a Breus che incontra il cavalier crociato, a Parsifal e a tutti quelli là, e a mia nonna che diceva che lo studio confonde la testa. Confuso, ero confuso. Il capitano Berger ha fatto un gesto di scusa al cane che mi stava dietro e mi ha fatto accomodare al suo fianco, sul sedile di dietro della gran decapotabile, anche lei in divisa: – Lo sapevo, ragazzo, ci contavo, – dice battendomi la mano guantata di nero sulla gamba sinistra, con la faccia del gatto che ha mangiato il topo: – Tu sei di buona razza. – Come quell’altro capitano al Tamburino Sardo. – Los, Hans, los nach San Damiano! – dice calmo all’autista che riparte. Il cane ci è venuto dietro a lungo, al trotto e al galoppo, sempre più sghembo, e io lo invidiavo: ma che ci faccio io su questa vettura troppo militare, troppo germanica? Che modo è questo di scappare a una denuncia di furto di un pacchetto di cerini e una stearica al Prefetto dei probandi reduce di Russia contro i senzadio? Riesco a chiedere a Berger: – Dove andiamo? – Alla crociata, – dice Berger-Parsifal. Cerco di vedermici, crociato: – E dov’è la nostra Gerusalemme? – Gerusalemme è qui, siamo noi, la civiltà occidentale, – e con gli occhi acquamarina ma di lince guarda al
Ho dormito in un campo di granturco, finito il sentiero tra i coltivi. Una luna da leggerci il giornale. Se pure dormivo, non dormivo del tutto, col pensiero a che cosa mi stava succedendo, anche poi sognando di tornei cavallereschi medievali alla Ivanhoe, e io disarcionato, sempre, come d’inverno con la slitta lungo la discesa del portale del castello, e poi lasciato nudo nella polvere, sotto il sole e la luna, illuso e disilluso di illusioni necessarie, perché il suolo mi è franato sotto i piedi, stavo sospeso sopra un vuoto. Poi dormendo sul serio ho sognato il mio sogno di don Pissavino magro nei suoi paramenti che ripete: – Troppo ce l’hai con la tua stessa giovinezza, – mentre rotolo giù per le scale del castello sulla passatoia rossa che suor Maria Costanza ha sollevato all’altro capo in cima per tirarla su dopo che ci è passato sopra l’impettito capitano Berger, mentre don Ranieri prete bellico mi sgrida: – Tu fai tutto senza riflettere, tu scriteriato, per te ci vuole disciplina militare! Mi sveglia il primo sole, o la pastorella con un quadrifoglio carezzato sotto il naso? E invece è la lingua di un cane sulla faccia. Un randagio, uno come me, ma timido amico di tutti, senza stare lì tanto ad annusarti scarpe e pantaloni. Randagi di guerra. Ho mangiato la meliga pensando alla dispensa sotterranea del castello. E rimpiangendo la sciacquetta calda di cicoria e latte in polvere di suor Maria Costanza nostra Castellana. Le cipolle d’Egitto. O forse l’aglio, quello della sòma d’ài. Ero diretto a Sud, ci avevo il Drang nach Sueden. E proprio lui, il capitano Berger quella domenica mattina si è fermato al mio fianco con la Opel nera scoperchiata lungo lo stradone tra Castellalfero e Frinco:
– Ti stavo cercando, ragazzo. Ti stanno cercando anche quelli del castello. Ma io ho questo qui, l’occhio di lince, meglio dello Spirito Santo, – e mi ha mostrato il binocolo che gli pendeva al petto giù a tracolla, più minaccioso della sua pistola. E io, scappa via per i campi, mi dicevo, è anche per non fare i conti col tedesco che sono scappato ieri notte, me ne rendevo conto solo adesso. Invece stavo fermo, pensando a Breus che incontra il cavalier crociato, a Parsifal e a tutti quelli là, e a mia nonna che diceva che lo studio confonde la testa. Confuso, ero confuso. Il capitano Berger ha fatto un gesto di scusa al cane che mi stava dietro e mi ha fatto accomodare al suo fianco, sul sedile di dietro della gran decapotabile, anche lei in divisa: – Lo sapevo, ragazzo, ci contavo, – dice battendomi la mano guantata di nero sulla gamba sinistra, con la faccia del gatto che ha mangiato il topo: – Tu sei di buona razza. – Come quell’altro capitano al Tamburino Sardo. – Los, Hans, los nach San Damiano! – dice calmo all’autista che riparte. Il cane ci è venuto dietro a lungo, al trotto e al galoppo, sempre più sghembo, e io lo invidiavo: ma che ci faccio io su questa vettura troppo militare, troppo germanica? Che modo è questo di scappare a una denuncia di furto di un pacchetto di cerini e una stearica al Prefetto dei probandi reduce di Russia contro i senzadio? Riesco a chiedere a Berger: – Dove andiamo? – Alla crociata, – dice Berger-Parsifal. Cerco di vedermici, crociato: – E dov’è la nostra Gerusalemme? – Gerusalemme è qui, siamo noi, la civiltà occidentale, – e con gli occhi acquamarina ma di lince guarda al
binocolo le colline che a trecentosessanta gradi fanno l’orizzonte ondulato di viti di uve nere. Sulle colline un po’ più in là don Ranieri in testa alla masnada di sfollati lenti e carichi di tutto, come lumache, don Ranieri lungo nero e sbracciato dava gli ordini per fare strada all’alleato germanico. – È la benzina che fa la guerra, – dice il capitano Berger, e manda sorrisi appuntiti di saluto a destra e a manca ai poveri pedoni spaventati. Cerco di rimpicciolirmi in basso sul sedile di quel catafalco tra due file sgranate di poveri sudati con le loro masserizie, teste basse, qualche cappello alzato, e il capitano Berger mi ficca il suo berretto in testa fino agli occhi, e poi anche il binocolo sul petto, cooosì, wunderbar! I due capitani, Berger e don Ranieri, si fanno un elaborato saluto militare. – Sia lodato Gesù Cristo, – saluta una suorina. Vorrei poter sentire la voce di don Pissavino che mi dice Non ti curar di lor ma guarda e passa, ma quella voce mi ripete altro in fondo alla coscienza, mentre passo in auto nera tra due colonne di sfollati stanchi, sudati, certamente affamati quanto me che mi guardo così mascherato nel retrovisore oltre la nuca dell’autista Hans. Ho voglia di morire, mentre faccio il mio ingresso nel paese di Gianduia col berretto crucco, il binocolo crucco dentro un’auto crucca. Alle prime case di Callianetto il capitano Berger mi ha tolto il suo berretto e se l’è messo in testa lui per bene, calmo. Poi ha sfilato la Luger dal fianco e l’ha posata adagio sul sedile, tra me e lui, ma più vicina a lui, la mano sopra. Mai vista una pistola da così vicino. Lui dice: – Guarda il rispetto che ti porta la gente quando sei armato e loro no.
Beccato, reclutato, scovato, raccattato. Chiaro. Adesso, non allora. Qui dopo mesi di caccia ai ribelli senza onore fedeltà coraggio. A me la Legione! Piombo ai traditori, onore a chi combatte. Le donne non ci vogliono più bene? A chi vogliono bene adesso le donne in Alta Italia? A quelli del tutti a casa e dell’impari lotta, a quelli delle feste romane all’occupante che bombarda le città del Nord? A chi, a chi, a chi? A Ricu Gross? Mi risveglio gelato. Freddo cane sul treno da Canelli ad Asti. Nello scompartimento solo un altro passeggero, un contadino nel mantello nero, raccolto in se stesso contro tutti i guai. Ricu Gross. L’altra sera Capo Franco Wolf prima a Ricu Gross dava di piatto sulla schiena coram populo, poi pacche sulle spalle in camera caritatis. E la sorella e tutta la commedia a Cassinasco. Devo parlarne con Anselmo Frett, mi sono detto, Anselmone ferito ad una gamba come Garibaldi, Garibaldi che adesso se lo sono preso loro, i partigiani rossi, camicia rossa e tutto. Il maggiore Berger diceva che a Torino l’hanno anche scritto sotto il suo monumento, che Garibaldi è loro. Il treno rallenta. Siamo già ad Asti? Quasi, siamo a Portacomaro. Che razza di giro abbiamo fatto da Canelli? – Percorso di guerra, – dice il paesano mantellato. Mi fumo una Giubek, poi un’altra, mischio fumo e
binocolo le colline che a trecentosessanta gradi fanno l’orizzonte ondulato di viti di uve nere. Sulle colline un po’ più in là don Ranieri in testa alla masnada di sfollati lenti e carichi di tutto, come lumache, don Ranieri lungo nero e sbracciato dava gli ordini per fare strada all’alleato germanico. – È la benzina che fa la guerra, – dice il capitano Berger, e manda sorrisi appuntiti di saluto a destra e a manca ai poveri pedoni spaventati. Cerco di rimpicciolirmi in basso sul sedile di quel catafalco tra due file sgranate di poveri sudati con le loro masserizie, teste basse, qualche cappello alzato, e il capitano Berger mi ficca il suo berretto in testa fino agli occhi, e poi anche il binocolo sul petto, cooosì, wunderbar! I due capitani, Berger e don Ranieri, si fanno un elaborato saluto militare. – Sia lodato Gesù Cristo, – saluta una suorina. Vorrei poter sentire la voce di don Pissavino che mi dice Non ti curar di lor ma guarda e passa, ma quella voce mi ripete altro in fondo alla coscienza, mentre passo in auto nera tra due colonne di sfollati stanchi, sudati, certamente affamati quanto me che mi guardo così mascherato nel retrovisore oltre la nuca dell’autista Hans. Ho voglia di morire, mentre faccio il mio ingresso nel paese di Gianduia col berretto crucco, il binocolo crucco dentro un’auto crucca. Alle prime case di Callianetto il capitano Berger mi ha tolto il suo berretto e se l’è messo in testa lui per bene, calmo. Poi ha sfilato la Luger dal fianco e l’ha posata adagio sul sedile, tra me e lui, ma più vicina a lui, la mano sopra. Mai vista una pistola da così vicino. Lui dice: – Guarda il rispetto che ti porta la gente quando sei armato e loro no.
Beccato, reclutato, scovato, raccattato. Chiaro. Adesso, non allora. Qui dopo mesi di caccia ai ribelli senza onore fedeltà coraggio. A me la Legione! Piombo ai traditori, onore a chi combatte. Le donne non ci vogliono più bene? A chi vogliono bene adesso le donne in Alta Italia? A quelli del tutti a casa e dell’impari lotta, a quelli delle feste romane all’occupante che bombarda le città del Nord? A chi, a chi, a chi? A Ricu Gross? Mi risveglio gelato. Freddo cane sul treno da Canelli ad Asti. Nello scompartimento solo un altro passeggero, un contadino nel mantello nero, raccolto in se stesso contro tutti i guai. Ricu Gross. L’altra sera Capo Franco Wolf prima a Ricu Gross dava di piatto sulla schiena coram populo, poi pacche sulle spalle in camera caritatis. E la sorella e tutta la commedia a Cassinasco. Devo parlarne con Anselmo Frett, mi sono detto, Anselmone ferito ad una gamba come Garibaldi, Garibaldi che adesso se lo sono preso loro, i partigiani rossi, camicia rossa e tutto. Il maggiore Berger diceva che a Torino l’hanno anche scritto sotto il suo monumento, che Garibaldi è loro. Il treno rallenta. Siamo già ad Asti? Quasi, siamo a Portacomaro. Che razza di giro abbiamo fatto da Canelli? – Percorso di guerra, – dice il paesano mantellato. Mi fumo una Giubek, poi un’altra, mischio fumo e
nebbia, faccia alla feritoia del vagone con su scritto Cavalli sette Uomini quaranta. ABBASSO IL BOIA KESSERLING c’è scritto nero e cubitale sul muro della stazione. – Ach was, non Kesserling, lui non è Kesser-ling ma Kessel-ring, – gridava Berger: – Il cerchio della pentola, questo vuol dire Kesselring, sì? Il diavolo fa le pentole ma non i cerchi, parola di Anselmo Frett. Lo sto guardando in avvicinamento, l’edificio sgrammaticato e sovversivo, e lui mi salta in aria, si disintegra un istante prima di sentire il fragore dello schianto. Cristo, non c’è più la stazione di Portacomaro. Botta, stridio di freni. Tutti fuori dal treno. Fuori in fretta anch’io. Attacco a volo radente. Il più della gragnuola è sui binari. Rifugio, c’è un rifugio? Sì, laggiù. Ma dove? Mentre laggiù nell’angolo, in un orto di guerra un gran cavallo bianco, addosso i finimenti da carrozza, tutto fatto a pezzi da una sventagliata si dimena osceno. Giù niente contraerea. Vedo solo un aereo che attacca. Ancora qualche schianto e qualche raffica, e lui fa un’ampia curva in tutta calma, avendo chiarito la propria opinione e constatato che nessuno ha da ridire, adesso se ne sale lento sopra le colline: è un Thunderbolt americano. E gira gira l’elica romba il motor… e lì per aria nel silenzio azzurro sembra un aquilone, tenuto su dal vento. Una sirena asmatica suona cessato allarme. E subito le urla, le corse tutto attorno, e boia faus e boia crin, ’sassìn bastard e Diu faus! C’è gente che si butta sul cavallo massacrato, per farsi un po’ di carne: “Cavallo del governo” dicono, e la povera testa sollevata sembra ri-
dere con i dentoni gialli in fuori. Arriva anche una giovane donnina, con un fare deciso. Passandomi davanti mi sorride aperta e si pulisce il naso con il pugno. Dicono di bionde americane pilote di aerei da battaglia. Un fesso in divisa strilla e spara in aria con un’arma corta per allontanare la gente dal cavallo ucciso. Mai vista quella sua divisa grigia, impolverata, con fasce mollettiere. Troppe divise in questa strana guerra, e troppi fessi intorno, chi è fesso è fuori casa. Un paio di minuti di furore dal cielo, cinque chilometri a piedi. Addio treno, per quanto a percorso di guerra. Pioverà? Stanotte forse nevica. La città dell’Alfieri è laggiù, a portata di piedi, e rieccolo là il paesano mantellato nero che scarpina deciso verso la città, lungo la ferrovia. Gli vado dietro. Lo raggiungo. Non ci diciamo una parola, però marciamo al passo, affiancati. Fuori nella campagna dura e zitta lui si accende il mezzo toscano con la pietra focaia e io mi faccio accendere una Giubek. Sempre camminando. Mica facile. Sempre zitti. Agli Sbocchi Nord prendiamo vie diverse, con un accenno di saluto militare. Poi dopo lo sento sputare, e sembra mio nonno quando fuma il toscano a fuoco dentro.
nebbia, faccia alla feritoia del vagone con su scritto Cavalli sette Uomini quaranta. ABBASSO IL BOIA KESSERLING c’è scritto nero e cubitale sul muro della stazione. – Ach was, non Kesserling, lui non è Kesser-ling ma Kessel-ring, – gridava Berger: – Il cerchio della pentola, questo vuol dire Kesselring, sì? Il diavolo fa le pentole ma non i cerchi, parola di Anselmo Frett. Lo sto guardando in avvicinamento, l’edificio sgrammaticato e sovversivo, e lui mi salta in aria, si disintegra un istante prima di sentire il fragore dello schianto. Cristo, non c’è più la stazione di Portacomaro. Botta, stridio di freni. Tutti fuori dal treno. Fuori in fretta anch’io. Attacco a volo radente. Il più della gragnuola è sui binari. Rifugio, c’è un rifugio? Sì, laggiù. Ma dove? Mentre laggiù nell’angolo, in un orto di guerra un gran cavallo bianco, addosso i finimenti da carrozza, tutto fatto a pezzi da una sventagliata si dimena osceno. Giù niente contraerea. Vedo solo un aereo che attacca. Ancora qualche schianto e qualche raffica, e lui fa un’ampia curva in tutta calma, avendo chiarito la propria opinione e constatato che nessuno ha da ridire, adesso se ne sale lento sopra le colline: è un Thunderbolt americano. E gira gira l’elica romba il motor… e lì per aria nel silenzio azzurro sembra un aquilone, tenuto su dal vento. Una sirena asmatica suona cessato allarme. E subito le urla, le corse tutto attorno, e boia faus e boia crin, ’sassìn bastard e Diu faus! C’è gente che si butta sul cavallo massacrato, per farsi un po’ di carne: “Cavallo del governo” dicono, e la povera testa sollevata sembra ri-
dere con i dentoni gialli in fuori. Arriva anche una giovane donnina, con un fare deciso. Passandomi davanti mi sorride aperta e si pulisce il naso con il pugno. Dicono di bionde americane pilote di aerei da battaglia. Un fesso in divisa strilla e spara in aria con un’arma corta per allontanare la gente dal cavallo ucciso. Mai vista quella sua divisa grigia, impolverata, con fasce mollettiere. Troppe divise in questa strana guerra, e troppi fessi intorno, chi è fesso è fuori casa. Un paio di minuti di furore dal cielo, cinque chilometri a piedi. Addio treno, per quanto a percorso di guerra. Pioverà? Stanotte forse nevica. La città dell’Alfieri è laggiù, a portata di piedi, e rieccolo là il paesano mantellato nero che scarpina deciso verso la città, lungo la ferrovia. Gli vado dietro. Lo raggiungo. Non ci diciamo una parola, però marciamo al passo, affiancati. Fuori nella campagna dura e zitta lui si accende il mezzo toscano con la pietra focaia e io mi faccio accendere una Giubek. Sempre camminando. Mica facile. Sempre zitti. Agli Sbocchi Nord prendiamo vie diverse, con un accenno di saluto militare. Poi dopo lo sento sputare, e sembra mio nonno quando fuma il toscano a fuoco dentro.
– Die Fahne hoch! – canta rauco in pessimo tedesco Anselmo Frett quando mi vede: Su la bandiera! perché tiene la gamba in trazione, mezzo sdraiato e mezzo seduto, con una faccia anche più magra, il nasone in mezzo e gli occhi furbi. Gli chiedo come va. Lui fa spallucce. Mi guardo intorno nella stanza appartata a un solo letto: – Che lusso, legionario scelto Anselmo Frett. – Quando uno se lo può permettere. Mi tolgo il cappotto, lui mi fa cenno di poggiarlo sulla spalliera del letto. Mi siedo sul sedile di ferro laccato di bianco. Lo guardo a lungo zitto: – Sembri un incidente di sci al Mottarone sul giornale di anteguerra. – Uh caro Brau era così bella la neve al Mottarone, giù dal trampolino! – dice aristocratico, le erre mosce, e gli viene una tosse che fa pena. Lo lascio calmare. Dice: – Mi è andata meglio che a quell’altro, Cenzo Loewe abnegato. Abnegato. E rischia di nuovo di strozzarsi. L’abnegazione di Cenzo Loewe legionario che combatte contro gli Ossolani è da piangere e da ridere. Perché Cenzo Loewe si è abnegato, si è buttato nel fiume Toce per salvare un compagno e ci è annegato lui, e siccome Capo Franco Wolf al funerale ha parlato tanto di onore e gloria e abnegazione, Anselmo Frett ha detto che Cenzo Loewe si è abnegato. Gli chiedo: – Com’è che la chiamavano, Repubblica dell’Ossola?
– Die Fahne hoch! – canta rauco in pessimo tedesco Anselmo Frett quando mi vede: Su la bandiera! perché tiene la gamba in trazione, mezzo sdraiato e mezzo seduto, con una faccia anche più magra, il nasone in mezzo e gli occhi furbi. Gli chiedo come va. Lui fa spallucce. Mi guardo intorno nella stanza appartata a un solo letto: – Che lusso, legionario scelto Anselmo Frett. – Quando uno se lo può permettere. Mi tolgo il cappotto, lui mi fa cenno di poggiarlo sulla spalliera del letto. Mi siedo sul sedile di ferro laccato di bianco. Lo guardo a lungo zitto: – Sembri un incidente di sci al Mottarone sul giornale di anteguerra. – Uh caro Brau era così bella la neve al Mottarone, giù dal trampolino! – dice aristocratico, le erre mosce, e gli viene una tosse che fa pena. Lo lascio calmare. Dice: – Mi è andata meglio che a quell’altro, Cenzo Loewe abnegato. Abnegato. E rischia di nuovo di strozzarsi. L’abnegazione di Cenzo Loewe legionario che combatte contro gli Ossolani è da piangere e da ridere. Perché Cenzo Loewe si è abnegato, si è buttato nel fiume Toce per salvare un compagno e ci è annegato lui, e siccome Capo Franco Wolf al funerale ha parlato tanto di onore e gloria e abnegazione, Anselmo Frett ha detto che Cenzo Loewe si è abnegato. Gli chiedo: – Com’è che la chiamavano, Repubblica dell’Ossola?
– Della Val d’Ossola. A me è toccata l’ultima pallottola dell’ultimo sbandato dell’esercito partigiano della Repubblica della Val d’Ossola. Qui nella gamba destra. Gli do una Macedonia e faccio festa con un’altra anch’io. Fumiamo un po’ in silenzio. M’incanto a guardarlo, la sigaretta tra l’indice e il medio nella mano a coppa e il fumo tra le dita. Fumo anch’io. Fuori sulla spianata dell’ospedale, ordini secchi come fucilate. Passi di corsa. Nell’ospedale voci basse, lamenti lontani. – Dicono che poi l’hai fatto fuori, lo sbandato dell’Ossola. Anselmo Frett fa uscire dal naso un sospiro di fumo. Si guarda di lato, a lungo, poi fissa gli occhi vuoti sulla gamba in trazione: – Gli ho tolto le scarpe, dopo. Aveva le pezze ai piedi, come mio padre. Anselmo Frett fa tirate lunghe che il pomo d’Adamo gli va su e giù come una pallina da tennis di anteguerra. Conosco il suo sprofondare dentro di sé come in un pozzo: – Aveva il moschetto novantuno. Mi ha preso per un crucco. Lo sapesse mio padre… Sai che mi ha detto prima di sparargli a bruciapelo? – E si mette a guardare il soffitto. Il pomo d’Adamo gli va su e giù. – Forza crucco, spara. Andiamo un po’ a vedere cosa c’è dall’altra parte. Dài crucco, spara… Così diceva. Aveva gli occhi verdi grandi. E io stavo pensando, cos’è meglio per lui, che gli spara un tedesco o un italiano? Ma avevo già sparato. Fuori sul piazzale c’è uno sbattere di portiere di vetture che poi partono sgommando. – Eravamo messi così che… o io o lui. È caduto a terra, e io gli ho retto la testa a guanciale. Lui mi strige-
va ai polsi, come se qualcuno lo tirasse via, lui che prima aveva quella fretta a sfida, di andare a vedere cosa c’è dall’altra parte… io no. Nel corridoio si sentono rumori di gavette. Entra una suora alta che richiude bene e controlla la finestra, per l’oscuramento. È inverno, fa scuro già verso le quattro. E se ne va lasciando luce elettrica da poco, tremolante che pare perda fiato. – Hanno preso un verme, l’altro ieri notte, a Cassinasco. Adesso ce ne abbiamo cinque giù in studio. – Che verme? – Quello di Cassinasco, io lo conoscevo. Ci sono andato a vendemmiare da studente. Ieri Capo Franco Wolf l’ho visto mentre gli dava pacche sulle spalle a questo verme preso a Cassinasco. Prima gli dava piattonate sulla schiena. – Verme da andarci a pesca. – Credevano di essere soli, lui e Capo Franco Wolf. – Soli e in combutta, – dice Anselmo Frett grattandosi la gamba penzoloni. – E poi hanno fatto finta di ripassargli la sorella, a questo Ricu Gross: si chiama così, Enrico Grosso. Lui era sotto il letto. – Verme da amo, dico io. Anselmo prende la mira e manda uno sputo dritto nella sputacchiera. – E quando l’hanno portato lì da noi a Calamandrana gli hanno fatto un liscio e busso già sugli scalini della scuola. Aveva il viso in sangue. – Verme da esca, dico io. Anselmo Frett si mette a guardare dalla gamba al soffitto, dal soffitto alla gamba sollevata appesa all’argano sul letto: – Fumava sai, quel mio sbandato su della
– Della Val d’Ossola. A me è toccata l’ultima pallottola dell’ultimo sbandato dell’esercito partigiano della Repubblica della Val d’Ossola. Qui nella gamba destra. Gli do una Macedonia e faccio festa con un’altra anch’io. Fumiamo un po’ in silenzio. M’incanto a guardarlo, la sigaretta tra l’indice e il medio nella mano a coppa e il fumo tra le dita. Fumo anch’io. Fuori sulla spianata dell’ospedale, ordini secchi come fucilate. Passi di corsa. Nell’ospedale voci basse, lamenti lontani. – Dicono che poi l’hai fatto fuori, lo sbandato dell’Ossola. Anselmo Frett fa uscire dal naso un sospiro di fumo. Si guarda di lato, a lungo, poi fissa gli occhi vuoti sulla gamba in trazione: – Gli ho tolto le scarpe, dopo. Aveva le pezze ai piedi, come mio padre. Anselmo Frett fa tirate lunghe che il pomo d’Adamo gli va su e giù come una pallina da tennis di anteguerra. Conosco il suo sprofondare dentro di sé come in un pozzo: – Aveva il moschetto novantuno. Mi ha preso per un crucco. Lo sapesse mio padre… Sai che mi ha detto prima di sparargli a bruciapelo? – E si mette a guardare il soffitto. Il pomo d’Adamo gli va su e giù. – Forza crucco, spara. Andiamo un po’ a vedere cosa c’è dall’altra parte. Dài crucco, spara… Così diceva. Aveva gli occhi verdi grandi. E io stavo pensando, cos’è meglio per lui, che gli spara un tedesco o un italiano? Ma avevo già sparato. Fuori sul piazzale c’è uno sbattere di portiere di vetture che poi partono sgommando. – Eravamo messi così che… o io o lui. È caduto a terra, e io gli ho retto la testa a guanciale. Lui mi strige-
va ai polsi, come se qualcuno lo tirasse via, lui che prima aveva quella fretta a sfida, di andare a vedere cosa c’è dall’altra parte… io no. Nel corridoio si sentono rumori di gavette. Entra una suora alta che richiude bene e controlla la finestra, per l’oscuramento. È inverno, fa scuro già verso le quattro. E se ne va lasciando luce elettrica da poco, tremolante che pare perda fiato. – Hanno preso un verme, l’altro ieri notte, a Cassinasco. Adesso ce ne abbiamo cinque giù in studio. – Che verme? – Quello di Cassinasco, io lo conoscevo. Ci sono andato a vendemmiare da studente. Ieri Capo Franco Wolf l’ho visto mentre gli dava pacche sulle spalle a questo verme preso a Cassinasco. Prima gli dava piattonate sulla schiena. – Verme da andarci a pesca. – Credevano di essere soli, lui e Capo Franco Wolf. – Soli e in combutta, – dice Anselmo Frett grattandosi la gamba penzoloni. – E poi hanno fatto finta di ripassargli la sorella, a questo Ricu Gross: si chiama così, Enrico Grosso. Lui era sotto il letto. – Verme da amo, dico io. Anselmo prende la mira e manda uno sputo dritto nella sputacchiera. – E quando l’hanno portato lì da noi a Calamandrana gli hanno fatto un liscio e busso già sugli scalini della scuola. Aveva il viso in sangue. – Verme da esca, dico io. Anselmo Frett si mette a guardare dalla gamba al soffitto, dal soffitto alla gamba sollevata appesa all’argano sul letto: – Fumava sai, quel mio sbandato su della
Val d’Ossola, fumava dalla testa, da quel cervello caldo fuori dalla testa, al freddo. Fa una smorfia triste, sbuffa fuori il fumo e spegne la sigaretta con il braccio lungo fino a terra. Guarda in su fisso e mormora: – Che ci avranno in testa i ribelli? – Mah! Qualcosa di sicuro. Anche più di noi. – Che tieni in capa? Dici così a una donna al mio paese, se aspetti una risposta: tu che tieni in capa? – Mah, sapessi almeno quello che ci abbiamo noialtri nella testa. – Loro, secondo me per loro è come se fosse inverno quando per noi è estate, e viceversa, capisci? – Be’ sì, teste diverse. – Non possiamo capirli. – Eppure parliamo la stessa lingua, mangiamo pane e beviamo vino. La suora alta di prima si fa sulla porta e batte le mani: – Fine delle visite. – Questa mattina alla stazione di Portacomaro c’è stata un’incursione, un solo aereo nemico. E giù da noi a terra manco una scoreggia. – Lo so. Il grosso dello stormo ha bombardato Ovada. Ha colpito il comando tedesco dell’Armata Liguria. Feriti ne hanno portato pure qua. – Tengono il cielo. La terra, chi lo sa? Lui fa la voce del maggiore Berger: – Questi sono discorsi disfattisti, legionario Efis Brau! Stasera niente strudel. Disfattismo sarebbe anche dirgli chissà come rientro adesso al mio reparto, giù a Calamandrana, al freddo e al buio. Ma ecco un tale in pigiama, uno sui quaranta, fa come a casa sua, come seguendo una discussione appena interrotta con Anselmo Frett: – E dire
che la guerra è già finita in mezza Europa, e in più di mezza Italia. – Ci guarda a turno serio serio e se ne va. – È uno così, – dice Anselmo Frett, – le pensa bene e poi me le viene a dire. Arriva la sbobba su un carrello spinto da una suora più larga che alta. Io dico: – Il giorno che sbarco a Cagliari sai che faccio? Vado all’albergo Scala di Ferro, ordino aragosta, ne mangio quanto voglio, accendo una sigaretta, me la fumo a metà e la spiaccico nel piatto sui resti di aragosta. E poi di tutta questa guerra neanche più il racconto, nemmeno più il ricordo. – Che schifo! – Come che schifo? – La puzza di grasso bruciato di aragosta lì nel piatto. Quando ci salutiamo Anselmo Frett mi fa la raccomandazione: – Passa al corpo di guardia qui dell’ospedale, dài un’occhiata al mio Karabiner M col cannocchiale, nella rastrelliera. – Ci penso io, so come fare, – e mi metto il cappotto. – Quello è sacro, di quello mi fido. Con quello becchi su da Cassinasco un uomo giù a Calamandrana, o a Santo Stefano Belbo. Un colpo basta e avanza, garantito. Se l’è montato lui il Karabiner, con un cannocchiale di risulta. Ha le mani capaci Anselmo Frett. Sembrava appiccicato con lo sputo, gli ha salvato lo vita. – Stai attento all’amico, – mi fa, già sulla porta. Tiro su le spalle, non capisco. – Al verme da esca. Non mi fare il coglione. Nessuno può darmi del coglione con più autorevo-
Val d’Ossola, fumava dalla testa, da quel cervello caldo fuori dalla testa, al freddo. Fa una smorfia triste, sbuffa fuori il fumo e spegne la sigaretta con il braccio lungo fino a terra. Guarda in su fisso e mormora: – Che ci avranno in testa i ribelli? – Mah! Qualcosa di sicuro. Anche più di noi. – Che tieni in capa? Dici così a una donna al mio paese, se aspetti una risposta: tu che tieni in capa? – Mah, sapessi almeno quello che ci abbiamo noialtri nella testa. – Loro, secondo me per loro è come se fosse inverno quando per noi è estate, e viceversa, capisci? – Be’ sì, teste diverse. – Non possiamo capirli. – Eppure parliamo la stessa lingua, mangiamo pane e beviamo vino. La suora alta di prima si fa sulla porta e batte le mani: – Fine delle visite. – Questa mattina alla stazione di Portacomaro c’è stata un’incursione, un solo aereo nemico. E giù da noi a terra manco una scoreggia. – Lo so. Il grosso dello stormo ha bombardato Ovada. Ha colpito il comando tedesco dell’Armata Liguria. Feriti ne hanno portato pure qua. – Tengono il cielo. La terra, chi lo sa? Lui fa la voce del maggiore Berger: – Questi sono discorsi disfattisti, legionario Efis Brau! Stasera niente strudel. Disfattismo sarebbe anche dirgli chissà come rientro adesso al mio reparto, giù a Calamandrana, al freddo e al buio. Ma ecco un tale in pigiama, uno sui quaranta, fa come a casa sua, come seguendo una discussione appena interrotta con Anselmo Frett: – E dire
che la guerra è già finita in mezza Europa, e in più di mezza Italia. – Ci guarda a turno serio serio e se ne va. – È uno così, – dice Anselmo Frett, – le pensa bene e poi me le viene a dire. Arriva la sbobba su un carrello spinto da una suora più larga che alta. Io dico: – Il giorno che sbarco a Cagliari sai che faccio? Vado all’albergo Scala di Ferro, ordino aragosta, ne mangio quanto voglio, accendo una sigaretta, me la fumo a metà e la spiaccico nel piatto sui resti di aragosta. E poi di tutta questa guerra neanche più il racconto, nemmeno più il ricordo. – Che schifo! – Come che schifo? – La puzza di grasso bruciato di aragosta lì nel piatto. Quando ci salutiamo Anselmo Frett mi fa la raccomandazione: – Passa al corpo di guardia qui dell’ospedale, dài un’occhiata al mio Karabiner M col cannocchiale, nella rastrelliera. – Ci penso io, so come fare, – e mi metto il cappotto. – Quello è sacro, di quello mi fido. Con quello becchi su da Cassinasco un uomo giù a Calamandrana, o a Santo Stefano Belbo. Un colpo basta e avanza, garantito. Se l’è montato lui il Karabiner, con un cannocchiale di risulta. Ha le mani capaci Anselmo Frett. Sembrava appiccicato con lo sputo, gli ha salvato lo vita. – Stai attento all’amico, – mi fa, già sulla porta. Tiro su le spalle, non capisco. – Al verme da esca. Non mi fare il coglione. Nessuno può darmi del coglione con più autorevo-
lezza di Anselmo Frett. In corridoio prendo un panino da una cesta sul carrello. La suora mi guarda la divisa e dice un buon appetito lamentoso. E ci aggiunge dell’altro che non sento bene o non capisco, a parte un tudesc poco benevolo.
Perché sono finito alla Legione non lo so, perché ci rimanevo meno ancora, a parte che da quella trappola tu scappi solo a rischio della vita. Per rimanerci, un motivo è che c’era Anselmo Frett. Ci siamo conosciuti a Salurn-Salorno, dopo San Damiano d’Asti, Meda, Pontevico, il Casermone di Cremona e Palmanova. Sempre più a Nord. Presi da un fiume in piena, rapide e sprofondi, correnti e mulinelli. Strudel. Credevo che lo strudel fosse solo una cosa che si mangia su in Tirolo. Strudel vuol dire vortice, mulinello: ecco, presi da un vortice, presi da uno strudel, e via lontano fino al Centro Addestramento di Salurn-Salorno tra il Trentino e l’Alto Adige, sul confine del Reich, che poi non si sa più se è ancora Terzo Reich, e quanto è alleato della nostra vecchia Italia fatta in due, anche più di due, pare. Boh? Ma in capo a tre mesi, ranghi serrati attorno all’alzabandiera mattutino, dormendo ancora in piedi accanto ad Anselmo che rispondeva all’appello per me mentre il Wachtmesiter Siro Gans ci passava in rivista strillando bilingue, ci hanno dato nomi bilingui di battaglia e ci hanno armati cavalieri: – Cavalieri della buona causa, a difesa della vita e degli averi della gente onesta e per l’onore della Patria, l’Italia grande e bella, – ha detto al nostro giuramento un pezzo grosso dell’OKW, il capintesta generale Peter Hansen Tschimke. Anselmo Frett, tre anni più di me, è un lucano. A Salurn-Salorno per sei Giubek un giorno gli ho spiega-
lezza di Anselmo Frett. In corridoio prendo un panino da una cesta sul carrello. La suora mi guarda la divisa e dice un buon appetito lamentoso. E ci aggiunge dell’altro che non sento bene o non capisco, a parte un tudesc poco benevolo.
Perché sono finito alla Legione non lo so, perché ci rimanevo meno ancora, a parte che da quella trappola tu scappi solo a rischio della vita. Per rimanerci, un motivo è che c’era Anselmo Frett. Ci siamo conosciuti a Salurn-Salorno, dopo San Damiano d’Asti, Meda, Pontevico, il Casermone di Cremona e Palmanova. Sempre più a Nord. Presi da un fiume in piena, rapide e sprofondi, correnti e mulinelli. Strudel. Credevo che lo strudel fosse solo una cosa che si mangia su in Tirolo. Strudel vuol dire vortice, mulinello: ecco, presi da un vortice, presi da uno strudel, e via lontano fino al Centro Addestramento di Salurn-Salorno tra il Trentino e l’Alto Adige, sul confine del Reich, che poi non si sa più se è ancora Terzo Reich, e quanto è alleato della nostra vecchia Italia fatta in due, anche più di due, pare. Boh? Ma in capo a tre mesi, ranghi serrati attorno all’alzabandiera mattutino, dormendo ancora in piedi accanto ad Anselmo che rispondeva all’appello per me mentre il Wachtmesiter Siro Gans ci passava in rivista strillando bilingue, ci hanno dato nomi bilingui di battaglia e ci hanno armati cavalieri: – Cavalieri della buona causa, a difesa della vita e degli averi della gente onesta e per l’onore della Patria, l’Italia grande e bella, – ha detto al nostro giuramento un pezzo grosso dell’OKW, il capintesta generale Peter Hansen Tschimke. Anselmo Frett, tre anni più di me, è un lucano. A Salurn-Salorno per sei Giubek un giorno gli ho spiega-
to che Lucania vuol dire luogo boscoso, e che ci è nato il poeta Orazio Flacco, in quel di Venosa. Ci ho aggiunto gratis che Orazio è l’autore dell’inno a Roma, col sole che sorge libero e giocondo a domare i suoi cavalli sui sette colli e non vedrà mai alcuna cosa al mondo maggior di Roma. E chi sarebbe ’sto maggior Diroma? Lascia perdere, Anselmo Frett, e canta a squarciagola sulla Stretta di Salurn-Salorno l’Inno a Roma, l’inno con cui il maggiore Berger ogni tanto ci fa salutare il sole all’alba sopra boschi di alberi di natale. E la sera al casino, gratis, casino militare, militarisches Bordell. Quella volta eravamo al casino-militarisches Bordell. In attesa del nostro turno si parlava dei nostri rispettivi luoghi d’origine, lontani nel tempo e nello spazio. E appunto si è parlato del lucano Orazio. Poi Anselmo Frett mi spiegava le donne, che differenza c’è, e io confuso mi fisso su questa cosa che in fondo la differenza sta nel fatto che le donne sollevano le gonne e gli uomini abbassano i pantaloni. Sì ma nei tempi antichi non era così, dico io che non riesco mai ad ammettere le mie ignoranze, a Roma e nei dintorni donne e uomini erano vestiti più o meno uguali ai tempi di Orazio, tutti con vesti lunghe da sollevare, non gonne e pantaloni. Comunque, quella era la prima volta al casino per me. E siccome io secondo lui tenevo paura, Anselmo Frett mi ripeteva ridacchiando come si fa a tenere paura delle donne, che la differenza poi sta tutta quanta lì, gonne da sollevare e pantaloni da abbassare. E arriva il mio turno di scegliere e salirci insieme in camera. Con chi? Anselmo Frett mi aveva messo nell’alternativa: – Con una bruttina e mezzo scema o con una carina e tutta scema? – Con una che mi piace, no? – dico io, tanto più che
una lì mi sembrava un po’ la pastorella del prato grande del castello a Frinco, così tutta vestita più delle altre. O no? Era una di quelle parti mezzo crucche, ma salendo le scale canticchiava che Pippo Pippo non lo sa, ancheggiando bene. Per niente contenta che per me quella era la prima volta, si è lamentata che le ci voleva “eine ganze Stunde da, una ora intera lì”. Non c’eravamo da un minuto. Parlava doppio, come il maggiore Berger, crucco e taliano. Karin si chiamava: – E in taliano Carina? – Lei non ha apprezzato, troppo crucca. Carina era carina, chissà però se era scema o ci marciava. Un po’ cattiva sì, lo era, cattiva e di mala grazia. Io lì imbranato a cincischiare, lei mi sbraghetta e dice: – Fertig, pronto, sei cià pronto. – Ma se facevo tanto da cercare di farle una carezza, peggio. Aveva i segni del vaccino troppo grandi sul braccio sinistro. Ho cercato di fingere che fosse lei la pastorella, quella della mucca cieca Rosamunda a Frinco. Mentre le stavo sopra canticchiava Lili Marleen senza parole. Ad Anselmo Frett non l’ho mai detto, ma io da quella prima volta ho imparato che il casino o Bordell è un luogo che ci vai sperando chi sa cosa e te ne vai poi triste ma non sai per cosa, e che le donne non le devi coccolare, specie se bilingui, tanto meno baciare, non sulla bocca soprattutto.
to che Lucania vuol dire luogo boscoso, e che ci è nato il poeta Orazio Flacco, in quel di Venosa. Ci ho aggiunto gratis che Orazio è l’autore dell’inno a Roma, col sole che sorge libero e giocondo a domare i suoi cavalli sui sette colli e non vedrà mai alcuna cosa al mondo maggior di Roma. E chi sarebbe ’sto maggior Diroma? Lascia perdere, Anselmo Frett, e canta a squarciagola sulla Stretta di Salurn-Salorno l’Inno a Roma, l’inno con cui il maggiore Berger ogni tanto ci fa salutare il sole all’alba sopra boschi di alberi di natale. E la sera al casino, gratis, casino militare, militarisches Bordell. Quella volta eravamo al casino-militarisches Bordell. In attesa del nostro turno si parlava dei nostri rispettivi luoghi d’origine, lontani nel tempo e nello spazio. E appunto si è parlato del lucano Orazio. Poi Anselmo Frett mi spiegava le donne, che differenza c’è, e io confuso mi fisso su questa cosa che in fondo la differenza sta nel fatto che le donne sollevano le gonne e gli uomini abbassano i pantaloni. Sì ma nei tempi antichi non era così, dico io che non riesco mai ad ammettere le mie ignoranze, a Roma e nei dintorni donne e uomini erano vestiti più o meno uguali ai tempi di Orazio, tutti con vesti lunghe da sollevare, non gonne e pantaloni. Comunque, quella era la prima volta al casino per me. E siccome io secondo lui tenevo paura, Anselmo Frett mi ripeteva ridacchiando come si fa a tenere paura delle donne, che la differenza poi sta tutta quanta lì, gonne da sollevare e pantaloni da abbassare. E arriva il mio turno di scegliere e salirci insieme in camera. Con chi? Anselmo Frett mi aveva messo nell’alternativa: – Con una bruttina e mezzo scema o con una carina e tutta scema? – Con una che mi piace, no? – dico io, tanto più che
una lì mi sembrava un po’ la pastorella del prato grande del castello a Frinco, così tutta vestita più delle altre. O no? Era una di quelle parti mezzo crucche, ma salendo le scale canticchiava che Pippo Pippo non lo sa, ancheggiando bene. Per niente contenta che per me quella era la prima volta, si è lamentata che le ci voleva “eine ganze Stunde da, una ora intera lì”. Non c’eravamo da un minuto. Parlava doppio, come il maggiore Berger, crucco e taliano. Karin si chiamava: – E in taliano Carina? – Lei non ha apprezzato, troppo crucca. Carina era carina, chissà però se era scema o ci marciava. Un po’ cattiva sì, lo era, cattiva e di mala grazia. Io lì imbranato a cincischiare, lei mi sbraghetta e dice: – Fertig, pronto, sei cià pronto. – Ma se facevo tanto da cercare di farle una carezza, peggio. Aveva i segni del vaccino troppo grandi sul braccio sinistro. Ho cercato di fingere che fosse lei la pastorella, quella della mucca cieca Rosamunda a Frinco. Mentre le stavo sopra canticchiava Lili Marleen senza parole. Ad Anselmo Frett non l’ho mai detto, ma io da quella prima volta ho imparato che il casino o Bordell è un luogo che ci vai sperando chi sa cosa e te ne vai poi triste ma non sai per cosa, e che le donne non le devi coccolare, specie se bilingui, tanto meno baciare, non sulla bocca soprattutto.
Alla scuola di Calamandrana quella sera ho ritrovato solo l’ufficiale di picchetto, il sergente Wachtmeister Siro Gans, e un solo turno di guardia, senza neanche muta, quattro uomini in tutto nel corpo di guardia che prima era il luogo dei bidelli. E mi sono beccato subito un turno di guardia, dopo due ore di bicicletta, rimediata al comando della Debica, ad Asti in via Goito. Poi fuori coi miei passi… avanti ’ndrè avanti ’ndrè che bel divertimento… Finito il turno, fame da crepare. A Siro Gans in branda non importava niente che dovevo mangiare: – Arrangiati, – mi ha fatto con quella voce di cartavetrata. – Vado per qualche cosa giù in dispensa? Lui si è voltato dall’altra parte, io giù in dispensa a mangiare pane e carne da scatole tedesche, torsoli di cavolo e uno schnapps da una gran fiasca colorata. Tornato in corpo di guardia: – Scusate, ma tutti gli altri? Siro Gans fa spallucce. Però scartavetrando me lo dice: – Tutti fuori in pattuglia. All’ordine del giorno c’è rastrellamento notturno. – E quelli giù in studio? – Consegnati ai tedeschi. E poi domani treno blindato. – Tutti, anche quello di… anche Ricu Gross? – E chi sarebbe Ricu Gross?
Alla scuola di Calamandrana quella sera ho ritrovato solo l’ufficiale di picchetto, il sergente Wachtmeister Siro Gans, e un solo turno di guardia, senza neanche muta, quattro uomini in tutto nel corpo di guardia che prima era il luogo dei bidelli. E mi sono beccato subito un turno di guardia, dopo due ore di bicicletta, rimediata al comando della Debica, ad Asti in via Goito. Poi fuori coi miei passi… avanti ’ndrè avanti ’ndrè che bel divertimento… Finito il turno, fame da crepare. A Siro Gans in branda non importava niente che dovevo mangiare: – Arrangiati, – mi ha fatto con quella voce di cartavetrata. – Vado per qualche cosa giù in dispensa? Lui si è voltato dall’altra parte, io giù in dispensa a mangiare pane e carne da scatole tedesche, torsoli di cavolo e uno schnapps da una gran fiasca colorata. Tornato in corpo di guardia: – Scusate, ma tutti gli altri? Siro Gans fa spallucce. Però scartavetrando me lo dice: – Tutti fuori in pattuglia. All’ordine del giorno c’è rastrellamento notturno. – E quelli giù in studio? – Consegnati ai tedeschi. E poi domani treno blindato. – Tutti, anche quello di… anche Ricu Gross? – E chi sarebbe Ricu Gross?
– Quello di Cassinasco, l’ultimo dei cinque, preso l’altra notte, Grosso Enrico. – Tutti impacchettati. Zwangsarbeit, lavoro coatto su in Germania. Domani c’è una spedizione da Tortona. Ma tanto qui stanotte rifacciamo il pieno, giù in istudio. – Dov’è questo rastrellamento notturno? Siro Gans fa spallucce, duro, e guarda su. – Io me ne vado a letto. Posso? Ancora spallucce, ma sorride: – Beato te che puoi. – Buonanotte, – e faccio il saluto militare. Non risponde. Immagino che faccia spallucce. Siro Gans non è uno che se ne frega. Ha pure una sua idea, che c’è stato un tempo, il più felice e lungo, dice, quando al mondo c’erano due razze ben distinte, la razza dei padroni e quella degli schiavi, che poi si sono mescolate, ma è arrivato il tempo di rifare l’antica distinzione. Freddo, troppo freddo. Quando scendo di sotto per la segatura, almeno per la stufa in camerata, la puzza nello studio mi colpisce. Apro la porta, faccio luce attorno con la stearica, sui muri e i pagliericci, gli stracci di coperte. In un angolo in alto una ragnatela enorme si gonfia a ogni spiffero come una vela. Il bugliolo è pieno, un mastello a doghe come quelli per la vendemmia, più grande in alto. Appesa al muro c’è una stanga da infilare nei fori delle due doghe sporgenti. Tiro giù la stanga, la infilo nei due buchi e lo sollevo: ce la faccio. Vado su, lo svuoto dentro un gabinetto, lo lavo con l’acqua con i gesti esperti dei vendemmiatori di Ricu Gross. Lo riporto di sotto nella cella, non riesco a dirla studio. Sto per risalire e sopra gridi e tonfi, e spari, una, due, tre, quattro raffiche di quelle rapide all’america-
na, mitragliatori Sten. Non uno sparo dei fucili nostri. Finito. Silenzio. Passi nuovi, porte sbattute. Poi voci più tranquille parlano italiano. Badogliani? Che specie di ribelli? Di quelli che non fanno prigionieri? Se questi arrivavano mezz’ora fa facevano fuori me per primo, fuori di guardia. Via subito il cappotto e l’uniforme con la cinghia e il cinturone, via le scarpe, tengo calze, mutande, maglietta e camicia. Nascondo tutto impacchettato nel cappotto legato con le maniche, giù nella segatura. Rimetto le scarpe. Spengo la candela con le dita bagnate di saliva per non fare odore e ficco il mozzicone in una nicchia al muro. Entro in cella, in studio. Difficile chiudermi la porta dal di dentro, abbassare il paletto a saliscendi nell’anello sull’esterno della porta. Ci riesco al primo colpo, bel segno di fortuna. Faccia al muro e forza, sbatto due volte il muso, salvando la fronte. Mi butto a mantello una coperta, siedo spalle al muro a un pagliericcio, straccio di coperta sulle gambe, poi un altro e un altro ancora, che stanno già scendendo. Cola anche il mio naso. Puzza d’aglio. Provo a fischiare anch’io l’adagio della Pastorale ma non ci riesco, né fegato né fiato. – Nessuno, – dice una voce seccata. Luce di torcia elettrica. Sono in due, hanno fretta. Entrano nel luogo della segatura. Mi viene su il salmo Miserere e tutte le lire della deca lasciati nelle tasche della giacca seppellita nella segatura. – Questa è la guardina, – dice la voce di prima, – c’è odore di candela. Lampi di luce intorno a me. Fisso il bugliolo, la sagoma del bigoncino da vendemmia che mi sta salvando la vita. Voglio farmi sentire ma nemmeno la voce viene fuori. Tossisco, due, tre volte scatarrando a fondo.
– Quello di Cassinasco, l’ultimo dei cinque, preso l’altra notte, Grosso Enrico. – Tutti impacchettati. Zwangsarbeit, lavoro coatto su in Germania. Domani c’è una spedizione da Tortona. Ma tanto qui stanotte rifacciamo il pieno, giù in istudio. – Dov’è questo rastrellamento notturno? Siro Gans fa spallucce, duro, e guarda su. – Io me ne vado a letto. Posso? Ancora spallucce, ma sorride: – Beato te che puoi. – Buonanotte, – e faccio il saluto militare. Non risponde. Immagino che faccia spallucce. Siro Gans non è uno che se ne frega. Ha pure una sua idea, che c’è stato un tempo, il più felice e lungo, dice, quando al mondo c’erano due razze ben distinte, la razza dei padroni e quella degli schiavi, che poi si sono mescolate, ma è arrivato il tempo di rifare l’antica distinzione. Freddo, troppo freddo. Quando scendo di sotto per la segatura, almeno per la stufa in camerata, la puzza nello studio mi colpisce. Apro la porta, faccio luce attorno con la stearica, sui muri e i pagliericci, gli stracci di coperte. In un angolo in alto una ragnatela enorme si gonfia a ogni spiffero come una vela. Il bugliolo è pieno, un mastello a doghe come quelli per la vendemmia, più grande in alto. Appesa al muro c’è una stanga da infilare nei fori delle due doghe sporgenti. Tiro giù la stanga, la infilo nei due buchi e lo sollevo: ce la faccio. Vado su, lo svuoto dentro un gabinetto, lo lavo con l’acqua con i gesti esperti dei vendemmiatori di Ricu Gross. Lo riporto di sotto nella cella, non riesco a dirla studio. Sto per risalire e sopra gridi e tonfi, e spari, una, due, tre, quattro raffiche di quelle rapide all’america-
na, mitragliatori Sten. Non uno sparo dei fucili nostri. Finito. Silenzio. Passi nuovi, porte sbattute. Poi voci più tranquille parlano italiano. Badogliani? Che specie di ribelli? Di quelli che non fanno prigionieri? Se questi arrivavano mezz’ora fa facevano fuori me per primo, fuori di guardia. Via subito il cappotto e l’uniforme con la cinghia e il cinturone, via le scarpe, tengo calze, mutande, maglietta e camicia. Nascondo tutto impacchettato nel cappotto legato con le maniche, giù nella segatura. Rimetto le scarpe. Spengo la candela con le dita bagnate di saliva per non fare odore e ficco il mozzicone in una nicchia al muro. Entro in cella, in studio. Difficile chiudermi la porta dal di dentro, abbassare il paletto a saliscendi nell’anello sull’esterno della porta. Ci riesco al primo colpo, bel segno di fortuna. Faccia al muro e forza, sbatto due volte il muso, salvando la fronte. Mi butto a mantello una coperta, siedo spalle al muro a un pagliericcio, straccio di coperta sulle gambe, poi un altro e un altro ancora, che stanno già scendendo. Cola anche il mio naso. Puzza d’aglio. Provo a fischiare anch’io l’adagio della Pastorale ma non ci riesco, né fegato né fiato. – Nessuno, – dice una voce seccata. Luce di torcia elettrica. Sono in due, hanno fretta. Entrano nel luogo della segatura. Mi viene su il salmo Miserere e tutte le lire della deca lasciati nelle tasche della giacca seppellita nella segatura. – Questa è la guardina, – dice la voce di prima, – c’è odore di candela. Lampi di luce intorno a me. Fisso il bugliolo, la sagoma del bigoncino da vendemmia che mi sta salvando la vita. Voglio farmi sentire ma nemmeno la voce viene fuori. Tossisco, due, tre volte scatarrando a fondo.
– Ehi, là dentro, c’è qualcuno? – Sì, un prigioniero, – dico nella strozza, sento tra le dita la piastrina di riconoscimento della Legione, me la strappo dal collo, la infilo sotto il pagliericcio. Aprono. Luce in faccia: – Siamo la Befana, vieni via. Già, questa notte è la Befana. E vado su seguito dai fucili. Di sopra, la prima cosa che vedo è che hanno raccolto le nostre armi e munizioni e che uno si riempie in petto la camicia dei soldi presi dalla cassa della Legione. Uno che si sta cambiando le scarpe con un paio delle nostre mi guarda serio: – E tu chi sei? – Poi me lo chiede un altro, che sembra il capo, in mano una Steyr fumante, alto, mascagna pepe e sale, sotto il cappotto una giacca di pelle, stellette al bavero. Ognuno vestito a modo suo. – Io? Sono uno… uno che studiava dai preti. Mi guarda lì in mutande, mi mostra i tre morti allineati a faccia in su: – E questi, che gentaglia sono? Io guardo, faccio spallucce e resto zitto. – Legionari, SS italiane, questo sono, – dice Siro Gans spalle al muro, mani alla nuca. – E io sono Gianduia, – ride il capo, la mano alla mascagna pepe e sale. – Guardagli le mostrine, capo, – dice uno indicando con lo Sten a Siro Gans. Il capo si avvicina e già non ride più. Molla un ceffone a Siro Gans, poi un altro: – Uno per ogni esse, – e gliene molla altri due: – Due per ogni mostrina. SS… ma tu guarda un po’ che si deve vedere, SS italiane, con le mostrine rosse. Siro Gans lacrima in silenzio. Il mio naso sanguina. Questo è il mio più sanguinoso campo di battaglia, e io un guerriero in mutande. Uno dei morti ha le mani al
petto, come mio nonno nella bara, ma è Piero Frosch, il bombardino nella banda del Michelerio, finito di suonare ai funerali. – Allora capo, cosa ne facciamo? – insiste quello con lo Sten spianato. – Anche lui è dei nostri, – farfuglia Siro Gans scartavetrando, e accenna a me col mento. Il capo e tutti gli altri mi guardano tremante lì in mutande, la coperta bucata sulle spalle: – Chi ci capisce è bravo, – dice il capo aggiustando la mascagna. – Sì ma… questi due? – insiste quello con lo Sten su Siro Gans. – Portiamoli con noi, e ’nduma ne’ masnà che siamo già in ritardo.
– Ehi, là dentro, c’è qualcuno? – Sì, un prigioniero, – dico nella strozza, sento tra le dita la piastrina di riconoscimento della Legione, me la strappo dal collo, la infilo sotto il pagliericcio. Aprono. Luce in faccia: – Siamo la Befana, vieni via. Già, questa notte è la Befana. E vado su seguito dai fucili. Di sopra, la prima cosa che vedo è che hanno raccolto le nostre armi e munizioni e che uno si riempie in petto la camicia dei soldi presi dalla cassa della Legione. Uno che si sta cambiando le scarpe con un paio delle nostre mi guarda serio: – E tu chi sei? – Poi me lo chiede un altro, che sembra il capo, in mano una Steyr fumante, alto, mascagna pepe e sale, sotto il cappotto una giacca di pelle, stellette al bavero. Ognuno vestito a modo suo. – Io? Sono uno… uno che studiava dai preti. Mi guarda lì in mutande, mi mostra i tre morti allineati a faccia in su: – E questi, che gentaglia sono? Io guardo, faccio spallucce e resto zitto. – Legionari, SS italiane, questo sono, – dice Siro Gans spalle al muro, mani alla nuca. – E io sono Gianduia, – ride il capo, la mano alla mascagna pepe e sale. – Guardagli le mostrine, capo, – dice uno indicando con lo Sten a Siro Gans. Il capo si avvicina e già non ride più. Molla un ceffone a Siro Gans, poi un altro: – Uno per ogni esse, – e gliene molla altri due: – Due per ogni mostrina. SS… ma tu guarda un po’ che si deve vedere, SS italiane, con le mostrine rosse. Siro Gans lacrima in silenzio. Il mio naso sanguina. Questo è il mio più sanguinoso campo di battaglia, e io un guerriero in mutande. Uno dei morti ha le mani al
petto, come mio nonno nella bara, ma è Piero Frosch, il bombardino nella banda del Michelerio, finito di suonare ai funerali. – Allora capo, cosa ne facciamo? – insiste quello con lo Sten spianato. – Anche lui è dei nostri, – farfuglia Siro Gans scartavetrando, e accenna a me col mento. Il capo e tutti gli altri mi guardano tremante lì in mutande, la coperta bucata sulle spalle: – Chi ci capisce è bravo, – dice il capo aggiustando la mascagna. – Sì ma… questi due? – insiste quello con lo Sten su Siro Gans. – Portiamoli con noi, e ’nduma ne’ masnà che siamo già in ritardo.
Gli altri in fila indiana, io e Siro Gans in marcia appaiati in mezzo alla colonna, portiamo una cassetta delle ex nostre munizioni: – Non farmi coglionate, tu. Poi vediamo che si fa di uno come te, – ha detto il capo a Siro Gans. A me solo il gesto di venire via con loro. Per essere civili sono molto militari. Trovo alla rinfusa da vestirmi e sono così fesso che mi spiace lasciare le due stecche, Macedonia e Serraglio. Facciamo cento metri, uno strano scoppio fa saltare la scuola, scoppio interno come un colpo di tosse dell’edificio. Se l’aspettavano, loro, si fermano e guardano. Il capo tira fuori una mappa dell’IGM che anch’io ho imparato a usare a Salorno, la spiega lì al mio fianco, tira fuori la torcia e cerca, si guarda attorno, poi sbircia la mappa e chiude tutto come un portafoglio che mi fa pensare al mio che mi hanno preso ad Asti, nel cesso alla stazione. Avanti marsc! Zitti e camminare. Nessun calamandranese mette fuori il naso. Ma recitiamo anche per loro. Il capo non fa che aggiustarsi la mascagna pepe e sale. Si marcia solo fuori delle strade su e giù per le rive, attraverso i campi, le vigne, nel folto dei boschetti, sotto una luna intermittente. Ogni tanto il capo accende la torcia e studia i luoghi. Tutti hanno in spalla o ad armacollo un’arma nostra: – La nostra Befana, – ha detto prima il capo, – Befana Fascista, Befana Nazista, Befana Beffata.
Gli altri in fila indiana, io e Siro Gans in marcia appaiati in mezzo alla colonna, portiamo una cassetta delle ex nostre munizioni: – Non farmi coglionate, tu. Poi vediamo che si fa di uno come te, – ha detto il capo a Siro Gans. A me solo il gesto di venire via con loro. Per essere civili sono molto militari. Trovo alla rinfusa da vestirmi e sono così fesso che mi spiace lasciare le due stecche, Macedonia e Serraglio. Facciamo cento metri, uno strano scoppio fa saltare la scuola, scoppio interno come un colpo di tosse dell’edificio. Se l’aspettavano, loro, si fermano e guardano. Il capo tira fuori una mappa dell’IGM che anch’io ho imparato a usare a Salorno, la spiega lì al mio fianco, tira fuori la torcia e cerca, si guarda attorno, poi sbircia la mappa e chiude tutto come un portafoglio che mi fa pensare al mio che mi hanno preso ad Asti, nel cesso alla stazione. Avanti marsc! Zitti e camminare. Nessun calamandranese mette fuori il naso. Ma recitiamo anche per loro. Il capo non fa che aggiustarsi la mascagna pepe e sale. Si marcia solo fuori delle strade su e giù per le rive, attraverso i campi, le vigne, nel folto dei boschetti, sotto una luna intermittente. Ogni tanto il capo accende la torcia e studia i luoghi. Tutti hanno in spalla o ad armacollo un’arma nostra: – La nostra Befana, – ha detto prima il capo, – Befana Fascista, Befana Nazista, Befana Beffata.
In un tratto piano cantano al passo a bassa voce: Va’ fuori d’Italia, va’ fuori ch’è l’ora, va’ fuori d’Italia, va’ fuori o stranier! Canticchio anch’io. Noi della Legione in questi casi ci facevano cantare sull’aria della Carmagnola: I ribelli impiccheremo, I gerarchi accopperemo… E succede il miracolo che poi cantano in sardo Cunservet Deus su Re… Mi sento meglio. Vicino a Canelli sulla strada Buffarola c’è questa cantina trasformata in deposito carburante dai tedeschi. Si va a farla saltare con un esplosivo che dicono plastico, a innesco, roba americana, dice uno, o inglese, dice un altro: – Sa di mandorle amare, – dice quello che lo porta zaino in spalla: – Come il sapone da barba di anteguerra. – E guarda un po’ cosa ti fa alla scuola di Calamandrana. Sono rimasti in piedi muri e tetto, le mie cose dentro, sotto. Questi qui parlano da un capo all’altro della colonna. Come se non ci fossimo né io né Siro Gans. Non ci capisco niente, nemmeno quanti siamo, non riesco a contarli: davanti ce n’ho quattro, dietro non lo so, non voglio voltarmi, non devo innervosirli. Il colpo al nostro acquartieramento di Calamandrana è solo una parte della loro missione di stanotte. Sento dire che sono un reparto della Mauri. Che hanno avuto una soffiata. Da uno di Cassinasco. In marcia Siro Gans mi fa gesti imperiosi della faccia cavallina. – Zitti e camminare, voi due. Zitti e camminiamo. E di colpo Siro Gans mi lascia andare sulle gambe la cassetta delle munizioni e lui giù lungo la riva a rotta di collo. – Fermi, zitti, nessuno spari! – sibila il Capo.
Siro Gans inciampa, cade e ruzzola. Lo prendono di peso e lo riportano al suo posto a calci in culo. Gli legano le mani dietro la schiena, ma in modo che possa trasportare la cassetta delle ex nostre munizioni, con me dietro di lui, ognuno a un capo: – Poi facciamo i conti, – gli dice il comandante. E sbarrano la strada con tronchi e sassi. Di nuovo in marcia. Attento a Siro Gans, se molla adesso mi prende nelle palle. Mi viene più alto di una testa, è legato ai polsi e alla maniglia della cassetta, dietro sul sedere. Ha un orologio al polso, Siro Gans. Gliel’hanno lasciato. Lui ai partigiani la prima cosa che fa è prendergli l’orologio. Dieci, più noi due prigionieri. Io sono loro prigioniero? O un prigioniero liberato? Li conto mentre si dànno da fare per minare i luoghi con il plastico in tubetti a forza di parèi e va’ bùgia bisbigliati, di mani alla mascagna pepe e sale. L’antica industria vinicola salta presto in aria e brucia con il carburante. Fiamme mai viste e mai sentite, fumo nero. Un tedesco sbuca fuori dalle fiamme, lo abbattono come un coniglio, mirando a colpo solo con gli Sten. Poi un altro, correndo a zigzag, preso come una lepre a pallettoni. Ci allontaniamo e a distanza ci fermiamo, coperti dalla riva. Il rogo scoppietta dietro di noi, sopra di noi: – Alla faccia degli inglesi, – dice uno guardandosi l’incendio, – la guerra qui d’inverno non piace per niente alla perfida Albione. – Potevamo invitarli a scaldarsi un po’ le mani, – dice un altro allungando le mani come al fuoco del camino: – In fin dei conti il cerino ce l’hanno dato loro. – E Kesserling ci ha messo il combustibile. Kesselring, mormoro io, Kesselring, il cerchio della
In un tratto piano cantano al passo a bassa voce: Va’ fuori d’Italia, va’ fuori ch’è l’ora, va’ fuori d’Italia, va’ fuori o stranier! Canticchio anch’io. Noi della Legione in questi casi ci facevano cantare sull’aria della Carmagnola: I ribelli impiccheremo, I gerarchi accopperemo… E succede il miracolo che poi cantano in sardo Cunservet Deus su Re… Mi sento meglio. Vicino a Canelli sulla strada Buffarola c’è questa cantina trasformata in deposito carburante dai tedeschi. Si va a farla saltare con un esplosivo che dicono plastico, a innesco, roba americana, dice uno, o inglese, dice un altro: – Sa di mandorle amare, – dice quello che lo porta zaino in spalla: – Come il sapone da barba di anteguerra. – E guarda un po’ cosa ti fa alla scuola di Calamandrana. Sono rimasti in piedi muri e tetto, le mie cose dentro, sotto. Questi qui parlano da un capo all’altro della colonna. Come se non ci fossimo né io né Siro Gans. Non ci capisco niente, nemmeno quanti siamo, non riesco a contarli: davanti ce n’ho quattro, dietro non lo so, non voglio voltarmi, non devo innervosirli. Il colpo al nostro acquartieramento di Calamandrana è solo una parte della loro missione di stanotte. Sento dire che sono un reparto della Mauri. Che hanno avuto una soffiata. Da uno di Cassinasco. In marcia Siro Gans mi fa gesti imperiosi della faccia cavallina. – Zitti e camminare, voi due. Zitti e camminiamo. E di colpo Siro Gans mi lascia andare sulle gambe la cassetta delle munizioni e lui giù lungo la riva a rotta di collo. – Fermi, zitti, nessuno spari! – sibila il Capo.
Siro Gans inciampa, cade e ruzzola. Lo prendono di peso e lo riportano al suo posto a calci in culo. Gli legano le mani dietro la schiena, ma in modo che possa trasportare la cassetta delle ex nostre munizioni, con me dietro di lui, ognuno a un capo: – Poi facciamo i conti, – gli dice il comandante. E sbarrano la strada con tronchi e sassi. Di nuovo in marcia. Attento a Siro Gans, se molla adesso mi prende nelle palle. Mi viene più alto di una testa, è legato ai polsi e alla maniglia della cassetta, dietro sul sedere. Ha un orologio al polso, Siro Gans. Gliel’hanno lasciato. Lui ai partigiani la prima cosa che fa è prendergli l’orologio. Dieci, più noi due prigionieri. Io sono loro prigioniero? O un prigioniero liberato? Li conto mentre si dànno da fare per minare i luoghi con il plastico in tubetti a forza di parèi e va’ bùgia bisbigliati, di mani alla mascagna pepe e sale. L’antica industria vinicola salta presto in aria e brucia con il carburante. Fiamme mai viste e mai sentite, fumo nero. Un tedesco sbuca fuori dalle fiamme, lo abbattono come un coniglio, mirando a colpo solo con gli Sten. Poi un altro, correndo a zigzag, preso come una lepre a pallettoni. Ci allontaniamo e a distanza ci fermiamo, coperti dalla riva. Il rogo scoppietta dietro di noi, sopra di noi: – Alla faccia degli inglesi, – dice uno guardandosi l’incendio, – la guerra qui d’inverno non piace per niente alla perfida Albione. – Potevamo invitarli a scaldarsi un po’ le mani, – dice un altro allungando le mani come al fuoco del camino: – In fin dei conti il cerino ce l’hanno dato loro. – E Kesserling ci ha messo il combustibile. Kesselring, mormoro io, Kesselring, il cerchio della
pentola del diavolo. Laggiù il capo parlotta col suo vice. Vengono a prendere Siro Gans. Se lo lavorano in due. Parte anche un ceffone, e un altro. Poi il vice viene rapido da me: – Il capo ti vuole parlare. Io mi avvicino e il capo mi fa cenno di mettermi giù a terra come lui. Il fuoco manda un grande scoppio: – Bello ne’? Ma tu quanti anni hai? – Diciassette. – Per lo meno non sei un disertore, per loro. Questo piagnone con le SS sul bavero della giubba dice che anche tu sei uno di loro. Di loro chi? Chi siete? Io guardo il rogo e resto zitto. Siro Gans piange come un torchio da vinacce, con una faccia, come la volta che il maggiore Berger a Salorno gli ha detto che faceva una faccia come un’oca quando fuori tuona. Stavolta le parole a me non escono da sole né a comando. – Ma questo qui, – e tocca Siro Gans, – che cosa sai di lui? – Niente. – So che Siro Gans è sui trent’anni, laureato, o almeno se ne vanta, in barba al regolamento della Legione. – È un sottufficiale di una banda di assassini. Gente ne ha fatto fuori questo qui, malmenato, torturato, sì o no? – Non so. – Non sai o non vuoi dire? Io butto giù la testa. – Senti, ho un figlio della tua età, ma io qui devo sapere, subito. Lo stavano dicendo tutto il tempo che il falò sarebbe stato un bel richiamo. Dai loro discorsi di prima so anche che poi il loro punto di ritrovo per domani notte è l’Osteria degli Amici a Santo Stefano Belbo, con uno di Cassinasco.
– Non sei mica di qui, tu. Di dove sei? – Anche lui è della Legione, si chiama Efis Brau, – dice Siro Gans. – Sono sardo, – dico io, – studiavo dai preti, ad Asti. – Ostia ne’. Carlo, vieni un po’ qua. – Il Carlo si avvicina: – Questo pivello è un tuo compaesano. Carlo è uno sui trent’anni con l’umberta e i baffi brizzolati e sembra il re, solo un po’ più alto: – De innui ses? – mi fa con una mossa finta losca sui baffetti. – Di Fraus… e Voi? – Io di Nuraddei. Senti, fra un po’ qui pullula di crucchi e di fascisti. Dicci quel che sai. Il capo s’intromette: – Allora, ragazzo, non fare il fesso. Alzo le mani nella resa, ma sto zitto. Il capo sbuffa, salta in piedi. Guarda il gran fuoco a occhi stretti, il falò fa un muggito e lui fa un gesto di approvazione con la testa. – Capo, dobbiamo andare, – insiste il vicecapo. – Sì, procediamo, – e si passa la mano sulla mascagna, e ancora e ancora, mentre prendono Siro Gans legato e rilegato e se lo piazzano le spalle al muro di un vecchio cascinale. Puzza d’aglio. Il capo gli parla da vicino. Lui sta zitto e fermo. Il plotone è di cinque. Due scavano una fossa con arnesi di fortuna: per uno o per due? Il capo va a piazzarsi a fianco del plotone. Carlo di Nuraddei mi sta vicino, da toccarmi, con le braccia conserte. Lo guardo: sotto il cappotto lungo ha una giacca di cuoio nero e un maglione a girocollo. No, non glielo dico io che l’ho sentito, quello lì, il sergente Wachtmeister Siro Gans, che si vantava di avere
pentola del diavolo. Laggiù il capo parlotta col suo vice. Vengono a prendere Siro Gans. Se lo lavorano in due. Parte anche un ceffone, e un altro. Poi il vice viene rapido da me: – Il capo ti vuole parlare. Io mi avvicino e il capo mi fa cenno di mettermi giù a terra come lui. Il fuoco manda un grande scoppio: – Bello ne’? Ma tu quanti anni hai? – Diciassette. – Per lo meno non sei un disertore, per loro. Questo piagnone con le SS sul bavero della giubba dice che anche tu sei uno di loro. Di loro chi? Chi siete? Io guardo il rogo e resto zitto. Siro Gans piange come un torchio da vinacce, con una faccia, come la volta che il maggiore Berger a Salorno gli ha detto che faceva una faccia come un’oca quando fuori tuona. Stavolta le parole a me non escono da sole né a comando. – Ma questo qui, – e tocca Siro Gans, – che cosa sai di lui? – Niente. – So che Siro Gans è sui trent’anni, laureato, o almeno se ne vanta, in barba al regolamento della Legione. – È un sottufficiale di una banda di assassini. Gente ne ha fatto fuori questo qui, malmenato, torturato, sì o no? – Non so. – Non sai o non vuoi dire? Io butto giù la testa. – Senti, ho un figlio della tua età, ma io qui devo sapere, subito. Lo stavano dicendo tutto il tempo che il falò sarebbe stato un bel richiamo. Dai loro discorsi di prima so anche che poi il loro punto di ritrovo per domani notte è l’Osteria degli Amici a Santo Stefano Belbo, con uno di Cassinasco.
– Non sei mica di qui, tu. Di dove sei? – Anche lui è della Legione, si chiama Efis Brau, – dice Siro Gans. – Sono sardo, – dico io, – studiavo dai preti, ad Asti. – Ostia ne’. Carlo, vieni un po’ qua. – Il Carlo si avvicina: – Questo pivello è un tuo compaesano. Carlo è uno sui trent’anni con l’umberta e i baffi brizzolati e sembra il re, solo un po’ più alto: – De innui ses? – mi fa con una mossa finta losca sui baffetti. – Di Fraus… e Voi? – Io di Nuraddei. Senti, fra un po’ qui pullula di crucchi e di fascisti. Dicci quel che sai. Il capo s’intromette: – Allora, ragazzo, non fare il fesso. Alzo le mani nella resa, ma sto zitto. Il capo sbuffa, salta in piedi. Guarda il gran fuoco a occhi stretti, il falò fa un muggito e lui fa un gesto di approvazione con la testa. – Capo, dobbiamo andare, – insiste il vicecapo. – Sì, procediamo, – e si passa la mano sulla mascagna, e ancora e ancora, mentre prendono Siro Gans legato e rilegato e se lo piazzano le spalle al muro di un vecchio cascinale. Puzza d’aglio. Il capo gli parla da vicino. Lui sta zitto e fermo. Il plotone è di cinque. Due scavano una fossa con arnesi di fortuna: per uno o per due? Il capo va a piazzarsi a fianco del plotone. Carlo di Nuraddei mi sta vicino, da toccarmi, con le braccia conserte. Lo guardo: sotto il cappotto lungo ha una giacca di cuoio nero e un maglione a girocollo. No, non glielo dico io che l’ho sentito, quello lì, il sergente Wachtmeister Siro Gans, che si vantava di avere
comandato un plotone che ne ha fucilato tre: tre spie, diceva, ad Alba, morti col pugno chiuso sollevato. E lui sempre fisso a quella scena, come se avesse sentito quello che ho pensato di non dirgli: – Studiavi dai preti, tu, e come sei finito in mano a quelli lì? Siro Gans come un sacco vuoto si affloscia spalle al muro fino a terra, mentre il plotone abbassa le armi spianate su di lui. – Arrivano, quelli là, – grida il vicecapo. Questi di qua non sembrano impauriti. Uno dice: – La Befana ai crucchi porta cenere e carbone. – E la strada sbarrata. – I crucchi non hanno Befana, – dice un altro urinando controvento con il getto puntato a quelli là, e conta mentre vengono su in molti ancora piccolini sulla strada in camion e side-car, fari bianchi e rossi. Niente sembra vero e tutto è troppo vero, la mia voglia di vivere più vera di ogni cosa. – Io vado, m’indi andu, – dico a Carlo di Nuraddei, zitto, chiuso in una sua benevolenza irosa. E allora via, me la svigno giù lungo la riva verso gli alberi. Mi volto e il capo sta tornando verso Siro Gans, afflosciato laggiù. Carlo è sul ciglio della strada, braccia conserte e gambe larghe, e so che sta coprendomi la fuga. Nessun altro bada a me, che vado, vado dove? Sento molti sguardi sulla nuca. Là a sinistra le luci bianche e rosse del convoglio germanico sarebbero una meta, ma in tutto questo buio tra luci violente vedo chiaro subito che sono in fuga anche da loro, via da tutto questo, di corsa, sulla terra che mi sembra franare sotto i piedi, ma seguo la mia ombra che si allunga nel chiarore dell’incendio, lassù dietro di me. Quando sento i due colpi di pistola su da Siro Gans, colpi di grazia, spicci a bruciapelo, le gambe mi
si piegano, ma sono nel boschetto, fuori portata dagli Sten.
comandato un plotone che ne ha fucilato tre: tre spie, diceva, ad Alba, morti col pugno chiuso sollevato. E lui sempre fisso a quella scena, come se avesse sentito quello che ho pensato di non dirgli: – Studiavi dai preti, tu, e come sei finito in mano a quelli lì? Siro Gans come un sacco vuoto si affloscia spalle al muro fino a terra, mentre il plotone abbassa le armi spianate su di lui. – Arrivano, quelli là, – grida il vicecapo. Questi di qua non sembrano impauriti. Uno dice: – La Befana ai crucchi porta cenere e carbone. – E la strada sbarrata. – I crucchi non hanno Befana, – dice un altro urinando controvento con il getto puntato a quelli là, e conta mentre vengono su in molti ancora piccolini sulla strada in camion e side-car, fari bianchi e rossi. Niente sembra vero e tutto è troppo vero, la mia voglia di vivere più vera di ogni cosa. – Io vado, m’indi andu, – dico a Carlo di Nuraddei, zitto, chiuso in una sua benevolenza irosa. E allora via, me la svigno giù lungo la riva verso gli alberi. Mi volto e il capo sta tornando verso Siro Gans, afflosciato laggiù. Carlo è sul ciglio della strada, braccia conserte e gambe larghe, e so che sta coprendomi la fuga. Nessun altro bada a me, che vado, vado dove? Sento molti sguardi sulla nuca. Là a sinistra le luci bianche e rosse del convoglio germanico sarebbero una meta, ma in tutto questo buio tra luci violente vedo chiaro subito che sono in fuga anche da loro, via da tutto questo, di corsa, sulla terra che mi sembra franare sotto i piedi, ma seguo la mia ombra che si allunga nel chiarore dell’incendio, lassù dietro di me. Quando sento i due colpi di pistola su da Siro Gans, colpi di grazia, spicci a bruciapelo, le gambe mi
si piegano, ma sono nel boschetto, fuori portata dagli Sten.
Cinquanta centesimi e, a parte il briciolame giù nei fondi, un fazzoletto sporco, due Giubek malandate, un laccio di cuoio da scarpe, un pettinino quasi intero, tre zolfanelli che a toccarli in testa sembrano ancora buoni. Una ricchezza, col gavettino e la borraccia ad armacollo, come un soldato di Napoleone, come mio bisnonno alla guerra di Crimea. Siro Gans aveva l’orologio, per niente napoleonico, l’orologio da polso stile Novecento. Mai avuto, io, mai fatta l’eleganza di leggere l’ora piegando il braccio sinistro e avvicinare il polso, tanto meno il gesto del maggiore Berger di picchiarci sopra con l’indice teso. Ma adesso che ora è, quest’ora dei lupi? L’ora della Befana, tra il cinque e il sei gennaio. Dal giorno del giuramento a Salorno adesso sono due mesi e dieci giorni di divisa con le mostrine della Legione, onore fedeltà coraggio e poco tempo per capire a che cosa mi sono fatto le ossa al freddo e al caldo. Allungo il passo. Una meta per ora io ce l’ho, contro la notte e il freddo. Mi faccio un bastone di nocciolo. Ricapitolo il corso di sopravvivenza di Salorno. In cima al colle c’è una torre antica, mezzo rovinata. La mia meta: fissa, che non crolla giammai la cima per soffiar di venti, mi dice al ritmo del mio passo la voce di don Pissavino, sfrascando fuori dal sentiero troppo in luce. La torre ha solo un’apertura senza porta e una fine-
Cinquanta centesimi e, a parte il briciolame giù nei fondi, un fazzoletto sporco, due Giubek malandate, un laccio di cuoio da scarpe, un pettinino quasi intero, tre zolfanelli che a toccarli in testa sembrano ancora buoni. Una ricchezza, col gavettino e la borraccia ad armacollo, come un soldato di Napoleone, come mio bisnonno alla guerra di Crimea. Siro Gans aveva l’orologio, per niente napoleonico, l’orologio da polso stile Novecento. Mai avuto, io, mai fatta l’eleganza di leggere l’ora piegando il braccio sinistro e avvicinare il polso, tanto meno il gesto del maggiore Berger di picchiarci sopra con l’indice teso. Ma adesso che ora è, quest’ora dei lupi? L’ora della Befana, tra il cinque e il sei gennaio. Dal giorno del giuramento a Salorno adesso sono due mesi e dieci giorni di divisa con le mostrine della Legione, onore fedeltà coraggio e poco tempo per capire a che cosa mi sono fatto le ossa al freddo e al caldo. Allungo il passo. Una meta per ora io ce l’ho, contro la notte e il freddo. Mi faccio un bastone di nocciolo. Ricapitolo il corso di sopravvivenza di Salorno. In cima al colle c’è una torre antica, mezzo rovinata. La mia meta: fissa, che non crolla giammai la cima per soffiar di venti, mi dice al ritmo del mio passo la voce di don Pissavino, sfrascando fuori dal sentiero troppo in luce. La torre ha solo un’apertura senza porta e una fine-
stra senza infisso al primo piano. I barlumi lontani dell’incendio e chissà quali altre luminosità mi fanno intravedere un locale circolare di una ventina di metri quadri. Freddo come fuori. Con una scala di legno a pioli si sale al secondo piano. Salgo. Tocco nel buio il pavimento col bastone. Ancora sulla scala cerco uno dei tre fiammiferi: lo sfrego al pavimento e fiat lux, si accende bello allegro, rumoroso, chiaro. Fieno, poco ma quanto serve. La luce del fiammifero dura tanto da capire e decidere sulla logistica: fieno, per stare e per dormire meno al freddo. Uno si stanca di avere paura. Non è la prima volta che mi tocca dormire in luoghi duri, da un paio di mesi a questa parte. La prima volta è stato a Trino Vercellese, dopo il battesimo del fuoco insieme a un reparto di mongoli arruolati dai tedeschi, nella paglia di riso di un cascinale della bassa. Ma adesso sono solo, come la volta a Frinco in mezzo al campo di granturco, ed era mezza estate, con una luna da infilare un ago. Coperto di fieno, imbacuccato nei vestiti e con negli occhi ancora Siro Gans che mi fa fare tre pensieri: uno, che basta poco a renderci felici, due, che i guai degli altri tengono tappati dentro i tuoi, e tre, che se stavolta me la scampo non mi faccio più fregare da nessuno, ecco che mi riscuoto: scemo, la scala! Carponi, tentoni e tastoni arrivo alla scala, m’inginocchio, la tiro su. Mi ricopro di fieno sempre tutto al buio e buonanotte. Una parola, buonanotte. Perché Siro Gans continua ad afflosciarsi sulle gambe lungo il muro, con l’orologio al polso. E poi dopo lo tiene fuori alzato dalla terra della fossa, quel braccio con quell’orologio al polso. E io allungo la mano per prenderlo e se ne viene insieme tutto il braccio mentre
il maggiore Berger predica che in queste nostre mani è il destino dell’Europa... Mi sveglio e ho in mano il bastone di nocciolo, il gavettino al cinto e la borraccia al fianco su a tracolla che mi fanno ciascuno il suo dolore in corpo. Lontano ancora i rumori attutiti di quelli là che ci hanno l’incendio sul groppone. Riconosco i motori dei side-car tedeschi. Ne immagino i fari esagerati su per le colline. No, domani sera sarò anch’io a Santo Stefano Belbo, nei paraggi dell’Osteria degli Amici. Perché già temo di sapere chi è, quello di Cassinasco, che fa le soffiate. Doppie. L’ho promesso anche ad Anselmo Frett in ospedale. Ricordarsi: Osteria degli Amici, Santo Stefano Belbo, sullo stradone provinciale. Ma tra adesso e quell’ora si vedrà. Sento la notte nel silenzio, compatta come il brusio d’ansia di una folla. Se ascolto, ogni tanto mi pare che fuori si avvicinano dei passi, delle voci. Se penso a che ora è mi vedo l’orologio da polso di Siro Gans che spunta dalla terra. Il mattino mi sveglia di colpo dal sogno di mungermi in bocca le poppone della mucca Rosamunda. Un chiarore risale zitto zitto su da sotto nella torre. Mi stiro. Freddo cane. Siro Gans sotto terra. Ma io, su, scattare, sono vivo, mondo boia crin bastard e tutto il resto che ci mettono da queste parti e anche dalle nostre, contro il mondo. Dopo una notte così, questo mattino non è un miracolo dappoco. Giù la scala. Scendo. Ripulire dal fieno la divisa. Che divisa e divisa, niente più divise, via, all’inferno
stra senza infisso al primo piano. I barlumi lontani dell’incendio e chissà quali altre luminosità mi fanno intravedere un locale circolare di una ventina di metri quadri. Freddo come fuori. Con una scala di legno a pioli si sale al secondo piano. Salgo. Tocco nel buio il pavimento col bastone. Ancora sulla scala cerco uno dei tre fiammiferi: lo sfrego al pavimento e fiat lux, si accende bello allegro, rumoroso, chiaro. Fieno, poco ma quanto serve. La luce del fiammifero dura tanto da capire e decidere sulla logistica: fieno, per stare e per dormire meno al freddo. Uno si stanca di avere paura. Non è la prima volta che mi tocca dormire in luoghi duri, da un paio di mesi a questa parte. La prima volta è stato a Trino Vercellese, dopo il battesimo del fuoco insieme a un reparto di mongoli arruolati dai tedeschi, nella paglia di riso di un cascinale della bassa. Ma adesso sono solo, come la volta a Frinco in mezzo al campo di granturco, ed era mezza estate, con una luna da infilare un ago. Coperto di fieno, imbacuccato nei vestiti e con negli occhi ancora Siro Gans che mi fa fare tre pensieri: uno, che basta poco a renderci felici, due, che i guai degli altri tengono tappati dentro i tuoi, e tre, che se stavolta me la scampo non mi faccio più fregare da nessuno, ecco che mi riscuoto: scemo, la scala! Carponi, tentoni e tastoni arrivo alla scala, m’inginocchio, la tiro su. Mi ricopro di fieno sempre tutto al buio e buonanotte. Una parola, buonanotte. Perché Siro Gans continua ad afflosciarsi sulle gambe lungo il muro, con l’orologio al polso. E poi dopo lo tiene fuori alzato dalla terra della fossa, quel braccio con quell’orologio al polso. E io allungo la mano per prenderlo e se ne viene insieme tutto il braccio mentre
il maggiore Berger predica che in queste nostre mani è il destino dell’Europa... Mi sveglio e ho in mano il bastone di nocciolo, il gavettino al cinto e la borraccia al fianco su a tracolla che mi fanno ciascuno il suo dolore in corpo. Lontano ancora i rumori attutiti di quelli là che ci hanno l’incendio sul groppone. Riconosco i motori dei side-car tedeschi. Ne immagino i fari esagerati su per le colline. No, domani sera sarò anch’io a Santo Stefano Belbo, nei paraggi dell’Osteria degli Amici. Perché già temo di sapere chi è, quello di Cassinasco, che fa le soffiate. Doppie. L’ho promesso anche ad Anselmo Frett in ospedale. Ricordarsi: Osteria degli Amici, Santo Stefano Belbo, sullo stradone provinciale. Ma tra adesso e quell’ora si vedrà. Sento la notte nel silenzio, compatta come il brusio d’ansia di una folla. Se ascolto, ogni tanto mi pare che fuori si avvicinano dei passi, delle voci. Se penso a che ora è mi vedo l’orologio da polso di Siro Gans che spunta dalla terra. Il mattino mi sveglia di colpo dal sogno di mungermi in bocca le poppone della mucca Rosamunda. Un chiarore risale zitto zitto su da sotto nella torre. Mi stiro. Freddo cane. Siro Gans sotto terra. Ma io, su, scattare, sono vivo, mondo boia crin bastard e tutto il resto che ci mettono da queste parti e anche dalle nostre, contro il mondo. Dopo una notte così, questo mattino non è un miracolo dappoco. Giù la scala. Scendo. Ripulire dal fieno la divisa. Che divisa e divisa, niente più divise, via, all’inferno
tutte le divise! E mentre sono dietro un tronco d’albero cercandomi l’uccello che boh adesso quasi non mi trovo per il freddo, ecco quest’altro uccello vero che si muove intorno a svolazzi e risatelle, tiro su la testa verso il cielo freddo e vedo un cachi, un kaki, un khaki come don Pissavino vuole che si scriva, un caco, come dicono qui, io caco tu cachi... un cachi sì lassù, appeso a un ramo di quest’albero a gennaio, solo, rossogiallo khaki più della divisa khaki dell’alleato nipponico, impossibile, ma vero, monferrino e invernale. E ci ho pure la scala, qui dentro la torre e vado e prendo e poggio al tronco e salgo, piano, ma piano scemo vai su piano, gli occhi fissi al cachi. Mi tremano le gambe. Dev’essere caduto alla Befana nel suo giro questo cachi qui, nel suo giro di guerra di quest’anno povero, penso mentre lo stacco in cima sulla scala, il mio bel khaki kaki cachi caco solo sul suo ramo spoglio. Fatto. Scivolo giù tenendolo a due mani qui sul petto. Lo coccolo il mio caco bello tondo freddo, lo scaldo nelle mani. Lo guardo contro luce: bello, cangiante, fragile, sembra attraversato dalla luce del mattino. Uno dei proverbi di Anselmo Frett dice: all’amico sbuccia il fico, sbuccia la pesca al tuo nemico. E il caco? Questo caco qui io me lo mangio tutto intero, buccia e tutto, mi ci morsico un dito, pure, non lascio niente, a malincuore sputo i semi. Solo il picciolo, col suo cappellino, lo butto controvoglia. Sto per pulirmi le mani sul cappotto, ma me le lecco tutte, con puntiglio, mentre un uccello già si butta sul picciolo. Fame ci vuole, mi diceva mamma, per dare sapore alle cose.
A Cassinasco nel mattino grigio, nel freddo che non scherza e dice neve. Nessuno nei campi, sulle rive, nelle aie, nelle vigne. Neanche uccelli in aria. Solo molto lontano un rotolio di carro a buoi, colpi isolati di un’accetta. Nessuno nel paese. Neanche un cane. Ma odore di camino. E di colpo l’odore di stalla. Dentro il paese nelle case il pianto di un bambino, lo scatarrare di un vecchio. Un uomo finalmente, laggiù a una pubblica fontana sta riempiendo d’acqua un grande secchio di legno a doghe. Mi avvicino. L’uomo mi nota, si volta a mezzo e resta fisso a bocca aperta. Io mi avvicino, lui si allontana rinculando. Il secchio resta su una pietra sotto la fontana, traboccante. – Buongiorno, – dico, lui si blocca e inizia una pantomima di saluti militari, alla fine si ferma con le mani in alto. Gli faccio cenno di abbassarle: – Fermo, non temere! Lui mi scoppia in una cantilena di ululati e pigolii, sempre rinculando in mezzo allo stradone con le mani tirate più in alto che può. Una donnona sbuca da una casa a passi lunghi e va verso di lui, lo acchiappa e lo trascina via con quelle mani in alto, mentre in dialetto biascica lamenti per gli uomini spariti, portati via, anche gli scemi adesso ci portate via, o Signur Signur, o mi o mi pòvra dòna! E via tutti e due in casa e chiuso
tutte le divise! E mentre sono dietro un tronco d’albero cercandomi l’uccello che boh adesso quasi non mi trovo per il freddo, ecco quest’altro uccello vero che si muove intorno a svolazzi e risatelle, tiro su la testa verso il cielo freddo e vedo un cachi, un kaki, un khaki come don Pissavino vuole che si scriva, un caco, come dicono qui, io caco tu cachi... un cachi sì lassù, appeso a un ramo di quest’albero a gennaio, solo, rossogiallo khaki più della divisa khaki dell’alleato nipponico, impossibile, ma vero, monferrino e invernale. E ci ho pure la scala, qui dentro la torre e vado e prendo e poggio al tronco e salgo, piano, ma piano scemo vai su piano, gli occhi fissi al cachi. Mi tremano le gambe. Dev’essere caduto alla Befana nel suo giro questo cachi qui, nel suo giro di guerra di quest’anno povero, penso mentre lo stacco in cima sulla scala, il mio bel khaki kaki cachi caco solo sul suo ramo spoglio. Fatto. Scivolo giù tenendolo a due mani qui sul petto. Lo coccolo il mio caco bello tondo freddo, lo scaldo nelle mani. Lo guardo contro luce: bello, cangiante, fragile, sembra attraversato dalla luce del mattino. Uno dei proverbi di Anselmo Frett dice: all’amico sbuccia il fico, sbuccia la pesca al tuo nemico. E il caco? Questo caco qui io me lo mangio tutto intero, buccia e tutto, mi ci morsico un dito, pure, non lascio niente, a malincuore sputo i semi. Solo il picciolo, col suo cappellino, lo butto controvoglia. Sto per pulirmi le mani sul cappotto, ma me le lecco tutte, con puntiglio, mentre un uccello già si butta sul picciolo. Fame ci vuole, mi diceva mamma, per dare sapore alle cose.
A Cassinasco nel mattino grigio, nel freddo che non scherza e dice neve. Nessuno nei campi, sulle rive, nelle aie, nelle vigne. Neanche uccelli in aria. Solo molto lontano un rotolio di carro a buoi, colpi isolati di un’accetta. Nessuno nel paese. Neanche un cane. Ma odore di camino. E di colpo l’odore di stalla. Dentro il paese nelle case il pianto di un bambino, lo scatarrare di un vecchio. Un uomo finalmente, laggiù a una pubblica fontana sta riempiendo d’acqua un grande secchio di legno a doghe. Mi avvicino. L’uomo mi nota, si volta a mezzo e resta fisso a bocca aperta. Io mi avvicino, lui si allontana rinculando. Il secchio resta su una pietra sotto la fontana, traboccante. – Buongiorno, – dico, lui si blocca e inizia una pantomima di saluti militari, alla fine si ferma con le mani in alto. Gli faccio cenno di abbassarle: – Fermo, non temere! Lui mi scoppia in una cantilena di ululati e pigolii, sempre rinculando in mezzo allo stradone con le mani tirate più in alto che può. Una donnona sbuca da una casa a passi lunghi e va verso di lui, lo acchiappa e lo trascina via con quelle mani in alto, mentre in dialetto biascica lamenti per gli uomini spariti, portati via, anche gli scemi adesso ci portate via, o Signur Signur, o mi o mi pòvra dòna! E via tutti e due in casa e chiuso
l’uscio, poi anche una persiana, e un’altra e un’altra di una casa a fianco e poi tanti altri colpi di scurini e di persiane che si chiudono sbattendo. Chiudono fuori me, la mia divisa. Passo in rassegna le mie tasche a una a una, mie da qualche ora, da quando Carlo di Nuraddei, e non sapevo ancora che era Carlo di Nuraddei, a Calamandrana mi faceva fretta con lo Sten, cicca in bocca all’angolo, sorriso appeso ai baffi, mentre mi rivestivo di un calzone, una cinghia, un maglione, un giaccone, un cappotto, presi a caso, spezzoni di almeno tre divise; un gavettino da appendere alla cinghia, una borraccia ad armacollo sul cappotto: – Togliti quelle schifezze di mostrine rosse dai baveri, – mi ha detto il capo. Detto fatto. Prima d’infilarmi un berretto invernale della Legione ne ho tolto via la fiamma sul davanti. Io mi avvicino alla fontana, bevo un po’ a garganella, mi tolgo il berretto, lo poggio sulla testa del leone che fa da rubinetto, mi lavo le mani e poi la faccia. Sputo, mi volto e mi scuoto via l’acqua dal viso e dalle mani. Sto per rimettermi il berretto, ma me lo infilo sotto l’ascella. Prendo il secchio a doghe abbandonato sulla pietra della fonte e vado a sistemarlo bello pieno davanti alla porta che si è chiusa dietro lo scemo con la donna. Un ragazzino sbuca da una porta e corre a rotta di collo verso un’altra porta in faccia, dall’altra parte della strada, bussa frenetico e scompare dentro casa tirato per le spalle. Torno alla fontana. Un cane si fa avanti a testa bassa, in avanscoperta, mi guarda di sottecchi, scodinzola interrogativo. Sento il muggito di una mucca, breve, rotto come se glielo soffocassero.
Il ragazzino di prima fa il percorso inverso sempre a rotta di collo, pantaloni corti tenuti con lo spago, una calza su e una giù, con qualcosa in mano corre a rintanarsi in casa preso e spinto dentro da due mani di donna che richiudono la porta. Mi viene così, forse perché c’è un angelo custode a suggerire, mi stacco il gavettino dalla cinghia, lo metto sul sasso della fonte, ci metto vicino la moneta da cinquanta centesimi, tutto bene in vista, e mi allontano, cinquanta, cento passi e più. Mi guardo intorno fischiando con le mani in tasca, attento a stare sempre spalle alla fontana. Quanto passa? Un quarto d’ora? Mi volto, il gavettino è sempre lì, la moneta chissà, non si vede. Ho un brivido di nausea. Mi allontano ancora e scivolo su una pozzanghera gelata, perdo l’equilibrio e termino in ginocchio sulla strada. Dietro una finestra sento una risata soffocata. Torno indietro, prendo la rincorsa e via la scivolata, bella, lunga, tutta in piedi. La rifaccio due, tre volte e quando mi rigiro per tornare a farla c’è davanti su una porta un ragazzino che mi guarda. Gli dico: – Vuoi provare, vieni? – ma lui scappa perché un urlo lo risucchia dentro casa, però riesce a prendere due pozzanghere in un colpo solo. Torno alla fontana. E il gavettino è sempre lì, ma è colmo di latte: caldo. E a fianco c’è pure un pezzo di pane, con odore d’aglio, sòma d’ài. Anche la monetina è sempre lì. Mi metto in tasca il pane. Alzo il gavettino come per un brindisi e poi bevo, adagio, con sospiri lunghi. Ne lascio circa la metà. Mi riattacco alla cinghia il gavettino mezzo pieno, sotto il soprabito, mi riempio la bor-
l’uscio, poi anche una persiana, e un’altra e un’altra di una casa a fianco e poi tanti altri colpi di scurini e di persiane che si chiudono sbattendo. Chiudono fuori me, la mia divisa. Passo in rassegna le mie tasche a una a una, mie da qualche ora, da quando Carlo di Nuraddei, e non sapevo ancora che era Carlo di Nuraddei, a Calamandrana mi faceva fretta con lo Sten, cicca in bocca all’angolo, sorriso appeso ai baffi, mentre mi rivestivo di un calzone, una cinghia, un maglione, un giaccone, un cappotto, presi a caso, spezzoni di almeno tre divise; un gavettino da appendere alla cinghia, una borraccia ad armacollo sul cappotto: – Togliti quelle schifezze di mostrine rosse dai baveri, – mi ha detto il capo. Detto fatto. Prima d’infilarmi un berretto invernale della Legione ne ho tolto via la fiamma sul davanti. Io mi avvicino alla fontana, bevo un po’ a garganella, mi tolgo il berretto, lo poggio sulla testa del leone che fa da rubinetto, mi lavo le mani e poi la faccia. Sputo, mi volto e mi scuoto via l’acqua dal viso e dalle mani. Sto per rimettermi il berretto, ma me lo infilo sotto l’ascella. Prendo il secchio a doghe abbandonato sulla pietra della fonte e vado a sistemarlo bello pieno davanti alla porta che si è chiusa dietro lo scemo con la donna. Un ragazzino sbuca da una porta e corre a rotta di collo verso un’altra porta in faccia, dall’altra parte della strada, bussa frenetico e scompare dentro casa tirato per le spalle. Torno alla fontana. Un cane si fa avanti a testa bassa, in avanscoperta, mi guarda di sottecchi, scodinzola interrogativo. Sento il muggito di una mucca, breve, rotto come se glielo soffocassero.
Il ragazzino di prima fa il percorso inverso sempre a rotta di collo, pantaloni corti tenuti con lo spago, una calza su e una giù, con qualcosa in mano corre a rintanarsi in casa preso e spinto dentro da due mani di donna che richiudono la porta. Mi viene così, forse perché c’è un angelo custode a suggerire, mi stacco il gavettino dalla cinghia, lo metto sul sasso della fonte, ci metto vicino la moneta da cinquanta centesimi, tutto bene in vista, e mi allontano, cinquanta, cento passi e più. Mi guardo intorno fischiando con le mani in tasca, attento a stare sempre spalle alla fontana. Quanto passa? Un quarto d’ora? Mi volto, il gavettino è sempre lì, la moneta chissà, non si vede. Ho un brivido di nausea. Mi allontano ancora e scivolo su una pozzanghera gelata, perdo l’equilibrio e termino in ginocchio sulla strada. Dietro una finestra sento una risata soffocata. Torno indietro, prendo la rincorsa e via la scivolata, bella, lunga, tutta in piedi. La rifaccio due, tre volte e quando mi rigiro per tornare a farla c’è davanti su una porta un ragazzino che mi guarda. Gli dico: – Vuoi provare, vieni? – ma lui scappa perché un urlo lo risucchia dentro casa, però riesce a prendere due pozzanghere in un colpo solo. Torno alla fontana. E il gavettino è sempre lì, ma è colmo di latte: caldo. E a fianco c’è pure un pezzo di pane, con odore d’aglio, sòma d’ài. Anche la monetina è sempre lì. Mi metto in tasca il pane. Alzo il gavettino come per un brindisi e poi bevo, adagio, con sospiri lunghi. Ne lascio circa la metà. Mi riattacco alla cinghia il gavettino mezzo pieno, sotto il soprabito, mi riempio la bor-
raccia d’acqua, faccio un grande saluto pacifista a braccia larghe e passo così in mezzo a quelle quattro case per andare via. La moneta da mezza lira la lascio sulla pietra. Sullo stradone quasi fuori del paese c’è questo vecchietto che mi viene incontro. Vuoi vedere che anche lui mi prende per quello che non sono? Sembra un po’ don Pissavino senza tonaca, la roncola e il grembiule azzurro sporco, storto nel camminare, però allegro, pare. Sì, è allegro, questo qui. Mi saluta per primo con un gran ciarèa ne’! E via con un torrente di parole monferrine. Questo l’hanno mandato, ci scommetto, qui da me in avanscoperta. A questo qui non faccio paura. Ride. Un ciarèa lo merita e lo ottiene. E capisco, mi ha preso per un altro, per uno del paese, uno di Cassinasco, figlio di un certo Linu. Mi ha preso per un soldato in licenza. Meno male che parla solo lui. Io faccio sì e no con gli occhi e con la testa, a casaccio. Approfittato di una pausa: – E Ricu Gross? Qui a Cassinasco c’è uno che si chiama Ricu Gross? – Ricu Gross? – Sì, Ricu Gross, Grosso Enrico. – Noi qui non abbiamo un Ricu Gross, però avevamo un Ricu Cit, piccolo ma buono, poverino. Adesso ce l’ho io, di là. Chissà cosa vuol dire, che ce l’ha lui, di là. Mi guarda ormai come si deve guardare a un forestiero un po’ pericoloso. Anche la mia gioventù deve sembrargli una forma di pericolo, o di colpevole ignoranza. Io sto pensando che se qui ci hanno un Ricu Cit,
cioè un Enrico Piccolo, ci avranno anche un Ricu Gross. O no? – Ricu Gross viene su da Asti. – Ah sì, Ricu Gross, – e stavolta fa gesti come per dire luoghi intorno e spostamenti su e giù per le colline, – ma quello lì a Cassinasco è proprio nuovo. – E voi lo conoscete? – Sì e no, io conosco tutti e non conosco nessuno. – Ciarliero, con allegria da prima della guerra. Ma fa una pausa tale che mi tocca cambiare argomento: – Visto che incendio ieri notte laggiù alle cantine sulla strada Buffarola? Il vecchio non si volta nemmeno a guardare verso dove sto indicando: – No, visto mica niente noi qui da Cassinasco. – E quella torre antica lassù in cima, di chi è? – Quella? Solo civette e pipistrelli. – Chi sarà stato ad appiccare il fuoco? Non è più allegro il vecchio. E finisce che se ne va senza neanche più un ciarèa, e brontola che sono tutte uguali le uniformi e le divise in questa guerra, lui lo può ben dire alla sua età. La macchia nera del rogo ancora un po’ fumante è lì che sembra un grido di paura. Pare di poterlo toccare con un braccio. Ma questa che si sente è veramente puzza di bruciato. Il vecchio si è fermato a un cancello e lo sta aprendo. Il cimitero. Lui è l’interramorti? Ecco dove lo tiene il suo Ricu Cit. Memento homo riesco a leggere a distanza sull’arco del cancello arrugginito. Mi avvicino. Non ci sono fiori sulle tombe allineate in tumuli di terra. Uno de primi ordini di servizio che ci ha dato Capo Franco Wolf è stato andare al cimitero ebraico di
raccia d’acqua, faccio un grande saluto pacifista a braccia larghe e passo così in mezzo a quelle quattro case per andare via. La moneta da mezza lira la lascio sulla pietra. Sullo stradone quasi fuori del paese c’è questo vecchietto che mi viene incontro. Vuoi vedere che anche lui mi prende per quello che non sono? Sembra un po’ don Pissavino senza tonaca, la roncola e il grembiule azzurro sporco, storto nel camminare, però allegro, pare. Sì, è allegro, questo qui. Mi saluta per primo con un gran ciarèa ne’! E via con un torrente di parole monferrine. Questo l’hanno mandato, ci scommetto, qui da me in avanscoperta. A questo qui non faccio paura. Ride. Un ciarèa lo merita e lo ottiene. E capisco, mi ha preso per un altro, per uno del paese, uno di Cassinasco, figlio di un certo Linu. Mi ha preso per un soldato in licenza. Meno male che parla solo lui. Io faccio sì e no con gli occhi e con la testa, a casaccio. Approfittato di una pausa: – E Ricu Gross? Qui a Cassinasco c’è uno che si chiama Ricu Gross? – Ricu Gross? – Sì, Ricu Gross, Grosso Enrico. – Noi qui non abbiamo un Ricu Gross, però avevamo un Ricu Cit, piccolo ma buono, poverino. Adesso ce l’ho io, di là. Chissà cosa vuol dire, che ce l’ha lui, di là. Mi guarda ormai come si deve guardare a un forestiero un po’ pericoloso. Anche la mia gioventù deve sembrargli una forma di pericolo, o di colpevole ignoranza. Io sto pensando che se qui ci hanno un Ricu Cit,
cioè un Enrico Piccolo, ci avranno anche un Ricu Gross. O no? – Ricu Gross viene su da Asti. – Ah sì, Ricu Gross, – e stavolta fa gesti come per dire luoghi intorno e spostamenti su e giù per le colline, – ma quello lì a Cassinasco è proprio nuovo. – E voi lo conoscete? – Sì e no, io conosco tutti e non conosco nessuno. – Ciarliero, con allegria da prima della guerra. Ma fa una pausa tale che mi tocca cambiare argomento: – Visto che incendio ieri notte laggiù alle cantine sulla strada Buffarola? Il vecchio non si volta nemmeno a guardare verso dove sto indicando: – No, visto mica niente noi qui da Cassinasco. – E quella torre antica lassù in cima, di chi è? – Quella? Solo civette e pipistrelli. – Chi sarà stato ad appiccare il fuoco? Non è più allegro il vecchio. E finisce che se ne va senza neanche più un ciarèa, e brontola che sono tutte uguali le uniformi e le divise in questa guerra, lui lo può ben dire alla sua età. La macchia nera del rogo ancora un po’ fumante è lì che sembra un grido di paura. Pare di poterlo toccare con un braccio. Ma questa che si sente è veramente puzza di bruciato. Il vecchio si è fermato a un cancello e lo sta aprendo. Il cimitero. Lui è l’interramorti? Ecco dove lo tiene il suo Ricu Cit. Memento homo riesco a leggere a distanza sull’arco del cancello arrugginito. Mi avvicino. Non ci sono fiori sulle tombe allineate in tumuli di terra. Uno de primi ordini di servizio che ci ha dato Capo Franco Wolf è stato andare al cimitero ebraico di
Asti, io e Anselmo Frett, a ricopiare tutti i nomi sulle tombe. Cimitero ebraico? Tutti i nomi? Sì, tutti i nomi e cognomi e date di nascita e di morte. Chissà perché. Sarà per il giorno del Dies irae, dice Anselmo Frett, quando viene fuori il libro dov’è tutto scritto, tutto e tutti a giudizio e poi più niente. Tombe ingegnose, però strane, già tutte malandate, senza croci e foto e certe scritte incomprensibili scolpite sulle pietre. Non c’era interramorti, e nemmeno un custode. Molte erbacce e un’aria di abbandono. Non vivi che si curano dei morti. E che gente era questa da viva, continuava a chiedersi Anselmo Frett. Ebrei? Ci sono ancora ebrei qui ad Asti, come in Terra Santa ai tempi di Cristo? O non saranno mica i giudei della processione del Venerdì Santo, qui come al suo paese? Io mi sono ricordato di un verso del suo compaesano Orazio che in una satira parla dei giudei circoncisi che non bisogna offendere non so più come, curtis judeis oppedere, una frase così che mi hanno chiesto all’esame del ginnasio; ma non gliel’ho detto perché quel cimitero era un luogo sacro e lui magari mi avrebbe preso in giro, per le stranezze che ti fanno studiare alla scuola, preti o giudei, vivi o morti. I nomi sulle lapidi però sono cristiani, coincidono: Abramo, Giacobbe, Rachele. Li abbiamo ricopiati. Bella lista. Solo che Anselmo Frett ha fatto certi sbagli coi cognomi: tutti gli Artom li ha fatti diventare Artoni e tutti i Fubini si sono fatti Furbini. Glieli ho corretti. Abbiamo finito, non incominciato, col cognome Amen, com’è degno, e giusto.
Guarda un po’ che aspetto prende a volte l’angelo custode, specialmente in guerra. Il mio angelo custode mi porta dritto all’Osteria degli Amici: arrivati, mi guarda come a chiedermi il permesso, si fa una pisciatina sul gradino e se ne va. Dev’essere il compito dei cani randagi qui a Santo Stefano Belbo, portare i forestieri all’osteria. Entrando a Santo Stefano mi ha adottato un cane vecchio e solo, un volpino che un tempo doveva sfoggiare un color miele e invece adesso ha il colore del cane che fugge. In che cani posso imbattermi se non in fuggiaschi come me? Questo cammina piano, come in punta di piedi, quasi chiedesse scusa di seguirmi. Gente per strada qui a Santo Stefano Belbo, donne vecchi e bambini. Un bottaio lavora in un cortile e fischia a culo in su, la testa nella botte. Vedo una donna di là da una finestra che si tira fuori un seno grande e bianco per cacciarlo in bocca al suo marmocchio. Sembra tutto un presepio, fermo nel tempo e fuori dalla guerra, sgranato lungo lo stradone. Ragazzini messi su a balilla, borsa a tracolla. Funzionano le scuole, e mi fa nostalgia dei tempi del collegio. È il primo giorno dopo la Befana. Non come Cassinasco, il paese è sonoro di richiami. È già buio da un pezzo. Dalla porta a vetri con su scritto Osteria degli Amici filtra un po’ di luce. Sarà de-
Asti, io e Anselmo Frett, a ricopiare tutti i nomi sulle tombe. Cimitero ebraico? Tutti i nomi? Sì, tutti i nomi e cognomi e date di nascita e di morte. Chissà perché. Sarà per il giorno del Dies irae, dice Anselmo Frett, quando viene fuori il libro dov’è tutto scritto, tutto e tutti a giudizio e poi più niente. Tombe ingegnose, però strane, già tutte malandate, senza croci e foto e certe scritte incomprensibili scolpite sulle pietre. Non c’era interramorti, e nemmeno un custode. Molte erbacce e un’aria di abbandono. Non vivi che si curano dei morti. E che gente era questa da viva, continuava a chiedersi Anselmo Frett. Ebrei? Ci sono ancora ebrei qui ad Asti, come in Terra Santa ai tempi di Cristo? O non saranno mica i giudei della processione del Venerdì Santo, qui come al suo paese? Io mi sono ricordato di un verso del suo compaesano Orazio che in una satira parla dei giudei circoncisi che non bisogna offendere non so più come, curtis judeis oppedere, una frase così che mi hanno chiesto all’esame del ginnasio; ma non gliel’ho detto perché quel cimitero era un luogo sacro e lui magari mi avrebbe preso in giro, per le stranezze che ti fanno studiare alla scuola, preti o giudei, vivi o morti. I nomi sulle lapidi però sono cristiani, coincidono: Abramo, Giacobbe, Rachele. Li abbiamo ricopiati. Bella lista. Solo che Anselmo Frett ha fatto certi sbagli coi cognomi: tutti gli Artom li ha fatti diventare Artoni e tutti i Fubini si sono fatti Furbini. Glieli ho corretti. Abbiamo finito, non incominciato, col cognome Amen, com’è degno, e giusto.
Guarda un po’ che aspetto prende a volte l’angelo custode, specialmente in guerra. Il mio angelo custode mi porta dritto all’Osteria degli Amici: arrivati, mi guarda come a chiedermi il permesso, si fa una pisciatina sul gradino e se ne va. Dev’essere il compito dei cani randagi qui a Santo Stefano Belbo, portare i forestieri all’osteria. Entrando a Santo Stefano mi ha adottato un cane vecchio e solo, un volpino che un tempo doveva sfoggiare un color miele e invece adesso ha il colore del cane che fugge. In che cani posso imbattermi se non in fuggiaschi come me? Questo cammina piano, come in punta di piedi, quasi chiedesse scusa di seguirmi. Gente per strada qui a Santo Stefano Belbo, donne vecchi e bambini. Un bottaio lavora in un cortile e fischia a culo in su, la testa nella botte. Vedo una donna di là da una finestra che si tira fuori un seno grande e bianco per cacciarlo in bocca al suo marmocchio. Sembra tutto un presepio, fermo nel tempo e fuori dalla guerra, sgranato lungo lo stradone. Ragazzini messi su a balilla, borsa a tracolla. Funzionano le scuole, e mi fa nostalgia dei tempi del collegio. È il primo giorno dopo la Befana. Non come Cassinasco, il paese è sonoro di richiami. È già buio da un pezzo. Dalla porta a vetri con su scritto Osteria degli Amici filtra un po’ di luce. Sarà de-
gli amici, ma un’osteria è un luogo per mangiare. Capisco il cane. Fa bene pensare che c’è ancora un luogo dove fanno da mangiare. Guardo per ore, mi fa bene pensare al cibo e al caldo. Ma non farsi notare: il mimetismo nell’ambiente è la migliore abilità, la prima regola di sopravvivenza che ci hanno insegnato su a Salorno. E sarà vero, almeno questo. Il cane aiuta nel mimetizzarmi, lui è del luogo. Tengo d’occhio il movimento dell’osteria, le sue due entrate, una sulla strada e un’altra dietro, per la cucina, le vedo tutt’e due. E il Capo arriva per primo, a piedi. Lo riconosco subito. Incappottato e svelto s’infila dentro e prima fa quel gesto di passarsi la mano sulla mascagna pepe e sale. Poi Carlo in bicicletta, frena, scende e sembra proprio il re. Quando si volta, sistemata la bici contro il muro, io gli sono davanti. Ha una reazione di difesa. Mi sembra di dovergli dire un sacco di cose e non gli dico niente. Poi anche lui si passa le dita sui baffi pepe e sale: – Tu… giusto te. Mi stavo chiedendo come ti chiami. Be’, io qui sono Carlo e tu? – e mi tende la mano Gliela stringo: – Piacere, Efisio Brau. – Bello tornare dentro il proprio nome. E lui: – Ci avrei giurato, sull’Efisio… Be’, Fisineddu, andàus. Coda tra le gambe il cane se ne va per conto suo. Carlo non gli è piaciuto, e io non abbastanza, però gli sono grato. Gli avessi dato un nome, resterebbe ad attendermi, fedele. Carlo mi scorta in cucina, da dietro. Un bel caldo, buoni odori, una donna grande subito mi mette in mano una patata bollita già sbucciata, fumante: – Mangia, – come se mi aspettasse, questa donnona anziana che si vede che qui fa tutto lei. Mangio lì in piedi e me ne arri-
va un’altra dopo, con un po’ di lardo: – Non manca a nessuno, ne’, la fame! – dice seria. Carlo dice teso: – Io qui per tutti sono Carlomagno, va bene? A bocca piena accenno di sì. – Noi adesso qua… be’, ripasso a prenderti. Resta qui, non ti fare vedere da nessuno. E chi si muove. Da fuori nella strada arriva una cantilena di ragazzini che fanno la conta per giocare. Da una stanza vicina mi arriva attutito il rumore di una macchina da cucire identico alla Singer di zia Gilla, sembra una musica lontana, col rumore dei piatti, lo stormire degli alberi di fuori. Casa mia. Da piangere. O forse è il fumo dei fornelli qui negli occhi. Apro le mani e le stendo sul legno ruvido del tavolo. Di là nella sala fanno la riunione. Io li sbircio attraverso i vetri della porta di cucina. Sono tutti quelli di ieri sera a Calamandrana e sulla strada Buffarola, e anche qualche altro, intorno a un tavolo con vino rosso in due bottiglie nere. Sono così diversi da ieri sera, duri svelti e decisi ieri sera, calmi e circospetti adesso lì seduti, le teste e le facce in combutta. Vorrei una delle loro sigarette, anche se arrotolate di trinciato forte. Due volte me ne arrivano le voci, quando la donna apre la porta per andare da loro per il vino, e la seconda volta me ne lascia un bicchiere pieno sul tavolo per me. Sono una dozzina intorno al tavolo, bevono poco, mi sembra. La prima volta il capo quasi grida: – Noi siamo della Mauri, non di Moscatelli. – La seconda volta grida vacca boia, un dito a succhiello nell’orecchio. Io sono qui solo per questa donna che mi tiene al caldo, mi dà patate e vino e dice che i tempi sono duri,
gli amici, ma un’osteria è un luogo per mangiare. Capisco il cane. Fa bene pensare che c’è ancora un luogo dove fanno da mangiare. Guardo per ore, mi fa bene pensare al cibo e al caldo. Ma non farsi notare: il mimetismo nell’ambiente è la migliore abilità, la prima regola di sopravvivenza che ci hanno insegnato su a Salorno. E sarà vero, almeno questo. Il cane aiuta nel mimetizzarmi, lui è del luogo. Tengo d’occhio il movimento dell’osteria, le sue due entrate, una sulla strada e un’altra dietro, per la cucina, le vedo tutt’e due. E il Capo arriva per primo, a piedi. Lo riconosco subito. Incappottato e svelto s’infila dentro e prima fa quel gesto di passarsi la mano sulla mascagna pepe e sale. Poi Carlo in bicicletta, frena, scende e sembra proprio il re. Quando si volta, sistemata la bici contro il muro, io gli sono davanti. Ha una reazione di difesa. Mi sembra di dovergli dire un sacco di cose e non gli dico niente. Poi anche lui si passa le dita sui baffi pepe e sale: – Tu… giusto te. Mi stavo chiedendo come ti chiami. Be’, io qui sono Carlo e tu? – e mi tende la mano Gliela stringo: – Piacere, Efisio Brau. – Bello tornare dentro il proprio nome. E lui: – Ci avrei giurato, sull’Efisio… Be’, Fisineddu, andàus. Coda tra le gambe il cane se ne va per conto suo. Carlo non gli è piaciuto, e io non abbastanza, però gli sono grato. Gli avessi dato un nome, resterebbe ad attendermi, fedele. Carlo mi scorta in cucina, da dietro. Un bel caldo, buoni odori, una donna grande subito mi mette in mano una patata bollita già sbucciata, fumante: – Mangia, – come se mi aspettasse, questa donnona anziana che si vede che qui fa tutto lei. Mangio lì in piedi e me ne arri-
va un’altra dopo, con un po’ di lardo: – Non manca a nessuno, ne’, la fame! – dice seria. Carlo dice teso: – Io qui per tutti sono Carlomagno, va bene? A bocca piena accenno di sì. – Noi adesso qua… be’, ripasso a prenderti. Resta qui, non ti fare vedere da nessuno. E chi si muove. Da fuori nella strada arriva una cantilena di ragazzini che fanno la conta per giocare. Da una stanza vicina mi arriva attutito il rumore di una macchina da cucire identico alla Singer di zia Gilla, sembra una musica lontana, col rumore dei piatti, lo stormire degli alberi di fuori. Casa mia. Da piangere. O forse è il fumo dei fornelli qui negli occhi. Apro le mani e le stendo sul legno ruvido del tavolo. Di là nella sala fanno la riunione. Io li sbircio attraverso i vetri della porta di cucina. Sono tutti quelli di ieri sera a Calamandrana e sulla strada Buffarola, e anche qualche altro, intorno a un tavolo con vino rosso in due bottiglie nere. Sono così diversi da ieri sera, duri svelti e decisi ieri sera, calmi e circospetti adesso lì seduti, le teste e le facce in combutta. Vorrei una delle loro sigarette, anche se arrotolate di trinciato forte. Due volte me ne arrivano le voci, quando la donna apre la porta per andare da loro per il vino, e la seconda volta me ne lascia un bicchiere pieno sul tavolo per me. Sono una dozzina intorno al tavolo, bevono poco, mi sembra. La prima volta il capo quasi grida: – Noi siamo della Mauri, non di Moscatelli. – La seconda volta grida vacca boia, un dito a succhiello nell’orecchio. Io sono qui solo per questa donna che mi tiene al caldo, mi dà patate e vino e dice che i tempi sono duri,
non c’è niente da mettere sotto i denti, e io le dico tutto saggio: – Vacche magre, poi ci saranno quelle grasse, – perché a pancia piena la so lunga anch’io, e col vino nel sangue anche di più.
– Hai idea di chi siamo? – mi fa Carlo di Nuraddei mentre in bici si va verso casa sua, io seduto in canna, fino al paese di Calosso. Gli ho proposto di pedalare a turno, lui non ha voluto. Non so rispondere a questa sua domanda, chi sono loro. – Non te lo sei mai chiesto, chi siamo noi? Mi arrischio: – Siete badogliani? – Noi siamo per il Re… E pedala in silenzio. Ma io so che pensa. Penso anch’io. Tanti misteri sul suo nome e poi: Sanna Sugheri di Sanna Carlo c’è scritto sul muro di casa sua lungo lo stradone, abbastanza in grande da leggersi anche al buio di una sera come questa, con l’oscuramento. Io gli ho già raccontato tutto a piedi e sulla canna della bici, dei miei tempi e luoghi e famiglia e parentela giù nell’isola lontana e separata, come dice lui. – Sì, Sanna Sugheri. Io sono il sardo dei tappi, o il tappo dei tappi, dicono qui. Ho una piccola azienda di tappi di sughero. Servono, qui. – Non ci avevo mai pensato. – Ai tappi? Ormai il sughero dalla nostra isola qua non ci arriva più, di questi tempi. – E allora?
non c’è niente da mettere sotto i denti, e io le dico tutto saggio: – Vacche magre, poi ci saranno quelle grasse, – perché a pancia piena la so lunga anch’io, e col vino nel sangue anche di più.
– Hai idea di chi siamo? – mi fa Carlo di Nuraddei mentre in bici si va verso casa sua, io seduto in canna, fino al paese di Calosso. Gli ho proposto di pedalare a turno, lui non ha voluto. Non so rispondere a questa sua domanda, chi sono loro. – Non te lo sei mai chiesto, chi siamo noi? Mi arrischio: – Siete badogliani? – Noi siamo per il Re… E pedala in silenzio. Ma io so che pensa. Penso anch’io. Tanti misteri sul suo nome e poi: Sanna Sugheri di Sanna Carlo c’è scritto sul muro di casa sua lungo lo stradone, abbastanza in grande da leggersi anche al buio di una sera come questa, con l’oscuramento. Io gli ho già raccontato tutto a piedi e sulla canna della bici, dei miei tempi e luoghi e famiglia e parentela giù nell’isola lontana e separata, come dice lui. – Sì, Sanna Sugheri. Io sono il sardo dei tappi, o il tappo dei tappi, dicono qui. Ho una piccola azienda di tappi di sughero. Servono, qui. – Non ci avevo mai pensato. – Ai tappi? Ormai il sughero dalla nostra isola qua non ci arriva più, di questi tempi. – E allora?
– E allora si combatte anche per questo. Per i tappi, – e ride. Mette via la bici in una grande rimessa dove c’è un’altra bici e una Topolino nera e intanto va spiegando che la vite e il vino sono nati in luoghi come i nostri, dove il sughero serve per tenerlo ben tappato, il vino, non si versi o svapori, si spilli e si travasi. Niente più sughero e niente più benzina, dice passando una mano sul cofano della Topolino. Già, una rimessa che sa di sughero, di sughero che manca e non c’è più ma lascia il suo profumo: profumo di casa, per me, e l’officina poi sa così tanto di sughero e di casa che mi tremano le gambe e non mi sembra più tanto strano che il mio amico Carlo Sanna adesso qui combatte per il sughero, e per i tappi, e fucila di notte Siro Gans. Nel nome di re Sciaboletta, cunservet Deus su Re. *** Carlo vive solo nella casa grande affianco all’officina. Sua moglie è dai suoi in montagna in Val Varaita tutta nella neve: – Doppio sfollamento, – dice. – Non abbiamo figli. Non capisco. Ma va bene lo stesso. C’è una casa che aspetta, con un’aria amica. E saliamo in casa. Chissà dove tiene le armi, mi sorprendo a pensare mentre guardo quella meraviglia di legni, di colori, di ordine, di centrini di pizzo, di poltrone e divani dove ci sediamo, l’uno di fronte all’altro. Da quanto tempo non vedo una casa di civili, familiare: anni di dormitorio e camerata, studio e fureria, chiesa e corpo di guardia. – Dammi qua tutta questa ferramenta, – e mi toglie
via la borraccia e il gavettino. – Di là c’è il bagno, vieni, te lo mostro, – e mi mostra un locale per me tutto nuovo, mai veduto prima come gabinetto: – Restaci, ne hai bisogno. Manca soltanto l’acqua calda. Quella a dopo la guerra. Fai come a casa tua. – E se ne va con le mie carabattole, mi chiude la porta. Mi siedo sull’orlo della vasca. Casa mia, questa qui? Mi rivedo dopo chissà quanto in uno specchio, la faccia con i segni di quei colpi al muro nello studio di Calamandrana, dimenticati nel frattempo, ma poca roba ormai. Meno male che barba ce n’ho poca, mi cresce ancora lenta. Mi lavo a pezzi. E i piedi in quel catino di ceramica. Carlo l’ha chiamato bidé, non serve per i piedi, dice. Serve anche per i piedi. – Che casa, com’è bello tutto, qui, – dico tornando nel soggiorno. Complimento scontato, o è lui che si è distratto e non mi sente? E sedersi in poltrona. Ci sprofondo in una troppo scomoda mollezza. Ho quasi diciott’anni e non so ancora mettermi in poltrona. È lì per aumentare quel mio comodo disagio. Dice come se continuasse un vecchio discorso: – I tuoi amici, quelli si sono già spostati a Canelli, dopo la sorpresa che gli abbiamo preparato ieri notte giù a Calamandrana, quando sono tornati i resti del reparto… Sento un me stesso che continua e mi tradisce: – Già, dal rastrellamento notturno. Lui sospira. Si leva cauto, mi guarda, lo guardo, ci intendiamo, e va a frugare a lungo dentro un mobiletto: ne risulta che versa un’acqua limpida in due bicchieri da una bottiglia nera spoglia. Intanto cerco di mettermi a mio agio almeno con il corpo dentro la poltrona. Lui torna e mi mette in mano il bicchiere e si risiede lì da-
– E allora si combatte anche per questo. Per i tappi, – e ride. Mette via la bici in una grande rimessa dove c’è un’altra bici e una Topolino nera e intanto va spiegando che la vite e il vino sono nati in luoghi come i nostri, dove il sughero serve per tenerlo ben tappato, il vino, non si versi o svapori, si spilli e si travasi. Niente più sughero e niente più benzina, dice passando una mano sul cofano della Topolino. Già, una rimessa che sa di sughero, di sughero che manca e non c’è più ma lascia il suo profumo: profumo di casa, per me, e l’officina poi sa così tanto di sughero e di casa che mi tremano le gambe e non mi sembra più tanto strano che il mio amico Carlo Sanna adesso qui combatte per il sughero, e per i tappi, e fucila di notte Siro Gans. Nel nome di re Sciaboletta, cunservet Deus su Re. *** Carlo vive solo nella casa grande affianco all’officina. Sua moglie è dai suoi in montagna in Val Varaita tutta nella neve: – Doppio sfollamento, – dice. – Non abbiamo figli. Non capisco. Ma va bene lo stesso. C’è una casa che aspetta, con un’aria amica. E saliamo in casa. Chissà dove tiene le armi, mi sorprendo a pensare mentre guardo quella meraviglia di legni, di colori, di ordine, di centrini di pizzo, di poltrone e divani dove ci sediamo, l’uno di fronte all’altro. Da quanto tempo non vedo una casa di civili, familiare: anni di dormitorio e camerata, studio e fureria, chiesa e corpo di guardia. – Dammi qua tutta questa ferramenta, – e mi toglie
via la borraccia e il gavettino. – Di là c’è il bagno, vieni, te lo mostro, – e mi mostra un locale per me tutto nuovo, mai veduto prima come gabinetto: – Restaci, ne hai bisogno. Manca soltanto l’acqua calda. Quella a dopo la guerra. Fai come a casa tua. – E se ne va con le mie carabattole, mi chiude la porta. Mi siedo sull’orlo della vasca. Casa mia, questa qui? Mi rivedo dopo chissà quanto in uno specchio, la faccia con i segni di quei colpi al muro nello studio di Calamandrana, dimenticati nel frattempo, ma poca roba ormai. Meno male che barba ce n’ho poca, mi cresce ancora lenta. Mi lavo a pezzi. E i piedi in quel catino di ceramica. Carlo l’ha chiamato bidé, non serve per i piedi, dice. Serve anche per i piedi. – Che casa, com’è bello tutto, qui, – dico tornando nel soggiorno. Complimento scontato, o è lui che si è distratto e non mi sente? E sedersi in poltrona. Ci sprofondo in una troppo scomoda mollezza. Ho quasi diciott’anni e non so ancora mettermi in poltrona. È lì per aumentare quel mio comodo disagio. Dice come se continuasse un vecchio discorso: – I tuoi amici, quelli si sono già spostati a Canelli, dopo la sorpresa che gli abbiamo preparato ieri notte giù a Calamandrana, quando sono tornati i resti del reparto… Sento un me stesso che continua e mi tradisce: – Già, dal rastrellamento notturno. Lui sospira. Si leva cauto, mi guarda, lo guardo, ci intendiamo, e va a frugare a lungo dentro un mobiletto: ne risulta che versa un’acqua limpida in due bicchieri da una bottiglia nera spoglia. Intanto cerco di mettermi a mio agio almeno con il corpo dentro la poltrona. Lui torna e mi mette in mano il bicchiere e si risiede lì da-
vanti a me: – Dunque tu eri dei loro, – e beve un lungo sorso, poi tira fuori il fiato con un aah! – Beviamoci su, – e provo a bere anch’io. Grappa, tossisco con violenza. – Vacci piano, con quello e con altro, alla tua età. – Foste arrivati la notte prima avreste ucciso me per primo, lì di sentinella… E questo rastrellamento notturno dov’è che l’hanno fatto? – A Buttigliera d’Asti. Hanno preso dei nostri. – E adesso a Canelli? – A Canelli i tuoi amici hanno requisito un’altra scuola. – Non sono miei amici. Però sono studiosi. Prendono la gente, la mettono a studiare. A Calamandrana la guardina la chiamavano lo studio. Davano certe lezioni. – Altro che i tuoi preti ad Asti. – E le interrogazioni… – Carlo impallidisce. Porta il bicchiere alle labbra ma non beve. – Lo conoscete un certo Ricu Gross, Enrico Grosso? – Dammi del lei, per favore, se non riesci a darmi del tu. – Mi guarda scocciato, per la prima volta: – I miei compagni all’osteria ti avrebbero sentito volentieri questa sera. – Vi avrei detto che conosco Ricu Gross, uno che bara alle interrogazioni. – Bara? Che ne sai? Tu non c’entri, non ci devi entrare, se mai ci sei entrato, – e vuota il bicchiere, si butta indietro sulla poltrona e guarda in su nel vuoto, a lungo, poi si ributta in avanti e dice brusco: – Devi tornare ad Asti dai tuoi preti, a studiare. – Sono sfollati tutti a Frinco. – Ti staranno cercando.
– Anche quelli della Legione. Lui ride un po’ dal naso: – Quel tuo amico, quello messo al muro ieri sera… – Non era mio amico. – Bevo, bevo e gli racconto tutto, dall’incontro con Berger nei sotterranei di Frinco fino a poco fa davanti all’Osteria degli Amici a Santo Stefano Belbo. Tutto, anche di Ricu Gross che prima prende piattonate e dopo pacche amiche sulle spalle. Tutto fitto fitto, non più a lui che a me stesso. Carlo del resto non mi fa domande. E parlo fino a quando il mio corpo chiede tregua, più saggio del resto di me stesso. – E che idea ti sei fatto, tu, di tutto questo? – Io? Nessuna. A volte le idee mi vengono da sole. – Ci dormiamo sopra, eh? È meglio. La sua reticenza mi offende, ma mi passa quando Carlo mi mostra la mia stanza e sulla porta mi fa lui l’imbarazzato: – Come stiamo a pulci, a cimici e a pidocchi? – Addosso non ne ho ancora mai sentiti. Ma ci ho i geloni. – Mantieniti così, coi tuoi geloni, che a primavera se ne vanno via. – Come la guerra? – Eh magari, bocca tua santa. Un letto comodo, in una stanza calda, con la pancia piena. Ma un sonno scombinato. Un’idea, io, di tutto questo? Lombrichi in un campo, passa il vomere e taglia e tu finisci da una parte o dall’altra senza remissione, ripeteva dal pulpito don Pissavino. Linea gotica, vandalica, ostrogotica. Da questa parte viti e vino, dall’altra querce e sughero. E di mezzo il mare, come un vino versato. Tu ci fai il nido, qui dalla tua parte, e covi e cerchi vermi. Come Ricu Gross. Cerchi vermi e sei un
vanti a me: – Dunque tu eri dei loro, – e beve un lungo sorso, poi tira fuori il fiato con un aah! – Beviamoci su, – e provo a bere anch’io. Grappa, tossisco con violenza. – Vacci piano, con quello e con altro, alla tua età. – Foste arrivati la notte prima avreste ucciso me per primo, lì di sentinella… E questo rastrellamento notturno dov’è che l’hanno fatto? – A Buttigliera d’Asti. Hanno preso dei nostri. – E adesso a Canelli? – A Canelli i tuoi amici hanno requisito un’altra scuola. – Non sono miei amici. Però sono studiosi. Prendono la gente, la mettono a studiare. A Calamandrana la guardina la chiamavano lo studio. Davano certe lezioni. – Altro che i tuoi preti ad Asti. – E le interrogazioni… – Carlo impallidisce. Porta il bicchiere alle labbra ma non beve. – Lo conoscete un certo Ricu Gross, Enrico Grosso? – Dammi del lei, per favore, se non riesci a darmi del tu. – Mi guarda scocciato, per la prima volta: – I miei compagni all’osteria ti avrebbero sentito volentieri questa sera. – Vi avrei detto che conosco Ricu Gross, uno che bara alle interrogazioni. – Bara? Che ne sai? Tu non c’entri, non ci devi entrare, se mai ci sei entrato, – e vuota il bicchiere, si butta indietro sulla poltrona e guarda in su nel vuoto, a lungo, poi si ributta in avanti e dice brusco: – Devi tornare ad Asti dai tuoi preti, a studiare. – Sono sfollati tutti a Frinco. – Ti staranno cercando.
– Anche quelli della Legione. Lui ride un po’ dal naso: – Quel tuo amico, quello messo al muro ieri sera… – Non era mio amico. – Bevo, bevo e gli racconto tutto, dall’incontro con Berger nei sotterranei di Frinco fino a poco fa davanti all’Osteria degli Amici a Santo Stefano Belbo. Tutto, anche di Ricu Gross che prima prende piattonate e dopo pacche amiche sulle spalle. Tutto fitto fitto, non più a lui che a me stesso. Carlo del resto non mi fa domande. E parlo fino a quando il mio corpo chiede tregua, più saggio del resto di me stesso. – E che idea ti sei fatto, tu, di tutto questo? – Io? Nessuna. A volte le idee mi vengono da sole. – Ci dormiamo sopra, eh? È meglio. La sua reticenza mi offende, ma mi passa quando Carlo mi mostra la mia stanza e sulla porta mi fa lui l’imbarazzato: – Come stiamo a pulci, a cimici e a pidocchi? – Addosso non ne ho ancora mai sentiti. Ma ci ho i geloni. – Mantieniti così, coi tuoi geloni, che a primavera se ne vanno via. – Come la guerra? – Eh magari, bocca tua santa. Un letto comodo, in una stanza calda, con la pancia piena. Ma un sonno scombinato. Un’idea, io, di tutto questo? Lombrichi in un campo, passa il vomere e taglia e tu finisci da una parte o dall’altra senza remissione, ripeteva dal pulpito don Pissavino. Linea gotica, vandalica, ostrogotica. Da questa parte viti e vino, dall’altra querce e sughero. E di mezzo il mare, come un vino versato. Tu ci fai il nido, qui dalla tua parte, e covi e cerchi vermi. Come Ricu Gross. Cerchi vermi e sei un
verme ricercato. Tutti vermi? E pulci e cimici e pidocchi. Dormi che ti passa. Mi sveglio che mi sembra di sentire un bombardamento. Carlo Sanna di Nuraddei grida nel sonno. Penso al buio freddo e umido di fuori per capire la fortuna di una notte come questa. Ma la bella casa in sogno sa di tappo. E Siro Gans, la mano e l’orologio fuori dalla terra.
Specialmente in guerra i tappi usati si conservano, si raccolgono, si ricalibrano, si rivendono e rimettono in altri colli di bottiglia. Alla Sanna Sugheri di questi tempi anche i tappi rotti si riusano, si macinano, si impastano con colle di risulta e si ottiene sughero rifatto. Le parti migliori dei turaccioli rotti diventano rondelle dei tappi di spumante. Tappi di guerra, saltano col botto. Aiuto anch’io la Sanna Sugheri a raccogliere i tappi da ridurre in polvere e impastare. Giro in bici per tappi, come l’uomo che a Fraus vendeva e forse vende ancora lumache scambiandole col grano e con le fave, come altri mestieri ambulanti e modesti che babbo minacciava sempre a noi figli fannulloni. Anche Carlo a volte gira in bici nei paesi, per bricchi e per cascine. E in giro so che porta anche dell’altro: – Con una cesta di tappi rotti in portapacchi, passi ogni posto di blocco, – dice. Coi tappi Carlo porta in giro avvisi, ordini, notizie: gli ordini del Re, dice Toni, il vecchio guardiano e factotum, gli ordini di Sua Maestà il Re e Imperatore che sta ancora nelle monete ma chissà dov’è finito di persona. Oggi un messaggio delicato per un certo Defendente a Cassinasco. Carlo ieri sera chiedeva a Toni informazioni su Cassinasco: – Ci posso andare io, – dico. Carlo fa un gesto per dire stanne fuori, con foga. Più
verme ricercato. Tutti vermi? E pulci e cimici e pidocchi. Dormi che ti passa. Mi sveglio che mi sembra di sentire un bombardamento. Carlo Sanna di Nuraddei grida nel sonno. Penso al buio freddo e umido di fuori per capire la fortuna di una notte come questa. Ma la bella casa in sogno sa di tappo. E Siro Gans, la mano e l’orologio fuori dalla terra.
Specialmente in guerra i tappi usati si conservano, si raccolgono, si ricalibrano, si rivendono e rimettono in altri colli di bottiglia. Alla Sanna Sugheri di questi tempi anche i tappi rotti si riusano, si macinano, si impastano con colle di risulta e si ottiene sughero rifatto. Le parti migliori dei turaccioli rotti diventano rondelle dei tappi di spumante. Tappi di guerra, saltano col botto. Aiuto anch’io la Sanna Sugheri a raccogliere i tappi da ridurre in polvere e impastare. Giro in bici per tappi, come l’uomo che a Fraus vendeva e forse vende ancora lumache scambiandole col grano e con le fave, come altri mestieri ambulanti e modesti che babbo minacciava sempre a noi figli fannulloni. Anche Carlo a volte gira in bici nei paesi, per bricchi e per cascine. E in giro so che porta anche dell’altro: – Con una cesta di tappi rotti in portapacchi, passi ogni posto di blocco, – dice. Coi tappi Carlo porta in giro avvisi, ordini, notizie: gli ordini del Re, dice Toni, il vecchio guardiano e factotum, gli ordini di Sua Maestà il Re e Imperatore che sta ancora nelle monete ma chissà dov’è finito di persona. Oggi un messaggio delicato per un certo Defendente a Cassinasco. Carlo ieri sera chiedeva a Toni informazioni su Cassinasco: – Ci posso andare io, – dico. Carlo fa un gesto per dire stanne fuori, con foga. Più
tardi mi sono messo a dire Cassinasco lo conosco. Viene fuori che ha un appuntamento con questo Defendente alla fontana pubblica: – Perché no? Carlo mi guarda da capo a piedi, e dice: – Sì, perché no? E adesso eccolo lì, dev’essere il mio Defendente con un secchio alla fontana, anche se da lontano sembra un po’ lo scemo dell’altro giorno, molto tempo fa. Entro in paese e scampanello quasi per portare un poco di allegria, con una girandola rossa sul manubrio. Freno che quello se ne sta ancora lì girato chino verso la cannella. L’acqua nel secchio fa una specie di vapore leggero come un fiato: – Defendente? Si volta: – Sun mi. È Ricu Gross. Il cuore accelerato per la corsa in bici mi si ferma. Lui niente, naturale. Non mi riconosce neanche a stargli davanti e a dirgli come una preghiera: – Fra tre giorni alle sette dagli amici, non mancare. Lui fa cenno di sì, le mani in tasca: – Perché non è venuto lui stavolta, Carlomagno? – Carlomagno? Quello dei tappi? – Quello dei tappi. – Fa qualcosa? – dico io saputo. Ricu Gross fa un’alzatina di spalle, però la sua faccia sembra dire sì, qualcosa fa che sono qui io e non Carlomagno. Poggio la bici al muro e mi avvicino all’acqua: – Posso? – Bella fresca, ne’? Bevo un paio di sorsi: – Fresca giusta. – Tiro aria soddisfatto, come se l’acqua me l’avesse offerta lui, mi asciugo con la manica e lo guardo. In faccia, ancora
qualche segno degli scalini della scuola di Calamandrana. – Bella giornata, – dico forte, e mi guardo in giro la giornata. Ricu Gross si apre di un sorriso sotto i baffi: – Bella, per la stagione. Punto gli occhi lontano allo sconcio dell’incendio sulla strada Buffarola: – Anche le notti certe volte si schiariscono per bene. Lui soffia dal naso, zitto. Mi guarda sottecchi, su dalla tesa del cappello floscio. – Basta uno zolfanello al posto giusto, – insisto. Si assesta il cappello nero floscio: – Se i tempi sono bui… Te però qui non t’ho mica mai visto. – Qui no, ma alla Quaglina sì. Un’alzata di spalle: – Non sei di queste parti. – No, sono sardo e non mangio l’uva fragola. – So che sto esagerando ma lo dico: – Giù a Calamandrana vi ho rivisto, qualche giorno fa. Stavolta mi guarda, ma non dice niente. Neanche io. In tutto il paese c’è troppo silenzio. Muggisce una vacca, nessuno la fa stare zitta. Ricu Gross guarda l’orologio del taschino, sembra mio padre. Tappi guasti, ne avete tappi guasti? – e accenno al cesto dietro sulla bici. Lui fa di no con la testa, distratto, sembra di sapere dei miei tappi. Prima di rimontare in bici, le mani sul manubrio, lo guardo bene in faccia, Ricu Gross, riesco a prendergli gli occhi: – Voi perché lo fate? Cosa? Be’… tutto questo. Ricu Gross sogghigna: – E tu? Metto giù la faccia e non rispondo.
tardi mi sono messo a dire Cassinasco lo conosco. Viene fuori che ha un appuntamento con questo Defendente alla fontana pubblica: – Perché no? Carlo mi guarda da capo a piedi, e dice: – Sì, perché no? E adesso eccolo lì, dev’essere il mio Defendente con un secchio alla fontana, anche se da lontano sembra un po’ lo scemo dell’altro giorno, molto tempo fa. Entro in paese e scampanello quasi per portare un poco di allegria, con una girandola rossa sul manubrio. Freno che quello se ne sta ancora lì girato chino verso la cannella. L’acqua nel secchio fa una specie di vapore leggero come un fiato: – Defendente? Si volta: – Sun mi. È Ricu Gross. Il cuore accelerato per la corsa in bici mi si ferma. Lui niente, naturale. Non mi riconosce neanche a stargli davanti e a dirgli come una preghiera: – Fra tre giorni alle sette dagli amici, non mancare. Lui fa cenno di sì, le mani in tasca: – Perché non è venuto lui stavolta, Carlomagno? – Carlomagno? Quello dei tappi? – Quello dei tappi. – Fa qualcosa? – dico io saputo. Ricu Gross fa un’alzatina di spalle, però la sua faccia sembra dire sì, qualcosa fa che sono qui io e non Carlomagno. Poggio la bici al muro e mi avvicino all’acqua: – Posso? – Bella fresca, ne’? Bevo un paio di sorsi: – Fresca giusta. – Tiro aria soddisfatto, come se l’acqua me l’avesse offerta lui, mi asciugo con la manica e lo guardo. In faccia, ancora
qualche segno degli scalini della scuola di Calamandrana. – Bella giornata, – dico forte, e mi guardo in giro la giornata. Ricu Gross si apre di un sorriso sotto i baffi: – Bella, per la stagione. Punto gli occhi lontano allo sconcio dell’incendio sulla strada Buffarola: – Anche le notti certe volte si schiariscono per bene. Lui soffia dal naso, zitto. Mi guarda sottecchi, su dalla tesa del cappello floscio. – Basta uno zolfanello al posto giusto, – insisto. Si assesta il cappello nero floscio: – Se i tempi sono bui… Te però qui non t’ho mica mai visto. – Qui no, ma alla Quaglina sì. Un’alzata di spalle: – Non sei di queste parti. – No, sono sardo e non mangio l’uva fragola. – So che sto esagerando ma lo dico: – Giù a Calamandrana vi ho rivisto, qualche giorno fa. Stavolta mi guarda, ma non dice niente. Neanche io. In tutto il paese c’è troppo silenzio. Muggisce una vacca, nessuno la fa stare zitta. Ricu Gross guarda l’orologio del taschino, sembra mio padre. Tappi guasti, ne avete tappi guasti? – e accenno al cesto dietro sulla bici. Lui fa di no con la testa, distratto, sembra di sapere dei miei tappi. Prima di rimontare in bici, le mani sul manubrio, lo guardo bene in faccia, Ricu Gross, riesco a prendergli gli occhi: – Voi perché lo fate? Cosa? Be’… tutto questo. Ricu Gross sogghigna: – E tu? Metto giù la faccia e non rispondo.
Il mondo è tutt’uno, – dice guardando lontano, – sempre, in pace e in guerra. Inforco, mollo i freni: – Ci vediamo. – Faccio qualche metro, mi fermo e mi volto. Ricu Gross col secchio in mano se ne sta già andando. Torno indietro con un paio di pedalate rabbiose e mi fermo al suo fianco con una frenataccia a scivolone: – E voi? Lui si ferma, mette giù il secchio, mi guarda, scuote un po’ la testa, riprende il secchio e dice camminando: – Qui, bisogna prepararsi un dopoguerra. – Si ferma, si volta, mi guarda: – E tu sardagnoel, fa’ mica l’eroe. Lo guardo andare. Aspetto per vedere dove va finché scompare in un portone aperto. Guàrdatelo bene, Efisio, il portone di Ricu Gross qui a Cassinasco. Può servire. A una finestra della casa di Ricu Gross c’è un movimento, un viso che si mostra, di donna che mi sembra la sorella, quella che vendemmiava alla Quaglina, secoli fa, tirava su il mastello sulla testa e si vedevano le ascelle color miele, quella che l’altra notte ha nascosto il fratello sotto il letto. Per prepararsi un dopoguerra.
Giro il paese per i tappi, i ragazzini attratti dalla girandola rossa sul manubrio. Anch’io sono attratto da qualcosa: una ragazza ferma nel riquadro della porta di una casa e sembra una santa nella nicchia. Due ginocchia nude nel mattino freddo. Mi aspetta, è proprio me che aspetta e infatti dice: – Niente per me? Non apro bocca, o forse ce l’ho troppo aperta, dice che aspetta posta da Torino, che qui è una sfollata: mi ha preso per il portalettere, io non dico un buongiorno, con le mani al manubrio e la girandolina rossa che mi fruscia davanti e ho questa idea cretina di darla proprio a lei, ma le dico che io qui cerco tappi, tappi rotti, ma lei non capisce, io le spiego, male, ma sorride, dice che in casa adesso lei è sola, gli zii sono alla vigna, chissà se tappi rotti in casa ce ne sono. Dunque è cittadina, è madamina torinese, parla italiano fermo e mentre parla mi tiene fissi addosso gli occhi che dicono molto di più di entrare in casa a scaldarmi al suo camino, per un bicchiere d’acqua. O forse un caffè, caffè di guerra, dice, e si fa triste. Sul tavolo in cucina, due libri chiusi uno dentro l’altro a doppio segnalibro, come facevo anch’io, a dispetto dei preti. Mi pare di conoscere il rovescio della copertina che sta in vista, sul pezzo di una pagina si legge: illius tristissima noctis imago… Mi viene nostalgia, dei libri, dei banchi di scuola e dei compagni, di tempi migliori. Continua a dire che lei ci giocava da bambina, con i tappi di casa, seduta per terra e i tappi
Il mondo è tutt’uno, – dice guardando lontano, – sempre, in pace e in guerra. Inforco, mollo i freni: – Ci vediamo. – Faccio qualche metro, mi fermo e mi volto. Ricu Gross col secchio in mano se ne sta già andando. Torno indietro con un paio di pedalate rabbiose e mi fermo al suo fianco con una frenataccia a scivolone: – E voi? Lui si ferma, mette giù il secchio, mi guarda, scuote un po’ la testa, riprende il secchio e dice camminando: – Qui, bisogna prepararsi un dopoguerra. – Si ferma, si volta, mi guarda: – E tu sardagnoel, fa’ mica l’eroe. Lo guardo andare. Aspetto per vedere dove va finché scompare in un portone aperto. Guàrdatelo bene, Efisio, il portone di Ricu Gross qui a Cassinasco. Può servire. A una finestra della casa di Ricu Gross c’è un movimento, un viso che si mostra, di donna che mi sembra la sorella, quella che vendemmiava alla Quaglina, secoli fa, tirava su il mastello sulla testa e si vedevano le ascelle color miele, quella che l’altra notte ha nascosto il fratello sotto il letto. Per prepararsi un dopoguerra.
Giro il paese per i tappi, i ragazzini attratti dalla girandola rossa sul manubrio. Anch’io sono attratto da qualcosa: una ragazza ferma nel riquadro della porta di una casa e sembra una santa nella nicchia. Due ginocchia nude nel mattino freddo. Mi aspetta, è proprio me che aspetta e infatti dice: – Niente per me? Non apro bocca, o forse ce l’ho troppo aperta, dice che aspetta posta da Torino, che qui è una sfollata: mi ha preso per il portalettere, io non dico un buongiorno, con le mani al manubrio e la girandolina rossa che mi fruscia davanti e ho questa idea cretina di darla proprio a lei, ma le dico che io qui cerco tappi, tappi rotti, ma lei non capisce, io le spiego, male, ma sorride, dice che in casa adesso lei è sola, gli zii sono alla vigna, chissà se tappi rotti in casa ce ne sono. Dunque è cittadina, è madamina torinese, parla italiano fermo e mentre parla mi tiene fissi addosso gli occhi che dicono molto di più di entrare in casa a scaldarmi al suo camino, per un bicchiere d’acqua. O forse un caffè, caffè di guerra, dice, e si fa triste. Sul tavolo in cucina, due libri chiusi uno dentro l’altro a doppio segnalibro, come facevo anch’io, a dispetto dei preti. Mi pare di conoscere il rovescio della copertina che sta in vista, sul pezzo di una pagina si legge: illius tristissima noctis imago… Mi viene nostalgia, dei libri, dei banchi di scuola e dei compagni, di tempi migliori. Continua a dire che lei ci giocava da bambina, con i tappi di casa, seduta per terra e i tappi
qui davanti, tra le gambe, su in aria uno, due, e poi riprenderli al volo come al circo i giocolieri. Prende due tappi dalla cesta e mi fa vedere, stando in piedi: – Un, due, tre… – e ride in un modo che mi fa venire voglia di piangere. – Di dove sei? Faccio un cenno per dire lontano: – Oltre il mare… Sardegna. – O poverino, – e mi guarda, come se mi vedesse solo adesso. – E cosa fai qui? Soldato, o cosa? – Tutt’e due. Lei ride, ride cercando di capire e infine cede: – Cioè? – Sì, tutt’e due, soldato e cosa… Anch’io farei il liceo, ad Asti, dai preti… – Già. Ma vieni, andiamo giù in cantina, per i tappi, – e mi fa strada. In cantina c’è odore di cantina e fa più caldo. E ce n’è di tappi interi e rotti in una cesta piatta. Basta sceglierli. Ma di sopra si sentono rumori e passi e una voce grossa femminile che chiama. – Povera me, la zia! – mostra col dito il portone di cantina, che ha l’usciolo, e di dentro si apre. – La tua bici? La bici è su all’ingresso. Lei un po’ mi trattiene e un po’ mi spinge fuori, ma mi riempie la cesta di tappi di ogni taglia quasi tutti buoni: – A cosa servono? – Tappi di guerra
un coso così, e freno, piede a terra, mi affaccio alla scarpata, prendo un tappo grosso di quelli da botte e glielo tiro, lo becco e lui si accascia lento sul filare a braccia spalancate.
Mentre scendo da Cassinasco in bicicletta, quasi cado dallo spavento quando vedo giù dalla riva nella vigna un tedesco impalato nei filari. Ci metto un bel po’ a capire che è uno spaventapasseri, in stracci di divisa crucca, per spaventare gli uccelli, ma anche i cristiani,
qui davanti, tra le gambe, su in aria uno, due, e poi riprenderli al volo come al circo i giocolieri. Prende due tappi dalla cesta e mi fa vedere, stando in piedi: – Un, due, tre… – e ride in un modo che mi fa venire voglia di piangere. – Di dove sei? Faccio un cenno per dire lontano: – Oltre il mare… Sardegna. – O poverino, – e mi guarda, come se mi vedesse solo adesso. – E cosa fai qui? Soldato, o cosa? – Tutt’e due. Lei ride, ride cercando di capire e infine cede: – Cioè? – Sì, tutt’e due, soldato e cosa… Anch’io farei il liceo, ad Asti, dai preti… – Già. Ma vieni, andiamo giù in cantina, per i tappi, – e mi fa strada. In cantina c’è odore di cantina e fa più caldo. E ce n’è di tappi interi e rotti in una cesta piatta. Basta sceglierli. Ma di sopra si sentono rumori e passi e una voce grossa femminile che chiama. – Povera me, la zia! – mostra col dito il portone di cantina, che ha l’usciolo, e di dentro si apre. – La tua bici? La bici è su all’ingresso. Lei un po’ mi trattiene e un po’ mi spinge fuori, ma mi riempie la cesta di tappi di ogni taglia quasi tutti buoni: – A cosa servono? – Tappi di guerra
un coso così, e freno, piede a terra, mi affaccio alla scarpata, prendo un tappo grosso di quelli da botte e glielo tiro, lo becco e lui si accascia lento sul filare a braccia spalancate.
Mentre scendo da Cassinasco in bicicletta, quasi cado dallo spavento quando vedo giù dalla riva nella vigna un tedesco impalato nei filari. Ci metto un bel po’ a capire che è uno spaventapasseri, in stracci di divisa crucca, per spaventare gli uccelli, ma anche i cristiani,
Arrivo a Calosso e c’è troppo silenzio. Silenzio che conosco. Bici al muro e corro in giro in cerca di Carlo. Catenaccio in fabbrica dei tappi, chiuso a chiave nella casa padronale. Busso, picchio forte. Niente. Nessuno. Mi guardo intorno e sento puzza d’aglio. Busso a turno alle due porte. Un vicino si affaccia, scocciato e premuroso, imbaccucato nel mantello nero paesano e mi fa cenni preoccupati di finirla e di smammare. Toni il vecchio factotum sbuca da casa sua, le mani in segno di pericolo e minaccia, lui sempre necessario: – L’hanno portato via il signor Carlo stamattina. – Chi, dove, perché? Toni si stringe in tutto il vecchio corpo. Ripeto la domanda, tolgo il dove e il perché: – Chi l’ha portato via. – So niente. Ma tu scappa via ne’ giovinotto che tornano quei lì, tornano più di Gelindo per Natale, – e mi prende le mani nelle sue, le scuote e me le stringe in un’antica supplica: – Me l’ha detto lui, il signor Carlo, di dirtelo, di andare via, e mi ha detto anche di dirti di stare attento a uno, ah sì, di stare attento a Defendente, sì, di stare attento a Defendente mi ha detto di dirti il signor Carlo, a te. – Sì ma chi l’ha preso, italiani o tedeschi? Toni mi snocciola una filastrocca monferrina fitta fitta dove si capisce che importa proprio niente chi se l’è portato via di tutti quelli che lo fanno adesso di por-
Arrivo a Calosso e c’è troppo silenzio. Silenzio che conosco. Bici al muro e corro in giro in cerca di Carlo. Catenaccio in fabbrica dei tappi, chiuso a chiave nella casa padronale. Busso, picchio forte. Niente. Nessuno. Mi guardo intorno e sento puzza d’aglio. Busso a turno alle due porte. Un vicino si affaccia, scocciato e premuroso, imbaccucato nel mantello nero paesano e mi fa cenni preoccupati di finirla e di smammare. Toni il vecchio factotum sbuca da casa sua, le mani in segno di pericolo e minaccia, lui sempre necessario: – L’hanno portato via il signor Carlo stamattina. – Chi, dove, perché? Toni si stringe in tutto il vecchio corpo. Ripeto la domanda, tolgo il dove e il perché: – Chi l’ha portato via. – So niente. Ma tu scappa via ne’ giovinotto che tornano quei lì, tornano più di Gelindo per Natale, – e mi prende le mani nelle sue, le scuote e me le stringe in un’antica supplica: – Me l’ha detto lui, il signor Carlo, di dirtelo, di andare via, e mi ha detto anche di dirti di stare attento a uno, ah sì, di stare attento a Defendente, sì, di stare attento a Defendente mi ha detto di dirti il signor Carlo, a te. – Sì ma chi l’ha preso, italiani o tedeschi? Toni mi snocciola una filastrocca monferrina fitta fitta dove si capisce che importa proprio niente chi se l’è portato via di tutti quelli che lo fanno adesso di por-
tarsi via la gente chissà dove, boia d’un mondo ladro assassino e bastardo, scappa via da qui che è tutta una tagliola. – Scappo, e dove vado? – Ad Asti, scappa su in città, torna dai preti, fatti furbo! – Asti la tengono i crucchi e gli alleati la bombardano, la gente sfolla qua in campagna. – Anche i farabutti sfollano in campagna. Tu fatti furbo e attento al Defendente, là, di Cassinasco. Mi faccio furbo, rimonto in bici, prendo in giù nel mare di vigneti spogli verso Asti. Ecco cosa fa che sono andato io a Cassinasco, da Ricu Gross che si prepara al dopoguerra, così penso, mentre pedalo a cerchi belli tondi in aria, e poco prima di Castiglione d’Asti fuori da una curva in salitella vado a finire dritto contro un posto di blocco militare: mi ricevono a braccia aperte, la bici a strascicare giù per terra, i tappi sparpagliati in tutto lo stradone, giusto nelle braccia di un omone che mi ferma con il petto e la pancia parati a bloccarmi a gambe larghe e stivaloni. Sono gi-enne-erre, puah, Guardia Nazionale Repubblicana. Puzza d’aglio. La prima cosa che ho imparato alla Legione è la puzza sotto il naso per i gi enne erre, gente raccogliticcia, tutti cacasotto, pasticcioni in divise abborracciate, giennerrini, il peggiore tra i brutti incontri. Mi vociano intorno con i fiocchi dei fez in movimento sulla faccia: chi sei, che fai qui, documenti, tira su le mani, dove vai, da dove vieni, cos’hai lì nel cesto, è tua la bicicletta? E ridono. Che caspita c’è da ridere? – Nix kaputt, – dico io, e mi ritrovo in mano la girandola rossa. Il capo si fa avanti: – Silenzio! – Zitti che parla lui,
con il fiocco del fez che dondola smargiasso: – Chi sei? – Nix kaputt! – Come ti chiami? – Nix kaputt! Altro non mi cavano, bocca aperta e mani in alto, la girandola rossa nella destra. Però la cosa piace, ridono, mi perquisiscono con poco impegno, con poche mani. Uno fruga nella borsetta degli attrezzi della bici e intasca paraliquido e pezzette. Sto al gioco. Forse per sbaglio mi slacciano la cinghia e i pantaloni mi cadono sui piedi. Giù anche le mutande, no? Senza mutande e culo all’aria mi muovo a passettini strascicando i piedi, come un pinguino, come tutti facciamo da bambini: e i più di questi sei (sì sono proprio in sei) non l’hanno fatto molto tempo fa, imberbi come me. Non devo fare sforzi per farmi passare per scemo, uno scemo deluso e spaventato della perdita dei tappi che però non molla la girandolina rossa, anche se questi qui devono essere abituati a chi fa lo scemo per non pagare il dazio. Tutti questi tappi rotti lì per terra sono troppo strani, e comici anche loro. Finché giù lungo la strada adocchiano qualcosa di più importante, non badano più a me, mi metto in bocca lo stecco della girandola, mi tiro su i pantaloni, lascio loro la bici, mi riallaccio la cinghia e mani in alto e girandola levata prendo giù di traverso per la riva fuori strada, con le loro risate per viatico. Mi arriva qualche cosa sulla nuca, so che è un tappo rotto. Come li ha chiamati Carlo i posti di blocco intorno ad Asti della Guardia Nazionale Repubblicana? Viscidi. E io scivolo via, rimpiangendo la bici di Carlo San-
tarsi via la gente chissà dove, boia d’un mondo ladro assassino e bastardo, scappa via da qui che è tutta una tagliola. – Scappo, e dove vado? – Ad Asti, scappa su in città, torna dai preti, fatti furbo! – Asti la tengono i crucchi e gli alleati la bombardano, la gente sfolla qua in campagna. – Anche i farabutti sfollano in campagna. Tu fatti furbo e attento al Defendente, là, di Cassinasco. Mi faccio furbo, rimonto in bici, prendo in giù nel mare di vigneti spogli verso Asti. Ecco cosa fa che sono andato io a Cassinasco, da Ricu Gross che si prepara al dopoguerra, così penso, mentre pedalo a cerchi belli tondi in aria, e poco prima di Castiglione d’Asti fuori da una curva in salitella vado a finire dritto contro un posto di blocco militare: mi ricevono a braccia aperte, la bici a strascicare giù per terra, i tappi sparpagliati in tutto lo stradone, giusto nelle braccia di un omone che mi ferma con il petto e la pancia parati a bloccarmi a gambe larghe e stivaloni. Sono gi-enne-erre, puah, Guardia Nazionale Repubblicana. Puzza d’aglio. La prima cosa che ho imparato alla Legione è la puzza sotto il naso per i gi enne erre, gente raccogliticcia, tutti cacasotto, pasticcioni in divise abborracciate, giennerrini, il peggiore tra i brutti incontri. Mi vociano intorno con i fiocchi dei fez in movimento sulla faccia: chi sei, che fai qui, documenti, tira su le mani, dove vai, da dove vieni, cos’hai lì nel cesto, è tua la bicicletta? E ridono. Che caspita c’è da ridere? – Nix kaputt, – dico io, e mi ritrovo in mano la girandola rossa. Il capo si fa avanti: – Silenzio! – Zitti che parla lui,
con il fiocco del fez che dondola smargiasso: – Chi sei? – Nix kaputt! – Come ti chiami? – Nix kaputt! Altro non mi cavano, bocca aperta e mani in alto, la girandola rossa nella destra. Però la cosa piace, ridono, mi perquisiscono con poco impegno, con poche mani. Uno fruga nella borsetta degli attrezzi della bici e intasca paraliquido e pezzette. Sto al gioco. Forse per sbaglio mi slacciano la cinghia e i pantaloni mi cadono sui piedi. Giù anche le mutande, no? Senza mutande e culo all’aria mi muovo a passettini strascicando i piedi, come un pinguino, come tutti facciamo da bambini: e i più di questi sei (sì sono proprio in sei) non l’hanno fatto molto tempo fa, imberbi come me. Non devo fare sforzi per farmi passare per scemo, uno scemo deluso e spaventato della perdita dei tappi che però non molla la girandolina rossa, anche se questi qui devono essere abituati a chi fa lo scemo per non pagare il dazio. Tutti questi tappi rotti lì per terra sono troppo strani, e comici anche loro. Finché giù lungo la strada adocchiano qualcosa di più importante, non badano più a me, mi metto in bocca lo stecco della girandola, mi tiro su i pantaloni, lascio loro la bici, mi riallaccio la cinghia e mani in alto e girandola levata prendo giù di traverso per la riva fuori strada, con le loro risate per viatico. Mi arriva qualche cosa sulla nuca, so che è un tappo rotto. Come li ha chiamati Carlo i posti di blocco intorno ad Asti della Guardia Nazionale Repubblicana? Viscidi. E io scivolo via, rimpiangendo la bici di Carlo San-
na. Di lui mi restano in tasca questi pochi soldi, non spesi per comprare tappi rotti a Cassinasco. Già in città ricordo una cosa che ho sentito da Carlo Sanna, che i terreni di periferia qui attorno ad Asti sono stati minati dai tedeschi per l’occupazione militare, non ci passerebbe una formica. Io ci sono passato. E a cose fatte sto sudando di paura.
Al buio, solo una luce rossa tremolante sull’altare, la chiesa di San Giuseppe in corso Alfieri è vuota e silenziosa più della città sfollata al buio della sera. Sgattaiolando nella chiesa, nel giardino antico di casa Alfieri sento una civetta, sull’albero dove il vate si isolava nel volli sempre volli. I miei passi in chiesa sollevano rumori di cisterna. Perso il galateo devozionale. Mi lascio cadere sopra un banco in fondo, navata di sinistra. Aspetto che i miei occhi si abituino al buio. Gli odori sono quelli di un tempo, ma sbiaditi, fiacchi. Credevo di sapere dove andare, che fare, passate le maglie di controllo dello sfollamento, larghe, molto larghe. Sono di casa in questa chiesa attaccata a Santa Chiara bombardata. Fuori in corso Alfieri ho girato intorno a Santa Chiara, ma era troppo scuro. Al portone principale sprangato c’è ancora la targhetta con su scritto PP. Oblati. Ma qui, nella chiesa vuota che il silenzio ingrandisce con l’antico odore di chiesa fatto ancora di cera sciolta e incenso e fiori vecchi, eccolo a sinistra in fondo alla navata il vecchio ingresso laterale dalla chiesa al chiostro di Santa Chiara, quasi un cunicolo segreto lungo la cripta con la tomba del Fondatore della congregazione. Due porte. Un tempo erano sempre aperte tutt’e due. Ci dicevano che ogni genuflessione con giaculatoria davanti alla tomba è una spintarella alla santificazione canonica del Padre Fondatore, e che porta bene. Solo che poi ho conosciuto un altro
na. Di lui mi restano in tasca questi pochi soldi, non spesi per comprare tappi rotti a Cassinasco. Già in città ricordo una cosa che ho sentito da Carlo Sanna, che i terreni di periferia qui attorno ad Asti sono stati minati dai tedeschi per l’occupazione militare, non ci passerebbe una formica. Io ci sono passato. E a cose fatte sto sudando di paura.
Al buio, solo una luce rossa tremolante sull’altare, la chiesa di San Giuseppe in corso Alfieri è vuota e silenziosa più della città sfollata al buio della sera. Sgattaiolando nella chiesa, nel giardino antico di casa Alfieri sento una civetta, sull’albero dove il vate si isolava nel volli sempre volli. I miei passi in chiesa sollevano rumori di cisterna. Perso il galateo devozionale. Mi lascio cadere sopra un banco in fondo, navata di sinistra. Aspetto che i miei occhi si abituino al buio. Gli odori sono quelli di un tempo, ma sbiaditi, fiacchi. Credevo di sapere dove andare, che fare, passate le maglie di controllo dello sfollamento, larghe, molto larghe. Sono di casa in questa chiesa attaccata a Santa Chiara bombardata. Fuori in corso Alfieri ho girato intorno a Santa Chiara, ma era troppo scuro. Al portone principale sprangato c’è ancora la targhetta con su scritto PP. Oblati. Ma qui, nella chiesa vuota che il silenzio ingrandisce con l’antico odore di chiesa fatto ancora di cera sciolta e incenso e fiori vecchi, eccolo a sinistra in fondo alla navata il vecchio ingresso laterale dalla chiesa al chiostro di Santa Chiara, quasi un cunicolo segreto lungo la cripta con la tomba del Fondatore della congregazione. Due porte. Un tempo erano sempre aperte tutt’e due. Ci dicevano che ogni genuflessione con giaculatoria davanti alla tomba è una spintarella alla santificazione canonica del Padre Fondatore, e che porta bene. Solo che poi ho conosciuto un altro
fondatore, il maggiore Berger. Io li tradisco sempre i fondatori, penso mentre provo, ma la porta è chiusa, e il mio tocco libera gli echi della cripta. Anche le porte qui partecipano allo sforzo bellico. Mi risiedo al banco. Qualcuno stasera deve pur venire a chiudere la chiesa. Mi torna in mente l’organo. Lo indovino lassù nella penombra con le canne di lunghezza differente tutte belle in ordine gerarchico, che accompagnava i nostri cori a quattro voci miste, Palestrina, Arcadelt, da Vittoria, Orlando di Lasso. Nella schola cantorum io prima ero contralto, poi tenore. Davo gli attacchi, sempre un po’ stonato, però sempre a tempo… Veni veni de Libano… Gloria in excelsis Deo… Dies irae dies illa… Magnificat anima mea Dominum… la volta che don Praglia ha tentato con noi anche il Magnificat del grande Sebastiano Bach, quella in re maggiore, la seconda versione portentosa, diceva, ed era vero. Che c’è di meglio al mondo del Magnificat del vecchio Giovanni Sebastiano, in pace e guerra? Ma proprio sul più bello del Magnificat di Bach, su quel bel fugato del quia respexit humilitatem ancillae suae, l’organo si spegne in un lamento lungo, senza fiato. Vacca boia, scappa a don Pissavino che preme a vuoto sui tasti delle tre tastiere. Che succede, chiede giù in presbiterio il gran cipiglio di monsignor vescovo. Was ist denn hier los, chiede l’alleato germanico al pezzo grosso della milizia in uniforme da parata, con l’orbace e tutto, che non lo capisce e fa una faccia che va benissimo come risposta che rilancia la domanda. Succede che l’addetto ai mantici, Giulìn dell’Ospizio, ha smesso di dare fiato ai mantici con le due leve perché l’hanno offeso gli altri matti dell’Ospizio: che lui coi suoni e canti in chiesa c’entra niente. Ah sì, e al-
lora Giulìn nel bel mezzo del pontificale del vescovo e tre cappellani militari con in testa don Ranieri capitano della Julia in concelebrazione per benedire i vessilli dell’ARMIR in partenza per la Russia contro il comunismo senzadio, fa vedere che c’entra, c’entra eccome. E Fratel Cesare gli ha dovuto preparare lì sul campo una bella patacca di cartone appesa al petto con su scritto un cubitale Organista ai Mantici. E via di nuovo con il vecchio Giovanni Sebastiano… quia fecit mihi magnam qui potens est! Finalmente il silenzio è rotto, straziato da manovre con le chiavi in una serratura, quella della cripta, cinque scatti nel vuoto buio della sacra architettura come colpi di mortaio, e infine un chiavistello che trapassa le navate come uno spezzone. Cigolii, e una sagoma in abito talare si avvia con passo d’abitudine alla porta laterale della chiesa. Il solo fruscio della tonaca sembra un fiume in piena. La porta della cripta gli resta dietro spalancata. La prima tentazione è d’infilarmici. Ma guardo meglio, perché mi sembra lui, anche se fuori posto, don Pissavino con il lembo della tonaca morsicato dalla catena della bici. Lui o non lui mi faccio vivo: – Padre, scusate… Si ferma, mi guarda: – Sì? – Mi rinchiudete dentro per la notte? – Se lo preferisci, figliolo, ma io qui devo chiudere. È lui, don Pissavino, in divisa normale da uomo di chiesa, tricorno in testa e grande sciarpa al collo. Mi alzo e mi avvicino: – Non mi riconoscete? – Sei tu, Brau, Efisio Brau? – Mica tanto. – Già, la pecorella smarrita, – si avvicina: – Eh già,
fondatore, il maggiore Berger. Io li tradisco sempre i fondatori, penso mentre provo, ma la porta è chiusa, e il mio tocco libera gli echi della cripta. Anche le porte qui partecipano allo sforzo bellico. Mi risiedo al banco. Qualcuno stasera deve pur venire a chiudere la chiesa. Mi torna in mente l’organo. Lo indovino lassù nella penombra con le canne di lunghezza differente tutte belle in ordine gerarchico, che accompagnava i nostri cori a quattro voci miste, Palestrina, Arcadelt, da Vittoria, Orlando di Lasso. Nella schola cantorum io prima ero contralto, poi tenore. Davo gli attacchi, sempre un po’ stonato, però sempre a tempo… Veni veni de Libano… Gloria in excelsis Deo… Dies irae dies illa… Magnificat anima mea Dominum… la volta che don Praglia ha tentato con noi anche il Magnificat del grande Sebastiano Bach, quella in re maggiore, la seconda versione portentosa, diceva, ed era vero. Che c’è di meglio al mondo del Magnificat del vecchio Giovanni Sebastiano, in pace e guerra? Ma proprio sul più bello del Magnificat di Bach, su quel bel fugato del quia respexit humilitatem ancillae suae, l’organo si spegne in un lamento lungo, senza fiato. Vacca boia, scappa a don Pissavino che preme a vuoto sui tasti delle tre tastiere. Che succede, chiede giù in presbiterio il gran cipiglio di monsignor vescovo. Was ist denn hier los, chiede l’alleato germanico al pezzo grosso della milizia in uniforme da parata, con l’orbace e tutto, che non lo capisce e fa una faccia che va benissimo come risposta che rilancia la domanda. Succede che l’addetto ai mantici, Giulìn dell’Ospizio, ha smesso di dare fiato ai mantici con le due leve perché l’hanno offeso gli altri matti dell’Ospizio: che lui coi suoni e canti in chiesa c’entra niente. Ah sì, e al-
lora Giulìn nel bel mezzo del pontificale del vescovo e tre cappellani militari con in testa don Ranieri capitano della Julia in concelebrazione per benedire i vessilli dell’ARMIR in partenza per la Russia contro il comunismo senzadio, fa vedere che c’entra, c’entra eccome. E Fratel Cesare gli ha dovuto preparare lì sul campo una bella patacca di cartone appesa al petto con su scritto un cubitale Organista ai Mantici. E via di nuovo con il vecchio Giovanni Sebastiano… quia fecit mihi magnam qui potens est! Finalmente il silenzio è rotto, straziato da manovre con le chiavi in una serratura, quella della cripta, cinque scatti nel vuoto buio della sacra architettura come colpi di mortaio, e infine un chiavistello che trapassa le navate come uno spezzone. Cigolii, e una sagoma in abito talare si avvia con passo d’abitudine alla porta laterale della chiesa. Il solo fruscio della tonaca sembra un fiume in piena. La porta della cripta gli resta dietro spalancata. La prima tentazione è d’infilarmici. Ma guardo meglio, perché mi sembra lui, anche se fuori posto, don Pissavino con il lembo della tonaca morsicato dalla catena della bici. Lui o non lui mi faccio vivo: – Padre, scusate… Si ferma, mi guarda: – Sì? – Mi rinchiudete dentro per la notte? – Se lo preferisci, figliolo, ma io qui devo chiudere. È lui, don Pissavino, in divisa normale da uomo di chiesa, tricorno in testa e grande sciarpa al collo. Mi alzo e mi avvicino: – Non mi riconoscete? – Sei tu, Brau, Efisio Brau? – Mica tanto. – Già, la pecorella smarrita, – si avvicina: – Eh già,
mica gli piacerebbe qui dentro la compagnia notturna a uno come te. Solo che fuori c’è il coprifuoco. E nevica da un’ora, – e mi dà la mano, di taglio, non dorso in su come gli altri preti per stamparci il bacio di rispetto, ma mi prende la mano in una stretta antifascista mentre mi attira in un abbraccio e gli rovino addosso tutto quanto: – Santo cielo figliolo, sei sicuro di non avere la febbre? Sono sicuro che ci ho dentro un freddo, nel cuore e nelle ossa, e che questa qui è la prima volta che incontrandolo don Pissavino non mi cita Dante.
When they begin the beguine… Non so per quanti giorni e notti l’ho sentito when they begin the beguine, il ritmo pestato con i piedi sopra la mia testa persa chissà dove. Poi il viso di don Pissavino tremolante come riflesso nell’acqua del lavamano: – Eccoti finalmente qua di nuovo tra di noi, Efisio Brau, pecorella smarrita… In exitu Israel cantando de Aegypto… – Ma io perso a considerare che don Pissavino stavolta aveva fatto tombola, o per lo meno un terno perché era la prima volta che non solo citava Dante, ma pure il vangelo e insieme a Dante anche un salmo dell’Antico Testamento in un solo endecasillabo. – Siamo a Santa Chiara, Asti, corso Alfieri , è il sette febbraio , terzo martedì di quaresima. Sei qui da quattro giorni e fuori fiocca. Ma c’è un americano qui che canta e canta… e non canta In exitu Israel de Aegypto: canta Begin the beguine… O è nella mia testa che mi scoppia? – No, quello canta davvero, sempre. In quanto alla tua testa… è perché stai guarendo da una polmonite. – Polmonite? E canta nella radio quella voce? – No, di sopra, nella sua stanza, – e don Pissavino accennava in alto. Cercavo di raccapezzarmi, ma quello di sopra ricominciava con la sua beguine: – Chi è, da dove arriva?
mica gli piacerebbe qui dentro la compagnia notturna a uno come te. Solo che fuori c’è il coprifuoco. E nevica da un’ora, – e mi dà la mano, di taglio, non dorso in su come gli altri preti per stamparci il bacio di rispetto, ma mi prende la mano in una stretta antifascista mentre mi attira in un abbraccio e gli rovino addosso tutto quanto: – Santo cielo figliolo, sei sicuro di non avere la febbre? Sono sicuro che ci ho dentro un freddo, nel cuore e nelle ossa, e che questa qui è la prima volta che incontrandolo don Pissavino non mi cita Dante.
When they begin the beguine… Non so per quanti giorni e notti l’ho sentito when they begin the beguine, il ritmo pestato con i piedi sopra la mia testa persa chissà dove. Poi il viso di don Pissavino tremolante come riflesso nell’acqua del lavamano: – Eccoti finalmente qua di nuovo tra di noi, Efisio Brau, pecorella smarrita… In exitu Israel cantando de Aegypto… – Ma io perso a considerare che don Pissavino stavolta aveva fatto tombola, o per lo meno un terno perché era la prima volta che non solo citava Dante, ma pure il vangelo e insieme a Dante anche un salmo dell’Antico Testamento in un solo endecasillabo. – Siamo a Santa Chiara, Asti, corso Alfieri , è il sette febbraio , terzo martedì di quaresima. Sei qui da quattro giorni e fuori fiocca. Ma c’è un americano qui che canta e canta… e non canta In exitu Israel de Aegypto: canta Begin the beguine… O è nella mia testa che mi scoppia? – No, quello canta davvero, sempre. In quanto alla tua testa… è perché stai guarendo da una polmonite. – Polmonite? E canta nella radio quella voce? – No, di sopra, nella sua stanza, – e don Pissavino accennava in alto. Cercavo di raccapezzarmi, ma quello di sopra ricominciava con la sua beguine: – Chi è, da dove arriva?
Don Pissavino accennava ancora in su: – Dal cielo. Già, è un paracadutista americano. – Sono già qui, gli americani? – Lui sì, è qui, lo senti. Troppo strana questa, di un americano a Santa Chiara. Ma don Pissavino era in vena di sorprese: – E se è per questo c’è anche un inglese, – non sceso dal cielo, ha spiegato, ma approdato a mare nei pressi di Savona e poi a piedi di notte fino a lì. – E chi glielo ha dato l’indirizzo, il diavolo o lo Spirito Santo? E Frinco, e tutti gli altri? Don Pissavino ha preso sul serio le mie domande, anche se a me non parevano troppo serie, con quello che mi passava per la testa. Mi ha informato che a Frinco c’è tutta la compagnia di sfollati da Santa Chiara che riesce ancora a vivere, e perfino a studiare, scrivendo con inchiostro che don Pissavino ha ottenuto diluendo resti di vecchie tinte con aggiunte di succhi vegetali del suo orto. Ha fatto certi pentoloni d’inchiostro, come allungando il brodo. Il peggio è per la carta, ma il vantaggio dell’inchiostro diluito è che si toglie via dalla carta come niente, e su di nuovo a scriverci più volte come in antichi palinsesti. Non ci ho capito molto. Ma ho capito che don Pissavino ha lasciato Frinco appena sono arrivati al castello tutti gli sfollati da Santa Chiara, ed è tornato solo ad Asti a badare a Santa Chiara, alla chiesa di San Giuseppe, all’Ospizio, alla tipografia e a tutto quanto si salva dai bombardamenti, e a trarre buon partito dalla sua mania di solitudine. Ma anche a imboscare i soldati demoplutocratici. Non gliel’ho detto. Gli ho detto: – Però voi ricevete gente a Santa Chiara. – Sì, gli sbandati, come te.
Già, ma non ho capito. Tanto meno quando ho cercato di sollevarmi sul letto e qualche cosa mi ci ha tenuto inchiodato. – Hello buddy! – Mi fa quel faccione rincagnato. Dietro di lui quell’altro spilungone magro e biondo col vassoio pieno di bicchierini bassi e tondi di vetro, come un cameriere in guanti bianchi in una pantomima da Grand Hotel: – Here we are! – E questi due che vogliono? – Girati pancia in giù, – ha ordinato don Pissavino facendo pollice verso: – Io e questi due demoplutocratici ti applichiamo le ventose. Finora ti hanno fatto bene, fidati. Ho ubbidito al pollice di don Pissavino. Troppa fatica, ma mi sono voltato. Sopra di me il tipo rincagnato mugugnava il suo bighindebighìn e l’altro smunto: – Shut up, please! – Invano. Ma non era il caso di insistere a chiudere la bocca all’americano con la sua beguine che ha aveva già tirato fuori un accendisigaro, pronto a fare fuoco con il dito sulla rotella dentata. A pancia in giù, dalla finestra vedevo fuori in alto di traverso un pezzo di tetto imbiancato del campanile col gallo dei venti in un turbine di fiocchi molto fitti. Tutto intorno sprizzi di fiamma e odore d’alcool e di vino cotto, polpastrelli freddi sulla schiena, la pelle della schiena che scottava e tirava: specialmente l’inglese si è dato da fare serio e zelante, con quella specie di alterigia professionale di chi fa un lavoro legato ai segreti di un mestiere. E tutti e tre contenti del nice job, very nice indeed. Io mi ci addormento.
Don Pissavino accennava ancora in su: – Dal cielo. Già, è un paracadutista americano. – Sono già qui, gli americani? – Lui sì, è qui, lo senti. Troppo strana questa, di un americano a Santa Chiara. Ma don Pissavino era in vena di sorprese: – E se è per questo c’è anche un inglese, – non sceso dal cielo, ha spiegato, ma approdato a mare nei pressi di Savona e poi a piedi di notte fino a lì. – E chi glielo ha dato l’indirizzo, il diavolo o lo Spirito Santo? E Frinco, e tutti gli altri? Don Pissavino ha preso sul serio le mie domande, anche se a me non parevano troppo serie, con quello che mi passava per la testa. Mi ha informato che a Frinco c’è tutta la compagnia di sfollati da Santa Chiara che riesce ancora a vivere, e perfino a studiare, scrivendo con inchiostro che don Pissavino ha ottenuto diluendo resti di vecchie tinte con aggiunte di succhi vegetali del suo orto. Ha fatto certi pentoloni d’inchiostro, come allungando il brodo. Il peggio è per la carta, ma il vantaggio dell’inchiostro diluito è che si toglie via dalla carta come niente, e su di nuovo a scriverci più volte come in antichi palinsesti. Non ci ho capito molto. Ma ho capito che don Pissavino ha lasciato Frinco appena sono arrivati al castello tutti gli sfollati da Santa Chiara, ed è tornato solo ad Asti a badare a Santa Chiara, alla chiesa di San Giuseppe, all’Ospizio, alla tipografia e a tutto quanto si salva dai bombardamenti, e a trarre buon partito dalla sua mania di solitudine. Ma anche a imboscare i soldati demoplutocratici. Non gliel’ho detto. Gli ho detto: – Però voi ricevete gente a Santa Chiara. – Sì, gli sbandati, come te.
Già, ma non ho capito. Tanto meno quando ho cercato di sollevarmi sul letto e qualche cosa mi ci ha tenuto inchiodato. – Hello buddy! – Mi fa quel faccione rincagnato. Dietro di lui quell’altro spilungone magro e biondo col vassoio pieno di bicchierini bassi e tondi di vetro, come un cameriere in guanti bianchi in una pantomima da Grand Hotel: – Here we are! – E questi due che vogliono? – Girati pancia in giù, – ha ordinato don Pissavino facendo pollice verso: – Io e questi due demoplutocratici ti applichiamo le ventose. Finora ti hanno fatto bene, fidati. Ho ubbidito al pollice di don Pissavino. Troppa fatica, ma mi sono voltato. Sopra di me il tipo rincagnato mugugnava il suo bighindebighìn e l’altro smunto: – Shut up, please! – Invano. Ma non era il caso di insistere a chiudere la bocca all’americano con la sua beguine che ha aveva già tirato fuori un accendisigaro, pronto a fare fuoco con il dito sulla rotella dentata. A pancia in giù, dalla finestra vedevo fuori in alto di traverso un pezzo di tetto imbiancato del campanile col gallo dei venti in un turbine di fiocchi molto fitti. Tutto intorno sprizzi di fiamma e odore d’alcool e di vino cotto, polpastrelli freddi sulla schiena, la pelle della schiena che scottava e tirava: specialmente l’inglese si è dato da fare serio e zelante, con quella specie di alterigia professionale di chi fa un lavoro legato ai segreti di un mestiere. E tutti e tre contenti del nice job, very nice indeed. Io mi ci addormento.
Mi sveglia un rumore brutto di gente che si muove e parla forte in un modo che mi pare conosciuto, sbattono porte e altro. Entra don Pissavino col pollice verso: – Niente paura Brau, stai giù buono e calmo! C’è la polizia italo-tedesca. Ci siamo abituati. – Butta sul letto una tonaca, richiude la porta e lo sento parlare con qualcuno che fa domande brusche, poi violente. Una voce sacrilega che credo di conoscere chiede di sapere perché don Pissavino ha fatto una certa cosa: sì, perché don Pissavino ha raccolto e portato via il corpo di quel ribelle e traditore fucilato qua fuori in corso Alfieri stamattina: – Perché? Voi lo conoscevate? – No, ma seppellire i morti è un’opera di misericordia corporale. – Chi vi ha mandato? – Il mio dovere di cristiano. – Chi vi guida? Mauri? Garemi? Con chi siete in collegamento? – Col Signore, spero. Secco e osceno il rumore di uno schiaffo, poi di un altro e di un altro ancora, e ancora, troppo a lungo, ripetendo uguali le domande ormai senza risposte. Ho voglia di gridare e riesco solo a stringere le mascelle. Sì, anche se alterata io la conosco quella sporca voce. La spegnerei molto volentieri. E provo a immaginare che la voce e gli schiaffi là fuori contro don Pissavino
Mi sveglia un rumore brutto di gente che si muove e parla forte in un modo che mi pare conosciuto, sbattono porte e altro. Entra don Pissavino col pollice verso: – Niente paura Brau, stai giù buono e calmo! C’è la polizia italo-tedesca. Ci siamo abituati. – Butta sul letto una tonaca, richiude la porta e lo sento parlare con qualcuno che fa domande brusche, poi violente. Una voce sacrilega che credo di conoscere chiede di sapere perché don Pissavino ha fatto una certa cosa: sì, perché don Pissavino ha raccolto e portato via il corpo di quel ribelle e traditore fucilato qua fuori in corso Alfieri stamattina: – Perché? Voi lo conoscevate? – No, ma seppellire i morti è un’opera di misericordia corporale. – Chi vi ha mandato? – Il mio dovere di cristiano. – Chi vi guida? Mauri? Garemi? Con chi siete in collegamento? – Col Signore, spero. Secco e osceno il rumore di uno schiaffo, poi di un altro e di un altro ancora, e ancora, troppo a lungo, ripetendo uguali le domande ormai senza risposte. Ho voglia di gridare e riesco solo a stringere le mascelle. Sì, anche se alterata io la conosco quella sporca voce. La spegnerei molto volentieri. E provo a immaginare che la voce e gli schiaffi là fuori contro don Pissavino
siano di Siro Gans che sta meritando la morte che ha già avuto. Silenzio. Allento le mascelle, mi fanno male. Se lo portano via? Si sentono lontani suoni e voci con riverberi nei grandi luoghi vuoti di tutta Santa Chiara. Poi tornano vicini passi frettolosi, uno entra lì da me: è uno della Legione, sì, Guelfo Grimm, che mi guarda con distratta insistenza, mauser sempre spianato, strizzando gli occhi e con la bocca a culo di gallina, mentre sto fermo con respiri corti, tirate su bene le coperte fino agli occhi. Cerco di convincermi che devo essere cambiato, dimagrito, senza più i capelli alla tedesca, spiano la faccia, mi hanno detto spesso che se spiano questa mia faccia aggrondata divento un altro. Mi ha riconosciuto? Io sì lo riconosco nel suo equipaggiamento da legionario. E adesso sono pure sicuro che la voce di prima là fuori e quindi anche gli schiaffi erano di Capo Franco Wolf. E se con loro ci fosse Anselmo Frett guarito nella gamba e fuori d’ospedale? Guelfo Grimm si muove a caso per la stanza, guarda la tonaca sul letto, poi il crocifisso appeso al muro come se non ne avesse mai visto uno, guarda dalla finestra, a lungo. Poi si volta, vede le mie scarpe da legionario che spuntano da sotto il letto, mi osserva più attento, poggia la canna del fucile sulle coperte al di sopra del mio petto: – Hai il fiato corto, – mi dice. – Ho la polmonite. – È contagiosa? – Non lo so… be’ sì, dicono di sì. Fa due passi indietro, rispiana il mauser. Ma io penso, per aiutarmi, che questo qui non fa niente, questo spara ai maschi tanto quanto si è fatta la sorella di Ricu Gross.
Lo chiamano da fuori con un urlo. Lui grida che viene e poi brontola un paio di moccoli in dialetto. Mi riguarda. Quando è già sulla porta si ferma, si volta, solleva il mauser, lo punta al mio petto che fa andare in fretta su e giù le coperte e con la voce mi fa bum! e ride e solleva la canna del mauser. Guelfo Grimm se ne va chiudendo la porta con un calcio all’indietro, manco fosse Piola che passa la palla a rinculo. Tutti quei passi e voci militari, rimarcati, duri, mi accorgo che mi fanno schifo, sì proprio uno schifo insopportabile, da vomitare. Infatti vomito. Poi si rifà silenzio, con lontani tonfi, scoppi e riverberi di voce anche giù fuori nel cortile e sotto i portici, fino in corso Alfieri. Là immagino l’Aurelia nera come un grande ragno fermo nell’agguato.
siano di Siro Gans che sta meritando la morte che ha già avuto. Silenzio. Allento le mascelle, mi fanno male. Se lo portano via? Si sentono lontani suoni e voci con riverberi nei grandi luoghi vuoti di tutta Santa Chiara. Poi tornano vicini passi frettolosi, uno entra lì da me: è uno della Legione, sì, Guelfo Grimm, che mi guarda con distratta insistenza, mauser sempre spianato, strizzando gli occhi e con la bocca a culo di gallina, mentre sto fermo con respiri corti, tirate su bene le coperte fino agli occhi. Cerco di convincermi che devo essere cambiato, dimagrito, senza più i capelli alla tedesca, spiano la faccia, mi hanno detto spesso che se spiano questa mia faccia aggrondata divento un altro. Mi ha riconosciuto? Io sì lo riconosco nel suo equipaggiamento da legionario. E adesso sono pure sicuro che la voce di prima là fuori e quindi anche gli schiaffi erano di Capo Franco Wolf. E se con loro ci fosse Anselmo Frett guarito nella gamba e fuori d’ospedale? Guelfo Grimm si muove a caso per la stanza, guarda la tonaca sul letto, poi il crocifisso appeso al muro come se non ne avesse mai visto uno, guarda dalla finestra, a lungo. Poi si volta, vede le mie scarpe da legionario che spuntano da sotto il letto, mi osserva più attento, poggia la canna del fucile sulle coperte al di sopra del mio petto: – Hai il fiato corto, – mi dice. – Ho la polmonite. – È contagiosa? – Non lo so… be’ sì, dicono di sì. Fa due passi indietro, rispiana il mauser. Ma io penso, per aiutarmi, che questo qui non fa niente, questo spara ai maschi tanto quanto si è fatta la sorella di Ricu Gross.
Lo chiamano da fuori con un urlo. Lui grida che viene e poi brontola un paio di moccoli in dialetto. Mi riguarda. Quando è già sulla porta si ferma, si volta, solleva il mauser, lo punta al mio petto che fa andare in fretta su e giù le coperte e con la voce mi fa bum! e ride e solleva la canna del mauser. Guelfo Grimm se ne va chiudendo la porta con un calcio all’indietro, manco fosse Piola che passa la palla a rinculo. Tutti quei passi e voci militari, rimarcati, duri, mi accorgo che mi fanno schifo, sì proprio uno schifo insopportabile, da vomitare. Infatti vomito. Poi si rifà silenzio, con lontani tonfi, scoppi e riverberi di voce anche giù fuori nel cortile e sotto i portici, fino in corso Alfieri. Là immagino l’Aurelia nera come un grande ragno fermo nell’agguato.
Ce l’ho fatta. Da giorni sono in piedi e cammino. Mi vesto, mi calzo e cammino. Mangio cose solide e cammino. Ieri il tenente David Baranski mi ha fatto perfino assaggiare una goccia di whisky dalla sua boccetta curva da tasca americana. Don Pissavino mi ha portato una mela, una mela a febbraio, chissà dove l’ha trovata così fuori stagione, un po’ raggrinzita ma buona da non potersi paragonare a nient’altro al mondo, solo al caco di Cassinasco. Riesco a mangiare le castagne secche che bolliamo in cucina grande e vuota. Stamattina in cortile con i due demopluto ci siamo tirati le palle di neve. Una ciascuno anche a don Pissavino, sulla schiena, senza chiasso perché loro sono uomini grandi e sono clandestini. Sono sui trent’anni. Ogni volta che ricevono qualcosa, come tre volte al giorno un po’ di cibo, con il grazie fanno un gesto complicato delle mani, del viso e degli occhi che forse vuol dire che poi dopo la guerra ci sarà una restituzione come si deve. David canta sempre il suo bighindebighìn: – Do you know Coul Pore? – mi fa. Boh, chi è Coul Pore? A very good musician. Un musicista? Ah sì Cole Porter! Be’, sentito sì, ma poco: meno di Palestrina e Monteverdi qui dai preti. L’inglese fuma e zitto. Si chiama Lovejoy, lieutenant Paul B. Lovejoy eccetera, e ha sempre un’ombra di di-
Ce l’ho fatta. Da giorni sono in piedi e cammino. Mi vesto, mi calzo e cammino. Mangio cose solide e cammino. Ieri il tenente David Baranski mi ha fatto perfino assaggiare una goccia di whisky dalla sua boccetta curva da tasca americana. Don Pissavino mi ha portato una mela, una mela a febbraio, chissà dove l’ha trovata così fuori stagione, un po’ raggrinzita ma buona da non potersi paragonare a nient’altro al mondo, solo al caco di Cassinasco. Riesco a mangiare le castagne secche che bolliamo in cucina grande e vuota. Stamattina in cortile con i due demopluto ci siamo tirati le palle di neve. Una ciascuno anche a don Pissavino, sulla schiena, senza chiasso perché loro sono uomini grandi e sono clandestini. Sono sui trent’anni. Ogni volta che ricevono qualcosa, come tre volte al giorno un po’ di cibo, con il grazie fanno un gesto complicato delle mani, del viso e degli occhi che forse vuol dire che poi dopo la guerra ci sarà una restituzione come si deve. David canta sempre il suo bighindebighìn: – Do you know Coul Pore? – mi fa. Boh, chi è Coul Pore? A very good musician. Un musicista? Ah sì Cole Porter! Be’, sentito sì, ma poco: meno di Palestrina e Monteverdi qui dai preti. L’inglese fuma e zitto. Si chiama Lovejoy, lieutenant Paul B. Lovejoy eccetera, e ha sempre un’ombra di di-
sgusto sulla faccia. Sarà la guerra. Me, mi guarda sempre di sottecchi. Ce l’ha col mondo. Deve avere deciso di essere in credito col mondo, qui, con tutto il tempo di fare bilanci. È il primo a sentire i rumori sospetti nei dintorni e in tutta Santa Chiara, quella ancora in piedi e quella bombardata, che per fortuna è il meno. Ciascuno ha il suo nascondiglio e anche altri nascondigli di riserva, tanto c’è spazio in abbondanza. Mi pare di capire, anzi ormai lo so che l’inglese ha una radio ricetrasmittente. Nessuno ne parla apertamente. Tra le risorse di camuffamento don Pissavino ci ha preparato una batteria di vecchie tonache da prete, appese con le molle alla corda dei panni di lavanderia, in fila come in processione. Tutto il luogo sembra popolato da chierici o clarisse in orazione. Vuoi uscire fuori? Devi travestirti. Mi hanno convinto a travestirmi, don Pissavino e a modo loro anche gli altri due imboscati: a travestirmi da chierico, non proprio da prete, non esageriamo. Io, vestito da donna come Achille imboscato per non andare alla guerra di Troia? Ma neanche a parlarne! Metti il naso fuori e finisci internato in Germania, dice don Pissavino. O al muro, penso io. – Eccoci qua! È l’abito che fa il monaco, in guerra più che a carnevale, – mi fa don Pissavino con la tonaca sul braccio. Ma non è spiritoso, lui per primo lo sa. Come io so che travestirsi in guerra è cosa seria, lo regola la Convenzione di Ginevra, nientemeno. I nostri due imboscati demopluto tengono pronte le divise da mettere addosso un istante prima di essere scoperti, con placchetta e tutto. – Se reciti bene la tua parte, per male che vada ti
prendono a ceffoni, – dice don Pissavino che ha ancora un occhio gonfio e il naso rotto. Come dirglielo? Come faccio a dirgli che per quelli che l’hanno preso a schiaffi ce l’ho anch’io, l’obbligo di una divisa? La divisa cachi della Legione seppellita nella segatura della scuola di Calamandrana, più di un secolo fa, da un certo Efis Brau. Se ce n’erano prima, non ci sono più specchi grandi a Santa Chiara, in questa lunga settimana santa bellica che non finisce mai. Chissà che effetto faccio tutto intero nel mio nuovo aspetto da chierico, veste nera talare e cappello a tesa larga. Faccio le prove di movimenti, saluto, togliere e rimettere il cappello, sorriso serio, sacra unzione. Forse sembro vero. Il tenente Lovejoy mi guarda fisso e mi dà la sua approvazione. L’americano manca poco che mi s’inginocchia per un baciamano. Mai le mani in tasca, insiste don Pissavino. Mai togliere il cappello: si vede che non hai la chierica. Vuoi che te la faccia, la chierica? No. E non stare sempre lì a guardare quanti sono tutti questi bottoni qui davanti. L’hai fatto il chierichetto, no? Sì, ma qui adesso è un’altra cosa. E quando facevo il chierichetto non mi sono mai tornati uguali i conti dei bottoni della tonaca. Ma con questa tonaca chissà come riesco a camminare per la strada. Don Pissavino mi dà un suo documento della curia diocesana, una specie di lasciapassare, un viatico di guerra: – Per quanto vale ormai con quei lanzichenecchi. Comunque stacci attento. Chissà se un giorno gli dirò che anch’io sono stato uno di quei lanzichenecchi. Meno male che lui non mi sollecita mai ai sacramenti, neanche alla confessione. È un poco protestante. Ma non alla maniera del tenente Lovejoy sempre un po’ accigliato, come quest’oggi che
sgusto sulla faccia. Sarà la guerra. Me, mi guarda sempre di sottecchi. Ce l’ha col mondo. Deve avere deciso di essere in credito col mondo, qui, con tutto il tempo di fare bilanci. È il primo a sentire i rumori sospetti nei dintorni e in tutta Santa Chiara, quella ancora in piedi e quella bombardata, che per fortuna è il meno. Ciascuno ha il suo nascondiglio e anche altri nascondigli di riserva, tanto c’è spazio in abbondanza. Mi pare di capire, anzi ormai lo so che l’inglese ha una radio ricetrasmittente. Nessuno ne parla apertamente. Tra le risorse di camuffamento don Pissavino ci ha preparato una batteria di vecchie tonache da prete, appese con le molle alla corda dei panni di lavanderia, in fila come in processione. Tutto il luogo sembra popolato da chierici o clarisse in orazione. Vuoi uscire fuori? Devi travestirti. Mi hanno convinto a travestirmi, don Pissavino e a modo loro anche gli altri due imboscati: a travestirmi da chierico, non proprio da prete, non esageriamo. Io, vestito da donna come Achille imboscato per non andare alla guerra di Troia? Ma neanche a parlarne! Metti il naso fuori e finisci internato in Germania, dice don Pissavino. O al muro, penso io. – Eccoci qua! È l’abito che fa il monaco, in guerra più che a carnevale, – mi fa don Pissavino con la tonaca sul braccio. Ma non è spiritoso, lui per primo lo sa. Come io so che travestirsi in guerra è cosa seria, lo regola la Convenzione di Ginevra, nientemeno. I nostri due imboscati demopluto tengono pronte le divise da mettere addosso un istante prima di essere scoperti, con placchetta e tutto. – Se reciti bene la tua parte, per male che vada ti
prendono a ceffoni, – dice don Pissavino che ha ancora un occhio gonfio e il naso rotto. Come dirglielo? Come faccio a dirgli che per quelli che l’hanno preso a schiaffi ce l’ho anch’io, l’obbligo di una divisa? La divisa cachi della Legione seppellita nella segatura della scuola di Calamandrana, più di un secolo fa, da un certo Efis Brau. Se ce n’erano prima, non ci sono più specchi grandi a Santa Chiara, in questa lunga settimana santa bellica che non finisce mai. Chissà che effetto faccio tutto intero nel mio nuovo aspetto da chierico, veste nera talare e cappello a tesa larga. Faccio le prove di movimenti, saluto, togliere e rimettere il cappello, sorriso serio, sacra unzione. Forse sembro vero. Il tenente Lovejoy mi guarda fisso e mi dà la sua approvazione. L’americano manca poco che mi s’inginocchia per un baciamano. Mai le mani in tasca, insiste don Pissavino. Mai togliere il cappello: si vede che non hai la chierica. Vuoi che te la faccia, la chierica? No. E non stare sempre lì a guardare quanti sono tutti questi bottoni qui davanti. L’hai fatto il chierichetto, no? Sì, ma qui adesso è un’altra cosa. E quando facevo il chierichetto non mi sono mai tornati uguali i conti dei bottoni della tonaca. Ma con questa tonaca chissà come riesco a camminare per la strada. Don Pissavino mi dà un suo documento della curia diocesana, una specie di lasciapassare, un viatico di guerra: – Per quanto vale ormai con quei lanzichenecchi. Comunque stacci attento. Chissà se un giorno gli dirò che anch’io sono stato uno di quei lanzichenecchi. Meno male che lui non mi sollecita mai ai sacramenti, neanche alla confessione. È un poco protestante. Ma non alla maniera del tenente Lovejoy sempre un po’ accigliato, come quest’oggi che
mi guardava preoccupato quando sono stato qualche istante a torso nudo, come ogni volta che ci facciamo il bucato, perché ciò che si lava non s’indossa, niente cambio. Devo essere pelle e ossa, penso leggendo la faccia del tenente inglese, lui che facendo il bucato senza sapone con l’acqua fredda ostenta resistenza all’inverno a torso nudo, con un traliccio buffo di bretelle sul petto e sulle scapole sporgenti. Nel pomeriggio, dopo le prove con l’abito da prete, nei penetrali ignoti riscopro il salottino buono. I mobili coperti di lenzuoli bianchi, come catafalchi, troppo tristi. Alle pareti, sagome di quadri tolti via. La mia visita sembra una profanazione. Anche una sfida. Un raggio di sole polveroso giù da un finestrone chiuso male finisce a illuminare un lenzuolo che ricopre un coso basso e stretto. Nella penombra mi avvicino adagio, sollevo e guardo un servizio di bicchieri da liquore in una credenzina, tutti bene in fila in uniforme di gala come soldatini in piazza d’armi. Nel ripiano più alto una Radio Balilla senza le interiora. Sotto, nel ripiano più basso c’è un affare, un coso, una specie di cassa, di valigia che non lascia indovinare che cos’è. Poi capisco, mettendo insieme l’altro affare sul ripiano più sopra che so subito che è la tromba, il diffusore di un grammofono, che va con la cassetta che sta sotto. Vorrei vedere chi resiste. Io non resisto, mi batte il cuore e prendo e metto lì per terra e tiro e apro e trovo pure sul piatto un vecchio disco malandato. Montare il diffusore a tromba, come si fa? Ci riesco subito, pulisco il disco con la manica della giacca, abbasso il braccio acustico che ha ancora una puntina inserita, giro la manovella di carica, tolgo il fermo e sì, il disco parte, sì che parte, gi-
ra e suona, suona ed è, ma sì, è un coro, un coro che canta… il coro a bocca chiusa di Madama Butterfly. Mi metto pancia e gomiti a terra e mani sotto il mento di fronte al grammofono che riesce a fare i suoni di anteguerra, e li mugugno anch’io, a bocca chiusa. E mentre sto così battendo lento il tempo con i piedi in aria, qualcuno adagio adagio mi si mette a fianco vicino anche lui giù per terra nella stessa posizione. È il tenente Lovejoy, che ascolta tutto assorto e mi fa cenno di non mugugnare, di ascoltare in silenzio. La notte mi risveglio, molto a fatica sotto un’oppressione, contorta, avvolgente. E so che non è un incubo. È in basso che mi tiene, e parla, con voce nota, parla in inglese di una casa di sogno con pareti in pandispagna, porte di cioccolata e tende di spaghetti… come in good boy, come on good boy… E capisco già prima di svegliarmi, perché devo svegliarmi, togliermi di dosso questo peso… oppormi, farlo smettere, perché adesso so che è lui, Lovejoy, demopluto Lovejoy, Lovejoy di tutte le vergogne, Lovejoy ladro del mio sonno, togliti via da me, Lovejoy, o ti tolgo dal mondo… mi sveglio abbastanza da riuscire a scalciare e dare pugni, finché si toglie lui, Lovejoy, scappa via, e io del tutto sveglio, incredulo, ma so che c’è stato, Lovejoy, desolazione Lovejoy, qui nel mio letto approfittando del mio sonno. Chi riuscirà più a sentire senza schifo ancora suoni inglesi nell’orecchio?
mi guardava preoccupato quando sono stato qualche istante a torso nudo, come ogni volta che ci facciamo il bucato, perché ciò che si lava non s’indossa, niente cambio. Devo essere pelle e ossa, penso leggendo la faccia del tenente inglese, lui che facendo il bucato senza sapone con l’acqua fredda ostenta resistenza all’inverno a torso nudo, con un traliccio buffo di bretelle sul petto e sulle scapole sporgenti. Nel pomeriggio, dopo le prove con l’abito da prete, nei penetrali ignoti riscopro il salottino buono. I mobili coperti di lenzuoli bianchi, come catafalchi, troppo tristi. Alle pareti, sagome di quadri tolti via. La mia visita sembra una profanazione. Anche una sfida. Un raggio di sole polveroso giù da un finestrone chiuso male finisce a illuminare un lenzuolo che ricopre un coso basso e stretto. Nella penombra mi avvicino adagio, sollevo e guardo un servizio di bicchieri da liquore in una credenzina, tutti bene in fila in uniforme di gala come soldatini in piazza d’armi. Nel ripiano più alto una Radio Balilla senza le interiora. Sotto, nel ripiano più basso c’è un affare, un coso, una specie di cassa, di valigia che non lascia indovinare che cos’è. Poi capisco, mettendo insieme l’altro affare sul ripiano più sopra che so subito che è la tromba, il diffusore di un grammofono, che va con la cassetta che sta sotto. Vorrei vedere chi resiste. Io non resisto, mi batte il cuore e prendo e metto lì per terra e tiro e apro e trovo pure sul piatto un vecchio disco malandato. Montare il diffusore a tromba, come si fa? Ci riesco subito, pulisco il disco con la manica della giacca, abbasso il braccio acustico che ha ancora una puntina inserita, giro la manovella di carica, tolgo il fermo e sì, il disco parte, sì che parte, gi-
ra e suona, suona ed è, ma sì, è un coro, un coro che canta… il coro a bocca chiusa di Madama Butterfly. Mi metto pancia e gomiti a terra e mani sotto il mento di fronte al grammofono che riesce a fare i suoni di anteguerra, e li mugugno anch’io, a bocca chiusa. E mentre sto così battendo lento il tempo con i piedi in aria, qualcuno adagio adagio mi si mette a fianco vicino anche lui giù per terra nella stessa posizione. È il tenente Lovejoy, che ascolta tutto assorto e mi fa cenno di non mugugnare, di ascoltare in silenzio. La notte mi risveglio, molto a fatica sotto un’oppressione, contorta, avvolgente. E so che non è un incubo. È in basso che mi tiene, e parla, con voce nota, parla in inglese di una casa di sogno con pareti in pandispagna, porte di cioccolata e tende di spaghetti… come in good boy, come on good boy… E capisco già prima di svegliarmi, perché devo svegliarmi, togliermi di dosso questo peso… oppormi, farlo smettere, perché adesso so che è lui, Lovejoy, demopluto Lovejoy, Lovejoy di tutte le vergogne, Lovejoy ladro del mio sonno, togliti via da me, Lovejoy, o ti tolgo dal mondo… mi sveglio abbastanza da riuscire a scalciare e dare pugni, finché si toglie lui, Lovejoy, scappa via, e io del tutto sveglio, incredulo, ma so che c’è stato, Lovejoy, desolazione Lovejoy, qui nel mio letto approfittando del mio sonno. Chi riuscirà più a sentire senza schifo ancora suoni inglesi nell’orecchio?
Il collare rigido da prete mi dà fastidio, ma il gesto di passare l’indice tra collo e collarino mi pare molto pio. Pezzi grandi della città di Asti bombardata sono rasi giù alla mia altezza in macerie fangose. Palazzoni antichi atterrati lasciano in piedi e in bella mostra certe bicocche inermi mai notate prima. Più in là non si riconoscono più neanche i punti di controllo della cinta daziaria. Fa freddo per la mascheratura da prete che c’ho addosso. All’ospedale niente documenti, nessuno me li cerca. Al mio passaggio con il cuore in gola un breve cra cra rivolto al prete che io sono viene fuori da una finestra del corpo di guardia dove stanno di servizio le brigate nere, figurarsi, e il brigatista che forse mi dovrebbe controllare gira il viso perché sta ridendo, e poi si mette a cantare, storpiando la canzone delle brigate nere: – Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la sottana nera… – Mai fatto tanto piacere una canzonatura. Ma faccio dentro a pugni con la mia paura di essere scoperto e smascherato, riconosciuto per un imboscato, per “uno che serberà la pelle intera”. Nell’atrio una vecchietta mi viene incontro tutta premurosa e mi spavento: vuole solo baciarmi la mano. E lasciamola fare. Speriamo che qualcuno non si voglia confessare. Chi è che sta cercando, reverendo? Glielo dico a
Il collare rigido da prete mi dà fastidio, ma il gesto di passare l’indice tra collo e collarino mi pare molto pio. Pezzi grandi della città di Asti bombardata sono rasi giù alla mia altezza in macerie fangose. Palazzoni antichi atterrati lasciano in piedi e in bella mostra certe bicocche inermi mai notate prima. Più in là non si riconoscono più neanche i punti di controllo della cinta daziaria. Fa freddo per la mascheratura da prete che c’ho addosso. All’ospedale niente documenti, nessuno me li cerca. Al mio passaggio con il cuore in gola un breve cra cra rivolto al prete che io sono viene fuori da una finestra del corpo di guardia dove stanno di servizio le brigate nere, figurarsi, e il brigatista che forse mi dovrebbe controllare gira il viso perché sta ridendo, e poi si mette a cantare, storpiando la canzone delle brigate nere: – Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la sottana nera… – Mai fatto tanto piacere una canzonatura. Ma faccio dentro a pugni con la mia paura di essere scoperto e smascherato, riconosciuto per un imboscato, per “uno che serberà la pelle intera”. Nell’atrio una vecchietta mi viene incontro tutta premurosa e mi spavento: vuole solo baciarmi la mano. E lasciamola fare. Speriamo che qualcuno non si voglia confessare. Chi è che sta cercando, reverendo? Glielo dico a
quest’infermiera che sto cercando il legionario scelto Anselmo Frett. Ah sì, dice, quello è ancora qui, è in convalescenza, e in fisioterapia. Eccolo là, è in piedi e zoppica lungo il corridoio dietro a un’infermiera, senza il bastone che dovrebbe avere. Non è nemmeno più in pigiama, è per metà in divisa, sì, della Legione: – Che cosa ci avrà a che fare un prete con uno così… Se lo prenda pure, padre, è tutto suo. Lì per lì Anselmo Frett non mi riconosce. Meglio: giocando con la faccia ho modo di fargli capire di non farlo, di stare al gioco. E lui si trattiene, sta per scoppiare a ridere. Mi prende la mano e finge di baciarla. Mi porta nella sua stanza, zoppicando, e quasi anch’io con lui cammino zoppicando. Soli nella stanza con la porta aperta lui si lascia andare a ridere di fiato, piegato in due, si mette giù in ginocchio, mani giunte. Io gli mollo un ceffone e poi lo benedico. Lui si calma, si alza, di colpo si fa serio, fin troppo: – Ti hanno cercato, poi hanno smesso e ti hanno dato per morto, e sei risuscitato prete, – e gli viene da ridere di nuovo. – E tu come stai? Batte il pugno sul palmo: – Lo vedi, fra un po’ corro i cento metri, oppure il mezzofondo, meglio di Jesse Owens. – Che ti è successo? Dimmi tutto. Tutto? È una parola. Eppure mi ci sono preparato. Ma quando gli dico di me, di cosa mi è successo, faccio confusione. Passo a dimostrargli che insomma qui la situazione… be’, sta per succedere qualcosa: se noi teniamo il Nord, i tedeschi tengono noi, e fra un po’ ci tengono gli angloamericani, ma lì m’imbroglio anche
di più, corro alla conclusione: – Bisogna fermarsi e incominciare da un’altra parte, anche tu, in un altro modo. So dove portarti. È qui vicino, dai miei preti. – Oh ma che tieni in capa? Troppo tengo in capa, confuso e sottosopra, ma certe cose sono chiare: al diavolo la Legione, prima di tutto, ma non per finire di nuovo tu con la vanga in campo di lavoro e io nella disciplina di collegio. Staremo al sicuro. Dài forza subito capito? – Io, dai tuoi preti? – C’è solo un prete che non sembra neanche un prete. Anselmo Frett si affloscia: – Che siamo agli sgoccioli lo so, ma io… – Torno domani con un’altra tonaca e via tutti e due, – ma ecco l’urlo dell’allarme aereo, ahi ahi ohi ohi uehh e tutto l’ospedale si riempie di tonfi, di passi, di gridi. E anche un allarme interno tipo sveglia, fastidioso. Lui non si scompone. – Andiamo via subito adesso, – gli urlo in un orecchio. La suora alta e snella dell’altra volta si affaccia sulla porta scuotendo un termometro: – La gamba ferita è ancora qui? Via con me subito al rifugio. Ah, scusi reverendo, venite via anche voi. – Ci penso io, sorella, a questo qui. – Io quella lì me la farei, e tu? – fa calmo Anselmo Frett. – Sì ma un’altra volta. E allora? – E allora non lo so. – Pensaci, ma in fretta, – dico quasi gridando. – Ma che credi, che non ci ho già pensato, io? – È per la gamba, non è ancora a posto?
quest’infermiera che sto cercando il legionario scelto Anselmo Frett. Ah sì, dice, quello è ancora qui, è in convalescenza, e in fisioterapia. Eccolo là, è in piedi e zoppica lungo il corridoio dietro a un’infermiera, senza il bastone che dovrebbe avere. Non è nemmeno più in pigiama, è per metà in divisa, sì, della Legione: – Che cosa ci avrà a che fare un prete con uno così… Se lo prenda pure, padre, è tutto suo. Lì per lì Anselmo Frett non mi riconosce. Meglio: giocando con la faccia ho modo di fargli capire di non farlo, di stare al gioco. E lui si trattiene, sta per scoppiare a ridere. Mi prende la mano e finge di baciarla. Mi porta nella sua stanza, zoppicando, e quasi anch’io con lui cammino zoppicando. Soli nella stanza con la porta aperta lui si lascia andare a ridere di fiato, piegato in due, si mette giù in ginocchio, mani giunte. Io gli mollo un ceffone e poi lo benedico. Lui si calma, si alza, di colpo si fa serio, fin troppo: – Ti hanno cercato, poi hanno smesso e ti hanno dato per morto, e sei risuscitato prete, – e gli viene da ridere di nuovo. – E tu come stai? Batte il pugno sul palmo: – Lo vedi, fra un po’ corro i cento metri, oppure il mezzofondo, meglio di Jesse Owens. – Che ti è successo? Dimmi tutto. Tutto? È una parola. Eppure mi ci sono preparato. Ma quando gli dico di me, di cosa mi è successo, faccio confusione. Passo a dimostrargli che insomma qui la situazione… be’, sta per succedere qualcosa: se noi teniamo il Nord, i tedeschi tengono noi, e fra un po’ ci tengono gli angloamericani, ma lì m’imbroglio anche
di più, corro alla conclusione: – Bisogna fermarsi e incominciare da un’altra parte, anche tu, in un altro modo. So dove portarti. È qui vicino, dai miei preti. – Oh ma che tieni in capa? Troppo tengo in capa, confuso e sottosopra, ma certe cose sono chiare: al diavolo la Legione, prima di tutto, ma non per finire di nuovo tu con la vanga in campo di lavoro e io nella disciplina di collegio. Staremo al sicuro. Dài forza subito capito? – Io, dai tuoi preti? – C’è solo un prete che non sembra neanche un prete. Anselmo Frett si affloscia: – Che siamo agli sgoccioli lo so, ma io… – Torno domani con un’altra tonaca e via tutti e due, – ma ecco l’urlo dell’allarme aereo, ahi ahi ohi ohi uehh e tutto l’ospedale si riempie di tonfi, di passi, di gridi. E anche un allarme interno tipo sveglia, fastidioso. Lui non si scompone. – Andiamo via subito adesso, – gli urlo in un orecchio. La suora alta e snella dell’altra volta si affaccia sulla porta scuotendo un termometro: – La gamba ferita è ancora qui? Via con me subito al rifugio. Ah, scusi reverendo, venite via anche voi. – Ci penso io, sorella, a questo qui. – Io quella lì me la farei, e tu? – fa calmo Anselmo Frett. – Sì ma un’altra volta. E allora? – E allora non lo so. – Pensaci, ma in fretta, – dico quasi gridando. – Ma che credi, che non ci ho già pensato, io? – È per la gamba, non è ancora a posto?
Si dà una pacca sulla gamba: – No, questa qui va bene, serve come prima. Ma intanto è già in agitazione, infila la giacca e il cappotto, si mette il berretto, si riempie le tasche delle cose che stanno nei cassetti del comodino, tutto riesce a ficcarsi dappertutto, anche la collezione di figurine dei quattro moschettieri: – Filiamo al rifugio. Ci superano nei corridoi e sulle scale svolazzanti di camici e vestaglie. Tutti ci sono già abituati, coperte sulla testa, uno col materasso sulle spalle. Anselmo Frett va piano dietro al materasso. Si muove come un cane sulla traccia. Siamo al piano terra e arriva il primo schianto, cupo, lontano, sotterraneo. Tutto il corpo di guardia si sta avviando al rifugio: – Brigate nere, cacasotto, – mormora Anselmo Frett, – bella guardia fanno durante un attacco. – Poi si ferma e ferma anche me: – Quadrimotori, fortezze volanti… Sì, così si può anche fare. Ancora qualche decina di metri, ci lasciamo superare da tutti, mentre lui esagerando il suo zoppicare mi si appoggia addosso: – Ecco vedi laggiù, al cartello Rifugio prendiamo a sinistra e poi via fuori facciamo caporetto gambe in spalla! Lui corre più di me. In cortile mi stoppa, mi schiaccia contro un muro: – Resta qui, non ti muovere. – Una parola non muoverti, quando tutto intorno schianta. Ma il bombardamento non è a tappeto, è diurno, rado e ben mirato. Giù da noi le risatelle sceme della contraerea, piccoli scoppi bianchi mai a tiro. Anselmo Frett torna fuori di corsa dal corpo di guardia col suo Karabiner: – Per fortuna hanno lasciata aperta la rastrelliera, quei fessi cacasotto. – Si toglie il
cappotto: – Tienimelo un po’, – e s’infila il fucile a tracolla, se lo rigira a sistemarlo sotto il braccio sinistro, calcio sotto l’ascella e canna in giù come un bandito sardo. Si rinfila il cappotto, riabbottona, tira dentro l’aria, mi fa vedere tre caricatori da cinque colpi: – Filiamo! A Santa Chiara bombardata bisogna sapere come entrare, da furetti, di dietro a corso Alfieri lungo il cortile della tipografia coi muri mezzo in piedi. Le bombe cadono a distanza quando entriamo sporchi e senza fiato a Santa Chiara, dritti al Puoservire, dove don Pissavino ammucchia e tiene tutto ciò che trova, perché può servire. Nel Puoservire riprendiamo fiato, accoccolati sui talloni: – Adesso questo qui tu lo nascondi, – gli dico del fucile, e incomincio a strappargli le mostrine dal cappotto. Lui mi ferma e lo fa lui, con attenzione, che non si rovinino. Intanto gli dico che in tutta Santa Chiara siamo in quattro, cinque con lui, e chi siamo. – E il prete, lui com’è? – e si guarda intorno, canticchia che con le budella dell’ultimo frate impiccheremo l’ultimo prete, così io lo fermo, gli dico subito degli schiaffi che don Pissavino si è beccato da Capo Franco Wolf. Lui fa un fischio e una bestemmia. Io gli dico che qui non deve usare quel suo modo di mettersi in contatto con Dio e tutti i suoi santi terroni. Niente porcherie, né canzonacce. Tanto meno il saluto fascista. Lui zitto, lavora sui panni della divisa. Quando suona il cessato allarme non gli resta addosso nulla del legionario Anselmo Frett, piastrina e mostrine nel buco del fucile a cannocchiale con i tre caricatori, sei chili circa. Tolte anche le spalline, la divisa
Si dà una pacca sulla gamba: – No, questa qui va bene, serve come prima. Ma intanto è già in agitazione, infila la giacca e il cappotto, si mette il berretto, si riempie le tasche delle cose che stanno nei cassetti del comodino, tutto riesce a ficcarsi dappertutto, anche la collezione di figurine dei quattro moschettieri: – Filiamo al rifugio. Ci superano nei corridoi e sulle scale svolazzanti di camici e vestaglie. Tutti ci sono già abituati, coperte sulla testa, uno col materasso sulle spalle. Anselmo Frett va piano dietro al materasso. Si muove come un cane sulla traccia. Siamo al piano terra e arriva il primo schianto, cupo, lontano, sotterraneo. Tutto il corpo di guardia si sta avviando al rifugio: – Brigate nere, cacasotto, – mormora Anselmo Frett, – bella guardia fanno durante un attacco. – Poi si ferma e ferma anche me: – Quadrimotori, fortezze volanti… Sì, così si può anche fare. Ancora qualche decina di metri, ci lasciamo superare da tutti, mentre lui esagerando il suo zoppicare mi si appoggia addosso: – Ecco vedi laggiù, al cartello Rifugio prendiamo a sinistra e poi via fuori facciamo caporetto gambe in spalla! Lui corre più di me. In cortile mi stoppa, mi schiaccia contro un muro: – Resta qui, non ti muovere. – Una parola non muoverti, quando tutto intorno schianta. Ma il bombardamento non è a tappeto, è diurno, rado e ben mirato. Giù da noi le risatelle sceme della contraerea, piccoli scoppi bianchi mai a tiro. Anselmo Frett torna fuori di corsa dal corpo di guardia col suo Karabiner: – Per fortuna hanno lasciata aperta la rastrelliera, quei fessi cacasotto. – Si toglie il
cappotto: – Tienimelo un po’, – e s’infila il fucile a tracolla, se lo rigira a sistemarlo sotto il braccio sinistro, calcio sotto l’ascella e canna in giù come un bandito sardo. Si rinfila il cappotto, riabbottona, tira dentro l’aria, mi fa vedere tre caricatori da cinque colpi: – Filiamo! A Santa Chiara bombardata bisogna sapere come entrare, da furetti, di dietro a corso Alfieri lungo il cortile della tipografia coi muri mezzo in piedi. Le bombe cadono a distanza quando entriamo sporchi e senza fiato a Santa Chiara, dritti al Puoservire, dove don Pissavino ammucchia e tiene tutto ciò che trova, perché può servire. Nel Puoservire riprendiamo fiato, accoccolati sui talloni: – Adesso questo qui tu lo nascondi, – gli dico del fucile, e incomincio a strappargli le mostrine dal cappotto. Lui mi ferma e lo fa lui, con attenzione, che non si rovinino. Intanto gli dico che in tutta Santa Chiara siamo in quattro, cinque con lui, e chi siamo. – E il prete, lui com’è? – e si guarda intorno, canticchia che con le budella dell’ultimo frate impiccheremo l’ultimo prete, così io lo fermo, gli dico subito degli schiaffi che don Pissavino si è beccato da Capo Franco Wolf. Lui fa un fischio e una bestemmia. Io gli dico che qui non deve usare quel suo modo di mettersi in contatto con Dio e tutti i suoi santi terroni. Niente porcherie, né canzonacce. Tanto meno il saluto fascista. Lui zitto, lavora sui panni della divisa. Quando suona il cessato allarme non gli resta addosso nulla del legionario Anselmo Frett, piastrina e mostrine nel buco del fucile a cannocchiale con i tre caricatori, sei chili circa. Tolte anche le spalline, la divisa
grigia è borghese come quella di un postino. Di metallico ha solo la spilla anonima d’acciaio alla cravatta. Gli dico: – Hai proprio l’aria da smobilitato. Si guarda intorno al Puoservire, le narici aperte: – Ci rintaniamo qua? Le tane non mancano, nell’antico convento di clarisse. Lui fa una croce in terra col calcagno, nel nascondiglio del fucile, mimetizzato dalle mille cianfrusaglie del Puoservire: – Ricordati zi’ prete, il fucile sta qui, e può servire, – mi dà una pacca sulle spalle e una nuvola di polvere si vede anche in penombra. – E mo’, zi’ prete, a messa o a confessione? – No, figliolo, la messa è domattina. Adesso abbiamo il battesimo. Il tuo vero cognome, ricordamelo un po’? – Cassano. Io mi ribattezzo Anselmo Cassano, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. – Amen, – dico lottando coi bottoni della tonaca.
Dal cortile di tipografia sbuchiamo nel chiostro di Santa Chiara. Faccio strada io con la mia tonaca a tracolla, ma ecco: – C’è gente, là! – e spingo Anselmo dietro un pilastro del chiostro. Ci spostiamo, andiamo muro muro. Dall’altro lato lontano sotto i portici vicino alla grotticella di Lourdes a pietruzze e conchiglie ci sono due tipi che parlano al buio tra di loro: uno è l’inglese, Lovejoy allampanato, non si sbaglia, l’altro… l’altro mi fa venire il cuore in gola perché sembra mio padre. Ma siccome non può essere mio padre, sì, quello è Ricu Gross. Fermi, non facciamoci vedere. Non è esatto che parlino. Quasi solo gesti. Ma si lasciano subito, Ricu Gross guarda l’ora all’orologio del taschino con il gesto di mio padre, dà la mano all’inglese che però lo saluta con due dita a filo su una visiera inesistente, l’inglese sparisce e Ricu Gross si avvia verso la porta della cripta del Fondatore, per andare via. Don Pissavino l’aspetta sulla porta e gli fa strada. Mi viene da corrergli dietro. Perché? Per sapere che fine ha fatto Carlo, per esempio, Carlo Sanna che mi ha raccomandato di stare attento a lui, a Defendente, a Ricu Gross… Ma che nome ha Carlo Sanna nella loro copertura? Non mi ricordo. Mi tiro dietro Anselmo e vado ad aspettare don Pissavino sulla porta della cripta del Fondatore: – Se dici
grigia è borghese come quella di un postino. Di metallico ha solo la spilla anonima d’acciaio alla cravatta. Gli dico: – Hai proprio l’aria da smobilitato. Si guarda intorno al Puoservire, le narici aperte: – Ci rintaniamo qua? Le tane non mancano, nell’antico convento di clarisse. Lui fa una croce in terra col calcagno, nel nascondiglio del fucile, mimetizzato dalle mille cianfrusaglie del Puoservire: – Ricordati zi’ prete, il fucile sta qui, e può servire, – mi dà una pacca sulle spalle e una nuvola di polvere si vede anche in penombra. – E mo’, zi’ prete, a messa o a confessione? – No, figliolo, la messa è domattina. Adesso abbiamo il battesimo. Il tuo vero cognome, ricordamelo un po’? – Cassano. Io mi ribattezzo Anselmo Cassano, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. – Amen, – dico lottando coi bottoni della tonaca.
Dal cortile di tipografia sbuchiamo nel chiostro di Santa Chiara. Faccio strada io con la mia tonaca a tracolla, ma ecco: – C’è gente, là! – e spingo Anselmo dietro un pilastro del chiostro. Ci spostiamo, andiamo muro muro. Dall’altro lato lontano sotto i portici vicino alla grotticella di Lourdes a pietruzze e conchiglie ci sono due tipi che parlano al buio tra di loro: uno è l’inglese, Lovejoy allampanato, non si sbaglia, l’altro… l’altro mi fa venire il cuore in gola perché sembra mio padre. Ma siccome non può essere mio padre, sì, quello è Ricu Gross. Fermi, non facciamoci vedere. Non è esatto che parlino. Quasi solo gesti. Ma si lasciano subito, Ricu Gross guarda l’ora all’orologio del taschino con il gesto di mio padre, dà la mano all’inglese che però lo saluta con due dita a filo su una visiera inesistente, l’inglese sparisce e Ricu Gross si avvia verso la porta della cripta del Fondatore, per andare via. Don Pissavino l’aspetta sulla porta e gli fa strada. Mi viene da corrergli dietro. Perché? Per sapere che fine ha fatto Carlo, per esempio, Carlo Sanna che mi ha raccomandato di stare attento a lui, a Defendente, a Ricu Gross… Ma che nome ha Carlo Sanna nella loro copertura? Non mi ricordo. Mi tiro dietro Anselmo e vado ad aspettare don Pissavino sulla porta della cripta del Fondatore: – Se dici
un pateravegloria al Fondatore prima di un esame, lo passi di sicuro, – dico ad Anselmo che sta lì un po’ troppo preoccupato. – Io non devo dare esami, – dice lui sfregandosi le mani. – Sì invece, e anch’io, adesso, subito: sarà don Pissavino a dare il voto. Uno stormo di piccioni passa su di noi sfiorando la cima degli ippocastani del cortile con un rapido sfrascare d’ali. Anselmo fa finta di puntargli contro il fucile che non ha più: – Pah! – Si guarda intorno. Dice: – No, esami o non esami, non c’è da fidarsi ancora di nessuno. Don Pissavino si rifà vivo subito. E si mostra contento di vedermi: – Salve, sei tornato, in compagnia. Bene, che si fa? Allargo le braccia e guardo Anselmo che si mostra molto zoppo ma fa una faccia da bravo ragazzo che non gli ho mai visto: Eccoci qua. Don Pissavino mi prende la tonaca e se lo guarda per bene Anselmo: – E questo giovanotto claudicante? – È il mio amico, Anselmo, è un po’ zoppo di guerra, si deve imboscare. Don Pissavino lo guarda, so che sta per chiedermi da chi deve nascondersi, ma decide di no. Anselmo si toglie il guanto, prende la mano di don Pissavino e gli sfugge un militare e crucco sbattere dei tacchi. Gli darei un calcio negli stinchi. Ma basta guardargli la faccia, che non può essere un tedesco. Anselmo non è scemo e testa bassa, mani in tasca dà un calcio a una castagna d’ippocastano e dice col suo accento più terrone: – Sti tedeschi, non è per niente vero che la fanno meglio loro, la guerra.
– Don Pissavino, scusate, – dico io non solo per sviare, – chi è quello là che avete appena accompagnato fuori? – Mio cugino, figlio di una mia zia. Anselmo e don Pissavino parlano tra loro. Sembrano intendersi subito. Io ho freddo e sto pensando a Ricu Gross che sembra mio padre e invece è cugino di don Pissavino, che poco fa stava qui sotto i portici con il tenente Lovejoy che faceva il gesto di mettersi le cuffie nelle orecchie, le cuffie di una radio ricetrasmittente. Carlomagno, ecco come si chiama Carlo nella loro copertura, Carlomagno. Per festeggiare il nuovo imboscato a Santa Chiara don Pissavino a cena tira fuori tre patate lesse a testa e anche fagioli secchi lessi con un filo d’olio, oltre al solito piatto di castagne secche lesse, caffè cicoria a tazze, come piace ai due angloamericani. Le patate e i fagioli li ha portati suo cugino Ricu Gross. Don Pissavino lascia cadere questa notizia mentre tutti silenziosi siamo immersi nella serietà di una cena che fa quasi dimenticare che fuori c’è la guerra. Mi viene da chiedergli, ma finisco per chiederlo a me stesso e basta, cosa combina suo cugino in questo schifo di guerra, Ricu Gross della Quaglina e Cassinasco, mentre alla fine della cena ecco il miracolo di un po’ di surrogato di cioccolato, sfridi di una ditta di Alba che lo produceva per le truppe al fronte. Il tenente Baranski contribuisce con un sorso a testa del suo whisky tascabile, così, un su e giù rapido e deciso. E dopo il whisky Anselmo sfodera invano l’anglolucano che gli resta da uno zio d’America tornato in Lucania da New York.: E
un pateravegloria al Fondatore prima di un esame, lo passi di sicuro, – dico ad Anselmo che sta lì un po’ troppo preoccupato. – Io non devo dare esami, – dice lui sfregandosi le mani. – Sì invece, e anch’io, adesso, subito: sarà don Pissavino a dare il voto. Uno stormo di piccioni passa su di noi sfiorando la cima degli ippocastani del cortile con un rapido sfrascare d’ali. Anselmo fa finta di puntargli contro il fucile che non ha più: – Pah! – Si guarda intorno. Dice: – No, esami o non esami, non c’è da fidarsi ancora di nessuno. Don Pissavino si rifà vivo subito. E si mostra contento di vedermi: – Salve, sei tornato, in compagnia. Bene, che si fa? Allargo le braccia e guardo Anselmo che si mostra molto zoppo ma fa una faccia da bravo ragazzo che non gli ho mai visto: Eccoci qua. Don Pissavino mi prende la tonaca e se lo guarda per bene Anselmo: – E questo giovanotto claudicante? – È il mio amico, Anselmo, è un po’ zoppo di guerra, si deve imboscare. Don Pissavino lo guarda, so che sta per chiedermi da chi deve nascondersi, ma decide di no. Anselmo si toglie il guanto, prende la mano di don Pissavino e gli sfugge un militare e crucco sbattere dei tacchi. Gli darei un calcio negli stinchi. Ma basta guardargli la faccia, che non può essere un tedesco. Anselmo non è scemo e testa bassa, mani in tasca dà un calcio a una castagna d’ippocastano e dice col suo accento più terrone: – Sti tedeschi, non è per niente vero che la fanno meglio loro, la guerra.
– Don Pissavino, scusate, – dico io non solo per sviare, – chi è quello là che avete appena accompagnato fuori? – Mio cugino, figlio di una mia zia. Anselmo e don Pissavino parlano tra loro. Sembrano intendersi subito. Io ho freddo e sto pensando a Ricu Gross che sembra mio padre e invece è cugino di don Pissavino, che poco fa stava qui sotto i portici con il tenente Lovejoy che faceva il gesto di mettersi le cuffie nelle orecchie, le cuffie di una radio ricetrasmittente. Carlomagno, ecco come si chiama Carlo nella loro copertura, Carlomagno. Per festeggiare il nuovo imboscato a Santa Chiara don Pissavino a cena tira fuori tre patate lesse a testa e anche fagioli secchi lessi con un filo d’olio, oltre al solito piatto di castagne secche lesse, caffè cicoria a tazze, come piace ai due angloamericani. Le patate e i fagioli li ha portati suo cugino Ricu Gross. Don Pissavino lascia cadere questa notizia mentre tutti silenziosi siamo immersi nella serietà di una cena che fa quasi dimenticare che fuori c’è la guerra. Mi viene da chiedergli, ma finisco per chiederlo a me stesso e basta, cosa combina suo cugino in questo schifo di guerra, Ricu Gross della Quaglina e Cassinasco, mentre alla fine della cena ecco il miracolo di un po’ di surrogato di cioccolato, sfridi di una ditta di Alba che lo produceva per le truppe al fronte. Il tenente Baranski contribuisce con un sorso a testa del suo whisky tascabile, così, un su e giù rapido e deciso. E dopo il whisky Anselmo sfodera invano l’anglolucano che gli resta da uno zio d’America tornato in Lucania da New York.: E
nce ne costa lacreme ’sta America, a nui napulitane… finisce per cantare. Indugiamo a tavola vogliosi di benessere. Anselmo non capisce e poi si secca degli inviti dell’americano e dell’inglese perché canti: O sole mio, Torna a Sorrento… Io li ho già convinti a non insistere con me, sul canto. Anselmo cede: Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar… Baranski, proprio lui che ogni cosa la prende come un gioco, si offende un po’ quando Anselmo canta ma in America no no no! e perde quel sorriso di chi è contento di essere ancora vivo in questo porco mondo. Momento della buonanotte. L’inglese sta terminando una partita meticolosa di shanghai con Anselmo, che lo chiama già Bandolero Stanco. Mi decido: – Don Pissavino, scusi, questo vostro cugino di stasera… – Enrico, si chiama Enrico Grosso, Ricu Gross. Mi guardo le scarpe, guardo don Pissavino, guardo tutto intorno: – È venuto a trovarvi, si è rifugiato qui per il bombardamento? – Perché me lo chiedi? – Perché io lo conosco, Ricu Gross. Lui mi guarda in attesa, fisso, con qualche meraviglia. Vorrei dirgli tutto, così magari lui mi fa capire come mai qui Ricu Gross se la fa anche con l’inglese Bandolero stanco. Ma che gli dico in fin dei conti? Gli dico: – Ci sono stato a vendemmiare, tempo fa, da vostro cugino alla Quaglina. – Già. Me li ha portati lui a Santa Chiara, l’inglese e l’americano, tempo fa, di notte, sotto un bombardamento. – Anche lui. Sta diventando un vizio, – dico io.
Lui non ride e dice: – Oggi ci sono stati molti morti nel bombardamento. Con Anselmo al buio nei nostri due letti affiancati parlottiamo nella notte, in modo che se mai qualcuno ci ascoltasse, non capirebbe niente. Siamo pieni di sonno, già con parole rade. Gli dico dei morti per le bombe. Poi gli racconto della notte che hanno fucilato Siro Gans. Certe volte, dice, anche la guerra serve. Serve a cosa? A togliere di mezzo certa gente. Quella prima notte abbiamo parlato molto a lungo. Prima di addormentarsi Anselmo ha sentenziato: – Sì, qui dentro sembra davvero di essere lontani dalla morte. Poi sogno di mio padre, del suo orologio da taschino, che indossa la domenica, negli altri giorni sta sul comodino di fianco al lettone, lo carica ogni notte coricandosi, se in tempi di guerra non se l’è venduto per mezzo toscano, come diceva il nonno criticandogli ogni mezzo toscano. È un grande orologio d’argento da taschino, catena da settantasette anellini d’argento, li ho contati da piccolo settantasette volte a cavallo sulle sue ginocchia, un orologio caldo del calore di mio padre, che lì sul petto prende vita e moto e tichettio dal cuore e dal sangue di mio padre. E mio padre mi dice misterioso, però so che c’entra: – Sarai adulto solo quando non ti vergognerai più di essere stato bambino.
nce ne costa lacreme ’sta America, a nui napulitane… finisce per cantare. Indugiamo a tavola vogliosi di benessere. Anselmo non capisce e poi si secca degli inviti dell’americano e dell’inglese perché canti: O sole mio, Torna a Sorrento… Io li ho già convinti a non insistere con me, sul canto. Anselmo cede: Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar… Baranski, proprio lui che ogni cosa la prende come un gioco, si offende un po’ quando Anselmo canta ma in America no no no! e perde quel sorriso di chi è contento di essere ancora vivo in questo porco mondo. Momento della buonanotte. L’inglese sta terminando una partita meticolosa di shanghai con Anselmo, che lo chiama già Bandolero Stanco. Mi decido: – Don Pissavino, scusi, questo vostro cugino di stasera… – Enrico, si chiama Enrico Grosso, Ricu Gross. Mi guardo le scarpe, guardo don Pissavino, guardo tutto intorno: – È venuto a trovarvi, si è rifugiato qui per il bombardamento? – Perché me lo chiedi? – Perché io lo conosco, Ricu Gross. Lui mi guarda in attesa, fisso, con qualche meraviglia. Vorrei dirgli tutto, così magari lui mi fa capire come mai qui Ricu Gross se la fa anche con l’inglese Bandolero stanco. Ma che gli dico in fin dei conti? Gli dico: – Ci sono stato a vendemmiare, tempo fa, da vostro cugino alla Quaglina. – Già. Me li ha portati lui a Santa Chiara, l’inglese e l’americano, tempo fa, di notte, sotto un bombardamento. – Anche lui. Sta diventando un vizio, – dico io.
Lui non ride e dice: – Oggi ci sono stati molti morti nel bombardamento. Con Anselmo al buio nei nostri due letti affiancati parlottiamo nella notte, in modo che se mai qualcuno ci ascoltasse, non capirebbe niente. Siamo pieni di sonno, già con parole rade. Gli dico dei morti per le bombe. Poi gli racconto della notte che hanno fucilato Siro Gans. Certe volte, dice, anche la guerra serve. Serve a cosa? A togliere di mezzo certa gente. Quella prima notte abbiamo parlato molto a lungo. Prima di addormentarsi Anselmo ha sentenziato: – Sì, qui dentro sembra davvero di essere lontani dalla morte. Poi sogno di mio padre, del suo orologio da taschino, che indossa la domenica, negli altri giorni sta sul comodino di fianco al lettone, lo carica ogni notte coricandosi, se in tempi di guerra non se l’è venduto per mezzo toscano, come diceva il nonno criticandogli ogni mezzo toscano. È un grande orologio d’argento da taschino, catena da settantasette anellini d’argento, li ho contati da piccolo settantasette volte a cavallo sulle sue ginocchia, un orologio caldo del calore di mio padre, che lì sul petto prende vita e moto e tichettio dal cuore e dal sangue di mio padre. E mio padre mi dice misterioso, però so che c’entra: – Sarai adulto solo quando non ti vergognerai più di essere stato bambino.
Così le notti passano, passano anche al sicuro dall’inglese. Troppe volte le mie notti finiscono nel gran pasticcio di Ricu Gross che a Calamandrana cade sui gradini della scuola e sanguina dal naso, che poi gli ripulisce Capo Franco Wolf che a Santa Chiara rompe il naso di don Pissavino a suon di schiaffi, e poi Ricu Gross lava il naso di don Pissavino alla fontana pubblica di Cassinasco, dove sua sorella con le ascelle al miele lava l’uva fragola per tutta l’estate in dopoguerra. E lassù in cielo si allontana il rombo delle fortezze volanti pilotate da grandi biondone americane, e quel rombo spaventa le civette del giardino dell’Alfieri Semprevolli dove un caco matura sullo stesso ramo dell’albero sotto cui Anselmo si fa la caposala lunga e snella che gli scappa via da sotto quando lei vede l’ora all’orologio da polso di Siro Gans che spunta dalla terra perché deve mandare il Bandolero Stanco ad applicarmi le ventose, una sola grande ventosa che ti succhia l’anima.
Così le notti passano, passano anche al sicuro dall’inglese. Troppe volte le mie notti finiscono nel gran pasticcio di Ricu Gross che a Calamandrana cade sui gradini della scuola e sanguina dal naso, che poi gli ripulisce Capo Franco Wolf che a Santa Chiara rompe il naso di don Pissavino a suon di schiaffi, e poi Ricu Gross lava il naso di don Pissavino alla fontana pubblica di Cassinasco, dove sua sorella con le ascelle al miele lava l’uva fragola per tutta l’estate in dopoguerra. E lassù in cielo si allontana il rombo delle fortezze volanti pilotate da grandi biondone americane, e quel rombo spaventa le civette del giardino dell’Alfieri Semprevolli dove un caco matura sullo stesso ramo dell’albero sotto cui Anselmo si fa la caposala lunga e snella che gli scappa via da sotto quando lei vede l’ora all’orologio da polso di Siro Gans che spunta dalla terra perché deve mandare il Bandolero Stanco ad applicarmi le ventose, una sola grande ventosa che ti succhia l’anima.
Oggi da Frinco è venuto don Ranieri, il prete che sul Don ha respinto Stalin. Don Pissavino ci ha tenuti tutti ben nascosti, noi imboscati. La faccia di don Pissavino mostrava tutto il suo disagio di dovere ingannare un confratello. A me invece ingannare don Ranieri mi è piaciuto. Con Anselmo li abbiamo osservati di nascosto. Abbiamo origliato, per gioco e seriamente, io molto seriamente. Anche don Ranieri si prepara il dopoguerra. A don Pissavino spiegava che secondo lui ci sarà un altro inverno di guerra, un altro solo e poi lo scontro finale e la vittoria contro le plutocrazie e il comunismo. Don Ranieri riesce a vedere in positivo anche le bombe e le macerie: – Che bombardino, – dice, – buttano giù il vecchio e noi poi tutto su di nuovo meglio di prima, ci risparmiamo le demolizioni. Io mi sono arrabbiato. Anselmo ci ha fatto spallucce e poi ha detto: – E se ha ragione lui? Costa anche demolire. Io pensavo, tutto ciò che volete ma non un altro inverno di guerra. No, non la sfilza di mattine con l’odore freddo della cenere spenta nelle nostre stufe vuote e stanche, a rimpiangere la merda secca di bue che scaldava i poveri laggiù al paese che non si sa nemmeno se me l’hanno lasciato a questo mondo. Non un altro inverno di guerra, non ci posso pensa-
Oggi da Frinco è venuto don Ranieri, il prete che sul Don ha respinto Stalin. Don Pissavino ci ha tenuti tutti ben nascosti, noi imboscati. La faccia di don Pissavino mostrava tutto il suo disagio di dovere ingannare un confratello. A me invece ingannare don Ranieri mi è piaciuto. Con Anselmo li abbiamo osservati di nascosto. Abbiamo origliato, per gioco e seriamente, io molto seriamente. Anche don Ranieri si prepara il dopoguerra. A don Pissavino spiegava che secondo lui ci sarà un altro inverno di guerra, un altro solo e poi lo scontro finale e la vittoria contro le plutocrazie e il comunismo. Don Ranieri riesce a vedere in positivo anche le bombe e le macerie: – Che bombardino, – dice, – buttano giù il vecchio e noi poi tutto su di nuovo meglio di prima, ci risparmiamo le demolizioni. Io mi sono arrabbiato. Anselmo ci ha fatto spallucce e poi ha detto: – E se ha ragione lui? Costa anche demolire. Io pensavo, tutto ciò che volete ma non un altro inverno di guerra. No, non la sfilza di mattine con l’odore freddo della cenere spenta nelle nostre stufe vuote e stanche, a rimpiangere la merda secca di bue che scaldava i poveri laggiù al paese che non si sa nemmeno se me l’hanno lasciato a questo mondo. Non un altro inverno di guerra, non ci posso pensa-
re, anche se nei cortili di Santa Chiara ci sono dodici ippocastani a fare legna, che d’inverno sembrano animali tristi sotto il cielo grigio. Un altro inverno in guerra no, anche se nel Puoservire ci sono mille robe combustibili, foglie, castagnacce e ricci secchi, l’esca migliore. I travami delle macerie li abbiamo accatastati proprio bene, con mucchi di mattoni recuperati, pronti a ridiventare muri, e casa. E un altro gioco scemo faccio con gli ippocastani: dodici, quando finisce questa guerra, prima dodici giorni, poi dodici settimane, poi dodici mesi… Certe volte mi sembra che in vita mia non ho conosciuto che la guerra. Ogni tanto qui si perde la pazienza. Si tengono musi. La debolezza della carne, dice don Pissavino. Anselmo ha capito che Lovejoy tiene un diario di bordo: chissà che cosa ha scritto dell’altra notte. Magari niente. Non c’è stato niente? Un brutto sogno? Ma sì, una di quelle visite notturne che non sono né vere né false, solo una sensazione, un sospetto di torto ricevuto, e me ne sento vittima e colpevole. E allora dare confidenza a Lovejoy, chiedergli che rapporti ha lui con Ricu Gross? Alla larga da Gioiadamore. Non è forse anche per questo che ho voluto Anselmo a Santa Chiara? Giorni circospetti. A volte Baranski m’insegna l’inglese, e allora io cerco di capire com’è che li ha portati Ricu Gross a Santa Chiara, lui e l’inglese. Non capisce, o finge, però mi guarda male. Top secret. Anche la sua lingua, per me, resta top secret. E decido che è colpa di Lovejoy. La fame certe volte a me di sera fa sentire il mare, lontano laggiù, mi fa frinire come un cavallino brado della Jara, e poi col mare sento il pesce, i calamari fritti
e i muggini arrostiti nella festa grande a mezzo agosto. Ma ci vuole arte, fiuto ed esperienza. Una mattina ho trovato un bel nido, un accampamento, tutta una parentela di lumache, di questi lumaconi piemontesi che sembrano testuggini, tartarughe di mare, e ne ho raccolti e portati alla nostra mensa comune, e lì Baranski a momenti vomitava mentre io li cuocevo sopra un focherello che me li faceva gorgogliare come a casa mia sul fuoco del camino. Perché poi la fame in fondo che cos’è, diceva a commento don Pissavino per aiutarci a fare buon viso a cattivo gioco, che cos’è la fame? La fame in fondo è inesperienza, fissazione su cose che sono da mangiare oppure no, se al mondo poi a ben guardare tutto può essere buono da mangiare, o viceversa tutto può essere male da mangiare, le tue schifezze sono le mie prelibatezze, e niente porco per Maometto, per Budda niente vacca, che schifo cani e vermi per noi altri, che se si sommassero tutte le proibizioni alimentari del mondo l’umanità sparirebbe per fame in poco tempo, altro che la guerra. Insomma anche lì è tutto questione di fantasia, di opinione, di credere e non credere, come quando si crede che nel pane e vino da messa di don Pissavino non c’è più pane e vino ma il corpo e il sangue di Cristo. E io stavo per dire che sì appunto è proprio vero perché al mio paese sono buone cose che qui sono schifose e viceversa, e c’era un uomo che quando gli andava proprio male riusciva anche a nutrirsi, si diceva, col suo strano mestiere di succhiare il latte femminile malandato, o il troppo latte nelle poppe delle donne. E anche Anselmo ha detto poi che al suo paese lucano c’era questa donna molto povera che aveva la risorsa di attirare ancora uomini e diceva che volendo lei poteva an-
re, anche se nei cortili di Santa Chiara ci sono dodici ippocastani a fare legna, che d’inverno sembrano animali tristi sotto il cielo grigio. Un altro inverno in guerra no, anche se nel Puoservire ci sono mille robe combustibili, foglie, castagnacce e ricci secchi, l’esca migliore. I travami delle macerie li abbiamo accatastati proprio bene, con mucchi di mattoni recuperati, pronti a ridiventare muri, e casa. E un altro gioco scemo faccio con gli ippocastani: dodici, quando finisce questa guerra, prima dodici giorni, poi dodici settimane, poi dodici mesi… Certe volte mi sembra che in vita mia non ho conosciuto che la guerra. Ogni tanto qui si perde la pazienza. Si tengono musi. La debolezza della carne, dice don Pissavino. Anselmo ha capito che Lovejoy tiene un diario di bordo: chissà che cosa ha scritto dell’altra notte. Magari niente. Non c’è stato niente? Un brutto sogno? Ma sì, una di quelle visite notturne che non sono né vere né false, solo una sensazione, un sospetto di torto ricevuto, e me ne sento vittima e colpevole. E allora dare confidenza a Lovejoy, chiedergli che rapporti ha lui con Ricu Gross? Alla larga da Gioiadamore. Non è forse anche per questo che ho voluto Anselmo a Santa Chiara? Giorni circospetti. A volte Baranski m’insegna l’inglese, e allora io cerco di capire com’è che li ha portati Ricu Gross a Santa Chiara, lui e l’inglese. Non capisce, o finge, però mi guarda male. Top secret. Anche la sua lingua, per me, resta top secret. E decido che è colpa di Lovejoy. La fame certe volte a me di sera fa sentire il mare, lontano laggiù, mi fa frinire come un cavallino brado della Jara, e poi col mare sento il pesce, i calamari fritti
e i muggini arrostiti nella festa grande a mezzo agosto. Ma ci vuole arte, fiuto ed esperienza. Una mattina ho trovato un bel nido, un accampamento, tutta una parentela di lumache, di questi lumaconi piemontesi che sembrano testuggini, tartarughe di mare, e ne ho raccolti e portati alla nostra mensa comune, e lì Baranski a momenti vomitava mentre io li cuocevo sopra un focherello che me li faceva gorgogliare come a casa mia sul fuoco del camino. Perché poi la fame in fondo che cos’è, diceva a commento don Pissavino per aiutarci a fare buon viso a cattivo gioco, che cos’è la fame? La fame in fondo è inesperienza, fissazione su cose che sono da mangiare oppure no, se al mondo poi a ben guardare tutto può essere buono da mangiare, o viceversa tutto può essere male da mangiare, le tue schifezze sono le mie prelibatezze, e niente porco per Maometto, per Budda niente vacca, che schifo cani e vermi per noi altri, che se si sommassero tutte le proibizioni alimentari del mondo l’umanità sparirebbe per fame in poco tempo, altro che la guerra. Insomma anche lì è tutto questione di fantasia, di opinione, di credere e non credere, come quando si crede che nel pane e vino da messa di don Pissavino non c’è più pane e vino ma il corpo e il sangue di Cristo. E io stavo per dire che sì appunto è proprio vero perché al mio paese sono buone cose che qui sono schifose e viceversa, e c’era un uomo che quando gli andava proprio male riusciva anche a nutrirsi, si diceva, col suo strano mestiere di succhiare il latte femminile malandato, o il troppo latte nelle poppe delle donne. E anche Anselmo ha detto poi che al suo paese lucano c’era questa donna molto povera che aveva la risorsa di attirare ancora uomini e diceva che volendo lei poteva an-
che vivere nutrendosi soltanto di tutti i suoi pompini con l’ingoio, ma questo Anselmo non l’ha detto per rispetto all’abito del prete, però l’ha detto a me, dopo, quando gli ho detto dell’uomo succhiatore di mammelle delle donne: e io la sera stessa, dopo che mi sono dovuto sfogare in solitudine, ho provato a sentire quella roba, con fatica, che sprizza alla fine dello sfogo, che sapore ha: sapore di castagne, di castagne bollite. E pure questa cosa di sentire il mare, il nostro grande mare che circonda l’isola lontana, anche lì è tutta questione di fantasia, di fiuto ed esperienza, perché ho scoperto che c’è un’ora e un luogo ben precisi qui dentro a Santa Chiara nel cortile che se soffia un certo vento e ti sai concentrare allora senti il mare, e se ci sai fare e ti va bene senti proprio il mare del porto e della Darsena a Casteddu, e lì vicino il mercato del pesce del Largo Carlo Felice e in Via Sardegna la rosticceria del Seuese che ti mette i calamari fritti ad anellini caldi in un cartoccio a imbuto da mangiare a uno a uno, prima d’imbarcarti per Civitavecchia. Però poi tutto passa, anche le fantasie, e adesso ti accontenteresti di leccare un po’ il cartoccio a imbuto tutto unto e odoroso che quando sono partito l’ultima volta dal ponte della nave l’ho buttato in mare ai pesci. E poi c’è il problema dell’orto di guerra, ricavato in cortile di Tipografia. Un chilo di patate, nove, mangiarle o seminarle? E se maturano a guerra finita? Magari. I due demopluto sono per mangiarle, tanto, dice Baranski, siamo al finale di partita, ma sì, siamo all’endgame, come ho imparato a dire anch’io, endgame, endgheim, gioco finale, fine di partita, speriamo bene. Anselmo e io siamo per seminarle, queste nove patate, don Pissa-
vino non vuol fare maggioranza, ma lo so dove pencola, lui sta con noi, con noi altri italiani cacasotto che temono il futuro, siamo più scottati, siamo più contadini, più coltivatori, e comunque don Pissavino l’ha detto più volte che il suo dopoguerra non sarà un serrarsi nei ranghi del vincitore. Anselmo si piazza in mezzo al cortile, mani in tasca: – Siamo incastrati, – dice, – ma perché, perché? – e guarda in alto come se chiedesse conto a Dio delle patate. Quando piove a lungo Anselmo riesce a organizzare giochi al chiuso, con gli altri due imboscati demopluto. A nascondino giochiamo già fin troppo. Moscacieca piace a Baranski ma fa schifo a Lovejoy, che sa fare il ventriloquo ma noi non lo capiamo. Abbiamo un mazzo monco di carte napoletane e ci giochiamo a tutto in una mano, tanto non abbiamo niente. Giocano molto a scacchi, gli alleati. Giocano su una vecchia scacchiera con i pezzi in sughero che Anselmo ha sagomato da vecchi tappi di bottiglia, che a me ricordano ogni volta Carlo Sanna che chissà dov’è, e anche le querce di laggiù oltremare che non riesco a ricordare, mentre lo sguardo slavato dell’inglese fissa la scacchiera anche per ore. Don Pissavino è il nostro capo, naturale, né eletto né nominato, però capo, col potere di fare quello che sa fare, che qui serve a tutti, a noi molto più che a lui. Ha la custodia e l’uso delle chiavi. C’è un residuo di sacco di riso, per qualche pranzo domenicale. Per ordine elettivo sono addetto ai combustibili, a parte i turni nei lavori quotidiani. Esperto in combustibili d’accatto, nelle mie stufe brucio tutto, comprese le macerie, ma non il sughero, che qui è solo tappo, turacciolo, intero o rot-
che vivere nutrendosi soltanto di tutti i suoi pompini con l’ingoio, ma questo Anselmo non l’ha detto per rispetto all’abito del prete, però l’ha detto a me, dopo, quando gli ho detto dell’uomo succhiatore di mammelle delle donne: e io la sera stessa, dopo che mi sono dovuto sfogare in solitudine, ho provato a sentire quella roba, con fatica, che sprizza alla fine dello sfogo, che sapore ha: sapore di castagne, di castagne bollite. E pure questa cosa di sentire il mare, il nostro grande mare che circonda l’isola lontana, anche lì è tutta questione di fantasia, di fiuto ed esperienza, perché ho scoperto che c’è un’ora e un luogo ben precisi qui dentro a Santa Chiara nel cortile che se soffia un certo vento e ti sai concentrare allora senti il mare, e se ci sai fare e ti va bene senti proprio il mare del porto e della Darsena a Casteddu, e lì vicino il mercato del pesce del Largo Carlo Felice e in Via Sardegna la rosticceria del Seuese che ti mette i calamari fritti ad anellini caldi in un cartoccio a imbuto da mangiare a uno a uno, prima d’imbarcarti per Civitavecchia. Però poi tutto passa, anche le fantasie, e adesso ti accontenteresti di leccare un po’ il cartoccio a imbuto tutto unto e odoroso che quando sono partito l’ultima volta dal ponte della nave l’ho buttato in mare ai pesci. E poi c’è il problema dell’orto di guerra, ricavato in cortile di Tipografia. Un chilo di patate, nove, mangiarle o seminarle? E se maturano a guerra finita? Magari. I due demopluto sono per mangiarle, tanto, dice Baranski, siamo al finale di partita, ma sì, siamo all’endgame, come ho imparato a dire anch’io, endgame, endgheim, gioco finale, fine di partita, speriamo bene. Anselmo e io siamo per seminarle, queste nove patate, don Pissa-
vino non vuol fare maggioranza, ma lo so dove pencola, lui sta con noi, con noi altri italiani cacasotto che temono il futuro, siamo più scottati, siamo più contadini, più coltivatori, e comunque don Pissavino l’ha detto più volte che il suo dopoguerra non sarà un serrarsi nei ranghi del vincitore. Anselmo si piazza in mezzo al cortile, mani in tasca: – Siamo incastrati, – dice, – ma perché, perché? – e guarda in alto come se chiedesse conto a Dio delle patate. Quando piove a lungo Anselmo riesce a organizzare giochi al chiuso, con gli altri due imboscati demopluto. A nascondino giochiamo già fin troppo. Moscacieca piace a Baranski ma fa schifo a Lovejoy, che sa fare il ventriloquo ma noi non lo capiamo. Abbiamo un mazzo monco di carte napoletane e ci giochiamo a tutto in una mano, tanto non abbiamo niente. Giocano molto a scacchi, gli alleati. Giocano su una vecchia scacchiera con i pezzi in sughero che Anselmo ha sagomato da vecchi tappi di bottiglia, che a me ricordano ogni volta Carlo Sanna che chissà dov’è, e anche le querce di laggiù oltremare che non riesco a ricordare, mentre lo sguardo slavato dell’inglese fissa la scacchiera anche per ore. Don Pissavino è il nostro capo, naturale, né eletto né nominato, però capo, col potere di fare quello che sa fare, che qui serve a tutti, a noi molto più che a lui. Ha la custodia e l’uso delle chiavi. C’è un residuo di sacco di riso, per qualche pranzo domenicale. Per ordine elettivo sono addetto ai combustibili, a parte i turni nei lavori quotidiani. Esperto in combustibili d’accatto, nelle mie stufe brucio tutto, comprese le macerie, ma non il sughero, che qui è solo tappo, turacciolo, intero o rot-
to. Io lo raccolgo il sughero, specialmente se rotto, che poi finirà tutto nell’azienda di Carlo, quando sarà finita. Ma c’è un luogo, la dispensa di un tempo, quella sì che rincuora perché ci ristagna un antico aroma di mele, con altri profumi di anteguerra. Una damigiana spagliata, vuota ma col tappo di sughero, se lo togli si sente l’odore di madre d’aceto. Quel tappo resta lì, a tenere l’odore nella damigiana. Risolviamo serate seduti in cappotto intorno alla stufa, come emigranti che aspettano la nave, dice Anselmo. O carcerati in cella. Che pena abbiamo da scontare? Non lo dico ad Anselmo ma ormai sono convinto che scontiamo la colpa di essere stati crucchi di complemento. O facciamo la recita, ci chiediamo che fai di bello stasera? Si va al teatro, a corteggiare una, all’osteria, dalla morosa, al Cinema Bianchini, via Materasso e numero cuscini. A volte siamo così tristi che nessuno dice niente. Neanche che non è bello ciò che è bellico, come dice don Pissavino quando non c’è proprio niente da dire. Don Pissavino, meglio di Radio Londra, ci aggiorna sul fuori che minaccia e illude. Stasera ci parla di aggressioni: – Parole non ci appulcro, – dice dantesco, ma è anche per consolarci della nostra prigionia che parla di aggressioni notturne e anche diurne, là fuori, di gente che viene aggredita e spogliata di vestiti e scarpe, di fughe opposte di due che s’incontrano paurosi, di un ladro di calzature che prima di assalire la vittima prescelta gli chiede il numero di scarpe. Tanto per fare un po’ di comica finale. Anselmo passa secoli sulla sua amata collezione di figurine dei quattro moschettieri. Ma in più di Ansel-
mo io ci ho la risorsa dei libri. E lui s’indispettisce: – Che fai zi’ pre’, leggi il breviario? Un altro giorno mi fa: – Ti fa male stare fermo così tutto il tempo, ci hai le borse di studio, – e mi mette quasi l’indice in un occhio: le borse di studio, quelle che vengono sotto gli occhi a stare sui libri. Che c’è da studiare, da capire leggendo? Tutto succede a caso, no? Stare attenti bisogna, occhi aperti, schiva e dài per primo, poi t’informi. Appunto dico, io mi sto informando, qui sui libri, no? Anselmo ha scovato una cassetta di attrezzi anteguerra con chiodi, martello, punteruolo, viti, succhiello, bullette, tenaglia, pialla, seghetto, cacciavite, lime, pinzette, un coltello svizzero per farci tutto quanto. E un martello complesso, che per prima cosa gli serve a eliminare la scritta Gott mit uns dalla fibbia della cinta, che era ora di restare senza il dio crucco. Una ricchezza paurosa, se si considera anche il deschetto con attrezzatura da calzolaio e salvatacchi e salvapunte di ferro per le scarpe, e un’armonica a bocca marca Hohner che non c’entra niente perché qui più niente suoni e canti, solo zitti e mosca. Ad Anselmo caso mai interessa l’organo di chiesa, come macchinario. Pensa di rabberciare un motorino elettrico per i mantici. Anselmo ha questa pensata mentre siamo rintanati senz’aria dietro il vano mantici dell’organo perché a Santa Chiara c’è una visita delle brigate nere. Proprio il giorno dopo la visita di don Ranieri: – Quello porta male. – Non sanno nemmeno che cosa cercare ma fingono di saperla molto lunga, sti figl’e ’ndrocchia e malacarne. Uno di loro viene su, si siede davanti alle tre tastiere dell’organo, i piedi puzzolenti sui pedali a un palmo dal mio naso lì nascosto dietro un legno, cerca a lungo di
to. Io lo raccolgo il sughero, specialmente se rotto, che poi finirà tutto nell’azienda di Carlo, quando sarà finita. Ma c’è un luogo, la dispensa di un tempo, quella sì che rincuora perché ci ristagna un antico aroma di mele, con altri profumi di anteguerra. Una damigiana spagliata, vuota ma col tappo di sughero, se lo togli si sente l’odore di madre d’aceto. Quel tappo resta lì, a tenere l’odore nella damigiana. Risolviamo serate seduti in cappotto intorno alla stufa, come emigranti che aspettano la nave, dice Anselmo. O carcerati in cella. Che pena abbiamo da scontare? Non lo dico ad Anselmo ma ormai sono convinto che scontiamo la colpa di essere stati crucchi di complemento. O facciamo la recita, ci chiediamo che fai di bello stasera? Si va al teatro, a corteggiare una, all’osteria, dalla morosa, al Cinema Bianchini, via Materasso e numero cuscini. A volte siamo così tristi che nessuno dice niente. Neanche che non è bello ciò che è bellico, come dice don Pissavino quando non c’è proprio niente da dire. Don Pissavino, meglio di Radio Londra, ci aggiorna sul fuori che minaccia e illude. Stasera ci parla di aggressioni: – Parole non ci appulcro, – dice dantesco, ma è anche per consolarci della nostra prigionia che parla di aggressioni notturne e anche diurne, là fuori, di gente che viene aggredita e spogliata di vestiti e scarpe, di fughe opposte di due che s’incontrano paurosi, di un ladro di calzature che prima di assalire la vittima prescelta gli chiede il numero di scarpe. Tanto per fare un po’ di comica finale. Anselmo passa secoli sulla sua amata collezione di figurine dei quattro moschettieri. Ma in più di Ansel-
mo io ci ho la risorsa dei libri. E lui s’indispettisce: – Che fai zi’ pre’, leggi il breviario? Un altro giorno mi fa: – Ti fa male stare fermo così tutto il tempo, ci hai le borse di studio, – e mi mette quasi l’indice in un occhio: le borse di studio, quelle che vengono sotto gli occhi a stare sui libri. Che c’è da studiare, da capire leggendo? Tutto succede a caso, no? Stare attenti bisogna, occhi aperti, schiva e dài per primo, poi t’informi. Appunto dico, io mi sto informando, qui sui libri, no? Anselmo ha scovato una cassetta di attrezzi anteguerra con chiodi, martello, punteruolo, viti, succhiello, bullette, tenaglia, pialla, seghetto, cacciavite, lime, pinzette, un coltello svizzero per farci tutto quanto. E un martello complesso, che per prima cosa gli serve a eliminare la scritta Gott mit uns dalla fibbia della cinta, che era ora di restare senza il dio crucco. Una ricchezza paurosa, se si considera anche il deschetto con attrezzatura da calzolaio e salvatacchi e salvapunte di ferro per le scarpe, e un’armonica a bocca marca Hohner che non c’entra niente perché qui più niente suoni e canti, solo zitti e mosca. Ad Anselmo caso mai interessa l’organo di chiesa, come macchinario. Pensa di rabberciare un motorino elettrico per i mantici. Anselmo ha questa pensata mentre siamo rintanati senz’aria dietro il vano mantici dell’organo perché a Santa Chiara c’è una visita delle brigate nere. Proprio il giorno dopo la visita di don Ranieri: – Quello porta male. – Non sanno nemmeno che cosa cercare ma fingono di saperla molto lunga, sti figl’e ’ndrocchia e malacarne. Uno di loro viene su, si siede davanti alle tre tastiere dell’organo, i piedi puzzolenti sui pedali a un palmo dal mio naso lì nascosto dietro un legno, cerca a lungo di
cavare suoni pestando sui tasti, si aiuta fischiettando, poi canticchiando Parlami d’amore Mariù... Niente. Ci pensa su: già, siamo in chiesa, ci riprova con Noi vogliam Dio… Niente. Non lo capisce che ci vuole l’aria.
Don Pissavino sguscia via poi si rinfila a Santa Chiara in varchi aperti dai bombardamenti. Sta fuori senza regola. A volte torna carico come una formica, e a noi si allarga il cuore e gli altri visceri in attesa. Stasera al crepuscolo viene dentro spostando la tonaca nel fango con la mano, come una madama schizzinosa. È magro secco che ci sta tre volte nella tonaca. Gli sbuco di fronte dal mucchio di mattoni interi e a pezzi che sto riassestando, lui sobbalza: – Che diavolo! – Sorride sollevato. Tra le pozzanghere prosegue e l’accompagno. Ha la testa altrove e sottobraccio il suo parapioggia nero tutto buchi. Gli prendo la borsa, piena sformata di speranza. Me la molla zitto. Attacco bottone, vorrei guardare nella borsa o almeno domandargli che cosa ci ha portato, ma gli faccio: – C’è stato movimento, fuori in città? – Sì, c’è stato. Ho dato gli ultimi conforti a un giovane colpito da una pallottola vagante. E ho aiutato una madre a separarsi da suo figlio. Io zitto. Vorrei sapergli dire che lui anche in guerra tiene fede alla direttiva del suo Fondatore: siate certosini in casa e apostoli fuori, straordinari nelle cose ordinarie… Dirgli cose così, che sono scritte nella cripta del Fondatore. Ma so di non avere il tono giusto. Gli schizzo davanti e lo precedo: – Don Pissavino… – e non riesco a dire. – Sì?
cavare suoni pestando sui tasti, si aiuta fischiettando, poi canticchiando Parlami d’amore Mariù... Niente. Ci pensa su: già, siamo in chiesa, ci riprova con Noi vogliam Dio… Niente. Non lo capisce che ci vuole l’aria.
Don Pissavino sguscia via poi si rinfila a Santa Chiara in varchi aperti dai bombardamenti. Sta fuori senza regola. A volte torna carico come una formica, e a noi si allarga il cuore e gli altri visceri in attesa. Stasera al crepuscolo viene dentro spostando la tonaca nel fango con la mano, come una madama schizzinosa. È magro secco che ci sta tre volte nella tonaca. Gli sbuco di fronte dal mucchio di mattoni interi e a pezzi che sto riassestando, lui sobbalza: – Che diavolo! – Sorride sollevato. Tra le pozzanghere prosegue e l’accompagno. Ha la testa altrove e sottobraccio il suo parapioggia nero tutto buchi. Gli prendo la borsa, piena sformata di speranza. Me la molla zitto. Attacco bottone, vorrei guardare nella borsa o almeno domandargli che cosa ci ha portato, ma gli faccio: – C’è stato movimento, fuori in città? – Sì, c’è stato. Ho dato gli ultimi conforti a un giovane colpito da una pallottola vagante. E ho aiutato una madre a separarsi da suo figlio. Io zitto. Vorrei sapergli dire che lui anche in guerra tiene fede alla direttiva del suo Fondatore: siate certosini in casa e apostoli fuori, straordinari nelle cose ordinarie… Dirgli cose così, che sono scritte nella cripta del Fondatore. Ma so di non avere il tono giusto. Gli schizzo davanti e lo precedo: – Don Pissavino… – e non riesco a dire. – Sì?
– Noi qui… a che punto siamo, secondo voi? Si ferma, mi guarda duro, poi disteso, tira dentro l’aria: – Siamo al punto che la cosa finisca davvero, finalmente, nella disfatta. – E riparte. Io fermo imbambolato mani in tasca. Mi riscuoto, lo raggiungo, l’affianco: – Sì, ma la disfatta: la disfatta di chi? Si ferma di nuovo, stavolta un po’ sorride: – La disfatta del male, Efisio. E cioè, laicamente, la disfatta dell’asse, del patto d’acciaio, la disfatta del nazi-fascismo, del tedesco, del repubblichino… insomma della tirannide, della tirannide alfieriana, – e mostra lì davanti a noi la casa dell’Alfieri solida e solenne: – Tirannide italica e signoria germanica, non ha mai visto di peggio il Belpaese. E va. Resto lì coi piedi dentro una pozzanghera e le spalle che sfiorano macerie. Lo so che mi comporto da ragazzino, ma lo raggiungo e mi rimetto davanti a lui: – Don Pissavino… – Bene, siamo di scuola peripatetica, ma non così, vienimi a fianco, dimmi. Gli chiedo a chi è che bisogna togliere il comando o invece gli dico che suo cugino Ricu Gross se la fa con Capo Franco Wolf che gli ha rotto il naso a sganassoni? E magari gli chiedo se questa disfatta sarà la disfatta di Ricu Gross quanto la disfatta di Capo Franco Wolf? E Carlo Sanna di Nuraddei? La disfatta com’è che li divide in due parti belle chiare il bene e il male? Mi rimetto al suo fianco e dico solamente: – Vostro cugino, Ricu Gross… – Sì? – In tutta questa guerra lui, Ricu Gross… che fa? Don Pissavino si ferma e so che mi ha capito. Guar-
da in alto, come fanno più di lui altri preti, scuote la testa, smette la sicurezza, ritorna nel suo orgoglio rassegnato: – Si dà da fare. A suo tempo il duce in persona gli ha dato un premio per la battaglia del grano… Non fa la borsa nera. Traffica, sì, ma è tutta roba non tesserata, di campo e non di stalla o di mulino. E poi alla rinfusa, camminando, più a se stesso che a me, contando sulle dita di quelle sue manone quadrate e pelose, don Pissavino snocciola: che i tempi sono neri in questo sesto anno di guerra, mai visti così neri che anche le fondamenta della casa sono marce che siamo tutti sulla via di Damasco, dobbiamo convertirci, cambiar vita che la ragione non è mai stata tutta da una parte, ma stavolta sì che suo cugino si dà da fare a destra e a manca perché non crede abbastanza nella divina provvidenza che comunque in ogni tempo è come se morissimo tutti di una pallottola vagante – E qui noi ci dobbiamo preparare un dopoguerra, – dico io. Lui mi guarda ancora come se mi vedesse per la prima volta. E neanch’io mi piaccio. Dopo cena, si fa per dire, salgo a bussare alla sua porta. Un momento che so che posso farlo. Da dentro mi arriva un avanti! forte e calmo. Don Pissavino sta leggendo. Una lente degli occhiali è crepata, gli fa uno sguardo spaventato. Fa cenno di sedermi davanti al suo scrittoio. Prende i due libri che ha di fronte e li richiude l’uno dentro l’altro a doppio segnalibro. Sento un dolore nelle viscere, che non mi lascia parlare a questo prete che non ama le confessio-
– Noi qui… a che punto siamo, secondo voi? Si ferma, mi guarda duro, poi disteso, tira dentro l’aria: – Siamo al punto che la cosa finisca davvero, finalmente, nella disfatta. – E riparte. Io fermo imbambolato mani in tasca. Mi riscuoto, lo raggiungo, l’affianco: – Sì, ma la disfatta: la disfatta di chi? Si ferma di nuovo, stavolta un po’ sorride: – La disfatta del male, Efisio. E cioè, laicamente, la disfatta dell’asse, del patto d’acciaio, la disfatta del nazi-fascismo, del tedesco, del repubblichino… insomma della tirannide, della tirannide alfieriana, – e mostra lì davanti a noi la casa dell’Alfieri solida e solenne: – Tirannide italica e signoria germanica, non ha mai visto di peggio il Belpaese. E va. Resto lì coi piedi dentro una pozzanghera e le spalle che sfiorano macerie. Lo so che mi comporto da ragazzino, ma lo raggiungo e mi rimetto davanti a lui: – Don Pissavino… – Bene, siamo di scuola peripatetica, ma non così, vienimi a fianco, dimmi. Gli chiedo a chi è che bisogna togliere il comando o invece gli dico che suo cugino Ricu Gross se la fa con Capo Franco Wolf che gli ha rotto il naso a sganassoni? E magari gli chiedo se questa disfatta sarà la disfatta di Ricu Gross quanto la disfatta di Capo Franco Wolf? E Carlo Sanna di Nuraddei? La disfatta com’è che li divide in due parti belle chiare il bene e il male? Mi rimetto al suo fianco e dico solamente: – Vostro cugino, Ricu Gross… – Sì? – In tutta questa guerra lui, Ricu Gross… che fa? Don Pissavino si ferma e so che mi ha capito. Guar-
da in alto, come fanno più di lui altri preti, scuote la testa, smette la sicurezza, ritorna nel suo orgoglio rassegnato: – Si dà da fare. A suo tempo il duce in persona gli ha dato un premio per la battaglia del grano… Non fa la borsa nera. Traffica, sì, ma è tutta roba non tesserata, di campo e non di stalla o di mulino. E poi alla rinfusa, camminando, più a se stesso che a me, contando sulle dita di quelle sue manone quadrate e pelose, don Pissavino snocciola: che i tempi sono neri in questo sesto anno di guerra, mai visti così neri che anche le fondamenta della casa sono marce che siamo tutti sulla via di Damasco, dobbiamo convertirci, cambiar vita che la ragione non è mai stata tutta da una parte, ma stavolta sì che suo cugino si dà da fare a destra e a manca perché non crede abbastanza nella divina provvidenza che comunque in ogni tempo è come se morissimo tutti di una pallottola vagante – E qui noi ci dobbiamo preparare un dopoguerra, – dico io. Lui mi guarda ancora come se mi vedesse per la prima volta. E neanch’io mi piaccio. Dopo cena, si fa per dire, salgo a bussare alla sua porta. Un momento che so che posso farlo. Da dentro mi arriva un avanti! forte e calmo. Don Pissavino sta leggendo. Una lente degli occhiali è crepata, gli fa uno sguardo spaventato. Fa cenno di sedermi davanti al suo scrittoio. Prende i due libri che ha di fronte e li richiude l’uno dentro l’altro a doppio segnalibro. Sento un dolore nelle viscere, che non mi lascia parlare a questo prete che non ama le confessio-
ni, cose da donnicciole di Callianetto. Mi piacerebbe dirgli tutto, qui adesso e subito, sono venuto qui da lui per questo, dirgli di Berger, della Legione, ma che non ho mai ucciso nessuno, anche se ho imparato a combattere con furia e con spavento, lottare per la vita e per la morte anche cantando Giovinezza, quando combattere era tutto, senza tempo e modo per fare altro, e come diceva Berger la volta che ci aveva colti tutti la dissenteria, bisognava sapere combattere e cagare, combattere e mangiare, combattere cagare e mangiare tutti insieme nei ranghi e camuffati per cavarsela… e poi quel giorno, quando Siro Gans su un’aia a Bricco Morra strilla e punta l’arma corta in faccia a un contadino: – Adesso muori! – e quello gli fa calmo: – Anche tu un giorno va’ che crepi, cribbio, ne’ che questo è il bello? – e Siro Gans gli spara in faccia lì davanti alle sue donne, col rumore più brutto mai sentito. Poteva essere mio padre, quell’uomo, e la donna mia madre, quella che si è afflosciata sulle gambe giù per terra. Quanto è faticoso fare l’assassino, pensavo, mentre Siro Gans, via la rivoltella, si asciugata la fronte. Anselmo Frett che ha visto la mia faccia poi mi ha detto che queste sono cose che si fanno in guerra, come no, si sono sempre fatte, e ormai ero già bello e sverginato. Poi Siro Gans guardava me quando ci ha detto che in guerra bisogna lasciare il cuore a casa, ja, das Herz zu Hause, e anche la faccia, dietro la retina mimetica. L’onore, mi dico stringendomi al fucile, se c’è, dal Monferrato qui in Piemonte se n’è andato via da un pezzo, col valore e il resto. O forse è di Lovejoy che dovrei parlargli, di quella sua… come la chiama don Ranieri? Imboscata di lussuria. O di Ricu Gross che sembra mio padre e se la fa con Lovejoy, con tutti se la fa.
– E allora, Efisio, ce la facciamo ancora? – Sì, abbastanza, – dico, rauco come quando mi parlo dentro troppo a lungo. – Ti vedo un po’ smagrito, – e ride un po’ perché ce lo diciamo sempre, per ridere. – È che mi chiedo troppe cose… – e scorgo che la copertina in vista dei due libri infilati l’uno nell’altro è del Trattato della tirannide dell’Alfieri. – Sì Efisio, troppe cose ci sono, a parte cibo, vesti e tetto. Tutto è al di sopra della nostra portata, possiamo solo fingere di averci mani in pasta: sì, mosche cocchiere siamo, tutti, fanti e generali e duci e re: siamo la mosca sul naso del cocchiere, che da lì s’illude di guidare lei la carrozza. – Sì ma… chi la vince questa guerra? – Non vince chi ha ragione, ma il più forte. – E dopo? – Ha ragione chi vince. – E stiamo zitti a lungo tutti e due, vergognosi del mondo. Mi muovo, mi giro, sono già alla porta e lui mi fa: – Efisio! – Ha una voce diversa e fa paura. – Efisio, io so dove sei stato, dopo scappato dal castello, che cosa hai fatto tutto questo tempo. – Mi fa silenzio con la mano alzata. Voglio scappare ma non riesco a muovermi. Lui continua: – Si fa per dire che lo so, che lo sappiamo, chi, cosa, con chi, da che parte sei stato… È tutto così incerto, Efisio, per questo tutti sparano, nello sconquasso di là fuori. E cosa siamo adesso qui noi cinque a Santa Chiara? Cacche di mosca siamo, cacche di quella sua mosca cocchiera, questo sto per dire che siamo noi a Santa Chiara, ma abbasso la testa e lui continua che comunque qui si sopravvive, che dobbiamo vivere,
ni, cose da donnicciole di Callianetto. Mi piacerebbe dirgli tutto, qui adesso e subito, sono venuto qui da lui per questo, dirgli di Berger, della Legione, ma che non ho mai ucciso nessuno, anche se ho imparato a combattere con furia e con spavento, lottare per la vita e per la morte anche cantando Giovinezza, quando combattere era tutto, senza tempo e modo per fare altro, e come diceva Berger la volta che ci aveva colti tutti la dissenteria, bisognava sapere combattere e cagare, combattere e mangiare, combattere cagare e mangiare tutti insieme nei ranghi e camuffati per cavarsela… e poi quel giorno, quando Siro Gans su un’aia a Bricco Morra strilla e punta l’arma corta in faccia a un contadino: – Adesso muori! – e quello gli fa calmo: – Anche tu un giorno va’ che crepi, cribbio, ne’ che questo è il bello? – e Siro Gans gli spara in faccia lì davanti alle sue donne, col rumore più brutto mai sentito. Poteva essere mio padre, quell’uomo, e la donna mia madre, quella che si è afflosciata sulle gambe giù per terra. Quanto è faticoso fare l’assassino, pensavo, mentre Siro Gans, via la rivoltella, si asciugata la fronte. Anselmo Frett che ha visto la mia faccia poi mi ha detto che queste sono cose che si fanno in guerra, come no, si sono sempre fatte, e ormai ero già bello e sverginato. Poi Siro Gans guardava me quando ci ha detto che in guerra bisogna lasciare il cuore a casa, ja, das Herz zu Hause, e anche la faccia, dietro la retina mimetica. L’onore, mi dico stringendomi al fucile, se c’è, dal Monferrato qui in Piemonte se n’è andato via da un pezzo, col valore e il resto. O forse è di Lovejoy che dovrei parlargli, di quella sua… come la chiama don Ranieri? Imboscata di lussuria. O di Ricu Gross che sembra mio padre e se la fa con Lovejoy, con tutti se la fa.
– E allora, Efisio, ce la facciamo ancora? – Sì, abbastanza, – dico, rauco come quando mi parlo dentro troppo a lungo. – Ti vedo un po’ smagrito, – e ride un po’ perché ce lo diciamo sempre, per ridere. – È che mi chiedo troppe cose… – e scorgo che la copertina in vista dei due libri infilati l’uno nell’altro è del Trattato della tirannide dell’Alfieri. – Sì Efisio, troppe cose ci sono, a parte cibo, vesti e tetto. Tutto è al di sopra della nostra portata, possiamo solo fingere di averci mani in pasta: sì, mosche cocchiere siamo, tutti, fanti e generali e duci e re: siamo la mosca sul naso del cocchiere, che da lì s’illude di guidare lei la carrozza. – Sì ma… chi la vince questa guerra? – Non vince chi ha ragione, ma il più forte. – E dopo? – Ha ragione chi vince. – E stiamo zitti a lungo tutti e due, vergognosi del mondo. Mi muovo, mi giro, sono già alla porta e lui mi fa: – Efisio! – Ha una voce diversa e fa paura. – Efisio, io so dove sei stato, dopo scappato dal castello, che cosa hai fatto tutto questo tempo. – Mi fa silenzio con la mano alzata. Voglio scappare ma non riesco a muovermi. Lui continua: – Si fa per dire che lo so, che lo sappiamo, chi, cosa, con chi, da che parte sei stato… È tutto così incerto, Efisio, per questo tutti sparano, nello sconquasso di là fuori. E cosa siamo adesso qui noi cinque a Santa Chiara? Cacche di mosca siamo, cacche di quella sua mosca cocchiera, questo sto per dire che siamo noi a Santa Chiara, ma abbasso la testa e lui continua che comunque qui si sopravvive, che dobbiamo vivere,
per poi poterla raccontare, sì, mettiamola così, che mi sto fabbricando nostalgie per la vecchiaia, in fin dei conti. Apro zitto la porta, non riesco a pensare alla vecchiaia, ma penso ch’è un augurio, che ne sto seminando tanta di quella roba da ricordare che non basteranno tre vite a farne la raccolta, o per dimenticarla. E quando ho già chiuso la porta e sceso due gradini sento che riapre: – Efisio, – dice come impaurito sulla porta, – volevo dire… sì insomma, Efisio… ciò che per l’universo si squaderna… – ma neanche Dante adesso lo soccorre, si stira i mezzi guanti neri: – Il mistero, Efisio, – dice levando l’indice sgualcito. E se ne torna dentro, quasi sbatte la porta. Io resto lì. Ho le vertigini. Mi siedo sul gradino. È la fame, mi dico, la fame.
Perché succede che Anselmo allarga gli orizzonti. Perlustra con il cannocchiale del suo Karabiner. L’ha riesumato, lui senza scrupoli o paure, ma io sì. L’ha riesumato nel Puoservire. E poi ha scoperto la torretta di tipografia, e il modo di arrivarci. E tutto all’insaputa di noialtri. Ma io me ne sono accorto il giorno stesso, di Anselmo in cima alla torretta, per via dei colombi che facevano gazzarra, disturbati. Con legni di risulta ha messo su una scala a pioli che si tira su dopo saliti: – Tirami giù la scala, deficiente e traditore. – No, sì, no, ma mi manda giù la scala, e mentre salgo canta jamme jamme, incoppa jamme jamm’ funiculì funiculà. Gran bella vista! E dalla torre si può scendere sul tetto di tipografia, poi giù e via per luoghi ignoti fino nella chiesa di San Giuseppe, dritti al nascondiglio sotto il mantice dell’organo. Nasconde il fucile tra sfridi di piombo. È un osservatorio, una torre di guardia, col suo fucile lubrificato a sputi, il Karabiner che non guarda in faccia a nessuno, dice lui. Si piazza a una finestra sbrecciata e raddoppiata da un bombardamento. Perlustro anch’io. Asti a volo d’uccello è veneranda di altre torri e torrioni ed edifici sacri e profani a cominciare dalla vetusta casa dell’Alfieri qui a due passi, con nel giardino il grande albero del sempre volli. Però che noia, per strada poca gente, quasi sem-
per poi poterla raccontare, sì, mettiamola così, che mi sto fabbricando nostalgie per la vecchiaia, in fin dei conti. Apro zitto la porta, non riesco a pensare alla vecchiaia, ma penso ch’è un augurio, che ne sto seminando tanta di quella roba da ricordare che non basteranno tre vite a farne la raccolta, o per dimenticarla. E quando ho già chiuso la porta e sceso due gradini sento che riapre: – Efisio, – dice come impaurito sulla porta, – volevo dire… sì insomma, Efisio… ciò che per l’universo si squaderna… – ma neanche Dante adesso lo soccorre, si stira i mezzi guanti neri: – Il mistero, Efisio, – dice levando l’indice sgualcito. E se ne torna dentro, quasi sbatte la porta. Io resto lì. Ho le vertigini. Mi siedo sul gradino. È la fame, mi dico, la fame.
Perché succede che Anselmo allarga gli orizzonti. Perlustra con il cannocchiale del suo Karabiner. L’ha riesumato, lui senza scrupoli o paure, ma io sì. L’ha riesumato nel Puoservire. E poi ha scoperto la torretta di tipografia, e il modo di arrivarci. E tutto all’insaputa di noialtri. Ma io me ne sono accorto il giorno stesso, di Anselmo in cima alla torretta, per via dei colombi che facevano gazzarra, disturbati. Con legni di risulta ha messo su una scala a pioli che si tira su dopo saliti: – Tirami giù la scala, deficiente e traditore. – No, sì, no, ma mi manda giù la scala, e mentre salgo canta jamme jamme, incoppa jamme jamm’ funiculì funiculà. Gran bella vista! E dalla torre si può scendere sul tetto di tipografia, poi giù e via per luoghi ignoti fino nella chiesa di San Giuseppe, dritti al nascondiglio sotto il mantice dell’organo. Nasconde il fucile tra sfridi di piombo. È un osservatorio, una torre di guardia, col suo fucile lubrificato a sputi, il Karabiner che non guarda in faccia a nessuno, dice lui. Si piazza a una finestra sbrecciata e raddoppiata da un bombardamento. Perlustro anch’io. Asti a volo d’uccello è veneranda di altre torri e torrioni ed edifici sacri e profani a cominciare dalla vetusta casa dell’Alfieri qui a due passi, con nel giardino il grande albero del sempre volli. Però che noia, per strada poca gente, quasi sem-
pre in divisa. Tutto scarso, scadente, scalcagnato, anche il movimento. Ma stamattina vedo un ragazzino in un cortile. Figlio di qualche militare? O di qualche imboscato come noi? Nel cortile deserto gioca da solo a guardie e ladri. Fa tutto lui. Scappa e rincorre. Spara e cade colpito, si rialza e spara nella direzione opposta. Muore da ladro e poi da guardia. O forse da fascista e poi da partigiano, chissà. E appare una ragazza e lui le va incontro di corsa a testa bassa, con gli indici sulle tempie a corna di toro, le gira attorno e poi carica ancora, così, ma lei riesce ad afferrarlo e se lo porta dentro a malincuore. Bella, elegante, si muove bene. Con grazia paziente. Forse sua sorella. Lei però è bruna e il ragazzino è biondo. Riesco a puntarle il viso e poi a poco a poco tutto il corpo, piano, su e giù, e i passi e il movimento della gonna sulle gambe. Non ho il coraggio di mostrarla anche ad Anselmo, che ai tempi della Legione lo faceva spesso di guardare le donne avvicinandole così, poi mi passava il Karabiner, mi stava a guardare e poi voleva anche sapere l’effetto che mi fa guardare così a lungo una ragazza. Io zitto, impegnato a nascondermi il rossore, e quanto è brutto essere imbranati come me. Da quando frequentiamo la torretta di tipografia, la notte sogno spesso di volare. Mi ritrovo in volo sopra la città, sui colli sui paesi e sulle vigne dei dintorni. Forse sono un uccello, volo come un uccello, come un piccione, o invece forse sono un aeroplano, un caccia o un bombardiere, che però non sa chi e che cosa bombardare, o anche un ricognitore, che al buio vede poco e riconosce solo quello che sa già. Ma io volo e volo in tutti i modi di chi sa volare, poi mi calo sui tetti a riposare. E
via di nuovo su e giù e poi avanti e indietro: so che cerco il mare e non lo trovo mai, negli orizzonti della notte. So anche, da sveglio, che la torretta è il luogo di decollo e di atterraggio. Oggi nessuno là fuori di sotto in città. L’aviazione nemica domina i cieli. Le cose che ci dice e riporta don Pissavino chissà dov’è che succedono là fuori. E noi qui a pensare alle cose possibili, o a niente: – Vita da consegnati, da carcerati in gattabuia, – dice Anselmo, per prenderne atto e fare fronte. Ma stamattina Anselmo da quassù vede… ma sì, to’ guarda un po’ chi si rivede? È Capo Franco Wolf, in borghese, dietro un paio di occhiali neri e col bavero dell’impermeabile al naso: – Ma sembra lo stesso in divisa, anzi più crucco, – dice Anselmo rivitalizzato. Dove si va di bello, Capo Franco Lupo? Ha il passo di chi sa bene dove va. Anselmo se lo segue a lungo mugolando Pippo Pippo non lo sa che quando passa ride tutta la città, si crede bello… Lo perde e lo ritrova più vicino o più lontano nei luoghi sconquassati. Guardo anch’io con quella vista lunga del fucile: Capo Franco Wolf cammina attento ma spavaldo, dritto e pettoruto proprio come un gallo ma anche rasente ai muri come un cane messo in riga dal padrone. Porta con eleganza un’elegante valigetta nera. Agli incroci si ferma per guardarsi intorno con attenzione predatoria, tenendo il marciapiede a passo uguale. Io lo seguo, mi piace stargli dietro da quassù, mi sento potente. Passa una Opel nera. To’, e lui le fa il saluto militare, la mano a taglio sulla fronte. – Salùtam’ a sòrreta, – dice Anselmo. Capo Franco Wolf finisce per sparire dentro un pa-
pre in divisa. Tutto scarso, scadente, scalcagnato, anche il movimento. Ma stamattina vedo un ragazzino in un cortile. Figlio di qualche militare? O di qualche imboscato come noi? Nel cortile deserto gioca da solo a guardie e ladri. Fa tutto lui. Scappa e rincorre. Spara e cade colpito, si rialza e spara nella direzione opposta. Muore da ladro e poi da guardia. O forse da fascista e poi da partigiano, chissà. E appare una ragazza e lui le va incontro di corsa a testa bassa, con gli indici sulle tempie a corna di toro, le gira attorno e poi carica ancora, così, ma lei riesce ad afferrarlo e se lo porta dentro a malincuore. Bella, elegante, si muove bene. Con grazia paziente. Forse sua sorella. Lei però è bruna e il ragazzino è biondo. Riesco a puntarle il viso e poi a poco a poco tutto il corpo, piano, su e giù, e i passi e il movimento della gonna sulle gambe. Non ho il coraggio di mostrarla anche ad Anselmo, che ai tempi della Legione lo faceva spesso di guardare le donne avvicinandole così, poi mi passava il Karabiner, mi stava a guardare e poi voleva anche sapere l’effetto che mi fa guardare così a lungo una ragazza. Io zitto, impegnato a nascondermi il rossore, e quanto è brutto essere imbranati come me. Da quando frequentiamo la torretta di tipografia, la notte sogno spesso di volare. Mi ritrovo in volo sopra la città, sui colli sui paesi e sulle vigne dei dintorni. Forse sono un uccello, volo come un uccello, come un piccione, o invece forse sono un aeroplano, un caccia o un bombardiere, che però non sa chi e che cosa bombardare, o anche un ricognitore, che al buio vede poco e riconosce solo quello che sa già. Ma io volo e volo in tutti i modi di chi sa volare, poi mi calo sui tetti a riposare. E
via di nuovo su e giù e poi avanti e indietro: so che cerco il mare e non lo trovo mai, negli orizzonti della notte. So anche, da sveglio, che la torretta è il luogo di decollo e di atterraggio. Oggi nessuno là fuori di sotto in città. L’aviazione nemica domina i cieli. Le cose che ci dice e riporta don Pissavino chissà dov’è che succedono là fuori. E noi qui a pensare alle cose possibili, o a niente: – Vita da consegnati, da carcerati in gattabuia, – dice Anselmo, per prenderne atto e fare fronte. Ma stamattina Anselmo da quassù vede… ma sì, to’ guarda un po’ chi si rivede? È Capo Franco Wolf, in borghese, dietro un paio di occhiali neri e col bavero dell’impermeabile al naso: – Ma sembra lo stesso in divisa, anzi più crucco, – dice Anselmo rivitalizzato. Dove si va di bello, Capo Franco Lupo? Ha il passo di chi sa bene dove va. Anselmo se lo segue a lungo mugolando Pippo Pippo non lo sa che quando passa ride tutta la città, si crede bello… Lo perde e lo ritrova più vicino o più lontano nei luoghi sconquassati. Guardo anch’io con quella vista lunga del fucile: Capo Franco Wolf cammina attento ma spavaldo, dritto e pettoruto proprio come un gallo ma anche rasente ai muri come un cane messo in riga dal padrone. Porta con eleganza un’elegante valigetta nera. Agli incroci si ferma per guardarsi intorno con attenzione predatoria, tenendo il marciapiede a passo uguale. Io lo seguo, mi piace stargli dietro da quassù, mi sento potente. Passa una Opel nera. To’, e lui le fa il saluto militare, la mano a taglio sulla fronte. – Salùtam’ a sòrreta, – dice Anselmo. Capo Franco Wolf finisce per sparire dentro un pa-
lazzo verso corso Volta, vicino a quel cortile, della ragazza e il ragazzino. Forse proprio lì. Sento un rimescolio che mi fa male. Rimetto il fucile in mano ad Anselmo: – E se abitasse da queste parti, adesso? Saremmo più in pericolo, no? – O è in pericolo più lui, ’sto ciuccio capatosta, – dice Anselmo mettendo la saliva sul mirino del fucile. Di notte sogno Capo Franco Wolf: mi sveglio nell’istante che mi trova e mi tiene sotto tiro a bruciapelo.
Oggi Baranski e Lovejoy si sono appiccicati, come dice Anselmo. C’è stato un falso allarme aereo, e poi le loro grida, incredibili. L’inglese puntava la pistola in faccia all’americano, tremante di rabbia, ma Baranski mani in tasca ha dato le spalle a Lovejoy e alla sua arma, e poi però giù tutta una serqua di hillibilly e di altre cose in lingua loro. – Eccoli, i nostri liberatori, – mi dice Anselmo. Don Pissavino cerca di sopire il chiasso pericoloso nel silenzio del pomeriggio domenicale a Santa Chiara. Passandomi vicino Lovejoy mi ha guardato con occhi di vergogna. Si sta facendo crescere i baffetti. Poi quando si è calmato, si è accosciato spalle al muro, mordendosi le unghie, perché qui adesso è questo il suo modo di tagliarle e pareggiarle, a morsi preoccupati. – Che cosa gli è preso? – chiedo a cose fatte, ognuno già al suo posto. – Loro hanno qualcosa da spartire, noi più niente, – dice Anselmo. – Parlano la stessa lingua ma non si capiscono, – dico io. E don Pissavino: – In gabbia troppo tempo, in questa enorme zuffa planetaria, è legge di natura che ogni tanto sbottino, e sallo in Campagnatico ogni fante. Non è la prima volta. Tempo fa Lovejoy stava dicendo quanto gli piacciono i cavalli, e Baranski ha detto
lazzo verso corso Volta, vicino a quel cortile, della ragazza e il ragazzino. Forse proprio lì. Sento un rimescolio che mi fa male. Rimetto il fucile in mano ad Anselmo: – E se abitasse da queste parti, adesso? Saremmo più in pericolo, no? – O è in pericolo più lui, ’sto ciuccio capatosta, – dice Anselmo mettendo la saliva sul mirino del fucile. Di notte sogno Capo Franco Wolf: mi sveglio nell’istante che mi trova e mi tiene sotto tiro a bruciapelo.
Oggi Baranski e Lovejoy si sono appiccicati, come dice Anselmo. C’è stato un falso allarme aereo, e poi le loro grida, incredibili. L’inglese puntava la pistola in faccia all’americano, tremante di rabbia, ma Baranski mani in tasca ha dato le spalle a Lovejoy e alla sua arma, e poi però giù tutta una serqua di hillibilly e di altre cose in lingua loro. – Eccoli, i nostri liberatori, – mi dice Anselmo. Don Pissavino cerca di sopire il chiasso pericoloso nel silenzio del pomeriggio domenicale a Santa Chiara. Passandomi vicino Lovejoy mi ha guardato con occhi di vergogna. Si sta facendo crescere i baffetti. Poi quando si è calmato, si è accosciato spalle al muro, mordendosi le unghie, perché qui adesso è questo il suo modo di tagliarle e pareggiarle, a morsi preoccupati. – Che cosa gli è preso? – chiedo a cose fatte, ognuno già al suo posto. – Loro hanno qualcosa da spartire, noi più niente, – dice Anselmo. – Parlano la stessa lingua ma non si capiscono, – dico io. E don Pissavino: – In gabbia troppo tempo, in questa enorme zuffa planetaria, è legge di natura che ogni tanto sbottino, e sallo in Campagnatico ogni fante. Non è la prima volta. Tempo fa Lovejoy stava dicendo quanto gli piacciono i cavalli, e Baranski ha detto
che anche a lui il cavallo piace molto, a etti e mezzichili, si è capito. Lovejoy ha dato un pugno sul tavolo, tremando tutto. Ma è che dopo i cannoni delle altre notti il fronte non si è più sentito. Neanche la primavera. L’inverno rimane nemico, un nemico da odiare. C’è più nervoso. A volte litighiamo anche noi, ma solo a parole, ci punzecchiamo dove non fa male, o tenendoci il muso. Io sono puntiglioso, ma Anselmo ha lo sfottò leggero. E ci sfoghiamo a tirarci i rigori col pallino da tamburello. Io li sbaglio tutti e me ne devo stare sempre in porta, tra una pila e l’altra dei portici quadrati. Baranski ci ha spiegato il base-ball, ma non pare gran che, ci giocavamo coi bastoni da bambini Anselmo e io, lui al suo e io al mio paese. – Ho capito cos’hanno, – mi fa Anselmo quando siamo già da un pezzo a letto, nel buio pesto e nel silenzio minaccioso. – Chi? – I demopluto qui con noi, gli angloamericani, i nostri due liberatori, hanno che sono come noi. – E se ne sta zitto. – Come noi, cioè? Ma lui zitto. Sono come noi, ma noi che cosa siamo? Non è per niente chiaro, questo è il guaio di gente come noi, di questi porci tempi. Siamo disertori? Non mi era mai venuto in mente la parola disertore, imboscato sì. Spia? Ho già temuto mille volte di finire al muro come spia, però spia di chi? Dei due angloamericani, Lovejoy non ha il fare della spia, sempre così attento a se stesso e sembra che non bada mai al fuori di sé… Non mi so fermare, ha ragione Anselmo, penso troppo, come l’idea
che non sappiamo mai davvero chi siamo a questo mondo, Anselmo si rivitalizza nel buio: – Sì, hanno che sono come noi, come noi due, non ce la fanno più con questa guerra, perdono la pazienza e si bisticciano, si sfogano così. – E chi la vuole fare continuare questa guerra? Lui ci pensa su: – Quelli dove stavamo prima, crucchi e fasci, quelli che l’hanno fatta cominciare, non la vogliono nemmeno finire questa loro bella guerra. Io questa cosa qui, sì, l’ho già pensata anch’io, quando eravamo alla Legione, troppo tempo fa. E zitti tutti e due, a lungo, mentre penso a Ricu Gross che si sta preparando il dopoguerra, a chi ha ragione o torto, e diritto di vincere. E dico: – Perché non bisticciamo un po’ anche noi, ogni tanto? – Ma va, dormi. Per quello, bisogna toccarci nel vivo. – E prova. Si gira dall’altra parte: – Lasciami dormire. Io insisto: – Ma sì, dài forza, terrone, basilisco! Se ne sta zitto e poi mi fa: – Ma tu sei sardegnolo? – Sardo sono, come mio padre e mio nonno e anche più in là. – Tutti sardegnoli. E sei anche figlio di una sarda? – Sì, certo, di una sarda. – E come fai a essere figlio di un asino e di un pesce? Appena in piedi l’indomani, insieme sotto i portici di Santa Chiara, io gli do una spinta, Anselmo mi fa lo sgambetto, io mi afferro a lui e andiamo a terra tutti e due, ci avvinghiamo, ci prendiamo a pugni, lui con quei suoi “sardegnuolo mariuolo e fetente”, e io scansando la gragnuola gli strillo di non toccarmi mai più la mia
che anche a lui il cavallo piace molto, a etti e mezzichili, si è capito. Lovejoy ha dato un pugno sul tavolo, tremando tutto. Ma è che dopo i cannoni delle altre notti il fronte non si è più sentito. Neanche la primavera. L’inverno rimane nemico, un nemico da odiare. C’è più nervoso. A volte litighiamo anche noi, ma solo a parole, ci punzecchiamo dove non fa male, o tenendoci il muso. Io sono puntiglioso, ma Anselmo ha lo sfottò leggero. E ci sfoghiamo a tirarci i rigori col pallino da tamburello. Io li sbaglio tutti e me ne devo stare sempre in porta, tra una pila e l’altra dei portici quadrati. Baranski ci ha spiegato il base-ball, ma non pare gran che, ci giocavamo coi bastoni da bambini Anselmo e io, lui al suo e io al mio paese. – Ho capito cos’hanno, – mi fa Anselmo quando siamo già da un pezzo a letto, nel buio pesto e nel silenzio minaccioso. – Chi? – I demopluto qui con noi, gli angloamericani, i nostri due liberatori, hanno che sono come noi. – E se ne sta zitto. – Come noi, cioè? Ma lui zitto. Sono come noi, ma noi che cosa siamo? Non è per niente chiaro, questo è il guaio di gente come noi, di questi porci tempi. Siamo disertori? Non mi era mai venuto in mente la parola disertore, imboscato sì. Spia? Ho già temuto mille volte di finire al muro come spia, però spia di chi? Dei due angloamericani, Lovejoy non ha il fare della spia, sempre così attento a se stesso e sembra che non bada mai al fuori di sé… Non mi so fermare, ha ragione Anselmo, penso troppo, come l’idea
che non sappiamo mai davvero chi siamo a questo mondo, Anselmo si rivitalizza nel buio: – Sì, hanno che sono come noi, come noi due, non ce la fanno più con questa guerra, perdono la pazienza e si bisticciano, si sfogano così. – E chi la vuole fare continuare questa guerra? Lui ci pensa su: – Quelli dove stavamo prima, crucchi e fasci, quelli che l’hanno fatta cominciare, non la vogliono nemmeno finire questa loro bella guerra. Io questa cosa qui, sì, l’ho già pensata anch’io, quando eravamo alla Legione, troppo tempo fa. E zitti tutti e due, a lungo, mentre penso a Ricu Gross che si sta preparando il dopoguerra, a chi ha ragione o torto, e diritto di vincere. E dico: – Perché non bisticciamo un po’ anche noi, ogni tanto? – Ma va, dormi. Per quello, bisogna toccarci nel vivo. – E prova. Si gira dall’altra parte: – Lasciami dormire. Io insisto: – Ma sì, dài forza, terrone, basilisco! Se ne sta zitto e poi mi fa: – Ma tu sei sardegnolo? – Sardo sono, come mio padre e mio nonno e anche più in là. – Tutti sardegnoli. E sei anche figlio di una sarda? – Sì, certo, di una sarda. – E come fai a essere figlio di un asino e di un pesce? Appena in piedi l’indomani, insieme sotto i portici di Santa Chiara, io gli do una spinta, Anselmo mi fa lo sgambetto, io mi afferro a lui e andiamo a terra tutti e due, ci avvinghiamo, ci prendiamo a pugni, lui con quei suoi “sardegnuolo mariuolo e fetente”, e io scansando la gragnuola gli strillo di non toccarmi mai più la mia
famiglia, e neanche la mia terra, e mi spavento di vedere il mio viso spaventato riflesso a meno di un palmo nei due occhi grigi di Anselmo che mi placca a terra. Mi arrendo.
Don Pissavino è preoccupato che dopodomani torna a Santa Chiara don Ranieri in bici, mezza giornata per certe cose sue da prete bellico, poi torna a Frinco. – Chi è questo don Panieri? – chiede Anselmo. Don Pissavino è in imbarazzo: – Don Ranieri, è un padre nostro. – Un altro? Non è uno solo il padre nostro e sta nei cieli? Don Pissavino lo guarda serio: – Certe volte me lo chiedo anch’io se lassù non ce ne sono due di padreterni, uno dei due in combutta con la tirannide. – Andiamo bene se nemmeno voi sapete a che santo votarvi, – dice Anselmo, e io gli do i calci di nascosto, ma Anselmo incalza con la sua faccia da bravo ragazzo: – E le vostre preghiere non le intercettano mica le spie dell’altro padre, quello che sta in combutta con quella tale che avete detto prima? – Quello in combutta con la tirannide? – Don Pissavino riesce a ridere: – In questa aiuola che ci fa tanto feroci, la guerra premia i bricconi e umilia gli onesti, ma il dio del male sta facendo cilecca, pare, ed era ora. Poi dice che non abbiamo più un grano di sale, né fino né grosso, e che il Sale e Tabacchi qui vicino in corso Alfieri non c’è più. – Già, non c’è guerra che abbia sale in zucca, – dico io, senza nessun effetto, così poi mi sembra di prendermi chissà quale rivincita e mi metto a dire che in Sardegna il sale si trova e si compra dapper-
famiglia, e neanche la mia terra, e mi spavento di vedere il mio viso spaventato riflesso a meno di un palmo nei due occhi grigi di Anselmo che mi placca a terra. Mi arrendo.
Don Pissavino è preoccupato che dopodomani torna a Santa Chiara don Ranieri in bici, mezza giornata per certe cose sue da prete bellico, poi torna a Frinco. – Chi è questo don Panieri? – chiede Anselmo. Don Pissavino è in imbarazzo: – Don Ranieri, è un padre nostro. – Un altro? Non è uno solo il padre nostro e sta nei cieli? Don Pissavino lo guarda serio: – Certe volte me lo chiedo anch’io se lassù non ce ne sono due di padreterni, uno dei due in combutta con la tirannide. – Andiamo bene se nemmeno voi sapete a che santo votarvi, – dice Anselmo, e io gli do i calci di nascosto, ma Anselmo incalza con la sua faccia da bravo ragazzo: – E le vostre preghiere non le intercettano mica le spie dell’altro padre, quello che sta in combutta con quella tale che avete detto prima? – Quello in combutta con la tirannide? – Don Pissavino riesce a ridere: – In questa aiuola che ci fa tanto feroci, la guerra premia i bricconi e umilia gli onesti, ma il dio del male sta facendo cilecca, pare, ed era ora. Poi dice che non abbiamo più un grano di sale, né fino né grosso, e che il Sale e Tabacchi qui vicino in corso Alfieri non c’è più. – Già, non c’è guerra che abbia sale in zucca, – dico io, senza nessun effetto, così poi mi sembra di prendermi chissà quale rivincita e mi metto a dire che in Sardegna il sale si trova e si compra dapper-
tutto, e come ho riso quando in continente ho visto queste insegne di Sale e Tabacchi. Perché da noi il sale non è monopolio di stato. Mi sembra un vanto. Gli altri hanno facce per niente interessate. Don Pissavino mi prende a parte, non tanto che non senta anche Anselmo: – Torna qua mio cugino. Domenica pomeriggio alle quattro. Vi potete incontrare nel cortile di tipografia. Se piove, dentro la tipografia. Bisogna essere puntuali al minuto, alle quattro, ora del campanile qui di San Giuseppe. Anselmo non mi sta a sentire mentre gli spiego che cos’è questa aiuola che ci fa tanto feroci: – Un cafone puntuale all’orologio, – dice di malumore, – mai sentito. La notte Capo Franco Wolf mi cerca per rive e vigne e mi risveglio sul punto che mi trova su nel vano alto della torre di Cassinasco.
Col cannocchiale tengo d’occhio il cortile, laggiù, quello della mia ragazza. Non si è più vista. Neanche il ragazzino. La cicogna sì, spesso, su in ricognizione. Anselmo punta su il fucile e gli fa bum! Anche contro un Thunderbolt americano che stamattina piomba a bassa quota all’improvviso e sembra schiantarsi qui sopra di noi. Poi si rifà il silenzio. Anselmo se ne sta seduto col fucile tra le gambe, senza più fantasia di sguardi lunghi. Oggi è uno di quei giorni che gli viene la tristezza cupa, senza voglia di niente, se non di menare: pugni all’aria. Poi si fa da fumare, si ficca in mezzo alla faccia una sigaretta ben riuscita, accende con la pietra focaia e alle prime boccate chiude gli occhi e nel fumo fa la faccia di uno che capisce tutto, finalmente. È una sigaretta che sembra quasi vera, fatta con le cicche buttate dei due demoplutocratici nascosti qui con noi, che le buttano lunghe, scandalosamente ancora lunghe, le loro cicche spente. Anselmo mi fa fare una tirata che mi arriva su fino al cervello. Gli chiedo, per disperazione, col fumo negli occhi: – Tu qui adesso hai più noia, più fifa… o più speranza? – Lo vedi come sei, lo vedi come sei? – dice, spegne la sigaretta e se la mette dietro l’orecchio, con un gesto lento ma pure scocciato come uno sbadiglio di fame: – Tu pensi troppo. Ti fa male. Comunque io ci ho fame, solo fame, sempre fame. E se penso, penso alla fumata che mi farò alla faccia della fame passata. Mi metterò
tutto, e come ho riso quando in continente ho visto queste insegne di Sale e Tabacchi. Perché da noi il sale non è monopolio di stato. Mi sembra un vanto. Gli altri hanno facce per niente interessate. Don Pissavino mi prende a parte, non tanto che non senta anche Anselmo: – Torna qua mio cugino. Domenica pomeriggio alle quattro. Vi potete incontrare nel cortile di tipografia. Se piove, dentro la tipografia. Bisogna essere puntuali al minuto, alle quattro, ora del campanile qui di San Giuseppe. Anselmo non mi sta a sentire mentre gli spiego che cos’è questa aiuola che ci fa tanto feroci: – Un cafone puntuale all’orologio, – dice di malumore, – mai sentito. La notte Capo Franco Wolf mi cerca per rive e vigne e mi risveglio sul punto che mi trova su nel vano alto della torre di Cassinasco.
Col cannocchiale tengo d’occhio il cortile, laggiù, quello della mia ragazza. Non si è più vista. Neanche il ragazzino. La cicogna sì, spesso, su in ricognizione. Anselmo punta su il fucile e gli fa bum! Anche contro un Thunderbolt americano che stamattina piomba a bassa quota all’improvviso e sembra schiantarsi qui sopra di noi. Poi si rifà il silenzio. Anselmo se ne sta seduto col fucile tra le gambe, senza più fantasia di sguardi lunghi. Oggi è uno di quei giorni che gli viene la tristezza cupa, senza voglia di niente, se non di menare: pugni all’aria. Poi si fa da fumare, si ficca in mezzo alla faccia una sigaretta ben riuscita, accende con la pietra focaia e alle prime boccate chiude gli occhi e nel fumo fa la faccia di uno che capisce tutto, finalmente. È una sigaretta che sembra quasi vera, fatta con le cicche buttate dei due demoplutocratici nascosti qui con noi, che le buttano lunghe, scandalosamente ancora lunghe, le loro cicche spente. Anselmo mi fa fare una tirata che mi arriva su fino al cervello. Gli chiedo, per disperazione, col fumo negli occhi: – Tu qui adesso hai più noia, più fifa… o più speranza? – Lo vedi come sei, lo vedi come sei? – dice, spegne la sigaretta e se la mette dietro l’orecchio, con un gesto lento ma pure scocciato come uno sbadiglio di fame: – Tu pensi troppo. Ti fa male. Comunque io ci ho fame, solo fame, sempre fame. E se penso, penso alla fumata che mi farò alla faccia della fame passata. Mi metterò
all’ingrasso come un porco. Mica la penso come il medico che all’ospedale diceva che ormai la guerra non finisce più, vivremo sempre in guerra, diceva. Io zitto. Laggiù lontano due colpi di clacson sorprendono il silenzio con la loro nitidezza. Pensando a non pensarci Anselmo pensa: – Già, tutto il male deriva dalla pancia vuota. – E dalla pancia piena cosa viene fuori? – Ridiamo. Gli dico dei fachiri che non mangiano per mesi. Chi glielo fa fare? Di Cristo nel deserto che digiuna per quaranta giorni: la mortificazione della carne. Della carne va bene, ma il pesce, il pane, il companatico? Ma sì, sta con la pancia al sole e pensa alla salute. La guerra è una bestia enorme che si mangia tutto, ci digerisce e alla fine ci cacherà che saremo un’altra cosa. Inizio il traffico per farmi da fumare anch’io, con la scaramanzia di usare solo pollice indice e medio. Gli dico: – Don Pissavino mi farà incontrare con quel Ricu Gross. – Col tuo verme da esca? – È un cugino di don Pissavino. Ogni tanto mangiamo roba sua. – Tieni il conto, per dopo la guerra. – Ricu Gross forse sa di Carlo Sanna, quello che mi ha coperto la ritirata la notte che hanno fucilato Siro Gans. Stavo pensando una cosa. – Appunto dico. Sputa fuori, – e posa il fucile molto attento. – Be’, farli incontrare qui, Ricu Gross e Capo Franco Wolf. Lui si volta, mani in tasca, sta per dire qualcosa, ci ripensa, mi ridà le spalle: – E tu mani nude tra di loro.
Più facile fare a nuoto il mare fino a casa tua, sott’acqua. – La sera che ti ho portato qui dall’ospedale, Ricu Gross era qui con Lovejoy, col Bandolero stanco. Ricu Gross ha i piedi in molte scarpe, si sta preparando il dopoguerra. Anselmo si gira, mi guarda, si rigira, prende il fucile, lo riposa, mi guarda ancora. Va su e giù per la soffitta dove può senza chinarsi, caccia via piccioni, mani sprofondate nelle tasche spinte in fuori come un ragazzino in cerca dell’ultima biglia da giocare. Prendo il fucile e mi avvicino agli occhi lo sconquasso dei bombardamenti sotto il cielo azzurro fondo. Un tipo in vesti misere spinge in mezzo alla strada un carretto a mano doppia stanga: trasporta una bara, chissà se vuota o piena: piena, perché già chiusa, ma come bara è una cosa rabberciata, assi grezze inchiodate, crocifisso da muro riciclato, poi, ma sì, io riconosco la chiusura rastremata ai piedi della bara: è il cartello di legno con su scritto Içi dègustasion per anni esposto fuori dal Caffè Campari in Corso Alfieri, scritto così male da farmi sentire più istruito di tutti gli astigiani. E dietro la bara questa donna, grande e nera in lutto, cappello con veletta, lenta per strada sola in mezzo alle macerie con svolazzi neri. Maria Vergine dei Sette Dolori al mio paese in cerca del Figlio morto il Venerdì Santo, appiedata e sola. In alto, un enorme stormo nero alla faccia degli angloamericani si è impadronito del cielo e se lo gioca ai quattro cantoni.
all’ingrasso come un porco. Mica la penso come il medico che all’ospedale diceva che ormai la guerra non finisce più, vivremo sempre in guerra, diceva. Io zitto. Laggiù lontano due colpi di clacson sorprendono il silenzio con la loro nitidezza. Pensando a non pensarci Anselmo pensa: – Già, tutto il male deriva dalla pancia vuota. – E dalla pancia piena cosa viene fuori? – Ridiamo. Gli dico dei fachiri che non mangiano per mesi. Chi glielo fa fare? Di Cristo nel deserto che digiuna per quaranta giorni: la mortificazione della carne. Della carne va bene, ma il pesce, il pane, il companatico? Ma sì, sta con la pancia al sole e pensa alla salute. La guerra è una bestia enorme che si mangia tutto, ci digerisce e alla fine ci cacherà che saremo un’altra cosa. Inizio il traffico per farmi da fumare anch’io, con la scaramanzia di usare solo pollice indice e medio. Gli dico: – Don Pissavino mi farà incontrare con quel Ricu Gross. – Col tuo verme da esca? – È un cugino di don Pissavino. Ogni tanto mangiamo roba sua. – Tieni il conto, per dopo la guerra. – Ricu Gross forse sa di Carlo Sanna, quello che mi ha coperto la ritirata la notte che hanno fucilato Siro Gans. Stavo pensando una cosa. – Appunto dico. Sputa fuori, – e posa il fucile molto attento. – Be’, farli incontrare qui, Ricu Gross e Capo Franco Wolf. Lui si volta, mani in tasca, sta per dire qualcosa, ci ripensa, mi ridà le spalle: – E tu mani nude tra di loro.
Più facile fare a nuoto il mare fino a casa tua, sott’acqua. – La sera che ti ho portato qui dall’ospedale, Ricu Gross era qui con Lovejoy, col Bandolero stanco. Ricu Gross ha i piedi in molte scarpe, si sta preparando il dopoguerra. Anselmo si gira, mi guarda, si rigira, prende il fucile, lo riposa, mi guarda ancora. Va su e giù per la soffitta dove può senza chinarsi, caccia via piccioni, mani sprofondate nelle tasche spinte in fuori come un ragazzino in cerca dell’ultima biglia da giocare. Prendo il fucile e mi avvicino agli occhi lo sconquasso dei bombardamenti sotto il cielo azzurro fondo. Un tipo in vesti misere spinge in mezzo alla strada un carretto a mano doppia stanga: trasporta una bara, chissà se vuota o piena: piena, perché già chiusa, ma come bara è una cosa rabberciata, assi grezze inchiodate, crocifisso da muro riciclato, poi, ma sì, io riconosco la chiusura rastremata ai piedi della bara: è il cartello di legno con su scritto Içi dègustasion per anni esposto fuori dal Caffè Campari in Corso Alfieri, scritto così male da farmi sentire più istruito di tutti gli astigiani. E dietro la bara questa donna, grande e nera in lutto, cappello con veletta, lenta per strada sola in mezzo alle macerie con svolazzi neri. Maria Vergine dei Sette Dolori al mio paese in cerca del Figlio morto il Venerdì Santo, appiedata e sola. In alto, un enorme stormo nero alla faccia degli angloamericani si è impadronito del cielo e se lo gioca ai quattro cantoni.
Nel vuoto chiaro delle sacre volte, quando il sole da una vetrata con al centro la colomba dello Spirito Santo manda la sua luce sull’altare della Madonna che sta lì seduta con sulle ginocchia un Gesù Bambino col pisello fuori, per niente circonciso, e sì che abbiamo appena festeggiato la Circoncisione, questa cosa al pisello che ho capito solo in quinta ginnasiale… be’, sotto le sacre volte io non vengo a sedermi in questo punto della navata di sinistra per criticare i pittori di madonne e di piselli di Gesubambino, ma per tirarmi su in meditazione, per edificarmi insomma, perché in tutta questa fame mi fa bene guardare in santa pace alla luce di una vetrata pentecostale il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, affrescato da mano anonima ma esperta di gente affamata. Qui seduto su un banco io mi tappo le orecchie con le mani, chiudo gli occhi, mi concentro sul gusto e sull’olfatto e quando mi riesce torna a poco tutto il mondo del mio mangiare laggiù a casa, il mangiare festivo e feriale, i grandi pani bianchi di Sanluri, il cannonau di Jerzu e nuragus di Ortueri, funi di salsiccia mandarese, raffiche di olive in salamoia, malloreddus, culingionis ogliastrini e di Trexenta, maccheroni rugosi, favette giovani di marzo, finocchi ravanelli carciofi e lattuga sparadese, pollo arrosto, porchetto e agnello accarraxau, arselle e cozze di Santa Gilla, cambara maccioni e pisciurrei, pesci d’Oristano cotti su graticole di festa,
Nel vuoto chiaro delle sacre volte, quando il sole da una vetrata con al centro la colomba dello Spirito Santo manda la sua luce sull’altare della Madonna che sta lì seduta con sulle ginocchia un Gesù Bambino col pisello fuori, per niente circonciso, e sì che abbiamo appena festeggiato la Circoncisione, questa cosa al pisello che ho capito solo in quinta ginnasiale… be’, sotto le sacre volte io non vengo a sedermi in questo punto della navata di sinistra per criticare i pittori di madonne e di piselli di Gesubambino, ma per tirarmi su in meditazione, per edificarmi insomma, perché in tutta questa fame mi fa bene guardare in santa pace alla luce di una vetrata pentecostale il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, affrescato da mano anonima ma esperta di gente affamata. Qui seduto su un banco io mi tappo le orecchie con le mani, chiudo gli occhi, mi concentro sul gusto e sull’olfatto e quando mi riesce torna a poco tutto il mondo del mio mangiare laggiù a casa, il mangiare festivo e feriale, i grandi pani bianchi di Sanluri, il cannonau di Jerzu e nuragus di Ortueri, funi di salsiccia mandarese, raffiche di olive in salamoia, malloreddus, culingionis ogliastrini e di Trexenta, maccheroni rugosi, favette giovani di marzo, finocchi ravanelli carciofi e lattuga sparadese, pollo arrosto, porchetto e agnello accarraxau, arselle e cozze di Santa Gilla, cambara maccioni e pisciurrei, pesci d’Oristano cotti su graticole di festa,
moscatello a grappoli, arance di Milis, torrone di Tonara, sospiri di Ozieri e arantzada nuorese… e in tutta questa abbondanza poter scegliere, decidere cosa mangiare come non ho mai fatto in vita mia, a quattro ganasce, a quattro palmenti, decidere, decidere, fare le mie scelte… finché mangiando la mia stessa fantasia, ecco che stamattina mi ritrovo in mano, preso su dal banco, un foglietto piegato, l’apro, spalanco gli occhi e leggo cubitale: – Piombo nella schiena al corvo traditore, – e mi sento una canna di fucile nella schiena, mi va di traverso tutto quanto e faccio appena in tempo a uscire fuori a vomitare davvero ciò che ho solo pensato di mangiare. Chi ha messo lì il foglietto dev’essere uno che ha visto me altre volte lì seduto a una cert’ora del mattino. Corro a cercare Anselmo. Prende e legge, ci pensa su, se ne va e viene a passi lunghi sotto il porticato, rilegge, sputa, smoccola, fa il foglietto a pezzi che butta per terra e poi li spazza via col piede all’indietro come i cani. Si concentra, si acciglia: – Meglio che il nostro prete non lo sappia. Non serve, non gli serve, non ci serve a niente. Però, stiamo attenti! Chi ce l’ha col prete, ce l’ha con noi. – Se la vedrà con noi! Lui fa una spallucciata, ma poi tira con rabbia un sasso a un mucchio di macerie. Sta troppo zitto. Gli chiedo: – Tu che ne dici di don Pissavino? Anselmo mi guarda, poi si guarda in giro, mani in tasca: – Mi deve piacere? – No. Ma ti piace? – Io sono il cane dell’ortolano, non gli importa dei cavoli, ma guai a chi li tocca.
– Don Pissavino non è una testa di cavolo, e tu sei un cafone. – Testa di cavolo no, ma traditore sì, per qualcuno. Per chi? – Per chi? – Per tutti e per nessuno. Un prete chi tradisce? Tutti e nessuno, in nome di Dio. – E noi, siamo traditori, di chi, di cosa? Lui mi guarda, due volte, ci pensa, lancia un’altra pietruzza contro le macerie: – Del mangiare abbastanza tutti i giorni, questo abbiamo tradito disertando la Legione. Gli sferro un pugno, poi ci rincorriamo, come due pischelli, nei meandri di macerie di tutta Santa Chiara. Ettore e Achille sotto le mura di Troia. Già, noi, siamo traditori? A letto discutiamo e stiamo a lungo zitti su questo dilemma. Poi Anselmo vuole che gli dica meglio la guerra di Troia. E lui ne trae la lezione che nei propri doveri uno ci nasce. Ma lui per spiegarsi preferisce fare, se no se ne sta zitto volentieri. Io mi spiego a parole. Dico, perché mi pare vero, che ho creduto a Berger che diceva che in tempi di paura è meglio stare con chi fa paura. Dunque forse ho scelto. Lui mi dà ragione perché ha sonno. Dopo il suo terzo sbadiglio, dice: – Be’, dormi e pensa alla salute, chi può sparare piombo non scrive bigliettini di minaccia. Ma il problema resta, me lo porto nel sonno, con la vecchia idea che questa guerra non esiste, è solo un grumo di brutti sogni fatti in tempi diversi della mia vita, o di vite lontane in luoghi come Troia.
moscatello a grappoli, arance di Milis, torrone di Tonara, sospiri di Ozieri e arantzada nuorese… e in tutta questa abbondanza poter scegliere, decidere cosa mangiare come non ho mai fatto in vita mia, a quattro ganasce, a quattro palmenti, decidere, decidere, fare le mie scelte… finché mangiando la mia stessa fantasia, ecco che stamattina mi ritrovo in mano, preso su dal banco, un foglietto piegato, l’apro, spalanco gli occhi e leggo cubitale: – Piombo nella schiena al corvo traditore, – e mi sento una canna di fucile nella schiena, mi va di traverso tutto quanto e faccio appena in tempo a uscire fuori a vomitare davvero ciò che ho solo pensato di mangiare. Chi ha messo lì il foglietto dev’essere uno che ha visto me altre volte lì seduto a una cert’ora del mattino. Corro a cercare Anselmo. Prende e legge, ci pensa su, se ne va e viene a passi lunghi sotto il porticato, rilegge, sputa, smoccola, fa il foglietto a pezzi che butta per terra e poi li spazza via col piede all’indietro come i cani. Si concentra, si acciglia: – Meglio che il nostro prete non lo sappia. Non serve, non gli serve, non ci serve a niente. Però, stiamo attenti! Chi ce l’ha col prete, ce l’ha con noi. – Se la vedrà con noi! Lui fa una spallucciata, ma poi tira con rabbia un sasso a un mucchio di macerie. Sta troppo zitto. Gli chiedo: – Tu che ne dici di don Pissavino? Anselmo mi guarda, poi si guarda in giro, mani in tasca: – Mi deve piacere? – No. Ma ti piace? – Io sono il cane dell’ortolano, non gli importa dei cavoli, ma guai a chi li tocca.
– Don Pissavino non è una testa di cavolo, e tu sei un cafone. – Testa di cavolo no, ma traditore sì, per qualcuno. Per chi? – Per chi? – Per tutti e per nessuno. Un prete chi tradisce? Tutti e nessuno, in nome di Dio. – E noi, siamo traditori, di chi, di cosa? Lui mi guarda, due volte, ci pensa, lancia un’altra pietruzza contro le macerie: – Del mangiare abbastanza tutti i giorni, questo abbiamo tradito disertando la Legione. Gli sferro un pugno, poi ci rincorriamo, come due pischelli, nei meandri di macerie di tutta Santa Chiara. Ettore e Achille sotto le mura di Troia. Già, noi, siamo traditori? A letto discutiamo e stiamo a lungo zitti su questo dilemma. Poi Anselmo vuole che gli dica meglio la guerra di Troia. E lui ne trae la lezione che nei propri doveri uno ci nasce. Ma lui per spiegarsi preferisce fare, se no se ne sta zitto volentieri. Io mi spiego a parole. Dico, perché mi pare vero, che ho creduto a Berger che diceva che in tempi di paura è meglio stare con chi fa paura. Dunque forse ho scelto. Lui mi dà ragione perché ha sonno. Dopo il suo terzo sbadiglio, dice: – Be’, dormi e pensa alla salute, chi può sparare piombo non scrive bigliettini di minaccia. Ma il problema resta, me lo porto nel sonno, con la vecchia idea che questa guerra non esiste, è solo un grumo di brutti sogni fatti in tempi diversi della mia vita, o di vite lontane in luoghi come Troia.
Achille in sogno mi ritorna in tutta la sua ira, nelle sue armi nuove e luccicanti, sotto le mura di Troia fatta Santa Chiara: no, stavolta i suoi occhi glauchi dietro la celata non vedranno le mie terga in fuga. Mi sveglio al primo sonno mentre Capo Franco Wolf sta per spararmi in mezzo agli occhi. Seduto sulla sponda del letto tutto scarmigliato dico serio ad Anselmo come se avessimo parlato fino allora: – Li voglio fare incontrare. Lui bofonchia e raschia un: – Eh? – Li devo rivedere, l’uno di fronte all’altro. – Eh, ma chi? – Ricu Gross e Capo Franco Wolf. Si volta sotto le coperte: – Senti a me, non t’impicciare. Mi spazientisco. Gli butto addosso il cuscino: – E svegliati, stammi a sentire. – Sbrigati, forza, spara. – Macché spara e spara. Ragioniamo, no? E invece no, si scappa. Allarme aereo. Al primo schianto, subito dopo la sirena della Way-Assauto, quella degli Sbocchi Nord si fa subito sotto, poi quella di Santa Caterina conferma l’allarme aereo qui vicino. Non siamo i primi a correre al rifugio, con giacigli di fieno per noialtri imboscati a Santa Chiara. I due angloamericani ci precedono, professionali. Ultimo don Pissavino, che accende moccoli di candela e la lucerna
Achille in sogno mi ritorna in tutta la sua ira, nelle sue armi nuove e luccicanti, sotto le mura di Troia fatta Santa Chiara: no, stavolta i suoi occhi glauchi dietro la celata non vedranno le mie terga in fuga. Mi sveglio al primo sonno mentre Capo Franco Wolf sta per spararmi in mezzo agli occhi. Seduto sulla sponda del letto tutto scarmigliato dico serio ad Anselmo come se avessimo parlato fino allora: – Li voglio fare incontrare. Lui bofonchia e raschia un: – Eh? – Li devo rivedere, l’uno di fronte all’altro. – Eh, ma chi? – Ricu Gross e Capo Franco Wolf. Si volta sotto le coperte: – Senti a me, non t’impicciare. Mi spazientisco. Gli butto addosso il cuscino: – E svegliati, stammi a sentire. – Sbrigati, forza, spara. – Macché spara e spara. Ragioniamo, no? E invece no, si scappa. Allarme aereo. Al primo schianto, subito dopo la sirena della Way-Assauto, quella degli Sbocchi Nord si fa subito sotto, poi quella di Santa Caterina conferma l’allarme aereo qui vicino. Non siamo i primi a correre al rifugio, con giacigli di fieno per noialtri imboscati a Santa Chiara. I due angloamericani ci precedono, professionali. Ultimo don Pissavino, che accende moccoli di candela e la lucerna
a olio e lì sotto scopriamo che ci siamo persi Baranski nel gran buio di caverne monacali. E arrivano gli schianti, sopra, gli spezzoni, i fischi e i lampi dei bengala dall’esterno. Bombardamento a spezzoni, feroce e vicino. A ogni colpo io mi riparo la testa con le braccia come quando mio padre mi picchiava con la cinghia. Da terra stavolta dice la sua una , tedesca qua vicino a noi. Tutto trema, tutto sembra crollare, noi per primi, e sotto tutto il resto. Eppure miracolo, non ho più fame! Già, niente funziona meglio della fifa contro l’appetito, che sarà mai la fame, solo l’idea di mangiare mi fa nausea. E in questa specie di anteprima di fine del mondo mi scopro miagolare come un gatto, in mano un moccolino di candela. Mi vergogno e mi scosto dagli altri, affondo nel buio viscido che non si vede neanche a bestemmiare, dice Anselmo, neanche a pregare, dice don Pissavino. Paura da morire. Ma qualcuno mi segue … ma sì, è Baranski, il tenente Baranski che mi ha visto piangere e tremare spaventato del mio primo vero bombardamento chiuso in gattabuia, la faccia contro il muro. Mi tocca, mi scuote. Io singhiozzo e tremo e mi vergogno di singhiozzare e di dire cose matte mentre lui mi dice cose in lingua sua che non capisco. Mi riscuote ancora, pacche sulla schiena: – Friendly fire, – ripete Baranski, – friendly fire, Kitty Hawk! – Patapùm paa! Questa è proprio vicina, speriamo resti in piedi la torretta di tipografia. Fuoco amico, Baranski sta parlando di fuoco amico. Eh sì amico mio, dagli amici mi guardi Dio... Come faccio a calmarmi, povero me davanti all’ufficiale demopluto che per ogni schianto ha un suo diverso modo di farmi coraggio, ma si vede che schiatta quanto me. E il moccolo si spegne. Lui si cava
di tasca da fumare, rifa una bella luce nelle tenebre e mi accende una sigaretta, calmante. Non funziona, ogni schianto mi fa singhiozzare. Mi viene da dirgli, ma cantando: When they begin the beguine… non so continuare in quell’inglese e lo mugugno, when they begin the beguine… mi scuoto a tempo ritmico, schiocco le dita come Rabagliati, forza andiamo, when they begin the beguine… e anche lui schiocca le dita, canta con me sicuro, when they begin the beguine… camminiamo accostati a tutto swing verso il lume lontano di lucerna e di moccoli tremanti mentre fuori infuria l’amicizia americana: when they begin the beguine it brings back a sound of music so tender, it brings back a night of tropical splendor, it brings back a memory ever green… – Gli antichi generali cinesi - dice don Pissavino al cessato allarme, – dopo una vittoria chiedevano perdono al cielo.
a olio e lì sotto scopriamo che ci siamo persi Baranski nel gran buio di caverne monacali. E arrivano gli schianti, sopra, gli spezzoni, i fischi e i lampi dei bengala dall’esterno. Bombardamento a spezzoni, feroce e vicino. A ogni colpo io mi riparo la testa con le braccia come quando mio padre mi picchiava con la cinghia. Da terra stavolta dice la sua una , tedesca qua vicino a noi. Tutto trema, tutto sembra crollare, noi per primi, e sotto tutto il resto. Eppure miracolo, non ho più fame! Già, niente funziona meglio della fifa contro l’appetito, che sarà mai la fame, solo l’idea di mangiare mi fa nausea. E in questa specie di anteprima di fine del mondo mi scopro miagolare come un gatto, in mano un moccolino di candela. Mi vergogno e mi scosto dagli altri, affondo nel buio viscido che non si vede neanche a bestemmiare, dice Anselmo, neanche a pregare, dice don Pissavino. Paura da morire. Ma qualcuno mi segue … ma sì, è Baranski, il tenente Baranski che mi ha visto piangere e tremare spaventato del mio primo vero bombardamento chiuso in gattabuia, la faccia contro il muro. Mi tocca, mi scuote. Io singhiozzo e tremo e mi vergogno di singhiozzare e di dire cose matte mentre lui mi dice cose in lingua sua che non capisco. Mi riscuote ancora, pacche sulla schiena: – Friendly fire, – ripete Baranski, – friendly fire, Kitty Hawk! – Patapùm paa! Questa è proprio vicina, speriamo resti in piedi la torretta di tipografia. Fuoco amico, Baranski sta parlando di fuoco amico. Eh sì amico mio, dagli amici mi guardi Dio... Come faccio a calmarmi, povero me davanti all’ufficiale demopluto che per ogni schianto ha un suo diverso modo di farmi coraggio, ma si vede che schiatta quanto me. E il moccolo si spegne. Lui si cava
di tasca da fumare, rifa una bella luce nelle tenebre e mi accende una sigaretta, calmante. Non funziona, ogni schianto mi fa singhiozzare. Mi viene da dirgli, ma cantando: When they begin the beguine… non so continuare in quell’inglese e lo mugugno, when they begin the beguine… mi scuoto a tempo ritmico, schiocco le dita come Rabagliati, forza andiamo, when they begin the beguine… e anche lui schiocca le dita, canta con me sicuro, when they begin the beguine… camminiamo accostati a tutto swing verso il lume lontano di lucerna e di moccoli tremanti mentre fuori infuria l’amicizia americana: when they begin the beguine it brings back a sound of music so tender, it brings back a night of tropical splendor, it brings back a memory ever green… – Gli antichi generali cinesi - dice don Pissavino al cessato allarme, – dopo una vittoria chiedevano perdono al cielo.
Già, oggi è sabato ventuno aprile , natale di Roma. A Santa Chiara ci siamo da tre mesi, più o meno. Don Ranieri da Frinco viene per le feste civili e religiose chissà dove ad Asti. Due anni fa a quest’ora del ventuno aprile natale di Roma a Santa Chiara don Pissavino in classe commentava a noi di quarta il Passer, deliciae meae puellae di Catullo. E c’è stato un trambusto: c’è don Ranieri! Contrordine! Basta con le smancerie femminee, sbraita don Ranieri, e ci edifica lui con la Canzone all’Italia di Leopardi, con pantomima da guerriero antico, scudo e spadone, e quando arriva a l’armi qua l’armi! una manata sul mio banco lì davanti mi schizza in faccia uno zampillo d’inchiostro che mi fa sentire una delle otto milioni di baionette alla riscossa della gloria italica romana di cui il sole non vedrà mai al mondo niente di più grande, parola di Orazio compaesano di Anselmo che non conoscevo ancora. Lo stesso pugno don Ranieri aveva dato sul mio banco, senza inchiostro in faccia, l’anno dell’attacco alla Francia declamando un passo del Misogallo del nostro gran dirimpettaio Vittorio Semprevolli. Don Ranieri arriva da Frinco in bici a Santa Chiara con le ruote a terra. Anselmo e io piccioni torraioli lo vediamo scassato spingersi nel fango. Per essere un prete sembra uno che smoccola. Anselmo, una barchetta di giornale in testa, è spae-
Già, oggi è sabato ventuno aprile , natale di Roma. A Santa Chiara ci siamo da tre mesi, più o meno. Don Ranieri da Frinco viene per le feste civili e religiose chissà dove ad Asti. Due anni fa a quest’ora del ventuno aprile natale di Roma a Santa Chiara don Pissavino in classe commentava a noi di quarta il Passer, deliciae meae puellae di Catullo. E c’è stato un trambusto: c’è don Ranieri! Contrordine! Basta con le smancerie femminee, sbraita don Ranieri, e ci edifica lui con la Canzone all’Italia di Leopardi, con pantomima da guerriero antico, scudo e spadone, e quando arriva a l’armi qua l’armi! una manata sul mio banco lì davanti mi schizza in faccia uno zampillo d’inchiostro che mi fa sentire una delle otto milioni di baionette alla riscossa della gloria italica romana di cui il sole non vedrà mai al mondo niente di più grande, parola di Orazio compaesano di Anselmo che non conoscevo ancora. Lo stesso pugno don Ranieri aveva dato sul mio banco, senza inchiostro in faccia, l’anno dell’attacco alla Francia declamando un passo del Misogallo del nostro gran dirimpettaio Vittorio Semprevolli. Don Ranieri arriva da Frinco in bici a Santa Chiara con le ruote a terra. Anselmo e io piccioni torraioli lo vediamo scassato spingersi nel fango. Per essere un prete sembra uno che smoccola. Anselmo, una barchetta di giornale in testa, è spae-
sato come un attore a cui hanno cambiato lo scenario a sua insaputa. E mo’ che ne facciamo qui di don Ranieri? Ma quello a Santa Chiara è a casa sua. Noi siamo gli abusivi. – Ci penso io, te lo rimando io a quel paese, – decide Anselmo e corre giù, poi rallenta e si mette a zoppicare canticchiando Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda... ma poi passa a Dove vai, bellezza in bicicletta… Gli grido di fiato e a mezza voce: – Non parlare tanto, con quella tua calata basilisca, ti si conosce subito, quello è un prete bresciano che i terroni li annusa e li prende a calci in culo. Da quassù al cannocchiale seguo Anselmo che zoppica, quando se ne ricorda. Fa il saluto romano tutto teso, si toglie dalla crapa la barchetta di giornale, bacia la mano al prete bellico, poi capisco che finge di scoprire le due bucature, si offre di ripararle. La bici è in mano sua. Parlano, parlano. Preoccupato me lo vedo che finge e che fingendo sembra dire a tutti che finge. Don Ranieri gli batte la mano sulla spalla, gesto di cui io so le ambivalenze pedagogiche. Ecco don Pissavino che arriva scopando il cortile con la tonaca, va verso il confratello e lo saluta quasi gelido. Anselmo segue a ruota, zoppicando per finta molto bene, si volta in su verso di me con una mossa elastica, fa girare la bici a mezzo in aria su una ruota, come un cavallo imbizzarrito. Anselmo, non esagerare, che don Ranieri finirà per chiedersi che ci fa di questi tempi uno come te qui a Santa Chiara, a fare lo zoppo di guerra. Don Pissavino sta più attento alla zoppia di Anselmo che alle ruote della bici. Don Ranieri rimette una mano sulla spalla di Anselmo: l’investitura a meccanico di fiducia. E Anselmo se ne va spingendo la bici con il passo della più servizievole buona volontà. Sa che lo
sto guardando e fa una piroetta di ottimismo col manubrio della bici. – Legionario Scelto Anselmo Frett a rapporto, – dice Anselmo nel migliore stile militare, di nuovo su in torretta. – Ruhe, riposo. E allora? – Missione compiuta. Il prete nuovo se ne va. Pancia mia fatti capanna, non resta neanche a pranzo. – Cosa stavi dicendo a don Ranieri? – Che sono un trovatello qui del Michelerio. Don Pissavino ha subito abbozzato. Mi benedica padre che mia madre ha peccato. Tu fammi una sigaretta. E dammi il Karabiner. Anselmo rifà il giro di ricognizione. Pare tutto a posto. Gli angloamericani se ne stanno buoni. I due preti occupati chissà dove. Gli preparo uno schifo di sigaretta, un Frankenstein, cicche diverse ricucite. Mi prende il frankenstein, fuma e guarda i due preti in ballatoio. Si mette la sigaretta in angolo, allarga le gambe e braccia ai fianchi al modo crucco del maggiore Berger: – Tu resta qui mimetizzato. – Che altro hai detto al prete bellico? – Che sono stato ferito dai partigiani. Lui mi ha guardato con rispetto. Mi ha detto che anche lui ha combattuto in Russia contro l’Anticristo. Anselmo torna giù ad aggiustare le ruote della bici. Ancheggia e canticchia Ma le gambe, ma le gambe, ma le gambe mi piacciono di più. Quando è preoccupato canta. Che don Ranieri smammi presto. Io resto nascosto: se mi vede, quello mi porta a Frinco, nella sua discipli-
sato come un attore a cui hanno cambiato lo scenario a sua insaputa. E mo’ che ne facciamo qui di don Ranieri? Ma quello a Santa Chiara è a casa sua. Noi siamo gli abusivi. – Ci penso io, te lo rimando io a quel paese, – decide Anselmo e corre giù, poi rallenta e si mette a zoppicare canticchiando Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda... ma poi passa a Dove vai, bellezza in bicicletta… Gli grido di fiato e a mezza voce: – Non parlare tanto, con quella tua calata basilisca, ti si conosce subito, quello è un prete bresciano che i terroni li annusa e li prende a calci in culo. Da quassù al cannocchiale seguo Anselmo che zoppica, quando se ne ricorda. Fa il saluto romano tutto teso, si toglie dalla crapa la barchetta di giornale, bacia la mano al prete bellico, poi capisco che finge di scoprire le due bucature, si offre di ripararle. La bici è in mano sua. Parlano, parlano. Preoccupato me lo vedo che finge e che fingendo sembra dire a tutti che finge. Don Ranieri gli batte la mano sulla spalla, gesto di cui io so le ambivalenze pedagogiche. Ecco don Pissavino che arriva scopando il cortile con la tonaca, va verso il confratello e lo saluta quasi gelido. Anselmo segue a ruota, zoppicando per finta molto bene, si volta in su verso di me con una mossa elastica, fa girare la bici a mezzo in aria su una ruota, come un cavallo imbizzarrito. Anselmo, non esagerare, che don Ranieri finirà per chiedersi che ci fa di questi tempi uno come te qui a Santa Chiara, a fare lo zoppo di guerra. Don Pissavino sta più attento alla zoppia di Anselmo che alle ruote della bici. Don Ranieri rimette una mano sulla spalla di Anselmo: l’investitura a meccanico di fiducia. E Anselmo se ne va spingendo la bici con il passo della più servizievole buona volontà. Sa che lo
sto guardando e fa una piroetta di ottimismo col manubrio della bici. – Legionario Scelto Anselmo Frett a rapporto, – dice Anselmo nel migliore stile militare, di nuovo su in torretta. – Ruhe, riposo. E allora? – Missione compiuta. Il prete nuovo se ne va. Pancia mia fatti capanna, non resta neanche a pranzo. – Cosa stavi dicendo a don Ranieri? – Che sono un trovatello qui del Michelerio. Don Pissavino ha subito abbozzato. Mi benedica padre che mia madre ha peccato. Tu fammi una sigaretta. E dammi il Karabiner. Anselmo rifà il giro di ricognizione. Pare tutto a posto. Gli angloamericani se ne stanno buoni. I due preti occupati chissà dove. Gli preparo uno schifo di sigaretta, un Frankenstein, cicche diverse ricucite. Mi prende il frankenstein, fuma e guarda i due preti in ballatoio. Si mette la sigaretta in angolo, allarga le gambe e braccia ai fianchi al modo crucco del maggiore Berger: – Tu resta qui mimetizzato. – Che altro hai detto al prete bellico? – Che sono stato ferito dai partigiani. Lui mi ha guardato con rispetto. Mi ha detto che anche lui ha combattuto in Russia contro l’Anticristo. Anselmo torna giù ad aggiustare le ruote della bici. Ancheggia e canticchia Ma le gambe, ma le gambe, ma le gambe mi piacciono di più. Quando è preoccupato canta. Che don Ranieri smammi presto. Io resto nascosto: se mi vede, quello mi porta a Frinco, nella sua discipli-
na bellica rabbiosa. Mi guardo in giro con il Karabiner. Anselmo si piazza a lavorare in un punto che io posso controllare. I due preti parlano nel sole, sul ballatoio alto. Li punto col mio cannocchiale. Don Ranieri è teso: i senzadio hanno sfondato sulla Vistola.
Stanotte nel silenzio non si sente il fronte. Qualcosa ti obbliga all’attesa. Anselmo parlotta nel sonno, in tedesco. Fantastico le cose crucche che farfuglia o dice chiare e che non riuscirebbe mai a dire da sveglio. Parla tedesco e piange. E allora piango anch’io. Ma si sveglia gridando: – Nix kaputt! – Non glielo dico mai che piange mentre dorme. La guerra esiste, anche nei miei sogni, dove stanotte don Ranieri ci predica il fuoco eterno con quella sua versione del vangelo da plotone di esecuzione. Alla prima luce apro la finestra. Perché si è fatta davvero primavera. L’inverno se n’è andato. Un nemico di meno. Anselmo protesta. Lui è freddoloso. Aprile è dolce dormire, ma oggi non riesco a stare ancora a letto con la luce. Giorni come anni. Quanto tempo all’alba? si domanda Anselmo. Entra nella stanza il primo calabrone di questa primavera, incomincia a volare forsennato, a sbattere a casaccio dappertutto, non riesce a rinfilare la finestra. Sbatte anche contro la faccia sonnacchiosa di Anselmo che si scuote e lo minaccia di ridurlo in poltiglia. A poco a poco il suo volo si fa meno rumoroso. Si ferma, prende fiato e poi riparte. Dura molto ma alla fine cade a terra ai miei piedi, zampe all’aria. Seduto sul letto lo guardo sgambettare sempre meno frenetico: – Volevi svignartela anche tu, eh? – gli dico con la faccia tra le mani, i gomiti ai ginocchi.
na bellica rabbiosa. Mi guardo in giro con il Karabiner. Anselmo si piazza a lavorare in un punto che io posso controllare. I due preti parlano nel sole, sul ballatoio alto. Li punto col mio cannocchiale. Don Ranieri è teso: i senzadio hanno sfondato sulla Vistola.
Stanotte nel silenzio non si sente il fronte. Qualcosa ti obbliga all’attesa. Anselmo parlotta nel sonno, in tedesco. Fantastico le cose crucche che farfuglia o dice chiare e che non riuscirebbe mai a dire da sveglio. Parla tedesco e piange. E allora piango anch’io. Ma si sveglia gridando: – Nix kaputt! – Non glielo dico mai che piange mentre dorme. La guerra esiste, anche nei miei sogni, dove stanotte don Ranieri ci predica il fuoco eterno con quella sua versione del vangelo da plotone di esecuzione. Alla prima luce apro la finestra. Perché si è fatta davvero primavera. L’inverno se n’è andato. Un nemico di meno. Anselmo protesta. Lui è freddoloso. Aprile è dolce dormire, ma oggi non riesco a stare ancora a letto con la luce. Giorni come anni. Quanto tempo all’alba? si domanda Anselmo. Entra nella stanza il primo calabrone di questa primavera, incomincia a volare forsennato, a sbattere a casaccio dappertutto, non riesce a rinfilare la finestra. Sbatte anche contro la faccia sonnacchiosa di Anselmo che si scuote e lo minaccia di ridurlo in poltiglia. A poco a poco il suo volo si fa meno rumoroso. Si ferma, prende fiato e poi riparte. Dura molto ma alla fine cade a terra ai miei piedi, zampe all’aria. Seduto sul letto lo guardo sgambettare sempre meno frenetico: – Volevi svignartela anche tu, eh? – gli dico con la faccia tra le mani, i gomiti ai ginocchi.
– Non è che non ci abbia provato, – dice Anselmo, e lo finisce con una scarpata: di una scarpa mia, la più malandata, porca miseria, la suola tenuta con lo sputo.
Domenica, il cielo ha un’aria santa. Stamattina presto sapeva di essere colpevole e voleva avere anche ragione, brontolava e sputava pioggerelle. Oggi a pranzo sono stato io di corvée a servire a tavola, al posto di Anselmo che ha compiuto gli anni, . – Non di solo pane… – ha detto don Pissavino, e ha tirato fuori un mazzo di stecchi di liquirizia, trovati chissà dove. Si sono sacrificati tre fiammiferi a fare da candeline su altrettanti stecchi di liquirizia. Baranski ha offerto un suo fiammifero per accendere le candeline, perché Anselmo è un bravo ragazzo, nessuno lo può negare, e infatti dopo la soffiata Anselmo ha insegnato ai due stranieri come si succhia e mastica la liquirizia, alla calabrese dice lui, le bocche nere, i denti sporchi. Baranski ci ha spiegato la gomma americana: una specie di pasta elastica da masticare, non si deve inghiottire, cosa da non credere. Da ridere, e solo Lovejoy se n’è rimsto serio, è come se la vittoria dipendesse dalla sua fronte corrugata. Asti è quasi vuota. Ponti sul Tanaro bombardati. Scioperi a Torino, forse una insciurescioni generali, riesce a dire anche Baranski che ha sfidato Anselmo a braccio di ferro sulla tavola, l’americano gli ha fatto sparire la mano nella zampa quadra, ma Baranski ha perso e ha riso con voce di catarro. Don Pissavino dopo pranzo fa di solito due cose in-
– Non è che non ci abbia provato, – dice Anselmo, e lo finisce con una scarpata: di una scarpa mia, la più malandata, porca miseria, la suola tenuta con lo sputo.
Domenica, il cielo ha un’aria santa. Stamattina presto sapeva di essere colpevole e voleva avere anche ragione, brontolava e sputava pioggerelle. Oggi a pranzo sono stato io di corvée a servire a tavola, al posto di Anselmo che ha compiuto gli anni, . – Non di solo pane… – ha detto don Pissavino, e ha tirato fuori un mazzo di stecchi di liquirizia, trovati chissà dove. Si sono sacrificati tre fiammiferi a fare da candeline su altrettanti stecchi di liquirizia. Baranski ha offerto un suo fiammifero per accendere le candeline, perché Anselmo è un bravo ragazzo, nessuno lo può negare, e infatti dopo la soffiata Anselmo ha insegnato ai due stranieri come si succhia e mastica la liquirizia, alla calabrese dice lui, le bocche nere, i denti sporchi. Baranski ci ha spiegato la gomma americana: una specie di pasta elastica da masticare, non si deve inghiottire, cosa da non credere. Da ridere, e solo Lovejoy se n’è rimsto serio, è come se la vittoria dipendesse dalla sua fronte corrugata. Asti è quasi vuota. Ponti sul Tanaro bombardati. Scioperi a Torino, forse una insciurescioni generali, riesce a dire anche Baranski che ha sfidato Anselmo a braccio di ferro sulla tavola, l’americano gli ha fatto sparire la mano nella zampa quadra, ma Baranski ha perso e ha riso con voce di catarro. Don Pissavino dopo pranzo fa di solito due cose in-
sieme: recita il breviario e si riposa. Gli angloamericani si ritirano: – Nei loro penetrali, – dice don Pissavino. Don Pissavino a tavola ci ha detto che i tedeschi a Torino sono entrati al Cottolengo. E qui in città si fa la conta dei morti. I morti di aprile. Sospira, muove i piedi sotto la tonaca: – Là fuori il tedesco uccide per dare una lezione. – E l’italiano? – chiede Anselmo, – per questioni di pancia, di pancia vuota o piena? – L’italiano? L’italiano oggi uccide per spiegarsi. – Per spiegarsi? – chiedo io. – L’italiano ha avuto modi migliori per dire la sua, ma là fuori adesso per spiegarsi uccide. *** Suonano le quattro al campanile, due volte, per i distratti e per gli ansiosi come noi. La città sembra assorta nei nostri pensieri. Tutto sta per dire una cosa, chissà cosa, ce l’ho anch’io sulla punta della lingua, finché Anselmo dice: – Ehi sveglia, non stare lì incantato, guarda un po’ laggiù, – mi dà il fucile e appena a fuoco eccola lì, la mia ragazza laggiù in fondo, che si precipita in cortile, e che fa, piange? Sì, sta piangendo, si stringe nei gomiti, poi torna dentro casa a passo indispettito. Faccio il giro largo, anche in senso inverso ed eccolo là… Ricu Gross che spunta in fondo al viale, solo, nel pomeriggio senza suoni. Ha un borsone di roba, piena e pesante, cammina dondolando. Viene avanti attento, deciso. E porta roba. Don Pissavino ci ha fatto sognare ortaggi vari, magari in bagna cauda, anche senza olio e senza acciughe, aglio pestato in acqua calda. Mi viene
una voglia da stordire, come le donne incinte, voglia di ciò che Ricu Gross ha nel borsone, col passo campagnolo. E al cannocchiale è sempre lui, mio padre, vestito da città, cappello floscio, cravatta. Devo scendere a incontrarlo. Passo il fucile ad Anselmo e si mette lui a indovinare le meraviglie mangerecce nella borsa. Ho voglia di andargli incontro, anche se i discorsi preparati mi sono svaporati dalla zucca. Anselmo con l’occhio al cannocchiale mi scaglia un alt deciso: – Fermo, non ti muovere, Brau, c’è un’Opel nera che si ferma in corso Alfieri. Gli strappo il fucile, si lascia fare, punto e vedo la Opel nera nello spiazzo del monumento e resta lì. Qualcuno scende, in divisa, in divisa tedesca, da SS. Berger, è il maggiore Berger! È proprio lui, il Grande Capo Berger tutto intero dal berretto agli stivali. Anche Anselmo guarda: – Merda è lui, è Berger! Achille sotto le mura di Troia, penso e non lo dico però fa paura, Achille-Berger qui, lupo nell’ovile. Non era col generalone Karl Wolff come ufficiale di collegamento? Berger, Berger che si fa vivo qui, da me. Anselmo non lo molla con il cannocchiale, fa la radiocronaca: Berger tutto a posto in divisa va giù lungo la chiesa, a piedi, l’autista resta nella Opel con la faccia da crucco fesso che si annoia. Berger va giù deciso: – Dove? Viene qua da noi? – Pare incerto, si ferma, si guarda in giro, riparte più spedito, sicuro di sé, del suo berretto, dei suoi stivaloni e di ogni filo della sua divisa… sì viene qua da noi! Ma cambia direzione, a destra, a manca… E Ricu Gross laggiù che viene pencolando sul lato della borsa. Anche lui gira e cambia direzione. Ma lo sa il crucco Berger con chi sta per incontrarsi? Di colpo ho la certezza che lo sa.
sieme: recita il breviario e si riposa. Gli angloamericani si ritirano: – Nei loro penetrali, – dice don Pissavino. Don Pissavino a tavola ci ha detto che i tedeschi a Torino sono entrati al Cottolengo. E qui in città si fa la conta dei morti. I morti di aprile. Sospira, muove i piedi sotto la tonaca: – Là fuori il tedesco uccide per dare una lezione. – E l’italiano? – chiede Anselmo, – per questioni di pancia, di pancia vuota o piena? – L’italiano? L’italiano oggi uccide per spiegarsi. – Per spiegarsi? – chiedo io. – L’italiano ha avuto modi migliori per dire la sua, ma là fuori adesso per spiegarsi uccide. *** Suonano le quattro al campanile, due volte, per i distratti e per gli ansiosi come noi. La città sembra assorta nei nostri pensieri. Tutto sta per dire una cosa, chissà cosa, ce l’ho anch’io sulla punta della lingua, finché Anselmo dice: – Ehi sveglia, non stare lì incantato, guarda un po’ laggiù, – mi dà il fucile e appena a fuoco eccola lì, la mia ragazza laggiù in fondo, che si precipita in cortile, e che fa, piange? Sì, sta piangendo, si stringe nei gomiti, poi torna dentro casa a passo indispettito. Faccio il giro largo, anche in senso inverso ed eccolo là… Ricu Gross che spunta in fondo al viale, solo, nel pomeriggio senza suoni. Ha un borsone di roba, piena e pesante, cammina dondolando. Viene avanti attento, deciso. E porta roba. Don Pissavino ci ha fatto sognare ortaggi vari, magari in bagna cauda, anche senza olio e senza acciughe, aglio pestato in acqua calda. Mi viene
una voglia da stordire, come le donne incinte, voglia di ciò che Ricu Gross ha nel borsone, col passo campagnolo. E al cannocchiale è sempre lui, mio padre, vestito da città, cappello floscio, cravatta. Devo scendere a incontrarlo. Passo il fucile ad Anselmo e si mette lui a indovinare le meraviglie mangerecce nella borsa. Ho voglia di andargli incontro, anche se i discorsi preparati mi sono svaporati dalla zucca. Anselmo con l’occhio al cannocchiale mi scaglia un alt deciso: – Fermo, non ti muovere, Brau, c’è un’Opel nera che si ferma in corso Alfieri. Gli strappo il fucile, si lascia fare, punto e vedo la Opel nera nello spiazzo del monumento e resta lì. Qualcuno scende, in divisa, in divisa tedesca, da SS. Berger, è il maggiore Berger! È proprio lui, il Grande Capo Berger tutto intero dal berretto agli stivali. Anche Anselmo guarda: – Merda è lui, è Berger! Achille sotto le mura di Troia, penso e non lo dico però fa paura, Achille-Berger qui, lupo nell’ovile. Non era col generalone Karl Wolff come ufficiale di collegamento? Berger, Berger che si fa vivo qui, da me. Anselmo non lo molla con il cannocchiale, fa la radiocronaca: Berger tutto a posto in divisa va giù lungo la chiesa, a piedi, l’autista resta nella Opel con la faccia da crucco fesso che si annoia. Berger va giù deciso: – Dove? Viene qua da noi? – Pare incerto, si ferma, si guarda in giro, riparte più spedito, sicuro di sé, del suo berretto, dei suoi stivaloni e di ogni filo della sua divisa… sì viene qua da noi! Ma cambia direzione, a destra, a manca… E Ricu Gross laggiù che viene pencolando sul lato della borsa. Anche lui gira e cambia direzione. Ma lo sa il crucco Berger con chi sta per incontrarsi? Di colpo ho la certezza che lo sa.
– Che gioco è? – dice Anselmo con la mano sulla guancia dove gli fa male il dente. Non guarda più tanto Berger e la borsa piena, guarda per bene il portatore della borsa, Ricu Gross, e dice illuminato: – Quello con la borsa è Vinciguerra, sì, Vinciguerra, il tuo verme da esca, quello fa il doppio gioco per noi altri. – Per noi altri, quali noi altri? – Per la Legione, e finge coi ribelli. Eh se lo conosco io il tuo Vinciguerra! Adesso vedo tutto anch’io a occhio nudo lì davanti, quasi sotto di noi. Eccolo là Berger azzimato, Achille tutto armato di armi nuove, gira l’angolo e si trova davanti Ricu Gross. Si riconoscono: – Vedi? Te lo dicevo io, – dice Anselmo. Ricu Gross Defendente Vinciguerra non è sorpreso dell’incontro, neanche Berger fa una piega ma scopre il polso, guarda l’orologio e ci batte sopra l’indice teso. Si scambiano saluti, Berger molto freddo, Ricu Gross si toglie il cappello e gli fa feste dimesse contadine. Mi gira la testa, ce l’ho come un’arnia. Mi sento male, come un monco a cui prude il braccio monco, perché le cose nella testa si pensano da sole, però male: dunque Ricu Gross conosce Berger, Ricu Gross Vinciguerra. Ricu Gross defendente dunque avrà tradito anche Carlo Sanna. I due adesso fanno strada insieme, uno avanti all’altro, uno dietro l’altro, sembrano amiconi, sembrano nemici. Ricu Gross adesso fa dietrofront e segue Berger. Poi Berger si ferma e fa passare Ricu Gross davanti a lui. Ricu Gross gli fa strada, con passo che mi pare ansioso: va bene, ma per dove? Anselmo borbotta: – Se Berger gli frega la borsa, io qui gli sparo, e poi gli tolgo tutto, garantito, che non gli
lascio un filo addosso. – E io faccio in tempo a vergognarmi dell’idea di avere io come preda di guerra l’orologio da polso del maggiore Berger. Ricu Gross e Berger entrano qua sotto nel cortile di tipografia. Vanno avanti dentro la trincea più alta di macerie sui due lati, il tedesco che segue l’italiano. Ricu Gross Defendente Vinciguerra non si volta mai. Va avanti chino, non sembra avere fretta. Troppo silenzio, troppo sole. Puzza d’aglio. Un attimo prima che succeda so che sta per succedere: Ricu Gross camminando guarda l’ora all’orologio del taschino, Berger estrae l’arma corta e spara a Ricu Gross che forse ha detto qualche cosa: due colpi a bruciapelo, tutt’e due alla nuca, come fosse alla nuca di mio padre, due spari fiochi che sembrano uno scherzo da quassù. Ricu Gross crolla in avanti lungo a terra come tirato giù dal suo borsone. – Cristo! – diciamo tutti e due. – L’ha fatto fuori, – dice Anselmo. Poi tra i denti: – Addio bagna cauda! – e si lascia scivolare con la schiena contro il muro fino a toccare terra col sedere, si cerca in tasca e tira fuori un caricatore. Un caricatore? Quando l’ha preso al Puoservire, a mia insaputa? Mi sento tradito, un pivellino. Lui mormora: – L’ho preso il giorno che hai trovato in chiesa quel biglietto di minaccia a don Pissavino, – e con l’indice al naso mi fa segno di star zitto. Posa il fucile, si rialza, guarda a lungo fuori, poi anche me, poi da nessuna parte. Provo a dire: – Berger così gli ha dato una lezione… Alselmo si rimette giù, prende il fucile e dice finto calmo: – Stanno buttando a mare la zavorra, i crucchi. – Ma perché?
– Che gioco è? – dice Anselmo con la mano sulla guancia dove gli fa male il dente. Non guarda più tanto Berger e la borsa piena, guarda per bene il portatore della borsa, Ricu Gross, e dice illuminato: – Quello con la borsa è Vinciguerra, sì, Vinciguerra, il tuo verme da esca, quello fa il doppio gioco per noi altri. – Per noi altri, quali noi altri? – Per la Legione, e finge coi ribelli. Eh se lo conosco io il tuo Vinciguerra! Adesso vedo tutto anch’io a occhio nudo lì davanti, quasi sotto di noi. Eccolo là Berger azzimato, Achille tutto armato di armi nuove, gira l’angolo e si trova davanti Ricu Gross. Si riconoscono: – Vedi? Te lo dicevo io, – dice Anselmo. Ricu Gross Defendente Vinciguerra non è sorpreso dell’incontro, neanche Berger fa una piega ma scopre il polso, guarda l’orologio e ci batte sopra l’indice teso. Si scambiano saluti, Berger molto freddo, Ricu Gross si toglie il cappello e gli fa feste dimesse contadine. Mi gira la testa, ce l’ho come un’arnia. Mi sento male, come un monco a cui prude il braccio monco, perché le cose nella testa si pensano da sole, però male: dunque Ricu Gross conosce Berger, Ricu Gross Vinciguerra. Ricu Gross defendente dunque avrà tradito anche Carlo Sanna. I due adesso fanno strada insieme, uno avanti all’altro, uno dietro l’altro, sembrano amiconi, sembrano nemici. Ricu Gross adesso fa dietrofront e segue Berger. Poi Berger si ferma e fa passare Ricu Gross davanti a lui. Ricu Gross gli fa strada, con passo che mi pare ansioso: va bene, ma per dove? Anselmo borbotta: – Se Berger gli frega la borsa, io qui gli sparo, e poi gli tolgo tutto, garantito, che non gli
lascio un filo addosso. – E io faccio in tempo a vergognarmi dell’idea di avere io come preda di guerra l’orologio da polso del maggiore Berger. Ricu Gross e Berger entrano qua sotto nel cortile di tipografia. Vanno avanti dentro la trincea più alta di macerie sui due lati, il tedesco che segue l’italiano. Ricu Gross Defendente Vinciguerra non si volta mai. Va avanti chino, non sembra avere fretta. Troppo silenzio, troppo sole. Puzza d’aglio. Un attimo prima che succeda so che sta per succedere: Ricu Gross camminando guarda l’ora all’orologio del taschino, Berger estrae l’arma corta e spara a Ricu Gross che forse ha detto qualche cosa: due colpi a bruciapelo, tutt’e due alla nuca, come fosse alla nuca di mio padre, due spari fiochi che sembrano uno scherzo da quassù. Ricu Gross crolla in avanti lungo a terra come tirato giù dal suo borsone. – Cristo! – diciamo tutti e due. – L’ha fatto fuori, – dice Anselmo. Poi tra i denti: – Addio bagna cauda! – e si lascia scivolare con la schiena contro il muro fino a toccare terra col sedere, si cerca in tasca e tira fuori un caricatore. Un caricatore? Quando l’ha preso al Puoservire, a mia insaputa? Mi sento tradito, un pivellino. Lui mormora: – L’ho preso il giorno che hai trovato in chiesa quel biglietto di minaccia a don Pissavino, – e con l’indice al naso mi fa segno di star zitto. Posa il fucile, si rialza, guarda a lungo fuori, poi anche me, poi da nessuna parte. Provo a dire: – Berger così gli ha dato una lezione… Alselmo si rimette giù, prende il fucile e dice finto calmo: – Stanno buttando a mare la zavorra, i crucchi. – Ma perché?
– Perché la guerra è kaputt, e il tuo Ricu Gross non serve più. Berger laggiù scavalca il morto, si volta, guarda in giro, punta e spara un altro colpo nella nuca a Ricu Gross. – Sparagli! – sibilo ad Anselmo, – sparagli per favore, sparagli! Anselmo si stringe nelle spalle: – E poi? – Dài spara al crucco maledetto, sparagli in fronte subito. Arma sempre in mano Berger tira dritto verso Santa Chiara lungo la trincea di detriti, nascosto tutto intero a chi non sta in alto come noi, ma nascosto anche a noi quando è sotto uno dei cinque ippocastani. Possibile che noi quassù piccoli e distanti possiamo solo stare a guardare? La calma del tedesco è assurda, è un insulto. Avanza e ogni tanto si volta indietro e intorno e studia i luoghi con occhiate brevi, anche su da noi arriva qualcuno dei suoi sguardi freddi, duri. Ci teniamo nascosti. E Anselmo quasi grida: – Che vai trovando ancora qui crucco impestato? – Noi sta cercando, – dico io. Anselmo mi guarda, sbuffa, fa una smorfia per il mal di denti, stringe al petto il fucile. Gli dico: – È un architetto militare, sa come cercare. Anselmo scatta e si rimette alla finestra: punta deciso, mette a fuoco, spinge con l’indice la leva di scatto: niente, colpo a vuoto. Punta ancora, spara a vuoto senza tirare il fiato ancora e ancora, sembra uno che sta per annegare finché smette bestemmiando in ginocchio e in lingua sua la santa Mariavergine Maro’. Colpi a vuoto: – Cariche marce d’umido, – dice, e bestemmia, e almeno con quelle coglie nel segno.
Berger giù di sotto scruta in giro, con la pistola alzata canna in alto e tutta la ferraglia crucca con barbagli al sole. Se sapesse dove guardare ci vedrebbe. Ci teniamo bassi. Anselmo ansima: – Fesso che ho portato solo un caricatore. Corri a pigliarmi l’altro al Puoservire, – ma resto imbambolato spalle al muro che non servo a niente, – va be’, tu resta qui, torno e te lo stendo, il crucco. – Si toglie le scarpe per non far rumore, corre via a saltelli svelti e più leggeri con i piedi dentro calze a pezzi, e trova pure il modo di spazzolarsi il fondo dei calzoni con le mani. Il Karabiner resta lì infilato nella feritoia, storto e inutile come me. Più in là, sì, più in là c’è qualcun altro adesso, uno uscito a vedere, e cerca di capire quei due spari: cerca Berger, anche se non lo sa. È il Bandolero Stanco, Lovejoy che sotto un ippocastano indietreggia curvo e armato di pistola, dietro un ammasso di macerie. Se continua a rinculare così fra un po’ si troverà di schiena davanti all’arma corta di Berger, anche se Berger non sa che girato l’angolo Lovejoy sta per finirgli nelle grinfie, l’uno non sa dell’altro, come in un film di Ridolini. Però vero. E non fa ridere quel Lovejoy laggiù scimmione biondo che continua a rinculare verso Berger, Lovejoy che ha sentito lo sparo e chissà cosa ha visto e adesso fa il bravo soldato che gioca a rimpiattino piegato a testa bassa. E tu che fai, Efisio Brau, che fai, scappi, non giochi più, vai a dirlo a mamma? Qui tutti si stanno spiegando, meno tu. Efis Brau si alza, va verso il Karabiner, se lo sistema alla spalla e alla mascella, caldo ancora di Anselmo, toglie la sicura, mette l’indice alla leva di scatto, guarda, punta, ci ha Berger nel mirino, poi Lovejoy… Efis Brau
– Perché la guerra è kaputt, e il tuo Ricu Gross non serve più. Berger laggiù scavalca il morto, si volta, guarda in giro, punta e spara un altro colpo nella nuca a Ricu Gross. – Sparagli! – sibilo ad Anselmo, – sparagli per favore, sparagli! Anselmo si stringe nelle spalle: – E poi? – Dài spara al crucco maledetto, sparagli in fronte subito. Arma sempre in mano Berger tira dritto verso Santa Chiara lungo la trincea di detriti, nascosto tutto intero a chi non sta in alto come noi, ma nascosto anche a noi quando è sotto uno dei cinque ippocastani. Possibile che noi quassù piccoli e distanti possiamo solo stare a guardare? La calma del tedesco è assurda, è un insulto. Avanza e ogni tanto si volta indietro e intorno e studia i luoghi con occhiate brevi, anche su da noi arriva qualcuno dei suoi sguardi freddi, duri. Ci teniamo nascosti. E Anselmo quasi grida: – Che vai trovando ancora qui crucco impestato? – Noi sta cercando, – dico io. Anselmo mi guarda, sbuffa, fa una smorfia per il mal di denti, stringe al petto il fucile. Gli dico: – È un architetto militare, sa come cercare. Anselmo scatta e si rimette alla finestra: punta deciso, mette a fuoco, spinge con l’indice la leva di scatto: niente, colpo a vuoto. Punta ancora, spara a vuoto senza tirare il fiato ancora e ancora, sembra uno che sta per annegare finché smette bestemmiando in ginocchio e in lingua sua la santa Mariavergine Maro’. Colpi a vuoto: – Cariche marce d’umido, – dice, e bestemmia, e almeno con quelle coglie nel segno.
Berger giù di sotto scruta in giro, con la pistola alzata canna in alto e tutta la ferraglia crucca con barbagli al sole. Se sapesse dove guardare ci vedrebbe. Ci teniamo bassi. Anselmo ansima: – Fesso che ho portato solo un caricatore. Corri a pigliarmi l’altro al Puoservire, – ma resto imbambolato spalle al muro che non servo a niente, – va be’, tu resta qui, torno e te lo stendo, il crucco. – Si toglie le scarpe per non far rumore, corre via a saltelli svelti e più leggeri con i piedi dentro calze a pezzi, e trova pure il modo di spazzolarsi il fondo dei calzoni con le mani. Il Karabiner resta lì infilato nella feritoia, storto e inutile come me. Più in là, sì, più in là c’è qualcun altro adesso, uno uscito a vedere, e cerca di capire quei due spari: cerca Berger, anche se non lo sa. È il Bandolero Stanco, Lovejoy che sotto un ippocastano indietreggia curvo e armato di pistola, dietro un ammasso di macerie. Se continua a rinculare così fra un po’ si troverà di schiena davanti all’arma corta di Berger, anche se Berger non sa che girato l’angolo Lovejoy sta per finirgli nelle grinfie, l’uno non sa dell’altro, come in un film di Ridolini. Però vero. E non fa ridere quel Lovejoy laggiù scimmione biondo che continua a rinculare verso Berger, Lovejoy che ha sentito lo sparo e chissà cosa ha visto e adesso fa il bravo soldato che gioca a rimpiattino piegato a testa bassa. E tu che fai, Efisio Brau, che fai, scappi, non giochi più, vai a dirlo a mamma? Qui tutti si stanno spiegando, meno tu. Efis Brau si alza, va verso il Karabiner, se lo sistema alla spalla e alla mascella, caldo ancora di Anselmo, toglie la sicura, mette l’indice alla leva di scatto, guarda, punta, ci ha Berger nel mirino, poi Lovejoy… Efis Brau
si aggiusta il Karabiner, punta meglio, segue Berger e Lovejoy nei loro movimenti, respira lento e a fondo, molto lento e a fondo. Puzza d’aglio puzza d’aglio puzza d’aglio. Ma Efisio Brau si sente smisurato, enorme, con dentro un che di nuovo mai saputo. Forse è l’orrore pieno insieme alla totale libertà, forse un po’ come Dio, che sa e vede tutto di noi, del nostro destino, ne resta padrone, può fargli prendere una strada e non un’altra, ma ci lascia fare… Lo lasci fare, Brau, lo lasci fare? Lasci avanzare Achille pieveloce, l’odioso bullo Achille, qui, sotto le Porte Scee? È questo che vuoi, Efisio Brau, di’ la verità che lo vorresti, perché laggiù non c’è il domatore di cavalli Ettorre ma c’è Lovejoy ladro della notte che fra un po’ si troverà davati all’ira di Berger Achille. Ed ecco un piccione smemorato spunta in volo e si trova me davanti, troppo vicino e inaspettato lì davanti a lui e plana in aria crepitando con le ali e tuba forte, le zampette rosse spinte in avanti con forza frenante, esatto identico allo Spirito Santo della vetrata destra in San Giuseppe, e io spaventato più di lui che mormoro ma fila via brutta bestiaccia, ma poi la blandisco: bella colomba dal disio chiamata… per favore sparisci colombella, colombella di pace… veni Creator Spiritus, ma piano, oppure vola via, vai a soffiare altrove santo spirito perché lì adesso Berger si assesta gli occhiali e guarda dritto in su come un cane da punta, proprio su da noi, verso di me con i suoi occhi glauchi, e mi sento scoperto quanto lui fuori da sotto l’ippocastano maggiore di Santa Chiara: sì, Berger occhio di lince fa per ripararsi e punta il pistolone… eccolo lì, Achille adirato, mentre il Karabiner esige qualcosa qui da me, da Ettor-
re alle Porte Scee: e io punto, inquadro, lungo la retta che congiunge occhio mirino e bersaglio, col cannocchiale in mezzo… Berger avanza l’arma corta in pugno e io lo inquadro lì tra due pilastri del porticato di Santa Chiara, dove di solito mi piazzo per i tiri in porta. Questo è il mio tiro in porta, questo è il mio calcio di rigore, che non devo sbagliare. Calma, mira impaurita, mira fallita. Devo sparare e ho già sparato, oddìo che gran patùum, sento il rinculo in faccia e in tutto il corpo, patùum, due colpi, Berger si spappola nel viso e fa uno scarto osceno. Silenzio, formicolio, come a stare sott’acqua. Colombi spaventati volano senza suono intorno a Santa Chiara, sopra gli ippocastani. E so cos’è la voglia che ho sentito prima e risento più di prima: voglia di uva fragola, matura, qui, fuori stagione. Anselmo mi sta ripetendo, chissà da quanto: – Efisio Brau, che mi hai combinato? Laggiù Lovejoy impalato l’arma in mano fissa il tedesco ai suoi piedi. – Madonna, l’hai fatto secco. Sei un guerriero, nato per combattere. Vorrei fare spallucce. Sto tremando. La canna del fucile fuma ancora. Sì, l’ho tolto dal mondo, il grande capo Berger. Ettore ha ucciso Achille sulle Porte Scee. Ho cambiato il finale della storia. Ricu Gross, steso a terra, da quassù sembra col borsone ancora stretto in mano, deciso a non mollarlo. E noi, quassù? Dev’essere che tutto sta accadendo giù di sotto, a debita distanza, come in un film muto, mentre da Santa Chiara un po’ più in là sulla sinistra don Pissavino e Baranski vengono fuori circospetti, si
si aggiusta il Karabiner, punta meglio, segue Berger e Lovejoy nei loro movimenti, respira lento e a fondo, molto lento e a fondo. Puzza d’aglio puzza d’aglio puzza d’aglio. Ma Efisio Brau si sente smisurato, enorme, con dentro un che di nuovo mai saputo. Forse è l’orrore pieno insieme alla totale libertà, forse un po’ come Dio, che sa e vede tutto di noi, del nostro destino, ne resta padrone, può fargli prendere una strada e non un’altra, ma ci lascia fare… Lo lasci fare, Brau, lo lasci fare? Lasci avanzare Achille pieveloce, l’odioso bullo Achille, qui, sotto le Porte Scee? È questo che vuoi, Efisio Brau, di’ la verità che lo vorresti, perché laggiù non c’è il domatore di cavalli Ettorre ma c’è Lovejoy ladro della notte che fra un po’ si troverà davati all’ira di Berger Achille. Ed ecco un piccione smemorato spunta in volo e si trova me davanti, troppo vicino e inaspettato lì davanti a lui e plana in aria crepitando con le ali e tuba forte, le zampette rosse spinte in avanti con forza frenante, esatto identico allo Spirito Santo della vetrata destra in San Giuseppe, e io spaventato più di lui che mormoro ma fila via brutta bestiaccia, ma poi la blandisco: bella colomba dal disio chiamata… per favore sparisci colombella, colombella di pace… veni Creator Spiritus, ma piano, oppure vola via, vai a soffiare altrove santo spirito perché lì adesso Berger si assesta gli occhiali e guarda dritto in su come un cane da punta, proprio su da noi, verso di me con i suoi occhi glauchi, e mi sento scoperto quanto lui fuori da sotto l’ippocastano maggiore di Santa Chiara: sì, Berger occhio di lince fa per ripararsi e punta il pistolone… eccolo lì, Achille adirato, mentre il Karabiner esige qualcosa qui da me, da Ettor-
re alle Porte Scee: e io punto, inquadro, lungo la retta che congiunge occhio mirino e bersaglio, col cannocchiale in mezzo… Berger avanza l’arma corta in pugno e io lo inquadro lì tra due pilastri del porticato di Santa Chiara, dove di solito mi piazzo per i tiri in porta. Questo è il mio tiro in porta, questo è il mio calcio di rigore, che non devo sbagliare. Calma, mira impaurita, mira fallita. Devo sparare e ho già sparato, oddìo che gran patùum, sento il rinculo in faccia e in tutto il corpo, patùum, due colpi, Berger si spappola nel viso e fa uno scarto osceno. Silenzio, formicolio, come a stare sott’acqua. Colombi spaventati volano senza suono intorno a Santa Chiara, sopra gli ippocastani. E so cos’è la voglia che ho sentito prima e risento più di prima: voglia di uva fragola, matura, qui, fuori stagione. Anselmo mi sta ripetendo, chissà da quanto: – Efisio Brau, che mi hai combinato? Laggiù Lovejoy impalato l’arma in mano fissa il tedesco ai suoi piedi. – Madonna, l’hai fatto secco. Sei un guerriero, nato per combattere. Vorrei fare spallucce. Sto tremando. La canna del fucile fuma ancora. Sì, l’ho tolto dal mondo, il grande capo Berger. Ettore ha ucciso Achille sulle Porte Scee. Ho cambiato il finale della storia. Ricu Gross, steso a terra, da quassù sembra col borsone ancora stretto in mano, deciso a non mollarlo. E noi, quassù? Dev’essere che tutto sta accadendo giù di sotto, a debita distanza, come in un film muto, mentre da Santa Chiara un po’ più in là sulla sinistra don Pissavino e Baranski vengono fuori circospetti, si
fermano nel sole abbacinati, si rimettono in sesto. Be’? Vogliono capire. Don Pissavino punta sul tedesco steso. Lovejoy sempre lì impalato, poco militare, poco tutto. Baranski in maniche di camicia accenna scatti e arresti da percorso di guerra tra i filari di macerie, sparisce sotto e dietro un albero poi ricompare a passo di beguine e vede i due caduti: questo è morto, si vede che dice a Lovejoy sempre sperduto, ma lo dice anche con tutto il corpo che Berger è morto col berretto crucco di traverso, però morto, poi lo dice di Ricu Gross, morto, e Baranski non sa che lo dice anche a noi quassù lontani che guardiamo a scrocco. – E adesso? – mi dice Anselmo. So cosa vuol dire: uno di noi deve andare giù a spiegare, io con le mie gambe, mentre lui resta qui di guardia, lui col Karabiner. Però dico: – Berger, lui si è spiegato? Anselmo mi fissa, vuole dire qualcosa e non lo dice. Brusco mi strappa via il fucile, il suo fucile, toglie il vecchio e infila un caricatore nuovo. Si rimette le scarpe. Esplora e punta. Le scarpe non gli faranno un altro inverno. Giù di sotto don Pissavino dritto in piedi fa croci assolutorie a Berger ripiegato sulle gambe contro le macerie come lo spauracchio nella vigna. Lovejoy e Baranski squadrano tutto in giro. Professionali all’erta stanno facendo ipotesi balistiche, si vede, pronti a chissà che cosa a modo loro, armi alla mano. Quanto ci mettono a capire da dov’è partito il tiro sul tedesco? – L’autista di Berger di là in corso Alfieri non si è accorto di niente, – dice Anselmo calmo: – Gli conviene.
A passi incerti don Pissavino si avvicina a Ricu Gross, inciampa ma non cade, si china, s’inginocchia, con la mano a taglio fa la croce sul cugino steso faccia a terra col borsone a fianco. – E allora Brau? – mi ripete Anselmo, chissà da quanto. – Non mi sono spiegato. Nessuno si è spiegato. Anselmo mi guarda, poi mi riguarda meglio, fa una faccia come chi trova una cosa che ha perso e che cercava, ma la cosa non è più quella di prima. Dice: – Be’, io tengo d’occhio il crucco nella Opel. Ho freddo. Non sembra vero niente. O sembra che tutta la mia vita non avesse altro scopo che questo momento. Mi tremano le mani, me le metto in tasca, cerco da fumare. Nuvole fumose corrono in viaggio verso Sud e il mare. Una ha nascosto il sole. Tutto dice una cosa, tornare a casa mia. Non l’ho solo pensato, se Anselmo mi risponde: – Ora ti sei spiegato pure tu, – e inumidisce di saliva il mirino del fucile.
fermano nel sole abbacinati, si rimettono in sesto. Be’? Vogliono capire. Don Pissavino punta sul tedesco steso. Lovejoy sempre lì impalato, poco militare, poco tutto. Baranski in maniche di camicia accenna scatti e arresti da percorso di guerra tra i filari di macerie, sparisce sotto e dietro un albero poi ricompare a passo di beguine e vede i due caduti: questo è morto, si vede che dice a Lovejoy sempre sperduto, ma lo dice anche con tutto il corpo che Berger è morto col berretto crucco di traverso, però morto, poi lo dice di Ricu Gross, morto, e Baranski non sa che lo dice anche a noi quassù lontani che guardiamo a scrocco. – E adesso? – mi dice Anselmo. So cosa vuol dire: uno di noi deve andare giù a spiegare, io con le mie gambe, mentre lui resta qui di guardia, lui col Karabiner. Però dico: – Berger, lui si è spiegato? Anselmo mi fissa, vuole dire qualcosa e non lo dice. Brusco mi strappa via il fucile, il suo fucile, toglie il vecchio e infila un caricatore nuovo. Si rimette le scarpe. Esplora e punta. Le scarpe non gli faranno un altro inverno. Giù di sotto don Pissavino dritto in piedi fa croci assolutorie a Berger ripiegato sulle gambe contro le macerie come lo spauracchio nella vigna. Lovejoy e Baranski squadrano tutto in giro. Professionali all’erta stanno facendo ipotesi balistiche, si vede, pronti a chissà che cosa a modo loro, armi alla mano. Quanto ci mettono a capire da dov’è partito il tiro sul tedesco? – L’autista di Berger di là in corso Alfieri non si è accorto di niente, – dice Anselmo calmo: – Gli conviene.
A passi incerti don Pissavino si avvicina a Ricu Gross, inciampa ma non cade, si china, s’inginocchia, con la mano a taglio fa la croce sul cugino steso faccia a terra col borsone a fianco. – E allora Brau? – mi ripete Anselmo, chissà da quanto. – Non mi sono spiegato. Nessuno si è spiegato. Anselmo mi guarda, poi mi riguarda meglio, fa una faccia come chi trova una cosa che ha perso e che cercava, ma la cosa non è più quella di prima. Dice: – Be’, io tengo d’occhio il crucco nella Opel. Ho freddo. Non sembra vero niente. O sembra che tutta la mia vita non avesse altro scopo che questo momento. Mi tremano le mani, me le metto in tasca, cerco da fumare. Nuvole fumose corrono in viaggio verso Sud e il mare. Una ha nascosto il sole. Tutto dice una cosa, tornare a casa mia. Non l’ho solo pensato, se Anselmo mi risponde: – Ora ti sei spiegato pure tu, – e inumidisce di saliva il mirino del fucile.
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La pelle intera
Cap. 1 Cap. 2 Cap. 3 Cap. 4 Cap. 5 Cap. 6 Cap. 7 Cap. 8 Cap. 9 Cap. 10 Cap. 11 Cap. 12 Cap. 13 Cap. 14 Cap. 15 Cap. 16 Cap. 17 Cap. 18 Cap. 19 Cap. 20 Cap. 21 Cap. 22 Cap. 23 Cap. 24 Cap. 25
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Cap. 26 Cap. 27 Cap. 28 Cap. 29 Cap. 30 Cap. 31 Cap. 32 Cap. 33 Cap. 34 Cap. 35 Cap. 36 Cap. 37 Cap. 38 Cap. 39 Cap. 40 Cap. 41 Cap. 42
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