L'ultima avventura dell'inquisitore generale d'Aragona, il capitolo finale di un ciclo popolarissimo non solo in Italia...
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L'ultima avventura dell'inquisitore generale d'Aragona, il capitolo finale di un ciclo popolarissimo non solo in Italia. Nel 1372 il nemico mortale di Nicolas Eymerich, Ramón de Tàrrega, viene trovato impiccato nel convento di Barcellona in cui era stato detenuto per anni. Ma il suo cadavere scompare e Ramón – ebreo convertito, domenicano, negromante – viene poco dopo avvistato in Sicilia. Isola in cui si succedono fenomeni misteriosi. Da strani dischi luminosi apparsi in cielo scendono creature gigantesche, ferocissime, che si nutrono di carne umana, forse al servizio di una delle due fazioni baronali (i Latini e i Catalani) che da trent'anni si contendono la Trinacria. L'intero equilibrio di poteri nel Mediterraneo rischia di essere compromesso. Eymerich deve ricorrere a ogni risorsa delta sua intelligenza, e della sua lucida crudeltà, per sventare la minaccia e annientare il nemico. È un Eymerich sulle prime più debole che in passato, timoroso di una morte imminente. Non sa che invece lo aspetta un destino totalmente diverso. Lo stesso che, quando era bambino, gli era stato sottilmente pronosticato dal suo maestro Dalmau Moner e da mille segnali inquietanti. Ma cosa spiega i dischi luminosi e i giganti cannibali? Le leggende siciliane, oppure il ripugnante manuale di magia, il Liber Vaccae, di cui si serve Ramón? La Cabala giudaica? L'alchimia di Maria l'Ebrea? Forse la soluzione è nell'anno 3000, in cui la giovane schizofrenica Lilith scopre sulla Luna l'arma segreta che ha condotto l'umanità alla follia. E incontra, dove passato e futuro si intrecciano, il più ambiguo dei progenitori. Il segreto originario riposa però a Napoli, a Castel dell'Ovo. Dove l'uovo, scoprirà Eymerich, è qualcosa di ben diverso da ciò che si credeva. Solo un lungo cammino iniziatico, costellato di prodigi, lo condurrà alla verità, e a un destino che trascende la morte. Eymerich esce di scena, eppure rimane ben vivo e incombente. Anche sui tempi nostri.
Prima parte Nigredo
1.Lilith -1 Lilith era persuasa che la navetta, la Kraeplin 111, si sarebbe schiantata sulla superficie della Luna. Non le importava di morire: la morte era la sua compagna di sempre. Gettò il bisturi con cui aveva ucciso il dottor Kurada e scostò con un calcio il cadavere di quel verme. C'era sangue dappertutto. Lei faticava a tenersi in piedi; il velivolo sbandava sempre più. Si lasciò cadere su uno sgabello di fronte al quadro di comando. Non aveva idea della funzione delle levette e dei piccoli schermi che aveva davanti. Chiuse gli occhi e attese l'impatto. Lo attese a lungo, senza nostalgie per il mondo folle – Paradice – da cui proveniva. D'improvviso fu strappata dal sedile e si trovò a veleggiare nel vuoto, mentre le luci si attenuavano. Nulla di strano. La corsa sempre più vertiginosa della navetta doveva avere logorato i sistemi di energia. Era venuta meno la gravità artificiale, e presto sarebbe sceso il buio più totale. Ciò l'angosciò un poco. Avrebbe preferito morire nello schianto delle lamiere piuttosto che soffocare. Ma non era lei a scegliere. Le destò ripugnanza il cadavere di Kurada che le veleggiava accanto. L'assenza di gravità provocava allo psichiatra giapponese un'ultima, bizzarra erezione, e sollevava il moncherino che aveva tra le gambe, quasi reciso da un morso di lei. Era una scena rivoltante. Chiuse gli occhi, ma non occorreva. Anche le ultime luci si spensero; l'ossigeno venne a mancare. Esisteva un modo per morire più in fretta? Forse no. Il soffocamento aveva i suoi tempi naturali. D'altra parte, le sue mani fluttuanti erano quasi prive di sensibilità: impensabile strozzarsi da sola, ammesso che fosse concepibile. D'un tratto cadde pesantemente sulla schiena. La gravità era tornata, e così la luce. Il sangue di Kurada, che si era disperso in goccioline vacue quanto bolle di sapone, ricadde in forma di doccia. Da un altoparlante, una voce metallica e artificiale disse: «Luna a Kraeplin 111. Abbiamo avviato l'atterraggio automatico. Indossate le tute e rimanete seduti fino all'apertura dei portelli». Una seconda voce, questa volta umana, aggiunse in un inglese elementare, dall'accento impuro: «Kraeplin 111, sembrate avere subito danni. Vi guideremo noi a un allunaggio il più morbido possibile, ma è inevitabile uno scossone. Scenderete lontani dalla base. I nostri mezzi verranno a prendervi. Intanto mettete le tute».
"Quali tute?" si chiese Lilith mentre si rialzava a fatica, dolorante. Vide da sé di che si trattava. Uno sportello, grande quanto l'anta di un armadio, si era aperto nella parete. Appese ai loro ganci, le tute erano tre. Tante quanti i membri dell'equipaggio scesi a Paradice in ricognizione, durante i festeggiamenti per il Capodanno del 3000. Lilith era stanca e ammaccata, ma ancora ben lucida. Capì cosa doveva fare. Sui vestiti sporchi di sangue mise giacca e pantaloni della tuta, uniti in vita da una cerniera lampo. Caricò sulla schiena il giubbotto con le bombole di ossigeno. Prima di infilare uno dei caschi e collegare i tubi per la respirazione, si chiese se fosse possibile comunicare con la base. Si avvicinò a un microfono. «Riuscite a sentirmi?» domandò, esitante. La voce umana subito le rispose. «Sì, certo... Riconosco dal suo trasmettitore sottocutaneo che lei è l'infermiera chiamata in codice Lilith. Non si preoccupi, infermiera. Avete a disposizione altre tute, dietro un pannello che il dottor Kurada le saprà indicare. Faccia in fretta». «Il dottor Kurada è morto». La reazione fu di perplessità, più che di dolore. «Morto?» «Sì». «E i suoi assistenti?» «Morti anche loro». «Temevamo qualcosa del genere. Infermiera, indossi una tuta qualsiasi, poi si tenga ben stretta. L'allunaggio è fra tre minuti. La verremo a prendere». Lilith collegò al casco i tubi delle bombole. Pensò che la cosa migliore fosse sedersi sulla poltroncina principale, dotata di una specie di cintura di sicurezza. La allacciò con cura e attese. Non poteva, da quella posizione, vedere bene l'oblò. Le sembrò interamente occupato dalla bianca superficie lunare. Era probabile che la navetta stesse volando rasente al suolo. L'impatto non fu così terribile, malgrado i ripetuti sobbalzi. Quando il velivolo si fu arrestato, con il muso piantato nella sabbia, Lilith slacciò la cintura e si alzò. Forse aveva alcuni minuti. Ne approfittò per recuperare il bisturi insanguinato, ripulirlo contro l'imbottitura di una poltrona e nasconderlo dentro uno stivale, prima di saldare la calzatura alla tuta con un'altra lampo. A quel punto doveva uscire, ma non sapeva come. Nessuno dei pulsanti che vedeva sembrava servire allo scopo. Risolse la sua incertezza un soffio di mantice, accompagnato da un cigolio. Mentre le luci si spegnevano di nuovo, una sezione della paratia si sollevò. Davanti a sé, Lilith aveva la Luna, nella sua faccia debolmente illuminata. Una passerella si era protesa automaticamente fuori della navetta. Non toccava bene il terreno perché l'astronave era allunata in maniera sghemba, con un'ala nella sabbia e l'altra sollevata verso
un cielo nerissimo, dominato da una Terra esagerata e incombente come uno smisurato mappamondo. Il salto fu di quasi tre metri, ma la bassa gravità lo rese lieve. Lilith cadde con leggiadria e si mantenne in piedi. Si era immaginata la Luna come la raffiguravano i vecchi documentari trasmessi a ripetizione dalle stazioni di Paradice rimaste attive, per automatismi indipendenti dalla mano umana, dopo un intero millennio di guerre e di violenze: un deserto di sabbia bianca, punteggiato di dune occasionali e di ampi crateri dalle pareti scoscese. Vide invece, attraverso la visiera del casco, una piana sconfinata con antenne trasmettitrici disposte a intervalli regolari, fin dove giungeva lo sguardo. Somigliava alle vigne francesi proposte, con cadenza ossessiva, da un ridicolo documentario, tra i più replicati di una televisione ancora in funzione, malgrado l'assenza, da secoli, di una mano umana che ne governasse la programmazione. Quelle vigne disposte in filari squadrati avevano cessato di esistere chissà quanto tempo prima. Ne era rimasto lo schema, non l'aspetto, nelle antenne giganti che occupavano per intero una delle grandi valli lunari. Un grosso veicolo cingolato giunse sussultando e si portò in prossimità della navetta. Si aprì una portiera e una voce registrata disse: «A bordo, prego! A bordo, prego! A bordo, prego!..». Lilith obbedì. Come aveva immaginato, il mezzo non aveva autista. Prese posto su un divanetto, il primo di una fila di tre. La portiera si richiuse. Nell'abitacolo stagnava un odore acuto di disinfettante. Il corpo del veicolo girò su se stesso, il motore rombò, i cingoli morsero la sabbia in direzione opposta a quella di arrivo. Partirono a velocità spedita tra le sagome spettrali delle antenne, simili a profili di uomini con le braccia tese e le gambe divaricate. Lilith si sentiva esausta e aveva sonno. Forse dormì anche un poco, ma non se ne rese conto. Il paesaggio rimase invariato, nella sua monotonia, per chilometri e chilometri. Alla fine, tra distese piatte e piccole dune, le antenne terminarono. Apparve invece, bianca più della sabbia, una cupola alta, con ampi oblò illuminati. Attorno, lunghi baraccamenti sigillati, simili a enormi container, erano inondati di luce da fari posti in cima a torrette. Tra gli edifici sostavano veicoli simili a quello su cui si trovava Lilith e altri più grandi, ma non si vedeva traccia di attività umana. Sorgevano poi, direttamente dal suolo, dei boccaporti che terminavano in camini d'acciaio ricurvi, dotati di piccole turbine. Il silenzio era assoluto. L'impressione generale era di una tristezza disumana. Mentre il veicolo si accostava alla cupola, Lilith lesse su un cartello, incisa in varie lingue e molti alfabeti, la scritta che si attendeva: WMHO – ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ MENTALE. Lì risiedevano dunque gli psichiatri e gli specialisti che, come il compianto dottor Kurada, assistevano un'umanità impazzita, o fingevano di farlo. Il cartello era però arrugginito, e la simbologia che lo decorava aveva cessato da un pezzo di significare qualcosa.
Lilith fu risvegliata da un afflusso di adrenalina intenso quanto quello che l'aveva indotta a uccidere Kurada. Lì si acquattavano i suoi nemici. Si sarebbe sforzata di rimanere calma fino al momento più propizio. Non era facile, ma doveva farlo. Sapeva che gli oggetti dei suo odio erano un centinaio almeno: occorreva astuzia per morderli alla gola, l'uno dopo l'altro. Qualcuno le parlò, ma non attraverso i microfoni. Comunicò con i suoi padiglioni auricolari, o forse direttamente con il suo cervello, attraverso il microchip impiantato in chissà quale zona del corpo. Era una caratteristica comune a quanti, senza nemmeno saperlo, erano stati infermieri del WMHO, eterodiretti dai sanitari che abitavano la Luna. «Infermiera Lilith, tra pochi istanti sarà depositata nella camera di decompressione. Dovrà attendere per qualche minuto un mio segnale, con la tuta addosso. Varcato il secondo sportello, potrà togliere la tuta e ogni altro indumento. Vedrà una doccia. È necessario che si lavi con estrema cura, usando il sapone messo a disposizione. Gli abiti che troverà saranno quelli che dovrà indossare». La voce non era né amichevole né ostile: semplicemente neutra, con un accento che a Paradice nessuno possedeva. Neanche si poteva attribuirla, come di solito accadeva, a una delle comunità che popolavano la metropoli terrestre. La freddezza faceva pensare agli Schizo, la cortesia di fondo ai Depressi. Però poteva benissimo trattarsi anche di un Isterico o di un Ossesso dalle caratteristiche anomale. Alla base della cupola si aprì una paratia, attraverso cui entrò il veicolo. Lilith scese e seguì con scrupolo le istruzioni. Notò che la perfezione tecnologica degli ambienti era tutta di facciata: la camera di decompressione aveva macchie di ruggine, nella sala successiva la luce tremolava come se le lampade fossero prossime a fulminarsi. Anche il getto d'acqua della doccia scaturì prima troppo caldo, poi troppo freddo. Al momento di mettere gli abiti nuovi – camicione e pantaloni verdolini, biancheria intima troppo larga, babbucce, una cuffia per coprire i capelli –, Lilith fece scivolare nelle mutandine, contro la coscia, il bisturi che teneva nascosto in uno stivale. Poi si collocò davanti a una porta opposta a quella da cui era entrata. «Sono pronta» disse. La porta si aprì. «Benvenuta sulla Luna, infermiera Lilith!»
2.Il monastero di Monte Síon Il monastero gotico di Nostra Signora di Monte Síon sorgeva a Esplugues de Llobregat, un'altura sovrastante Barcellona: la città che Eymerich più odiava, pur essendovi nato vicino. Lui, inquisitore generale del regno d'Aragona, la trovava futile e troppo addobbata di edifici carichi di merletti in pietra, di capitelli superflui, di colonnine. Nemmeno Saragozza, la
capitale nominale del regno aragonese, gli piaceva più di tanto. Almeno, però, non vi si respirava il tanfo di pesce marcio che era una costante nei vicoli del porto di Barcellona. Tutto il suo – relativo – affetto andava a Gerona, dove aveva visto la luce. Città a saliscendi, piena di vicoli e di gradinate. Tali da scoraggiare il visitatore inopportuno. Mentre si avvicinava al portale, verso l'ora sesta del 20 settembre 1371, Eymerich conversava con i due compagni che lo seguivano. «Capite, frate Bagueny?» disse al più piccolo e grassottello dei due. «Ormai l'Inquisizione non ha più un soldo. Il re pare essersi scordato dell'ordinanza del 1° giugno 1359, con cui dava mandato al tesoriere di allora, Bernat d'Olzinelles, di versarmi mille soldi barcellonesi all'anno per l'esercizio delle mie funzioni». Bagueny sorrise. Era un domenicano dal viso atteggiato a perenne ironia, per quanto gli studi teologici a cui si era dedicato negli ultimi anni fossero improntati alla massima serietà. Nel convento di San Domenico a Gerona era considerato l'uomo più vicino a Eymerich, che molti confratelli invece detestavano. «Temo che abbiate fatto a Pietro IV troppi dispetti, magister... Dovrebbe comunque rimanere valida l'ordinanza del 24 giugno 1366, con cui il re riconosceva al "religioso et dilecto nostro fratri Nicholao Eymerici" il diritto a incamerare i beni confiscati ai prigionieri dell'Inquisizione». Eymerich alzò le spalle. «Un diritto solo teorico. Gli ultimi eretici da noi condannati, a parte qualche ebreo, non avevano un soldo. Incluso quello che stiamo per vedere. Cadavere, per fortuna... Mastro Gombau, avete notato se c'era denaro, nella sua cella?» «No, magister, non ne ho avuto il tempo». Quello che rispose non era un religioso, ma un colosso ormai attempato. Un famiglio dell'Inquisizione adibito a compiti che altri non amavano sbrigare. «Le suore mi stavano attorno mentre, secondo i vostri ordini, esaminavo la salma. Pendeva ancora dal soffitto». «Anche voi, se non sbaglio, non ricevete il vostro soldo da mesi». «È vero, ma non preoccupatevi per me. Vi servo da decenni e ho i miei risparmi. Mio figlio coltiva un piccolo campo, mia moglie intreccia canestri. Posso aspettare». «La questione, comunque, va risolta». I tre uomini erano intanto giunti sotto il portale. Eymerich tirò la catena di una campanella, arroventata dal sole di un'estate che si prolungava. Con un cigolio, un battente si dischiuse un poco. Dalla fessura, una monaca molto anziana sporse il naso adunco. Indossava la veste bianca e la cappa nera delle "Mantellate", com'erano dette le domenicane appartenenti al terz'ordine femminile dei Predicatori. «Dominus vobiscum» mormorò. «Sia anche con voi, sorella» replicò Eymerich, sbrigativo. «Mi riconoscete?»
«Riconosco quel signore là». La monaca indicò mastro Gombau. «Gli ho spiegato che questo è un convento di semiclausura. L'ho fatto passare, stamattina, solo perché aveva una lettera dell'inquisitore generale del regno d'Aragona». «Sono io. E adesso, sorella, toglietevi di mezzo». La monaca balzò indietro come se fosse azionata da una molla. Dopo un nuovo cigolio, il battente si spalancò del tutto. Eymerich penetrò nell'atrio scuro e umido, che odorava di muffa. I compagni lo seguirono. «Dov'è la cella del suicida?» chiese l'inquisitore alla monaca, che si era rannicchiata in un angolo. Sembrava spaventata. «Ora chiamo la priora perché vi ci conduca». «Non ho tempo da perdere. Guidateci voi». Dopo una breve esitazione la suora si avviò, a passetti rapidi e silenziosissimi. Il suo corpo ingobbito pareva scivolare su un ghiaccio inesistente. Mentre attraversavano i corridoi, altre suore scomparivano in fretta dietro porticine o lungo le scale che conducevano ai piani superiori. Finalmente la monaca si fermò a fianco di una porta spalancata. Era più spessa delle altre e rinforzata con lastre di ferro. Dal chiavistello pendevano catene e lucchetti aperti. Non c'erano dubbi: quella cella era servita da prigione. Con la sua voce esile e incrinata, la suora disse alzando un braccio: «Entrate pure. Il poveretto pende ancora dal cappio. Non abbiamo osato toccarlo». «Poveretto?» La domanda era scandalizzata, ma Eymerich aveva altro a cui pensare. Varcò deciso la soglia di un cubicolo asfittico illuminato da una finestrella profonda, protetta da una grata a maglie fitte. La poca luce che entrava illuminava un tavolino carico di libri, alcune stoviglie, due sedie, un pagliericcio posato al suolo, il vaso che serviva per i bisogni corporali, varie candele spente. Il cadavere del suicida pendeva da una trave del soffitto, a un braccio dal suolo, strozzato dai brandelli di una coperta legati l'uno all'altro a mo' di corda. Sotto il corpo c'era una piccola pozza di orina, conseguenza frequente della morte per impiccagione. Eymerich si alzò in punta di piedi e sollevò il cappuccio del saio incolore indossato dal suicida. Si sentì invadere dallo stupore e da un raccapriccio che sconfinavano col malessere. Scattò indietro. «Non è lui!» esclamò con voce incrinata. «Cosa dite, magister!» protestò mastro Gombau. «Certo che è lui! L'ho riconosciuto benissimo». «No. Non è Ramón de Tàrrega. O vi siete ingannato, o state ingannando me!» L'inquisitore stava riacquistando una precaria sicurezza. «Ma, magister, vi assicuro..».
«Guardate voi stesso». Dopo aver dato un'occhiata all'impiccato, Gombau manifestò subito un'enorme sorpresa. «In effetti non è il morto che mi hanno mostrato stamattina. Questo è molto più giovane. E quella faccia, poi...». Anche Padre Bagueny si era avvicinato. «Non è di certo il nostro Ramón. Per quanto brutto, non somigliava affatto a questo ragazzo dai tratti più bovini e suini che umani. Un vero mostro». La piccola suora si fece avanti, meno timida di poco prima. «Padre inquisitore, noi non abbiamo mai avuto un Ramón de Tàrrega per prigioniero. Il nostro detenuto si chiamava Raymundo Neófito». «Sono la stessa persona». Travolto dalla collera, Eymerich gridò: «Cosa avete fatto del corpo che pendeva qui stamattina? Dov'è finito? Chi l'ha sostituito?». La monaca parve rimpicciolirsi ulteriormente, tuttavia la sua risposta rivelò un certo grado di decisione. «Nessuno ha toccato questo poveretto, padre. Il signore che è con voi ci ha comandato di lasciarlo qui dove si trova, nella stessa, identica posizione». «Chi è venuto nel convento dopo mastro Gombau?» «Non abbiamo ricevuto altre visite. Il giovane che ci porta il pane e le verdure era passato prima del vostro inviato». «Somiglia al mostro appeso al soffitto?» La monaca, che fino a quel momento aveva evitato di farlo, sollevò lo sguardo sull'impiccato. Il suo ribrezzo fu evidente. «No, no, per nulla» bisbigliò con una punta di terrore. «E non somiglia neanche a Raymundo Neófito». Eymerich si persuase che la vecchia stesse dicendo la verità, tanto più che tremava vistosamente. Non poteva essere complice di quell'inganno. «Conducete qui la priora» ordinò, secco. «Subito, padre!». La monaca uscì veloce dalla cella, come se non avesse atteso altro. Rimasti soli, Eymerich, mastro Gombau e Bagueny si raggrupparono sotto la salma. Il frate commentò: «Forse gli avete dato troppo spesso dell'animale, magister. Ha tratti da vitello e altri da porco. Guardate il naso troppo largo, all'insù, dalle narici enormi. E gli occhi eccessivamente grandi e tondi. La bocca, poi, che sporge come l'estremità di un muso... Se non fosse ancora giovane, direi che il nostro Ramón si è conformato col tempo ai vostri insulti». Eymerich, ora più nervoso che agitato, non gli badò e si rivolse a mastro Gombau. «Stamattina era così, ma ieri notte? Quando siete entrato di soppiatto nella cella?» «Aveva l'aspetto normale di un uomo anziano e un po' malandato».
«Siete certo di avere fatto... tutto quanto necessario?» «Sì, magister. Era molto debole, non ha opposto..». «Tacete!» L'intimazione fu tardiva. Gli occhi neri di frate Bagueny si sgranarono, per lo stupore e per lo scandalo. «Padre Nicolas! Non sarete stato voi a ordinare che...». «Tacete anche voi!» gli ordinò Eymerich. Capì comunque che, a quel punto, era necessario fornire qualche spiegazione al confratello, spostando il caso dalla contingenza ai principi generali. «Ramón de Tàrrega, più che un invocatore di demoni, era un demonio incarnato. Un giudeo infiltrato nell'ordine domenicano, un seminatore di peccato e di bestemmia. Tredici anni fa, a Montiel, mi sfuggì dalle mani dopo essere stato complice di crimini innominabili». «Più tardi, però, lo avete riacciuffato». «Sì, ma solo per trovarmi alle prese con le interferenze delle gerarchie ecclesiastiche, di Avignone, del nostro stesso ordine. Mi hanno obbligato a rinchiuderlo qui, in questo monastero, a espiare. Sorvegliato da donne e dunque non sorvegliato per nulla. Libero di perseguire i suoi piani diabolici». Lo sconcerto, negli occhi e nel viso di frate Bagueny, persisteva. «E dunque avete deciso di farlo uccidere?» «Io non ho deciso niente!» replicò Eymerich, rabbioso. Gonfiò il petto. «Un inquisitore sa ciò che conviene alla cristianità meglio di un vescovo o di un cardinale. Persino meglio del papa stesso. Costui... intendo il vero Ramón de Tàrrega, non questo fantoccio... si è suicidato. Se così non fosse, ne risponderò in confessione o alla mia coscienza. Il fatto stesso che l'impiccato non sia lui dimostra che avevo visto giusto». Mosse verso il tavolino carico di libri manoscritti, illuminati da una candela ormai consunta. Ne sfogliò alcuni. «La scrittura di frate Ramón era pessima, quanto era pessimo lui. Voglio sapere cosa leggeva. Mastro Gombau, prendete questi tomi e portateli al mio alloggio, a Santa Catalina. Come sacco potete usare una coperta». Il famiglio eseguì e uscì dalla cella, curvo sotto il peso dei volumi. Subito dopo si affacciò la monaca decrepita. «Padre Nicolas, la madre priora sta scendendo. La incontrerete nel corridoio». «Perché non qui?» «Perché ha la vista debole, e qui la luce è troppo scarsa». Eymerich sbuffò, ma fu lieto di lasciare quell'ambiente macabro e buio, in cui aleggiava il fetore di un morto prossimo alla decomposizione. Si appoggiò con il gomito a una trifora da cui si scorgeva il panorama di Barcellona e il labirinto di vicoli che conduceva fino al mare. Peccato che gli effluvi salmastri non arrivassero fin lì. Gli unici odori percepibili erano disgustosi e sapevano di marciume.
Bagueny lo aveva seguito, ancora sconvolto dalle ultime rivelazioni. Si sistemò a lato del magister e gli chiese: «Davvero, padre Nicolas, a un inquisitore è lecito commissionare un omicidio?». Eymerich, che stava pensando ad altro, rispose con fastidio. «"Omicidio?" Spero che stiate scherzando, frate Pedro. Che differenza c'è tra la morte di Ramón de Tàrrega, ammesso che sia stato ucciso e che sia veramente morto, e quella degli eretici o dei giudei che ogni tanto spediamo al rogo? Una sola: lo stregone ha sofferto molto meno. Chiunque ce ne abbia liberato ha commesso un atto di carità. Inoltre ha esaudito il suo maggiore desiderio. Voleva evocare i demoni? Ebbene, posto che sia defunto, ora si trova in mezzo a loro. Dovrebbe esserne grato, dalle fiamme dell'inferno. Può abbandonarsi alle sue frequentazioni preferite». Bagueny non parve convinto. «La nostra religione ci impone di non uccidere...». «Ciò non può valere per gli eretici. Altrimenti negheremmo secoli di storia della Chiesa». «... e le regole dell'Inquisizione comandano di non eseguire una sentenza per mano nostra, ma di consegnare, dopo regolare processo, il reo al braccio secolare». Eymerich trovò l'osservazione divertente. Si staccò dal davanzale e fissò il confratello con ironia. «Il negromante ha avuto un processo regolarissimo. Solo i favori peccaminosi di cui godeva hanno impedito di condurlo all'esito naturale. Quanto al braccio secolare, sappiamo tutti e due come sia inaffidabile nel regno d'Aragona. Grazie a un re che, al pari di suo padre, venera come santi e grandi intellettuali maestri d'eresia del tipo di Arnaldo da Villanova e Raimondo Lullo. Per tacere degli astrologi arabi da cui si fa consigliare». La discussione sarebbe continuata se in quel momento non fosse sopraggiunta la priora. Era una donna alta e matura, dai tratti autoritari, benché fini e piacevoli. Aveva però occhi dalle pupille dilatate e si muoveva con una certa esitazione. La monaca anziana le zampettava dietro, tentando di stare al suo passo svelto. «Sono suor Magdalena Rocaberti» disse la priora «e reggo immeritatamente questo monastero. Sono lieta di conoscervi di persona, padre Eymerich, dopo avere tanto udito parlare di voi». D'improvviso la voce della monaca cambiò registro e si fece dura e ostile. Le sue sopracciglia ben disegnate si aggrottarono. «È vero che brigate per cacciarci di qui e concedere l'edificio a domenicani di sesso maschile?» Benché colto di sorpresa, Eymerich non si lasciò intimidire. «È vero, sorella. Secondo me non possono essere femmine, per quanto avviate sulla via del bene, a governare un complesso religioso ampio come Monte Síon. Gli stessi fatti successi nelle ore scorse stanno a dimostrarlo. Avete lasciato sostituire il cadavere di un prigioniero che vi era stato affidato in custodia». «Suor Margarita mi ha raccontato tutto». Magdalena indicò la monaca che l'accompagnava. «Ciò che dice mi pare incredibile. Sono venuta a vedere con i miei occhi. A patto che la mia scarsa vista mi permetta di scorgere qualcosa».
Eymerich, pur sapendo che non si trattava di un sentimento propriamente cristiano, detestava chiunque avesse minorazioni corporali, dagli storpi fino ai mancini. Sentì la necessità di colpire in qualche modo la priora, a costo di allontanarsi dal tema del contendere. «La vostra miopia deve essere veramente grave. Ho ordinato da tempo che agli eretici riconosciuti rei sia imposto di indossare un abito a tinte vive, per metà grottesco e per metà ammonitore. Il volgo lo chiama ormai "sacco di San Benedetto", contratto in sambenito. L'uomo che pende lì dentro» aggiunse indicando la cella «indossa, sulla sua carcassa di uomo, vitello e porco, un saio normale. Avete disobbedito alle mie disposizioni». Suor Magdalena trascurò il rilievo sull'abito. Mostrava sbalordimento. «"Uomo, vitello e porco"? Ma che dite! Non è possibile!» «Entrate con me. Ve ne convincerete». Eymerich fece strada. Nella cella, un senso di angoscia lo attanagliò alla gola, tanto da costringerlo a deglutire ripetutamente. Riuscì solo a mormorare: «Non è possibile!». Il motivo di tanto sconcerto fu riassunto dalle semplici parole della priora: «Forse è perché non ci vedo bene, ma non noto nessun cadavere retto dalla corda appesa alle travi del soffitto. Lo avete rimosso?». Padre Bagueny si fece avanti. Era impallidito anche lui, e la sua espressione normalmente ilare era scomparsa. «Ma che strano! Il presunto Ramón de Tàrrega non c'è più! Eppure ci siamo appartati nel corridoio per pochi istanti!» «Deve esistere un passaggio segreto!» gridò Eymerich, tornato in parte alla padronanza e alla razionalità consuete. Prese a battere sulle pareti, traendone un suono soffocato e uniforme. Calpestò il pavimento in terra battuta, cosparso di paglia, alla ricerca di botole. Alla fine, fuori di sé, investì suor Magdalena con tutta la furia di cui era capace. «Che fate lì, impassibile? Vi divertite a farmi perdere tempo? Dov'è il passaggio nascosto? Confessate, o io...». La risposta della priora fu disarmante per sincerità. «Non so di cosa stiate parlando, padre. Vivo qui da tanti anni, eppure non ho mai udito parlare di aperture celate nel suolo o nei muri. Del resto, se vi fossero state, Raymundo Neófito ne avrebbe approfittato prima di... morire». Bagueny stava continuando per conto suo l'ispezione. Spostò anche il letto. «È vero, magister. Questa cella non ha altre uscite che la porta». Eymerich si diede per vinto. Fu colto da un senso di spossatezza, tanto che si poggiò al tavolino traballante liberato dai manoscritti. «E sia. Ancora una volta dobbiamo misurarci con il più tremendo dei nemici di Dio. Ci siamo avvezzi, ma negli ultimi anni ci aveva lasciato in pace. Era una tregua illusoria». Si raddrizzò. «Andiamocene, frate Pedro. Qui non abbiamo più niente da fare». «Mi dispiace molto per ciò che è accaduto» disse suor Magdalena. «Non mi aspettavo nulla di simile».
«Lo spero bene». Eymerich la fissò con una sorta di ambigua benevolenza. «Voi non ne avete colpa. L'errore è stato mio: non ho agito con tempestività. Avrei dovuto immaginare che una donna mezza orba non fosse la custode ideale di un servitore del demonio». Emise un sospiro. «Io vi lascio, ma voi e le vostre monache preparate i bagagli. Monte Síon diventa un convento maschile». Magdalena giunse le mani e le portò al petto. «Non direte sul serio!» sussurrò. «Vi sembro un tipo incline agli scherzi?» Eymerich lasciò a grandi passi la cella, seguito da frate Bagueny.
3.I libri maledetti Verso compieta dello stesso giorno, Eymerich sedeva nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Catalina d'Alessandria, vergine e martire – detto di Santa Caterina da Barcellona –, in cui talora prendeva alloggio quando si recava in quella città. In piedi, al suo fianco, c'erano frate Bagueny e frate Antonio Folquet, studente in teologia. Davanti a lui, su un ampio tavolo di quercia, erano disposti in pile i manoscritti rinvenuti nella cella di Ramón de Tàrrega. Li illuminavano due candelabri. L'inquisitore afferrava i testi a uno a uno, li esaminava e li collocava sulla pila che riteneva più idonea, secondo criteri che non aveva ancora comunicato ai confratelli. Il cumulo più alto comprendeva i codici reputati dalla Chiesa assolutamente leciti, quello intermedio le opere che sfuggivano a ogni classificazione, il minore manoscritti di dubbia ortodossia (alcune opere di una gloria delle lettere e delle scienze catalane come Arnaldo da Villanova). Una quarta pila, consacrata ai libri assolutamente proibiti, contava al momento i soli due trattati redatti da Ramón in persona, molti anni prima: il De invocatione daemonum e le Conclusiones variae, seguito e complemento dell'altro libro. Frate Bagueny compulsò il mucchietto più sostanzioso. «Magister, avevate in Ramón un ammiratore. I libri leciti sono quasi tutti vostri. Ecco qua la Vita beatae memoriae fratris Dalmatii Moner, dedicata al vostro maestro, l'indimenticabile Dalmau. Poi ci sono il De logica, il De principiis naturalibus, il Tractatus in I librum Phisicorum Aristotelis, il Sermonum de tempore...». Eymerich scrollò le spalle. «Scritti giovanili dimenticati da un pezzo. Il più recente, il Sermonum, è di dieci anni fa». «Sì, tuttavia vedo anche il vostro Tractatus contra daemonum evocatores. Lo avete scritto nel 1359, ma già confutava punto per punto le tesi poi sostenute da Ramón de Tàrrega. Che a un cristiano sia consentito fare apparire qualche servo di Satana, a patto di dominarlo».
«Smettetela» sbuffò Eymerich. «Non mi interessano i testi ortodossi, bensì quelli contrari alla nostra dottrina». «Finora non ne avete trovati molti» obiettò frate Folquet. Era un giovane di media statura, di aspetto energico e modi franchi. Tracce di barba nerissima gli incorniciavano il viso. Non sarebbero state tollerate in altri allievi dello Studio domenicano, però la sua crescita pilifera doveva essere poco controllabile. Tutti, a cominciare dal priore, erano certi che Folquet avrebbe presto conquistato la carica prestigiosa di magister theologiae. «È vero, ma sono significativi. Il De turba philosophorum, che non tratta affatto di filosofia, bensì di alchimia, la scienza occulta e demoniaca condannata da papa Giovanni XXII fin dal 1317, con la bolla Spondent pariter. Altro alchimista per metà mago: Michele Scoto, con i suoi Liber consecrationis e Liber perditionis animae et corporis. E poi un testo alessandrino, Kore Kosmu, "La fanciulla del cosmo", che non è nemmeno di ispirazione cristiana. Altro trattato alchemico. Mi chiedo come un recluso condannato per eresia potesse tenere in cella simile sporcizia». «Avete visto voi stesso di quanta scandalosa libertà abbia goduto Ramón de Tàrrega a Monte Sìon» fece notare Folquet, con un accento sprezzante degno di Eymerich. «Sta di fatto che libri autenticamente satanici, capaci di operare il prodigio a cui avete assistito stamane, non ci sono». «Non so. I libri sospetti sono scritti in uno stile talmente contorto…». Eymerich terminò di ammucchiare i manoscritti. Gli ultimi finirono nel cumulo di quelli leciti. L'inquisitore si alzò, un po' affaticato nella vista. Cominciava ad avvertire il peso dei suoi cinquantun anni, un'età che il volgo stentava a raggiungere. «Fratelli miei, io porto nella mia cella solo la Turba philosophorum, le opere di Michele Scoto, che non conosco, e il Kore Kosmu. Chissà che non vi trovi qualcosa di utile». Lanciò un'occhiata al tavolo. «Prendo anche la Vita beatae memoriae. Quasi non ricordo questo opuscolo. Dalmau Moner non avrebbe mai sospettato di poter essere, più di una decina di anni fa a Montiel, vittima di stregonerie. Leggere di un'esistenza così limpida mi sarà di conforto, in vista della battaglia impegnativa contro il Male che ci attende». Eymerich afferrò il manoscritto per la cucitura. Nel gesto, il libro sottile si aprì. Gli occhi dell'inquisitore caddero su una pagina. Rimase stupefatto. «Ma io non ho mai scritto nulla di simile!» «Perché, che dice il libro?» chiese Bagueny. «Ascoltate! "Si volueris convertere forma hominis ad formam symij aut porcij aut allarum ex formis bestiarum accipe piscem qui dicitur neffus – et est piscis longi capitis tortuosi oris lati corporis – scinde ergo ventrem eius et extrahe pinguedinem et intestina omnia ipsius deinde tolie id et pone cum eo equale ponderis eius de sanguine hominis..."» «Pare adattarsi al caso che trattiamo» commentò Folquet. «Ma è una pagina isolata, o tutto il vostro codice è stato sostituito?» Eymerich, ansioso, sfogliò per intero il libro. Infine sussurrò: «Del mio saggio è rimasta solo la prima pagina, per ingannare gli ignoranti. Vediamo gli altri manoscritti».
Disfece le pile, esaminando i testi foglio per foglio. Mentre le candele cominciavano a estinguersi, disse: «No, solo la mia apologia di Dalmau Moner è stata rimpiazzata da un oscuro manuale di negromanzia. Il perfido Ramón ha sicuramente inteso colpirmi insultando con una bestemmia la persona che mi è stata più cara». «Riconoscete di quale manuale si tratti, magister?» chiese frate Bagueny. «Voi li conoscete quasi tutti, per obblighi di lavoro». «Ciò che ho letto mi ricorda qualcosa. Purtroppo la mia memoria non è così brillante come un tempo». Eymerich raccolse i fascicoli che lo interessavano. «Esaminerò il malloppo nel mio alloggio e forse domattina saprò dirvi cosa sia questo elaborato ripugnante. Che ore saranno?» Frate Folquet guardò oltre le trifore che davano sull'abside della cattedrale di Barcellona. Vide solo buio. «Impossibile dirlo, magister. Immagino che manchi poco al mattutino. Tra breve dovremo riunirci a cantare la Salve Regina». «Fatelo anche per me. Mi attende una notte di studio». Eymerich raccolse la candela che gli parve meno consunta. «Frate Bagueny, avete la cella accanto alla mia. Svegliatemi verso l'ora prima». «Sarete obbedito, padre. Perdonatemi in anticipo se mi udrete russare». «Lo fate sempre e ci sono abituato». La cella occupata da Nicolas Eymerich era un ambiente piccolo, totalmente intonacato di bianco. Ciò obbediva a una richiesta dell'inquisitore, che contava così di scoprire eventuali insetti che fossero penetrati nel suo alloggio. La finestra, abbastanza grande, era chiusa da un battente in legno. Il suolo era nudo, fatto di lastre quadrangolari. Quanto ai mobili, si riassumevano in un pagliericcio senza coperte né cassettoni, in un tavolino e in due sedie. Un secchio, nell'angolo, era destinato a raccogliere i rifiuti corporali. Unico ornamento, un grande crocifisso di foggia visigota. Eymerich usò la candela per accendere una torcia e gettò i manoscritti sul tavolo. Sedette e prese a sfogliare il più ambiguo, quello celato sotto un titolo che glielo attribuiva. Fin dalle prime pagine capì di cosa si trattava, e ciò gli strappò un ghigno totalmente privo di allegria. Sì, aveva già avuto tra le mani quel testo. Molto più temibile del Picatrix, osceno, disgustoso. Falsamente spacciato per commento al De legibus di Platone, era una traduzione dall'arabo che suggeriva pratiche orrende, dirette in gran parte a far nascere mostri o a rendere mostruosi esseri viventi. Il materiale per gli esperimenti erano sangue, sperma, interiora di animali tenuti in vita dopo lo sbudellamento, colture di vermi. Si passava, pagina dopo pagina, da un orrore all'altro, con dettagli sempre più raccapriccianti. Un libro, si sarebbe detto, scritto dal demonio in persona, o dal più zelante dei suoi adepti. Eymerich si concentrò su quella lettura tremenda, e anzi, terminata che la ebbe, la ripeté, soffermandosi su ogni singola frase. Finalmente il sonno lo vinse. Accantonò il manoscritto, spense la torcia con un cono di metallo e si coricò. Rimase vestito del suo abito, calzari a
parte. Temeva incubi ma subito si addormentò. Passò una notte senza sogni degni di essere ricordati. Fu svegliato da frate Bagueny che, dopo avere picchiato chissà quanto sulla porta, entrò nella cella e aprì l'imposta. Il sole invase lo stanzino. Il piccolo domenicano cercò di giustificarsi. «Perdonatemi, magister. È già passata l'ora prima. Se volete dormire ancora un poco, ditemelo e tornerò più tardi». «No, no». Eymerich si sentiva in piena forma. Provava, anzi, una certa inspiegabile allegria. Si stirò, con una specie di soddisfazione felina. Notò la brocca e il catino che il confratello recava con sé, per permettergli di lavarsi il viso. Gliene fu grato. Mancavano solo uno straccio con cui asciugarsi e il sapone. Erano quisquilie. «Sapete, frate Pedro?» disse dopo l'abluzione. «So quale libro di magia negromantica leggeva di preferenza Ramón. Da lui non c'era da aspettarsi di peggio». «È un libro che conosco?» chiese Bagueny. «Solo per sentito dire, suppongo. Si tratta del Liber Aneguemis, o Liber Vaccae, o ancora Liber institutionum activarum». «Ne ho udito parlare, credo proprio da voi. Cosa significa Aneguemis?» «È una traslitterazione mal riuscita, dal greco all'arabo e poi al latino, del Perì Nomon, Sulle leggi, di Platone. Il libro è stato infatti falsamente attribuito, nei secoli, a Galeno, che vi avrebbe commentato il trattato platonico, e persino a Platone in persona. Il solito espediente a cui ricorre chi vorrebbe fare passare per innocente un testo negromantico». «E perché Liber Vaccae?» «Perché il primo esperimento consiste nell'ingravidare una vacca moribonda, accoppiandosi con lei, e fare uscire dal suo ventre squarciato, con l'uso di varie misture, un essere senziente da rendere schiavo». Frate Bagueny fece una smorfia. «Ma è stomachevole! Non dovevate parlarmi di questo subito prima di colazione, magister!» «Me lo avete chiesto voi» rispose Eymerich, vagamente divertito. «Da parte mia sono abbastanza soddisfatto. Siamo lungi dall'avere risolto il mistero, però abbiamo una traccia». Indossò, sopra la tonaca bianca, lo scapolare e la cappa nera. «Io sono pronto, scendiamo nel refettorio». Si accedeva alla mensa dei frati dopo avere sceso le scale fino al locutorio – cioè il luogo in cui i domenicani potevano parlare tra loro, in certe ore del giorno, senza restrizioni – e imboccato il corridoio adiacente alla sala capitolare. Malgrado l'ora mattutina, faceva già caldo. Il refettorio era deserto. Ai Predicatori erano infatti consentiti dalla regola solo due pasti al giorno (salvo i periodi di digiuno, da Pasqua al 14 settembre), corrispondenti al pranzo e alla cena. Si faceva eccezione solo per i novizi, per gli ospiti o, come nel caso di Eymerich e di frate Bagueny, per i domenicani in viaggio, bisognosi di maggiori energie.
Il refettoriere accorse, accompagnato da un servo che reggeva una pentola. Ai due visitatori fu servita nelle scodelle zuppa d'orzo ben calda, con due pagnotte. Le stoviglie erano già in tavola, così come un cucchiaio e un coltello. L'atmosfera era molto serena, e dalle bifore affacciate sul chiostro giungevano con i raggi di sole le prime folate d'aria tiepida. Era obbligo del refettoriere tacere o pronunciare il minor numero possibile di parole. Sussurrò a Eymerich: «Dopo la colazione, il priore desidera incontrarvi». L'inquisitore lasciò le posate. «È urgente? Posso venire anche subito». «No. Mangiate con calma». Il pasto fu in ogni modo rapido. Mentre finiva di svuotare la sua scodella, frate Bagueny formulò domande che ormai da ore gli frullavano per il capo. «Magister, forse il Liber Aneguemis ci fornisce un indizio, ma ancora stento a comprendere dove ci porti». «Non lo so nemmeno io» rispose Eymerich che, inghiottito il suo orzo, masticava del pane. «Facciamo il punto. Ramón de Tàrrega si "suicida", diciamo così. Invece del cadavere troviamo il corpo di qualcuno dai lineamenti suini, che poi sparisce. Un libro di negromanzia, appartenuto a Ramón, tratta proprio di come dare a un cristiano sembianze di porco. Qui nasce il mio tormento. Pensiamo davvero che, seguendo le indicazioni del libro, si possano operare simili prodigi? In questo caso, ammetteremmo che le arti occulte funzionino e abbiano efficacia concreta. Ciò che la Chiesa nega». Eymerich sollevò un sopracciglio, atto che in lui, solitamente, indicava sarcasmo. «Che domanda ingenua, fratello. È chiaro che la negromanzia, per quante ricette detti, risulta inefficace. Tuttavia esiste una creatura maligna, dotata di poteri straordinari in quanto angelo caduto e maledetto, capace di fare sembrare concreti i risultati di operazioni fasulle e bislacche. Ne indovinate il nome? Penso di sì». Bagueny si fece il segno della croce. «Satana. O la sua emanazione Lucifero. O Beelzebub» sussurrò. «Tutti appellativi di un'unica entità collettiva votata all'inganno e alla tentazione. È chiaro che, per giungere al suo scopo, il diavolo deve comprovare, con esiti concreti ma illusori, le ricerche degli ingenui che credono in lui. Di conseguenza le opere magiche e negromantiche qualche risultato lo danno sempre. Da ciò è nata un'intera scienza, l'alchimia, che è un distillato di menzogne». Bagueny, che aveva a sua volta terminato la zuppa, lasciò cadere il cucchiaio nella scodella. «Il mostro impiccato lo abbiamo visto. Lo abbiamo anche toccato. Può il demonio alterare le leggi di natura stabilite da Dio?» «No, non può». Eymerich abbozzò un sogghigno. «Infatti il corpo poco dopo è sparito. Non c'è prova migliore che si trattasse di un'allucinazione, creata ad arte da uno stregone o da un alchimista». Si alzò. «Andiamo, ora. Il priore ci aspetta».
Mentre lasciava il tavolo, Bagueny disse: «Un'ultima domanda, magister. Perché mettete sullo stesso piano la magia e l'alchimia? Si tratta di arti diverse». «Credete?» rispose Eymerich. «Se interrogato, ogni cosiddetto "filosofo", convinto della propria attività, vi risponderà che scopo del suo affaccendarsi attorno all'atanór non è la trasmutazione dei metalli vili in oro. Quello è il fine degli alchimisti volgari, i "soffiatori". Lo scopo vero è "farsi Dio", come vi ho spiegato già anni fa. Rendersi padroni, come Dio, del processo creativo. Conoscete eresia più maligna?» Bagueny parve ponderare. «No, in effetti. È un tentativo di assumere poteri che spettano solo al Creatore». «È così. Innescare una trasformazione di se stessi, fino a eccedere la condizione umana, tanto da poter generare creature raziocinanti fuori dalle leggi di natura e, persino, mettere le mani sulla dimensione dello spirito: ciò che essi chiamano "pietra filosofale", "quintessenza" o con mille altri nomi fantasiosi. In questo senso, non vedo differenza tra l'opera degli alchimisti e quella dei negromanti, tra il Liber Aneguemis e la chimica fittizia di Nicolas Flamel. Puntano a uno stesso risultato: acquisire poteri che competano con quelli di Dio. Il solo concepire un progetto del genere è bestemmia». La dotta spiegazione ammutolì Bagueny, che seguì il magister fuori dal refettorio. Trovarono il priore di Santa Catalina nel suo studiolo, al piano superiore. Padre Francesc Borrell, assiso a una scrivania, stava dettando alcune riflessioni teologiche a un novizio, seduto su uno sgabello e con un quaderno sulle ginocchia. C'era molta luce, nella stanza, e molto calore. La trifora dava sul chiostro, e le voci della piazza erano sussurri lontani. Al vedere Eymerich, il priore gli si fece incontro con un sorriso cordiale. Erano amici ormai da molti anni, malgrado la riprovazione del vescovo di Barcellona, Berenguer de Arìl, e di una parte, minoritaria ma di poco, dell'ordine domenicano. «Benvenuto, magister!» esclamò padre Borrell. Conoscendo Eymerich, evitò il rituale dell'abbraccio. «II Signore sia con voi! Era da un po' di tempo che non venivate a Barcellona, ma, come avete visto, il vostro alloggio è sempre disponibile. E benvenuto anche a voi, frate Pedro! Appena avrete ottenuto il titolo di maestro di teologia, assieme al vostro amico Folquet, lo Studio di Barcellona sarà onorato di accogliervi tra i suoi insegnanti». Bagueny chinò il capo in segno di reverenza. «Padre, la cosa difficile sarà cingere d'alloro le mie orecchie d'asino». Borrell scoppiò a ridere. Indicò le sedie a lato della scrivania. «Accomodatevi». Si rivolse allo scrivano. «Puoi andare». Appena il giovane fu uscito, si immerse nello scanno con braccioli che, foderato di velluto verde, dominava il tavolo. Il priore era corpulento senza essere grasso. Portava la barba ben tagliata, privilegio concesso solo ai domenicani di rango o tanto anziani da essere esentati dall'obbligo della rasatura. Aveva fattezze delicate e grandi occhi neri e caldi. Ispirava simpatia.
Giunse le mani e si curvò in avanti. «So già tutto, fratello Eymerich. Ciò che è avvenuto a Monte Síon sfida la ragione. Forse è stata colpa mia non avere esercitato sorveglianza sufficiente su quel monastero. Cosa potrei fare per aiutare la vostra indagine?» Eymerich era sorpreso. «Siete voi che mi avete convocato. Pensavo che doveste comunicarmi qualcosa. Non, semplicemente, offrirmi aiuto». «Una comunicazione ce l'ho, ma la terrei per ultima. Vi sorprenderà». Padre Borrell si addossò allo schienale della sua poltrona. «Esponetemi le vostre esigenze, in un'inchiesta senz'altro complicata». «Non ne ho alcuna» rispose Eymerich. «Priore, ditemi il motivo per cui mi avete chiamato». «Subito. Sapete che il re è qui, a Barcellona?» Eymerich fece una smorfia. «Non lo sapevo e non mi interessa. Preferisco ignorare l'esistenza stessa di Pietro il Cerimonioso». Borrell sorrise. «Lui non ignora la vostra. È venuto un suo messo che era ancora l'alba. Re Pietro vorrebbe incontrarvi. Vi darà udienza domattina all'ora terza. Vi raccomanda la puntualità».
4.Un re superstizioso Eymerich fu puntuale, ma sapeva che l'attesa sarebbe stata lunga. Sotto le volte a tutto sesto del Salò del Tinell, l'ampia sala del Palau Reial Major in cui i regnanti aragonesi ricevevano i visitatori e davano udienza, già all'ora terza la folla in attesa debordava. Si trattava principalmente di ciutadans honrats, notabili che per censo e funzioni erano prossimi a transitare dalla borghesia alla nobiltà. Ma c'erano anche esponenti delle gilde mercantili, armatori, avvocati venuti a perorare qualche causa, alcuni religiosi (vedendo che erano cistercensi e francescani, Eymerich evitò di incrociare il loro sguardo per non doverli salutare), vari ufficiali. Trascorse oltre un'ora prima che nella sala entrasse non il re, bensì un semplice funzionario del Razionale. Il burocrate, assai corpulento, salì sul palco che reggeva il trono e gridò: «È presente l'inquisitore generale del regno d'Aragona, padre Nicolas Eymerich? È presente?». Molto seccato di essere interpellato in quel modo in pubblico, Eymerich fu costretto ad alzarsi dalla panca su cui si era seduto per sottrarsi all'attenzione di possibili conoscenti. «Sono qua» dovette dire. Calò un silenzio generale. Gli occhi si puntarono su di lui. «Ah, bene. Venite, padre. Re Pietro desidera conferire con voi in privato, nei suoi appartamenti».
Dal pubblico si levò qualche protesta. Il funzionario le sedò con un gesto imperioso. «Tacete, cavalleres. Sarete uditi quasi tutti, ma le questioni urgenti hanno la precedenza. Chi non è d'accordo farà meglio a tornarsene a casa subito, per non passare la notte in prigione». Eymerich avanzò tra la calca che si apriva al suo passaggio. La carica dell'uomo di corte gli fece pensare che la motivazione dell'invito al Palau fosse la questione degli emolumenti arretrati. Faccenda che gli premeva, ma in quel momento era all'ultimo posto dei suoi pensieri. Rimpianse la mattinata sprecata. In fondo a due corridoi disposti a gomito, il funzionario gli indicò dei tendaggi in velluto rosso, resi quasi gialli dalla luce solare. Davanti sostava un soldato armato di alabarda. «Io mi fermo qua. Scostate le tende e troverete una porta. Pietro IV vi attende nella prima stanza. Il barbiere gli sta sistemando l'acconciatura». «Come vi chiamate?» «Non credo che abbia importanza, padre. Sono un umile segretario di don Pere de Vall, il tesoriere reale». «Velo chiedo perché, prossimamente, potremmo trovarci a discutere di contabilità». Sul viso paffuto del burocrate del Razionale passò un'espressione leggermente scaltra, subito repressa. «Non credo che il nostro sovrano voglia parlare con voi di conti, padre. Vi saluto». Eymerich non ebbe bisogno di spostare il tendaggio o di toccare la maniglia dell'uscio. Provvide il soldato, che lo fece passare con un inchino. L'inquisitore si ritrovò in una saletta elegante, arredata con raffinatezza. Profumava di rose rifiorenti, i cui petali coprivano i tappeti di Fiandra sul pavimento. Il soffitto a cassettoni era decorato con scene di caccia, vagamente pagane. Alle pareti erano appesi, tra i dipinti, strumenti musicali. Re Pietro IV d'Aragona, detto il Cerimonioso, sedeva in una poltrona, con una catinella semicircolare che gli cingeva il collo. Il barbiere – un infirmarius francescano, forse un terziario – stava terminando di radergli il collo, dopo avergli spuntato il pizzetto appuntito e accorciato di poco i capelli lunghi e lisci, ormai ingrigiti. Conformandosi alle norme rigidissime che avevano fruttato al monarca il suo soprannome, Eymerich si inchinò tre volte, poi rimase in piedi, a capo chino, in attesa di essere interpellato. Non lo sorprese dovere aspettare ancora. Finalmente il monarca si contemplò nello specchio che il barbiere gli porgeva. Si liberò della bacinella e del panno che gli copriva colletto e casacca nera, rifinita d'argento. Balzò in piedi. «Andate» disse al francescano. «Ai vostri ordini, sire». L'infirmarius fece il triplice inchino di rito e, con i suoi strumenti in mano, infilò l'uscio che fronteggiava quello di accesso.
Solo allora il re degnò Eymerich della sua attenzione. «Vi salutiamo, padre. Non ci dispiace rivedervi dopo tanti anni. È stata una fortunata combinazione trovarci a Barcellona nello stesso periodo». Eymerich sapeva che l'incontro era solo in parte casuale. Pietro IV non amava risiedere a lungo nella capitale aragonese, Saragozza. Lì era sottoposto alla costante pressione della coalizione dei nobili, la Unión, e del magistrato incaricato di sorvegliare l'equilibrio dei poteri, il Justicia. Godeva di libertà maggiore a Valencia o a Barcellona, dove oltretutto risiedeva, accanto a un marito di comodo, Sibilla de Fortià, l'amante ufficiale del sovrano. Eymerich l'aveva incrociata più di una volta ed era rimasto colpito dai suoi insoliti capelli rossi. Pietro IV pareva forte, fin dall'aspetto, invece era un re dai poteri condizionati. Come nessun altro in Europa. Il colpo fatale gli era stato inferto, anni prima, dalla conquista da parte di Enrico di Trastàmara del regno di Castiglia. Lui aveva scommesso sul fratellastro di questi, Pietro il Crudele, e perso clamorosamente. Eymerich non lasciò trapelare le considerazioni che si agitavano nella sua mente. «Sire, sono anch'io lieto di incontrarvi e di portarvi la mia benedizione. Intuisco già il motivo per cui mi avete convocato». «Davvero?» Il Cerimonioso inarcò un sopracciglio. «Non lo crediamo, però non si sa mai. Spiegateci ciò a cui avete pensato». Eymerich restò un poco interdetto, tuttavia parlò con voce sicura. «Sire, non ricevo da tempo il modesto compenso che mi avete assicurato per le mie umilissime funzioni. Ciò compromette l'efficacia del tribunale che dirigo. Non ho di che pagare notai, famigli e servitù varia». Chinò il capo, che subito risollevò. «Vi sono grato di voler sanare questa situazione deplorevole. Cominciavo a temere che l'energia che pongo nella lotta contro gli eretici vi fosse sgradita». L'ultima allusione era maliziosa e in una certa misura ricattatoria. I pagamenti dei sovrani d'Aragona agli inquisitori erano motivati, palesemente, dalla necessità di controllarli e, in un certo senso, di tenerli a bada. Un regno in cui si scoprissero eretici a ogni angolo di strada era condannato al discredito. Da quando Eymerich aveva assunto l'incarico, era accaduto proprio questo in Aragona, e il malcontento della casa regnante, già alle prese con la disobbedienza dei nobili, era cresciuto in proporzione. Fu il turno di Pietro IV, all'apparenza, di rimanere stupito. «Non sappiamo niente di ciò che ci dite, padre Eymerich. Non ci occupiamo di questioni contabili. Avviseremo il Razionale, come abbiamo già fatto per padre Jaume Domènech, inquisitore generale di Maiorca». Inconsapevolmente, il sovrano abbassò la voce e si chinò in avanti, mentre si carezzava il mento irritato dalla rasatura. «No, padre Eymerich. Siete qua per questioni che riguardano la Sicilia. Avete seguito le vicende recenti dell'isola?» «No, per nulla. La Sicilia non rientra nella mia giurisdizione, a differenza della Sardegna. Ha un proprio inquisitore, che un tempo si chiamava Guillem Costa. Oggi non so».
«Costa potrebbe essere morto, e non sappiamo chi gli sia succeduto». Il re fece un gesto di indifferenza. «Vi riassumiamo la questione siciliana in due parole. Laggiù dominavano con mano dura gli Angiò, cioè gli Anjou, originari di Francia. Una lunga rivolta sia aristocratica sia popolare ha permesso agli aragonesi di impadronirsi di vasti territori. Ora pare imminente un accordo tra Federico IV d'Aragona e Giovanna d'Angiò, formalmente regina di Sicilia, ma residente a Napoli. Le sue armate si sono ritirate dal territorio siciliano. Attualmente Giovanna domina di fatto il meridione d'Italia solo nell'area continentale, fino allo stretto un tempo chiamato di Scilla e Cariddi». «Tutto ciò lo sapevo, sire» disse Eymerich. «Credo che papa Gregorio XI stia impegnandosi per una mediazione». «Sì, ma nei giorni scorsi è accaduto un fatto nuovo, ignoto ai più». «Sarebbe a dire?» Pietro IV emise un sospiro e si appoggiò allo schienale della poltrona. Fissò l'interlocutore come se temesse di non essere creduto e cercasse di fare degli occhi i segnali della sua buona fede. «Da tempo, nel cielo di Sicilia, i contadini scorgevano oggetti singolari, di forma discoidale. Ogni tanto apparivano luminosi, mentre in altri momenti avevano l'aspetto di manufatti metallici. Velocissimi e con orbite anomale». «Sire, apparizioni del genere accadono spessissimo in tutta Europa» disse Eymerich, con un mezzo sorriso. «La spiegazione l'avete data voi stesso. I testimoni sono gente del volgo, capace, ogni volta che solleva lo sguardo, di scorgere nella volta celeste qualunque cosa. Una nuvola diventa un drago, un raggio di sole la piuma di un angelo, un fulmine l'artiglio di un demonio. Vi consiglierei di non prestare attenzione a simili sciocchezze». Il Cerimonioso aggrottò la fronte. «Non siamo stupidi, padre. Sappiamo bene come valutare le dicerie superstiziose delle popolazioni rurali. Avremmo sorvolato su queste chiacchiere se non fosse seguito un fatto concreto, dannoso per il nostro casato». «Quale fatto?» «Alcune settimane fa, vari ordigni a forma di disco han-no toccato terra nel Comitat di Caltanissetta, in aperta campagna. È una zona ancora contesa, non tra gli Angiò e il ramo principale della nostra famiglia, bensì tra Federico IV d'Aragona, sposo di nostra figlia Costanza, e la nobiltà locale. Teoricamente fedele, in realtà riottosa a sottomettersi a un nuovo re. Con la dinastia nobiliare più potente, quella dei Chiaromonte, le scaramucce sono continue, e a volte si arriva al confronto armato». Eymerich cominciava ad annoiarsi. Trattenne uno sbadiglio. «Ebbene?» «Erano trascorsi solo pochi giorni dalla discesa dei dischi quando un contingente di Federico ha impegnato il rituale conflitto armato, normalmente senza spargimento di sangue, con un corpo di mercenari dei Chiaromonte. Improvvisamente sono emersi, da dietro una collina, dei giganti di una statura doppia rispetto alla norma». «Doppia? Veramente?»
«Così hanno riferito i molti testimoni. Pare che i titani emanassero luce. Si dimenavano e urlavano come ossessi. Si sono lanciati contro gli aragonesi. Molti di quegli aggressori spalancavano bocche fameliche, quasi volessero mangiare i nostri soldati. Per fortuna questi erano a cavallo e sono riusciti a fuggire senza perdite. Tre di loro, però, sono usciti di senno. Gli altri, tutti gli altri, non vogliono più andare in battaglia». Eymerich fu molto colpito dal racconto. Non dalla storia in sé, pittoresca però non insolita, bensì da una coincidenza che poteva non essere affatto casuale. Tuttavia non aveva alcuna intenzione di farne parola col monarca. Chiese solo, con voce arrochita: «Cosa ne concludete, sire?». Pietro IV gli lanciò uno sguardo cauto, come se temesse di rendersi ridicolo o di scoprirsi troppo. «Non sappiamo quanto sia fondata la notizia, ma la fonte è la più attendibile: ci ha raccontato l'episodio Federico d'Aragona in persona, in un messaggio che ci è stato recapitato ieri l'altro sera. Siano state anche allucinazioni, quelle dei soldati, è certo però che hanno messo in fuga un intero contingente». «Voi non siete amico di Federico. Direi il contrario». «Nell'albero genealogico ci è molto lontano. Tuttavia è un d'Aragona». «E il vostro casato non può permettere che ciò si ripeta, nel momento attuale». «No, infatti. Di un'eventuale debolezza di Federico possono approfittare non solo i Chiaromonte, ma anche gli Angiò, costretti dalle ultime sconfitte a cercare la pace. Salterebbe l'attuale fase di stallo, Gregorio XI rinuncerebbe alla sua mediazione, e la guerra aperta riprenderebbe. Noi siamo troppo impegnati a fronteggiare le pretese del nuovo re di Castiglia, Enrico, per potere intervenire in forze». Eymerich si concesse un minuto buono di silenzio. Non per riflettere, ma per conferire maggiore efficacia alla domanda, scontata, che stava per porre. Già consapevole di quale sarebbe stata la risposta. «E io che c'entro, sire?» domandò, in tono fin troppo dimesso. «Sono un umile inquisitore della pravità eretica in questo regno. Non mi occupo di alta politica». «Politica a parte, è vostro obbligo interessarvi dell'influenza del demonio entro i confini catalani e aragonesi. Ciò che vi abbiamo raccontato non vi fa pensare a una manifestazione di Satana? A una presenza diabolica in Sicilia?» «Appunto. Sicilia» ritorse Eymerich, mellifluo. «Nella vostra saggezza, avete delimitato la mia giurisdizione ai confini del regno d'Aragona e alla Sardegna. Non si estende alle diocesi siciliane. Forse vi converrebbe rivolgervi all'inquisitore generale di laggiù. A Guillem Costa». Pietro il Cerimonioso perse la pazienza e batté i palmi delle mani sul velluto dei pantaloni. «Non sappiamo nemmeno se è vivo o morto! Comunque deve essere decrepito!» «Sarà molto saggio, vecchio com'è» rispose Eymerich, sornione. «Nei capitoli generali dei Predicatori non lo vedo da almeno vent'anni».
Il re scattò in piedi, obbligando l'inquisitore a un nuovo inchino. «Vogliamo che in Sicilia andiate voi! E voi obbedirete! Primo: perché sono in gioco trattative avviate dal vostro papa, a cui dovete disciplinarvi. Secondo: perché siete di fatto nel nostro libro paga e dunque tenuto a rispettare i miei ordini». L'ultima frase, o un'uscita simile, era proprio ciò che Eymerich auspicava. «Sire, nei libri paga figura chi beneficia di compensi regolari. Io non ne ricevo da anni». Pietro IV ricadde a sedere. Appariva leggermente affaticato. «Siamo impegnati in guerre continue, e le nostre casse sono esauste. Daremo comunque ordine a don Pere de Vall di versarvi subito gli arretrati, a patto che partiate per la Sicilia. Lo farete?» Forse il sovrano si aspettava nuove condizioni, quindi manifestò sorpresa quando Eymerich gli disse, con semplicità: «Lo farò. Mi affido a voi, sire, per l'organizzazione della spedizione e per i contatti in loco. Non posso muovermi in terra sconosciuta senza guide». «La pretesa è ragionevole. Incaricheremo nostro figlio di prepararvi il viaggio». Pietro IV tirò il cordone di un campanello. Apparve immediatamente un valletto dalla pelle bruna, probabilmente uno schiavo moro. «Trova mio figlio Giacomo e mandalo da me». Nell'attesa dell'arrivo dell'erede, il re si rivolse a Eymerich. «Ci aspettavamo un rifiuto da parte vostra, padre. Non un'accettazione così subitanea». L'inquisitore torse le labbra in un sogghigno, che subito cancellò. «Sire, ciò che sorprende è che siate tanto stupito quando vi si obbedisce». L'uscita era sottilmente perfida. Pietro il Cerimonioso aveva continuamente a che fare con la disobbedienza dell'aristocrazia aragonese, catalana o valenzana. Subiva le imposizioni, che trovava arbitrarie, del Justicia di Saragozza: un modesto notabile vestito di nero dalla testa ai piedi e tuttavia in diritto di ricondurre il re al rispetto dei fueros dettati dalla nobiltà. Pietro IV non parve cogliere l'allusione maligna. «Padre Eymerich, apprezziamo la vostra sottomissione. Ci hanno riferito che state indagando sulla sparizione del cadavere di un frate eretico recluso a Monte Síon. Davvero non vi dispiace abbandonare quell'inchiesta?» «No» rispose l'inquisitore, obbligato a un nuovo inchino. Era del tutto sincero. «Allora vi riveleremo una cosa, mentre aspettiamo Giacomo. La Sicilia, dicono le storie più affidabili, è stata abitata prima dai giganti e poi dai Lestrigoni». «Quelli menzionati da Omero?» «Sì, precisamente. Esseri selvaggi e cannibali, di statura appena inferiore a quella dei giganti. Li si credeva estinti da secoli, invece eccoli qua. Usciti da oggetti circolari scesi dal cielo, a combattere battaglie di cui non conosciamo lo scopo». «Voi ci credete, sire?» «Potremo rispondervi solo dopo che avrete terminato la vostra indagine».
Eymerich si disse che il regno d'Aragona non meritava un sovrano tanto credulone. Alla sua corte avevano accesso diversi astrologi, e in particolare l'ebreo Rabbi Menahem, che gli aveva insegnato i rudimenti di quella presunta scienza. Con tali influenze, non c'era da stupirsi che Pietro IV fosse persuaso di un ritorno dei Lestrigoni, sbarcati da dischi misteriosi. Ignorava che ciò che si vede non sempre coincide con ciò che è reale. Eymerich si augurò che Giacomo fosse diverso dal padre. A prima vista lo era. Arrivò trafelato, con gli abiti in disordine e una barba irregolare non rasata da una settimana almeno. I capelli ricci scendevano ispidi sulla nuca. Dimostrava una ventina d'anni. Aveva occhi fin troppo vivaci e, per essere un principe, dimostrava modi disinvolti e un nervosismo innato antitetico al fare compassato che era in uso nelle corti. «Mi avete chiamato, padre?» domandò con voce rotta dal fiatone. «Stavo per partire a caccia con alcuni amici». «Sì, vi abbiamo chiamato e ci aspettavamo che giungeste prima». Pietro IV dominò l'irritazione e indicò l'inquisitore. «Quello è padre Eymerich, magister domenicano e indagatore dell'errore eretico nel nostro regno. È un uomo che ci è caro e merita rispetto». Giacomo cercò, per toglierlo, un cappello che non aveva. Un po' imbarazzato, chinò il capo e fece un gran sorriso. «È davvero un enorme piacere incontrarvi, signore...». «Non "signore"» lo corresse Pietro IV, con accento severo. «Semmai magister. Nicolau Eymerich, Nicolas per i castigliani, insegna teologia presso lo Studio di San Domenico a Gerona, dove è nato». Gli occhi neri e vivaci di Giacomo scintillarono. «Oh, ho udito parlare di lui. Magister, credetemi, circolano storie incredibili sul vostro conto. Imprese memorabili, avventure in tutta Europa. Era da tanto che desideravo fare la vostra conoscenza e ascoltare dalla vostra bocca il racconto di quelle vicissitudini». Benché segretamente divertito, Eymerich si mantenne sulle sue. «Principe, mi lusingate. Vi assicuro che sono un insignificante servitore di Dio, per la cui gloria agisco e ho agito in passato. La mia vita è ordinaria, in quest'ambito, e non presenta momenti degni di essere raccontati». «Padre Nicolau è troppo modesto» intervenne Pietro IV, infastidito dalla curiosità del figlio «tuttavia ciò che dice è fondato. Ma vi abbiamo fatto venire, Giacomo, non per interrogarlo sulla sua vita, bensì per organizzare un viaggio in Sicilia che il nostro amico si prepara a compiere». «Posso andare anch'io?» chiese Giacomo. «Certamente no. Vi incarichiamo di predisporre la spedizione: affittare l'imbarcazione, rifornirla, reclutare l'equipaggio. Quanto tempo vi occorrerà, figlio?» Giacomo rifletté. «Circa un mese, penso».
«Facciamo tre settimane. Distoglietevi dalle damigelle che frequentate e da tutti gli altri vizi. Fatevi armatore». Pietro il Cerimonioso si rivolse a Eymerich. «Siete soddisfatto, magister?» L'inquisitore fece l'ultimo inchino. Era in cuor suo molto contento. «Non potevo pretendere di meglio, sire». Solo lui sapeva perché fosse tanto felice.
5.Sulle tracce del nemico Tornato al convento di Santa Catalina, Eymerich scovò frate Bagueny intento a godersi il sonnellino postprandiale cui tutti i domenicani avevano diritto. Lo scosse finché il confratello non spalancò due occhi opachi. «Destatevi!» ingiunse il magister. «Ho un indizio su dove possa essere finito Ramón de Tàrrega, dopo il suo presunto suicidio!» «Davvero?» La notizia era tale da strappare a Bagueny ogni residuo di sonno. Si levò in piedi. «Ditemi, magister!» «Attendetemi. Vado a prendere un libro». Eymerich tornò reggendo sottobraccio il manoscritto del Liber Aneguemis, ancora nascosto sotto la falsa intestazione. Sedette su uno sgabello. «Ascoltate cosa mi ha detto il re». Riferì quasi parola per parola. Bagueny, molto attento, ebbe un unico sussulto. « Lestrigoni? La parola non mi è nuova. Cosa sarebbero?» «Uomini più alti del normale, dediti al cannibalismo. Presenti in varie regioni d'Italia e di Grecia. Avrebbero abitato la Sicilia dopo i Ciclopi e prima dei Sicani. Ne parlano, oltre a Omero, Tucidide e Antiaco di Siracusa». «Una leggenda, suppongo». «È evidente. Ma, quando una leggenda trova riscontro nelle cronache, una qualche base reale deve pur esserci. Ascoltate il resto della mia conversazione con Pietro IV». Quando Eymerich ebbe terminato, frate Bagueny espresse stupore. «Magister, avete accettato di recarvi in Sicilia sulla base di indizi così vaghi, solo per procurarci finanziamenti? Ho udito decine di narrazioni contadine su luci nel cielo e improbabili giganti. Sanno tutti che il nostro re, più invecchia, più confida nel soprannaturale». «Esperienze che non rientrano nelle leggi di natura ne abbiamo avute anche noi» rispose Eymerich, molto seccato. «Alcune recenti». «Pensavo che vi sareste messo subito a indagare su Ramón de Tàrrega e su dove sia finito dopo avere lasciato un mezzo porco al suo posto». «È ciò che ho fatto e che voglio continuare a fare. Ascoltate ciò che dice il Liber Vaccae». Eymerich sfogliò il manoscritto. «Siamo all'esperimento numero dieci. Si intitola Ut videantur gigantes. Traduco il testo, molto corrotto: "Quando incenserai con questo preparato, vedrai dei giganti i cui piedi saranno sulla terra e le teste in cielo, tanto che gli
uomini ne avranno timore e resteranno stupefatti. Prendi spuma d'argento, una ranocchia, del cinabro, del sangue d'usignolo...". Va bene, non vi descrivo tutti gli ingredienti della fumigazione. Credo che abbiate capito ciò che ho immaginato». Bagueny scosse il capo. «Capisco cosa volete concludere, magister, ma vi ritengo una mente troppo logica per cadere in una simile incongruenza. Va bene, sia qui a Barcellona sia in Sicilia si verificano fenomeni che sembrano ispirati da quel testo maledetto, il Liber Aneguemis, però del manoscritto esistono sicuramente molte copie e nulla impedisce di ritenere che, nell'isola, qualcuno che non sia Ramón de Tàrrega ne stia usando le ricette. Inoltre i tempi non coincidono. Ramón è "morto" e ha forse sostituito il suo presunto cadavere con quello di un mostro appena ieri. Prima era in cella e quindi non poteva trovarsi in territorio siciliano». «Io, invece, credo di sì». Eymerich chiuse il manoscritto e si alzò. Non era affatto in collera con il confratello. «Venite con me, frate Bagueny. Facciamo due passi fuori del convento. Strada facendo, vi spiegherò il motivo delle mie convinzioni». Si corresse. «No, chiamarle convinzioni è troppo. Diciamo dei miei sospetti». I due domenicani si avviarono lungo i corridoi di Santa Catalina. Gli usci di molte stanze erano spalancati per via del caldo. All'interno si scorgevano novizi e religiosi immersi nella lettura, oppure riuniti su panche attorno a un anziano che spiegava il significato di passi biblici o di trattati filosofici. Non mancavano gli uditori laici, distinguibili dalle vesti civili. C'erano persino mercanti dal largo berretto piumato e notai con l'abito nero imposto dalla loro professione. Mentre scendeva le scale, Eymerich disse, quasi con entusiasmo: «Vedete, frate Bagueny, cosa distingue l'ordine di San Domenico dagli altri mendicanti? San Francesco, con tutto il riguardo, non sapeva leggere né scrivere. Consigliava ai suoi fraticelli di non prendere mai in mano un libro. I più gli hanno obbedito e si compiacciono di vivere nell'ignoranza più crassa». «Be', è un diverso approccio alla stessa causa» obiettò Bagueny, tanto per dire qualcosa. Eymerich corrugò la fronte. «Niente affatto. È il cammino più sicuro verso l'eresia. Si finisce con l'asserire che il puro amore, e non una logica di stampo aristotelico, possa condurre a Dio. Si venera un mistico come Raimondo Lullo e varie sante vaneggianti, piuttosto che Tommaso d'Aquino. L'esito sono le credenze fantasiose che ispirano la corona d'Aragona, i beghini, i begardi e le mille varietà di fanatici». Bagueny annuì e tuttavia obiettò: «Nel nostro Studio di Parigi, e prima ancora a Tolosa, mi hanno insegnato che era esigenza dei domenicani contrastare i catari della Linguadoca e le loro argomentazioni capziose. Per questo noi ci dedichiamo allo studio, e i francescani no». «È vero, ma ciò non li giustifica» rispose Eymerich con un sogghigno mentre varcava il portone e metteva piede nella piazza antistante il convento. «In Linguadoca c'erano anche i seguaci di san Francesco, ma chi ha affrontato sul serio gli eretici siamo stati noi, i Domini canes. Prima smantellando le loro argomentazioni, poi bruciandoli vivi. I francescani sono solo riusciti a partorire i poverelli, i Celestini e così via. Tanto più miseri e ignoranti quanto
più incamminati verso la pura ignominia ereticale. Verrà il tempo in cui bruceremo anche loro». «Non direte sul serio, magister!» «No, scherzavo. Periranno prima per troppa ignoranza». La piazza ospitava un mercato, riparato dal sole da tendaggi sorretti da un groviglio di corde. Il vocio era assordante. C'erano banchetti di infusi, di frutta, di pesce. Alcuni venditori erano arabi, ma non mancavano gli ebrei. Su tappetini posati sul selciato, attorniati da un pubblico schiamazzante venivano lanciati i dadi. Circolavano porci in libertà, cani, gatti e galline, inseguiti dai proprietari. Eymerich fece una smorfia di disgusto. «Non voglio essere toccato da questo volgo pulcioso. Seguitemi, frate Bagueny. Stiamo di lato e raggiungiamo un posto più tranquillo. È scandaloso che un convento domenicano, il più importante di Catalogna, sia assediato da una tale mandria di pezzenti». La piazza antistante la cattedrale di Barcellona era molto più quieta. Non era un rifugio dei domenicani, che le preferivano, per svolgere i processi e le altre attività inquisitorie, la chiesa di Santa Maria del Mar. Eymerich invitò Bagueny a sedere accanto a lui su una sporgenza di marmo, sotto la facciata. Gli bastò uno sguardo per disperdere una combriccola di storpi che stava arrancando nella loro direzione, in cerca dell'elemosina. Si rilassò. «Qual è il vostro problema?» chiese a Bagueny. Si rispose da solo. «Non volete andare in Sicilia». Il caldo era feroce, e frate Pedro dovette tergersi le sopracciglia e la fronte. Ne scendevano gocce di sudore che gli irritavano gli occhi. «Sì, è così. Ve lo dico con sincerità». «Tranquillizzatevi, non ho mai pensato di portarvi con me». Eymerich era molto sereno. Godeva della grande calura e non sudava per niente. Tollerava bene il caldo torrido o, se necessario, il freddo estremo. «Avete i vostri incarichi, la vostra carriera da futuro teologo, una scuola da seguire. Siete già stato a Parigi?» «Sì. Il nostro Studio è ottimo, ma la qualità morale degli allievi è pessima. L'assedio delle prostitute è continuo, e la maggioranza degli studenti non resiste alla tentazione. Alcuni finiscono per perdersi sul ponte dello Châtelet, gremito di fanciulle, e per introdursi nella Corte dei Miracoli. Oppure muoiono assassinati, o si mescolano alla malavita». Eymerich, invaso da ricordi che avrebbe preferito dimenticare, allargò le braccia. «C'è un lato positivo in questo. Distogliere i novizi dalla turpe sodomia, per poi ricondurli, una volta maturi, sul cammino onorato della castità». Fissò il confratello. «Torniamo alla questione che ci interessa. Vi chiedevate perché Ramón de Tarrega, se fosse ancora vivo, non potrebbe che trovarsi in Sicilia». Bagueny annuì. «In effetti il vostro ragionamento mi risulta oscuro e un po' forzato, magister. Avere assistito a un prodigio che pare tratto dal Liber Aneguemis non induce a
pensare che, per via di eventi siciliani in apparenza dovuti alla stessa fonte, Ramón si sia dislocato laggiù». «In effetti no. Ricordate tuttavia i manoscritti che possedeva. Uno forniva un indizio». «Quale testo? Erano quasi tutti a vostra firma. E quale indizio?» Eymerich si alzò. «Se vi è sfuggito, ripensateci. Vedrete che l'indizio può tradursi in prova». Si asciugò la fronte delle poche gocce di sudore che vi erano comparse. «Non amo esporre congetture. Sapete dove era recluso frate Ramón prima di essere trasferito a Monte Síon?» «Non ne ho idea». «Era segregato proprio a Santa Catalina, in una delle celle sotterranee che fungono occasionalmente da prigione. Non l'abbiamo ancora ispezionata. È tempo di farlo». I due domenicani scesero, due strade più in là, un piano fangoso con rivoli d'acqua sporca che scorrevano nell'acciottolato. Non esistevano, a Barcellona, i canaletti di origine romana per far defluire i liquami, comuni nelle grandi città del regno di Castiglia. Non esisteva nemmeno un sistema fognario degno di quel nome. Periodicamente le strade venivano allagate per rimuoverne la sporcizia. Tra un'inondazione artificiale e l'altra, il puzzo toglieva il respiro, specie nelle zone declinanti verso il mare, come i quartieri più antichi e più asfittici del porto. I più sporchi in assoluto, a dispetto degli alberelli stenti piantati per rallegrarli. Varcato il mercato e raggiunto il convento, Eymerich e Bagueny scesero nei sotterranei. Non vi erano sorveglianti perché, al momento, non vi erano prigionieri. La scarsa illuminazione proveniva da grate poste in alto, che davano sulla via. Tra i vani umidicci adibiti a cantine (i domenicani, parchi nel cibo, si ponevano pochi limiti riguardo al vino) fu facile individuare quello che era stato usato come prigione. Era l'unico contenente un pagliericcio adagiato al suolo e un modesto mobilio. Su un tavolo, largo ma sbilenco, erano posate alcune candele: una consunta nella propria bugia e altre cinque intatte. Non mancava un acciarino, simile a un 8 di metallo. La dotazione consueta che l'ordine di San Domenico forniva agli affiliati perché potessero studiare anche la notte. Mancavano i libri, a parte alcuni fogli sparsi. Bagueny accese una candela e, fatta colare qualche goccia di cera nella bugia, ve la infilò. Eymerich sfogliò rapidamente le carte manoscritte. «Questo sembra confermare certi miei sospetti» disse «ma devo controllare». «Azzardo troppo se vi chiedo di cosa sospettate, magister?» chiese Bagueny con cautela. «A Ramón de Tàrrega sono attribuite quattro opere in tutto, però due di esse circolano anche a firma di Raimondo Lullo, il De secretis e il De alchimia et metallorum metamorphosi. Queste pagine sembrano dimostrare che proprio Ramón fu l'autore se non altro del secondo trattato. A meno che non lo stesse semplicemente ricopiando». «Cosa concernono quei fogli?» Bagueny seguitava a parlare in maniera circospetta, quasi temesse che Eymerich si irritasse.
L'inquisitore notò l'atteggiamento e gli sfuggì un sorrisetto. «Sono disquisizioni sulla "quintessenza": un quinto elemento a parte rispetto ad acqua, aria, fuoco e terra. Impalpabile e organico a una sfera spirituale comune a tutti gli esseri senzienti».
«A parte ciò che mi avete detto, non ne ho mai udito parlare». «Né udrete parlarne in futuro, finché non sarò tornato dalla Sicilia». «Ancora una volta, magister. Perché proprio la Sicilia?» Eymerich perse la pazienza. «Non tentate di trarmi in inganno, frate Pedro, e di farmi rivelare cose che, per ora, sono riservate. Arrivateci voi stesso. Tutti i tasselli del mosaico sono sotto i vostri occhi. Provate a unirli». Il suo timbro si fece beffardo. «Volete diventare maestro di logica? Questa è una buona occasione per esercitarvi in quella disciplina». L'inquisitore radunò i fogli, soffiò sulla candela e tornò nel corridoio, seguito dal confratello, assai perplesso. Quasi urtò suor Magdalena, che arrivava di corsa. Le chiese, sorpreso e adirato: «Che cosa fate voi qui? Una monaca, per di più in semiclausura, in un convento maschile! Come vi giustificate?». Accadde allora il più strano dei fenomeni. Già Magdalena gli sembrava più alta di come la ricordava. Era pallidissima e respirava a fatica. Il suo viso era stravolto, e la sua matura bellezza pareva un ricordo. «Sono prigioniera!» gridò. «Siamo tutti prigionieri!» Subito dopo dall'ansa del corridoio giunse di corsa un essere nano, con l'abito domenicano e un muso porcino. Protendeva braccini che terminavano in zoccoli. Li agitava grugnendo. Appena lo vide, suor Magdalena corse via. Il mostro la inseguì finché non scomparvero entrambi. Vinto da un'emozione che gli aveva fatto dolorare il petto, Eymerich non aveva saputo come reagire. Si premeva una mano sul cuore, quasi che il gesto avesse potuto rallentarne i palpiti. Frate Bagueny, sconvolto dal terrore, si era addossato alla parete e cercava di regolarizzare il ritmo della respirazione. Era il più colpito, ma fu il primo a parlare, dopo tre segni di croce consecutivi. «Magister, che cosa abbiamo visto?» Eymerich, che boccheggiava ancora, rispose con voce rauca, interrotta da profondi respiri: «Abbiamo visto un'apparizione del demonio, che altro? Stavolta duplice. Satana cerca di confonderci, ma non l'avrà vinta. Ormai intuisco i suoi calcoli». «Satana o Ramón de Tàrrega?» Ritrovato un sufficiente equilibrio mentale, Eymerich replicò, abbastanza convinto: «Non vedo la differenza. Uno dei due ci sta sfidando, è palese. Il padrone o il servo. Combatto incarnazioni del Maligno da una vita. Lo vincerò». «Cosa vi rende così sicuro?»
«L'evidenza. Dio resta, in campo, la potenza più forte». Eymerich gonfiò il petto. «Per questo esiste l'Inquisizione ed esistono i domenicani. Siamo un'armata che Dio ha radunato per combattere in suo nome. Non monaci contemplativi e ignoranti, ma soldati». Espirò lentamente e così riacquistò una calma totale. «Venite, saliamo». «Nelle nostre stanze?» «No, bisogna che torniamo a Monte Síon. Dobbiamo scoprire se suor Magdalena è ancora là, oppure se veramente stava fuggendo inseguita da un fantasma». Nell'atrio, Eymerich interpellò il portinaio, detto anche receptor hospitum. «Qui a Santa Catalina tenete dei cavalli?» La richiesta sbalordì il frate converso che esercitava la funzione, alterando la sua espressione normalmente placida e gentile. «Che dite, magister? Sapete meglio di me che i Predicatori non cavalcano. Si spostano a piedi». «Io sono un Predicatore molto speciale. Non abusate del mio tempo» ringhiò Eymerich. Indicò l'esterno. «Lungo le mura del convento ho notato una stalla. Ripeto la domanda: vi sono ospitati dei cavalli?» Il receptor hospitum parve intimorito. «Ce ne sono alcuni, ma non appartengono a noi. Li lasciano lì i laici che assistono alle lezioni del nostro Studio». «Bene, ne sequestro due, i migliori. Spero che siano già sellati. Aiutatemi a slegarli». «Voi sequestrate... Ma non è possibile, padre! Dovrei prima interpellare i proprietari, o quanto meno sentire il priore». «Io comando più del priore. Interrogatelo e ve lo confermerà. Adesso fatemi strada fino alla stalla, oppure dovrò considerarvi complice del demonio e delle sue astuzie per ostacolarmi». Poco più tardi, subito dopo che i campanili di Barcellona ebbero scoccato l'ora nona, Eymerich e Bagueny percorrevano i viottoli in salita che conducevano all'altura di Monte Síon. L'andatura era moderata per via della pendenza, non perché le strade fossero ingombre: a quell'ora, e con il caldo che faceva, non si vedevano passanti in quella zona della città. Gli animali pesantemente bardati che i due frati montavano non erano avvezzi a trottare e si trascinavano stancamente. Eymerich, privo di speroni, ogni tanto percuoteva il suo cavallo sul collo, perché accelerasse. Riusciva solo a farlo nitrire e sbandare. «È il ritratto stesso della nobiltà barcellonese» sbottò. «Carica di orpelli, indolente e attratta solo dal cibo». «A proposito di cibo» disse Bagueny «io ho mangiato ma voi no, magister. Siete digiuno da molte ore. Non avete appetito?» «Il digiuno fortifica e depura l'organismo, frate Pedro. È la capacità di digiunare che fa sì che la maggior parte dei nostri confratelli goda di buona salute. Anche nei periodi non canonici, dovreste mangiare pure voi molto meno. Ne trarreste benefici fisici e mentali».
Bagueny evitò di replicare perché ormai erano in cima alla salita, e solo poche case nascondevano la visuale del monastero delle Mantellate. Superato che ebbero quell'agglomerato di bicocche, entrambi i domenicani lanciarono un grido. Davanti a loro non c'erano le arcate gotiche di Monte Síon e i giardini che le circondavano. Si ergeva invece un ampio castello tetro, con una torre circolare sporgente, un mastio, vari edifici quadrangolari e i mattoni delle mura anneriti dal fumo. Non era solo la visione inattesa a far pensare a un incubo: la fortezza aveva i contrafforti piantati sui lembi di una penisola circondata da un mare nebbioso che si perdeva a vista d'occhio. I cavalli si imbizzarrirono. Bagueny ruzzolò a terra, invece Eymerich riuscì a domare il suo. «Che nuova diavoleria è questa?» ruggì l'inquisitore. Temette di perdere la ragione. Il fragore delle onde lo assordava, e un vento caldo gli bruciava la pelle.
6.Un'infanzia difficile -1 Non è realmente stupido. È più che altro timido, timidissimo. Ha paura di tutto. Non vuole essere baciato, abbracciato. A volte mi fa fare di quelle figure... Mi capita di chiedermi se sia davvero mio figlio». Di frasi come questa, Nicolas ne udiva di continuo, tanto che aveva smesso di prestarvi attenzione. Sua madre, soprannominata Llum (in castigliano Luz) per la fulgida bellezza che l'aveva resa nota da giovane, apparteneva alla famiglia dei Marrell. Un casato che aveva fruito di una regola di promozione sociale vigente forse solo a Gerona. Chi aveva contribuito alla costruzione della cattedrale e ne assicurava il mantenimento era equiparato alla nobiltà. Lo zio di lei, Guillem Marrell, un ecclesiastico che era stato rettore dell'ospedale di Pedret, non solo aveva finanziato l'allestimento dell'altare maggiore, ma si era accollato anche, quasi per intero, le spese della cappella di San Tommaso. Ciò aveva garantito a Llum un prestigio di cui lei si compiaceva, riverberato sul poco illustre marito, morto di colera poco dopo la nascita di Nicolau/Nicolas. Le aveva anche assicurato un'eredità cospicua, comprendente la grande casa – non proprio un castello, ma dotata di una torre – in cui abitava con l'unico figlio, sulle rive del fiume Onyar. Bellezza un po' appassita e dovizia le consentivano di ricevere le visite di gentildonne e gentiluomini dal cognome più illustre del suo: i Palau, i Banes, i Belloc, i Sarriera, fino a esponenti dei rami minori dei Cruîlles o dei Rocaberti. A otto anni, Nicolas era un bambino tranquillo, di aspetto grazioso, poco chiacchierone. Non aveva amici e, ovviamente, nemmeno fratelli, visto che la madre non si era risposata (e
amava troppo essere corteggiata per pensarvi seriamente). Non gradiva venire mostrato agli ospiti, ma non si ribellava. I commenti su di lui preferiva dimenticarli, pensando ad altro. «Fino all'anno scorso era bellissimo, lo avete visto anche voi» disse la madre alle altre dame. «Era biondo come un cherubino. Aveva quelle orribili lentiggini, per fortuna scomparse. Con loro, purtroppo, è sparito anche il colore dei capelli. Adesso è castano. Temo che me lo ritroverò moro». «Suvvia, Llum, che c'è di male?» chiese Beatriu Belloc, sollevando il naso troppo lungo da un piattino di frutta candita. «Tutti i miei figli sono mori e nessuno può dire che non siano carini. Anche Nicolas lo è. Peccato solo che sia così poco espansivo».
«È il mio cruccio. Sembra che viva in un mondo tutto suo, e non mi piace. È religioso, questo sì, e va volentieri in chiesa, ma non familiarizza con gli altri bambini. Preferisce frequentare piuttosto quel prete domenicano, Dalmau Moner». «Non è un male, amica mia» commentò Isolda Banes. «Padre Dalmau è ritenuto in odore di santità. Le sue prediche contro gli eretici sono tanto affollate che per entrare in chiesa bisogna fare la fila. È un uomo di ferro. Anche tuo figlio lo sarà, se ha un simile educatore». «Il mio Nicolas "di ferro"?». Llum scoppiò in una risata argentina. «Il suo giocattolo preferito è una bambola di terracotta. Ha comportamenti da femmina: rifugge i giochi virili e non esce per timore di essere aggredito da ragazzi più forti. Aspetto solo un secondo figlio per mettere Nicolas in convento». «Un figlio da chi?» chiese Beatriu, maliziosa e divertita. «Con tutti i corteggiatori che ho, finirò per trovare il padre giusto, capace di darmi un maschio che sia un maschio. Con delle nozze regolari, è evidente. E un cognome più importante di un banale "Eymerich", degno di un ciabattino o di un sellaio». L'attenzione si era spostata da lui, e Nicolas ne approfittò. Indietreggiò a passi lenti verso l'uscita del salotto. Nessuna delle dame gli badava. Varcate le tende di velluto, corse via. Sì, ma dove? Contò sul fatto che non lo avrebbero cercato e tuttavia non volle rientrare nella propria cameretta, dove era facile ritrovarlo. Scese nei sotterranei, sperando di non essere scorto. Vi aveva creato un proprio rifugio segreto in una cella dal soffitto a volta che conteneva una enorme botte di vino abbandonata all'invecchiamento. Il locale non era umido né buio, perché riceveva luce e aria da una grata rettangolare piuttosto grande. Lì Nicolas nascondeva oggetti e immagini che, ai piani superiori, precettore e camerieri gli avrebbero sottratto, magari per eccesso di zelo, senza un ordine preciso di Llum. Conservava in quella cella un quadro di piccole dimensioni che aveva osato trafugare da uno degli altari della chiesa di San Domenico. Rappresentava una figura dalle ali spiegate, con una spada in mano e in atteggiamento bellicoso. Il nome lo conosceva, e lo conoscevano tutti: san Michele arcangelo. Aveva rubato e nascosto la sua effigie non per fini disonesti,
ma perché l'immagine lo affascinava quanto le massime che gli impartiva padre Dalmau. Ne era anzi la sintesi visuale. Erano frasi dure, ripetute all'infinito: «Non siamo venuti a portare la pace, ma la spada. Lo diceva Cristo, vale a maggior ragione per noi». «Sconfiggere il male richiede attitudine al combattimento. La pace è una virtù se il campo di battaglia è stato pacificato con l'annientamento dei nemici. I concetti di pax romana e di pax cristiana coincidono. Il cattolicesimo ha preso forma nell'impero di Roma, non fra le tribù di pecorai della Palestina». «La carità è un dovere, ma solo nei riguardi di chi supplica la resa. Se nel groviglio dei serpenti morti uno agita ancora la testa, non c'è pietà possibile: va calpestato». Una volta Nicolas, benché sedotto da quelle massime, aveva replicato: "Padre Dalmau, io non somiglio all'arcangelo Michele. Sono mingherlino, spaventato da tutto, incapace di reagire alle burle e agli assalti. Non esco di casa per non essere deriso o percosso. Le vostre regole mi piacciono, però sembrano fatte per bambini diversi da me". Dalmau Moner aveva sorriso, cosa rarissima in lui, poi gli aveva carezzato i capelli, ancora biondi. "Ti sei espresso come un adulto, non come un bambino. Un infante non riflette sulle sue debolezze. Tu sì... Nicolas, ti aiuterò a tradurre il timore in forza. Solo chi è spaventato si addestra ad aggredire. Ti trovi all'inizio di un percorso molto lungo. Alla fine dell'insegnamento, chi ti faceva paura avrà paura. Sei pronto a seguirmi?" "No. Voglio unicamente rimanere per conto mio." "E ci rimarrai, te lo garantisco. Anche troppo. Ma prima cercherò di indirizzarti sulla via scelta da noi domenicani per servire Dio: il Bene combattente, armato di spada e di flagello. Un percorso difficile, che puoi rifiutare. Dimmi se credi di poterlo imboccare." "Sì." "Bene, piccolo. D'ora in poi ti troverai sul lato più forte dei poteri in conflitto. Colpire il nemico, annientare chi si ribella. Esistono altre direttive, ma questa è la principale." L'ordine era la passione di Nicolas. La cella in cui si rifugiava, malgrado la presenza della grande botte che non riusciva a spostare da solo, era un esempio di lindore. Aveva eliminato ogni tela di ragno ‒ dopo avere calpestato, uno per uno, tutti i ragni ‒ e asportato dal pavimento le scaglie di tintura cadute dalla volta. Aveva disposto ben allineati, su un tavolino esattamente parallelo alla parete, gli oggetti che lo interessavano e occupavano i suoi momenti di libertà: la grande bambola che sua madre aveva cercato più volte di distruggere, con occhi espressivi e una capigliatura fulva, e altri pupazzetti che lui faceva agire con il personaggio principale, improvvisando dialoghi in falsetto. Una morsa scovata su un banco da falegname, finito in cantina chissà come, veniva usata quale strumento di tortura. Vi imprigionava gli insetti che odiava ‒ grilli, cicale, cavallette, scarafaggi, farfalle ‒ , capitati nel suo rifugio. Gli facevano orrore, ma non mentre li sottometteva alla procedura che li avrebbe condotti alla morte. In quei casi diventava
metodico. Stretto il corpo orrendo nella morsa, lo sezionava con l'aiuto di un coltellino. Via una zampa, via le antenne, via le ali. Un brusco giro di vite faceva esplodere il carapace e schizzare attorno gli intestini. L'alternativa era dare fuoco all'animaletto ancora vivo. In quel caso i residui sarebbero stati più esigui e non troppo ripugnanti. Una paletta li raccoglieva con facilità. «Nicolas! Nicolas! Sei lì sotto?» Era il precettore che lo chiamava. Frate anche lui, del convento di San Pedro de Galligans, ma non della pasta di Dalmau. Un benedettino grasso, di indole niente affatto combattiva. «Salgo subito, frate Mateu!» Nicolas si accertò che tutti i suoi tesori fossero sistemati con cura, salutò la bambola e uscì dalla cella. Il suo terrore era che qualche domestico scendesse a ispezionare il suo rifugio, magari per mescere del vino. Non era un'eventualità molto probabile: le botti in uso erano altre e occupavano i locali più prossimi alla scala. Frate Mateu lo aspettava sulla soglia della cantina in un atteggiamento che voleva essere severo, ma non vi riusciva. Era un uomo di aspetto bonario, prossimo all'obesità. I capelli intorno alla chierica erano riccioluti, il colorito roseo, le labbra tumide. Agitò un dito grosso e tozzo. «Ti nascondi sempre, Nicolas. Finirai per diventare una specie di gatto selvatico... e un po' lo sei già. Hai studiato le pagine della Leggenda aurea che ti ho indicato?» «Sì, fratello». «Le hai apprese a memoria?» «Sì, anche se non capisco bene...». «Il senso?» Mateu sospirò. «Lo so, sono pagine difficili. Un bambino come te deve impararle, poi le capirà da grande». «Non intendevo questo» osò ribattere Nicolas. «Quel che non riesco a capire è perché devo tenerle a mente. Il significato mi è chiaro, sono storie molto elementari. Se potessi solo leggerle sarebbe tutto più facile». «Ah, birbante!» esclamò frate Mateu, peraltro senza adirarsi veramente. Afferrò il bambino per un orecchio, stando però attento a non fargli del male. «Cosa vuoi saperne, tu, dei metodi di insegnamento? Ora andremo nello studio, e mi reciterai riga per riga la storia dei santi Primo e Feliciano... Ti auguro di non sbagliarne nemmeno un passaggio... Poi mi dirai senza confondere una parola la pagina della Doctrina puerilis che ti ho copiato». Trascinò Nicolas verso la scalinata che portava ai piani superiori. Non si aspettava di sicuro l'uscita del bambino. «La Doctrina alia puerilis parva non l'ho nemmeno sfiorata. Mi rifiuto». Frate Mateu spalancò la bocca e lasciò l'orecchio dell'allievo. «E perché mai?»
«Perché l'ha scritta Raimondo Lullo. Un eretico». Lo stupore del benedettino era al culmine. «Chi ti ha raccontato una simile menzogna?» Frate Mateu sembrò sul punto di percuotere il bambino. Nicolas si protesse il capo con le mani, ma non moderò il tono. «Padre Dalmau Moner. Lui non dice menzogne. Non voglio leggere un libro scritto da un eretico!»
7.La spada nella mente L'allucinazione durò solo pochi istanti, poi subentrò di nuovo la visione consueta di Monte Síon. Eymerich scese da cavallo, tornato quieto, e aiutò Bagueny a rialzarsi. Provava una sensazione strana, quasi di nausea. Braccia e gambe gli tremavano. Si concentrò sul confratello, che aveva bisogno di aiuto, e ciò lo aiutò a offuscare ‒ di poco ‒ l'incubo appena vissuto. «Come vi sentite, frate Pedro?» domandò scrutandolo in volto. Bagueny fece pressione sui gomiti per sollevare il busto. Aveva gli occhi sbarrati. «Potrei stare meglio» mormorò. «Che cosa avete visto, magister? Io un grande castello in riva al mare». «Io pure. Ma non siamo stati i soli a vivere l'abbaglio. Ha spaventato anche i cavalli». «Un'esperienza allucinatoria può capitare, ma di solito è individuale». «In questo caso è stata collettiva». Eymerich, accigliato, porse la mano a Bagueny e lo aiutò a rimettersi in piedi. Per fortuna i cavalli non si erano allontanati e brucavano erba. Li legarono alle colonne in legno che reggevano il tetto sporgente di una baracca, in apparenza disabitata. «Non ci resta che andare al monastero» disse l'inquisitore. «Suor Magdalena, se è ancora viva, può darci qualche spiegazione». Il senso di nausea gli stava passando, così come il tremore. Bagueny era ancora pallido e aveva il respiro affannoso. Seguì il magister zoppicando leggermente. La caduta non era stata indolore.
La custode, nel vedere i domenicani, manifestò un vero terrore, tuttavia non si oppose al loro ingresso. Suor Magdalena uscì a riceverli sotto le volte a sesto acuto del chiostro, ombroso e rinfrescato da una fontanella circolare. Il viso della superiora era atteggiato a un'espressione gelida, apertamente ostile. Nonostante ciò, parlò in un tono garbato che certo doveva costarle fatica. «Mi stupisce rivedervi tanto presto, padre Eymerich. Che cosa posso fare per voi?» «Dov'eravate stamattina, madre?» chiese l'inquisitore, che detestava i preamboli. La superiora sembrò meravigliarsi. «Dove avrei dovuto essere? Mi trovavo qui, come tutti i giorni, a svolgere le mie mansioni». «Non siete scesa al convento di Santa Catalina?» «No, come avrei potuto?» Lo stupore della suora aumentò. «È un convento maschile, e a Monte Síon vige un regime di semiclausura. Potrei recarmi a Santa Catalina solo su richiesta del vescovo o del provinciale dei domenicani... che se non erro siete voi». «No, siete male informata. Non sono più io il provinciale, è Jacopo Dóminico, che riveste la carica già da dieci anni. Non lo avete mai sentito nominare?» La madre superiora fece un debole sorriso. «Noi Mantellate non abbiamo la stessa posizione dei frati del nostro ordine. Siamo escluse dalle decisioni e dalle votazioni, e se apprendiamo qualcosa sullo svolgimento dei capitoli generali è per sentito dire. Ho udito parlare di padre Jacopo Dominico, però il nome più menzionato, negli ultimi anni, è stato il vostro. Ero convinta che aveste ripreso la direzione della Provincia». «Non è così, e non è per questo che ho chiesto di vedervi». Eymerich non aveva voglia di narrare la vicenda complessa che gli aveva fatto perdere la funzione. Era molto colpito dall'aria di assoluta sincerità che aveva Magdalena, anche nell'accennare a un tema a lui sgradito. Cercò la domanda più giusta da porre. «Accade mai che voi o le vostre consorelle vediate cose che non potrebbero e non dovrebbero esistere? Intendo strani panorami, persone che paiono reali e poi svaniscono, fantasmi bizzarri?» Il viso della donna palesò un'improvvisa angoscia. Si portò le mani al petto, come se volesse soffocare i palpiti del cuore. «Come lo sapete?» sussurrò. «Rispondete!» ingiunse Eymerich, altrettanto emozionato. «Sono mesi che accadono fenomeni simili a quelli che descrivete». Magdalena era impallidita, e i lineamenti del suo viso erano contratti. «Ciò succede sia a me sia alle altre suore. Vediamo, tutte assieme, spettacoli illusori, bizzarri, spaventosi, a volte osceni. Chiudiamo gli occhi e ci abbandoniamo alla preghiera. Seguono un senso di nausea e, più tardi, un'esperienza dolorosa e inconsueta, che non saprei descrivervi bene. Come se qualcuno vi estraesse dalla mente una spada rovente che vi era conficcata». «Perché non me ne avete parlato? Qualcuno ne è al corrente? I vostri confessori?»
Magdalena abbassò lo sguardo, mentre le sue guance recuperavano un poco di colore. «No. Ve l'ho detto, a volte le allucinazioni sfiorano l'oscenità. Non è conveniente parlarne, né è materia da confessionale. Si tratta di esperienze involontarie e dunque non peccaminose. Almeno, io non le giudico tali». «Non spetta a voi giudicare alcunché» rispose Eymerich, ma il suo timbro suonava meno rude delle parole. Rimase soprappensiero, finché non domandò: «Tra questi incubi a occhi aperti c'era anche quello di trovarvi in un castello circondato dal mare?». La madre superiora rialzò gli occhi. «No, niente di simile, padre». «Ne siete certa? Magari una delle altre monache ha visto qualcosa del genere e ve ne ha parlato». «Lo escluderei. Crediamo tutte di vedere la stessa cosa, nello stesso istante». «E poi vi raccogliete in preghiera per allontanare il prodigio». «Sì. C'è qualcosa di sbagliato in questo?» «No, direi di no» borbottò Eymerich. «Di sbagliato c'è l'avere lasciato al prigioniero che dovevate custodire i suoi libri. Di chi è stata l'idea di allontanarlo da Santa Catalina e di condurlo qua?» Magdalena fu felice di potersi finalmente discolpare. «È stata del priore, padre Borrell. Io non avevo né il potere né la volontà di ordinare un provvedimento del genere. C'erano lavori in corso nel convento dei domenicani, e così Ramón de Tàrrega è stato condotto qui, in via transitoria. Aveva con sé molti libri, però il priore non ci ordinò di sottrarglieli». «A chi era affidata la guardia?» «A nessuno. Non certo a noi monache, che non siamo autorizzate a frequentare un uomo. Lo si teneva sempre rinchiuso, pareva quieto e gentile. Una volta al giorno veniva da Santa Catalina frate Antonio Folquet, con alcuni servi armati. Davano cibo al recluso e gli vuotavano il bugliolo». Frate Bagueny sussultò. «Folquet! Il mio amico! Perché mandavano proprio lui?» «Suppongo che non ci sia una ragione precisa» rispose suor Magdalena. «Era semplicemente un incaricato scelto da padre Borrell. Si tratteneva il tempo necessario ad assolvere il suo compito, poi se ne andava». Eymerich cominciava a rivedere il proprio giudizio iniziale sulla madre superiora. Parlava con onestà indubbia e non si sottraeva ad alcuna domanda. Si era portati a credere a tutto ciò che raccontava, in base a criteri non solo logici, ma anche intuitivi e, in certa misura, emotivi. Il volto di Magdalena – benché non perfetto, sostanzialmente bello nella sua maturità (lei doveva essere più prossima ai cinquant'anni che ai quaranta) – era improntato a una serenità di fondo presente anche nell'inquietudine.
Ma non erano certo quelle considerazioni estetiche che potevano distogliere Eymerich dalle proprie indagini. «Nessun altro, a parte frate Folquet, ha mai fatto visita a Ramón?» «Sì, ma una sola volta. Dovreste conoscerlo, perché a Gerona abitate nello stesso convento domenicano. Padre Bernat Ermengol, o Bernardo Ermengaudi, in castigliano. Non so cosa si siano detti, lui e il carcerato. Non ero autorizzata a presenziare al colloquio». Se la madre superiora avesse menzionato Lucifero, non avrebbe potuto impressionare di più l'inquisitore. Eymerich scoccò uno sguardo a Bagueny, che lo ricambiò. Dopo un breve silenzio, il piccolo frate disse: «Già ci ossessiona a Gerona e adesso lo ritroviamo anche qua. Mischiato a una storia di diavoli e di alchimisti, e in visita a un eretico confesso». Incapace di strizzare un occhio solo, Bagueny li serrò entrambi. «Magari è la volta buona che ci liberiamo di lui, magister. Forse il nostro convento geronese tornerà alla calma, dopo anni di guerra civile». Eymerich scrollò il capo. «Al momento non abbiamo nessuna prova, frate Pedro». Si rivolse a Magdalena con un garbo in lui poco frequente. «Ci siete stata d'aiuto, madre, e vi ringraziamo. Noi rientriamo a Santa Catalina e tra pochi giorni ripartiremo per Gerona. Se si verificassero altri eventi insoliti, non mancate di avvisarmi». «Lo farò certamente, padre Nicolas». «Preciso: avvertite solo me e nessun altro confratello di Santa Catalina. Se mi trovassi già a Gerona, inviatemi un messo. Voglio sapere per primo cosa accade qui». «Sarete obbedito». L'atteggiamento di Magdalena era cambiato quanto quello di Eymerich. Ora lo guardava con una simpatia che quasi sconfinava nell'attrazione. Gli sorrise, prima di dirgli: «Dominus vobiscum». «Sia anche con voi, madre». I due domenicani furono accompagnati all'uscita dalla monaca portinaia, ancora un po' spaventata. Mentre attraversavano i giardini davanti a Monte Síon, per raggiungere le loro cavalcature, frate Bagueny osservò: «Si direbbe che Santa Catalina sia un nido di vipere peggio di San Domenico a Gerona. Folquet non ci ha detto nulla delle sue visite frequenti a Ramón de Tàrrega. Quanto al priore Borrell…». Si interruppe e lanciò un grido. Anche Eymerich emise un gemito e quasi perse l'equilibro. Avvertiva nella testa una sensazione dolorosa e strana, che lo accecava: come se qualcuno vi avesse infilato un ferro e lo estraesse mentre gli risucchiava dal cervello chissà quali succhi. Durò un attimo, ma fu un'esperienza sconvolgente. Riacquistò subito la padronanza della vista e del proprio corpo. Boccheggiò e si aspettò di rivedere il castello proteso sul promontorio. Invece nulla. Tutto il dolore era svanito, e l'unico mare che vedeva era, in fondo a una distesa di tetti, quello di Barcellona divorata dal sole pomeridiano. «Suor Magdalena ci aveva avvertiti» articolò con fatica appena si fu ripreso completamente. «Alle allucinazioni segue un dolore che fa pensare alla ferita bruciante di una spada. Avete avuto la stessa impressione, frate Pedro?»
Bagueny, intontito, si teneva ancora la nuca. «Oh, sì, magister! Un dolore insopportabile, però molto breve». «Questo mi fa pensare a una sequenza prestabilita, quasi meccanica» rispose Eymerich. «Un'azione che causa obbligatoriamente una reazione. Tutto il contrario delle dinamiche dei sogni e degli incubi». «Cosa ne concludete?» «Non ho sufficienti indizi per concluderne alcunché. Torniamo ai cavalli. Forse Antonio Folquet potrà illuminarci, se non altro sul fatto che vedeva Ramón de Tàrrega ogni giorno e non ce lo ha riferito». La discesa fu più agevole della salita. Mancava un'ora al vespero, e Barcellona, grazie all'attenuarsi del calore, si era rianimata. Le sue stradine strette erano gremite di gente di ogni razza, capitata in quel porto per migrazione naturale o perché sbarcata dalle galee che ogni giorno vi approdavano a decine. C'erano sardi, napoletani e siciliani giunti dalle colonie o ex colonie del potente regno d'Aragona. I genovesi, malgrado l'antica ostilità nei confronti dei catalani, cercavano merci a prezzo conveniente, oppure trascinavano al mercato file di schiavi mori incatenati. I musulmani vendevano, sui loro banchetti ombreggiati da tende, bevande che sapevano di mandorla o stoffe finemente dipinte. In botteghe meglio riparate, al pian terreno delle case, gli ebrei attendevano nella penombra chi fosse abbastanza ricco da interessarsi ai monili d'oro di cui facevano commercio. Erano già spuntate le prostitute, d'ogni popolo e razza, che sostavano sotto le frasche appese all'ingresso delle taverne. Simile calca rallentava l'andatura. Disgustato, Eymerich disse a Bagueny, che gli cavalcava a lato: «Non bastava il fetore dei viottoli mal lavati. Anche questa umanità assortita puzza di lerciume». «Ne troverete di simile in ogni grande città, magister. Parigi non era differente». «Mai e poi mai prenderei Parigi a modello. Vi confluisce la schiuma della terra. Fosse per me, la fulminerei all'istante». A Santa Catalina, per prima cosa, Eymerich convocò nella propria cella frate Antonio Folquet. Il giovane arrivò subito, serio come sempre. Peli ispidi gli orlavano le guance. Era fresco di tonsura, e la sommità del cranio nudo era arrossata. Bagueny sedette sul pagliericcio del magister per assistere al colloquio. «Non mi avevate detto della vostra consuetudine di recarvi a Monte Síon ogni giorno, per portare alimenti al prigioniero» esordì Eymerich. «Un silenzio molto grave, per non dire sospetto». Folquet non mostrò turbamento. «Padre, le nostre brevi conversazioni non hanno mai toccato l'argomento. In effetti a Monte Síon vado spesso in veste di cappellano, per decisione del priore. Prima frequentavo il monastero quale converso, e prima ancora come donato: uomo incaricato delle mansioni più umili». «Avete prestato giuramento di obbedienza nelle mani di suor Magdalena?'>
«No, nelle mani del priore. Per questo ora mi trovo a Santa Catalina e non negli alloggi riservati alla manodopera maschile a Monte Síon». Eymerich, in piedi come il suo interlocutore, incrociò le braccia. Stava per affrontare la parte decisiva dell'interrogatorio, mentre la sera che calava cominciava a oscurare la stanza. «Avrete parlato qualche volta a Ramón de Tàrrega. Come vi è parso?» «Un individuo bislacco, spaventato, niente affatto torbido. Viveva dei suoi libri. Li teneva cari perché era certo che, prima o poi, sarebbero stati tutti bruciati». Folquet abbozzò un inchino. «Devo dire che la maggior parte di quei manoscritti erano firmati da voi, magister». «Sciocchezze. Si trattava di falsificazioni». Eymerich, un poco stanco, si sedette su uno sgabello, benché lo infastidisse che l'interrogato lo sovrastasse. «Avete mai intrecciato con il detenuto discussioni di tipo filosofico?» «Una sola volta, ma interruppi subito la conversazione. Ramón citò l'eretico Arnaldo da Villanova, verso il quale provava un'ammirazione incondizionata, specie in riferimento a ciò che Arnaldo scrisse nei periodi trascorsi in Sicilia. A quel punto minacciai il prigioniero di spedirlo al rogo e lo diffidai dal parlarmi ancora. Lui obbedì». «È stata l'unica discussione di quel tipo?» «Sì. La prima e l'ultima. Nei successivi incontri quotidiani si comportò come un cane bastonato. Silente, a parte occasionali uggiolii. Si gettava sul cibo e lo divorava, tal quale una bestia. Smagriva a vista d'occhio e tuttavia non si staccava dai suoi libri». Eymerich meditò un poco, prima di chiedere: «Frate Antonio, nelle vostre visite a Monte Síon avete mai avuto visioni incongrue? Come vedere luoghi ignoti, creature inesistenti o altro di simile?». «No, però questo accadeva ad alcune monache che ascoltavo in confessione. Avevano allucinazioni spaventose. Soprattutto una sorella di età avanzata. L'ho avuta nel mio confessionale. Scorgeva d'un tratto, in pieno mattino, immagini orripilanti». «Per esempio?» chiese Eymerich ansioso. «Giganti deformi, scesi da strane navi immobili nel cielo. Uomini con testa di animale e genitali equini. Esseri inconcepibili fatti di parti di cadavere, in grado di marciare a dispetto di una putrescenza avanzata. Fortezze siciliane protese sul nulla, strette nelle grinfie di una colossale deità pagana...». Eymerich alzò una mano e troncò quelle rivelazioni. Era colpito, ma anche freddo e lucido. «Perché mi parlate di "fortezze siciliane"? Che cosa vi fa pensare a quella terra?» «Chi ci pensava era la suora, originaria della Sicilia. Purtroppo non la potrete interrogare. È morta alcuni mesi fa. Non ne ricordo nemmeno il nome». «Le sue dichiarazioni in confessione non vi inquietarono?» Lo sguardo di Eymerich, già sospettoso, si fece severo. «Non vi spinsero a indagini più accurate?»
Frate Folquet allargò le braccia. «Indagare su cosa? La vecchia monaca era chiaramente pazza. Delirava. Parlava a caso come certe vetulae che dicono di incontrare il demonio in città tutte d'oro e diamante, e di esserne possedute per via anale». «Il suo caso non era unico, per vostra stessa ammissione». «No. Soggiaceva a incubi simili anche la priora, Magdalena. Come molte altre monache». Folquet si strinse nelle spalle. «Dopo avere confessato tantissime domenicane, mi sono fatto l'idea che, per le appartenenti al nostro terz'ordine, la castità sia un voto duro da sopportare, magister. Reagiscono all'astinenza coltivando fantasie. Quella di cui dibattiamo è un'espressione esemplare del disagio riscontrabile tra le Mantellate. Non tutte, ma quasi». Eymerich aveva apprezzato l'eloquio limpido con cui Antonio Folquet si esprimeva, la serietà del giovane, il rigore delle sue argomentazioni. L'ammirazione destinata a un buon attore. Si chinò su frate Bagueny. «Che ne pensate, frate Pedro?» Il domenicano, sorpreso di essere interpellato, si sollevò dal pagliericcio e pose i piedi al suolo. Le parole gli uscirono rapide di bocca. «Penso che il mio ex amico Folquet sia una canaglia, aduso alla menzogna. Un furfante che ci spaccia false piste, mescolate a bugie. Andrebbe imprigionato immediatamente e sottoposto a tortura, finché ci confessi la verità». Eymerich sogghignò. «Concordo. Andate a cercarmi dei famigli armati. E mastro Gombau, se è ancora nei pressi».
8.Dove imperano i Lestrigoni Frate Folquet, completamente nudo, era al centro di un sotterraneo umido, nelle cantine labirintiche di Santa Catalina. Non vi erano finestre, e le uniche luci erano quelle di due torce appese alle pareti a volta. Il silenzio era totale, nello scantinato, salvo il cadere irregolare di gocce d'acqua. Le ombre dei presenti venivano ingigantite dalle fiamme che fumigavano i muri. Il prigioniero aveva i polsi legati dietro la schiena da una corda molto grossa, che scorreva in un gancio fissato al soffitto. Ne teneva l'estremità mastro Gombau, fiancheggiato da due aiutanti incappucciati, giovani e robusti. Portavano il cappuccio anche il notaio e lo scrivano reclutati per l'occasione, assisi a un lungo tavolo. Erano invece a volto scoperto Eymerich, che sedeva al centro del banco, e Pedro Bagueny, alla sua sinistra, in veste di inquisitore vicario. Due famigli, con l'alabarda in pugno, sostavano sotto l'arcata d'uscita. Eymerich schivò una goccia proveniente dalla volta. Si alzò in piedi. «Chi mi conosce sa che sono contrario alla tortura, che spinge l'imputato a dire qualunque cosa, e alle confessioni
estorte. Però voi, frate Antonio Folquet, avete messo a prova la mia pazienza, a furia di mentirmi». «Non saprei come». Costretto a una posizione umiliante, curvo in avanti per via del laccio che gli serrava i polsi dietro la schiena, lo studente in teologia cercava di mantenere una certa dignità. «Non ho capito quale sarebbe la mia menzogna». Eymerich lasciò il tavolo e si accostò alla sua vittima. Fece un sorriso beffardo. «Fosse una sola! Sospetto che siano una quantità... Siete stato a Monte Síon tutti i giorni, per mesi, e pretendete di avere parlato a Ramón de Tàrrega solo una volta». «È così, a parte frasi occasionali tipo "ecco il vostro cibo", "volete ancora acqua?" e simili». «A me è bastato salire lassù un paio di volte per avere allucinazioni. A voi invece non è mai capitato, in un intero semestre». «No, ve l'ho detto. Succedeva alle monache». Folquet sembrava piuttosto sicuro di sé. «E, malgrado descrivessero nella confessione eventi diabolici e pazzeschi, non avete mai ritenuto doveroso informarne i vostri superiori, l'Ordine, l'Inquisizione. Non c'è traccia di vostri rapporti scritti». «Il priore ne era al corrente. Quanto a me, ritenevo comprensibili quei vaneggiamenti. Nelle femmine obbligate alla castità, si verificano gli attacchi di isteria segnalati da Ippocrate. Ne consegue che...». «Continuate a mentirmi» lo interruppe Eymerich. Si rivolse a mastro Gombau e ai suoi aiutanti. «Procedete! Sempre che il notaio lo consenta». L'incappucciato fece segno di sì. Bagueny capovolse la clessidra per misurare la durata della quaestio, che non doveva oltrepassare la mezz'ora. I carnefici tirarono la corda. Frate Folquet fu sollevato. Lanciò un grido e prese a sgambettare. Si udì il crocchiare delle sue braccia. Dopo un poco dalla gola gli uscì un urlo prolungato, monotono. Eymerich gli si fece sotto. Gli diede una spintarella, come per controllare che fosse appeso bene. Folquet si sgolò per il dolore. Pronunciò anche qualche parola. Forse disse: «Mio Dio, mio Dio! Non fatemi questo!». Le frasi risultarono difficili da udire. Eymerich si rivolse allo scrivano che verbalizzava. «Potete scrivere: "Ohi! Ohi! L'accusato si lamenta"». Tornò a concentrare l'attenzione su Folquet. «Fratello, ditemi dunque la verità. Vi sentite pronto a farlo?» La sua voce era melliflua, quasi compassionevole. «Sì! Sì» strillò l'uomo appeso. «Calatelo» ordinò Eymerich. Folquet, incapace di reggersi sulle gambe, cadde seduto. L'inquisitore lo contemplò con disprezzo. «Costui aspira a una vita di sacrifici, eppure non riesce a tollerare nemmeno un dolore transitorio» commentò, non rivolgendosi a nessuno in particolare. Girò attorno al prigioniero, senza scopo apparente, come se stesse
passeggiando, le mani incrociate dietro la schiena. Di punto in bianco si piegò su di lui e gli urlò in un orecchio: «Perché non avete fatto rapporto? Ve lo dico io. Perché avevate le stesse visioni delle monache! È vero o non è vero?». «Il priore sapeva tutto, e anche molti confratelli. Ne ho parlato in loro presenza durante il Capitolo delle colpe». Frate Folquet alludeva a un'usanza dei Predicatori ben nota a Eymerich. Ogni mattina, al termine delle Laudi, i membri professi della comunità conventuale che fossero incorsi in qualche infrazione la denunciavano nella sala capitolare. Il priore assegnava una forma di penitenza, d'abitudine molto lieve. La cerimonia si concludeva con la lettura del Salmo 126. «Dunque di colpa si trattava» disse Eymerich. «Cosa vedevate, nei vostri abbagli?» «Castelli sul mare, e altri inerpicati sui monti. Attorno, villaggi in cui incedevano creature smisurate, scese da vascelli luminosi ancorati nel cielo. Affamati di carne umana, come i Lestrigoni di cui parla Omero». Eymerich era perplesso. «Avere simili incubi non era di per sé peccaminoso. Perché li denunciaste come tali?» «Perché somigliavano all'isteria delle suore. In quelle visioni erano spesso presenti donne ignude, e uomini che si accoppiavano con loro con la violenza». «Parlaste di tutto ciò con Ramón de Tàrrega?» «No, mai». «Siete un bugiardo». Eymerich fece un cenno a mastro Gombau e ai suoi aiutanti. «Sollevate quest'uomo». Folquet lanciò un grido e si ritrovò a sgambettare. Frate Bagueny rivoltò la clessidra: secondo l'interpretazione del magister, quella era una nuova sessione della quaestio, e non la prosecuzione della precedente. Il calcolo della mezz'ora iniziava da quel momento. Eymerich, a braccia incrociate, assistette al dimenarsi di Folquet, finché lui non rimase immobile, pur seguitando a urlare. Solo allora gli chiese: «Mi direte la verità?». «Sì! Sì!» Con molta calma, l'inquisitore dettò allo scrivano. «Potete mettere: "Il prigioniero, al secondo tratto di corda, seguita a gridare 'ohi! ohi!'. Si dice pronto alla confessione". Avete scritto? Mastro Gombau, calatelo di nuovo». Questa volta Folquet, sceso in ginocchio, era in condizioni davvero penose. Tossiva e aveva conati di vomito. Le sue braccia, strette ai polsi dalla corda, erano gonfie e bluastre, simili più a sanguinacci che a membra umane. Aveva gli occhi lucidi di lacrime, la fronte e il collo sudati.
Eymerich prese uno sgabello da un angolo e si sedette di fronte alla sua vittima, i gomiti sulle ginocchia e i palmi a reggergli il viso. «Ora mi direte la verità?» sussurrò. «Sì, ma datemi da bere, vi supplico». La voce di Folquet era rauca. Il domenicano pareva febbricitante. «Berrete dopo». L'inquisitore interpellò Bagueny. « Prendete nota, frate Pedro, a futura memoria. La quaestio è in sé inutile, lo ribadisco. Può essere di ausilio solo quando si sa che l'accusato è colpevole senz'ombra di dubbio». «Immagino che questo sia destinato al manuale che state scrivendo, magister». «Esatto. Il Directorium inquisitorum. L'ho quasi finito, però le aggiunte dell'ultimo momento sono innumerevoli». Eymerich riportò la propria attenzione su Folquet, che boccheggiava. Scosse il capo. «Decisamente non siete portato al martirio. Tanto meglio. Ditemi adesso dei vostri colloqui con Ramón de Tàrrega sui sogni a occhi aperti, e di come ve li ha spiegati». Il giovane frate parlò a fatica, tra colpi di tosse e nuovi conati. «Secondo lui erano paesaggi siciliani quelli che vedevamo io e le monache». «Perché proprio siciliani?» «Non me l'ha mai rivelato». «Dunque discuteste con lui molte volte». Ci volle un poco perché Folquet si decidesse a mormorare: «Sì». «Quante volte?» «Quasi tutti i giorni». Eymerich si alzò dallo sgabello e si portò di fronte a Bagueny. «Scrivete anche questo, frate Pedro». Rifletté per qualche istante e dettò: «"L'inquisitore appare spesso, agli occhi degli ignoranti, una persona inutilmente crudele. Invece, nello schiacciare senza pietà l'errore eretico, egli agisce a beneficio non solo della comunità cristiana, ma anche dello stesso reo. Incapace di confessare spontaneamente il peccato mortale di cui si è macchiato, e peccaminoso nel mentre cerca di negarlo"». «Un altro passo del Directorium?» «No. Destino questo brano a un'invettiva contro Lullo e i suoi seguaci». Bagueny terminò di far scricchiolare la penna d'oca sul foglio. «Sono stato io il primo a intuire che Folquet mentiva». Eymerich lo fulminò con lo sguardo. «Dimenticate rivendicazioni così futili, frate Pedro. Ma dimenticate soprattutto che all'illuminazione divina si giunga tramite intuizione, e non per via logica. Cadreste nella stessa pravità dei lullisti, dei begardi o dei poverelli». Intimidito, Bagueny armeggiò con il calamaio per distogliere da sé l'attenzione.
Eymerich tornò allo sgabello. L'accusato sembrava essersi ripreso in parte dal dolore, tuttavia teneva gli occhi bassi e non mostrava traccia di arroganza. Soddisfatto, l'inquisitore stimò inutile infliggergli un nuovo tratto di corda. «Ramón vi ha mai parlato di un eretico che operò a lungo in Sicilia, Arnaldo da Villanova?» domandò. «No, mai». «Di Raimondo Lullo?» «Nemmeno». «Non vi disse niente dei libri che leggeva?» «Non ricordo nessuna occasione in cui l'abbia fatto». «D'accordo, tra un istante penzolerete ancora». Prima che Eymerich impartisse l'ordine a mastro Gombau, Folquet si affrettò a dire: «Aspettate! Ora ricordo! Di qualcosa mi parlò!». Aveva la voce impastata, e le sillabe gli uscivano confuse, a volte difficili da decifrare. «Avrei bisogno di un poco d'acqua. Ve ne supplico». «Più tardi l'avrete». Eymerich lasciò cadere le mani in grembo. Atteggiò la sua espressione a grande pazienza. «Ditemi, dunque. Quali erano le letture preferite di Ramón? Lullo, Villanova o chi altri? Fece menzione del Liber Aneguemis?» «Quest'ultimo non l'ho mai sentito nominare. Si interessava piuttosto all'opera di tale Michele Scoto. Nato in Scozia, ma vissuto in Sicilia oltre un secolo fa. Medico e astrologo alla corte di Federico di Svevia. Nel suo Liber Consecrationis...». «Liber Consecrationum» corresse Eymerich. «No, Consecrationis, ma forse sono lo stesso trattato... erano nominati demoni dai nomi più fantasiosi, da invocare all'occasione. Non per peccare, ma per renderli servi nel nome di Cristo. Rator, Lampoy, Dronoth, Lestrigon, Autokratopis, Satula... Gli altri non li ricordo, erano decine». «E nemmeno questo avete ritenuto opportuno segnalare all'Inquisizione? Un elenco di diavoli?» «Il fatto è...» Folquet, con la bocca piena di catarro, tossì fino a espellerne un grumo. La sua fronte era arrossata. Forse aveva la febbre. «Datemi da bere, magister. Non riesco a parlare». In effetti, la loquela del giovane prigioniero, interrotta da lunghi intervalli tesi a raccogliere saliva, diventava sempre più asmatica e sempre meno comprensibile. Ciò non preoccupò Eymerich. Quanto più il corpo nudo che aveva di fronte si rattrappiva, per malessere fisico o per paura del dolore incombente, tanto più lui sentiva di dominarlo. Notò con soddisfazione
che Folquet non riusciva a trattenere le feci né l'urina. Una pozza nauseabonda gli si era formata tra le ginocchia. Ormai era suo. «Tra breve berrete quanto vorrete. L'ultima vostra frase è stata: "Il fatto è". Suppongo una giustificazione del perché le tesi di Ramón abbiano potuto persuadervi della loro ortodossia». «In un certo senso sì... Lui non adorava i demoni, li combatteva, li temeva. Riteneva però giusto dominarli e servirsene, come in fondo fa Nostro Signore». La voce di Folquet era ridotta a un sospiro roco, a un bisbigliare spezzato e balbettante. «Intendeva, insomma, "farsi Dio", per così dire». «Sì. Era un'espressione che usava spesso». «Me lo aspettavo». Eymerich si strinse la radice del naso tra pollice e indice, come per riflettere. Chiuse gli occhi e li riaprì un attimo dopo. Si era chiesto se il giovane frate meritasse di perire sul rogo o solo, per ingenuità, una pena severa. «Antonio Folquet, tra i nomi dei demoni citati da Michele Scoto nel Liber Consecrationis avete fatto quello di Lestrigon. Non sarà stato per caso "Lestrigonon", al plurale?» «Sì, può essere». «Ve ne ha parlato? Vi ha accennato a qualche caratteristica peculiare, a qualche virtù o potere? Di solito i negromanti abbondano in dettagli, e Michele Scoto non fu da meno». «Non ricordo». «E che vi disse del diavolo che avete nominato subito dopo, Autokratopis?» «Anche in questo caso non mi ricordo. Credetemi». Eymerich lo incalzò. «Ramón de Tàrrega, riferendosi a Scoto, non potrebbe avere detto, invece: "Lestrigonon Autokratopia", cioè "l'impero dei Lestrigoni"? Suonerebbe più logico». «Non lo so. Può darsi. Vi giuro che non lo so!» Folquet faticava sempre più a pronunciare le parole in maniera intelligibile. Sudava, sbavava, piangeva. Cercava inutilmente di mantenere un qualche decoro. Giunse le mani. «Dell'acqua, vi prego!» Eymerich lo contemplò con una specie di curiosità prima di alzarsi e di dire a Bagueny: «E sia! Date da bere a questo disgraziato. Procuratevi un grosso imbuto e un vaso d'acqua». «Un imbuto? Un vaso?» «Certo. Non ricordate i tre gradi della quaestio? Prima la corda, poi l'acqua, infine il fuoco. Non credo che, in questo caso, sarà necessario giungere fino al terzo grado».
«Volete continuare a torturare questo poveretto? Versandogli in gola galloni d'acqua?» Bagueny era esterrefatto e molto pallido. «Io no, ho altro da fare» rispose Eymerich. «Ci penserete voi. All'inizio non diceva nulla, poi ha cominciato a confessare. Deve dirci ancora parecchio sui suoi colloqui con frate Ramón, sui Lestrigoni, sugli incubi in pieno giorno. Verbalizzate parola per parola mentre lo riempite d'acqua. Vomiterà, sputerà, sarà colto da diarrea. Fate ogni tanto delle pause e mettete le confessioni per iscritto». Bagueny appariva sconvolto. «Magister, Antonio Folquet era mio amico!» «Tanto meglio. Sarà meno reticente, in mano vostra». Eymerich lasciò lo scantinato e salì la scalinata lunghissima, ritorta come una serpe, che conduceva al piano superiore. Alla sommità ansimava, il cuore gli batteva rapido. Maledisse l'età e i primi acciacchi. Lo confortò essere investito, attraverso le trifore di Santa Catalina, dal sole che arroventava Barcellona. Si avvicinava l'ora nona, la più infuocata, e il mercato antistante il monastero non aveva più clienti. Gli ambulanti svuotavano i banchetti, che avrebbero riaperto di lì a due ore. I mendichi, carichi delle immagini sacre con cui tentavano di conquistare la pietà del prossimo, cercavano un porticato che li riparasse dalla morsa del solleone. Eymerich trovò il priore, Francesc Borrell, in una delle aule del secondo piano, intento a fare lezione ai novizi. Stava commentando, assieme al lector principalis, un brano dei Libri IV Sententiarum di Pietro Lombardo, un'antologia dei Padri della Chiesa. Una lettura obbligata per chiunque intendesse accostarsi alla teologia. Eymerich rimase sull'uscio, a braccia incrociate, finché il priore non si accorse di lui. Padre Borrell posò il libro aperto sulle ginocchia e gli sorrise. «Benvenuto, fratello Nicolas. Accomodatevi pure. Volete aggiungere la vostra scienza al mio umile insegnamento?» «No, vorrei comunicarvi qualcosa. In privato, naturalmente». Borrell si rivolse alla classe: una trentina di giovani in tonaca bianca, più un paio di visitatori occasionali. I laici erano in maggior numero durante le lezioni del mattino, quando la temperatura era meglio tollerabile. «Forse non tutti sanno chi sia questo nostro amico. È Nicolas Eymerich da Gerona, inquisitore del regno, magister theologiae, cappellano del nostro papa Gregorio, sapiente di chiara fama. È un onore averlo nostro ospite». Il lector principalis, un domenicano grasso di una quarantina d'anni, si alzò in piedi e fece un inchino; gli studenti applaudirono. Eymerich ringraziò con un cenno, ma ripeté: «Devo parlarvi. Subito».
Il priore continuò a sorridere, per quanto ogni segno di cordialità stesse sparendo dal suo sguardo. «Tra meno di mezz'ora avrò finito il mio corso. Dopo sarò a vostra disposizione per il tempo che vorrete». «Ho detto subito». «Voglio terminare la mia lezione». Spazientito, Eymerich proruppe: «Non potete!». Francesc Borrell, offeso, alzò il mento in un atteggiamento di sfida. «E perché, di grazia, non potrei?» «Perché siete scomunicato. Di lezioni non ne terrete mai più».
9.Cataclisma Due giorni dopo avere scomunicato in pubblico nientemeno che padre Francesc Borrell, priore di Santa Catalina, Eymerich era a burrascoso colloquio con Berenguer de Arìl, vescovo di Barcellona. Il dialogo si svolgeva sotto le volte altissime di Santa Maria del Mar, in cui l'inquisitore aveva spesso allestito cerimonie spettacolari di abiura o di condanna, e tenuto orazioni educative. L'edificio gli piaceva. Prossimo ai moli, era stato costruito con il contributo dei bastaixos, i lavoratori del porto. Non aveva troppe decorazioni esterne, né faceva concessioni alla leggiadria. Era semplicemente solenne, austero, possente, come Eymerich avrebbe voluto che fosse l'intera Chiesa cattolica, apostolica e romana. «Questo scandalo deve cessare» stava dicendo il vescovo, che conteneva la propria collera con visibile sforzo. Passeggiavano lentamente sotto la navata centrale. «La notizia della scomunica del priore per fortuna non è ancora circolata, ma è questione di giorni, se non di ore. Quando sarà nota, travolgerà lo Studio domenicano e soffocherà nella vergogna l'intera struttura di Santa Catalina, tanto importante per questa città. State danneggiando il vostro stesso ordine, ve ne rendete conto?» Eymerich era assolutamente tranquillo e padrone di sé. «Monsignore, avete impiegato due giorni per accordarmi questo colloquio e ancora non mi avete chiesto quali colpe io attribuisca a padre Borrell». «Avevo pensato a uno scherzo, oppure a una frase ironica che vi fosse sfuggita. Solo ieri sera il priore è venuto da me in lacrime. Una parte del convento ha smesso di obbedirgli perché vi teme, altri lo seguono, i più sono incerti e attendono gli eventi. È uno stato di cose insostenibile, inaccettabile!»
«Inaccettabile è ciò che ha commesso Francesc Borrell. Mi pare di capire che non ve ne ha fatto parola». «No, e non mi interessa. Lo conosco bene: è un sant'uomo dotto e profondo, un insegnante stimato, dal comportamento impeccabile». Berenguer de Aríl si fermò al centro della navata e posò l'indice sul petto dell'interlocutore. «State attento, padre Eymerich. Dovunque mettiate piede, seminate la divisione. So che è così anche nel vostro convento di Gerona. Fomentate discordie, create partiti contrapposti. A Barcellona non permetterò che questo avvenga». «Volete dire che non sottoscriverete il mio atto di scomunica?» «No di certo. Non sono pazzo quanto voi». Eymerich non perse la calma. Gli accadeva sempre di mantenersi impassibile nel corso di controversie in cui riteneva di avere ragione... cioè tutte quelle in cui si era impegnato. Erano le occasioni in cui più freddamente stabiliva le proprie strategie. Fece un inchino rispettoso per sottrarsi a quel dito che lo infastidiva e parlò in un tono colmo di riguardo. «Vi ringrazio per avermi espresso con tanta franchezza la vostra opinione, monsignore. Sapete quanto me che il vostro parere è consultivo. Vi rifletterò a lungo. In seguito deciderò se mantenere la scomunica oppure annullarla». Il vescovo trasecolò. «Senza il mio consenso non avete il potere di scomunicare nessuno!» «Mi dispiace di essere il primo a informarvene, ma non è così. La giurisdizione di un inquisitore si arresta solo di fronte alle alte gerarchie del clero, per cui deve interpellare il papa, e ovviamente di fronte al papa stesso». Curvò le labbra in un tenue sorriso. «Rassicuratevi, dunque. Non sarei abilitato a scomunicare voi, né tanto meno un cardinale, senza un previo consulto con un pontefice. Un qualunque priore domenicano, invece, rientra nella mia sfera d'azione». Monsignor Berenguer era ancora in preda allo sconcerto. «Quali colpe avrebbe commesso padre Francesc?» «Finalmente me lo chiedete. Ha ricevuto informazioni precise su fenomeni demoniaci, confessati in pieno Capitolo delle colpe. Ha saputo di visioni sataniche e non ha preso provvedimenti. Ha tollerato per mesi familiarità tra un suo inviato e un noto negromante. Non vi paiono colpe sufficienti per escludere un priore dall'ambito della Chiesa? Cos'altro occorrerebbe per convincervi?» Berenguer de Aríl, benché turbato, non si diede subito per vinto. «Le vostre speculazioni, se non erro, nascono dai vaneggiamenti di uno studente di teologia, tale Antonio Folquet, da voi sottoposto a tortura e dunque pronto a confessare non importa cosa. La parola di un uomo ancora giovane, e costretto a parlare, contro quella di un anziano religioso in fama di santità». «Vi vedo molto più informato, monsignore, di quanto lo foste all'inizio di questo utile scambio di opinioni». Il mezzo sorriso di Eymerich volse alla cattiveria. «Le confessioni di
Folquet hanno trovato riscontri, alcuni dei quali ho vissuto personalmente. Tento di risalire la catena delle complicità. Portano in alto». «Siete uno stolto! Rischiate di demolire l'intero edificio ecclesiastico! Di espellerne, a furia di sospetti, gli elementi migliori!» «La Chiesa, epurandosi, si rafforza. Non l'ho detto io: lo ha scritto, nel De Antichristo, il vescovo Ippolito. Se disconoscete la mia autorità, monsignore, accetterete di sicuro la sua». Berenguer de Aríl non sapeva più come replicare. Ciò che disse equivaleva a una resa. «Spero che abbiate in mano elementi più solidi di semplici indizi. Vi prego solo di ritirare la scomunica formale, padre Nicolas. Davvero, può causare danni irreparabili. Interrogherò io stesso il priore Borrell e, se ha qualcosa da nascondere, lo costringerò a rivelarla». Eymerich capì che era il momento di passare alle maniere morbide. «Ve ne sono grato, monsignore. Sì, ritiro la scomunica. Fermerò il messo che stava per portarla ad Avignone. Vi chiedo però un favore». «Dite». «Sguinzagliate tutto il clero per Barcellona alla ricerca di Ramón de Tàrrega. Che parroci, frati, preti, suore e diaconi interroghino i fedeli ed esplorino i ripostigli più occulti in cerca dell'evaso. Questo io non posso ordinarlo, voi sì. Lo farete?» «Sì, lo farò» promise il vescovo dopo una breve pausa per riflettere. «Pensate che l'eretico sia ancora nascosto in città?» «Credo l'esatto contrario, che si trovi molto lontano. Ma cercarlo qui è una bisogna indispensabile, ancorché forse inutile. Naturalmente, sarebbe opportuno avvertire il re di quanto...». La frase di Eymerich rimase monca a causa di una brusca oscillazione del suolo, che fece scricchiolare le mura solide della basilica. Alcuni candelieri caddero a terra, varie tele si staccarono dai chiodi che ne reggevano la cornice. Piovvero calcinacci, una colonna si incrinò, l'altare maggiore parve fendersi. Una vetrata esplose in una doccia di frammenti. Si udiva un rombo cupo salire dal profondo. Le canne dell'organo tremarono, e qualcuna si inclinò. I due religiosi corsero all'aperto attraverso la porticina ricavata nel battente. All'esterno regnava il panico. Le tende dei venditori che occupavano la via tra la basilica e il porto si accartocciavano su se stesse, i legni si inclinavano e si spezzavano con rumori secchi. I passanti fuggivano in ogni direzione strillando, gli animali – polli, maiali, muli, fino ai gatti e ai topi – correvano lanciando i versi propri della loro specie. Tutto l'acciottolato era diventato instabile e mostrava gobbe. Lastre e fasci di paglia cadevano dai tetti. Il mare, invece, era calmissimo, increspato da una brezza leggera. Una galea si stava accostando a colpi di remi al molo, ignara di ciò che avveniva a terra.
Eymerich avvertì un senso di nausea che già conosceva. Fu per lui illuminante. Benché detestasse toccare il prossimo, afferrò il braccio del vescovo, che fuggiva a gambe levate. «Fermatevi, monsignore. È una catastrofe effimera. Tra poco passerà». Berenguer de Aríl si divincolò. «Non è un'allucinazione! Guardate!» Alludeva a una casupola che si stava affossando, sepolta dal cedimento del tetto in ardesia. Ne uscirono appena in tempo una donna che urlava e alcuni bambini, seguiti da due uomini che reggevano una vecchia incapace di camminare. Subito dopo l'edificio implose e si sbriciolò, alzando una nube di polvere. Fu l'ultima manifestazione del terremoto. In un attimo il terreno smise di oscillare, e il paesaggio di rovine si stabilizzò. Il sisma non aveva causato vittime umane. Quanto agli edifici, era riuscito a danneggiare o a far crollare solo i più precari. La galea, abbassati i remi, stava attraccando. Il còmit si sporgeva oltre la fiancata, stupito di non vedere bastaixos a cui lanciare la cima. Eymerich, passato l'attacco di nausea, commentò cupo: «Ha cercato di eliminarci, o forse, più probabilmente, di eliminare me. Questa volta con scosse telluriche, invece che tramite le false visioni o gli incubi a cielo aperto. Segue, passo passo, le istruzioni dei suoi maestri e dei suoi trattati di stregoneria». Il vescovo sembrava sul punto di svenire. Era pallido come la cera e tuttavia sudava abbondantemente. Per via del sole che non dava tregua – erano allo scoperto in un pomeriggio che scottava – ma anche per uno stato febbrile dovuto alla paura. Aveva la bocca secca. Deglutì più volte prima di poter profferire parola. «A chi vi riferite, padre Nicolas?» «A Ramón de Tàrrega. È ovvio. Vi vedo spaventato, signor vescovo» aggiunse Eymerich maliziosamente. «Non sarà meglio lasciare agire contro il diavolo chi con il diavolo ha confidenza?» «Sì, vi ho già dato carta libera» rispose monsignor Berenguer. Espresse un ultimo segno di cautela. «Abbiamo assistito comunque a un fenomeno che in natura è frequente». «Salvo la penisola iberica, dove è molto raro. Compresa la Catalogna». Eymerich alzò le spalle. «Smettiamo di perdere tempo. Ramón, negromante e giudeo, è l'uomo che voglio avere in pugno. Voi mi aiuterete?» La risposta del vescovo fu esitante. «Farò il possibile». «Ho la vostra parola e ci conto. Vi ringrazio, monsignore. Dio sia con voi». «Anche con voi». Eymerich si affacciò nelle vie adiacenti. Come aveva sospettato, nessuna casa aveva riportato danni significativi. La gente era per strada solo perché attratta dal frastuono. Si ritrasse prima che qualcuno potesse notarlo ed eventualmente reclamare da lui una benedizione. Non aveva tempo da sprecare. Tornò al lungo piazzale, più che altro una
carreggiata piuttosto larga, antistante Santa Maria del Mar. I mercanti – non solo catalani, ma anche castigliani, levantini, arabi, africani – erano impegnati a risollevare tende e banchetti. Un'unica abitazione, quella che si era afflosciata sotto i suoi occhi, appariva completamente distrutta. Forse aveva una struttura troppo fragile per sostenere un'oscillazione del suolo certo intensa, benché brevissima. Radunata davanti alle macerie, la famigliola piangeva, in special modo la donna anziana. Gli altri edifici avevano subito danni secondari. Profittando dell'agitazione, Eymerich raggiunse, senza farsi notare, la galea che era appena approdata. Gli scaricatori erano riapparsi e le si affollavano attorno, pronti a trasportare a terra le merci. Un capo della loro confraternita stava scegliendo gli uomini meglio adatti al compito. L'inquisitore notò un nauxer – incaricato, insieme ad alcuni compagni di rango, a trasmettere alla ciurma gli ordini del capitano e a farli eseguire – sostare ozioso sul molo. Contemplava quell'angolo del porto come per valutarne i danni e pareva immerso nei propri pensieri. Gli si avvicinò. «Signore, la galea è molto grande. Trasporta solo merci o anche passeggeri?» Il marinaio, sorpreso di essere interpellato da un religioso, si tolse il largo berretto, rivelando una calvizie avanzata. «Fratello, a volte alcuni passeggeri si uniscono a noi. Devono solo concordare con il comito il prezzo del trasporto». «Dove andrete, lasciata Barcellona? In qualche altra città del regno o in alcuna delle colonie?» «Facciamo la spola tra il continente e la Sardegna. Siete per caso interessato ad andarvi? Penso che il mio capitano vi accoglierebbe volentieri». «Non toccate la Sicilia?» «No, ma da tutti i porti sardi sono frequenti gli imbarchi per le altre isole. Sicilia, Corsica o anche Maiorca». Eymerich ragionò tra sé, facendo alcuni calcoli su un calendario ideale. «Quando salperete?» «Fra tre o quattro giorni. Cinque, se le merci da trasportare sono molte». «Ottimo» commentò l'inquisitore. «Potete riservarmi un posto? Lo pagherà il principe Giacomo in persona». Il nauxer pose la mano destra sul petto e chinò il capo. «Lo riferirò al nostro còmit. Sarà un onore avervi a bordo e condurvi in Sardegna». «Ci conto». Eymerich frugò in un sacchetto appeso alla tonaca, sotto il mantello, e ne trasse alcune monete, che mise in mano al marinaio. «Ci vediamo domattina per il pagamento e tra pochi giorni per la partenza».
Fu ringraziato da un nuovo volteggiare del berretto. «State sicuro, padre. Vi allestirò l'abitacolo migliore che abbiamo: sottocoperta e al riparo dalle intemperie. Vi aspetto. Porterete con voi altri passeggeri?» «No, non ne prevedo. Badate solo che la mia cabina sia libera da insetti e ben pulita. Non mi servono mobili, a parte la branda». «Provvederò a prepararvi un vano nella zona meno umida, e a farlo fumigare». Eymerich, soddisfatto, si allontanò dalla nave e imboccò i vicoli che, dal porto, arrivavano al centro di Barcellona. Tutto era intatto, nessun casamento presentava fenditure. Pareva che gli abitanti di quei quartieri non si fossero nemmeno accorti del sisma. Gli uomini di fatica portavano gerle o sostavano, con il bicchiere in mano, sotto la frasca che indicava l'ingresso di un'osteria. Le donne, di condizione servile o schiave catturate nel Levante, passavano a folate con cesti e vasi destinati ai padroni. Le lavandaie si dirigevano al fiume più vicino reggendo fasci di abiti e lenzuola. Bottegai arabi o ebrei stavano sulla soglia di negozi bui in attesa di clienti. Dappertutto si vedevano bambini, spesso nudi, che giocavano tra loro o si divertivano a inseguire gatti e maiali. Eymerich svoltò dopo la cattedrale e, davanti a Santa Catalina, trovò in attesa il priore. Non si aspettava quell'incontro e ne fu seccato. «Che cosa volete?» gli chiese brusco. «Confessarmi con voi, in modo da persuadervi della mia innocenza». «Non ho tempo». «Lo immagino, padre, ma il sacramento della confessione mi è dovuto. Fa parte dei doveri che voi e io condividiamo». Eymerich incrociò le braccia. «Padre Francesc, in questo convento troverete altri confessori più disponibili di me. Se è la scomunica che vi preoccupa, sappiate che l'ho appena revocata, in presenza del vescovo». «Di ciò vi sono grato». Borrell sembrò enormemente sollevato. «Però ho davvero bisogno di confessarmi con voi. Di colpe ne ho, lo ammetto. Forse diverse da quelle che credete». Eymerich guardò il cielo. Era metà pomeriggio, e al vespero mancava un'ora e mezza abbondante. Non aveva pranzato, tuttavia non provava particolare appetito. Di certo per via del caldo e delle emozioni provate. «Sia» sospirò infine. «Fatemi strada. Come è ovvio non andremo in confessionale. Ogni sala di Santa Catalina si presterà allo scopo, purché sia deserta». «Seguitemi, padre Nicolas». Nel dormitorio dei novizi, sito al piano terreno dopo la sala capitolare, i giacigli erano vuoti. I giovani, in quel momento, si stavano sottoponendo al salasso periodico previsto dalla regola per mantenerli in buona salute, oppure erano a lezione presso qualche magister theologiae che la scomunica calata sul priore non aveva intimidito.
Padre Francesc ed Eymerich sedettero sull'orlo di due pagliericci che si fronteggiavano: semplici sacchi gibbosi poggiati sul pavimento nudo. L'inquisitore frugò attentamente il paglione per controllare che non ospitasse parassiti. Soddisfatto dall'esame, esordì: «Tra noi, priore, forse sarebbe inutile, ma vi chiedo di recitare il Confiteor». Francesc Borrell giunse le mani. «Confiteor Deo omnipotenti, istis Sanctis et omnibus Sanctis et tibi frater, quia peccavi nimis cogitatione, delectatione, consensi!, verbo et opere. Ideo precor te, ora pro me». «Bene, fratello. Cosa avete da confessarmi?» «Un solo, grave, peccato mortale». «Ditemi quale». Il priore deglutì. L'ammissione gli costava un'evidente sofferenza. «Ho ceduto alle insidie di un personaggio diabolico che tenevo prigioniero. Mi sono lasciato irretire dai suoi ragionamenti sottili. L'ho favorito, l'ho lasciato libero di esercitare arti perverse. Ma il peggio è...». «Suvvia, concludete». «... che ho invocato demoni in sua compagnia». Francesc Borrell scoppiò in lacrime, copiose, inarrestabili, poi proseguì tra i singulti: «Ora non so come respingerli. Questa città, che avrei dovuto salvaguardare, è completamente invasa dalle orde di Satana. Prodigi sinistri, apparizioni inesplicabili, disastri che paiono naturali, ma non lo sono, si susseguono a ritmo quasi quotidiano. Si sono aperte su Barcellona le porte dell'inferno, e io ne sono stato complice». Allungò le braccia verso l'inquisitore. «Fate voi qualcosa, se potete!» Eymerich, subissato da mille pensieri, accolse con distacco le conferme che gli venivano dal priore. «Qualcosa farò, però capite bene che non posso concedervi l'assoluzione». «No?» La domanda di padre Borrell somigliò a un latrato. «No».
10.Verso l'ignoto Al porto, a salutare Eymerich che partiva per la Sicilia, facendo scalo in Sardegna, c'erano solo tre persone: frate Bagueny, suor Magdalena Rocaberti e un terzo individuo. Quest'ultimo, decrepito, barbuto, ma con lineamenti fini e occhi vivaci, indossava la porpora cardinalizia. Lo attorniavano servi e famigli, due dei quali incaricati di sorreggerlo. Malgrado la malattia che gli torceva i piedi e gli impediva di tenersi dritto, era arrivato la mattina precedente in carrozza, sfiancando a tal punto i cavalli da dover fare tre cambi su un tragitto, da Valencia a Barcellona, relativamente breve. Era Nicolau, o Nicolas, Rossell, precedente inquisitore generale d'Aragona, successore di frate Puigcercòs nell'incarico. Noto per la sua durezza, era a suo tempo rimasto molto colpito da quella, assai più estrema, del subentrante. Aveva finito per accettarla e per schierarsi, nelle controversie che agitavano i Predicatori di Catalogna, dalla sua parte. Veniva da una notte passata a discutere con il più giovane confratello delle strategie da seguire, mentre la falsa morte di un uomo asservito al maligno provocava fenomeni sismici e allucinatori quasi quotidiani. Rossell fu la prima persona che Eymerich salutò. «Vi ringrazio per avere voluto compartire con me le vostre considerazioni, eminenza. Un grande insegnamento. Sarete il primo che verrò a trovare al mio ritorno». Fece per baciare la mano al cardinale, ma quello, scostando uno dei famigli che lo aiutavano a sorreggersi, strinse a sé l'inquisitore. «Ci conto, padre Nicolas. La prova è difficile, ma ce la farete. Serviva gente della vostra tempra per riportare la Chiesa all'antico spirito militante. Quello che ci restituirà questo continente». «Farò il possibile per condurre a termine il disegno e per eliminare l'ultimo ostacolo». Eymerich, di norma, detestava le effusioni e soprattutto i contatti fisici. Sopportò quindi l'abbraccio con il cardinale con un certo disagio. Con sua grande sorpresa, tuttavia, fu lui stesso ad andare verso suor Magdalena e a prenderle le mani. La guardò in volto, ma distolse gli occhi. La perfezione dei tratti pur maturi della priora gli causava un inesplicabile imbarazzo. «II nostro primo incontro è stato conflittuale, ma ora riconosco la vostra buona fede. Mi scuso per non averla intuita prima». «Non avete di che scusarvi». Eymerich, lo sguardo basso, non poteva vedere l'espressione della monaca. Era però convinto che gli sorridesse. «La vostra missione tanto coraggiosa» proseguì lei «potrebbe liberarci tutte, e tutti, da un grande tormento. Al vostro ritorno, dopo avere fatto visita a sua eminenza il cardinale Rossell, venite a trovarmi a Monte Síon». «Non mancherò». Era il turno di frate Bagueny. Eymerich squadrò il piccolo domenicano, che aveva le sopracciglia aggrottate. «Perché quel cipiglio?» gli domandò. «Non vi si confà».
«Lo potete intuire anche voi, magister. Ve ne andate da solo, senza la mia compagnia... dopo tanti anni di collaborazione». «Dovreste gioirne! Vi siete sempre lamentato che, con me, finivate in luoghi sotterranei, puzzolenti, pieni di insidie terrificanti. Questa volta vi risparmio tutto ciò». Bagueny esitò un attimo prima di confessare: «Anche la paura, in fondo, mi dà sempre una strana sensazione. Piacevole, a ben vedere. Almeno a posteriori. Temo molto di più la noia». «Oh, non sarà una lunga separazione». Eymerich accennò a un sorriso. «Anche se trascorrerà qualche mese, conto di tornare. Dopo esploreremo di nuovo quei condotti del sottosuolo che, lo apprendo solo ora, vi piacciono tanto». Dalla galea giunse la voce del nauxer. «Padre Nicolas, l'imbarco delle merci è finito. Tra poco si salpa». «Vengo subito!» rispose Eymerich, mettendo a tracolla il proprio sacco. «Amici, vi saluto, nel nome di Dio!» «Sarà con voi!» rispose il cardinale Rossell. Nel mettere piede sulla passerella che univa la galea al molo, Eymerich provò una breve vertigine. I piedi non lo reggevano bene come un tempo, forse per via dell'alta statura. Vacillò sul supporto privo di corrimano. Il nauxer lo afferrò per un gomito e lo aiutò a salire a bordo. Eymerich apprezzò il gesto, però ne fu anche un poco umiliato. «Non ci sono cabine vere e proprie, padre» spiegò il marinaio. «A parte il capitano, che ha una piccola stanza nel castello di poppa, si dorme sopraccoperta. In caso di pioggia ci si rifugia nella stiva. Tranne i rematori, è ovvio». Eymerich osservò la nau. Era grande e panciuta, a tre alberi: l'artimone, il trinchetto e la mezzana, con una sola vela per ogni albero. La forza motrice reale era costituita dai vogatori, disseminati in una trentina di banchi disposti a spina di pesce. Una spingarda era collocata a prora, nel caso di incontri sgraditi con i corsari genovesi o con i pirati provenzali, evento divenuto raro dopo che l'Aragona aveva sottoscritto la pace con Genova. Restavano per mare alcuni avventurieri senza padrone, e la spingarda era lì ad accoglierli. Il comito uscì da poppa e, sorridente, camminò verso l'inquisitore lungo la crujia, il corridoio centrale. «Sono mossen Pere Falco e comando questa galea, La Victoria, di proprietà del nobile Ramón des Pla. Siete il benvenuto a bordo, padre». Eymerich lasciò cadere il sacco sul tavolato e osservò il capitano. Era un uomo piccolo di costituzione, ma con un petto ampio e braccia forti. Aveva sguardo franco e volto aperto. Indossava abiti semplici e pratici. Unico orpello, una piuma di pavone infilata nel berretto. «Sono grato dell'accoglienza» rispose l'inquisitore. «Quanti giorni impiegheremo per arrivare a Cagliari?»
«Non andiamo a Cagliari, padre. Sbarchiamo a Santa Giusta, nei pressi di Oristano. Il porticciolo fa parte del giudicato d'Arborea. Occorreranno più o meno quattro giorni e cinque notti, se il vento è a favore e l'equipaggio rema bene». Eymerich aggrottò la fronte. «Santa Giusta? Mai sentito. Lì è possibile trovare un imbarco per la Sicilia?» «Sicuramente, padre. Me lo ha già chiesto, pochi giorni fa, un altro frate. Non so a che ordine appartenesse: aveva vesti anonime, benché da religioso. Era diretto a Palermo e ha trovato un passaggio sulla Santa Marta, una galea che faceva rotta sulla Sicilia, senza tappe intermedie». Eymerich trasalì. «Mi potreste descrivere quel frate?» «L'ho visto di sfuggita...». Pere Falco meditò. «Un uomo dall'espressione energica, ma non particolarmente intelligente. Occhi nocciola, sempre spalancati. Non batteva mai le palpebre. Mani ossute, corpo curvo, naso lungo. Lo si sarebbe potuto scambiare per un gobbo». «Cosa vi ha fatto pensare che fosse un frate?» «Sotto una mantella logora, dai mille colori, pareva celare l'abito domenicano. Altrettanto usurato. Inoltre faceva discorsi sottili, citava di continuo le Scritture e assumeva un tono da predica qualsiasi cosa dicesse». Eymerich guardò il sacco lasciato cadere di fianco al bastingaggio. «Dormirò qui, stanotte». «Minaccia pioggia». Il comito lanciò un'occhiata al cielo. «Vi cederò volentieri la mia cabina di capitano». «Non occorre, mossen. Partite in fretta e fate remare veloce. Non chiedo altro». «Badate, padre, non siete un ragazzo. L'esposizione al maltempo potrebbe farvi dolorare ossa e articolazioni». L'osservazione colse Eymerich di sorpresa. Coincideva troppo con alcune considerazioni che andava facendo da tempo su se stesso e sul proprio corpo. Pensava che dall'esterno nessuno potesse intuire le trasformazioni che avvertiva. Era convinto che le definizioni di chi lo amava o lo temeva – "uomo di ferro", "uomo di roccia", e via dicendo – coincidessero con il suo aspetto, che lui non sapeva valutare. Evidentemente non era così. «Non preoccupatevi per me, mossen» borbottò. «Riesco ancora a reggermi e sono abituato a dormire a cielo aperto». «Come volete». Il comito si allontanò per dare gli ordini che il nauxer avrebbe trasmesso all'equipaggio. Eymerich si appoggiò al bastingaggio, con le braccia larghe e le mani sui bordi. Vide sciogliere gli ormeggi, sollevare le ancore, spiegare le vele da marinai saliti sui pennoni. Un tamburo cominciò a dare ai rematori il ritmo di voga.
La Victoria si staccò dal molo e prese il mare. Era il tardo pomeriggio; il vento e il crepuscolo imminente attutivano il calore. Quando l'inquisitore guardò il porto, vide suor Magdalena, rimasta sola, che agitava la mano. Rispose al saluto, ma subito ritrasse il braccio. Erano forme superflue di espansività. Non sapeva nemmeno se l'avrebbe mai rivista: al momento lo sovrastava un pericolo potenzialmente mortale. Appena scese la notte, pensò alla possibilità di non uscire vivo dal confronto con il suo nemico. Il buio calò di punto in bianco quando furono al largo. Non c'era luna, né stelle. Il nauxer fece accendere le due lanterne, collocate a prua e a poppa. I vogatori remarono per almeno due ore, nell'oscurità più fitta, poi venne dato il permesso di riposare. Restando incatenati, trassero i sacchi da sotto le panche e vi si lasciarono cadere, morti di fatica. Solo allora un servicial passò a liberarli dalle catene. Prima di dormire dovettero però ritrarre i remi e poggiarli davanti ai piedi. Restavano solo le vele spiegate a trascinare la galea verso la sua meta. I timonieri, costretti alla veglia, muovevano le due barre cigolanti per orientare la nave nella giusta direzione. Eymerich, esausto, si lasciò cadere sulla bisaccia informe che conteneva i suoi beni e vi poggiò il capo. Non gli fu facile addormentarsi. La temperatura era calata, i piedi gli dolevano, e lo investivano refoli di aria fredda. Tutta la galea scricchiolava rumorosamente. Eppure erano decenni che dormiva occasionalmente su un pavimento nudo, fosse di pietra, di legno o di terra battuta. Per la prima volta ciò gli causava fastidio. In attesa che il sonno si impadronisse di lui, passò in rassegna gli eventi che si erano succeduti fino a quel momento. Non erano gran cosa, in fondo. Illusioni ordinarie, senza ricadute a vasto raggio, terremoto a parte. Ramón de Tàrrega aveva sostituito al proprio cadavere un corpo mezzo animale, prima che anche quello scomparisse. Eymerich aveva visto di peggio: per esempio uomini con la testa di asino nella Valle d'Aosta, un decennio prima. Ciò che aveva dato a una comune allucinazione una dimensione più ampia erano state le parole del re. La sua notizia di una Sicilia in balia di creature giganti. Ogni libro appartenuto a Ramón, tra quelli illeciti, era di un autore siciliano o vissuto nell'isola. L'eccezione era costituita dal Liber Vaccae, ma si trattava di un'eccezione parziale. Il testo era la traduzione latina di uno scritto greco, a sua volta basato su un manoscritto arabo. Arabi, latini e greci convivevano da secoli in territorio siculo. Inoltre, il libro era attribuito a Platone, che era stato in rapporti di amicizia con il tiranno di Siracusa. Tanti indizi convergenti rappresentavano un embrione di prova. Ramón operava in qualche modo sulla Sicilia, a distanza. Se era evaso, dove poteva essersi rifugiato? La risposta era ovvia, anche se la successione dei tempi non tornava. D'altra parte, sant'Agostino aveva dimostrato quanto la nozione di tempo fosse effimera. Eymerich non aveva voluto esporre quel ragionamento a Bagueny, nella speranza che il confratello vi arrivasse da solo. Non era accaduto: pazienza. Frate Pedro non sarebbe comunque stato un compagno di viaggio adeguato, di fronte a insidie che si profilavano complicatissime. L'inquisitore rimpiangeva il suo amico padre Corona, capace di condividere la sua logica e di moderare le sue asprezze. E Lambert da Tolosa, e Simon da Parigi...
Il sonno che tardava rinfocolava in Eymerich le nostalgie, in cui lui raramente indulgeva per carattere. Anzi, di solito detestava il fardello del passato: equivaleva a cercare oggetti perduti sul fondo di un lago melmoso. L'ultima immagine che la sua mente visualizzò prima di addormentarsi fu però recente: Magdalena Rocaberti. E insieme a lei un'altra donna, di nome Myriam. Un ricordo strano e doloroso. Quando si risvegliò, provò la sensazione di avere dormito troppo a lungo e perso tempo prezioso. Eppure era ancora notte fonda. I servicials percorrevano la tolda per rimettere i vogatori alla catena, gli ufficiali si aggiravano nervosi. Faceva molto freddo. Il comito vide Eymerich che si sollevava e andò verso di lui. «Padre! Sta accadendo un fenomeno spaventoso! L'alba dovrebbe essere spuntata da parecchio, ma il sole non sorge!» «Cosa intendete dire?» chiese l'inquisitore alzandosi con un certo sforzo. Aveva i piedi gonfi, e gli doloravano un poco. «È quasi l'ora seconda. Si dovrebbe vedere ormai il sole, invece non c'è ancora». Eymerich alzò lo sguardo al cielo. La volta era completamente nera, eppure, in un angolo, sostava un cerchio luminoso dai bordi sottilissimi. Impossibile guardarlo direttamente perché bruciava gli occhi. «Il sole è al suo posto, mossen Falco, solo che qualcosa lo copre. Immagino la luna. Si tratta di un'eclissi». «No» protestò il comito. «Non sono previste eclissi in questo mese. Dev'essere dell'altro». «Conoscete l'imperfezione dei nostri strumenti per prevedere i fenomeni celesti, e l'approssimazione degli astronomi». Eymerich mentiva consapevolmente e cercava di nascondere l'emozione che lo pervadeva. Ricordava il capitolo del Liber Aneguemis che insegnava a produrre illusori occultamenti del sole: "Quando tu suffimigabis con ea in die, manifeste obtenebrabit mundus ex eo...". «Navigate diritto alla meta, secondo la rotta che vi è nota. La luce tornerà». «Come fate a dirlo?» obiettò Pere Falco. «Secondo me è magia nera. Non può essere un fenomeno naturale». «Niente magia» mentì Eymerich «e chi vi parla sa, in proposito, molte più cose di voi. Proseguite pure, vi dico. Tra breve dirò messa, qui, sulla tolda. Se il diavolo è nei paraggi, fuggirà. Prima dell'offertorio, il sole tornerà a risplendere». L'inquisitore non era così certo di quel che prometteva. Sapeva però che una messa era capace di dissipare insidie sataniche. Ramón de Tàrrega non poteva essere più forte di una religione che aveva già sovrastato l'ebraismo contaminato, e tinto di satanismo, che il domenicano rinnegato aveva coltivato in segreto. Il comito non pareva convinto ma, ciò malgrado, non gli restava che obbedire. Sulla galea regnava il caos. I rematori, spaventati dal buio, avevano ripreso a vogare, ma senza coordinazione. La galea sbandava. Il nauxer e gli ufficiali vagavano sul ponte e richiamavano alla disciplina, senza sapere quali ordini impartire. Gli uomini ai timoni
mantenevano ritte le barre, ma non avevano idea di dove orientarle. La paura aleggiava spessa, insostenibile. Gli occhi di molti si fissavano sulle lanterne, nel timore che si spegnessero. Il terrore di tutti era di precipitare in un'oscurità senza speranza. Per fortuna mossen Falco si rivelò all'altezza del compito. Di solito suggeriva gli ordini ai portavoce, stavolta invece parlò di persona. «Padre Nicolas Eymerich da Gerona, che abbiamo l'onore di avere a bordo, mi ha confermato che siamo in presenza di una normale eclissi di sole. Più tardi dirà messa. Ora non c'è che da seguire la navigazione consueta. La rotta è giusta. Dobbiamo seguitare a fare vela diritto davanti a noi, finché non tornerà la luce». Eymerich si risciacquò il viso nel barile collocato sotto l'albero di mezzana. Marinai, vogatori e timonieri sembravano in parte rassicurati, e l'attività sulla galea riprese il solito corso. Eymerich si stava chiedendo dove allestire un altare quando il buio si squarciò d'improvviso, e il sole tornò a brillare come sempre. Non era però l'ora seconda: era almeno la sesta. La luminosità ritrovata fece intensificare l'energia della voga, ritmata dal tamburo di prua, tuttavia aleggiava ancora una strana atmosfera. Il cielo era pieno di gabbiani, e un lungo lembo di terra occupava l'orizzonte. Pere Falco tornò di corsa dall'inquisitore. Sudava, tanto che si era tolto il mantello e lo reggeva con il braccio destro. Faceva fatica a parlare per l'assoluta mancanza di saliva. «Come ve lo spiegate, padre? Un'eclissi non avviene così. E quella che abbiamo di fronte, se non m'inganno, è la costa sarda. Raggiunta in poche ore!» Eymerich stava finendo di asciugarsi il viso in uno straccio. Si sentiva inquieto, però non particolarmente emozionato. Ormai sapeva che il viaggio intrapreso sarebbe stato minacciato da attacchi improvvisi a ogni tappa. «Signore, la nozione del tempo è uno dei principali cardini del pensiero su cui gioca Satana nei suoi inganni. Sconvolge le menti e semina confusione. Quella in vista è probabilmente davvero la Sardegna. Non ci resta che sbarcarvi, trovata Santa Giusta». «Siete così sicuro di voi stesso...», mormorò mossen Falco. «Veramente un fenomeno così oscuro non vi sconvolge? Il tempo che si contrae?» «No. Nella mia vita ho visto di tutto: creature demenziali, mostri indescrivibili, forme di pietra che prendevano vita, esseri che si nutrivano di sangue. Dietro ogni stranezza c'era il diavolo. lo sono pagato per stanarlo, ammesso che si decidano a darmi quel che mi spetta. E con me c'è il Dio uno e trino, ben più potente di qualsiasi forza votata al male. Con me si è al sicuro, purché si obbedisca ai miei ordini». «Voglio credervi». Falco manifestava ammirazione e timore al tempo stesso. «Cosa devo fare?» Eymerich si sentì soddisfatto. Quanto più l'interlocutore era incerto, tanto più la sua determinazione si rafforzava. «Niente di speciale. Sistemarmi un tavolo sulla tolda perché io possa celebrare una breve funzione che sia di conforto all'equipaggio, inclusi gli schiavi
legati al remo. E intanto cercare la cala in cui approdare a Santa Giusta... prima che scenda nuovamente il buio, questa volta naturale». L'evenienza sembrava remota: il sole del primo pomeriggio faceva scintillare le acque, e le tenebre erano ormai un ricordo.
Seconda Parte Albedo 11.Lilith - 2 L'uomo sulla soglia aveva lineamenti orientali, come quelli di Kurada ma meno marcati. Era mingherlino e sorridente, dalle guance rosee e floride. Non indossava un camice, bensì abiti civili, da sportivo: camicia e pantaloni aderenti che somigliavano a un pigiama. Le fece cenno di entrare. «Non abbia timore, infermiera Lilith. Venga dentro. Aspettavamo ospiti. Non lei nello specifico, ma qualcuno dei nostri aiutanti dispersi su Paradice». Chinò un poco il capo. «Dimenticavo di presentarmi. Io sono il dottor Sakura, William Hiroshi Sakura. Ero uno stretto collaboratore del dottor Kurada. Ma è vero che è morto?» Lilith si rimproverò di non avere dato fuoco alla navetta prima di abbandonarla. Pensò a una spiegazione per lo spettacolo che eventuali investigatori avrebbero trovato a bordo, nel caso di una probabile ispezione. «Sì. I medici mandati su Paradice sono stati uccisi. Il dottor Kurada è salito a bordo gravemente ferito. È morto per dissanguamento durante il viaggio di ritorno». Mentre parlava, Lilith si guardava attorno. Sakura era sorvegliato, a distanza, da tre agenti della sicurezza molto nervosi, che le puntavano contro i fucili d'assalto. Tute azzurre, caschi enormi, maschere antigas che pendevano dal collo, scudi di stoffa della WMHO cuciti sulla manica. In ciò non vi era nulla di singolare. Più anomalo, rispetto a quello che si era attesa, appariva l'aspetto di quell'atrio. Niente luci fredde, pannelli bianchi, quadranti carichi di levette. Nei secoli, qualcuno aveva cercato di umanizzare la sala. Il colore delle pareti tendeva al marroncino, in alcuni angoli erano state dipinte delle assi. Le forme generali apparivano ricurve, come all'interno di un albero gigantesco. Molti riquadri incollati attorno raffiguravano paesaggi tranquilli, stilizzati. C'erano anche, incassate nel muro, teche degne di un acquario, con favolosi paesaggi sottomarini, artificiali ma realistici. Peccato che i pesci fossero lische spolpate che giacevano sul fondo. Attorno, volteggiavano miriadi di microrganismi di incerta classificazione. «Mi dispiace molto per il dottor Kurada, uno dei maggiori esperti dell'Es, l'elettroshock collettivo con cui cerchiamo di tenere sotto controllo la Terra, o ciò che ne rimane». Sakura agitò una mano dall'alto verso il basso e gli agenti della sicurezza puntarono al suolo i fucili. Per loro parve un sollievo. «Mi segua, adesso, Lilith. Sta per scoprire la nostra piccola comunità».
Passarono in un corridoio gradevole, con luci azzurrine e tappeti sul pavimento, poi in un grande soggiorno, con parecchi divanetti in plastica rossa, raccolti attorno a tavolini quadrati dal ripiano di vetro. Lì sedevano una quindicina tra uomini e donne di ogni razza, anche se quella asiatica continuava a prevalere. L'età dei presenti, quasi tutti in camice bianco, variava dai quaranta ai sessant'anni, a parte tre bambini che giocavano silenziosi in un angolo. «Amici, questa è Lilith, una delle nostre infermiere su Paradice» annunciò Sakura. «Chi era pessimista sulla missione dovrà ricredersi. Qualcuno è tornato». Tutti si levarono in piedi e scoppiarono in un applauso all'indirizzo dell'ospite. Lilith ne fu meravigliata: a giudicare dai sorrisi parevano effettivamente felici di vederla. C'era però un'ombra di perplessità nei loro sguardi. Le domande di uno dei presenti ne lasciò trapelare la ragione. «Con quale navetta è tornata la signorina Lilith?» «Con la Kraeplin III, comandata dal dottor Kurada». «E Kurada dov'è?» Sakura rispose a voce bassa, per la pena, certo, ma forse anche per l'imbarazzo. «Purtroppo i membri della spedizione della Kraeplin III sono stati uccisi. Solo Lilith è riuscita a sopravvivere». Una delle donne lanciò un grido d'angoscia. «E le altre navette? Sono rientrate?» «Non ancora, ma qualcuna rientrerà. Continuo a contarci». Sakura allargò le braccia. «Amici, sapevamo tutti che chi aveva scelto di scendere sulla Terra avrebbe corso dei rischi. Nemmeno io, però, mi aspettavo un risultato così disastroso, lo ammetto con franchezza. Avrei dovuto oppormi con più vigore». La donna si lasciò cadere seduta e scoppiò a piangere. Un medico dai capelli bianchi, di corporatura imponente, si avvicinò a Lilith e la osservò. «L'infermiera ci vorrà spiegare in dettaglio come sono andate le cose». Lei percepì un'ondata di malanimo e si limitò a dire: «Sono stanca». «È comprensibile» intervenne Sakura. «Questa poveretta è scampata a una strage e non dorme da un giorno intero. Lasciamola riposare, poi ci darà tutte le risposte che non riusciamo a intuire da soli. Aliona!» «Sì?» disse un'altra delle donne presenti, bruna, sulla trentina. «Accompagna Lilith in uno degli appartamenti». Sakura sospirò. «Già troppi erano vuoti. Adesso saranno di più».
Lilith era in effetti allo stremo delle energie. Si lasciò guidare passivamente fuori dalla sala, fino a un ascensore. Nella cabina Aliona osservò: «Dev'essere duro vivere sulla Terra. Peggio che vivere qua». «Credo di sì» rispose Lilith, poco desiderosa di fare conversazione. «Non è così scontato. Pensa a un cielo sempre buio, a finestre che si affacciano sul nulla, al dover respirare solo aria artificiale». «Su Paradice il cielo è grigio e l'aria è puzzolente. Qui, se non altro, non si rischia di essere uccisi». «Non per mano altrui. I suicidi sono frequentissimi. È così che abbiamo perso oltre la metà dei nostri. Da questo dipende la vasta scelta di camere libere». Erano arrivati al piano, forse il terzo. Le luci erano calde, gradevoli. La base, che era al tempo stesso centro di ricerca e clinica, aveva fatto il possibile, nei secoli di esistenza, per darsi un'apparenza di comfort. Tutto era un po' logoro e non mancavano strisce di ruggine e tessuti sdruciti che rivelavano la trama. Malgrado ciò, se Lilith paragonava quegli ambienti ai sordidi alveari terrestri in cui aveva trascorso la vita, aveva l'impressione di un lusso estremo, quasi smodato. La pulizia le feriva gli occhi. Anche la camera in cui Aliona la introdusse aveva un aspetto confortevole e ordinato. Letto grande, mobili semplici ma eleganti. Lo stile era quello della fine del ventunesimo secolo, quando la Guerra Infinita era entrata nel vivo e la precedente civiltà aveva cominciato a decomporsi. Sta di fatto che gli interni di quella cupola, fatti a misura d'uomo, avevano mantenuto almeno in parte la piacevolezza originaria. «Accomodati e riposa per tutto il tempo che vuoi» disse Aliona con gentilezza. «Il bagno è di fianco al letto, sulla destra. Conosci il tuo numero di L-F?» «Cosa sarebbe?» «Live-Field. "Campo elettromagnetico vitale." Immaginavo che non lo conoscessi. Non importa: te lo rintraccio io e lo incollo sulla porta. Al tuo risveglio, faresti bene a impararlo a memoria. Più che utile, direi che è indispensabile». Rimasta sola, la fatica si abbatté su Lilith d'un colpo solo. Non aveva la forza per esaminare la stanza né per lavarsi. Si limitò a spiare fugacemente l'esterno attraverso un oblò rettangolare. Tutto buio, a parte i baraccamenti e la sconfinata distesa delle antenne, rivelata a tratti dalla falce dei fari. Che servissero a generare quelli che su Paradice erano detti i Lampi, i periodici elettroshock celesti destinati a moderare la violenza collettiva? Troppo intorpidita mentalmente per darsi una risposta, Lilith si gettò sul letto senza spogliarsi e si addormentò all'istante. Impossibile dire quanto durò il suo sonno, cullato dal lieve ronzio dei generatori. Dei sogni che fece, solo l'ultimo le rimase vivido per qualche istante dopo il risveglio. Un pipistrello dalle orecchie enormi, più ampie delle ali, si sollevava lentamente da un angolo oscuro e le si posava su una guancia. Era un tocco morbido, che riscaldava, quasi che la bestia, vagamente mostruosa, provasse per lei una specie di affetto.
L'incubo svanì pochi secondi dopo che Lilith, superato il torpore, si fu rimessa in piedi. A quel punto si lavò il viso, stupita di trovare un lavandino senza incrostazioni. L'acqua scendeva a singulti: chissà dove se la procuravano sulla Luna. Decise anche di fare la doccia. Prima, però, volle guardare nuovamente fuori. Questa volta il buio quasi completo che avvolgeva la base la impressionò per davvero. Immaginò che fosse costante durante tutta una giornata dalle ore ipotetiche. Com'era possibile trascorrere un'intera vita nelle tenebre? Il solo pensiero la sconvolgeva. Comunque lei non era sulla superficie lunare per viverci. Era lì per uccidere i bastardi che, in nome delle loro sicurezze scientifiche, avevano trasformato la Terra in Paradice. Uscì dalla doccia e indossò un accappatoio e un paio di babbucce trovati in un ripostiglio della stanza da bagno. Non erano della sua misura, ma ciò contava poco. In camera rimise camicia e pantaloni. Lo fece senza fretta. Era il momento di uscire, anche se non ne aveva nessuna voglia. Ritrovò il coltello e lo infilò nella cintola. Solo allora esaminò con cura la stanza. Era in fondo ordinaria, in un mondo ordinario. Mobili di serie, concepiti quando la terra contava gerarchie del lusso. Molte suppellettili erano di plastica; le altre – inclusi uno sgabello contorto, un televisore fuori uso e un apparato destinato a trasmettere musica – non sembravano in grado di prestarsi a scopi utili. Chissà per quanto tempo erano macerati in un'atmosfera malsana. Un po' riluttante, fece scorrere l'uscio, che si aprì silenzioso. All'esterno, a lato del battente, si vedeva il biglietto incollato da Aliona: "L-F 325. Lilith. FC 325." Non sapeva cosa significassero quei numeri. Li ripeté fino a conoscerli a memoria. Si avviò lungo il corridoio in cerca di un ascensore o di una scala che la riportasse al piano terreno. Non ricordava da dove fosse salita. Oltrepassata una curva a gomito, quasi urtò un uomo sulla sessantina, in camice, con barba e capelli brizzolati, tagliati con cura. «Infermiera Lilith?» le chiese l'individuo. «Gabbia di Faraday 325, campo vitale 325?» Erano i numeri che lei ricordava. «Proprio io». «Bene». L'uomo in camice sorrise. «Io sono il dottor François Lesurme. Mi hanno incaricato di mostrarle come funziona il nostro laboratorio lunare, dove vivrà ormai per sempre. Lontana dalle convulsioni della Terra». «Per sempre?» Lilith, con un groppo alla gola, sentì riemergere gli istinti aggressivi che aveva deposto solo per opportunità. «Sì. E vedrà che le conviene».
12.In Sicilia Eymerich, per scendere dalla barca, sedette sulla chiglia e gettò le gambe oltre lo scafo fino a posare i piedi sulla battigia. Trovò quella specie di ginnastica vergognosa, poco consona alla veste che indossava. Fino a qualche anno prima sarebbe semplicemente salito su una delle assi che fungevano da sedili e saltato a terra. Adesso non se lo poteva più permettere. «Dove siamo?» chiese accigliato, in latino. Il barcaiolo che lo aveva condotto fin lì dalla Sardegna, dopo tre giorni e due notti di navigazione, gli rispose, dall'albero che reggeva la vela triangolare ammainata: «Si chiama Mondello, padre. Zona di paludi, ma molto prossima a Palermo». L'uomo parlava in una lingua curiosa, che fondeva catalano, latino e contaminazioni tra i due idiomi. Perfettamente intelligibile, però. Ordinò poi al marinaio che, sbarcato per primo, teneva in secco a forza di braccia la prua dell'imbarcazione: «Adesso aiuta la donna a scendere». Eymerich fece una smorfia. Non amava quella compagnia obbligata. A Santa Giulia i funzionari del giudicato d'Arborea gli avevano imposto, se voleva proseguire il viaggio su una delle loro barche, di prendere al suo servizio quell'ancella. Non ne avevano precisato i motivi, tuttavia all'inquisitore pareva evidente che avesse compiti di spionaggio. La Sardegna, nei suoi vari reami, più o meno infeudati all'Aragona, era sensibile a ciò che accadeva nelle due Sicilie. Si trattava di una serva sulla trentina, di nome Beatrice. Era di statura minuta, grassottella nei fianchi e nel seno, dall'espressione vispa. Aveva colorito scuro, sopracciglia folte e grandi occhi marroni. Diceva di essere stata ancella di Eleonora, figlia del giudice in carica, Mariano. Eymerich lo aveva conosciuto vent'anni prima, quando il feudatario non era decrepito come adesso, e aveva visto Eleonora bambina. Troppo poco per portarsi dietro una delle sue domestiche, certo incaricata di sorvegliarlo e di riferire alla corte di Oristano. A dispetto dell'ostilità istintiva, e con i calzari immersi nel bagnasciuga, porse una mano a Beatrice perché potesse scendere dalla barca. «Prendete le mie dita, damigella». «Non occorre, padre». Con un balzo leggiadro Beatrice atterrò sulla sabbia umida, piegando appena le ginocchia. Si rizzò all'istante. «Questa è dunque la Sicilia?» Si guardò attorno. «Mio Dio, che sole! Rivaleggia con la Sardegna». Parlava il volgare della sua isola, in cui, come nel linguaggio del barcaiolo, si mescolavano il latino e il catalano. Un gergo diverso da quelli circolanti nella penisola italiana, poco distante. Si trattava peraltro di dialetti con un'unica radice, ed Eymerich non aveva difficoltà a comprenderli parola per parola. Anche il barcaiolo prese terra. Era un uomo tozzo, massiccio, con lunghi baffi e una capigliatura bruna spiovente. «Trova dove legare la barca!» ingiunse al marinaio. A
Eymerich disse: «Ho l'ordine di farvi condurre a Palermo, padre. Non ci vorrà molto. È appena l'ora terza, il sole non fa ancora sudare». «Dobbiamo andare a piedi?» «No, c'è un carro che vi aspetta. La città la potete scorgere già da qui». Eymerich era stupito e anche un po' stordito. Sembrava che il suo viaggio fosse stato progettato nei dettagli. Non poteva credere che fosse stato un feudo secondario come il giudicato d'Arborea – che peraltro si ribellava a un dominio troppo diretto dell'Aragona – a organizzare tutto ciò. Dietro c'era sicuramente la mano di Pietro il Cerimonioso. Tuttavia nemmeno un sovrano poteva agire con tale rapidità, inviare messi oltremare, fare trovare barche pronte e carri in attesa. Come se il tempo fosse stato contratto e accelerato. Il fatto era che Eymerich ignorava ancora quanto fosse stata distorta la cronologia durante la navigazione al buio della Victoria. Inutile chiedere che giorno fosse a dei popolani. Solo i religiosi e gli uomini di cultura tenevano conto del calendario e dello scorrere dei giorni. «Che bel posto!» esclamò Beatrice con entusiasmo. «A parte gli acquitrini, la baia è stupenda!» Non era costume di Eymerich valutare i luoghi in cui si trovava dal punto di vista estetico, però tra sé dovette convenire. Il golfo di Mondello, in cui si adagiavano anche le propaggini di Palermo, incantava. Stretto fra monti di discreta altezza, coperti di vegetazione, era lambito da un mare purissimo, trasparente quanto il cielo. Le paludi non avevano l'apparenza di acque morte, tanto che vi si pescava. Lo si capiva da barche sottili che transitavano fra i canneti. Almeno due villaggi sorgevano presso le rive dei pantani, su terre meglio assestate. L'aria, inebriante, era piena non degli odori del mare, ma degli effluvi della foresta che circondava una montagna e si prolungava sino alla costa. Vi si mescolava uno spiccato profumo di aranci. Il sole cominciava ad alzarsi e già ardeva. Contribuiva a conferire alla località una bellezza senza pari. Pur colpito, Eymerich non si lasciò distrarre. «Dov'è il carro?» domandò. «Eccolo, sta arrivando» rispose il barcaiolo. L'inquisitore si era aspettato un veicolo, se non simile a una carrozza, quanto meno dotato di un certo decoro. Invece si trattava di un carrettino zoppicante, trainato da un ronzino. A cassetta stava un anziano bifolco con un cappello di paglia. Il suo mezzo odorava dei legumi che aveva trasportato in precedenza. Fu Beatrice la prima a sbottare. «Dovrei salire su quel barroccio puzzolente?» Eymerich le fece eco. «Che scherzo è questo? Devo entrare in città su un mezzo incrostato di sporcizia e di sterco?» Il barcaiolo fece un mezzo inchino. «Sono gli ordini che ho ricevuto, padre. Farvi condurre a Palermo nella maniera più anonima possibile». «Anonima? State scherzando, pezzo di farabutto? Trasportare un domenicano in una lercia carriola, guidata da un cocchiere e da un cavallo mezzi morti!»
«Eppure così mi hanno comandato, padre. Per quanto ne so, l'ordine dei Predicatori non prevede lussi particolari». «Comandato da chi, di grazia? Dal re d'Aragona?» «No. Da Simone dal Pozzo, inquisitore generale di Sicilia. Sarà la prima persona che vedrete». Beatrice diede uno strattone alla manica di Eymerich. «Lasciate perdere, magister. Dovremo adeguarci al carretto puzzolente. Costui non è che un esecutore. Venite, saliamo». Benché poco persuaso, l'inquisitore si rassegnò a seguire la donna fino al carro. Vi montò, ignorando un forte dolore al piede, poi la aiutò a salire e a sedersi al suo fianco. Subito dopo il veicolo si mosse, trainato da quell'ombra di cavallo. Il barcaiolo accennò un saluto, che Eymerich ignorò. Sballottato e immerso nel fetore emanato dalle assi scivolose, Eymerich chiese a Beatrice: «È la prima volta che venite in Sicilia?». «Sì, la prima» rispose lei con un sorriso. Si stava aggiustando le vesti e coprendo le gambe con la gonna lunga. «La Sardegna è più selvaggia. Se vi guardate attorno, verso l'interno, notate campi di grano ordinati e ben coltivati. Ciò dopo quasi un secolo di rivolte, guerre e invasioni». Non erano parole consuete in un'ancella pescata a caso sulla costa sarda. Nemmeno in una spia, qual era di sicuro. Ciò malgrado, Eymerich era stupito del fatto che la successione dei conflitti siciliani, intervallati (ma non interrotti) dalla pestilenza di vent'anni prima, avesse prodotto, nei dintorni di Palermo, danni così limitati. Decenni di guerra, di eserciti contrapposti, di massacri spietati non avevano distrutto le messi, calcificato il terreno, portato alla carestia. Vicino alla costa gli agrumeti erano in fiore, pur sostenendo ancora rari frutti. Si era dunque all'inizio della primavera. Verso la pianura si estendevano piantagioni di cereali, dal grano all'orzo. Tutto era lindo, conforme alla scienza agraria, coltivato meglio che altrove. «Una terra fertile» commentò Eymerich. «La si direbbe più progredita dell'Aragona e persino della Catalogna». Beatrice non rispose. Cullata dalle scosse del carro, si era addormentata. Raggiunsero in breve i sobborghi di Palermo. Non erano dissimili da quelli di ogni altra città d'Europa, da Roma a Costantinopoli, da Londra a Parigi. Casupole tra la capanna e la baracca, bambini nudi per strada, animali che correvano nel fango. Cumuli di rifiuti. Solo dopo un poco apparvero le prime strade selciate e le costruzioni in pietra: semplici e ben edificate, nello stile arabo che prevedeva la facciata anonima, a parte il ferro battuto dei balconi, ed eventuali cortili nel retro. Eymerich domandò al postiglione, in latino: «Dove ci state portando?». Il caldo aumentava, e lui aveva la gola secca. Dovette ripetere la domanda.
Il contadino alla guida rispose in un linguaggio incomprensibile. Una sola parola risultò chiara: inquisitor. Li stava conducendo dall'inquisitore generale del regno di Trinacria, padre Simone dal Pozzo. Allineato agli angioini o agli aragonesi? Un interrogativo in quel senso cadde nel vuoto. Intanto Beatrice si era svegliata e si stirava. «Che bello uscire dal sonno e ritrovarsi su un biroccio che sa di verdure avariate!» Eymerich squadrò la donna con occhio severo. «Evitate di lamentarvi. Siamo vicini alla dogana. Fate silenzio e comportatevi con decenza». Beatrice si mise seduta e calò la gonna sui polpacci. «Ai vostri comandi, magister!» Il presidio doganale era rappresentato da un manipolo di soldati che fermavano un carro in arrivo ogni dieci, tanto per mantenere una parvenza di ordine. Sostavano sotto una delle dodici porte delle mura che rinserravano l'abitato centrale: la Palermo vera e propria. La maggior parte dei veicoli, scarsi di numero, erano carichi di grano e forse diretti al porto e ai suoi magazzini. Non vi furono problemi nemmeno per il carretto che trasportava Eymerich e l'ancella sarda, dato che non c'erano merci di nessun tipo. La vista di un frate domenicano fu salutata con segni della croce. Così il trabiccolo poté addentrarsi nel cuore della città. Palermo contava quasi cinquantamila abitanti e presentava qualche similitudine con Barcellona. Aveva piazze abbastanza spaziose attorniate dai vicoli stretti e tortuosi che vi conducevano. Odorava di mare, grazie ai venti che soffiavano dalla cala. Proliferava di attività mercantili, e ogni strada aveva le sue. Musulmani convertiti (almeno a sentir loro, che paventavano l'espulsione), cristiani cattolici e cristiani ortodossi condividevano una congerie di negozietti simili tra loro. Normalmente si presentavano all'esterno come archi chiusi da un portone a due battenti: in uno si apriva la porticina da cui si entrava nella bottega e nella casa del mercante, nell'altro la finestra quadrata in cui facevano mostra le mercanzie. Gli esercizi degli ebrei, in molti casi dedicati alla vendita di oro e gioie, si distinguevano dalla rondella rossa che i figli di Mosè erano obbligati a esporre sulla loro rivendita,perché un buon cristiano sapesse con chi aveva a che fare. Dove c'era spazio sorgevano tende e banchetti, destinati al commercio degli ortaggi o allo spaccio di bevande e vini leggeri. I clienti, numerosi, indossavano vesti d'ogni sorta e, dalle voci che giungevano fino al carro, parevano parlare tutte le lingue del Mediterraneo: volgare siciliano, volgare toscano, genovese, arabo, catalano e greco. «Non odo né il francese né il provenzale» osservò Eymerich. Beatrice gli sorrise. «Per forza. Un secolo fa la gente di Palermo ha ucciso tutti i francesi. Da allora preferiscono stabilirsi altrove». Negli edifici più eleganti l'architettura era araba o bizantina, sveva o romanica, e mescolava gli stili. Prettamente arabici erano gli ampi giardini ben curati e la quantità di fontane. Pareva di trovarsi a Granada, arricchita e resa bizzarra dall'accavallarsi di culture.
Eymerich, pur insensibile alle forme esteriori della bellezza, fu colpito dallo spettacolo. «Sono stato a Costantinopoli e l'ho trovata a pezzi» commentò ad alta voce. Non poteva conversare con il cocchiere, che parlava una lingua astrusa e si era dunque rivolto a Beatrice. «Poche città d'Europa vantano un simile sfarzo. Quale fiume staremo mai attraversando?» Un ponticello li attendeva, ingombro di veicoli che lo varcavano cigolando. L'inquisitore non si aspettava che la donna gli rispondesse, invece lei gli disse, questa volta in catalano: «È il torrente Papireto. Più a sud, se vi andassimo, troveremmo un secondo fiumiciattolo, il Kemonia. L'abitato è costruito tra questi due corsi d'acqua. Non meravigliatevi del lusso delle chiese e dei palazzi: Palermo è la capitale del Mediterraneo e rivaleggia in splendore solo con Napoli. Ha più giardini, però». Eymerich osservò l'ancella con sospetto. «Non sono discorsi da serva, questi. Per di più mi avete detto di non essere mai stata in Sicilia, in precedenza». Beatrice rise e mostrò una dentatura bianca e perfetta che era raro trovare fra gli appartenenti al volgo. «Serva sì, ma agli ordini di Eleonora d'Arborea, la giudicessa. Certi discorsi li ho uditi alla corte della mia signora. Oristano non può competere con Palermo, tuttavia la fama della capitale più ricca di Sicilia è arrivata fino a noi». «Qui c'è stato quasi un secolo di guerra civile contro i francesi, fino alla vittoria parziale del regno di Aragona». «Sì, ma anche nell'Europa continentale Francia e Inghilterra si combattono da un'eternità. Ciò non rende meno belle Parigi o Londra». La frase, nella sua assennatezza, era del tutto incongrua sulle labbra di un'ancella, e persino di una spia ben preparata. I sospetti di Eymerich sulla sua compagna di viaggio si moltiplicarono. La osservò. Dimostrava meno dei trentadue anni che denunciava. Malgrado la carnagione scura aveva ancora efelidi sul naso, come una bambina. Era grassoccia e niente affatto timida. Vestiva abiti umili e una sottana di tela che teneva stretta con le braccia incrociate. Eymerich si chiese se non fosse il caso di spingerla fuori dal carro, al prossimo fiume che avessero attraversato. Non aveva dubbi: pesante com'era, sarebbe annegata di sicuro. Lo trattenne unicamente il fatto che lui, da solo, non avrebbe potuto scambiare parola con l'uomo alla serpa. Beatrice, al contrario, pareva intenderlo e parlava un catalano dignitoso. La giovane fu salva: a Eymerich serviva un'interprete. Ciò non toglieva che l'avrebbe levata di mezzo alla prima occasione utile. «Chiedete al contadino dove ha sede il tribunale dell'Inquisizione» le ordinò. La donna scambiò qualche parola con l'uomo che guidava il carretto. Il volgare siciliano e quello sardo non si somigliavano affatto: erano diversi sia nelle parole sia nella pronuncia. Misteriosamente, però, fra i due vi fu intesa. Forse le lingue che si parlavano sulle coste dell'Italia servivano da terreno comune per comprendersi in qualche modo tra isolani.
«Ha detto che non esiste una sede vera e propria» spiegò Beatrice. «L'inquisitore risiede nel convento di San Domenico nella contrada Seralcadio, alle foci del fiume Papireto. Prima che il corso d'acqua diventi pantano. E lì che stiamo andando». «È lontano?» «No, siamo quasi arrivati». Il priorato, di piccole dimensioni, si appoggiava a una chiesa altrettanto minuscola, in stile gotico-normanno. Il complesso di edifici attorniava un chiostro elegante, con archi acuti che poggiavano su colonnine doppie, forse di tufo. Lo spazio interno era ricco di palme e campanule. Vi si accedeva direttamente, senza passare per la portineria. Eymerich, congedato il contadino e il suo carro, mise piede nel chiostro, seguito da Beatrice. Fu sorpreso quando un frate molto anziano gli corse incontro e chinò la schiena davanti a lui. «Sono veramente felice di vedervi, magister. Mi avevano annunciato il vostro arrivo, e lo attendevo con ansia. Ogni giorno auspicavo la vostra venuta. Davvero, non speravo in un simile miracolo!» Eymerich toccò la spalla del vecchio, che si rialzò. «Sapete chi sono? Mi avete mai visto?» «Oh, sì. Non vi ricordate di me? Ci siamo incontrati in vari capitoli generali dell'Ordine. A Parigi, a Bologna. Ultimamente, una decina di anni fa, a Ferrara e Padova». Eymerich non riconosceva la fisionomia di quell'uomo attempato. E dire che, se la memoria dei nomi gli faceva difetto, quella dei visi funzionava ancora. «Chi siete, dunque?» «Padre Simone dal Pozzo, inquisitore dell'errore eretico nel regno catalano di Trinacria, successore del defunto padre Guillem Costa. Consideratemi vostro servo. Avete una fama che suscita ammirazione. L'Inquisizione siciliana, che dopo il decesso di padre Costa si riduce al povero vecchio che avete di fronte, vi dà il benvenuto». Eymerich rabbrividì al pensiero che quel mucchietto d'ossa, carico senza dubbio di reumatismi, potesse rappresentare il braccio armato della Chiesa in Sicilia. Si rivolse con asprezza a Beatrice. «Raccogliete fiori, passeggiate nel giardino. Fate ciò che, d'abitudine, fanno le donne. Io e frate Simone dobbiamo parlare in privato». Lei obbedì e, per nulla offesa, si allontanò canterellando. Nel chiostro non c'era nessuno, a parte un converso che curava le piante all'angolo opposto del giardino. Il sole scottava, l'aria era immobile. Dal Pozzo fece entrare Eymerich nel convento per una porticina. Si trovarono in una saletta piena di libri, allineati in scaffali, accumulati su un paio di tavoli e addirittura ammucchiati sul pavimento. Aleggiavano odori di polvere, di inchiostri e di vecchie carte. Una trifora dava luce, ma non troppa, tanto che l'aria era fresca. Due usci chiusi delimitavano l'ambiente. «È qua che tenete udienza?» chiese Eymerich, sempre meno persuaso della serietà della situazione e dell'attendibilità del suo interlocutore.
«No, magister. Voi vedete solo una piccola porzione della biblioteca domenicana di Palermo. Pecco d'orgoglio se vi dico che ne andiamo fieri? Neanche quella di Tolosa ha tanti volumi quanto la nostra». «Me ne compiaccio» mentì Eymerich, del tutto disinteressato a quelle informazioni. Prese posto su una panca e posò il gomito su un tavolo. «Immagino che, impegnato dallo studio, l'attività di inquisitore sia per voi accessoria». Sul viso rugoso di Simone dal Pozzo apparve un'espressione inattesa, quasi ironica. Gli occhi per un attimo gli brillarono, si sarebbe detto di cattiveria. «Non direi, magister, anche se di sicuro non è comparabile alla vostra. Tanto che, quando ho saputo che stavate venendo, mi sono detto: "Sia ringraziato Nostro Signore. Ecco chi mi fornirà dei buoni insegnamenti." Basta guardarvi per capire che ero nel giusto». «Chi vi ha avvisato del mio arrivo? Il re di Trinacria? Il vescovo? Il giudice d'Arborea?» «No, padre. Un vostro caro amico e compagno di studi a Santa Catalina di Barcellona». Nello sguardo di padre dal Pozzo non c'era più ironia, ma solo cordialità. «Un uomo fuori dal comune, tra i più brillanti e dotti che io abbia mai incontrato». «E chi sarebbe, costui?» Eymerich, nervoso, intuiva la risposta. «Non lo indovinate? Parlo di frate Ramón de Tàrrega. Capita di rado a visitarci. Vorremmo averlo ospite più spesso». Simone dal Pozzo doveva essersi aspettato una reazione gioiosa. Sembrò allibire quando Eymerich scattò in piedi e gli gridò, furibondo: «Siete suo complice? Oppure siete solo un imbecille?».
13.L'inquisitore di Palermo Eymerich era fuori di sé. «Non sapete, dunque, che all'inizio di quest'anno 1372, io e frate Arnau de Bucheris abbiamo bruciato le ultime copie reperibili delle opere di Ramón de Tàrrega? Non sapete che si tratta di un giudeo rinnegato e di un negromante?» Simone dal Pozzo sembrò esterrefatto. «No, non ne sapevo niente. Ignoravo anche che fosse giudeo». «Sì, lo è. Furfante, alchimista, in commercio con il demonio. Quanto tempo fa è passato di qui?» «Nell'autunno dello scorso anno». «Dunque al tempo della sua presunta morte. Lo immaginavo».
Eymerich, un poco più calmo, squadrò con attenzione padre dal Pozzo. Il vecchio era basso di statura, con sopracciglia folte, naso adunco e occhi grandi e vivaci. Non pareva occultare, nello sguardo o nei tratti, intenzioni di tradimento. Al contrario. Tutto in lui pareva denunciare sbalordimento e buona fede. «Voglio credere in voi, padre Simone. Vi dirò cosa mi ha condotto a Palermo». Il racconto fu lungo e comprese anche la visita a Pietro il Cerimonioso. Alla fine padre dal Pozzo era passato attraverso vari stati d'animo: l'incredulità, la meraviglia, l'allarme, il timore che ciò che udiva fosse vero, la persuasione. Giunse le mani e chinò il capo. «Perdonatemi, magister, perché ho molto peccato. Mi sono lasciato ingannare da un figlio del demonio, morto eppure vivo». «La mia assoluzione verrà quando avrete risposto ad alcune domande» replicò Eymerich. «Ramón de Tàrrega vi parlava di scienze occulte, come il modo di evocare i diavoli?» «No. Disquisiva di filosofia, un argomento che pareva essergli molto familiare. Passava da Platone e Aristotele a Seneca, fino ad arrivare ad Averroè, a Ruggero Bacone e a Raimondo Lullo. Ha citato a volte i trattati dell'esecrando Michele Scoto, ma di sfuggita». «Dove si trova, adesso?» «Lo ignoro. Si è incamminato a piedi verso le regioni centrali della Sicilia. Non prima di avermi annunciato che, di lì a qualche mese, sareste arrivato voi». Eymerich si prese la radice del naso tra le dita. Meditò un poco, prima di porre la domanda successiva. «Avete udito parlare di creature gigantesche, scese dal cielo nella parte centrale dell'isola? Capaci di sovvertire gli esiti del conflitto tra aragonesi e angioini, e tra i singoli baronati in guerra reciproca?» «Intendete dire i Lestrigoni?» Eymerich fu invaso da una singolare emozione. «Sì, parlo di loro». Dovette ritirare il gomito dal tavolo, per un tremito nervoso del braccio. «Vedo che vi sono noti. Cosa ne sapete?» Simone dal Pozzo fece un gesto di noncuranza. «Li conosce chiunque abbia letto l'Odissea, padre Nicolas. Giganti che si nutrono di carne umana. Si dice abitassero un tempo la Sicilia. Ogni tanto c'è chi afferma di averli rivisti». «Vi è giunta voce di avvistamenti recenti?» «Sì, dalla zona di Caltanissetta. Non vi ho badato, perché non erano notizie abbastanza dettagliate». Dal Pozzo sedette a sua volta sulla panca e cercò le parole latine adatte a formare una spiegazione comprensibile. «Dopo quasi un secolo di guerre e insurrezioni, magister, il casato aragonese domina la Sicilia solo in teoria. Il re Federico il Semplice, detto anche lo Scemo, risiede per lo più a Catania o gira tra i suoi castelli. Il potere effettivo è esercitato dai baroni: i Chiaromonte, i Ventimiglia, gli Alagona, i Lancia... Controllano porzioni
dell'isola e si combattono di continuo. Sono comunque i veri padroni della Sicilia. Ciò è facile da spiegare: inizialmente sono state le loro milizie a piegare la tirannia degli Angiò e a costringere i francesi a ripiegare su Napoli». «Questo c'entra poco con l'argomento di cui stiamo trattando». «Mi permetto di contraddirvi, Il cosiddetto "regno di Trinacria" è oggi frammentato in baronati con scarse comunicazioni reciproche. Ogni barone governa il proprio territorio come per investitura divina e spesso fa guerra al vicino. Considera beni e anime sotto il suo mandato quali esclusive proprietà. In teoria molti di essi riconoscono l'autorità dire Federico IV, ma solo a parole. Ogni baronia è chiusa in se stessa, riscuote imposte, esercita la giustizia, dissangua campagne spopolate, addestra piccoli eserciti. Le comunicazioni tra le diverse regioni siciliane sono di fatto nulle». «E chi comanda su Caltanissetta e la Sicilia centrale?» «I Chiaromonte, la famiglia che controlla anche Palermo». Simone dal Pozzo prevenne la più logica delle obiezioni. «Non crediate, magister, che questo faccia affluire notizie costanti su quanto accade nel centro dell'isola. Lo stato di guerra quasi permanente rende le informazioni frammentarie e spesso inattendibili. Ho ritenuto tali quelle sul ritorno dei Lestrigoni. Scesi, per di più, da navi volanti e luminose sospese nel cielo». Eymerich era ormai convinto della sincerità, e anche dell'intelligenza, del vecchio frate seduto al suo fianco. Sfogliò svogliatamente uno scartafaccio polveroso per avere il tempo di riflettere. Risultò un testo innocuo: una semplice raccolta di ordinanze inquisitoriali. Dopo qualche istante domandò: «Chi comanda il casato dei Chiaromonte?». «Manfredi III. Capeggia il partito dei Latini, avverso agli aragonesi. Qualche volta si allea agli Angiò, come ora, qualche altra no. L'importante è combattere la fazione dei Catalani, agli ordini degli Alagona. La stirpe dei Chiaromonte è stata ghibellina nei decenni scorsi, adesso non lo è più. Non è nemmeno guelfa. Segue la convenienza. Lo stesso vale per i Ventimiglia e per gli altri ceppi ex guelfi. Si abbandonano al tornaconto immediato, si tratti di denaro oppure di potere, senza riguardi per il bene del popolo o per gli ideali che, all'inizio della rivolta contro i francesi, li fecero amare. Mai amore fu peggio riposto e meno contraccambiato». Eymerich si stava smarrendo in quella geografia politica complicata. «È possibile incontrare Manfredi Chiaromonte?» «Sì. Se lo desiderate, posso condurvi io». «Avete dunque un qualche ascendente su di lui? Godete della sua stima?» Eymerich era molto scettico. Sul viso di Simone dal Pozzo riapparve lo stesso sorriso sardonico di poco prima.
«Magister, degnatevi di leggere meglio alcune ordinanze su cui poggiate il gomito. Specialmente le prime, dirette ai baroni di tutta l'isola. Vi farete un'idea più precisa di cosa sia l'Inquisizione siciliana». Eymerich eseguì. Fin dalla lettura delle righe iniziali rimase profondamente stupito. «Ma... ordinate ai signori e agli ufficiali di distruggere ogni sinagoga esistente in Sicilia! Ciò non si fa nemmeno a Gerona! Nemmeno in Provenza, Avignone compresa!» Frate Simone accentuò il suo sarcasmo, peraltro frenato dalle buone maniere. «È che da quelle parti eccedete in tolleranza». «Poi comandate di tradurre in carcere giudei ed eretici di ogni sesso, età o condizione, e di interrogarli sotto tortura... Tormentis et quaestionibus prout idem adverterit exponatis...». «Sì. È che, se non soffrono, difficilmente i nemici della vera religione confessano i nomi di chi condivide il loro credo. Soprattutto se si tratta di congiunti. Tra gli ebrei, poi, la solidarietà è fortissima». «I baroni vi prestano ascolto?» «Praticamente mai, purtroppo». Dal Pozzo emise un sospiro. «Eppure tutti promettono di farlo, prima o poi. Quelli Latini di loro iniziativa, quelli Catalani, ex ghibellini, per farsi perdonare di avere disobbedito un tempo alla Chiesa. Ma restano parole. Se ciò non bastasse, dispongo di pochi famigli armati, nessuno dei quali a cavallo. Alcuni vassalli di rango infimo hanno una milizia più consistente della mia. Direi che su Palermo, Messina (io sono messinese), Catania e Siracusa il mio controllo è nullo. Però non rinuncio ad alzare la voce». Eymerich non sapeva più cosa pensare. Un vecchietto fragile, in un priorato minuscolo e quasi deserto, sembrava intenzionato a esercitare un potere più forte del suo. Che gli stesse mentendo? Lo avrebbe scoperto. Nel caso dicesse la verità, i siciliani gli sarebbero risultati gente molto meno semplice e disarmata di quanto avesse creduto. «Cosa vi fa pensare di poter conquistare un'influenza tanto estesa?» «Fino a una decina di anni fa, la Chiesa della Sicilia ha patito la scomunica del papato e ha dovuto fare da sola, finché non ha potuto appoggiarsi ai re d'Aragona. Ciò l'ha resa molto compatta e molto aderente alla realtà territoriale. È rimasta l'unico potere unitario mentre gli altri si frammentavano. Ha ottenuto il rispetto sia del popolo sia dei baroni». Eymerich annuì. «Capisco. Pensate che continuerà così, ora che l'atteggiamento del papato sta cambiando?» «Gregorio XI ha assunto un atteggiamento più neutro dei predecessori e, senza smettere di appoggiare gli Angiò, cerca una ricomposizione con gli aragonesi. Se dimenticherà per intero le antiche controversie, troverà radicato qui un clero forte e autorevole. Anche se, come è ovvio, vincolato direttamente a chi regna a Saragozza».
L'ultima frase risuonò sgradevole alle orecchie di Eymerich. Non vi si soffermò troppo. Gli bastava, per il momento, di avere scoperto in dal Pozzo un interlocutore più raziocinante di quanto si fosse atteso. «Ebbene, andiamo a trovare questo Manfredi, padre Simone». «Volentieri, magister. Vado a ordinare una carrozza che ci porti a Palazzo Chiaromonte». Eymerich ritrovò Beatrice che, sotto un calore più estivo che primaverile, seguitava a raccogliere fiori. Ne aveva messi insieme un intero mazzo. «Mi aspetterete qui» le disse. «Vado a visitare un personaggio importante e non potete accompagnarmi». La donna gli sorrise. «Temo di dovere per forza venire con voi. Questo è un convento maschile. Già diversi frati sono venuti a chiedermi cosa facessi qua, chi sbraitando, chi piagnucolando. Alla fine si sono nascosti tutti, per evitare di vedermi». «Ho sufficiente autorità per imporre la vostra presenza, che ai frati piaccia o no... Ah, ora vedrete». Simone dal Pozzo era di ritorno. «La carrozza è pronta, magister». «Bene. Vi prego solo di trovare una cella per questa serva. Non voglio portarmela dietro». Il viso del siciliano espresse sconcerto. «La regola del priorato non ammette donne al suo interno. Ho già fatto uno strappo consentendole di sostare nel chiostro per più di un'ora. Non posso spingermi oltre. Sarebbe uno scandalo». «Rischiamo lo scandalo». Eymerich cominciava a irritarsi. «Ripeto, non la voglio con me. Vi ordino di darle ospitalità fino al mio ritorno». Il volto rugoso di Simone dal Pozzo espresse condiscendenza, ma al tempo stesso ostinazione. «Ci sarebbe un'altra soluzione, magister. La conduciamo con noi e la la-sciamo in un convento di suore. Ciò darà sollievo ai miei confratelli, già troppo turbati dalla presenza di una femmina in giardino, e procurerà all'ancella una dimora consona al suo sesso». Era una scelta ragionevole. Eymerich si convinse. «E sia. Andiamo». La carrozza, un ampio calesse scoperto trainato da due cavalli, partì con un postiglione alla guida e Beatrice seduta sul predellino posteriore. Il veicolo seguì il corso del fiume Papireto, dalle paludi di periferia verso il centro della città. L'ora calda aveva ridotto il numero dei mercanti e degli oziosi, nei vicoli labirintici che conducevano alle chiese e ai palazzi più noti. Invece, adesso, erano più frequenti le donne. Vestivano in maggioranza "alla saracena", con tuniche nere informi lunghe fino alle caviglie e veli sui capelli e sulla faccia che lasciavano scoperti solo gli occhi. Ci si sarebbe detti in una delle capitali dell'Africa settentrionale. «Eccoci nel Cassaro, la zona centrale» annunciò Simone dal Pozzo. «Il nome deriva da quello che aveva durante la dominazione araba: al-Qasr, "il castello". Tutte le famiglie più illustri abitano in questo perimetro». «Non occorre che mi illustriate ciò che ho sotto gli occhi, se non ve lo chiedo» brontolò Eymerich. «Non sono qua in gita di piacere».
Il siciliano non si diede per vinto. «C'è un dettaglio che sfugge allo sguardo, e che dovete conoscere. La Palermo visibile ne nasconde un'altra invisibile. Le vie che stiamo percorrendo nascondono, nel sottosuolo, il labirinto dei qanat». «Cosa sarebbero i qanat?» «Gallerie sotterranee scavate dagli arabi. Forse avevano in mente un sistema fognario mai entrato in piena funzione. Palermo poggia su una foresta di cunicoli che arriva fino a Mondello, e oltre». Simone dal Pozzo gonfiò il petto. «Durante la rivolta dei plebei contro i francesi godere di accessi sottoterra si rivelò prezioso per salvare vite dai massacri che avvenivano in superficie». «Non mi interessa, non vi scenderò mai» rispose Eymerich. «Ha ragione un mio confratello di Gerona, frate Pedro Bagueny. Ho passato una vita intera a frugare sottoterra, tra canalette puzzolenti. Per una volta ho a che fare con un nemico che scende dal cielo, invece di emergere dalle fogne. Ne approfitterò per non imbrattarmi». Da quel momento padre Simone rimase zitto, salvo annunciare che stavano passando nel sobborgo dei Greci, piccola collina sull'antico porto. Entrarono in una vasta piazza alberata, sorvegliata da "ribaldi", come erano definiti i mercenari al servizio dei baroni. Parevano conoscere bene l'inquisitore di Palermo, perché aprirono i loro ranghi per farlo passare. Tolsero i berretti in segno di saluto e inclinarono le lance. «Sono uomini al servizio di Guglielmo di Romagna» spiegò Simone dal Pozzo. «II condottiero che Manfredi Chiaromonte ha assoldato per formare e addestrare le sue truppe». «Volete dire che l'edificio enorme in fondo a questo parco non è il palazzo reale?» chiese Eymerich. «No. La dimora del re, che del resto abita altrove, è meno imponente e sta nel quartiere della Galea. Quella che sembra una reggia è l'abitazione dei Chiaromonte, i veri padroni della città e di quasi un terzo della Sicilia». Eymerich, pur colpito dall'opulenza che aveva davanti agli occhi – fontanelle, viottoli cosparsi di ghiaia, panchine di pietra nascoste dai cespugli, secondo un gusto più arabo che cristiano –, non dimenticava i dettagli secondari. «Non dovevamo affidare Beatrice a un convento di suore?» «Sì, ma le Mantellate hanno la loro casa più a settentrione, diretta da Angiola Chiaromonte, sorella di Manfredi. La vostra ancella, durante il colloquio, se ne starà in carrozza. Dopo la porteremo a Santa Chiara». Eymerich girò la testa verso Beatrice, aggrappata al predellino. La ghiaia faceva sobbalzare il veicolo, e lei rischiava di ruzzolare sul sentiero. «Avete udito? Aspetterete la fine del colloquio, poi sarete condotta al luogo in cui passerete la notte». L'ancella fece un cenno di assenso. «Raccoglierò altri fiori. Salutate Manfredi Chiaromonte da parte mia. Ci siamo già incontrati».
L'ultima frase era di un'assurdità senza pari, al punto che Eymerich si chiese se la donna fosse fuori di mente. La ignorò e, sceso dalla carrozza, si avviò con padre Simone verso il palazzo. Si trattava di un blocco di pietra – o tale sembrava – con una torricella che sovrastava i camminamenti. Non era abbellito da nessun elemento decorativo, a parte due file di bifore nella parte superiore. Una nuda muraglia ne costituiva la base. Pareva l'incrocio smisurato tra una reggia e una fortezza, in pieno contrasto con i giardini che aveva attorno. Anche in quel caso Simone dal Pozzo fu riconosciuto e salutato dalla turba di ribaldi che presidiava l'ingresso, che si scoprirono il capo, portando al petto i cappelli piumati. Nel cortile quadrato, circondato da colonne possenti e da archi a sesto acuto, i religiosi furono accolti da un uomo in livrea, probabilmente un ciambellano. Questi fece un inchino profondo. «Padre Simone, è sempre un piacere ricevervi». «L'ammiraglio Manfredi è nei suoi appartamenti?» «Sì, credo che stia lavorando o riposando. Comunque vi riceverà subito. Salite pure le scale, mentre vado ad avvisarlo. Chi è il buon predicatore che vi accompagna? Lo devo annunciare». Padre Simone alzò un poco la voce, come per farla risuonare solenne. «Si tratta di padre Nicolas Eymerich, inquisitore generale del regno d'Aragona e magister di filosofia e di teologia. Ci ha concesso il privilegio di venire a visitarci e desidera conferire con il signore di Chiaromonte». «Vado subito». Uscito di scena il ciambellano, Eymerich e padre Simone salirono la larga scala di marmo che, da sotto il porticato, conduceva al piano di sopra. L'inquisitore d'Aragona era stupito da ciò che aveva davanti agli occhi. Tutto denunciava sfarzo, dai tendaggi di velluto ai muri affrescati con scene di caccia. I servitori, che andavano e venivano, erano una folla. Altrettanto numerosi erano i clientes, venuti a impetrare un qualche favore. «Figuratevi, magister, che un'ordinanza reale del 1309, tuttora vigente, vieta ai baroni di avere domestici in livrea» bisbigliò Simone dal Pozzo. «Potete vedere quanto sia applicata. Il baronato è cresciuto fuori da ogni controllo, sotto gli Angiò ma anche sotto gli aragonesi. Non hanno fede, pietà, convinzioni. L'avidità sfrenata è la sola legge che li guidi». Eymerich si accigliò, ma tacque. La sala delle udienze, al piano superiore, ospitava decine di persone – dal villano comune al ricco borghese, avvocato o notaio – venute a reclamare giustizia. Un ciambellano si fece largo a gomitate, fino ai due domenicani. «Seguitemi. Manfredi Chiaromonte vi riceverà subito». «Vengo anch'io?» chiese padre Simone. «Voi no» rispose con sgarbo il ciambellano. «Non siete richiesto».
14.Baronato Eymerich si ribellò. «Padre Simone viene con me. Siete voi a non essere richiesto. Sparite dalla mia vista». Il ciambellano tentennò prima di ritrarsi in buon ordine. Aveva perso ogni prosopopea. Manfredi Chiaromonte era alle prese con il suo "segreto" – come venivano chiamati i domestici personali –, che gli stava tagliando e curando le unghie. Il servitore, curvo su un ginocchio, indossava la livrea in teoria proibita. Era un uomo magro, stempiato, evidentemente abituato ai servigi più umilianti. Invece il suo signore, benché basso di statura, aveva un corpaccione che la poltrona su cui sedeva poteva a stento contenere e una criniera nerissima che gli scendeva sulle spalle in boccoli. Dimostrava una quarantina d'anni, ma era difficile determinarne l'età. Teneva gli stivali su un poggiapiedi e, all'ingresso dei domenicani, non pensò minimamente ad alzarsi. «Venite, buoni padri, e accomodatevi su qualche scranno. Il mio lacchè ha quasi terminato. In sua presenza potrete parlare liberamente, come se fosse sordomuto». Scoppiò a ridere. «Anche perché in effetti lo è!» Mentre afferrava una sedia per lo schienale, Eymerich si guardò attorno. Il lusso era quello di una reggia: arazzi, soffitto affrescato, mobili di legno pregiato. Il grande caminetto in marmo era spento e forse non era stato mai acceso. Vi era un'infinità di candelabri, al momento non utilizzati. Tappeti arabi coprivano l'ammattonato. Alcuni dipinti illustravano una grande battaglia, forse mitologica, di cui si era persa la memoria. Manfredi III congedò il servo callista con una spintarella, poi contemplò i visitatori. «Padre Eymerich da Gerona. E chi non ha udito il vostro nome? Un demonio, vogliate perdonarmi la facezia, al servizio del bene. Avrebbe dovuto accogliervi mio fratello Giovanni, rector della città, ma attualmente si trova nel castello di Mussomeli, di cui stiamo completando la costruzione. Cosa vi ha condotto qui?» «So, per bocca di Pietro il Cerimonioso, re d'Aragona, che in alcune province dei vostri feudi vi trovate a combattere nemici insoliti. Giganti feroci, scesi da velivoli sospesi nel cielo... Così, almeno, mi hanno raccontato». Manfredi si accigliò. «Vi hanno raccontato il giusto. A dire il vero, non so abbastanza di questa faccenda. So però di avere perduto finora decine di uomini, e non sotto le lance dei Catalani... Domattina intendo partire per il possesso di Mussomeli, dove i mostri si sono palesati la prima volta. Verreste con me?» «Perché no?» rispose Eymerich di getto. Solo dopo si ricordò di scambiare uno sguardo con Simone dal Pozzo, peraltro impassibile. «Sono venuto in Sicilia per sventare questa minaccia».
«Allora viaggeremo insieme» rispose Manfredi, cordiale. «Non potrei avere alleato più sicuro. Stanotte dormirete nel mio palazzo e cenerete con me». Eymerich chinò il capo. «Volentieri, signore». Ripensò ai modi troppo disinvolti di Beatrice: in un convento avrebbero potuto suscitare scandalo. «Avete modo di ospitare anche un'ancella sarda che mi è stata affidata a Oristano?» «Posso ospitare chiunque. È la vostra amante?» Eymerich sussultò, ma capì che per il feudatario quella non era un'ingiuria. «No, non lo è. Può dormire in questa magione?» «Di sicuro. Portatela qua». «Lo farò. Ora, signore, parlatemi dei Lestrigoni, o presunti tali. Sono davvero alti come si dice?» Manfredi scosse la testa. «Vorrei saperlo anch'io, e conoscere l'origine della leggenda. Per questo domattina vado a Mussomeli, accompagnato da un bel po' di armati. Quello che so per certo è che l'apparizione è stata capace di spaventare sia gli uomini sia gli animali. Le perdite sono state numerose». «Non si sarà trattato di un'allucinazione?» «Un'allucinazione ben curiosa, visto che i mostri sollevavano i miei uomini e li divoravano, partendo dalla testa. Dopo, dicono i testimoni, sputavano le ossa. Mussomeli, secondo quanto riferiscono i cavalieri superstiti, è un cimitero a cielo aperto». Qualcosa non tornava a Eymerich, che trovava il barone poco persuaso degli orrori che narrava. Perché, poi, se fosse stato convinto di quella storia si sarebbe recato sul luogo? Lo scetticismo del nobile appariva palese, ma per il momento l'inquisitore non poteva azzardare giudizi. «Ammiraglio, domattina andremo a visitare il vostro possedimento. Quanto è distante Mussomeli?» «Due giorni circa, a cavallo. Sapete cavalcare?» «Me la cavo, con l'aiuto di Dio». «È bello sapere di avere Dio dalla propria parte». Manfredi scoppiò a ridere. «Volete la verità, padre? Io, pur convinto della Sua esistenza e fermamente devoto, ho sempre adattato i precetti cristiani ai miei bisogni. Lo faccio ancora. Sono convinto che io e Lui abbiamo interessi comuni». L'espressione di Eymerich si fece severa. «Simile visione riduttiva della fede non è ammissibile, ammiraglio. Vi avevo sentito definire Latino, e persino guelfo. Parole vuote, dunque?» Manfredi Chiaromonte seguitò a ridere. «Parole vuote no. Scelte politiche, piuttosto. Io sono schierato dalla parte degli Angiò, ma non per compiacere il papa o chi altri. Il re aragonese
che in teoria ci governa è un uomo debole, un pavido di natura. Viene definito "Federico lo Scemo" o "Federico l'Asino". Sono definizioni fin troppo benevole, vi assicuro». «Me le hanno già riferite. Però gli avete giurato fedeltà». «Sì. Il motivo è presto detto. La Catalogna è la destinazione naturale del grano che coltiviamo qui. Napoli, dominata dagli angioini, non saprebbe che farsene, salvo momenti di carestia: riceve dall'entroterra tutte le vettovaglie che vuole. Per questo mi tengo stretto il buon Federico, pur parteggiando per gli Angiò. Due mercati sono meglio di uno solo». Eymerich non seppe se apprezzare la sincerità del feudatario o rammaricarsi del suo cinismo. Guardò Simone dal Pozzo. Questi non aveva reagito in alcun modo. Probabilmente era abituato a discorsi simili. Curvò leggermente il capo. «Bene, ammiraglio Chiaromonte. Riparo la mia ancella nel vostro palazzo e domattina parto con voi alla volta di Mussomeli. Non so se potrò tornarvi utile. Chi non crede nel profondo, di norma, ostacola le azioni di chi è mosso dalla fede». Manfredi dimenò il corpo da obeso nella poltrona che lo imprigionava. «Io non vi ostacolerò per nulla, padre. Piuttosto, desiderate un po' di vino? È bianco e fresco. Sto per bere la mia caraffa pomeridiana». «Grazie, no». Eymerich si alzò e, dopo un saluto compito, uscì dalla sala con Simone dal Pozzo al seguito. Quando fu nel corridoio, illuminato dalle bifore, si sfogò. «Un mezzo ateo e un ubriacone! Tanto grasso che si muove a stento! Ma davvero, padre Simone, accettate di essere sotto il governo di una simile botte di empietà?» L'inquisitore di Palermo, un po' imbarazzato, raggrinzì ulteriormente le rughe che gli segnavano il viso. «Tutti i baroni siciliani sono così, magister. Latini o Catalani che siano, pensano solo al tornaconto personale. La nozione di bene pubblico è loro ignota, quella di Stato o Monarchia anche. Non ambiscono ad altro che acquisire territori per spremere i plebei che li abitano». «Voi giudicate tutto ciò normale? Accettate la prepotenza dei Chiaromonte?» «La accetto solo perché l'ammiraglio non si ammanta delle scuse ipocrite degli altri baroni. Vi assicuro che un Ventimiglia, un Alagona o un Lancia non hanno una visione diversa, anche se annegherebbero in fiumi di retorica per giustificare le loro gesta. Manfredi III ha il pregio di parlare chiaro». «Chi parla come lui merita il rogo. O l'Inquisizione siciliana ha per unico bersaglio i poveracci?» «Certo che mira ai poveracci. A chi altri, sennò? Così è il nostro tribunale, in tutto il mondo. I nobili, anche se miscredenti o eretici, non li si può toccare».
Eymerich fece un cenno di diniego. «Vedo che io e voi abbiamo visioni diverse. Adesso, però, dobbiamo occuparci d'altro. Seguitemi e state zitto. La vostra idiozia mi costerna più di quella attribuita a Federico IV». Beatrice non aveva raccolto nuovi fiori, ma sedeva nel calesse, riparato dall'ombra di un pioppo. «Non dormirete in un convento» le disse l'inquisitore. «Sarete ospite di Manfredi Chiaromonte. Scendete». La donna obbedì di buon grado. «È un'ottima notizia. Non c'è nulla di peggio che stare fra le suore. Non avendo nulla di cui discorrere, sparlano l'una dell'altra. E, nel tempo libero, o pregano o cercano, in segreto, il modo di estirparsi i baffi». Il pensiero di Eymerich corse a suor Magdalena Rocaberti. «Non tutte le religiose sono così! La volete smettere di essere insolente a ogni frase che pronunciate? Comincio a perdere la pazienza». «Come volete, magister» rispose l'ancella, con sottomissione persino eccessiva. Eymerich, esasperato, tornò verso il palazzo. Ne uscivano dei servitori, tutti rigorosamente in livrea, mandati ad accogliere gli ospiti. «Voi prendete la carrozza e tornate in convento» disse a padre Simone. «Ci rivedremo domattina». E a Beatrice, partito il confratello: «Quanto a voi, rimarrete qui una decina di giorni, come minimo. Domani parto e non so bene quando ritornerò». «Ma io vengo con voi!» «State scherzando? Ci mancherebbe solo questa!» Nel cortile, affollato di postulanti quanto la sala delle udienze, Manfredi stava scendendo lo scalone, reggendosi a fatica al corrimano e aiutandosi con un bastone dal pomo dorato, seguito da uno stuolo di valletti. Attorno a lui era tutto un profluvio di inchini e saluti con ampi volteggi dei cappelli. D'un tratto il feudatario si arrestò, come stupito. Aggrottò le sopracciglia e zoppicò verso Eymerich. Questa volta fu Manfredi a scappellarsi. Non salutò però l'inquisitore, bensì Beatrice. «Signora, nessuno mi aveva preannunciato la vostra venuta a Palermo!» Al colmo dello stupore, Eymerich esclamò: «Davvero conoscete questa ancella?». «In effetti è vestita come un'ancella» disse Manfredi «ma ho occhi ancora abbastanza buoni per riconoscere Eleonora d'Arborea, figlia del giudice Mariano!» Si inchinò nuovamente. Lei gli porse la mano, che avervi preavvertito, come incognito, su suggerimento per spostarsi da Oristano. percorso».
il nobile baciò con estremo rispetto. «Vi chiedo scusa di non avrei dovuto, signor ammiraglio. Desideravo viaggiare in di mio padre, che mi ha mandata. Lui è ormai troppo anziano Sono venuta io, ma travestita, per evitare agguati lungo il
«Voi... voi..», balbettò Eymerich, sbalordito come raramente era stato in vita sua. Eleonora gli sorrise. «Proprio io, padre Nicolas. Mi avete incontrata ad Alghero che ero bambina, non potevate riconoscermi. Vi domando scusa per avervi ingannato. Purtroppo non potevo fare diversamente, se volevo giungere in Sicilia incolume». Manfredi, ancora in preda alla meraviglia iniziale, gridò ai domestici, ai "ribaldi" e ai cortigiani: «Sgomberate il palazzo di tutti questi estranei! Per oggi le udienze sono sospese. Tornino nei prossimi giorni o si rivolgano al giustiziere della città!». Mentre i suoi uomini eseguivano e la folla defluiva lentamente, il conte disse a Eleonora: «Immagino, madonna, che solo una minaccia grave vi abbia condotta fin qui, in questa maniera bizzarra. Un pericolo che sovrasta sia la Sicilia sia la Sardegna». «Esatto, signore. Si tratta anzi di pericoli molteplici. Per alcuni di essi, l'intervento di padre Nicolas può rivelarsi indispensabile». Eymerich cominciava allora a riprendersi dal proprio sbigottimento. «Sarò lieto di aiutare, se posso, ma devo capirci qualcosa». «Più che giusto, e vale anche per me» rispose Manfredi. «Propongo di discuterne fra tre ore a cena. Nel frattempo, procurerò a entrambi stanze degne del vostro rango, e a madonna d'Arborea abiti conformi al suo lignaggio». «Siete sempre di una cortesia squisita, signor conte» rispose Eleonora. Si lasciò baciare nuovamente la mano e porse i fiori che teneva nella sinistra. «Li ho raccolti per voi. Condensano i profumi siciliani, non troppo diversi da quelli sardi. Segno che qualcosa di più della politica ci deve unire». Manfredi richiamò il segreto e gli ordinò di portare il mazzo nel suo studio personale. «Parole giustissime, madonna. Ci vediamo più tardi a cena». Eymerich ed Eleonora d'Arborea furono presi in consegna da un manipolo di domestici, che li guidarono attraverso i corridoi del primo piano, tutti affrescati e illuminati da una lunga fila di torce. L'inquisitore era nervoso, come sempre gli accadeva quando una situazione sfuggiva al suo controllo. Tacque per un poco, poi sussurrò all'orecchio di Eleonora, prima di separarsi da lei per imboccare un diver-so corridoio: «Spero che abbiate avuto buone ragioni per ingannarmi. Normalmente chi lo fa poi se ne pente». Come al solito, la donna non si lasciò minimamente turbare da quel tono minaccioso. «Lo vogliate o no, padre Nicolas, siamo oggettivamente alleati. Lo capirete a cena. E devo dire che la rudezza dei vostri modi non mi dispiace. Stiamo per combattere una guerra, e qualsiasi uomo deciso è il benvenuto». Inquieto, ma anche leggermente divertito (cosa che non avrebbe mai confessato a se stesso), Eymerich seguì un domestico lungo una serie di stanze che si aprivano l'una nell'altra, attraverso porte perfettamente allineate. Erano salottini vezzosi, studioli, sale di musica, con divani eleganti, poltroncine, pareti affrescate.
Il domestico scostò una tenda di velluto verde, che celava una stanza d'angolo. «Ecco, padre. Voi potrete dormire qua». Era un ambiente molto piccolo, ma aggraziato, con un letto a baldacchino che troneggiava al centro, un tappeto grande quanto il pavimento, un baule intarsiato, due sedili imbottiti, un candelabro d'argento. La luce entrava da una trifora con doppie colonnine. «Ma io non posso dormire in un luogo come questo!» esclamò Eymerich, quasi scandalizzato. «Perché?» chiese il domestico, stupito dalla reazione. «Desiderate una stanza più ampia?» «Al contrario! Questa camera da letto è piena di oggetti inutili, di orpelli superflui, di coltri polverose! Scommetto che sopra e sotto quel tappeto orribile proliferano pulci, ragni e altre bestiacce. Senza contare quelle che potrebbero cadermi addosso dal baldacchino!» «Padre, vi assicuro che l'intero palazzo viene ripulito tutti i giorni». Il domestico, un uomo anziano dai baffi spioventi, faticava a capire. «L'igiene, qui, è molto curata. Esiste persino un cagatoio a ogni piano, che non trovereste nemmeno nella reggia di Federico. Quale tipo di stanza vorreste, esattamente?» «Avete un vano con pareti nude, un pagliericcio, nessun arredo e senza tappeti?» L'uomo rifletté. «Mi vengono in mente alcune celle nei sotterranei. Umide, piene di topi». «No, non va bene. Null'altro?» «Alcune stanze per la servitù di basso rango, all'ultimo piano. Subito sotto i tetti. Quasi prive di arredi». Eymerich fu sollevato. «Ecco ciò che fa per me. Preparane una. Dormirò là». «Non occorre prepararla, è già disponibile. Dove avete lasciato il vostro bagaglio, padre? Dopo che vi sarete sistemato, andrò a cercarlo e ve lo porterò». «Non ho nessun bagaglio, non mi occorre. Mi basta la mia bisaccia, che contiene solo libri». Salirono una scaletta riservata alla servitù e giunsero in soffitte basse, con al centro dei corridoi colonne di legno rozzamente tagliate per reggere le volte. Le celle erano numerose. Il domestico ne aprì una, dal battente cigolante. «Questa stanza vi può andare bene?» Eymerich, per varcare la soglia, dovette abbassare un poco la testa. Ciò che vide gli piacque immediatamente. Non vi era altro che un tavolino, con posata sopra una candela spenta, una sedia, un pagliericcio retto da cassettoni e, in un angolo, una brocca e un secchio destinato ai bisogni corporali. Notò con piacere un piccolo crocifisso inchiodato a una parete nuda. Un po' d'aria e di luce erano assicurati da una finestrella. Il caldo era notevole, ma lo avrebbe sopportato. «Come si fa a capire che ore sono, da quassù?» chiese. «Oh, è facile. C'è una campanella che riecheggia nel palazzo, ma soprattutto qui».
«Molto bene. Per maggiore precauzione, salirai a chiamarmi fra tre ore». «Agli ordini, padre». Rimasto solo, Eymerich ispezionò il pagliericcio. L'esame lo soddisfece. Non c'erano parassiti visibili, e anche il vano non ne mostrava. Si accostò allora alla finestrella, costretto a piegarsi un poco per la curvatura del soffitto. Vide sotto il sole ancora alto distese di tetti di paglia o ardesia, più raramente di tegole, e il campanile di una grande chiesa. Poco più oltre si spalancava una rada grande e azzurra, sorvolata dai gabbiani. Navi di ogni forma vi erano ormeggiate. L'attenzione dell'inquisitore fu attratta da alcune luci discoidali che stavano attraversando il cielo in una specie di formazione triangolare. La visione fu di breve durata, perché quasi subito il gruppo si scompaginò e schizzò in direzioni differenti. Eymerich si disse che si era trattato di un effetto ottico dovuto alle onde marine. D'altra parte, la profondità della feritoia non gli consentiva di avere una visione chiara. Si avvicinò al giaciglio e vi si adagiò, dopo avere tolto i calzari e gettato in un angolo la bisaccia. Mise le mani sotto la nuca. Si sentiva spossato, sebbene la mattinata non fosse stata particolarmente attiva. Dieci anni prima ciò non gli sarebbe successo, ma il tempo passava per tutti. Chiuse gli occhi come per un sonnellino, invece si addormentò profondamente.
15.La cena dei potenti Eymerich fu svegliato non dal suono della campanella, che nemmeno udì, ma dall'ingresso nella sua stanza del domestico che lo aveva accompagnato. L'uomo anziano reggeva un candeliere. «Perdonatemi, padre, ma sarebbe ora di scendere in sala da pranzo. La tavola è già imbandita». «Vengo». L'inquisitore avrebbe preferito farsi trovare sveglio. Si stirò un poco, cercando di nascondere quel gesto, e si mise in piedi. «Non mi hai detto come ti chiami». «Aristides. Sono greco, come potete capire». «Sei da molto al servizio dei Chiaromonte?»
«No, da un paio d'anni appena. Prima ho combattuto al servizio dei Palizzi, alleati dei Chiaromonte da un ventennio. Quando sono rimasto ferito a una gamba, mi hanno assunto come cameriere». Aristides sembrava riluttante a parlare di se stesso, ed Eymerich non era per nulla interessato alla sua biografia. Si lasciò guidare fino al primo piano. La sala da pranzo era nascosta da tende di velluto rosso. Quando mise piede nell'ambiente, l'inquisitore dovette battere le palpebre, tanta era la luminosità del salone. Lampadari a corona sul soffitto e candelabri sui tavoli erano riverberati da specchi, tra reciproci bagliori. Alla luce si mescolavano, quasi appartenessero alla medesima materia, effluvi vari, vagamente inebrianti. Di agrumi soprattutto, però mischiati agli odori molli delle spezie agrodolci e dello zucchero candito. Manfredi Chiaromonte era già assiso su uno scranno, all'estremità di un lungo tavolo apparecchiato. Alla sua sinistra sedeva una dama un po' segaligna, dalla carnagione scura, vestita di azzurro e con un velo trasparente che le scendeva dietro le spalle, dove terminava un'acconciatura alta e complicata. Certamente la moglie dell'ammiraglio, Margherita Passaneto. A destra era invece seduta Eleonora d'Arborea, quasi irriconoscibile. Aveva indossato un abito di velluto nero, con maniche a sbuffo e una veletta ricamata a coprirle la scollatura. Un gioiello le pendeva al collo. Non si poteva dire che fosse bella; ciò che risplendeva in lei era qualcosa di completamente diverso dall'avvenenza: era la "sovranità". Eymerich riconobbe tra sé che era stata estremamente abile nel mascherarsi da ancella. Invece di camuffarsi fisicamente, si era limitata a celare quella sua qualità così evidente. C'erano altri commensali: due bambini, un maschio e una femmina, con il viso affogato in ampi colletti; un cappellano dal naso lungo; due dignitari sconosciuti, di certo milites appartenenti alla nobiltà minore; un uomo d'arme con il cranio rasato e i muscoli che quasi gli schizzavano da sotto il farsetto, rivestito da una cotta del tutto inutile in quel contesto. Manfredi indicò una sedia vuota all'altra estremità del tavolo, proprio di fronte a sé. Parlò in un catalano fluente. «Sedete, padre Eymerich. Aspettavamo voi per iniziare». Il cappellano mormorò una breve preghiera, e tutti si segnarono. Subito dopo la servitù, una decina tra uomini e donne, cominciò a posare sul tavolo ‒ già carico di pastelle profumate, di caraffe di vino bianco, di composizioni di arance ‒ i vassoi con le portate: vermicelli con prugne e latte di mandorla, rocchi di salsiccia arrostiti nella cenere, pesce spada con fichi, fiori di zucca, frutta caramellata, gelati, pane d'ogni tipo. Eymerich, parco di costumi, si chiese arcigno se tutto quel ben di Dio venisse imbandito in onore degli ospiti o davvero costituisse l'alimentazione consueta del signore e della sua famiglia. Sospettò una verità intermedia: cucina abituale ma arricchita per l'occasione. «Padre Nicolas, madonna Eleonora, non vi ho ancora presentato i nostri commensali» disse Manfredi, mentre i domestici versavano il vino nelle coppe. Snocciolò i nomi del cappellano e dei dignitari, arricchiti da indicazioni geografiche sconosciute. Solo l'ultimo nominativo suscitò nell'inquisitore un qualche interesse. «E questi è il capitano Guglielmo di Romagna». Manfredi indicò il soldataccio muscoloso. «Il condottiero a cui ho affidato la mia modesta truppa. Finora l'ha condotta di vittoria in vittoria».
Eymerich sbirciò il colosso. «Complimenti. Venite da lontano. Cosa vi ha portato fin qui?» «La brama di denaro. Cos'altro?» Il capitano scoppiò a ridere, subito imitato da Manfredi, dal cappellano nasuto e dai nobilucci. «Del resto Palermo ospita stranieri venuti d'ogni dove. I miei uomini sono in prevalenza tedeschi. Esiste un quartiere dei genovesi, uno dei greci, un altro degli amalfitani. Di solito sono commercianti e cambiavalute. Il loro movente, però, è identico a quello di noi soldati. Arricchirsi». Eymerich era disgustato: non dai discorsi cinici che udiva, quanto dai primi cibi che, con prudenza, aveva assaggiato. C'era zucchero ovunque, e la gamma dei sapori variava dal dolce all'agrodolce. Persino il vino era liquoroso. L'inquisitore detestava quel tipo di sapori; anzi, gli riusciva proprio insopportabile. Provò a sbocconcellare del pane, ma semi di sesamo, pinoli, uvette e spezie varie rendevano dolciastro anche quello. La salsiccia non era da meno, rovinata da un intingolo in cui si avvertivano il miele, lo zafferano e la scorza d'arancia. A quel punto, malgrado l'appetito sostenuto, smise del tutto di mangiare. Meglio il digiuno che quelle porcherie. «Attualmente vi sono guerre in corso?» chiese a Guglielmo di Romagna. «Ve ne sono di continuo, ma si tratta in prevalenza di scaramucce». Manfredi volle precisare meglio. «La fazione capeggiata dai Ventimiglia, detta anche dei Catalani, è di un'arroganza senza pari e di un'avidità smodata. Il loro sogno è di mettere le mani su qualcuno dei miei nove possedimenti. In ciò sono appoggiati dagli aragonesi. Non tanto da Federico IV, che, poveretto, non sa nemmeno dove si trova, ma da Pietro il Cerimonioso in persona... In che rapporti siete con lui?» «Pessimi» rispose Eymerich, in piena sincerità. Gli accordi raggiunti con il sovrano non avevano per nulla smorzato la sua antica avversione. Eleonora d'Arborea fece una risatina. «Ve lo posso confermare, conte Chiaromonte. Ne sono stata testimone quando ancora ero bambina». «Bene» approvò Manfredi. «Ma di politica converseremo più tardi. Ora dedichiamoci al cibo». Seguirono chiacchiere futili, a cui Eymerich non prese parte. Trangugiò di malavoglia qualche vermicello, per non rendere palese la sua avversione verso quei cibi. Per fortuna la servitù portò in tavola del cacio non condito, con la soluzione di zucchero e miele da colarvi sopra in ciotoline separate. L'inquisitore scelse solo il formaggio, così poté sfamarsi. A fine cena, Manfredi si rivolse alla consorte. «Mia cara, è ora che portiate a dormire Costanza e Andrea. Voi stessa sarete molto stanca». Mentre la dama conduceva fuori i due bambini, di singolare bellezza, i commensali si alzarono in piedi.
Prima che tornassero a sedersi, Manfredi interpellò il cappellano e i dignitari. «Amici miei, vi ringrazio per la piacevole compagnia. Ci rivedremo a tavola quando tornerò da un breve viaggio che intendo intraprendere domani». I tre si inchinarono e lasciarono la sala senza obiezioni, salvo una lieve smorfia di dispetto accennata dal cappellano. Forse avrebbe voluto scambiare qualche parola con il celebre Nicolas Eymerich, che lo aveva ignorato per tutto quel tempo. Erano rimasti solo l'inquisitore, Eleonora d'Arborea e Guglielmo di Romagna, più la frotta dei domestici. Manfredi congedò questi ultimi, salvo uno: un arabo molto anziano, con barba e capelli bianchi che facevano contrasto con la carnagione scura. «Portaci qualche liquore. Non troppo dolce, perché uno dei miei ospiti sembra non gradire i sapori vellutati». Eymerich apprezzò l'acume del padrone di casa. Trovava Manfredi diverso dal signorotto rozzo e volgare che si era atteso. Gli dava l'impressione di una persona intelligente e di maniere quasi regali. D'altra parte, era noto che, con il fratello, governava da sovrano larga parte della Trinacria. Quando furono rimasti soli, Manfredi si appoggiò pesantemente contro lo schienale dello scranno, intrecciò le dita sul ventre ed esordì: «Il problema, in Sicilia ma credo anche in Sardegna, è mantenere vive le signorie che, del tutto o in parte, governano le due isole. Per questo occorre destreggiarsi tra i grandi casati che dominano il Mediterraneo. Due principalmente: gli angioini di Napoli e gli aragonesi di Barcellona. Non conto genovesi o veneziani, più interessati al puro commercio e, per ciò che riguarda le conquiste territoriali, a quanto resta dell'impero di Costantinopoli... Siete d'accordo, madonna Eleonora?». La donna assentì. «Anche il giudicato di mio padre, per mantenere la sua autonomia, è costretto a scendere a compromessi con i regni che possiedono le flotte più numerose, capaci di controllare i traffici e il flusso di merci. Non scordate poi che siamo teoricamente in guerra aperta con gli aragonesi. Non hanno rinunciato a sottometterci, ma non dispongono di forze sufficienti e attualmente la situazione è di stallo». «Riuscite a sfamarvi?» «Sì, ma la nostra produzione di cereali è a volte insufficiente. In quei momenti dobbiamo importare il vostro grano». «Ecco il punto». Manfredi si drizzò sullo scranno e posò le dita aperte sul tavolo. «Le economie delle signorie e dei regni mediterranei sono in equilibrio. In passato, durante le carestie degli anni Cinquanta, la Sicilia è stata tenuta in vita dai cereali importati da Napoli o da Alghero. Adesso siamo noi che esportiamo, seppur non ancora a sufficienza, frumento e agrumi verso la Catalogna, la Sardegna e, in misura minore, la stessa Napoli. Perché ciò possa perdurare, bisogna che l'attuale assetto politico non registri scosse». «A quali scosse vi riferite, ammiraglio?» chiese Eymerich.
«A un riaccendersi del secolare conflitto tra aragonesi e angioini. Gregorio XI, nella sua saggezza, preme su di me perché favorisca la pace definitiva tra Federico IV lo Scemo e la regina di Napoli, Giovanna d'Angiò. Sto facendo del mio meglio, sostenuto da mio fratello, il conte di Modica. Guai se si creasse un incidente proprio ora». «Quale incidente?» «Un riesplodere della guerra tra baroni. Il partito dei Catalani contro quello dei Latini, come vent'anni fa. Con forze invincibili a lato dei primi». «Tipo i Lestrigoni?» Manfredi annuì con vigore. «Esatto. Ve l'ho detto, padre, io non so se esistano davvero o siano pura leggenda. Lo scopriremo in loco. Le corrispondenze che ricevo da Francesco sono allarmanti. Lui non ha notato nulla di insolito, però le scaramucce con le truppe di Blasco Alagona, che si sono svolte nei dintorni di Mussomeli, hanno visto ogni volta la vittoria del Catalano. E tutti, dico tutti, i miei soldati superstiti hanno parlato di luci nel cielo e di giganti spietati dediti al cannibalismo. Capite cosa questo potrebbe implicare». «La fine dell'equilibrio di forze nel Mediterraneo» rispose Eleonora. «L'affermarsi definitivo della casa aragonese. La sconfitta degli angioini. Il ritorno di Federico IV a Palermo. Col tempo, la probabile sottomissione definitiva della Sardegna e forse anche di Napoli. L'instaurarsi di un monopolio navale e commerciale». «Siete perspicace, madonna». Eymerich rifletté mentre sorseggiava il liquore che nel frattempo il domestico aveva servito: un distillato di fiori di sambuco, non troppo dolce. Ciò che udiva non era in armonia con quanto gli aveva detto Pietro il Cerimonioso, che pareva paventare i Lestrigoni, o chiunque fossero, come una minaccia al suo casato. Era però vero che tra aragonesi di Spagna e di Sicilia non correva buon sangue. Che Pietro temesse in segreto un rafforzamento di Federico IV? Meglio rinviare la soluzione del quesito e intanto affrontare l'enigma che più gli premeva. «Io ho buone ragioni per ritenere che le apparizioni vedano implicato un uomo temibile, cultore della negromanzia e delle arti occulte» disse, atteggiando il viso a una serietà che potesse fare escludere qualsiasi intenzione scherzosa. «Un giudeo chiamato Ramón de Tàrrega. Questo nome vi è nuovo?» «Mai sentito» rispose Eleonora. «Nemmeno io». Manfredi Chiaromonte scosse il testone. «Gli ebrei siciliani sono tutto sommato inoffensivi, e comunque ben vigilati. Con i preti della sinagoga ho un buon rapporto, e non mi hanno mai dato fastidi. Per questo non ho mai fatto troppo caso ai bandi inferociti di padre Simone dal Pozzo. Che, sia detto tra noi, ha un'aria di vecchietto angelico e uno spirito di fanatico». Eymerich lasciò correre, per il momento, l'oltraggio al confratello. «Il giudeo di cui parlo, catalano e non siciliano, ha finto da tempo di abbandonare la religione dei padri. Si dice
cristiano e si è fatto accogliere nell'ordine dei Predicatori. Avete ricevuto visite di domenicani, di recente?» «A me non risulta» disse Manfredi. «Considerate che, anche se sovrintendo al porto, non sono informato di chi va o chi viene». «E voi, madonna Eleonora?» «Non ne so nulla. Mio padre non me ne ha parlato». Eymerich sospirò. «Poche ore fa ho visto venire dal mare, alti nel cielo, oggetti luminosi di forma circolare. Viaggiavano velocissimi e si sono dispersi in direzione dell'entroterra». Manfredi e Guglielmo di Romagna si scambiarono un sorriso. Il condottiero disse: «Padre Eymerich, non dovete avere viaggiato spesso su una galea da guerra. Accade di frequente che gli scudi circolari appesi alle fiancate proiettino riflessi verso il cielo, riverberati dalle nuvole. A volte i marinai ne sono terrorizzati. Dico bene, ammiraglio?». «Sì. Succede spessissimo, e dà vita alle più stravaganti leggende» confermò Manfredi. Eymerich non fu troppo lusingato dal sentirsi comparare a un qualsiasi marinaio superstizioso. Tuttavia trattenne l'irritazione, perché in quel momento seguiva altri pensieri. «Signori» disse alzandosi in piedi «è già tardi. Domattina dobbiamo svegliarci presto e io ho bisogno di riposare. Mi perdonerete se ora mi ritiro nella mia stanza, grato per una cena così ricca e squisita». Anche Manfredi si alzò. «Ciò vale per tutti. Buonanotte, l'appuntamento è nel cortile all'ora prima». Fuori della sala erano in attesa, con i candelieri in mano, Aristides e due ancelle incaricate di scortare Eleonora d'Arborea nel suo appartamento. Eymerich fece in tempo a intercettare la giovane donna prima che la prendessero in consegna. «Madonna» le sussurrò «nulla potrà persuadermi che vostro padre vi abbia mandato in Sardegna in veste di ambasciatrice, per di più travestita da serva». Eleonora gli rivolse l'abituale sorriso, che l'abbelliva e accentuava la sua malizia consueta. «Come sempre sapete leggere in profondità, magister... È vero, le cose non sono andate esattamente come le ho spiegate. In Sardegna incombeva su di me un pericolo molto grave». «Un attentato alla vostra vita?» «No, peggio. Un matrimonio. L'anno scorso mio padre mi ha promessa in sposa a Brancaleone Doria». Eymerich sollevò le sopracciglia. «Ma è un alleato fedele di Pietro il Cerimonioso e un nemico mortale degli arborensi!»
«Proprio così» rispose Eleonora con una smorfia. «Aggiungete che è un uomo vecchio, manesco e bruttissimo. A mio padre è venuta l'idea balzana di addomesticare l'unico sardo che gli resiste facendone il proprio genero, senza nemmeno pretendere che, prima delle nozze, cambiasse partito. Secondo me è una pura follia». «Dunque siete fuggita da casa senza il permesso di Mariano!» «Non esattamente. Diciamo che ho approfittato di un'occasione e che mia madre mi ha aiutato». Eleonora strizzò un occhio, cosa veramente insolita in una dama e rara persino tra le servette ammodo. «Da me non saprete di più. Per quanto vi trovi simpatico, non siete il mio confessore. Buonanotte». Mentre saliva le scale che lo portavano in soffitta, Eymerich commentò a mezza voce. «Bizzarra creatura. Tutto il contesto è bizzarro. Le signorie insulari hanno per norma l'intrigo e la complicazione». «Come dite, padre?» chiese Aristides, che lo precedeva tenendo alto il candelabro. «Lascia perdere. Pensa a fare luce». L'inquisitore si sentiva prossimo alla spossatezza, e il piede destro, da un paio d'ore, gli infliggeva brevi crampi fastidiosi. Doveva salire aggrappato al corrimano. Diede la colpa agli alimenti troppo dolci, che pure aveva assaggiato appena. Stendersi sul letto non gli diede conforto, perché i crampi continuarono, estendendosi alla tibia. Non erano l'unico fastidio che gli ostacolava il sonno. Adesso la servitù aveva occupato le stanze adiacenti, e gli pervenivano alle orecchie risatine, brandelli di chiacchiere stupidissime e persino sospiri di amanti. Una frase smozzicata lo fece sobbalzare: «Sulu pacienza ci voli, avimu d'aspittari. I Chiaromonte stannu carennu. Un'hannu nenti chi fari...». La voce si perse. Impossibile dire da quale direzione provenisse. Eymerich cercò di aguzzare l'udito, ma pochi istanti dopo la stanchezza ebbe la meglio e lui si addormentò profondamente.
16.Un'infanzia difficile - 2 Nel 1328 padre Dalmau Moner, magister di logica presso lo studio domenicano di Gerona, non si era ancora ritirato a vivere nella piccola grotta, tra il chiostro e la cinta delle mura romane, in cui avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita. Tuttavia, a trentasei anni, era già ammirato per l'austerità dei costumi, per la severità innata, per la brusca eloquenza dei suoi sermoni. Era in odore di santità, e l'età ancora giovanile non era di ostacolo a quella fama. Del resto aveva tutte le apparenze dell'uomo maturo, e la barba – era tra i pochi domenicani autorizzati a portarla – aveva ciocche bianche in più punti. Ammirazione non voleva dire simpatia. Padre Dalmau amava la solitudine e rifiutava ogni forma di estroversione, tanto nei riguardi dei confratelli che degli allievi. Era capace di atti di carità profonda e lo aveva dimostrato più volte; tuttavia era impossibile strappargli un
sorriso, una frase leggera, un'uscita che non fosse improntata a gravità. Veniva dunque evitato, e sedere accanto a lui a mensa era considerato una sorta di punizione. Lo stesso priore, se doveva parlargli, lo faceva con circospezione involontaria, come se temesse un rimbrotto da parte dell'asceta. Si considerava dunque singolare il legame che si era instaurato tra Dalmau Moner e un bambino di soli otto anni. Li si vedeva spesso passeggiare nel chiostro, attorno al pozzo centrale, impegnati in quelle che parevano conversazioni. In realtà era chiaro che era frate Dalmau a parlare, mentre il piccolo Nicolas Eymerich lo seguiva compunto, le mani dietro la schiena. Cosa dicesse il magister era una curiosità che il convento cercava invano di soddisfare. Nessuno ardiva avvicinarsi tanto da cogliere qualche sillaba di quelle allocuzioni, a volte protratte per un'ora o due. In un pomeriggio primaverile, però, il dialogo fu veramente tale e diverso dal monologo che gli altri frati potevano figurarsi. «Frate Mateu, il tuo precettore, si è lamentato di me» disse Dalmau. «Dice che io rovino la tua educazione, imbevendoti di massime non degne di un buon cristiano. Si è rivolto direttamente al priore, senza neppure venirmi a chiedere spiegazioni... ammesso che io ne abbia da dare». «Frate Mateu non mi insegna niente» si lamentò Nicolas. «Devo solo imparare a memoria cose di cui nemmeno lui conosce il significato!» «Non devi parlare così di un precettore di talento!» lo rimproverò Dalmau. «Tua madre lo ha scelto perché era il più rinomato e il più richiesto!» Aggiunse: «Immagino che il brav'uomo faccia quello che può». Nicolas non rispose. Accettò il rimprovero: ogni parola del domenicano per lui era legge. «È tipico di ordini come quello di Mateu rifiutare, o ignorare, la logica aristotelica» proseguì padre Dalmau. «Preferiscono le leggende, "auree" oppure no, ai tomi filosofici. E la ripetizione a memoria è l'unica via di trasmissione della conoscenza che concepiscono... Malgrado ciò, Nicolas, gli devi obbedienza assoluta. È sulla disciplina cieca che si basa il nostro sistema di valori. Grazie a essa stiamo dissodando l'Europa e edificando un nuovo impero». «Ma mi impone di studiare Raimondo Lullo, che voi giudicate eretico!» protestò Nicolas. «Sì, ma per semplice apprendimento mentale. Materia solubile, nel mare della conoscenza. Il tuo dovere di obbedire non cambia di una virgola». Le sopracciglia un po' troppo folte, e precocemente ingrigite, del magister si aggrottarono. «Nicolas, avresti modo di consacrarmi alcune ore in più, uno dei prossimi giorni? Vorrei mostrarti l'attività di un domenicano, non io, nell'esercizio delle sue funzioni. Vedrai come la logica può sposarsi con l'ortodossia della fede vera». Il bambino abbassò lo sguardo. «Non so se mia mamma me lo permetterà».
«Credo di sì. Ho stima per madama Llum Eymerich. Comunque è una donna, e come tale ha i suoi limiti. Le farò avere un messaggio personale, non credo che si ribellerà». «Cosa volete mostrarmi?» chiese Nicolas. Dalmau cercò parole comprensibili, pur sapendo che il bambino afferrava i concetti più astrusi. «Esiste un tribunale superiore a ogni altro, detto dell'Inquisizione. Lo hanno istituito vari papi. Qui in Catalogna, e nell'Aragona, è retto dai Predicatori. Si riunisce di rado, perché i casi da indagare non sono molti, ma è imminente una delle rare sedute. Credo che sarebbe istruttivo, per te, vedere come agisce l'Ordine di San Domenico quando vuole colpire chi si ribella al cattolicesimo». «L'Inquisizione? Quella che brucia viva la gente?» «Sono anni che non accade nulla di simile, purtroppo. Né qua né nel resto del regno d'Aragona... Tu cosa ne sai?» «Ero molto piccolo. Mio padre mi portò a vedere uno spettacolo sacro, sotto la scalinata della cattedrale. Due uomini e due donne erano legati su mucchi di fascine. Fu dato fuoco. Strillarono a lungo». Dalmau Moner sospirò. «Era per il loro bene. Il fuoco serve a purificare, e sofferenze di breve durata possono preludere alla vita eterna». Nicolas si disse che non era esattamente lo scopo che si prefiggeva quando, nello scantinato, torturava e bruciava insetti che avevano invaso il suo campo. Forse doveva cambiare prospettiva... considerare di farlo per il bene delle vittime. Purché ciò non significasse ritrovarsele un giorno nell'altro mondo... Scacciò subito il pensiero. Che cosa stava farneticando? Gli insetti non hanno anima. «L'importante non è la pena, ma il processo» continuò padre Dalmau. «In esso risiede il valore educativo, mentre l'esecuzione della condanna tocca un altro valore, quello dell'esempio... L'inquisitore generale d'Aragona attualmente in carica si chiama Nicolau Rossell. È succeduto a padre Leonardo de Puycerda. È giovane ed energico... Solleverà una quantità di obiezioni quando gli proporrò di ammettere a un'udienza un bambino di otto anni, ma tu sei un caso speciale». «Perché "speciale"?» «Perché non ho mai conosciuto nessuno, anche di età molto superiore alla tua, mostrare una simile attitudine a proseguire il nostro lavoro». Era metà pomeriggio quando Nicolas lasciò San Domenico e si avviò verso casa. La dimora dei Marrell non era lontana. Percorso un tratto di camminamento, c'era solo da scendere per vicoletti e scalinate ricurve fino alle mura. Proprio sui bastioni, però, si annidava il pericolo. Vi sostavano spesso nugoli di bambini dai sei ai tredici anni, che si fingevano guerrieri e duellavano con bastoni e rami diritti raccolti sotto gli alberi vicini.
Nicolas ne aveva paura. Ciò che si rimproverava spesso era di avere timore di tutto. La madre gli aveva raccontato che era nato piangendo e aveva continuato a piangere per giorni, impedendo a lei e al marito di prendere sonno. Glielo rinfacciava: non era così che vedeva la luce un pargolo della nobiltà, sia pure di una nobiltà di recente acquisizione. C'era poi, ancor più riprovevole, la sua mania di correre a nascondersi non appena uno sconosciuto metteva piede in casa. A quattro anni già si infilava sotto i letti o negli armadi, timoroso che qualcuno lo potesse scoprire. Come se ogni visitatore fosse venuto con l'intenzione di fargli del male. Nicolas sapeva che donna Llum aveva ragione, ma l'impulso era per lui irresistibile. Percepiva tutto e tutti come una minaccia: gli insetti come gli uomini adulti, gli altri bambini come gli storpi che chiedevano l'elemosina agli angoli delle viuzze di Gerona. La città era oscura, i passanti potevano aggredirlo. E, se non lo facevano, lo deridevano. Era convinto che si ridesse di lui: per la sua goffaggine, per la sua altezza esagerata, per i panni spesso grotteschi di cui, ansiosa di esibire un lusso esteticamente discutibile, sua madre lo rivestiva. Poi c'erano i pericoli reali. I coetanei che giocavano sui camminamenti, per esempio. Nicolas si avviò nella loro direzione a testa bassa, nell'assurda speranza di rendersi invisibile. Naturalmente non funzionò. Al suo passaggio, i monelli interruppero i colpi di spada fittizi. «Guarda quello! Cammina come una papera!» esclamò il più anziano del branco, forse quattordicenne. «Sposta avanti la testa, si tiene curvo!» «Lo conosciamo già!» disse un ragazzino più giovane, ma corpulento. « È quello che veste da buffone e cammina da buffone. Lo abbiamo picchiato solo alcune settimane fa. E adesso osa rifarsi vivo!» «Ebbene, merita una nuova lezione. Oggi lo puniremo una volta per tutte. Povero sgorbio, hai avuto un bel coraggio a passare in mezzo a noi. Credi che la tua statura ci impressioni? Cammini gobbo perché sei gobbo dentro. Vesti da buffone. Ti aspetta una solenne bastonatura». Nicolas tremava per la paura, tuttavia aveva messo in conto un confronto del genere. In passato le aveva prese e si era salvato da danni peggiori con la fuga. In seguito aveva riflettuto. Quei bambini si attendevano una reazione normale e non erano preparati a una violenza smodata, di un livello tale da superare di gran lunga l'offesa. Per quello aveva nascosto nella manica il coltello più lungo e affilato trovato in casa. «Come ti chiami? Nicolau, se ricordo bene!» sbraitò il capo branco. «Porgi la schiena, se non vuoi che le bastonate ti rompano la testa!» Si avventò con il bastone alzato. Nicolas estrasse il coltello, lo impugnò a due mani e gli trafisse un braccio. I ragazzi attorno lanciarono grida spaventate. Nicolas capì che, per incutere timore, doveva spingersi fino in fondo. Come faceva, in cantina, con gli insetti: li schiacciava.
L'aggressore era caduto e si lamentava. Nicolas Eymerich trasse la lama dal muscolo dell'avambraccio. Cercò le caviglie e le incise in profondità. La sua vittima sarebbe stata per sempre zoppa. Il suo urlo ne fu una conferma. Gli altri ragazzini fuggirono sconvolti, urlando: «È pazzo! È pazzo!». Nicolas li squadrò, il coltello insanguinato in mano. «Può darsi» mormorò. «Ma voi non mi darete più fastidio».
17.Terre riarse La scorta che accompagnava Manfredi Chiaromonte, comandata da Guglielmo di Romagna, si componeva di una ventina di armati. Si trattava di "lance", mercenari a cavallo di varie nazionalità. Prevalevano i tedeschi, ma c'erano anche soldati dell'Italia continentale e qualche siciliano. Nessuno di loro era giovanissimo. Dovevano essere veterani delle guerre che si erano combattute sull'isola, soprattutto nella fase più acuta del conflitto che aveva opposto i baroni Catalani e Latini, eredi degli antichi ghibellini e guelfi, nella spartizione delle spoglie offerte ai predatori da monarchie fantasma. La colonna era preceduta da Manfredi e da Guglielmo, mentre Eymerich cavalcava alle loro spalle. La chiudeva un carro riparato da una tela poggiata su cerchi semicircolari. Vi sedevano Eleonora d'Arborea e padre Simone dal Pozzo, insieme a un paio di ancelle, praticamente bambine, incaricate di accudire l'illustre visitatrice sarda. Era passata da poco l'ora prima e la temperatura era bassa. Non c'erano nuvole in cielo: si annunciava una bella giornata. Manfredi, assiso in sella in maniera strana, con la schiena all'indietro per lasciare spazio al ventre rigonfio, si girò verso l'inquisitore. «Il cammino per Mussomeli comincia nella valle del fiume Eleuterio, prima delle rovine dell'antica città di Solunto». Tenendo le briglie con la sinistra, indicò il paesaggio attorno. «Guardate che magnificenza. Terre ricche di ogni ben di Dio. Senza la peste, la guerra, le rivolte della canaglia, qui ognuno avrebbe da sfamarsi». La visione in effetti era amena, ma Eymerich già la conosceva. Agrumeti, oliveti e pinete verso il mare, campi di cereali a perdita d'occhio in direzione dell'entroterra. Le montagne più alte erano ancora lontane, a parte il monte Pellegrino. Le alture che si scorgevano apparivano cinte di boschi, ma brulle alla sommità. «Tutto questo vi appartiene?» domandò. Manfredi fece una risatina. «In qualche caso sì, ma più spesso chi fa coltivare il suolo sono miei vassalli, milites, qualche mercante di città, qualche borghese. Io mi limito a riscuotere le imposte, in nome mio o del re».
«E ciò basta, direi, a garantirvi prosperità». «Sì, ma non per merito di Federico» borbottò Manfredi. «Secondo quel tirchio, io dovrei accontentarmi delle trecento onze che mi spettano, sulle mille annue che rendono le gabelle sul porto. Abbastanza da ridurmi in malora». Stavolta a ridere fu Guglielmo di Romagna. «Non esagerate, signore!» Guardò a sua volta in direzione di Eymerich. «Per darvi un'idea, padre, trecento onze sono il prezzo di un lussuoso palazzo di due o tre piani in piena Kalsa. Una galea armata ed equipaggiata ne costa quattrocento». «Sì, ma io e mio fratello esercitiamo il governo di fatto». Manfredi alzò le spalle. «Ciò comporta spese ingentissime. E spesso, per convincere chi ha in concessione un terreno a pagare le tasse che mi deve, serve qualche "pressione". Anche quelle mi costano». «Che tipo di pressione?» chiese Eymerich. «L'impiccagione. Un paio di contadini appesi alla forca, all'ingresso di un villaggio, sono il solo monito realmente efficace. Più che per gli scontri con i Catalani, le mie lance mi servono da esattori e carnefici. Direi anzi che le due funzioni si confondono». Eymerich non disse altro fino alla svolta che, lasciate le prossimità della costa, deviava verso l'interno. Il panorama cambiò all'improvviso: sparirono i campi ordinati e gli alberi da frutto, mentre la strada si riduceva a un sentiero, abbastanza largo e pieno di ciottoli. Terreni coltivati ve n'erano, ma tenuti senza troppa disciplina, accerchiati dalle macchie, punteggiati di cespugli. I casolari erano infrequenti e spesso avevano un'aria abbandonata. I fossi, più che acqua, trascinavano fanghiglia. Diventò un evento raro scorgere contadini al lavoro. I monti crescevano di altezza e, nel contempo, perdevano i manti verdi che, fino a poco prima, ne cingevano le prime pendici. Le tinte prevalenti diventavano l'ocra, il giallognolo, il grigio delle sabbie scese con le frane. Sotto il sole, però, era un colore bianco a predominare e a sovrapporsi alle diverse sfumature. Eymerich trattenne il cavallo - una bestiaccia marrone e fiacca, che intendeva solo il linguaggio del morso - e attese di essere a fianco del carro. Dietro la serpa Eleonora dormiva della grossa, appoggiata alla tela. Simone dal Pozzo sembrava tentato di imitarla. Eymerich interpellò il collega, che ebbe un soprassalto e raddrizzò la schiena. «Dov'è finita la disposizione armoniosa dei campi e dei frutteti?» domandò. «Qui tutto è informe, pietroso, privo di cura compositiva. Le terre hanno dei padroni, eppure sembrano abbandonate a se stesse e alla natura cieca». «Non stupitevi, magister» rispose l'anziano frate. «La Sicilia della costa ha una sua identità, la Sicilia interna non l'ha più. Ci sono state le rudimentali innovazioni agricole degli Angiò, la guerra civile, la peste, le scaramucce tra baroni che ci hanno riportati indietro. Prima degli svevi e persino degli arabi. Questa parte dell'isola è quasi spopolata, non ha una vera economia. Si strappa alla terra ciò che il suolo concede e che, nell'ipotesi migliore, basta appena a pagare ai signori ciò che essi pretendono».
«Capisco, ma se c'è penuria di braccia e di cibo, come fanno i baroni a tenere tanta gente in armi?» Additò la fila delle lance. «Come finanziano le loro guerre?» «Fino a ieri non avrei parlato di guerre vere e proprie» rispose Simone dal Pozzo. «La prassi, negli ultimi lustri, è sempre la stessa: mercenari dei Chiaromonte, dei Palizzi, degli Alagona o dei Ventimiglia calano sullo stesso villaggio, a pretendere imposte e decime. L'incontro viene risolto in un torneo, che al di là del nome pomposo è una semplice rissa. Due o tre cavalieri restano sul terreno». «E i contadini?» «Sono gli eterni sconfitti di questi tornei. Devono dare a chi vince la competizione ciò che chiede, oppure impegnarsi per i raccolti futuri. Chi può lascia le campagne e fugge in città. Chi non può spera che passi molto tempo prima che i baroni si ricordino del suo abitato e tornino a depredarlo». Eymerich rimase accanto al carro, ma non chiese altro. Non voleva lasciarsi distrarre dalle piccole beghe locali. Più se ne lasciava coinvolgere, più tendeva a dimenticare il suo scopo, che era uno solo: scovare Ramón de Tàrrega e farla finita con le sue stregonerie. Lo sconcerto iniziale di fronte ai prodigi macabri e cupi si era dissipato. Ora, tuttavia, avvertiva la mancanza di un nemico concreto da affrontare. Lui era fatto così: esisteva nella sua pienezza quando combatteva. L'assenza di un nemico dal profilo netto offuscava anche il suo. Tutto quel biancore diffuso era, in un certo senso, più pernicioso delle nubi e della notte misteriosamente breve che avevano avvolto la galea che lo portava in Sardegna. Un evento improvviso occorse a rammentargli che il cammino che aveva iniziato era quello giusto. Un comando secco di Guglielmo di Romagna fermò l'avanzata della colonna. Si udì Manfredi imprecare e cercare di mantenere in posizione il proprio cavallo, che aveva alzato a più riprese le zampe anteriori come volesse impennarsi. Eymerich diede di sprone e si portò in testa. Ciò che vide era veramente sorprendente. Il sentiero era bloccato da una decina di cadaveri umani e di animali morti. Per ricostruirne il numero, però, occorreva sommare i torsi. Le membra erano sparse tutto attorno, in una larga pozza di sangue stagnante che aveva impregnato la sabbia del terreno. I busti degli uomini e i corpi dei cavalli mancavano di arti e di testa. Braccia, gambe e zampe, in molti casi spolpate, ornavano i cespugli e le rocce che fiancheggiavano la strada. Alcuni cadaveri mostravano, nella stoffa lacerata che avevano addosso, l'emblema dei Chiaromonte: uno scudo scarlatto con tre cuspidi d'argento. «Maledetto sia Blasco Alagona e la sua stirpe!» urlò Manfredi levando il pugno. Le irrequietezze del suo cavallo non lo turbavano. «Non ha il minimo rispetto per i morti! Ne scempia i cadaveri, li disseziona! In barba non solo al codice di cavalleria, ma alle regole di guerra accettate da tutti!» Eymerich scese di sella e si avvicinò ai cadaveri e alle carcasse tenendo la cavalcatura per la briglia. «Non sono state mani umane a commettere lo scempio» disse dopo un poco. «Le membra di questi disgraziati non sono state recise con armi bianche, bensì strappate».
«Ma cosa dite?» esclamò Manfredi. «Descrivo ciò che vedo. Non notate, in corrispondenza delle mutilazioni, filamenti di carne e addirittura estremità di nervi? Nessun uomo sarebbe in grado di produrre ferite simili usando una spada o una scure». «E dunque? Cercate di farmi credere che sarebbero stati i... Lestrigoni?» Eymerich alzò il capo e dardeggiò su Chiaromonte una di quelle occhiate gelide che avevano creato la sua fama. «Io non cerco di farvi credere nulla» scandì. «Non so nemmeno se i Lestrigoni esistono, figurarsi se li incolpo. Dico solo che l'obbrobrio non è opera di uomini armati». Nel frattempo le lance, con tutta la loro aria da bravacci, si erano ritratte e parevano molto spaventate. Alcuni mercenari avevano giunto le dita e pregavano a fior di labbra. Lo stesso Guglielmo di Romagna si teneva in disparte, inquieto. «Un prodigio» mormorò. «È quello che penso anch'io». Simone dal Pozzo era sceso dal carro e si era fatto avanti a sua volta. Contemplava la scena con i suoi occhietti acuti. «Magister» disse a Eymerich «non sappiamo se gli aggressori fossero giganti. Cannibali come i Lestrigoni però lo erano. Guardate quante ossa spolpate ci sono in giro. La carne è stata rosicchiata fino all'osso». Eymerich poteva sopportare l'acume limitato di un feudatario, i timori di un soldato, ma non un difetto di logica in un confratello. Stava per sbottare, invece riuscì a volgere la propria collera in sarcasmo, accompagnandolo con un sorriso sprezzante. «Padre Simone, se mangiate un pollo partite dal corpo o da zampe e testa? Perché questo hanno fatto gli assassini. Hanno cominciato dalle parti più ossute e... diciamo così... meno pregiate». «Intendete dire che non si trattava di giganti cannibali?» chiese dal Pozzo, interdetto. «Non lo so. So però che varie belve addenterebbero gli arti per primi. E il motivo è ovvio. Si tratta di animali di taglia piccola o media. Lupi, linci o altro di simile». Manfredi fece un gesto impaziente. «Basta così. Allontaniamoci da questo luogo prima che gli assassini ci piombino addosso». «Non seppellite i corpi?» chiese padre Simone. «No. I resti sono sparsi ovunque, e perderemmo una giornata intera. Voglio arrivare a Mussomeli. Padre Nicolas reciterà una preghiera per gli uccisi. Sarà sufficiente perché salgano in paradiso, se lo meritano». Eymerich eseguì e rivolse alle lance un cenno benedicente. I mercenari parvero lievemente rinfrancati. Subito dopo Simone dal Pozzo tornò sul carro e la carovana si mosse.
Zoccoli e ruote sprofondarono in una poltiglia di sabbia e di sangue rappreso, senza curarsi di schiacciare resti umani e di spezzare gabbie toraciche. Il sentiero proseguiva sinuoso, fra tratti pietrosi e monti verdeggianti. Via via che il sole si approssimava alla sommità del cielo, il calore aumentava, senza un refolo di vento ad alleviarlo. Eymerich gettò indietro il cappuccio. Il suo cranio nudo era umido di sudore, che gocciolava dal filo sottile della chierica. Non si sentiva stanco, ma il piede destro, imprigionato nella staffa dal gonfiore, gli doleva un poco. Avvertiva un malessere leggero. Ne incolpò la sella e il cavallo mediocre che montava. Decise di non farvi caso. Raggiunse Eleonora d'Arborea, adesso ben sveglia. «Madonna, ciò che avete visto non vi ha spaventata?» «No, anche perché tenevo gli occhi chiusi». Sempre la stessa voce sbarazzina, tra l'insinuante e il provocatorio. «D'altra parte, tenete presente che ho trascorso tutta la mia vita, a partire dall'infanzia, in mezzo a una guerra interminabile, tuttora in corso. Di soldati mutilati nelle forme più orribili ne ho visti più io che un cerusico». «Avete una bella tempra». Eleonora sollevò il mento. «Appartengo a una razza fiera. Non governerò mai la Sardegna, però devo assuefarmi a un comportamento da potenziale regnante». «In questo codice di condotta è inclusa l'insensibilità?» «Sì, certo. Ciò che distingue chi governa dal villano comune è proprio la facoltà di dare la morte senza troppi scrupoli. Se fosse un piagnone, chi gli obbedirebbe?» Eymerich rimase colpito. Non avrebbe mai creduto che un tale grado di determinazione potesse celarsi in un fragile corpo di donna. Se i congiunti di Eleonora, più prossimi di lei alla successione di Mariano, erano della stessa tempra, il giudicato di Arborea non sarebbe caduto così facilmente. Poco più avanti apparve, ai lati della strada, un borgo abbastanza esteso, dai tetti di paglia. Era circondato da boschi, che si inerpicavano su colline ondulate, sormontate da una montagna di discreta altezza. Si era ben sopra il livello del mare, e l'aria fresca, gravida di aromi selvatici, stava a dimostrarlo. Manfredi alzò il braccio sinistro. «Dobbiamo essere a Casaca, alle falde del monte Casachella. Ci fermeremo qua per chiedere ai contadini di che nutrirci. Riprenderemo il cammino nel pomeriggio». La piccola armata penetrò nell'abitato, e subito il cuore di tutti fu oppresso dalla strana atmosfera che vi regnava. Non c'era traccia dei bambini che, in ogni villaggio d'Europa, giocavano per strada o sguazzavano nel fango. Non c'erano uomini né donne. Animali sì, se ne vedevano: varie galline, un maiale molto magro, un paio di gatti. Nessuna presenza umana, malgrado i panni stesi ad asciugare, ancora umidi, e un camino da cui si levava un esile filo di fumo.
Guglielmo di Romagna, molto preoccupato, si rivolse alla sua truppa. «Scendete da cavallo e perlustrate quelle case. Appena trovate un borghigiano, portatelo da me». Anche Eymerich scese di sella e si guardò attorno. Dovette battere ripetutamente le palpebre. La sabbia che invadeva la strada principale era bianchissima, quasi fosse incandescente. A dispetto del calore, tornò a coprirsi il capo con il cappuccio. Le prime lance che tornarono dalla ricognizione allargarono le braccia. Un soldato con un forte accento pisano spiegò: «Non c'è proprio nessuno, capitano. Eppure si direbbe che, fino a poche ore fa, il villaggio fosse normalmente abitato. Ho visto persino un paiolo d'acqua fumare sul fuoco acceso, e accanto dei maccheroni pronti par la cottura». Eymerich decise di andare a vedere di persona. Lasciò le briglie a una lancia e si diresse verso una delle bicocche più grandi. Come tante costruzioni di quel tipo, ospitava in un unico ambiente sala da pranzo, camera da letto e deposito di granaglie e strumenti agricoli. Prendeva luce da un'unica finestra, non molto ampia, ma il sole filtrava dalla paglia del tetto, nei punti in cui era sgranata. Non c'erano pentole sul fuoco, tuttavia segni di disordine - una zappa abbandonata sul pavimento, un piccolo telaio da ricamo caduto sotto un tavolo, un carico di abiti da lavare lasciato su una seggiola e in parte finito al suolo - facevano sospettare un esodo improvviso. Mancavano però indizi decisivi tali da dimostrare che nella capanna - abitata, come si desumeva dai letti e dalle loro dimensioni, da una coppia con numerosi figli - fosse successo qualcosa di anomalo. Eymerich uscì, in tempo per essere investito da nitriti furibondi e da grida di spavento. I cavalli erano quasi imbizzarriti. I mercenari, terrorizzati, puntavano il dito verso il cielo. Commentavano la visione nelle loro lingue natali, e ciò rendeva le parole che urlavano una babele indistinguibile di suoni. Eymerich alzò lo sguardo e fu colto da un lieve capogiro, tanto lo spettacolo era straordinario. A poca distanza dal sole vivido dell'ora sesta, sull'azzurro compatto di una volta senza nubi, si era materializzata una spirale. Non un disco né una forma globulare. Una spirale perfetta, bianca come il latte e straordinariamente brillante. Una sorta di coda si dipartiva dal centro e, assottigliandosi, scompariva dietro le montagne. Il fulgore era tale che l'inquisitore dovette serrare le palpebre per non esserne accecato. Quando le riaprì, la spirale era diventata un cerchio nero dai contorni luminescenti. Dopo un istante sparì, e la coda si dissolse. Nel cielo tornò l'azzurro pieno. Manfredi era dovuto scendere dal suo cavallo, divenuto ormai ingovernabile. Corse verso l'inquisitore con il viso stravolto dalla collera, quasi gli attribuisse la responsabilità del prodigio. «Che cos'era quell'oggetto?» urlò gesticolando. «Qui non si è mai visto niente di simile!» Eymerich non indietreggiò. Anzi, incrociò le braccia, quasi sfidasse il barone a toccarlo. Aveva occhi e parole di ghiaccio. «Non so cosa fosse, so chi era. Ammiraglio, ovunque le leggi naturali siano sconvolte è all'opera la creatura immonda da sempre intenta a sovvertire l'ordine voluto da Dio. Non ve ne dico il nome, tanto lo conoscete. E sapete anche
che sono qui proprio perché sono abituato a combattere quel tipo di nemico. Dunque calmatevi. Recuperate il vostro coraggio. State facendo una figura grottesca». Manfredi Chiaromonte, poco abituato a sentirsi interpellare in quel tono, quasi vacillò e lasciò cadere le braccia. Eymerich proseguì, rivolto più ai soldati che al feudatario. «È da stupidi avere paura. Tra Dio e il suo avversario, il primo, che qui io rappresento, è più forte per definizione. Nella storia Satana ha prevalso solo quando gli uomini si sono mostrati codardi. Recuperate il vostro coraggio e lo ricaccerete indietro. Che il diavolo si mostri come una spirale luminosa, un capro o una bestia deforme, sono sempre trucchi da saltimbanco, che la semplice logica può svelare. Recuperate dunque i vostri cavalli. Mangeremo altrove, dove l'inganno abbia forza minore. E voi, si spera, sarete più lucidi». Eymerich aveva pronunciato il suo discorsetto in catalano, senza essere sicuro che tutti i presenti lo comprendessero. Del resto bastò il timbro energico e severo perché la sostanza della sua esortazione fosse capita. Le lance si misero a radunare le loro cavalcature, tornate calme. Poco più tardi la spedizione ripartì.
18.Dormiveglia Quella notte la piccola armata fece sosta nel borgo di Vicari, in prossimità del bacino del fiume San Leonardo. Vi sorgeva, sopra il ponte Sant'Angelo, una rocca che era stata degli Altavilla, ma ora apparteneva ai Chiaromonte. Era un edificio impressionante, non tanto per le dimensioni, quanto per l'altura su cui sorgeva: un picco dalle pareti vertiginose che sovrastava l'abitato, discretamente vasto. Aveva ospitato, durante la sollevazione popolare che aveva cacciato gli Angiò, il ministro Charles de Saint-Rémy, che lassù si era salvato la pelle. Nel villaggio, disseminato tra il verde che contornava il fiume, si scorgevano una costruzione araba dalla cupola rotonda, forse vestigia di un antico acquedotto, e una grande chiesa. Il resto erano casette di legno oppure in mattoni, fra cui non si vedevano dimore signorili o palazzi a più di due piani. In cima alla salita, Manfredi Chiaromonte fu accolto da un castellano premuroso: un semplice miles, incaricato non solo di custodire la fortezza, ma anche di svolgere mansioni di intendente sulle masserie della zona di proprietà dei signori di Palermo. Le prime chiacchiere, tra Manfredi e il castellano, riguardarono gli affari: quante salme di cereali si prevedeva di produrre, la quantità di vino, olio, mandorle. Intanto i palafrenieri prendevano in consegna i cavalli e li conducevano alle stalle, dove avrebbero passato la notte anche le lance.
Nella parte più elevata del castello entrarono solo, tra gli ospiti, Eymerich, Guglielmo di Romagna, Simone dal Pozzo ed Eleonora d'Arborea. Alla luce delle fiaccole attraversarono un vestibolo e tre porte successive, lungo un passaggio su cui si aprivano, oltre alle scuderie, gli alloggi dei servi e dei soldati, le prigioni e una serie di ampi magazzini. Gli appartamenti riservati ai Chiaromonte, sotto le torri, non erano certo così lussuosi come quelli del palazzo di Palermo. Mancavano tappeti e arazzi, tuttavia gli ambienti erano degni di un principato bellicoso: numerosi, sulle pareti nude, erano le insegne d'armi, così come le corazze che presidiavano gli angoli. Puro ornamento in periodo di pace, ma con scopi marziali in tempo di guerra. Ammaccamenti sulle armature e tacche sul filo delle spade dimostravano che l'arsenale aveva avuto il suo battesimo di sangue. «Signore» disse Eymerich al miles, mentre entravano nell'austera sala da pranzo «immagino che la cena tarderà un poco. Nell'attesa vorrei conferire, in un luogo appartato, con il mio confratello padre Simone». Il castellano guardò Manfredi, che annuì. «Certamente, padre. Seguitemi, vi condurrò in una stanza adiacente a questa, dove normalmente si ritirano le dame quando, dopo cena, desiderano restare in confidenza tra loro». Il salotto era arredato con semplicità, ma dotato di un grande camino spento e di una finestrella. I due inquisitori sedettero l'uno di fronte all'altro su sedili imbottiti di velluto giallo. L'aria che penetrava dall'esterno era fresca, gradevolmente profumata dagli odori dei campi. Eymerich incrociò le dita lunghe e ossute. «È venuto il momento di fare il punto. In Sicilia il disegno di Dio è chiaramente messo a soqquadro da una forza malefica. Orrori, visioni, prodigi raccapriccianti. Eppure voi, padre Simone, principale inquisitore dell'isola, non vi eravate accorto di nulla fino al mio arrivo. Come si spiega?» Dal Pozzo, imbarazzato, allargò le braccia. «Il fatto è, magister, che il territorio non solo è grande, ma, come avete visto, è anche frazionato. Le notizie circolano con difficoltà, credo di avervelo già detto. E la mia rete di osservatori e di famigli è limitatissima». «Non cercate di prendermi in giro, non vi conviene». Eymerich sollevò l'indice. «Mi è bastato un solo giorno per notare oggetti luminosi in volo sul cielo di Palermo. Due giorni di più per scoprire villaggi abbandonati, stragi, tracce del passaggio di mostri. Tutto ciò non all'altro capo della Trinacria, bensì all'interno del solo feudo dei Chiaromonte. Sarà grande, tuttavia, Io ammetterete, non è sconfinato». Padre Simone parve accartocciarsi o, almeno, il reticolo delle sue rughe sembrò meglio evidente. «Sono vecchio, magister, non ho forze» pigolò «né i mezzi per allontanarmi dalla città dove vivo. Che cosa avrei potuto fare?» Anche Eymerich, con i suoi cinquantadue anni, si sentiva invecchiato. Mai e poi mai, però, segni di stanchezza palese lo avrebbero distolto dal cammino intrapreso. Ancora una volta cambiò parere sull'inquisitore siciliano e tornò a disprezzarlo come all'inizio. «Innanzitutto avreste dovuto mandare una relazione dettagliata a me, oppure, se non mi considerate
vostro superiore diretto, al papa, che me ne avrebbe parlato. Ringraziando Dio, Gregorio XI è il primo papa che mi guarda con reale simpatia». «Sebbene siamo sudditi di un ramo di Aragona, abbiamo scarsi contatti con gli aragonesi di Spagna. Anche con Avignone i rapporti hanno appena cominciato a migliorare. E poi, magister, quali informazioni avrei dovuto trasmettervi?» «Per esempio sull'incontro con un domenicano ebreo di Catalogna che crede nella negromanzia». Eymerich alzò le spalle e frugò nella sacca che aveva con sé. «Lasciamo perdere. Vi lascio un libretto che, confidando nella vostra buona fede, vi pregherei di leggere stanotte. Vi troverete tutto ciò che abbiamo visto finora. Cadaveri che rivivono, spettacoli spaventosi nel cielo, calate di presunti giganti. È una lettura che di per sé costituisce peccato mortale. Io vi assolvo in via preventiva, sempre che siate puro di cuore. La vostra ordinanza contro gli ebrei, benché platonica, azzardata e velleitaria, me lo fa pensare». Simone dal Pozzo scorse il titolo del manoscritto. «Liber Aneguemis, dello pseudo Platone. Non ne ho mai udito parlare». «È meglio noto come Liber Vaccae. Non lo avete nella vostra biblioteca?» «Lo escludo. Davvero non l'ho mai visto, né frate Ramón me ne ha parlato». «Ebbene, leggetelo tutto. Capirete con quale sozzo personaggio abbiamo a che fare». Eymerich posò le mani sulle ginocchia e si sporse verso il confratello. «Padre Simone, è l'ultima possibilità che vi offro prima di dovervi considerare o uno scimunito o un traditore del nostro Ordine. Qualche giustificazione l'avete: abitate lontano dal continente, e certe nozioni vi giungono confuse. Per esempio quella di Inquisizione, su cui avete informazioni vaghe». «Come potete dire questo?» protestò padre Simone. «Io faccio ciò che posso, tenuto conto delle circostanze». «"Tenuto conto delle circostanze"» ripeté Eymerich, assaporando ogni sillaba. «Proprio quello che un inquisitore non deve fare mai: valutare le opportunità, scendere a patti con il potere politico, accettare di tacere o di non vedere. San Domenico ha forgiato una spada di cui noi, suoi umili seguaci, siamo non la lama bensì la punta. L'investitura ci impone di colpire e ferire, non di duellare. Mi capite?» «È ciò che faccio, nei limiti dei miei mezzi». Eymerich scattò in piedi. «Non lo fate abbastanza! Tutto quel che so, l'ho dovuto estorcere a Manfredi, parola per parola. Per ragioni personali, i Chiaromonte non vogliono che si divulghi ciò che accade nei loro feudi. Forse temono ricadute economiche, dato che sono interessati solo al denaro. Voi vi siete conformato e avete visto solo ciò che vi si chiedeva di vedere».
Anche Simone dal Pozzo si alzò. A differenza di pochi istanti prima, il suo atteggiamento non era affatto remissivo. «Con tutto il rispetto, vi ingannate, magister!» quasi gridò. «Avete pur letto la mia ordinanza contro gli ebrei!» «Rimasta lettera morta, per vostra stessa ammissione». Eymerich sogghignò. «Entrambi sappiamo che i giudei sono un bottino vivente per un inquisitore poco scrupoloso. Qualsiasi bene sottratto a un ebreo è direttamente incamerato da chi regge il sacro tribunale. Ciò significa spesso denaro sonante e beni materiali espropriati a fini di lucro». Simone dal Pozzo impallidì. «Voi non mi sospetterete di...». «Io non vi sospetto di nulla. Vi giudicherò dai prossimi atti. Sto svelando chi sia il nemico, e da voi esigo obbedienza cieca. Me l'assicurate?» Per un attimo gli occhi di padre Simone scintillarono, poi la fiamma della collera si spense e il confratello chinò il capo. «Vi obbedirò senza discutere, magister». «Prendo atto del vostro impegno. Ora andiamo a cena, sperando che non ci servano di nuovo ripugnanti intingoli dolciastri». Il desinare, fatto di portate assai semplici, trascorse fra chiacchiere oziose sul commercio, che videro interloquire Manfredi, Eleonora e il castellano, senza momenti di rilievo. Solo a un certo punto Manfredi disse: «Dei frati, in affari, bisogna fidarsi il giusto. Non rubano quanto gli arabi e non ingannano quanto gli ebrei, tuttavia... A proposito, padre Eymerich, come si chiama il frate domenicano che state cercando?». «Ramón de Tàrrega». «Una figura controversa» commentò Simone dal Pozzo. «Una figura maledetta» corresse Eymerich e bisbigliò all'orecchio del confratello: «Tacete voi, pensate a mangiare». Manfredi guardò il castellano. «Signor Valguarnera, avete mai udito questo nome? Ramón de Tàrrega». «No, mai». «Ecco l'esempio vivente di un religioso disonesto. Votato alla magia nera, evocatore di demoni...». C'era, nel tono del feudatario, una vena di scetticismo assai evidente. «Più altre colpe che non conosco. Che cosa gli imputate ancora, padre Nicolas?» Eymerich ignorò l'accento leggermente beffardo. «Di essere un eretico. Nel suo De invocatione daemonum ho rilevato almeno venti proposizioni macchiate di eresia e ancora non ho avuto il tempo di spingere a fondo la ricerca». «Venti? Non sono poche. Ditemene qualcuna».
«Ramón sostiene che la venerazione dei demoni non è dissimile dalla venerazione dei santi, per cui va compresa e perdonata. Che il dio dei musulmani è lo stesso dei cristiani, per cui un maomettano giusto può aspirare alla salvezza...». «Questo lo asseriva anche Raimondo Lullo, mi pare di ricordare». Nessun nome poteva giungere più sgradito alle orecchie dell'inquisitore, che replicò, gelido: «Lullo ha la fortuna di essere morto. Ramón ha avuto la stessa sorte, ma pare che vi si sia ribellato. Peggio per lui. Avrà per punizione una seconda agonia, molto peggiore della prima. Con la speranza che i suoi spasmi raggiungano anche il suo maestro Lullo, nell'inferno in cui si trova». La brutalità dell'uscita turbò per un attimo Manfredi, che subito si riprese e riattaccò a dialogare con il castellano. «Vedete, signor Valguarnera, quanti frati birboni ci sono in giro? Io ho avuto problemi con un convento che, pur coltivando un uliveto di mia proprietà, non intendeva...». Eymerich smise di ascoltare e tornò a dedicarsi alla salsiccia, non speziata, che aveva nel piatto. Solo il vino gli riusciva imbevibile, mielato com'era. Mentre inghiottiva il boccone colse uno sguardo poco definibile da parte di Eleonora. La si sarebbe detta preoccupata per lui. All'inquisitore tornarono alla mente certe occhiate sgradevoli di sua madre, anche se quella era priva di astio. La donna volse subito il capo, lui rintuzzò il ricordo e completò il pasto in silenzio. Dormì in una stanza spoglia ma pulita, con un buon giaciglio, una brocca d'acqua e un secchio per i bisogni corporali. Eymerich tolse tonaca e scapolare, poi si chinò per soffiare sulla fiamma della candela, poggiata su un tavolino. Notò, nel gesto, il proprio torace nudo. Non era stato mai peloso, però sì tornito, liscio, compatto. Vide che, in alcuni punti, la pelle si increspava in rughe leggere molto fitte, che sparivano se tendeva la muscolatura. Nella camera non vi era uno specchio e per la prima volta ne avvertì la mancanza. Normalmente li aborriva. Tralasciò quei pensieri effimeri e spense la candela. A tastoni cercò il pagliericcio e vi si lasciò cadere. Non fu necessario ripararsi sotto le coperte: sebbene fosse notte, l'aria che entrava dalla bifora aperta era tiepida. In attesa di essere vinto dal sonno, cercò la preghiera giusta da recitare. Dopo un paio di orazioni gli venne in mente il canto solenne del Dies irae, che preferiva fra tanti, perché più consono di altri alla sua concezione di religiosità. Non lo intonò ‒ non voleva passare per folle, se qualcuno lo udiva ‒ ma ne recitò sottovoce i versi. I primi che gli vennero alla mente non furono quelli d'esordio, bensì una strofa a cui, fino a quel giorno, aveva prestato pochissima attenzione:
Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis.
Il significato era: "Re di tremenda maestà, che salvi per grazia chi merita di essere salvato, salva me, oggetto di pietà". Quelle parole di scarso contenuto non gli uscirono di testa nemmeno mentre si addormentava. Nel breve dormiveglia che preludeva al sonno immaginò, paradossalmente, di non essere lui a intonare la supplica. Erano invece folle immense, disperate, trepidanti, che invocavano il soccorso del suo potere salvifico. Ma un'oscurità senza sogni intervenne, opportunamente, a cancellare quella bestemmia. Eymerich si destò poco dopo l'alba, ed era l'ora giusta. Dai cortili provenivano nitriti: gli uomini di Guglielmo di Romagna si stavano preparando al nuovo viaggio. L'inquisitore scese nella sala da pranzo, dove Eleonora sbadigliava e Simone dal Pozzo inghiottiva dolcetti leggiadri, alternandoli a cucchiaiate di miele. «Dov'è Manfredi?» chiese Eymerich. «Ci aspetta fuori» rispose padre Simone «ma abbiamo tutto il tempo. Ha deciso di trasportare con sé una balista, e la stanno montando su ruote». «Una balista? Addirittura?» «Sì. Qui è chiamata anche oxybeles, come nei tempi antichi. È evidente che Manfredi si aspetta scontri campali e prende le sue precauzioni». Quando Eymerich, mangiata una mezza pagnotta e una fetta di cacio, uscì nel cortile, la balista ‒ in pratica un'enorme balestra ‒ era già stata collocata su una piattaforma mobile, trainata da muli, che alloggiava anche i dardi. Le lance si stavano disponendo per la partenza. «Bella giornata, vero, padre Eymerich?» Manfredi Chiaromonte, sul suo cavallo nero, appariva pieno d'energia. «Ieri zoppicavate, oggi non più. Il clima siciliano fa miracoli». «È vero» rispose l'inquisitore, che in effetti si sentiva ritemprato. «Quanto dista Mussomeli?» «Se partiamo subito, ci arriveremo a sera». La colonna si rimise in marcia di lì a breve, un poco più numerosa che alla partenza. Il signor Valguarnera aveva fornito quattro armati con cavalcatura, tre servi, uno schiavo saraceno e due muli per trainare la balista. Prima di prendere posto sul carro accanto a padre Simone, Eleonora d'Arborea, vestita di un semplice abito scuro adatto a un viaggio faticoso, raggiunse Eymerich con una corsetta. Lui stava mettendo il piede sulla staffa. «Magister» gli disse «so che non è il momento giusto. C'è una cosa che voglio dirvi». «Parlate» rispose lui, distratto. Era tutto impegnato a montare senza distorcere troppo la caviglia, non più dolorante ma tuttora gonfia.
«Sapete che comincio a fidarmi di voi?» Eymerich, ormai, non si lasciava più stupire dalle uscite bislacche della giovane donna. Attese di essere ben assestato in sella e le rispose, non senza ironia: «Ne sono compiaciuto e vi ringrazio, madonna». In tono più serio, aggiunse: «Cosa cambia, dopo questa gradita dichiarazione di fiducia?». Eleonora scostò la frangetta scura che le ricadeva sulle sopracciglia. «Adesso posso dirvi cose di cui avevo deciso di non parlarvi». «Per esempio?» «No, non è il momento. Ora dobbiamo partire. Converseremo lungo il viaggio... però lontani dal frate fanatico che ci trasciniamo dietro fin da Palermo e con cui condivido il carro... Simone dal Pozzo. Pensavo che me lo aveste messo accanto come spia. Per questo ero diffidente. Ieri sera ho visto che lo trattavate come una pezza da piedi e ho cambiato idea». Eymerich sbuffò. «Come avete detto, stiamo per metterci in movimento. Non potete anticiparmi qualcosa di ciò che volete dirmi?» «Avete mai udito parlare del capitano Walther Beneet?» L'inquisitore interrogò la propria memoria. «No, non direi. Sembra un nome inglese». «Sì, ma è anche conte presunto d'Arborea, nominato all'inizio di quest'anno da Pietro il Cerimonioso per contrastare mio padre». Eymerich stentava a capire. «Cosa c'entro io con questo Beneet? Se posso evito di frequentare inglesi». «Il conte abusivo è partito per Oristano una settimana prima che voi prendeste il largo. Non da Barcellona ma da Tolone. Aveva con sé seimila mercenari e una flotta numerosa, capace forse di sconfiggere il giudicato. Arrivato nei pressi della costa sarda è sparito nel nulla. Lui, i suoi uomini e tutte le navi». Eleonora agitò la mano in un gesto poco cerimoniale. «Ne parliamo più tardi, magister!» Corse via, in direzione del suo carro. Nello stesso istante Manfredi gridò: «Mi sembra che siamo pronti. Avanti! Dobbiamo raggiungere Mussomeli prima del buio!».
19.Dischi nel cielo L'idea di raggiungere Mussomeli in tempi così brevi si rivelò illusoria. La strada che si dipanava in un paesaggio collinare era tortuosa, cosparsa di ciottoli e di frammenti di roccia, con segmenti strettissimi ardui da superare per il carro e la balista. Le lance stesse erano costrette a disporsi in fila indiana. E poi c'era il calore, niente affatto primaverile. Molto prima dell'ora sesta, senza che il sole fosse ancora a picco, tutti sudavano. Guglielmo di Romagna arrivò a coprirsi il cranio completamente calvo con l'elmo, infastidito dalle goccioline che gli grondavano senza posa sulle sopracciglia. Manfredi, sfiancato, puzzava a distanza. Eleonora e Simone dal Pozzo si ritirarono sotto il telone del loro carro, per resistere alle vampe. Persino Eymerich, che d'abitudine sudava poco o niente, avvertiva uno sgradevole senso di umidiccio sotto le ascelle e lungo la schiena. Infine, dandosi per vinto, Manfredi ordinò la sosta e indicò l'ansa di un fiume. «Ci fermiamo a mangiare. Dove siamo?» Uno degli armigeri prestati da Valguarnera additò poche case sulla cima di un'altura. «Quello lassù è Castrum Novum, sulla rupe di San Vitale. Quasi disabitato fin dall'epoca dei normanni». «A chi appartiene?» Il soldato si inchinò. «Ma a voi, signore!» «Bell'affare» brontolò Manfredi. «Confermo. Facciamo sosta qui». Il paesaggio intorno era collinare, gradevole alla vista. Se le sommità delle alture brulle, i loro pendii verdeggiavano di piante basse, talora raccolte in boschetti. Piccoli coltivati si scorgevano solo in prossimità di Castrum Novum. Tutti gli altri terreni incolti e invasi dalla natura. Suolo da recuperare e da strappare ai cespugli, una volta Sicilia avesse goduto di un periodo lungo di pace.
erano campi erano che la
Proprio l'ambiente fu oggetto delle riflessioni di Eleonora, quando Eymerich si accostò al carro per avere la propria razione di cibo. «Sembra di essere in Sardegna» sospirò la donna. «La bellezza è simile, solo che da noi è tutto più malsano. Imperversano contagi e malattie. La gente tende a ritirarsi nelle zone più montuose o, sulla costa, a rinserrarsi nelle città». «Come sapete, ne ho avuto esperienza ad Alghero, una quindicina di anni fa» rispose Eymerich mentre ritirava una piccola pagnotta, un pezzo di formaggio e un'ampolla di vino rosso. «Dovete rimanere qua per la distribuzione del cibo o potete venire a desinare insieme a me? Sarebbe l'occasione per approfondire ciò che mi avete accennato stamattina». «Posso fare quel che voglio. Vengo molto volentieri!»
Sedettero su un tronco abbattuto, all'ombra di un grande platano. Il fiume dalle acque limpide scorreva a poche braccia; l'adunata delle lance era lontana. Eymerich, mangiando, fu attento a far sì che le briciole gli cadessero sul lembo di tonaca teso tra le gambe, per non attirare le formiche. Fu lieto di vedere che Eleonora usava, in grembo, la stessa precauzione. «Mi avete parlato di una flotta scomparsa mentre stava per raggiungere la Sardegna» le disse. «Quanto tempo fa è successo? Raccontatemi l'intera storia». «Le date precise non le conosco» rispose la donna «ma è accaduto non più di due mesi fa. Pietro il Cerimonioso, fermamente deciso a sconfiggere il giudicato d'Arborea e a sottomettere la Sardegna, ha costretto i cantieri di Barcellona a fornirgli nuove galee. Il problema è stato trovare i soldati. La nobiltà aragonese, che come sapete gode di ampia autonomia, era riluttante a impegnarsi in un'impresa che, secondo le sue valutazioni, avrebbe reso troppo poco». «Specie dopo una lunga serie di sconfitte» commentò Eymerich. «Sì, magister. Non ottenendo dalla nobiltà locale uomini armati a sufficienza, Pietro IV si è rivolto a un mercenario inglese, Walther Beneet, già capitano delle cosiddette "Grandi Compagnie". Lo ha nominato conte d'Arborea e lo ha fatto imbarcare sulle sue navi con mille cavalieri e cinquecento arcieri. Compresi gli equipaggi e la truppa a piedi, facevano seimila uomini, per una spesa di 415.000 fiorini. Praticamente quello che re Pietro aveva in cassa». «Una forza del genere avrebbe sconfitto Mariano, vostro padre, in pochi giorni». Eleonora fece una smorfietta dubbiosa. «Non è detto. Quel che è certo è che la spedizione non ha mai raggiunto Oristano. Partita da Tolone, è scomparsa nel nulla. Seimila uomini sono svaniti, con le navi, i cavalli e tutto». «Si sa il motivo?» «No. Ci sono solo le testimonianze di alcuni pescatori, sorpresi al largo da un fenomeno insolito. Si era levata, al largo delle coste sarde, una nube nera. Nel cielo, gli astri erano scomparsi e volteggiavano luci intermittenti a forma di disco. Si respirava un curioso odore metallico, l'aria si era raffreddata. Poche ore dopo i pescatori riuscirono ad approdare, la flotta di Beneet no. Era svanita tra le nuvole scure calate sul mare». «E Beneet, invece di arretrare, ha scelto di penetrare nella caligine?» «Secondo i testimoni, non poteva fare altro. Le nubi si stavano addensando da ogni lato». Eymerich bevve un sorso di vino e intanto meditò. «Oltre a questo episodio, avete udito raccontare di altri fenomeni anomali, prima di lasciare l'isola?» «No, anche se in Sardegna le leggende non si contano». Eleonora fissò il fiume che scorreva tranquillo, limpido, e rifletteva come uno specchio l'azzurro del cielo. «A parte le cacce con il
falcone che piacciono tanto a mio padre, conduco la vita di una reclusa. Tutto quello che so lo imparo dalle ancelle». «Be', eccovi evasa, per una volta». «Sì, ma mi riprenderanno». Eleonora indirizzò all'inquisitore un sorriso breve ma luminoso. «Intanto, la mia pausa di libertà voglio godermela tutta!» La ripresa della marcia non fu immediata. Saputo della presenza di Manfredi Chiaromonte, alcuni personaggi di Castrum Novum erano scesi a rendergli omaggio. Non erano affatto milites né notabili: solo contadini un po' meno miserabili degli altri. L'abitato era troppo piccolo per avere un baiulo, l'autorità locale, e meno ancora qualcosa di simile a uno strato dirigente. I villani, vestiti con camiciola, calzoni e fasce strette attorno ai polpacci, sembrarono molto sollevati quando accertarono che il loro signore non era lì per riscuotere tributi. Manfredi raccontò dei soldati trovati morti lungo il cammino e chiese se ne avessero avuto notizia. «No, patruni» rispose nel dialetto locale il più anziano del gruppo, rigirandosi tra le mani il cappello di paglia. «'Na morta sula ci fu, 'da picciotta vicino ciumi manciata d'i bestie. Un'avia chiù né vrazza, né gammi, mischina». «Avvertite mio fratello, a Mussomeli, se dovessero accadere altri fatti del genere. Fategli sapere qualsiasi evento insolito accaduto in zona». «Como cumanna vossia». Un giovane dal naso lungo e storto diede di gomito al vecchio. «Dicci d'i cerchi no' cielo, viri ca u patroni u voli sapiri». L'altro si ribellò. «Chi si n'av'a futtiri, di sti fissarii?» «Diccillu, ca c'interessa». L'anziano si lisciò i baffi con i polpastrelli. «Patruni, 'na cosa chi ni fici meravigghia ci fu, ma 'un foro ammazzatini. Cocch' vota no' cielo passano cosi tunni, brillanti. Currinu verso dintra». «Accade spesso?» chiese Manfredi. «No, sulu 'na vota ogni tantu. L'urtima fu 'na simana fa». Manfredi pose ancora qualche domanda, ma fu chiaro che non c'era molto che i contadini potessero rivelare. Così si riprese il sentiero quando già era trascorsa l'ora nona: molto più tardi di quanto si fosse auspicato. Eymerich cavalcava vicino al carro, più che altro per evitare i discorsi che si facevano in testa al corteo: vertevano per qualche minuto sui misteri appena sfiorati, ma inevitabilmente erano in breve accantonati e si riprendevano discussioni su raccolti, commerci, terreni e gabelle. L'inquisitore ormai conosceva fin troppo bene le unità
monetarie siciliane: la onza, il fiorino, il tarì. L'avidità di Manfredi, probabilmente pari a quella di ogni nobile grande o piccolo, richiamava in lui l'immagine di un pezzo di quercia da sughero impossibile da tenere sommerso troppo a lungo. Ne era disgustato. Rimase sorpreso quando a chiamarlo, dal carro, fu padre Simone dal Pozzo. Girò attorno al veicolo e si portò a lato del confratello. Gettò indietro il cappuccio madido di sudore, pur consapevole dei rischi che comportava esporre al sole il cranio rasato. Non si sentiva ancora stanco, però il calore esagerato lo faceva patire e gli rendeva penoso restare in sella. «Magister, mi ero scordato di dirvelo, ma stanotte ho letto per intero il libro che mi avete dato ieri sera». Eymerich posò lo sguardo su Eleonora, che fissava la strada, sul postiglione e sull'ancella, velata fino agli occhi, che ricamava sotto il telo. Rispose a mezza voce: «Non avermelo detto è una dimenticanza imperdonabile. Potevate parlarmene prima. Adesso è troppo tardi, dovrete aspettare fino alla prossima sosta». Padre Simone passò da un momento all'altro al francese. Fluente, chiaro, con contaminazioni provenzali. «Non ho avuto modo di avvicinarvi. Posso dirvi le mie impressioni senza che nessuno ci capisca. Avete ragione nel dire che il Liber Aneguemis, che Dio lo rigetti all'inferno, descrive quasi tutto ciò che ci sta capitando. Siamo vittime di allucinazioni evocate da un mago potente. Pagina per pagina, esse trovano fedele applicazione». «Ieri ne ero più persuaso di oggi» rispose Eymerich, anche lui in francese. «Ogni prodigio descritto dallo pseudo Platone esige rituali complessi, ingredienti rari o mai uditi prima, fumigazioni e sacrifici di animali ignoti. Ramón de Tàrrega dovrebbe essere vicinissimo per influenzarci a quel modo». «Non è detto che non lo sia». «È vero, tuttavia quei contadini uditi poco fa parlavano di dischi nel cielo, se ho interpretato bene la loro lingua. Simili a quelli che ho visto sfrecciare su Palermo. Vi pare che Ramón si sia dedicato ad accendere candele magiche nei pressi di un villaggio di una decina di case, perso nell'entroterra siciliano?» Eymerich scosse il capo. «È molto improbabile. Non stiamo subendo illusioni. Assistiamo a fatti incontestabili». Simone dal Pozzo fece l'occhiolino, ed era la prima volta che si prendeva tanta confidenza. «Magister, molti filosofi hanno detto che, scartato l'impossibile, l'improbabile può racchiudere la verità. Volete che ve lo dimostri?» «Non ora. Attendiamo la prossima sosta. Non dovrebbe tardare. Dubito molto che possiamo arrivare a Mussomeli entro stanotte». Eymerich guardò Eleonora, che ora lo fissava. La donna gli rivolse un cenno e commentò, in un franco-provenzale di ottima qualità: «Non lo penso nemmeno io. A dopo, padre Nicolas».
Eymerich si allontanò furioso, non sapeva se più con la dama o con l'incauto padre Simone. Avvertiva la mancanza di un confidente con cui sfogarsi e a cui confessare dubbi e certezze. Padre Corona, il suo compagno ideale, era morto da anni. Rimpiangeva persino l'insolente frate Bagueny, provocatorio e stimolante. Per una volta era completamente solo. Invece di riportarsi in testa alla colonna, scelse di chiudere la fila cavalcando proprio dietro la balista, che rischiava di rovesciarsi a ogni ciottolo troppo aguzzo e a ogni minima asperità. Tornò a coprirsi il cranio con il cappuccio: meglio il caldo e il sudore che il rischio di un colpo di sole. Prestò una moderata attenzione al paesaggio attorno. Colline e colline e colline. Qualche monte più alto ogni tanto. Rare abitazioni rurali disperse sui pendii. Corsi d'acqua immancabilmente secchi, foreste occasionali. Tutto era bianco, di luce o di sabbia. Si arrestarono nuovamente in un luogo chiamato Feudo Michinese, dal nome di un casale arabo denominato Miknas. L'edificio era stato abitato da poveracci che avevano lavorato come potevano una terra avarissima. Il resto del minuscolo villaggio – sovrastato da una montagna e sepolto dagli oleandri – si riduceva a quattro casupole sulla riva di un fiume. Era passato il vespero quando Manfredi Chiaromonte e il suo manipolo vi misero piede. Il sole stava già calando, e le ombre inghiottivano le luci sempre più opache. Impensabile proseguire. Le zanzare calavano a sciami, attratte da ogni lume, artificiale o naturale che fosse. Sul bordo dell'acqua gracidavano rane e ranocchi. Eymerich, dopo un giro esplorativo fino al casale, andò letteralmente a tirare padre Simone giù dal carro, lo trascinò in riva al fiume e lo fece sedere su una roccia arrotondata. Prese posto di fronte a lui, su una pietra regolare proveniente da qualche edificio demolito. Nel frattempo le lance esploravano il Miknas in cerca di un riparo per la notte incombente. «Avete il manoscritto con voi?» chiese Eymerich. «Sì, magister. Eccolo qua». «Che cosa vi ha colpito così tanto?» Simone dal Pozzo fece una smorfia. «Non credevo che potesse esistere un testo di magia mostruoso fino a questo punto. Eppure ho avuto tra le mani grimoires d'ogni tipo. Un simile livello di oscenità, di perversione è insolito persino nei...». «Ve lo avevo già detto io» tagliò corto Eymerich. «Non mi interessano le vostre valutazioni generali. Voglio sapere se avete trovato pagine che reputate attinenti alle esperienze di questi giorni». «Certo. Basta cominciare dall'introduzione». Padre Simone sfogliò le prime pagine del libro. La luce si affievoliva, ma era ancora sufficiente per leggere. «... et est sicut apparitio in nocte almhac et eclipsis eius non in hora ipsius et non in momento eclipsis eius...». «Riassumete». «Il trattato si divide in due parti, l'Aneguemis maior e il minor. Il primo, riservato ai veri sapienti, insegna come fare apparire nella notte i pianeti fuori dalla loro posizione, per poi farli eclissare; come nascondere il sole di giorno e come farlo apparire di notte; come
generare esseri senzienti e intelligenti da una vacca morta e come conferire a un uomo le fattezze di animali vili e ripugnanti; come riempire il cielo di oggetti mai visti e di potenti armate; come allestire una casa in modo che chi vi entra muoia all'istante, perda la ragione o sia colto da epilessia; come...». «Seguitiamo a non intenderci, padre Simone. Tutto questo l'ho letto anch'io. Voglio da voi una risposta più precisa. Se, fra i tanti artifici diabolici descritti, ne avete trovato uno che collimi esattamente con... Ma cosa succede?» Eymerich dovette interrompersi. Dalle pareti diroccate del Miknas giungevano grida di orrore, lanciate da una decina di gole. Lasciò il suo sedile e corse verso il casale abbandonato. Manfredi stava appoggiato al tronco di una quercia, la mano sul petto come per contenere i battiti del cuore. Guglielmo di Romagna si sbracciava per bloccare i suoi uomini, intenti a fuggire in tutte le direzioni. Erano loro a gridare. Sulle prime, Eymerich non capì nulla. Il sole era ormai tramontato dietro le colline, luna e stelle non erano ancora spuntate. La sola luce, rossastra, usciva dall'interno del Miknas, come se vi fosse scoppiato un incendio. Lo spettacolo che spaventava i soldati avveniva all'entrata principale e tra il pietrisco, misto a sabbia, che l'attorniava. L'inquisitore si accostò. Inizialmente gli sembrò di vedere delle larve, di grossezza mostruosa, che uscivano strisciando dalla porta. Una ventina almeno, bianche e goffe. Avanzavano a furia di contrazioni del busto, alla maniera dei lombrichi. Malgrado il cuore impazzito, Eymerich si avvicinò. Scoprì allora il vero orrore della scena. Non erano larve giganti, bensì bambini. Bambini umani. Privi di gambe e di braccia, a parte moncherini sanguinolenti, si contraevano per guadagnare terreno, il mento immerso tra rena e sassolini. Erano nudi e avevano il cranio calvo. Dimostravano tra i due e i tre anni. I loro visi erano stolidi, gli occhi grandissimi e vuoti. Tenevano la bocca aperta e respiravano a fatica. I lineamenti, appena abbozzati, apparivano normali, a parte il terrore folle che li sconvolgeva. Sbavavano e si lamentavano con strida incomprensibili, laceranti, talora simili a vagiti di neonato. Eymerich si allontanò dalla scena, sconvolto, e corse verso Guglielmo di Romagna. «Vi resta un uomo fedele, almeno uno? Ordinategli di uccidere subito quei mostri! Che nessuno di essi sia risparmiato!» Il condottiero era riuscito a radunare tre delle sue lance, salite a cavallo per fuggire. Reagì con fastidio. «Padre, toglietevi dai piedi. Non ho tempo da perdere con voi. Devo pensare alla mia milizia». Guglielmo ricevette uno schiaffo, e forse era la prima volta in vita sua. Eymerich gli sfilò la spada dall'elsa e la impugnò a due mani. «Va bene, ci penso io, inutile soldatino. Tu occupati del tuo esercito di impotenti». L'inquisitore raggiunse il primo dei bambini privo di arti. Sollevò la lama e gliela calò alla base della colonna vertebrale. Schizzò del sangue, ma la larva spirò senza un lamento.
Il gesto era costato fatica a Eymerich. Si terse con la manica il sudore, stavolta non dovuto al caldo. Trascinò la spada al suolo e zoppicò fino al secondo bambino. Per sollevare la lama, impegnò tutte le energie che gli erano rimaste.
20.E d'improvviso il chiarore Solo uno dei bambini senza braccia e senza gambe, un po' più grande degli altri, strillò qualcosa. La voce era acuta ma flebile, quasi incomprensibile. Eppure a Eymerich parve articolare una frase compiuta: «No, mio re padre, no! Vi servirò... Vi serviremo!». La supplica era straziante, insopportabile nel suo dolore infantile. La memoria dell'inquisitore tornò alla fantasticheria in cui intere turbe si inchinavano a lui chiamandolo Rex tremendae maiestatis. Allontanò il ricordo. Affondò la spada, alzata a due mani, nel dorso del bambino. "Non è un bambino" si disse. Schivò il getto di sangue. Eymerich era al limite delle forze, tanto l'arma era pesante. E il peso si aggravava a ogni omicidio. Pativa continui capogiri, la sua tonaca era schizzata di rosso, eppure portò a termine il compito che si era prefisso. All'ultima delle larve uscite dal casale quasi staccò la testa. Ultima agonia, ultime strida indistinte e selvagge. L'inquisitore tornò sui suoi passi, zoppicante. Lanciò la spada a Guglielmo di Romagna, in modo che si conficcasse vicino ai piedi del condottiero. «Tenetela, è vostra» gli disse. Tossì. «Vi ha battuto in coraggio un frate. Le vostre lance sono pupazzi. Vergognatevi». Manfredi Chiaromonte uscì dalla macchia di oleandri,più scura del buio ormai calato. «I soldati stanno tornando, alla spicciolata». Sembrava entusiasta, come se avesse vinto chissà quale battaglia. «Adesso faccio bruciare l'intera masseria». «No!» disse Eymerich, risoluto. «Voglio esplorare l'interno del casale. Scoprire da dove venivano i bambini deformi». «Non troverete niente. Le stanze interne stanno già avvampando. Non scoprirete esseri umani ancora in vita». «Nemmeno ci spero. Conto solo di trovare una vacca morta da tempo, con il ventre squarciato. Nessuno dei presenti vuole farmi lume?» Si fece avanti uno dei servi concessi da Valguarnera. Reggeva una torcia. «Ai vostri ordini, padre Nicolas.>' Eymerich, quando vide che il domestico portava sulla blusa l'emblema circolare prescritto agli ebrei, esitò per un attimo. Infine disse: «Meglio te che nessuno. Seguimi da presso e non lasciare che la luce si spenga». Scavalcarono le piccole salme sparse all'ingresso, immergendo i calzari in pozze di sangue. Varcarono la soglia del Miknas. Il nome derivava dall'antica capitale dei berberi e
l'architettura imitava quella araba, ma tutto appariva in rovina e il complesso aveva perduto ogni identità. Il soffitto aveva ceduto in più punti. Oltre i fori nel tetto si scorgeva la luna. Le prime stanze erano vuote. In fondo a un breve corridoio, con tracce di sangue sul pavimento di mattoni, si scorgevano quelle che ardevano. Eymerich le evitò e trascinò il servo ebreo lungo uno stretto passaggio laterale. «Non so dove sbucheremo, ma vale la pena di vedere il possibile, prima che la bicocca avvampi e crolli. Come ti chiami?» «Nissim Ficira, padre». «Ebbene, Nissim, tieni ben stretta la torcia anche se, eventualità assai probabile, vedessimo spettacoli paurosi. Considera che si tratta di malefizi, di inganni satanici. Nulla di ciò che scopriremo, se scopriremo qualcosa, può minacciarci sul serio. Te la senti?» La voce del servo tremò. «Sì, magister». «Guardati dal chiamarmi magister!» lo investì Eymerich, stanco e infuriato. «A quelli della tua stirpe giudea non ho insegnamenti da trasmettere. Pensa solo a farmi lume». «Sarete obbedito». Non ci volle molto a scoprire il primo orrore: un'ammucchiata di mostri. Giacevano nella prima stanza al termine del corridoio laterale. Una decina di cadaveri accumulati l'uno sull'altro. Uomini adulti dal viso di porco o di scimmia, bambini simili a vermi obesi, una specie di gigante senza volto che, in cima alla pila di corpi, la teneva ferma. Li circondava un tappeto di sangue rappreso e macchie giallastre di altri liquidi organici. «Ci siamo!» gridò Eymerich, quasi euforico. «Nella prossima stanza troveremo la vacca sventrata con cui Ramón si è accoppiato, usando il suo sperma per generare creature deformi e senzienti!» «Non so se ce la faremo, magister... scusatemi: signore» mormorò Nissim. «Guardatevi attorno. Tra breve saremo perduti». Lembi di fiamme scaturivano dalle uniche due uscite della stanza, dove dilagava un fumo nero, soffocante. Il calore non faceva che crescere. Eymerich dimenticò i cadaveri dei mostri e la vacca giacente chissà dove. Indicò la stretta finestrella che lasciava scorgere la notte. « È l'unica via d'uscita. Fai presto!» Si gettò verso il pertugio, seguito dall'ebreo. Ruzzolarono sull'erba. Eymerich fu il primo a rialzarsi, ma gli dolevano tutte le ossa, il piede in particolare. Si scrollò via alcune foglie e porse la mano a Nissim. «Alzati. Non ti sarai fatto niente». Manfredi e gli altri, inclusi Eleonora d'Arborea, erano persi nella contemplazione del casale incendiato. Quando videro Eymerich, si ripresero dal loro stordimento.
L'inquisitore interpellò il feudatario senza cordialità, ma con una punta di ironia. «Ammiraglio, credevo che il vostro passato militare vi avesse fatto assistere a spettacoli più tragici di questo. Sembrate un bambino che guarda uno spettacolo di saltimbanchi». «E ciò che ha preceduto che mi ha colpito» rispose Manfredi, con un certo imbarazzo. «Che ci ha colpiti tutti quanti». «Qualcuno meno degli altri». Eymerich cercò con gli occhi Guglielmo di Romagna. Se ne stava in disparte, appoggiato al tronco di una quercia. «Capitano, chi dei vostri uomini ha deciso di distruggere tra le fiamme il Miknas?» Il condottiero fece un gesto seccato. «Nessuno. Quando sono entrati, nelle stanze centrali si era già sviluppato un incendio. Così mi hanno detto». «Non cercate di burlarvi di me. Nel casale non c'era nessuno in grado di accendere una semplice scintilla. Né i bambini privi di arti, né gli altri mostri, morti dal primo all'ultimo». Guglielmo allargò le braccia. «Che volete che vi dica? Può essere che mi abbiano mentito. Avete visto con i vostri occhi quanto i miei soldati fossero terrorizzati. A tutto pensavano salvo che a incendiare il casale». «Allora si trova ancora là dentro» rifletté Eymerich a voce alta. Manfredi si intromise nel dialogo. «Non so a chi stiate pensando, padre, ma vedete bene che l'autore del disastro non ha scampo». Ormai le finestre della masseria lanciavano guizzi infuocati, il tetto implodeva. Il calore era insopportabile, tanto che i presenti dovettero indietreggiare. Seguì una serie assordante di schiocchi, scoppiettii, crolli a ripetizione. La casa eretta dagli arabi si affossò. Ne rimase in piedi un'ala, ma bruciava anche quella. «Basta» disse Manfredi Chiaromonte. «Dobbiamo trovare altre sistemazioni per la notte». Fece un gesto verso alcuni abitanti del villaggio, scesi a vedere, impauriti, ciò che stava accadendo. «Voi! Venite qua!» Eymerich si mise alla ricerca del suo cavallo. Aveva il fiatone, qualche capogiro. Sentiva di avere speso troppe energie. Non fu contento quando si trovò di fronte Eleonora. La donna non aveva la consueta aria impertinente. Sembrava al contrario compassionevole, com'era accaduto durante la cena a Vicari. «Non deve essere stato facile, per voi, uccidere tanti innocenti». Eymerich si mise subito sulla difensiva. «Di quali innocenti state parlando? Dei bambini deformi? Non erano esseri umani, erano emanazioni del demonio. Era mio dovere sopprimerli». «Ne siete convinto? Non potevano difendersi. Quanti indifesi avete ucciso in vita vostra?» «Tanti, e ne vado orgoglioso». Eymerich aggrottò le sopracciglia. «Ascoltatemi bene, madonna. Fa parte del mio compito dare la morte e procurare sofferenze. Non lo faccio con
piacere. Io combatto una guerra e mi comporto di conseguenza. Non passa giorno senza che appaiano nuove eresie, o che il demonio cerchi di far crollare, con i suoi stupidi inganni, l'edificio della Chiesa e la razionalità del mondo a cui Dio ha dato forma. Spesso gli strumenti del disordine sono creature che non hanno gravi colpe personali, pure marionette prossime all'idiozia, agenti di poteri che non conoscono. Io mi devo occupare d'altro: di tenere in piedi un'architettura complessa. E se mi tocca per questo eliminare un puntello incrinato, lo faccio con rammarico, ma senza pensarci due volte». «Con rammarico? Non ce n'è traccia nelle vostre parole o nei vostri atteggiamenti». «E voi cosa ne sapete? Giudicate gli atti, ma potete leggere nei miei pensieri?» Eymerich era esasperato dall'ostinazione di Eleonora, tanto che ora parlava senza riflettere troppo. Ciò lo innervosiva ancora di più. «Dio si è servito degli angeli per uccidere, distruggere e punire cruentemente il genere umano, quando occorreva. Il Testamento è pieno di esempi. Eppure voi non vi interroghereste mai su quello che passa nella coscienza di un angelo ogni volta che infligge dolore per servire il Bene». «Voi siete un uomo. Gli angeli sono aria». «Anch'io sono aria». L'ultima frase, uscita spontanea, sollevò in Eymerich reminiscenze che avrebbe voluto scordare. Ich Eym Er. Salutò Eleonora e continuò a cercare il suo cavallo, che pascolava poco distante. Montò in sella ‒ non avvertiva più nessuna fatica ‒ e inseguì Manfredi, Guglielmo e alcune lance, che trottavano verso le case coloniche sul fianco di una collina. Decise che, da allora in avanti, avrebbe rivolto la parola a Eleonora d'Arborea il meno possibile. La maledizione della sua vita erano le donne. Tommaso d'Aquino ne aveva bene intuito il potenziale distruttivo sulla concreta materialità maschile. Frequentarle, per fortuna, non era un obbligo. Benedisse l'aver avuto una madre fredda e ostile, circostanza che gli agevolava la rinuncia. Alloggiò in una bicocca, ospite di una famiglia di bifolchi molto premurosa, imbarazzata dall'avere in casa un religioso di rango così alto. Le donne ‒ una anziana, una di mezza età e due ragazze ‒ non osavano nemmeno guardarlo. Vestivano alla maniera araba, e di loro si scorgevano solo gli occhi e la radice del naso. Il capofamiglia, invece, cercava di parlargli. Si trattava di un uomo tozzo, nerboruto, con baffi e barba ingrigiti. Eymerich non capì una parola di ciò che gli diceva. «Patri, di manciari un vi putemu offriri nenti di ricercato, speramu chi v'accuntintati». L'inquisitore gradì molto la zuppa di farro, la focaccia dello stesso cereale, il vino bianco forte e aspro. Erano i cibi meglio adatti ai suoi costumi. Quando si trattò di andare a dormire, capì dai gesti del villano che gli proponeva di lasciargli i pagliericci dell'unica stanza, per ritirarsi con le donne nel granaio. Eymerich rifiutò: nel granaio sarebbe andato lui. Del resto aveva rifiutato gli alloggi convenienti e decorosi in cui avevano trovato riparo Manfredi e gli altri membri della
spedizione. Voleva rimanere solo a meditare sugli ultimi eventi. Una casa e un pagliericcio comodo lo avrebbero distratto e indotto al sonno. Meglio un giaciglio più spartano. Si era alzato il vento e, senza che facesse freddo, il calore era scemato. Nel granaio, insieme ai raggi di luna, entravano spifferi da ogni fessura. Eymerich non volle candele: la luce naturale era sufficiente. Rimasto solo, si guardò dall'adagiarsi su un mucchio di paglia. Non osava immaginare quanti insetti vi formicolassero. Invece abbassò una scala e vi mise sopra alcuni sacchi vuoti di iuta. Come let-to era scomodissimo, e gli dolevano le costole. Era ciò che voleva: una branda che gli impedisse di cadere in un sonno troppo profondo. Si ripresentarono ben presto i disagi di cui già soffriva: fitte articolari, crampi al piede gonfio, inspiegabili contrazioni muscolari. Dopo averlo servito bene per tanti anni, il suo corpo stava infine cedendo. Avvertiva una debolezza non giustificabile con un giorno di fatiche. Ricapitolò quanto avvenuto dall'inizio dell'avventura, che quasi inconsapevolmente tendeva a considerare l'ultima. Qual era il fattore comune di elementi così diversi? Prodigi celesti, presunti giganti scesi dal cosmo, piccoli mostri, cortine di fuliggine capaci di inghiottire flotte intere, ignoti divoratori di braccia e gambe, alterazioni del tempo. Poteva esistere un fattore unificante al di là del Liber Vaccae e delle sue squallide sperimentazioni? C'era modo di uscire, per via logica, da una simile sequela di orrori? Si addormentò sul quesito, ma non dormì che poche ore. La porta del granaio si aprì ed entrò Nissim Ficari. «Padre,il signor Manfredi Chiaromonte mi ha pregato di svegliarvi. Il tempo è bello, il cielo sereno e l'alba è vicina. Desidera partire subito, per arrivare a Mussomeli il più presto possibile». Eymerich si mise a sedere e si stirò. «Ora vengo». Lo sguardo gli cadde sull'emblema di stoffa verde che l'ebreo, come tutti i suoi confratelli, portava cucito sulla blusa. E, all'improvviso, capì. Anzi, ebbe conferma di ciò che aveva oscuramente intuito.
Fu quasi un trauma, tanto che quando infilò i calzari e si alzò barcollò un poco. Non era debolezza: era un eccesso di energia. Si sentiva euforico. Aveva trascurato un dettaglio essenziale: Ramón de Tàrrega era di origine giudaica! Ciò conferiva all'intero mosaico una completa coerenza, dal primo all'ultimo episodio. Soffermarsi sul Liber Vaccae era stato fuorviante. Il trattato c'entrava, sì, ma andava integrato con un'altra pista. Rimanevano molti dettagli da spiegare, ma una volta individuato il fulcro del mistero tutto diventava più semplice. Era persino possibile prevedere alcune delle prossime mosse del suo avversario. Quando Eymerich uscì all'aperto, l'alba non era ancora spuntata, sebbene le tenebre avessero già iniziato a dissiparsi. I galli cantavano ovunque. Al capofamiglia che gli andava incontro, con una pagnotta calda in mano, l'inquisitore disse, con voce carica di ottimismo: «Il gallo è un animale particolare. Intuisce quando la luce non c'è ancora ma sta per spuntare. Ciò lo ammanta di una certa sacralità, non credete?». Ovviamente il contadino non capì una parola. Colse il buonumore del domenicano e gli sorrise, porgendogli il suo regalo. «Tiniti, patri, ca vi susteni p'u viaggio».
Eymerich non sorrideva mai, tuttavia incurvò le labbra in segno di cordialità. «Grazie, buon uomo. Non lo saprai mai, ma il tuo ricordo resterà associato a uno dei momenti migliori della mia vita. Dio benedica te e la tua famiglia». L'inquisitore si avviò verso l'aia in cui si stava radunando la truppa di Chiaromonte. Più che vedere il luogo, seguiva i nitriti dei cavalli e intanto stava attento, nella penombra che si diradava, a evitare ciottoli troppo aguzzi o troppo tondi. In basso il Miknas, di cui scorgeva il profilo scuro, sembrava avere smesso di bruciare. Quanto meno non emetteva fumo. Ne rimanevano solo pochi ruderi e cataste di detriti. Prima che Eymerich raggiungesse i compagni, una luminosità di un giallo intenso scaturì da dietro le montagne e le colline e invase tutto il cielo, disperdendo le ultime tracce di oscurità. Il sole spuntava emergendo da un'aurora rapidissima. Presto apparve, in un tripudio di raggi dorati. Il fiume scintillò, la valle prese colore. Eymerich si beò di quello spettacolo. Per lui, totalmente indifferente alla natura, era una novità. Il primo in cui si imbatté fu padre Simone dal Pozzo, che montava sul carro aiutato da una lancia. «Avete dormito bene, magister?» gli chiese il confratello. «No, per nulla, e tuttavia starmene da solo non è stato inutile». «Sapete come ho dormito io? Mi hanno messo...». «Non credo che mi interessi». Eymerich procedette oltre, continuando a sbocconcellare la sua pagnotta. Incrociò la ciurma che stava rimettendo in moto la balista, spingendo i cerchioni delle ruote. Chi dirigeva l'operazione era Guglielmo di Romagna, appiedato. Quando vide l'inquisitore, si staccò dai suoi uomini e tolse l'elmo, in segno di rispetto. «Padre Nicolas, vi devo delle scuse. Ieri sera ho avuto con voi momenti di tensione che adesso non giustifico. La situazione era molto particolare. Il mio rispetto per la Chiesa è assoluto, e per san Domenico ho una particolare devozione». Guglielmo sembrava avere dimenticato lo schiaffo ricevuto, cosa davvero insolita in un guerriero di professione. «Vi credo» rispose Eymerich, che non gli credeva affatto. «È tutto dimenticato. Tenete solo sotto maggiore controllo i vostri soldati... Sapete dov'è il mio cavallo?» «Sì, nella stalla in cui abbiamo ricoverato gli animali. Vi ci conduco». Poco dopo, quando il sole, enorme, aveva già sovrastato di una spanna la più alta delle colline circostanti, la colonna si rimise in cammino. Eymerich non aveva visto Eleonora, che forse era salita sul carro, né parlato con Manfredi Chiaromonte. Notò che tutti quanti, spuntato il mattino, tendevano a dimenticare gli orrori della notte, come se il mattino fosse sufficiente a cancellare i frutti malati dei buio. Non era vero, però non era il caso di farlo presente. Se Manfredi non lo avvicinava, era forse perché l'inquisitore non smentisse una convinzione tanto radicata e consolatoria.
La via che conduceva a Mussomeli si fece stretta e impervia, a rischio di far deragliare la balista e il carro. Fu un tratto breve. Subito dopo il sentiero si allargò, costeggiato da campi estesi di frumento. Nei tratti non ancora mietuti, le spighe erano alte e mature. Anche dove erano state tagliate restavano spuntoni che ingiallivano i campi e tappeti di chicchi. Il sole imbiondiva i poderi che imbiondivano il cielo. Le colline erano verdi, il resto era oro. Di fronte a un colossale spuntone di roccia che dominava una valle piatta e rigogliosa, Manfredi Chiaromonte trattenne il cavallo e si decise a parlare a Eymerich. «Stiamo per arrivare a Manfridia, un borgo che prende nome da me» gli disse. «Guardate il picco che lo sovrasta. Il castello che vi sto costruendo sarà ricordato, mi auguro, come la migliore delle mie realizzazioni. Più, addirittura, del mio palazzo di Palermo». Eymerich alzò lo sguardo e non poté che convenire.
Terza parte Citrinitas
21.Lilith - 3 Il dottor Lesurme aveva un eloquio cordiale, che catturava. Lilith si chiese se non fosse un Depresso. Ma no, negli occhi grigi dell'uomo c'era un fondo di freddezza e di estraneità. O era un Isterico, benevolente senza motivo, oppure uno Schizo o un Ossesso che fingeva. Quel che sembrava certo era che la simpatia di cui dava mostra era fasulla. «Ovviamente, prima andiamo a cena in sala mensa. Sarà affamata, Lilith. Così avrò modo di porle alcune domande». Scesero di due piani con l'ascensore ed entrarono in un salone ampio, con le pareti tappezzate di azzurro e il pavimento di metallo. Vi faceva un po' freddo, per essere un luogo di ristoro. A uno dei molti tavoli rotondi stava seduta una coppia in camice, che sollevò lo sguardo con tenue interesse. Mangiava cibi in un piatto di carta e attingeva da una bottiglia di plastica. Un largo oblò circolare, in fondo al locale, mostrava i soliti capannoni e, più distanti, i tralicci dalle braccia larghe. Lilith notò che queste erano a forma di croce disposta orizzontalmente e che ogni traliccio era collegato all'altro da una ragnatela di fili. «Non è precisamente l'hotel Hilton, ma bisogna accontentarsi» commentò Lesurme ridendo. Passò dietro un bancone con teche di vetro vuote e aprì lo sportello di una specie di piccolo montacarichi. «Vediamo cosa abbiamo di buono oggi. Direi che il menu è più ricco del consueto. Il formaggio lo sconsiglio: è tra il verde e l'azzurro, dev'essere marcito tanto tempo fa. Invece ci sono ottime gallette, vegetali sotto spirito e persino gamberetti surgelati. Inoltre una busta di vino bianco». Lilith capì che il dottore faceva dell'ironia. «Per me va bene tutto» disse. Il montacarichi le ricordava quello che aveva nel suo alloggio, a Paradice. Ogni giorno le scaricava alimenti provenienti da fabbriche automatiche ancora attive. A volte avariati, più spesso mangiabili. Mai buoni, comunque. Sulla Luna dovevano avere un sistema alimentare analogo. Ma da dove prendevano la materia prima? Lesurme posò su un vassoio, prelevato da una pila, piatti, posate e due bicchieri di plastica, accumulati dietro il bancone. Raccolse il cibo commestibile e la busta di vino, poi richiuse lo sportello. Si udì, dietro il metallo, ciò che somigliava a un rigurgito.
Quando si furono seduti a un tavolo, le disse: «Abbiamo fatto una ricognizione sulla Kraeplin III. Il povero Kurada è stato orrendamente mutilato. Cos'è accaduto, esattamente, sulla Terra?». «Ciò che lui poteva aspettarsi» rispose Lilith, la bocca piena di gamberetti. Non erano buoni e avevano uno strano sapore. «Là si vive come belve feroci». «E i suoi assistenti?» «Hanno fatto una fine anche peggiore. Credo bolliti e poi mangiati. La festa di Capodanno del 3000 prevedeva cose simili». Lesurme annuì. «Lo so, lo so. Qui facciamo del nostro meglio per rimediare al disastro». Additò i tralicci fuori dell'oblò. «Ho dei dubbi sulle nostre possibilità di successo, malgrado le apparecchiature ancora funzionanti. Ogni tanto spediamo sulla terra degli ES, ma hanno un'efficacia limitata. Senza contare gli errori commessi in passato». Lilith si incuriosì. «Sono quei piloni che provocano i Lampi? Vale a dire, gli ES?» «Sì. È una storia lunga. Vuole che gliela riassuma?» Lesurme strappò l'estremità superiore della busta di vino. Ne versò nel proprio bicchiere, poi in quello di Lilith. «Si annoierà». «Mi annoierei comunque». Lui sorrise. «Il suo linguaggio è molto appropriato. Vedo che, attraverso il chip, ha avuto una buona educazione. Un nostro piccolo successo». «Non mi interessa. Vada avanti». Lilith, nel frattempo, si stava chiedendo se il coltello di plastica sarebbe stato sufficiente a tagliare la gola di quel bastardo. No, concluse, e comunque sarebbero rimasti i due curiosi seduti qualche tavolo più in là. L'unica era ricorrere all'arma nascosta sotto la cintola. Prima, però, doveva conoscere la natura dei Lampi dolorosi che l'avevano fatta soffrire tanto. Lei e tutti gli abitanti di Paradice. Per potersi vendicare meglio. «Le origini sono antiche» esordì Lesurme. «Più di un millennio fa gli Stati Uniti, ignari che di lì a breve sarebbero scomparsi nelle guerre civili, diedero vita a un progetto chiamato HAARP». Lilith fraintese l'acronimo. «Nel senso di arpa? Lo strumento musicale?» «No. HAARP sta per High-frequency Active Aurora Research Project. Un'idea nata da una scoperta di Nikola Tesla, uno scienziato geniale che visse tra il 1800 e il 1900. Si trattava di influenzare, attraverso potenti emettitori, la ionosfera, la fascia che circonda la Terra e la protegge. Tesla, un fisico di nome Eastlund e chi fece proprio il progetto HAARP sapevano che delle emissioni di energia elettrica a frequenza molto bassa, le VLF, potevano attraversare la ionosfera a velocità prossima a quella della luce, farla vibrare e abbattersi su un bersaglio definito».
«A che scopo?» «In primo luogo, facilitare le comunicazioni. Un impiego collaterale era di tipo più direttamente militare. Secondo Eastlund, le VLF erano capaci di alterare il clima e causare terremoti, inondazioni e uragani nelle aree su cui venivano indirizzate». Tediata, Lilith finì di masticare una galletta insipida, poi bevve un sorso di vino. Sapeva di aceto, però, fresco com'era, risultava abbastanza gradevole. Meglio dei cibi solidi. «Non vedo il nesso con ciò che state facendo sulla Luna». Lesurme additò i campi di tralicci, un poco deformati dall'oblò. «Lei, infermiera, sta vedendo gli sviluppi del progetto HAARP. Quando i primi psichiatri hanno colonizzato la Luna, secoli fa, si sono sforzati di dare vita a un sistema di emittenti più ampio di quello originale, sito in Alaska, moltiplicandone la potenza per influenzare la ionosfera terrestre». «Perché? Per suscitare cataclismi?» «Non solo» rispose Lesurme, curvo sui poco appetitosi rimasugli nel suo piatto di plastica. «Anche il cervello umano funziona a bassissima frequenza. Le VLF, giunte dallo spazio ad alterare la ionosfera, potevano influenzarlo. Quando la guerra tra la RACHE e l'Euroforce si spostò sul piano delle allucinazioni, diventammo utili. Potevamo influenzare zone prescelte, crearvi visioni collettive. Dal punto di vista militare, un risultato impagabile. Interi popoli che scoprivano concrete le loro fantasie. E rinunciavano a opporre resistenza». «Non ha funzionato molto bene. La guerra è continuata per secoli, finché sono impazziti tutti». Lesurme allargò le braccia. «I nostri scopi non erano bellici, ma umanitari». Dovette scorgere l'incresparsi sardonico delle labbra di Lilith, perché aggiunse: «L'uso sul campo delle perturbazioni ionosferiche ci ha fatto conoscere molto di più sui campi elettrici umani. Ci siamo dati come missione di rettificarli, spegnendo le tendenze aggressive. Ecco il perché dei Lampi. Forse risultano dolorosi per chi li subisce e certo uccidono un buon numero di cellule cerebrali. Causano mal di testa ai limiti della sopportazione, lo so. Che importa? Nel complesso, mantengono una calma sufficiente a far sì che l'umanità, bene o male, si evolva». Lilith rimase sorpresa da tanta impudenza. «Ma non si sta evolvendo affatto!» esclamò. Si rimproverò un istante dopo l'uscita troppo spontanea. Doveva controllarsi: non poteva mostrare sconcerto né alcun altro sentimento. «Dottore, lei parla con una donna che esce dritto dall'inferno». «Lo so, lo so. Monitoriamo costantemente le condizioni di Paradice... Sa perché si chiama Paradice?» «No». «Il nome deriva dai messaggi di un assassino psicopatico del XX secolo. Si firmava Zodiac. Diceva di uccidere per portare le anime in un suo paradiso, da lui storpiato in Paradice, e renderle sue schiave. Adottammo quel nome in codice quando ci rendemmo conto di ciò che
avveniva sulla Terra... Quel che è certo è che senza i Lampi, le emissioni HAARP nella ionosfera, gli umani si sarebbero massacrati tutti l'uno con l'altro». La cena era finita. A causa dei pochi sorsi di vino acetoso e della stanchezza accumulata fino a quel momento, Lilith si sentiva leggermente inebriata. Sarebbe stato il momento giusto per iniziare il massacro che progettava, cominciando da Lesurme. Una remora la trattenne. Sapeva ancora troppo poco del complesso in cui si trovava, delle persone che vi abitavano, delle loro attività. Le occorrevano maggiori informazioni, anche se la voglia di cominciare a sgozzare quei damerini grotteschi, abitanti il vuoto tra squallide parvenze di eleganza, era tantissima. Accettò subito quando Lesurme, alzandosi in piedi, le disse: «Venga, infermiera. Facciamo due passi. La porterò a vedere la sala di controllo delle antenne di trasmissione, da dove proiettiamo i Lampi. Se ne avrà voglia, potrà visitare il deposito degli L-Field». Ridacchiò. «La vera sorpresa sarà quella». Dopo un cenno di saluto alla coppia che, stancamente, concludeva una cena tristissima, uscirono nel corridoio. Si imbatterono in altri abitanti della base, alcuni in camice e altri senza. La domanda era sempre la stessa: «Qualche navetta è rientrata?». Anche la risposta era monocorde. «Solo una, per ora. La Kraeplin III. Ma senza Kurada». A quel punto, Lesurme presentava Lilith. Lei raccoglieva occhiate vacue e ne restituiva di simili. L'interesse per i nuovi conoscenti si riassumeva nella valutazione della loro stazza. Li avrebbe uccisi con facilità? La conclusione era sì. Apparivano smunti, pallidissimi, a volte claudicanti, come se le loro gambe faticassero a portarne il peso. Tutti Depressi, si disse Lilith. Il tipo di vittima ideale. Stavolta l'ascensore li portò in basso. Quando le porte si aprirono, Lesurme esclamò: «Bene, è di turno il dottor Myotis, uno dei tecnici più competenti. Le piacerà, infermiera!».
22.Mussomeli In una piana sconfinata, a poca distanza da un nugolo di casupole, si elevava una rupe altissima, impressionante. La cima era occupata per intero da un castello che sembrava fare tutt'uno con la roccia. Non aveva torri, inutili a quell'altura, ma possedeva la potenza di una macchina bellica. Pareva ancora in costruzione, e lungo la salita si scorgevano ponteggi eretti attorno a nuovi edifici che stavano prendendo forma. Di rado Eymerich aveva visto fortezze tanto possenti, e ciò malgrado leggiadre. Attraversarono il villaggio. «Quella è la chiesa di San Giorgio, che ho fatto costruire» gli disse Manfredi con fierezza. Indicava un fabbricato non troppo alto, severo, dalle arcate a tutto sesto e dal campanile tozzo. «San Giorgio è il protettore del mio casato».
Eymerich annuì, interessato soprattutto agli abitanti di Manfridia. Gli uomini dovevano essere al lavoro nei campi, perché non erano numerosi. Le donne, invece, quasi sempre velate, scrutavano dalle finestre e dagli angoli di strada, attorniate da bambini. Chi si trovava nella via, uomo o donna che fosse, faceva inchini profondi. Spalancavano però gli occhi al passaggio rumoroso della balista, un ordigno mai visto prima. L'arma montata su ruote sobbalzava sull'acciottolato irregolare e sulle cunette, mettendo in fuga cani, gatti e galline, molto magri. All'abbaiare, al miagolare e allo starnazzare degli animali si aggiunsero presto le grida di una torma di ragazzini, che si mise alla coda del corteo. Imitavano i soldati e fingevano di marciare al passo, oppure si spingevano a vicenda e dilagavano fino a occupare l'intero vicolo. Eymerich si disse che la marcia di Manfredi Chiaromonte verso il suo castello non avrebbe potuto essere meno solenne. L'autorità del villaggio si manifestò solo quando terminarono le case, sul cammino che conduceva alla rupe e alla fortezza. Il baiulo mosse verso la colonna accompagnato da un prete e da alcuni possidenti e notabili, vestiti poveramente. Manfredi alzò la mano destra, per indicare ai suoi di fermarsi, poi chiese a Guglielmo di Romagna, con voce abbastanza alta perché l'inquisitore udisse il dialogo: «Passate spesso da queste parti, in veste di esattore. Come si chiama costui?». «Antonio Sellato, ammiraglio». «Paga i tributi?» «È tra i pochi che lo fanno. Non a caso il borgo è in miseria perenne. Vive dei servizi che rende al castello e dei pochi terreni coltivabili di proprietà vostra o di vostro fratello». «Dunque niente impiccati, da queste parti». «No, non è mai stato necessario». «Male. Ogni tanto è bene sferzare la plebe. Non per punirla delle colpe presenti, ma per prevenirne di future». Eymerich lasciò i capi della spedizione a discutere con i miserabili maggiorenti e scese da cavallo. Anche Simone dal Pozzo era sceso dal carro per sgranchirsi le gambe. Il frate avvicinò il superiore. «Ieri notte non abbiamo potuto parlare» disse, esitando come se potesse essergli addebitata qualche colpa. «Stamattina mi parete particolarmente sicuro e deciso. Avete trovato una spiegazione alla fila di bambini mostruosi snidati dal casale?» «No» mentì Eymerich. «Voi ne avete una?» «La più ovvia. Si trattava degli "esseri razionali" generati nel ventre di una vacca, secondo le ricette del Liber Aneguemis. Ne convenite?» «Può darsi».
Dal Pozzo sembrò molto meravigliato. «Voi stesso gridavate che occorreva cercare un bovino! Non era vero?» «Al contrario. Era verissimo». «Allora non capisco la vostra risposta incerta, magister. Grazie alla vostra intuizione, abbiamo scoperto la verità. Ramón applica una dopo l'altra, per scopi suoi, le formule ignobili del libro che mi avete fatto leggere. Sì, mi avete detto che non c'è traccia di fumigazioni, però chi ha detto che debba trattarsi di fumo visibile? Non ne sappiamo nulla, le sostanze per suscitarlo sono quasi impossibili a trovarsi. Tutto il resto torna». Eymerich, con la coda dell'occhio, aveva notato che il baiulo e gli altri borghigiani di riguardo si stavano allontanando, probabilmente dopo avere promesso al feudatario più larghe contribuzioni. Si stava per ripartire. Aveva fretta di terminare quella conversazione. «Padre Simone, prendo atto delle vostre induzioni. Che siano esatte o no, è ancora presto per saperlo». Mentre Eymerich si volgeva per raggiungere il suo cavallo, che brucava l'erba ai margini della salita verso il castello, Simone dal Pozzo gli rivolse un'ultima domanda. «Magister, ieri notte avete chiesto a Guglielmo di Romagna se fosse stata una delle lance a dare fuoco al Miknas. Così non è, si direbbe. Credete forse che ad appiccare il fuoco sia stato Ramón, presente in qualche modo all'interno della masseria?» Eymerich capì che una risposta doveva darla, se voleva togliersi di torno l'importuno. «Avete usato l'espressione giusta. "In qualche modo." Quale sia questo modo lo scopriremo, se Dio vorrà. E forse, con il Suo aiuto, risolveremo anche il quesito più difficile». «Che sarebbe?» «Perché Ramón sia venuto in Sicilia o abbia fatto di tutto per attirarmi qui. Ho ipotesi in merito, non certezze». A quel punto si allontanò. Iniziò quasi subito la salita, mentre in basso si allontanavano le casupole di Manfridia, e appariva la vastità di una piana in cui il verde dei boschi si alternava all'oro dei cespugli di ginestre. La via era più agevole del previsto, anche se resa impervia dal calore che aumentava a ogni minuto. Costeggiarono le appendici del castello in costruzione. Operai nudi fino alla cintola, forse schiavi o servi di condizione non lontana dalla schiavitù, erano all'opera sulle impalcature. Uomini forti e bassi, dalla carnagione bruna o color mattone. C'era anche qualche negro, catturato chissà dove nel Mediterraneo e proveniente da regioni interne all'Africa. Alcuni salutavano, gli altri continuavano indifferenti le loro mansioni. Si entrava nel fortilizio attraverso un portale, e subito dopo c'erano le scuderie: ambienti enormi, dalla volta a botte. Una masnada di servitori scese a prendere in consegna le cavalcature.
Uno di loro indicò i bastioni più in alto e disse a Manfredi, in catalano: «Mio signore, vostro fratello vi attende lassù, in cima alla rampa. Il camminamento è breve, lo si sale a piedi. Siamo tutti quanti lieti di avervi di rinforzo. Qui resistiamo, ma non so per quanto ce la faremo». Manfredi inarcò un sopracciglio. «Resistete a cosa? Chi è che vi sta assalendo?» «Non lo sappiamo». Il servo, un uomo di mezza età, dalla testa ricciuta, piegò il collo. «Vostro fratello saprà illuminarvi meglio di me, il più umile fra i difensori del castello di Mussomeli». «Reticente?» Manfredi cercò con lo sguardo Guglielmo di Romagna, che gli era alle spalle. «Fate bastonare questo miserabile. Nelle stalle, tra la merda di vacca. Cento colpi ben assestati lo puniranno della sua insolenza». «Sarà fatto, ammiraglio» rispose Guglielmo. Il servo cadde in ginocchio, giungendo le dita. Quasi piangeva. «Ma qual è la mia colpa, signore? È un ordine di vostro fratello Giovanni non accennare mai ai dischi e alle spirali nel cielo! E ai due assalti dei Lestrigoni che abbiamo respinto con fatica!» «Ecco che diventi più loquace» ironizzò Manfredi. «Non abbastanza. Guglielmo! Procedete con la punizione!» Eymerich si disinteressò alla scena e imboccò la salita. Di fronte al secondo portale, più grande, era in attesa Giovanni Chiaromonte, più anziano ma più alto e longilineo del fratello, attorniato dalla sua piccola corte e da molti soldati. L'inquisitore non aveva fretta di salire: precedere Manfredi sarebbe stato uno sgarbo. Appoggiò dunque i gomiti alla balaustra e osservò il panorama, che si estendeva fino all'orizzonte. Lo strapiombo sotto di lui, sul lato meridionale del fortilizio, era vertiginoso. Quanto alla vallata, essa riceveva dal sole, ancora basso perché non era nemmeno l'ora terza, una tinta paglierina uniforme, in cui si stemperava anche il verde delle piante. Lo spettacolo accecava, e l'incanto che emanava impediva di distogliere lo sguardo. Difficile associare tutto ciò a mostri colossali e a enigmatiche macchine da guerra capaci di volare. Finalmente arrivò Manfredi, che teneva alta la mano di Eleonora d'Arborea. Lo accompagnava Guglielmo di Romagna, segno che forse al servo era stata risparmiata la minacciata bastonatura. Seguivano lance e civili. Eymerich entrò nel corteo e affiancò Simone dal Pozzo, che respirava con la pena di un mantice. Si guardò bene dall'offrirgli il braccio. I due fratelli si salutarono senza enfasi eccessiva. «Ti aspettavo prima» disse Giovanni in catalano. «Sono venuto appena ho potuto». Eymerich soppesò i familiari del rector di Palermo. La consorte, che sapeva chiamarsi Elisabetta Ventimiglia, era una donna dai capelli bianchi, molto pallida e dal viso così rugoso
da sembrare consunto. C'erano poi un giovane uomo e una giovane donna, senza tratti caratteristici a parte l'età. Più interessanti i dignitari e i militari: gentiluomini dagli occhi astuti, notabili per cui trovarsi lì rappresentava una promozione sociale, un prete allampanato, ufficiali di chissà quale nazionalità che nel fare annoiato, e al tempo stesso superbo, manifestavano la loro inclinazione alla prepotenza. «Ti ho portato una balista» annunciò Manfredi a Giovanni. «È nel primo cortile. E una seconda macchina da guerra che ti sarà d'aiuto». Giovanni annuì. «La balista può in effetti tornare utile. L'altra arma cosa sarebbe?» Manfredi Chiaromonte fece un gesto un po' teatrale, in direzione del codazzo dei suoi uomini. «Eccola laggiù. Vedi il domenicano più alto? È padre Nicolas Eymerich da Gerona, magister philosophiae, inquisitore generale del regno d'Aragona, campione di intransigenza e di coraggio». «Un frate?» mormorò Giovanni, interdetto. «Per di più catalano?» «Non pensare alla sua nazionalità. Non ne ha nessuna. Ti assicuro che non avrei potuto portarti sostegno più efficace». Eymerich era stato colto di sorpresa. Sbalordito, odiò Manfredi per quegli elogi così inattesi. Di fronte a lui i presenti si divisero in due ali. Suo malgrado, fu costretto a farsi avanti. Il rector lo accolse benigno e un po' scettico. Fece un inchino cortese, mormorò due parole di circostanza e passò alle presentazioni. L'inquisitore fu costretto a salutare una piccola folla di sconosciuti. Solo due tra loro manifestarono sincera emozione: il prete allampanato, dagli occhi febbrili che sembravano fanali accesi sulla notte, e un uomo barbuto e grassottello, che gli fu presentato come "mastro Avakum, istitutore". Senza dubbio si occupava dell'educazione dei virgulti dei Chiaromonte, pur avendo l'aspetto dei maestri di strada comuni a Palermo da una trentina d'anni. «Ho un'altra sorpresa per te, Giovanni» disse Manfredi, in vena di stupire. «Ho con me una dama di dignità pari a una principessa. Venite avanti, madonna Eleonora d'Arborea». Questa volta lo stupore del rector non ebbe limiti. «Eleonora di Sardegna? La figlia del giudice Mariano?» «Proprio lei». Eymerich fu subito dimenticato, con suo grande sollievo. Tutte le attenzioni si rivolsero a Eleonora, che incedette con grazia e passo leggero. Chissà come, era riuscita a cambiarsi ancora una volta, certamente nel carro. Indossava sui capelli una cuffia di raso nero, orlata di bianco, e una veste di velluto rosso, niente affatto accollata. Il petto era coperto da una veletta di organza, assai trasparente, e un ciondolo d'argento le pendeva dal collo. Restava impossibile definirla bella, tuttavia emanava freschezza e dignità.
Eleonora lasciò che Giovanni le baciasse la mano, poi disse, con la disinvoltura di un ambasciatore: «Sono onorata di conoscervi di persona, mio signore, dopo avere udito tanto parlare di voi. Vi porto il saluto di un'isola sorella, altrettanto minacciata». Giovanni non si era ancora riavuto del tutto dal suo sbalordimento. «Venite da parte di vostro padre?» «In un certo senso sì». Eymerich, che in qualche misura apprezzò l'ambigua sfrontatezza di quella risposta, stava approfittando della momentanea disattenzione dei presenti per allontanarsi e tornare nell'anonimato. Fu però raggiunto, e quasi gettato contro la balaustra del lato sud da cui prima si era sporto, dall'istitutore Avakum. L'ometto puzzava di sudore e avvicinava il viso all'interlocutore come fanno i miopi. Eymerich ne fu disgustato. Valutò se fare lo sgambetto al precettore e mandarlo a schiantarsi sui dirupi sottostanti, ma rimandò l'idea: il seccatore non gli aveva fatto ancora niente. Si limitò a sgusciare via dal suo contatto e a tenersi a distanza. Avakum fu il primo ad attaccare discorso. «Scusate le mie maniere, magister... permettete che vi chiami così?... ma da troppo tempo desideravo conoscervi. Ho letto a Barcellona alcuni vostri scritti e vi ho ammirato per profondità, cultura, competenza teologica. Imbattermi in voi in quest'angolo di mondo è qualcosa che non avrei mai sperato!» «Siete di Barcellona?» chiese Eymerich, scostante. Nulla lo infastidiva quanto il sentirsi incensare senza ragione. Preferiva addirittura essere insultato. Avakum ridacchiò, in uno scoppio insensato di allegria che non aveva alcun nesso con ciò che disse. «Oh, no. Sono di origine serba, venduto dai veneziani ai catalani come schiavo quando ero ancora un bambino. Dopo mille traversie sono stato comperato da Giovanni Chiaromonte, che poi mi ha liberato e nominato precettore dei suoi figli legittimi, Matteo e Luchina. Quelli che vedete al suo fianco. Devono a me la loro educazione». «Ne immagino la qualità» commentò Eymerich, con un filo di sarcasmo. «Bene, è stato un piacere conoscere un mio lettore. Mi vorrete scusare, mastro Avakum, ma dovrei scambiare due parole con il mio confratello Simone dal Pozzo». «Un momento solo, magister. Avrei modo, più tardi, di parlarvi in privato?» Il precettore si era avvicinato nuovamente, ed Eymerich fu costretto ad arretrare per sottrarsi al suo lezzo. «Credo che i miei libri siano abbastanza chiari da non richiedere spiegazioni dettagliate». «Non si tratta di quello. Vorrei dirvi qualcosa sugli attacchi che subiamo». «Voi cosa ne sapete?» chiese Eymerich, finalmente incuriosito. «Non più di tanto. Ero presente durante gli sbarchi dal cielo dei Lestrigoni, quando tutto il castello ha tremato e Manfridia ha rischiato di essere distrutta. Ho notato alcuni dettagli che vorrei sottoporre alla vostra scienza».
L'attrattiva dell'argomento non era tale da indurre l'inquisitore a conversare in uno spazio chiuso con qualcuno che, alle sue nari molto sensibili, emanava il lezzo di una carcassa in putrefazione e cercava ogni pretesto per toccarlo. D'altra parte, degli assalti al castello avrebbe presto saputo da Giovanni Chiaromonte e da altri testimoni attendibili. Se la cavò con uno sbrigativo: «Divideremo lo stesso tetto, quindi avremo tempo e modo di incontrarci». «Grazie, mille volte grazie, magister!» esclamò Avakum, al culmine dell'entusiasmo. Si inchinò, ma a vuoto: Eymerich era già distante. In verità l'inquisitore non voleva dire nulla a dal Pozzo, solo liberarsi del precettore. Il frate, tuttavia, lo interpellò. Alzò l'indice verso l'orizzonte, dove il sole fiammeggiava e dipingeva di giallo ogni cosa. «Avete notato, padre Nicolas? Accanto all'astro principale ne è apparso uno più piccolo, che si sta ingrandendo. Come se precipitasse verso di noi». Eymerich batté le palpebre, ferite dai raggi solari. Socchiuse gli occhi. Un corpo celeste, rapidissimo, stava in effetti dirigendosi verso la Terra, come se vi volesse cadere. Si nascondeva nella tinta paglierina predominante. Pochi attimi dopo palesò la sua forma: era una spirale luminosa di forma discoidale. Giovanni Chiaromonte, distolta un attimo l'attenzione dai cerimoniali ancora in corso, fu il primo a scorgere il pericolo. «Una nuova incursione dei Lestrigoni!» si mise a urlare. «Tutti i civili dentro il castello, gli arcieri pronti! Li ricacceremo all'inferno, come le altre volte! Sia armata una catapulta!» Manfredi parlò concitato con Guglielmo di Romagna, che gli era a lato. «Voglio la balista pronta in pochi attimi, e ben tesa. Fuoco agli stoppacci sulla punta dei dardi. Mirate verso la spirale ed eventuali altri dischi, appena giungono a portata. Esigo colpi precisi e letali». «Farò del mio meglio, signore» rispose il capitano, prima di correre via. Le donne strillavano, gli uomini le spingevano dentro le sale del castello, altrettanto spaventati. Così facendo, ostacolavano l'uscita degli arcieri che accorrevano con archi e balestre. Dall'alto non proveniva alcun rumore. La spirale, divenuta enorme, si collocò allo zenit. Ai suoi lati, apparsi dal nulla, si materializzarono sciami di dischi luminosi. Avevano traiettorie eclettiche, zigzaganti, che però puntavano verso Mussomeli e la sua rocca. L'aria vibrava, come se onde impercettibili ne stessero turbando l'immobilità. Eymerich non aveva seguito dal Pozzo, scappato a ripararsi nel maniero. Fu raggiunto dall'unica donna che non si fosse data alla fuga: Eleonora d'Arborea. «Non sembrate avere paura, magister». «Voi nemmeno». «Sono abituata alle battaglie». «Questa si preannuncia insolita».
Si udì un rombo che fece vibrare l'acciottolato, ma non proveniva dal cielo. Spinta a forza di braccia, la balista era entrata dall'arcata nel cortile principale. Nello stesso momento, un'enorme catapulta veniva spinta a ridosso degli spalti più elevati. Servi e soldati facevano ruzzolare con fatica i macigni tondeggianti che l'avrebbero armata.
23.Combattere gli spettri Gli oggetti volanti apparsi accanto alla spirale mutarono d'improvviso colore. Prima fu un intenso bagliore, come se una stella più grande della norma si fosse accesa. Seguì un lampo colossale di luce verde. Stranamente non illuminò tutto il cielo in maniera uniforme; lo fece a filamenti disomogenei, come fulmini reticolati tra le nuvole notturne. I dischi toccarono il suolo. Qualcuno, dalla sommità degli spalti, gridò: «Sono a portata! Bombardateli di macigni e di dardi!». La balista fu la prima a scattare, seguita dalla catapulta. Alcuni proiettili toccarono il bersaglio, ma lo attraversarono senza danneggiarlo, come se fosse fatto di pura luminosità. I dischi tuttavia dovevano avere massa concreta e si interrarono nel suolo, roteando su se stessi. La pianura si riempì di buchi. Pochi istanti dopo scaturirono dalle cavità, a forza di braccia, degli esseri possenti. Erano giganti nudi e pelosi, calvi, dal colorito bruno e dalle chiome scomposte. Di sesso maschile, agitavano le braccia e urlavano a perdifiato in direzione del castello. Sollevavano massi e li lanciavano, abbattevano alberi, calcavano il terreno con passi pesanti che vi aprivano buche. Sembravano avere occhi rossi e spiritati. Forse, data la distanza, era una pura impressione. «I Lestrigoni! l Lestrigoni!» fu il grido che si udì dagli spalti. Nuovi dardi e nuovi macigni caddero sugli assalitori. Si smaterializzarono prima di colpirli, scomparendo nel nulla. L'orda dei mostri folli invece avanzava, tra digrignare di denti e barriti insensati. Pareva decisa a scalare il picco. Eleonora cinse il torace di Eymerich e lo tenne stretto. L'inquisitore, allarmato ma lungi dal cadere preda del panico, non la respinse. «Avete paura, madonna?» le domandò. «Chi non ne avrebbe?» La risposta fu vivace e, in un certo senso, sbarazzina. Ciò malgrado, la voce della donna era incrinata. «Tranquillizzatevi. Quei fantocci non possono fare del male ad anima viva. Sono qui per spaventare, non per uccidere. Il loro spettacolo durerà pochissimo». I Lestrigoni stavano avanzando verso la parete sud della fortezza. Dall'alto, arcieri terrorizzati e dalla mira imprecisa scagliarono su loro una pioggia di frecce. Non ebbero
effetto. Alcuni soldati si gettarono nello strapiombo e si sfracellarono sulle rocce, per evitare una sorte atroce che ritenevano segnata. «Adesso basta» disse Eymerich. Si sottrasse all'abbraccio di Eleonora d'Arborea e si avvicinò al parapetto, indifferente ai massi che la catapulta scagliava alti sul suo capo. Si sporse e allargò le braccia. Alcuni giganti irsuti già scalavano il dirupo, aggrappati alle sporgenze. Altri gettavano spezzoni di scisto che nessun uomo avrebbe potuto sollevare. L'inquisitore allargò le braccia e le alzò un poco, lasciandosi investire dalla luce giallognola, con sfumature verdi, proveniente dal cielo e riflessa dalla valle. Scandì in latino, con tutta la forza delle sue corde vocali: Draco maledicte et omnis legio diabolica, adjuramus te per Deum vivum, per Deum vermi:, per Deum sanctum, per Deum, qui sic dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret, ut omnis, qui credit in eum, non pereat, sed habeat vitam aeternam: cessa decipere hominas creatures, eisque aeterna perditionis venenum propinare: desine Ecclesiae nocere et ejus libertati laqueos injicere. Vade, Satana, inventor et magister omnis fallaci, hostis humanae salutis. Da locum Christo, in quo nihil invenisti de operibus tuis; da locum Ecclesiae unae, sanctae, catholicae, et Apostolicae, quarti Christus ipse acquisivit sanguine suo. Hunúliare sub potenti manu Dei; contremisce et effuge, invocato a nobis sancto et terribili nomine Jesu, quern inferi tremunt, cui Virtutes ccelorum et Potestates et Dominationes subjectx stint; quem Cherubim et Seraphim indefessis vocibus laudant, dicentes: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth!». Alle prime parole di Eymerich, i mostri puntarono lo sguardo verso di lui. Si trovò fissato da occhi bramosi, sporgenti, fitti di vene che sembravano volere esplodere e schizzare sangue. Le braccia smisurate si agitarono, mani artigliate concentrarono il lancio di macigni alla sua volta. Un urlo ininterrotto, furioso, sommerse ogni altro suono. Tutta Mussomeli vibrava, la spirale in cielo ruotava con frenesia. Eymerich non avvertiva il minimo timore. Pronunciò anzi l'ultima parte della formula con le braccia conserte sul petto, come se non volesse sprecare energie. Il fragore delle urla non lo assordava: ogni sua parola, anche se solo mormorata, era capace di attraversarlo e di rimbombare in orecchie appuntite, sensibili a un messaggio di guerra. Infine, al momento del Sanctus, alzò la mano destra e tracciò il segno della croce. Si videro i Lestrigoni arretrare zoppicando, ridotti al silenzio da un terrore capace di paralizzarne le laringi. Si tuffarono nelle cavità da cui erano usciti. Un istante dopo, con guizzi repentini che non corrispondevano ad alcun tragitto comprensibile, i discoidi luminosi furono di nuovo nel cielo accanto alla spirale, e danzarono impazziti. Poi scomparvero insieme ai giganti che avevano vomitato e alla voluta turbinante che li aveva condotti in quel luogo. Nemmeno delle cavità restò traccia: terreno, erba e piante si ricomposero e riassunsero il precedente profilo. Tornò il silenzio. Il sole continuò a brillare. Eymerich fu colto da un dolore al capo lancinante, tra i peggiori che avesse mai provato. Vide attorno i presenti stringersi le orecchie, forse ronzanti come le sue. Ciò durò un soffio. Lo spasmo svanì come era venuto, senza lasciare strascichi.
Il silenzio che seguì fu breve. Alla sommità della fortezza tutti presero ad applaudire, soldati, lance e baroni, prima con incertezza e poi con sempre maggior vigore. Eymerich sapeva che quell'omaggio era rivolto a lui, ma non ne fu lusingato: non era affatto contento di essere tornato al centro dell'attenzione e reputava sconveniente battere le mani invece di pregare. Salì a testa bassa. Quando passò di fianco a Eleonora, la donna gli sussurrò: «Bravo! Bravo!». Trovò superfluo risponderle. Mancò poco che, sui gradini dell'ingresso principale, Giovanni Chiaromonte lo abbracciasse. Eymerich finse di tergersi il sudore con la mano per sottrarsi all'entusiasmo del feudatario. Questi si voltò verso il fratello. «Manfredi, portando quassù padre Nicolas hai salvato Mussomeli e forse l'intera nostra signoria! Non potevi farmi regalo più gradito!» Chi, durante la battaglia, si era ritirato entro il castello stava riaffacciandosi alla soglia. Le espressioni manifestavano un sollievo che rasentava la felicità. Eymerich temette di trovarsi imprigionato tra corpi sudaticci e sorrisi vacui. Per scongiurare il rischio disse a Giovanni: «Rector, avrei appetito. È possibile mangiare qualcosa?». «Ma certo, padre! Venite con me. La colazione sarà servita immediatamente!» L'interno della roccaforte si conformava all'aspetto esteriore. Pareti scabre, ambienti disadorni, qualche trofeo d'armi per unico abbellimento. La temperatura era molto più bassa di quanto non fosse fuori, e l'umidità molto più elevata. Non esistevano caminetti, forse inutili in quella regione. Eymerich fu fatto sedere, tra mille attenzioni, a capo di un lungo tavolo, coperto da una tovaglia ricamata. Alla sua destra prese posto Giovanni, alla sinistra Manfredi. Familiari e cortigiani si sistemarono senza un ordine preciso. Furono portate subito sulla mensa fette di pane, caraffe di vino bianco, cubetti di formaggio cosparsi di marmellate e ciotoline di datteri. Il chiacchiericcio era amplificato dalle volte a botte, ma si smorzò all'istante quando Giovanni iniziò a parlare. «Magister, in questa stessa sala inviterò tra breve l'intero baronato di Sicilia, nemici inclusi. È tempo di arrivare a determinazioni comuni e a fare scelte sul destino di quest'isola. Grazie a voi, forse non ci dovremo difendere da ordigni luminosi calati dal cosmo e dal carico di fantasmi ancestrali che trasportano: i Lestrigoni, primi abitanti, dopo i giganti, di questo triangolo circondato dal mare». Eymerich, mentre sbocconcellava il pane, tentava di liberare con il pollice il formaggio dalla marmellata di scorze d'arancia che lo ricopriva. «Signor reggente, a quanto ho sentito è la terza volta che i cosiddetti Lestrigoni prendono d'assalto questo castello. Avete mai subito perdite?» «Alcune sì. Soldati che si sono suicidati, ma soprattutto civili».
«"Suicidati", mi dite. Nessuno divorato dai giganti cannibali?» «Nessuno, finora. Chi asserisce il contrario è vittima di dicerie popolari. Le nostre catapulte sanno tenere a bada gli invasori. La balista che ci ha portato Manfredi rafforzerà le difese. Durante le aggressioni è stata una bella soddisfazione vedere le bestie crollare sotto il peso dei nostri proiettili». «Avete rinvenuto cadaveri, dopo la battaglia?» «No, nessuno». Eymerich nettò i polpastrelli in una bacinella d'argento colma d'acqua, con qualche goccia di limone. Il formaggio era ottimo, una volta pulito dai succhi dolciastri, e il pane fragrante. «Sapete cosa dovete fare, rector, se la rocca subirà ancora un'offensiva di quella specie?» Era divertito. «Radunare i vostri e portarli a pranzo o a cena. Tutto vibrerà per un certo tempo, come se si trattasse di un terremoto, ma dopo tornerà la calma». Il primo a protestare fu Manfredi, che aveva fatto piazza pulita della colazione e reclamava altro vinello. «Scusate, magister. Ho riconosciuto le parole che avete pronunciato, sporto sull'abisso. Era una formula di esorcismo. Chi saliva i contrafforti erano creature dell'inferno, e voi siete stato capace di ricacciarle da dove venivano». Eymerich annuì, benevolo e insolitamente cordiale. «Gros-so modo è così, ammiraglio. La letteratura cristiana sui demoni è controversa ma, a parte alcuni testi eretici di Costantinopoli, concorda sul fatto che non c'è diavolo capace di arrecare danno fisico a un umano fatto di carne e di ossa. Può solo ingannarlo. Io ho recitato una prece a caso, diretta all'architetto della messinscena. Occorre un tramite concreto per dare sostanza visiva agli incubi. Ho tentato di colpire l'autore, più che il suo dipinto fantasioso». Giovanni Chiaromonte portò la mano alla sommità della fronte. Cercava i suoi capelli ancora scuri, ma radi. «Devo essere sincero. Non ci ho capito nulla». Chi invece capì fu Eleonora d'Arborea, seduta a metà del tavolo. Batté le mani sottili, strette da guanti di pelle di daino. Non li aveva tolti nemmeno per divorare formaggio e marmellata. «Bravo, magister!» «Non dovete dirmi bravo, per me sono cose scontate e fanno parte del mio mestiere». Eymerich abbandonò il cibo e congiunse i polpastrelli. «Se qualcuno intende colpire l'immaginazione altrui, frugherà nel passato delle vittime. Uno spettro, per esempio, lo evocherà rendendolo concreto tra i familiari trapassati dei presenti. Non è diverso quando si intende suscitare un'allucinazione collettiva. In quel caso si cercherà nella storia, nelle leggende circolanti, nelle favole. Nel passato mitico della Sicilia c'erano giganti e Lestrigoni? Ecco che i Lestrigoni ritornano, identici a come li aveva descritti Omero. Un'aspettativa latente è soddisfatta». Simone dal Pozzo scosse il capo. «Permettetemi di dissentire. Nella storia siciliana non figurano né spirali né dischi luminosi».
Attorno al tavolo vi fu un moto di consenso generale. Ciò che stava dicendo Eymerich causava irritazione. Gli astanti erano trattati da stupide prede di miraggi. «Quelli sono gli strumenti per causare la visione. Non chiedetemi come funzionano, perché non lo so ancora». Manfredi mostrava un nervosismo prossimo alla collera. Lasciò cadere sul tavolo il coltello, che tintinnò. «Padre Eymerich, ci state prendendo in giro. Sul cammino per giungere a Mussomeli abbiamo trovato corpi sbranati. Ieri notte avete combattuto neonati giganti che somigliavano a vermi. Gettavano sangue, stridevano come topi. Tutte allucinazioni? Tutti spettri?» «No, certamente no» rispose l'inquisitore, pacato. «Mi riferivo esclusivamente ai Lestrigoni di poco fa». «E il resto?» «Deve avere spiegazioni di tutt'altra specie. Non so ancora quale, ma la scoprirò». Anche Giovanni Chiaromonte era adombrato. Conscio dei suoi doveri di ospitalità, non lasciò trapelare traccia di irritazione, ma il suo timbro suonò duro oltre le intenzioni. «Magister, vi ho ascoltato con pazienza. Voi sminuite le nostre vittorie: combattevamo contro luci, fantasmi e altre illusioni. Poniamo che sia vero. Secondo voi deve esistere un tramite umano per canalizzare simili incubi. Dove sarebbe?» «Certamente accanto a noi, fin dalla partenza da Palermo. Si chiama Ramón de Tàrrega. O è molto vicino o si camuffa sotto vesti e apparenze altrui». Giovanni spalancò le labbra. «Sarebbe seduto a questo desco?» «Non lo so, reggente. So solo che non può essere distante. È morto, ma assume le fattezze di chi vuole». «E come?» «Non lo so. Non lo so ancora». La colazione si interruppe a quel punto, mentre tutti si guardavano l'un l'altro furtivamente. Nella sala era calato un clima di sospetto sgradevole e insostenibile. Eymerich adesso veniva visto con odio, quale fosse il responsabile della situazione. E un po' lo era. Manfredi si alzò, aiutato da un servo. Invitò l'inquisitore a imitarlo. «Venite, padre. Vi mostro il vostro alloggio». «È presto per dormire». «Ma non per depositare le vostre cose, e poi passeggiare come pare a voi». Manfredi scortò Eymerich lungo un corridoio, fino a una stanzetta accessibile attraverso un cunicolo. Ne sovrastava un'altra e la si raggiungeva tramite una scaletta di legno, rasente alla volta. L'inquisitore dovette chinarsi, e ciò gli fece dolorare la schiena, dopo tante ore
trascorse a cavallo. L'ambiente in cui sbucò era soleggiato, grazie a una trifora che dava sullo strapiombo. Lo dominava un letto a baldacchino, dalle coperte viola. Non c'erano arredi, a parte una mensola retta da un'armatura metallica, su cui erano poggiati un candelabro spento e accessori per l'igiene personale: un secchio cilindrico per i bisogni intimi, una brocca d'acqua, una bacinella e uno specchio. Nemmeno ad Avignone si poteva trovare tanto lusso. Cessi fetenti incolonnati scaricavano materiali organici da un piano all'altro, fino alla fossa che accoglieva l'intera cascata. Il palazzo dei papi era famigerato per il suo puzzo. Manfredi sorrise. «A tavola avete parlato di leggende capaci di suggestionare. Sapete com'è chiamata questa camera, dagli abitanti di Mussomeli? "La stanza delle tre donne." E sapete perché?» «No» rispose Eymerich, che già esaminava le coperte del letto in cerca di eventuali infestazioni. «Ditemelo voi». «Io avrei fatto murare qui mia moglie e due figlie. O addirittura tre ipotetiche figlie. Con cibo sufficiente, per salvaguardare al chiuso la loro castità durante la guerra tra Catalani e Latini. Ma la guerra si protrasse e, al mio ritorno, le avrei trovate morte. Avevano esaurito gli alimenti». Manfredi rise a lungo, una mano sulla pancia. «Ecco da dove viene il nome di "stanza delle tre donne". Dicono che sia ancora abitata dai loro spettri! Spero che ciò non vi preoccupi». «Per nulla» rispose Eymerich. Aveva ancora le mani sotto il pagliericcio. «Vi reputo innocente, visto che il castello è ancora in costruzione. Direi da un anno appena». «È così» rispose Manfredi divertito «ma i siciliani hanno la fantasia fertile. Ora vi lascio alla vostra opera di bonifica. Ci vedremo più tardi». Eymerich era piacevolmente sorpreso dalla pulizia della stanza. Trovò solo un ragnetto, rannicchiato nella sua tela. Lo fece cadere con un soffio e lo seppellì sotto un calzare. Gettò la bisaccia sul letto, ma non aveva la minima intenzione di coricarsi, anche perché il dolore alle ossa stava svanendo. Non sapeva cosa fare fino all'ora sesta, ancora lontana. Guardò dalla trifora. Il sole ingialliva il verde della pianura. C'erano tranquillità e silenzio. Carretti puntiformi, molto rari, percorrevano le strade sinuose che conducevano al villaggio. L'inquisitore si domandò se i paesani si fossero accorti dell'assalto dei Lestrigoni alla rocca. Ne dubitava: ci sarebbe stata animazione, e le campane di San Giorgio avrebbero suonato. Invece regnava una calma persino eccessiva. Forse qualcuno aveva visto i dischi nel cielo, o la grande spirale rotante, ma non se ne era allarmato. Spettacolo frequente o pure macchie di giallo nel giallo? Avrebbe dovuto conversare con qualche contadino che parlasse una lingua comprensibile. Non c'era ragione di continuare a rimirare un panorama gradevole ma senza sorprese. Decise quindi di salire il sentiero a gomito che conduceva a una cappella, posta proprio in cima al castello.
Quando si girò per raggiungere la porta, ebbe un sobbalzo. Accanto al bordo del letto erano immobili tre donne. Si trattava di figure confuse, però indubbiamente femminili. Due vestivano panni azzurri, la terza, al centro, era nuda. Del viso si scorgeva poco, a parte i capelli raccolti sul capo, di colore indefinibile. I lineamenti erano appena abbozzati, trasparenti. Gli occhi sembravano smisurati, troppo grandi per un normale essere umano. I contorni dei corpi si sfaldavano e si confondevano con lo sfondo della sala. Il cuore di Eymerich batteva all'impazzata. Trovò appena il fiato per esclamare, con accento di sfida: «Ora basta con i tuoi scherzi, Ramón! Manifestati, affrontami da uomo!». Si udì un gemito proveniente non dalle donne, ma da diverse direzioni. Finì per articolarsi in una specie di sghignazzo, con un'increspatura di sofferenza. Le tre figure allungarono le braccia e un istante dopo svanirono. La camera da letto tornò qual era. Eymerich respirò a fondo e infilò la porta, precipitandosi lungo la scaletta, verso il corridoio. Affannato, recitò tra sé l'inizio di una preghiera appresa da bambino.
24.Sospetti reciproci Eymerich attraversò ancora boccheggiante il cunicolo. Per fortuna nelle sale principali della fortezza non c'era più nessuno. I convitati forse erano scesi a Manfridia a festeggiare, più che una dubbia vittoria, un'evitata sconfitta. Nei cortili stazionavano poche guardie armate, che lo salutarono. L'inquisitore si arrampicò su per il sentiero che conduceva alla cappella. Dovette fare alcune soste. La testa gli girava, aveva male ai piedi. Maledisse l'età e i suoi acciacchi. Tenendosi al parapetto e sollevandosi a forza di braccia riuscì a salire. Si chiese cosa sarebbe accaduto al ritorno a Gerona, città fatta di dislivelli e di ascese repentine. Era un problema remoto, da affrontare a suo tempo. La cappella aveva un elegante portale rivolto a sud, ricco di decorazioni. L'interno, ogivale, aveva per tetto due volte a crociera. Prendeva luce solo da piccole feritoie, per cui l'ambiente era avvolto nella penombra e quasi fresco rispetto all'esterno. Sull'unica panca di fronte all'altare era seduta una dama vestita di nero. Eymerich non ebbe difficoltà a riconoscerla. «Non siete scesa in paese, vedo». Eleonora d'Arborea si girò con brio, per nulla sorpresa e molto sorridente. «Che ci sarei andata a fare, magister? Meglio restare qui con voi. Immaginavo che ci saremmo incontrati».
«Ah, sì?» Eymerich si sedette accanto a lei, all'altra estremità della panca. «Non sospettavo che la mia compagnia potesse risultare gradevole a qualcuno, madonna». «Vi sbagliavate. Devo ammettere che all'inizio vi trovavo eccessivamente spigoloso. Invece, da quando siamo arrivati qui, dimostrate saggezza ed equilibrio in tutto ciò che fate. Stamattina, durante la sarabanda dei Lestrigoni, eravate l'unica persona ragionevole e sicura di se stessa. Gli altri si muovevano come formiche impazzite». «È che non hanno la mia stessa esperienza, madonna. È normale che abbiano paura di ciò che non conoscono». Eleonora inarcò le sopracciglia folte verso il centro della fronte, ridendo con gli occhi. «Questo voglio io: un uomo esperto, che non si lasci sorprendere e cogliere dal panico. Capace di farmi da guida in questa strana avventura». Era un po' troppo. «Badate che io non so nulla di ciò a cui andiamo incontro» protestò Eymerich, rancoroso. «So riconoscere le false minacce, tutto qui». «È già moltissimo. Siete l'unico a saperlo fare». A Eymerich venne un inedito sospetto, a cui non aveva pensato fino a quel momento. Che la damigella fosse interessata a lui come uomo? Certi eccessi di confidenza potevano indurre a pensarlo. Ci rifletté sopra ed escluse l'ipotesi. Era stridente la differenza di età e di condizione. Concluse che certe pose seduttive, se non connaturate, mirassero ad altro. Per esempio a strappargli informazioni su ciò che sapeva... in effetti poco, a parte un'unica intuizione, per quanto significativa. Eymerich preferì cambiare argomento, ma solo in parte. «Madonna, vi sono grato della vostra amicizia, tuttavia mi vedo costretto a esprimervi qualche perplessità. Ancora non mi è ben chiara la ragione per cui vi trovate in Sicilia. Non l'avete ancora esposta in modo compiuto. Avete addotto l'esigenza personale di sottrarvi a un matrimonio, ma l'argomento è restato in sospeso. Prima avete accennato a una minaccia gravante sia qui sia sulla vostra isola, spiegazione che mal si concilia con la prima: se siete in fuga da Oristano, chi vi ha incaricato di compiti tanto delicati?» Eleonora si imbronciò, ma fu una fugace ombra sul suo viso. Spalancò gli occhi. «Facciamo un patto, padre Nicolas. Io vi rivelo la mia verità, e voi mi rivelate la vostra su cosa sta accadendo». «Non faccio patti e non ho verità da rivelare». «Dunque nemmeno io». Eymerich sentì salire un flusso di collera. «Badate bene. La nobiltà del vostro sangue, autentica o no che sia, non vi autorizza a essere reticente con chi rappresenta la Chiesa». La cordialità non era del tutto scomparsa dalle pupille leggermente dilatate di Eleonora, tuttavia un'attenuazione vi fu. «Non siete il mio confessore e non avete autorità su di me o
sul giudicato di mio padre. Qui, poi, sono sotto la protezione dei Chiaromonte, che certo non vi permetterebbero di torcermi un capello. Commerciamo in grano e oro. Ciò, come avete visto, interessa loro più di ogni altro timore metafisico». Frasi del genere erano intollerabili. Eymerich non era abituato a essere trattato in quella maniera. Ebbe l'impulso di schiaffeggiare la donna, ma, prima di potere tradurre in atto la sua intenzione, fu bloccato da una delle sortite sconcertanti di cui Eleonora sembrava esperta. Lei tornò a sorridergli. «Suvvia, magister! Vi avevo appena elogiato per la saggezza ritrovata! Non vorrete abbandonarvi di nuovo al corruccio e agli istinti, spero!» Come se nulla fosse, indicò alle sue spalle la parete che fronteggiava l'altare, sotto una finestra dai bordi sgretolati. «Occupiamoci invece di cose serie. Cosa sono quei rumori che provengono da là sotto?» Nell'entrare Eymerich aveva notato in quell'angolo una scala a chiocciola che scendeva dabbasso e si era immaginato che portasse a un piccolo alloggio del sagrestano. Di suoni non ne aveva sentiti, o ne aveva colti fin troppi: a quell'altezza, i sibili occasionali del vento e gli scricchiolii delle pietre erano inevitabili. Preoccupato, si alzò e raggiunse l'accesso alla scala. Tese le orecchie. In effetti, insieme ai rumori ordinari, si udiva una specie di fischio sottile, graduato. Lo accompagnavano tonfi sommessi e irregolari. «Laggiù non scendo» disse l'inquisitore «non senza luce». Aveva ancora presenti le tre donne dal viso indefinito apparse accanto al suo letto. Aveva superato l'esperienza senza rimanerne segnato, tuttavia non aveva fretta di ripeterla. «Avete ragione a essere prudente» rispose Eleonora. «Ciò nonostante un po' di luce ci dev'essere. Se quella in basso è la stanza riservata al custode, è improbabile che lo tengano nel buio pesto». Eymerich esitò ancora un attimo, si fece il segno della croce e cominciò a scendere. In effetti si intravedeva una luminosità subito dopo i primi gradini. Una feritoia lasciava scorgere parte delle pareti e il suolo sabbioso di una stanzetta cubica, non grande. Sicuramente non era mai stata abitata. Non c'erano arredi di alcun tipo né altri oggetti. Il sibilo ogni tanto risuonava forte, a intermittenza. Impossibile capire da dove provenisse. I tonfi non si udivano più. L'inquisitore si fermò sull'ultimo scalino, per osservare bene l'andito. Non c'era proprio nulla da vedere. Alzò gli occhi al soffitto, completamente spoglio. Notò su un muro uno scarabocchio, come una scritta confusa o un segno convenzionale tracciato da un muratore. Volle vedere di cosa si trattava. Appena ebbe messo piede sulla sabbia, lanciò un grido. Il suolo non offriva resistenza, i suoi calzari affondavano. Nello stesso tempo, la rena si animò e una porzione di essa si mise a roteare sempre più velocemente. Il sibilo crebbe di volume e di intensità.
Sembrava che sotto il velo sabbioso una bestia invisibile, a forma di anello, fosse impegnata in un furioso moto circolare. Affiorarono macchie nerastre, che spandevano l'odore nauseabondo del sangue. Smarrito e immerso fino ai polpacci, Eymerich temette di cadere sul mostro sommerso. Provò il terrore più incontrollabile della sua vita, forse gridò. Subito dopo si sentì afferrare per il mantello nero che portava sopra la tonaca e trascinare verso l'alto. Simultaneamente, la sabbia prese a schizzare in tutte le direzioni, insieme alla linfa scura. Un buco largo e irregolare apparve allo scoperto sotto lo scarabocchio. L'anello si svolse e un essere scuro, lungo e liscio, si gettò nella cavità, rapidissimo. Poteva essere un serpente di dimensioni abnormi. L'aspetto era però quello di un'anguilla colossale, tutta intrisa di sangue e di terriccio. Fu la visione di un istante. Con il mostro scomparvero anche i sibili e ogni altro rumore insolito. «Quanto pesate, magister! Aiutatemi un poco!» Confuso e tramortito, Eymerich si rese conto che era Eleonora a sollevarlo per il mantello. Sgambettò, liberò i piedi e finalmente riuscì a poggiare ambedue le piante sulla scala a chiocciola. Si aggrappò al corrimano di pietra, senza fiato. «Quanta paura!» esclamò la donna. «Non ce n'è motivo. Ormai siete in salvo». Invece di ringraziare Eleonora, l'inquisitore, che cominciava a calmarsi, le indirizzò uno sguardo freddo e carico di ostilità. «Paura? Spiegatemi allora perché voi non ne avete, dopo quello che abbiamo visto entrambi. Il serpente non vi ha spaventata? Vi era forse familiare?» «Serpente? Quale serpente?» «Non mi direte di non averlo scorto!» «Non so di cosa parliate» rispose Eleonora d'Arborea, con accento stupito. «Di paura ne ho avuta tanta quando mi sono accorta che stavate sprofondando in quelle... sabbie mobili. Adesso direi che siete al sicuro». Eymerich la fissò a lungo senza parlare. Alzò le spalle. «Voglio credervi. Saliamo. Esplorerò meglio questo cubicolo quando avrò trovato il modo di proteggermi dai suoi rischi». Tornarono nella cappella, ma l'inquisitore non vi sostò. «Qui fuori dovrei trovare un foro abbastanza largo, di un braccio almeno, se non due». Imboccò l'uscita. La vampa di calore che lo investì, dopo il tempo passato nella penombra, lo fece vacillare leggermente. Una breve indagine gli permise di constatare che aveva ragione: alla base della chiesupola si apriva un foro largo, irregolare, da cui ancora grondava sabbia. Questa si confondeva con la renella di un cantiere, zeppo di legni, sassi, mattoni, paletti. Un piccolo labirinto che proseguiva ai livelli più bassi, dove anfratti e cavità apparivano troppo numerosi per consentire un'esplorazione. Eymerich ebbe un sobbalzo, soddisfatto. Cercò Eleonora, che si teneva a distanza. «Avvertite questo lezzo? Intendo lezzo di sangue, umano ma non del tutto».
«Qualcosa sento, sì..». All'inquisitore non erano necessarie ulteriori conferme. Aveva temuto che i sensi lo avessero ingannato perla seconda volta in quella mattinata, invece ora poteva dirsi certo che non era così. «È il sangue della bestia!» esclamò, quasi gioioso. «È passata di qua!» «Chi è passato di qua?» domandò una voce flebile ma acuta. «E perché stagna un simile fetore?» La figura scarna e ingobbita di mastro Avakum comparve sul sentiero che saliva alla cappella. Il precettore, malfermo sulle gambe, si appoggiava a un bastone. Aveva calcato sul cranio, semicalvo sulla fronte, un ampio cappello nero, da cui usciva una lunga zazzera grigia e sporca. Copricapo ridicolo, perché decorato con un nastro rosa che nulla aveva a che fare con la tinta del velluto logoro. «Cosa fate voi quassù?» gli chiese Eymerich, senza cercare di simulare simpatia o cordialità. «Ciò che probabilmente fate voi, magister. Avevo del tempo libero e sono salito a pregare». «Non siete sceso in paese?» «No. A fare che? Del resto, i signori Chiaromonte e il loro seguito stanno già tornando». Avakum cercò di asciugarsi il sudore che gli colava lungo le guance, fino al colletto. «Sono adesso ai piedi della salita. Tra breve saranno alla fortezza». Eymerich aveva sperato che il miasma del sangue nero, in assenza di altre tracce, gli permettesse di ritrovare il serpente. Tuttavia il tanfo emanato dal precettore, che lui cominciava a percepire, scombinava i suoi calcoli. «Tenetevi lontano!» gli gridò.
Fu inutile. Avakum, appoggiato al bastone, seguitava ad arrancare alla sua volta, come se non avesse udito. Eleonora fu rapida a sottrarsi a contatti troppo ravvicinati e salutò con la mano. «Ci vediamo più tardi, padre Nicolas!» Molto agile, considerati i suoi trent'anni e passa e la veste ingombrante che indossava, scese a balzi gli spezzoni di scisto ancora non lavorato che contornavano il cammino principale. Sparì alla vista. Eymerich avrebbe avuto un ulteriore motivo per maledirla, ma in quel momento era distratto da altro. Indicò ad Avakum un tratto di muretto ben distante da quello su cui lui si stava sedendo. «Accomodatevi lì» disse imperioso. «Quasi non respirate più. Riposatevi. Se alzate la voce, potremo udirci perfettamente». Il serbo obbedì e lasciò cadere il bastone ai piedi. Dopo un paio di grossi respiri, il suo viso, ossuto quanto un teschio, si fece raggiante. «Che onore, magister!» La loquela era ancora spezzata e incerta. «Non confidavo che mi concedeste un colloquio tanto presto! Ho fatto bene a venire fin quassù!» «Non occorre che gridiate a questo modo, non sono sordo. Ora ditemi, ma con calma. Perché volevate parlarmi in privato?»
«Per condividere con voi alcune impressioni e ottenere consiglio». «Sono a vostra disposizione» borbottò Eymerich. «Parlate». «Vi ho già detto, magister, che ho assistito, nei mesi scorsi, ai precedenti sbarchi dei Lestrigoni. Potete facilmente figurarvi quale esperienza sconvolgente sia stata, specie per un vecchio come me che...». «Un momento» lo interruppe l'inquisitore. «Perché usa-te la parola "sbarchi"? Da dove vi viene?» Avakum sembrò sorpreso del quesito. «La risposta è evidente, direi. I mostri arrivano trasportati dai dischi luminosi, come se questi fossero imbarcazioni capaci di navigare nel cielo. Arrivano i dischi e subito dopo spuntano i Lestrigoni, giganteschi e furiosi». «Avete visto con i vostri occhi quelle creature scendere da uno dei cerchi di luce?» «No, però la dinamica è sempre la stessa e non lascia dubbi. I dischi calano a sciami e si interrano. Pochi attimi più tardi, dalle cavità che aprono sorgono i mostri. Da dove uscirebbero, se non dai piatti luminescenti?» Eymerich meditò sull'informazione. «Afferro. Continuate». Avakum si tolse il cappello e lo usò per farsi aria. Il sole stava raggiungendo la posizione in cui sedeva. «Certi fenomeni li avete notati anche voi. Gli attacchi praticamente non lasciano traccia, quasi fossero più intimidatori che effettivi. Resta unicamente un violento mal di testa. Chi muore, tra i difensori, spesso soccombe al panico, cade o si ferisce da solo. Ciò che forse ignorate è quello che accade dopo, quando l'aggressione è terminata e, in apparenza, è stata respinta». Eymerich, le mani posate sulle ginocchia, si sporse in avanti e acuì la sua attenzione. «Spiegatevi meglio». Invece di rispondere direttamente, Avakum indicò la cappella alle loro spalle. «Siete già stato lì dentro. Avete avuto modo di scendere in una cameretta scavata al piano inferiore?» «Sì. Perché?» «Avete notato due lettere greche tracciate su una parete?» «Ho visto degli scarabocchi ma non ho potuto leggerli. Voi sì?» «Sì. Sono un omega e un alfa. Caratteri apparsi subito dopo la prima invasione». La voce dei precettore si fece lamentosa. «Non potrei venirvi più vicino? Qui sto cocendo..». «No. Restate dove siete» gli intimò Eymerich. «Che significato avrebbero quelle lettere?» «Non chiedetelo a me. So solo che, al primo manifestarsi dei dischi, uno di essi piombò proprio sulla cappella e affondò nella sua porta d'entrata. Lestrigoni non se ne videro, e anche l'oggetto svanì. Unica traccia del suo passaggio, l'omega e l'alfa che vi ho detto. Oltre a... eccola là!»
Eymerich seguì l'indice di Avakum, però non scorse niente, salvo poche nuvolette su una cima collinare distante. «Ecco che cosa?» chiese, adirato. «La nebbia! La nebbia! Si sta addensando, come le altre volte!» Avakum sembrò di punto in bianco travolto dal terrore. Cercò il bastone e scattò in piedi traballando. Perse il cappello. «Non posso rimanere qua! Gesù, Maria, aiutatemi! Non posso restare qua! Non reggerei una terza volta!» Tremava dalla testa ai piedi. Eymerich si alzò a sua volta, sbigottito e inquieto. «Che vi prende, dunque? Qui è tutto normale». «Ah, sì?» strillò isterico il precettore. «Voi trovate normale la nebbia in Sicilia, alle soglie dell'estate?... E questo puzzo? Questo fetido puzzo di cinabro!» «Di che cosa?» farfugliò Eymerich. «Di cinabro! Di sangue di drago!» Furono le ultime parole percettibili di Avakum, prima che claudicasse via verso il cuore del castello, usando il bastone come una terza gamba più mobile delle altre. L'inquisitore lo avrebbe inseguito se uno spettacolo straordinario non lo avesse rapito. Le nuvolette si erano sfrangiate, scomponendosi in filamenti di bruma. Questi si diffusero per ogni dove, moltiplicandosi e raggomitolandosi in volute cotonose. Nel giro di pochissimo invasero l'intera valle. Rimase sola, esposta al sole, la vetta di Mussomeli. Il resto diventò invisibile. Il bacino di caligine accennava a salire rapido, quasi schiumasse. Lambì i contrafforti del castello, si insinuò nelle sue aperture e nelle caverne scavate dai cantieri. Tutto ciò avveniva in un silenzio sepolcrale. Infine la nebbia ritirò rapida le sue spire, si contrasse, si filamentò di nuovo e tornò a raggrumarsi nelle nuvolette iniziali. Sparirono anche quelle. Eymerich udì di sotto risa e musiche gioiose. Intontito, cercò con gli occhi l'ingresso della fortezza. I Chiaromonte stavano rientrando con il loro seguito di soldati e cortigiani.
25.Le celle sotterranee Eymerich non aveva alcuna voglia di ricongiungersi alla compagnia, e tuttavia doveva. Scese il sentiero a gomito ed entrò nel secondo cortile. Si sentiva un po' malfermo sulle gambe, ma aveva recuperato visione lucida e prontezza mentale. Si domandò come avrebbe potuto rimettere insieme tante tessere di un mosaico complicato fino all'inverosimile. Ora
non c'erano solo dischi di luce verdognola, giganti, bambini senza arti, donne prive di viso. Agli enigmi si erano sommati il serpente sotto la sabbia, le lettere greche, la nebbia, l'odore di cinabro. Abbastanza per ridurre una mente ordinaria alla follia. Lui, però, non aveva una mente ordinaria. Ce l'avrebbe fatta, come infinite altre volte. O almeno era quello che ripeteva a se stesso, per dominare sconcerto e fatica. Arrivò ai lati della porta d'accesso alla corte proprio mentre faceva il suo ingresso la comitiva, dopo una lunga sosta nella cerchia inferiore. Parevano tutti alticci, qualcuno proprio ubriaco. «Avanti, somaro, avanti!» gridava il baiulo mentre spingeva un asinello con due barilotti appesi al basto. Il piccolo funzionario circondariale era ebbro ai limiti della sincope e oggetto di applausi e derisioni. Alcuni del branco di avvinazzati si divertiva, ogni tanto, ad assestargli un calcio nelle terga. Per tenersi in piedi, Antonio Sellato era obbligato ad aggrapparsi alla coda dell'asino, che ragliava. Ciò divertiva immensamente il codazzo. Eymerich si tenne nell'ombra, ma alla fine, inevitabilmente, fu scoperto. Manfredi Chiaromonte marciò verso di lui. Aveva bevuto come gli altri, ma non sembrava averne risentito in egual misura. Forse perché colava sudore da ogni poro e si sbarazzava dell'alcol in eccesso per quella via. Dava l'impressione di essersi immerso, vestito da capo a piedi, in una vasca. Comunque era ben ritto sulle gambe. «Eccovi qua, magister. Avete fatto male a non scendere a Manfridia a festeggiare con noi. Il vinello bianco scorreva a fiumi. Un bifolco che non voleva aprirci la botte ha ceduto non appena Guglielmo di Romagna ha fatto pendere un cappio dal soffitto. Le sue figlie, grazie alle lance, hanno perduto la verginità. Una battaglia epica è stata seguita dal lecito trionfo». «Battaglia epica?» Eymerich decise di non rivelare i suoi dubbi in proposito. «Certamente. Ammiraglio, permettete che vi ponga due domande?» «Avanti». «Le "tre donne" della stanza che occupo sono state viste molte volte, prima del mio arrivo?» Manfredi scoppiò a ridere, tanto che un filo di bava gli colò dal labbro inferiore. «No, mai. È pura superstizione. Avete visto il baiulo? Guardatelo, è caduto a terra. Rappresenta la gente ignorante che mi tocca governare. Si alimenta di leggende». «Seconda domanda» incalzò Eymerich. «Tale Avakum, serbo, ex maestro di strada, cura l'educazione dei vostri nipoti. Si occupa anche dei vostri figli?» «Sì, quando capita a Palermo». «È persona fidata? Lo conoscete da molto?» «Da anni. È un po' matto e tuttavia dotto. Era mio schiavo, l'ho fatto studiare a Bologna. Delle sue qualità di precettore non posso lamentarmi». L'argomento non sembrava
interessare molto Manfredi che, dopo essersi accertato che nessuno lo potesse ascoltare, aggiunse sottovoce: «Magister, in paese sono stato raggiunto da un messaggero. Sarete presto testimone di un evento eccezionale!». «Un altro?» Eymerich non si rese conto della comicità della sua domanda. «Parlo di un avvenimento che passerà alla storia. Mio fratello ha diramato un invito a tutti i baroni, per un nuovo incontro destinato a stabilire una volta per sempre a quale monarchia giurare fedeltà. Eravamo pessimisti, invece apprendo che tutti hanno accettato. Catalani e Latini. Alcuni fra essi sono già in marcia verso Mussomeli. I Palizzi, i Ventimiglia, gli Alagona, i Rosso... Tempo pochi giorni e saranno qui». Eymerich fece un cenno di consenso. «Bellissima notizia. Ma cosa c'entro io?» «Visto che vi trovate tra noi, ci darete la vostra benedizione. E assisterete ai lavori, quale ospite di riguardo». Era d'obbligo inchinarsi in segno di ringraziamento. Quando rialzò il capo, Eymerich osservò: «La posta in gioco è enorme». «Esatto. Non solo la Sicilia, ma l'intero Mediterraneo. Circostanze fortunate hanno fatto in modo che avessimo con noi persino un'esponente del maggiore casato sardo. È stato forse questo che ha indotto i miei pari a radunarsi qua». Preso da un affiato in cui forse il vinello aveva la sua parte, Manfredi Chiaromonte indicò la piana sconfinata, gialla e verde, che si estendeva oltre le finestre e le feritoie, delimitata da un orizzonte di colline. «Voi che viaggiate molto, avete mai visto una terra così bella e fertile? Così prospera e accogliente?» «No, mai» rispose Eymerich, che subito aggiunse, sommesso: «Peccato per la nebbia». Manfredi sorrise. «Quale nebbia? Qui non esiste proprio. Non sappiamo nemmeno come sia fatta». «Non avete visto scendere la bruma, meno di un'ora fa?» «No, e non l'avete vista neanche voi. In Sicilia la nebbia è completamente sconosciuta». «In effetti scherzavo, ammiraglio». Eymerich sollevò gli angoli delle labbra. «Era solo per sottolineare il buon clima di un'isola perennemente baciata dal sole». La scusa era goffa, però non seppe inventare di meglio. Manfredi lo guardò perplesso, ma un frastuono di grida e di ragli attirò la sua attenzione. Il baiulo era sempre disteso al suolo, a pancia in giù. Un cortigiano si era fatto avanti con uno staffile. Fingeva di frustare l'asino, ma un colpo su tre cadeva sull'uomo a terra, che urlava «ohi! ohi!», cercando di ripararsi la nuca con le mani intrecciate. I presenti erano al culmine del divertimento. Ogni sferzata che giungeva a segno sul corpo di Antonio Sellato era salutata da acclamazioni. L'asino si scuoteva e sanguinava sui fianchi, troppo debole per fuggire.
«Bisogna che vada» disse Manfredi. «Non vorrei che mi ammazzassero quel disgraziato. Entro mezz'ora faccio servire il pranzo». «Non credo che ci sarò, ammiraglio. Stamattina ho mangiato in eccesso. Io sono di costumi parchi». «Allora vi aspetto a cena, padre Nicolas. Riposatevi e passeggiate. Il castello di Mussomeli vi appartiene». Durante il colloquio, Eymerich aveva visto Eleonora d'Arborea uscire a passeggio su un bastione vicino. Gli era sembrato che perdesse un po' di sangue da uno zigomo. Forse una conseguenza dell'avventura che avevano vissuto insieme, in un luogo dove, per i cantieri aperti, era facile procurarsi un graffio. Vide anche Avakum salire una scala che si dipartiva dall'ingresso all'edificio principale e portava alla fiancata occidentale della rocca. Il precettore pazzo gesticolava a vuoto, contraeva le spalle, parlava a se stesso. Non aveva il bastone, e si sarebbe detto che non ne avesse bisogno. Vacillava, però passava di gradino in gradino con relativa agilità. Mentre nel cortile il frastuono si calmava, per l'intervento di Manfredi Chiaromonte, Eymerich tornò a ritrarsi nella penombra di un angolo di muro. Sospirò socchiudendo gli occhi. Finalmente poteva concedersi ciò a cui aspirava di più: la solitudine. Fu una pausa brevissima. Pochi istanti dopo si trovò di fronte il prete spiritato già notato all'arrivo a Mussomeli. Una maschera grottesca: nemmeno un pelo sul cranio, occhi enormi, pupille dilatate, sopracciglia ridotte ai minimi termini. Nessuna traccia di pelo in corrispondenza della barba o delle basette. Mento rientrante. Macchie misteriose sul collo troppo lungo, come se parte dell'epidermide si fosse incartapecorita. Attribuire un sesso preciso a quella creatura era difficilissimo. «Permettetemi di disturbarvi, magister... Sono don Diego Garofalo, il parroco di qui. Desideravo molto parlarvi. Francamente non vi conoscevo nemmeno di nome, ma mi sono informato e reputo un onore incontrarvi». Non troppo infastidito, Eymerich osservò il nuovo venuto con curiosità. Gli occhi erano folli per dimensione e taglio, ma la voce suonava gradevole. Il catalano che parlava rasentava la perfezione. L'inquisitore indicò la cappella che li sovrastava. «Siete il parroco di lassù?» «No. La chiesetta non è ancora consacrata. La mia parrocchia è quella di San Giorgio, a Manfridia. Proprio ai piedi di Mussomeli». «Eravate in paese, al mio arrivo?» «Sì, ma non sapevo chi foste». «Adesso che lo sapete, cosa desiderate da me?» Il prete si accertò che nessuno li udisse. La comitiva dei festaioli stava entrando nell'edificio principale, diretta al pranzo, e il cortile era tornato alla calma. Il baiulo, semisvenuto, veniva rianimato con l'acqua di una brocca, che un domestico, Nissim Ficira, gli versava sul viso a
brevi fiotti. L'asino era scomparso. Tra le mura sostavano solo alcuni mercenari di basso rango, stretti a capannelli a seconda del gruppo linguistico. Giocavano a dadi, conversavano tra loro o si tenevano in piedi annoiati, intenti a tergersi il sudore che colava dagli elmi. Il sole alto batteva con tutto il suo ardore e imbiondiva mattoni, pietre e ciottoli. Don Diego, rassicurato, disse: «Padre Nicolas, qui l'intervento dell'Inquisizione è necessario e urgente. Purtroppo la Chiesa ha tenuto troppo a lungo nella scomunica il nostro clero. È crollata ogni istituzione a garanzia della fede. Il risultato è che quasi ogni giorno si verificano eventi di matrice stregonesca, per non dire satanica». «Eppure un inquisitore generale siciliano esiste». Eymerich avrebbe dovuto mostrarsi severo, ma non riusciva a esserlo. Il bizzarro personaggio con cui stava parlando manifestava ingenuità, certo non malanimo. «Si chiama Simone dal Pozzo. Avete critiche sul suo operato?» Don Diego fremette come se, nel pieno di quella calura, avesse sentito freddo. «Non sia mai! Rispetto padre Simone e il suo modo d'agire. Emana direttive giustamente feroci, belle da leggere. Anche i baroni le apprezzano, dal punto di vista dello stile. Restano però lettera morta. Dal Pozzo è legato ai Chiaromonte, lo confessi o no. Piega facilmente la testa di fronte al casato più potente, e agli altri». «È un'accusa grave. Ne siete davvero persuaso? Non ho alcuna autorità ufficiale in Sicilia. Se ciò che dite fosse comprovato, potrei rivolgermi direttamente al papa». «Oh, non pretendo tanto!» Don Diego sembrò d'improvviso spaventato e spalancò ulteriormente gli occhi. Il suo viso grottesco somigliò ancora di più a quello di un malato di mente. «Padre Simone sa bene cosa accade in questo castello e non ne fa parola con nessuno. Neanche una mezza denuncia. Gli ho mandato ben sei lettere anonime, e sono rimaste senza risposta!» «A chi avrebbe dovuto rispondere, se erano anonime?» Eymerich era ai limiti della pazienza. Don Diego arrossì. Forse capiva che stava facendo la figura dell'idiota. «Intendo una risposta pubblica, una qualche azione concreta. Invece nulla. È la prima volta che padre Simone viene a Mussomeli, e ci viene in compagnia di chi denunciavo!» Eymerich incrociò le braccia, e il gesto, in lui, non era mai di buon augurio. «Facciamola finita. Quale sarebbe il segreto nascosto nella rocca?» «Siete sceso nelle celle?» «No. Sapete bene che sono arrivato solo stamattina. Di che celle parlate?» Il parroco indicò il suolo. «Qui sotto, dopo la sala delle armi, esiste un labirinto di stanze. Alcune ospitano la servitù, altre fungono da magazzini. Le ultime sono vere e proprie prigioni. Non vi stupisce che un castello in fondo non grande ospiti un ampio carcere?» «No, è qualcosa di abbastanza comune in una struttura militare». Eymerich provava ora un tenue interesse. «Voi siete stato nei sotterranei?»
«No. Non mi farebbero mai entrare». «Però sapete chi vi è tenuto prigioniero». «Sì, e sto per stupirvi: nessuno!» Era troppo. Se non fosse stato stanco, Eymerich probabilmente avrebbe preso don Diego a pedate. Invece disse, calcando su ogni parola: «Ora basta, imbecille. Non so se avete deciso di prendermi in giro o di farmi perdere tempo. Quale che fosse la vostra intenzione, adesso sparite. In fretta. Se tardate ancora un minuto, vi assicuro che nelle prigioni finirete voi, e per tutta la vita». Don Diego arretrò di un passo e allargò le braccia come se volesse agitarle e prendere il volo. Era paonazzo. Tremò, spostò il peso da un piede all'altro. La danza di un folle. Dopo quella pantomima si allontanò quasi di corsa ma, prima di sparire, si girò. «Non mi avete capito!» esclamò con voce stridula. «Se non c'è nessuno, a chi danno da mangiare?» «Cosa volete dire?» gli gridò Eymerich, incuriosito dalla domanda. «Tornate indietro! Spiegatevi!» Era inutile. Il parroco zampettava ormai lontano, diretto al cortile inferiore e alla discesa. L'inquisitore si disse che non si era mai imbattuto in una simile congrega di dementi. Prima Avakum e poi il parroco: difficile decidere chi fosse il più squilibrato. Osservò senza attenzione soverchia il baiulo, gettato su un carretto trainato da un asinello e diretto a Manfridia. Era cosciente e si lamentava per le percosse ricevute. Un altro idiota. Eymerich avvertì la mancanza, già acuta, di un interlocutore alla sua altezza. Che fare, ora? Aveva voglia di tornare nella sua stanza, ma l'idea di rivedere le Tre Donne lo frenava. Eppure non poteva fare altro, viste le alternative: rimanere sotto un sole che rosolava o partecipare a un banchetto che gli ispirava disgusto, tra commensali già ubriachi prima ancora di mettersi a tavola. Scendere in paese senza un interprete sarebbe stato tempo perso, a parte la fatica non necessaria. Si disse che, se esisteva al mondo qualcuno che non poteva avere paura dei fantasmi, quello era lui. Per arrivare alla sua camera doveva però rientrare nell'edificio centrale, a rischio di essere intercettato dai gaudenti. Valeva la pena provare. Fu fortunato: erano tutti nella sala da pranzo, da cui proveniva un gran frastuono di stoviglie e di risate. Nei corridoi c'erano solo camerieri, schiavi, servette, quasi tutti dalla pelle bruna. Vide correre due uomini che reggevano un vassoio immenso, che forse scottava. Vi era adagiato un intero agnello scuoiato, immerso in un letto di frutti e verdure. Lo spettacolo gli diede la nausea: come avrebbero, i banchettanti, potuto nutrirsi di una carcassa così grande? Ne avrebbero al massimo addentato dei brandelli e gettato via il resto. Eymerich non aveva simpatie verso i poveri che eccedessero quelle strettamente prescritte dal Vangelo, né detestava i ricchi solo per la loro condizione. Tuttavia ebbe l'impressione, dopo il viaggio tra la miseria che lo aveva portato a Mussomeli, di assistere a un'ingiustizia evidente.
Trovò la propria stanza ancora più in ordine di come l'aveva lasciata, segno che qualche domestico era passato a pulirla. Le coperte erano profumate, il secchio e la brocca contenevano acqua pulita. C'erano un fresco relativo e un grande silenzio. Nessuna traccia di spettri, ma soprattutto nessun segnale che ne sarebbero apparsi. Chiuse la porta con il saliscendi. Calcolò che fosse quasi l'ora nona. Si gettò sul giaciglio, che odorava di mughetto, e si addormentò immediatamente. Fu destato da colpi ripetuti battuti sull'uscio e si alzò svogliatamente per aprire. La stanza era ancora piena di luce solare, con le sfumature rossicce del tardo pomeriggio. Non doveva avere dormito troppo a lungo. Trovò sulla soglia Nissim Ficira, un poco intimidito. «Scusatemi, padre, se arrivo solo ora. Mi avevano avvisato della vostra urgenza di vedermi. Purtroppo sono stato impegnato nello sgombero dei resti del banchetto». «Ma no, non ti cercavo affatto!» esclamò Eymerich, sorpreso. «Chi ti ha detto il contrario?» «Don Diego Garofalo, il parroco di San Giorgio. Secondo lui, desiderate visitare le carceri di questo castello». «Perché? Tu hai accesso alle prigioni?» «Quasi. Le rare volte in cui vengo a Mussomeli con il mio signore, dormo in uno stanzino che sta giusto di fianco». Eymerich ebbe una breve esitazione. «Non desidero che mi vedano». «Non ci vedrà nessuno. Dormono tutti, per smaltire il vino». «D'accordo, allora. Fammi strada». Tornarono all'aperto, presso un arco di comunicazione a ridosso del quale, malgrado i lavori in corso, qualcuno cercava di far fiorire un piccolo giardino. Lì si apriva una scala discretamente larga e comoda, che sprofondava in basso. Una volta che la ebbero scesa, raggiunsero una lunga galleria male illuminata, su cui si affacciavano molte stanze. Alcune erano costruite con pietra e malta, altre scavate direttamente nella roccia viva. Prendevano luce da feritoie e fessure nella volta, ma alcuni cubicoli erano al buio. Ne emanavano molti odori, di vino, di formaggi lasciati a passire, di insaccati coperti di cenere, più un sentore di umidiccio che sovrastava il tutto. «Odo russare» notò Eymerich. «Chi sarà?» «Ve l'ho detto» rispose Nissim. «Qui dormono guardie e domestici. Quanti di loro hanno partecipato alla battaglia e ai festeggiamenti sono storditi dal vino quanto i signori al piano di sopra. Cercano di farsi passare l'ubriacatura con una dormita». Il giovane ebreo indicò l'estremità del passaggio che stavano percorrendo. «L'area del sotterraneo in cui stiamo per entrare è chiamata dal popolino "la camera oscura". È là che ci sono le prigioni. Non è stata costruita da molto, eppure già si favoleggia di terribili fatti di sangue che vi sarebbero avvenuti, come se fosse vecchia di mille anni».
«È sorvegliata?» «Sì, malgrado l'assenza di prigionieri. Comunque conosco bene le sentinelle: ci faranno entrare senza difficoltà». Nissim sorrise. «Non ci sarebbe nemmeno necessità di sorveglianti, secondo me. La fantasia popolare basta a tenere la gente lontana da questo posto. Una delle tante dicerie che circolano in paese narrano che nella "camera oscura" riposi un enorme serpente, così feroce che, quando non ha nulla da azzannare, morde se stesso. Una favola sufficiente a scoraggiare i visitatori».
26.Un'infanzia difficile - 3 Nicolas non patì conseguenze per avere azzoppato con il coltello un giovane aggressore. Lui era solo un bambino, e la sua vittima aveva umili natali. Per di più il ferito, pur non essendo ebreo, abitava proprio a lato della scalinata che saliva alla Juderìa di Gerona. Questo bastava per attribuire al nuovo storpio un rango inferiore e far sì che la giustizia – nella persona del veguer, cui la famiglia del ragazzo ferito si era rivolta – si disinteressasse al caso. Nicolas dovette comunque sopportare i rimbrotti della madre ("Certe cose non si fanno! Stammi lontano!") e di frate Mateu ("Difendersi è giusto, infierire è ingiusto!"). Poca cosa, rispetto al premio. Da quel momento, ogni volta che i ragazzini lo vedevano passare sui camminamenti sovrastanti il chiostro di San Domenico, fuggivano verso il paese. «È il matto! E il matto!» "Meglio matto che buffone" ragionava tra sé Nicolas. Inspirava, finalmente tranquillo, gli effluvi provenienti dai giardini e si godeva il sole alto su Gerona. La narrazione dell'episodio giunse sicuramente alle orecchie di padre Dalmau Moner, ma lui non vi fece caso. Era un'altra la questione che gli premeva. «Tua madre ha dato il suo consenso» disse al bambino. «Potrai assistere all'ultima seduta del processo istruito da Nicolau Rossell. Anche l'inquisitore è d'accordo. Dopo tornerà a Barcellona, e le occasioni per rivederlo non saranno molte». «Chi è il processato?» «Un domenicano che ha venticinque anni più di te. Ramón de Tàrrega. Lo hanno scoperto mentre leggeva libri proibiti. Il processo è di scarso peso, la pena sarà minima. Ti ci accompagno solo per farti capire le procedure». Il giorno seguente, Nicolas e Dalmau prendevano posto sui banchi deserti di una cripta, sotto la chiesa del priorato di San Domenico. Davanti all'altare era stato sistemato un lungo tavolo, dietro il quale sedeva Nicolau Rossell – uomo mingherlino, dai capelli bianchi e dagli occhi grigiazzurri, né cordiali né ostili – in compagnia di due frati. Un poco in disparte stava
un notaio con penna d'oca e fogli di carta di Fabriano, pronto a verbalizzare. Aveva vicino alcuni manoscritti: il più grosso era sicuramente una Bibbia miniata su pergamena; gli altri, sottili, forse rappresentavano il capo d'accusa. L'imputato stava su un singolare sedile triangolare, che doveva essere assai scomodo e, alla lunga, provocare fastidio, se non dolore. Era un personaggio all'incirca dell'età di Dalmau, ma di aspetto più giovanile. I lineamenti erano grifagni, il naso cadeva a becco su labbra sottili, gli occhi scintillavano neri e vivaci. Non manifestava alcun tipo di timore. Vestiva l'abito domenicano, esattamente come l'inquisitore e i frati che aveva di fronte. Nella cripta, a parte l'imputato, i giudici, il notaio e i due spettatori, l'unica altra presenza era quella di un famiglio armato di picca, piuttosto annoiato. Era l'ennesima seduta di un processo che si protraeva da settimane, senza condurre – a quel che Nicolas poteva intuire – da nessuna parte. Rossell quasi sbadigliò mentre diceva: «Procedura vuole che siano ripetute le generalità dell'imputato e il capo d'accusa. Messer notaio, eseguite, ma fatelo in fretta». Nicolas venne così a sapere che il prigioniero era nato a Tàrrega da famiglia giudea – la città ospitava una comunità ebraica tra le più numerose della penisola spagnola –; che aveva trascorso l'adolescenza e la prima età adulta soggiornando in Francia e soprattutto in Inghilterra; che, tra la sua gente, aveva conseguito addirittura il titolo di rabbino, e cioè maestro. Tornato in Catalogna e stabilitosi a Gerona, sede di una judería prestigiosa, si era accostato alla fede vera, tanto da essere ammesso nell'ordine dei Predicatori. Lo aveva servito fedelmente, in apparenza, finché un confratello non si era accorto di ciò che leggeva di nascosto. «Bene» disse Rossell. «Non prevedo altre sedute oltre questa. Ramón de Tàrrega, ho avuto modo di leggere i testi che vi accusano. Sono ebraici e fanno tutti riferimento alla fede ebraica, salvo uno. Già questo solleva dubbi sulla vostra conversione». «Padre» mormorò l'imputato «è evidente che, se non si conoscono i nemici, non li si può combattere. Chi potrebbe svergognare il giudaismo se non qualcuno che ne ha lunga pratica?» «Potrei concordare, ma uno dei manoscritti trovati nella vostra cella ha raffigurazioni demoniache. Notaio, chi ne è l'autore?» «Tale Nicolas Flamel, parigino» rispose il cancelliere. «Si dice educato da maestri ebrei. In particolare un certo Abraham, "principe, sacerdote, levita, astrologo, filosofo"». «Ebbene, nell'illustrazione appare un uomo con il viso di una scimmia. Ha tra le mani un serpente. Cosa potrebbe essere, se non un demonio?» «Con molto rispetto, vi sbagliate» rispose Ramón in atteggiamento rispettoso. «La faccia di scimmia indica che la filosofia scimmiotta, nel senso positivo di imitare, la maestà del creato. Il serpente è simbolo di continuità, di vita oltre la vita. Un rettile, a furia di contorcersi, finisce col mordersi la coda. Mosè forgiò un serpente di ferro, un episodio
ricordato da Gesù Cristo, nel Vangelo di Giovanni. Non è bestemmia, semmai un richiamo ai recessi più antichi della nostra religione». «Avete una risposta per tutto» osservò Rossell, seccato. «In questo Libro delle figure geroglifiche si parla anche di un re di incredibile potere che dovrebbe venire. Destinato a governare la terra, "incoronato e resuscitato". Di chi si tratta? Del Messia degli ebrei? Di Nostro Signore Gesù? Di chi altri?» Ramón abbassò ancora di più il capo. «Vi faccio notare in tutta umiltà, padre, che non sono io Nicolas Flamel. Mi sono limitato a leggere il suo libro, e magari questa è una colpa, di cui mi pento sinceramente. Però non so interpretarne ogni passaggio». «Un'idea ve la sarete fatta. Nessuno leggerebbe un testo assolutamente incomprensibile». Ramón de Tàrrega si mosse a disagio sul suo scomodo sedile. Si raddrizzò un poco. «Io credo che il libro, se non è una pura divagazione fantastica, non tratti né del Messia ebraico, né del Salvatore cristiano. Mescola di continuo la carne ai metalli, i processi spirituali a quelli realizzabili nel trattare le quattro essenze con il fuoco o con i solventi. Parla dell'estrazione di una quinta essenza, impalpabile, a partire da sostanze presenti in natura». «Non mi avete risposto. Chi sarebbe questo re?» «Una sorta di padrone del metallo. Un'entità immateriale quanto il vapore... più del vapore... e capace di dominare le vicende umane dalla dimensione cosmica che lo contiene. Prossima a quella divina, ma non coincidente». Nicolau Rossell scattò in piedi, rischiando di rovesciare la poltrona su cui era assiso. Puntò l'indice ossuto. «Vi rendete conto delle bestemmie che state profferendo, miserabile? Enunciate una dottrina che non sta scritta in nessun testo accettato, né dai cristiani né dagli ebrei! Un re metallico capace di guidare le sorti umane! Come se gli uomini fossero involucri di ferro!» Pur mantenendo una posa umile, Ramón non sembrò intimidito. «Devo ripetervi, padre, che cerco di interpretare il pensiero di Flamel. Non vi sto enunciando il mio!» Uno degli altri giudici toccò la tonaca di Rossell. «Credo che l'imputato stia dicendo il vero, padre. Non espone considerazioni sue, ma dice quello che ha appreso dal libro. E ammette la sua colpa: averlo letto». Ci volle un poco, poi la rabbia dell'inquisitore sbollì. Nicolau Rossell tornò a sedersi e si rivolse a chi gli stava intorno. «Possedere testi contrari alla fede è peccato grave. Quale castigo merita costui?» «Un periodo prolungato di meditazione e di preghiera» rispose uno dei frati. «Una reclusione in convento di almeno un anno» aggiunse l'altro. L'inquisitore generale tacque a lungo, mentre sfogliava il manuale compilato da Bernard Guy, unico prontuario per i processi di quel tipo. Infine disse: «E sia. Non sono del tutto
persuaso, però non ho visto emergere colpe più gravi del possesso di libri proibiti. Aggiungo solo il porto del cilicio durante il mese iniziale di ritiro. In alcuni volumi sequestrati si parla di accoppiamenti peccaminosi tra il presunto re e una supposta regina. Non sono letture opportune per un religioso». «Verbalizzo la sentenza, padre?» chiese il notaio. «Sì. Dopo mi farete leggere». Ramón de Tàrrega si alzò faticosamente. Nel farlo, si girò a metà. Dardeggiò uno sguardo cupo su Nicolas, della durata di un istante. Il bambino ne fu molto turbato. Non ne avrebbe mai fatto parola a nessuno. Dalmau Moner non si era accorto dell'episodio e, quanto a lui, non voleva rendersi ridicolo. Padre Dalmau prese Nicolas per mano e salutò i confratelli. Risalì dalla cripta, attraversò la navata e uscì dal portale su una piazzetta soleggiata. Dagli alberi della collina che fiancheggiava il camminamento romano proveniva, quasi assordante, il cinguettio degli uccelli. Dalmau condusse il bambino sull'orlo della scalinata che scendeva in città. «Sai arrivare a casa da solo?» «Sì, certo». «Avrei preferito farti assistere a una seduta più educativa. Nicolau Rossell è un'ottima persona, tuttavia, quale inquisitore generale, lo trovo debole. Ammesso che sia una colpa veniale leggere libri proibiti, non ha indagato sulla maniera in cui Ramón se li è procurati. Se non li ha scritti personalmente, cosa sempre possibile, deve averli ricevuti da qualcuno». Dalmau sospirò. «Dimentica ciò che hai visto, Nicolas. Un giorno esisterà un'Inquisizione seria, non accecata da un malinteso senso di indulgenza. Gli uomini di ferro di cui parlava l'ebreo convertito dobbiamo essere noi, altrimenti c'è il rischio che lo siano gli altri». Nicolas aveva fretta di correre a casa per scendere nel suo scantinato finché c'era il sole. «Sì, certo». «Vai, piccolo. Intuisco che hai bisogno di solitudine. Ottima premessa a un'età adulta orientata al conflitto».
27.La camera oscura Eymerich non fremette all'idea di ritrovarsi alle prese col serpente. Desiderava anzi scoprire dove si nascondesse. Quanto all'incolumità personale, era quasi certo di non correre rischi.
Il riferimento di Avakum all'odore del cinabro – che al momento non avvertiva – gli aveva dato un'indicazione sulla natura di quell'ennesimo mostro. Dai recessi dell'ultima propaggine dei sotterranei vennero avanti due soldati, peraltro armati solo di daghe appese al fianco e chiaramente privi di intenzioni bellicose. «Eh, Nissim» disse il più grassoccio dei due, nel dialetto locale. «Chi fai cca sutta?» «Aiu un parrinu 'mpurtanti d'accumpagnari a visitari 'a galera». L'ebreo indicò Eymerich. «Un prelato. Avi 'u pirmissu d'i baruna». «Un c'è nenti 'i viriri. Un c'è nuddu carzarato». «Voli dari 'na taliata 'e celle». I due armati parevano contadini del posto a cui avessero messo addosso una maglia d'acciaio. Il giustacuore recava lo stemma dei Chiaromonte, con le cinque colline disposte a ventaglio. Non avevano un aspetto marziale, tutt'altro: barba mal rasata, pelli cotte dal sole. Uno dei due stringeva ancora una caraffa di limonata. Si fecero da parte senza sollevare difficoltà e rivolsero a Eymerich un inchino, che l'inquisitore ricambiò con un cenno amichevole. L'andito era davvero scuro, e solo una torcia e una feritoia sottilissima permettevano di capire dove mettere i piedi. Le celle dalla volta a botte avevano cancellate in ferro ancora lucide lasciate aperte, e vi si scorgevano unicamente ombre. Nessun arredo, nessun giaciglio. Il suolo era stato selciato in minima parte. Il resto era sabbia e sasso. Appariva chiaro che quell'ala doveva essere ancora completata. «Riposerebbe qua il serpente di cui parla il volgo?» chiese Eymerich. Nissim rise. «Sembra di sì. Eppure non ce n'è traccia. Se il castello di Mussomeli ha saputo suscitare tante leggende mentre ancora è in costruzione, chissà cosa ne diranno da qui a cent'anni». Eymerich annusò l'aria, si affacciò in un paio di celle, aprì con il tacco un cumulo di rena umida, scostò alcune pietre. Non c'erano indizi di attività anomale. «È inutile rimanere qui. Andiamocene». Poco prima di raggiungere il posto di guardia, disse all'ebreo: «Chiedi due cose ai tuoi amici soldati. La prima: perché li hanno messi a sorvegliare una prigione non ancora entrata in funzione. La seconda: se hanno mai visto portare quaggiù del cibo, destinato a detenuti che non ci sono. Lo domanderei io stesso, ma non conosco la vostra lingua, che mi riesce incomprensibile». Nissim obbedì. Dopo un fitto conversare tornò da Eymerich e riassunse il suo colloquio. «Non sanno neanche loro perché li si tenga qui a perdere tempo. Quanto al cibo, non ne hanno mai visto. A meno di non considerare tale dei mastelli di latte fresco calati ogni giorno e riportati indietro vuoti. A giudizio dei manovali che se ne incaricano, il latte, mescolato alla sabbia, le dà consistenza più di quanto non faccia l'acqua. L'impasto servirà un domani a dare migliore robustezza al pavimento, quando sarà completato».
«Non ho mai udito parlare di usare il latte nei lavori di muratura». «È probabile che scambino per latte quella che è calce molto liquida». «Già, lo sospetto anch'io. E ritengo possibile che un certo parroco mezzo matto sia caduto nello stesso equivoco». Non era del tutto vero, anche se si trattava della spiegazione più comoda. Eymerich non scordava di avere visto con i propri occhi il grosso serpente e che nella stanzetta annessa alla cappella c'era sabbia esattamente come nelle celle. Che qualcuno nutrisse il mostro con del latte? In un quadro ordinario, il solo pensarlo sarebbe apparso ridicolo. Ma cosa c'era di ordinario in un contesto in cui i prodigi più sinistri si susseguivano al ritmo di fuochi d'artificio? Risaliti all'esterno, Eymerich si fermò alla sommità della scala, presso il giardinetto fiorito e sotto il piedritto dell'arco. «Tu conosci bene i miti della tua gente?» chiese a Nissim. «Intendo quelli giudei. Non parlo dei precetti religiosi principali, quanto delle storie collaterali che l'ortodossia non fa proprie, ma nemmeno condanna». Il giovane rise. «Temo, padre, che persino sulla Torah mi trovereste poco competente. Rispetto la religione dei miei padri, per fedeltà ai miei genitori e al mio popolo. Malgrado questo, sono il meno scrupoloso dei credenti». «Qualche leggenda la conoscerai». «Ne ho udite tante e le ho dimenticate. Salvo una, perché ha avuto un piccolo riflesso nella mia vita». Eymerich si fece attento. «A quale ti riferisci?» «A quella di Lilith, la creatura femminile terrificante che, per invidia verso chi può partorire, rapisce e dissangua i neonati. In effetti pare che, quando ero ancora in fasce, una donna abbia cercato di rapirmi. I miei genitori, superstiziosi com'erano, si convinsero che era stata Lilith in persona. Ecco perché conosco questa favola, per sommi capi». L'inquisitore fu molto turbato dal riferimento. Evocava alla sua mente un'avventura vissuta più di un decennio prima, nel castello spagnolo di Montiel. Mentre Pietro il Crudele ed Enrico di Trastàmara si scontravano per il possesso della Castiglia, a lui si manifestava una Lilith con le fattezze umane dell'ebrea Myriam, e con l'identità alternativa di Leonor. Era quasi riuscito a cancellare dalla mente quel ricordo, e non era stato nemmeno troppo difficile: ignorava se fosse stata un'esperienza reale oppure sogno. Myriam / Leonor / Lilith, le rare volte in cui si riaffacciavano alla memoria, suggerivano sentimenti e sensazioni che a un religioso erano inibiti. Guardò Nissim, giovane, smilzo, con occhi neri, capelli crespi e una traccia di barba. «Non apprezzo la tua empietà, però trovo positiva ogni presa di distanza da una religione che è solo l'embrione di quella vera. Adesso ci dobbiamo separare. Riusciresti a venire da me stasera? Terminata la cena che temo obbligatoria? Vorrei porti altre domande su Lilith e su altri temi».
Nissim si piegò in un agile inchino. «Volentieri, padre. In questa fortezza non è che ci sia molto da fare, specie la sera». «Ti devo avvertire. Io, da buon cristiano, detesto la tua genia e il giudaismo in genere. Non ti invito da amico, ma da nemico. Ho apprezzato il tuo coraggio a Feudo Michinese, ma la mia stima inizia e finisce lì. Nelle azioni. Invece il tuo pensiero, anche se indebolito dallo scetticismo, mi ripugna. Trovo gli ebrei dei ratti che, per l'esecrabile idea della tolleranza, si moltiplicano nel cuore della cristianità. Come topi neonati acquattati in un barile di farina». «Non è la prima volta che me lo sento dire, né sarà l'ultima» rispose Nissim, imperturbabile. «Quando posso venirvi a trovare?» «Diciamo due ore dopo compieta. Lo stupido banchetto dovrebbe essere terminato». «Ci sarò, magi... padre!» Il domestico si allontanò rapido. Eymerich represse la colpevole simpatia che provava nei suoi riguardi. Spostò la propria attenzione sul giardinetto fiorito che qualcuno cercava di far crescere. Incrociò lo sguardo umido, falsamente timido, di Eleonora d'Arborea. La dama doveva essere lì da un pezzo, ma lui non aveva mai guardato nella sua direzione. Si aggirava tra le campanule sfiorandone le corolle, senza strapparle. Apprezzava al tatto lo sviluppo delle piante. «Come vi siete ferita?» chiese Eymerich. La donna aveva sullo zigomo sinistro un taglietto insolito, i cui margini formavano una stella. Il sangue era stato ripulito e si era raggrumato solo al centro della lesione. Il colpo, lieve, doveva essere stato di punta. «Non lo so nemmeno io» rispose Eleonora. «Chissà, qualche scheggia volata in aria. È una cosa da niente». Si staccò dai fiori. «Non vi ho visto per tutto il pomeriggio. Siete andato a dormire?» «No, e voi? Avete partecipato alla crapula dei signori?» Eleonora d'Arborea contrasse il viso in una smorfia sdegnata. «Me ne sono guardata bene. I nobili siciliani trattano i plebei in una maniera ben diversa da quella che usiamo noi in Sardegna. Avete visto il povero baiulo, che pure sarebbe, in teoria, un servitore pubblico? Ubriacato a forza, picchiato, umiliato e lasciato quasi morto». «Ho visto» disse Eymerich. «Non siete intervenuto a difendere il poveretto». «No. Non rientrava nelle mie competenze». L'inquisitore non disse tutta la verità. Chi manifestava debolezza e si mostrava arrendevole non suscitava in lui simpatia. «Ma è inutile che ci esercitiamo in una compassione sterile e tardiva. I baroni siciliani sembrano confondere le funzioni di comando con altrettanti privilegi. Forse è perché, da un secolo almeno, non sono nominati da alcuna autorità superiore e riconosciuta».
Eleonora scosse il capo. «Può valere anche per noi sardi, eppure il nostro comportamento è del tutto diverso... Passando ad altro, avete trovato traccia del serpente che avete visto?» «Come sapete che sono andato a cercarlo?» «Non era difficile intuirlo». Eymerich si domandò se poteva fidarsi. "Ma sì" decise. Avvertiva il bisogno urgente di confidarsi con qualcuno, anche solo per riordinare le idee. C'era, in quello stesso passaggio, una bifora elegante che guardava a sud, con due sedili di pietra ai lati. Oltre la colonnina centrale si scorgeva il sole ormai calante, ma ancora giallo e pieno. La indicò. «Sediamoci là. Finché i cortili resteranno vuoti, potremo conversare indisturbati. Sto per dirvi, madonna, cose che non afferrerete per intero. Rassicuratevi, neanch'io le capisco ancora pienamente». Presero posto. Eymerich, le mani nel grembo della tonaca, esordì con una domanda: «Sapete cos'è l'alchimia?». «Sì» rispose Eleonora «più o meno. È una dottrina segreta con cui dei sapienti tentano, tramite esperimenti, di combinare metalli e sostanze per produrre medicamenti o liquidi carichi di virtù. I più ambiziosi cercano persino di trasformare in oro metalli vili». «La definizione non è sbagliata» disse Eymerich «ma riguarda una parte degli alchimisti. Sono quelli che vengono detti dagli altri, che chiamano se stessi "filosofi", i volgari "soffiatori". Cioè adepti sì dell'alchimia, ma solo nei suoi aspetti superficiali ed esteriori». «Vi sarebbero altri aspetti?» «Secondo i sedicenti "filosofi", sì. Nel fondere, dissolvere, coagulare metalli e materia, l'alchimista opererebbe anche una trasformazione individuale, capace di condurlo a un livello superiore di esistenza. L'oggetto della sua ricerca – l'oro, la "pietra filosofale", la "quinta essenza" – potrebbe esistere o non esistere nel mondo fisico, e tuttavia sussistere in quello spirituale. Coincide con un grado illimitatamente maggiore di consapevolezza e dunque con un'altra maniera di vivere la vita, terrena o non terrena... Riuscite a seguirmi?» «Ci provo» rispose Eleonora. «Per me sono concetti completamente nuovi... Ma in qual modo trafficare con intrugli dovrebbe elevare chi vi si dedica?» «Perché imita l'opera di Dio. L'alchimista cerca di rubare all'Eccelso la facoltà suprema, quella di creare. Il peccato capitale in cui cadono i "filosofi" è dunque quello della superbia. Completamente diversa è la colpa dei "soffiatori". Fallito l'esperimento di trasformare in oro un sasso o un vaso di liquami, finiscono regolarmente per richiedere l'aiuto di Satana o di qualche altra entità infernale. Si macchiano quindi di una diversa forma di peccato, la stregoneria, pari all'eresia perché attribuisce ai demoni poteri semidivini». Eleonora sudava, ma forse era per il caldo, quasi insopportabile in attesa che il sole calasse. «Il vostro confratello che cercate di catturare, Ramón... Ramón..». «Ramón de Tàrrega». «... è dunque un "soffiatore"?»
«Lo credevo, ma ora non più. Penso che appartenga alla genia dei "filosofi". E, all'interno di questa, a una cerchia ancora più ristretta, capace di dare ai simboli forma concreta, o di indurre a crederla tale». «Adesso non vi capisco proprio». Eleonora portò la mano alla fronte, come se avesse mal di testa. «Potete spiegarvi meglio?» Eymerich arricciò le labbra, quasi si divertisse un poco dello smarrimento della donna. «Quasi tutte le visioni che abbiamo avuto finora sono una materializzazione dell'alchimia filosofica. Prendiamo il serpente gigante che io ho visto, e che voi stavate per vedere. Si tratta chiaramente dell'Ouroboros, il rettile che si mangia la coda. Un simbolo centrale dell'alchimia, indicante un flusso di vita ininterrotto. E che odore emanava? Ho creduto di sangue umano o animale, invece era "sangue di drago". Uno dei tanti nomi che gli alchimisti danno al cinabro. Pietra che, appena trattata, emana un lezzo acuto e disgustoso». «Siete sicuro che fosse... l'Ouroboros?» «Sì, perché sotto la cappella era quasi scritto il suo nome, sulla parete. Sembrava uno scarabocchio, ma in realtà erano le lettere greche omega e alfa. La fine e l'inizio che si susseguono. Vita, mors, vita, mors. Processo raffigurato da millenni nel serpente che si morde l'estremità, in una rotazione continua». Eymerich fece una pausa, per vedere l'effetto delle sue parole. «Aggiungo che il serpente è anche detto "drago", e che secondo alcuni autori nel suo corpo scorre cinabro in forma liquida. Che volete di più?» Eleonora aveva cambiato di colorito e sembrava a disagio. Quelle novità dovevano essere astruse, per lei. Domandò, con un filo di voce: «Avete verificato altri riscontri tra ciò che abbiamo visto e le fantasie degli alchimisti?». «Moltissimi, ma devo fare una premessa». Eymerich era contento di poter finalmente rivelare il risultato delle sue induzioni. Avrebbe tuttavia preferito un interlocutore meno sprovveduto, più pronto ad afferrare i suoi ragionamenti. «L'alchimia ha prosperato sotto diverse civiltà. Ce n'è una orientale, una egizia, una ellenistica, una ebraica, una araba, una che si pretende cristiana, e tante altre ancora. Inizialmente ho associato Ramón alla magia nera delle comunità civilizzate dal cristianesimo, senza tenere conto del suo sangue giudaico». «Ciò cambia qualcosa?» «Oh, sì. Cambia tutto. Basti pensare che... Madonna, cosa vi succede?» Eleonora aveva portato le mani al viso. La cicatrice aveva ripreso a sanguinare copiosamente, la carnagione era impallidita. Gemette di dolore. Si sollevò dal sedile, vacillò. «Scusate, magister, ora devo andare. Non sto bene. Ci vedremo più tardi». Eymerich si alzò a sua volta. «Madonna, posso aiutarvi?» «No, no!» L'inquisitore vide Eleonora d'Arborea fuggire verso il nucleo centrale del castello.
Diceva qualcosa, però in sardo. Da alcune similitudini con il catalano pareva che esclamasse: «Lasciami andare, maledetto! Non sono tua!». Eymerich seguì con lo sguardo quella fuga, sconcertato. Nessuno dei pochi indizi di cui disponeva fino a quel momento permetteva di darle un senso. Rimase isolato in un cortile su cui il sole che tramontava proiettava le prime ombre. Aveva di fianco le scale che portavano ai sotterranei e alle celle. Scelse di visitare di nuovo la "camera oscura", prima che facesse buio del tutto. Non c'era con lui Nissim, ma che importava? Le guardie ormai lo conoscevano. Aveva il piede sui primi gradini quando dalle scale, con una torcia in mano, salì Simone dal Pozzo. Eymerich si arrestò. Gli domandò, brusco: «Cosa facevate nei sotterranei?». «È strano che me lo chiediate» rispose padre Simone. «Io laggiù ci dormo». La voce prese un'inflessione lamentosa. «Mi hanno alloggiato in uno stambugio umido, tra servi e soldataglia. Un luogo sporchissimo e buio, indegno del mio abito sacerdotale e delle mie funzioni. Ci sono persino delle donne che ridono tra loro e orinano senza ritegno nel corridoio». «Avete notato un odore insolito?» «Sì, di vino. Non so se è insolito. Certo non laggiù». «Animali bizzarri?» «Una quantità di pulci e degli scarafaggi. Da quando è calata la penombra, escono da mille buchi». La notizia indusse Eymerich a rinunciare a tornare nello scantinato. Risalì la scala, seguito dal confratello. Questi, quando vide che c'era ancora un po' di luce, agitò la torcia nell'aria fino a spegnerla. «Insomma, cosa avete fatto nel corso del pomeriggio?» gli chiese Eymerich. «Ho dormito. O almeno ho tentato, a dispetto di chiasso, insetti, risate e cattivi odori. Figuratevi che per letto ho solo dei sacchi pieni di paglia». «E adesso dove state andando?» «Credo che sia quasi ora di cena. Deve essere il vespero». «Insomma, appena smaltita una gozzoviglia passate a un'altra». Simone dal Pozzo gettò nel cortile la torcia spenta e allargò le braccia. «Quando si è ospiti di baroni bisogna adeguarsi, per non offenderli. Anzi, magister, visto che siederete in mezzo ai Chiaromonte, vi chiederei un favore. Pregateli di fornirmi un alloggio più acconcio e più pulito. Non posso passare una notte intera in quel buco, con il piscio dei domestici che mi entra da sotto la porta». «Io non vengo».
«Non venite?» chiese padre Simone, come se avesse udito un'assurdità. «No, ho di meglio da fare, e poi per oggi ho mangiato abbastanza». Il viso affilato di Eymerich si fece sardonico. «D'altra parte, l'amico dei baroni siete voi. Chiedetelo voi stesso: non mancheranno di accontentarvi».
28.Le tre donne Eymerich non aveva un briciolo di appetito, e nemmeno di sonno. Si sentiva stanco, questo sì, ma stava diventando una condizione normale, che non gli impediva di agire. Rientrò nel cuore della fortezza con Simone dal Pozzo, senza rivolgergli la parola. Strappò un candeliere di mano a un servitore, che lo stava portando in sala da pranzo. Questa già tintinnava, al solito, di posate, cristalli e stoviglie. Quando il domestico fece per protestare, lo prevenne: «Di là c'è luce abbastanza. Le candele servono a me. Tu puoi procurartene altre, io no». Soggiunse, con malizia: «Se hai reclami da fare, rivolgiti a Manfredi e Giovanni Chiaromonte». Il servo filò via. Eymerich guardò frate Simone. «Qui le nostre strade si separano. A voi un'altra orgia, a me qualche ora di raccoglimento». Gli occhi del confratello, umidicci, lasciarono trasparire un rammarico sincero. «Magister, avverto bene che mi disprezzate. Ciò mi addolora. Il fatto è che non vivete su quest'isola, regno del compromesso inevitabile. I forti sono troppo forti, e i deboli troppo deboli». «In una situazione del genere, chi è forte per davvero dovrebbe starsene per conto suo». Eymerich non chiarì il proprio pensiero e camminò fino a raggiungere la scaletta che saliva alla sua stanza. A metà altezza, si disse che ignorava chi alloggiasse nella camera inferiore, da cui non aveva udito provenire alcun suono, per tutto il tempo in cui lui era rimasto di sopra. Che fosse disabitata? Scese ed esplorò la porta di ingresso, più bassa della sua statura. Era una tavola di legno compatta, mal piallata, come ricavata da un vecchio albero dal grande tronco. Tanti usci erano simili, in quel castello incompiuto, ma quasi sempre si trattava di assi piene di spiragli. Invece in quel caso non c'erano fessure; anzi, gli angoli della porta erano stati rinforzati con lamine di metallo, come per irrobustirla e sigillarla. Avvicinò il candeliere alla serratura. Appariva grossa e complicata; troppo per permettere di spiare all'interno. Non c'era chiave, ovviamente. Eymerich saggiò la maniglia che, come aveva previsto, non fece scattare l'apertura.
Non gli rimaneva che ritirarsi nella propria stanza. L'inquisitore provò una leggera emozione all'idea che gli riapparissero di fronte le tre donne senza viso. A quel punto lo stato dell'indagine gli sembrava a un punto morto, e urgevano sviluppi che conducessero a una soluzione. Anche tre fantasmi potevano andare. Quante creature assurde o mostruose aveva visto in vita sua? Tre donne che gemevano, semitrasparenti, non erano di sicuro il peggio. Il suo alloggio era tranquillo e accogliente. Esaminò nuovamente il giaciglio in cerca di parassiti, chiuse un battente che copriva la bifora e, con il primo candelabro, accese il secondo, quello posato sulla mensola. Dalla bisaccia trasse il Liber Aneguemis. Ormai lo conosceva quasi a memoria. Seduto sull'orlo del letto, cominciò a rileggerne alcuni passaggi fra i più enigmatici. Il cigolio della scaletta lo avvisò che l'ospite che attendeva era arrivato. Gettò il manoscritto sulla coperta viola e si mise sull'entrata, Nissim Ficira sembrava molto incuriosito. Non doveva essere mai entrato in quella stanza, ma forse ne conosceva la prematura leggenda. «Scusate se ho tardato, signore. In basso mi hanno costretto a servire alcune portate. Per fortuna, baroni e ospiti sono ancora mezzo ubriachi, e nessuno di loro ha appetito. Mi sono liberato appena ho potuto». Eymerich indicò il baldacchino. «Qui non ci sono sedie. Dovremo accomodarci sul bordo del giaciglio». «Posso rimanere anche in piedi, signore». «Detesto guardare qualcuno dal basso in alto. Non fare storie e mettiti seduto». Il giovane ebreo ubbidì. Eymerich ne fissò gli occhi scuri, un po' intimiditi, ma franchi. «Mi hai detto, Nissim, che nonostante la tua origine giudaica conosci poco delle tradizioni della tua gente. Vale anche per testi come lo Zohar o altri trattati mistici?» «Lo Zohar? Cos'è? Quand'ero bambino, mi hanno fatto leggere brani della Torah. È lo stesso libro?» «No. Hai mai sentito nominare la Kabbalah?» «Questo si! Una teoria astrusa, che gioca con i valori numerici dell'alfabeto ebraico. In poche parole, una perdita di tempo». Eymerich fu molto soddisfatto delle risposte. Era palese che Nissim non mentiva né simulava. Gli ispirava fiducia, e il suo istinto si sbagliava di rado. Prima di giungere al dunque, volle scandagliare l'acume del domestico. «Come vedi la situazione della Sicilia?» Nissim spalancò gli occhi, già di per sé grandi. «Davvero voi volete sapere..». «Hai capito la domanda. Rispondi».
«Io sono un comune servitore. Non posso avere opinioni. Se ne avessi, potrei essere passibile di ogni specie di castigo». «Io sono estraneo a questa terra» spiegò Eymerich con pazienza. «Non sono nemmeno abilitato a infliggere punizioni. Ciò che voglio è solo il tuo parere. Da persona che vive qui. Quel che mi dirai resterà tra noi due». Nissim rifletté, poi si espresse con grande cautela. «Temo che il problema stia nel nome "Sicilia". Che esista lo sanno tutti, così come esiste l'Italia. Sono però denominazioni più che altro geografiche. Quando un feudatario locale pensa alla nostra isola, ha in mente una serie di poderi e di masserie, suoi o dei suoi nemici, più che un'unica terra con un unico destino». «Ho già udito altri commenti simili. Possono valere anche per la Sardegna». «Dal poco che so, non credo. I potenti sardi, che si ribellino o no agli aragonesi, puntano all'intera isola. I baroni siciliani si accontentano dei frammenti che possono spolpare». Nissim dovette rendersi conto di essersi spinto troppo oltre, perché rettificò: «Questo è ciò che dicono alcuni. Vi prego, padre, non interrogatemi sulla politica. Non me ne intendo. E poi, come ebreo, vivo in questa società senza influenzarne gli sviluppi». Eymerich aveva notato l'intelligenza delle osservazioni di Nissim e la proprietà con cui si esprimeva in catalano. Non c'era motivo di tormentarlo oltre, per il momento. «Mi hai detto di essere stato rapito ancora neonato, da una donna che forse era Lilith...». «Non era Lilith. I miei genitori la chiamarono così in ossequio alle loro convinzioni». «Ti è rimasto qualche ricordo personale?» «No. Ero troppo piccolo». «Come raccontavano l'episodio tuo padre e tua madre?» Nissim corrugò la fronte, in uno sforzo di memoria. «Dissero che mi aveva portato via una donna alta e diafana, quasi trasparente. Sembrava avere le ali. Loro se ne accorsero subito e cominciarono a inseguirla. Tutto il quartiere iniziò a correrle dietro, il rabbino in testa. La donna mi lasciò cadere e scomparve. Non mi feci male perché ero tutto fasciato». «Prese il volo?» «No, sparì e basta». Nissim, accantonato il disagio, ora appariva seccato. Era evidente che solo il rispetto dovuto a una persona di rango gli impediva di opporsi all'interrogatorio. «Vi ho già detto, padre, che si tratta di pure fantasie, alimentate da letture suggestive. Forse una donna senza figli tentò di strapparmi ai miei, non so. Accade molto spesso. Quel che è pacifico è che non si trattava di Lilith. Lilith non è mai esistita». Eymerich annuì. «Concordo. A volte, tuttavia, anche una fola, se sorretta da una fede cieca, può concretizzarsi in un'allucinazione poco distinguibile dalla realtà». Sospirò, memore di esperienze recenti. «C'è un'ultima cosa che ti chiedo. Fantasma a parte, i tuoi genitori e i testimoni presenti videro altro di singolare? Mi riferisco al quadro, all'ambiente, al contesto».
«Be', la luce. La luce rossa». «Rossa?» «Sì, con sfumature arancioni, accompagnate da nuvole e vortici circolari. Quando la donna è scomparsa, l'atmosfera è ritornata normale. Ha lasciato un terribile mal di testa, poi svanito». «I vortici somigliavano a dischi?» Nissim ebbe uno scatto impaziente. «Cosa volete che ne sappia, signore? Ero un neonato, non ricordo nulla! Non ho mai creduto a una parola di ciò che mi raccontarono in seguito! Ogni volta la storia si arricchiva di nuovi particolari, fino a perdere completamente di senso. Non do retta alle sciocchezze, io». Eymerich si alzò in piedi e incrociò le mani dietro la schiena. Prese a passeggiare avanti e indietro. Sapeva che sul suo letto sedeva l'appartenente a una stirpe che i cristiani tolleravano per loro infinita bontà, e perché testimone e cronachista del periodo anteriore all'avvento del Salvatore. Malgrado tale consapevolezza, trovava il giovane giudeo scettico l'unico interlocutore affidabile incontrato da quando era in Sicilia. Gli parlò in un tono che, rispetto ai modi usuali dell'inquisitore, poteva essere considerato persino amichevole. «Nissim, hai vissuto con me, devo dire con coraggio, un'esperienza difficile da dimenticare. I bambini simili a larve, la masseria in fiamme. Poi hai visto anche tu i dischi verde-giallo nel cielo, i presunti Lestrigoni, la strana battaglia che li ha respinti. Apprezzo il tuo atteggiamento scettico, che di base è anche il mio. È un modo di porsi fondamentalmente sano. Se si esagera, però, si finisce col negare ciò che si ha sotto gli occhi. Come ti spieghi i prodigi di questi giorni?» «Non me li spiego, se non come immagini concrete in apparenza, ma senza sostanza effettiva». «Prodotte da cosa? Da incantesimi, fumigazioni, magie, droghe capaci di stordire folle intere?» «Lo ignoro». Anche Nissim si alzò in piedi. «Magister» - la parola gli sfuggì, ma non la ritirò - «la mia incredulità si limita alle superstizioni antiquate della mia gente. Il mito di Lilith ne è un esempio. Altro non so. Credo in Javeh e penso che, se il mondo fosse davvero sottosopra, le Sue leggi sarebbero state schiacciate da quelle del diavolo. Ciò non può essere e non sarà mai». Eymerich fece uno dei tre o quattro sorrisi sinceri che si era concesso in vita sua. «Concordo totalmente. Ora vai a riposare. Forse ci aspettano giornate anche peggiori. Ti voglio al mio fianco». Nissim mostrò sbalordimento. «Ma io sono...». «So bene cosa sei. Purtroppo, tra i cristiani, non trovo un compagno di viaggio che mi ispiri fiducia. Ora vattene, desidero riposare anch'io».
Nissim mosse verso la porta. Giunto sulla soglia, indicò il pavimento. «Anche da lì esce della luce rossa». Eymerich accorse. In effetti da una piccola fessura tra due mattoni scaturiva un barbaglio rossastro, abbastanza vivido da risultare visibile nonostante la luce delle candele. Nissim fletté le ginocchia e cercò di spiare nella fenditura. Si ritrasse quasi accecato. «Non riesco a vedere nulla. Il bagliore ferisce le pupille. La cosa strana è che qui sotto stanno cantando. Voci femminili». «E cosa cantano?» chiese Eymerich, esterrefatto. «Non capisco bene. Sempre gli stessi versi, direi in latino». L'inquisitore scostò Nissim e si inginocchiò al suo posto, sebbene le gambe gli dolessero. Chiuse gli occhi per non essere abbagliato dalla luce e provò ad ascoltare. Sulle prime non udì nulla. Solo dopo un poco gli arrivò alle orecchie, debolissimo, un canto latino che ben conosceva. Non c'era dubbio: quelle che lo intonavano erano donne. Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis. Il debole coro femminile, che pareva abissalmente distante, non stava cantando tutto il Dies irae. Ripeteva invece, all'infinito, la medesima strofa. Eymerich non ebbe dubbi che il messaggio fosse indirizzato a lui. A dispetto della sua sicurezza, sentì gocce di sudore rigargli la fronte. Per rimettersi dritto dovette aiutarsi con una mano. Una volta in piedi vacillò leggermente. Incrociò le braccia per nasconderne il tremito. «Siete molto pallido, padre» osservò Nissim «e sudate come se aveste la febbre. Che cosa facciamo?» «Niente. È troppo tardi per provare a entrare nella camera di sotto, che è sigillata. Vai a dormire. Domani, se è il caso, stabiliremo un piano di azione». «Ma voi state bene?» «Benissimo». Uscito Nissim, Eymerich si lasciò cadere sul giaciglio. Tolse i calzari e si adagiò completamente vestito. L'emozione di prima era stata cancellata dalla stanchezza. Di paura non restava traccia, del resto non ne aveva mai avuta a un livello sconvolgente. Cosa potevano fare spettri lontani, avvolti in una luce rossa e intenti a salmodiare il Dies irae, a un guerriero di Dio? Il suo corpo si indeboliva, ma la sua tenacia no. Sapeva benissimo che di lì a breve gli avversari si sarebbero manifestati. Li avrebbe attesi, certo della robustezza dell'armatura che indossava. Per questo non aveva ancora spento le candele. Amava e assaporava in anticipo le sfide dirette.
Era sul punto di assopirsi quando ciò che si aspettava avvenne. Avvolte in una luce gialla dai riflessi verdognoli, tre donne apparvero presso la sponda del letto. Quella al centro era nuda, le compagne indossavano veli. Il viso era confuso, il corpo diafano, tanto da permettere di vedere arredi e muri oltre i simulacri. Solo gli occhi, spalancati, ardenti, lacrimosi, avevano autentica vivezza. La luminosità che le tre creature irradiavano non era vermiglia, bensì giallo-verdognola come quella dei dischi nel cielo. Per quanto preparato a quella visita, Eymerich non poté impedire al proprio cuore di accelerare i battiti all'impazzata. Ebbe un prevedibile capogiro, e il sangue si ritirò dalla sua epidermide, lasciandogli una sensazione di freddo. Istintivamente richiamò alla memoria la formula dell'esorcismo. Prima di pronunciarla meccanicamente, a fior di labbra, ebbe uno sprazzo di lucidità. In quelle circostanze non sarebbe servita a nulla. La ricacciò in gola. Gli occhi intensi, sospesi su membra larvali, continuavano a fissarlo. Altrettanto concreto, un rivolo sottilissimo di sangue scorreva subito sotto. Le tre donne non gemevano né cantavano né protendevano le mani. Le loro bocche avevano la parvenza di fessure tremolanti sullo sfondo della parete. Era il momento di agire: Eymerich lo avvertì come una scossa che si stesse propagando lungo i suoi nervi. Si drizzò sul letto, ciò gli costò molta fatica, quasi che una mano invisibile cercasse di tenerlo coricato. Pronunciò le prime parole che gli vennero alle labbra, dubbioso che fossero quelle giuste. Nel farlo, fissò la donna nuda. «Sono lieto di rivederti dopo tanti anni, Myriam... o dovrei dire Lilith?» Articolare non fu facile: Eymerich non aveva una goccia di saliva in tutto il cavo orale. Tuttavia proseguì: «So che stai cercando di proteggermi. Ma da chi o da cosa? Perché non hai evidenza concreta? Un tempo ci riuscivi». Le pupille della donna al centro si dilatarono. Per un attimo, il suo corpo acquistò spessore. Malgrado la nudità, non era molto femminile; anzi, aveva una corporatura decisamente androgina, con seni appena accennati e membra un po' troppo robuste. L'immagine tornò subito ad affievolirsi; un attimo prima, lei riuscì a socchiudere la bocca, con la fatica di chi debba forzare una cucitura. «Sono lontana» gemette. Il baldacchino del letto prese a oscillare furiosamente. I battenti della finestra si spalancarono. Nella stanza entrò un vento impetuoso che rovesciò specchio e brocche. Il Liber Aneguemis volò contro il muro. Le candele si spensero. Nel buio rimasero visibili i tre spettri, grazie alla luce verde-giallognola. Gli occhi delle donne a lato si erano chiusi. Solo quelli di colei che Eymerich aveva chiamato "Myriam" si mantenevano aperti, benché ridotti a una fessura. «Guardami» sussurrò lo spirito. «Capirai». Il vento continuò a spirare e investì i fantasmi, schiacciandoli l'uno contro l'altro. L'impressione fu che i loro corpi immateriali si attorcigliassero e si fondessero. Il bagliore paglierino si fece insopportabile e virò al rosso. In quell'esplosione di colori assurdi, rimasero visibili solo gli occhi sbarrati e lacrimosi della donna nuda e una parvenza del viso.
Le sue membra traslucide diventarono un'unica cosa con le carni immateriali delle compagne. Si unirono in una treccia mostruosa, che prese una propria compattezza graduale. Eymerich si scoprì a contemplare, inorridito, un serpente di straordinarie dimensioni, su cui ondeggiava, inebetita e sofferente, l'ombra del viso di Myriam. Il rettile scivolò snodandosi verso la minuscola fenditura che comunicava con la stanza sottostante. Il suo muso tornò a essere quello triangolare della sua specie. Ne spinse la punta nella crepa, senza allargarla. Fu lui ad assottigliarsi, fino a penetrarvi per intero. Sparì la luce giallo-verde e tornò quella rossa, che velocemente si attenuò. Non c'era più vento, era tornata la quiete. I battenti della finestra cigolarono e si richiusero. Le candele, che dovevano avere mantenuto un barlume di fiamma, si riaccesero. Eymerich raddrizzò brocche e suppellettili cadute a terra, poi raccolse le pagine sparse del Liber Aneguemis. Vide la stretta cavità tra i mattoni del suolo scurirsi e tornare ombra tra le ombre. Si sentiva estenuato, ma niente affatto sconfitto. Si lasciò cadere sul giaciglio. Un pensiero che giudicava peccaminoso lo innervosiva. Per allontanarlo da sé lo espresse ad alta voce. «Myriam è tenuta prigioniera. Ma dove e come? E chi sono le altre due donne?» Come d'abitudine cominciò a pregare. A metà del Pater noster si addormentò. Poco dopo, ormai consumate, si spensero anche le candele.
29.Ricognizione La mattina successiva, Eymerich si sentiva riposato e sereno. Non gli capitava da tempo. Il sonno era stato profondo e rilassante. Lo attribuì al fatto che aveva colto un altro brandello di verità, insufficiente a completare il quadro, eppure tale da suggerire che, tra le forze in gioco nella battaglia soprannaturale in corso, non tutte gli erano ostili. Si mosse senza fretta, soddisfece le esigenze corporali, si lavò con cura. Quando scese la scaletta, guardò appena la stanza sigillata sottostante: era un enigma da risolvere, ma non prioritario. Doveva essere appena passata l'ora prima. La luce che filtrava dalle finestre era cristallina, il sole non ancora alto, l'aria fresca. Entrò nelle cucine e si fece servire nel refettorio – la Sala dei Baroni – pane scuro, cacio, olive e una brocca d'acqua. Non c'era nessuno, a parte i domestici in piedi dall'alba. Mangiò con calma quasi tutto il cibo. Si stava pulendo le dita nella tovaglia quando entrò un altro ospite in cerca di colazione. Era Guglielmo di Romagna. Un personaggio poco gradito, tuttavia Eymerich, di buonumore, lo salutò amabilmente. Fu ricambiato.
Poco dopo il condottiero, impartiti gli ordini in cucina, lo raggiunse al tavolo. «Domani dovrebbero arrivare qui alcuni dei più importanti signori siciliani» annunciò. «Non ho nulla di preciso da fare, nel castello, così ho intenzione di uscire in ricognizione per assicurarmi che la valle, le strade e i rilievi della zona siano sicuri. Vorreste accompagnarmi, padre?» «In cosa vi sarei utile?» domandò Eymerich. L'improvvisa cordialità del capitano lo insospettì. «Conviene che io rimanga qui ad assolvere i miei doveri religiosi». In realtà l'inquisitore aveva in mente di risolvere il mistero della stanza sigillata, di parlare con Eleonora, don Diego e Avakum, di continuare la conversazione con Nissim, di dedicare qualche momento alla lettura. Anche un colloquio con i due Chiaromonte rientrava tra i suoi progetti. Invece non lo interessava cavalcare sotto il sole con mercenari dalle lingue bizzarre, comandati da un uomo che non aveva offerto grandi prove né di perspicacia né di coraggio. Mentre riceveva un vassoio di porcellino arrosto, una pagnotta e una misura di vinello, serviti da due schiave arabe, Guglielmo di Romagna proseguì: «C'è una montagna abbastanza alta non lontana da qui, padre Nicolas. Domina la strada e il fiume Belice e si presta agli agguati. Ciò che è inconsueto è che presso la cima si scorgono i basamenti di antichi edifici circolari e, scavate nella roccia, varie tombe aperte». Eymerich alzò le spalle. «Senza dubbio un'antica necropoli. Chissà quante ce ne sono in Sicilia, con tutte le civiltà transitate da queste parti». «Lo penso anch'io» convenne Guglielmo e aggiunse, riuscendo contro ogni previsione ad attirare l'attenzione dell'inquisitore: «I sepolcri sono però pieni di oggetti. Vasi in ceramica rossa con un serpente raffigurato all'interno, statuette femminili che rappresentano donne abbracciate, forse antiche divinità». L'inquisitore trasalì. « È distante, la montagna di cui parlate?» «No. Ci si arriva in un paio d'ore o poco più». «Mi avete convinto. Vi lascio mangiare con comodo. Quando avrete terminato, mi farò trovare in cortile con il mio cavallo». Eymerich, che non voleva assistere al pasto certamente sguaiato del condottiero, lasciò la sala e scese in cortile. Qualcosa non gli tornava in ciò che gli aveva detto Guglielmo. Dubitava che il soldato si interessasse a reperti funebri e vecchi cocci. Aveva di sicuro evocato quel repertorio a suo esclusivo beneficio. Dunque il militare era al corrente di ciò che ossessionava l'inquisitore, o qualcuno glielo aveva suggerito. Era probabile che l'invito nascondesse una trappola. Eymerich scelse di non evitarla. Ogni ulteriore elemento di conoscenza era per lui prezioso. Uscì nel cortile – in cui iniziavano a transitare gruppi sparuti di servi e di lance che, sbadigliando, finivano di indossare l'armatura – e scese nella corte d'ingresso. Dai bastioni diede un'occhiata alla vista consueta. Il colore giallo non dominava ancora, ma cominciava gradualmente a indorare il paesaggio. Attorno a Mussomeli vi erano diverse
cime. Di una conosceva il nome: monte Raffe. Non pensava di essere diretto là. Un'altra più elevata, attorniata dai corsi d'acqua denominati Fiumicello e Belice, era verosimilmente la meta che Guglielmo di Romagna si prefiggeva di esplorare. Scoscesa, mostrava, tra macchie di bosco, fiancate di roccia. «È una cima antica, quella che state guardando, magister. Ha ospitato civiltà morte da secoli. Restano i loro defunti e nient'altro». Eymerich non si era accorto che Manfredi Chiaromonte era giunto presso di lui, in silenzio. Ciò non lo disturbò. L'obeso signore di Palermo faticava ad allacciarsi il giaccotto. Aveva con sé un unico servitore, che si teneva a distanza. Gli sforzi del barone apparivano comici. Di lì a poco avrebbe subito una tortura peggiore per infilarsi il soprabito, cucito per comprimergli il ventre. Per non parlare degli stivali che avrebbero sostituito le babbucce, leggiadre e ricamate, che per ora indossava. «Buongiorno, ammiraglio, che Dio sia con voi» disse Eymerich. «Come mai in piedi così presto?» «In effetti è insolito. Oggi è domenica. Speravo di assistere a una buona messa nella mia cappella, senza scendere in paese, ma chissà dove si è rintanato don Diego. Voi, mi sembra di capire, state per allontanarvi da qui. Non mi resta nemmeno un prete». «C'è padre Simone dal Pozzo. Non è un sacerdote, ma è abilitato a celebrare». «Intendo un prete fidato». Manfredi, di punto in bianco, trascurò il giaccotto e cambiò argomento. Alzò due dita cariche di anelli sul paesaggio. Si vedevano, fino ai limiti dell'orizzonte, colline, pianure e altopiani. Si scorgevano abitati che forse erano città, tanto grande era la loro estensione. Lontanissimo scintillava il mare. «Vivo in una terra carica di misteri, poiché chi è approdato qui, da ogni parte del mondo, vi ha portato i propri. Verso oriente potete vedere, su un altopiano, il profilo di un borgo molto vasto. È Enna, centro importante e ben difeso. Ha un lago accanto, il lago di Pergusa. Secondo i latini, è lì che Plutone, uscito da una grotta, strappò a Cerere la figlia Proserpina e la portò via con sé, per farne la regina degli inferi. Invece più a meridione, dove la vista non giunge» ‒ Manfredi indicò il corpo del castello alle sue spalle ‒ «c'è un'isoletta in mezzo al mare. Lì vivevano i Sesi, che hanno ancora ricettacoli di pietra disposti a cerchio. Si inebriavano con le fumigazioni e penetravano realtà che oggi non possiamo neanche concepire». «In questo, la Sicilia non fa eccezione» borbottò Eymerich. «Non esiste angolo del mondo in cui leggende pagane non si siano accumulate, uno strato sopra l'altro». Manfredi non rilevò l'osservazione e seguitò a indicare un punto impreciso nascosto dalla fortezza. «Verso sudest c'è poi la città di Ragusa. Dicono che subisca ancora aggressioni feroci, ora meno frequenti che in passato, da parte di rettili di dimensioni sovrumane. Simili a lucertole, però più grandi di ogni altra bestia nota all'uomo. Non ci crederei se non avessi visto di persona lo scheletro di uno di quegli animali, lungo quattro o cinque volte la mia
statura. Non venitemi a dire, padre, che la Sicilia non è un'anomalia. Lo state constatando anche voi, ormai da giorni». «Da chi è governata Ragusa?» «Da mio fratello Giovanni. La città fa parte della contea di Modica, e lui ne è il conte. Io, invece, non vi ho autorità. Modica e Palermo sono, per statuto, entità del tutto distinte». Eymerich trovava la conversazione futile e superiore alle sue capacità di sopportazione. Decise di troncarla, a costo di apparire scortese. «Lasciamo perdere le ubbie pagane, ammiraglio. Voi in quale misura le condividete?» Se non avesse avuto di fronte un Chiaromonte, lo avrebbe piantato in asso. «So solo che gli dèi di una religione vinta possono trasformarsi nei demoni di un'altra. E rivelarsi pericolosi». «Non è una risposta». «Credo a ciò che ho sotto gli occhi». Manfredi aveva ancora il giaccotto sbottonato, ma non pareva farvi caso. «La montagna più alta visibile da qui ospita i sacelli dei Sicani, un popolo che abitò Mussumeli subito dopo i Lestrigoni e i giganti. Comincio a pensare che i prodigi recenti siano connessi a qualcosa di molto più antico». L'intuizione di Eymerich fu improvvisa e illuminante. «Siete stato voi a suggerire a Guglielmo di Romagna di trascinarmi lassù?» «Sì, non lo nego. Confido nel vostro intuito perché scopriate la verità e sventiate ogni minaccia. Per esserne capace, dovete conoscere la scena in ogni particolare. I Sicani e i loro culti potrebbero fornirvi indizi validi». Eymerich giunse le braccia e rimase a lungo in silenzio. Infine ammise: «Sì, può essere utile. Tuttavia, ammiraglio, esistono enigmi in questo castello che potreste aiutarmi a chiarire. Sempre che ne abbiate la volontà». «Per esempio?» «Sotto la camera in cui dormo c'è una stanza analoga alla mia, di dimensioni simili. Solo che è sigillata e impenetrabile. Che cosa contiene?» Manfredi apparve perplesso. «Non lo so, devo chiedere a mio fratello... È qua più spesso di me, ultimamente... Ritenete che il locale celi qualcosa di segreto?» «Sono convinto di sì». «Allora ci penso io. Quando tornerete dalla vostra escursione, magister, troverete la stanza accessibile e priva di sigilli. Non c'è nulla che voi non dobbiate sapere. Vi ho trascinato fin qua apposta». Manfredi chiamò il suo servo, che aveva finito per sedersi su un muretto. «Veni cca, scimunitu!» gli gridò. «Che fai, prendi il sole? Aiutami a entrare in questo dannato soprabito!»
Eymerich salutò, raggiunse il cortile d'entrata e di lì le stalle. Trovò il suo cavallo in buone condizioni, vivace e col muso immerso nella biada. Un garzone lo aveva già caricato di selle e finimenti. L'inquisitore montò in groppa senza che l'animale desse segni di ribellione. «Apri i battenti dell'ingresso!» gridò al palafreniere. Il giovane intuì il comando ed eseguì. Circa un'ora dopo Eymerich, che cavalcava al fianco di Guglielmo di Romagna, attraversò Manfridia e imboccò la via delle campagne, con dieci lance al seguito. Erano come sempre di origini differenti: uomini barbuti, truci e silenziosi, reduci da una quantità di guerricciole. Alcuni avevano partecipato alla difesa dall'ultimo attacco dei Lestrigoni, ma l'esperienza non sembrava averli segnati per nulla. Più che guardare il sentiero, rimiravano ogni tanto il cielo. Eymerich fece lo stesso, poi si accostò a Guglielmo. «Sapete cosa siano quelle strisce bianche? Le avete mai viste prima?» Il capitano alzò a sua volta il viso. «Sì, le ho viste. Non so dove né quando. Hanno un aspetto innocuo». Contemplavano alcune scie lunghissime di forma arcuata, bianche come il latte, che attraversavano l'azzurro e sembravano forare le rade nuvolette. Si dovevano essere formate da poco. Tendevano a sfrangiarsi e le meno recenti avevano già perduto i margini. Si confondevano con lo sfondo, in cui si affermava il giallo del sole crescente. Sebbene non si udissero campane, le condizioni di luce e l'attenuarsi della frescura facevano capire che si era all'ora terza, o giù di lì. Eymerich ignorò gli arcobaleni glauchi che lo sovrastavano e chiese a Guglielmo: «Se ho ben capito, temete agguati. Come mai?». «Avete visto che fine ha fatto una mia pattuglia. Non mi intendo di spiegazioni irrazionali, magiche o religiose. Quello che so è che non voglio più vedere soldati al mio comando con gambe e braccia maciullate». «Temete che ci sia questo rischio?» Guglielmo sollevò la visiera dell'elmo, che tendeva a ricadergli sugli occhi. Indossava mezzi di protezione d'accatto, di origini disparate. La cotta era arrugginita in più punti, così come le ginocchiere. Il corpetto d'acciaio, appeso alla sella, appariva stretto e mal forgiato. Eppure era più elegante degli uomini che comandava, su cui gli stracci facevano capolino da lembi ineguali di corazza o di maglia di ferro. Non si trattava di povertà. Quei mercenari, raccattati a caso in giro per l'Europa, erano attrezzati per guerre brevi e indisciplinate, in cui la vittoria coincideva con l'assassinio e il bottino aveva più rilevanza che la strategia. Pezzenti diventati predatori. «Il rischio c'è» disse Guglielmo di Romagna. «Tra i nobili convocati a Mussomeli, non mancano i nemici giurati dei Chiaromonte. Gli Alagona, per fare un esempio, ma non sono gli unici. Anche gente che appartiene allo stesso partito dei Latini teme il potere di una famiglia che comanda da Palermo alla costa meridionale. Troppo ricca e troppo forte. Non potendo sconfiggerla in campo, può ricorrere all'imboscata e al delitto».
«Di sicuro avete avuto scontri diretti». «Nel passato. Adesso prevale la forma del torneo. Ci si incontra in un villaggio e si finge di litigare. Per dirimere la questione si organizza una sfida senza spargimento di sangue. I borghigiani sono costretti a contribuire all'allestimento dello spettacolo. In realtà, le due frazioni sono d'accordo. Quella vincitrice avrebbe in teoria diritto ad annettere le quattro case al feudo del proprio signore. Non ci pensa nemmeno. Spartiti i soldi e un po' di vino e olio, ci si separa in vista di un qualche appuntamento futuro». Eymerich inarcò un sopracciglio. «Capitano, mi figuro che, malgrado la giovane età, abbiate avuto un passato di gloria». «La città da cui provengo, Cesena, è culla di guerrieri» rispose Guglielmo con orgoglio. «Cosa vi ha indotto a vivere come esattore, oppure... perdonatemi l'espressione un po' forte... come bandito di strada?» Il condottiero non si mostrò offeso. «Padre, i cavalieri erranti sono scomparsi da due secoli almeno. Le grandi guerre si combattono nell'Europa settentrionale. Qui in Sicilia mancano re o signori capaci di organizzare un'armata, di disegnare ampi progetti, di ricompensare chi li serve con titoli nobiliari di qualche valore. Ai baroni le bastonature fanno più comodo dei colpi di spada. Divisi fra loro, hanno un nemico comune: il creditore. Cioè quasi tutta la povera gente, vista come una specie di umanità a sé stante». «E voi vi siete adeguato...». «Cos'altro avrei potuto fare? Devo pur nutrire i pezzenti» indicò le lance «che hanno deciso di seguirmi. Spero solo che prima o poi scoppi una guerra vera, di quelle che danno ricchezza, fama e soddisfazione. Sono fiducioso. Le luci nel cielo, i giganti, i mostriciattoli sono già un buon nemico. Comincio a sperare che un giorno si parlerà di me per qualcosa di più importante dell'impiccagione di oscuri baiuli insolventi». Eymerich non replicò, anche perché il suo cavallo cominciava a faticare e aveva bisogno di incitamenti e di colpi di sprone. Erano ormai alle pendici della montagna che dovevano salire. La via rimaneva abbastanza larga, e tuttavia si faceva gradualmente più ripida. Serpeggiava attorno alla base della cima, tra boschetti stenti, arbusti e distese d'erba che, dal colore, somigliava a paglia. Il fiume Belice non fu difficile da guadare. Le acque non erano profonde in quella stagione già calda e, facendo attenzione ai sassi grossi e tondi, su cui una cavalcatura rischiava di azzopparsi, lo si attraversava senza troppi problemi. La piccola armata fu presto sull'altra riva, da cui prendeva inizio la salita meno agevole. Le strisce bianche in cielo si erano dissolte quasi per intero, lasciando macchie fuse con l'azzurro predominante, dalle sfumature paglierine. Via via che salirono, nel paesaggio fu predominante il verde di macchie ancora folte, di alberi e di minuscoli praticelli fioriti, poi tornò la secchezza di pendici troppo esposte ai raggi solari.
Il sentiero terminò bruscamente. «Dobbiamo proseguire a piedi» ordinò Guglielmo di Romagna. «Legate i cavalli ai tronchi e agli arbusti. Il luogo da raggiungere è proprio sopra le nostre teste». Ripeté il comando in quattro lingue diverse. Eymerich fu contento di sbarazzarsi del suo ronzino, stanco e sempre più irrequieto. Aveva sottovalutato l'impegno dell'ultimo tratto, scosceso e impervio. Pochi anni prima sarebbe stato uno scherzo, per lui. Ora lo salì a testa bassa, ansimando. Giunse alla meta con la schiena curva e la bocca aperta. Le gambe gli tremavano, i piedi reggevano con difficoltà la sua struttura longilinea. Ogni osso gli faceva male. «Campane?» esclamò Guglielmo. «Non ci dovrebbero essere campane, lassù in cima! Non ci dovrebbe abitare nessuno, tranne i morti!» Eymerich aveva udito i rintocchi provenienti dal cuore della roccia. Non aveva alzato subito lo sguardo perché temeva, nella sua attuale condizione di debolezza, un capogiro. Ora lo fece. Non provò vertigini. Ciò che vide, sopra le frasche, era una necropoli, simile a tante che aveva già visitato: mura di sasso ricavate dal picco, coperte da arbusti ingialliti; aperture quadrangolari che davano l'impressione di condurre in profondità abissali; finestrelle cariche di buio. La campana tacque quasi subito, come se si fosse resa conto di avere attirato una piccola orda di importuni. Calò un silenzio rotto dai rumori della natura: foglie scosse da un vento leggero, frinire di insetti, cinguettio di passeri. Tutto normale, fin troppo. «Ora scoveremo il campanaro» disse Guglielmo di Romagna «e, se ha intenzioni ostili, lo appenderemo alla corda dei suoi bronzi». I mercenari scalarono le rocce, aggrappandosi agli arbusti. Sostarono, con la spada sguainata, davanti alle entrate quadrangolari. Eymerich, che era l'ultimo, lanciò un'occhiata dietro di sé, verso il cielo, per vedere se fosse rimasta qualche scia. Non ve n'erano più. In compenso, una formazione a cuneo di quindici dischi luminescenti si stava avvicinando, lungo traiettorie serpentine e zigzaganti.
30.La campana nella tomba Gli ingressi rettangolari ai sepolcri, disseminati a gruppi sulla vetta del monte, erano talmente stretti e bassi che un uomo di taglia appena un po' più robusta della norma non poteva entrarvi. Salirvi, poi, richiedeva sforzi di equilibrio e scarsa propensione alle vertigini. Eymerich, di queste ultime, aveva sofferto anche quando era interamente padrone di ogni suo muscolo. Tuttavia non si tirò indietro: guardare in quei pertugi era troppo importante. Non lo preoccupava molto l'eventualità di una caduta, sicuramente fatale. Di qualcosa bisognava pur morire, in fondo.
Fece attenzione a non guardare in basso e a sfruttare, con la punta dei calzari, ogni fessura nello scisto. Quando trovava qualche sporgenza solida su cui poggiare i talloni, si inerpicava a furia di braccia. Non lo consolava, ma per Guglielmo di Romagna e per i tre uomini che lo seguivano la salita era più faticosa. Li appesantiva la ferraglia che portavano addosso e le lunghe spade appese alla vita. Fu un miracolo che riuscissero ad approdare incolumi alla base del sepolcro più vicino. Si appoggiarono alla roccia tentando di recuperare il fiato. Solo allora, con regolare. Guardò isolate tracce di effetto dovuto al alterigia.
i piedi ben piantati su un basamento, Eymerich recuperò un respiro in basso. La montagna gli si mostrò gialla e spoglia, con minuscole e verde. La vegetazione sembrava avere cambiato colore, ma forse era sole. La valle era sconfinata, e il picco di Mussomeli la dominava con
Con maggiore circospezione, Eymerich levò gli occhi alla volta azzurra, conscio che era l'atto capace di suscitare capogiri. I dischi lucenti erano ancora là, non più ordinati in formazione. Alcuni dondolavano pigramente, altri apparivano e sparivano. Altri ancora pencolavano e si abbandonavano a orbite sinuose, come se volessero saggiare la propria libertà e agilità di manovra. Eymerich distolse lo sguardo da quelle illusioni discoidali e si rivolse a Guglielmo di Romagna, arrivato sullo stesso basamento e ancora malfermo sulle gambe. «Capitano, vi siete portato dietro una torcia?» Il condottiero ci mise oltre un minuto a rispondere, per via dell'affanno. «Uno dei miei uomini ce l'ha. Aspettate che ci raggiunga... Ecco! Gondrand, allumez le torchon!» L'interpellato, dopo avere recuperato le energie, accese una fiaccola, il dorso contro la roccia. La passò a Guglielmo, che la porse a Eymerich. «A voi la prima ricognizione, magister. L'ingresso della tomba più vicina è un po' più largo degli altri. Vi troverete, temo, ammennicoli poco interessanti. Non so se i rintocchi giungessero da lì. Vi darò il cambio per gli altri sepolcri. Attento alla testa: mi hanno detto che il soffitto è curvo e alquanto basso». Eymerich, con la torcia in pugno, entrò di sbieco nella fenditura più prossima. Dovette piegarsi e strisciare contro la roccia. Poi ecco la prima sorpresa: varcato il pertugio, l'accesso si allargava, assumendo dimensioni nella norma. Seconda sorpresa: la stanza non era affatto a botte o "a forno", ma ben squadrata, con il soffitto alto da terra. Le pareti erano dipinte di rosso. In posizione centrale, una lastra di pietra forse, secoli prima, aveva retto una salma. Adesso vi erano posati due grossi vasi di forma ovoidale, uniti per l'imboccatura, e un simulacro. Eymerich cercò un supporto qualsiasi, o magari una crepa, in cui posare la torcia. Non solo scoprì un anello che pareva fatto apposta, ma ebbe la terza sorpresa, la maggiore di tutte: l'ingresso della tomba era dotato di un uscio molto robusto che si apriva verso l'interno. Una
tavola ben piallata e levigata poggiante su cardini lucenti, dunque quasi nuovi, e dotata di una complicata serratura. L'inquisitore si liberò della torcia ed esaminò meglio l'ambiente. Non sembrava affatto antico, a parte il suolo di roccia viva un po' irregolare e il parallelepipedo di pietra al centro. In alto, notò nel soffitto una fessura stretta e lunga, da cui entrava una lama di luce giallognola. Era probabile che quel foro comunicasse con l'esterno. Si avvicinò agli oggetti posati sul piano della lastra. Il simulacro era il più singolare. Raffigurava rozzamente, in terracotta, due donne che si tenevano abbracciate. Uno spezzone e la posa delle braccia facevano pensare che in passato, nell'abbraccio, ve ne fosse compresa una terza. Eymerich provò un brivido ingiustificato, perché ciò che aveva tra le mani aveva una spiegazione razionale. Il simulacro a due teste ricordava le raffigurazioni della Dea Madre tipiche dei Cretesi; e i Cretesi erano passati in Sicilia. Posò la statuetta e si dedicò ai due vasi convergenti per l'imboccatura. Cercò di separarli, ma non vi fu verso: qualche colla tenace li teneva uniti. Erano due recipienti di ceramica dipinti di vermiglio, di forma ovale, piuttosto pesanti. Facendoli ruotare scoprì che su ciascuno era incisa una lettera, e ancora una volta un palpito lo attraversò. Si trattava di lettere dell'alfabeto greco. Omega su un vaso, alfa sull'altro. Pensò che la cosa migliore era spezzare i due otri per vedere cosa contenessero. Non ne ebbe il tempo. Udì un cigolio alle sue spalle, e l'uscio che sbatteva con violenza. Il catenaccio si mosse da solo, per via del colpo: lame e molle scattarono. Una stanga metallica si infisse in profondità in una piccola cavità dello stipite. Eymerich corse alla porta e la scosse senza alcun risultato. Tentò di agire sul chiavistello, ma non ne comprendeva la meccanica. Allora gridò, con una certa angoscia: «Capitan Guglielmo, riuscite a udirmi? La porta si è chiusa da sola! Ce la fate ad aprirla da fuori?». Non ebbe alcuna risposta. Seguitò a gridare: «Capitano, la porta è di semplice legno! Un'ascia o una spada possono sfondarla! Fate presto! Non è difficile tirarmi fuori di qui!». Ancora nessun rumore dall'esterno. Poi, d'un tratto, i rintocchi remoti di una campana. Uno, due... sei in tutto. Come se qualcuno battesse l'ora sesta con tre ore di anticipo. Una chiesa? No, non ce n'erano di così vicine. A Eymerich quei rintocchi sembravano familiari. Non sapeva però a cosa associarli. Si accorse di avere fronte e cranio imperlati di sudore. Cercò di ragionare lucidamente e per farlo sedette sull'orlo dell'antica pietra tombale dei Sicani. Era solo questione di tempo. Non vedendolo uscire, Guglielmo di Romagna avrebbe sfondato la porta e lo avrebbe liberato. Rimase con le mani in grembo, attento a ogni indizio capace di sollecitare i suoi sensi. L'odore che aleggiava era leggermente ripugnante per il suo vago aroma ferroso. Cinabro o sangue fresco? Non avrebbe saputo dirlo. Il rosso predominante faceva pensare ad ambedue le essenze. Proveniva soprattutto dai vasi ovali incollati per l'imboccatura.
Il momento atteso non tardò. Un'ascia tranciò una sezione dell'uscio. Un secondo fendente fece saltare il chiavistello. Entrò un raggio di luce solare. «Ottimo, capitan Guglielmo!» gridò Eymerich, entusiasta. «Continuate! La porta sta per crollare!» Chi gli rispose, però, non fu Guglielmo di Romagna, bensì Manfredi Chiaromonte. «Allontanatevi, padre! Attento alle schegge!» Un attimo dopo, sotto l'ennesimo colpo d'ascia, ciò che rimaneva della porta volò in frantumi. Eymerich si attese di vedere il fianco della montagna e la natura circostante. Niente affatto. Si trovava in un corridoio a lui ben noto: quello che portava alla sua camera da letto. Usciva dal vano sottostante, la stanza sigillata. La scala per salire al piano superiore era a lato. Di fronte aveva Manfredi Chiaromonte e alcuni manovali, armati di picconi e asce. Il feudatario era ilare. «Questa è grossa! Mi adeguo alle vostre istruzioni, sfondo la porta di un vano che ritenete ignoto, e chi ci scopro? Voi! Colato, se così si può dire, dal piano di sopra a quello di sotto. Non pretendo una spiegazione completa, ma qualcosa sì. La dovete agli operai che hanno sudato per liberarvi dal sacello». Eymerich era senza parole. Non comprendeva nulla di ciò che stava accadendo. Confuso, pose la domanda più banale del mondo: «Sapete che ore sono?». «È appena trascorsa l'ora sesta. Mezzogiorno. Non avete udito la campanella?» Dunque i rintocchi uditi erano quelli che, all'interno del castello, scandivano il tempo. Eymerich provò a ricordare quanti ne avesse ascoltati davanti alla necropoli. Impossibile, all'inizio non li percepiva nemmeno. Comunque erano meno di sei. Gli girava e gli doleva la testa, per motivi più interiori che fisici. Ancora un balzo nel tempo e una dislocazione, come sulle coste sarde. Allora, una nube nera aveva preannunciato il prodigio. Stavolta, invece, erano mancati i sintomi premonitori... No, si sbagliava. C'erano stati i dischi multicolori avvistati sopra la montagna. Tutto il mistero era legato a quegli oggetti. Riacquistò sufficiente padronanza di sé da domandare: «Ammiraglio, Guglielmo di Romagna e i suoi uomini sono rientrati?». «Non ancora. Saranno qui tra breve. Le sentinelle li hanno avvistati poco fa, in prossimità di Manfridia». L'inquisitore indicò la stanza da cui era appena uscito. «A cosa serve quell'ambiente?» «A nulla» rispose il feudatario. «Ho chiesto a mio fratello Giovanni. In futuro sarà una nuova camera da letto. Attualmente, priva di arredi, non ha funzione alcuna». «Come mai è sbarrata così bene?»
«Puzzava di cinabro bagnato, sebbene quel tipo di roccia non abbondi in questa zona. Un odore vomitevole». «Solo per quello? Stento a crederlo. Ci sarà un altro motivo». Manfredi si strinse nelle spalle. «Se c'è, lo ignoro. Immagino che fosse per proteggere dai ladri oggetti antichi. Terraglia che potrebbe avere un valore. Prima della costruzione del castello, il picco di Mussomeli ospitava un cimitero dei Sicani, come le altre vette circostanti. È andato tutto distrutto, però qualche reperto si è salvato. Dovreste però chiedere a Giovanni. Le mie sono congetture». Eymerich, più calmo, si girò verso la stanza dalle pareti rosse. Era praticamente certo che dei vasi comunicanti e della statuetta non vi fosse più traccia. Invece i manufatti si trovavano dove li aveva lasciati. Fece un inchino a Manfredi. «Ammiraglio, vi ringrazio per avermi liberato dalla stanza in cui ero rimasto imprigionato. Vi ero entrato per curiosità e sventatamente avevo lasciato che l'uscio si richiudesse. Voi e i vostri manovali potete ritirarvi, la loro opera è compiuta. Io salgo a riposare un poco». «Sarete nostro ospite a pranzo? È tra un'ora circa. La campanella lo annuncerà». «Farò il possibile, ma non ve lo posso assicurare. Mi sento molto stanco. Può darsi che il sonno mi vinca. Ci vedremo sicuramente nel pomeriggio». Manfredi Chiaromonte chinò il capo in segno di benestare. Richiamò gli operai, che si raggrupparono per seguirlo. Prima che si ritirasse, Eymerich gli chiese: «Ammiraglio, potete mandare da me Nissim Ficira? Ho degli ordini per lui». «Il servo ebreo?» Sul faccione gonfio di Manfredi comparvero due fossette, ai lati delle labbra carnose. «Certo che ve lo mando, padre. Trovo divertente questa sinergia tra un giudeo e il più temibile incaricato dell'Inquisizione». Eymerich fece una smorfia. «Divertitevi quanto volete, ammiraglio. Ammetterete questa fatuità in confessione. Vi costerà, in termini di penitenze. Intanto mandatemi il circonciso. E tenete a mente: supporre una complicità tra me e lui è peccato mortale. Come ogni oltraggio alla Chiesa di Roma, può implicare la scomunica». «Non intendevo mancarvi di rispetto, magister» balbettò Manfredi, sorpreso dalla veemenza dell'inquisitore. «Nissim sarà da voi appena lo scovo». Eymerich fece mostra di salire la scala di legno che guidava alla sua camera da letto. Appena Chiaromonte e gli operai si furono allontanati, ridiscese ed entrò nella camera rossa. Prese sottobraccio i vasi ovali, pesantissimi, e afferrò con l'altra mano la statuetta delle donne abbracciate. Rimontare gli scalini gli fu penoso. Ogni tanto era costretto a una sosta per riprendersi dall'affanno. Raggiunta la camera da letto posò il fardello. Dovette afferrarsi alle colonnine del baldacchino per mantenersi in equilibrio. Ancora un capogiro e un nuovo
dolore di testa. Con un volteggio sgraziato atterrò sul pagliericcio. Che scricchiolò. Chiuse gli occhi e attese il sonno. Il suo riposo fu brevissimo. Qualcuno saliva la scala esterna, che gemeva sotto stivali pesanti. Nissim? Di già? Eymerich si mise seduto. Non fece in tempo ad alzarsi che Guglielmo di Romagna apparve sulla soglia. Il suo corpo, non alto ma tozzo, occupava per intero il riquadro della porta. Il nervosismo del condottiero era manifesto. «Ben trovato, padre! Vi ho fatto cercare tomba per tomba, incluse le più pericolose da raggiungere. Nulla, eravate sparito. Ed eccovi qua, che vi godete il vostro letto. Una condizione diversa dalla mia. Bene che mi vada, mi spetta una branda in un sotterraneo che puzza di piscio, a una spanna dalle prigioni». Non era facile replicare. Eymerich ci provò. «Non mi sono allontanato volontariamente dalle grotte, capitano. L'uscio del sepolcro in cui ero entrato si è chiuso, e io aspettavo il vostro soccorso. Dopo di che...». «Uscio? Non ce n'erano. Solo roccia e cavità profonde. Ho esplorato ogni anfratto della necropoli, alla vostra ricerca. Mi immaginavo che ve ne foste andato per qualche tunnel. I sacelli erano vuoti, a parte vasellame e cocci vari. Solo in una grotta ho trovato uno scheletro molto alto e uno piccolo, sopra il medesimo basamento. Un uomo e un bambino». L'inquisitore si fece attentissimo. «C'era traccia delle loro vesti?» «Solo qualche lembo. Tela bianca. I due stavano lì da secoli». Guglielmo assunse di nuovo il tono irritato di prima. «Come ve ne siete andato? Perché non mi avete detto nulla?» «Prodigi» rispose Eymerich con un gesto quasi annoiato. «Incantesimi. Ormai dovreste avervi fatto l'abitudine. Stiamo camminando dietro a Satana, e lui mena il gioco. Lo farà finché non gli taglieremo le grinfie». Sentendo nominare il diavolo, Guglielmo, benché probabilmente miscredente, fece un rapido segno della croce. Un attimo dopo, i suoi occhi tondi e poco espressivi ebbero un riflesso malizioso. «Prodigi, sì, però non sempre. Ero rimasto impressionato dai soldati smembrati incontrati lungo la via per venire qua, poco dopo Palermo, ma avevate ragione voi: la spiegazione non era straordinaria. Ho scoperto la verità tornando al castello, grazie a un ufficiale di stanza a Mussomeli». «Quale sarebbe questa verità?» «Mi dispiace, padre, non sono autorizzato a dirvela. Comprometterebbe i miei signori, specie in vista del raduno di tutti i baroni siciliani». Eymerich si adombrò. «Parlate! Ve lo ordino!» «In nome di cosa?» Il condottiero era ironico. «In nome di Dio!»
«Mi aspettavo una risposta simile, ma non è Lui che mi paga. Io ricevo il soldo dai Chiaromonte. Se l'ordine è tacere, taccio». Detto questo, il mercenario si inchinò e camminò verso la porta. Sulla soglia aggiunse: «Un indizio però lo meritate, padre. Ricordate che Giovanni Chiaromonte è titolare della contea di Modica. L'informazione può esservi di aiuto». Eymerich non disse nulla. Ascoltò i passi del militare che scendevano la scaletta e, con pigrizia, tornò a adagiarsi sul giaciglio. Quel Guglielmo gli era odioso. Ne apprezzava solo la franchezza. Era evidente perché si era stabilito in Sicilia, quando verso Settentrione, nel fuoco di guerre interminabili, avrebbe potuto aspirare a nomea e ricchezze. Come i baroni isolani, ambiva a un bottino rapido, da ottenere con poca fatica. Meglio avere come nemici contadini ignoranti e indifesi, piuttosto che armate in assetto di guerra. L'inquisitore si sentiva stanco e tuttavia non aveva sonno. Rimase desto, il capo appoggiato sull'avambraccio. Avrebbe potuto spezzare gli otri comunicanti, ma per quello c'era tempo. Quanto alla statuetta, abbandonata accanto alla brocca d'acqua e al secchio per le evacuazioni, gli richiamò una reminiscenza sgradevole. Una bambola di terracotta danneggiata sotto i suoi occhi, quando lui era bambino, perché indegna di un maschio. Un ricordo incerto, eppure doloroso. Non aveva mai avuto altri giocattoli, e il sesso del fantoccio gli era indifferente. Si era infranto lo zigomo della bambola, con una piaga a forma di stella. Il resto del corpo era stato scagliato contro il muro. Il solo interlocutore che avesse avuto Eymerich da piccolo aveva rischiato di frantumarsi in schegge. Erano divagazioni non solo confuse, ma distraenti. L'inquisitore le respinse, per quanto occupassero un' angolo della sua mente che lo attraeva. Si concentrò sui quesiti del presente. Inutile, la sua concentrazione era inesistente. Fu liberato da quella catalessi mentale quando udì la scaletta scricchiolare ancora una volta, e Nissim apparire sulla soglia. Eymerich scattò dal letto con un'agilità di cui non si credeva capace. Esaminò l'ebreo, assai quieto, e gli domandò: «Sai cosa mi è successo?». Il giovane chinò il capo in segno di rispetto. «Dicono, padre, che vi siate spostato da una grotta al castello in pochi istanti. Vi si sospetta di negromanzia. Di cavalcare da un luogo all'altro sulle ali di un demonio. C'è chi propone addirittura di bruciarvi vivo, per liberare Mussomeli dalle sue maledizioni, Lestrigoni inclusi». Eymerich rimase esterrefatto. Ogni traccia di saliva lasciò il suo cavo orale. Cercò di deglutire senza riuscirvi. Parlò con la lingua grossa. «Chi diffonde queste calunnie?» «In primo luogo padre Simone dal Pozzo. È l'inquisitore di Sicilia. Quando fa comodo, i baroni gli danno retta». «E la mia carica? Molto superiore a quella di Simone?» «È stata concessa da un re a cui nessuno presta obbedienza. Fuggite, finché siete libero di farlo. Qui vi vogliono mettere in galera, per poi trucidarvi e farlo passare per un suicidio».
31.Lilith - 4 Il dottor Myotis era alto, magro e molto serio in viso. Portava una barba cortissima e i capelli tagliati a spazzola. Accolse Lesurme e Lilith con un'aria seccata che non si curò di celare. «Che cosa volete? Sto lavorando». «Spiegaci che lavoro fai» rispose Lesurme. «Non per me, ma per la signorina arrivata dalla Terra. Era un'infermiera. Resterà con noi. Sa poco o nulla di ciò che combiniamo quassù». Lilith osservava l'ambiente. Sotto l'oblò aperto sull'eterna notte lunare e sulla foresta di tralicci, c'erano quadranti, pannelli irti di levette, pulsantiere. Numerose poltroncine lasciavano intuire che, in passato, il personale era stato più numeroso. L'odore presente nel laboratorio non era dei più gradevoli: combinava sostanze disinfettanti a un tenue, ma persistente, sentore di orina. «Non è difficile descrivere ciò che faccio» disse Myotis. «Concentro le VLF in un raggio, diretto alla ionosfera terrestre. Prima di inviarlo, spedisco laggiù scie chimiche composte essenzialmente di bario. Servono a spianare la strada alle VLF, che tra i frammenti di quel metallo acquistano velocità. Appena le condizioni sono ottimali, sparo il raggio. Nient'altro». «Ciò non avviene tutti i giorni» spiegò Lesurme «ma a intervalli di mesi. Il resto è manutenzione». Myotis confermò. «Sì, in assenza totale di tecnici. Quei pochi che ci restano sono manovali, intenti a estrarre l'acqua dai vulcani con un velo di ghiaccio sul fondo... Spero che almeno questa signorina sia assegnata al mio reparto. Non posso continuare da solo». «Ci penseremo». «Be', pensaci in fretta. Il rischio è che si ripetano gli errori avvenuti durante la guerra, e anche di recente». Tanto per avere il tempo di riflettere sul da farsi, Lilith domandò: «Quali errori?». Myotis guardò Lesurme. Lo scienziato annuì. «Vivrà con noi, forse lavorerà con te. Va messa al corrente». Con un'ombra di ritrosia, Myotis spiegò: «Il problema è che le emissioni elettromagnetiche a bassissima frequenza, le VLF, viaggiano praticamente alla velocità della luce. Ciò fa sì che distorcano il tempo, se la loro regolazione non è accurata, e si disperdano nel passato. È il noto principio relativistico. Questo è avvenuto, durante la guerra, migliaia di volte. Si trattava di suscitare allucinazioni collettive tra i nemici. Il cervello umano è governato da VLF...». «L'ho già spiegato a Lilith» disse Lesurme. «Okay. I raggi perduti devono essere piovuti in chissà quali epoche, dando evidenza di realtà a superstizioni e leggende. Abbiamo irrorato di fantasie allucinate ere remote». Lesurme rise. «Forse sono nati così certi miti del passato».
«C'è poco da ridere». Myotis rimaneva serissimo. «Fughe di VLF nel tempo continuano tuttora. E non per errore di calcolo, ma per carenza di manutenzione». Fece strada agli ospiti fino ai seggiolini vuoti e ai pannelli, sui quali erano visibili tracce di ruggine. «È facile capire lo stato di queste macchine. Non vorrei che si ripetesse la tragedia già accaduta almeno dieci volte». «Quale tragedia?» chiese Lilith. Era alla ricerca di un modo per annientare tutti gli abitanti della base, senza doverli pugnalare a uno a uno. Questo l'avrebbe privata del piacere di vederli soffrire, ma con un bel risparmio di tempo. «Ogni tanto, i raggi VLF proiettati per errore nel passato rimbalzavano indietro e tornavano sulla Luna. Effetto di un angolo di proiezione mal calcolato da strumenti inaffidabili. Con effetti deleteri non solo sulla psiche di alcuni individui... tanti di noi sono impazziti... ma soprattutto sull'archivio degli F-Field». «Cosa sarebbero?» A quel punto intervenne Lesurme. «Infermiera Lilith, direi che per oggi ha saputo anche troppo. Ora la accompagno nella sala dei divertimenti. Potrà trascorrere la serata in attesa di andare a coricarsi. Servono dell'ottimo vino in busta. E anche qualche liquore». «Un'ultima domanda» disse Lilith. Pensava all'esperienza atroce dei Lampi, che l'aveva segnata a fondo. «Come si manifestano le emissioni di VLF, per chi le riceve? Hanno un'apparenza fisica?» Myotis si strinse nelle spalle. «A volte sì e a volte no. Di solito, per quanto ne so, l'irradiazione è preceduta da strie gassose sottili e persistenti. È il bario con cui prepariamo l'ambiente. Subito dopo possono comparire nel cielo, a seconda del clima e della latitudine, luci danzanti, sferiche, ovoidali, discoidali. Più raramente si scatenano fulmini, o le luci si raccolgono in una spirale. La ionosfera è fatta vibrare e reagisce come a un solletico. Le sue reazioni sono imprevedibili. D'altra parte, l'abbiamo conosciuta attraverso un fenomeno tipico: l'aurora boreale». Lilith ripensò alle cadute dei Lampi su Paradice. In effetti spesso erano accompagnate da fenomeni meteorologici sconosciuti. Ma chi vi faceva caso? Ognuno si preparava al dolore terrificante al capo che avrebbe subito. Solo qualche Depresso correva fuori dal suo alveare indicando il cielo, finché uno Schizo non lo intercettava. «Venga, Lilith» intervenne Lesurme. «La sala dei divertimenti la aspetta. Incontrerà molti di noi prima di andare a dormire. A uno a uno, ci conoscerà tutti». Lei lo seguì nel corridoio senza obiezioni. Mentre si dirigevano all'ascensore, domandò: «In cosa consisterebbero questi divertimenti?». «Stasera, per esempio, c'è un concerto di Mozart. Registrato molti secoli fa e ritrasmesso da un televisore a colori. Esistono anche tavoli a cui si gioca a domino e a canasta. Per i bambini, scarsi, ahimè, ci sono grandi palloni colorati».
Lilith finse di allacciarsi una scarpa. In realtà estrasse il coltello. Si mise con Lesurme davanti all'ascensore. Quando la cabina arrivò al piano, afferrò lo scienziato per il collo e gli premette la lama contro la gola. «Cammina avanti, piano. Verso la prima stanza libera». Lui cercò di divincolarsi, ma la sua forza era molto inferiore a quella della donna. Entrarono insieme in una cabina del tutto simile a quella assegnata a Lilith. Lei ne aprì le ante con un calcio. Spinse lo psichiatra fino al bagno. Lo fece curvare sul lavandino. «Sai cosa sono i Lampi, per noi di Paradice?» Era una domanda retorica, e infatti si rispose da sola. «No, non lo sai. Somiglia a questo». Tagliò la gola di Lesurme. Il sangue sgorgò a fiotti, riempiendo il lavandino. Lei attese che i sussulti del corpo che aveva tra le mani terminassero. Fece scorrere l'acqua dal rubinetto – un filo tenue – fino a lavarlo. Usò una spugna rinsecchita. A quel punto lasciò cadere il cadavere. Uscì altro sangue, ma poco. Ripulì il coltello e lo nascose di nuovo sotto la tuta. "Fuori uno" si disse. Davanti allo specchio si ricompose e, con l'aiuto di una spazzola che era un groviglio di capelli altrui, si pettinò. Chiuse la porta del bagno, attraversò la camera da letto e uscì nel corridoio. Tornò con passi furtivi al laboratorio presidiato da Myotis. Non ci fu nemmeno bisogno di una spiegazione. «La sala dei divertimenti non è così amena, non è vero?» chiese il tecnico, divertito. «Concordo. Qui, quanto a vita sociale, celebriamo i riti di un mondo che non esiste più». «Lei parla... anzi, parlate tutti come se viveste qui da sempre». «In un certo senso è così. Non da sempre, ma da molto tempo. Vale anche per lei, infermiera, che pure era dislocata su Paradice. Immagino che le abbiano assegnato un numero di L-Field, non è vero? E che abbia un chip ricetrasmittente impiantato in qualche parte del corpo». «Sì. È così. Ma cosa sarebbe un L-Field?» Myotis esitò. «Lesurme non desidera che gliene parli». Lilith era ben consapevole del proprio potere di seduzione. Su Paradice era stata stuprata una quantità di volte. Batté le palpebre e mimò un'espressione leggermente imbronciata. «Lesurme è in basso che quasi dorme su un divano, mentre ascolta un concerto». «Vorrà dire il concerto. Ne abbiamo uno solo!» Myotis rise. «Nessuno ricorda il nome del direttore d'orchestra, e meno ancora il titolo del brano. E il Rex tremendae maiestatis di Mozart, parte di un Requiem andato perduto». Piegò l'indice in segno di richiamo. «Venga, Lilith. Le faccio vedere i famosi campi vitali. Non dica però a Lesurme che ho trasgredito le sue istruzioni. Qui, dopo Kurada, lui è il numero due. Di fatto il capo».
Condusse la donna a un pulsante e lo premette. Una sezione della parete metallica cominciò ad aprirsi lentamente. Intanto lei guardava i quadranti disposti a circolo nella sala in cui ancora si trovavano. «A cosa servono quelle levette?» «Ognuna manovra una delle antenne che ha visto all'esterno. Ne sposta i bracci a croce fino all'individuazione precisa, o teoricamente precisa, del bersaglio». Myotis fece un gesto seccato. «C'è stato un tempo in cui ogni pannello aveva il suo operatore. Adesso sono io, con i pochi che mi danno il cambio, a dover gestire l'intero sistema. È logico che si verifichino errori, come durante una guerra». Il tratto di parete si aprì del tutto. Il nuovo ambiente, in penombra e appena rischiarato da lampadine azzurre, comprendeva file e file di minuscole teche, simili nell'aspetto a piccoli forni a microonde rigorosamente sigillati. «Ecco gli L-Field, ognuno nella sua gabbia di Faraday» spiegò Myotis con una traccia di orgoglio. « Ne abbiamo al momento circa millequattrocento, compresi quelli in uso e quelli guasti». «Ma cosa significa?» La risposta non fu diretta. «Ha presente, Lilith, il micro-chip impiantato nel suo corpo?» «Sì, anche se fino a qualche giorno fa non ne sapevo niente». «Fu inventato alla fine del XX secolo da uno scienziato di nome Chris Winter, che lavorava per una società chiamata British Telecom, a Ipswich, in quella che era detta Gran Bretagna. Lo chiamò "Soul Catcher": una specie di scatola nera capace di registrare le esperienze di un individuo, nell'arco di un'intera vita. Sa cos'è una scatola nera?» «No». «Non glielo starò a spiegare. È dai Soul Catcher che nascono gli L-Field, e viceversa». «Non sto capendo nulla» mormorò Lilith, seccata e impaziente di passare all'azione. «Cercherò di essere più chiaro. Nel frattempo le basti sapere che le teche racchiudono più di un migliaio di personalità umane pronte all'uso... o al trapianto».
Quarta Parte Rubedo
32.Posa di combattimento Eymerich non aveva la minima intenzione di farsi annientare da un fraticello qualsiasi, solo perché questi godeva di protezioni altolocate. Furioso, elaborò un buon numero di contromosse. Non per questo si dimenticò di Nissim, che aveva di fronte. «Tu credi a queste calunnie?» gli domandò. «Certo che no» rispose l'ebreo, sincero. «Ti avevo convocato per altri motivi, ma ora devo difendermi da chi mi accusa. È assurdo, ma c'è poco da fare. Vieni con me, ti porrò qualche quesito lungo il tragitto». Con il giovane scese la scala di legno, lanciò un'occhiata all'uscio sfondato della stanza rossa e marciò verso le sale principali. Non avvertiva alcun impedimento e camminava agilmente. «Ci sono cose che tu sai e io no? Particolari che mi hai taciuto?» chiese a Nissim. «Relativi a cosa?» «A una quantità di temi. Ne sono persuaso: tu conosci segreti che non vuoi dirmi. Hai avuto un'educazione ebraica. A parte la leggenda di Lilith, i rabbini te ne hanno narrate altre?» Mentre si sforzava di tenersi al passo con l'inquisitore, Nissim allargò le braccia. «Molte altre, è ovvio. Ditemi, padre, un argomento preciso». «I demoni. Parlami dei demoni. A quali fa riferimento un ebreo, Lilith esclusa?» Nissim pensò per qualche istante cosa rispondere. «Per ciò che so, tutti si rifanno a Joshua ben Perachyah, maestro di Talmud. Vissuto chissà quando, ma immagino secoli fa. L'unico a cercare di catalogare i demoni dal primo all'ultimo. Classificava Lilith tra i Tarahirim, i diavoli del mezzogiorno. Capaci di resistere alla luce, che altrimenti li ucciderebbe. Demoni solari». «Ci sono altre categorie di diavoli, nell'ebraismo?» «Gli Shedim si suddividono in tre specie principali. I Ruchot, spiriti o spiritelli, i Masiqim, le pesti, e i Chabalim, i distruttori». «Possono nuocere all'uomo?»
«Solo i Chabalim. Gli altri si limitano a infastidire, come i jinn per gli arabi. A volte non sono nemmeno cattivi. Solo maliziosi». «Come sono raffigurati?» «Ne so poco. A volte come rettili». Avevano raggiunto la Sala dei Baroni, dove era in corso il pranzo. Nissim si arrestò sulla soglia, Eymerich invece vi fece irruzione, tacitando piccoli aristocratici, notabili e militari che vi erano assisi. Marciò verso Giovanni e Manfredi Chiaromonte. Non degnò di uno sguardo Eleonora d'Arborea, seduta accanto a loro. Meno che mai fece attenzione a Simone dal Pozzo, sistemato a un'estremità della tavolata. Manfredi mosse il corpaccione per alzarsi. «Mi cogliete di sorpresa, magister. Non speravo più di avervi a desinare con noi. Le portate principali sono già state servite, ma si rimedia». Batté le mani. «Servi! Stoviglie e posate per il nostro ospite! E porzioni ben calde di maccheroni e porchetta!» Eymerich parlò con tutta la rabbia che aveva in animo,senza moderare la voce. «Ammiraglio, non sono qui per partecipare a uno dei vostri interminabili pranzi. Devo parlare a voi o a vostro fratello. So che si insulta la carica che ricopro e mi si addossano colpe innominabili. Il responsabile di questo deve essere incarcerato subito e restare alla mia totale mercé». «A chi vi riferite?» chiese Manfredi, bianco in viso. «Vi rendete conto dell'oltraggio portato alla mia mensa?» «Ne sono consapevole, ma non vi chiedo scusa. Sto parlando di quell'uomo là!» Puntò l'indice contro Simone dal Pozzo. Questi si levò in piedi, barcollando. Aprì le labbra, ma non ne uscì parola. Manfredi Chiaromonte era ai limiti della collera. Da pallido che era si fece paonazzo. «Padre Nicolas» gridò, «forse la vostra situazione non vi è chiara! In Sicilia non avete nessuna autorità! Qui abbiamo già un inquisitore generale, padre Dal Pozzo, lo stesso che vorreste in vostra balia! Dopo tutto ciò che avete fatto!» «Cos'avrei fatto, tanto per saperlo?» «Avete sminuito l'ultima vittoria sui Lestrigoni, per puro cinismo. Vi siete trasferito da un luogo all'altro, con la rapidità di un demonio. Leggete libri che sono bestemmie. C'è chi vi vuole bruciare vivo, e le motivazioni non mancano. Come vi difendete?» «Difendermi? Non mi conoscete». Eymerich fece spallucce. «Allora, arrivano questi maccheroni? Non ho molto appetito, però un boccone lo gradirei». Si curvò verso Giovanni Chiaromonte. «Signor conte, lasciamo vostro fratello ai suoi deliri. Dov'è la vasca?» «Vasca? Quale vasca?» balbettò il signore di Palermo e Modica.
«Devono vivere in acqua, immagino». «A cosa vi riferite?» Eymerich sogghignò. «Lo sapete benissimo. Li importate da Ragusa come armi da battaglia contro altri baroni. A volte sfuggono dalle gabbie di chi li scorta. In quel caso mangiano braccia e gambe degli uomini trovati nei pressi. Ho visto la scena: terrificante. Devo dirvi quali sono le bestie di cui parlo?» Il volto di Giovanni Chiaromonte aveva perso ogni colore. «Non mi sembra necessario. Non qui». «E allora datemi l'uomo che voglio interrogare». «È vostro. Fatene ciò che volete». Giovanni alzò la voce. «Guardie! Chiudete padre Simone dal Pozzo in una cella dei sotterranei! Custodito a vista! E qualcuno mi trovi il boia». Eymerich sogghignò. «Non voglio ucciderlo. Non ancora». «Vi può aiutare negli interrogatori». L'inquisitore non badò a Simone dal Pozzo, che aveva preso a strillare frasi in siciliano. Trascurò anche Manfredi, ammutolito e terreo in viso. Cercò un posto libero, ma non ve n'erano. Un miles cedette il proprio scanno, non lontano dai feudatari. «Accomodatevi, mi siederò altrove». Eymerich fece il giro della tavolata, ora silenziosa, e prese posto. Rispose con un semplice cenno della testa a Eleonora d'Arborea. Accolse con gioia manifesta i piatti fumanti, il vino bianco fresco versato in una coppa di peltro da una caraffa e il pane muffulettu. Ne immerse la mollica nell'intingolo dei maccheroni. Attese che nella sala si riaccendessero le conversazioni, poi, sottovoce, domandò a Giovanni Chiaromonte, che gli era quasi di fronte: «Signore, da dove vengono?». «Da Ragusa, Io sapete già». «Ce ne sono molti, laggiù, di coccodrilli?» «No. Secondo me arrivano dal Nilo e dall'Egitto. Attraversano il mare, ogni tanto. Sono creature enormi, non facili da catturare. Di una ferocia indescrivibile». Manfredi uscì dal suo mutismo. «Giovanni, stai parlando troppo! Erano segreti da non rivelare a nessuno!» L'interpellato mostrò indifferenza. «Padre Nicolas ci è arrivato da solo. Non è il caso di tacergli queste informazioni». Fissò Eymerich negli occhi. «In una guerra civile, ognuno usa le armi a disposizione. Può accadere che gli incaricati del trasporto si lascino sfuggire le fiere e ne paghino le conseguenze. Gli uomini che avete trovato morti, senza braccia o senza gambe, non avevano chiuso con cura le gabbie. È successo altre volte».
Eymerich, corrucciato, osservò: «Così lasciate rettili pericolosi liberi nei fiumi, mettendo a rischio la vita dei contadini». «Non è che me ne importi» rispose Giovanni Chiaromonte, ilare. «Il volgo campestre si moltiplica senza posa. Non resterò mai a corto di manodopera. Superstizioso com'è, scambia un coccodrillo per un demonio. Io, comunque, faccio quel che posso per liberarlo dal pericolo». Il commensale più prossimo era Guglielmo di Romagna. Si alzò a mezzo busto per ricevere una coppa di sorbetto agli agrumi. «Di coccodrilli ne avrò uccisi cinque o sei. Il modo l'ha spiegato Marco Polo. Si attende che aprano le fauci. Dopo, con un palo acuminato, si perforano i loro organi vitali». «Dunque, di guerre gloriose ne avete combattute anche voi. Me ne felicito». Eymerich riportò l'attenzione su Giovanni e mise da parte il tono sarcastico. «Stanno arrivando gli altri baroni. Sono al corrente della vostra trovata?» «No, e bisogna che non lo vengano a sapere. Per questo vi ho consegnato Simone dal Pozzo». «Ve ne sono grato e non dirò parola». Eymerich raccolse alcuni maccheroni con il piccolo tridente a due punte, fatto apposta per insinuarsi nella cavità della pasta. Mangiò con gusto: il sapore era eccellente. Anche il vinello era buono, nella sua freschezza, e dava una moderata allegria. Girando lo sguardo sulla mensa, che aveva riacquistato in vivacità, incrociò gli occhi neri di Eleonora. Forse non lo avevano mai abbandonato. Ebbe l'impressione che la dama volesse parlargli. Non perdeva più sangue dallo zigomo: la ferita si era cicatrizzata in un segno irregolare, analogo all'incrinatura a forma di stella della bambola con cui aveva giocato da fanciullo. Terminato il pasto, si congedò dai Chiaromonte e, nel passare accanto alla donna, le bisbigliò: «Vediamoci in cortile». Il cielo pomeridiano era dominato da un sole ormai declinante, enorme e rosso come una sfera di fuoco. Le mura scottavano, erbe e fiori si erano già curvati sotto il calore. Eymerich si portò ai primi gradini della scala adiacente all'ingresso dei quartieri abitati dalla gente di rango. Si sentiva estremamente debole. I suoi pensieri non si concentravano su Eleonora d'Arborea, che avrebbe incontrato di lì a poco, bensì su Simone dal Pozzo. Si chiedeva come trattarlo, dopo che lo aveva fatto arrestare con un volgare ricatto. Per Eymerich, sempre scrupoloso in fatto di normative, padre Simone era l'unico titolato a reggere l'Inquisizione nel regno di Trinacria. Lo aveva tolto dal gioco per salvare se stesso. Esisteva un capo d'accusa contro di lui? Eymerich era immerso nelle sue riflessioni quando Nissim uscì di corsa dal sotterraneo. Era trafelato.
«Padre! Che fortuna incontrarvi qua! Si è impiccato!» Il giovane boccheggiava per la fatica, il caldo e l'emozione. Eymerich trasalì. «Che cosa dici? Chi si sarebbe impiccato?» «Padre Simone dal Pozzo! Era stato da poco chiuso in cella quando le guardie hanno scoperto il suo corpo che penzolava dal soffitto. Ha tagliato a strisce la tonaca e ha ricavato dai brandelli una corda». L'inquisitore pensò al modo in cui era iniziata quella storia. L'idea che gli eventi iniziali si ripetessero lo atterriva. «Ha ancora lineamenti umani?» chiese con impeto. «In che senso?» domandò Nissim. Si capiva che il quesito doveva suonargli stravagante. «Ha viso di uomo oppure di porco, di vacca o di coccodrillo?» L'ebreo inghiottì saliva. Eymerich doveva sembrargli pazzo da legare. «Somiglia al Simone dal Pozzo di sempre. Certo, ora ha la bocca spalancata, gli occhi sporgenti e la faccia cianotica». «Scendiamo a vedere». Nel sotterraneo c'era agitazione. I servi e i soldati che vi si trovavano erano usciti dalle loro stanze e si accalcavano, vociferanti, davanti alla cancellata che delimitava le celle. I militari che li tenevano a bada erano gli stessi due che Eymerich aveva già visto. Chiedevano ai commilitoni di avvisare i signori. «U patri muriu appizzatu, chi trillati? Diticillu 'e baruna!» Alla vista di Eymerich, e soprattutto di Nissim, socchiusero il cancello. Uno di essi indicò il fondo della "camera oscura". «È là, l'ultima cella» disse in catalano. Eymerich si precipitò, con Nissim al seguito. Il cadavere di padre Simone penzolava appeso a una corda rudimentale, fatta di lembi di tela bianca annodati. Era proprio lui, non c'era dubbio. Non aveva viso animale, né altre stranezze. Seminudo, oscillava sul pavimento di sabbia, che aveva irrorato di orina. La lingua era estroflessa, gli occhi sporgevano. I lineamenti, stravolti e contorti, tendevano al colorito violaceo. Il buio della prigione impediva di cogliere i dettagli. «Mi serve una torcia!» gridò Eymerich. «Una candela! Un lume qualsiasi!» «Eseguo, padre» disse Nissim. Ritornò un attimo dopo con un grosso cero, che emanava luce sufficiente. Quando lo ebbe in pugno, Eymerich posò con precauzione i calzari sulla sabbia. Temeva di esserne risucchiato, come nella cappella. Non accadde nulla, il suolo era solido. Raggiunse l'impiccato, gli schiuse le mandibole. Lo schiaffeggiò, gli premette le dita sulle guance. Gli
affondò le dita nel torace nudo. Gli strizzò i piedi penzolanti. Gli premette il palmo sul cuore per coglierne un guizzo estremo. Completa l'analisi, disse a Nissim: «Più che un uomo è un fantoccio. Non ha una goccia di sangue nelle vene. Ogni muscolo è molliccio, privo di energia riflessa. So che dovrei far calare il corpo per dargli sepoltura, ma non ho fretta, perché abbiamo a che fare con un involucro, senza anima né spirito. Il simulacro di un essere umano». «È un morto, in fondo». «Sì, ma da poco. Qualche traccia di calore la dovrebbe conservare. Invece niente. Una bambola di carne». Eymerich emise un sospiro. «Tra i misteri in cui ci siamo imbattuti finora, questo è il più oscuro. Non sembra ma è così. Fuoriesce dagli schemi esplicativi che avevo elaborato». Nissim era tutt'altro che convinto. «Vorreste farmi credere di avere trovato una spiegazione univoca a ogni altro prodigio accaduto sin qui?» «Sì, ma non la capiresti, a parte quest'ultimo tassello. Tu sei parte dell'enigma, non della sua esplicazione». Eymerich si allontanò dal cadavere penzolante e mise piede nel corridoio, lieto di poggiare su una base più solida. Spense il cero con un soffio e lo scagliò lontano. «È inutile sostare in questa cantina. Meglio uscire a vedere un nuovo spettacolo di dischi luminosi. Forse è già buio, e l'impressione sarà più viva. Come fuochi artificiali, in un certo senso». «Voi prevedete che...». «Non prevedo nulla. Lo so. E ti anticipo anche che, questa volta, l'alone luminescente tenderà al rosso. Ci scommetti?» I due si fecero largo tra la calca che premeva sul cancello. «Staccate l'impiccato» ordinò Eymerich alle guardie, in catalano. «Consegnatelo a chi può occuparsi della sepoltura. Non cristiana, mi raccomando. La salma, per quel che vale, può anche essere gettata in un dirupo». Non sapeva se i soldati avessero capito, ma poco gli importava. Uscì con Nissim di fianco al giardinetto, piccolo eppure profumato. La sera era già calata, grigia sul margine inferiore, nera in alto. Non c'erano stelle: solo la luna, larga e pallida. Eleonora d'Arborea non era nei paraggi, né accanto al viridarium né nel cortile principale. Sugli spalti, le sentinelle cominciavano ad accendere le torce che avrebbero brillato nella notte. «Padre, non c'è traccia di dischi» disse Nissim dopo avere scrutato con attenzione la volta celeste. «Ti sbagli. Stanno arrivando. Guarda quei puntini luminosi disposti a cuneo, vicino alla luna. Ingrandiscono, non vedi? Tra breve caleranno su Mussomeli».
Alludeva a minuscole sferette rossastre ordinate in formazione regolare. Ancora difficili da percepire, crescevano in dimensione. Intanto, la cupola di oscurità era saettata da strie biancastre, sottili e sfrangiate, prive di origine e di senso. Le si notava poco perché il buio non era ancora fitto. «Ora vedo» disse Nissim, con voce fragile. «Padre, non mostrate alcuna paura. Restate così impassibile che non vi si crederebbe nemmeno umano». Eymerich fece una smorfia divertita. «È la mia posa di combattimento. So di avere Dio dalla mia parte. Chi mi sta per attaccare non può dire lo stesso. Preparati a un bel po' di eventi spettacolari. Goditeli come una messinscena di saltimbanchi». I dischi luminosi si ingigantirono e conversero rapidi su Mussomeli. Erano cerchi ovoidali di colore rosso, vivo al centro, arancione ai margini. Sciolsero la formazione triangolare e si dispersero lungo le strie biancastre, emanando calore. Le sentinelle sugli spalti presero a gridare. Dall'interno del castello giunsero altre urla. Una folla terrorizzata si accalcò per uscire e si adunò nel cortile, tinteggiato di rosso dai dischi. In tanti sprofondavano nella follia, agitavano le braccia, schiumavano sull'acciottolato come epilettici. I dischi, silenziosi, finirono con il radunarsi in una nuova squadra a triangolo. Non fecero nulla di offensivo, tranne spandere luce vermiglia.
33.La Sala delle Armi Gli oggetti volanti, pur non muovendo all'offensiva, spandevano un calore intollerabile, che ustionava. Eymerich se ne accorse solo quando l'epidermide iniziò a scottargli. Si protesse con un braccio. Proprio allora udì che lo stavano chiamando. Era Manfredi Chiaromonte, ritto sulla soglia dell'edificio principale. Attorno a lui, Guglielmo di Romagna e le lance respingevano con il piatto delle spade chi cercava di tornare al coperto. A gesti Io invitava a rientrare. «Padre Nicolas! Venite qui, di corsa! Rischiate di bruciare vivo!» Sia Eymerich sia Nissim scattarono. Guglielmo cercò di bloccare il servo e di respingerlo lungo la corta gradinata. L'inquisitore gli serrò il polso. «E con me. Se entro io entra anche lui». Il condottiero non oppose resistenza. Eymerich fu accanto al signore, con Nissim alle calcagna. Coloro in grado di intendere e di volere che erano rimasti nel cortile si ammassarono sulla scaletta che scendeva nei sotterranei. Rimasero a terra a contorcersi
quelli che sembravano impazziti o invasati... ed erano invece semplicemente ubriachi. Furono investiti dalla radiazione e si torsero per il dolore. «Eccomi, ammiraglio». «Cosa facciamo, magister?» chiese Manfredi, angosciato. sbarcheranno i Lestrigoni?»
«Credete che tra poco
«Lo ignoro, ma penso di no. Ho buone ragioni per dirlo. Non prevedo altre battaglie imminenti». «Non siate così reticente! Spiegatemi il vostro ragiona-mento... Mi state mancando di rispetto!» Eymerich cercò le parole più acconce per spiegarsi in maniera esaustiva, ma senza svelare troppo di ciò che credeva di sapere. «Non oserei mai, ammiraglio... Mettiamola così. I dischi hanno il potere di evocare in chi li vede, collettivamente, figure già presentì in un meandro della memoria. Non parlo di una memoria ordinaria, bensì di un'altra, comune a tutti. Riuscite a capirmi?» «Francamente no» rispose Manfredi, con sincerità quasi infantile. «Alludete allo Spirito? L'ambito della coscienza più prossimo a Dio? In comunicazione con Lui?» Eymerich scosse il capo, ma in atto benevolo. «Non è esatto, ammiraglio, ma vi siete vicino. La distinzione dei nostri filosofi e teologi tra Corpo, Anima e Spirito è irreprensibile, però semplifica troppo. Tra anima, cioè psiche individuale, e spirito, vale a dire comunione con Dio, esiste un'ulteriore dimensione, fatta di sogni condivisi. C'è chi l'ha chiamata l' "ottavo cielo", oppure la "materia sottile". Gli alchimisti preferiscono definirla la "quinta essenza"». «Veniamo al pratico» sbuffò Manfredi. «Cosa c'entra tutto ciò con i dischi?» «Possiedono il potere misterioso di estrarre dalla quintessenza gli incubi comuni e di renderli in apparenza concreti». «Perché escludete che ciò accada adesso?» «Perché, con pranzi e orge prolungati fino allo sfinimento, avete sfiancato i vostri ospiti». Eymerich non cercò di addolcire l'asprezza del rimprovero presente in quelle parole. «È difficile che pensino ai Lestrigoni. Gli ubriachi investiti dalle radiazioni di calore vaneggiano doloranti. I più svegli si riparano nei sotterranei. Non c'è materia immaginativa da sfruttare per gli attaccanti». Manfredi non trovò subito le parole per replicare. Tra la sorpresa dei presenti, Nissim Ficira disse a Eymerich: «Voi, padre, sembrate riferirvi agli "archetipi" di cui parla Filone d'Alessandria: le allegorie comuni ai popoli di tutti i tempi e di tutti i paesi. È a quelle che i dischi di luce darebbero forma tangibile, dopo averle estratte dalle menti?». L'inquisitore lo fissò con cipiglio e con un grado di sospetto confinante con l'odio puro. «Ma guarda, un servo che mi cita Filone d'Alessandria! Un servo ebreo, per giunta! Da dove proviene una così assurda familiarità?»
«Non è difficile intuirlo, padre» rispose Nissim con scioltezza. Non sembrava molto intimidito. «Filone si è occupato di noi ebrei, e in particolare della Bibbia. I nostri rabbini lo sanno quanto i vostri filosofi». Solo a quel punto fece un inchino, come a chiedere scusa. Manfredi, che non aveva capito un'acca, era paonazzo in viso. «Magister, non appena cessato il pericolo, farò frustare l'impudente come merita. C'è anche la possibilità che lo faccia precipitare dai bastioni». «No» rispose Eymerich, con fermezza. «Si dà il caso che il giovane giudeo abbia ragione». Ascoltò per un istante le grida degli ustionati che seguitavano a provenire dall'esterno. «Ammiraglio, volete un consiglio? È superfluo inscenare una nuova battaglia contro gli spettri. Fate portare dentro chi è rimasto allo scoperto e andate a letto. Al mattino vedrete che il cielo sarà libero da oggetti luminosi». «Veramente?» chiese Manfredi, poco convinto. «Credetemi». «Non pronunciate nemmeno un esorcismo? Una preghiera qualsiasi?» Eymerich fece un cenno di diniego. «No. Chi provoca gli incantesimi non segue la stessa religione. E i cristiani sono troppo sconvolti perché io, al pari dell'altro giorno, possa suggestionarli». Si fece avanti Guglielmo di Romagna, con indignazione vera o fasulla. «Dovremmo cedere così, senza combattere?» «Combatterete in sogno» rispose Eymerich, sferzante. «È un terreno in cui potreste anche vincere». Tornò a rivolgersi a Manfredi. «Ammiraglio, alcune ore fa dovevo parlare a Eleonora d'Arborea. Non l'ho più vista». «Dopo il pranzo si è ritirata con mio fratello Giovanni nella Sala delle Armi, per un colloquio di argomento politico. Forse è ancora là a discutere». «La Sala delle Armi? Dove si trova?» «Al livello inferiore, ma separata dagli alloggi della servitù e dalle prigioni. Contiene il nostro arsenale e attualmente anche la balista». Eymerich gettò un'occhiata preoccupata all'esterno. Nel cortile non c'era più nessuno, e anche gli ubriachi erano stati trascinati al riparo. Le luci rosse seguitavano a volteggiare, meno brillanti. Non si udivano urla, solo gemiti lontani e soffocati. La notte, non fosse stato per i dischi, sarebbe risultata calda ai limiti dell'afa e silenziosa... a parte le orde di grilli che frinivano nella vallata. Eymerich si ritrasse dalla porta e domandò: «Ammiraglio, per raggiungere la Sala delle Armi è indispensabile attraversare lo spazio aperto?».
«No. Esiste in via provvisoria un passaggio interno, scavato dai muratori» rispose Manfredi. «Non è così facile da trovare, ma... Siamo fortunati! Ecco chi lo conosce bene e vi farà da guida!» Indicava mastro Avakum, che trascinava il suo corpo sgraziato lungo il muro, evitando di accostarsi troppo ai cortigiani e ai nobili. Nell'udirsi interpellare, il precettore sussultò. Prima si rattrappì, poi domandò, incerto: «È di me che chiedete, signore?». «Proprio di voi. Padre Nicolas vuole raggiungere la Sala delle Armi senza dovere uscire in cortile. Voi conoscete il cammino segreto e farete da guida al magister». Avakum guardò Eymerich con grande timore. «Questo religioso, che riverisco, accompagna ogni suo passo con visioni che incutono terrore». «E con ciò?» strillò Manfredi. «Vi ho dato un ordine, signor maestro di strada! Eseguitelo o tornerete nei vicoli di Palermo!» Prima di congedarsi, Eymerich disse: «Seguite il mio consiglio, ammiraglio. Andate a dormire. La battaglia vera, solo io posso combatterla». Seguì Avakum, che, vestito alla solita maniera bizzarra – zimarra nera, abito nero con un nastro rosa sul cappello –, puzzava meno che durante il loro primo colloquio. Eymerich mantenne una distanza prudente e così si avvicinò a Nissim, che lo aveva accompagnato. «Conosci la parola ebraica gilgul?» «No. Mai udita». «E ibbur? O, per essere più preciso, "ibbur maligno"?» «No, padre. Il mio vocabolario ebraico si limita a poche espressioni. Spesso non so nemmeno cosa vogliano dire». «Peccato». Eymerich fece una smorfia somigliante a un sorriso. «Prima volevi spiegazioni. Quelle due parole, e soprattutto la seconda, ibbur, contengono la ragione di metà di ciò che sta accadendo, a cominciare dalla strana morte di Simone dal Pozzo. Dato e non concesso che sia morto davvero». Avakum si girò, allarmato. «Davvero padre Simone è morto? Nessuno mi ha detto nulla!» Com'era sua abitudine, quasi strillò. «E chi mai avrebbe dovuto dirvelo?» chiese Eymerich con un filo di ironia. «Suvvia, precettore, parlate piano. Non allarmate la brava gente che ci circonda». Gli ambienti che stavano attraversando non erano affatto vuoti. I cortigiani, e anche alcuni domestici, gremivano le finestre. Osservavano le fiammelle danzanti nella notte, attenti a non farsi investire dai fasci di luce rossa. Il brusio continuo di sottofondo era interrotto da urletti sporadici. Chi notava il passaggio dell'inquisitore si faceva il segno della croce, quasi
fosse lui la minaccia da respingere. I più spaventati erano tornati nella mensa a servirsi di altro vino. «Ecco, magister» disse Avakum. Si era fermato accanto ad alcune tavole di legno, che rimosse con il piede, mettendo allo scoperto un foro irregolare. Non erano lontani dalla camera di Eymerich. «Di qui i muratori e i falegnami si calano direttamente nella Sala delle Armi. Sembra buio, ma appena sotto c'è luce a sufficienza». «Come si scende?» «Vedete quei due paletti appoggiati al bordo? Sono gli estremi di una scala a pioli. Scricchiola e tuttavia è robusta». Eymerich guardò Nissim. «Puoi rimanere qua, se credi». «No, scendo con voi». «Come preferisci... Mastro Avakum, grazie per averci accompagnato. Potete tornare alle vostre occupazioni, quali che siano». «Voi sapete già, magister, cosa accadrà domattina, non è vero?» chiese il precettore tremebondo. «No. Ditemelo voi». «Domani calerà ancora la nebbia... Nebbia in Sicilia, mi capite?» Avakum alzò le braccia, quasi invocasse la volta celeste a testimone di una tale incongruenza. «Su quest'isola non si era mai visto niente del genere!» Eymerich si mostrò noncurante. «L'ultima cortina di bruma l'hanno vista in pochi. Coloro, presumo, che erano predisposti a vederla. Andate a riposare anche voi, precettore... Nissim?» «Agli ordini, padre!» «Scenderò prima io. Tu mi seguirai solo quando sarò in fondo alla scala e ti darò una voce. Capito?» «Certo, padre!» Eymerich si calò nel foro. Cosa strana, gli era sparito ogni dolore alle articolazioni. Si sentiva agile e pieno di vigore. Attribuì il merito al caldo. Da bambino aveva patito molto il freddo, che poi aveva ricercato da adulto nel nome di una passata purezza. Solo il calore intenso riusciva a togliergli di dosso i segni dell'età. Il gelo estremo e l'afa agivano su lui come altrettante medicine, ma la seconda era la più efficace. Un antidoto sicuro alla fatica e ai dolori articolari. Mentre Eymerich, scendendo con cautela, faceva gemere i pioli, peraltro piuttosto solidi, della scala rudimentale costruita dai manovali, seguitava a udire gli strilli di Avakum: «La nebbia! La nebbia! Domani saremo sommersi dalla nebbia!».
«Nissim!» chiamò Eymerich. «Dite, padre!» «Dai un calcio a quel pazzo, come faresti con un cane uggioloso. Che si tolga dai piedi». «Eseguo volentieri». Eymerich si perse il seguito della scena e pose piede sul pavimento. La sua discesa fu rischiarata da molte luci. Disse, senza alzare troppo la voce: «Nissim, puoi venire anche tu. Qui è sicuro». «Vengo, padre». Il giovane prese terra in pochi istanti, ma la discesa fu forse inutile. Nella Sala delle Armi non erano presenti né Eleonora d'Arborea né il conte di Modica. Le torce, numerose, illuminavano per l'appunto delle armi: spade, alabarde, corazze, asce, scudi. Non erano disposte in festoni, bensì appoggiate al muro o abbandonate sul pavimento. C'era anche la balista, di aspetto più innocuo che mai. L'ambiente era di forma allungata, con bellissimi archi a sesto acuto che reggevano la volta bassa. Terminava con una porticina a tutto sesto che non dava sull'esterno, bensì su un piccolo atrio. Un'altra porta, più stretta e irregolare, si apriva invece su una voragine oscura, con tutta probabilità un pozzo. «Penso che possiamo tornare di sopra, padre» disse Nissim. «Le persone che cercavate sono state viste qui già diverse ore fa. È facile che siano tornate nei rispettivi alloggi». «Non hai torto... Non avverti un odore singolare?» Il giovane annusò. «Sì, padre. Ricorda vagamente quello del sangue. Attenuato e meno sgradevole». «Ti dico io cos'è... È cinabro! Vediamo da dove proviene. Credo dalla cisterna». «Cinabro?» ripeté Nissim. «Cosa sarebbe?» «Un tipo particolare di roccia, che qui non dovrebbe nemmeno esistere». Eymerich staccò una torcia dal suo piedistallo di ferro. «Se bagnato, quel sasso emette un fetore si-mile a quello che sentiamo. Conviene dare un'occhiata». Si portò sull'orlo del pozzo e lo illuminò. In effetti, l'olezzo disgustoso proveniva da lì e dalle pietre, di un colore quasi scarlatto, che rivestivano la cavità. In alto, la cisterna era sormontata da una grata. In basso, la sua stretta imboccatura era colma d'acqua fin quasi all'orlo. Non si vedevano carrucole, né corde, né secchi. «Acqua fino a questa altura» mormorò Eymerich. «Be', una ragione c'è. È acqua ferma, melmosa. Non sgorga certamente dal suolo». D'un tratto si fece indietro e lanciò un'esclamazione. « Nissim, non vedi anche tu un corpo biancastro che galleggia subito sotto la superficie?»
Il giovane prese la torcia dalla mano dell'inquisitore. «Sì, qualcosa c'è. È un corpo piccolo, che sembra galleggiare sul ventre». Eymerich pensò subito a uno dei coccodrilli che Giovanni Chiaromonte faceva venire da Ragusa. In fondo si era nella Sala delle Armi, e il rector usava quei rettili come strumenti di guerra. Però il corpo che aveva scorto non sembrava di un animale. «Bisognerebbe far salire la salma fino ai margini del pozzo e cercare di capire di cosa si tratta». «Non è difficile, padre» rispose Nissim. «Qui c'è una quantità di strumenti adatti allo scopo». Restituì la torcia a Eymerich e andò a frugare tra le armi ammassate. Tornò reggendo a due mani una lunga alabarda. «Ecco quello che fa per noi» annunciò, gaio. Tuffò più volte la punta, fino ad artigliare il corpo annegato. Lo sollevò fino al pelo dell'acqua, causandogli ferite da cui il sangue non usciva. Occorsero diversi tentativi, poi finalmente Nissim fu capace di trarre a sé il cadavere e di voltarlo. Quando poté vederlo per intero, lanciò un urlo strozzato. «Ma è uno dei bambini senza arti uccisi nel Miknas di Feudo Michinese! Lo hanno portato qua e sepolto nel pozzo!» Stava per lasciarlo fluttuare, ma Eymerich gli ordinò: «Trattienilo!». Cercò, muovendo la torcia, di illuminare quella spoglia. Era un bambino troppo cresciuto, dall'epidermide lattea e il viso grossolano con gli occhi gonfi e serrati. Le labbra, piccole e rosse, sporgevano sotto il nasino. Non aveva braccia né gambe, ma solo moncherini incompleti. Somigliava a un bozzolo di dimensioni abnormi. Quasi un verme pallido, la cui vista era insostenibile. Con il cuore che gli impazziva nel petto, per ragioni non tutte logiche, Eymerich ordinò a Nissim: «Liberalo dall'alabarda! Lascialo sprofondare!». Il servo obbedì e districò l'arma senza spargere una stilla di sangue. Prima di inabissarsi, la salma larvale aprì gli occhi. Aveva pupille stolide e tonde e le fissò su Eymerich. Anche la bocca carnosa e infantile si schiuse. Prima che l'acqua gli serrasse le labbra, emise un verso che somigliava a una frase malamente articolata. «Ma cosa mi fai, padre? Non sai che sono tuo fi...». Il resto si perse in un gorgoglio. «Ha detto qualcosa» disse Nissim. «Un morto che parla». «Non ha detto nulla» rispose Eymerich, desideroso di mostrarsi sicuro di se stesso. «Sono illusioni e trappole diaboliche. Come i dischi che svolazzano nel cielo, se ci sono ancora». «Io, tuttavia...». «Tuttavia niente. È ora che ci andiamo a coricare anche noi. Discuteremo domani sul potere delle allucinazioni».
34.La quarta donna Contro ogni aspettativa, il resto della notte trascorse tranquillo. Eymerich risalì con Nissim, si congedò da lui e andò nella propria camera. Qualche servo gli aveva fatto il favore di accendere alcune candele. Eymerich spiò fuori della finestrella: i dischi avevano perso molto del loro chiarore; alcuni erano scomparsi. L'inquisitore serrò il battente e diede soddisfazione ai bisogni fisiologici nel secchio. Quando si sdraiò sul letto, dopo essersi tolto tonaca, mantello e scapolare, si sentiva molto rilassato. Non temeva apparizioni: era certo che non ce ne sarebbero state, per il momento. Persino il ricordo recentissimo del tronco infantile che lo chiamava "padre" tendeva a svanire. Per quanto sconvolgente, si inseriva nel quadro logico a cui stava dando forma. Rimpianse solo di non avere portato con sé della letteratura ebraica. Al mattino scese dalla sua stanza, fece una rapida colazione direttamente in cucina e uscì nel cortile. Toccandosi le guance si accorse di un dettaglio singolare. Da quando aveva intrapreso quella spedizione non gli erano cresciuti né barba né capelli. Adesso, invece, scoprì al tatto una peluria debole e morbida che gli invadeva le gote e il cranio. Gli parve un segno di ottimo auspicio. Stava tornando se stesso. Si ripropose, comunque, di rasarsi appena possibile. I campanili della valle stavano battendo l'ora prima. In una città le vie si sarebbero riempite di donne dirette alla messa. Entro la cinta superiore di Mussomeli, al contrario, non vi era nessuno. Eymerich aspirò l'aria pura e fresca del mattino. Il cielo era limpido, libero da strascichi delle allucinazioni notturne. Contrariamente a ciò che aveva profetizzato Avakum, non c'era nessun refolo di nebbia. La pianura, verdeggiante in prossimità dei fiumi, appariva calma. Ogni suono, come quello delle campane, si propagava fioco per tutto lo spazio aperto. Il panorama induceva alla serenità. Tra i colori, prevaleva il verde, tinto di rosso da un sole appena sorto. Eymerich, un po' inebriato da ciò che vedeva, non si accorse che Eleonora d'Arborea, scesa dopo di lui, gli era giunta inavvertita alle spalle. La voce della dama gli provocò un sobbalzo. «Eccovi, finalmente, magister! Ci eravamo dati appuntamento ieri, ma non siete venuto. Avevate senz'altro impegni più gravosi, e vi perdono». Eymerich si girò incollerito. Strinse le braccia sul petto. «Madonna, non cercate di burlarvi di me. Siete voi che avete mancato all'impegno. Eravate intenta a discutere con Giovanni Chiaromonte nella Sala delle Armi». «Una conversazione durata mezz'ora appena. Sospetto che mi abbiate cercata un po' tardi». Era vero, e l'inquisitore cambiò argomento. «Noto che la ferita sulla vostra guancia si è rimarginata. Ne sono contento per voi». Eleonora toccò con delicatezza la piccola cicatrice a forma di stella rimasta impressa sul suo zigomo. «È vero, magister... Me ne ero quasi dimenticata. Voi cosa avete fatto mentre quei dischi orribili apparivano nel cielo? Non immaginate quanta gente è rimasta ustionata, anche gravemente, dal fuoco che emanavano!»
«Ho fatto come tutti» rispose Eymerich, che non voleva rivelare le sue azioni. «Mi sono riparato al coperto». «Per breve tempo siete rimasto esposto, non è vero? Lo si nota dal colorito della vostra pelle. Fino al collo ha le tonalità del mattone appena cotto. Dopo ridiventa candida. Fin troppo». L'inquisitore portò le dita al viso e lo palpeggiò. Non avvertì né calore né bruciore. Non si era guardato con attenzione nell'unico specchio disponibile, quello in camera sua. Ma la dama non aveva ragione di mentirgli. La breve esposizione ai raggi emanati dai dischi volanti poteva avergli scurito la carnagione nelle zone investite. Era un problema del tutto trascurabile. «Ditemi voi, madonna, purché non sia un segreto: di cosa avete parlato con il conte di Modica? Avete trovato un accordo politico?» «Per voi non è un segreto, visto che vi si vuole coinvolgere quale mediatore». Eleonora si produsse in uno dei suoi soliti, ammalianti sorrisi, capaci di far risplendere tratti non seducenti. Sedette con spigliatezza su un gradino e strinse tra le braccia le ginocchia, coperte dalla gonna di velluto nero. «I baroni che stanno per incontrarsi qui sono già d'accordo. Anche i Ventimiglia, i rivali più diretti, con gli Alagona, dei Chiaromonte. Una pace con gli Angiò si impone, a patto di dare un contentino a Federico il Semplice... tipo riconoscerlo quale re di Sicilia pro forma. Del resto lo è già, mezzo re e mezzo prigioniero». «Non vedo come ciò possa beneficiare la Sardegna, che con gli Angiò non ha alcun contenzioso». «Il beneficio è indiretto. La pacificazione del Mediterraneo e il riconoscimento di un ramo secondario della Casa d'Aragona quale sovrano in Sicilia potrebbe calmare Pietro IV. È da tempo alla ricerca di una soluzione che gli consenta di ritirarsi con dignità dalla lotta, costosa e inutile, contro il giudicato d'Arborea». Eymerich valutò la giovane donna. Non lo conquistavano affatto la sua spregiudicatezza e le sue smancerie quasi adolescenziali. Sessualmente, poi, non gli ispirava nulla, per fortuna. Movenze graziose non celavano il fatto che era bruttina, con quelle sopracciglia troppo folte e un'ombra di peluria sul labbro superiore. Il problema che si poneva era diverso. Si trattava realmente di Eleonora d'Arborea, la figlia del potente giudice Mariano? Perché tanti indizi, a partire dalla cicatrice che aveva sullo zigomo, la collegavano alle tre donne apparse in casa sua, alla statuetta ritrovata in un sepolcro che si era tramutato in una stanza, a una bambola rotta quando era bambino? La lucidità politica dimostrata da Eleonora - nome che gli rammentava una Leonor conosciuta in passato - lo rassicurava solo in parte. Decise di congedarsi. «Mi auguro che i vostri fini siano conseguiti, madonna. Scendo in paese, approfittando del fatto che il caldo non è ancora eccessivo. Voglio trovare quel matto del parroco e parlare con lui». «Vi accompagno, magister!»
Eymerich aveva già girato le spalle alla dama e ne vide l'immagine offuscata riflessa nell'acciaio di una delle tante porticine. Ebbe la netta sensazione che Eleonora muovesse, sotto la gonna, non due gambe, ma otto. I movimenti erano quelli di un ragno imbarazzato da un busto troppo pesante. Si girò, fulmineo. Era tutto normale. La donna si stava rassettando i velluti. Il portale non rifletteva che i raggi brucianti e scarlatti di un sole ancora basso sull'orizzonte. «Preferisco andare solo» disse con timbro autoritario. «Non ho nulla da fare in questo castello. Voi invece, madonna, credo di sì». «E una nebbia così fitta non vi ostacolerà? Non vi sarà facile tenere il cammino giusto». Eymerich guardò il panorama oltre le mura. La vista giungeva quasi al mare meridionale, oltre catene di monti e colline. «Di quale nebbia parlate, madonna? L'aria è limpidissima». «Che dite? Ci si vede appena. Ma, se volete sfidare la bruma, posso solo augurarvi buona fortuna. Tenetevi al centro del sentiero e scavalcate i rivoli d'acqua che lo attraversano di tanto in tanto. Sono tutti guadabili, a cavallo». «Intendo scendere a piedi». «Ah, sì? Le mie raccomandazioni valgono ugualmente, finché la caligine non si sarà alzata. Buon viaggio, magister!» Eymerich si mise in cammino turbato, ma solo fino a un certo punto. Ormai sapeva che Ramón de Tàrrega lo aveva trascinato in una realtà stravolta e cangiante, in cui non tutti vedevano le stesse cose. E, anche quando la visione era comune, non era detto che l'osservabile esistesse davvero, che le creature umane fossero separabili dai fantasmi, che un sogno cessasse al momento del risveglio. Oppure che il reale non fosse a sua volta sogno. Ammirò in cuor suo Ramón. Vivo o morto che fosse, era riuscito a mascherarsi rendendo indecifrabile il contesto. Si trattava di capire se manovrava l'ibbur secondo una regola, e se questa poteva essere decifrata. Tuttavia Eymerich non avvertiva né paure, né incertezze. Tra le forze oscure messe in campo, alcune gli erano manifestamente favorevoli e stavano cercando di aiutarlo. Le tre donne, per esempio... Il cammino verso Manfridia non fu troppo faticoso. Si trattava di scendere, non di salire. La nebbia esisteva solo nella mente di Eleonora d'Arborea. Al contrario, il cielo era trasparente, e ogni dettaglio del paesaggio spiccava con nitidezza. Si era prossimi allo scoccare dell'ora terza, e la tonalità dominante, con il sole ancora basso e grande, rimaneva purpurea. Gravava il caldo non umido caro all'inquisitore, alleggerito da occasionali soffi di venticello fresco. Si sentiva padrone delle proprie forze e ben saldo sulle gambe. I polmoni traevano beneficio dall'aria pura e dagli aromi dei campi di pelargonio che fiancheggiavano ogni tanto il sentiero, vincendo le coltri di sabbia bruciata. Colse i tre rintocchi dal campanile di San Giorgio mentre vi arrivava. Il portale era spalancato e vi entrò. La chiesa romanica era piccola, fresca, disadorna e deserta. Nessun
lume indicava la presenza del Santissimo sull'altare. Eymerich sostò a braccia conserte accanto all'acquasantiera. Non dovette aspettare a lungo. Don Diego Garofalo apparve poco dopo, madido di sudore. Chiaramente svolgeva anche le funzioni di campanaro. «Che Dio sia con voi, don Diego!» esclamò Eymerich, con tutta la cordialità che gli riuscì di esprimere. «Vi vedo in ottima salute!» Il curato si piegò in due tenendosi il petto, come se fosse vittima di un attacco cardiaco. Si raddrizzò a fatica e strabuzzò gli occhi, già sporgenti e folli. «Voi?» Sputò un grumo di catarro. «Che cosa fate qua?» «Strana domanda, don Diego. Cosa fa un prete in una chiesa? Se non è venuto per pregare, forse desidera rendere visita a un confratello». Il parroco portò le mani al cranio calvo e si tormentò le orecchie, poi ricongiunse le dita in grembo. Era ancora più pallido del solito, salvo le zone in cui la pelle era chiazzata e irritata. Segno di qualche malattia degenerativa dell'epidermide. «Mi hanno riferito che Simone dal Pozzo sarebbe morto» bofonchiò nel suo catalano perfetto. «È vero?» «Sì» rispose Eymerich, poi precisò: «Se non altro sembrava morto. Nel suo suicidio non tutto è così certo». «Non è morto per nulla, credete a me». Don Diego indicò la porta squadrata che dava accesso alla canonica. «Mi stanno preparando della zuppa di cipolle. Vorreste gradire?» «Ho fatto da poco colazione, ma non dico di no. L'odore che sento è invitante». «Allora seguitemi. Parleremo con comodo». La canonica era fatta di ambienti stretti, bassi e poco confortevoli. La cucina invece era ampia e aveva un bel soffitto a cassettoni. Sulle pentole posate sul lungo ripiano in pietra, alimentato dal fuoco acceso sotto, erano curve due donne,una anziana e una giovane. All'ingresso degli uomini, furono svelte ad alzare il velo nero e a nascondervi il naso. Eymerich ebbe il tempo di cogliere qualcosa dei loro lineamenti. La sua considerazione per don Diego aumentò leggermente. In un'epoca in cui, notoriamente, le domestiche dei curati erano anche le loro amanti, Diego Garofalo sfuggiva a quel sospetto. Sia l'anziana sia la giovane avevano tutto l'interesse a velarsi. Gli rimase infatti nella memoria la vista di bocche ritorte e di dentature irregolari, giallastre e incomplete. Sedette con il curato a un tavolo che sapeva ancora delle cipolle che vi erano state affettate sopra. Don Diego spalancò gli occhi enormi e fissi, quasi privi di sopracciglia. «Dicono che padre Simone si è impiccato in una segreta del castello». «Sì, è vero». «Eravate stato laggiù? Avevate scoperto chi nutrivano di latte, in assenza di prigionieri?»
Eymerich scelse la via di una cautela estrema. «Qualche conclusione l'ho raggiunta, ma aspetto da voi ragguagli più dettagliati. Quelli che non mi avete dato allorché siete corso via come un demente, lasciando a metà le vostre rivelazioni». Don Diego si agitò come se sedesse su una panca irta di chiodi. «Ragguagli, ragguagli... Si fa presto a dire ragguagli! Per poi essere accusati di follia! È da sempre che dicono che sono matto!» «Vediamo. Ditemi qualcosa e io giudicherò, nei limiti delle mie possibilità». «Padre Simone sapeva cose che si guardava bene dal rimproverare ai... Ma no, non devo cominciare così, non credete?» «E io che ne so?» chiese Eymerich, sbalordito. «Avete ragione anche voi. Ecco il giusto inizio. Quando fu avviata la costruzione del castello, le celle non avevano pavimento. Racchiudevano delle vasche. Per contenere cosa? Adesso so già che esclamerete: costui ha perso la ragione! Eppure ve lo dico lo stesso, a mio rischio». Don Diego si fece il segno della croce, per invocare Dio a testimone della verità di ciò che avrebbe svelato o per chiedere la Sua protezione. «Sapete cosa il buon Giovanni Chiaromonte, conte di Modica e di quant'altro, voleva mettere in acqua?» «Dei coccodrilli, immagino» rispose Eymerich con tranquillità. Don Diego quasi cadde dalla panca. Gesticolò a vuoto per tenersi in equilibrio. «Ve lo ha detto Simone dal Pozzo?» «No. Sono arrivato a questa conclusione dopo una mia indagine». «Allora è vero che siete il genio che dicono!» Il curato passò dalla meraviglia all'ammirazione più smodata. Giunse le mani, come se l'inquisitore fosse un santo degno di adorazione. «Vedevo transitare per Manfridia gruppi di soldati che trasportavano ceste lunghissime, strette con catene, dentro alle quali si muovevano creature singolari. Allora nemmeno sapevo cosa fosse un coccodrillo. La prima volta che un mercenario me ne fece vedere uno rischiai di svenire». «Non stento a crederlo» commentò Eymerich. «Adesso, però, i coccodrilli non ci sono più, e neanche le vasche. A chi è destinato il latte portato nelle prigioni?» «A un'altra bestia ancora più orribile. Questa volta sì che mi crederete impazzito. Si tratta di un animale che non dovrebbe neppure esistere, capace di rotolarsi nella sabbia come se fosse acqua. Qualcosa che... No, è meglio che non ve lo descriva». Eymerich tamburellò con le dita sul tavolo. «È per caso un enorme serpente che sembra volersi mangiare la coda? E che emana un odore disgustoso?»
Il sobbalzo di don Diego fu così violento che stavolta cadde sul serio. Si rialzò aggrappandosi al tavolo, a rischio di rovesciarlo. Emerse con sforzo. «Ma voi, se non siete profeta, siete il diav..». Si interruppe appena in tempo. Imbarazzato per l'errore capitale che stava per commettere, si rimise a sedere. «Nessuno ha visto il serpente, e i pochi che ne sono stati capaci sono morti... So del loro incubo da quelli che, prima di spirare, si sono confessati. Sì, è per tenere buono quel mostro che nelle galere si porta del latte, per ordine del conte Giovanni. Lui pensa che sia uno dei suoi rettili ragusani rimasto in libertà e cresciuto troppo. Ma basterebbe considerare l'odore...». Don Diego smise di parlare e annusò con forza. «Ebbene? Cosa succede?» domandò Eymerich. «Odore di cipolle bruciate!» Il curato investì le addette ai fornelli. «Che avete fatto, sceme? Ci avete bruciato la zuppa?» Le due donne velate dovevano capire qualche parola di catalano, perché avevano abbandonato le pentole sul fuoco e, da minuti, ascoltavano il dialogo. Non si erano accorte di quando le marmitte avevano iniziato a sfrigolare e a sprigionare fumo. «Disgraziati!» urlò Don Diego. «Vi campu picchi aviti a cucinari, accussì m'u trattati, un ospiti 'mpurtanti!» Eymerich batté il palmo sul tavolo. «Basta!» Puntò l'indice contro il curato. Era furibondo. «Sedetevi e mettetevi tranquillo, una buona volta! Sono stanco di vedervi saltellare come un fantoccio. Delle vostre cipolle non mi importa nulla. Fatene una collana e inseritela dove potrebbero avere l'efficacia di una purga. Anche se la vostra mente vacilla, dovreste capire che state rischiando la vita!» «La vita? Perché la vita?» Le unghie lunghe e irregolari di don Diego scricchiolarono sull'orlo del tavolo. «Morto o sparito che sia Simone dal Pozzo, in Sicilia la carica di inquisitore generale è vacante» enunciò Eymerich, con freddezza. «Io sono l'unico in grado di rilevarla, in nome degli aragonesi di Catalogna. Voi, prete menzognero, vi siete votato all'eresia. Tacete fatti noti e ne rivelate altri accertati. Un attimo fa stavate per addossarmi la più infame delle accuse. Non l'ho sottolineata, però l'ho colta. Sapete dove vi troverete, prima che sia sera?» «Non ditelo!» urlò don Diego, tremando tutto. «Sarete in cima a una catasta di fascine, legato a un palo. Al centro di Manfridia, o forse in un cortile del castello. Le prime ustioni cominceranno dai piedi e si estenderanno gradualmente al corpo intero. Non esiste morte più dolorosa». «No! No!» Il parroco ora piangeva. Batté il cranio sul tavolo, finché non si macchiò di sangue.
«Ci sono cose che mi avete taciuto» replicò Eymerich, gelido. «Dirmele potrebbe salvarvi o attenuare la pena. Pensate a qualche vostra reticenza. Meditatevi sopra e ditemi la verità». Don Diego si contorse ancora un poco, infine alzò i suoi occhi dilatati e febbricitanti. «Le donne sono quattro» mugolò. «Quali donne?» «Le Tre Donne. Ce n'è una quarta. Osservate meglio la statuetta».
35.Arrivano i baroni Eymerich era sul punto di lasciar tracimare la propria esasperazione. «Basta!» gridò. «Cosa ne sapete voi della statuetta? Chi ve ne ha parlato?» Don Diego Garofalo giunse le dita scheletriche. Parlò con voce così bassa che, per udirla, era necessario prestare un'attenzione estrema. « Manfridia non è Palermo. Qui le cose si vengono a conoscere. Nel cimitero sulla montagna avete trovato una statuetta spezzata, raffigurante due donne. Credevate che mancasse una terza donna, invece ne mancano due. Due più due fa quattro». Eymerich si alzò e rovesciò la panca. Posò i pugni sul tavolo e sporse il busto, minaccioso quanto una garguglia contro un cielo in tempesta. «Come potete essere al corrente di quello che credevo o non credevo?» Il mormorio di don Diego diventò borborigmo spezzato, sconclusionato, sempre meno intelligibile. «Nel predisporre un mondo, ha previsto anche i pensieri. Miei, vostri, di tutti». «Alludete a Dio? Badate, state bestemmiando! A Saragozza o a Barcellona i bestemmiatori li faccio sfilare con la lingua inchiodata a un travicello! Badate, potrebbe diventare anche un costume siciliano!» «Ma no». La voce di don Diego tornò chiara e ben udibile. «Non parlavo di Dio. Mi riferivo a Ramón de Tàrrega, il vostro confratello». Eymerich perse ogni aggressività, tale fu lo stupore. Non aveva più una panca su cui sedersi e si issò quindi sul tavolo, a riprendere respiro. «Dunque voi lo conoscete! Sapete dove si nasconde!» «Dove si nasconde?»
La domanda fu accolta dal parroco con un'ilarità smodata. Si portò le mani alla bocca per celare il riso inconsulto che si era impadronito di lui. Gli occhi gli lacrimarono, tanto era il divertimento. Quando riuscì a parlare, disse, in una specie di singhiozzo: «Non si nasconde per nulla. Ora è l'uno, ora è l'altro. Ha un suo progetto. Il solo corpo che ha rispettato, fino a questo momento, è quello di vostro figlio». «Di mio figlio? Che state dicendo?» La donna più anziana si staccò dai fornelli, su cui finivano di calcificarsi le cipolle, e toccò la tempia con l'indice destro. «Non fategli caso, padre» disse a Eymerich in buon catalano. «Don Diego, come avrete capito, soffre da anni di demenza. Parla a caso». «Non sempre, però». «Quasi sempre. Ora sta per svenire. Tra un istante lo vedrete». Una schiuma leggera si affacciò sulle labbra del curato. Urlò gorgogliando, gli occhi all'infuori: «Le cipolle! Servite le cipolle!». Subito dopo crollò a terra, come morto. Eymerich scese dal tavolo, allarmato. «Cosa gli è successo? Una sincope?» «No» rispose la donna. «È svenuto, ve l'ho detto. Lasciatelo dov'è. Tra breve si sveglierà da solo». L'inquisitore non sapeva bene come reagire e cosa fare. Fu distratto dalla sua incertezza da un fragore crescente che proveniva dalla strada: battere di zoccoli, squilli di tromba, fragore di ferraglia. Lasciò la cucina, attraversò canonica e navata e uscì dal portale della chiesa. In tempo per veder giungere, dal fondo della strada, un folto corteo. Lo precedeva una torma di bambini del luogo, scalzi e vivacissimi, che camminavano davanti a un portabandiera, coperto di sudore per via della casacca pesante, il quale reggeva un gonfalone diviso in due campi, rosso e oro. Gli stessi colori portati sul mantello da alcuni uomini a cavallo, con berretto largo e piume dai colori sgargianti. Erano scortati da una quindicina di fanti e da altrettanti cavalieri, tutti con l'elmo sul capo e con le lance in pugno, quasi andassero in battaglia. Avevano barbe incolte, in qualche caso rossicce. Per taglia fisica e carnagione, sembravano appartenere a nazionalità disparate. La donna velata aveva raggiunto Eymerich sui gradini di San Giorgio. «I Ventimiglia» gli bisbigliò. «Alleati dei Chiaromonte, se non sbaglio».
«No. Lo erano ma non lo sono più. Giovanni Chiaromonte andò a nozze con una Ventimiglia per stipulare la pace, ma la sposa non gli diede figli. Lui la ripudiò, pur tenendola presso di sé. Da quel momento, le due famiglie hanno ripreso a farsi la guerra». «Quanto sono potenti i Ventimiglia?» «Quasi come i Chiaromonte. Possiedono la contea di Geraci, che è molto grande. Hanno conquistato armi alla mano larga parte della Sicilia settentrionale. Dicono che si sono dimostrati feroci come belve nel sottomettere una città dopo l'altra: quasi peggio dei francesi. Adesso sono immensamente ricchi, a forza di ruberie». Eymerich considerò con curiosità la serva del parroco – a meno che la vera domestica non fosse la giovane, cosa di cui dubitava –, capace di esprimersi così bene in catalano e di informarlo con precisione sulle controversie signorili. Non era un gran mistero, comunque. Forse don Diego, prima di impazzire, era stato un curato dotto e al corrente dei contrasti tra baroni. Si accorse che uno dei Ventimiglia lo salutava, e rispose con un inchino. Doveva averlo scambiato per il titolare della parrocchia. Diversi mercenari si segnarono. Eymerich impartì loro una poco convinta benedizione. Il corteo era seguito da alcune decine di contadini, scalzi quanto i monelli che camminavano all'avanguardia. Marciavano al passo, salvo rompere le file e scherzare tra loro. Il calore abbacinante non sembrava disturbarli. Si passavano una fiasca chiusa da un involucro di vimini, da cui sorbivano ampie sorsate. Quando la via fu libera, Eymerich domandò alla domestica: «Don Garofalo possiede una cavalcatura?». «Un carretto tirato da un ronzino. Al momento non è nella stalla, ma dietro l'abside. Don Diego contava di usarlo nel pomeriggio. Forse intendeva salire al castello». «Avete nulla da obiettare se lo uso io?» «No, e credo che il suo padrone stia rinvenendo solo ora. Di solito i collassi di cui soffre durano una decina di minuti. Per riprendersi del tutto gli occorre altro tempo». «Accompagnatemi al carro, dunque». «Sì. Ma forse è meglio lasciare passare la nuova armata che sta arrivando». La donna indicò una nuvola di polvere a fianco della collina più prossima a Manfridia. Nel breve volgere di qualche minuto, sul fondo della via apparve un gonfalone rosso e oro come quello dei Ventimiglia, ma recante al centro un leone nero rampante. «I Lanza!» sussurrò la domestica. Una schiera di tamburini scandiva il passo, accompagnati da flauti e ottoni. La masnada che sopraggiungeva non era troppo diversa da quella che l'aveva preceduta: gentiluomini a cavallo, chiusi nelle corazze arroventate, e una trentina di soldati appiedati. Nessuno del
volgo, che inseguiva i Ventimiglia, li ricevette. La schiera passò rapida, diretta alla salita per Mussomeli. Non vi furono atti di rispetto verso la chiesa. La schiera diede l'impressione di non notarla. «Quanto sono potenti questi Lanza?» chiese Eymerich. «Molto, non vi saprei dire con precisione quanto. Hanno terre da qualche parte. Vaste estensioni». «Amici o nemici dei Chiaromonte? Catalani o Latini?» «Non lo so e penso che non lo sappiano nemmeno loro. In quest'isola passare da un partito all'altro è evento quotidiano». Eymerich sospirò. «Va bene. Accompagnatemi al carretto». Poco più tardi l'inquisitore cercava di convincere un cavallo magro e spelacchiato, roso da chissà quante malattie, a salire la strada che portava al castello di Mussomeli, mentre il piccolo barroccio su cui lui era accoccolato rischiava di continuo di sbandare. Eymerich usava la frusta senza parsimonia, ma non c'era verso di domare il ronzino. Sembrava pazzo quanto il suo padrone, e solo un oscuro istinto di sopravvivenza pareva mantenerlo in carreggiata. Sempre in extremis, e sempre sull'orlo di un dirupo. Impossibilitato a maneggiare il veicolo, Eymerich non seppe che fare quando udì gridare alle sue spalle: «Largo! Largo al conte Blasco Alagona!». Per fortuna il cavallo scartò per conto suo, forse attirato da un piccolo prato erboso. In una nube di polvere, sfrecciò al galoppo una folta schiera di guerrieri. L'inquisitore non ebbe modo di vedere chi la guidava, né di osservare gli stemmi sui gonfaloni. Di certo era il gruppo più marziale incrociato fino a quel momento. Le lance dei Ventimiglia e dei Lanza facevano, al confronto di quegli uomini completamente coperti dalle corazze e con le cavalcature rivestite di gualdrappe rutilanti, la figura di patetici imitatori. Quando la polvere si fu depositata, Eymerich scese dal carretto. La vetta era ormai vicina e raggiungibile a piedi. Il ronzino brucava placidamente l'erbetta. Lo sciolse dal barroccio e lo condusse sull'orlo dello strapiombo, mentre gli carezzava la criniera. «Bravo, bravo, hai fatto il tuo dovere» gli bisbigliò, come se l'animale potesse intenderlo. «Non mi servi più. È ora che tu pascoli in campi più ricchi di questi». Cercò un ramo nodoso, fra i tanti sparsi a terra, e percosse ferocemente le terga del cavallo, che si impennò sulle zampe posteriori, come previsto. Eymerich lo spinse. Il cavallo precipitò nel burrone sottostante. Eymerich ne seguì i rimbalzi sulle rocce, all'inizio accompagnati da nitriti disperati e da un frullar di zoccoli nel vuoto. Attese il silenzio assoluto, poi disse a se stesso, a voce alta: «Il padrone di quell'albergo per pulci dovrebbe essermi grato. L'ho liberato dall'inutilità fatta cavallo».
Salì a piedi verso il castello. Malgrado il caldo, si sentiva in forze, con i calzari che aderivano appieno al terreno irregolare, e le gambe ben salde. Sebbene il sole fosse a metà della sua parabola verso il mezzogiorno, e si fosse ristretto di diametro, la tonalità permanente rimaneva il rossastro. Forse era per via della polvere di mattone sparsa ovunque, o dei papaveri che, disseminati lungo la salita e nella valle, allargavano i petali. Eymerich trovò sull'ingresso della fortezza, quasi lo attendesse, Nissim Ficira. Il giovane gli disse: «Padre, stanno arrivando al castello i baroni convocati. Sono già saliti quassù i Ventimiglia, i Lanza e gli Alagona». «Lo so. Mi sono imbattuto nei loro cortei». «Hanno tanti soldati al seguito che non so dove li alloggeranno». «Problema dei Chiaromonte, non mio. Non me ne importa nulla». Eymerich fissò Nissim. «Tu quanti anni hai, amico mio?» «Venticinque, ventisei. Se uno non è stato battezzato, la data di nascita non è registrata in nessun archivio». «I rabbini non tengono registri?» «Se lo fanno, li custodiscono con cura, lontano dagli occhi dei "gentili"... Ah, ecco che arrivano altri baroni!» Nuove schiere armate stavano salendo il picco. Nessuna di esse competeva con la possanza esibita dagli Alagona. Nissim interpretava gli stemmi e snocciolava i nomi dei convenuti. «Ci sono anche i Palizzi... Un tempo erano i padroni della Sicilia, ma oggi sono di fatto vassalli dei Chiaromonte... Quanto ai Moncada, non so come abbiano fatto a riunire dieci soldati. Terre ne hanno, ma fin dai tempi della Morte Nera sono rimaste quasi disabitate. Non le coltiva nessuno». Eymerich non era interessato a quell'elencazione, ma piuttosto alla cerimonia dell'accoglienza, identica per ogni barone. All'ingresso, servi e palafrenieri prendevano in custodia i cavalli e li conducevano alle scuderie. Altri servi accompagnavano i militari ai loro alloggiamenti. I signori salivano le scale verso la cinta superiore, da cui provenivano musiche e schiamazzi. La scena in alto, dalla posizione in cui si trovava l'inquisitore, non si riusciva a cogliere per intero. Vide delle fanciulle porgere ai nuovi venuti cestini colmi di frutta. Immaginò che i Chiaromonte stessero all'ingresso del mastio a fare gli onori di casa. Tra abbracci, non c'era dubbio, sebbene tutti i baroni si odiassero tra loro e fossero amici, quando lo erano, solo per convenienza. «Suppongo che seguirà, all'ora sesta, il solito pranzo luculliano». «Credo di sì, padre». Nissim sorrise. «Non ne voglio sapere. Mi troverai tu qualcosa per sfamarmi».
Il giovane fece un inchino. «Pronto a servirvi, padre. Per quanto, a essere franco, io trovi difficile che possiate sottrarvi ai vostri compiti... istituzionali. I Chiaromonte vi hanno designato come mediatore». «Un conto è un banchetto, un conto è una riunione». «Non in Sicilia. Qui spesso i due eventi coincidono, e gli accordi si stringono a tavola». «Farò uno strappo alle usanze insulari. Non voglio riempirmi il ventre di dolciumi, intontirmi di vino e poi discutere con gentiluomini che somigliano a briganti, interessati alla politica nella misura in cui li favorisce». Nissim sorrise e allargò le braccia. «Da queste parti non troverete di meglio, in fatto di classe dominante». «Ebbene, si scordino di me. Io...». Eymerich, pronto a lanciarsi in una perorazione, ammutolì. Ciò che stava per dire gli si seccò in gola. Quando recuperò un poco di saliva, additò la sommità degli spalti e la scala di pietra che conduceva lassù. Unico lembo visibile del piano superiore. «Chi vedi salire in fretta i gradini?» chiese a Nissim, appena fu in grado di parlare. «Chi è quel domenicano che si alza la tonaca per avere i piedi sciolti?» Il giovane spalancò gli occhi. «Sembra... È... Non posso crederci!» «Dimmi il nome» gridò Eymerich. «Devo sapere se stiamo vedendo la stessa cosa!» Nissim si decise. «È impossibile, eppure... Quel frate somiglia molto a Simone dal Pozzo. Vivo e vegeto, come se non si fosse mai suicidato». Eymerich afferrò il servo per il polso, senza prestare attenzione al proprio tumulto interiore. «Andiamo! Non è distante! Acciufferemo il fantasma e gli estorceremo la verità!» Non aveva però fatto i conti con i festeggiamenti nel cortile principale. Appena vi mise piede, fu circondato da una frotta di ragazze che gli offrivano agrumi e calici di vino ghiacciato. Tamburini e flautisti suonavano, gli sbandieratori facevano volteggiare le insegne dei vari casati. I mercenari giunti per primi sostavano all'ombra delle mura e sorbivano fiumi di vinello, da caraffe distribuite con dovizia. Mangiavano frutti di mare e piccoli pesci fritti, serviti entro coni di foglie unte. Di tanto in tanto esplodevano in rutti clamorosi. Eymerich, con Nissim dietro, si destreggiò tra la ressa, sdegnando bevande e dolciumi. Ignorò Manfredi Chiaromonte, che lo stava segnando a dito agli altri baroni. Salì quasi di corsa la scala per i bastioni: la fiacca dei giorni precedenti era svanita, i piedi gli volavano. Giunto ai merli, si accorse che Nissim non aveva potuto seguirlo. Cercò di localizzarlo, ma l'alone giallo-scarlatto che rendeva torridi gli spalti gli impedì una vista chiara. Scorse però il presunto padre Simone aggirare la cappella, come intenzionato a salire sulla roccia non ancora dirozzata che l'avvolgeva.
Fece per lanciarsi all'inseguimento, ma una figura femminile comparve sul suo cammino, a braccia larghe. L'inquisitore riconobbe facilmente la donna di centro, fra le tre delle sue allucinazioni più recenti. Era tuttavia vestita, stavolta, e aveva apparenza più concreta. Solo i suoi contorni sfumavano nella luce. Mozziconi d'ala spuntavano dalle sue spalle. La voce che la donna emise, grave e affettuosa, non proveniva da una fonte precisa. Certo non dalle labbra di lei, che pure si muovevano. «Fermati, Nicolas. È un tranello. Lassù, dove cammina il corpo animato da Ramón, il terreno è franoso. Precipiteresti». Interdetto, ma non spaventato, Eymerich domandò: «Myriam... Lilith... in che mondo mi trovo?». «Nel mondo che ti è noto. Quella che è cambiata è la tua percezione interiore. Ti stai modificando. Dall'alfa all'omega, e poi di nuovo all'alfa». Eymerich era confuso, ma continuava a non sentirsi turbato. Decise che non bastava uno spettro a impedirgli di continuare l'inseguimento. Poteva essere l'ennesimo trucco di chi teneva in vita il simulacro di Simone dal Pozzo. Quando si gettò contro l'effigie sfumata, per riprendere la salita, la donna scomparve. Non così la sua voce. «Nicolas, lasciati guidare da me. Anzi, da noi. Lo devi non solo a te stesso, ma anche a nostro figlio. Mio e tuo». Eymerich si arrestò di nuovo. «Quale figlio?» chiese rauco. Non vi fu nessuna risposta. Invece Nissim emerse in cima alla scala, affannato. «Scusate il ritardo, padre. Tutti mi fermavano per chiedermi di voi... Ma dov'è il frate?» Eymerich guardò in alto, sulla roccia viva che faceva da collare alla cappella. «Non c'è più. Ma lascia perdere, non è il mio maggiore problema. Di morti che camminano è piena questa vicenda». «Forse è il caso che andiamo a vedere». L'inquisitore fece un cenno di diniego. «No, potrebbe essere pericoloso. La rupe è friabile. Uniamoci alla festa. Ho voglia di una coppa di vino fresco. Come si direbbe in siciliano?» «Mi vivissi nu bucaleddu di vinu beddu friscu». «Ecco, proprio questo è il concetto» rispose Eymerich, con uno dei suoi rarissimi sorrisi.
36.Un'infanzia difficile - 4 Un giorno accadde ciò che Nicolas più temeva. Sua madre Llum scese nello scantinato, preceduta da frate Mateu e seguita da un domestico. Il bambino, seduto al tavolo, stava giocando come sempre con la sua bambola preferita. Di solito la faceva dialogare con altri fantocci di minori dimensioni sui temi più vari, specialmente a sfondo religioso: la faceva guidare piccole processioni o, da quando aveva assistito al processo di Ramón de Tàrrega, la metteva a presiedere corti immaginarie per giudicare qualche insetto penetrato nel locale, regolarmente condannato a morte. La bambola, di fattura rozza anche se di dimensioni cospicue, non aveva un nome. Possedeva grandi occhi dipinti sulla terracotta e indossava una veste di tela grezza che le scendeva fino ai piedi. Nicolas non si era mai preoccupato del suo sesso: fosse maschio o femmina, si identificava in lei ed era attraverso la sua bocca muta che lui parlava, nelle finzioni drammatiche che inscenava. «Che vi dicevo, donna Llum?» chiese frate Mateu, al momento dell'irruzione. «Gioca con le bambole, come se fosse una femmina!» «Non posso crederci!» Llum Marrell si fece avanti, indignata. Fissò il figlio. «È possibile, Nicolas, che ci sia sempre un motivo che mi costringe a vergognarmi di te?» Dopo il soprassalto iniziale, il piccolo si alzò. Non sapeva cosa stesse accadendo, ma certo doveva avere commesso qualcosa di molto grave. Fu consapevole di una cosa soprattutto: il suo minuscolo mondo – che poi era tutto il suo mondo – era in pericolo. Cercò di salvare il salvabile e, ingenuamente, nascose la bambola dietro la schiena. Peccato che sua madre puntasse proprio a quella. «Dammela subito!» gli intimò. «Che cosa?» balbettò Nicolas, cercando di prendere tempo. «Quella cosa ripugnante che hai in mano! Pensa se tuo padre fosse ancora vivo! Cosa penserebbe di un figlio che si diletta nei giochi delle femminucce?» Allungò il palmo aperto. «Dammela. Non farmi perdere la pazienza». Nicolas capì che era inutile opporre resistenza. Con ritrosia, porse la bambola. Sua madre la afferrò con repulsione, senza nemmeno guardarla. Nei frattempo frate Mateu esaminava gli altri fantocci. «Statuette di cera, figurine modellate con l'argilla. Il necessario per perdere tempo e trascurare gli studi seri». Con un gesto che tradiva la soddisfazione, il benedettino spazzò il tavolo e le mandò a infrangersi al suolo. «La colpa più grave sta in questo fantoccio osceno». Llum brandì la bambola che aveva conquistato. «Se un maschio usa giocattoli femminili, le sue propensioni rischiano di essere ambigue. Ciò non è lecito a un futuro religioso, destinato a perpetuare la devozione dei Marrell, e in fondo anche degli Eymerich».
La donna scagliò la bambola contro la parete. Si udì il rumore della terracotta che si infrangeva. Immediatamente dopo afferrò il bambino per il colletto. «Nicolas, me ne hai fatte di tutti i colori, e finora ho sopportato. Ho accettato i tuoi silenzi, le tue fughe inspiegabili, le brutte figure che mi hai fatto fare in società. Sei ridicolo in ogni tua espressione: per come ti comporti, per come ti muovi. Mi trovo a trascinarmi dietro uno sgorbio grottesco, fonte di vergogna continua. Ma adesso basta, l'indulgenza è esaurita. Jordi?» «Dite, signora!» rispose il servitore, un uomo anziano e leggermente gobbo. «Hai portato con te il nerbo di bue?» «Sì, signora». Mostrò il corto staffile che aveva in pugno. «Appena me ne sarò andata, assesterai a questo peccatore in erba quindici colpi sulle natiche. È la prima volta che te lo chiedo: mettici tutta l'energia e non lasciarti impietosire. Nei prossimi giorni farai spostare la botte e chiudere quest'ala delle cantine, con un muro ben spesso». «Sarete esaudita». Nicolas si sforzava di non piangere. Non per la punizione imminente, ma per la sorte dei suoi miseri giochi. Aveva vissuto con loro così a lungo. Condiviso tante avventure. Rinunciare a loro era un dolore lancinante e, ai suoi occhi, la peggiore delle ingiustizie. Se fosse scoppiato in lacrime, ciò sarebbe equivalso a una resa. Frate Mateu intervenne, benigno. «Donna Llum, proporrei di ridurre le nerbate da quindici a dieci. Le credo sufficienti a ricondurre il piccolo sul giusto sentiero». Benché perplessa, lei acconsentì. «Come volete, fratello... Jordi, dieci nerbate, e il resto che vi ho detto... Ma perché Nicolas non piange? Piangeva fin troppo, quando era neonato». Il benedettino allargò le braccia. «È un bambino con disturbi mentali. Nulla di grave, lo si può ancora raddrizzare. Oggi è il primo passo». Frate Mateu e la dama lasciarono la cella. Il vecchio Jordi fece scoccare il nerbo di bue nell'aria. «Nicolas» disse «adesso alza la camicia e abbassa i pantaloni. Appoggiati coni gomiti al tavolo. Dieci colpi non sono molti. Impiegheremo poco tempo». Forse Nicolas avrebbe accettato la punizione se, per subirla, non fosse stato costretto a una posa umiliante. Vide rosso. Il coltello con cui aveva azzoppato un coetaneo era nascosto alla base del grosso barile che dominava la stanza. Fu rapido a sfuggire alla presa leggera di Jordi e ad afferrare l'arma. La puntò alla gola del domestico. «Lascia cadere lo staffile» gli intimò. «Nicolas, ma che ti prende?» gridò Jordi. Era basso di statura, e il bambino, malgrado l'età, quasi lo dominava. Il domestico obbedì. La lama tintinnò sul pavimento. Poi lui mormorò: «Ti pentirai di questo, signorino».
Nicolas sentì il sangue montargli alla testa. La violazione del suo nascondiglio e la perdita dei suoi giochi rischiavano di trovare sfogo in un gesto senza rimedio. Padre Dalmau aveva però educato il piccolo a essere padrone delle proprie azioni, anche nelle circostanze più difficili. Freddezza e lucidità consentivano di sventare ogni minaccia. «Non mi pentirò per niente» disse Nicolas. Parlò sillabando bene ogni parola. «Tu ora te ne andrai di qua, servo, e dirai a tutti che hai eseguito il tuo incarico. Se ti viene in mente di lasciarti sfuggire una parola di troppo, ricorda che tu, tua moglie e i tuoi figli vivete sotto il mio stesso tetto. Cosa potrebbe farmi mia madre? Picchiarmi, scacciarmi. Invece cosa potrei farti io? Te lo immagini, servo?» Jordi fissava il bambino che lo sfidava come se avesse di fronte il demonio in persona. «Oh, mio Dio! Salvami, questo è un invasato! Mio Signore, aiutami!» «Guarda che Dio è dalla mia parte» replicò Nicolas, beffardo. «Non di chi vuole fare del male a uno tanto più piccolo di lui. Ora raccogli il tuo strumento e vattene via, vecchio. Se racconterai l'accaduto, ti verrò a trovare mentre dormi, una di queste notti». Nicolas ritirò il coltello e indietreggiò di un passo. Non sapeva com'era in quel momento il suo viso, ma doveva avere un'espressione molto convincente. Il domestico raccolse lo staffile e corse via, bisbigliando preghiere convulse. Nicolas posò la sua arma sul piano del tavolo e si sentì invadere da una stanchezza infinita. Nessuna delle sue statuette cadute in terra era intatta. Alcune avevano perso la testa o qualche arto, altre – quelle modellate da lui con l'argilla – si erano letteralmente sbriciolate. Ricordò una narrazione in cui il piccolo Gesù formava un uccellino di fango e gli dava vita, facendolo volare. Lui non aveva una simile capacità. I suoi amici erano tutti morti, per sempre. Si sentiva vittima di un'ingiustizia di dimensioni cosmiche. Non osava nemmeno guardare nell'angolo in cui giaceva la sua bambola preferita. Finalmente si fece forza e la raccolse. Rimase stupito, perché era quasi intatta. Aveva solo una frattura a forma di stella nella guancia, nel punto in cui aveva urtato il muro. Il colpo aveva fatto cadere la vernice degli occhi, e adesso il suo sguardo era spento. Per la prima volta, dopo avere resistito tanto a lungo, Nicolas scoppiò in lacrime. Ma non doveva farlo, era peccato. Si asciugò le ciglia con atto quasi rabbioso, ricacciando indietro il magone. Occorse un po' di tempo, ma vi riuscì. Si concentrò sull'unico scopo che riusciva a vedere come degno. Dare sepoltura alla sua bambola. Immediatamente pensò al chiostro dei domenicani. Era l'unico luogo, a parte lo scantinato, che avvertiva come suo. C'erano già tante tombe, del resto... Nascose la bambola sotto la camicia, infilandola in parte nei calzoni, in modo che fosse difficile notarla. Il suo rifugio era perduto e lui non voleva lasciarlo in mani altrui. Con il coltello incise la parete della grande botte, nella commessura tra due doghe, finché non ne uscì un rivolo di vino rosso, molto odoroso. La fessura si sarebbe espansa con le ore, fino a rafforzare il getto. L'intera cella sarebbe stata allagata.
Risalì ai piani superiori. Non udì le voci né di sua madre né di frate Mateu. Alcuni domestici al lavoro lo guardarono distrattamente, senza dire nulla. Jordi pareva avere rispettato la consegna del silenzio. Nicolas non era così stupido da nascondere la bambola nella propria stanzetta, che veniva ripulita ogni giorno. Era quasi ora di cena e non poteva allontanarsi troppo da casa. Scese in strada e la celò in uno dei giardinetti che costeggiavano il fiume, bene attento a non farsi notare. Fu solo quattro giorni dopo che poté procedere alla cerimonia del seppellimento. Prese la bambola, ancora coperta dal cespuglio in cui l'aveva infilata, la liberò dalle foglie e la portò al convento dei domenicani. Faceva molto caldo, e tutto appariva deserto e silenzioso. Aveva notato un'aiuola di aspetto gradevole sotto una torre rotonda, ai margini del chiostro, che ospitava una cisterna. Secondo lui era il luogo ideale per la sepoltura. Cominciò a scavare. Era già a buon punto quando, da poco distante, una voce lo fece trasalire. «Ma guarda che bel bambino! Noi ci conosciamo già, mi sembra. Cosa stai facendo, piccolo?» Nicolas ne fu spaventatissimo. Il frate che avanzava verso di lui era Ramón de Tàrrega. Sorrideva, ma aveva una sembianza spettrale. All'altezza della cintura, la sua tonaca bianca era macchiata di sangue, certo per colpa del cilicio. Preso dal panico, Nicolas salì di corsa la precaria scala di legno che conduceva all'apertura della torre, parallela alle mura romane. Arrivato in alto, gettò la bambola nella porticina che dava accesso alla cisterna, poi fuggì a perdifiato lungo i camminamenti.
37.L'embrione Eymerich, sceso dalla cappella, si imbatté quasi subito nel ventre dilatato di Manfredi Chiaromonte. Il feudatario, ridente e forse mezzo ubriaco, fece per abbracciarlo. L'inquisitore si sottrasse. Manfredi non se la prese e scoppiò a ridere. «Magister, tra breve sarà servito il pranzo. Sarete l'invitato d'onore. Tutti quanti vogliono conoscervi». «Verrò al momento dei sorbetti e dei liquori finali» rispose freddo l'inquisitore. «Sarò in camera mia. Basterà chiamarmi. Voglio partecipare a confronti seri». «Ma si discute già durante il pranzo!»
«Lo so, ammiraglio. Io ho parlato di discussioni serie, non di quelle a cui assistono cani e porci mentre si ingozzano». Manfredi ebbe un moto di ribellione. «Comincio a non sopportare più il vostro costante disprezzo, magister. Benché poco convinto della sua colpevolezza, ho fatto tradurre padre Simone dal Pozzo nelle segrete, dove poi si è suicidato. Continuo a darvi retta, per rispetto della fama di cui godete e della veste che indossate. Ogni tanto mi dico che sto esagerando». «Ditevi ciò che preferite. Non ho un appetito tale da partecipare ad altri festini. All'ora giusta, sapete dove trovarmi». Eymerich girò le spalle all'aristocratico e si accinse ad attraversare il cortile, ancora affollato e rumoroso. Vide Nissim fermo a qualche passo e gli disse: «Fai ciò che ti ho detto. Trovami qualcosa da mettere sotto i denti e portalo nel mio alloggio. Senza fretta, c'è tutto il tempo». Il servo alzò gli occhi al cielo. «Avete visto lassù, padre?» Eymerich guardò a sua volta. In alto si incrociavano le strie bianche e curvilinee che ben conosceva. Sembravano fatte di fumo, eppure persistevano anche in prossimità del sole. Quest'ultimo, poi, benché già alto, manteneva una colorazione tendente al rosso, niente affatto naturale. «C'era da aspettarselo» commentò Eymerich. »L'occasione del raduno è troppo ghiotta. Ramón de Tàrrega sta per stupirci con una nuova apparizione di dischi colorati. Non escluderei che torni a far comparire i Lestrigoni, o chissà quali mostri, a beneficio del nuovo pubblico». «Mi sarà pur lecito divertirmi un poco. Non è vero, padre Nicolas?» Eymerich sobbalzò. Non si era accorto di avere al proprio fianco il precettore Avakum. O, quanto meno, il suo corpo. Lo sguardo era infatti differente e non aveva nulla di folle. La loquela era nitida e pacata. La postura non era più sghemba o grottesca, malgrado gli abiti ridicoli e l'assurdo nastro rosa che continuava a pendere dal cappello. Il viso grinzoso e irregolare si era ricomposto in una maschera seria, con un leggero velo di ironia. Eymerich riacquistò la grande calma dei momenti difficili. Ciò nonostante, il suo cuore batteva forte. »Finalmente vi manifestate, Ramón» ringhiò. «Vi siete deciso a rinunciare ai vostri trucchi di basso conio?» «Non ci penso affatto. Lasciano indifferente una persona del vostro stampo, però sconcertano la gente normale... Non vi sentite un po' spaventato?» «Neanche un poco. E voi?» «No, per niente». Avakum sorrise. «Mi avete ucciso già tante volte, padre Nicolas! Credo che iniziate a capire quanto sia inutile».
Eymerich si rilassò. Il cuore era tornato a pulsazioni normali. «So cosa sia l'ibbur. Devo dire che lo padroneggiate meglio di qualsiasi altro ebreo nella storia». Avakum fece una riverenza. «Mi pare un bel complimento. Adesso vi lascio solo. Avete ben altre gatte da pelare». «Perché questo colloquio, Ramón?» «Volevo dirvi che non sono io a... Mi accorgo di avere sbagliato momento. Tornerò a trovarvi presto». Nissim aveva seguito il colloquio con gli occhi sbarrati, cercando di capire. La conversazione si era svolta in un contesto grottesco, tra esibizioni di giocolieri, fanciulle graziose che continuavano a servire vino, chiacchiere tra notabili, corse di bambini, musici che strimpellavano i loro strumenti. Forse qualcuno aveva temuto che lance appartenenti a corpi di guardia fra i più disparati potessero confliggere. Non era così. Tendevano a raggrupparsi per nazionalità: i tedeschi con i tedeschi, i toscani con i toscani, i corsi con i corsi... E nemmeno esisteva inimicizia tra i diversi gruppi nazionali e regionali. In tanti avevano combattuto insieme le battaglie tra Francia e Inghilterra e razziato in crudele armonia le città conquistate. I ricordi non li separavano, il vino li univa. Nissim, un po' stordito dall'agitazione circostante, afferrò Avakum per le spalle. «Lo tengo, padre! Cosa ne devo fare?» «Nulla» rispose Eymerich, indolente. «Sta tornando ciò che era». In effetti il precettore batté ripetutamente le palpebre. Il suo corpo divenne meno tonico e si curvò in avanti. I tratti del viso si sciolsero, riprendendo la consueta asimmetria. Le pupille prima si spensero, poi si riaccesero, ma vacue, smarrite. «Sono felice di rivedervi, padre!» esclamò Avakum. «C'è qualcosa che volete dirmi?» «No, per niente. Cosa ve lo fa pensare?» «Questo giovane che mi tiene per le spalle». «Nissim, lascialo» ordinò Eymerich. «Vai a fare quel che ti ho detto». Il servo obbedì e si incamminò verso le cucine. Rimasto faccia a faccia con Avakum, l'inquisitore gli chiese: «Cosa insegnate, esattamente, ai vostri pupilli?». «Ai figli di Manfredi Chiaromonte? A parte il latino, ciò che ho appreso a Bologna. Filosofia, essenzialmente, e nozioni di giurisprudenza, teologia, matematica e medicina. Più l'arte della retorica, è ovvio». «Anche le scienze naturali?»
«No, non c'è nulla di nuovo da imparare in proposito. I maestri latini hanno già detto tutto, e i Padri della Chiesa hanno aggiunto quanto c'era da sapere. È materia che può interessare solo gli architetti, alle prese con la misurazione delle grandezze fisiche». Eymerich incrociò le braccia sul petto. «Ne desumo che non abbiate mai sentito parlare di una disciplina detta "alchimia"». Avakum ebbe una nuova trasformazione, quasi che Ramón o un altro demonio lo avessero invasato una seconda volta. Arrossì, impallidì, arrossì ancora. Non sapeva dove guardare né come nascondere il tremore alle mani. «A Bologna non era materia di insegnamento» balbettò. Stava forse per tentare di negare fermamente, ma si rese conto che non era il caso. «Certo, ne ho udito discutere in più occasioni, ma non ho conoscenze precise sul tema. Solo nozioni molto vaghe». Eymerich annuì benevolo, cosa che in lui non faceva presagire niente di buono. «È singolare. Solo gli alchimisti, e nemmeno tutti, chiamerebbero il cinabro "sangue di drago". Ricordate di averlo fatto?» «Un caso!» protestò Avakum. «Definizioni colte qua e là in brani di conversazioni altrui!» L'atteggiamento comprensivo di Eymerich si accentuò. «Oh, non ne dubito. Ora venite con me nella mia stanza. Voglio mostrarvi un oggetto che, forse, le vostre "nozioni vaghe" potrebbero interpretare». L'inquisitore spinse avanti Avakum senza che questi opponesse resistenza. Non lo fece con piacere: madido di sudore, l'ex maestro di strada aveva ripreso a puzzare. Eymerich meditò anche di lasciarlo fuori dalla propria stanza, ma gli sembrò un'alternativa non praticabile. Il tragitto fu agevole: a causa del solleone, il cortile si andava lentamente svuotando. Erano scomparsi i giocolieri e le fanciulle che offrivano dolci e bibite. Resistevano i musici, con arie monotone e sempre più lente. Soldati e civili, riuniti in capannelli, si concentravano nei luoghi d'ombra. Nessuno badava alle scie bianche arcuate che continuavano a incrociarsi nel cielo. Eymerich spinse Avakum lungo la scaletta, fino alla sua camera. Temeva che gli oggetti radunati fossero scomparsi, invece erano ancora lì: la statuetta spezzata, che posò sulle coltri del giaciglio, e i due otri ovoidali incollati per l'imboccatura. Li sollevò. «Sapete come chiamerebbe questi un alchimista, mastro Avakum?» «No, lo ignoro» rispose il precettore. Accennò a sedersi sul letto. Eymerich glielo impedì, con un gesto di diniego. Fu lui a mettersi seduto, con i due vasi sulle ginocchia. Li trattava con estrema cautela. «Mastro Avakum, la nomenclatura degli alchimisti è spesso oscura. Tuttavia il nome che viene dato a contenitori simili è piuttosto comune e niente affatto segreto. Passate in rassegna le vostre nozioni lacunose. Lo troverete».
Il serbo rifletté. Finì col dire: «Credo che nell'alchimia un vaso di quella forma sia detto "uovo", o anche "uovo filosofico"». «Precisamente!» Simulando allegria, Eymerich batté le mani, ma sollevando le gambe, in modo che il doppio contenitore non cadesse dal suo grembo. «Per essere digiuno di scienze alchemiche, sembrate piuttosto preparato. Avrete letto, sospetto, le pagine che la turba dei filosofi consacra all'uovo». Avakum non cadde nel tranello. «Non ho letto nulla. Vi riferisco discorsi colti a Bologna fra studenti». «Vi credo. L'eresia è a volte legata al contenuto effimero di chiacchiere udite per caso» disse Eymerich, come se stesse parlando di cose insignificanti. «Mi rivolgo a voi come a persona che conosce il greco, per mestiere e per cultura. Uovo, al singolare, si dice oon. Qui ne abbiamo due. Qual è il plurale?» Avakum dovette accorgersi che la reticenza era ormai un'arma spuntata. Aveva di fronte qualcuno capace di strappargli le parole di bocca, sia perché ne sapeva più di lui, sia perché giungeva per deduzione a scoprire ciò che non avrebbe dovuto conoscere. Con la bocca secca, e non per la sete, sussurrò: «In greco il plurale di oon è oa. Omega e Alfa». «Proprio le lettere tracciate nella cappella in cima al castello!» esclamò Eymerich fingendo meraviglia. «Dove è apparso per la prima volta il serpente che odorava di cinabro!» L'inquisitore sporse il busto verso il suo interlocutore, assai impaurito. «Omega e Alfa. La fine e l'inizio. Normalmente simboleggiati da un rettile che si morde la coda... Ora dovete soddisfare una mia curiosità, mastro Avakum, da buon lettore di testi alchemici quale siete». Il precettore sporse le mani aperte. «Io non..». «Suvvia, risparmiatemi la falsa modestia. Avete appena dimostrato la vostra competenza. D'altro canto, cosa dovreste temere? L'Inquisizione ogni tanto perseguita gli alchimisti, è vero. Qui però siamo lontani dalla mia giurisdizione. L'unica persona che sono riuscito a fare imprigionare in Sicilia, fra i tanti meritevoli, è stato un mio collega. Non è nemmeno sicuro che sia morto per davvero». Avakum dava l'impressione di essere febbricitante. «Che cosa volete sapere?» «Perché vasi come questi, nella scienza alchemica, sono detti "uova"?» «Sicuramente lo sapete già». «Può darsi. Rinfrescatemi la memoria con parole vostre». Il precettore recuperò un poco di saliva, tanto da poter deglutire. «Dentro contenitori di quella forma avviene una nascita. Sostanze e metalli dissimili si sposano, dando vita a qualcosa di diverso. Avvengono fusioni. Il risultato può variare a seconda di ciò che il filosofo si propone. Assume varie denominazioni». «Per esempio?»
«La più comune è "pietra", pietra filosofale. Ma anche "oro filosofico", "quintessenza" e altro ancora. Nella maggior parte dei casi, ciò allude a trasformazioni che, mentre avvenivano nella materia bruta contenuta nei vasi, coinvolgevano la stessa spiritualità dell'alchimista. Rinato dunque entro un uovo, o meglio, entro due: l'Omega e l'Alfa». «Perché i due vasi sono sigillati con tanta cura?» «Nella prima fase dell'opera, la nigredo, quando la materia è ancora caotica, potrebbero emanare fluidi e fumi pericolosi. È quindi indispensabile incollarli bene, in modo che non si stacchino per errore». Eymerich corrugò la fronte e rifletté. Comparò le confessioni di Avakum con ciò che già sapeva. La corrispondenza era imperfetta, e ciò malgrado sufficiente ad avvalorare le parole di quell'ometto. Gli stava dicendo la verità. Per renderlo più loquace, scartò l'idea di un attacco diretto. La prese alla larga. «Quelle che chiamate "fasi" sono, se non erro, quattro. Nigredo, Albedo, Citrinitas e Rubedo. E esatto?» «Sì. Alcuni autori antichi non prevedono la Citrinitas». «Ciò corrisponde a vari stati spirituali». «Esatto. Dalla confusione totale alla lucida consapevolezza, passando per diverse sfumature di coscienza». Era ciò che Eymerich voleva sapere. Si alzò con il doppio contenitore in mano. «Mi felicito per la vostra competenza, mastro Avakum. Se adesso spezzo questi vasi incollati, che cosa troverò?» «Non lo so» rispose il serbo, vacillando un poco. «Si tratta di capire cosa aveva in mente l'artigiano che li ha cotti, e ancor più chi gli ha ordinato di fabbricarli. Se davvero si trattava di un alchimista, potrebbe esserci di tutto. Metalli fusi, liquidi purulenti, acidi e veleni». «L'unica è vedere». Eymerich sollevò il recipiente e lo gettò con forza sul pavimento. Si frantumò in grosse scaglie di terracotta. Tra i frammenti si intravedeva una figura piccola e biancastra, simile a un animaletto. Si muoveva, e non solo: emetteva anche un gemito molto flebile. L'inquisitore provò una ripugnanza così forte da dargli quasi la nausea. Eppure non aveva scelta. Si chinò sulle scaglie e, con pollice e indice, le scostò pazientemente dall'esserino, a una a una. Grondavano umori filamentosi. Finalmente la piccola creatura fu esposta, e a quel punto il raccapriccio non ebbe più freno. Il mostriciattolo aveva forme umane, sebbene mancasse di gambe e di braccia, sostituite da moncherini appena abbozzati. La piccola testa calva era quella di un minuscolo neonato, con tutti i lineamenti già formati. Gli occhi, grandi e sporgenti, erano serrati dalle palpebre. Il corpo si contraeva, come a cercare il liquido in cui era rimasto immerso. Dalla boccuccia usciva un lamento costante.
Eymerich si ritrasse, inorridito. Sfogò su Avakum la violentissima agitazione che provava. «E come mi chiamate questa oscenità, signor alchimista?» gli urlò. «Cos'è questo obbrobrio?» «Non lo so, magister! Non lo so proprio!» Il precettore, terrorizzato, quasi piangeva. Sulla soglia della stanza si udì un'esclamazione, di meraviglia e di paura. Non udito dai presenti, Nissim aveva salito le scale. Reggeva tra le mani un vassoio, appesantito da un piatto coperto, alcune fette di pane, un bicchiere e un quartino di vino bianco. Tutto ciò rischiò di cadergli, tanto tremava. «È identico ai mostri del Miknas che abbiamo ucciso, padre Nicolas! Solo, molto più piccolo!» Avakum approfittò della distrazione per uscire in fretta dalla stanza. Si udirono i suoi passi scendere rapidi i gradini di legno. Forse troppo rapidi: suoni confusi, un tonfo finale e un piagnucolio fecero capire che era ruzzolato. Una camminata veloce, che si smorzò nei corridoi, testimoniò che era uscito dall'incidente senza troppi danni. Eymerich non prestò attenzione alla fuga del precettore. Seguitava a contemplare lo sgorbio biancastro che annaspava tra liquidi collosi. «Ora che ne faccio?» chiese a Nissim. Il servo, pietrificato dall'orrore, riuscì solo ad allargare le braccia, in segno di impotenza. «Quelli di Feudo Michinese, più grossi, li abbiamo uccisi» sussurrò. «Questo è piccolissimo. Se me ne sbarazzo, perdo una prova di ciò che è successo». «Cercate un recipiente idoneo dove conservarlo». Eymerich, che normalmente non seguiva i consigli altrui, questa volta fece un'eccezione. Adocchiò una brocca per le necessità corporali già svuotata. Vincendo la repulsione, afferrò la larva umidiccia per la collottola e la liberò dagli ultimi cocci. Gli si agitava tra le mani. La lasciò cadere nel recipiente, con ribrezzo. Percepì squittii confusi. «Sembra dire qualcosa» osservò. Nissim stava asciugando il sudore con il dorso dell'avambraccio. «Sì, magister... Scusatemi: padre!» «Cosa strilla, dunque?» «Si direbbe "pa... pa..."» Nissim deglutì. «Può significare tutto e nulla. Mi è lecito avanzare un'ipotesi?» «Fai pure». «L'embrione vi crede suo padre».
38.Mentre il cielo si infuoca Eymerich fissò con odio il recipiente che conteneva il mostriciattolo. Lo si udiva annaspare lungo le pareti. «Figlio mio quella cosa? Se avessi dell'acqua la annegherei, come si fa con i gattini». «Forse ho udito male, magister» mormorò Nissim, a capo basso. Non si accorse di avere pronunciato la parola proibita, magister. «Se ricordate, anche le larve giganti di Feudo Michinese parevano riconoscere in voi una sorta di padrone, se non di padre». Eymerich sghignazzò, senza la minima traccia di allegria. «A quanto sembra, ho figli, seguaci, amanti e servi della miglior specie. Embrioni di mostro, corpi abominevoli, donne fantasma e mezzo sfigurate. Posso andare orgoglioso del mio corteggio!» Nissim non riuscì a trattenere un sorriso. «Non saprei darvi torto. Alcuni membri dell'armata che vi assedia vi chiamano Rex tremendae maiestatis. Sapete perché?» «Non lo so e non mi preme saperlo. Prima che nel Dies irae, è un'espressione che si trova nell'alchimia più remota. Che me ne faccio della "tremenda maestà", se è esercitata su obbrobri puzzolenti?» Nissim approfittò della temporanea loquacità dell'inquisitore per porgli una domanda che gli premeva. «Che cos'è l'ibbur, padre?» Eymerich lo fissò. «Strano che mi venga chiesto da un ebreo. Davvero non lo sai?» «Vi giuro di no!» «Nella tradizione giudaica, e in particolare in quella cabalistica, ibbur è un travaso di mente da un corpo a un altro. Chi lo sa praticare può impadronirsi delle membra di chiunque e insediarvi la propria psiche, annullando in via transitoria o permanente quella originaria. Nell'ebraismo più antico, ciò equivaleva a una specie di reincarnazione». «E, secondo voi, Ramón de Tàrrega ne sarebbe capace?» «Lo hai visto tu stesso. Hai ascoltato Avakum. Ti sembrava lo stesso precettore a te noto, prima e dopo il dialogo in cui ammetteva di essere Ramón ?» Eymerich si incamminò verso la porta. «Il maledetto ha una padronanza completa dell'ibbur. Lo si impicca, e lui passa in altri corpi. Ma non basta. Crea effigi immaginarie, all'occorrenza suine o bovine. Tanto per spaventare. Esiste una componente di pura stramberia, nel suo comportamento». «Ciò spiega tutto, secondo voi?» chiese Nissim. «No. Nemmeno un terzo dei misteri fin qui incontrati. Però la dinamica complessiva del telaio disegnato da Ramón è a portata di mano. La intravedo». Eymerich imboccò le scale. Al primo gradino disse: «Nissim!».
«Comandate, padre!» «Fai sparire il mio presunto "figlio" nella brocca! Non voglio rivederlo. Annegalo». «Non c'è acqua!» «Allora pisciagli sopra. Che affoghi nell'urina. È la morte che merita una tale sconcezza. Dopo secoli passati in un vaso, ti sarà persino grato!» Eymerich non aspettò l'eventuale risposta. Si incamminò tra le stanze del piano inferiore, convinto di trovare ospiti e cortigiani intenti a ingozzarsi di vettovaglie nella Sala dei Baroni. Si sbagliava. Padroni, invitati, soldati e servi erano accalcati tra la soglia e il cortile. Gridavano, parlavano tra loro in una decina di lingue, molte donne singhiozzavano. Tutti quanti fissavano il cielo, avvolti da un luccicore rosso vivo. Quando vide l'inquisitore, Manfredi Chiaromonte gli corse incontro con evidente sollievo. Lo prese per un braccio. «Stavo per mandarvi a cercare. Guardate cosa sta accadendo!» La calca si divise per farli passare e scendere in cortile. A Eymerich bastò alzare lo sguardo. La parte superiore della cupola del firmamento, ai lati del sole, pareva in fiamme. Le strie bianche c'erano ancora, adesso più nitide. La colorazione scarlatta era data da una frotta di dischi – venti, venticinque – che saettavano in alto, con luci della tonalità del sangue. Si precipitavano in basso, arretravano, ogni tanto sparivano. Sembravano generati da una gigantesca spirale che ruotava lentamente, in disparte, dove le scie si intersecavano più fitte. «Fate qualcosa, magister! Voi solo potete!» «Ci penso io, invece!» disse ruvidamente un uomo anziano ma vigoroso, rinserrato in una corazza forse un po' stretta per la sua taglia. Una barba bianca molto lunga gli arrivava al petto. Eymerich capì chi fosse per averlo scorto di sfuggita, e soprattutto per lo stemma sul giustacuore. Si trattava sicuramente di Blasco, conte di Mistretta, il decano e il tiranno degli Alagona. Il più ostinato rivale dell'egemonia dei Chiaromonte. Con un semplice cenno, il conte schierò una quindicina di arcieri contro le mura del cortile. Alcuni si acquattarono dietro le feritoie, altri corsero sugli spalti. La folla fece silenzio. «Uomini» disse Blasco, con il suo vocione rauco ma possente «tra breve i dischi si abbasseranno e scaricheranno i Lestrigoni. Prendete bene la mira, scoccate con precisione. Uno o due Lestrigoni abbattuti faranno fuggire tutti gli altri». Eymerich ebbe un gesto di impazienza. «Questo non servirà proprio a nulla». Manfredi colse l'indicazione e gridò a Blasco: «Badate che sono solo illusioni! Intangibili alle frecce!».
«Ah, sì? Ora vedremo» replicò l'Alagona. Sogghignò, mostrando denti gialli e irregolari, da vecchio. «Non mi sembrate molto bellicoso, signor Chiaromonte. Sareste voi l'uomo destinato a siglare la pace con gli Angiò e a tutelare il re legittimo?» Manfredi non rispose. Rabbioso, mormorò a Eymerich: «Va bene, lasciamogli fare questa figuraccia. Se l'è voluta». L'inquisitore si distrasse perché aveva notato tra la folla all'interno dell'edificio Eleonora d'Arborea, che non vedeva dal giorno prima. La donna stava conversando con uno dei Ventimiglia, un giovane dai capelli biondi lunghi e inanellati. Osservò la gonna di lei, per capire se nascondesse un numero incongruo di gambe, come l'ultima volta che le aveva parlato. No, sembrava tutto normale. La raggiunse. Appena vide Eymerich, Eleonora si staccò dal barone. «Scusate, signore, devo vedere un amico». Arrivò quasi correndo. «Magister! Sono contenta di vedervi! Che cosa sta accadendo?» «Niente che non sia già accaduto» rispose Eymerich, burbero. «I prodigi si susseguono con monotonia, identici gli uni agli altri. Cambiano solo i colori. A questo punto, l'unico evento capace di sorprendermi veramente sarebbe una pausa di normalità». «Non sono certa di comprendervi» disse Eleonora. «Io mi sento normale. Neanche adesso, che sta per succedere chissà quale evento terrificante, sono realmente spaventata». «O siete una perfetta incosciente o questo è un prodigio tra i tanti». «No, esiste una ragione logica». «Quale?» «Voi siete qui. La sicurezza che dimostrate infonde fiducia. Date l'impressione di possedere una forza straordinaria e di padroneggiare qualsiasi minaccia». Le parole di Eleonora furono così calde e sentite che Eymerich arretrò un poco, nel timore di essere toccato. Lei gli sorrise. «Non è un sentimento solo mio: è un sentire comune, dai Chiaromonte in giù, fino all'ultimo dei domestici. In maniera più o meno consapevole, ci affidiamo a voi. Così facendo, il terrore scompare. Se fino a poco fa vi si credeva il demonio, ora la vostra immagine è l'esatto opposto. Ci proteggete». Quasi a smentire l'affermazione della dama, la moltitudine assiepata sulla soglia esplose in un urlo collettivo. Tutti arretrarono, e chi era nel cortile rientrò nel castello. Qualcuno cadde e fu calpestato. Si faceva a gara per raggiungere le stanze più interne, ritenute, a torto o a ragione, meglio protette dalle insidie. Di sicuro molti temevano i raggi ustionanti, per averli già provati sulla propria pelle o per avere visto amici e congiunti restarne feriti. Eymerich si addossò con il dorso alla parete e, prendendo Eleonora per l'avambraccio, la obbligò a fare lo stesso. «Attendiamo che le mandrie siano passate. Non perderemo molto dello spettacolo».
Lei non si ribellò. Lasciò anzi fare con evidente compiacimento, come se l'atto protettivo le procurasse gioia. Appena fu possibile, entrambi raggiunsero la soglia. Vi restavano, con pochi fidi, civili e militari, i due fratelli Chiaromonte, i Lancia e i Ventimiglia. Blasco Alagona era al centro del cortile e incitava i suoi arcieri, la spada – pesante, lunghissima – retta in alto nel guanto di ferro, come uno stendardo scintillante. «Ora! Colpite!» gridava il conte di Mistretta. «Bravi, ricaricate! Avete il tempo per abbattere altri mostri». Eymerich osservò stupito la scena di battaglia. Giganti impazziti, probabilmente sbarcati dai dischi di fuoco, annaspavano feroci verso la sommità di Mussomeli. Appena un dardo li raggiungeva, cadevano all'indietro grugnendo di dolore. Morivano a valle, entro pozze di sangue di dimensioni ormai lacustri. Si scuotevano entro la loro stessa linfa. Non emettevano suoni, tuttavia spalancavano la bocca come se volessero farlo. Il silenzio era totale. Dalla volta celeste, tinta di rosso cupo, erano sparite le strie biancastre, ma rimanevano i dischi. Seguitava a ruotare su se stessa l'enorme spirale che li generava. Ruotava piano, quasi avvertisse stanchezza. Il suo contorno tendeva alla trasparenza. Blasco Alagona era entusiasta. Aveva abbassato la spada, visto il peso, e la trascinava sull'acciottolato. La sua voce potente, benché cupa, conservava una nota giovanile. «Ne arrivano altri, miei arcieri! Aspettate che siano a tiro. Dopo, dardi a volontà!» Manfredi Chiaromonte si accorse di avere Eymerich di fianco. Lo investì con collera. «Cosa aspettate? Salite sugli spalti e pronunciate un esorcismo, come l'altra volta!» «Non serve. I Lestrigoni che sopravvivono e quelli che muoiono fanno parte dello stesso inganno». «Lo so, l'ho capito, ma il problema è un altro. Blasco Alagona sta fregiandosi di una vittoria soprannaturale che sarà ricordata dalle cronache siciliane. Ciò assicura a lui e ai Catalani la supremazia. Non ci saranno accordi di pace, perché un solo partito avrà vinto». Eymerich fissò Manfredi con ironia. «Complimenti, ammiraglio. Restate cinico e calcolatore anche mentre il vostro castello è assalito da dischi di luce rossa e da ciclopi rabbiosi». «In quanto a cinismo, nemmeno voi scherzate. Fate qualcosa. Non ne va solo del mio prestigio. Anche la vostra autorità, se Blasco avrà successo, sarà indebolita. Nessuno vi crederà più necessario come mediatore della pace». Dopo una fulminea riflessione, Eymerich disse: «Qualcosa farò». Si rivolse a Eleonora d'Arborea. «Madonna, non allontanatevi. Non abbiamo finito di parlare». L'inquisitore scese nel cortile e finalmente abbracciò la scena per intero. I dischi, che svolazzavano disegnando angoli assurdi, ogni tanto schizzavano verso terra. Allora, come se uscissero dal loro ventre, apparivano i giganti. Furiosi, contorti, coperti di stracci si gettavano contro il castello a falangi, le bocche deformate in urla mute. Roteavano le braccia, schiumavano bava. Non erano, stavolta, insensibili alle armi nemiche. Quando le
frecce li trafiggevano, spillavano sangue, crollavano sulle ginocchia, si contorcevano in agonie forsennate. I dischi che li avevano scaricati schizzavano allora verso l'alto, a danzare a grappoli attorno alla rossa spirale che li generava. Blasco Alagona era al colmo dell'entusiasmo. Madido del sudore che gli colava fino alla barba, si era liberato dell'elmo. «Bravi, miei fidi! State vincendo! State respingendo i mostri! Di frecce ne abbiamo, non risparmiatele. Puntate alla testa, agli occhi, alla gola! Oppure al petto, dalla parte del cuore! Tra breve le pendici di questo picco saranno un cimitero!» Appena si accorse della presenza di Eymerich, il suo tono cambiò. «Che fai a zonzo, prete? Qui si combatte! Torna dentro e preparati a recitare il Te Deum! Tempo mezz'ora e li avremo sterminati dal primo all'ultimo!» L'inquisitore fece come se non avesse udito. Passeggiò fino a una bifora che si apriva nella cinta, osservò il paesaggio e, senza fretta, tornò sui suoi passi. Teneva le mani incrociate dietro il dorso. «Basta» si limitò a dire. Ripeté la parola di fronte a Blasco Alagona, quando gli fu vicino. «Basta con questa commedia». «Che volete dire?» chiese il conte, rabbioso. Sudava come una candela dalla fiamma troppo viva. «Come osate?» Eymerich lo guardò con indifferente disprezzo. «Ramón, apprezzo le tue doti di commediante e di capocomico. Hai allestito uno spettacolo degno di nota. Dentro di me applaudo. Adesso libera quel corpo. Che torni alla sua normale stupidità. Quanto alla rappresentazione, si fa noiosa. È tempo che finisca». Blasco si fece terreo. Le labbra gli tremavano. «Come vi viene in mente, prete, di darmi degli ordini? Non potete comandarmi nulla!» «Sì che posso, e tu lo sai meglio di me». Eymerich, in una specie di sorriso, scoprì i canini. «Se ti tengo ancora in vita è perché, più tardi, voglio parlare con te. Abbiamo molto da dirci. Adesso, Ramón, trovati un altro involucro di carne capace di contenerti. Ci rivedremo nelle tue nuove sembianze». Accadde tutto in un attimo. Blasco Alagona rimase come stordito, la testa ripiegata su una spalla. Quando riacquistò coscienza, parlava con fatica. «Cos'è successo? Dove mi trovo?» I suoi uomini erano sconcertati quanto lui. Da un attimo all'altro dischi, spirale e corpi di Lestrigoni uccisi erano spariti. Non c'erano più salme ammassate sotto Mussomeli, né laghi di sangue. I fiumi scorrevano placidi. A Manfridia, tanto più sotto, la vita quotidiana pareva normale. Il cielo restava arrossato dal sole incombente, però in massima parte luceva di un azzurro purissimo. Eymerich era preparato al mal di testa ferocissimo che seguì. Attese che fosse passato e tornò all'edificio principale.
In cima alle scale lo attendeva Manfredi Chiaromonte, entusiasta. «Bravo, magister! Non so quali siano le vostre invocazioni segrete, ma riportate tutto alla normalità!» Si teneva il capo. Doveva avere provato anche lui le fitte atroci. «Nessuna invocazione. Ripristino solo l'ordine che Dio ha voluto». «No, fate di più! Riaprite un accordo compromesso alla diplomazia e a una soluzione paritaria. Permettete che vi abbracci?» «Ci mancherebbe solo questo!» Eymerich si ritrasse, inorridito all'idea. Tra l'altro, sia lui sia Manfredi abbondantemente. «Ammiraglio, sapete se madonna D'Arborea è nei paraggi?»
sudavano
«Eccola là. Penso che vi abbia aspettato». «Allora scusatemi. Devo parlare con lei». La dama se ne stava in penombra, attonita ma non intimorita, le mani in grembo. Puntò su Eymerich uno sguardo disarmato, come quello di chi non ha domande plausibili da porre. La sua confusione non era minore di quella dei cortigiani. Costoro camminavano avanti e indietro, scossi, intimoriti. Cercavano di non guardare l'inquisitore, come se fosse lui l'origine dei loro problemi, destinati a riapparire se lo avessero osservato con eccessiva insistenza. Di tanto in tanto, uno di quegli uomini spaventati si avvicinava al portone o a una finestra e spiava se all'esterno continuassero le singolarità, celesti o terrestri. Indietreggiava più calmo, ma non perfettamente rassicurato. Nell'atrio si parlava pochissimo, e a bassa voce. «Andiamo in un luogo meno frequentato» propose Eymerich. Eleonora fece una smorfia. «Sono convinta che si equivalgano tutti, sul piano della sicurezza. Preferisco rimanere qua». «Come desiderate. Ho una domanda piuttosto particolare che desidero porvi da almeno due giorni. Forse non la capirete nemmeno, madonna, ma posso assicurarvi che ha la sua ragion d'essere». «Risponderò volentieri se prima farete altrettanto con alcuni quesiti che ho da rivolgervi io». Eymerich contemplò quel viso irregolare, ora più grazioso della norma. Quando assumeva un'espressione ostinata, fanciullesca, Eleonora si imbelliva un poco. «Dite pure» sospirò. «Voi sapete chi siano i giganti più o meno reali che ci sono portati dai dischi multicolori?» «Sì, lo so. Ignoro cosa siano i dischi, però la dinamica del fenomeno mi è chiarissima. Non è affatto nuova. Diciamo che nel cristianesimo riveste una posizione marginale».
«Sapete anche concepire un motivo che giustifichi i salti nel tempo e nello spazio? Per esempio, voi che navigate verso la Sardegna e poco dopo sbarcate. O la sparizione della flotta di Beneet. Oppure il passaggio istantaneo da una grotta alla stanza sottostante alla vostra». «Non vedo mistero. Il Liber Vaccae minore, o il secondo volume, se preferite, descrive il fenomeno con sufficiente rigore. Non è un testo cristiano, in questo caso, ma Ramón de Tàrrega si conforma alle sue istruzioni». «Spiega anche gli esseri incompleti che avete ucciso a Feudo Michinese?» «Sì, in parte». Eymerich incrociò le braccia. «Ora tocca a voi, madonna, rispondere a me». «Siete stato sul vago, non avete chiarito nulla di ciò che vi ho domandato!» «Potete farlo anche voi, non mi interessa». Eymerich raddrizzò la schiena. La sua statura, già di per sé alta, divenne soverchiante. «Vi dirò quattro nomi femminili. Voglio sapere se uno di essi vi suggerisce qualche remoto ricordo». «Parlate». «Lilith, Agrath, Mahalath e Na'amah». All'ultimo nome, Na'amah, Eleonora si curvò su se stessa, quasi stesse per cadere svenuta.
39.Il conciliabolo La Sala dei Baroni, il cuore autentico del castello di Mussomeli, era tornata a essere degna di quel nome. Sparita ogni traccia delle gozzoviglie dei giorni precedenti, a un lungo tavolo centrale sedevano i più potenti signori che si spartivano l'isola, Latini e Catalani: i Ventimiglia, i Lancia, i Barresi, gli Alagona, i Palizzi, i Peralta, i Rosso più altri ceppi minori. Li aveva uniti l'avversione contro l'ipotesi di liberi comuni, e divisi le pretese egemoniche. Ora li aveva radunati lì la constatazione che, per perseguire i loro interessi, servivano uno straccio di monarchia e la pace con gli Angiò, che allontanasse dall'isola la perenne minaccia di un ritorno in forze dei francesi. Era trascorso un giorno soltanto dall'attacco dei dischi luminosi. Non se ne parlava. Merito forse del cielo sereno, del vino bianco versato dai domestici e della vergogna di essersi lasciati spaventare da un'allucinazione. A capotavola sedeva ovviamente Giovanni Chiaromonte, il più ricco, reggente di Palermo e proprietario di appezzamenti che, insieme, raggiungevano le dimensioni di un principato, o addirittura di un regno. Di fatto un viceré, se avesse riconosciuto l'autorità di Federico IV d'Aragona. Alla sua destra stava Manfredi,
meno anziano di lui e probabile erede. Alla destra era Eymerich, intento a trastullarsi con un calice di vino che non aveva la minima intenzione di bere. L'inquisitore ascoltava le conversazioni che si svolgevano attorno e che, nelle linee essenziali, riusciva a intendere. Il siciliano dei signori differiva un poco da quello del volgo. Somigliava al latino, comprendeva termini catalani, inglobava espressioni del continente o addirittura provenzali. Quando Giovanni prese la parola, il rector scelse di esprimersi nella lingua di Barcellona, familiare a tutti. «Amici, vi sono grato di avermi raggiunto ancora una volta qui, in tempi in cui mettersi in viaggio comporta pericolo. Se vi ho convocati è perché si impone una scelta definitiva. Il papa fa pressione, Pietro il Cerimonioso anche. Si impone un accordo con Giovanna d'Angiò, piaccia o no questa ipotesi». «A voi, per esempio, piace» osservò sarcastico il vecchio Blasco Alagona. Tanto per non smentire il suo carattere bellicoso, non aveva rinunciato alla corazza malgrado il caldo. Non portava spada, però. La consegna era che i baroni andassero al raduno disarmati e senza soldati di scorta. L'allusione ai suoi ripetuti cambiamenti di partito non turbò Giovanni Chiaromonte. «Noi facciamo i nostri affari, e questo può comportare scelte a volte divergenti. Che scopo ha la politica, se non il guadagno? Le libertà comunali che la plebe reclamava, dopo avere cacciato i francesi, ci avrebbero ridotti alla miseria. Ciò sarebbe stato di beneficio, a noi o al popolo che tuteliamo?» Uno dei Palizzi prese ad applaudire. Ma si sapeva che i Palizzi, casa nobiliare palermitana, erano di fatto vassalli dei Chiaromonte. Nessuno lo imitò. Lo stesso Giovanni non fece caso a quel consenso e proseguì: «Per dirimere eventuali controversie tra noi, è qui presente, come gradito ospite, padre Nicolas Eymerich da Gerona, domenicano, teologo, filosofo illustre, inquisitore generale dell'errore eretico nel regno d'Aragona. Ci è stato inviato dal pontefice, e mai scelta fu più felice. Abbiamo visto come riesca a vanificare illusioni che paiono tangibili e a ridurre in fumo le peggiori allucinazioni. Per consenso unanime, o almeno me lo auguro, il magister ci dirà quale strada seguire sulla via della pace». Questa volta gli applausi furono unanimi e fragorosi. Solo Blasco Alagona se ne astenne, imitato dai suoi eredi. Un'avversione scontata, dopo la futile battaglia e l'effimera vittoria del giorno prima. Eymerich si levò in piedi. Scrutò la sala per vedere se a Eleonora d'Arborea fosse stato riservato un angolo. No, la riunione era tutta maschile. «Signori» disse con voce vibrante e sicura «avete constatato di persona come il demonio abbia eletto la Sicilia a sua futura preda, e moltiplichi gli inganni per soggiogarla. Ciò è dovuto a un solo fattore. Quest'isola è stata per decenni in guerra non solo con i francesi, ma con la Santa Sede. Ha subito la scomunica e, malgrado rapporti recenti meno tesi, si
ritrova con un clero debole e una Chiesa fragilissima. Tra giganti, luci strane, prodigi incontrollabili, finirà per precipitare direttamente nell'inferno. Mentre voi vi stordite di vino e succhiate dolciumi». Attorno al tavolo ci fu un mormorio, non di protesta. I baroni erano impreparati a udire un linguaggio così minaccioso. I preti con cui avevano familiarità erano molto più arrendevoli e rispettosi. «Se cercate la dannazione» riprese Eymerich «sappiate che è a portata di mano. Ognuna delle vostre orge quotidiane l'avvicina. Potete ubriacarvi quanto vi pare e cercare di dimenticare i peccati che commettete. Non ci sarà vinello fresco tra le fiamme eterne che vi divoreranno. Se invece avrete un soprassalto di dignità, una speranza c'è persino per voi, che ne sareste indegni da ogni punto di vista. Papa Gregorio XI, servo dei servi di Dio, vi ha chiesto di siglare un trattato di pace con gli angioini di Napoli. Fatelo e il suo perdono sarà completo. Solo allora». Blasco Alagona ebbe una reazione furiosa, tanto che il coltello con cui affettava una porzione di porchetta gli sfuggì dalle dita e tintinnò sul pavimento. Un servo fu pronto a sostituirgli la posata. «Prete, tu dici di parlare in nome della Chiesa, ma in realtà esprimi la volontà dei Chiaromonte. Chi credi di prendere in giro?» Giovanni Chiaromonte stava per replicare, ma Eymerich fu più rapido e lo zitti. «E tu chi credi di prendere in giro, Blasco Alagona? Pensavi di profittare della gloria di una battaglia effimera. Sei vecchio e moralmente lercio quanto la tua barba. Pentiti, sottomettiti alla Chiesa. Ho l'autorità per pronunciare la tua scomunica da un istante all'altro. Vuoi morire nel peccato e nel disprezzo?» Gli Alagona scattarono in piedi, indignati, e così altri Catalani. Molti di essi fecero il gesto di mettere mano a una spada che non avevano. L'indice di Eymerich si puntò contro chi era rimasto a sedere. Il suo tono era duro e sferzante. «Questi miserabili imbroglioni pensano di potermi uccidere. Vi conviene lasciarli fare? Morto io, quale sarebbe il vostro futuro? Cieli pieni di dischi multicolori, giganti approssimativi scaturiti dal suolo, banchi di nebbia che non tutti vedono. Inoltre la scomunica anche contro di voi, per avere lasciato fare gli assassini. Il papa in collera, gli Angiò di Napoli con una flotta in mare. Pietro il Cerimonioso irritato per il fatto che sono un suo compatriota. Se il vostro scopo è un commercio tranquillo, credete che potreste conseguirlo?» Tutti i Palizzi si levarono e circondarono ostili gli Alagona. Lo stesso fecero persino i Ventimiglia. Blasco prese a tossire e ricadde sulla panca. Fu sul punto di vomitare. I suoi congiunti, dopo qualche esitazione, tornarono a sedersi a loro volta. Eymerich aveva incrociato le braccia sul petto. Pareva cresciuto di statura. Il suo timbro era autoritario, quanto gli occhi accigliati. «Vedo che si torna alla ragionevolezza. Me ne rallegro. Si tratta di scegliere una delegazione che, dal porto di Palermo, raggiunga Napoli entro pochi giorni. Ammiraglio Chiaromonte, avete la galea adatta?»
Riscosso dallo stupore, Manfredi annuì. «Certo che ce l'ho!» «Fatela armare ed equipaggiare. Entro domani si lascia Mussomeli. Ci saranno insidie, sul percorso, però meno di quante ne subiremmo qua». «Prevedete veri pericoli?» «Uno solo che li comprende tutti». Eymerich, volutamente, diede alla sua voce l'inflessione più solenne possibile. «Che dice, nell'Antico Testamento, il profeta Michea? Dice che Dio stava sul suo trono, circondato dalle milizie celesti. Chiese chi fosse pronto a ingannare Achab re di Israele per condurlo alla sconfitta. Si fece avanti uno spirito che dichiarò: "Io lo ingannerò". "Come?" chiese Dio. "Andrò e sarò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti!"» «Amen!» disse meccanicamente uno dei baroni. «Amen!» ripeterono parecchi altri. «Sì, ma afferrate bene il significato dell'esempio?» Gli occhi scuri di Eymerich erano severissimi. «Una creatura celeste, in quell'occasione, scelse di farsi spirito maligno perché si dedicò alla falsità, che è l'essenza stessa di ciò che è malvagio. Lo fece con il consenso di Dio. Egli non proibisce simili cose, lascia che siano i credenti a reagire. Achab fu ingannato e sconfitto perché non si piegava al Signore. E l'entità che si era offerta volontaria, assolto il suo compito, andò a rimpinguare le schiere infernali e non godette mai più della luce divina». «Che cosa volete dire con questo, magister?» domandò Manfredi, confuso. «Non riesco a seguirvi». «Mi avete chiesto dove sia il pericolo. Uno spirito di menzogna è attivo tra noi. Ci ha seguiti da Palermo e qui a Mussomeli ha messo in campo la sua abilità. È riuscito a sconvolgere ciò che vediamo, a farci credere nell'inesistente, ad abituarci a una sequela di incantesimi. È però uno spirito solo, che nulla potrebbe contro uomini religiosi stretti a pugno. Contro una Chiesa». L'inquisitore batté la destra sul tavolo. «La direzione dell'ultimo tratto della spedizione, di qui fino a Napoli, va lasciata a me per intero. Il diavolo mi è divenuto così familiare, dopo decenni di guerra corpo a corpo, che riesco non solo ad afferrarne gli intendimenti, ma anche a prevenirne le mosse. Una facoltà condivisa solo dai papi, e nemmeno da tutti. Pretendo, per la vostra salvezza, di godere dello stesso grado di obbedienza». Solo al termine del suo discorso, Eymerich si rese conto che quelle parole gli erano uscite spontanee, fluenti e aggressive al di là delle sue intenzioni. Non si preoccupò: le intuiva profondamente vere. Né c'era rischio di condizionamenti o di forme di possessione. Rispetto a Ramón era immensamente forte, adesso, e gli altri spiriti – Myriam per prima – non erano ostili, bensì alleati. «Costui pretende una sorta di dittatura!» protestò il più anziano dei Lanza.
«Non la pretendo. Sarete voi ad accordarmela. Da chi andate a farvi riparare gli stivali? Dal calzolaio. E per farvi ferrare un cavallo? Dal maniscalco. Sono esperti del loro mestiere. Contestereste la loro abilità, o lascereste fare? Qui l'unico esperto della lotta contro Satana e i suoi succubi sono io». Blasco Alagona si stava riprendendo dal malore che lo aveva colto. Tossiva ancora, però riusciva a parlare. Lasciava che servi, scherani e familiari lo liberassero da strati di ferro e di cotta inutili, per farlo respirare. Appena recuperò un poco di fiato, fissò Eymerich con occhi stanchi, eppure carichi di odio. Il suo tono, catarroso, era tuttavia più accomodante, e improntato a un certo rispetto. «Padre, se uno spirito maligno è davvero tra noi, dovreste sapere dove si trova. Altrimenti, tutto ci autorizza a pensare che quelle che avete esposto siano invenzioni, utili ad accrescere il vostro peso al tavolo delle trattative». Eymerich si trattenne dal ridergli in faccia. «Signor conte, dove si trovi adesso l'entità non lo so. Ieri era dentro di voi, e ve ne ho liberato. Forse, pensandoci, rammenterete un vuoto di memoria. È uno spirito disincarnato, che può impadronirsi di chiunque. Per diverse ore ha sostituito la sua anima alla vostra. Per meglio dire, le ha fatte convivere». Blasco tacque. Pareva sconvolto. Anche Manfredi Chiaromonte, che grondava sudore, aveva gli occhi spalancati. «Magister, avete detto "di chiunque". Davvero il demone a cui vi riferite può invasare ogni creatura umana?» «No, se la fede in Cristo è ben salda e sa sfatare le illusioni. Sotto la mia guida sarà facile. Fuori del mio controllo, la Sicilia intera non sarà più capace di distinguere tra realtà e incubo». «Cosa dobbiamo fare?» «Ve l'ho già detto, ammiraglio. Lasciare il castello e tornare a Palermo. Lì imbarcherete una delegazione e andrete a Napoli a trattare con gli angioini. Previo colloquio con Federico IV. Conti qualcosa oppure no, sarà il sovrano dell'isola che darà impulso alle vostre istanze. Senza un re che lo legittimi, il potere dei casati resta effimero». «Ci vorrà tempo per fare venire il re da Catania a Palermo». «Dite? Io credo che non aspetti altro, da molti anni». Eymerich strizzò l'occhio, un gesto malizioso che non avrebbe mai fatto se non fosse stato di buonumore. «Ogni volta che ha provato a tornare nell'antica capitale, siete stati voi Chiaromonte a impedirgli l'accesso. Ora lo inviterete addirittura. Vedrete: si metterà immediatamente in cammino, prima che ci ripensiate». La tavolata era completamente soggiogata. Era il momento che l'inquisitore se ne andasse. Mentre si allontanava, lo raggiunse una domanda abbastanza sorprendente, visto che proveniva da Giovanni Chiaromonte. Il barone più potente in assoluto.
«Avete altri ordini, magister?» «No, rector. Va subito inviato un messo a convocare re Federico. Sarà bene avvertire anche Eleonora d'Arborea, se intende seguirci. Quanto a noi, meglio partire all'alba. Io stesso vado a preparare il mio misero bagaglio». Ai piedi della scala che conduceva alla sua stanza, Eymerich si imbatté in Nissim, appoggiato con il dorso al corrimano. Fu contento di vederlo. «Se non ti avessi trovato qui, ti avrei mandato a cercare. Hai eliminato l'obbrobrio chiuso nella brocca?» «Sì, padre. Non si decideva a morire e squittiva disperatamente. Quando ha smesso di agitarsi, l'ho scagliato fuori dalla finestra, sui dirupi. Se c'è un aldilà per i mostri, adesso è lì che si trova». «Ottimo!» fu il commento di Eymerich. «Domani ripartiamo per Palermo, prima che spunti il sole. Riesci a trovarmi un cavallo accettabile, né zoppo, né bizzoso, né portato al suicidio?» Nissim sorrise. «Penso di sì. Semmai sottraggo quello di un ufficiale e lo ridipingo. Da bianco lo rendo nero, o viceversa. L'ho fatto diverse volte e ha sempre funzionato. Tutti gli stallieri sono miei amici». Eymerich increspò le labbra. «Mi fido. Altra cosa. A Palermo non ci fermeremo a lungo. Devi farmi avere un colloquio con uno dei rabbini del Cassaro, o con un ebreo abbastanza dotto da conoscere per filo e per segno la religione che professa. Istruito non solo nella Torah, ma anche nello Zohar e nei Midrash. Ci riesci?» «Penso di sì. Vi state convertendo?» L'occhiata che Eymerich scoccò a Nissim avrebbe forse ucciso un piccolo animale. «Bada, rischi di ritrovarti con la lingua inchiodata a un ceppo di legno. Sparisci e segui le mie istruzioni, se desideri continuare la tua povera esistenza da circonciso». Dopo che Nissim Ficira se ne fu andato, Eymerich andò nella sua stanza. Fu sorpreso dall'agilità con cui risaliva i gradini, inconcepibile fino a pochi giorni prima. Non doveva nemmeno stringersi al corrimano e issarsi a forza di braccia. Un recupero di energie di cui non sapeva dare spiegazione. Nella camera l'atmosfera era tranquilla. Mancava la brocca e non l'avevano sostituita. Dalla finestra penetravano i raggi rossicci di un sole ormai pomeridiano, che cresceva di dimensioni. Faceva caldo, ma era sopportabile. Lo spicchio di cielo che poteva vedere era di un azzurro compatto, senza nubi né striature. Si guardò allo specchio. Si era trascurato troppo, ultimamente. Una peluria corta e soffice gli cresceva sul cranio. La barba reclamava i suoi diritti. Doveva avere un rasoio, nel suo sacco. Prese a cercarlo, ma quasi subito vi rinunciò. C'era qualcosa che andava fatto con priorità assoluta.
Afferrò la statuetta spezzata, rimasta al suolo, e la strinse tra le mani. Sedette sul bordo del letto, evitando l'ombra del baldacchino. Lasciò che la luce rossa Io colpisse, poi esclamò ad alta voce: «Myriam, Lilith, senz'altro mi stai udendo. Vieni a me, voglio parlarti!». Seguì un profondo silenzio. A valle si levò un vento leggero, che fece cigolare il battente della finestra. L'impeto della corrente si intensificò in pochi istanti, raggiungendo la furia di un ciclone. Le mura robuste di Mussomeli scricchiolarono in diversi punti, troppo solide per crollare o incrinarsi. Solo qualche sasso, accompagnato da terriccio erboso, ruzzolò dalle basi del castello. Eymerich non si preoccupò di un possibile cataclisma. Non cercò di bloccare l'infisso della finestra, che sbatteva. La tromba d'aria, peraltro invisibile, svanì rapidamente. Tornò una calma compatta, e dominò la quiete. Seduto sul bordo del letto, le mani in grembo, l'inquisitore mormorò: «Bentornata, Myriam. Adesso puoi apparirmi. Da sola, se possibile. Non ho nulla da dire alle tue propaggini spiritali». «Aspetta». Dopo una breve attesa, un corpo prese forma davanti a Eymerich. Non era né uno spettro né un simulacro qualunque. Era suor Magdalena Rocaberti, la priora di Monte Síon.
40.Figli perduti Per quanto preparato a ogni evenienza, la vista di suor Magdalena lasciò Eymerich sbigottito. Molte volte aveva pensato a lei, al suo viso maturo e piacevole, ai lineamenti regolari, agli occhi miopi ma belli. Non considerava quell'immagine peccaminosa, e tuttavia il fatto che ricorresse con troppa frequenza lo turbava. L'effigie che aveva davanti rasentava la perfezione. Una leggera luminosità sui bordi denunciava una riproduzione straordinariamente accurata. «Perché hai scelto proprio quel corpo, Myriam?» chiese Eymerich con inflessione triste. La risposta, ancora una volta, parve giungere da profondità insondabili e non fece nemmeno vibrare le labbra della presunta Magdalena Rocaberti. «Per farti cosa gradita, Nicolas. Io non ho più un vero corpo. È così lontano da qui che posso appena proiettarne l'ombra, e con l'aiuto delle mie tre sorelle».
«Pensavo che Lilith fosse molto più forte, secolo dopo secolo». «No, se è confinata in un'epoca in cui più nessuno crede che esista». Le ultime parole furono così sommesse da essere praticamente indecifrabili. L'inquisitore ne intuì il senso. La comunicazione non era solo verbale. «Non servirti delle fattezze di suor Magdalena. Usa le tue» mormorò, malinconico. «Meglio uno spettro che un fantoccio». «Hai ragione, ma non sarò sola. Dovresti ormai saperlo». «Lo so, e non ho paura. Non di voi». Magdalena Rocaberti parve crescere di dimensioni, e nel contempo farsi traslucida. Infine scomparve. Ne prese il posto, con un lampo di luce vermiglia, l'entità tripartita che Eymerich già conosceva: la donna nuda al centro, dalla fisionomia incerta, come fasciata da bende di vuoto, con rari spazi a mostrare le carni, e altre due donne attorno, coperte di veli impalpabili. Intente a singhiozzare, il viso affondato nell'avambraccio. «Perché piangono, Myriam?» «Lo sai» rispose da lontano il lemure di Lilith. «Hai ucciso tanti dei nostri figli. Li hai creduti mostri, e certo lo erano. Non si aspettavano che fosse la mano del padre a condannarli». «Figli?» gridò Eymerich, scandalizzato. «Io non ho mai avuto figli! Di cosa stai cianciando, demone giudaico?» Il fantasma tripartito vibrò, perse e riacquistò i contorni. Fioca ma diretta giunse la risposta. «Dimentichi, Nicolas, di avere eiaculato? Fu tredici anni fa, nel castello di Montiel. Io e un'altra delle mie consorelle, da te conosciuta come Leonor, riuscimmo a conservare il tuo seme. Lo abbiamo usato molte volte, goccia a goccia, per darti un erede. Inutile, nascevano mostriciattoli senza braccia né gambe. Poveri esseri innocenti che non fai che assassinare». Eymerich si rizzò, furioso. «Vattene, Myriam, Lilith o chiunque tu sia! Non ho nessun figlio, e certo non sarebbe un mostro!» «In effetti, l'ultimo che ti rimane non è per nulla mostruoso... Ciò non era previsto dalle Scritture, dove ci si chiama "ladre di sperma" e "generatrici di demoni"». La donna ebbe un fremito. «II mondo da cui provengo mi sta risucchiando. Ci rivedremo. Quaggiù o lassù». «Cosa intendi per "lassù"?» «Lo scoprirai. Avrai tutte le risposte. Molte le conosci già». «Non credo alle superstizioni degli ebrei! Non credo ai vostri libri maledetti!» «Sai bene che certe verità non appartengono solo agli ebrei... Guarda dentro di te, Nicolas. Pensa al tuo passato. Una grande trasformazione sta per compiersi. Tornerò a guidarti su quel cammino».
Le tre figure femminili si abbracciarono strette, in un insieme confuso e singhiozzante. Si fusero l'una con l'altra, e per un istante Eymerich credette di scorgere due ali che vibravano, a raccogliere aria sufficiente per uno scatto da terra. La visione fu brevissima, perché le donne allacciate assunsero nuovamente le forme di suor Magdalena. Non sorrideva e aveva il lembo della veste intriso di sangue. Indicava qualcosa ai suoi piedi. Quando l'inquisitore abbassò lo sguardo, non riuscì a soffocare un grido di orrore. Il pavimento era coperto dalle creature ignobili che ben conosceva: larve di neonati privi di membra. Erano lacerati da orribili ferite e perdevano sangue a fiumi. Alcuni di quegli esseri erano palesemente morti, altri si agitavano ancora. Riconobbe l'ultimo: quello, minuscolo, che aveva rinchiuso nella brocca e fatto uccidere. L'unico che non recasse i tagli della sua spada. Eymerich ebbe un sussulto quando l'onda di sangue gli sommerse i piedi. Fu sul punto di gridare ancora. Magdalena mise un dito sulle labbra. Finalmente parlò, con la sua voce profonda e armoniosa. «II Rex tremendae maiestatis ha anche il diritto di sterminare la sua famiglia. Anzi, lo deve fare, per iniziare la metamorfosi. L'Omega e l'Alfa». Ora sorrise, e le sue labbra rimasero l'ultimo dettaglio visibile di lei, prima che tutto scomparisse: le larve morte o morenti, il sangue, Magdalena stessa. L'unico suono udibile rimase il canto degli uccelli, fuori della finestra, e pochi rumori provenienti dalle viscere del castello. Eymerich rimase rannicchiato sull'orlo del letto, a contemplare le pareti spoglie della camera. Era agitato, ma non al punto di smarrire il controllo. Escluse di avere sognato: non aveva dormito neanche un minuto. Escluse anche che si fosse trattato di un'allucinazione indotta con fumigazioni o altri espedienti magici. Con quel che aveva visto e udito, Ramón de Tàrrega non c'entrava nulla. Se il suo nemico avesse voluto precipitarlo nel delirio, avrebbe dovuto suscitare incubi di altra consistenza, come le visioni dell'inferno che ossessionavano un buon numero di mistiche e di eretiche beghine. Ma non l'avrebbe mai fatto: Ramón lo conosceva troppo, per illudersi di fargli perdere la ragione. Lo stesso valeva per la fede. Eymerich si fece il segno della croce e recitò alcune preghiere. Per calmarsi, non certo per usarle a mo' di esorcismo, come era tipico degli ignoranti. Non bastava una semplice prece a fare desistere Satana e i suoi scherani, quasi tutti reduci dalle armate di Dio e autorizzati all'inganno da Dio stesso. Eymerich si distese sul letto, le mani sotto il capo. Non chiuse gli occhi, non aveva sonno. Rifletté che, tra le forze impegnate a trascinare il mondo in chissà quale altra realtà, alcune parevano schierate a suo favore e altre contro. Il dubbio nasceva da un'ambiguità di fondo. Ramón era indubbiamente un servitore del diavolo. Tutti gli antecedenti erano lì a dimostrarlo, se non fosse bastato l'uso disinvolto che faceva di libri perversi. L'altro fronte, capeggiato presumibilmente da Myriam / Lilith e dalle sue misteriose compagne, si rifaceva tuttavia a credenze ebraiche che l'inquisitore non poteva accettare, anche di fronte all'evidenza. Ramón ne condivideva una parte e la volgeva al peggio, combinandola con il
satanismo cristiano. Era inammissibile scambiare i farfugliamenti dottrinari giudaici per una via alla salvezza e al bene, salvo incorrere in errore grave e forse mortale. Le considerazioni di Eymerich furono interrotte dall'arrivo di Nissim, che gli portava alcune cibarie in un vassoio e che sembrava straordinariamente inquieto. «Padre, in fondo alle scale c'è un... uomo che desidera vedervi». «D'accordo». Eymerich era ancora succube delle sue riflessioni. «Nissim, sai se c'è qui a Mussomeli un ragazzino di circa tredici anni?» Il servo fu sconcertato dalla domanda. «Immagino di sì. Ci sono bambini e ragazzi di quasi ogni età, benché non siano numerosi. Volete che mi informi?» «Sì. Scovami tutti i tredicenni presenti nel castello. O i dodicenni, se il parto ha avuto decorso normale... Chi è il personaggio che vuole conferire con me?» «Ho quasi paura a dirvelo». Non era un eufemismo. A Nissim tremavano le mani. Più che posare il vassoio e il quarto di vino che reggeva, li lasciò cadere. Il portavivande si assestò dopo varie giravolte, l'ampolla restò in piedi per miracolo. «Non farmi spazientire!» esclamò Eymerich. «Chi c'è qui sotto?» «Forse è meglio che lo scopriate da solo». Il domenicano aveva già troppi pensieri per conto suo. Si levò, camminò verso la soglia e, da lì, disse: «In un angolo troverai un sacco, che contiene i miei pochi averi. Infilaci le carte sparse in giro e gli oggetti di mia proprietà. Ci rivedremo, ma non scordarti i tuoi compiti. Scoprire se a Mussomeli c'è un ragazzino di dodici, tredici anni e, a Palermo, combinarmi un incontro con un rabbino molto istruito nelle sue fanfaluche teologiche». «Farò del mio meglio, padre». Eymerich si affacciò alla scala di legno e guardò in basso. Non vide nessuno. Scese allora i gradini, con cautela. Solo quando fu al piano inferiore, davanti alla stanza delle Tre Donne, una figura inattesa e spiritata uscì dal cono d'ombra in cui si teneva nascosta. L'inquisitore rimase sgomento, ma anche l'uomo di faccia a lui portava le stimmate di un terrore cieco. «Perdonatemi l'ardire di avervi incomodato, magister» supplicò Simone dal Pozzo, le nocche delle mani congiunte. «Vi assicuro, non sono portatore di un'anima altrui. Il corpo che vedete è reale». Eymerich arretrò di un passo. «Impossibile. Voi siete morto. Sto parlando con qualcun altro. Ramón?» «No, magister, no! Ignoro ciò che mi è capitato!» Padre Simone scoppiò a piangere, e appariva del tutto sincero. «Mi sono trovato in corpi stravaganti, disegnati dalle ossessioni di un pazzo. Ho avuto fattezze di vitello e di porco, ho
muggito e grugnito. Mi sono arrampicato sui contrafforti di Mussomeli con arti di scimmia. Dominato dal timore che quello diventasse il mio aspetto permanente». Eymerich, benché profondamente scosso e, in una certa misura, spaventato, alzò le spalle. «Menzogne. L'ibbur trasferisce le anime da un corpo all'altro. Non incide sulla conformazione fisica». Simone dal Pozzo, che continuava a lacrimare, allargò le braccia. «Magister, che posso dirvi? Ramón non si basa solo su testi ebraici. Voi stesso mi faceste leggere il Liber Vaccae. Vi si parla di uomini costretti a trasformarsi in scimmia, in porco, in vitello o altri animali, in conseguenza di riti blasfemi. Prima di riacquistare le mie fattezze, ho dovuto attraversare questo inferno». Eymerich restava guardingo. «C'è poco che io possa fare per voi, padre Simone. Siete dato per morto. Tutti quanti ne sono convinti, baroni inclusi». «Alcuni mi hanno visto vivo e vegeto, mentre salivo le rampe del castello!» «Un'apparizione interessante, ma pur sempre un'apparizione. Il corpo che rivestite è artificiale, la vostra anima è un simulacro. Volete un consiglio? Raggiungete i bastioni e precipitatevi nel vuoto. Soffrirete poco e godrete della luce eterna, perché senza peccato. Sto per darvi l'assoluzione». Padre Simone parlò concitato. «Potrei sciogliere enigmi, rivelarvi molti misteri! Se cercate un figlio, non è detto che abbia l'età naturale. Gli sgorbi partoriti dalle quattro dee della lussuria...». Eymerich non l'ascoltava più. Valutava il diametro, fra colonnina e colonnina, di una bifora che si apriva sulle rocce di meridione. Invitò Simone dal Pozzo ad affacciarsi con lui. «Guardate che magnifico panorama! Il luogo ideale da cui offrirsi alla morte. E quanto sono belle le antiche parole: Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris...». Il parapetto era basso. Eymerich afferrò padre Simone per la collottola e lo squilibrò verso l'esterno. Lo osservò mentre precipitava annaspando e urlando contro un costone di scisto, a strati di scaglie taglienti. Un poco affaticato, il domenicano si terse il sudore dalla fronte e dal collo. «È la seconda volta che lo uccido» disse a se stesso ad alta voce. Speriamo che sia quella definitiva. Non ci spero troppo. Dubito che il demonio voglia trattenere con sé un servitore così inetto». Affacciatosi sul burrone, recitò un Requiem aeternam. Valutò se risalire in camera, ma preferì incamminarsi verso la Sala dei Baroni. La trovò quasi deserta: i signori erano certamente impegnati nei preparativi per la partenza del mattino successivo. A un capo della tavola, spoglia di suppellettili e di drappo, sedevano tuttavia Giovanni Chiaromonte, il giovanissimo Ruggero Palizzi e l'arrogante Guglielmo Raimondo III Moncada. Due Latini e un Catalano, ammesso che i vecchi partiti avessero ancora un senso. Sorseggiavano tazze di vino e si godevano il fresco della sala.
Quando scorse l'inquisitore che si affacciava, il conte Giovanni gli rivolse un segno amichevole. «Unitevi a noi, magister, fateci compagnia! Inganniamo il calore pomeridiano parlando di cose che possono interessarvi». Eymerich non aveva nulla in contrario e prese posto su una sedia vuota, accanto ai tre potenti. Due, a dire il vero: da quando, vent'anni prima, una rivolta popolare aveva travolto Matteo Palizzi e i suoi congiunti, a Messina, il casato languiva. Sopravvivevano solo i Palizzi palermitani, nella loro magione imponente, detta degli Schiavi, quasi in rovina. Sequestrata un tempo a Matteo perché ritenuto reo di fellonia nei riguardi degli aragonesi, era stata restituita solo di recente. Fungevano da cani da guardia dei Chiaromonte, che peraltro di cani ne avevano molti altri. Ruggero capeggiava una dinastia in estinzione. Uno schiavo arabo fu lesto a portare una nuova caraffa, gocciolante umidità, e una coppa per Eymerich. Il vino annacquato era buono, malgrado un sentore di resina. Il fondo non era dolciastro. «Magister» disse Giovanni Chiaromonte, estremamente cordiale «io e i miei amici ci stavamo interrogando sui fini dell'imminente viaggio a Napoli. La pace con gli angioini, è chiaro. La pace è sempre sacrosanta. Ma coinvolgere Federico il Semplice non vuole dire che in futuro, stretto un accordo tra francesi e aragonesi, i nostri poteri verranno limitati?» «Mi attengo a un principio che vi è noto, conte» rispose Eymerich. «Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Non faccio caso ai vostri interessi particolari, di ceto dominante». «Un'idea, comunque, ve la sarete fatta. Giusto a livello di opinione». «Sì, e ve la riassumo». Eymerich bevve ancora, si asciugò le labbra nella manica e posò la coppa. «Né Federico IV né Giovanna d'Angiò hanno modo di rovesciare il potere baronale in Sicilia. Si va a Napoli per ottenere riconoscimenti solo formali, che consacrino lo statu quo. L'unico pericolo potrebbe venire da Pietro il Cerimonioso. Finché, però, incontrerà resistenza in Sardegna, la minaccia è solo teorica». Il conte di Modica annuì. «Giusto. Immagino che sia per questo che avete portato con voi Eleonora d'Arborea». «Veramente è lei che ha voluto seguirmi. Ma, al di là dei suoi moventi, il risultato non cambia. La Sicilia è dei baroni e tale resterà per decenni. La società avrà meno cambiamenti che all'epoca dei Sicani o dei Lestrigoni. Avete mano libera a tempo indeterminato». Pieno di entusiasmo, Giovanni sollevò la sua tazza. «Amici, queste belle parole meritano un brindisi!» Tutti levarono le coppe e bevvero insieme. Guglielmo Raimondo Moncada emise un rutto che, secondo il costume arabo, non cercò minimamente di frenare. Domandò, in un catalano approssimativo: «Amico prete, è davvero un cammino senza rischi? Di persona non ho visto tanto, però so che da mesi si succedono eventi eccezionali. Finora nessuno è riuscito a prevenirli. Voi non li temete, a quanto pare. Siete capace di controllarli?».
Eymerich abbassò lo sguardo, per dimostrare un'umiltà che non provava. «Il più delle volte sì. Chi armeggi quotidianamente con la sozzura diabolica sa anche come impedirne il dilagare». «Avete detto "il più delle volte". E le altre volte? Quale pericolo corriamo, circondati da allucinazioni ricorrenti?» «Quello di non distinguere tra mondo effettivo e altro mondo. Satana intende spingervi contro una parete fragile, facile da lacerare come la carta bombicina. Una volta trascinati di là, non saprete più discernere tra sogno e realtà effettiva. Un universo nebbioso di cui faticherete a scorgere i contorni. Pessima sorpresa: si tratta dell'inferno». Eymerich aveva parlato in tono normale e forse proprio per quello notò che i baroni rabbrividivano. Giovanni Chiaromonte si fece portare una brocca d'acqua e, solo dopo averne ingurgitato un bicchiere o due, poté esprimersi con voce limpida, sia pure arrugginita dall'età. «Conto su di voi, magister, perché ci preserviate da un destino così funesto». «Lo farò, signor conte di Modica. Già mi sto sobbarcando gli incubi di tutti». Giovanni si alzò. «Signori, forse è il momento di pensare al viaggio verso Palermo e poi alla traversata che ci condurrà a Napoli. Serve nulla, padre Nicolas?» «Sì! Sto cercando un ragazzino di dodici o tredici anni presente a Mussomeli». «Uno dei figli di mio fratello Manfredi ha l'età giusta». «Non può essere lui». Eymerich si curvò. «Arrivederci a domani, miei nobili. Di ritorno a Palermo».
41.Lilith - 5 Qual è il suo numero di gabbia di Faraday? Lo ricorda?» domandò Myotis. «Sì» rispose Lilith. «È il 325. Uguale al numero di L-E» Il tecnico cominciò a esaminare le teche. «Ora troviamo la sua gabbia, infermiera. Di sicuro sarà vuota. Un attimo di pazienza». Lilith lo afferrò per il bavero e lo sbatté contro i piccoli loculi simili a forni a microonde. Lui non si aspettava tanta forza da parte di una donna e non provò a reagire.
«Basta così, dottore, professore, psichiatra o quel cazzo che sei» sibilò Lilith. «Spiegami subito, in parole semplici, di che diavolo stai parlando, altrimenti ti uccido». Non aveva ancora estratto il coltello, ma fu come se Io avesse fatto. Non abituato ad atti di violenza, Myotis sbiancò. «Cosa vuoi sapere?» «Gli L-F. Che accidenti sono». Lui recuperò un poco di saliva. «Lo sai già. I campi vitali elettromagnetici. Ogni essere vivente ha il suo, formato dalle emissioni a bassissima frequenza del cervello. Resiste persino alla morte del corpo fisico. Modella un uomo fin da prima della nascita e sopravvive al disfacimento della forma carnale». «Non ne ho mai sentito parlare. È una scoperta recente?» «No. Da un millennio non si scopre nulla. Magari si riscopre. Gli L-Field furono teorizzati attorno al 1930 da Harold Saxton Burr, e poi dimenticati. I Soul Catcher servono a catturarli». «A che scopo?» «Per avere, in un mondo impazzito e allucinato, millequattrocento personalità libere dalla follia. Di più, si sperava. Invece sono di meno». Lilith lasciò Myotis, però impugnò il coltello e lo puntò contro il suo ventre. «Guidami alla teca 325. La mia». «È vuota. Hai in te la matrice elettromagnetica. E anche il Soul Catcher che ti hanno impiantato». «Fa niente. Voglio vedere la mia gabbietta». Molto docile, Myotis percorse le file degli sportelli. Trovò il 325. «Eccola. Come immaginavo, non contiene la classica fiala luminescente. Non si vede l'alone». Si curvò sulla teca. Ebbe un sussulto e arretrò. «Questa non me l'aspettavo» fu la frase che gli uscì spontanea. «Che cosa?» chiese Lilith. Myotis indicò un cartellino incollato sopra lo sportello. «È uno dei campi vitali danneggiati. Quelli alterati dai raggi HAARP spediti per errore nel passato e rimbalzati indietro. Con un carico di L-Field che non dovrebbero essere qui». Lilith si chinò a sua volta. «Non vedo nulla, qui dentro. Non c'è niente». «Per forza. Il campo vitale lo hai addosso. È quello che modella la tua personalità». «Sul biglietto c'è scritto 629».
«È il campo invasore venuto da epoche antiche. Lo stesso che ha alterato il tuo. Lo abbiamo isolato e chiuso nella gabbia di Faraday 629. Penso che abbia il tuo stesso numero di LField. 325». «Saremmo dunque una medesima persona». «Non del tutto. Lui il padre, tu la figlia. Il campo vitale elettromagnetico comprende quello, più piccolo, emesso dal DNA». Si udirono alcune urla. Approfittando del fatto che Lilith si era distratta, Myotis cercò di disarmarla. Le afferrò il polso, lo torse dietro la schiena e tentò di farle cadere il coltello. Peccato che le aggressioni fossero la norma, su Paradice, e che, soprattutto fra gli Schizo, ognuno sapesse farvi fronte. Lilith calpestò più volte il piede di Myotis, poi, con un calcio violentissimo all'indietro, lo colpì al ginocchio. L'uomo lasciò la presa e cadde a terra. Si ritrovò con la donna sopra e la lama che gli premeva la gola. Ansimò. «Non sei fatto per questi giochetti, bastardo» sogghignò Lilith. «Ora vedi di dirmi la verità. Tu non sei nato sulla Luna. Nemmeno io. Nemmeno quel porco di Lesurme. Come e dove siamo venuti al mondo?» Gli tagliuzzò la pelle con la punta del coltello. Myotis emise un gemito. Deglutì e disse, con un sussurro: «Siamo corpi rubati. Ogni volta che un lunare sta per morire, rapisce un abitante della Terra. Gli innesta il Soul Catcher e trasferisce in lui la propria anima elettromagnetica. Una specie di matrice». «Dove finisce la psiche originaria?» «Non lo so. È archiviata in un angolo del cervello, penso». «L'ultima spedizione su Paradice era per rubare corpi?» «Anche. Ma soprattutto volevamo rintracciare gli elementi sani da noi sparsi tra i malati di mente. Gli "infermieri"». «Io sarei tra quelli?» «Sì. Purtroppo nessuno ha fatto caso alla contaminazione subita dal tuo campo vitale, a causa degli L-Field piovuti qua per errori di calcolo relativistici». Lilith emise una sorta di singhiozzo trattenuto. «Sono mai stata bambina?» «Sì, ma con un'altra personalità, in una versione infantile del tuo corpo». Myotis aveva, inspiegabilmente, gli occhi pieni di lacrime. «Vale anche per me. Per tutti quelli che sono qui. Chissà dov'è finita la nostra psiche. La Terra è un inferno, e anche la Luna. Psichiatri e militari si sono potuti sbizzarrire per un millennio, a nostre spese».
Lilith, per una volta, non si sentì di uccidere la sua vittima. Pur tenendo il coltello in pugno, si rialzò. Attese che Myotis facesse altrettanto. «Conducimi alla teca 629». Il tecnico si ricompose un poco. Vagò nella luce azzurrognola. «Eccola. Il filamento è ancora attivo. Emette luce e calore». «Quel vetro brillante sarebbe mio padre?» «In teoria sì. Qualcosa di simile. L'L-Field è indicato come 325». «Apri la teca e spezza la provetta». Myotis fece un passo indietro. «Non è possibile! È un campo mentale attivo! Capace di invasare chiunque!» «Allora fatti da parte. Ci penso io». «Non lo permetterò! E troppo pericoloso!» Lilith sollevò il coltello. Digrignò i denti. «Preferisci morire? Non hai che da dirlo. Da un'ora almeno desidero ucciderti e torturarti mentre ancora agonizzi. Se vuoi risparmiarti il supplizio, fatti da parte!» Terrorizzato, Myotis arretrò. Lilith aprì con facilità lo sportello della teca. Fu irrorata di luce rossastra, che possedeva un'enorme intensità senza accecare. Batté col manico del coltello sulla provetta. Era spessa, ma infine si spezzò. Scoppiò un lampo fragoroso. Né fumo, né vibrazioni, né eventi particolari. Dopo la piccola esplosione rumorosa, tornò a regnare la normalità. «Le tue paure erano infondate» disse Lilith a Myotis. Il tecnico aveva un'espressione inebetita. «La vostra scienza è fatta di panzane. Ora mi aiuterai a uccidere i tuoi compari. Hanno tormentato la mia gente, per guarirla da malattie che loro stessi avevano provocato. Corpo dopo corpo dopo corpo, l'anima di questi psichiatri restava malvagia. La Terra non deve conoscere più Lampi. Prima o poi tornerà a una specie di equilibrio. Tu mi asseconderai nel compito. Distruggeremo tutto». Myotis restò in silenzio. I suoi occhi erano velati da un'opacità singolare, come se la superficie liquida e molle si fosse congelata. L'espressione del viso era fissa: una specie di maschera viva, in cui nessun muscolo sembrava capace di dare un guizzo. Veniva da pensare a chi subiva il potere della Medusa, per averla sbirciata, o alla moglie di Lot tramutata in statua di sale, dopo la distruzione di Sodoma e Gomorra. Un poco turbata, Lilith scosse Myotis, afferrandolo per la manica. Gli tornò a puntare il coltello alla gola. «Sveglia, amico. Bada che ti sgozzo». Per un minuto buono non vi furono reazioni. Infine l'uomo si rianimò. Fin troppo. Gli occhi diventarono vivi, mobili, carichi di diffidenza. Le pupille si fecero acute, le iridi nerissime. La muscolatura scattò, ravvivata da un brivido che percorse il corpo intero. Il volto, nel riacquistare mobilità, perse la mollezza precedente la paralisi. Si fece severo e virile. La bocca assunse un taglio tra il sarcastico e il crudele.
A fronte della trasformazione, Lilith fece un passo indietro, tenendosi in guardia. Le prime parole dello pseudo Myotis non furono però ostili. «Somigli molto a tua madre. Del resto porti lo stesso nome». Lilith si sentì sconvolta. Conosceva quella voce secca e metallica. «Stai lontano! Hai già visto che puoi fare una brutta fine! Io non avrò scrupoli, Myotis!» «Non sono quel vigliacco. Lascia cadere il coltello: con me non servirebbe. Sono già morto nel 1399. Abbiamo altro da fare, figlia». Quasi contro la propria volontà, Lilith allargò le dita e mandò l'arma a rimbalzare sul pavimento. Il nuovo Myotis, con una maestà nei movimenti che il vecchio involucro non conosceva, passò nella stanza ospitante i comandi del sistema HAARP. Osservò la strumentazione. «Da qui si possono governare sia il passato sia il presente, non è vero Lilith? Impadronirsi di anime umane, metterle in conflitto, punirle dei loro peccati nei confronti di Dio. Non è così? Dominare la storia, le epoche, il futuro». «Sì» mormorò Lilith, ancora incerta. «Ma tu chi sei? Il 629?» «Può essere. Ho vari nomi. Tanto tempo fa mi hanno chiamato "Ialdabaoth". O anche "Rex", più facile da pronunciare. Tu, ma solo tu, puoi chiamarmi semplicemente "padre"». Myotis sedette su una poltroncina di fronte a uno dei pannelli. Parevano affascinarlo. Mosse qualche levetta per constatarne gli effetti. Lilith stentava a raccapezzarsi. «E io che faccio?» «Non avevi in mente di assassinare tutti gli abitanti del laboratorio? Vai ed esegui. Nessuno di essi è puro». Myotis storse la bocca in un ghigno. «Diceva un mio predecessore: "Uccidili tutti, Dio sceglierà chi salvare". Una massima ancora valida». Lilith strinse il manico del coltello. «Eseguirò, padre. Ma poi resteremo in mezzo a questo buio. Completamente soli». «La solitudine è un premio, il buio il suo ambiente. Non temere. Onorando Dio, avremo modo di divertirci. Millenni di storia umana saranno il nostro passatempo».
Quinta Parte Quinta Essentia
42.Prima della partenza Il quartiere ebraico di Palermo sorgeva tra le mura meridionali del Cassero, stretto fra il Ponticello e la contrada dei Calderai. Si divideva in due borghi, denominati Mischita e Guzzetto, presso il corso sinuoso del torrente Kemonia. Terminava non lontano da San Domenico, e a Eymerich questa pareva una deliberata provocazione. L'inquisitore, pur rilevando lo scandalo, non si attardò a pensarvi. Aveva già il suo daffare nello scansare, con il calare della sera, gli ostacoli che incontrava in quelle viuzze: da tratti di strada disselciati a cumuli di rifiuti, di cui gatti spelacchiati contendevano il possesso a topi in migliori condizioni di salute. «Il perenne malgoverno della città si nota dalla stratificazione dell'immondizia» notò Nissim Ficira. «Si susseguono regni e signorie, ma la sola cura è posta nei palazzi e nei loro viridaria, i giardinetti. Il resto di Palermo può soffocare nella sporcizia». «Gli abitanti non fanno nulla?» «Oh, sì. Danno fuoco ai cumuli, quando sono diventati troppo alti. Il sudiciume si arricchisce di cenere e di puzza». A Eymerich quei discorsi non interessavano minimamente. Era invece preoccupato dall'ora tarda. Sapeva che i regnanti di Palermo, e in particolare gli svevi e gli aragonesi, avevano cercato di spingere gli ebrei fuori della cinta cittadina. L'impresa si era rivelata impossibile, e vi avevano rinunciato. Restava il divieto di mettere piede in strada dopo la mezzanotte. Temeva che la zona fosse sbarrata dopo quell'ora. Lui doveva essere al porto all'alba, per l'imbarco alla volta di Napoli. Espose a Nissim i suoi dubbi. «Manca parecchio alla mezzanotte» rispose il giovane. «La sciurta, la ronda, passa di rado da queste parti. La sua occupazione principale è cercare di impedire i duelli selvaggi, con la spada o il coltello, tra i giovani rampolli della piccola nobiltà. Invano: quasi ogni notte un ragazzo resta grevemente ferito, se non cadavere. È lo svago che prediligono». La giudecca palermitana diventava via via più cupa. Sulle porte, entro piccole cavità, erano ficcati estratti della Legge, ben arrotolati. Rondelle rosse adornavano molte soglie.
«Ecco la sinagoga!» annunciò Nissim. «Lì ho ricevuto la mia prima educazione». Eymerich affrettò il passo, provocando la fuga di una legione di topi. Nello spiazzo angusto in cui si inoltrò poté respirare più liberamente. La sinagoga, illuminata dalla luna appena spuntata, era un edificio piccolo e modesto, sommerso da casupole di poco più basse. Pareva una chiesa, ma superava ogni chiesa in semplicità. Unico elemento elegante, i bei caratteri ebraici incisi sulla facciata. Di fronte alla putredine che l'assediava, la sinagoga faceva la figura di una basilica. «Un istante solo, padre! Penso che il rabbino riposi nel suo domicilio». Nissim corse non verso la sinagoga, ma in direzione di una casa stretta, a due piani, costruita a lato. Si attaccò a un campanello e attese che si aprisse un battente. Ne scaturì un quadrangolo luminoso. Nissim conversò con qualcuno, poi disse: «Venite, padre! Il rabbino è sveglio e acconsente a ricevervi! Se passa la sciurta, ha modo di ospitarvi fino a domattina». Mezz'ora dopo, Eymerich era seduto su un divano. Accettò da Sufen de Gaudio, il rabbino, una tazza di infuso di menta. La stanza era stretta come tutto l'edificio e non aveva suppellettili che indicassero la religione del proprietario. La illuminava una lampada a due becchi, appesa al soffitto con una catenella. Le pareti trasudavano umidità e tuttavia erano pulite. Emanavano un odore lieve di salnitro. Di sicuro, in quell'ambiente de Gaudio riceveva ma non lavorava. Un segretario molto anziano lo serviva senza proferire parola. «Credo di non potervi contare tra gli amici della nostra gente» esordì il rabbino. Portava sul naso grosse lenti, rette da un'intelaiatura centrale, che gli ingrandivano le pupille. Se ne vedevano da pochi decenni, ed erano dette "occhiali". La barba era lunga ma curata, i baffi spioventi, il cranio calvo. Aveva in testa uno zucchetto che somigliava a una piccola cuffia nera. Difficile stabilire la sua età: pareva un vegliardo, eppure aveva la pelle liscia e colorita. «Non vi sbagliate, rabbino. Però non sono qui per farvi la guerra. Tutt'altro. Vengo a chiedervi delucidazioni su alcuni punti dottrinari poco noti». «Nissim me lo ha detto». De Gaudio sorrise al giovane, seduto come lui su un piccolo scanno dai braccioli alquanto impolverati e intento a sua volta a sorbire menta. «Non ho nessuna difficoltà a darvi le informazioni che desiderate. La nostra religione è meno segreta di quanto pensino tanti goym». «Allora vi pongo una domanda preliminare, a cui non ho mai trovato risposta adeguata. La Kabbalah fa parte dell'ebraismo ortodosso? Oppure è ritenuta eresia?» «Né l'una né l'altra cosa, signor Eymerich. È una dottrina coltivata da una minoranza. Un po' come, se mi consentite il paragone, il misticismo estremo di certi cristiani. O la corrente maomettana detta Sufismo. Seguirla non è peccato, visto che non contraddice le Scritture, ma nessun credente è tenuto a convincersene o a aderirvi». Eymerich rimase leggermente spiazzato. La sua religione era un carro da battaglia che non ammetteva deviazione alcuna. Quanto ai "mistici" cristiani, il giudeo forse intendeva riferirsi
ai francescani detti "poverelli". Era vero, venivano tollerati. Ai suoi occhi, si trattava di una colpa che prima o poi andava sanata. Tuttavia non era lì per quello e non si lasciò distrarre. «Rabbino, è proprio su temi attinenti alla Kabbalah che vorrei interrogarvi». «Non occorreva che veniste fin qui». I modi di de Gaudio erano estremamente cortesi, ma ciò non gli impediva, di tanto in tanto, di manifestare ironia. «Siete di Gerona, ho sentito. Ebbene, a Gerona la Kabbalah ha avuto i suoi più raffinati cultori, a cominciare dal dotto Moisés de León». «Proprio a lui devo una certa infarinatura. Voi vi considerate un cabalista?» «No, anche se ho letto con attenzione lo Zohar». «Bene, eccoci subito al dunque. Esisterebbero, secondo quel libro e altri testi, quattro donne ritenute le "madri dei demoni". Ne conoscete i nomi?» «Certo. Si tratta di Lilith, Agrath, Mahalath e Na'amah. Più che demoni in senso stretto, mettono al mondo dei banin shovavim, che tradurrei come "figli maliziosi". Creature ibride, nate da un uomo e da uno spirito femminile lussurioso. Esseri incompleti, dalla vita fragile e precaria». Eymerich rimase di colpo senza saliva. «E come sarebbero fatti, questi "figli maliziosi"?» «Esiste per loro una definizione più negativa, che li chiama "piaghe". Ora la udrete con le vostre orecchie». Il segretario muto, anziano e allampanato, uscì dalla stanza senza ricevere alcun ordine esplicito. Tornò reggendo un tomo ponderoso e si addossò al muro umidiccio. Porse il libro al padrone. «Lo Zohar è un'opera complessa, assai caotica. Pazientate un attimo». Il rabbino sfogliò da sinistra a destra le pagine fitte di scrittura minuscola, graficamente molto elegante. «Ecco qua. Libro I, Berechit III, paragrafo 55a. "Quando un uomo sta sognando, dei soffi femminili accorrono e, grazie al contatto con lui, si riscaldano e possono partorire altri soffi. Questi sono chiamati 'piaghe dei figli dell'uomo', rivestono sempre forme umane e non hanno capelli sulla testa." Il brano vi dice qualcosa?» «Forse» rispose Eymerich, rauco. Sorbì un sorso di menta per schiarirsi la gola. «Come avviene, secondo lo Zohar, l'inseminazione?» «Le quattro entità femminili che vi ho nominato sono "demoni del mezzogiorno". Colgono un uomo che si riposa, lo circondano di allucinazioni e lo inducono a pensieri peccaminosi. Se emette seme, lo usano per fecondarsi e dare vita a una genia di soffi mostruosi». «Una genia? Perché una genia?»
«Lo spiega lo Zohar alla fine dello stesso paragrafo. Adamo, che prima di Eva aveva sposato Lilith, non cessò di procreare durante centotrenta anni. Secondo Rabbi Simeone, "mise al mondo dei soffi e dei demoni a causa del veleno che aveva ingerito". Il veleno del serpente. Solo dopo che questo si esaurì poté generare un figlio normale». «Voi credete a tutto ciò?» chiese Eymerich, in tono provocatorio. «No. E voi?» L'inquisitore non reputò opportuno rispondere. Fece slittare il tema della conversazione. «Rabbino, una parte dell'ebraismo parla dell'invasione di altri corpi o della creazione di corpi nuovi. Uomini che diventano animali, o animali che diventano uomini. Cosa me ne dite?» Sufen de Gaudio abbozzò un sorriso. «Sono fantasie. Hanno un equivalente in uno dei più illustri pensatori cristiani, Origene. Lui pure credeva nella trasmigrazione di una psiche da un corpo fisico all'altro, dopo la morte». «Quelle pagine dei Principia sono state cancellate!» «Se sono state cancellate, vuoi dire che prima esistevano». Di colpo, de Gaudio perse ogni atteggiamento aggressivo. Posò lo Zohar sul pavimento e mise le mani sulle ginocchia. «Insomma, signor Eymerich, cosa volete da me? Mi interrogate su faccende che esulano dalla lettura della Torah, per non parlare delle Scritture. Ve l'ho detto e ripetuto, non sono un cabalista. Leggo il vostro conterraneo de Leon per pura curiosità. Cosa vi preme sapere? Ancora non lo afferro». Eymerich fu soddisfatto. Quando lo trattavano da stupido significava che non lo avevano capito. Era precisamente il suo scopo: non farsi capire. «Rabbi de Gaudio, cerco di afferrare un aspetto secondario, ma che per me riveste un'importanza capitale. Esiste un ambito della cultura giudaica destinato alla creazione di animali razionali, o magari uomini? Non parlatemi del golem, ne ho già fatto esperienza tredici anni fa, a Montiel. Voglio comprendere come un confratello domenicano passi da una mente all'altra e crei simulacri di corpi umani quasi fossero abiti da indossare. L'ibbur spiega moltissimo, però non tutto». La domanda mise de Gaudio di malumore. «Signor Eymerich, il problema della creazione o dell'animazione di esseri senzienti a partire da materie vili non è considerato dal solo giudaismo». «Lo so. Parlo di manipolazioni operate non da Dio, e nemmeno da un demonio, ma da qualcuno come voi o come me». «Non c'entra con la dottrina ebraica». «Ciò nonostante qualcuno della vostra gente ha preso in esame ipotesi del genere, non è vero?»
De Gaudio tacque il tempo di consumare le ultime gocce di menta e di consegnare la tazza al segretario. Esalò un sospiro profondo. «Avete mai udito parlare di Maria l'Ebrea?» Eymerich trasalì. «Certo. Un'alchimista vissuta più di un secolo fa. Colei che inventò il Bagnum Mariae, in cui un recipiente pieno d'acqua in ebollizione ne contiene un secondo, e il primo scalda il contenuto dell'altro». «Proprio lei». Il rabbino forse avrebbe voluto mostrarsi più reticente, ma ormai si era lasciato coinvolgere. «Visse nel clima culturale di Alessandria d'Egitto, però certi autori arabi la chiamano Maria Sicula. Può darsi che sia vissuta qua, come, dopo di lei, Michele Scoto e Arnaldo da Villanova. La Sicilia era in contatto con tutto il mondo mediterraneo, Egitto compreso». «Cosa c'entra questa Maria con la mia domanda? Ho letto di lei in Zosimo e in Olimpiodoro, ma i dettagli non li conosco». «Progettò strumenti ancora usati dagli alchimisti: il kerotakis, l'uovo filosofico...». «L'uovo!» «Sì, e i due contenitori ovali uniti per l'imboccatura, detti OA, Omega e Alfa. Utili a dare perenne vitalità a ciò che contengono. Ma soprattutto elaborò una dottrina un po' folle, che nessuno segue più. Nella sua opinione, qualsiasi materia animata o inanimata conterrebbe alla base una stessa sostanza impalpabile, diversa da acqua, terra, fuoco e aria, comprensiva delle caratteristiche degli altri elementi. Tale quinta essenza potrebbe causare trasmutazioni a catena. Per esempio, un metallo inserito nel ventre di una vacca, anche se morta, sarebbe in grado di trasformarsi in qualunque cosa, animata o inanimata. Animali razionali inclusi. Si dice che Maria l'Ebrea ottenesse, con le sue esperienze, risultati sbalorditivi. Esseri senzienti nati dalla pietra, dal liquido o dal metallo, o piccole creature di ferro o di roccia. Zosimo lo asserisce, nelle sue fantasticherie». A quel punto, il rabbino mise avanti le mani, come per cautelarsi. «Tutto questo, sia chiaro, non c'entra con la religione del mio popolo. Nemmeno con la Kabbalah, che per la creazione del golem fornisce altre ricette più o meno attendibili. Che Maria Sicula fosse ebrea è una mera casualità. Avrebbe potuto nascere ovunque e professare altre fedi». Eymerich non lo ascoltava più. Cercava di radunare i fili di una tessitura incredibilmente complicata. Pose solo a de Gaudio la domanda più ovvia, con voce noncurante: «Conoscete il Liber Aneguemis, o Liber Vaccae?». «No. Quel titolo mi è ignoto». In quel momento si udirono i rintocchi di un campanile vicino, forse quello della chiesa di San Michele Arcangelo. Nissim si levò. «E mezzanotte! Dobbiamo lasciare il quartiere, padre, per non avere problemi con la sciurta!» «Problemi? Non credo che ne avrei, visto l'abito che indosso». «Voi no, io sì».
Eymerich si alzò a sua volta. Disse a de Gaudio: «Vi sono grato del colloquio. C'è un modo per dimostrarvi la mia riconoscenza?». «Sì! Chiedere al re oppure al rector che sia abolita la jucularia! È la tassa esosa che ogni ebreo deve pagare quando si sposa o ha un figlio! Nessun'altra giudecca siciliana la paga. Applicarla solo a Palermo è insensato!» L'inquisitore fece una smorfia. «Vedrò di intercedere». «In cambio ho un dono per voi». Il rabbino guardò il segretario che, senza chiedere istruzioni o chiarimenti, uscì svelto dalla stanza. Tornò nel volgere di un minuto e porse a de Gaudio un manoscritto rilegato in pelle, di grossezza non cospicua. Una cinquantina di pagine in tutto. Il rabbino lo porse a Eymerich con riguardo. «Si crede che tutte le opere di Maria Sicula siano perdute. Le si conosce solo attraverso le citazioni di Zosimo di Panopolis e di Olimpiodoro. Ma ecco qua una copia del Discorso della saggia Maria sulla Pietra dei filosofi. Ne esiste un'edizione latina abbreviata e cristianizzata, e altre in greco e in arabo ancora meno attendibili. Questo è l'originale ebraico». «Una lingua che non conosco». «Nissim potrà aiutarvi». «Neanche lui la padroneggia a fondo». De Gaudio increspò le labbra in un sorriso enigmatico. «Ne sa abbastanza. Fidatevi del suo antico tutore». Nissim forse non sentì. «Sbrighiamoci, padre» esortò Eymerich. «A parte la ronda, domattina dobbiamo imbarcarci alle prime luci del sole». «Hai ragione, vengo». Eymerich mise il libro sotto il braccio. Provava gratitudine verso il rabbino, ma non l'avrebbe mai ammesso. Disse solo, in tono sbrigativo: «Intercederò per l'abolizione della jucularia, ma non vi garantisco risultati». «So che farete del vostro meglio, e ciò mi basta. Insisto solo sul fatto che il libro che portate con voi non ha niente a che fare con la religione ebraica. È stato scritto da un'ebrea che non rappresenta noi giudei, né la nostra fede». La strada era deserta, e così parevano i viottoli adiacenti. Eymerich chiese a Nissim: «Palazzo Steri è molto lontano?». «Abbastanza, signore». «Ci restano poche ore di sonno. Propongo di chiedere alloggio a San Domenico, di cui vedo la sommità del campanile. Potremo riposare un poco, prima di cercare la galea per Napoli. Che ne dici?»
«Sono d'accordo, signore. Nella dimora dei Chiaromonte deve regnare una grande confusione, con tutti i baroni che ospita. Per non parlare degli armigeri, dei servi, dei cortigiani. Meglio fermarsi dai domenicani che a Palazzo Steri. Dormiremo almeno due ore in più». La notte si addensava, ma la luna a tre quarti rendeva percorribili le stradine. Un venticello salmastro allontanava l'afrore dei rifiuti, accumulati anche sulle sponde del Kemonia. Non c'era traccia né di sciurta né di passanti. La facciata di San Domenico era cullata piacevolmente dal frusciare delle palme circostanti e dal profumo dei fiori. Grazie al chiarore lunare, Eymerich trovò la catena del campanello e le diede uno strattone. Si aspettava di vedere apparire un frate guardiano, o di non avere affatto risposta. Dopo un lungo intervallo l'usciolo ricavato nel portone si aprì. Chi si affacciò, con una candela in mano, fu padre Simone dal Pozzo. «Che piacere rivedervi, magister! Dopo tanti giorni! Accomodatevi, voi e il vostro servo. Che Dio benedica entrambi. Ora mi racconterete dove siete stato, nelle ultime settimane! Ho chiesto informazioni, ma nessuno sembrava saperlo».
43.Napoli! Se fosse stato minimamente sensibile alle bellezze naturali, Eymerich avrebbe potuto affermare di non avere mai visto, in vita sua, uno scenario di tale, inebriante magnificenza. Lo contemplava dalla prua di una delle due galee provenienti dalla Sicilia, quella recante le insegne dei Chiaromonte. La seconda metropoli più grande al mondo, dopo Parigi, si estendeva su un golfo di acque placide, azzurre quanto il cielo. La cingeva da un lato una montagna a due gobbe che, gli era stato detto, era un vulcano ogni tanto attivo e fumante. Ai suoi piedi era morto, sotto la lava rovente, Plinio il Giovane, testimone dei primi successi del cristianesimo e, come tale, ben considerato dalla Chiesa. Ma era la città, in parte collinare, che catturava l'attenzione. Vastissima, irta di campanili, con castelli e contrafforti. «La potenza degli Angiò nella pienezza suo splendore» commentò Simone dal Pozzo, mentre cercava di sottrarsi agli spruzzi di acqua salata. «Dopo quella dei normanni e degli svevi». «Una storia simile a quella di Palermo». «No, non direi. Le due città non si somigliano per niente, al di là di qualche analogia marginale». «Dunque siete già stato qua». Eymerich era sospettoso. «In varie occasioni, ma è passato tanto tempo, magister. A seconda delle vicissitudini siciliane, Napoli diventa un riferimento politico obbligato, una potenza nemica o un'indicazione geografica utile ai naviganti».
«Capisco» commentò l'inquisitore, anche se non era del tutto vero. Gli spruzzi diventavano fastidiosi anche per lui. «Andiamo sotto l'albero maestro. Discorreremo senza troppe distrazioni». Attraversarono le due file di rematori e si appoggiarono all'albero dalla vela latina abbassata, per ridurre la velocità dell'imbarcazione. Manfredi Chiaromonte e gli ospiti scelti per incontrare Giovanna d'Angiò – i Ventimiglia, i Lancia ed Eleonora d'Arborea, mentre i Moncada, gli Alagona e altri Catalani erano imbarcati sulla galea del re Federico IV – si trovavano sottocoperta. Sul castello di poppa, squadre di uomini spingevano l'asse del timone, per dirigere la nave verso il porto. Eymerich sedette su un rotolo di cordami umidicci e invitò l'inquisitore di Palermo a fare lo stesso. Questi si accomodò su un cumulo di pennoni di riserva, utile nel caso in cui, durante la navigazione al largo, un colpo di vento avesse abbattuto la vela triangolare. Caso abbastanza frequente, lontani dalle coste. Il Mediterraneo era calmo per antonomasia, tuttavia non mancavano tifoni e temporali. «Mi avete detto ieri notte di non essere tornato a Palazzo Steri, quando ci congedammo prima della partenza per Mussomeli» esordì Eymerich. «Dunque avrei fatto quel viaggio in compagnia di un impostore o di un simulacro che vi riproduceva alla perfezione». «È così, magister. Caddi in un sonno molto profondo e non potei essere presente alla partenza». «Nulla mi prova che diciate la verità». «Alcuni indizi, che mi avete raccontato in dettaglio, lo dimostrano. Le incertezze dottrinarie del mio alter ego. La sua morte dubbia e poi la sua riapparizione. Lo stesso esprimersi con frasi sibilline e la fede incondizionata che riponeva nei baroni. Cosa non tipica di un inquisitore. Per oltre una settimana siete stato a contatto con un fantoccio incoerente che mi somigliava solo nell'involucro». Eymerich batté i palmi delle mani sulle ginocchia. «È il solo enigma che non capisco!» esclamò. «Di moltissimi altri misteri ho trovato una spiegazione grossomodo plausibile, anche se alla luce di fedi e dottrine che condanno. Si sa che il demonio rende verosimili, in apparenza, teorie bugiarde. Ma un conto è generare esseri immondi secondo le favole giudaiche, o sovrapporsi alla mente di un senziente con l'ibbur. Un altro è forgiare la replica di qualcuno che vive e farlo agire in maniera autonoma. Per di più, senza suscitare eccessiva meraviglia in chi lo credeva morto». «Non so darvi una risposta, magister. Gestisco una biblioteca, eppure ho letto meno libri di voi». Padre Simone allargò le braccia in segno di impotenza. «Non mi piace essere adulato» rispose Eymerich, scorbutico. «Non vi sto adulando, mi crediate o no. Mi rivolgo alla vostra cultura per domandarvi una quisquilia, ora che stiamo per arrivare a Napoli. Fin da quando siamo salpati da Palermo ho temuto che ci accadesse ciò che avete sperimentato al largo della Sardegna. Una nube, poi
diversi giorni trascorsi in un istante. Anche di questo sapete fornirmi una ragione, magister?» «Sì, posso farlo. Non è precisamente lineare, ma il mondo che abbiamo attorno pare impazzito. Non è più vero che, eliminato l'impossibile, l'improbabile rappresenti la realtà. È vero l'esatto contrario». «Salti nel tempo e nello spazio sfidano l'umana ragione». «Venite con me». Il castello di poppa, piuttosto elevato, ospitava le personalità di rango, come i baroni e alcuni dei loro assistenti e servitori. Sottocoperta, invece, insieme agli ufficiali, alloggiavano altri ospiti, separati da tendaggi allestiti per l'occasione. Soldati, rematori e marinai dormivano solitamente sul ponte, data anche la brevità delle traversate. Eymerich aveva la sua branda riparata da un lenzuolo appeso a un soffitto bassissimo. Aveva chiesto lui quella sistemazione: la fatuità delle conversazioni tra nobili lo irritava al solo pensarvi. Sedette sul giaciglio e invitò dal Pozzo ad accomodarsi di fianco a lui. Frugò sotto il letto e ne trasse il suo sacco, con pochi indumenti e molti libri. «Ecco il famoso Liber Aneguemis, che tanta parte ha in questa storia». Sfogliò lo smilzo manoscritto. «Leggo dall'introduzione di tale Hunayn alla parte seconda, forse incompleta: "Donec aliquis eorum pervenit ad hoc...". Vi traduco. L'autore sta parlando dei cosiddetti filosofi giunti al massimo grado di iniziazione. "Alcuni di essi giungono a trovarsi a Roma e a passeggiare in Africa nello stesso giorno, e a essere di nuovo sulla costa siro-palestinese di giorno e in Occidente al crepuscolo: con loro, è come se la Terra venisse ripiegata." Vi è chiaro?» «Solo in parte, magister. Afferro che i personaggi in questione saprebbero dislocarsi rapidamente da un luogo all'altro». «Sì, ma come?» Eymerich gettò di lato il manoscritto e cercò di spiegarsi con la mimica delle dita. «Immaginate di prendere un foglio di carta di Fabriano e di scrivervi, alla sommità, "Parigi". In basso scriverete "Gerusalemme". L'ampiezza del foglio corrisponde alla distanza tra le due città». «Sì, ci arrivo». «Una penna che tracciasse una linea di congiunzione dovrebbe attraversare l'intera pagina. Non accade così se piego il foglio in modo che la scritta "Parigi" combaci con la scritta "Gerusalemme". "È come se la Terra venisse ripiegata" dice il libro. La mia penna, per unire le due città, percorrerebbe un tragitto brevissimo. Forse nessuno». Per dare evidenza alla sua spiegazione, Eymerich, che aveva i palmi delle mani aperti e affiancati, li premette uno sull'altro. «Una dinamica assai evidente». Con una leggera esitazione, Simone dal Pozzo ammise: «Sì, tuttavia...».
«Aspettate, non ho finito» lo interruppe Eymerich. «II Liber Vaccae consente altre speculazioni. Rimaniamo al nostro foglio ripiegato. Non cambia solo la distanza richiesta alla penna per unire le due città, ma diminuisce anche il tempo impiegato per farlo. Dunque, se io piego lo spazio, cioè il foglio, sto piegando anche il tempo, che si adegua alla curvatura della pagina». «E ciò ha conseguenze pratiche?» «Per me le ha avute. Mi trovavo distante dalla Sardegna e in poche ore mi sono ritrovato sul litorale. A Mussomeli ero in una specie di caverna e, nel giro di un attimo, sono stato sbalzato in una stanza del castello, subito sotto la mia. Pensavo a prodigi demoniaci, e un poco lo erano. Non ne intuivo ancora la meccanica. Il fatto è che non avevo letto il Liber Vaccae con sufficiente attenzione». Simone dal Pozzo era scosso, e si vedeva che stava inseguendo i possibili sviluppi di quell'interpretazione. Alla fine di qualche suo ragionamento domandò, con l'esitazione di chi teme di dire una stupidaggine: «Ramón de Tàrrega sarebbe padrone di questi processi? La "curvatura" del tempo e dello spazio?». «Pare di sì. E di altro ancora». «Ma come fa?» «Non lo so, e tuttavia sento di essere sul punto di scoprirlo. Avverto in me una consapevolezza particolare: un dono di Dio, evidentemente, che intendo mettere a frutto. Non so quanto Ramón padroneggi i poteri che usa con tanta disinvoltura. Ho la sensazione che...». La galea subì uno scossone, mentre si udiva un cigolio assordante. I remi caddero in acqua, lo scafo vibrò. Lo stridore, di origine metallica, si protrasse e si accentuò. Alcuni soldati presenti sottocoperta corsero verso il più vicino boccaporto, con alcuni topi che correvano tra i loro calzari. I marinai in turno di riposo, invece, non manifestarono preoccupazione e lasciarono i giacigli in tutta calma. «Non c'è nulla da temere» spiegò padre Simone. «Stiamo solo entrando nel porto di Napoli. Il cigolio è quello della catena che ne delimita l'entrata. La stanno abbassando». I due domenicani salirono sul ponte. Dal castello stavano uscendo i baroni con i loro seguiti. I vogatori avevano lasciato i remi, che adesso fluttuavano di fianco allo scafo. La vista, sotto un cielo brillante e tiepido, era ancora più amena di un'ora prima. Si scorgeva nitidamente un castello poderoso edificato su una penisola e, più distante, l'enorme maniero degli angioini. I moli erano invasi da un popolo in festa, o per l'occasione, o perché abituato a salutare così l'arrivo di ogni nave. Evento frequente, a giudicare dal numero di imbarcazioni alla fonda entro il recinto della catena. Bastimenti di tante fogge e di tante stazze, molti dei quali provenienti dall'Oriente: Dalmazia, Grecia, Turchia, Costantinopoli. In disparte erano ormeggiate, bellicose e cupe, le galee da guerra di Venezia e Genova, i due predoni del Mediterraneo. La foggia stessa dei loro scafi ne denunciava i fini pirateschi.
Eymerich cercò con lo sguardo la galea che trasportava Federico IV e il suo seguito. Navigava di conserva al legno lussuoso dei Chiaromonte, tenendosi un po' indietro. La disparità di decorazioni e la distanza mantenuta erano eloquenti su chi avesse il comando effettivo. «Rieccovi, padre!» esclamò Nissim Ficira, sbucato da chissà dove. Approfittando di uno sbilanciamento di Simone dal Pozzo, costretto ad aggrapparsi al sartiame, ne prese il posto. «È un piacere rivedervi!» Eymerich gli scoccò uno sguardo duro. «Dove eri finito?» «Giocavo a morra a prora, con alcuni di questi bravi marinai. Non ho scordato il mio incarico. A Mussomeli, i ragazzi di dodici o tredici anni erano pochi, e nessuno interessante. Sulle nostre due galee non ce ne sono affatto». «Va bene» disse Eymerich, rimproverandosi la troppa indulgenza. «Scendi sottocoperta. Il mio abitacolo è il primo. Se frughi nel mio sacco, troverai il libro che mi ha regalato il rabbino de Gaudio. Quello di Maria l'Ebrea. Leggilo, poi mi riferirai il contenuto». Nissim allargò le braccia. «Signore, sapete che è una lingua di cui non capisco quasi nulla». «Quel "quasi" distingue il nostro grado di comprensione. Afferrerai, se non altro, qualche concetto vago che io non saprei interpretare. Adesso sparisci, renditi utile». «Lo sbarco è imminente. Lo farò a terra». «No. Il libro devi prenderlo subito. Ci vorrà almeno un'ora prima che scendiamo a Napoli, carichi come siamo di baroni, aspiranti baroni e soldati. Sottocoperta, nessuno ti disturberà». «Così mi perdo l'approdo!» piagnucolò Nissim. «Piegato a decifrare gli arzigogoli di Myriam!» Eymerich trasalì. «Myriam? Perché la chiami Myriam? Intendi Maria l'Ebrea?» «Sì. Maria, in ebraico, è "Myriam"». L'inquisitore rimproverò a se stesso la propria ignoranza, ma non seppe quali conseguenze trarre dall'informazione. «Vai di sotto e fai ciò che ti ho detto» ordinò a Nissim. «L'arrivo a Napoli non avrà nulla di straordinario. Solo confusione e getti di acqua sporca». Così si svolse lo sbarco, in effetti, tra gridi di gioia sul molo e imprecazioni di chi, carico d'armi e di ferraglia, doveva tenersi in equilibrio su una passerella strettissima per mettere piede a terra. Attorno affluivano barche di pescatori, non era chiaro se per festeggiare o se per offrire ai nuovi venuti il prodotto di una notte di lavoro. La metropoli sembrava la capitale dell'allegria sfrenata e dei profumi. In cielo non si vedevano nuvole e, per fortuna, neanche dischi luminosi. Eymerich si trovò a scendere dalla galea subito davanti a Guglielmo di Romagna. Lo aveva visto di rado, ultimamente, e non ne aveva sentito la mancanza. Verso il condottiero non
provava avversione e ormai nemmeno troppa diffidenza. Capiva che, come tutti, era rimasto vittima dei giochi intavolati da una mente contorta, attualmente presente - se era presente - in chissà quale corpo. Seguivano Guglielmo i suoi armigeri, ordinati in una traballante fila che rischiava a ogni istante di precipitare in acqua. «Nessuno della corte angioina è qui a riceverci» notò il condottiero. Eymerich non era certo se l'osservazione fosse rivolta a lui ma, visto che era stata formulata in catalano, pensò di sì. Posati i calzari sul molo umido, indicò l'imponente rocca a sinistra, di colore scuro, stretta fra imponenti torri cilindriche. Se ne scorgevano solo le sommità. «Gli Angiò ci attendono di sicuro in quella fortezza. È la loro reggia, non è vero?» «Credo di sì, padre». «E quel maniero possente che si spinge in mare cos'è? Ha un nome?» «È una difesa militare, anche se non credo che, attorno, si sia mai combattuto. La plebe napoletana lo chiama Castel dell'Ovo, per via di una leggenda ridicola». «Quale leggenda?» «Dicono che Virgilio... sì, Virgilio il poeta... vi abbia...». Guglielmo di Romagna dovette interrompersi e farsi di Iato. Dalla galea stava scendendo, con tutta la maestà del caso, Manfredi Chiaromonte, con un servo che lo teneva per le spalle perché la mole non lo sbilanciasse. I popolani non sapevano certo chi fosse, tuttavia le vesti sfarzose, i monili d'oro, il piumaggio del cappello facevano intuire che si trattava di un personaggio di primo piano. Lo accolsero con una salva di evviva. Quasi simultaneamente, dall'altra galea scendeva Federico IV d'Aragona. Basso, magrolino, un po' incespicante. Ci furono acclamazioni anche per lui, ma meno sguaiate. Baroni di rango molto inferiore ebbero un'accoglienza più calorosa. Gente del volgo corse a porgere al re fette della larga focaccia circolare arrostita su fornelli improvvisati. Eymerich ne conosceva il nome: era detta piza, un semplice impasto di farina di frumento, dai bordi bruciacchiati, insaporita con condimenti vari. Un alimento dei giorni di festa. Il sovrano ne accettò uno spicchio e lo masticò, sollevando l'entusiasmo popolare. Le due comitive, quella di Federico IV e quella di Manfredi Chiaromonte, si incontrarono e si fusero. Fu allora che Eymerich rivide Eleonora d'Arborea. Era molto pallida, e la sua ferita allo zigomo, a forma di stella, era di un rosso vivo. Pensò di raggiungerla. Manfredi lo trattenne per la manica, suscitando nell'inquisitore una ripulsa a cui non poteva dare sfogo, per il momento. «Padre Nicolas, vi presento Federico d'Aragona, sovrano di Sicilia di fatto, e presto anche di diritto». Rivolto al re aggiunse: «Questi è l'inquisitore Eymerich, domenicano. Nato a Gerona e rispettato ovunque. Unico per dottrina ed equilibrio, in questi tempi cupi».
Federico IV lanciò a Eymerich uno sguardo distratto. «Credo di averlo già incrociato. Si rivolga ai miei scudieri. Avrà una buona elemosina». Manfredi si rizzò, in tutta la sua mediocre statura. «Sire, padre Nicolas non è un domenicano qualsiasi. È delegato dal papa a rappresentarlo nelle trattative con gli Angiò. Possiede anche un mandato di Pietro il Cerimonioso. Non è affatto un frate qualsiasi. Lo definirei un plenipotenziario». Federico trasalì. «Davvero? Allora scusatemi, padre Eymerich. Se c'è qualcosa che posso fare per voi, dite pure». «Una sola cosa. Lasciarmi tranquillo. Vedo arrivare un notabile che condurrà voi e Manfredi Chiaromonte da Giovanna d'Angiò. Tornerò utile al momento delle trattative. Ora, per favore, dimenticatemi». Eymerich si accorse di avere perso Eleonora d'Aragona, inghiottita dalla calca. Rimaneva invece in vista Guglielmo di Romagna, che ricomponeva in ranghi appiedati la sua piccola guardia. Gli si appressò e gli chiese: «Potete raccontarmi la leggenda di Virgilio e di Castel dell'Ovo? L'avete interrotta a metà». «Adesso? Ho molto da fare». «Sì, adesso. Mi basta una sintesi».
44.La leggenda di Castel dell'Ovo Conosco la storia solo per sommi capi e ve la riassumo» disse Guglielmo di Romagna. «Al poeta Virgilio i napoletani attribuiscono virtù di mago e lo onorano come costruttore di luoghi importanti della loro città». «Intendete davvero Publio Virgilio Marone? O un omonimo?» chiese Eymerich, molto stupito. «Proprio lui. L'autore della Eneide... Ebbene, quando fu costruito Castel Marino, Virgilio vi nascose un'anfora contenente un uovo di gallina. La fece celare nelle travi di un soffitto e ordinò che la stanza fosse murata. Se un giorno qualcuno la ritroverà e romperà l'uovo, sarà la fine del castello, e forse di Napoli e del mondo intero». «La denominazione della fortezza deriva da questa stupidaggine?» «Sì, anche se è difficile a credersi. Il volgo napoletano è tra i più fantasiosi che esistano». Guglielmo rise. «Se quell'uovo esiste ancora, dev'essere marcito da un pezzo».
Si era intanto formato un lungo corteo, che percorreva il lungomare in direzione del castello dalle torri scure. Eymerich si separò da Guglielmo ma, non avendo di meglio da fare, decise di accodarsi. La folla premeva ai lati e continuava ad acclamare i visitatori siciliani senza sapere chi fossero, Federico IV a parte. Con tutta probabilità ignorava anche il motivo della loro venuta. Ma poco importava. Corpi scheletrici e visi smunti facevano capire che la città aveva sofferto, in anni recenti, e forse soffriva ancora. Fare festa era un modo per dimenticare le disgrazie e, idealmente, partecipare a banchetti altrui. Transitarono di fronte a Castel dell'Ovo, una costruzione squadrata, massiccia, bassa di torri e forte di mura. Eymerich si ripropose di visitarlo, nei giorni successivi. La loro meta era più oltre, e un caldo singolare per la primavera rallentava la marcia. Finalmente, molto sudati, raggiunsero l'imponente rocca scura degli angioini. Da lontano, l'inquisitore scorse una piccola turba multicolore uscire dal castello e andare incontro a Federico IV. Scortava una figura femminile abbigliata di bianco e scintillante di gioielli, che scese con le mani tese in segno di amicizia. «Giovanna d'Angiò» rifletté Eymerich a voce alta. Un popolano che gli era vicino, dalla faccia ossuta e maliziosa, doveva capire il catalano perché confermò: «Sì, padre. Una gran regina». Strizzò gli occhi. «Sapete cosa si dice, da noi? "Si pucchiacca regge, ahimè, dicon le lingue / il feminil governo il regno estingue."» «Cosa sarebbe la pucchiacca?» chiese Eymerich. L'altro scoppiò in una risata e sparì tra la calca. L'inquisitore non ebbe il tempo di seguirne la fuga nemmeno con lo sguardo. Dal piccolo assembramento ai piedi del castello era sorta una domanda che ora volava di bocca in bocca, lungo l'intero codazzo. «Dov'è l'emissario del papa?» Quando l'interrogativo giunse fino a Eymerich, lui si spinse in avanti. «Sono io! Fatemi passare!» Chi era più vicino si scostò. Un popolano, in piedi su un muretto, gridò: «È il rappresentante del nostro pontefice Gregorio XI! Giù il cappello, gente cristiana! Cedetegli il passo!». Grondarono gli applausi. Una banda di musici nascosta tra pini e cespugli prese a suonare una marcia frenetica con strumenti a corda, a fiato o a percussione, ignoti in altre aree del Mediterraneo. Eymerich, controvoglia, si trovò a incedere a quel ritmo. Un'orda di bambini scalzi, infranta la regolarità del corteo ufficiale, gli andava dietro, strillando a più non posso. Il domenicano avrebbe voluto scomparire. Purtroppo non esistevano alternative. Infine, con suo enorme sollievo, Eymerich si trovò di fronte a Giovanna d'Angiò, all'ingresso della fortezza scura. La regina aveva ai lati Federico il Semplice ed Eleonora d'Arborea. Manfredi Chiaromonte, per una volta, aveva riconosciuto la propria inferiorità di rango, davanti a un re, a una regina e a una principessa di fatto, e si teneva un poco discosto,
insieme al vecchio nemico Blasco Alagona e agli altri baroni siciliani. Contenevano le coorti sovreccitate dei vassalli angioini, quasi tutti francesi, per nascita o per lingua. Federico IV si inchinò a Giovanna e indicò Eymerich. «Questi è il nostro amico padre Nicolas da Gerona, magister in teologia e filosofia, autorità nell'Ordine di San Domenico, legato del sommo pontefice per questa trattativa. Ha un ruolo di comando nell'inquisizione dell'errore eretico, in Aragona e nell'intera Europa. Non potevamo contare su un arbitro più dotto e più saggio». Sentirsi definire "amico" da Federico lo Scemo non procurò a Eymerich un gran piacere. La sua attenzione si concentrò su Giovanna. Donna già matura, con un naso un po' lungo e occhi verdi, la sapeva in corsa in infinite traversie: intrighi di corte, due matrimoni, stati di guerra permanente, una città da salvare da ripetute minacce di morte per fame. Aveva decretato almeno un omicidio, prassi corrente tra sovrani desiderosi di mantenersi sul trono. Nonostante ciò, e le borse sotto gli occhi, l'incarnato della donna restava roseo, con zigomi sporgenti e labbra tumide. Sotto il collo mostrava le increspature proprie dell'età. La regina si sforzava di nascondere la morsa del tempo con vesti particolarmente lussuose e una cascata di gioielli. Lo sguardo era intelligente e, cosa inaspettata, vagamente intimidito. Con un gesto delle mani, affusolate e bianche come il latte, la regina invitò Eymerich, che si era prostrato, a rialzarsi. «Padre» gli disse in volgare, in tono cortese ma un po' aspro, forse per via del leggero accento francese «il nostro rispetto per papa Gregorio non ha limiti, e il casato angioino lo ha sempre servito. Siete dunque il benvenuto a Napoli. Nei prossimi giorni sarete voi a dirigere le sedute che possono riportare la pace in questo disgraziato mare, bisognoso di operosità e di commerci regolari. Nel frattempo, faremo in modo che siate alloggiato convenientemente». «Ve ne sono grato, mia regina» rispose Eymerich in lingua d'oil. «Quanto all'alloggio, mi permetto di chiedervi un favore. Vorrei essere ospitato là». Indicò Castel dell'Ovo. Giovanna manifestò stupore. «Ma è un quartiere militare! E dove è conservato il tesoro della corona. Vi ho destinato parte dei soldati venuti dalla Sicilia, di scorta a questi signori!» «Non mi importa, mia regina. Sono di costumi austeri e non mi trovo a mio agio in una reggia. Una semplice cella basta e avanza». «Come desiderate. Durante il pranzo vi faremo allestire una camera in Castel Marino». «Neanche il simposio mi attrae, mia regina. Tra gli obblighi della frugalità. Se non vi è di troppo incomodo, visiterei questa parte riposare. Domattina sarò qui per l'inizio dell'adunanza. Se intanto stanze, per me e per il mio servo», Eymerich si guardò attorno scomparire quando si ha bisogno di lui...».
mia veste c'è quello della della città e mi ritirerei a volete fare preparare due in cerca di Nissim «uso a
«Sono qua, magister!» gridò il giovane, alzando una mano. Si era confuso tra gli spettatori.
Eleonora d'Arborea, che doveva intendere qualcosa di francese, scoppiò in una risatina. «Mia regina, padre Nicolas ha abitudini singolari. Conviene accontentarlo». Giovanna, seria, acconsentì con un cenno del capo. «Ma certo, non vediamo nessuna difficoltà. Padre, il nostro ciambellano provvederà alla vostra sistemazione. Vi attendiamo domattina di buon'ora, anche per avere il tempo di conversare un poco». «Senz'altro». Eymerich fece un inchino e, ritenendosi libero, si allontanò dal corteo. Stavolta i popolani non gli fecero troppo caso. Fissavano, all'entrata di Castel Nuovo, i convenevoli tra re e baroni, e le armature pittoresche degli ufficiali. Forse attendevano anche una distribuzione di cibarie che, in occasioni del genere, non mancava mai. L'inquisitore fu raggiunto da Nissim, assai accaldato. «Dove eri finito?» gli chiese, bruscamente. «Signore, siete stato voi a farmi scendere per ultimo dalla galea, non ricordate? Dovevo leggere il libro di Maria, cosa che ho cercato di fare». «Sei riuscito a capirci qualcosa?» «Qualcosa sì, o almeno credo... Ho udito che adesso volete visitare la città». Eymerich scrollò le spalle. «No. Non me ne importa nulla». «Allora andiamo a Castel dell'Ovo?» «Neanche. E troppo presto... Vieni, anzitutto mangiamo qualcosa». I venditori di piza, svanita la clientela danarosa, stavano abbandonando i fornelli, costituiti da pochi mattoni e piastre metalliche. Uno dei venditori era ancora attivo. Protestò nel suo dialetto alla vista dei tarì, la moneta siciliana. Si convinse a servirli solo quando Eymerich gli mise in mano un fiorino d'argento. Divenne ossequioso all'istante, e abbrustolì per i due clienti fette di focaccia così larghe da ingozzarli. Le condì, con parsimonia, di spezie varie. Il profumo aveva attirato un'orda di bambini cenciosi. Bastò un'occhiata di Eymerich perché si allontanassero e corressero altrove. L'inquisitore guidò Nissim verso il mare, dove entrambi sedettero su un tratto di bastione demolito. Dovettero ripiegare la piza per poterla addentare. «Di che parla il libro?» domandò Eymerich. Nissim rispose, a bocca piena: «È un dialogo tra Maria, o Myriam, e tale Aros, che sospetto sia il dio egizio Horus. Discutono di metalli, di corpi, di procedure per sciogliere, fondere, sublimare, coagulare... Per essere sincero, non so cosa voglia dire "sublimazione", ma una nota a inchiostro del rabbino de Gaudio traduce così un vocabolo ebraico che non ho mai udito: ha'ala'Iia». «Significa congiungere, attraverso il fuoco, diverse sostanze tra loro dissimili in un'unica essenza eterea... Maria l'Ebrea parla di un uovo?»
Nissim si mostrò incerto. «Sì, ne parla a più riprese... in qualche modo». «Cosa vuoi dire?» Eymerich era spazientito. «Si tratta di un vaso di forma ovale usato negli esperimenti alchemici, non è vero? Dicono che lei abbia inventato una quantità di strumenti». «È anche quello. Ho udito rabbi de Gaudio dare quella spiegazione. Può darsi che lui abbia interpretato male alcune parti del testo. O sono io che non ho saputo decifrarlo correttamente». «Perché? Qual è la tua lettura?» Nissim sospirò. «Per Maria l'Ebrea, l' "uovo filosofico" non è solo un recipiente. È l'insieme di quattro metalli: rame, ferro, piombo e zinco. Li chiama "tetrasomia": le quattro sostanze di cui è composto ogni vivente, sia esso uomo, animale o pianta. La sublimazione è ridurli, attraverso una serie di procedimenti, a uno stato etereo, riportandoli a una cosa sola. L'uno diventa il due, il due diventa il tre e, per mezzo del quarto, l'insieme ridiviene uno, ma in forma spirituale. Il nome della nuova sostanza, che attraversa tutte le cose, è la "quinta essenza"». «Cosa vuol dire?» chiese Eymerich, pensoso. «Non ne ho la minima idea. Non sono nemmeno sicuro di avere compreso correttamente ciò che ho letto». «Cosa c'entra l'uovo?» «Anche l'uovo ha quattro parti. Il guscio, la pellicola, l'albume e il tuorlo. Quelle componenti, se riscaldate, generano un pulcino. Un essere senziente». Eymerich si sentì affaticato nel seguire ragionamenti così azzardati. «È un buon risultato, per uno che dice di non conoscere l'ebraico» disse a Nissim. «Suppongo che tu non abbia scoperto molto di più». «Un dettaglio che mi è rimasto impresso... Per Maria, non solo l'uovo, ma anche l'uomo si compone di quattro parti. Quelle liquide, quelle solide, la mente e lo spirito. Perché quest'ultimo si liberi e diventi purezza impalpabile, occorre che un "quadrisoma" umano si fonda con un altro complementare, e che il due diventi uno». Eymerich avvertì la spossatezza che cresceva. «Secondo te, tutto ciò ha un senso?» «No, signore». «Allora vai a passeggiare dove vuoi. Ci vedremo tra un'ora al castello che ci ospita». «Come volete. Avete notato?». Nissim indicò il cielo limpidissimo. «Niente dischi multicolori, niente luci misteriose, niente strisce bianche nella volta celeste. Napoli sembra immune dagli incubi siciliani».
«Aspetta a parlare. Ramón cercherà indubbiamente di interferire con i colloqui di pace. Pare essere il suo obiettivo: fare fallire l'accordo... Ma adesso vattene. L'appuntamento lo sai». Rimasto solo, Eymerich si ricordò del lembo di piza che stringeva in mano. Era duro e freddo. Lo gettò in mare e si incamminò alla volta di Castel dell'Ovo. Incrociò il ciambellano di Giovanna, che ne usciva. «Ah, eccovi qua, padre» disse il dignitario in catalano, con atteggiamento di profondo rispetto. «Vi accompagno nel vostro alloggio». Si raggiungeva il castello passando per un istmo di roccia che conduceva all'isoletta di tufo, detta Megaride, su cui posavano i basamenti della rocca. Il cortile principale, in cui stavano affluendo soldati d'ogni sorta, non aveva molti elementi decorativi, e le pareti di alcune torri erano puntellate. Scale e camminamenti conducevano ai piani superiori. «L'edificio non è sempre stato così povero di ornamenti» disse il ciambellano, quasi dovesse giustificarsi. «Due anni fa una scossa di terremoto ha provocato danni seri, e la regina ha preferito trasferirsi a Castel Nuovo, facendo di questa fortezza un avamposto soprattutto militare. In precedenza era stata la reggia dei re normanni, degli svevi e degli stessi angioini». Eymerich decise di approfondire l'argomento. Chiese, con accento che simulava intenzioni scherzose: «Non è che durante la scossa tellurica, in una stanza sempre chiusa, si sia rotta un'anfora nascosta fra le travi del soffitto?». «Oh, no! Saremmo morti tutti!». Il ciambellano scoppiò a ridere. «Vedo che vi hanno informato, padre, delle leggende che gravano su questo luogo. Chiamato anche, non a caso, Castrum Ovi Incantati. Vi posso assicurare che non esistono celle nascoste, né porte che non si aprono! Io lo so bene» aggiunse «perché vivevo nel castello quando era sede della corte». «Il nomignolo non ha dunque riscontro in nulla di reale». «Sì, invece! Solo che non coincide con le stupide dicerie del popolino». Il ciambellano fece un gesto ampio, a indicare le mura attorno. «Tutto il castello è di forma ovale! Per questo è detto "dell'Ovo". Non perché vi sia un uovo celato all'interno! Venite, dall'alto vi renderete conto di ciò che dico». Imboccarono un camminamento in salita, non troppo ripido. Quanto più ascendevano, tanto più il panorama della città e del golfo toglieva il fiato per la sua spettacolarità. Si potevano cogliere sempre meglio le dimensioni smisurate della metropoli, disseminata su collinette, e la ricchezza del suo porto, misurabile dal numero di navigli che vi erano alla fonda. Spirava dal mare una brezza leggera, che alleviava il calore. Eymerich, indifferente al paesaggio e insensibile al venticello, ragionava sul significato della forma del fortilizio che attraversava. Intuiva un nesso preciso nella ricorrenza dell'uovo nel corso di tutto quel viaggio apparentemente insensato. I recipienti comunicanti, l'Alfa e l'Omega suggeriti dal serpente, l'interpretazione bislacca di Maria l'Ebrea. Ora un intero
castello costruito a mo' di uovo. Per non parlare degli oggetti luminosi nel cielo: anch'essi avevano una foggia grossomodo arrotondata e bislunga. C'era una domanda che non aveva ancora posto al ciambellano. Era il momento di farlo. «Su Napoli sono apparsi di recente oggetti insoliti? Alludo a dischi di luce, spirali, sfere brillanti». «No, che io sappia. Solo stamattina, mentre arrivavate, è stato notato un fenomeno celeste inconsueto». «Sarebbe a dire?» chiese Eymerich, con il cuore in gola. L'altro rispose con indifferenza. «C'è chi ha visto scie bianche ricurve disegnarsi a grande altezza. Si sono intersecate in arabeschi, salvo sfrangiarsi e scomparire in breve tempo. Credo si tratti di eventi naturali, per quanto misteriosi. Se uno stesse tutto il tempo con il naso in aria, di cose bizzarre ne noterebbe una quantità». La sommità di Castel dell'Ovo, malgrado i lavori di restauro in corso, era più elegante dei piani bassi. Il ciambellano attraversò un colonnato e raggiunse una porticina aperta. «Dormirete qui, padre, se vi aggrada». Indicò l'interno, in ombra. «Ho fatto sistemare un lettuccio e qualche arredo indispensabile. Penso di essermi conformato ai criteri di austerità di un predicatore. Di fianco avete la cella del vostro servo, di cui ignoro il nome. Più in là, a sinistra, si apre l'alloggio di Guglielmo di Romagna. Un vostro amico, credo». «Non proprio» Eymerich fece una smorfia «ma una presenza sopportabile». Entrò nel locale. Forse era un po' troppo luminoso, a causa di una grande bifora, ma gli piacque. Pareti nude, un letto semplice dal pagliericcio sottile, una pila di poche lenzuola di lino, il necessario per una toeletta veloce. Più il secchio dove fare i propri bisogni senza uscire all'esterno. Apprezzò anche il fatto che, con atto cortese, al muro fosse stato appeso un crocifisso, elaborato alla maniera bizantina. «Hic manebimus optime» disse al ciambellano, concedendosi una frase di origine pagana. «Ora andate pure. Non mi serve altro aiuto». «Forse in nottata avrete una visita inattesa». «Quale visita?» chiese l'inquisitore, in allarme. «Non sono autorizzato a rivelarvelo. Una visita illustre». Prima che Eymerich potesse porre altre domande, il dignitario aveva oltrepassato la soglia ed era scomparso. Dopo un inchino, naturalmente.
45.Il visitatore notturno Era passata compieta da almeno un'ora, ed Eymerich cominciava ad avere sonno. Stava esaminando il manoscritto di Maria l'Ebrea sulla pietra filosofale, che Nissim Ficira gli aveva restituito prima di ritirarsi nella stanza a lato. Naturalmente i caratteri ebraici erano per lui indecifrabili, così come le annotazioni, anch'esse in ebraico, di rabbi de Gaudio. Ciò che cercava era una ricorrenza, un segnetto, uno schizzo, un'irregolarità qualsiasi che gli offrissero un suggerimento per ulteriori indagini. Non aveva trovato nulla, così risolse di andare a dormire. Stava per spegnere l'unica candela quando sentì bussare alla porta. Udì molte voci, come se davanti alla sua cella ci fosse un vero assembramento. Andò ad aprire con una certa esitazione. Quando vide chi aveva di fronte, si inchinò. Inghiottì un po' di saliva e disse: «Voi! Francamente mi aspettavo di tutto, sire, ma non che veniste fin qua!». «Possiamo entrare?» chiese Federico IV. Alludeva solo a se stesso, perché con un gesto indicò alla sua scorta di allontanarsi. Era calato il buio, ma mille luci, riflesse dalle acque scure del golfo, palesavano l'estensione di Napoli e la sua disposizione collinare. Il mare era calmissimo, le onde placide. La brezza consueta, più frizzante a quell'ora, spirava sostenuta. Faceva fresco. Eymerich si rialzò. «Accomodatevi, sire. Purtroppo non ho modo di offrirvi un sedile abbastanza comodo». «Fa nulla. Approfitterò del vostro letto. Vi chiedo solo di chiudere la porta». «Subito». Quando Eymerich si voltò, vide Federico d'Aragona seduto sull'orlo del suo giaciglio. Controllò che la candela avesse abbastanza cera, prese uno sgabello e vi si appollaiò, di fronte al sovrano. Non era per nulla intimidito. Sconcertato sì, e non poco. Era la prima volta che aveva modo di osservare con attenzione il re di Sicilia. Sulle sete ricamate che indossava, sopra un colletto circolare increspato, spiccava un viso smagrito, molto pallido, dalle occhiaie profonde. Baffi lunghi e barba a punta non bastavano a dargli un tono, al pari dei capelli lunghi e inanellati. Rughe sulla fronte e sulle guance, una bocca poco avvezza a sorridere, un naso spezzato alla radice davano un'idea di grande malinconia. Le palpebre pesanti confermavano l'impressione. Fu il re il primo a parlare, con grande semplicità. «Padre Nicolas, il modo sbrigativo, per quanto cortese, con cui avete conversato con noi stamattina ha fatto intendere che concordate con la definizione che ci hanno affibbiato». «Non capisco a cosa vi riferiate, sire». A dire il vero, Eymerich una sua ipotesi l'aveva.
«Ci chiamano Federico lo Scemo. La versione meno sgradevole è Federico il Semplice, ma il concetto è uguale». «Io non oserei mai, mio principe...». Federico scrollò la mano inanellata, a mostrare noncuranza. «Rifuggiamo entrambi le ipocrisie, padre Eymerich. Non vi conosciamo però lo intuiamo. È inutile mentirci l'un l'altro... Ci classifichino come vogliono, ci è indifferente. Ciò che ci preme, magister... possiamo chiamarvi così?... è farvi capire la singolarità della nostra posizione. Potrebbe esservi utile domani, nel corso delle trattative». Eymerich era positivamente impressionato da quell'uomo triste che, fatta eccezione per il pluralis maiestatis che doveva essergli diventato ormai naturale, non aveva nulla di arrogante o di imperioso. Tanto che se ne stava sul suo letto, seduto sul mantello di velluto scarlatto, il berretto piumato e ingioiellato gettato al fianco come un cappello da contadino. «Vi ascolto». «Benché appartenenti al casato aragonese, siamo siciliani in tutto e per tutto. Abbiamo sperato a lungo di poter essere un buon re, come lo è stato nostro padre, ma non avevamo fatto i conti con le conseguenze di una guerra così prolungata. Ogni sovrano che vi è impegnato ha bisogno di denaro ed elargisce titoli nobiliari, atti di proprietà e privilegi alle famiglie ricche disposte a sostenerlo. Nasce così un'aristocrazia priva di tradizioni e di meriti acquisiti sul campo, connotata unicamente dall'avidità, infedele non solo al monarca che dice di servire, ma anche a ogni causa che non sia l'arricchimento personale e familiare». Eymerich annuì. «Ho avuto modo di constatarlo, sire. Non saprei però come modificare questo stato di cose. Temo che nemmeno voi lo sappiate, se posso permettermi l'illazione». «Avete ragione» disse Federico, con mestizia. «Noi, di fatto, siamo prigionieri a Catania, da dove emaniamo ordinanze che pochi rispettano. Se la regina Giovanna, oltre che sottoscrivere la pace, riconoscesse la nostra sovranità, sarebbe un gran passo avanti. Sulle prime non cambierebbe molto, ma ci sarebbero le premesse per un futuro riscatto. Riconosciuta dal papa e dagli Angiò, la monarchia siciliana avrebbe fiato per svincolarsi, con il tempo, dalla tirannia dei baroni». Eymerich non era affatto felice di dovere anticipare temi diplomatici che intendeva trattare la mattina successiva. Non vide però modo per evitarlo. «Ciò che proponete, sire, non mi pare in contrasto con il mio mandato. Vedremo se Giovanna d'Angiò sarà disponibile a una tale concessione... Permettete una domanda?» «Dite pure, padre». «Il popolo napoletano, dal poco che sono riuscito a vedere, non mi è sembrato molto più felice e prospero di quello della vostra isola, eppure qui il baronato ha un potere assai minore. La subordinazione della nobiltà alla regina non è completa, e i dissensi si risolvono in intrighi di palazzo, magari sanguinosi».
«È una domanda intelligente». Federico accennò a sorridere. «Gli Angiò hanno un loro metodo, che noi non potremmo adottare. Riescono a legare a sé il volgo corrompendo i capipopolo. Elargiscono denaro e impunità ai peggiori caporioni della plebe. Ci pensano costoro, con la violenza, a mantenere l'ordine». «È una via che non genera consenso. Oggi stesso ho udito un popolano esprimersi in termini ingiuriosi... ammesso che lo sia pucchiacca, o qualcosa di simile... nei riguardi della sovrana». «Gli insulti, senza lance, spade o picche, non hanno mai cambiato alcunché. Il consenso è qualcosa di cui vantarsi per legittimare l'imperio esistente e prescinde dalle ingiurie. Nel breve periodo in cui prese sede a Roma, il pontefice fu oggetto di scherzi feroci, ma il suo potere rimase intatto. È il motivo per cui, nel nostro piccolo, il sentirci definire "lo Scemo" non ci tocca». Federico si mosse sul pagliericcio come per alzarsi. Prima, tuttavia, domandò: «Vi hanno detto, padre, perché Castel dell'Ovo si chiama così?». «Vi riferite alla leggenda su Virgilio, mio re? La conosco bene e la trovo inconsistente». «Concordiamo. Le virtù magiche del poeta nascono dalla quarta ecloga delle Bucoliche. Virgilio vi parla di un messia, un bambino, destinato a riportare la pace e a fare sparire un serpente. Lo invita a sorridere alla madre». «Purché anche lei gli sorrida» obiettò Eymerich, seccamente. Rimuginava antichi ricordi. «Avete ragione. Quell'ecloga ha fatto a Napoli la fama di Virgilio come mago, quasi avesse profetizzato la nascita di Gesù. E facile che avesse in mente tutt'altro». Federico IV si alzò, ed Eymerich fece altrettanto. L'aragonese prese le mani dell'inquisitore, riluttante a concederle. «Domattina il vostro parere sarà molto ascoltato. Non intendiamo prescrivervi un comportamento. Siamo venuti qui unicamente perché sapeste le nostre ragioni di fondo». «Avete fatto bene, sire. Si vedrà sul campo l'andamento delle trattative. Auspicate lo stesso esito che piacerebbe a me». L'inquisitore accompagnò il re di Sicilia fino alla porta. Al momento di restituirlo alla scorta, gli disse: «In fondo, la questione siciliana è lieve. Sarà più difficile fare valere le ragioni di Eleonora d'Arborea». Federico dimostrò un grande stupore. Il labbro inferiore gli cadde. «La figlia del giudice Mariano è qui?» Eymerich lo scrutò con circospezione. «Lo sapete meglio di me, sire. Ero presente stamattina, per quanto distante, mentre ve la presentavano. In seguito è rimasta tutto il tempo accanto a voi». «Non ricordiamo nulla di simile». «Forse avete bisogno di riposo, sire».
«Non possiamo negarlo. Ma vale anche per voi, magister». L'inflessione di Federico d'Aragona era persino affettuosa. «Andate a dormire. Ci attende una giornata durissima». Il re mise piede sulla terrazza, dove i suoi uomini lo circondarono. Eymerich chiuse la porta. Dopo pochi istanti udì bussare. Era Nissim Ficira. «Scusatemi il disturbo, signore, ma la curiosità era troppa. Colui che vi ha visitato poco fa era Federico d'Aragona in persona?» «Sei stato a origliare?» Il giovane rispose, con disarmante sincerità: «Mi sarebbe piaciuto farlo, ma attraverso i muri era impossibile. Ho colto solo quel che filtrava da sotto l'uscio». Eymerich, pur aggrottando la fronte, non era infastidito da quell'irruzione. Al contrario, sentiva il bisogno di conversare con qualcuno, per dare sfogo alle mille perplessità che lo angustiavano. In mancanza di interlocutori più qualificati, anche il servo ebreo poteva andare. Il sonno era completamente svanito. «Sì, era Federico IV. Vieni, usciamo all'aperto. Il cielo è terso, l'aria fresca. È forse la prima volta che non avverto minacce incombenti». L'inquisitore varcò la soglia, attraversò il colonnato e si portò alla merlatura. Il firmamento era gremito di stelle. La luna, senza essere ancora piena, appariva grande e brillante. Si udivano soldati chiacchierare nel cortile inferiore, mentre arrostivano carne sui falò. L'isola di tufo che reggeva il castello era percorsa da gruppetti tranquilli di armati, così come il largo passaggio che la collegava alla terraferma. Ogni tanto si alzava qualche risata femminile: pareva una notte ideale per gli amori. Il tutto, comprese le luci di Napoli, ispirava serenità. «Re Federico è scemo come dicono?» chiese Nissim. «No, per niente. Semmai ha scarsa memoria. Mi ha dato l'impressione di un pover'uomo alle prese con poteri che non riesce a controllare. Forse merita di essere re, se onestà, franchezza e modestia sono doti che si addicono a un governante». «Non lo sono mai state». «Infatti. Federico il Semplice resterà il Semplice tutta la vita, e in balia dell'altrui volere. L'unica cosa che posso fare, a suo favore, è tentare di sostituire le volontà a cui deve obbedire». Eymerich tacque per inspirare una folata di brezza più fragrante delle altre. Paragonò mentalmente la sua condizione attuale a quella patita all'inizio del viaggio. Allora, fin dalla partenza da Barcellona, si sentiva debole, spesso zoppicante, incapace di compiere azioni anche elementari senza rischiare di sentirsi spossato. Adesso tutto ciò era un ricordo, come se il trasferirsi da Barcellona a Palermo, e poi a Napoli, gli avesse irrobustito il corpo e l'anima.
L'ottimismo non era però un sentimento a cui lui si abbandonasse con facilità: non c'era forma di piacere che non nascondesse qualche colpa. Per distrarsi da uno stato di eccessiva compiacenza, disse al giovane: «Devo scusarmi con te. Ti ho impegnato in ricerche inutili, a Mussomeli». «Quali ricerche?» «Trovarmi un ragazzino di dodici anni. Cioè concepito tredici anni fa a seguito di certi... eventi. Era una richiesta assurda». «Perché?» Eymerich si appoggiò con entrambe le braccia al varco tra due merli, piegando un poco la schiena. «Perché una nascita operata con arti segrete non può avere un decorso ordinario. L'essere che cerco è l'unico tentativo riuscito fra tanti falliti. Entrambi abbiamo visto il risultato di alcuni di quei fallimenti: larve ripugnanti troppo grosse o troppo piccole, nessuna delle quali nata a seguito di un'ordinaria gravidanza umana. I "demoni calvi" di cui parla lo Zohar. Del resto, il Liber Aneguemis fornisce la ricetta per generare, in modo artificiale, non feti, bensì "esseri razionali"». «E dunque?...». «Dunque l'unico prodotto riuscito del parto mostruoso può avere qualsiasi età, perché non è lo sviluppo di un embrione. Può vedere la luce giovane o vecchio, e mantenere quella forma per un tempo indefinito. Mi capisci?» Ci volle qualche istante di riflessione prima che Nissim rispondesse: «Forse sì. Certo che siamo ai limiti della follia... Padre, la domanda vi parrà irriguardosa. Ho l'impressione che voi crediate al Liber Aneguemis, allo Zohar, al trattato di Maria sulla pietra filosofale...». «Ma no!» La momentanea pacatezza di Eymerich fu cancellata dalla collera. Girò su se stesso di scatto, quasi che una cavalletta gli fosse balzata sulla tonaca. «Te l'ho già spiegato! Io non credo in quell'immondizia! Sono alla ricerca di qualcuno che ci crede! Che su quelle fantasie ha modellato, con l'aiuto del demonio, i propri incantesimi da negromante!» L'inquisitore aveva urlato, tanto che in basso alcuni curiosi alzarono il capo verso gli spalti per vedere cosa stesse accadendo. Scosso da tanta furia, Nissim balbettò: «Scusate, padre. Forse me lo avevate detto, ma io ho la memoria corta, e voi esponete concetti per me difficili. Vi prego di scusarmi». «Non ne ho la minima intenzione». Eymerich non era per nulla rabbonito, tuttavia abbassò un poco la voce. «Ti rendi conto, miserabile, dell'insulto che mi hai rivolto? Mi hai chiesto se presto fede alle fanfaluche vergate da stregoni, giudei allucinati e alchimisti! Lo hai chiesto a me!» Nissim tremava. Giunse le mani. «Invoco nuovamente il vostro perdono». La contrizione fu di breve durata perché, dopo un istante, in tono disinvolto il servo domandò: «Vi siete fatto
un'idea di dove sia, o in quale corpo sia incarnato, Ramón de Tàrrega?».
Forse era un modo per sviare la collera del domenicano. In tal caso era ben scelto. Eymerich avvertiva un bisogno incoercibile di discutere con qualcuno del groviglio di riflessioni che occupava la sua mente. Enunciarle aiutava a disporle in maniera ordinata. «È ben difficile localizzare una psiche capace di dislocarsi da un corpo all'altro. Ho cercato di farlo pensando alla successione dei prodigi a cui ho assistito, e a chi vi era presente di volta in volta, cercando l'uomo o la donna in cui Ramón si cela. Perché deve pure avere spoglie umane da cui partire, per le sue incursioni nelle menti altrui». «Il risultato di questo ragionamento?» «Nessuno, purtroppo. Ho sospettato di te, di Simone dal Pozzo, e ne avevo ben donde, di Guglielmo di Romagna, di Eleonora d'Arborea... Vicoli ciechi. I sortilegi, per me, sono iniziati a Barcellona, davanti alla salma del mio nemico. Chi mi ha seguito da là fino a qui? Nessuno. La prima parte del viaggio l'ho fatta da solo. Non avevo compagnia, eppure già avvenivano cose tremende». Nissim, prima di riprendere la parola, mostrò cautela. Certo soppesava frase per frase nel timore di irritare una seconda volta l'inquisitore. «Signore, parliamo di uno spirito disincarnato. Di un demone, addirittura. Capace di spostarsi come vuole». «No, non può». Eymerich accennò a tornare a passi lenti verso la sua camera, seguito dal servo. «Non ti intendi di demonologia, ma questo non è grave. Uno spirito maligno, così come l'anima di un trapassato, non può fare nulla a un umano. Perché ci riesca, deve assumere corpo fisico, di carne e ossa. Non c'è negromante che, nell'evocare un demone, non gli indichi anzitutto in quale forma incarnarsi. E i Vangeli insistono sui casi di possessione, il modo più comune con cui un demonio tenta di darsi forma concreta». «Voi pensate, insomma, che Ramón sia tra noi. Anche qui, a Napoli». «Sì. Per sconfiggerlo devo scoprire sotto quali spoglie si traveste. E ci riuscirò». Sulla soglia della sua stanza, Eymerich gettò un ultimo sguardo attorno. La luna era alta, il profilo del Vesuvio spiccava su un mare d'inchiostro. Le luci urbane, però, cominciavano a rarefarsi. «Questo castello dovrebbe avere forma ovale» disse l'inquisitore. «Tu forse l'hai esplorato più di me. Ti risulta?» Nissim percorse con gli occhi la cinta, le mura e i camminamenti, in parte coperti dalle tenebre. «Non è facile stabilirlo, però direi di sì... Certo, è più plausibile che il riferimento all'uovo nasca dai contorni della fortezza, piuttosto che da un Virgilio reputato mago per le sue Bucoliche». Eymerich provò una grande meraviglia. La sua voce tornò a riempirsi di sospetto. «Non dirmi che sei un lettore di Virgilio!»
«Ci mancherebbe!» Nissim fece una risatina. «Questo pomeriggio sono finito a bere del vinello di Ischia con un maestro di scuola. Gli ho chiesto perché, a Napoli, il poeta sia stato scambiato per mago. Mi ha detto che, in una delle sue Bucoliche, avrebbe profetizzato l'avvento di un messia bambino». Eymerich fece un gesto di diniego. «Non è il messia che attendete voi ebrei, e meno che mai Gesù Cristo». «Chi sarebbe, allora?» «Non ne ho la minima idea, né mi interessa. Vari culti antichi ponevano, tra Dio e l'umanità, una divinità intermedia, delegata dal puro spirito a reggere le sorti degli esseri corporei. Gli gnostici le diedero un nome: Ialdabaoth». «Sarebbe quello il bambino di Virgilio, in grado di uccidere il serpente?» «Non lo so, sono vaniloqui». Eymerich entrò nella sua stanza, in cui ancora ardeva un avanzo di candela. «Buonanotte» disse secco, prima di serrare il battente.
46.Un'infanzia difficile - 5 Questa volta i nemici erano troppi perché lui potesse scampare. Nicolas vide i ragazzi che attendevano il suo passaggio fin dalla salita che, scalata la torre rotonda della cisterna, immetteva sul bastione romano. Erano almeno in trenta. Fra i dieci e i quindici anni, sedevano sul muretto. Alcuni di loro avevano un randello tra le gambe, altri addirittura una scure. Non dovevano mancare i coltelli, nascosti sotto le camiciole. Non poteva passare di lì. Nicolas ridiscese nel chiostro domenicano e scappò fuori. Avrebbe potuto allertare Dalmau Moner, da cui si era congedato poco prima, oppure strappare al riposo pomeridiano un frate qualsiasi. Ma non era nella sua indole chiedere aiuto. Scese le scale che dalla chiesa di San Domenico portavano all'arteria principale. Non lo sorprese scorgere, sotto una delle volte, altri ragazzini armati di bastoni e pugnali. Si trattava di un agguato che aveva lui come bersaglio. Dopo un tentativo inutile di passare inosservato, li schivò. Corse a perdifiato lungo la via principale di Gerona, scavalcando panieri di frutta, banchetti di vinai, animali in libertà. L'orda dei ragazzini vendicativi si avvicinava e sguazzava al centro del liquame nel canaletto che attraversava la via.
Casa sua era vicina e, al tempo stesso, molto lontana. Nicolas adocchiò una strada in salita, proibita a ogni cristiano. La imboccò senza riflettere. Alle sue spalle, finalmente, scese il silenzio. Si inerpicò su per quel sentiero arduo, che passava tra facciate di case pronte a toccarsi, prive di ornamenti e di balconi. La judería di Gerona era una città segreta, attraversata da un ripido cammino su cui si aprivano finestrelle e ingressi di bottegucce, unici indizi che fosse abitata. Nicolas non lo sapeva, ma una volta trovati i varchi giusti si aveva accesso a terrazzi fioriti, piccoli cortili con fontanelle, ambienti freschi celati dagli alberi. Gli ebrei di Gerona vivevano un'esistenza appartata, eppure intensa. Lì aveva sede la sinagoga più prestigiosa dell'intero regno di Aragona; lì vivevano i più illustri maestri della Kabbalah, alcuni dei quali facevano parte dell'aljama, il consiglio che manteneva i rapporti politici con le autorità cittadine. Gli ebrei preferivano restare quasi invisibili per sottrarsi a esplosioni di violenza da parte dei cristiani, come quella che, pochi anni prima, aveva causato l'eccidio indiscriminato di giudei di ogni sesso ed età. Si erano rassegnati al silenzio e lasciavano che la notte le porte principali del Call – così era chiamata la juderìa – fossero chiuse. Più che una reclusione era una forma di protezione, voluta dal re d'Aragona per evitare nuove stragi, attizzate da qualche predicatore troppo infervorato. Traffici e scambi con i cristiani avevano dunque luogo al riparo di mura spesse, mentre l'arteria centrale del Call, la Fora, appariva per lo più deserta o poco frequentata. Nicolas si trovò imprigionato. I ragazzi intenzionati a infliggergli una lezione si trovavano sia sulla strada da cui la Fora si dipartiva, sia sui bastioni in cui sfociava. Non che avesse una paura eccessiva – non più di quella che provava abitualmente verso minacce vere o immaginarie – però il cuore gli batteva forte, e lui non era disposto a sacrificarsi come gli agnelli di cui parlavano i testi sacri. Quella volta potevano persino ucciderlo. Capiva che era il momento della ritirata. I suoi persecutori potevano superare remore radicate e invadere la Forca, così Nicolas cercò rifugio in una volta più ampia delle altre con i battenti aperti. Vi entrò e chiuse la porta dietro di sé. Si trovava in uno spiazzo esagonale circondato da aiuole di rose e muri altissimi. Sotto un piccolo porticato dalle colonnine eleganti si aprivano tre usci. Accanto a ciascuno, una nicchia ospitava la mezuzzah: una pergamena, cioè un lembo di pelle di pecora, su cui erano scritti brani del Deuteronomio e di altri testi biblici. Secondo quanto aveva raccontato padre Dalmau, ogni ebreo la toccava uscendo di casa, quale auspicio di buona fortuna. Nicolas, incantato dal silenzio che lo circondava, fu attratto dalla porticina centrale. Vi era stato affisso un amuleto in rame, al cui centro era forgiata, in bassorilievo, l'immagine di una donna dai grossi seni, nuda e slanciata, dotata di ali. Con le braccia aperte reggeva qualcosa che il tempo aveva reso indistinguibile, come gli animali fantastici che le stavano a lato. La capigliatura somigliava a un serpente arrotolato. Spiccavano tre parole misteriose scritte attorno, in caratteri eleganti simili alle note di alcuni codici destinati al canto.
Una delle porte laterali si aprì. Una ragazzina mora e dal colorito scuro gridò qualcosa verso l'interno, in una lingua che non era catalano. Si ritirò fulminea. Subito dopo uscì un uomo di età prossima alla sessantina, si sarebbe detto. Aveva sul capo un berretto alto e tondo e indossava una palandrana ricamata. Il suo aspetto era benevolo, per non dire paterno, forse per la barba ingrigita che gli copriva il petto. «Vedo che ti interessi a Lilith, piccolo>, disse con bonomia. «L'amuleto che stai guardando la raffigura. Alcuni del mio popolo ne hanno paura, quando una donna sta per partorire. Per questo fissano sulla porta di casa la sua effigie, con i nomi dei tre angeli che la possono scacciare. Non crederci troppo, è una superstizione». Nicolas era forse più intimorito da quell'uomo barbuto che dai monelli che lo aspettavano per picchiarlo o dalla raffigurazione di Lilith con il serpente arrotolato in testa. Lo sconosciuto se ne accorse e sorrise. «Non hai motivo di avere paura di me. Quanto alla donna lì raffigurata, non è vero che rapisca i neonati, come credono in tanti. Piuttosto ne partorisce una quantità. Lei e le sue altre tre incarnazioni, Agrath, Mahalath e Na'amah, generano creature quando gli uomini, colti in momenti di debolezza, cedono al loro abbraccio. Sono simboli di seduzione. Ma non credo che tu sia debole, né facile a essere sedotto. Non è vero, bimbo?» Nicolas si irrigidì. Sapeva che l'anziano che aveva di fronte professava un culto ritenuto sordido e ignobile da ogni buon cristiano. Padre Dalmau avrebbe certo disapprovato quel colloquio. Ma lui cosa poteva fare? Tornare in strada ed esporsi alle percosse? «I tuoi occhi e il tuo atteggiamento rivelano una determinazione insolita per la tua età» continuò l'uomo, in tono benevolo. «Devi essere rimasto molto solo, non è vero, piccolo? I bambini come te non suscitano affetto, di solito. Ricevono poche carezze e molti rimproveri. Il compenso per questo castigo è che, da adulti, sono chiamati a grandi compiti». Lo sguardo di Nicolas, per qualche motivo, tornò a posarsi sulla figura femminile del bassorilievo. Somigliava un poco alla bambola rotta che aveva gettato nella cisterna, se non fosse stato per i grandi seni e per la chioma arrotolata. Gli pareva la stessa creatura diventata adulta. Parlò per la prima volta. «Si chiama Lilith?» chiese, esitante. «Sì, e ha molti altri nomi. C'è chi dice che sia la prima consorte di Adamo, o addirittura la sposa di Samael, l'angelo ribelle. Non averne paura, ma non fartene stregare: cercherebbe di avere un figlio da te. Solo che può partorire solo esseri imperfetti, malvagi o maliziosi. È raro che metta al mondo una creatura completamente umana». Nicolas era smarrito nelle sue fantasie, incentrate sulla bambola perduta. «Non aveva un nome. La chiamerò Lilith». Il vecchio dimostrò stupore. «Di chi parli, bambino? Di una futura moglie?» «No. Era piuttosto mia figlia». La ragazzina bruna si riaffacciò alla porta e disse qualcosa nella sua lingua gutturale, prima di sparire nuovamente.
«Vengo, vengo» rispose l'uomo in catalano. Guardò Nicolas. «Rimani quanto vuoi, piccino. Resta in giardino e goditi l'ombra. Cosa ti è successo? Qualcuno ti insegue?» «Sì». «Allora sappi che non puoi conoscere la tua espressione, però ti assicuro che potrebbe incutere timore anche a un adulto... Non occorre che tu ti difenda o che lotti. Basta che tu sia te stesso, padrone delle tue capacità. Sei tanto odiato perché sei il più forte. Ti ama solo chi condivide la tua natura. Usa fino in fondo il potere di cui disponi». L'anziano ebreo tornò a increspare le labbra. «D'altra parte, non sei forse il padre di Lilith?» A quel punto scoppiò in una risata. Dalla porticina giunse un nuovo richiamo. «Rabbi Moisés! Rabbi Moisés de León!» L'uomo fece un rapido saluto con la mano ed entrò nell'abitazione. Nicolas rimase nel cortile fiorito, ma cosa ci stava a fare? Dopo avere passeggiato impaziente fra portici e cespugli, prese la sua decisione. Sarebbe uscito. La paura stava svanendo. Facessero di lui ciò che volevano, i suoi persecutori. Non pretendeva di essere amato ed era disposto al sacrificio. Che lo uccidessero, però. Se non vi fossero riusciti, avrebbero provato sulle carni il fuoco della sua vendetta. Lasciò il cortile, attraversò la volta e scese lungo la Forca verso la strada principale di Gerona, che, con il suo andamento tortuoso, univa i luoghi più importanti della città. Appena uscito dal Call, trovò ad attenderlo un'intera masnada di giovani malviventi. Tanti erano ragazzi più grandi di lui, compreso qualche diciassettenne. I più piccoli avevano sei o sette anni e, scalzi, avevano seguito i fratelli maggiori. Molti erano armati di bastoni, qualcuno di un coltello. L'apparizione di Nicolas fu accolta da un boato entusiasta e risa di sarcasmo. I passanti, rari e frettolosi, non facevano caso alla scena. Scaramucce fra bambini. Nicolas, che temeva anche la sua ombra, sentì svanire ogni timore. L'odio di chi voleva picchiarlo o ferirlo era artificiale. Il suo era molto più concreto. I pugni chiusi sui fianchi, fissò gli assedianti a uno a uno. «Avanti il primo!» gridò, con la sua vocina acuta. «Colpirà non solo me, ma l'ordine di San Domenico, in cui sto per entrare. Sapete cosa comporta fare del male a un novizio? Avete mai visto gente che, per avere insultato i domenicani, è morta sul rogo?» Non furono tanto quelle parole a essere efficaci, quanto il tono in cui furono pronunciate. La combriccola esitò, cominciò a disperdersi. I ragazzi lasciarono cadere le armi di mano e, uno alla volta, si allontanarono. Nicolas provò un senso di onnipotenza. Di che stupirsi, d'altra parte? Come gli aveva detto Moisés de Leon, non era forse il padre di Lilith? Poco importava che quella bambola danneggiata galleggiasse sulle acque di una cisterna.
47.Successo diplomatico Dopo una giornata e mezzo pomeriggio di discussioni ininterrotte, Eymerich si sentiva al limite delle energie e aveva la voce rauca. Avvertiva però una profonda soddisfazione. L'accordo che si era raggiunto soddisfaceva le aspirazioni di quasi tutti i presenti ed era tale da essere accolto senza obiezioni tanto da papa Gregorio quanto, con qualche riserva in più, da Pietro il Cerimonioso. Ciò gli era costato fiumi di sudore. L'inquisitore si levò, per la centesima volta quel giorno. Aprì le braccia. «Mia regina Giovanna, mio re Federico, e voi cavalieri, nobili e dignitari. Per grazia di Nostro Signore, la data di oggi, 31 marzo 1372, entra nella storia. Una discussione franca ed esaustiva ha condotto a un accordo equo, che non può che confortare ogni gentiluomo intenzionato a conseguire la pace e il bene comune. Ve ne riassumo i termini essenziali». Eymerich vide puntati su di sé gli occhi intelligenti e penetranti di Niccolò Spinelli da Giovinazzo, il gran ciambellano di Giovanna d'Angiò, che aveva interloquito nelle trattative per conto della sua sovrana. A lui spettava in grande misura l'esito felice. Era un uomo magro, dal viso affilato, con capelli scuri e ricci. Indossava una casacca nera e sul capo portava un berretto dello stesso colore. Lo si notava facilmente, in mezzo alla congrega di baroni schiamazzanti e vestiti delle tinte più vivaci. Ciò che attirava era il suo sguardo, saggio e al tempo stesso acuto. Giovanna d'Angiò, naturalmente, non si era accomodata al tavolo lunghissimo che ospitava i partecipanti alla riunione. Sedeva su un tronetto in fondo alla sala del Maschio Angioino – nome corrente per indicare Castel Nuovo, aveva appreso Eymerich – allestita per il concilio, di fianco a un sedile uguale su cui era assiso Federico IV. Nessuno dei due contendenti aveva preso la parola durante l'interminabile discussione. Anzi, erano rimasti immobili tutto il tempo come statue di cera. Però non si erano mai allontanati: segno che il confronto era, per loro, del massimo interesse. «Riassumo» ripeté Eymerich. «Giovanna d'Angiò rimane regina di Sicilia, titolo che le spetta di diritto. Federico IV d'Aragona diventa re di Trinacria, con larga autonomia nella riscossione dei tributi, ma legato alla sua sovrana da un patto di fedeltà. Governerà l'isola su suo mandato. Stabilirà la sua sede a Palermo, restituita al ruolo di capitale, e consulterà l'assemblea dei baroni per le decisioni più rilevanti. Dico bene, messer Spinelli?» Il gran ciambellano annuì, con un sorriso complice. Per riuscire a fissare quei punti d'intesa, sia lui sia l'inquisitore avevano dovuto giocare di pazienza e sottigliezza a fronte di interlocutori volgari, non di rado iracondi. Don Blasco Alagona per primo. «Il re di Trinacria, Federico» continuò Eymerich «assicura per giuramento la sua obbedienza al nostro santo pontefice Gregorio XI e alla Chiesa cattolica, apostolica e romana, portatrice dell'unica Verità. In virtù di questo patto di sottomissione, si impegna a favorire la rinascita in Sicilia dell'Inquisizione dell'errore eretico, riconoscendo l'autorità del suo reggitore generale, padre Simone dal Pozzo. Farà il possibile per ridare splendore all'università e alla biblioteca domenicane di Palermo, centri di sapienza cristiana in questa parte del Mediterraneo, assediati esternamente dagli infedeli, e internamente dalle eresie».
Così dicendo, Eymerich si guadagnò un'occhiata di gratitudine da parte di padre Simone, seduto dal lato opposto del tavolo. In quanto osservatore, non era intervenuto nelle trattative, ma ne aveva seguito lo sviluppo con molti momenti di apprensione. Ora pareva completamente soddisfatto. «Da ultimo» concluse Eymerich «un auspicio che ritengo comune». Sapeva che Eleonora d'Arborea non era presente nella sala, tuttavia era a lei che si rivolgeva. «Il Mediterraneo si presta a scambi e commerci. Una successione di conflitti, la peste, le guerre civili lo hanno impoverito. Basterebbe una breve stagione di pace tra regno d'Aragona, le due Sicilie e la Sardegna per ripristinare le antiche rotte mercantili e ridurre Genova a comportamenti meno bellicosi. Oggi abbiamo fatto un primo, importante passo in quel senso. Il papato, per sua natura agente di unificazione, farà in modo che il processo sia portato a termine. Mi spenderò a questo fine. La pace è siglata, la prosperità è alle porte. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». I presenti si segnarono, poi scoppiarono in applausi assordanti. Anche Giovanna e Federico, usciti dalla loro immobilità, applaudivano con foga. Eymerich, compiaciuto ma anche imbarazzato, si alzò e ringraziò con un mezzo inchino. Lasciò il seggio e camminò rapido verso l'uscita. Nell'atrio ritrovò Eleonora d'Arborea. La dama, per raggiungerlo, dovette farsi spazio tra una calca rumorosa, in attesa da ore dei risultati dei negoziati. Erano nobilucci, notabili, preti, funzionari di basso rango, avvocati di dubbia fama. Non mancavano gli esponenti della Napoli del malaffare fedeli agli Angiò: plebei dagli abiti appariscenti, carichi di ornamenti superflui e male assortiti. Alla cintola portavano spadini e navajas, quando non semplici coltelli. Il divieto di tenere armi entro i confini urbani per loro non valeva. Avevano il mandato di tenere sotto controllo il volgo e di indurlo, volente o nolente, alla sottomissione. In cambio potevano dedicarsi ai peggiori ladrocini, purché non toccassero i ceti privilegiati. Eleonora si aggrappò alla manica dell'inquisitore. «Qualcosa è filtrato. Non si è parlato quasi per niente della Sardegna e della sua indipendenza». «Non era all'ordine del giorno, madonna». Eymerich liberò il braccio. «Un passo alla volta. Gli angioini non sono ostili alla causa di vostro padre, ed è già molto. Non potete pretendere che lo mettano per iscritto. Quanto a Pietro il Cerimonioso, il fatto che in Sicilia si sia conclusa la pace senza sprecare denaro in navi e armate può dargli utili suggerimenti». «Ma Federico IV si è piegato a una condizione di subordinato!» «Meglio essere subordinati a un papa e a un re lontani che a profittatori troppo vicini. Anche voi sardi dovreste considerare l'eventualità di...». «Mai!» esclamò Eleonora. Le pupille le ardevano. «Allora contate sulle vostre forze. C'è poco che io possa suggerirvi». Eymerich si scostò dalla donna. Stanco com'era, avvertiva la necessità impellente di uscire all'aperto, non tanto per respirare, quanto per districarsi da una folla troppo fitta...
destinata a infoltirsi quando i nobili sarebbero usciti dalla sala dov'erano riuniti. Raggiunse senza essere importunato il cortile, poi il piccolo giardino che separava il castello dal mare. Lo attendeva una sorpresa sgradevole. Si era nel pieno pomeriggio e il sole, a ovest, restava alto sull'orizzonte, ingrandendosi pian piano. Non c'erano nuvole, ma il cielo non era sgombro: lo intersecava una rete di sottilissime striature biancastre, che si intrecciavano in nodi quasi regolari. Erano tracce troppo tenui perché chi conversava davanti al Maschio vi facesse caso. Non si trattava dell'unica anomalia astronomica: sferette luminose quasi impercettibili danzavano nell'intreccio delle linee, lungo traiettorie irregolari in apparenza casuali. Per Eymerich fu un amaro ritorno alla realtà. Il nemico non era sconfitto e non era rimasto confinato in Sicilia. Pareva seguirlo passo passo, con il suo arsenale di trucchi infernali. In chi si nascondeva, adesso? «Stanno per attaccarci, magister?» All'udire la voce anziana di Simone dal Pozzo, Eymerich ebbe un soprassalto. Si calmò subito: su quel fronte non aveva niente da temere. Bastava osservare gli occhi calmi del confratello per comprendere che non si trattava del simulacro febbrile di Mussomeli, invasato dall'ibbur. «Temo di sì» rispose. «E stavolta non saranno i Lestrigoni, ma chissà quale altra fantasia. Ramón fa leva sui simboli comuni all'immaginazione remota di ogni popolo. O, almeno, questo è ciò che presumo. Quindi fa vibrare le menti... non saprei in quale altro modo esprimermi... per rendere l'incubo comune a tutti». «Dunque Ramón de Tàrrega è qui a Napoli». «Mi illudevo di no, ma mi sbagliavo. Un'illusione stupida: non ho ancora individuato chi lo ospiti la maggior parte del tempo, come un predatore nel suo nido. Ne deriva che me lo porto dietro come un'ombra e non riesco a liberarmene». Padre Simone tacque osservando il cielo. Linee bianche e sferette luccicanti rimanevano costanti, senza aumentare di spessore né farsi più vicine. Dopo qualche attimo di contemplazione, emise un colpetto di tosse e azzardò: «Trovare il corpo che nasconde, più di trasferimenti temporanei, l'anima di Ramón non dovrebbe essere così difficile, magister». «Cosa volete dire? Spiegatevi!» «Ramón de Tàrrega era un giudeo non convertito, a quanto mi avete raccontato. Mi sembra chiaro che accetterebbe come veicolo solo un altro giudeo. Per quanto tempo un ebreo accetterebbe di rimanere nel corpo di un non circonciso? Ne andrebbe addirittura della sua salvezza!» Eymerich fu percorso da un brivido violento. «Non può essere lui. L'ho già escluso. Non era con me fin da Barcellona!»
«Mi sembra che abbiate in mente una persona precisa. Se è così, vi domando: l'avete conosciuta solo in Sicilia o vi era già familiare?» «In Sicilia!». Eymerich era sconvolto. «Allora può darsi che, in precedenza, non l'abbiate notata. O si serviva delle sue capacità di invasamento o, più semplicemente, si teneva ai margini. Quanta gente incontriamo, ogni giorno, senza farvi caso? Un cambio di vestiti, un taglio diverso di capelli, ed ecco che il personaggio diventa invisibile. Senza necessità di trasferirsi in un corpo differente». Eymerich quasi gridò: «Vi dico che è impossibile! Non può essere Nissim Ficira!». Simone dal Pozzo fece un sorriso quieto. «Impossibile o improbabile? Pensateci bene. Nel primo caso siamo in un vicolo cieco. Nel secondo, forse la verità è a portata di mano». Eymerich avvertì l'esigenza di continuare da solo quei ragionamenti e al tempo stesso di agire. Piantò in asso il confratello e si avviò quasi di corsa in direzione di Castel dell'Ovo. Udì Niccolò Spinelli che lo chiamava. Non gli prestò attenzione. Il sospetto che gli era stato instillato richiedeva un chiarimento urgente. Il motivo di fondo se lo confessava appena. Nissim gli risultava simpatico, per quanto appartenente a una stirpe bastarda. Sul campo si era mostrato quasi all'altezza di certi suoi compagni d'avventure del passato. Meno di padre Corona, ovviamente; più, forse, di Pedro Bagueny, o allo stesso livello di costui. Si mostrava perspicace, pronto di riflessi, capace di interpretazioni più raffinate del grado di cultura che possedeva. Pensare che fosse la sembianza principale di Ramón era tragico. Eppure... Il lungomare non era molto frequentato mentre lentamente apparivano le prime avvisaglie di un tramonto incipiente. Eymerich scostò popolani che cercavano di vendergli merci e alimenti, divise coppie che camminavano a braccetto, varcò gruppetti di musicanti. Non volse gli occhi al cielo, non ne aveva il tempo. Immaginò soltanto che, nell'appannarsi progressivo della luce solare, le striature biancastre si fossero fatte più evidenti. Era ancora una volta meravigliato dalla quasi totale assenza di fatica, così insolita rispetto ai cali di vigore di poche settimane prima. L'aria impetuosa che soffiava dal mare non lo faceva sbandare, i passi trovavano sempre la lastra giusta per mantenere l'equilibrio. Si sarebbe sentito rinato, non fosse stato per le sue preoccupazioni. Castel dell'Ovo era quasi deserto: ogni soldato, a parte un pugno di sentinelle, era stato mandato a presidiare il Maschio Angioino. Indisturbato, Eymerich salì il camminamento che conduceva al piano superiore e spinse l'uscio socchiuso accanto a quello della sua stanza. Fu fortunato: Nissim era nel proprio alloggio. Disarmò la sua foga il fatto di scoprirlo con occhi lacrimosi, seduto sul bordo del letto. Appena vide l'inquisitore, gli occhi umidi del servo si spalancarono, pieni di speranza. Giunse le dita. «Che fortuna che siate venuto! Ho un dubbio terribile che mi rode! Solo voi, padre, potete fugarlo».
«Quale dubbio?» chiese Eymerich, prudente. Stava in guardia come di fronte a una belva capace di ferirlo con un'unghiata. La risposta di Nissim non fu per niente aggressiva. Palesava piuttosto smarrimento. «Ho cercato di trovare qualche ricordo anteriore a dodici anni fa. Non ho trovato nulla. Nulla! Solo immagini che mi sono state raccontate dopo. Io, poco più che neonato, rapito da una donna eterea, con grandi ali trasparenti». Lilith?» «Sì, ma questo lo ho appreso in seguito». Eymerich, senza andare in collera, apprezzò la sfacciataggine di colui che ormai considerava il suo nemico. «Ingegnoso, Ramón. Vuoi farti passare per mio figlio. Credi così di sorprendermi e disarmarmi. Non ci riuscirai. Certi sospetti che avevo, messi da parte troppo in fretta, hanno trovato conferma nell'analisi degli eventi. Puoi smettere di nasconderti». «Io non sono Ramón!» gridò Nissim. Gli occhi gli si asciugarono all'istante. Se lo stupore del giovane era finto, la simulazione rasentava la maestria. «E di quale figlio parlate? Non riesco a seguirvi!» Eymerich sogghignò. «Ci riesci benissimo. Sai meglio di me perché cercavo un ragazzo di dodici anni circa. Ero sulle tracce dell'esperimento riuscito, dopo i tanti falliti. Il figlio nato dal seme che Myriam, o Lilith, mi ha rubato con le sue seduzioni». Mentre parlava, l'inquisitore si guardava attorno. La stanza aveva le dimensioni della sua. Oltre al letto, l'arredavano un tavolino, una specchiera, due seggiole di legno e il consueto secchio per i bisogni corporali, con una brocca accanto. Sotto una candela spenta, due mosche volavano attorno ai resti di un pasto frettoloso consumato su un largo fazzoletto, aperto a mo' di tovaglia. Una scodella di ferro conteneva pochi rimasugli di carne, del formaggio sbocconcellato, le briciole di una pagnotta. Un coltello sporco e affilato sporgeva la lama dal bordo del tavolo. Una tazza poteva avere contenuto vino o qualche altra bevanda. «Voi dovete essere impazzito» mormorò Nissim. «Non sono niente di ciò che dite». «Non continuare con la commedia, Ramón». Eymerich cominciò a spostarsi insensibilmente verso il tavolino, che stava tra lui e la finestra. Da quest'ultima entrava ancora luce, di intensità attenuata. «Solo una cosa mi risulta incomprensibile. Che aspetto avevi a Barcellona, dopo la tua morte? Non mi riferisco al maiale. So ormai che puoi dare fattezze animali a ogni involucro di carne, grazie ai trattati negromantici di cui ti servi. Parlo del corpo in cui ti sei trasferito. Quello che usi anche ora. Come ti sei travestito, perché nemmeno ti notassi? Da vecchia suora, per caso?» Nissim aveva la bocca spalancata. Perse la presa sulle lenzuola e quasi cadde all'indietro. Eymerich ne approfittò per impadronirsi del coltello e nasconderlo dietro la schiena.
«Cosa state dicendo, signore?». Adesso Nissim quasi urlava. Sembrava molto impaurito. «Dite frasi senza senso! È evidente che non ragionate!» «Ah, sì, Ramón? Come ti sei sentito quando abbiamo ucciso le larve, i miei figli mancati?» Eymerich si manteneva calmissimo. Vide una sfera che brillava di luce bianca attraversare lo spazio esterno alla finestra, ma non le prestò attenzione. Aveva altro per la mente. «Devi avere provato una gioia selvaggia, non è vero? Mi guardavi massacrare creature del mio sangue, senza che io lo sapessi. È la stessa gioia che sto per provare io, mandandoti finalmente nelle braccia del demonio. Però ho un'ultima curiosità». «Mio Dio! Di cosa state vaneggiando? Che intenzioni avete?» Nissim doveva essersi accorto del coltello che Eymerich impugnava. Era più giovane e forte dell'inquisitore e avrebbe potuto tentare di sopraffarlo. Ma qualcosa glielo impediva. «Vi ho servito come ho potuto! Non ho nulla da confessarvi!» «Perché hai voluto trascinarmi fino in Sicilia, Ramón? Perché hai accumulato aborti in uno sperduto caseggiato rurale? Non potevi fare la stessa cosa a Barcellona?» Nissim boccheggiò. Dava l'impressione di non afferrare il senso del discorso. Eppure non reagiva, non cercava di disarmare l'uomo che lo sovrastava. Tendeva piuttosto a rannicchiarsi. «No, non potevi, Ramón. Perché i tuoi inganni funzionassero dovevi trascinarmi nella terra natale di Maria l'Ebrea, dove operò il tuo maestro, Arnaldo da Villanova. Dove fu presente Raimondo Lullo, artefice della decadenza putrida dei francescani. Dove le superstizioni antiche sono ancora vive più che altrove, tanto da dare facilmente corpo alle suggestioni. Non è vero, Ramón?» «Non sono Ramón!» Per gridare le tre parole, Nissim usò quanto fiato gli restava in gola. Seguitò comunque a rimanere passivo. Portò le mani aperte davanti alla faccia, come per proteggere il viso e il collo. Eymerich smise di nascondere il coltello. Lo impugnò invece con le dita di entrambe le mani. Gli tremavano. Era nervosissimo, ma faceva uno sforzo per non sembrarlo. Scandì ogni frase della sua sentenza. «Ramón de Tàrrega! Dio non mi accorda licenza per uccisioni individuali. Dovrei sottoporti a un processo davanti a un tribunale legalmente costituito, approvato da un vescovo. Tu, però, sei già stato condannato e sarebbe inutile portarti di nuovo in giudizio. Sei morto molte volte e ritornato dall'oltretomba. Nello spaccarti il cuore forse mi dannerò per sempre, ma è mio dovere farlo. Non è detto che il cammino che ho scelto porti me alla salvezza». Eymerich alzò il coltello sopra il capo e mosse un passo verso la vittima. Nissim, paralizzato dal terrore, sussurrò: «Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salva gratis, salva me, fons pietatis!».
48.Rex tremendae maiestatis Eymerich rimase brevemente attonito, con il coltello alzato. Non fu per le parole pronunciate da Nissim, ma per altri due eventi concomitanti. Un raggio di luce bianca, intensissima, entrò dalla finestrella e gli colpì gli occhi, accecandolo. Nello stesso tempo, una voce distante, a lui ben nota, gli sussurrò: «Credi di essere Abramo, Nicolas? Chi ti ha ordinato di uccidere Isacco? Dio no di sicuro. Non sarà stata la tua presunzione?». L'inquisitore cercò di sottrarsi alla luce che lo feriva. Impossibile. Riuscì a scorgere una sfera che oscillava davanti alla finestra e un'ombra imprecisa accanto a sé. Dovette abbassare le braccia per ripararsi dal bagliore, così vivo che gli attraversava le palpebre. Mantenne però la presa sul coltello, ora stretto con la sola destra. «Devo farlo, Myriam!» disse aspro, soffocato da una specie di angoscia. «Se il mostro mi sfugge ancora, potrà incarnarsi in chiunque!» «Non è chi credi! Non vedi che non si ribella? È perché intuisce che tu sei suo padre... e io sua madre». «Non è possibile!» «Sì, invece. Il mio penultimo parto. Non una larva, ma nemmeno il perfetto essere razionale che desideravo». Il raggio di luce perdurava. Eymerich gli girò le spalle, però fu inutile. Credette di avere perso la vista. Lasciò cadere il coltello. Il suo smarrimento era totale: ogni residuo lembo di certezza si stava sfaldando. Gli sembrò di galleggiare in un mondo nero, privo di logica, solcato da lampi. Si convinse che anche la ragione era sul punto di abbandonarlo. Intanto Myriam – o la sua ombra – diceva, con quel bisbiglio che pareva provenire da distanze incommensurabili: «Ora vattene, Nissim. Torna in Sicilia. Esci per sempre dalla vita di tuo padre». Eymerich, per quanto glielo permetteva il ronzio che gli lancinava le orecchie, udì il giovane rispondere: «Sei davvero mia madre?». «Sì. Te ne dimenticherai. Vai via, qui provochi unicamente confusione». L'inquisitore non seppe subito se il giovane avesse obbedito. Gli occhi gli bruciavano come se venissero premuti con dei carboni ardenti. Lacrimava, stentava a respirare. Vacillò per la stanza come se stesse per cadere. Poi, da un momento all'altro, tutto scomparve: luce, cecità, dolore, timore di impazzire. Quasi incredulo, riaprì gli occhi. La sfera luminosa non c'era più, e la stanza appariva immersa nella penombra di un tramonto incipiente. Myriam era lì, una sagoma scura circondata da altre tre sagome confuse, non create dai riflessi del sole ormai calato, né dai fuochi fatui che volteggiavano lontano. Eymerich ne
osservò la corporeità traslucida. Non aveva le sembianze di Lilith, con ali ripiegate sulle scapole. Somigliava piuttosto alla Myriam che aveva conosciuto inizialmente, tanti anni prima... quando gli si era presentata fingendosi un maschio e aveva invaso i suoi sogni assumendo, femminile, il viso della luna. Non era mai stata bella e non lo era adesso. Il suo corpo, per quanto se ne intravedeva, aveva una nudità spigolosa, con gli attributi sessuali appena abbozzati. Eppure riusciva ad attrarlo con l'antica forza. Nissim non c'era più. Eymerich si lasciò cadere sulla porzione di giaciglio, ancora calda, che il giovane aveva occupato. Non si arrendeva al delirio. Una fede salda nel potere ordinatore di Dio lo rendeva capace di resistere agli spettacoli più demenziali e di cercare una via d'uscita logica a un'atmosfera di illusioni ispirate dal demonio. In quel caso era particolarmente difficile. Ci provò. «Myriam» chiese, con un alito di respiro, «se Nissim Ficira non era Ramón de Tàrrega, questi in chi si nasconde?» L'ombra si agitò, imitata dalle altre tre che le facevano da contorno. «Lo hai avuto con te fin da Monte Sìon». «Chi è, di grazia?» «Pensaci. Io non posso dirlo, ma è per il tuo bene. Scoprirlo da solo è indispensabile perché tu possa sbarazzarti di lui». La voce proveniva, insicura, da abissi insondabili. Le figure, femminili anch'esse, che scortavano Myriam diventavano via via più evidenti e concrete. Eymerich le conosceva una per una – tutte e tre – e malgrado ciò non riusciva ad attribuire loro un nome. Sapeva soltanto che erano gli spettri di persone note. «Mi hai fatto capire che, rubandomi il seme e cercando di fecondarlo, hai generato creature incomplete» disse a Myriam. «Nissim era il più riuscito degli esperimenti. Dove si trova il mio vero figlio, l'uomo conforme al modello del padre?» Myriam ebbe un guizzo, quasi fosse fuoco e non materia. «Chi ti ha detto che sia un maschio? Non lo è. Vive altrove ed è femmina. Porta il mio stesso nome». «Quale, fra i tanti?» «Non ti riguarda, Nicolas. Sta in un altro tempo. Vi sono stata imprigionata anch'io. Non vi incontrerete mai, a meno che tu non divenga materia sottile. Quinta essenza». «Vuoi dire spirito?» «No. Parlo della sostanza ulteriore, oltre alle quattro che compongono l'uomo. Quinta rispetto ad acqua, terra, aria e fuoco. Quinta rispetto a liquido, corpo, anima e spirito. Quinta in rapporto alle quattro parti di cui è fatto l'uovo. Quinta per colore, dopo nigredo, albedo, citrinitas e rubedo. Quinta dopo i quattro metalli fondamentali». Eymerich, tornato completamente padrone di se stesso, non aveva intenzione di discutere di definizioni alchemiche. Vi si sarebbe smarrito. Invece era un'altra la domanda che gli
premeva da tempo. Temeva che il fantasma di Myriam scomparisse e le domandò, con una specie di affanno: «Cos'è il Rex tremendae maiestatis? Perché c'è chi mi chiama così?». «Perché potresti diventarlo, Nicolas, se Ramón non te lo impedirà. Aspira lui a quella dignità e si serve di te per raggiungere lo scopo». Myriam additò le sue indecifrabili consorelle. «Stiamo cercando di aiutarti. Ormai da anni, non solo da quando Ramón è fisicamente morto. L'ostacolo a volte sei tu stesso, altre volte le luci e le scie nel cielo». Eymerich provò uno stupore profondo. «Non sei tu a generare quegli oggetti?» «No, e nemmeno Ramón de Tàrrega. Te lo stava per dire, pochi giorni fa». «Che cosa sono, dunque?» «Qualcosa che interferisce. Entità provenienti da chissà dove e per chissà quali fini». D'improvviso le fattezze già eteree di Myriam impallidirono e si fecero più diafane. Le sue compagne scomparvero. Lei agitò le mani, come per resistere a una forza che non poteva dominare. Riuscì ad allungare le braccia verso l'inquisitore, in un atto breve eppure affettuoso. «Devo andare, Nicolas!» Eymerich era angosciato. Tentò di afferrarle le dita, ma non strinse che il vuoto. «Perché Rex?» le gridò. Ricevette in risposta bisbigli sibilanti sempre più fiochi. Non seppe se li interpretava bene. «Giobbe... il libro di Giobbe... devi conoscere quale mondo dovrai governare... dormi, te lo mostrerò in sogno... lì Ramón non riesce a entrare... Attento alle luci in cielo! Unisci il maschio alla femmina!» Il tempo di un respiro ed Eymerich si trovò a contemplare una parete nuda, in una stanza ormai quasi completamente oscura. Inizialmente non riuscì a formulare alcuna riflessione compiuta. La logica lo induceva a credere di essere stato vittima dell'ennesima allucinazione, l'istinto però lo negava. Certezze capaci di ancorarlo al presente erano il coltello sul pavimento e, per quanto valeva, l'assenza di Nissim. La porta era aperta e, spinta da una brezza leggera, cigolava un poco sui cardini. Non provava dolore, non avvertiva stanchezza e non gli pareva di essere in uno stato confusionale. Sentiva solo un acuto rimorso, pungente come uno stiletto, all'idea che colui che stava per uccidere fosse per davvero suo figlio. Se lo vedeva davanti, spaventato, incapace di reagire. Le attenuanti a favore di Eymerich erano innumerevoli. Non gli impedivano di percepire l'omicidio mancato come una colpa gravissima. Era inutile rimanere in quell'ambiente. Uscì all'esterno. Alcuni campanili, dalla città, battevano compieta. Le barche dei pescatori prendevano il largo. Nel castello regnava il silenzio. In cielo, le sfere luminose erano presenti, ma apparivano lontane, facili da confondere con le prime stelle che si accendevano nella zona più scura del firmamento. Eymerich spinse l'uscio della sua cella. Ebbe un sussulto. La candela era stata accesa e si consumava nella sua bugia. Su una seggiola aveva preso posto padre Simone dal Pozzo.
Colui che, istigandolo a falsi ragionamenti, quasi lo aveva indotto a commettere un delitto orribile e a perdere la propria anima. «Che fate, qui?» gli chiese. Riuscì con molta fatica a nascondere i suoi sentimenti più profondi, riassumibili in un'unica parola: odio. Padre Simone si alzò in piedi, in segno di rispetto. «Mi mandano da Castel Nuovo, magister. Messer Niccolò Spinelli non si capacita che, dopo avere svolto un'intermediazione così importante, vi sottraiate ai festeggiamenti». «Temo che dovrà rassegnarsi. Sono stanco e voglio dormire». «Rispetto i vostri desideri, magister. Tuttavia dopo avere acceso tante speranze è logico che vi si reclami». «Ne riparleremo domattina». Eymerich contemplò Simone dal Pozzo senza far trapelare il disprezzo che nutriva per lui, pari alla stima che ogni tanto aveva provato. «Fratello, potreste essermi utile». «In quale veste, magister?» «Come uomo dotto, custode della biblioteca più importante del Mediterraneo. Non voglio interrogarvi su manoscritti insoliti e proibiti, bensì su qualcosa di semplice. Cosa vi dice l'espressione Rex tremendae maiestatis? L'avete mai udita?» Frate Simone quasi si mise a ridere. «Certo, e anche voi. Chissà quante volte l'avete intonata. È una terzina del Dies irae. Tra le più suggestive». «Non mi riferivo al canto, ma alle sue origini nelle Scritture. Molte strofe del Dies irae sono ispirate all'Apocalisse di Giovanni. Nel testo si accenna ripetutamente a un Re, suppongo sia Gesù Cristo, ma non a un "Re dalla tremenda maestà"». Simone dal Pozzo acquisì sicurezza. Tornò a sedersi. «Vi chiedo perdono, magister. Il Re dalla tremenda maestà è, in realtà, il re della tremenda maestà. Dove la "maestà" di cui si parla è il mondo in cui viviamo, passato, presente e futuro. Tragica dimensione, eppure grandiosa, in cui i nostri bozzoli corporei devono vivere, volenti o nolenti». Eymerich fu scosso da quella spiegazione. Per l'ennesima volta dovette rettificare l'idea che si era fatta di dal Pozzo. Occorrevano verifiche. Gli sottopose la più elementare. «Ci sono, nelle Scritture, paragrafi che confortino questa ipotesi?» «Sì. Giobbe 37, 22. Nell'Antico Testamento. Non si parla di Rex, ma di tremenda majestas. In un contesto pieno di gloria, ma anche di timore». «E il Rex da dove viene, nel Dies irae?» «Un retaggio giudaico. Presso i teologi ebrei, e soprattutto i farisei, Cristo non può essere il Messia, data la sua natura divina. Il Messia vero può solo essere un re di questo mondo, capace di tenere a bada le contraddizioni dei viventi».
Eymerich rimase sorpreso. «Un canto cristiano farebbe propria la visione dei farisei?» «No». Padre Simone sorrise. «È una questione di interpretazione diversa di un identico testo. Per noi Rex è sempre Cristo. Per un ebreo è invece un Messia che non è ancora venuto, chiamato a dominare la terra come Dio domina il cosmo, e agente per Suo mandato». Eymerich rifletté qualche istante. «Ciò ricorda molto il Demiurgo di alcune correnti gnostiche. Ialdabaoth. Il signore, per procura, del mondo materiale e carnale». «Non penso che un ebreo concorderebbe. Tra l'altro, Ialdabaoth è un'entità metafisica, come la Sophia, gli Arconti e le altre invenzioni dello gnosticismo. Il Messia giudaico è piuttosto un guerriero reale, abile nel guidare eserciti e nel sottomettere nazioni». Simone dal Pozzo fece un gesto circolare con le braccia. «Tenete presente, magister, che il bacino del Mediterraneo ha visto nascere culti tra loro somiglianti, monoteistici o panteistici. Si sono sviluppati tra grandi differenze e grandi similitudini, finché il cristianesimo romano non si è affermato come unica religione vera. È, se vogliamo, una conquista abbastanza recente». «Sì, e abbiamo ancora bisogno del pugno di ferro per conservarla». Eymerich si trovava in sintonia con le considerazioni di Simone e ne apprezzava la saggezza. Il suo giudizio sul vecchio domenicano rimaneva ambivalente, e ben lontano da una parvenza di simpatia. Lo aveva visto morire e poi risorgere; lo aveva udito spostare i suoi sospetti sull'innocente Nissim. E non erano le uniche ambiguità. Finse di congedarlo. «Andate, ci rivedremo domattina..». Padre Simone si inchinò. «Come desiderate, magister. Vi auguro la buonanotte. Che il Signore sia con voi». Si avviò verso l'uscio. Solo allora Eymerich completò la frase: «... ma prima ditemi perché avete cercato di sviarmi dalla verità». Il confratello rimase attonito. Si volse. «In che modo lo avrei fatto, magister?» balbettò. «Mi avete fatto credere che Ramón sia entrato nel corpo di un ebreo. In viaggio con me non ce n'era che uno. Mi avete istigato a ucciderlo!» «Ma... io non ho fatto nessun nome! Erano semplici speculazioni!» «Davvero?» incalzò Eymerich. «Siete perfettamente padrone del concetto non cristiano di ibbur. Io ho faticato non poco ad arrivarvi. Da cosa deriva tanta competenza? Dalle letture fatte nella biblioteca domenicana?» «Dimenticate che sono stato vittima io stesso di quel tipo di stregoneria!» protestò Simone. «Dopo averla subita, ho cercato di approfondire il tema!» «Ah, sì? Con quali conclusioni? Cos'è dunque, l'ibbur?»
Il cranio nudo di Simone dal Pozzo luccicava per le goccioline di sudore che vi si erano formate. Il domenicano non aveva idea del senso di quel colloquio. Avvertiva che poteva avere un pessimo epilogo. Fu palese che cercava di elaborare una definizione chiara a sufficienza per discolparlo da imputazioni ancora ignote. « Ibbur significa "impregnazione". È un concetto accettato da molti cabalisti, ma non da tutti gli ebrei. Descrive un'anima che si installa in un corpo altrui. Nel mio caso, tuttavia, non era ibbur, ma piuttosto gilgul». Questa volta fu Eymerich a restare perplesso. «C'è differenza?» «Sì. Nel gilgul l'invasamento di un corpo altrui è completo. Nell'ibbur le due anime, quella del corpo ospitante e quella del parassita, possono convivere, senza che la prima abbia nozione della presenza della seconda». Eymerich era ormai preparato a ogni tipo di rivelazione sconcertante. Quella appena udita fu tanto inaspettata da impressionarlo. «Capisco bene? Il... "portatore" trae con sé una diversa personalità senza averne coscienza?» «È così, secondo i cabalisti, ma non solo. I greci chiamano il fenomeno diplosis. Una persona ne contiene due, e l'altra personalità si sovrappone alla prima quando lo ritiene opportuno». Adesso era Eymerich che sudava. Gli affioravano alla mente pensieri da respingere, pena la sua ragione. «Sciocchezze da ebreucci in vena di speculazioni astratte» esclamò. «I giudei tendono a edificare costruzioni logiche artificiali almeno quanto gli alessandrini. Nessuno ha mai visto un esempio di diplosis, eppure sono certo che, in questo stesso istante, in qualche bugigattolo pieno di topi, qualcuno sta scrivendo un trattato sul tema... Ora andate via, voglio riposare». Simone piegò il capo. Forse era soddisfatto di non avere patito conseguenze peggiori. «Obbedisco, magister. Noto che un caso di anima sdoppiata l'ho avuto sotto gli occhi. A voi forse è sfuggito, eppure, per i testimoni, è stato lampante». «A chi vi riferite?» «A Eleonora d'Arborea. È lei o non è lei? Ieri mattina si è rivolta a re Federico come se fosse un'altra Eleonora. Persino la voce era cambiata. Il Semplice si è indirizzato a lei con il nome con cui ha presentato se stessa: "Leonor de Córdoba". Udirlo ha lasciato allibiti tutti noi, presenti all'incontro. Ovviamente, nessuno ha osato contraddirla. Ho idea che il nuovo monarca di Trinacria ignori di avere conosciuto, sotto false spoglie, l'erede al giudicato di Sardegna». Eymerich fu rapito da una ridda di pensieri. Leonor de Córdoba. Il secondo volto di Myriam o di Lilith. L'altra donna che gli aveva rubato il seme, poi usato per generare una congerie di creature imperfette, fino a formare il penultimo figlio: Nissim. E la figlia di forma compiuta, il prodotto finale della serie, viva in un tempo lontanissimo. Chissà con quale nome. Indicò a Simone la porta. Parlò senza ostilità. «Uscite. Ho veramente bisogno di dormire». Il confratello obbedì. Si trovò sotto un cielo stellato solcato da sfere di luce bianchissima. «Vi raccapezzate in tutto ciò?»
«Se la guida è Dio» rispose Eymerich «la strada può essere tortuosa quanto vuole. Non va persa». Chiuse il battente dell'uscio.
49.Su quale mondo regnare Eymerich abbandonò tonaca e mantello su una sedia, spense la candela e, tolti i calzari, si sdraiò sul letto. Per una volta non verificò la presenza o no di insetti. Si fidò dell'esame iniziale. Erano molti i motivi che giustificavano una trascuratezza così insolita in lui. La sua mente, più che il corpo, era affaticata da tanti fili da combinare. Inoltre Myriam gli aveva promesso di rivelargli, in sogno, squarci dell'universo tremendae maiestatis. Sfinimento e ansia di conoscere invitavano al sonno. Dopo che ebbe chiuso gli occhi, non si addormentò subito come sperava. La sua psiche era attraversata da brandelli di ragionamento più intricati delle scie che, forse, si intrecciavano ancora nel cielo di Napoli. Pensò anche alle mistiche che, una dopo l'altra, dicevano di essere scese all'inferno e avevano lasciato resoconti dell'esperienza. Fuoco inestinguibile, demoni ghignanti con forcone, torture dall'inequivocabile impronta sessuale. L'incontro che aveva avuto anni prima con la più famosa visionaria d'Europa, Brigida di Svezia, non aveva generato rapporti amichevoli. Tutt'altro. Almeno Dante ammetteva di essersi inventato il suo viaggio. Ildegarda di Bingen, invece, sosteneva che i suoi rapporti di discesa all'inferno erano veritieri. Eymerich non avrebbe tollerato sciocchezze nemmeno in sogno. Alla fine arrivò il torpore, tardivo ma profondo, con la conseguente discesa nell'oblio. A quel punto, il calcolo del tempo diventò impossibile, ed esperienze stralunate si susseguirono vorticose. All'inizio Eymerich si trovava a Napoli, ma la città non era quale l'aveva superficialmente conosciuta. Vie e castelli erano leggermente diversi, la folla urbana scorreva in un totale silenzio. Il Vesuvio fumava all'eccesso, il mare aveva uno strano colore lattiginoso. L'inquisitore interrogava alcuni passanti chiedendo indicazioni su un sito da raggiungere, di cui non conosceva il nome. Tutti si scostavano. La sua lingua risultava incomprensibile, la loro anche. C'era chi lo ascoltava con pazienza, salvo fuggire o scomparire quando le domande si facevano più precise. Eymerich aveva notato alcune scalinate che dal mare bianco salivano alle nubi. Desiderava raggiungerle. Vi veniva condotto da una gondola senza rematore. Solo all'approdo il vogatore assumeva un corpo e una veste: era suor Magdalena Rocaberti. Gli indicava la scala più vicina e attendeva che fosse sbarcato sui primi gradini, misteriosamente asciutti. Riprendeva a vogare e scompariva, insieme all'imbarcazione. Prima di dissolversi, il viso dolce di lei diventava simile alla luna al primo quarto. Gli scalini erano altissimi, e non c'era corrimano. Eymerich sapeva che, con l'età, le sue gambe troppo lunghe si erano indebolite. I piedi, spesso gonfi, gli assicuravano un equilibrio incerto. Meditava di salire la rampa ascendendola a forza di braccia. Prima faceva un tentativo di inerpicarsi con le sole membra inferiori. Era sorpreso del risultato: passava senza sforzo da un gradino all'altro, senza dovere impegnare le mani. A quel punto, non rimaneva che raggiungere la cima.
Attraversava una specie di museo fluttuante di figure statuarie. Dèi del passato, draghi, serpenti, belve mostruose. Inchiodati a una fissità forse dovuta alla nebbiolina azzurrognola che scorreva attorno ai simulacri. Benché rapito dallo spettacolo, Eymerich aveva la ferma intenzione di percorrere la scala, che saliva ancora. Lo faceva con passo agile, ormai accostumato all'assenza di sforzo e di stanchezza. Varcava coltri di nebbia e addensamenti di buio. Cominciava a dubitare che una cima ci fosse, quando infine vi metteva piede. L'ultimo gradino si allargava in una ristretta piattaforma. Attorno tutto era fin troppo limpido, specialmente verso il basso. Il paesaggio distante era terrestre e agitato da moti convulsi. La sua apparenza tendeva a uno scenario grandioso, guidato da una crudeltà animale capace di scuotere sia gli elementi sia le creature vive. Non si trattava né di un paradiso né di un inferno. Eymerich coglieva immagini fugaci di conflitti ferini, di schiavismi ispirati a regole astratte di convenienza, di aggressioni tribali. Non sapeva quale epoca stesse osservando: aveva l'impressione di abbracciarle tutte quante. Il mosaico che contemplava pareva avere un unico movente: fare proprie ricchezze comuni e piegare chi ne era espropriato. Magari ucciderlo. Una legge che aveva dominato sulla Terra prima ancora che l'uomo assumesse la forma attuale. Eymerich ne era confortato. Nella sua selvaggia maestà, quello poteva essere il suo regno. Osservava guerre interminabili. Alcune le conosceva perché erano ancora in atto. Altre, trascorse o future, erano combattute con armi immaginose e devastatrici. Città prendevano forma, si protendevano verso il cielo e, dopo un breve ciclo, erano annientate. Curiosi veicoli zigzagavano tra le nubi, flotte immense solcavano i mari. Getti di fumi dai mille colori erano proiettati verso l'alto e ricadevano in cortine oleose. Non c'erano un prima o un dopo. Ogni fenomeno conviveva: dall'espansione di macchie di deserto a montagne di ghiaccio che si scioglievano, da armate sempre più bardate di ferro a ondate mostruose che rodevano e seppellivano interi continenti. Il tutto in un contesto gelido e nero, sovrastato da un occhio remoto, che osservava senza muovere ciglio. Eymerich era affascinato da ciò che vedeva. Scorgeva anche un intrico di linee disegnate sotto il suolo. Lo conosceva, ne aveva fatto esperienza. Le sue intersezioni erano il passaggio obbligato dei morti in attesa di giudizio, e ogni grumo corrispondeva a un abitato senza nome:
Chi avrebbe pronunciato la sentenza? Non Dio, adagiato nel cuore dell'universo, confuso con esso, dedito alla pura contemplazione. Dio, quando decideva di agire, lo faceva tramite intermediari: il Messia atteso dagli ebrei, Ialdabaoth, il Pistis Sophia, gli Arconti, Cristo, il Demiurgo. I nomi attribuiti alle entità di cui il Padre si serviva per interagire con i sudditi, non solo terrestri, erano una ridda. E c'erano anche gli angeli, esecutori meccanici di ordini, incapaci di azione creativa. In più i demoni, angeli anch'essi, ribelli non contro Dio ma contro i loro pari grado. Invidiosi degli uomini e delle creature planetarie cui il Supremo, nella sua distanza dai mondi che incessantemente creava, aveva accordato troppa
autonomia. Al contrario delle coorti angeliche, tenute all'obbedienza e organizzate in una ferrea disciplina. Era tempo che, su uno dei tanti mondi, qualcuno fosse chiamato a prenderne in pugno la tremendam majestatem. L'idea spaventava Eymerich, ma al tempo stesso lo lusingava. Si sarebbe mostrato degno del compito. Avrebbe mostrato fini degni a battaglie insensate. La carica di Rex non lo intimidiva. Nel sogno faceva atto di sottomissione e di accettazione. Subito dopo gli appariva suor Magdalena. Era muta e tuttavia parlava. Diceva che solo l'unione del Re con la Regina avrebbe evitato tragedie. Il solo maschio poteva annullare l'ambito sottomesso al suo controllo. In pratica gli si offriva. Sollevava la tonaca e gli mostrava il sesso. Gettava il velo e scompigliava i capelli. Un'insidia del diavolo? Eymerich non riuscì a scoprirlo. Si svegliò dal sogno, intontito, profondamente turbato. Era mattina: la luce entrava dalla finestra, insieme a mille rumori. Di ciò che aveva sognato gli rimasero poche sensazioni, però nitide. Quando, dopo essersi lavato e rivestito, uscì all'esterno, vide un cielo limpido. Castel dell'Ovo si immergeva in una sfavillante conca di tepore. Malgrado fosse appena l'ora prima, le attività del porto erano già riprese. I pescatori stavano tornando. La catena che proteggeva quel lato della baia era abbassata. Due galee, forse francesi, erano in avvicinamento. Si avviò con passo tranquillo verso il Maschio Angioino. Dove si nascondesse Ramón già lo sapeva. C'era da capire come stanarlo e fargli assumere forma fisica. L'attacco dei dischi volanti sembrava posposto. Nel chiarore mattutino non c'erano strie: solo corpi puntiformi distinguibili a fatica. L'aria era fresca e dava vigore. La città dormiva ancora, a parte file di donne in nero che affluivano alle chiese per la prima messa. I venditori di piza e di maccheroni stavano montando le loro stufe e i banchi. Eymerich, che guardava distratto il mare, colse un movimento su un barcone che stava prendendo il largo, la vela triangolare al vento. Era Nissim Ficira che, con il braccio, gli diceva addio. Rispose al saluto. Sapeva che, fosse o no suo figlio – il penultimo –, non si sarebbero mai più rivisti. Avvertì un nodo alla gola mai provato in precedenza. Amore paterno? Lo escluse, facendo quasi violenza sul proprio sentire istintivo. La spiegazione razionale, e dunque accettabile, era un'altra. Durante le peregrinazioni tra le due Sicilie non aveva trovato un compagno di viaggio ricettivo e intelligente quanto altri del passato, salvo Nissim. Perderlo era un dispiacere. Forse non fu un caso se, alla base di Castel Nuovo, intenta a mirare il paesaggio superbo che il sole crescente rivelava, trovò Eleonora d'Arborea. Un'altra viaggiatrice che, a dispetto di certe bizzarrie e dell'ambiguità rilevata da Simone dal Pozzo, gli aveva offerto una compagnia non spiacevole. Stava appoggiata con i gomiti su contrafforti sbrecciati, prossimi a crollare. Il suo consueto abito nero sfiorava rose selvatiche mal coltivate. Fu persuaso che lo aspettasse. Eymerich le sfiorò la spalla, facendola sussultare. Le domandò, evitando ogni preliminare: «Quante personalità ci sono in voi, madonna?».
La risposta fu improntata alla sfrontatezza abituale. «E in voi, magister? Ormai, fine come siete nel ragionamento, avrete capito di quale veicolo si sia servito il vostro avversario per traversare i mari e raggiungere la Sicilia, e adesso Napoli». «Sì» disse Eymerich. «Ramón, grazie all'ibbur, ha viaggiato nel mio corpo. Vi si trova ancora, suppongo. Per fortuna non è riuscito a comandare la mia mente e conto di espellerlo nel peggiore dei modi... Ma anche voi, madonna, non avete potuto sottrarvi alla "impregnazione". Un'altra personalità si è sovrapposta alla vostra. Dubito seriamente che siate mai stata chi dite di essere». Eleonora vacillò. Portò le mani al petto, come se faticasse a respirare. «Chi sarei, dunque?» «Chissà. Forse l'ancella della vera figlia del giudice d'Arborea, come vi dichiaraste al nostro primo incontro. Ragionate di politica insulare con una competenza degna della vostra padrona. Avete ingannato molta gente, me compreso. Nutrivo dubbi, e non sapevo come giustificarli. Anche un buon numero di baroni siciliani è caduto in equivoco. Solo il re di Trinacria è rimasto perplesso. Di fronte a lui, la vostra seconda anima ha preso il sopravvento. Siete troppo debole per tenerla a bada». «Quale seconda anima?» «Quella che vi governa, mia buona servetta sarda». Eymerich portò la mano al torace e fece un mezzo inchino. «È un piacere rivedervi, donna Leonor di Córdoba» mormorò. «Peccato che le circostanze vi abbiano obbligato a sacrificare, in parte, la vostra bellezza». La presunta principessa sarda prese a tremare, quasi fosse sul punto di svenire. Gli occhi le divennero ancora più neri, ma scintillanti. La loro carica di seduzione era indescrivibile. Non mutò i lineamenti del viso, che rimanevano grossolani e imperfetti. Li riempì, invece, di un'attrattiva sensuale prorompente. La voce le uscì tutta diversa, un poco incerta. «Nicolas, i convenevoli tra noi sarebbero tempo sprecato. Nostra figlia ti attende in un mondo remoto. Ti restano da vivere più di venticinque anni di vita terrena. Quando la raggiungerai, abbi cura di lei».
«Come la riconoscerò?» chiese Eymerich, tanto per avere il tempo di capire. «Porta lo stesso nome di sua madre. Lilith. In realtà, noi madri siamo in quattro. Io e Myriam, più altre due». «Quali altre?» «Conosci la quarta, che ti dirà il nome della terza. Accoppiati con lei. Il Rex tremendae maiestatis forgerà un'identità distinta solo quando si unirà al femminile. Dio è uomo e donna. Il governatore del mondo deve somigliargli».
Eleonora d'Arborea tornò in pochi istanti qual era stata. Occhi non più brillanti, viso leggermente cavallino, una traccia di peli sul labbro superiore. Indicò il cielo, spaventata. «Guardate lassù! Si prepara un nuovo attacco?» Eymerich, leggermente intontito, alzò lo sguardo. Una grande spirale, colorata quanto una girandola, occupava un angolo di cielo sopra il sole appena sorto. Attorno, spicchi di luce volteggiavano in traiettorie spericolate. Erano dischi e triangoli, velivoli affusolati o semplici sfere brillanti. Le scie biancastre si tendevano ovunque, disegnando uno schema noto all'inquisitore:
«Non so se ci sarà un "attacco"» mormorò. «Credo che non sia l'espressione giusta per definire ciò che accadrà... Vi sentite completamente padrona di voi stessa? Non provate, a volte, la sensazione di essere sottoposta al potere di un'altra intelligenza?»
La donna seguitava a tremare. «No, cerco semmai di fare l'interesse... della mia padrona». Era la prima confessione che usciva dalla bocca dell'ancella. «Ogni tanto mi sento la febbre... Anche adesso. Credo che sia la paura». Eymerich indicò le scie e i velivoli di luce. «Paura di quello?» «No, non solo... È un terrore interno... Mi sembra spesso di essere sul punto di perdere la ragione». «Non accadrà. Venite domani a Castel dell'Ovo, nella mia cella. Sarete liberata una volta per sempre dai vostri fantasmi. Tutti ne saremo liberati!» La presunta Eleonora d'Arborea giunse le dita. «Domani? È troppo tardi!» esclamò trepidante. «Non è nemmeno sicuro che ci sia, un domani!» «Rassicuratevi» disse Eymerich, con voce tesa da una ferrea sicurezza. «Non ci sono pericoli imminenti. Se preferite, potete rifugiarvi in camera mia anche subito. Le guardie vi diranno dov'è. Non sarò di ritorno prima di molte ore». Toccò fugacemente la spalla della donna. Per lui era un gesto di grande intimità, ai limiti della sconvenienza. «Ora ho altro da fare, ma vi assicuro che è per il bene comune». L'inquisitore camminò verso la soglia del Maschio Angioino. Vi si stava radunando una piccola moltitudine uscita dal castello, intenta a contemplare i prodigi che accadevano in cielo. Anche il lungomare si riempiva di gente, con facce sbalordite rivolte in alto. Brusii intimiditi crescevano di tono per diventare grida e, di lì a poco, probabilmente, urla. «Padre Eymerich! Fortuna che siete qua! C'è un gran bisogno di voi!»
L'inquisitore rivolse a Niccolò Spinelli un saluto garbato ma frettoloso. Il gran ciambellano aveva un'espressione diversa da quella, sotto sotto irridente, che gli era comune. Gli occhi neri e il viso scavato, così profondamente partenopei, erano irrigiditi dal presagio di una tragedia incombente. Non era personaggio da manifestare timore, tuttavia la sua preoccupazione si spandeva come un'aura. «Chi sta per piombarci addosso?» chiese il gran ciambellano. «I Lestrigoni come in Sicilia?» «Non credo proprio. Sapete dov'è padre Simone dal Pozzo?» «No, non l'ho visto». «Dentro il castello esiste la bottega di un fabbro?» «Certamente. Attraversate il cortile. Troverete l'officina dalla parte opposta, alla base di una scala. È quella che conduce al salone in cui si sono riuniti i baroni. Volete che vi accompagni?» «No, non occorre». Eymerich lasciò Niccolò Spinelli e corse all'interno di Castel Nuovo. La corte aveva le dimensioni di una piazza, che presto il sole avrebbe reso rovente. Non esistevano portici o arcate. Sulle soglie delle vie d'accesso cortigiani e cortigiane premevano a gruppi, incantati e terrorizzati dallo spettacolo ignoto, multicolore, tracciato nella cupola azzurra sopra le loro teste. Fu facile riconoscere la bottega del fabbro dal rumore che ne usciva. Mani esperte battevano il martello su ferro rovente. Dall'ingresso uscivano sbuffi di fumo, colpi scanditi, bestemmie pittoresche. Lì si forgiavano armi, si ferravano cavalli, si aggiustavano corazze. Nell'officina non c'era interesse per le luci fuori: bastavano quelle interne a fare rischiare l'accecamento. Una scintilla non controllata e si perdeva la vista. Eymerich apparve all'entrata. Vide corpi seminudi all'incandescenza. «Chi comanda, qui?» domandò.
alle
prese
con
stufe
prossime
Un uomo alto e barbuto, gocciolante sudore, lasciò martello, incudine e la spada cui dava forma. «Sono io. Vi serve qualcosa, padre?» Parlava in un provenzale appena comprensibile. «Avete rame, ferro, piombo e zinco?» «Sì, è ovvio. Cosa vi occorre? Un oggettino? Magari un crocifisso o una piccola corona da mettere sulla testa di una statua della Vergine?» «Nulla di tutto questo. Fonderete i quattro metalli secondo le mie istruzioni, fino a creare ciò che vi dirò: il rame filosofico e la sua forma quadripartita. Modellata secondo le mie istruzioni». Il fabbro provò a tergersi il sudore, con l'esito di aprire altri rivoli sul cranio e in mezzo al petto. «Può costarvi molto. Francamente, padre, non mi sembrate un benestante». «Fa' ciò che ti dico. Può essere l'origine della tua fortuna».
50.Eymerich contro Eymerich A un giorno di distanza, il cielo sopra Napoli non era mutato. Continuava a essere punteggiato di luci danzanti d'ogni colore, mentre il disegno formato dalle scie bianche non accennava a dissolversi. Gli abitanti della città, pur continuando a guardare verso l'alto, cominciavano ad abituarsi a quella stranezza... come ci si abitua alle eclissi, al passaggio delle comete o alle piogge di stelle cadenti. Per di più, non sembrava che gli strani oggetti celesti rappresentassero una minaccia. La maggioranza dei napoletani si stava convincendo che, prima o poi, il vento avrebbe spazzato ogni cosa, e tutto sarebbe rientrato nella norma. Eymerich salì ai bastioni superiori di Castel dell'Ovo seguito da tre uomini: il fabbro del Maschio Angioino, padre Simone dal Pozzo e Guglielmo di Romagna. Ognuno di essi reggeva, avvolti nella stoffa, utensili di peso notevole. Quando battevano contro qualche pietra, tintinnavano. La stanza occupata da Eymerich era aperta. Vi entrò per primo e lasciò cadere sul pavimento l'involto che portava: non il più voluminoso, ma nemmeno il meno pesante. Gli altri lo imitarono. Si rivolse a Guglielmo di Romagna. «Non occorre che rimaniate qui. È più utile che restiate all'esterno, mano alla spada. La cerimonia sarà probabilmente lunga. Vi annoierebbe. Entrerete in campo se correremo pericolo o se dalla porta dovesse uscire qualche bizzarra mostruosità». «La mia lama servirebbe a qualcosa?» «Sì. Non tutte le creature dell'inferno sono eteree. Lo avete visto di persona nel caso delle larve». Era un'allusione lievemente malevola allo scarso coraggio di cui Guglielmo aveva dato prova in quell'occasione; serviva a incitarlo a non fallire nuovamente. Il condottiero annuì, brusco. «Va bene, padre. Vi attenderò all'ombra del portico. Nessun demonio in fuga riuscirà a scapparmi». «Ne sono certo». Rimasto solo con padre Simone e con il fabbro, Eymerich chiuse la porta. «Possiamo cominciare» disse. Aprì il suo involto. Conteneva un rudimentale simulacro metallico, di forme vagamente umane. Aveva due gambe, due braccia e una testa, ma la fattura era imprecisa e priva di dettagli. Il colore era scuro, con numerose striature. «Il nostro fabbro, mastro Zanobi, non passerà alla storia come scultore» osservò Eymerich. «Padre Simone, questo metallo, derivato dalla fusione di rame, piombo, ferro e zinco, è ciò che Maria l'Ebrea definisce "rame filosofico". Moisés de Leon lo chiama invece quadma'e, "i quattro primordiali", come i quattro elementi. Sapete cosa dobbiamo farne». «Pensate che lui ci stia spiando?» «Sicuramente sì. La mia volontà, però, è molto più forte della sua. Impotente, dovrà limitarsi ad assistere».
Simone e Zanobi aprirono i loro involti. Sparsero sul pavimento oggetti disparati: due recipienti ovali forse destinati a unirsi per l'imboccatura, un'intelaiatura capace di mantenere una fiamma accesa sotto un ipotetico vaso, varie barrette di metallo, un'ampolla di ferro ben sigillata, attrezzi con varie funzioni, pinze dai manici lunghi, un soffione da camino, un piccolo mantice. Inoltre una collezione di tazze in terracotta ordinate in scala, dalla più larga alla più stretta. «Continuo a dubitare della liceità di quel che stiamo per fare» obiettò Simone dal Pozzo, peraltro senza troppa convinzione. «Dimostriamo di credere ai vaneggiamenti di un'alchimista giudea, di vari cabalisti, di puri e semplici stregoni. Una congerie lontanissima dall'autentica fede cristiana». Eymerich, che stava rizzando il trespolo destinato a fungere da fornello, gli lanciò uno sguardo di rimprovero. «Quante volte ve lo devo spiegare, fratello? Dove regna il demonio e la realtà è sovvertita, sono le leggi del diavolo ad avere valore. Ciò che stiamo facendo, nel mondo sottoposto alla disciplina di Dio sarebbe insensato. Ma quella disciplina è stata stravolta, e le regole le sceglie Satana in persona. Ci conformiamo a convenzioni bugiarde, inventate da maghi e giudei, solo per uscire dalla follia dell'inferno. Li stritoliamo nelle loro stesse norme assurde». «Ma così ci consegniamo alla menzogna!» «No. È la menzogna che si consegna a noi». Dopo lo scambio polemico, i tre si dedicarono senza parlare a un lavoro che durò quasi due ore. La fiamma si accese vivace sotto i due vasi, sigillati con una specie di colla. Contenevano il liquido dell'ampolla, definito da Eymerich l' "acqua divina": un abrasivo potente, ricavato da zolfo e arsenico, che aveva già corroso le pareti interne dei contenitori. A quel punto Zanobi, con l'aiuto di pinze, tolse i due vasi ovali dalla fiamma. II calore li stava separando, e fu facile aprirli con un succhiello. Ne scaturì un odore pestilenziale, fatto di mille afrori tra cui prevaleva quello di cinabro. Un fumo denso lo diffondeva nella stanza. Il fabbro, tra colpi di tosse, fece segno a Eymerich di procedere. L'inquisitore afferrò la statuetta umanoide di "rame filosofico" e la calò in uno dei vasi, scottandosi le dita. Zanobi, grazie alle pinze, sollevò l'altro contenitore sul primo. Simone spennellò di colla la fessura che li faceva aderire. Il fabbro rimise sul fuoco vivo i due recipienti. Usò prima il soffione, poi il mantice, per alimentare la fiamma e ravvivare le ceneri. «E adesso?» chiese Simone dal Pozzo. «Adesso si tratta di aspettare. La statuetta dovrebbe variare quattro volte di colore, passando dal nero al bianco, al giallo, al rosso, fino alla decomposizione del rame in una massa gassosa». «Come potremo essere certi che il processo sia completato?» «Qualche sbuffo di vapore filtrerà sicuramente attraverso la colla».
L'attesa fu lunga, e i tre uomini la trascorsero in completo silenzio, seduti sul bordo del letto. Ogni tanto Zanobi irrobustiva la fiamma soffiandovi sopra e aggiungendo pezzetti di legno. Il calore dell'ambiente era ai limiti del sopportabile. Il recipiente vibrava, come se qualcosa si muovesse al suo interno. Produceva, ma solo di tanto in tanto, un rumore simile a quello di un liquido portato all'ebollizione. Infine un sottile getto gassoso si fece strada con un sibilo tra le due imboccature, liquefacendo la colla. Eymerich vi vide qualcosa di atteso, ma capace di turbarlo profondamente. Si mise a gridare: «Uscite! Uscite subito! Sta per esplodere!». Zanobi e Simone non si fecero pregare. Corsero alla porta. Erano appena andati fuori quando i due vasi ovali volarono in mille frammenti. Mentre il metallo fuso sfrigolava sulla fiamma, una colonna di vapore di colore verdognolo si attorcigliò su se stessa al centro della stanza. La sua estremità schizzò saettando fuori dalla finestra, ma la base si addensò sul pavimento, roteando e acquistando una consistenza più definita. Simone dal Pozzo si affacciò, stravolto dal terrore. «Magister, qui fuori è l'apocalisse! Si è aperto un buco nel cielo!» «Via, via, andatevene!» gli urlò Eymerich, furioso. Era balzato in piedi. «Passerà tutto in fretta!» «Perdete sangue!» In effetti, alcuni frammenti arroventati del doppio vaso avevano colpito il volto dell'inquisitore, che non vi aveva prestato la minima attenzione. «Sparite, ve lo ordino!» Richiuse la porta e si girò piano. Vide con un brivido lo spettacolo preconizzato. Il vapore si solidificava gradualmente e acquistava sembianze umane sempre più definite. Le sue stesse sembianze. Si trovò a contemplare un riflesso annebbiato della propria immagine, come se stesse guardando in uno specchio sporco. Il doppio non aveva le pose obbligate di una normale effigie speculare. Si muoveva in piena autonomia, tanto che incrociò le braccia, mentre quelle di Eymerich pendevano lungo i fianchi. Il lemure provò a parlare, ma non vi riuscì subito. Emetteva suoni sgradevoli, gutturali. Dopo ripetuti tentativi arrivò a dire: «Devo felicitarmi con te, Nicolas. Hai scoperto il modo per vincere l'ibbur. Non era così semplice». La voce era identica a quella di Eymerich, però conteneva una nota anomala, dolorosa. L'inquisitore ne sapeva il motivo: l'essere che aveva di fronte stava morendo, e la sua stessa forma corporea vacillava, diventando a intervalli traslucida. Il dialogo non sarebbe durato a lungo. «Affrettati a sparire, Ramón. Hai vissuto in me come un parassita troppo a lungo. L'inferno che ti ha vomitato ti aspetta. Ogni resistenza ti causerà ulteriori spasimi».
Il doppio tentò un sogghigno. «Nicolas, sai quanto me che l'inferno non esiste. Siamo tutti imprigionati in reticoli complicati. Chi muore non muore subito. Chi vive lo fa oltre i suoi desideri se...». «Capisco cosa intendi, Ramón. Non farti illusioni. Sei morto per davvero. La tua quinta essenza sta per evaporare. Bisbiglierai nelle tenebre ancora per un poco, poi striscerai nel Cherudek come un insetto sanguinante». «Ti credi forte, non è vero?» gorgogliò Ramón de Tàrrega con accento di sfida. L'immagine che aveva adottato perdeva i contorni e diventava caligine grigiastra. Anche la sua voce si infiochiva. «Sai cosa vuol dire essere il Rex supremae maiestatis? Significa condannarsi alla più completa solitudine! Governare dal buio un mondo impazzito! E non vedere mai la Luce, esattamente come un dannato!» «Ich Eym Er» rispose Eymerich, in tono tranquillo. «Io sono materia sottile, capace di sollevarsi. Tu no. Tu sei zampe, ali che non volano e carapace che sanguina. Vai nel Cherudek. Vai a strisciare». Nel pronunciare quelle parole, l'inquisitore si rese conto di non saperne l'effettivo significato. Non aveva idea di cosa fosse il Cherudek. Tuttavia il risultato del suo ordine fu immediato. Ciò che restava del suo gemello si contrasse in una treccia sottile di fumo turbinante. Sparì. Si udì un urlo lontano, gonfio di angoscia e di dolore. Lo seguì un boato. Eymerich uscì all'aperto. Zanobi, Guglielmo di Romagna e Simone dal Pozzo stavano fissando il cielo, così come altri curiosi appoggiati agli spalti. Non c'era più traccia di scie biancastre, di dischi multicolori o di spirali. Non c'era nemmeno il sole, per quanto il chiarore fosse discreto e il caldo stagnasse. Tra nubi che sembravano annunciare pioggia imminente, si era invece aperta una cavità spaventosa, circolare. Il bordo era rappresentato da una fascia candida, regolare nella forma rotonda ma composta di cirri slabbrati. Ricordavano gli orli di una ferita in suppurazione o un serpente formidabile che si mordesse la coda. Il centro dell'apertura svelava il cuore di un vortice, attraversato di tanto in tanto da enormi lampi silenziosi. «Cos'è questo nuovo prodigio, magister?» chiese Simone dal Pozzo, angosciato. «È stato dunque tutto inutile? Dio ci ha abbandonato per sempre?» Eymerich fece segno di no. «Credo che sia il contrario, fratello. Dio ha solo avvicinato i due punti disegnati sul foglio piegato». «Che cosa volete dire? Che saremo risucchiati in quel turbine?» «No. È stato aperto un passaggio per la materia sottile che abbiamo liberato. Tra breve fantasmi buoni e cattivi usciranno dal mondo visibile. Torneremo a una vita ordinaria». Zanobi e Guglielmo, malgrado quelle parole a loro modo confortanti, erano impietriti dal terrore. Padre Simone, abituato alle visioni della teologia e della pittura sacra, era invece lucido, pur se in preda a una paura folle. «Che cosa c'è oltre quel foro? Il buio? La luce?»
«Qualcosa di incomprensibile» rispose Eymerich. «Un altro tempo e un altro spazio. La sala del trono del Rex tremendae maiestatis». Si udì un nuovo boato, ma questa volta era un tuono vero. Il buco nel cielo sparì, e dalle nuvole attorno cominciò a cadere una pioggia violentissima, mista a grandine. Scoccarono alcuni fulmini, seguiti a breve dal consueto fragore crepitante. I tre uomini trovarono rifugio sotto il porticato, imitati dai curiosi. Una vera tempesta si stava abbattendo sulla città, oscurando la vista del Vesuvio e schiacciando sotto l'acqua il filo di fumo che lo ornava in permanenza. «Vedete, padre Simone? Era solo l'annuncio di un temporale» commentò Eymerich. Aveva la tonaca e il mantello fradici. «Vado in camera mia ad asciugarmi un poco... Mastro Zanobi, se mi seguite vi restituisco i vostri strumenti». Il fabbro si segnò. «Teneteli voi, padre. Non voglio nulla che mi ricordi questa giornata spaventosa!» «Come preferite... Capitan Guglielmo!» «Ditemi, magister». Il condottiero stava lentamente riacquistando la calma. «Appena torna il sereno, cercatemi un passaggio su una delle galee dirette in Catalogna. La mia missione è terminata e non ho motivo per trattenermi oltre nelle due Sicilie. Prima posso partire e meglio è». «State tranquillo, padre. Mi incaricherò personalmente di organizzarvi il viaggio di ritorno». Eymerich tornò nella sua cella e ne chiuse la porta. Non c'erano odori particolari, sommersi e dispersi da quello ben noto della pioggia. Con alcuni calci gettò in un angolo il braciere ormai spento, i frammenti dei due vasi e ogni altro attrezzo rimasto al suolo. Strappò la coperta sporca di detriti dal pagliericcio e la fece volare nello stesso cantone. Si spogliò, si asciugò come meglio poté in un lenzuolo e, stanco ma euforico, si adagiò sul letto. Giunse rapida una sonnolenza serena, che invase la sua mente per metà. Quando si girò per allargare le braccia e combattere il calore, trovò al suo fianco Magdalena Rocaberti. Se fosse stato completamente sveglio, sarebbe scattato via dal giaciglio, inorridito. Lei era nuda come lui e più concreta di quanto le altre apparizioni a distanza o puramente mentali lo avessero abituato. In quel dormiveglia leggero trovò la presenza della badessa confortante, in un certo senso. Senza schiudere le labbra le domandò: «Che cosa fate qua, Magdalena?». Altrettanto muta, lei gli rispose: «Lo sapete, Nicolas. Il rituale non è completo se il Re non si fonde con la Regina. Se il maschile non si unisce al femminile. Sono i due principi che governano l'esistente e ne garantiscono la perpetuazione». Benché vinto da un crescente languore, Eymerich obiettò: «Perché voi, di tre donne, o quattro?».
«Le tre donne di cui parlate si chiamano Myriam, Maria, Maddalena. Ognuna delle tre vi ha attratto, ma io vi attraggo più delle altre». «E le quattro?» «Sono Lilith, io stessa e Esclarmonde, un'eretica che vi ha affascinato tanto tempo fa. La quarta è Leonor. Un'altra delle madri dei vostri figli». Eymerich si agitò sul letto, mezzo intorpidito ma in preda a un'agitazione istintiva. «Non voglio partorire altri mostri, o prole non voluta! Andate via, demone del mezzogiorno!». Magdalena si espresse con grande dolcezza. «Delle tre, o delle quattro, sono l'unica incapace di generare». Se in quel dialogo a labbra serrate fosse risuonata una voce, sarebbe stata molto triste. «Il mio ruolo è differente. Sono con voi per congiungere gli opposti e compiere il miracolo della Cosa Una». «A quale fine?» «Per completare l'identità del Rex tremendae maiestatis. Non basta avere estratto la sua quinta essenza, se non si è capaci di riconoscere l'altra metà del cosmo». Il sonno di Eymerich si era fatto profondo, ma il sogno permaneva. «Non sono in grado di fare ciò a cui alludete». «State scherzando?» Ora il timbro mentale di Magdalena aveva un'inflessione tra il beffardo e il malizioso. «Non vedete il vostro inguine? Vi assicuro che è ben pronto». Seguirono momenti convulsi, sorprendenti, connotati da un piacere acuto. In un attimo di distensione, la Magdalena fantasticata bisbigliò, come se potesse parlare: «Ci rivedremo a Barcellona, Nicolas. Non ricorderemo nulla di quanto è avvenuto adesso. È giusto che sia così». Eymerich reagì con smarrimento, enfatizzato dallo stato onirico. «Veramente di quanto è successo non resterà traccia?» «La traccia visibile è nel liquido che impregna il materasso, fra le tue gambe. La traccia invisibile è nell'avvenuta congiunzione tra regnanti, maschio e femmina. La tua quinta essenza ha la sua ragion d'essere. È pronta per regnare». Eymerich si destò e si levò sul pagliericcio. Fece volteggiare le gambe per evitare una macchia umida sotto il suo bacino. Corse alla finestra e spiò fuori. Dovevano essere passate ore: sorgeva in quel momento un nuovo mattino.
Il cielo era sgombro, il sole brillava. Le galee dei baroni siciliani e del nuovo re di Trinacria raggiungevano, a colpi di remi, i limiti del porto di Napoli. Varcata la catena, avrebbero alzato le vele triangolari. Era tempo di ripartire.
51.Epilogo. Ventisette anni dopo Era il 4 gennaio 1399. Nicolas Eymerich stava morendo. Tutto il convento di San Domenico, a Gerona, ne era consapevole. I frati parlavano a bassa voce e camminavano in fretta davanti alla sua cella. Per non disturbare, ma anche per un residuo del timore che il magister aveva suscitato in loro quando era nel pieno delle forze. Aveva ormai settantanove anni e ne dimostrava almeno venti di meno. Suor Magdalena Rocaberti, che per quasi un trentennio era stata la sua fedele assistente, sostituiva le pezzuole sulla fronte ogni volta che il sudore le inumidiva. Malgrado la febbre, Eymerich non soffriva. Pativa freddo, questo sì. Si rannicchiava sotto le coperte. Ciò non gli impediva di mantenere uno sguardo acuto e vivace, a tratti penetrante. Rifletteva una consapevolezza tutta interiore. Il corpo era poca cosa, l'anima forse no. Si era confessato con il priore e aveva ricevuto l'estrema unzione. Avvertiva una grande calma, maggiore di quella provata nei rari momenti di quiete della sua vita. «È venuto più volte padre Bagueny, il tuo successore quale magister philosophiae» disse Magdalena. Eymerich riuscì a muovere una mano diafana e ossuta. «Non voglio vedere nessuno. Nemmeno gli amici. Non mi piace essere scorto in condizioni di debolezza». Più che parlare, sussurrava, con frequenti singulti. Avvertiva la gola secca e il palato dolorante come se lo traforassero degli spilli. La sua glottide era colma di catarro. Si trattava degli unici tormenti, marginali. Quello vero era il freddo. Magdalena gli carezzò la guancia, ispida di peli bianchi. «Nessuno ti vedrà. Ho cacciato un messo di re Giacomo che chiedeva tue notizie. Dormi, adesso. Ti risveglierai riposato e ti sentirai meglio» «Non mi risveglierò. Lo sappiamo entrambi». Eymerich abbozzò un gesto di negazione. Inghiottì a fatica la saliva e aggiunse: «Sai? Poco fa, mentre dormivo, ho sognato di nuovo. Mia figlia non solo sembra sua madre, ma porta il suo stesso nome. Anche la madre è imprigionata lassù. Dentro una delle teche. Devo liberarla». «Lassù dove?»
«Non lo so. In un posto lontanissimo». Magdalena accennò un sorriso. Prese le dita di Eymerich tra le sue. «Chiudi gli occhi, Nicolas. Il riposo è la sola medicina per te». «Non sono sicuro di riposare. Ogni volta che mi addormento vengo trascinato altrove». «Provaci, almeno». Magdalena posò le sue labbra su quelle di Eymerich. Si sottrasse dolcemente alla sua stretta e si raddrizzò. Non udì l'ultimo rantolo dell'inquisitore, distratta da uno spettacolo sorprendente. Fuori della bifora che illuminava la stanza, sospeso nel cielo tra scie biancastre, oscillava un oggetto discoidale, traslucido. Sostò per qualche momento, poi schizzò via. Le strie sparirono. Magdalena tornò a chinarsi su Eymerich. Si accorse subito che era morto. Scoppiò a piangere, lo abbracciò. Restò a lungo stretta al suo cadavere.
Ringraziamenti
Ringrazio Alessandra Daniele, palermitana, per le traduzioni in dialetto siciliano e per i molti suggerimenti, a volte inconsapevoli. Ringrazio i tanti lettori che hanno fatto la fortuna di questo ciclo, in special modo gli amici della Eymerich Mailing List. Ringrazio il mio barista preferito, William Romagnoli, qui presente nei panni di Guglielmo di Romagna, nei suoi momenti migliori. Vale anche per sua madre Graziella e per suo padre Leo. Ringrazio infine Nicolas Eymerich in persona, che, nella sua veste di Rex tremendae maiestatis, mi ha dato spesso segni della sua benevolenza.