Aggiornamenti Aspetti della psicologia
Aspetti della psicologia
Patrizia Catellani
La collana raccoglie testi di s...
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Aggiornamenti Aspetti della psicologia
Aspetti della psicologia
Patrizia Catellani
La collana raccoglie testi di sintesi su aspetti specifici della ricerca e della pratica psicologica, rivolti non solo agli studenti universitari, ma anche all'ormai vasto mondo dei professionisti e degli operatori, che potranno trovare in questi volumi presentazioni d'assieme, costantemente aggiornate, delle problematiche connesse alla dimensione psicologica dell'esistenza e delle attività umane.
Psicologia politica
Società editrice il Mulino
Premessa
Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it
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1. Una possibile definizione 2. Psicologia sociale e psicologia politica 3. Cenni storici
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Copyright © 1997 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo — elettronico, meccanico, reprografico, digitale — se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
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1. La codifica delle informazioni politiche 2. La percezione degli uomini politici 3. La percezione dei temi politici 4. L'organizzazione delle conoscenze politiche 5. Le basi non cognitive degli atteggiamenti politici 6. La componente affettiva degli atteggiamenti politici 7. Atteggiamenti e comportamenti 8. Assimilazione e contrasto nel giudizio politico
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9. La competenza
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10. Conoscenza e partecipazione politica
III. La decisione politica ISBN 978-88-15-05972-7
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I. L'area di studio della psicologia politica
II. La conoscenza e gli atteggiamenti politici
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della
P.
1. La decisione razionale 2. Decisione e razionalità umana 3. Fattori cognitivi nella decisione 4. Fattori sociali nella decisione 5. La teoria del prospetto 6. L'illusione dell'elettore
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77 77 83 84 85 88 95
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IV. L'orientamento ideologico e politico
1. Autoritarismo 2. Orientamento alla dominanza sociale 3. Il sistema dei valori 4. Orientamento politico e ragionamento morale 5. Orientamento politico e stile cognitivo
V. La comunicazione politica 1. Mass media e politica 2. L'effetto terza persona 3. Il linguaggio politico: un approccio psicosociale 4. Le interviste agli uomini politici 5. I faccia a faccia televisivi 6. Le categorie sociali nei discorsi degli uomini politici 7. Le categorie sociali nei discorsi dei cittadini 8. Parlare di politica nella vita quotidiana
VI. La partecipazione politica 1. Identità sociale e politica 2. La ricerca sul comportamento di voto 3. Interesse personale e scelta di voto 4. Identità sociale e scelta di voto 5. Azione collettiva 6. Dimensioni e modi dell'azione collettiva 7. L'approccio sociologico all'azione collettiva 8. Determinanti psicologiche dell'azione collettiva 9. Identità sociale e azione collettiva
Premessa p. 101
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Riferimenti bibliografici 199
Questo volume costituisce un'introduzione alla psicologia politica, ossia allo studio dei rapporti che intercorrono tra il mondo del soggetto e il mondo della politica. Non si tratta di una disciplina nuova, ma al contrario di una disciplina con una tradizione empirica consolidata, che appare oggi caratterizzata da un nuovo impulso e dall'emergere di nuove prospettive. Un indice di questa vitalità è la sempre maggiore estensione della psicologia politica anche al di fuori del contesto statunitense dove ha avuto il suo maggiore sviluppo. Anche l'Italia può essere annoverata tra i paesi nei quali la riflessione teorica e la ricerca empirica in questo campo appaiono oggi sicuramente in crescita [Amerio 1996; Legrenzi e Girotto 1996]. Il primo capitolo del volume comprende una definizione dell'area di studio della psicologia politica, e una presentazione dei principali temi di indagine che ne hanno caratterizzato l'evoluzione storica. Il secondo capitolo è dedicato alla conoscenza e agli atteggiamenti politici, due temi ai quali la ricerca recente ha dedicato particolare attenzione. Ciò che i soggetti sanno di politica non dipende solo dalle informazioni a cui vengono esposti, ma anche dal modo in cui queste informazioni vengono selezionate, interpretate, riorganizzate dai soggetti stessi. Le conoscenze politiche sono anche parte costitutiva degli atteggiamenti politici, del fatto di schierarsi a favore o contro un certo tema o un certo candidato. Tuttavia tali atteggiamenti non si fondano solo sulla conoscenza, ma anche su componenti extracognitive, come le emozioni o le esperienze: il complesso intreccio di influenze di tutte queste componenti, già ampiamente indagato nello studio degli atteggiamenti sociali, comincia oggi a essere più chiaro anche a proposito degli atteggiamenti politici. Nel terzo capitolo viene affrontato il tema della decisione politica, e la chiave di lettura è alternativa rispetto a quella, a
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Premessa
lungo dominante, proposta dalle teorie economiche, e basata su un'idea di uomo come decisore razionale guidato dal perseguimento del proprio interesse personale. A questo approccio, che le teorie economiche hanno assunto come una sorta di a priori non verificato, si va gradualmente sostituendo una definizione di uomo decisore basata invece sui risultati della ricerca empirica, in particolare sull'individuazione dei fattori di natura cognitiva e sociale che «di fatto» giocano un ruolo nelle decisioni politiche. La dimensione ideologica costituisce il tema del quarto capitolo, che comprende non solo il riferimento alla classica distinzione sinistra-destra, ma anche ad altri principi e valori che risultano fondanti delle specifiche posizioni e scelte politiche dei soggetti. Alla comunicazione politica è dedicato poi il quinto capitolo: dopo aver affrontato il tema dell'influenza dei media e di come questa viene percepita dai soggetti, l'attenzione si sposta sul tema del linguaggio politico così come viene affrontato in prospettiva psicosociale. Gli esempi di ricerca riportati riguardano, oltre che il linguaggio degli uomini politici, anche il linguaggio dell'uomo comune quando parla di politica, un ambito di indagine finora meno approfondito. L'ultimo capitolo prende in esame il tema della partecipazione politica, dal comportamento di voto fino alle diverse forme di azione collettiva: viene offerta una sintesi dei diversi approcci a questo tema, proposti sia dalla psicologia che dalla sociologia, per privilegiare poi l'esame dei fattori psicosociali coinvolti nella partecipazione, con particolare riguardo alla nozione di identità sociale [Tajfel e Turner 1986]. Di fatto, la citazione di teorie e modelli sviluppati nell'ambito della ricerca psicosociale è frequente nel corso di tutto il volume. Per forza di cose non si è trattato di presentazioni esaustive, per le quali di volta in volta si è rimandato il lettore alla specifica letteratura in materia; tuttavia si è cercato di chiarire almeno le nozioni essenziali di riferimento, in modo da facilitare la lettura anche ai non specialisti. Il volume si rivolge infatti a un pubblico ampio, a tutti coloro che, per motivi di studio o anche per semplice curiosità, vogliano sapere cos'è la psicologia politica. Detto questo, i lettori troveranno probabilmente spunti diversi a seconda dei loro specifici interessi. In particolare chi si occupa di psicologia, e soprattutto di psicologia sociale, potrà trarre indicazioni in merito alle possibilità di estensione della ricerca «di base» a un ambito applicato. Chi
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invece si occupa di politica (scienziati della politica, sociologi, politici, sindacalisti, giornalisti e così via) potrebbe trarre indicazioni sulla politica vista dalla parte del soggetto, di quel soggetto che, in misura maggiore o minore, è comunque presente e gioca un ruolo nell'ambito di qualunque fenomeno politico.
Capitolo primo L'area di studio della psicologia politica
Il 15 settembre 1996 ha avuto luogo quella che dai mass media è stata battezzata la «marcia sul Po»: i fedelissimi del movimento della Lega Nord si sono radunati sulle rive del Po, preso a simbolo della Padania, e il loro leader, Umberto Bossi, ha tenuto un discorso nel quale ha rinnovato l'intento programmatico del movimento, quello di fare della Padania una macroregione con piena autonomia economica e politica rispetto al resto d'Italia, una macroregione che, per le sue caratteristiche, diverrebbe una delle aree più influenti e sviluppate nell'ambito dell'economia europea. Un episodio politico dei tanti avvenuti negli ultimi anni, secondo alcuni nemmeno in sé così rilevante, ma al quale certamente i mezzi di comunicazione hanno dedicato ampio spazio. Un episodio che può interessare non solo i giornalisti, ma anche gli studiosi di diverse discipline. Lo scienziato della politica potrebbe trovare spunto per esaminare le caratteristiche del movimento della Lega Nord, le istituzioni e il sistema politico in cui tale movimento si è sviluppato e i comportamenti politici che da tutto questo derivano. L'economista potrebbe indagare gli effetti dell'episodio in termini di posizione della lira sul mercato monetario. Lo storico potrebbe cercare analogie tra le condizioni che hanno condotto alla «marcia sul Po» e altri raduni di massa nella storia politica italiana. L'esperto in comunicazione o il linguista potrebbero studiare i titoli e gli articoli dedicati dai diversi giornali all'episodio, o i discorsi e gli slogan di Bossi e dei leghisti nelle loro diverse componenti semantiche e pragmatiche. II sociologo, infine, potrebbe descrivere l'episodio come una delle possibili modalità di azione di un movimento politico, con una certa storia e certe caratteristiche, con una certa diffusione sul territorio, o studiare l'estrazione sociale e culturale dei suoi sostenitori.
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E lo psicologo? In questa pluralità di contributi sulla realtà politica, qual è lo spazio che si può ritagliare la psicologia? C'è la possibilità per la psicologia di offrire un apporto originale che si integri con quello delle altre discipline? Naturalmente in questo volume si muove dal presupposto che questa possibilità ci sia. Chi ne è già convinto può forse saltare il resto di questo capitolo e vedere direttamente nei capitoli successivi quali sono i temi che, di fatto, vengono affrontati dalla psicologia politica. Chi invece nutre delle perplessità in merito all'area di indagine della disciplina conviene che legga ciò che segue. 1. Una possibile definizione
Torniamo allora all'episodio della «marcia sul Po», e cerchiamo di capire come potrebbe essere affrontato dalla psicologia. L'attenzione sarebbe focalizzata soprattutto sulle persone, su coloro che in vario modo possono aver avuto a che fare con quell'episodio, o perché coinvolti attivamente in esso, oppure anche semplicemente perché di quell'episodio sono venuti a conoscenza, essendone stati spettatori indiretti tramite i media. Soffermiamoci anzitutto sulla prima categoria, quella numericamente più limitata, che comprende i protagonisti dell'episodio. La psicologia potrebbe cercare di spiegare perché il leader, i dirigenti e i militanti della Lega Nord hanno agito come hanno agito, quali sono i fattori soggiacenti alla loro decisione di promuovere quella particolare azione collettiva. Qual era in quel momento la loro percezione di se stessi, di coloro che condividono la loro posizione politica e di coloro che non la condividono? Come si sono sviluppate nel tempo queste percezioni e come in esse le componenti cognitive si correlano con quelle motivazionali, affettive, valutative (ad esempio cosa li ha indotti a definirsi come leghisti, quali emozioni suscita questa definizione di sé, quali atteggiamenti si accompagnano a essa)? Ancora: qual è la loro rappresentazione di quell'episodio, di altri già vissuti in precedenza o magari solamente prefigurati? Quali sono le idee, i principi, i valori ultimi cui queste persone si riferiscono nell'interpretare le questioni politiche, ad esempio il tema del federalismo? Come tutti gli aspetti di cui si è detto vengono trasmessi, costruiti, rielaborati attraverso l'interazione
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e attraverso il linguaggio? Che ruolo hanno avuto tutti questi fattori nella decisione di partecipare alla «marcia sul Po»? Buona parte di queste domande potrebbero valere anche per la seconda categoria di persone di cui si è detto, quella di coloro che non hanno partecipato alla «marcia sul Po», ma semplicemente ne sono stati spettatori tramite la diffusione data all'episodio dai media. Anche di queste persone si potrebbero studiare le percezioni, le emozioni, i giudizi e così via. Di tutto questo si occupa la psicologia politica, e lo fa con i modi propri della ricerca empirica, attraverso la formulazione di ipotesi e la loro verifica in contesti reali o simulati, nell'intento di identificare i fattori che influiscono su ciò che i soggetti pensano o fanno in relazione alla realtà politica, e di vedere in che modo e in quali condizioni questi fattori agiscono. Volendo proporre una definizione, si potrebbe dire che «la psicologia politica studia le rappresentazioni e azioni dei (potenziali o attuali) attori della politica, ossia di qualunque soggetto in quanto cittadino, leader, o membro di gruppi che abbiano fini di carattere pubblico e collettivo» [Hermann 1986; Larrue 1994; Amerio 1996]. Attraverso l'utilizzo dell'espressione «attori della politica», invece che semplicemente «soggetti» si vuole sottolineare che il soggetto studiato dalla psicologia politica non è un soggetto «astratto», che sente, comprende, ragiona indipendentemente dalla realtà in cui è inserito; è un soggetto «concreto», che agisce all'interno di una certa realtà e in questo modo la influenza e ne è influenzato [Amerio 1991]. La definizione proposta non è sicuramente l'unica possibile, tuttavia riflette bene una delle tendenze oggi emergenti nella ricerca in psicologia politica, ossia quella a sottolineare la centralità dell'azione. 2. Psicologia sociale e psicologia politica
Porre l'accento sul tema dell'azione significa fare implicito riferimento alla dimensione sociale, perché l'azione non ha mai luogo in un vacuum sociale; è anzi proprio attraverso l'azione che il soggetto entra in relazione con l'ambiente esterno e con gli altri. Se poi si considera che una delle funzioni della politica è quella di regolare i rapporti, in particolare la distribuzione delle risorse e del potere, tra gli individui e tra i gruppi, appare difficile concepire uno studio degli attori della politica che esuli
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completamente dalla dimensione sociale. In effetti, la prospettiva che si è adottata nel volume è quella di vedere l'ambito politico come uno degli ambiti di applicazione della psicologia sociale. Vale dunque la pena di esaminare più da vicino i rapporti tra psicologia sociale e psicologia politica, e per farlo può essere opportuno riferirsi alla distinzione che segue [Larrue 1994]. Ricerche di psicologia sociale estese all'ambito politico. Nelle ricerche di questo tipo si pone l'accento sul fatto che il soggetto attore della realtà politica porta con sé alcune caratteristiche che gli sono proprie anche come attore della realtà sociale più generale. Così, ad esempio, i processi cognitivi coinvolti nella formazione di un giudizio su un uomo politico sono in parte simili a quelli che entrano in gioco nella formazione di un giudizio su una persona incontrata a una cena in casa di amici o su un collega di lavoro. Allo stesso modo nella scelta di far parte di un gruppo politico si possono ritrovare alcuni processi, come quello di identificazione con il gruppo, che si ritrovano anche nella scelta di far parte di gruppi di altro tipo, ad esempio un circolo ricreativo. Ancora, i meccanismi di influenza e di persuasione che un uomo politico mette in atto nei confronti dell'elettorato avranno sicuramente delle analogie con quelli esercitati da un venditore che cerca di convincere il potenziale compratore. Si potrebbe continuare con gli esempi, e in questo modo giungere a coprire praticamente tutti i temi classici della psicologia sociale che, mutatis mutandis, si possono ritrovare anche nel contesto politico. Sono molti, in effetti, i risultati di ricerche di psicologia sociale che potrebbero essere estesi anche all'ambito politico e in alcuni casi queste possibili estensioni sono citate esplicitamente dagli stessi ricercatori. Per fare solamente un esempio si consideri la distinzione, proposta da Fiske e Pavelchak [1986], e verificata attraverso diversi esperimenti, tra condizioni in cui il giudizio su una persona viene fondato sul riferimento a singoli elementi di conoscenza (piecemeal), e condizioni in cui questo giudizio viene invece fondato sul riferimento a conoscenze più strutturate e organizzate (schematiche). Come hanno rilevato gli stessi Fiske e Pavelchak, questa distinzione potrebbe risultare valida anche per quanto riguarda la formazione di impressioni relative a un candidato politico. In alcune circostanze ci possiamo fare un'idea di un candidato a partire da singole sue caratte-
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ristiche, fisiche o di personalità, che rimandano a caratteristiche analoghe viste in persone incontrate in precedenza. In circostanze diverse possiamo invece giudicare il candidato sulla base di una categoria a cui appartiene, nel senso che gli attribuiamo le caratteristiche percepite come tipiche di quella categoria: ad esempio l'ideologia del partito o la città d'origine di un certo candidato potrebbero essere entrambe categorie di riferimento che abbiamo utilizzato nel formarci un giudizio su di lui. Ricerche di psicologia sociale della politica. In queste ricerche l'accento viene posto sulla specificità del contesto politico. La prospettiva è ben sintetizzata da Ghiglione [1989, 43], nel riferirsi ai suoi lavori di analisi dei discorsi degli uomini politici: «Se anche l'uomo politico avesse un certo numero di punti in comune con un uomo che comunica in situazione pubblica, avrà comunque [... ] degli aspetti incommensurabili con un altro uomo pubblico in situazione di comunicazione». Quanto vale nell'ambito della comunicazione può valere anche per gli altri ambiti della psicologia sociale che sono stati citati sopra. E vero che ci sono processi di base che orientano i soggetti nella formazione di impressioni, ma altro è formarsi un giudizio su una persona per decidere se invitarla o no a cena, altro è farlo per decidere se votarla o no alle prossime elezioni. Allo stesso modo alcuni processi presenti nella partecipazione a un gruppo e nella «vita» di tale gruppo possono essere costanti, ma un conto è decidere di far parte di un gruppo pacifista, un altro è decidere di far parte di un gruppo di pesca sportiva. Insomma lo specifico contesto politico porta con sé delle conseguenze in termini di: a) scopi che il soggetto o il gruppo si pongono; b) ruoli che vengono rivestiti; c) regole e vincoli ai quali conformarsi; e tutti questi aspetti, a loro volta, esercitano un'influenza sulle rappresentazioni e sulle azioni dei soggetti. La distinzione fra i due tipi di ricerche di cui si è detto non va intesa in senso rigido. La si è proposta semplicemente per sottolineare che in alcune ricerche l'accento viene posto sulle somiglianze tra l'ambito politico e altri ambiti della realtà sociale, mentre in altre ricerche l'accento viene posto sulle peculiarità dell'ambito politico. Ciò che più importa, tuttavia, è che in entrambi i casi la dimensione sociale viene assunta come costitutiva della politica ed è questa la prospettiva sottostante la maggior parte delle ricerche presentate nel corso di questo volume.
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3. Cenni storici
Prima di passare a esaminare le tematiche specifiche della psicologia politica, vale la pena di soffermarsi brevemente sulla storia di questa disciplina, per avere un'idea dei problemi che maggiormente l'hanno caratterizzata, così come delle teorie psicologiche alle quali maggiormente essa si è riferita. Da questa breve rassegna risulterà evidente che lo sviluppo della disciplina è stato finora ineguale dal punto di vista territoriale, con una prevalenza netta degli studi condotti in ambito statunitense, di contro a una presenza molto più limitata di studi condotti in ambito europeo e in particolare italiano [tuttavia cfr. Quadri() 1984]. Lo sviluppo preponderante della disciplina in contesto statunitense può essere in parte spiegato con il tipo di impostazione teorica prevalente nell'ambito della scienza della politica anglosassone rispetto a quella europea. Mentre quest'ultima è stata a lungo caratterizzata da un interesse prevalente per lo studio dell'ideologia e delle istituzioni, la scienza della politica anglosassone, e in particolare statunitense, è segnata sin dall'inizio da un'impostazione più funzionalista, che vede il sistema politico come insieme di relazioni, come espressione di coloro che agiscono nel sistema stesso, vale a dire i leader e l'opinione pubblica. Questa impostazione, proprio perché pone l'accento sui soggetti della politica, ha creato le premesse culturali favorevoli per lo sviluppo di una disciplina come la psicologia politica. Ne è derivata una collaborazione e interazione costante tra politologi e psicologi, che ha avuto riflessi anche istituzionali, con la realizzazione di percorsi universitari ad hoc per la preparazione di specialisti in psicologia politica e la fondazione, nel 1978, di un'associazione di psicologia politica (ISPP, International Society of Political Psychology) che, per quanto internazionale, è ancora oggi costituita in massima parte da psicologi statunitensi. Questi fenomeni non hanno finora avuto un corrispettivo in Europa, dove è ancora poco frequente anche l'attivazione di corsi universitari di psicologia politica. Schematicamente, l'evoluzione storica della disciplina può essere suddivisa in alcune fasi principali, per ciascuna delle quali è possibile identificare gli approcci teorici e le tematiche prevalenti (anche se, naturalmente, non esclusivi) [McGuire 1993]. Come spesso accade nella storia delle discipline scienti-
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fiche, anche nel caso della psicologia politica l'approccio teorico dominante in un dato periodo ha avuto un'influenza sui temi e problemi affrontati in prevalenza in quello stesso periodo. Anni '40-50: fattori di personalità in politica. Chi non sarebbe curioso di sapere quali motivazioni psicologiche hanno condotto un leader politico come Hitler a fare quello che ha fatto? E quale storico o scienziato della politica oggi avrebbe difficoltà a riconoscere che la presenza, in un dato momento della vita politica di un paese, di un leader con certe piuttosto che altre caratteristiche personali può modificare il corso della storia di quel paese? Gli iniziali sviluppi della psicologia politica hanno riguardato proprio lo studio dei fattori di personalità che giocano un ruolo nell'esercizio della politica, e si sono fondati essenzialmente sul patrimonio concettuale e interpretativo offerto dalla teoria psicoanalitica. Se da un lato opere di Freud come Il futuro di un'illusione (1927) o Il disagio della civiltà (1929) gettano le basi per un'estensione della visione psicoanalitica dalla sfera puramente individuale a quella sociale e politica, dall'altro le psicobiografie di importanti personaggi del passato (si veda ad esempio il saggio su Leonardo da Vinci dello stesso Freud, pubblicato nel 1910) offrono una metodologia di ricostruzione della personalità attraverso documenti di archivio che appare applicabile anche al caso dei leader politici. E in effetti questo è proprio il lavoro effettuato da Lasswell [1930; 1948], le cui opere costituiscono una citazione praticamente obbligata quando ci si riferisce alle origini della psicologia politica. Attraverso la ricostruzione delle diverse fasi evolutive nella vita di alcuni leader politici, Lasswell si propone di spiegare per quale motivo alcune persone e non altre scelgono di impegnarsi nell'attività pubblica. Gli uomini politici sarebbero caratterizzati da ansie irrisolte relative al proprio ego, così come da una scarsa stima di sé, e si rivolgerebbero all'esterno per cercare quella conferma che non trovano all'interno di sé, e che pure è così essenziale per l'equilibrio psichico. La dimensione conflittuale tipica dell'attività politica sarebbe funzionale alla risoluzione dei conflitti interiori. Infatti, attraverso un meccanismo di spostamento, tali conflitti, in origine privati, verrebbero deviati su oggetti pubblici, e le azioni di conseguenza intraprese verrebbero razionalizzate in termini di pubblico interesse. L'approccio psicobiografico di matrice psicoanalitica ha avuto e ha tutto-
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ra un seguito tra gli studiosi di psicologia politica. Spesso citato è ad esempio il lavoro di Barber [1985], che ha proposto una tipologia di personalità nella quale collocare i diversi presidenti degli Stati Uniti, e in base ad essa ha spiegato successi e insuccessi della loro politica presidenziale. Ad esempio Wilson, Johnson e Nixon apparterrebbero alla categoria dei cosiddetti «attivi negativi». Cosa si intende con ciò? Gli attivi negativi sarebbero uomini politici che, a causa di una originaria scarsa stima di sé, avrebbero la tendenza a non cambiare la propria strategia politica nemmeno quando segnali evidenti ne suggeriscono l'opportunità, e in questo modo andrebbero spesso incontro a sconfitte. La linea politica adottata dal presidente Johnson durante la guerra del Vietnam sarebbe un chiaro esempio di questa modalità di comportamento. Nei primi studi sui fattori di personalità in politica è presente, oltre al riferimento alla teoria psicoanalitica, il riferimento alle teorie personologiche, e in particolare al modello motivazionale di Maslow [1954]. In questa luce sono state indagate non solo le élites politiche, ma anche, sia pure in misura minore, la più ampia categoria dei militanti di partito: si è posto così in rilievo che l'attività politica, in quanto espressione di bisogni situati in posizione elevata nella gerarchia proposta da Maslow, viene in genere intrapresa solo quando i bisogni di base (fisiologici, di buona salute ecc.) sono già stati soddisfatti. Un soggetto che si trovi in questa condizione sarebbe un soggetto caratterizzato da un'alta stima di sé e da un forte senso di efficacia personale. È evidente il contrasto tra un approccio come quello di Lasswell, che ipotizza una scarsa stima di sé degli uomini politici, e un approccio come quello appena citato, che giunge invece a una conclusione opposta. Senza affrontare in dettaglio le ragioni di questo contrasto, si può trarre spunto da esso per muovere due critiche di carattere generale in merito allo studio dei rapporti tra personalità e politica [Sears 1987]. Un primo rilievo riguarda le differenze di metodo che hanno caratterizzato le ricerche sulla personalità dei leader e rispettivamente dei militanti, con la conseguente difficoltà a confrontare i risultati di tali ricerche. È evidente che l'approccio psicobiografico approfondito utilizzato nel caso dei leader non era nemmeno proponibile nel caso dei militanti, per i quali i questionari sono stati lo strumento più ampiamente utilizzato: di questa differen-
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za è tuttavia opportuno tener conto nel caso si vogliano confrontare le caratteristiche di personalità rilevate negli uni e negli altri. Un secondo rilievo critico riguarda l'accento esclusivo che queste ricerche pongono sul carattere, quindi sugli aspetti interni, riconducibili al soggetto, senza alcuna considerazione degli aspetti esterni, delle componenti ambientali che pure giocano un ruolo nelle scelte di vita del soggetto. Insomma si potrebbe dire che i ricercatori di cui si è parlato sono incorsi nell'errore fondamentale di attribuzione descritto da Ross [1977], nel senso che hanno accentuato il ruolo giocato dai fattori disposizionali a scapito di quello giocato dai fattori situazionali nella spiegazione del comportamento politico dei soggetti. Prendiamo ad esempio la perestroika di Gorbaciov, le sue scelte politiche, il suo comportamento da leader: in che misura sono diretta espressione delle sue caratteristiche di personalità e in che misura sono invece espressione delle condizioni politiche locali e globali presenti nel momento storico in cui Gorbaciov ha operato? Questa seconda critica è in parte riconducibile alle teorie della personalità soggiacenti agli studi «classici» citati e potrebbe essere superata dall'applicazione all'ambito politico di teorie della personalità più recenti, di matrice interazionista, attente all'esame delle interazioni tra persona e situazione [Caprara e Van Heck 1994]. Anni '60-70: opinione pubblica e comportamento elettorale.
I protagonisti della politica non sono solo i leader o i militanti di partito; sono anche i cittadini, la cui influenza, in un sistema democratico, si esprime soprattutto attraverso il voto. Già a partire dagli anni '50 comincia ad affermarsi un consistente interesse della psicologia politica nei confronti di un tema intorno al quale si coagulano in seguito moltissime ricerche, il tema appunto del comportamento elettorale, e più in generale degli atteggiamenti politici dei cittadini. Una data importante è il 1952, anno in cui l'Università del Michigan avvia un'indagine su vasta scala, effettuata da allora in poi ogni quattro anni negli Stati Uniti, per «monitorare» gli atteggiamenti politici dei cittadini e il loro orientamento nei confronti del voto. Si tratta del National Election Study (NES), un'indagine che a tutt'oggi costituisce una preziosa fonte di dati per studiosi di diverse discipline, dalla scienza della politica alla sociologia e alla psicologia.
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In questi anni l'attenzione della psicologia politica si sposta dunque dallo studio delle élites allo studio della cosiddetta «opinione pubblica» [Lippmann 1922]. Implicita nella stessa definizione di opinione pubblica è l'idea che i soggetti non reagiscono direttamente alla realtà che li circonda, ma al contrario si costruiscono delle rappresentazioni, in genere stereotipate e semplificate, di tale realtà e sulla base di queste prendono poi delle decisioni, nella vita comune come in campo politico. A partire da questa prospettiva, Campbell, Converse, Miller e Stokes conducono un'indagine a vasto raggio sull'elettore statunitense e pubblicano i risultati nel volume TheAmerican voter (1960). In questo volume, probabilmente per la prima volta, si propone di estendere all'ambito politico una nozione sviluppata nell'ambito della psicologia sociale, ossia quella di «atteggiamento». Nel modo in cui questa nozione viene utilizzata da Campbell et al. [1960] è percepibile tuttavia, ancora, un'influenza degli studi della fase precedente sui fattori di personalità in politica, nel senso che si fa risalire all'età evolutiva lo sviluppo di atteggiamenti che nel corso dell'età adulta divengono stabili e resistenti al cambiamento. Il processo di socializzazione, e soprattutto la famiglia, giocherebbero un ruolo fondamentale nello sviluppo di una identificazione con il partito che diventerebbe poi la determinante principale della scelta di voto. Così il voto non sarebbe basato su un esame obiettivo delle molte informazioni disponibili al soggetto in merito a temi politici, partiti e candidati; sarebbe invece un comportamento sostanzialmente irrazionale, dettato da una «spinta» interna che sovrasterebbe i dati provenienti dall'esterno. Campbell è giunto a questa conclusione dopo aver verificato, attraverso il questionario proposto, che la gente comune possiede informazioni davvero scarse sulla realtà politica e nemmeno si preoccupa di raccoglierle. In età adulta le persone sembrano preoccupate soprattutto dei fatti relativi alla loro sfera privata (famiglia, lavoro ecc.) e non si interessano delle questioni pubbliche, se non limitatamente agli aspetti che possono avere dei riflessi piuttosto immediati sul privato. In questa situazione di «povertà» cognitiva il soggetto si limiterebbe ad adattare le poche informazioni di cui dispone alle idee preconcette che ha già, quindi ad esempio «filtrerebbe» nuove informazioni relative al suo partito in modo tale da renderle coerenti con la visione positiva che egli ha già di quel partito, visto che, appunto, si è identificato con esso.
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La nozione di «identificazione con il partito» verrà messa in crisi non solo dall'emergere di nuovi paradigmi interpretativi, come vedremo nel paragrafo successivo, ma anche da un obiettivo cambiamento intervenuto nel comportamento di voto dei cittadini, per cui, a partire dagli anni '70, da un'elezione alla successiva si cominciano a osservare spostamenti di porzioni consistenti dell'elettorato da un partito all'altro, spostamenti difficilmente attribuibili al semplice cambio generazionale. Questo fenomeno favorirà lo sviluppo di studi che porranno in evidenza il ruolo di fattori diversi rispetto all'identificazione nella scelta di voto (la performance dei governi precedenti, il rilievo attribuito a particolari temi politici, la preferenza per certi candidati e così via; cfr. cap. VI, par. 2). La visione proposta da Campbell è sostanzialmente quella di un homo politicus irrazionale, e ad essa può essere contrapposta una visione dell'homo politicus come razionale, propria di alcuni studiosi che, negli stessi anni, interpretano il comportamento elettorale a partire dalle teorie economiche della decisione (cfr. cap. III, par. 1). Il riferimento «storico» principale in questo ambito è il volume di Downs An economic theory of democracy (1957), nel quale si sostiene che l'elettore, anche se dispone di informazioni parziali, ha comunque la possibilità di decidere in modo razionale, nel senso di scegliere tra le possibili alternative quella caratterizzata dalla massima utilità attesa. Il volume di Downs non è di psicologia, e tuttavia vale la pena citarlo in questa sede per mettere in evidenza come gli studi sul comportamento elettorale effettuati in questi anni abbiano condotto alla messa a fuoco di un nuovo tema, quello della razionalità del comportamento politico, sostanzialmente negata da un autore come Campbell e sottolineata invece da un autore come Downs. Si apre così la via alla fase successiva della ricerca nell'ambito della psicologia politica, quella che pone per l'appunto la razionalità, o meglio i processi mentali, al centro dell'indagine. Anni '80: political cognition. Dunque il comportamento politico è irrazionale o razionale? Posta in questi termini, l'alternativa sembra troppo radicale e, in effetti, a partire dagli anni '70, la questione comincia ad essere affrontata in modo più articolato, grazie all'estensione dell'approccio cognitivista all'ambito della psicologia politica. L'attenzione della ricerca si sposta
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dall'esame degli atteggiamenti e dei comportamenti politici all'esame dei processi di elaborazione delle informazioni a questi soggiacenti: insomma la questione non è più tanto o solo cosa il soggetto pensa di un certo candidato e se voterà per quel candidato, bensì attraverso quali processi mentali quel soggetto arriva a pensare e a votare in un certo modo. Negli anni '70 la ricerca svolta nell'ambito della social cognition consente di accumulare un bagaglio consistente di dati sulle modalità di elaborazione delle conoscenze in ambito sociale e lo stesso approccio di ricerca non tarda a essere esteso anche all'ambito politico, con lo sviluppo di un filone denominato appunto political cognition [Lau e Sears 1986]. Dalla social cognition la political cognition mutua le nozioni acquisite in merito a ciò che avviene nelle diverse fasi di elaborazione delle informazioni, ossia la codifica, l'organizzazione e il recupero. La possibilità di estendere alla conoscenza politica quanto rilevato per la conoscenza sociale è facilitata dal fatto che in questo filone di ricerca l'accento è posto soprattutto sui processi di conoscenza, e questi vengono visti come invarianti, indipendenti dai contenuti ai quali si applicano. Così diverse ricerche effettuate in ambito politico giungono sostanzialmente a replicare, con contenuti diversi, risultati già ottenuti in altri ambiti (cfr. la prima categoria di ricerche descritta nel par. 2). Concordemente con le basi teoriche del cognitivismo, in queste ricerche si assume un modello di uomo come soggetto attivo, che seleziona ed elabora le informazioni provenienti dall'ambiente esterno e in tal modo «costruisce» la realtà circostante. Ciò compatibilmente con i vincoli oggettivi derivanti dai limiti della mente umana nella capacità di elaborazione delle informazioni. Insomma un uomo che pensa, razionale, ma con una razionalità limitata [Simon 1983]. È questa una visione nuova rispetto a quella prevalente negli studi precedenti, di uomo irrazionale ed emotivo, guidato da predisposizioni e motivazioni originate in fasi precoci dello sviluppo, ma nuova anche rispetto a quella di uomo completamente razionale, presente, come si è visto, nell'applicazione delle teorie economiche all'ambito politico. Una visione che si afferma nell'ambito della psicologia politica analogalmente a quanto avviene nell'ambito della psicologia sociale, ed è efficacemente sintetizzata dalla definizione di uomo come economizzatore cognitivo (cognitive miser): i limiti nelle capacità di elaborazione
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fanno sì che i soggetti tendano a economizzare le energie mentali e ricorrano a scorciatoie e semplificazioni, così da poter assolvere il compito conoscitivo pur rinunciando a un'elaborazione completa delle informazioni disponibili. Se questo modo di procedere spesso risulta funzionale al perseguimento degli obiettivi di conoscenza e di previsione della realtà, esso non è tuttavia esente da rischio e può condurre a distorsioni sistematiche nel giudizio (bias). Anni '90. Se naturalmente è difficile operare una sintesi quando si ha a che fare con il presente, con filoni di ricerca tuttora in via di sviluppo, è possibile tuttavia identificare almeno due tendenze principali nelle ricerche attuali di psicologia politica, due tendenze che con buona probabilità orienteranno il prossimo futuro degli studi in questo campo. Una prima tendenza riguarda ancora il tema della conoscenza politica, già sviluppato negli anni '80, ma affrontato ora con una più marcata attenzione per lo specifico contesto in- cui i processi di conoscenza vengono posti in atto. Si tratta di una tendenza che si può ricondurre ai contemporanei sviluppi più generali nell'ambito della ricerca sulla social cognition: dati per scontati i limiti del «sistema di elaborazione» e la costante presenza di fenomeni che costituiscono dei vincoli per l'elaborazione stessa, gradualmente si è andata affermando l'idea che la quantità delle informazioni elaborate e la qualità delle strategie utilizzate dai soggetti varino in funzione di diversi fattori, alcuni dei quali collegati al contesto specifico in cui il compito cognitivo viene eseguito. Tra questi fattori vi sono la motivazione del soggetto, gli scopi che si propone, i ruoli che riveste, le regole e i vincoli ai quali si deve conformare, ad esempio in che misura il soggetto percepisce di dover rendere conto del suo ragionamento o dei giudizi basati su di esso. La considerazione dell'influenza che fattori di questo tipo, e anche altri (personalità, emozioni ecc.), possono avere sulla quantità e qualità del processo di elaborazione delle informazioni induce la social cognition ad allontanarsi dal modello di uomo come cognitive miser per avvicinarsi a un modello di uomo diverso, efficacemente definito da Fiske e Taylor [1991] come tattico motivato (motivated tactician), i cui processi cognitivi possono variare appunto in funzione di ciò che li origina e della meta cui sono diretti. Proprio perché apre a fattori come le motivazioni e gli scopi, legati al contesto,
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questo modello, più del precedente, sembra utilmente applicabile all'ambito della psicologia politica: in questa prospettiva non si tratta infatti più di minimizzare o di ignorare, ma semmai di sottolineare la specificità di un certo contesto (quello politico appunto) rispetto ad altri (cfr. la seconda categoria di ricerche descritta nel par. 2). Maggiore attenzione al contesto in cui i processi cognitivi hanno luogo significa anche maggiore attenzione a variabili originariamente sociali. In effetti, se è possibile identificare una seconda tendenza nella psicologia politica dei giorni nostri, questa sembra consistere nell'abbandono di una prospettiva sostanzialmente individualistica e nell'assunzione di una prospettiva più radicalmente, più strutturalmente sociale. L'appartenenza ad un gruppo, l'identità sociale, le relazioni con gli altri, gli scambi comunicativi e linguistici sono tutti fattori che giocano un ruolo nelle rappresentazioni e azioni dell'«attore» politico, e la considerazione di tali fattori di matrice sociale induce ad affrontare in prospettiva nuova temi «classici» della psicologia politica come la conoscenza, la decisione o la partecipazione. E qui conviene fermarsi, perché su queste tendenze attuali della disciplina si avrà modo di tornare ampiamente nel corso del volume.
Capitolo secondo La conoscenza e gli atteggiamenti politici
Bossi, la Lega Nord, il federalismo, il post-comunismo, lo stato sociale, il presidenzialismo... Una prima domanda a cui la psicologia politica può dare una risposta è: Cosa sappiamo di tutto questo? In teoria potremmo sapere molto. Nel mondo attuale, in cui qualsiasi evento trova eco immediata nei media, nell'archiviazione informatica e così via, il problema non è certo quello della mancanza di informazioni disponibili, ma al carttrario della loro sovrabbondanza. Di fatto, tuttavia, le informazioni politiche alle quali ciascuno di noi accede sono in numero minimo rispetto a quelle esistenti, e sono quelle che rimangono al termine dell'intervento di diversi processi di selezione delle informazioni, alcuni indipendenti e altri dipendenti dal soggetto. Un primo processo di selezione viene operato dai media, ossia da coloro che a vario titolo sono deputati a diffondere le informazioni politiche e che, nel farlo, inevitabilmente filtrano e interpretano i dati di realtà, in misura maggiore o minore e in modo più o meno intenzionale. Vi è poi una seconda selezione delle informazioni, legata all'esistenza di ciascun soggetto e tuttavia in larga misura indipendente dalla sua volontà. Essere nato in un certo luogo, vivere in un certo ambiente familiare, frequentare una certa scuola sono tutti fattori che inevitabilmente condizionano le informazioni, anche politiche, con le quali il soggetto viene a contatto e che hanno un peso in quella che viene definita esposizione involontaria all'informazione. Una terza ulteriore selezione viene invece operata volontariamente dal soggetto. Questi infatti, in una fase più o meno precoce del suo sviluppo, comincia a scegliere, a vedere certe persone e non altre, a guardare certi canali televisivi e non altri, a leggere certi giornali e non altri, e così via. Vi è insomma, accanto a una esposizione involontaria, anche una esposizione volontaria all'informazione.
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Ma essere esposti, più o meno volontariamente, a certe informazioni non significa necessariamente prestarvi attenzione. L'approccio cognitivista ha messo bene in evidenza che esigenze strategiche e di economia mentale ci inducono a limitare il numero di informazioni alle quali prestiamo attenzione. Ecco dunque una quarta selezione, una selezione basata sulla salienza delle informazioni, ossia sulle informazioni che, per varie ragioni, «catturano» l'attenzione dei soggetti. È proprio di questa selezione che si parlerà soprattutto nel capitolo, nell'intento di comprendere quali sono i fattori che la determinano e in che modo di fatto essa viene messa in atto. In alcuni casi può esservi un certo accordo, un certo «consenso sociale» su quali sono le informazioni salienti, nel senso che un ampio numero di soggetti tende a prestare attenzione, quindi a codificare e poi a ricordare, certe informazioni a scapito di altre. Con tutta probabilità espressioni come «La Lega ce l'ha duro» sono rimaste impresse nella memoria a molti di noi più di altri punti del programma politico della Lega Nord. In altri casi tuttavia può non essere così: più soggetti esposti a uno stesso corpus di informazioni presteranno attenzione a informazioni diverse. Dopo aver assistito allo stesso intervento di un uomo politico a un dibattito televisivo, questi soggetti ricorderanno frasi diverse, immagini diverse. Non solo. Richiesti di esprimere un giudizio, alcuni esprimeranno un giudizio positivo su quell'uomo politico e altri un giudizio negativo. Questa diversità conduce immediatamente a un punto successivo, che verrà trattato sempre in questo capitolo, quello del giudizio, della valutazione, un fattore che in politica è praticamente sempre presente accanto a quello della conoscenza pura e semplice. La sequenza di esposizione nel capitolo è la seguente. Con riferimento agli stadi di elaborazione delle informazioni, si vedrà anzitutto quali informazioni politiche vengono codificate e interpretate, che peso viene dato a un'informazione di un tipo piuttosto che di un altro, in che modo il soggetto le collega tra loro in strutture organizzate. In questo modo verrà anche affrontata la questione delle basi cognitive del giudizio politico. L'esame si estenderà quindi alle basi non cognitive del giudizio politico, la base affettiva e la base comportamentale, per affrontare poi il tema di come un giudizio già formato può influenzare, fino a distorcerla, l'elaborazione di nuove conoscenze. L'esame di ciò che s'intende per competenza o expertise politica, una
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complessa sintesi di conoscenza relativa a un certo dominio e di esperienza in quel dominio, consentirà infine di inserire il tema della conoscenza politica in una prospettiva più dichiaratamente sociale, che tenga conto del contesto in cui la conoscenza viene acquisita, così come del contesto in cui viene applicata, fino a toccare il tema del rapporto tra conoscenza e azione, un tema ancora in attesa di essere adeguatamente approfondito. 1. La codifica delle informazioni politiche
Per capire più a fondo i processi soggiacenti alla selezione delle informazioni, conviene soffermarsi anzitutto su ciò che avviene quando entriamo in contatto con un'informazione nuova, quindi sulla fase di codifica dell'informazione. Il modo in cui l'informazione viene codificata avrà effetti rilevanti sulle successive fasi di organizzazione e recupero. Vengo a sapere dal giornale di un episodio relativo al leader della Lega Nord Umberto Bossi. Siamo in estate. Bossi è andato a Verona per assistere a una rappresentazione del Nabucco di Verdi. Ha dichiarato: «Sono venuto soprattutto per ascoltare il coro dei Lombardi», e la dichiarazione non è passata inosservata, visto che quel coro non è nel Nabucco bensì in un'altra opera di Verdi. Il giorno dopo in università incontro due colleghi e uno mi dice: «Hai letto di Bossi? Ha dato un'ennesima prova della sua ignoranza»; ma l'altro controbatte: «No, ha dimostrato di essere un entusiasta. Coglie ogni occasione per ribadire la sua appartenenza e consolidare l'orgoglio dei lumbard». Dunque, due letture diverse di uno stesso episodio, due codifiche diverse di una stessa informazione. Cosa accade quando codifichiamo un'informazione nuova? La confrontiamo con concetti già noti e in questo modo le attribuiamo significato. Uno o più concetti vengono richiamati dalla memoria a lungo termine (MLT) nella memoria a breve termine (MBT) e qui confrontati con l'informazione nuova proveniente dall'esterno, in modo da attribuirle significato. Spesso una stessa informazione può rimandare a concetti diversi, e il modo in cui essa verrà interpretata dipenderà da quale concetto è stato richiamato nella MBT, ossia da quale concetto risulta più accessibile nel momento in cui avviene la codifica. L'accessibilità di un concetto è appunto la probabilità che un concetto venga
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richiamato nella MBT e venga utilizzato in fase di codifica. È essenziale dunque chiarire quali sono i fattori che condizionano l'accessibilità dei concetti, perché da questo dipenderà il modo in cui la nuova informazione in generale, quindi anche quella politica, verrà codificata. Recenza. Un primo fattore che condiziona l'accessibilità è la recenza (recency) del precedente uso del concetto. Un concetto che sia stato da poco richiamato nella MBT per la codifica di una data informazione rimane per un certo tempo più accessibile di altri e verrà quindi più probabilmente utilizzato anche nell'interpretazione di un'informazione successiva. Questa accessibilità «innalzata» del concetto diminuisce poi progressivamente, fino a tornare al suo livello naturale o, più propriamente, «cronico». Supponiamo che io assista a una trasmissione nella quale si parla dei laureati illustri di una certa università, di quelli che hanno avuto un ottimo curriculum di studi e hanno fatto poi una brillante carriera. Al termine viene mandata in onda una tribuna elettorale nella quale viene intervistato un candidato alle prossime elezioni politiche. Aver assistito alla trasmissione precedente potrebbe aver innalzato in me l'accessibilità di concetti come quello di «istruzione universitaria» e ciò potrebbe indurmi a codificare quanto ora mi sta dicendo il candidato, e il candidato stesso, in termini di qualità della sua preparazione culturale, un aspetto del quale in condizioni normali non avrei magari tenuto particolarmente conto. Ciò che avviene in modo spontaneo viene riprodotto sperimentalmente nelle ricerche psicologiche, attraverso una procedura denominata priming. Essa consiste nel proporre ai soggetti determinate situazioni-stimolo, allo scopo di innalzare l'accessibilità di certi concetti e rilevarne le conseguenze in termini di elaborazione delle informazioni. Un esempio dell'applicazione di questa procedura verrà descritto più avanti (par. 3), a proposito di una ricerca di Young [Young et al. 1991], nella quale si è indagato il riferimento al concetto di «interesse personale» nell'espressione di giudizi su temi politici da parte dei soggetti, e si è dimostrato che il riferimento a questo concetto aumenta in seguito al priming. Frequenza. Un secondo fattore che condiziona l'accessibilità di un concetto è la frequenza (frequency) con la quale tale concetto è stato attivato in precedenza. Come è facilmente intuibile,
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se un concetto viene spesso attivato ciò fa sì che la sua accessibilità sia «cronicamente» alta, e quindi che basti «poco» perché venga richiamato nella MBT e utilizzato per l'interpretazione di informazioni nuove. Supponiamo ad esempio (e non è difficile farlo!) che negli ultimi anni si siano verificati frequenti episodi di corruzione di uomini politici da parte di esponenti del mondo dell'industria, e che questo abbia innalzato in molti di noi l'accessibilità del concetto di «corruzione». Supponiamo poi che casualmente io veda in un ristorante un noto uomo politico mangiare con un noto esponente dell'industria. Alcune parole colte al volo nella conversazione dei due, come «pagare», «sconto», «Svizzera», potrebbero facilmente indurmi a pensare che essi stiano trattando trasferimenti illeciti di valuta all'estero, mentre magari si tratta solamente di amici che stanno programmando insieme un viaggio al massiccio della Jungfrau. Si è indagato come il fattore frequenza può interagire con il fattore recenza nell'influenzare l'accessibilità di un concetto. Nel caso che il concetto attivato di recente sia anche un concetto già frequentemente attivato in precedenza, i due fattori avranno un effetto di tipo sommatorio. Nell'esempio fatto sopra, subito prima di entrare nel ristorante potrei aver comprato il giornale e letto la notizia di un avviso di garanzia a un uomo politico: questo fatto recente si sommerebbe ai frequenti fatti precedenti e renderebbe il concetto di «corruzione» ancora più accessibile alla mia mente. Quando invece concetto attivato di recente e concetto attivato frequentemente non coincidono, l'esito in termini di maggiore accessibilità dell'uno o dell'altro concetto varierà in funzione del tempo intercorso tra priming del concetto ed esposizione all'informazione sulla quale si è richiesti di dare un giudizio: nel breve periodo prevale l'effetto del priming, quindi il concetto attivato di recente, mentre nel lungo periodo prevale la «cronicità», nel senso che decade il concetto attivato con il priming e si fa spazio nuovamente il concetto spesso attivato in passato e quindi cronicamente accessibile [Bargh, Lombardi e Higgins 1988]. Obiettivi. Un terzo fattore che condiziona l'accessibilità di un concetto è dato dagli obiettivi (goals) che il soggetto persegue nel momento in cui effettua la codifica. Prendiamo il caso di un soggetto che ascolta il discorso di un uomo politico sul tema del debito pubblico. Se lo scopo del soggetto è formarsi un
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giudizio sull'uomo politico per decidere se votarlo o meno alle prossime elezioni, i concetti più accessibili alla sua mente in quel momento saranno probabilmente diversi, almeno in parte, da quelli che sarebbero invece accessibili se lo stesso soggetto avesse semplicemente lo scopo di formarsi un parere sul tema del debito pubblico. I cognitivisti hanno avanzato l'ipotesi che anche gli obiettivi, come le altre informazioni, siano depositati in memoria, e che a ciascuno di essi si colleghino blocchi di informazioni utili al conseguimento dell'obiettivo stesso [Wyer e Srull 1986]. Così l'attivazione di un certo obiettivo renderebbe le informazioni a esso collegate più accessibili di altre. Tra i fattori che influenzano l'accessibilità questo è forse quello più complesso e più difficile da indagare, perché in una singola situazione più obiettivi possono competere o coesistere a livelli gerarchici differenti (ad esempio obiettivi a breve, medio, lungo termine). Se uno dei miei obiettivi principali in ambito politico è quello del federalismo, nei discorsi degli uomini politici sarò particolarmente pronto a cogliere e a codificare le informazioni che si riferiscono a questo tema. I1 federalismo potrebbe costituire però un obiettivo a lungo termine, che nel breve termine potrebbe entrare in conflitto con altri obiettivi, anch'essi per me importanti: anche se il mio obiettivo ultimo è quello di creare delle macroregioni con un'ampia autonomia, nell'immediato potrei ritenere che sia più importante garantire compattezza alla nazione (ad esempio per evitare fenomeni di discriminazione nei confronti dei più deboli). In casi di questo tipo si tratterà di vedere quale obiettivo prevarrà nel contesto specifico e di conseguenza quali concetti saranno più accessibili alla mia mente al momento della codifica. Di non facile indagine si presenta anche l'interazione tra il fattore obiettivi e gli altri fattori che condizionano l'accessibilità. Si consideri ad esempio la difficoltà di distinguere, almeno empiricamente, se un concetto è altamente accessibile perché rimanda a uno dei fini ultimi dell'individuo oppure perché è stato evocato frequentemente in passato. Il concetto di «uguaglianza sociale» è altamente accessibile alla mia mente perché è uno dei principi fondamentali della mia esistenza o perché per anni i miei genitori hanno insistito tanto con me su tale concetto che il fattore frequenza l'ha reso altamente cronico? Comunque sia, importa soprattutto sottolineare che tutti e tre i fattori citati, recenza, frequenza e obiettivi, condizionano l'accessibilità dei
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concetti, quindi la probabilità che in un momento dato l'attenzione del soggetto si rivolga a certe informazioni piuttosto che ad altre, nonché la probabilità che queste informazioni vengano interpretate in un modo piuttosto che in un altro. Quanto detto finora è vero per la codifica di qualsiasi informazione, inclusa quella politica. A questo punto però vale la pena di esaminare più da vicino ciò che avviene in questo specifico ambito di conoscenza. Anzitutto, quali sono le informazioni che vengono elaborate in ambito politico? Sono essenzialmente quelle che riguardano gli uomini (e i partiti) politici da un lato, e i temi politici dall'altro. È evidente che esistono legami stretti tra queste tipologie di informazioni politiche, ma è anche vero che vi sono momenti in cui l'attenzione può essere rivolta prevalentemente alle persone (ad esempio in periodo di campagna elettorale) e altri in cui può prevalere invece l'attenzione per i temi. A soli fini espositivi, la codifica delle informazioni rispettivamente relative agli uomini politici e ai temi politici verrà trattata separatamente, ma verranno comunque segnalati i legami tra esse esistenti. 2. La percezione degli uomini politici
Lo sviluppo della ricerca sulla percezione degli uomini politici è stato favorito dai progressi compiuti nell'ambito della social cognition sul tema di come si formano le impressioni di persona [Arcuri 1995]. Il processo di formazione delle impressioni avviene continuamente e spontaneamente nella vita quotidiana, e si basa su informazioni di diverso tipo a seconda del ruolo che la persona ricopre e del contesto in cui si esprime il giudizio. Quali sono le informazioni di cui teniamo conto nel formarci un giudizio su un uomo politico? Supponiamo di esserci formati un certo giudizio (positivo o negativo) nei confronti di un certo candidato. Che peso hanno in questo giudizio le sue caratteristiche personali, quanto il suo aspetto fisico, quanto la classe sociale a cui appartiene, il suo luogo di nascita, il suo livello culturale? E che ruolo gioca in questo giudizio il partito di cui è esponente, le caratteristiche dei suoi militanti-tipo, o ancora le posizioni assunte da quel candidato in Parlamento nel dibattito sui vari temi politici?
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Le informazioni di cui teniamo conto nel formarci un giudizio su un uomo politico si possono ricondurre a tre categorie: 1. appartenenza partitica; 2. posizioni su temi politici; 3. caratteristiche personali o tratti. Miller, Wattenberg e Malanchuk [1986] si sono proposti di indagare in che misura ciascuna di queste tre categorie rientra nella formazione del giudizio, e a questo scopo hanno preso in esame i dati delle indagini preelettorali effettuate negli Stati Uniti tra il 1952 e il 1984. Una delle domande del questionario NES prevedeva che i soggetti facessero dei commenti liberi sui candidati. Sulla base di un'analisi del contenuto delle risposte, Miller, Wattenberg e Malanchuk hanno calcolato la percentuale di commenti riconducibili a una delle tre categorie sopra elencate. I risultati, riportati nella figura 2.1, mostrano che, pur essendoci una certa variabilità tra una tornata elettorale e un'altra, i commenti relativi ai tratti personali sono quasi sempre quelli prevalenti, seguiti da quelli relativi al partito o gruppo di riferimento e da quelli relativi ai temi politici. Il dato relativo all'importanza attribuita ai tratti acquista maggiore rilievo per il fatto che sembra rimanere una costante indipendentemente dalle specifiche condizioni politiche in cui il giudizio viene espresso; è tuttavia necessaria cautela nel generalizzare questi dati ad altri contesti nazionali, dove il grado di personalizzazione della politica potrebbe essere minore rispetto agli Stati Uniti e dove quindi partiti e ideologie di appartenenza potrebbero giocare un ruolo più accentuato nel giudizio espresso sugli uomini politici. Miller, Wattenberg e Malanchuk hanno effettuato un esame approfondito dei tratti cui i soggetti si sono riferiti nei loro commenti sui candidati e li hanno ricondotti, sulla base dei risultati di un'analisi fattoriale, a cinque categorie principali: 1. competenza: comprende l'intelligenza, l'abilità come leader e la comprensione dei temi politici; 2. integrità: comprende i riferimenti all'onestà o al contrario alla corruzione in ambito politico; 3. affidabilità: riguarda in particolare la capacità dell'uomo politico di prestare fede alla parola data e contemporaneamente di essere forte e deciso nella sua attività; 4. carisma: si riferisce sostanzialmente alla capacità del leader politico di ottenere seguito e stima indipendentemente da altre variabili;
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1
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Anni FIC. 2.1. Percentuale dei riferimenti a tratti personali, partiti e temi politici, rilevati nelle risposte a una domanda aperta di commento sui candidati alle elezioni presidenziali americane: dati tratti dai National Election Studies del periodo 1952-1984.
Fonte: Miller, Wattenberg e Malanchuk [1986].
5. caratteristiche personali: comprende le caratteristiche del candidato che non riguardano strettamente la vita politica, ad esempio l'età, la religione o la situazione economica. Nel corso degli anni (si ricordi che la ricerca copriva un arco di tempo dal 1952 al 1984) la competenza è risultata in modo stabile la categoria più citata, seguita dalle categorie integrità e affidabilità, anch'esse caratterizzate da una frequenza di citazione piuttosto stabile nel tempo. La frequenza delle ultime due categorie, carisma e caratteristiche personali, è apparsa invece variare maggiormente in funzione dello specifico momento in cui avveniva la rilevazione. Come si è detto, i dati di Miller, Wattenberg e Malanchuk [1986] si basano su un'analisi del contenuto di una risposta a una domanda aperta di commento sui candidati. Altri ricercatori [tra cui Ottati 1990; Riggle et al. 1992] hanno ulteriormente indagato il peso relativo dei diversi tipi di informazione nel
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determinare il giudizio sui candidati, e lo hanno fatto attraverso il ricorso a metodologie di indagine più strutturate e controllate. In questo modo è possibile rilevare l'eventuale riferimento per il giudizio anche a informazioni che non emergono spontaneamente nei commenti dei soggetti, così come verificare sperimentalmente in quali condizioni prevale il riferimento a un certo tipo di informazione piuttosto che a un altro. In questa prospettiva si sono mossi Budesheim e DePaola [1994], che hanno sottoposto a un campione di soggetti diversi tipi di informazioni su due ipotetici candidati politici: il candidato A e il candidato B. In un primo esperimento Budesheim e DePaola si sono proposti di verificare se anche informazioni relative all'aspetto fisico del candidato, oltre a quelle relative alla sua personalità, potessero avere un'influenza sul giudizio nei suoi confronti. Per quanto riguarda la personalità venivano fornite brevi descrizioni dei due candidati, che potevano essere favorevoli (con frasi del tipo: «Uno dei deputati più rispettati in Parlamento, un uomo caldo, amichevole e pieno di fascino» ecc.) o sfavorevoli («Non si tratta di uno dei deputati più popolari in Parlamento, è spesso freddo e caustico nel suo modo di trattare con gli altri» ecc.). Se la descrizione data per il candidato A era favorevole, quella data per il candidato B era sfavorevole, o viceversa. Per quanto riguarda l'aspetto fisico, veniva mostrata ai soggetti una fotografia di ciascun candidato. Le fotografie potevano evocare un giudizio di persona attraente dal punto di vista fisico oppure di persona non attraente, e anche in questo caso se il candidato A era presentato come attraente, il candidato B era presentato come non attraente o viceversa. Dopo aver fornito tutte le informazioni, si chiedeva ai soggetti di esprimere un giudizio sui due candidati su una scala «a termometro» da O a 100. Nella tabella 2.1 sono riportati i dati relativi al giudizio sui due candidati in funzione del tipo di informazione di cui i soggetti disponevano nelle diverse condizioni. Com'era prevedibile, sia per il candidato A sia per il candidato B il giudizio è più positivo quando l'informazione che lo riguarda è connotata in modo favorevole. Ma il dato più interessante rilevabile nella tabella 2.1 è che il giudizio appare influenzato, in misura del tutto simile, sia dalle informazioni sulla personalità sia da quelle sull'aspetto fisico dei candidati. Dunque una caratteristica come l'aspetto fisico, che non compare nei commenti spontanei dei soggetti sui candidati
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TAR. 2.1. Punteggi attribuiti ai candidati in funzione dell'informazione relativa all'immagine Informazione relativa all'immagine Aspetto fisico favorevole (attraente) sfavorevole (non attraente) Descrizione di personalità favorevole sfavorevole
Candidato A
Candidato B
60,5
60,3 46,9:
48,4: 53 ,0
47,7 6
59,8
46,3:
Nota: I punteggi potevano variare da O (per niente favorevole) a 100 (del tutto favorevole). Nell'ambito del giudizio su ciascun candidato le medie non contrassegnate dalle stesse lettere differiscono a livello di p <. 0,05. Fonte: Budesheim e DePaola 119941.
(almeno secondo i dati di Mi ller, Wattenberg e Malanchuk [ 1986] ), può tuttavia giocare un ruolo di rilievo nel condizionare il giudizio nei confronti dei candidati stessi. In un secondo esperimento Budesheim e DePaola si sono proposti di verificare in quali condizioni si è più inclini a basarsi per il giudizio su informazioni relative all'immagine del candidato (aspetto fisico e personalità) e in quali condizioni si è invece più inclini a basarsi su informazioni relative alle sue posizioni su temi politici. A proposito di queste ultime si diceva ai soggetti quali erano state le decisioni di voto dei due ipotetici candidati A e B in merito a dodici diversi provvedimenti discussi in Parlamento, ad esempio, la proposta di una nuova legislazione in termini di salute pubblica o la proposta di consentire l'insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. Budesheim e DePaola hanno posto a confronto una condizione in cui i soggetti avevano solo informazioni relative alle decisioni di voto dei due candidati con altre condizioni, analoghe a quelle del primo esperimento, in cui, oltre a queste, avevano anche informazioni sull'immagine dei candidati (aspetto fisico e personalità). In tutte le condizioni veniva anche misurato il grado di accordo dei soggetti con le posizioni dei candidati. Le analisi effettuate hanno dimostrato che il grado di accordo ha meno peso sul giudizio quando i soggetti hanno anche informazioni relative all'immagine, a conferma del fatto che tali informazioni giocano un ruolo rilevante nella formazione del giudizio.
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Un altro dato interessante, a proposito del peso relativo delle informazioni relative all'immagine e alla posizione su temi, è emerso nella condizione in cui i soggetti venivano esposti a informazioni contraddittorie sull'immagine del candidato (ad esempio aspetto fisico attraente e descrizione di personalità negativa). In questa situazione di ambiguità ci si poteva forse attendere che il giudizio si sarebbe fondato maggiormente sul dato non ambiguo, quello relativo alla posizione sui temi; al contrario invece proprio in questa situazione i soggetti fondano maggiormente il loro giudizio più sul fattore «immagine». Come si può spiegare questo risultato? Secondo Budesheim e DePaola con il fatto che la contraddittorietà delle informazioni relative all'immagine fa si che i soggetti concentrino l'attenzione proprio su di esse, e in questo modo esse divengono le informazioni più «accessibili» alla mente, quelle sulle quali i soggetti si basano nel successivo compito di valutazione. L'influenza sul giudizio delle informazioni contraddittorie meriterebbe comunque di essere verificato ulteriormente. Si può dire invece ormai confermato, sulla base dei risultati delle ricerche fin qui citate, il peso decisamente rilevante che le caratteristiche di personalità hanno nel giudizio sugli uomini politici, un peso superiore rispetto alla loro appartenenza partitica o alla loro posizione su temi politici. Di fronte a questo dato potrebbe venire spontaneo chiedersi se esso possa essere influenzato dal grado di competenza politica del soggetto: persone che si intendono poco di politica potrebbero essere più inclini a valutare i candidati sulla base delle loro caratteristiche di personalità piuttosto che delle loro posizioni politiche. Miller, Wattenberg e Malanchuk, nella ricerca già citata, hanno verificato se lo spazio relativo dedicato ai diversi tipi di informazione nei commenti sul candidato (caratteristiche personali, appartenenza partitica, posizione su temi) vari in funzione del grado di istruzione dei soggetti (l'istruzione non è una misura diretta della competenza politica, ma è comunque altamente correlata a questa), e hanno rilevato che i soggetti con un più alto livello di istruzione basano i loro giudizi sulle caratteristiche personali come, se non più di quanto facciano i soggetti meno scolarizzati. Risultati analoghi sono stati ottenuti anche da altre ricerche, che hanno utilizzato indici più specifici di competenza politica [fra gli altri Pierce 1993; Maurer et al. 1993]. Sembra quindi di poter concludere che il prevalente riferimento alle caratteristiche per-
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sonali del candidato non è tanto espressione di una mancata competenza dei soggetti nello specifico ambito politico, quanto espressione di un'importanza predominante assegnata alle caratteristiche della persona che ci deve rappresentare più che alle idee che essa deve portare avanti. 3. La percezione dei temi politici
Se all'approssimarsi delle elezioni l'attenzione dei soggetti si centra soprattutto sui candidati, in altri momenti della vita politica l'attenzione può essere rivolta soprattutto ai temi politici. Sia pure in numero minore rispetto alle ricerche sulla percezione dei candidati, non sono mancate le ricerche sulla percezione dei temi politici. Un aspetto indagato è l'influenza sulla percezione del riferimento all'interesse personale dei soggetti. Lavine [Lavine et al. 1996] si è posto il problema di vedere se i temi politici nei quali i soggetti si sentono personalmente coinvolti sono o meno «cronicamente» più accessibili alla loro mente rispetto ai temi che coinvolgono più generalmente la comunità. Egli ha sottoposto un elenco di sette temi di politica interna (ad esempio legalizzazione dell'aborto, pena capitale, disoccupazione) e di sette temi di politica estera (ad esempio spese per la difesa, guerra del Golfo, diritti dei palestinesi), chiedendo ai soggetti di mettere tutti questi temi in ordine di importanza due volte, una prima volta sulla base del criterio «importanza per la nazione», e una seconda volta sulla base del criterio «importanza per te personalmente». Quindi, avvalendosi dell'ausilio di un computer, ha presentato in sequenza casuale una descrizione verbale di ciascun tema e ha chiesto ogni volta ai soggetti di esprimere un giudizio nei confronti del tema. Il tempo impiegato per esprimere il giudizio è stato utilizzato come indice dell'accessibilità del tema. In questo modo è stato possibile verificare la relazione tra la salienza (o importanza) personale del tema, la salienza per la nazione e l'accessibilità del giudizio. Si è visto così che i temi di politica interna sono quelli ritenuti più salienti sul piano personale, e sono anche quelli più accessibili. I temi di politica estera sono invece ritenuti più salienti sul piano nazionale, ma risultano meno accessibili degli altri. Lavine trae da questi risultati delle implicazioni pratiche in merito al peso che possono avere le posizioni dei candidati su
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temi rispettivamente di politica interna e di politica estera nelle decisioni di voto dei cittadini. Dato che nel caso dei temi di politica interna la salienza è cronicamente maggiore e così pure l'accessibilità del giudizio, è probabile che la decisione di voto dei cittadini sia più coerente con la loro posizione su questi temi piuttosto che su quelli di politica estera. Se la ricerca di Levine induce a concludere che i temi importanti a livello personale sono anche quelli «cronicamente» più accessibili, vi è da dire che, come per qualunque altro concetto, questa accessibilità può comunque essere condizionata da fattori come la recenza e la frequenza di attivazione del concetto, o gli obiettivi perseguiti. Del fattore recenza si è occupata una ricerca di Young et al. [1991], che ha indagato l'effetto del priming dell'interesse personale sul giudizio relativo a un tema politico. In una prima fase della ricerca si chiedeva a un campione di soggetti se in passato avessero mai ricevuto dallo Stato sussidi di qualche tipo, in questo modo misurando la presenza o meno di coinvolgimento personale rispetto a un tema di rilevanza politica come quello dell'assistenza sociale. Dopo un certo tempo tutti i soggetti venivano nuovamente contattati e assegnati casualmente a due gruppi, uno sperimentale e uno di controllo. Solo ai soggetti del gruppo sperimentale si diceva che vi era un ritardo imprevisto nell'inizio dell'esperimento per cui erano stati convocati e si chiedeva se nell'attesa erano disponibili a partecipare come soggetti a una ricerca di tutt'altro tipo, che si stava effettuando nella stessa sede. A questi soggetti veniva fatta ascoltare una conversazione tra due persone, che aveva come oggetto il tema delle trattenute sulla busta paga. Secondo uno degli interlocutori il modo in cui il governo utilizza questi soldi andava valutato sulla base del proprio interesse personale, mentre secondo l'altro vi erano considerazioni, ulteriori rispetto all'interesse personale, di cui tener conto nel valutare l'operato del governo. Ai soggetti si chiedeva di esprimere un giudizio sul parere espresso da ciascuno degli interlocutori. L'obiettivo dei ricercatori era di aumentare in questo modo l'accessibilità del concetto di «interesse personale» (priming del concetto, cfr. par. I), attraverso un tipo di stimolazione che, si noti, non aveva legami diretti con il tema dell'assistenza sociale indagato nella ricerca. In un momento successivo aveva luogo quello che veniva presentato come l'esperimento vero e proprio. Venivano fatte
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leggere ai soggetti di entrambi i gruppi tre diverse proposte di legge relative a come impiegare un'eccedenza finanziaria nel budget dello Stato: la prima prevedeva di destinare i soldi eccedenti all'assistenza sociale, la seconda di restituirli ai contribuenti e la terza di aggiungerli al budget dell'anno successivo. Dunque la prima proposta era coerente con l'interesse personale dei soggetti che avevano ricevuto in passato assistenza dallo Stato, la seconda era più coerente con gli interessi di chi non aveva avuto questa assistenza e la terza era sostanzialmente neutra. I soggetti dovevano esprimere il proprio giudizio nei confronti di ciascuna delle proposte e quindi dire a favore di quale di queste avrebbero votato. I risultati hanno mostrato che nel gruppo di controllo il fatto di aver avuto o meno in passato assistenza da parte dello Stato era irrilevante rispetto al giudizio dato nei confronti delle tre proposte. In altre parole in questo gruppo l'interesse personale non ha giocato un ruolo rilevante nel giudizio. Al contrario nel caso del gruppo sperimentale, sottoposto al priming dell'interesse personale, chi era coinvolto nel problema, nel senso che aveva avuto assistenza in passato, sosteneva la proposta a favore di un incremento nei sussidi, mentre chi non aveva avuto assistenza si schierava a favore della seconda proposta. Dunque il priming ha «innalzato» il normale livello di accessibilità del concetto di «interesse personale» e ciò ha significativamente aumentato l'utilizzo di questo concetto nell'interpretazione di informazioni presentate in seguito e quindi nel giudizio su di esse. Poiché il giudizio sulle proposte di legge è in genere molto correlato con il comportamento di voto, i risultati di Young potrebbero avere delle implicazioni pratiche per quanto riguarda gli obiettivi che un candidato potrebbe voler perseguire durante la campagna elettorale. Per un candidato politico o per un partito potrebbe non essere sufficiente, per avere voti, impostare dei programmi funzionali all'interesse personale dei potenziali elettori, se questo interesse personale non è stato opportunamente stimolato in precedenza. Insomma non è sufficiente fare l'interesse degli elettori, bisogna anche indirizzarli in modo che utilizzino il criterio dell'interesse personale per votare. I risultati di Young mettono implicitamente in discussione l'idea che l'interesse personale sia la determinante principale del voto, un'idea che (come vedremo nel cap. III) trova invece ampio
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sostegno nelle applicazioni della teoria economica della decisione al comportamento di voto. L'interesse personale è certamente importante, ma non è detto che sia sempre la determinante principale del giudizio o, si potrebbe dire utilizzando la terminologia cognitivista, quella più facilmente accessibile al momento del giudizio. Un ruolo centrale nell'influenzare l'importanza attribuita ai temi politici, così come i concetti impiegati nell'interpretarli, viene giocato dai media. Anche se su questo punto si tornerà nel capitolo V, dedicato alla comunicazione politica, è opportuno anticipare qui che lo spazio attribuito dai media ai diversi temi politici (il cosiddetto agenda setting) può contribuire ad aumentare l'accessibilità dei temi stessi. Si può aggiungere che questo a sua volta può influenzare il giudizio sui candidati politici, non solo nel senso che potrebbero essere favoriti coloro che mettono nel loro programma il riferimento ai temi ritenuti più salienti, ma anche in un modo più indiretto, nel senso che l'accento su certi piuttosto che su altri temi potrebbe avere un'influenza sui tratti personali dell'uomo politico che i soggetti giudicano più importanti. Se la questione ritenuta centrale è quella della moralizzazione dell'azione politica, avrà maggior peso il fatto che un candidato sia percepito come integerrimo piuttosto che la sua competenza nello specifico campo politico in cui è chiamato a operare. 4. L'organizzazione delle conoscenze politiche
Dopo aver visto come le singole informazioni politiche vengono codificate e interpretate, è il caso di soffermarsi su come le informazioni vengono conservate nella MLT, attraverso un processo che non è solo di immagazzinamento, ma anche di organizzazione e ricostruzione. Naturalmente tra le due fasi, quella della codifica e quella dell'organizzazione, vi sono stretti rapporti. Il modo in cui le informazioni sono (o non sono) organizzate nella MLT avrà un'influenza sulla facilità e sulle modalità con cui queste informazioni vengono richiamate nella MBT al momento della codifica di nuove informazioni. Molti dei modelli che descrivono come le conoscenze sono organizzate nella mente dei soggetti si basano sulla rete semantica [Collins e Loftus 1975], costituita da una serie di nodi, corrispondenti ai singoli
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concetti e da una serie di legami tra i nodi, corrispondenti alle relazioni (di somiglianza, inclusione, causa-effetto ecc.) che esistono tra i diversi concetti. Alcune ricerche hanno indagato l'organizzazione in forma di rete delle conoscenze relative agli uomini politici, e l'idea prevalente è che l'uomo politico costituisca una sorta di nodo superordinato, collegato a tre nodi sottordinati, corrispondenti ai tratti dell'uomo politico, alle sue posizioni sui temi e alla sua appartenenza partitica [McGraw, Pinney e Neumann 1991]. Ciascuno di questi nodi sarebbe a sua volta collegato ad altri gerarchicamente inferiori: ad esempio nel caso dei tratti i nodi sottordinati sarebbero costituiti da competenza, onestà, carisma e così via. Altre ricerche hanno invece concentrato l'attenzione sull'organizzazione delle conoscenze relative ai temi politici. Su queste ricerche ci si soffermerà in questa sede più estesamente, e nel riferire su di esse pare opportuno distinguere tra l'organizzazione delle conoscenze relative a uno specifico tema politico e l'organizzazione delle conoscenze relative a più temi politici. Organizzazione delle conoscenze su un tema (intra-issue). Come sono organizzate le nostre conoscenze relative a uno specifico tema politico? Anzitutto non è detto che questa organizzazione ci sia. Non aver riflettuto in precedenza su un tema o non avere interesse per esso può far sì che disponiamo in merito di poche informazioni e queste informazioni possono essere occasionali, frammentarie e quindi scarsamente collegate tra loro. Insomma un individuo può avere oppure non avere una struttura organizzata di conoscenza, uno schema rispetto a un certo tema politico: probabilmente molti possiedono uno schema sul tema del controllo dell'immigrazione, ma quanti possiedono uno schema sul tema della fiscalizzazione degli oneri sociali? Nel caso che un'organizzazione delle conoscenze su un tema ci sia, vediamo che caratteristiche può avere. Una proposta in questo senso è stata avanzata da Pratkanis [1989], secondo il quale nell'organizzazione delle conoscenze su un tema, di qualunque tipo, è sempre implicita una componente valutativa, relativa cioè all'atteggiamento, positivo o negativo, del soggetto nei confronti del tema stesso. Secondo Pratkanis le conoscenze si organizzano in una struttura che può essere unipolare o bipolare, a seconda del legame che esiste con la componente valutativa. Nel primo caso la struttura include solo conoscenze connotate
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positivamente o neutre, nel secondo caso conoscenze connotate positivamente, negativamente o neutre. Per comprendere meglio le differenze tra le due strutture si consideri quanto segue. Vi sono ambiti di conoscenza, come il calcio o la musica, nei quali esiste una relazione diretta tra positività dell'atteggiamento e quantità di conoscenze possedute coerenti con quell'atteggiamento: più sono interessato al calcio più accumulerò conoscenze in questo ambito e disporrò di una struttura di conoscenza ricca e articolata. Nel caso invece che il calcio non mi interessi, ma anche nel caso che io provi addirittura fastidio se mi capita di vedere una partita in televisione, tenderò probabilmente a ignorare le informazioni relative all'argomento (ad esempio cambierò subito canale) piuttosto che ad accumulare conoscenze, di qualunque tipo esse siano, su di esso. Per ambiti di .$4 questo tipo le conoscenze si organizzerebbero in una struttura ^ y unipolare, che appunto comprende solo conoscenze connotate positivamente o al massimo conoscenze neutre. Nel caso dei temi politici invece, e più in generale dei temi controversi e caratterizzati da alternative conflittuali (ad esempio l'aborto o la pena di morte), le conoscenze si organizzerebbero in una struttura bipolare. In una struttura di questo tipo rientrano non solo conoscenze coerenti con l'atteggiamento del soggetto nei confronti del tema, o conoscenze neutre, ma anche conoscenze coerenti con l'atteggiamento opposto a quello del soggetto. Nella figura 2.2 è riportato un esempio di struttura bipolare relativa al tema dell'utilizzo dell'energia nucleare. Le informazioni e gli eventi più diversi (proposte politiche, organizzazioni, scoperte scientifiche ecc.) sono organizzati lungo una dimensione caratterizzata da due poli: contro l'energia nucleare e a favore dell'energia nucleare. Nel caso di un tema come questo non vi sarebbe, come per il calcio o la musica, una relazione diretta tra positività dell'atteggiamento nei confronti del tema e ricchezza della conoscenza in merito; in altre parole, chi è a favore del nucleare non sarà necessariamente più informato di chi è contrario. In un esperimento [Pratkanis 1989] è stata sottoposta a verifica l'ipotesi dell'esistenza di una struttura di conoscenza bipolare rispetto ai temi dell'energia nucleare, delle spese per la difesa e dell'assistenza sociale. Anzitutto veniva chiesto ai soggetti di esprimere il loro grado di accordo nei confronti di una serie di affermazioni favorevoli, neutre o contrarie rispetto a
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ciascun tema. Trascorso un certo intervallo di tempo, si chiedeva ai soggetti di ricordare il maggior numero possibile di informazioni. I risultati hanno mostrato che non vi è un ricordo migliore delle informazioni coerenti con il proprio atteggiamento, ma semplicemente che le informazioni chiaramente connotate come favorevoli o contrarie vengono ricordate meglio di quelle neutre. In un altro esperimento (cfr. ancora Pratkanis) è stata indagata la relazione tra atteggiamento e ricordo rispetto agli stessi temi politici della ricerca precedente e rispetto a temi di altro tipo (come lo sport e la musica). Si è rilevato così che nel caso di questi ultimi si osserva una relazione diretta tra positività dell'atteggiamento e ricordo, mentre nel caso dei temi politici i soggetti che ricordano meglio sono quelli che si trovano a uno qualunque dei due estremi (positivo o negativo) della scala di atteggiamento. La conclusione di Pratkanis è che se un soggetto possiede conoscenze organizzate su un tema politico, e come si è detto non sempre è così, queste conoscenze includeranno sia gli elementi a sostegno della posizione assunta dal soggetto su quel tema, sia quelli utilizzati da chi ha una posizione opposta a quella del soggetto. Sembra dunque che nell'organizzazione delle conoscenze su temi politici, a differenza di quanto accade per altri temi, giochi un ruolo chiave il confronto tra alternative opposte; ciò d'altra parte non sorprende, se si pensa che il conflitto, la contrapposizione tra le parti sono connaturati alla politica. Conoscere non solo gli elementi a sostegno della nostra posizione, ma anche quelli utilizzati da chi ha una posizione opposta alla nostra è una premessa essenziale se si vuole avere successo nel conflitto politico, imporre la propria idea o tentare di portare altri dalla nostra parte, e questo intento persuasivo è connaturato alla politica. Organizzazione delle conoscenze su più temi (inter-issue). Un modello di come si organizzano le conoscenze su più temi politici è stato proposto da Judd e Krosnick [1989]. Si tratta per la verità di un modello più generale, che non riguarda solo le conoscenze relative ai temi, ma include tutte le diverse conoscenze politiche, e le vede organizzate in forma di rete semantica, nel senso che ciascun concetto costituisce un nodo della rete e i diversi nodi sono collegati tra loro da diversi possibili legami. A un livello più astratto, o superordinato, vi sono i nodi costituiti
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dai valori o dai principi ideologici; a un livello meno astratto vi sono i nodi costituiti dai temi politici, ma anche quelli costituiti dagli uomini politici e dai partiti. Sia nodi appartenenti alla stessa categoria sia nodi appartenenti a categorie diverse possono essere collegati tra loro: per fare un esempio, il tema dell'assistenza sociale potrebbe essere legato a quello della regolamentazione dell'immigrazione, ma al contempo potrebbe essere legato a nodi più astratti, come quelli costituiti dai valori dell'uguaglianza o del benessere personale, o ancora ad altri nodi, come certi leader di partito, oppure un partito, che hanno una certa posizione su quel tema. L'ipotesi di Judd e Krosnick è che due nodi risultano collegati quando vengono attivati simultaneamente, e ciò avverrebbe con maggiore probabilità quando uno dei due nodi implica, favorisce o esclude l'altro. Sia i nodi che i legami sarebbero caratterizzati da una certa forza (o potremmo dire accessibilità) e da una connotazione valutativa (positiva o negativa). Per rimanere all'esempio fatto sopra, il tema dell'assistenza sociale o un certo leader politico potrebbero essere molto accessibili alla mia mente, mentre potrei pensare solo raramente al tema dell'immigrazione o a un altro leader politico. Per quanto riguarda la connotazione valutativa, l'assistenza sociale potrebbe avere per me una connotazione positiva, e così pure un partito che la favorisce, mentre il leader di quel partito potrebbe avere una connotazione negativa. Anche i legami tra i nodi, quando ci sono, possono essere positivi o negativi. Tra il nodo dell'assistenza sociale e quello di un certo partito può esserci un legame positivo, nel senso che quel partito è a favore di un incremento nell'assistenza, e questo sarebbe del tutto coerente con la mia valutazione positiva di entrambi i nodi. Però anche tra l'assistenza sociale e il leader di quel partito potrebbe esserci un legame positivo, e in questo caso mi troverei in una situazione di incoerenza, visto che sono favorevole all'uno e contrario all'altro. Judd e Krosnick si sono riferiti al modello a rete di cui si è detto in una ricerca in cui hanno preso in esame proprio la questione della coerenza nelle posizioni politiche dei soggetti. A un campione di soggetti è stato chiesto di esprimere i loro atteggiamenti in merito a una serie di temi politici (ad esempio l'assistenza sociale), a due candidati alle elezioni presidenziali americane (Reagan e Ca rt er) e a due gruppi politici (Repubblicani e Democratici). È stata quindi misurata la correlazione
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esistente tra tutti questi atteggiamenti, e si è verificato che questa correlazione aumenta in funzione di due fattori: a) la competenza politica (expertise) dei soggetti; b) l'importanza attribuita dai soggetti agli oggetti di atteggiamento presi in esame. Secondo Judd e Krosnick l'influenza di questi due fattori sulla coerenza politica del soggetto si spiega con il fatto che entrambi contribuiscono a migliorare l'organizzazione mentale delle conoscenze: la competenza determinerebbe la presenza di un maggior numero di legami tra i vari nodi, mentre l'importanza attribuita a un nodo faciliterebbe l'attivazione dei legami che da questo si dipartono, e quindi l'attivazione dei nodi a questo collegati. In altre parole la coerenza politica sarebbe tanto maggiore quanto maggiore è il numero di legami tra i vari nodi della rete mentale di conoscenze e quanto maggiore è l'accessibilità, quindi la probabilità di attivazione, sia dei nodi che dei legami. Nel momento in cui l'attenzione si sposta dall'organizzazione delle conoscenze su un singolo tema a quella su temi diversi, emerge non solo la questione della coerenza, ma anche quella della presenza o meno di eventuali principi unificanti delle conoscenze politiche (valori, ideologie ecc.). Nel modello di Judd e Krosnick la questione viene affrontata con un'attenzione rivolta soprattutto ai processi, quindi a come questi principi unificanti entrano nell'organizzazione delle conoscenze politiche. Verrà affrontato invece nel quarto capitolo il tema di quali sono questi principi unificanti e di come essi siano correlati a variabili, anche extracognitive, di tipo personale e situazionale. 5. Le basi non cognitive degli atteggiamenti politici
È gia comparso spesso nel corso del capitolo il riferimento a una dimensione praticamente sempre presente in politica, quella valutativa, in base alla quale i soggetti si schierano per una parte o per l'altra, a favore o contro una certa decisione politica, un certo candidato e così via. Finora tuttavia ci si è occupati solo di come la cognizione sostanzia e condiziona il giudizio. Ma allora il mio giudizio, positivo o negativo, nei confronti di un certo leader, o del suo programma politico, dipende solo da quello che ne so, dalle conoscenze che ho in merito o comunque da quelle attivate nel momento in cui esprimo tale giudizio? Di
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fatto le cose non sembrano stare in questi termini. La componente cognitiva è sicuramente una componente importante nella formazione del giudizio politico, ma non è l'unica. Quanto possiamo dire sulle basi non cognitive del giudizio politico deriva in buona parte dall'estensione a questo ambito della ricerca sugli atteggiamenti, che vanta una lunga tradizione in psicologia sociale [Trentin 1991; Petty, Priester e Wegener 1994]. A parere di molti studiosi gli atteggiamenti sono costituiti da tre componenti: a) la componente cognitiva, ossia le cosiddette credenze (beliefs), un insieme di cognizioni relative all'oggetto di atteggiamento; b) la componente affettiva, ossia le emozioni, i sentimenti, ciò che uno prova pensando o trovandosi di fronte all'oggetto di atteggiamento; c) la componente comportamentale, ossia le esperienze che il soggetto ha avuto, o intende avere in futuro, rispetto all'oggetto di atteggiamento. Ciò significa che il mio giudizio nei confronti di un leader politico può essere basato su ciò che so di lui (ad esempio è liberale, è a favore della privatizzazione degli enti pubblici), sullo stato affettivo che suscita in me (ad esempio sentirlo parlare mi infastidisce) o su un mio comportamento che lo riguarda (ad esempio ho votato per lui alle scorse elezioni). Il legame che le tre componenti hanno con gli atteggiamenti è di tipo bidirezionale, esse cioè influenzano gli atteggiamenti e a loro volta sono da questi influenzate: ad esempio se è vero che le idee politiche di un candidato possono indurmi ad avere un atteggiamento favorevole nei suoi confronti, può accadere anche che questo stesso atteggiamento mi induca, quando vengo esposto a nuove informazioni su quel candidato, a selezionare solo quelle connotate positivamente (cfr. par. 8). Non è detto che alla base di un atteggiamento vi siano sempre tutte e tre le componenti: potrei sviluppare un atteggiamento a favore di un candidato solo sulla base di quello che ho letto sulla sua azione politica (credenza), senza averlo nemmeno mai visto in televisione (emozione) o senza che io abbia mai parlato di lui con altre persone (comportamento). Così pure non è detto che le tre componenti siano coerenti tra loro. A chi non è capitato almeno una volta di avere informazioni negative su una persona e tuttavia di provare emozioni positive nei suoi confronti? Tuttavia quanto più un atteggiamento è forte, radicato, stabile, tanto più è probabile che vi sia coerenza tra le componenti che lo determinano.
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Della componente cognitiva degli atteggiamenti abbiamo già ampiamente parlato nei paragrafi precedenti: è il caso ora di rivolgere l'attenzione alle altre due componenti degli atteggiamenti, affettiva e comportamentale, nonché ai loro rapporti con la componente cognitiva. 6. La componente affettiva degli atteggiamenti politici
Il nostro giudizio su un uomo politico non si basa solo sulle informazioni che abbiamo su di lui, quindi su una componente esclusivamente cognitiva, ma anche sui sentimenti che egli suscita in noi. Abelson [Abelson et al. 1982] ha presentato a un campione di soggetti una lista di 16 tratti di personalità (8 positivi, come onesto o elegante, e 8 negativi, come debole o avido di potere) e ha chiesto di valutare quanto fossero appropriati a descrivere alcuni uomini politici americani, come Kennedy, Ca rt er e Bush (la consegna era del tipo: «La parola "onesto" descrive Ca rt er benissimo, molto bene, abbastanza bene o per niente bene?»). Agli stessi soggetti è stata proposta una lista di 12 emozioni (positive, come felice o orgoglioso, e negative, come triste o arrabbiato) e si è chiesto di dire quali di queste venivano suscitate in loro dagli stessi uomini politici (la consegna era del tipo: «Ca rt er, a causa del tipo di persona che è o a causa di qualcosa che ha fatto, ti ha mai fatto sentire: arrabbiato?... felice? ecc.»). Infine si chiedeva di dare una valutazione di ciascun uomo politico sulla base di una scala a termometro, che andava da O (estremamente sfavorevole) a 100 (estremamente favorevole). Attraverso un'analisi di regressione si è visto che le emozioni suscitate dagli uomini politici hanno un'influenza di rilievo sul giudizio espresso nei loro confronti e, nel caso delle emozioni positive, questa influenza può addirittura superare quella dei tratti di personalità attribuiti agli stessi uomini politici. Il tema del peso relativo che emozione e cognizione hanno nel giudizio è stato indagato anche nell'ambito della realtà politica italiana. Trentin, Monaci e Nunia [1996] hanno chiesto a un campione di soggetti di attribuire una lista di tratti e di emozioni sia positivi che negativi alle tre principali forze politiche presenti nelle elezioni del 1994, vale a dire il polo progressista, quello di centro e quello delle libertà. Hanno chiesto poi agli stessi soggetti di dare una valutazione di ciascuno dei tre poli e di
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esprimere la propria intenzione di voto. Anche in questo caso, come nella ricerca di Abelson, i predittori migliori della valutazione sono risultati le emozioni positive. Come rilevano gli stessi Trentin, Monaci e Nunia, è necessaria tuttavia cautela nel concludere in base a dati di questo tipo che la componente affettiva è la principale determinante del giudizio politico. Non tutte le ricerche effettuate hanno ottenuto risultati di questo tipo, e una possibile spiegazione di questi risultati contraddittori si può trovare se si considera come una valutazione si è formata. Si è detto che i fattori soggiacenti a una valutazione sono cognitivi, emotivi e comportamentali, ma anche che non necessariamente nel caso di una specifica valutazione questi fattori intervengono tutti, o comunque non tutti nella stessa misura. Cose se una valutazione si è formata all'inizio soprattutto attraverso un canale emotivo, è più probabile che gli indici emotivi rimangano in seguito migliori predittori di quella specifica valutazione rispetto ad altri [Petty, Priester e Wegener 1994]. Insomma si può pensare che se nella campagna elettorale un uomo politico fa leva soprattutto sulle emozioni, queste saranno poi quelle che meglio predirranno il giudizio nei suoi confronti. Un altro aspetto da tenere presente è la possibilità che il peso relativo della componente cognitiva e di quella emotiva sia influenzato da alcune caratteristiche del contesto politico in cui il giudizio viene emesso. Nel caso specifico della ricerca di Trentin, Monaci e Nunia si è trattato per i soggetti di prendere una decisione in un contesto politico caratterizzato da forti elementi di novità, con forze politiche rinnovate rispetto al passato o addirittura del tutto nuove, rispetto alle quali i soggetti potevano disporre comunque solo di un bagaglio di conoscenza limitato. Si potrebbe verificare se in contesti diversi, ad esempio caratterizzati da una situazione politica più nota e strutturata, varierebbe il peso relativo dei fattori cognitivi ed emotivi sulla valutazione. 7. Atteggiamenti e comportamenti
Mi è capitato che un amico mi parlasse, in occasionali discussioni politiche, in termini favorevoli nei confronti di Berlusconi e, il giorno dopo le elezioni, mi «confessasse»: «Ah, sai, alla fine ho votato per un altro». In ambito politico è di
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particolare rilevanza studiare il rapporto tra atteggiamenti e comportamenti. Sondaggi elettorali di ogni tipo vengono effettuati con tecniche sempre più raffinate nell'intento di monitorare l'atteggiamento dell'opinione pubblica, ed eventualmente fare dei cambiamenti di rotta durante una campagna elettorale, nell'ipotesi che vi sia una certa coerenza fra ciò che la gente dice che farà e quello che poi fa veramente, nel caso specifico in termini di voto. Anche in altri ambiti applicativi, tipicamente nel marketing, l'obiettivo delle indagini non è tanto di rilevare gli atteggiamenti in quanto tali, ma piuttosto di rilevarli in quanto possibili predittori del comportamento. Certo, mi interessa sapere cosa la gente pensi di un certo prodotto, ma mi interessa ancora di più sapere se lo comprerà o no. La questione di come sia possibile predire al meglio i comportamenti a partire dagli atteggiamenti è stata ampiamente affrontata dalla psicologia sociale e ha condotto all'individuazione di una serie di fattori che giocano un ruolo nel condizionare il rapporto atteggiamento-comportamento. Essi verranno qui ricordati brevemente [per una trattazione più esauriente cfr. Trentin 1991; Manstead 1996] perché a questi stessi fattori si può fare riferimento anche nello specifico contesto politico, quando si tratta di predire i comportamenti politici (in particolare il voto) sulla base degli atteggiamenti politici espressi dai soggetti. Generalità-specificità dell'atteggiamento. Un primo motivo per cui non sempre le ricerche riscontrano una correlazione elevata tra atteggiamento e comportamento risiede nel diverso grado di specificità nella misurazione dell'uno e dell'altro. Spesso, soprattutto in passato, le scale di atteggiamento erano costituite da domande di carattere generale sull'oggetto studiato (ad esempio «Sei favorevole o contrario alla possibilità di fumare in pubblico?»), mentre i comportamenti indagati erano per lo più comportamenti specifici (ad esempio «Entri lo stesso in un bar, anche se l'aria è impregnata di fumo?» oppure «Se al ristorante un signore ti infastidisce con il suo sigaro, gli dici di spegnerlo?»). Così potrei in generale avere un atteggiamento positivo nei confronti di Berlusconi e tuttavia non averlo votato alle ultime elezioni. Questo non significa che atteggiamento e comportamento siano necessariamente contraddittori, ma solo che un atteggiamento espresso in termini generali non ha condotto a un comportamento specifico, che d'altra parte era solo uno dei
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possibili comportamenti che potevano derivare da quell'atteggiamento (ad esempio altri possibili comportamenti potrebbero essere quello di sgolarmi allo stadio inneggiando a Berlusconi in quanto presidente del Milan, o quello di cercare lavoro in Mediaset o ancora, per quel che riguarda la sua specifica veste di uomo politico, averlo votato alle precedenti elezioni ma non ritenere più opportuno votarlo ora, oppure averlo votato alle elezioni amministrative ma non votarlo alle politiche e così via). Ajzen e Fishbein [1977] hanno messo in luce che una certa tipologia di comportamento (ad esempio il comportamento proBerlusconi) può variare rispetto a quattro diverse dimensioni: 1) azione intrapresa (ad esempio votare, finanziare); 2) oggetto verso il quale l'azione è diretta (ad esempio Berlusconi come candidato politico, come manager, come amico); 3) contesto nel quale si osserva l'azione (ad esempio in pubblico o in privato); 4) tempo, nel quale si svolge l'azione (ad esempio nel 1990, o nel 1994 dopo l'avviso di garanzia a Berlusconi, oppure adesso). È più probabile che vi sia una relazione tra la misura dell'atteggiamento e quella del comportamento quando le due misure sono «compatibili» per quel che riguarda le quattro dimensioni sopra elencate. Spesso accade invece che questa compatibilità non ci sia, oppure che la misura dell'atteggiamento sia molto generale («Sei favorevole a Berlusconi?»), invece di specificare le diverse dimensioni («Hai votato per Berlusconi alle elezioni politiche del 1994?»). Base soggiacente l'atteggiamento. Misurare atteggiamenti e comportamenti a un livello di specificità uguale può aumentare la correlazione tra i due, ma questa dipende anche dal fatto di utilizzare una misura dell'atteggiamento coerente con la base soggiacente all'atteggiamento stesso. Per tornare a un esempio fatto nel paragrafo precedente, se il mio giudizio su un uomo politico è fondato su una base sostanzialmente emotiva, l'evocazione di tale giudizio mediante un compito esclusivamente cognitivo determinerà un giudizio che di fatto sarà poco predittivo ad esempio del comportamento di voto. Forza dell'atteggiamento. La correlazione atteggiamento-comportamento è influenzata anche dalla cosiddetta «forza» dell'atteggiamento, ossia dalla sua chiarezza, dal fatto che sia stabile nel tempo e che il soggetto si dichiari molto confidente in esso.
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La forza è legata a sua volta a diversi fattori [Petty, Priester e Wegener 1994], e tra questi vi è la coerenza tra le diverse componenti dell'atteggiamento, in particolare tra componente cognitiva e componente affettiva. Posso ritenere che Rossi abbia le caratteristiche di un buon leader politico, o approvare le scelte che ha fatto in diverse circostanze, e tuttavia provare un'antipatia apparentemente inspiegabile nei suoi confronti. Questa incoerenza potrà avere diversi effetti, e uno di questi potrebbe essere di incrinare la mia sicurezza quando si tratta di esprimere un giudizio nei confronti di Rossi. Un fattore che sembra incrementare in modo particolare la «forza» dell'atteggiamento, e quindi la sua possibilità di predire un comportamento futuro, è il fatto che l'atteggiamento sia fondato su una base comportamentale. Questo fenomeno viene spiegato da Fazio [1986] con riferimento alla nozione di accessibilità. Nel paragrafo 1, si è visto che la frequenza di esposizione a una certa informazione innalza l'accessibilità dei concetti correlati e quindi la possibilità che questi vengano utilizzati nell'interpretazione di nuove informazioni in arrivo. Allo stesso modo, secondo Fazio, l'accumulo di esperienza nei confronti di un certo oggetto di atteggiamento fa sì che l'accessibilità dell'atteggiamento relativo a questo oggetto venga innalzata, soprattutto se le esperienze che si succedono risultano tra loro coerenti. Supponiamo che io mi sia formato un'impressione positiva di Berlusconi come presidente del Milan, che abbia apprezzato più volte i suoi interventi nelle trasmissioni sportive; che poi abbia apprezzato anche i suoi interventi una volta entrato in politica. Il susseguirsi di esperienze positive coerenti tra loro farà sl che il mio atteggiamento positivo nei confronti di Berlusconi diventi un atteggiamento molto accessibile alla mia mente. Quando un atteggiamento ha questa caratteristica basta poco per attivarlo. Un qualunque stimolo, collegato anche alla lontana all'oggetto di atteggiamento, sarà sufficiente ad attivarlo, a scapito di altri possibili. Per esemplificare questo fenomeno può essere illuminante pensare a quello che ci accade quando siamo innamorati. In questo caso, in cui evidentemente abbiamo sviluppato un atteggiamento molto positivo nei confronti di una determinata persona, qualsiasi segno che possa richiamarla anche alla lontana (un suo vestito, un luogo che è solita frequentare, un suo amico ecc.) sarà sufficiente a determinare immediatamente l'attivazione del-
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l'atteggiamento positivo che abbiamo nei suoi confronti. Per venire alla questione che qui più interessa, quella del rapporto tra atteggiamento e comportamento, l'accessibilità dell'atteggiamento farà sì che io risponda nello stesso modo sia che mi venga semplicemente chiesto in un questionario cosa penso dell'oggetto di atteggiamento sia che io incontri davvero quell'oggetto, e quindi metta in atto dei comportamenti che lo riguardano; in altre parole l'accessibilità dell'atteggiamento farà sì che vi sia minore probabilità di contraddizione tra l'espressione verbale di un atteggiamento e la sua espressione attraverso l'azione [Manstead 1996]. Per tornare all'esempio di Berlusconi, vederlo, parlare di lui, vedere il suo nome sulla scheda elettorale saranno tutti indicatori che susciteranno in me la stessa reazione positiva; quindi, molto probabilmente, mi comporterò in modo coerente in tutte queste circostanze, compreso il momento del voto. La relazione tra accessibilità di un atteggiamento e sua capacità di predire comportamenti futuri è stata indagata da Fazio e collaboratori in diverse ricerche, in una delle quali è stato preso in esame proprio il comportamento di voto [Fazio e Williams 1986]. A un campione di soggetti statunitensi veniva chiesto di esprimere il proprio atteggiamento nei confronti sia di Reagan che di Mondale poco prima delle elezioni presidenziali, e l'accessibilità dell'atteggiamento veniva misurata calcolando il tempo impiegato dai soggetti per rispondere alla richiesta. In un momento successivo si chiedeva agli stessi soggetti di dire quale dei due candidati aveva fatto una migliore figura nel corso di un dibattito televisivo al quale i soggetti avevano assistito. Infine, dopo le elezioni, i soggetti venivano nuovamente contattati e richiesti di dire per chi avevano votato. Come previsto, i soggetti che nella richiesta iniziale hanno dimostrato di avere un atteggiamento più accessibile sono anche quelli risultati più coerenti con questo atteggiamento in seguito, sia nel giudizio sull'apparizione televisiva dei candidati sia nella scelta di voto. Insomma, quando un atteggiamento è molto accessibile è più probabile che i comportamenti collegati all'oggetto di atteggiamento siano coerenti con esso. Tuttavia non si tratta solo di vedere se vi è coerenza tra atteggiamento e comportamento, ma anche più in generale se, e in quali condizioni, un certo atteggiamento sfocia effettivamente in uno o più comportamenti conseguenti, o rimane invece solo in forma appunto di atteggiamento.
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Dato per scontato che un atteggiamento «forte», nel senso de- scritto prima, ha più probabilità di tradursi in comportamento, vi è da aggiungere che questo tema richiede anche la considera- zione di fattori «altri» rispetto alla specifica componente attitu- dinale individuale, relativi all'interazione del soggetto con la realtà in cui vive. Un'attenzione a questi fattori è presente nella teoria del comportamento pianificato (planned behaviour) [Ajzen 1988], presentata schematicamente nella figura 2.3. Secondo questa teoria, che costituisce una versione modificata della teo- ria dell'azione ragionata di Fishbein e Ajzen [1975] [per una presentazione dettagliata di entrambe le teorie cfr. Manstead 1996], l'atteggiamento verso il comportamento è solo una delle determinanti dell'intenzione comportamentale, ossia del fatto che il soggetto intenda (o meno) compiere una certa azione. Un'altra determinante è la norma soggettiva, ossia la credenza del soggetto sulle aspettative che altri, per lui importanti, avreb- bero rispetto al fatto che egli compia (o non compia) quell'azio- ne. La terza determinante è la percezione di controllo del compor- tamento, ossia la percezione di quanto facile (o difficile) possa essere compiere l'azione. L'idea soggiaceste è che generalmente un'azione viene intrapresa se si pensa di riuscire a portarla a termine, e questa percezione ha a che fare con le relazioni di potere nelle quali ciascuno di noi è inserito, e con la rappresentazione che abbiamo di queste relazioni. L'intenzione comportamentale sarebbe dunque determinata da questi tre fattori, e a sua volta costituirebbe generalmente la determinante immediata del comportamento. Generalmente ma non necessariamente, nel senso che alcuni comportamenti poAtteggiamento verso il comportamento J\ Norma soggettiva ggettiva )
Intenzione ( comportamentale ) .•■■•••••
(Percezione di controllo .4":,_ del comportamento
...••••• ^
J
FIG. 2.3.
La teoria del comportamento pianificato. Aizen [1988].
Fonte:
(Comportamento)
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trebbero non essere espressione di una chiara intenzione del soggetto, e per questo motivo la teoria di Ajzen prevede anche la possibilità che il comportamento derivi direttamente dalla percezione di controllo (linea tratteggiata nella fig. 2.3). Questa teoria, di carattere generale, può essere applicata a comportamenti di vario tipo, incluso il comportamento politico. Supponiamo che un mio amico sostenga l'opportunità di impegnarsi in campagna elettorale a favore di un certo candidato (atteggiamento verso il comportamento) e di fatto non si impegni poi concretamente (comportamento). Cosa può essere successo? Potrebbe essere stato condizionato dal fatto che i suoi amici, quelli che appartengono alla sua cerchia di conoscenze, considerino strani e disonesti coloro che si impegnano in politica (norma soggettiva). Oppure potrebbe aver pensato che il suo impegno non avrebbe dato frutto o che non sarebbe riuscito a mantenervi fede (percezione di controllo del comportamento). Sui fattori che, oltre e accanto agli atteggiamenti, possono costituire le determinanti dell'azione politica si tornerà nell'ultimo capitolo. 8. Assimilazione e contrasto nel giudizio politico
Dopo aver visto i legami dell'atteggiamento con le emozioni e con il comportamento, prendiamo nuovamente in esame il legame tra atteggiamento e conoscenza, già affrontato nei primi paragrafi. Mentre tuttavia in quella sede abbiamo visto come la conoscenza costituisca una delle basi dell'atteggiamento, si tratterà ora di vedere la relazione contraria, cioè come l'atteggiamento, una volta formato, possa influenzare a sua volta la conoscenza. Questa influenza dell'atteggiamento sulla conoscenza, che può condurre anche a vere e proprie distorsioni nella codifica di nuove informazioni, può essere tanto più rilevante: a) quanto più il soggetto è coinvolto rispetto all'oggetto di atteggiamento, quindi quanto più l'atteggiamento è forte; b) quanto più questo oggetto si presenta come ambiguo e contraddittorio. Della forza dell'atteggiamento abbiamo già parlato nel paragrafo precedente. Soffermiamoci quindi sul tema dell'ambiguità e contraddittorietà degli oggetti di atteggiamento (partiti, temi, uomini politici). Accade spesso che gli atteggiamenti politici si sviluppino non nei confronti di oggetti stabili, sempre uguali a
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se stessi, bensì di oggetti mutevoli, che si possono presentare al soggetto in modi diversi a seconda delle circostanze, a volte addirittura in modi contraddittori, o almeno percepiti come tali dal soggetto. In particolare, nel caso dell'uomo politico, la variabilità può riguardare sia i suoi atteggiamenti sia i suoi comportamenti, che possono modificarsi sostanzialmente in due modi [Granberg 1993]: 1. Il politico dice cose diverse in circostanze diverse, nel senso che modifica e modula le proprie affermazioni a seconda del pubblico che ha di fronte e del contesto in cui le affermazioni vengono fatte. Ciò non significa necessariamente che l'uomo politico dichiara un giorno una cosa e il giorno dopo l'esatto contrario, ma semplicemente che «ritaglia il suo messaggio» (message tailoring) in funzione del contesto, e d'altra parte si sa che il linguaggio offre ampie possibilità per accentuare o sfumare certi aspetti rispetto ad altri. 2. Il politico cambia effettivamente posizione nel tempo. Può accadere che un uomo politico cambi addirittura partito o che il partito cui appartiene cambi orientamento, in funzione di alleanze con altri partiti o di variazioni nel frattempo intervenute nella realtà politica nazionale o internazionale. A titolo di esempio si vedano le seguenti dichiarazioni di uomini politici raccolti da un giornalista, Marco Travaglio, per la rivista «Cuore». «Prodi potrebbe essere un degno Presidente del Consiglio». (Umberto Bossi, 2.2.95) «Prodi? Solo roba di poltrone. Non ci interessa. La Lega non si riconosce in lui». (Umberto Bossi, 13.2.95) «Ripartire dalla bozza Maccanico? No, è superata. Quello era un compromesso: il Polo è per il presidenzialismo vero». (Silvio Berlusconi, 4.4.96) «La proposta Maccanico è un buon punto di partenza. Era già nel nostro programma del '94». (Silvio Berlusconi, 29.5.96) «Berlusconi è un buffone, un grandissimo bugiardo, un pericolo per l'Europa». (Massimo D'Alema, 5.3.95) «Io di Berlusconi mi fido: credo proprio che sia sincero quando dice di volere le riforme». (Massimo D'Alema, 23.1.96)
In prospettiva psicologica la variabilità della realtà politica non interessa in quanto tale, bensì per l'effetto che può avere
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Atteggiamento verso il candidato/partito Candidato o partito
Atteggiamento verso il tema politico
-)
Percezione dell'atteggiamento / del candidato/partito / Atteggiamento verso il tema politico / verso il tema politico Tema politico
D
FIG. 2.4. Applicazione al contesto politico della teoria dell'equilibrio di Heider [1958].
sulla percezione del soggetto. Quanto più intervengono questi fattori, quanto più insomma la situazione esterna si presenta come già di per sé ambigua e contraddittoria, tanto più «peserà» l'intervento di selezione, ricostruzione, a volte anche vera e propria distorsione nella percezione della realtà da parte del soggetto. Un'esigenza primaria dell'individuo è infatti quella di vivere in una realtà equilibrata e coerente e di essere egli stesso equilibrato e coerente. Di conseguenza l'individuo cercherà di intervenire per ridurre le incoerenze percepite negli altri e in se stesso, e a volte lo farà anche a costo di distorsioni nella codifica di nuove informazioni. In psicologia sociale, a partire da Heider [1958], diverse sono le teorie che sono state sviluppate in base al principio della ricerca di equilibrio e coerenza [Amerio 1995]. Secondo queste teorie i soggetti si sforzano di organizzare le proprie cognizioni (credenze, atteggiamenti, percezione del proprio comportamento) in modo tale da evitare tensioni e contraddizioni. Quando si rendono conto che alcuni atteggiamenti sono contraddittori, entrano in una condizione di squilibrio cognitivo. Dato che questo stato è spiacevole e produce tensione, i soggetti sono motivati a ristabilire uno stato di coerenza tra le cognizioni in oggetto attraverso la modifica di uno o più atteggiamenti. La teoria dell'equilibrio sviluppata da Heider è stata applicata anche all'ambito politico [Granberg 1993]. Si consideri lo schema presentato nella figura 2.4, che comprende tre elementi, il cittadino, il candidato (oppure il partito politico) e il tema
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politico. I tre elementi vengono visti in relazione tra loro: a) il cittadino ha un certo atteggiamento nei confronti dell'uomo politico; b) l'uomo politico ha un certo atteggiamento nei confronti del tema politico, c) anche il cittadino ha un certo atteggiamento nei confronti del tema politico; d) infine (ciò che forse più importa) il cittadino ha una percezione dell'atteggiamento che l'uomo politico ha nei confronti del tema politico. La persona, o meglio il cittadino, tenderebbe a raggiungere, mantenere o ristabilire una situazione di equilibrio, e ciò avviene quando tutte le relazioni incluse nella struttura triadica della figura 2.4 hanno uno stesso segno positivo: ad esempio io ho un atteggiamento positivo nei confronti di un certo leader politico, ed entrambi abbiamo un atteggiamento positivo nei confronti dell'introduzione dell'imposta patrimoniale. Si ha equilibrio anche quando una delle relazioni è positiva e le altre due sono entrambe negative: ad esempio sono favorevole a un leader politico ed entrambi siamo contrari alla privatizzazione degli enti pubblici. Supponiamo invece che io sia favorevole a un leader politico, e sia però contrario all'introduzione della patrimoniale, difesa da quel leader. Mi troverò a questo punto in una situazione di squilibrio, poiché percepisco che quel leader ha un atteggiamento su quel tema diverso da quello che vorrei. Cosa potrei fare per ristabilire l'equilibrio? Potrei cambiare atteggiamento verso l'uomo politico oppure verso la patrimoniale. Generalmente, dice Heider, si cambia tra gli atteggiamenti quello che si percepisce come meno importante e più facile da cambiare, e quando la triade delle relazioni è data da due persone e da un tema si cambierà più facilmente l'atteggiamento verso il tema. Per citare uno degli esempi di Heider, si pensi al caso di marito e moglie che hanno due atteggiamenti diversi nei confronti del fatto di avere figli. Sarebbe più probabile che uno dei due cambi atteggiamento nei confronti di questo tema piuttosto che cambi l'atteggiamento reciproco tra i due. Questo esempio consente di introdurre un elemento in più nella questione della relazione tra diversi atteggiamenti, ossia che lo squilibrio è più sentito, crea maggiore disagio quando le due persone sono legate tra loro da una particolare relazione, coinvolgente e di lunga durata. Per tornare all'esempio politico della figura 2.4, questo può accadere ad esempio quando il candidato in oggetto fa parte del partito per il quale ho sempre votato in passato.
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Come avviene il cambio di atteggiamento nei confronti di un tema o di una persona, nel tentativo di ristabilire un equilibrio? Generalmente è mediato e «giustificato» da particolari processi di elaborazione delle informazioni. L'obiettivo di ristabilire l'equilibrio, e quindi attribuire idee che ci piacciono a persone che ci piacciono e viceversa per le persone che non ci piacciono, potrà agire come bias o tendenza sistematica nella lettura dei dati, anche a dispetto delle oggettive informazioni a disposizione del soggetto. I risultati di una ricerca di Ottati, Fishbein e Middlestadt [1988] offrono una conferma della presenza di questo bias. Durante la campagna presidenziale che opponeva Reagan a Mondale, a un campione di soggetti venivano presentate una serie di affermazioni che descrivevano la posizione dei due candidati su un certo numero di temi politici. Di queste affermazioni alcune erano vere, nel senso che riflettevano l'effettiva posizione del candidato su quel tema (ad esempio «Reagan è a favore di un incremento nelle spese per la difesa», «Mondale è a favore di un decremento nelle spese per la difesa»), mentre altre erano false. Per ciascuna delle affermazioni si chiedeva ai soggetti di valutare la probabilità che fosse vera sulla base di una scala da — 3 (molto improbabile) a + 3 (molto probabile). Si chiedeva poi ai soggetti di esprimere il loro giudizio sia nei confronti dei due candidati sia nei confronti dei temi politici oggetto delle affermazioni, e sulla base di queste misure i soggetti venivano divisi in due gruppi, corrispondenti a due diverse condizioni sperimentali. Nel caso dei soggetti del gruppo 1 le affermazioni vere erano coerenti con la posizione dei soggetti, implicavano cioè che il candidato gradito condividesse la stessa posizione del soggetto rispetto ai temi politici e il candidato sgradito avesse invece una posizione contraria a quella del soggetto; le affermazioni false erano invece incoerenti con la posizione dei soggetti. Nel caso dei soggetti del gruppo 2 avveniva il contrario, nel senso che le affermazioni vere erano incoerenti con la posizione dei soggetti e quelle false erano invece coerenti con tale posizione. Se l'attribuzione del valore di verità alle affermazioni non fosse condizionata dalle specifiche posizioni dei soggetti, non si dovrebbero osservare differenze tra i due gruppi; viceversa il valore di verità attribuito alle affermazioni vere nel gruppo 1, quando cioè queste affermazioni sono coerenti con le posizioni dei soggetti, è risultato superiore a quello attribuito alle stesse affermazioni nel gruppo 2 (fig. 2.5), a dimo-
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Gruppo 1 Gruppo 2
Falso
Vero Verità
FIG. 2.5. Valore medio di verità attribuito alle affermazioni sulle spese per la difesa, in funzione della effettiva verità/falsità delle affermazioni stesse. Nel gruppo 1 le affermazioni vere coincidono con la posizione dei soggetti sul tema, nel gruppo 2 le affermazioni vere differiscono invece dalla posizione dei soggetti.
Fonte: Ottati, Fishbein e Middlestadt [19881.
strazione del fatto che un atteggiamento consolidato può indurre ad alterare la percezione delle informazioni in modo che queste siano coerenti con l'atteggiamento stesso. Una tendenza che può essere in parte ricondotta alla ricerca di equilibrio è la tendenza ad accentuare la vicinanza tra noi stessi e ciò verso cui abbiamo un atteggiamento positivo (assimilazione) e ad accentuare invece la distanza tra noi stessi e ciò verso cui abbiamo un atteggiamento negativo (contrasto). Già nel 1961 Sherif e Hovland, nel formulare la teoria del giudizio sociale, mettevano in evidenza che la posizione del soggetto costituisce una sorta di àncora di giudizio con la quale vengono confrontate tutte le altre posizioni possibili. Gli atteggiamenti che si collocano in una posizione relativamente vicina a quella del soggetto sul continuum attitudinale saranno percepiti come simili ai propri più di quanto lo siano nella realtà e riceveranno una valutazione molto positiva, perché giudicati giusti e ogget-
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tivi. D'altra parte gli atteggiamenti relativamente lontani dalla propria posizione saranno percepiti come decisamente differenti e valutati negativamente, come ingiusti e propagandistici. L'esame di questo processo è stato approfondito da Sherif e Hovland [1961] a proposito di come gli individui attribuiscono una valenza ai messaggi comunicativi. Nel caso che il messaggio sia in sintonia con il soggetto, questi tenderebbe a sovrastimare la vicinanza del messaggio alla propria posizione (assimilazione), nel caso contrario il soggetto tenderà invece a sovrastimare la distanza tra quel messaggio e la propria posizione (contrasto). In seguito gli psicologi sociali hanno ampiamente indagato in che misura e in quali condizioni compaiono queste tendenze sistematiche all'assimilazione e al contrasto, e hanno messo tra l'altro in evidenza che queste tendenze sono più forti quando il soggetto è coinvolto rispetto all'oggetto di atteggiamento e quando tale oggetto si presenta come ambiguo. Processi di assimilazione-contrasto entrerebbero in gioco anche quando il soggetto è chiamato a collocarsi rispetto ai candidati politici o ai partiti: il soggetto tenderebbe cioè ad accentuare la propria similarità percepita nei confronti di coloro che ha scelto di votare e, sia pure in misura minore, ad accentuare la differenza rispetto a chi non ha scelto. In una ricerca effettuata da Granberg [1993] veniva chiesto a un campione di sostenitori rispettivamente di Bush e di Dukakis, ossia dei due candidati alle elezioni presidenziali americane del 1988, di dire qual era il loro personale atteggiamento e quello da loro percepito come proprio di ciascuno dei due candidati nei confronti di nove temi politici (ad esempio il sostegno a favore delle minoranze etniche, le relazioni con l'Unione Sovietica e i diritti delle donne). Per ciascun tema le risposte dovevano essere date su una scala a 7 punti, ai cui estremi vi erano due posizioni opposte, una (valore 1) classificabile come liberale e l'altra (valore 7) classificabile come conservatrice. Il grafico mostrato nella figura 2.6 riporta in ascissa la media delle collocazioni dei soggetti sui nove temi e in ordinata la media di come è stata percepita la collocazione di Dukakis rispetto agli stessi temi. Si osservino le due curve, quella relativa ai sostenitori di Dukakis e quella relativa ai sostenitori di Bush. Nel caso dei primi si osserva una forte corrispondenza tra la propria posizione e quella di Dukakis; indipendentemente dal punto della scala in cui si sono collocati i diversi soggetti, ciascu-
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di Dukakis Sostenitori di Bush Sostenitori
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Autocollocazione
FIG. 2.6. Collocazione di Michael Dukakis su una scala da 1 (liberale) a 7 (conservatore), in funzione dell'autocollocazione dei soggetti e della loro preferenza per Dukakis vs Bush. Fonte: Granberg [1993].
no di essi ha collocato Dukakis in un punto della scala simile al proprio. Diverso è il caso dei sostenitori di Bush, la cui autocollocazione risulta poco correlata alla collocazione di Dukakis, e comunque correlata negativamente. Un risultato analogo, ma invertito per i due gruppi di soggetti, si è avuto nel caso della collocazione di Bush. Da questi dati si può concludere che vi è nei soggetti una tendenza a massimizzare la vicinanza tra la propria posizione e quella del candidato favorito (assimilazione) e una tendenza invece a massimizzare la differenza fra sé e il candidato non favorito (contrasto). Questa seconda tendenza è tuttavia decisamente meno marcata della prima, e ciò è riconducibile secondo Granberg al fatto che in generale i soggetti preferiscono, nel senso che trovano più piacevole, l'accordo rispetto al disaccordo (agreement effect) e il fatto di gradire una persona piuttosto che non gradirla (positivity effect). Viene spontaneo ricordare a questo proposito i risultati delle ricerche, già citate, che hanno mostrato la maggiore capacità predittiva sul giudizio nei confronti di uomini e partiti politici delle emozioni positive rispetto a quelle negative (cfr. par. 6).
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In particolari circostanze, tuttavia, anche la tendenza al contrasto può emergere in modo evidente. Si considerino ad esempio i risultati di una ricerca effettuata in Olanda, e relativa alla percezione sul continuum sinistra-destra di un partito denominato Center Party [Granberg 1993]. Precedenti rilevazioni avevano dimostrato che, nonostante il suo nome, questo partito veniva percepito da alcuni olandesi come di estrema destra e da altri come di estrema sinistra. In tutti i casi si trattava di un partito che riscontrava pochissimi consensi e Granberg aveva ipotizzato che i soggetti del suo campione, sia che lo collocassero a destra sia che lo collocassero a sinistra, avrebbero comunque accentuato la distanza percepita tra sé e il partito. Ai soggetti veniva chiesto di collocare se stessi e il Center Party su una scala da 1 (estrema sinistra) a 100 (estrema destra), e veniva quindi misurata la relazione tra le due collocazioni. I risultati sono riportati nel grafico della figura 2.7. In esso si può rilevare 10 -
2 1 1 2 Estrema sinistra
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Autocollocazione
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9 10 Estrema destra
FIG. 2.7. Collocazione del Center Party su una scala da 1 (estrema sinistra) a 10 (estrema destra), in funzione dell'autocollocazione dei soggetti sulla stessa scala: dati rilevati durante la campagna elettorale olandese del 1986.
Fonte: Granberg [1993].
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che i soggetti di destra collocano il partito a sinistra, quindi in una posizione antitetica alla propria, e lo stesso fanno i soggetti di sinistra, che collocano il partito a destra; vi è dunque in atto un processo di contrasto, mediante il quale praticamente tutti i soggetti tendono ad allontanare se stessi da un partito visto come sgradito. In conclusione diverse ricerche hanno messo in evidenza che gli atteggiamenti, una volta formati, esercitano un'influenza sul- la conoscenza, nel senso che il soggetto tende ad «ancorare» la codifica di nuove informazioni su un certo oggetto al giudizio di cui già dispone su quell'oggetto. L'entità di questo fenomeno, e quindi dell'intervento di tendenze sistematiche ed eventuali di- storsioni nel processo conoscitivo, varia in relazione a diversi fattori, e tra questi, come si è detto all'inizio, vi è il grado di effettiva ambiguità e contraddittorietà delle informazioni dispo- nibili sull'oggetto di giudizio e l'importanza che esso riveste per il soggetto. Ma anche altri fattori, di matrice sociale più che individuale (finora meno studiati), possono favorire la comparsa di tendenze sistematiche e tra questi fattori vi sono l'identità di gruppo del soggetto [Tajfel e Turner 1986] (cfr. cap. VI, par. 1) e le relazioni che questi intrattiene con gli altri. Ad esempio, l'esigenza di affermare, in un dato momento, la propria apparte- nenza a un partito, magari per contrapporsi ai sostenitori di un partito avversario, può indurre il soggetto ad accentuare ulte- riormente la tendenza all'assimilazione, ossia ad accentuare la vicinanza tra le proprie posizioni politiche e quelle degli espo- nenti del proprio partito (coerentemente con quanto affermato dalla teoria di Tajfel sulle relazioni tra gruppi; cfr. Tajfel [1981]). Se ci si colloca in questa prospettiva, la comparsa di tendenze sistematiche nel processo conoscitivo può essere interpretata, più che in termini di «errore» o di effetto dovuto ai limiti della razionalità umana, in termini di strategia funzionale al perse- guimento di determinati scopi, come quello appunto di espri- mere la propria identità di gruppo. 9. La competenza
Nel corso del capitolo si è parlato dei processi di elaborazio- ne delle informazioni comuni a tutti i soggetti, senza soffermar- si, se non marginalmente, sulle eventuali differenze che possono
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esserci fra un soggetto e un altro, in particolare fra chi è competente, o esperto in politica, e chi non lo è. Di fatto queste differenze sono state indagate nell'ambito della conoscenza politica, così come lo sono state in altri ambiti di conoscenza (medico, giuridico ecc.; cfr. Catellani [1992]), e si è visto così che la superiorità degli esperti rispetto agli inesperti non risiede tanto nella quantità di nozioni possedute, quanto nella capacità di utilizzarle efficacemente nell'attività di soluzione di problemi. E questo ciò che caratterizza maggiormente la competenza, o expertise, in un ambito di conoscenza, un'acquisizione che è solitamente frutto dell'accumulo di molti anni di esperienza in quel particolare settore. In ambito politico può essere più difficile che in altri definire cosa si intende per expertise. Anzitutto perché la competenza in questo campo consiste nell'integrazione di conoscenze appartenenti a diverse discipline, dalla storia, all'economia, al diritto. In secondo luogo perché le fonti di acquisizione della competenza non sono solo le usuali fonti scientifiche, ma anche fonti di altro tipo, in modo particolare i media. Vi è poi da aggiungere che non esiste forse altro ambito di conoscenza in cui, come in quello politico, le persone possono essere coinvolte anche indipendentemente dalla loro competenza effettiva; le questioni politiche sono questioni che, in misura maggiore o minore, toccano tutti, su cui tutti possono esprimere un parere, se non altro nel momento in cui vanno a votare. Non è un caso dunque che la ricerca volta a definire l'expertise in ambito politico abbia incontrato più difficoltà di quanto sia accaduto in altri ambiti. E prevalsa la tendenza a definire l'expertise come sintesi di diverse dimensioni, specificamente: a) l'interesse politico; b) l'attività politica; c) la conoscenza politica, intesa solitamente come quantità di nozioni possedute su istituzioni, temi e personaggi politici; d) la fruizione dei media, soprattutto quelli su carta stampata; e) il concetto di sé politico, inteso come peso della propria appartenenza politica nella definizione di sé [Fiske, Lau e Smith 1990]. Le dimensioni sopra elencate, spesso risultate molto correlate tra loro, sono state dunque fuse a costituire un indice unico di expertise; questo indice è stato utilizzato per distinguere soggetti esperti e soggetti inesperti in politica, e rilevare le differenze tra i due gruppi nei diversi stadi del processo di elaborazione delle informazioni. Per quanto riguarda la codifica, è emerso
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così che gli esperti sono più veloci degli inesperti nel comprendere nuove informazioni [ibidem] e nell'esprimere valutazioni su temi e personaggi politici [McGraw, Lodge e Stroh 1990]. Ciò è facilmente comprensibile se si pensa al ruolo giocato dall'accessibilità nella codifica delle informazioni. La frequente riflessione su argomenti politici, propria degli esperti, fa sì che un grande numero di concetti sia altamente accessibile alla loro mente e quindi prontamente utilizzabile quando si tratta di codificare informazioni nuove. Per quanto riguarda l'organizzazione, quindi, il modo in cui le informazioni sono collegate tra loro si è rilevata una maggiore coerenza negli atteggiamenti politici degli esperti [Lusk e Judd 1988], e ciò è stato spiegato con il fatto che gli esperti dispongono di una rete concettuale più ricca non solo di nodi ma anche di legami che collegano i nodi tra loro. Quindi facilmente l'attivazione di un nodo determina l'attivazione di altri nodi a questo collegati [Lau e Erber 1985; Judd e Krosnick 1989] (cfr. par. 4). Le differenze nei due stadi precedenti spiegherebbero infine perché gli esperti risultino superiori anche nel ricordo delle informazioni politiche: informazioni meglio organizzate vengono anche recuperate con maggiore facilità [Fiske, Lau e Smith 1990]. Fin qui le differenze osservate sulla base del ricorso a un indice unico di expertise, sintesi, come si è visto, di diverse dimensioni. Di fatto tuttavia i risultati di alcune ricerche [ad esempio Krosnick e Milburn 1990; Krosnick e Brannon 1993] hanno dimostrato che le diverse dimensioni dell'expertise politica, pur generalmente correlate, hanno talvolta effetti indipendenti sul processo di elaborazione delle informazioni. Questi risultati hanno indotto alcuni ricercatori [ad esempio Krosnick e Brannon 1993] a ritenere che possa essere più opportuno tenere distinte le diverse dimensioni dell'expertise politica e orientare anzi la ricerca proprio a un approfondimento delle relazioni, anche di causa-effetto, che esistono tra queste dimensioni. In che modo l'interesse politico orienta l'acquisizione della conoscenza politica e di questa si alimenta? Come si collegano entrambi alla fruizione dei media? E così via. Un'attenzione particolare merita l'esame della relazione tra conoscenza politica e attività politica: a questo proposito le ricerche sull'expertise politica non hanno offerto indicazioni univoche [Fiske, Lau e Smith 1990; Hamill, Lodge e Blake 1985]. D'altra parte l'esame della relazione tra conoscenza e attività si
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presenta di evidente interesse nel momento in cui si voglia studiare il soggetto come «attore» politico (cfr. cap. I, par. 1), quindi non solo come soggetto che conosce, ma anche come soggetto che acquisisce e applica le proprie conoscenze in un contesto reale. Proprio dei rapporti tra conoscenza politica e attività politica si è occupata una ricerca effettuata da Catellani [in stampa] su un campione di studenti universitari milanesi. Mediante la somministrazione di un questionario sono stati raccolti dati su tre tipi diversi di conoscenza politica: di base (ad esempio «Chi può fare una proposta di legge?»), dell'attualità (ad esempio «Chi è l'attuale segretario del partito X?», «Chi è il Primo ministro inglese?») e applicata alla soluzione di problemi. Per misurare quest'ultima venivano presentati una serie di problemi politici, ad esempio quello dell'assistenza che lo Stato deve dare ai cittadini o quello delle spese per la difesa del paese, e si chiedeva ai soggetti di: a) elencare le azioni che il governo avrebbe potuto intraprendere per risolvere questi problemi in modo adeguato; b) elencare le persone o figure istituzionali che avrebbero potuto avere un'influenza nella soluzione di questi problemi. La misura della conoscenza applicata era costituita da un indice che integrava la quantità e la qualità delle risposte date dai soggetti a queste due domande. Ulteriori dati sono stati raccolti in merito ad altre dimensioni dell'expertise politica, l'interesse politico (ad esempio «Quanto sei interessato alla politica?», «Ti capita di appassionarti o indignarti per qualche avvenimento politico?»), l'attività politica e la fruizione dei media. Infine veniva misurato il grado di autoefficacia politica (cfr. cap. VI, par. 7), attraverso domande volte a valutare la percezione della possibilità di agire («Pensi di avere qualche possibilità di agire per cambiare la situazione?»), e di agire con successo («Pensi che la tua attività potrebbe avere degli effetti?»), per risolvere problemi politici di vario tipo. Quest'ultima misura era stata introdotta perché una delle ipotesi della ricerca era che l'autoefficacia politica potesse avere un'influenza nel rapporto tra conoscenza politica e attività politica. Tutte le dimensioni indagate sono risultate altamente correlate tra loro, ma grazie all'applicazione dei modelli di equazioni strutturali (LISREL) [Jóreskog e Sorbom 1986; per una presentazione di questi modelli cfr. Corbetta 1992] è stato possibile anche valutare la forza e la direzione dei legami causali esistenti
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La conoscenza e gli atteggiamenti politici Conoscenza politica di base f 1,00 Fruizione dei media
Conoscenza--. politica di bas e
0,74 Fruizione dei media Interesse dichiarato O82 Discussione 0,77 politica r 0,63 Coinvolgimento emotivo
^0,58
1,24
0,92
Ministri 0,7v Conoscenza politica dell'attualità 0,54 politici
Interesse politico
0,52
/0,28
0,26
Conoscenza politica applicata
/0,26 Autoefficacia politica 0,21
Azioni per soluzione di problemi 069 ,
Responsabili soluzione di problemi 1,00 Possibilità %e di azione .086 Possibilità di successo dell'azione
Attività politica 10,95 Attività politica FIG. 2.8. Modello di equazioni strutturali delle relazioni tra conoscenza politica e partecipazione politica. Nota: x2 = 50, 58; df = 39; p > 0,09 Adjusted goodness of fit index = 0,97. Fonte: Catellani pn stampa].
tra le diverse dimensioni. I risultati di questa analisi sono riprodotti nella figura 2.8. Se si escludono i legami diretti dell'interesse politico con quasi tutti gli altri fattori, ciò che si osserva è una serie di legami singoli di fattore in fattore, fino a formare
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una sorta di percorso che dall'interesse per la politica conduce all'attività politica. Maggiore è l'interesse per la politica, maggiore è la fruizione dei media politici e di conseguenza maggiore la conoscenza dell'attualità politica. Quest'ultima è incrementata anche dalla conoscenza politica di base e a sua volta influisce positivamente sulla conoscenza applicata alla soluzione di problemi politici. Se si prosegue nel percorso, si osserva che all'aumentare della conoscenza applicata aumenta l'autoefficacia politica e questa a sua volta determina un'aumentata attività politica. Dalla struttura causale presentata nel modello, e confermata dai dati rilevati nella ricerca di Catellani, emerge dunque una possibile spiegazione dello scarso legame trovato in passato tra conoscenza politica e attività politica: il passaggio dall'una all'altra dimensione non sarebbe infatti diretto, bensì mediato dall'intervento dell'autoefficacia politica. Avere il potere di fare, o almeno percepire di averlo, è premessa essenziale perché la conoscenza si traduca in azione [Amerio 1991]. Se questo può essere vero nei campi più diversi, può esserlo a maggior ragione in ambito politico, un ambito in cui la definizione dei rapporti di potere gioca un ruolo fondamentale. 10. Conoscenza e partecipazione politica
Anche altre ricerche si sono occupate dei rapporti tra conoscenza e partecipazione politica, e in particolare hanno indagato le differenze, sia quantitative che qualitative, nella rappresentazione della politica di soggetti caratterizzati da un diverso grado di partecipazione. Quadrio, Catellani e Sala [1988] hanno preso in esame quattro gruppi di soggetti, uomini politici, militanti di partito, soggetti interessati, soggetti indifferenti alla politica e, con riferimento alla teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici [1961] [per una presentazione della teoria cfr. Palmonari 1995], hanno studiato: a) la rappresentazione della politica che emerge spontaneamente nei discorsi di questi soggetti; b) se e in che modo questa rappresentazione coincide con o si differenzia dalle definizioni di politica proposte in sede scientifica; c) come la rappresentazione varia in funzione del coinvolgimento politico dei soggetti. Le risposte a una domanda aperta in cui si chiedeva di definire la politica sono state codificate in termini di categorie
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La conoscenza e gli atteggiamenti politici
di contenuto e, separatamente per i quattro gruppi di soggetti, si è misurata la frequenza delle categorie, nonché la frequenza con cui ciascuna di queste categorie compariva insieme a una o più altre nell'ambito di una stessa risposta. Si era ipotizzato che la frequenza di alcune categorie-chiave correlate alla politica, così come i legami esistenti tra le diverse categorie, sarebbero variati in funzione del rapporto di vicinanza/distanza che i soggetti del campione avevano nei confronti della politica. È emerso così ad esempio che una categoria di contenuto come quella di «potere» gioca un ruolo centrale nella rappresentazione della politica di tutti e quattro i gruppi di soggetti esaminati, e tuttavia assume significati diversi per ciascun gruppo, sulla base delle altre categorie insieme alle quali compare nel discorso. Lo stralcio di intervista che segue è esemplificativo della rappresentazione del gruppo degli uomini politici, dai quali il «potere» viene visto come funzionale alla presa di decisione e alla gestione amministrativa dello Stato. Se dovessi definire la politica penserei ad essa come... beh, quello specifico aspetto della società che governa la società... che in un certo senso determina tutto il resto, tutto il corso della vita... perché sono i politici che decidono quanti miliardi devono essere dati ad esempio alla ricerca scientifica, e quanti per produrre armi o impianti nucleari e così via. Così sono scelte davvero difficili da fare... fondamentalmente gratificano quelli che le fanno... dal punto di vista, magari, di un potere da gestire... [citato da Catellani e Quadrio 1991, 238].
Ecco invece un esempio di come il potere è visto dal gruppo degli interessati, essenzialmente come strumento per il profitto personale degli uomini politici. Politica è molte cose: politica è il grosso personaggio che, per interessi di potere, fa certe cose... ha certi obiettivi da raggiungere, deteriori per gli altri... [ibidem, 239].
In una ricerca successiva [Catellani 1990], derivata dalla precedente, è stata indagata la percezione dei concetti di «politica» e di «uomo politico» in due gruppi di soggetti, militanti e non militanti di partito. In questo caso la metodologia utilizzata è stata differente, perché l'obiettivo non era di indagare come i contenuti della rappresentazione emergono spontaneamente nel discorso, bensì come vengono ordinati e organizzati
La conoscenza e gli atteggiamenti politici
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in categorie concettuali (nel caso specifico quelle di «politica» e di «uomo politico») attraverso un processo di astrazione. Per effettuare questa indagine, a partire dai contenuti emersi nella precedente ricerca, è stata messa a punto una lista di 24 definizioni di politica. Ai soggetti veniva chiesto di valutare ciascuna di queste definizioni su una scala a 7 punti di accordo-disaccordo (la lista completa delle definizioni è riportata nella tab. 2.2), e veniva chiesto anche di valutare, in questo caso su una scala a 5 punti, quanto una serie di 31 tratti personali fosse o meno appropriata a definire l'uomo politico (cfr. la lista di cui alla tab. 2.3). Nella tabella 2.2 sono riportati sia l'ordine di rango che il punteggio medio ottenuto da ciascuna definizione di politica, separatamente per i due gruppi di soggetti indagati. Emergono differenze significative tra i due gruppi anzitutto per quanto riguarda l'ordine di importanza attribuito a diverse definizioni ad esempio definizioni come «Politica è una componente necessaria della vita», «Politica è espressione delle idee» o «Politica è risposta ai bisogni dei cittadini» occupano una posizione gerarchica superiore nel gruppo dei militanti rispetto a quello dei non militanti. Ma una differenza emerge anche per quanto riguarda il numero delle definizioni ritenute centrali dai due gruppi: il concetto di politica appare più ricco, ossia caratterizzato da un maggior numero di tratti definenti, nel gruppo dei militanti, come è indicato dal fatto che le definizioni con un punteggio medio di tipicità superiore a 5 sono 13 per i militanti e 8 per i non militanti (cfr. tab. 2.2). Nel caso del concetto di «uomo politico» vi sono poche differenze tra i due gruppi nella gerarchia di tipicità dei tratti (tab. 2.3), ma di nuovo vi è una differenza nel numero di tratti ritenuti centrali, anche se questa volta la differenza è nella direzione opposta rispetto al concetto di «politica»: il numero di tratti con un punteggio medio superiore a 3,5 è infatti di 7 per i militanti, mentre sale a 11 per i non militanti. Insomma la supposta maggiore familiarità dei militanti con i due concetti ha esiti opposti per il concetto di «politica», definibile come concetto astratto, e per quello di «uomo politico», definibile come concetto concreto: mentre nel caso del concetto astratto la maggiore familiarità coincide con una maggiore ricchezza nella definizione del concetto stesso, nel caso del concetto concreto la maggiore familiarità (ossia la maggiore conoscenza diretta di uomini politici) coincide probabilmente con la percezione di una
TAB. 2.2. Ordine di rango, differenze tra i ranghi, medie e significatività delle differenze tra le medie nelle risposte dei due gruppi alle definizioni
della politica Definizioni Politica è... 3. impegnarsi per la collettività 9. agire per migliorare la società 17. una componente necessaria della vita 22. espressione delle idee 23. risposta ai bisogni dei cittadini 15. presente in tutti gli aspetti del sociale 19. prendere decisioni sui problemi della collettività 24. porsi al servizio degli altri 11. confronto tra le parti 1. gestione della cosa pubblica 21. presente in tutti gli ambiti dell'attività umana 5. ricerca di momenti di incontro tra posizioni diverse 12. garanzia delle regole di convivenza 10. espressione di una delega da parte dei cittadini 6. fare le leggi 18. espressione del rapporto tra maggioranza e minoranza 20. conflitto tra le parti 13. esercizio del potere 16. un'attività esplicata da individui riuniti in partiti 7. conquista del potere 14. un compromesso a tutti i livelli 8. spartizione di profitti e di posti fra i partiti 4. un ambito di interesse riservato a poche persone 2. ricerca di un profitto personale
Ordine di rango Militanti Non militanti 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24
1 2 9 8 10 6 3 11 5 4 14 7 13 12 17 18 15 16 19 21 20 22 23 24
d 0 0 6 4 5 0 -4 3 - 4 - 6 3 - 5 0 - 2 2 2 - 2 - 2 0 1 - 1 0 0 0
Medie Militanti
Non militanti
6,46 6,39 5,86 5,86 5,83 5,78 5,76 5,75 5,59 5,51 5.45 5,08 5,06 4,61 4,40 3,89 3,89 3,82 3,62 2,98 2,93 2,08 2,02 1,77
5,86 5,75 4,98 5,21 4,92 5,32 5,46 4,78 5,33 5,40 4,45 5,22 4,69 4,73 4,08 4,00 4,31 4,11 3,83 3,13 3,60 2,67 2,60 2,17
Sign. di F < 0,01 < 0,05 < 0,001 < 0,001 < 0,001 < 0,05 n.s. < 0,001 n.s. n.s. < 0,001 n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. < 0,05 < 0,05 < 0,01 n.s.
Fonte: Catellani [1990].
TAB. 2.3. Ordine di rango, differenze tra i ranghi, medie e significatività delle differenze tra le medie nelle risposte dei due gruppi agli attributi
dell'uomo politico Attributi
Ordine di rango Militanti Non militanti
17. Ambizioso 28. Interessato al potere 4. Furbo 15. Arrivista 24. Opportunista 5. Egoista 12. Diplomatico 9. Ricco 19. Impegnato 14. Falso 6. Intelligente 20. Influente 16. Disonesto 11. Corrotto 1. Colto 27. Pratico 13. Realista 3. Sicuro 22. Eloquente 2. Comunicativo 25. Serio 8. Ideologico 23. Dinamico 18. Disponibile 21. Competente 26. Coerente 30. Carismatico 7. Onesto 29. Altruista 10. Di bella presenza
Fonte: Catellani [1990].
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
1 2 4 3 5 6 9 7 17 8 15 11 12 10 16 19 22 13 14 18 23 21 20 25 26 27 24 30 28 29
Medie
d
0 0 1 -1 0 0 2 -1 8 - 2 4 - 1 - 1 - 4 1 3 5 - 5 -5 - 2 2 - 1 - 3 1 1 1 - 3 2 -1 -1
Militanti
Non militanti
4,05 3,99 3,77 3,74 3,63 3,55 3,99 3,34 3,25 3,18 3,17 3,11 3,01 2,99 2,97 2,95 2,90 2,88 2,88 2,86 2,85 2,83 2,82 2,70 2,64 2,46 2,33 2,21 2,11 1,91
4,45 4,44 4,12 4,21 4,07 3,89 3,61 3,73 2,81 3,65 2,91 3,54 3,44 3,57 2,85 2,63 2,56 3,11 3,04 2,74 2,39 2,60 2,63 2,21 2,13 1,94 2,22 1,69 1,77 1,70
Sign. di F < 0,001 < 0,001 < 0,01 < 0,001 < 0,001 < 0,05 n.s. < 0,001 < 0,001 < 0,01 n.s. < 0,01 < 0,05 < 0,001 n.s. < 0,05 < 0,01 n.s. n.s. n.s. < 0,001 n.s. n.s. < 0,001 < 0,001 < 0,001 n.s. < 0,001 < 0,001 < 0,05
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La conoscenza e gli atteggiamenti politici
La conoscenza e gli atteggiamenti politici
maggiore variabilità all'interno del concetto stesso, e una conseguente riluttanza a individuarne i tratti definenti. Con buona probabilità la differenza di cui si è detto tra concetto astratto e concetto concreto non è tuttavia specifica della politica e si potrebbe osservare anche in altri campi. Per tornare quindi agli aspetti specifici dell'ambito politico, si possono prendere in esame i risultati dell'analisi fattoriale effettuata sulle definizioni di politica. È emerso così che nei militanti due sono i fattori principali che emergono, quello di politica come «azione sociale», saturato da item come «agire per migliorare la società» e «risposta ai bisogni dei cittadini», e quello di politica come «potere», saturato da item come «esercizio del potere» e «conquista del potere». Oltre al grado di coinvolgimento politico, anche l'appartenenza partitica ha un'influenza sulla definizione di politica: dai dati [riportati in Catellani e Quadrio 1991], raccolti quando ancora era presente il sistema dei partiti precedente alla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, risulta ad esempio che il primo fattore è più forte nei militanti della DC e del PCI rispetto a quelli del PSI, mentre il secondo è più forte in quelli della DC e del PSI rispetto a quelli del PCI. La rilevazione di queste differenze conferma il peso che variabili socioculturali possono avere sulla definizione di politica, anche se non consente ipotesi precise sui motivi di queste differenze; così il peso minore attribuito dal PCI al fattore «potere» rispetto agli altri due partiti potrebbe essere ricondotto a una base di tipo ideologico, ma anche a una più di tipo contestuale o esperienziale, il fatto cioè che all'epoca della rilevazione il PCI non fosse di fatto al potere e non lo fosse stato nemmeno negli anni precedenti. I due fattori principali emersi nel gruppo dei non militanti sono invece quello di politica come «abuso di potere» (saturato da item come «spartizione di profitti e di posti fra i partiti» e «un compromesso a tutti i livelli») e di politica come «delega/ confronto» (saturato da item come «espressione di una delega da parte dei cittadini» e «confronto tra le parti»). Come si vede, la definizione prevalente nei non militanti include una forte connotazione morale e una visione del potere come strumento per fini personali e non come funzionale all'esercizio della politica. Torna dunque in questa ricerca, come nella precedente, la questione del diverso significato attribuito al potere da persone con un diverso grado di coinvolgimento politico.
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Differenze minori tra i due gruppi sono emerse per quanto riguarda la definizione dell'uomo politico. Si è visto così che, sia per i militanti che per i non militanti, i tratti percepiti come più tipici dell'uomo politico sono riconducibili al fattore «ambizione» (ambizioso, interessato al potere, furbo, arrivista). Uno degli obiettivi della ricerca era di indagare se proprio i tratti attribuiti all'uomo politico potessero avere una relazione con l'idea che si ha di politica. La percezione di persone è influenzata da molti fattori, tra cui le teorie ingenue di personalità, e tra questi fattori non è da escludere l'influenza di concezioni generali della realtà, nel caso specifico la concezione stessa di politica. Per verificare se le definizioni di «politica» di militanti e non militanti potessero essere in qualche misura predittive delle rispettive definizioni di «uomo politico» è stata effettuata un'analisi di regressione multipla. Come si vede nella tabella 2.4, le caratteristiche considerate come più tipiche dell'uomo politico da entrambi i gruppi, ossia quelle legate al fattore «ambizione», sono coerenti con una delle due definizioni di politica prevalenti nel gruppo dei militanti, quella della politica come «esercizio del potere», mentre non sono spiegate da alcuna delle definizioni di politica dei non militanti. TAB. 2.4. Definizioni della politica e attributi dell'uomo politico: coefficienti di regressione multipla Azione sociale
Potere
Corruzione Ambizione Preparazione Immagine Realismo
- 0,09 - 0,05 0,01 - 0,13 - 0,24**
0,04 0,23* 0,13 0,16 0,15
Abuso Non militanti
di potere confronto Pervasività Gestione minoranza
Delega/
Corruzione Ambizione Preparazione Immagine Realismo
0,26** 0,08 - 0,12 - 0,03 - 0,06
Militanti
* p < 0,05. ** p < 0,01.
Fonte: Catellani [1990].
0,07 - 0,12 0,25* 0,03 - 0,28**
Confronto Pervasività - 0,25* - 0,08 0,00 0,07* - 0,17
0,23* 0,05 - 0,04 - 0,20 - 0,06
Gestione 0,00 - 0,07 0,03 0,14 - 0,06
Maggioranza/
0,07 - 0,05 - 0,05 - 0,01 - 0,08
0,05 0,13 0,00 0,17 0,04
0,03 0,14 0,15 0,03 0,00
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La conoscenza e gli atteggiamenti politici
Ricerche come quelle ora citate, volte a indagare la relazione tra conoscenza e partecipazione politica, inducono a spostare l'attenzione del soggetto che conosce in quanto tale al soggetto che conosce «in situazione», quindi al contesto di acquisizione e di uso della conoscenza. Ne deriva un crescente interesse per temi come la condivisione di conoscenze con altri, i rapporti che con questi altri il soggetto intrattiene, le possibilità di azione che tali rapporti consentono e così via. Si tratta di un campo di indagine che ancora dev'essere pienamente esplorato.
Capitolo terzo La decisione politica
Mettere la croce sul simbolo di un partito, andare o meno a votare per un referendum, allearsi con questa o quella forza politica, porre o meno un embargo sull'importazione dei prodotti di una certa nazione, intervenire o meno in un conflitto tra nazioni. Tutti gli «attori» politici, siano essi cittadini, militanti, uomini politici, ministri o capi di Stato, sono chiamati a prendere delle decisioni, a valutare diverse possibili alternative e gli esiti che ne possono derivare, per poi optare per una di queste. L'approccio psicologico allo studio della decisione politica deriva parte dei suoi fondamenti da una critica della teoria della decisione sviluppata inizialmente in ambito economico, ed estesa in seguito anche all'ambito politico. Converrà dunque cominciare questo capitolo da una breve sintesi degli elementi-chiave di questa teoria, per poi esporre le critiche cui è stata sottoposta, critiche relative in modo particolare alla definizione di natura umana in essa implicita. Dopodiché verrà preso in esame l'approccio psicologico allo studio della decisione politica, un approccio volto soprattutto a indagare i fattori di matrice cognitiva e sociale coinvolti in questo tipo di decisione. 1. La decisione razionale
Già nel 1957, nella sua opera An economic theory of democracy, Downs proponeva di estendere all'ambito politico, in particolare alla decisione di voto, la teoria della scelta razionale (rational choice theory, RCT) sviluppata inizialmente in ambito economico (cfr. cap. I, par. 3). Downs muove dall'ipotesi che la decisione di voto sia guidata dalla ricerca dell'interesse personale e che quest'ultimo sia sostanzialmente un interesse di tipo economico. Di conseguenza si comporterebbe in modo razionale un elettore
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La decisione politica
La decisione politica
che prenda in esame tutte le informazioni necessarie a capire quale possa essere la scelta migliore per massimizzare il proprio benessere economico. Di fatto nella vita reale accade che il soggetto non disponga di tutte queste informazioni. Ciò anzitutto perché spesso non ha familiarità con gli indicatori economici (ad esempio tasso di inflazione, disoccupazione) in grado di fornire tali informazioni; ma anche nel caso che abbia tale familiarità, rimane il fatto che il soggetto non dispone in genere di informazioni di prima mano, bensì di informazioni mediate (dalle istituzioni, dai giornali ecc.), e quindi non scevre da possibili manipolazioni. Se si aggiunge che la situazione economica e politica di un paese dipende comunque anche da complicati equilibri internazionali, risulta evidente che il soggetto non dispone mai di fatto di tutti gli elementi necessari a decidere, e dunque non ha la possibilità di prevedere con esattezza quali saranno le conseguenze della decisione stessa. In una parola si trova a prendere una decisione in condizioni di incertezza. Nonostante si trovi in questa condizione, osserva Downs, il soggetto ha ugualmente la possibilità di comportarsi in maniera razionale, e può farlo grazie all'applicazione della statistica, e in particolare della teoria della probabilità, che consente di tradurre in cifre gli esiti delle alternative decisionali, anche quando questi esiti siano incerti, e di scegliere tra le alternative quella «migliore» in termini di probabilità di perseguire l'obiettivo che ci si propone. Un'indicazione chiara sul percorso da seguire per compiere una scelta razionale anche in condizioni di incertezza viene dalla teoria dell'utilità attesa soggettiva [Edwards 1954], un'estensione all'ambito della decisione umana di modelli normativi basati sulla teoria economica e statistica. In questa teoria la decisione viene scomposta in termini di valori o utilità che il soggetto attribuisce a ciascuno dei possibili esiti della decisione, e di probabilità soggettiva che ciascuno di questi esiti si possa effettivamente verificare. La teoria fornisce una serie di regole per combinare valori e probabilità, e queste regole sono riassunte nella seguente formula: E. p. u(x.)t
dove p è la probabilità associata all'i-esimo esito di una possibile opzione e u(x,) è l'utilità percepita di quell'esito. L'applicazio-
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ne della formula alle diverse alternative del compito decisionale consente di scegliere l'alternativa caratterizzata dalla «massima utilità soggettiva attesa». In questo modo, pur muovendo da una condizione iniziale di dati incerti, soggettivi, incompleti, è salvaguardata comunque la possibilità di prendere una decisione ottimale: sarà la migliore decisione che si possa prendere dati gli specifici valori e le specifiche probabilità attribuiti alle diverse alternative. Per chiarire come la formula può essere applicata alla situazione decisionale, facciamo un esempio concreto, anche se del tutto fittizio per quanto riguarda valori e probabilità in esso previsti (cfr. tab. 3.1). Supponiamo di dover scegliere al ballottaggio per l'elezione del sindaco della nostra città se votare per Bianchi o per Rossi, e supponiamo che la nostra scelta venga effettuata sulla base di tre possibili esiti o conseguenze della scelta stessa, ai quali attribuiamo un'importanza equivalente: efficienza dell'amministrazione, rilancio economico della città, qualità della vita. In relazione al primo possibile esito sappiamo che Rossi è in contatto con un entourage di esperti che potrebbero garantire una efficienza nell'amministrazione superiore rispetto agli esperti di Bianchi; tuttavia, mentre questi ultimi hanno già espresso la loro scelta di collaborare, i primi non l'hanno ancora fatto. Traduciamo in numeri queste considerazioni• sulla base di una scala da 1 a 10 il nostro giudizio nei confronti degli esperti di Rossi corrisponde a un punteggio di 9 e quello nei confronti degli esperti di Bianchi corrisponde a un punteggio di 7. I primi parteciperanno a un'eventuale gestione Rossi con una probabilità (soggettiva, ossia percepita da noi sulla base delle informazioni che abbiamo e della nostra percezione di esse) di 0,8, mentre i secondi hanno già dato la loro disponibilità, e quindi la probabilità è uguale a 1,0. Per quanto riguarda il secondo possibile esito, ossia il rilancio economico della città, possiamo ipotizzare che l'amministrazione Bianchi sia più incline dell'amministrazione Rossi a fare investimenti in questo campo, anche se vi è l'incognita dell'esito che potrebbe avere l'atteggiamento che Bianchi e il suo partito hanno nei confronti del governo di Roma: questo atteggiamento potrebbe portare a cattivi rapporti tra l'amministrazione e il governo, e a conseguenti tagli nei finanziamenti di questo al Comune. Sempre su una scala da 1 a 10 daremo 8 a Bianchi con una probabilità soggettiva di 0,7 e 7 a Rossi con una probabilità
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La decisione politica
La decisione politica
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nella scelta e i valori (utilità) attribuiti a ciascuno di essi, la soggettiva di 0,9. Ci aspettiamo infine che con un'amministra- decisione può essere raggiunta attraverso l'applicazione di leggi zione di «sinistra» vi sia più attenzione per i bisogni di tutti e in matematiche, e quindi attraverso un processo perfettamente genere per la qualità della vita, e daremo quindi 9 (probabilità razionale. Si, ma quali esiti vengono presi in esame e quali valori soggettiva 0,8) al candidato di sinistra Rossi e 7 (probabilità vengono a questi attribuiti? Nel momento in cui si probabilità e soggettiva 0,8) all'altro candidato. In questo caso le probabilità esce da un'analisi del processo decisionale di tipo generale e attribuite sono le stesse per i due candidati perché ci aspettiamo astratto e si passa all'esame di decisioni specifiche diviene inevi che essi incontreranno le stesse difficoltà nell'applicazione della tabile cercare una risposta a queste domande, fare insomma loro politica rispetto a questo tema. riferimento agli aspetti di contenuto, e non solo di forma, della I punteggi e i valori di probabilità attribuiti a ciascun candi- funzione di utilità. In effetti nell'applicazione della teoria ecodato in relazione ai tre diversi esiti presi in esame sono riassunti nomica della decisione a specifici contesti decisionali sono in nella tabella 3.1. Sulla base della formula dell'utilità attesa pri- genere rilevabili delle assunzioni a priori in merito a quali sono ma enunciata, la scelta di Bianchi avrà il seguente punteggio: gli scopi che i diversi attori della politica perseguono attraverso (7 x 1 + 8 x 0,7 + 8 x 0,8) = 19. Nel caso di Rossi il punteggio la decisione, e quindi a quali sono gli esiti e i valori a cui si sarà invece il seguente: (9 x 0,8 + 7 x 0,9 + 9 x 0,8) = 20,7. A riferiscono. questo punto la decisione è presa, poiché Rossi ha raggiunto un Le applicazioni al contesto politico non fanno eccezione in punteggio che è, sia pure di poco, superiore a quello di Bianchi. questo senso, e di solito assumono implicitamente che: a) lo L'utilità attesa di una data alternativa è data dunque dalla som- scopo dei governi sia quello di massimizzare il potere politico; ma dei valori associati a ciascuna delle possibili conseguenze b) lo scopo dei politici sia quello di massimizzare la possibilità di legate a quell'alternativa, somma pesata per la probabilità di rimanere in carica (quindi il proprio potere personale); c) lo ciascuna conseguenza. Una volta che si sia effettuato questo scopo degli elettori sia quello di massimizzare il proprio benescalcolo per ciascuna alternativa, è possibile scegliere quella ca- sere economico. Si tratta, come si è detto, di assunzioni a priori, ratterizzata dalla «massima utilità attesa». quindi non basate su verifica empirica. Certo, che gli attori della Questo è davvero quello che succede quando prendiamo politica perseguano scopi «egoistici» di questo tipo appare del una decisione? Forse no, ma la teoria dell'utilità attesa non ha tutto plausibile, perché corrisponde a quanto si osserva di freintenti descrittivi bensì normativi, non si propone cioè di descri- quente; ciò tuttavia non esclude che in alcuni casi si possano vere come una decisione viene effettivamente presa, ma di defi- osservare scelte politiche che, perlomeno nell'immediato, appa pire il percorso per poter giungere in ogni circostanza alla deciiono basate su scopi di altro tipo. Quindi a una verifica empirica sione migliore, ottimale in termini di perseguimento dell'utilità tali assunzioni a priori potrebbero rivelarsi non adeguate. personale, obiettivo che si suppone sempre soggiacente all'attiMa assumiamo pure che gli scopi degli attori politici siano vità del decisore. Insomma, in base alla teoria dell'utilità attesa possiamo dire che, una volta definiti gli esiti di cui si tiene conto effettivamente quelli previsti dalla teoria della scelta razionale; questo non aiuta molto a predire l'effettiva decisione, perché soggetti diversi potrebbero avere orientamenti diversi su come possa essere perseguito uno stesso scopo, e quindi scelte di Esempio ipotetico di scelta al ballottaggio per l'elezione del sindaco TAB. 3.1. diverso tipo potrebbero tutte risultare coerenti con quello scoRilancio economico , Efficienza Qualità della vita po. A titolo di esempio prendiamo in esame solo il caso dell eletdella città dell'amministrazione Candidato tore, e l'assunzione implicita che il suo scopo sia quello di (Probabilità) Utilità (Probabilità) Utilità (Probabilità) Utilità massimizzare, attraverso il voto, il suo benessere economico. (0,8) 7 8 (0,7) (1,0) 7 Bianchi Come ricordato da Downs, molti sono gli indicatori economici (0,8) (o,a) 9 7 (o, ․) 9 Rossi che si possono utilizzare nella decisione di voto, ad esempio il tasso di inflazione. Ma soggetti diversi potrebbero interpretare Nota: 1 punteggi di utilità variano tra 0 e 10.
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lo stesso indicatore in modi diversi. Potrei essere convinto che contenere il tasso di inflazione sia una misura essenziale perché non si riduca il potere d'acquisto dei soldi che ho risparmiato in tanti anni. Ma un'altra persona, che ha un'azienda vinicola, potrebbe anche ritenere che per lei sia più importante aumentare le vendite dei suoi prodotti all'estero, e quindi che non sia così dannoso l'aumento dell'inflazione. Queste differenze potrebbero riflettersi sulla scelta di voto, nel senso che io potrei optare per un candidato nel cui programma politico è dato rilievo alla lotta all'inflazione, mentre l'altra persona potrebbe fare un'opzione opposta alla mia. Insomma, anche se lo scopo finale è sempre lo stesso, gli scopi immediati o intermedi possono variare e incidere di conseguenza sulla decisione. In questo caso dunque ci troviamo di fronte a due decisioni diverse prese da persone che dispongono sostanzialmente delle stesse informazioni e che si suppone perseguano lo stesso obiettivo. Questa differenza non crea grossi problemi ai teorici della scelta razionale. Essi infatti assumono che non vi siano limiti nel numero di valori o preferenze da aggiungere nella funzione di utilità, e quindi potranno sempre spiegare decisioni diverse rispetto a quella prevista attraverso l'introduzione nella funzione di utilità di valori diversi o aggiuntivi rispetto a quelli che erano presenti nelle formule applicate in precedenza. In questo modo qualunque decisione può essere fatta rientrare nella formula originaria e si sfugge alla possibilità che vengano rilevate contraddizioni nella teoria; qualora infatti essa non fosse adeguata a spiegare una particolare situazione decisionale, sarà sufficiente aggiungere nuovi valori o nuove alternative nella funzione di utilità. L'introduzione di nuovi esiti e nuovi valori viene effettuata per così dire «a tavolino», quindi a partire da una definizione astratta, non empiricamente verificata, della natura umana. Questo può essere sufficiente finché si lavora in ambito teorico e prescrittivo, senza intenti predittivi di quanto effettivamente accade nella realtà. Qualora invece si abbiano questi intenti, e si voglia procedere a una verifica empirica della teoria, ci si trova di necessità a confrontarsi con le caratteristiche della razionalità e più in generale della natura umana, nel senso che di queste si deve tener conto nella definizione dei possibili esiti e dei valori da introdurre nella funzione di utilità [Simon 1995].
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2. Decisione e razionalità umana
La concezione di uomo soggiacente alla teoria della scelta razionale, una concezione come si è detto prescrittiva e quindi non fondata empiricamente, è stata sottoposta a critica da parte del cosiddetto approccio descrittivo o psicologico allo studio della decisione [per una presentazione approfondita cfr. Rumiati 1990]. Questo approccio muove dall'assunto che la natura umana sia molto più complessa di come viene presentata dalla teoria della scelta razionale, e che di questa complessità sia necessario tener conto se si vogliono mettere a punto modelli della decisione che non siano solo formalmente «eleganti», ma anche empiricamente verificabili. Le teorie e i modelli che vengono proposti dall'approccio psicologico sono basati sulla ricerca empirica, quindi su come le decisioni «di fatto» vengono prese dalle persone, e non su come «dovrebbero» essere prese per essere ottimali. Sulla base delle conoscenze di cui dispongo in merito ai fattori psicologici che condizionano l'attività dei soggetti, formulerò delle ipotesi in merito a quali valori o preferenze prevarranno nel processo decisionale e a quali alternative verranno prese in considerazione; successivamente sottoporrò a verifica tali ipotesi attraverso la ricerca empirica. Certo questo compito sarà tanto più facile quanto più disporrò di teorie già consolidate sulla psiche umana e quindi quanto più potrò sin dall'inizio selezionare con rigore le alternative e i valori da inserire nel modello sottoposto a verifica. Per esemplificare come di fatto la ricerca sulla decisione possa procedere in questa direzione, prendiamo in esame alcuni fattori la cui presenza è stata ormai ampiamente verificata dalla ricerca psicologica, e vediamo come questi possano agire nell'ambito specifico della decisione politica. Per comodità espositiva distingueremo tra fattori di matrice cognitiva e fattori di matrice sociale, anche se questi fattori in effetti interagiscono tra loro. Questi fattori possono influire sulla determinazione di alternative, valori e probabilità considerati dal soggetto nel processo decisionale; in determinate circostanze, possono anche intervenire a modificare l'obiettivo finale perseguito dal soggetto nella decisione. Si vedrà che il ruolo giocato da questi fattori induce a mettere in discussione le due assunzioni di fondo sulla natura umana presenti nell'applicazione della teoria della scelta razionale all'ambito politico, quella che prevede l'aspirazione a una
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perfetta razionalità e quella che implica il perseguimento dell'interesse personale come scopo ultimo di qualunque decisione politica. 3. Fattori cognitivi nella decisione
L'approccio psicologico allo studio della decisione si è sviluppato finora prevalentemente nell'ambito dell'orientamento cognitivista, e con questo orientamento condivide l'idea di una razionalità vincolata da limiti nella memoria e nella capacità di elaborazione delle informazioni. Una delle conseguenze è che il soggetto, posto di fronte a un compito decisionale, non prende necessariamente in considerazione tutte le alternative possibili ma, avendo una capacità di attenzione di per sé limitata, si focalizza solo su alcune alternative, quelle accessibili alla sua mente e percepite come salienti. Nel capitolo sulla conoscenza politica si è già visto che diversi fattori, come la vicinanza temporale, la frequenza, e gli obiettivi perseguiti condizionano l'accessibilità di certi concetti rispetto ad altri (cfr. cap. II, par. 1), e l'accessibilità a sua volta condiziona le alternative prese in esame nel processo decisionale. Torniamo all'esempio dell'elettore e degli indicatori economici di cui questi può tener conto per perseguire attraverso il voto il proprio interesse personale. Il particolare contesto politico, i temi affrontati nella campagna elettorale, il verificarsi di eventi significativi a livello nazionale o internazionale, lo spazio attribuito a questi eventi dai media sono tutti fattori che possono indurre l'elettore a percepire certi indicatori economici come più salienti di altri, in quanto rendono quegli indicatori molto accessibili alla mente dell'elettore, e in tal modo possono influenzare il processo decisionale. Supponiamo che la campagna elettorale di un certo candidato, e parte della stampa a grande diffusione, si siano centrati in un certo momento politico soprattutto sul tema della disoccupazione. Oppure supponiamo che poco prima del voto si siano verificati degli eventi eccezionali (ad esempio la chiusura di una grossa fabbrica, il suicidio di un disoccupato) ai quali è stato dedicato ampio spazio dalla televisione e dai giornali. Se fino a quel momento vari indicatori economici avevano per me uguale importanza rispetto alla decisione di voto, quanto accaduto po-
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trebbe indurmi a centrare l'attenzione sull'indicatore «disoccupazione» a scapito di altri. Traduciamo tutto questo in termini di obiettivi del processo decisionale. Ammesso che il mio obiettivo generale, nella scelta di un candidato piuttosto che di un altro, sia quello di aumentare il mio personale benessere, fattori legati alla realtà esterna, come quelli citati, ma anche fattori legati alla mia interpretazione di tale realtà potrebbero indurmi a ritenere che questo obiettivo generale possa essere raggiunto attraverso il perseguimento di certi piuttosto che di altri obiettivi specifici. Nell'esempio riportato riterrò che la lotta alla disoccupazione sia più importante della lotta all'inflazione, e l'aumentata salienza di questo obiettivo farà pendere la bilancia per il candidato che della lotta alla disoccupazione ha fatto il suo cavallo di battaglia, a scapito di altri candidati, che sarebbero stati invece favoriti se altri temi avessero avuto maggior peso in quel determinato momento. 4. Fattori sociali nella decisione
Non sono solo fattori di matrice cognitiva a condizionare e limitare il campo delle possibili opzioni decisionali; anche fattori di matrice sociale possono operare in questo senso. Centrale a questo proposito è il riferimento alla teoria dell'identità sociale, proposta da Tajfel e Turner [1986] (cfr. cap. VI, par. 1), in base alla quale parte dell'identità di un soggetto è costituita dalle appartenenze di gruppo che egli sperimenta nel corso della sua vita. Anche quando il soggetto decide da solo, senza confrontarsi con altri, gli altri sono comunque (più o meno) presenti, insieme alle norme e ai valori che caratterizzano i relativi gruppi di appartenenza, e intervengono quindi in modo più o meno evidente nella definizione degli obiettivi da perseguire mediante la decisione. Il fatto di sentirci appartenenti a un gruppo può indurci, in certe circostanze, a non prendere nemmeno in considerazione alcune delle alternative possibili, poiché si tratta di alternative che non rientrano in quelle percepite come tipiche, appropriate alla categoria di persone cui ci sentiamo di appartenere. Ciò non significa naturalmente che è sufficiente conoscere le regole del gruppo di riferimento del soggetto per sapere quali obiettivi questi si propone nella decisione e poter quindi preve-
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dere con facilità le alternative prese in esame e la decisione stessa. Anzitutto bisogna tener conto del fatto che le appartenenze di gruppo non sono singole, bensì molteplici; in altre parole i soggetti, come si è sottolineato [Elster 1986], hanno identità multiple, e la rilevanza e il peso di ciascuna possono variare a seconda delle circostanze. In alcuni casi poi le diverse appartenenze di gruppo possono determinare addirittura aspettative di ruolo contrastanti, che vengono poste in competizione nella scelta. Prendiamo ad esempio il caso di una donna con un figlio piccolo, alle prese con il compito di decidere se tornare a lavorare o rimanere a casa a curare il bambino [Monroe 1995]. Poniamo che la donna sia più orientata verso la prima opzione: secondo la teoria dell'utilità attesa questa sarà l'opzione scelta e così il processo decisionale si chiuderà in modo soddisfacente. Tuttavia non è detto che la scelta, una volta effettuata, sia definitiva; al contrario può accadere che la donna rimanga insoddisfatta di essa e, dopo un certo periodo, arrivi addirittura a pentirsene. Questa alternanza potrebbe essere dovuta al contrasto tra il ruolo di «madre» e quello di «lavoratrice», due componenti dell'identità femminile che non sono così facilmente e univocamente ponderabili o confrontabili tra loro. In situazioni del genere l'influenza degli stati d'animo, del contesto e di altri fattori contingenti assume la massima rilevanza nel far prevalere una decisione rispetto a un'altra. Il riferimento all'identità sociale, quindi alla presenza degli altri, all'appartenenza di gruppo come componente determinante della stessa natura di ciascun soggetto, apre la strada alla possibilità di mettere in discussione una delle assunzioni cardine della teoria della scelta razionale applicata all'ambito politico, quella cioè di un soggetto politico radicalmente e costantemente «egoista», volto unicamente al perseguimento di un interesse personale economico odi potere [Simon 1995]. In alcuni casi il sentimento di appartenenza al gruppo, costitutivo dell'identità sociale, può acquisire un peso talmente forte da indurre il soggetto a tener conto, nella decisione, non tanto del proprio interesse personale immediato, quanto di quello del o dei gruppi con i quali il soggetto si identifica. Cosi l'elettore potrebbe votare per un partito che ha fatto della lotta alla disoccupazione il Leitmotiv della sua campagna elettorale non perché il problema della disoccupazione lo riguardi direttamente, nemmeno in prospet-
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tiva futura, ma perché riguarda molte persone che frequenta abitualmente o alle quali si sente in qualche modo legato. Esempi di ricerca sul riferimento all'identità sociale nella decisione di voto verranno presentati nell'ultimo capitolo (cap. VI, par. 4). Certo, ci si potrebbe chiedere se una decisione basata sull'interesse del gruppo invece che su quello personale non possa anch'essa essere ricondotta in ultima analisi all'interesse personale. Se perseguire l'interesse del gruppo con il quale ci si identifica è un modo di esprimere e consolidare la parte sociale della propria identità, si potrebbe dire che in ultima analisi si torna ancora all'interesse personale. In effetti i teorici della scelta razionale hanno spesso ignorato o sottovalutato la possibilità che la scelta si basi su motivi diversi rispetto all'interesse personale proprio a partire dalla considerazione che qualunque scelta, anche una scelta apparentemente altruistica, può avere un ritorno positivo di qualche tipo per il soggetto. In questa luce sono state lette ad esempio le scelte altruistiche basate sull'amore o sul dovere: agire per la felicità chi si ama può dare gioia a chi lo fa e quindi è un modo di gratificare se stessi; analogamente un'azione di aiuto compiuta da un soggetto che sente in questo modo di aver fatto il suo dovere può determinare nel soggetto un aumento della propria autostima e dunque, di nuovo, può gratificarlo. Se è vero che in questo modo qualunque scelta può essere ricondotta all'interesse personale, tuttavia rimane il fatto che le scelte saranno di fatto diverse a seconda che prevalga l'interesse personale «egoistico» oppure l'interesse personale «altruistico». Supponiamo che mio marito mi chieda di aiutarlo a finire un lavoro che deve consegnare con urgenza in un momento in cui anch'io sono oberata di lavoro. A seconda che prevalga in me l'uno o l'altro tipo di interesse personale, quello «egoistico» o quello «altruistico», io sceglierò di aiutarlo oppure no, quindi mi comporterò di fatto in modo ben differente nei due casi. In altre parole, è importante sottolineare che, sul piano operativo, la differenza fra motivazione «egoistica» e «altruistica» rimane ben evidente, nel senso che, come si è appena visto, conduce a scelte differenti. Senza entrare nella questione teorica, pure di estremo interesse, dell'esistenza o meno di decisioni davvero altruistiche, ai fini della verifica empirica e della possibilità di effettuare previsioni sulle decisioni dei soggetti si è proposto di operare una distinzione tra:
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a) decisioni basate sul bisogno di perseguire un benessere «materiale», economico, ossia il tipo di bisogno di cui parla la teoria della scelta razionale. Si parla a questo proposito di decisioni fondate su valori strumentali; b) decisioni basate su bisogni di altro tipo, legati all'espressione, alla conferma o al consolidamento della propria identità. Nell'ambito di questi bisogni si possono far rientrare quelli di natura fondamentalmente sociale, derivanti dal fatto di avere relazioni con altri e dal fatto che queste relazioni sono parte costitutiva dell'identità del soggetto. Si parla a questo proposito di decisioni fondate su valori espressivi. Nel caso di decisioni basate su valori espressivi, la ricompensa che il soggetto può ricavare non è magari «tangibile», come nel caso di decisioni basate su valori strumentali, e tuttavia può essere ugualmente percepita dal soggetto come rilevante. Non è impossibile pensare a membri del governo che emanano una buona legge non perché sono convinti di trarre da questo un immediato vantaggio personale, ad esempio in termini di potere, ma perché vogliono avere l'approvazione dei loro pari, perché vogliono fare qualcosa di innovativo rispetto agli altri paesi, o perché vogliono mantenere un'immagine positiva di se stessi [Mansbridge 1995]. Alcune verifiche empiriche del riferimento a valori strumentali vs. espressivi nelle decisioni politiche verranno presentate più avanti (cap. VI, par. 4), a proposito della decisione di voto.
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nella vita reale la decisione del soggetto è fortemente condizionata dal modo in cui gli si prospettano i diversi possibili esiti delle alternative decisionali. A parità di altre condizioni il soggetto sceglierà in modo differente a seconda che questi esiti si prospettino in termini di guadagno o di perdita rispetto alla situazione di partenza. Per chiarire cosa questo significhi conviene tornare alla formula dell'utilità soggettiva attesa riportata all'inizio del capitolo, e ricordare che in tale formula l'utilità dipende dal valore soggettivo v attribuito ai diversi esiti, pesato per la probabilità soggettiva p degli esiti stessi. Nella teoria del prospetto la funzione del valore soggettivo v viene definita in termini di guadagni o di perdite rispetto a un punto di riferimento neutro, che è soggettivo. Tale funzione è riportata nella figura 3.1 e, come si vede, non si tratta di una funzione lineare, bensì di una funzione a forma di S, concava nella regione dei guadagni e convessa in quella delle perdite. A ogni incremento unitario nel possibile guadagno di un soggetto non corrisponde un incremento uguale nel valore soggettivo attribuito a questo guadagno: la differenza di valore soggettivo che c'è fra un possibile guadagno di 1.000.000 di lire e uno di 1.100.000 lire è minore rispetto a quella che c'è fra un possibile guadagno di 100.000 lire e uno di 200.000 lire.
5. La teoria del prospetto
Sono stati finora elencati alcuni fattori psicologici che possono esercitare un'influenza sugli obiettivi perseguiti nella decisione e sui criteri utilizzati nella scelta delle alternative. La considerazione di fattori di questo tipo, propri della natura umana, sembra essenziale se si vuole elaborare una teoria della decisione non prescrittiva e «ideale», bensì descrittiva di quanto avviene nella realtà, e fondata sulla verifica empirica. Questo è l'obiettivo che si sono proposti anche Tversky e Kahneman [1981] nel mettere a punto la cosiddetta teoria del prospetto (prospect theory), forse il tentativo finora più articolato di proporre una rilettura in chiave psicologica della teoria della scelta razionale. L'assunto centrale della teoria del prospetto è che
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FIG. 3.1.
Ipotetica funzione del valore secondo la «teoria del prospetto».
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Anche per la valutazione delle perdite avviene qualcosa di simile, naturalmente con segno opposto. Se si osserva ancora la figura 3.1, si può notare tuttavia un'altra caratteristica della funzione del valore soggettivo, ossia il fatto che la funzione non ha la stessa inclinazione nelle due regioni: essa è più ripida nella regione delle perdite rispetto a quella dei guadagni, e questo perché si ipotizza che il valore soggettivo, o potremmo dire il piacere, associato al guadagno di 1.000.000 di lire sia inferiore rispetto al (dis)valore, o dispiacere, associato alla perdita della stessa cifra. Questo diverso peso attribuito ai guadagni rispetto alle perdite avrebbe un'influenza sull'atteggiamento che i sog- getti hanno nei confronti del rischio. Cerchiamo di comprendere in che senso attraverso un esem- pio. Supponiamo di partecipare a un gioco a premi in una festa di paese. A un certo punto ci vengono offerte due alternative: a) interrompere il gioco e andare a casa con la vincita di 1.000.000 accumulata fino a quel momento; b) continuare il gioco e avere il 50% di probabilità di vince- re 2.000.000 e il 50% di probabilità di non vincere niente. In questo caso la maggioranza di noi sceglierà l'opzione a) e solo una minoranza sceglierà l'opzione b), preferiremo cioè un guadagno certo rispetto a un guadagno di entità superiore, ma incerto. Questo fenomeno, più volte dimostrato, è stato definito effetto certezza (certainty effect): in generale le persone tende- rebbero a non esporsi a situazioni di rischio e penserebbero, come spesso si sente dire, che è «meglio non lasciare il certo per l'incerto». Supponiamo ora di trovarci in una situazione di scelta del tutto analoga alla precedente, tranne per il fatto che la prospet- tiva non è più di guadagno, bensì di perdita. Le alternative che ci si pongono sarebbero le seguenti: a) interrompere il gioco dopo aver perso 1.000.000; b) continuare il gioco e avere il 50% di probabilità di perde- re 2.000.000 e i1 50% di probabilità di non perdere niente. In questo caso probabilmente la proporzione di scelta del- l'una o dell'altra opzione sarà invertita rispetto al caso prece- dente, nel senso che la maggior parte di noi sceglierà l'opzione b), quindi l'opzione più incerta. Questo fenomeno, anch'esso rilevato in diversi esperimenti, è stato definito effetto riflessione (reflection effect), a indicare che l'ordine di preferenza delle due opzioni, quella certa e quella incerta, si invertirebbe quando la
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prospettiva non è più di guadagno bensì di perdita. In prospettiva di perdita insomma i soggetti tenderebbero a cercare, invece che a evitare, il rischio, e ciò sarebbe dovuto al fatto che il dispiacere associato a una perdita è, come si è visto nella funzione di valore soggettivo della figura 3.1, maggiore rispetto al piacere associato a un guadagno di uguale entità. Attraverso vari esperimenti [cfr. ad esempio Tversky e Kahneman 1981] si è dimostrato che è sufficiente cambiare i termini di una stessa situazione decisionale in modo da presentarla come guadagno o come perdita (cambiare la cornice, il frame della situazione) perché si modifichi la percentuale di soggetti che scelgono a favore di una o di un'altra opzione possibile; la procedura seguita in questi esperimenti è in sostanza quella di chi mostri ai soggetti un bicchiere pieno a metà, e lo descriva in un caso come mezzo pieno e in un altro caso come mezzo vuoto. Alcuni degli esperimenti effettuati per verificare la teoria del prospetto hanno riguardato decisioni da prendersi in ambito politico: si consideri l'esempio che segue, relativo a una decisione di voto durante le elezioni presidenziali di una ipotetica nazione Alpha [Quattrone e Tversky 1988]. Nella situazione decisionale proposta si chiedeva ai soggetti del campione di scegliere se votare per un candidato (Frank) o per un altro (Carl) sulla base delle conseguenze che la vittoria dell'uno o dell'altro avrebbe potuto avere in termini di tasso di inflazione in quella nazione, conseguenze calcolate da due economisti esperti e neutrali rispetto ai due candidati. A tutti i soggetti si diceva che la vittoria del candidato Frank avrebbe avuto come conseguenza un tasso di inflazione del 16% a parere del primo economista e del 14% a parere del secondo; la vittoria del candidato Carl avrebbe invece determinato un'inflazione del 4% a parere del primo economista e del 26% a parere del secondo. Per entrambi i candidati dunque l'inflazione media prevista era del 15%, ma nel caso di Frank le proiezioni dei due economisti sostanzialmente coincidevano, mentre nel caso di Carl i due economisti erano in disaccordo e dunque la scelta di Carl si presentava di fatto come più rischiosa (nel senso che avrebbe potuto avere come conseguenza un tasso di inflazione o molto basso o molto alto). A una parte dei soggetti si diceva anche che, nello stesso periodo di tempo, il tasso di inflazione medio di altre quattro
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nazioni appartenenti alla stessa comunità economica della nazione Alpha sarebbe stato del 24% (a parere del primo economista) o del 26% (a parere del secondo economista). Ciò significa che per queste nazioni si prevedeva un tasso di inflazione superiore a quello medio previsto per la nazione Alpha (che, come si è detto, era del 15% per entrambi i candidati): dunque questo primo gruppo di soggetti veniva a trovarsi in una situazione decisionale nella quale la prospettiva era comunque di guadagno rispetto alle altre nazioni. Ai rimanenti soggetti si diceva invece che il tasso di inflazione delle altre quattro nazioni sarebbe stato del 4% (parere del primo economista) o del 6% (parere del secondo economista), un tasso inferiore rispetto a quello medio del 15% previsto per Alpha: dunque questo secondo gruppo di soggetti veniva a trovarsi in una prospettiva di perdita rispetto alle altre nazioni. Dai risultati è emerso che i soggetti di questo secondo gruppo, che si trovano appunto in una prospettiva di perdita, scelgono di votare per il candidato Carl, quindi per l'opzione più rischiosa, in percentuale significativamente più alta rispetto ai soggetti del primo gruppo, che si trovano invece in una prospettiva di guadagno. In un altro esperimento [Quattrone e Tversky 1988] venivano presentate a due gruppi di soggetti due diverse versioni di una situazione decisionale in cui si chiedeva di optare per uno o un altro candidato politico sulla base dei possibili esiti, in termini di tasso di occupazione e di inflazione, che avrebbero avuto le due diverse politiche economiche adottate dai due candidati una volta eletti. I dati presentati nelle due versioni della situazione decisionale sono riportati nella tabella 3.2. Come si può osservare, le due versioni differivano solo per il modo in cui venivano presentati i dati relativi all'occupazione: nella versione A si diceva ai soggetti che il programma J avrebbe avuto come conseguenza una percentuale di disoccupazione del 10%, mentre con il programma K questa percentuale sarebbe stata del 5%; nella versione B si diceva invece che il programma J avrebbe portato al 90% il livello di occupazione, mentre il programma K lo avrebbe portato al 95%. Non vi erano invece differenze tra le due versioni per quel che riguarda il tasso di inflazione determinato dai due programmi, in entrambi i casi superiore per il programma K. Nella prima versione, quando i dati sono espressi in termini di disoccupazione, quindi, potremmo dire, in termini di perdita, il programma J è stato scelto da un terzo dei soggetti,
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mentre due terzi hanno scelto il programma K. La percentuale di scelte del programma J è salita invece a più della metà dei soggetti nella seconda versione, nella quale i dati sono espressi in termini di occupazione, quindi in termini di guadagno. Quando viene presentata questa seconda versione l'attenzione viene maggiormente rivolta ai dati relativi all'inflazione (in entrambi i casi il 12% per il programma J e il 17% per il programma K), e la preferenza viene quindi data più spesso al programma che avrebbe determinato, una volta applicato, un più basso tasso di inflazione. Le decisioni politiche studiate da Quattrone e Tversky [ 1988] sono state effettuate in un contesto simulato, controllato dallo sperimentatore. Non sono mancate però interpretazioni in termini di teoria del prospetto anche a proposito di decisioni politiche reali, effettivamente prese da capi di Stato nell'ambito della politica internazionale. Si tratta per lo più di ricerche consistenti in una ricostruzione a posteriori, basata su dati di archivio, del processo decisionale e delle condizioni che lo hanno accompagnato. A titolo di esempio si può citare una ricostruzione, effettuata da Farnham [1992], di alcune decisioni prese da Roosevelt durante la cosiddetta «crisi di Monaco» (settembre 1938), un episodio importante nelle vicende storiche che hanno condotto allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Lo studio di Farnham si è basato su un attento esame delle dichiarazioni fatte da Roosevelt in pubblico e privatamente ai suoi collaboratori (dichiarazioni in seguito rese pubbliche dai collaboratori stessi), delle cronache dei giornali e di altri dati di archivio, in un arco di tempo che va dal 13 al 30 settembre 1938. In quel Tab. 3.2. Le due versioni di una stessa situazione decisionale proposte in uno degli esperimenti di Quattrone e Tversky 11988] Versione A Politica economica Programma J Programma K
Forza lavoro disoccupata (%) 10 5
Tasso di inflazione (%) 12 17
Versione B Programma J Programma K
90 95
12 17
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periodo la Germania esercitava una pressione sempre più insistente sulla Cecoslovacchia per ottenere il territorio dei Sudeti, e l'orientamento assunto inizialmente dalla Gran Bretagna e dalla Francia era stato di consentire che la Germania si impossessasse di quel territorio, pur di evitare lo scoppio di una guerra. Tuttavia, nel corso di due incontri tra il Primo ministro inglese Chamberlain e il Cancelliere tedesco Hitler, quest'ultimo avanzò richieste ancora più pesanti, e le rispettive posizioni sembrarono irrigidirsi. A questo punto vi fu un intervento di Roosevelt, che invitò i paesi coinvolti a non interrompere il negoziato e si rivolse direttamente a Hitler, perché si incontrasse in una conferenza con tutte le parti interessate. L'incontro ebbe luogo a Monaco il 29 e il 30 settembre, e coinvolse, oltre alla Germania, la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia. L'esito dell'incontro fu un accordo, che prevedeva l'occupazione graduale del territorio dei Sudeti da parte della Germania, e allontanava, momentaneamente, il rischio dello scoppio di un conflitto in Europa. Farnham ha esaminato il comportamento tenuto da Roosevelt in quei giorni. Almeno inizialmente, Roosevelt sembrava convinto del fatto che gli Stati Uniti non dovessero intervenire nelle vicende europee: a livello di politica interna questo intervento avrebbe potuto avere esiti negativi per l'immagine di Roosevelt, a livello di politica estera non avrebbe probabilmente favorito la risoluzione della crisi, e d'altra parte nell'immediato gli Stati Uniti non correvano alcun rischio a causa delle mire espansionistiche di Hitler. Questa la situazione, e la posizione assunta da Roosevelt, al momento del primo incontro tra Chamberlain e Hitler (15 settembre). Dopo il secondo incontro, a distanza di una sola settimana (22 settembre), Roosevelt cambiò idea e intervenne con un appello ufficiale; decise insomma di interrompere la politica di neutralità degli Stati Uniti nei confronti dell'Europa. Secondo Farnham, dai dati disponibili risulta evidente che in quei pochi giorni non era cambiato nulla dal punto di vista del rischio oggettivo di conseguenze negative, quindi di una perdita per gli Stati Uniti, derivanti da un'eventuale decisione di interrompere la politica di neutralità. Se si applica la teoria normativa della decisione questo cambiamento nella posizione di Roosevelt risulta in effetti inspiegabile. Diviene invece comprensibile, osserva Farnham, se si ragiona in termini di teoria del prospetto: si può infatti pensare che nell'arco di quei pochi giorni Roosevelt abbia cambiato prospettiva, e sia giunto a per-
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cepire gli stessi dati oggettivi in modo diverso, e a cambiare di conseguenza la propria decisione. Ciò che era avvenuto in quei giorni avrebbe accentuato in Roosevelt la sensazione che la situazione in Europa, indubbiamente già prima percepita come grave, fosse divenuta talmente grave da potersi trasformare, data la sua pericolosità, in una perdita molto grave anche per gli Stati Uniti. Essere giunto a questa interpretazione dei dati in termini di possibile perdita avrebbe indotto Roosevelt a prendere una decisione rischiosa (soprattutto per le possibili conseguenze a livello di politica interna) che in un primo momento aveva invece deciso di evitare. Che questo cambiamento di prospettiva ci sia effettivamente stato sembrerebbe avvalorato dall'analisi di una serie di dichiarazioni rilasciate da Roosevelt durante quei fatidici giorni. È evidente che dal punto di vista metodologico la ricerca di Farnham si presenta come molto diversa da quelle di Quattrone e Tversky sopra ricordate. Ciò che Quattrone e Tversky hanno verificato in un contesto sperimentale è stato indagato da Farnham in un contesto reale. Da un punto di vista di metodologia della ricerc a si potrebbe dire che i due approcci si collocano agli estremi opposti di un continuum, nel senso che si potrebbero ipotizzare situazioni di ricerca meno semplificate rispetto a quelle di Quattrone e Tversky, e tuttavia più controllate rispetto a quella di Farnham. Resta inteso che entrambi gli esempi di ricerca riportati offrono comunque indicazioni sulle possibilità di applicazione della teoria del prospetto al contesto politico. Ulteriori progressi in questa direzione potrebbero forse derivare dall'esame delle diverse variabili, anche extracognitive, che possono giocare un ruolo nella determinazione da parte del soggetto di ciò che è guadagno e di ciò che è perdita. L'attenzione cioè si potrebbe estendere ai diversi fattori, caratteristiche individuali, ruoli sociali, contesto in cui la decisione ha luogo, che inducono i soggetti a percepire la situazione decisionale in un modo piuttosto che in un altro, o magari a cambiare la propria percezione da un momento dato a uno successivo. -
6. L'illusione dell'elettore
Una delle decisioni più difficili da spiegare nei termini della teoria della scelta razionale è la decisione di voto. Nel momento
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in cui andiamo a votare sappiamo perfettamente che il nostro singolo voto non sarà decisivo ai fini dell'esito delle elezioni. In altre parole il costo che comporta per il soggetto la scelta di andare a votare (magari rinunciando a una domenica in montagna) è sicuramente superiore rispetto ai benefici che possono derivare al soggetto stesso da quella scelta. Questa situazione è stata definita come «paradosso del voto»: in termini di valutazione razionale, quindi di calcolo del rapporto costi/benefici, nessuno dovrebbe scegliere di andare a votare, ma è evidente che se le cose andassero in questo modo qualunque sistema democratico cesserebbe di esistere in tempi molto brevi, mentre di fatto questo non accade. Si tratta allora di spiegare perché la gente va a votare. Senza uscire dal paradigma della teoria della scelta razionale, Riker e Ordeshook [1968] hanno introdotto nella funzione di utilità un fattore D, che sta per «dovere del cittadino», in base al quale il cittadino andrebbe a votare per il piacere che gli deriverebbe dal fatto di aver seguito un importante principio etico. Anche se non è da escludere che questa possa essere la motivazione del voto, o almeno una delle motivazioni, la proposta di Riker e Ordeshook ha il limite, già rilevato per le altre assunzioni sulla natura umana della teoria della scelta razionale, di essere appunto un'assunzione, un presupposto e di non essere fondata empiricamente. È invece proprio in termini di ricerca psicologica che si potrebbe verificare quali fattori inducano di fatto i soggetti a votare. Una spiegazione del voto basata sui processi cognitivi, processi che non sono necessariamente «razionali» nel senso della teoria economica della decisione, è stata proposta da Quattrone e Tversky [1984], in una ricerca in cui è stato messo in luce un fenomeno, definito illusione del votante (voter's illusion). In base a questo fenomeno chi va a votare avrebbe una percezione illusoria particolare, quella cioè che la propria scelta possa influenzare anche quella degli altri. Vi sarebbe una sorta di pensiero magico di questo tipo: «Se io voto (o anche: Se io voto per un certo partito), aumento la probabilità che anche altri facciano come me». Insomma i soggetti vedrebbero la propria scelta di andare a votare come un indicatore, un segno del fatto che anche altri si comporteranno nello stesso modo. Accade spesso che il soggetto assuma se stesso come standard di riferimento per interpretare il comportamento degli altri: in questo caso constatare una relazione tra il proprio atteggiamen-
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to nei confronti del voto e il fatto di andare a votare indurrebbe il soggetto a ritenere che chi condivide il suo stesso atteggiamento nei confronti del voto a sua volta andrà a votare. Nella loro ricerca Quattrone e Tversky hanno assegnato casualmente un campione di soggetti a due diverse condizioni sperimentali. In entrambe le condizioni si diceva ai soggetti che dovevano immaginare di vivere in una nazione dove, di lì a poco, vi sarebbero state le elezioni e dove la scelta era limitata a due partiti, il partito A e il partito B. Si dava anche un'informazione in base alla quale ciascun partito poteva contare su 4 milioni di voti a proprio favore, mentre vi erano 4 milioni di indecisi. Si diceva poi ai soggetti che dovevano immaginare di essere dei simpatizzanti di uno dei due partiti, il partito A. A questo punto le consegne si differenziavano a seconda della condizione sperimentale a cui i soggetti erano stati assegnati: Condizione non-diagnostica. Si diceva al soggetto che, secondo l'ipotesi di esperti politologi, la vittoria dell'uno o dell'altro partito sarebbe dipesa dalla scelta degli indecisi, poiché coloro che erano già simpatizzanti di uno dei due partiti sarebbero andati a votare in percentuale più o meno simile. In questo modo si comunicava al soggetto che la singola decisione di voto, in quanto simpatizzante del partito A, non era indicativa (nondiagnostica) dell'esito che si sarebbe ottenuto, perché appunto sarebbero stati gli indecisi, e non i simpatizzanti, a determinare questo esito. Condizione diagnostica. Si diceva al soggetto che, sempre secondo le previsioni di esperti politologi, il risultato finale sarebbe dipeso dalla scelta dei simpatizzanti, ossia dalla percentuale di sostenitori dell'uno o dell'altro partito che avrebbero deciso di andare a votare. In questo modo si comunicava al soggetto che la sua singola decisione sarebbe stata indicativa (diagnostica) dell'esito del voto, perché l'esito del voto sarebbe stato determinato appunto dai simpatizzanti, cioè dalla categoria di persone nella quale rientrava anche il soggetto. Da ultimo si chiedeva a tutti i soggetti di: a) dire se sarebbero o meno andati a votare; b) stimare, su una scala a 9 punti, la probabilità che i simpatizzanti del proprio partito (per tutti il partito A) sarebbero andati a votare in percentuale maggiore rispetto ai simpatizzanti del partito B;
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e) stimare, sempre su una scala a 9 punti, la probabilità che
il partito A avrebbe battuto il partito B. I risultati hanno dimostrato che i soggetti nella condizione diagnostica sono più disposti a votare rispetto a quelli nella condizione non-diagnostica. Inoltre solo nella condizione diagnostica si osservano differenze sensibili nella stima di probabilità tra coloro che hanno deciso di andare a votare e coloro che hanno deciso di non andare a votare. I primi infatti stimano come più alta la probabilità che anche gli altri simpatizzanti del partito A sceglieranno di votare e che il partito A vincerà le elezioni (cfr. tab. 3.3). Insomma in certe circostanze il soggetto è più facilmente indotto a ritenere che il suo comportamento non sia solo segno del comportamento che può essere tenuto anche da altri, ma che ne sia in un certo senso la causa; di qui la dizione di «pensiero quasi-magico», come se appunto il soggetto, attraverso la sua scelta come singolo, potesse condizionare anche quella di altri, pur non avendo modo di farlo concretamente. La presenza di una spiegazione di matrice cognitiva non esclude il riferimento anche ad altre spiegazioni possibili. In una ricerca simile a quella di Quattrone e Tversky, Palmonari, Arcuri e Girotto [1994] hanno messo in luce un ulteriore fattore che può giocare un ruolo nella illusione dell'elettore e che contribuiTAB. 3.3. Stime della probabilità del verificarsi di vari eventi in funzione della condizione sperimentale e della decisione dei soggetti
Condizione/ Decisione del soggetto
Evento I votanti del partito A
votano più di quelli del partito B
Il partito A batte il partito B
Non-diagnostica «Voto per il partito A» «Mi astengo» Differenza
4,20 3,87 0,33
5,12 4,60 0,52
Diagnostica «Voto per il partito A» «Mi astengo» Differenza
5,81 4,13 1,68
6,06 4,09 1,97
Nota: Le stime di probabilità sono effettuate su una scala a 9 punti. Fonte: Quattrone e Tversky 11984].
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sce a spiegare la variabilità individuale nelle risposte: si tratta dell'efficacia politica, ossia della percezione di poter influenzare gli eventi politici attraverso la propria azione (su questo fattore, e sulle sue diverse componenti, si tornerà nel cap. VI, par. 7). Secondo i dati di Palmonari, Arcuri e Girotto, chi ha un alto livello di efficacia politica ha una tendenza più accentuata degli altri a sovrastimare le probabilità quando si trova in condizione diagnostica. Le due spiegazioni, quella cognitiva e quella basata su una caratteristica di tipo personale come l'efficacia politica, non sono in contrasto tra loro, ma al contrario possono integrarsi. Non è da escludere anzi che si possa integrare con queste anche una terza spiegazione, in questo caso legata a fattori di matrice sociale: si potrebbe ad esempio ipotizzare che soggetti caratterizzati da una forte identità di gruppo [Tajfel e Turner 1986], nel caso specifico una forte identità di partito, possano essere indotti a sovrastimare ulteriormente la probabilità di vittoria del proprio partito, e si potrebbe verificare come questa variabile interagisca con le altre, in particolare con il grado di efficacia politica (per le relazioni tra identità di gruppo ed efficacia politica nell'influenzare il comportamento politico cfr. cap. VI, par. 8). In conclusione potrebbe valere per la ricerca in questo campo quanto già osservato per la ricerca basata sulla teoria del prospetto: alla rilevazione di fenomeni di matrice cognitiva si potrebbe affiancare l'indagine di come questi stessi fenomeni si articolino e si modifichino sulla base dell'influenza di fattori di matrice diversa, soprattutto di matrice sociale, legati alla specifica realtà in cui ha luogo il processo decisionale. Un'indagine di questo tipo appare particolarmente opportuna nel caso delle decisioni politiche, perché tali decisioni sono, per loro stessa natura e forse più di altre, fortemente condizionate dalla rete di relazioni sociali e di potere in cui il soggetto è inserito.
Capitolo qua rt o L'orientamento ideologico e politico
Lo shetland è di sinistra, il cashmere è di destra, la doccia è di sinistra, la vasca è di destra, il chinotto è di sinistra, la Coca Cola è di destra, e così via. Molti si sono dedicati a questa specie di gioco, e l'esercizio di attribuzione all'uno o all'altro orientamento ideologico si è esteso fino a coprire le nozioni e gli oggetti più svariati. Di fatto tuttavia anche chi ha affrontato il problema seriamente, nel senso che ha cercato di individuare una serie di indicatori per misurare la presenza dell'orientamento di sinistra vs. destra, si è trovato spesso di fronte a difficoltà non indifferenti. Nel secondo capitolo si è gia accennato alla possibilità che singole conoscenze e atteggiamenti politici si organizzino nella mente intorno ad alcuni principi astratti unificanti, e tuttavia non si è entrati nel merito di quali siano questi principi. È questo il tema di cui invece si parlerà ora, e lo si farà in riferimento non solo a variabili strettamente cognitive, ma anche a variabili di altro tipo, di matrice sia individuale (ad esempio personalità, valori, motivazioni e bisogni ultimi del soggetto) sia sociale (ad esempio ruolo del soggetto, posizione di potere, contesto sociale e politico). Si vedrà in modo particolare come l'orientamento ideologico sinistra/destra sia stato studiato in relazione alla struttura di personalità dei soggetti, al loro ragionamento morale e al loro stile cognitivo. Ma si prenderanno in esame anche i contributi offerti dalla psicologia in merito ad altri principi (soprattutto i sistemi di valori) che sembrano avere una buona capacità predittiva delle specifiche posizioni politiche dei soggetti. 1. Autoritarismo
Le prime ricerche psicologiche in tema di orientamento politico hanno messo in relazione la dimensione ideologica libera-
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le-conservatore con la struttura di personalità dei soggetti, e anche in seguito questo tema è stato ampiamente indagato. Punto di riferimento quasi obbligato degli studi in questo cam- po è la ricerca di Adorno [Adorno et al. 1950] sulla personalità autoritaria. Intento iniziale di questa ricerca era di effettuare un esame psicologico approfondito del fenomeno del pregiudizio razziale, e in particolare dell'antisemitismo. L'idea di Adorno era che le convinzioni politiche, economiche e sociali di un individuo costituiscano un unico modello ampio e coerente, e che questo modello sia espressione di tendenze profonde di personalità, di disposizioni stabili dell'individuo. Conseguente- mente, nel caso specifico dell'antisemitismo, l'ipotesi era che chi nutre un pregiudizio nei confronti degli ebrei (quindi di un gruppo particolare) avrà di fatto lo stesso atteggiamento anche nei confronti di altri gruppi, perché appunto questo atteggia- mento non è legato al contesto, a fattori «esterni» all'individuo, bensì a tratti, bisogni, motivi che risiedono «all'interno» dell'in- dividuo stesso. Attraverso l'applicazione di strumenti sia strutturati (que- stionari basati su scale) che non (interviste, colloqui clinici) Adorno ha indagato quattro diverse dimensioni, nell'ipotesi di trovarle tra loro correlate. 1. Antisemitismo, misurato attraverso l'utilizzo di una scala di accordo/disaccordo rispetto ad item del tipo: «Difficilmente potrei pensare di sposare un ebreo», «Il potere e il controllo ebraico nelle questioni finanziarie è sproporzionato al numero di ebrei presenti nella popolazione totale». 2. Etnocentrismo, misurato attraverso l'accordo/disaccordo rispetto ad item come: «I negri hanno i loro diritti, ma è meglio tenerli nei loro quartieri e nelle loro scuole, ed evitare che abbiano troppo contatto con i bianchi», «Certe sette religiose che rifiutano di salutare la bandiera dovrebbero essere forzate a conformarsi a questa azione patriottica, oppure essere abolite». L'etnocentrismo è visto da Adorno come tendenza, largamente inconscia, ma inscindibilmente legata a una razionalizzazione di tipo ideologico, a valutare positivamente le caratteristiche del gruppo sociale di appartenenza, e a svalutare e respingere i gruppi esterni al proprio, in particolare quando essi si configu- rano come espressione di una minoranza, di una componente della realtà sociale giudicata più debole rispetto a quella a cui si appartiene. La spiegazione di questo fenomeno offerta da Ador-
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no è di matrice psicoanalitica: un soggetto sottoposto a un'educazione autoritaria svilupperebbe un senso di frustrazione e poi una forte aggressività e quest'ultima, invece di essere rivolta all'interno o alle figure genitoriali, verrebbe proiettata all'esterno, rivolta ad oggetti percepiti come meno minacciosi, i gruppi minoritari appunto, siano essi ebrei, neri, indiani o altro. 3. Conservatorismo politico economico, misurato attraverso l'accordo/disaccordo rispetto a una serie di affermazioni relative alla resistenza al mutamento sociale, al sostegno dello status quo, alla difesa dei valori conservatori, a idee concernenti l'equilibrio di potere tra il mondo degli affari, i lavoratori e il governo. 4. Tendenze antidemocratiche e fascismo potenziale, misurati attraverso la cosiddetta scala F, con la quale si passa dal piano dell'ideologia a quello della personalità. La scala misura infatti le tre principali disposizioni che costituirebbero la personalità autoritaria: convenzionalismo, ossia l'adesione rigida a valori convenzionali propri della classe media; sottomissione all'autorità, ossia una forma di rispetto acritico, non realistico e su base emozionale, nei confronti di autorità morali idealizzate dal proprio gruppo di appartenenza; aggressività autoritaria, ossia l'ostilità nei confronti di coloro che violano valori convenzionali e norme prevalenti. A partire dal lavoro di Adorno, sono stati molto numerosi gli studi che hanno indagato l'autoritarismo come dimensione di personalità, e gli sviluppi della ricerca in questo campo hanno riguardato in particolare la messa a punto di scale intese a superare i limiti metodologici rilevati nella scala F, tra questi il fatto che gli item rispetto ai quali esprimere il grado di accordo/ disaccordo fossero tutti formulati nella stessa direzione, come affermazioni coerenti con l'autoritarismo, fatto che poteva favorire la comparsa di risposte acquiescenti da parte dei soggetti. Una scala che ovvia a questo limite, ed è oggi ampiamente utilizzata, è la Right Wing Authoritarianism Scale (RWA), proposta per la prima volta da Altemeyer nel 1981 e successivamente aggiornata nel 1988. La scala, presentata nella tabella 4.1, comprende una serie di affermazioni relative a temi come la famiglia, la religiosità, la moralità e il ruolo della donna, affermazioni che i soggetti sono richiesti di valutare su una scala a 6 punti di accordo/disaccordo. Questa scala è sicuramente più attendibile rispetto alla scala F e tuttavia anch'essa, come altre analoghe, non è esente da critiche. Spesso si pone in evidenza -
-
TAB. 4.1. Altemeyer's RWA (Right-Wing Authoritarianism Scale) (1981) 1. Le leggi devono essere rigorosamente rispettate se vogliamo preservare il nostro modo di vita. *2. La gente dovrebbe dedicare minore attenzione alla Bibbia e alle altre vecchie forme tradizionali di orientamento religioso, e sviluppare invece i propri standard personali in merito a ciò che è immorale e a ciò che non lo è. 3. Le donne dovrebbero sempre ricordare la promessa, fatta durante la celebrazione del matrimonio, di obbedire ai loro mariti. 4. I nostri costumi e il nostro patrimonio nazionale sono ciò che ci ha resi grandi, e certe persone dovrebbero essere obbligate a mostrare più rispetto per essi. *5. La pena capitale dovrebbe essere completamente abolita. *6. Gli inni nazionali, le bandiere e la glorificazione della propria nazione dovrebbero essere smitizzati per promuovere la fratellanza tra tutti gli uomini. 7. I dati relativi al crimine, l'immoralità sessuale, e i recenti disordini pubblici mostrano che dobbiamo imporci di più sui gruppi devianti se vogliamo salvaguardare i nostri standard morali e preservare la legge e l'ordine. *8. Molte delle regole della nostra società relative al pudore e al comportamento sessuale sono solo costumi che non sono necessariamente migliori o più lodevoli di quelli che seguono altre persone. *9. Le nostre prigioni sono un'autentica disgrazia. I criminali sono persone sfortunate che meritano un trattamento molto migliore, invece di una punizione così pesante. 10. Obbedienza e rispetto per l'autorità sono le virtù più importanti che i bambini dovrebbero imparare. *11. Organizzazioni come l'esercito e il clero hanno un effetto decisamente negativo sugli uomini, perché richiedono stretta obbedienza ai comandi dei superiori. 12. Un buon modo di insegnare a certe persone a distinguere il bene dal male è dare loro una punizione dura quando escono dal seminato. *13. Bisognerebbe insegnare ai giovani a rifiutarsi di combattere in una guerra a meno che non condividano l'idea che la guerra sia giusta e necessaria. 14. Potrà essere considerato fuori moda da alcuni, ma avere un aspetto decente e rispettabile è ancora il segno distintivo di un vero signore e, ancor più, di una vera signora. 15. In questi tempi difficili le leggi devono essere applicate senza indulgenza, specialmente quando si ha a che fare con gli agitatori e i rivoluzionari. *16. Gli atei e altri che si sono ribellati alle religioni di Stato sono di sicuro altrettanto buoni e virtuosi rispetto a chi va in chiesa regolarmente. 17. Qualche volta i giovani hanno idee ribelli, ma man mano che crescono dovrebbero passare oltre e arrivare a una stabilità. *18. Le regole legate all'educazione e alla rispettabilità sono catene del passato che dovrebbero essere sottoposte ad attenta critica prima di essere accettate. *19. I tribunali hanno ragione a essere indulgenti con chi compie reati per droga. In casi del genere la punizione non è per niente utile. 20. Se un bambino comincia a essere un po' troppo fuori dal comune, i suoi genitori dovrebbero darsi da fare affinché egli rientri nell'ambito dei normali canoni proposti dalla società. 21. Essere indulgenti nei confronti di fannulloni e criminali li incoraggia solamente ad approfittare della debolezza altrui, quindi è meglio utilizzare una mano ferma e dura quando si ha a che fare con loro. *22. Il «posto di una donna» dovrebbe essere dovunque la donna voglia essere. I tempi in cui le donne erano sottomesse ai loro mariti, così come le convenzioni sociali, appartengono chiaramente al passato. *23. Gli omosessuali sono semplicemente buoni e virtuosi come chiunque altro, e non c'è niente di male a essere uno di loro. 24. Si può anche porre in discussione e dubitare di qualcuno durante una campagna elettorale ma, una volta che un uomo diviene il leader della nostra nazione, gli dobbiamo il massimo del nostro sostegno e della nostra lealtà. Nota: Ciascun item viene valutato su una scala a 6 punti, che va da «fortemente d'accordo» a «fortemente in disaccordo». Gli item con un asterisco sono invertiti rispetto al livello di autoritarismo.
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che scale di questo tipo si presentano come fortemente legate a contenuti specifici, e sono quindi molto connotate sul piano culturale e storico. Ma la discussione investe anche, in termini più generali, lo stesso costrutto di autoritarismo: si è osservato in particolare che si tratta di un costrutto troppo ampio, comprensivo di molte componenti, e quindi non ben definito, e non a caso alcuni autori hanno proposto di restringere molto il significato del termine, come è il caso di Ray [1976], che l'ha ridotto a definire il desiderio di leadership. Ciò che tuttavia più interessa discutere in questa sede è il legame tra autoritarismo e orientamento politico. Oltre che come misura della personalità autoritaria, la scala F era stata proposta da Adorno come misura dell'orientamento politico di destra (F sta appunto per Fascismo potenziale). Di fatto la presenza di un legame tra i due fattori può essere messa in discussione già a partire dagli stessi risultati ottenuti da Adorno, che avevano si identificato una correlazione tra autoritarismo e ideologia di destra, ma non particolarmente alta. A ciò si aggiunga che i dati della ricerca di Adorno, come di ricerche successive, sono stati raccolti in paesi, come gli Stati Uniti e l'Inghilterra, nei quali i soggetti di sinistra costituivano una minoranza con caratteristiche abbastanza omogenee, in particolare un livello elevato di istruzione e di preparazione politica, che già di per sé risultano inversamente correlate all'autoritarismo. Di conseguenza il legame trovato tra autoritarismo e orientamento di destra potrebbe essere stato amplificato dall'influenza di altre variabili, come appunto l'istruzione. A conferma di ciò vi è il fatto che studi effettuati in paesi diversi (ad esempio l'ex Unione Sovietica) hanno ottenuto risultati in parte discordanti rispetto a quelli di Adorno, al punto che si è giunti a ipotizzare la presenza, oltre che di un «autoritarismo di destra», anche di un «autoritarismo di sinistra». Ne è derivato un generale ripensamento degli studi psicologici sull'orientamento politico: la ricerca si è spostata verso altri tratti di personalità, ma anche verso nozioni di altro tipo, come il sistema di valori a cui il soggetto fa riferimento, per verificarne il rapporto con gli orientamenti politici. È di questo che ci occuperemo nei due paragrafi che seguono.
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2. Orientamento alla dominanza sociale
1. Alcuni gruppi di persone sono semplicemente non uguali ad altri. 2. Alcune persone sono semplicemente più meritevoli di altre. 3. Questo paese sarebbe più ricco se ci preoccupassimo meno della questione dell'uguaglianza. 4. Alcune persone sono semplicemente più degne di altre. 5. Non è un problema se alcune persone hanno più opportunità nella vita di altre. 6. Alcune persone sono semplicemente inferiori ad altre. 7. Per andare avanti nella vita qualche volta è necessario calpestare gli altri. 8. Maggiore uguaglianza economica. 9. Maggiore uguaglianza sociale. 10. Uguaglianza. 11. Se le persone fossero trattate in modo più egualitario avremmo meno problemi in questo paese. 12. In un mondo ideale tutte le nazioni sarebbero uguali. 13. Tutti gli esseri umani dovrebbero essere trattati nello stesso modo. 14. È importante che trattiamo gli altri paesi come uguali a noi. Si provi ad attribuire un punteggio agli item sopra elencati, a partire dalla sensazione suscitata da ciascuno di essi e sulla base di una scala da 1 (sensazione molto negativa) a 7 (sensazione molto positiva). La somma dei punteggi attribuiti agli item 17 diminuita della somma dei punteggi agli item 8-14 ci consentirà di sapere qual è il nostro grado di «orientamento alla dominanza sociale» (social dominante orientation). Questa variabile di personalità, diversa rispetto all'autoritarismo, si ritiene possa essere predittiva degli atteggiamenti politici ed è stata definita di recente da Pratto [Pratto et al. 1994]. Il punto di partenza di Pratto è che nel mondo esiste, da sempre, come dimensione imprescindibile e ubiquitaria della vita sociale, il conflitto tra gruppi. Allo scopo di ridurre il conflitto, e di evitare che questo diventi esplosivo (e quindi rischioso per la sopravvivenza della società stessa), le società tendono a creare dei miti di legittimazione della superiorità di un gruppo
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sull'altro. Pregiudizio etnico, nazionalismo, superiorità sessuale, conservatorismo politico-economico sono alcuni dei miti che enfatizzano l'esistenza di una gerarchia tra le persone, e quindi la disuguaglianza: ad esempio chi è conservatore aderisce al capitalismo e alla meritocrazia, sostiene idee condivise, legittime, connotate positivamente, in base alle quali è normale che alcuni riescano meglio di altri, e che quindi non vi sia completa uguaglianza e parità tra le persone. Chi aderisce a questi miti (o teorie o ideologie) giustifica dunque in modo aprioristico la prevalenza di alcuni su altri. Esistono tuttavia anche miti di diverso tipo, che enfatizzano l'uguaglianza anziché la disuguaglianza, e il cristianesimo ne è un esempio. Pratto si è proposto di studiare i fattori psicologici che inducono all'accettazione o al rifiuto di questi miti o ideologie, e ha ipotizzato che tra questi fattori vi sia, e sia misurabile attraverso indici adeguati, una variabile di personalità denominata appunto social dominance orientation (SDO), consistente in sostanza nel grado in cui il soggetto desidera che il proprio gruppo di appartenenza (ingroup) sia superiore ai gruppi esterni al proprio (outgroups). Il costrutto presenta alcune analogie rispetto alla nozione di autoritarismo, ma se ne differenzia rispetto ad alcuni punti importanti: 1. mentre l'autoritarismo, almeno nella sua versione originaria, è visto come una tendenza legata a una patologia dello sviluppo, la SDO è vista come una tendenza umana normale; 2. a differenza dell'autoritarismo, la spiegazione che viene data per la SDO non è in chiave evolutiva né basata su processi psicodinamici; 3. mentre l'autoritarismo è definito come un desiderio di dominio individuale, la SDO è definito come desiderio di dominio di uno o più gruppi su altri; 4. rispetto all'autoritarismo, la SDO è un costrutto più limitato e quindi più chiaramente definibile. Le diverse componenti che solitamente vengono fatte rientrare nella nozione di autoritarismo, come il conservatorismo politico-economico, vengono prese in esame da Pratto come miti di legittimazione, quindi come contenuti specifici legati a un contesto sociale particolare. Questi miti vengono sl misurati, ma separatamente rispetto al costrutto SDO, che si riferisce sostanzialmente solo alla questione generale dell'uguaglianza-disuguaglianza, e in quanto tale viene misurato.
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I 14 item della scala di misura della SDO sono stati presentati all'inizio di questo paragrafo. Come si sarà già rilevato, le frasi su cui i soggetti vengono richiesti di esprimere il loro grado di accordo/disaccordo sono molto semplici ed essenziali, e il più possibile prive di riferimenti connotati culturalmente. A testimonianza della validità e utilità di questa scala, Pratto l'ha sottoposta a diverse verifiche, e ha rilevato che essa risulta correlata con le diverse scale di autoritarismo, senza tuttavia essere a queste sovrapponibile. Inoltre, ciò che più interessa sottolineare in questa sede, il punteggio sulla scala risulta correlato a molti atteggiamenti nei confronti di temi che hanno rilevanza politica, come la pena di morte, l'ergastolo, i diritti delle donne, i matrimoni omosessuali, le normative razziali, i programmi di spesa militare e i provvedimenti legati alla difesa dell'ambiente. Nella definizione di orientamento alla dominanza sociale come desiderio di dominio non dell'individuo in quanto tale, bensì di uno o più gruppi ai quali l'individuo appartiene (punto 3) precedente) si rileva un'apertura alla dimensione sociale che non era presente nella definizione di autoritarismo, e che tuttavia rimane parziale. Da un lato infatti la SDO è una variabile di personalità nella quale la percezione di appartenenza al gruppo gioca un ruolo fondamentale (cfr. il peso rispettivo di identità personale e identità sociale nella costruzione dell'identità secondo Tajfel e Turner [1986], cap. VI, par. 1). Dall'altro però la SDO è pur sempre una variabile di personalità e, proprio in quanto tale, è stata finora definita da Pratto in modo essenzialmente indipendente dalla situazione e dal contesto in cui viene misurata. Proprio questo fatto può probabilmente spiegare perché questa variabile, che si è rivelata — come si è detto — buon predittore degli atteggiamenti politici, non si sia rivelata, almeno finora, altrettanto buon predittore dei comportamenti politici: è evidente infatti che la previsione del comportamento difficilmente può prescindere da una considerazione del contesto sociale in cui il comportamento o, meglio, l'azione ha luogo. 3. II sistema dei valori
Un altro modo di indagare i fondamenti degli orientamenti politici è quello di metterli in relazione non con variabili di personalità, bensì con il sistema di valori del soggetto. I valori
ideologico
ideologico e politico 109 e L'orientamento politico
costituiscono gli scopi che il soggetto persegue con le sue scelte e i suoi comportamenti, e tali scelte non riguardano solo la sfera strettamente politica, ma anche altre, come la morale o la religione. Secondo Rokeach [1973], un autore che costituisce un punto di riferimento obbligato degli studi in questo campo, soggiacenti a tutte le ideologie politiche è possibile trovare alcuni valori di base (core o terminal values), come l'uguaglianza sociale, l'efficienza economica, la libertà individuale, e sono questi valori che connotano gli obiettivi ultimi di qualunque azione politica. Rispetto a un costrutto come l'autoritarismo, osserva Rokeach, i valori hanno il vantaggio di poter essere rilevati in modo meno ambiguo e meno condizionato storicamente e culturalmente. La ricerca psicologica si dedica da tempo allo studio dei valori, e proprio a Rokeach si deve la messa a punto di una scala gerarchica dei valori che è stata ampiamente utilizzata dalle ricerche successive. A questa scala si è riferito Tetlock [1986], un autore secondo il quale i conservatori differirebbero dai progressisti sia per i valori terminali di riferimento sia per il grado in cui ammettono l'esistenza di un possibile conflitto tra questi valori. L'ipotesi di Tetlock è che per i conservatori, soprattutto se estremisti, alcuni valori sarebbero chiaramente dominanti su altri, e questa gerarchia ben definita faciliterebbe la loro presa di posizione rispetto a molti problemi politici: così i conservatori non avrebbero esitazioni a sostenere le politiche di governo che promuovono la libertà economica individuale (ad esempio riduzione delle tasse), ma al contempo riducono l'uguaglianza sociale (ad esempio minore redistribuzione dei redditi). I progressisti sperimenterebbero invece un maggiore conflitto tra valori e, almeno nelle democrazie occidentali, questo conflitto raggiungerebbe il massimo nei soggetti di centro-sinistra. Per questi soggetti infatti i valori della libertà economica individuale e dell'uguaglianza sociale sarebbero caratterizzati da una forza molto simile, e questo renderebbe spesso conflittuale la loro presa di posizione rispetto a specifici temi politici (come appunto la redistribuzione dei redditi). A sua volta il conflitto, o meglio il tentativo di risolverlo attraverso la conciliazione di valori contrapposti, avrebbe come esito il ricorso a strategie di ragionamento e soluzioni politiche più complesse e più articolate in questi soggetti rispetto ad altri (su quest'ultimo aspetto della ricerca di Tetlock si tornerà nel par. 5).
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L'orientamento ideologico e politico
L'orientamento ideologico e politico
Da Rokeach in poi, molti sono gli studi che si sono proposti di indagare quali sono i valori e i sistemi di valori che vengono utilizzati dai soggetti come principi guida della loro vita, nelle varie sfere che le sono proprie, compresa quella politica. Spesso si è trattato di studi crossculturali, che si propongono di individuare le componenti invarianti, e non, nel sistema di valori delle persone. Una teoria relativa sia ai contenuti dei valori sia alle relazioni di compatibilità/incompatibilità tra essi esistenti è stata proposta da Schwartz [1992], e merita sicuramente di essere menzionata per il numero considerevole di verifiche empiriche cui è stata sottoposta e per l'accuratezza dell'impianto metodologico utilizzato per effettuare tali verifiche. La teoria ha pretese di universalità; in qualche modo cioè gli specifici sistemi di valori che caratterizzano le varie culture, o le varie categorie di persone all'interno di una stessa cultura, sarebbero tutti riconducibili al sistema prototipico identificato da Schwartz. La modalità di indagine utilizzata da Schwartz è relativamente semplice, nel senso che viene proposto ai soggetti un elenco di valori, e si chiede loro di valutare l'importanza che essi attribuiscono a ciascuno di essi come principio guida della loro vita; dopodiché vengono effettuate delle analisi a partire dalle correlazioni tra i diversi punteggi, così da stabilire il grado di vicinanza/distanza percepita tra i valori. Schwartz ha, nell'arco di alcuni decenni, effettuato ricerche in 20 diversi paesi del mondo, ed è giunto in questo modo a definire un elenco di 56 valori raggruppabili in 10 tipi distinti. Nel modello schematizzato nella figura 4.1 è possibile ritrovare non solo i 10 tipi di valori, ma anche le relazioni di compatibilità/incompatibilità che li legano: valori situati in quadranti opposti sarebbero infatti chiaramente in conflitto tra loro, mentre valori situati in quadranti adiacenti sarebbero tra loro compatibili. Come si vede nella figura 4.1, i valori sono organizzati in uno spazio bidimensionale. La prima dimensione Apertura al cambiamento vs. Conservazione oppone valori come l'Autodirezione e la Stimolazione a valori come la Tradizione e la Sicurezza. La seconda dimensione Autotrascendenza vs. Autoaffermazione? oppone valori come l'Universalismo e la Benevolenza a valori come il Potere e il Successo. Mentre si rimanda alla letteratura specifica per una presentazione più dettagliata del modello e della sua validazione [Schwartz 1992; Schwartz e Sagiv 1995], ci si limita qui a rileva-
re che alcuni di questi valori si sono dimostrati predittivi di molte posizioni politiche dei soggetti, e in questa direzione la ricerca potrebbe ulteriormente progredire. Si è visto così che la maggiore importanza attribuita a valori come sicurezza nazionale e ordine sociale (valori di Sicurezza) è spesso tipica dei sostenitori dei partiti conservatori, mentre la maggiore importanza attribuita a valori come mondo in pace e uguaglianza (valori di Universalismo) è tipica dei sostenitori dei partiti socialisti e comunisti; si è visto inoltre che questi tipi di valori non sono molto correlati tra loro. Anche se, come si è detto, nella teoria di Schwartz l'accento viene posto sull'universalità e sulla prototipicità, quindi sugli aspetti comuni alle diverse culture, ciò non preclude la possibi_No
^,^ ^e ^
Q
o
a^ Autodirezione Universalismo
Stimolazione
Benevolenza
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Edonismo
Successo
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Sicurezza Potere
—
—
—
111
Vo
—
FIG. 4.1. Modello della struttura di relazioni esistenti tra i diversi tipi di valori.
Fonte: Bardi e Schwartz [1996].
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L'orientamento ideologico e politico
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sto non significa che non si rilevino variazioni, sia nel sistema Età di un utilizzo diverso della teoria, nel quale si ponga invece l'accento sugli aspetti che differenziano ad esempio una cultura dei valori sia nei loro legami con gli orientamenti politici, in o un paese da un altro. Anche dal punto di vista del rapporto contesti diversi (ché anzi queste variazioni ci sono, come si è con la sfera politica, ciò implica un interessante rovesciamento appena visto nel caso dei paesi dell'Est europeo). Significa semdi prospettiva (che piacerebbe agli scienziati della politica...), in plicemente che si comincia ormai a disporre di una buona base base al quale ciò che viene studiato non è più come il sistema di di partenza per poter cogliere sia gli aspetti costanti che gli valori può influenzare le posizioni politiche dei soggetti, bensì aspetti variabili nei principi e negli scopi soggiacenti alle posizioni politiche dei soggetti. come il sistema politico nel quale il soggetto vive possa influen- zare il suo sistema di valori. Questa è proprio la prospettiva nella quale si sono collocati Bardi e Schwartz [1996], in un lavoro in cui hanno indagato la struttura del sistema di valori in 4. Orientamento politico e ragionamento morale otto paesi dell'Europa dell'Est, e hanno spiegato alcune deviazioni sistematiche da loro rilevate rispetto alla struttura prototipica Ricondurre l'orientamento politico al sistema di valori del (quella riportata nella fig. 4.1) sulla base del tipo di regime soggetto significa vedere le diverse sfere presenti nella sua vita, politico che ha caratterizzato per lungo tempo quei paesi rispet- quella politica appunto, ma anche quella sociale, quella morale, to ad altri. Nella struttura prototipica, confermata dalle ricerche quella religiosa come tutte collegate tra loro, collegate appunto effettuate in diversi paesi, i valori del mondo in pace, della da un unico sistema di valori. Sui rapporti tra politica e morale giustizia sociale e dell'uguaglianza (valori di Universalismo) sono vale la pena di soffermarsi ulteriormente, anche perché il tema è opposti ai valori di ordine sociale e sicurezza nazionale (valori di tra quelli oggetto di vivace dibattito nell'ambito delle discipline Sicurezza); questo non accade invece in diversi paesi dell'Europa politologiche. In psicologia esso è stato indagato soprattutto in dell'Est, come la Polonia e la Romania, dove questi valori risul- merito a una questione particolare, quella dei rapporti tra orientano tra loro compatibili. tamento politico e sviluppo del ragionamento morale. Il fatto di aver rilevato una deviazione così sistematica ri- Supponiamo che mi venga proposto il seguente dilemma spetto alla struttura prototipica ha indotto Bardi e Schwartz a morale: cercare una spiegazione nel regime politico comunista di quei In Europa, una donna era prossima alla morte a causa di una rara paesi. Tale regime avrebbe in qualche modo favorito l'affermar- forma di cancro. Esisteva una medicina che, secondo i dottori, avrebbe si nei soggetti della convinzione che la difesa della propria na- potuto salvarla. Si trattava di una sostanza che un farmacista, residente zione possa coincidere con la difesa di valori, come la pace nel nella stessa città della donna, aveva scoperto di recente. La medicina era mondo o l'uguaglianza, di cui la propria nazione si fa baluardo costosa da realizzare, ma il farmacista pretendeva dagli acquirenti una cifra e che rischierebbero altrimenti di essere perduti. Un ulteriore dieci volte più alta rispetto al prezzo di costo. Pagava 200 dollari per la indizio a favore di questa spiegazione, legata al particolare regi- sostanza-base della medicina e richiedeva 2.000 dollari in cambio di una me politico di quei paesi, verrebbe dal fatto che, in quegli stessi piccola dose di essa. Il marito della donna malata, un uomo di nome Heinz, paesi, coloro che si conformano alla struttura prototipica dei si era rivolto a tutti quelli che conosceva per avere in prestito i soldi della medicina, ma era riuscito a raccogliere solo 1.000 dollari, quindi la metà valori sono solo coloro che si presentano come oppositori del della cifra necessaria. Heinz aveva detto al farmacista che sua moglie stava regime comunista. m orendo, e gli aveva chiesto di p poter acquistare la medicina a un prezzo q P In conclusione si può dire che, a partire dal lavoro di Ador- minore, oppure di avere la possibilità di pagare in un secondo tempo. Ma no sull'autoritarismo, la ricerca sui principi organizzatori degli il farmacista aveva risposto: «No, io ho scoperto la medicina e quindi atteggiamenti politici ha sicuramente compiuto significativi pas- voglio ricavarne del denaro». Così Heinz arrivò alla disperazione e finì per si avanti, forse soprattutto grazie allo sviluppo della ricerca sui penetrare nel negozio del farmacista per rubargli la medicina [Kohlberg valori, della possibilità di misurarli adeguatamente e di rilevarne 1969, 379]. le costanti in culture e contesti storici e politici differenti. Que-
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L'orientamento ideologico e politico
Diverse sono le considerazioni che è possibile fare e gli interrogativi che è possibile porsi nel decidere come risolvere un dilemma morale di questo tipo. Ad esempio: a) «Heinz è disposto a rischiare che qualcuno gli spari prendendolo per un rapinatore, o a rischiare di andare in prigione, in cambio della pura e semplice possibilità che rubare la medicina possa essere di aiuto alla moglie?». b) «Nel prendere una decisione bisogna valutare se le leggi vigenti nella comunità verranno rispettate». c) «A partire da quali valori si stabilisce come le persone debbano agire le une nei confronti delle altre?». In base alla sequenza dei livelli di sviluppo del ragionamento morale descritta da Kohlberg [1963; 1976], le tre frasi riportate sopra sono esemplificative di livelli diversi di ragionamento. La frase a) è tipica di chi si trova a un livello preconvenzionale di sviluppo morale, nel quale le regole sono percepite come qualcosa di esterno al soggetto, qualcosa che comporta delle conseguenze (premi, punizioni) e a cui quindi è necessario conformarsi. La frase b) è tipica del livello convenzionale: i soggetti si conformano alle regole socialmente approvate. Le norme non sono più considerate come qualcosa di esterno a sé, ma al contrario vengono attivamente sostenute e giustificate. Esiste insomma la preoccupazione non solo di conformarsi al proprio ordine sociale, ma anche di conservare, sostenere e giustificare questo ordine; ciò perché il soggetto si è identificato con le autorità e le norme sociali. Infine la frase c) è tipica del livello postconvenzionale: a questo livello i soggetti possiedono delle norme morali legate a un sistema di principi astratti e di valori universali. Muovendo verso una prospettiva più ampia di quella della propria cerchia sociale, il soggetto identifica la moralità con la giustizia, con il riconoscimento dei diritti degli altri. Vi è una spinta verso principi morali autonomi, che abbiano validità e applicazione indipendentemente dall'autorità dei gruppi e/o persone che li difendono. Supponiamo ora che si trovi, e di fatto lo si è trovato, un legame fra questi tre livelli di ragionamento morale e orientamento politico, nel senso che le risposte del livello convenzionale si osservano più di frequente nei conservatori e quelle del livello postconvenzionale si osservano più di frequente nei progressisti. Come può essere interpretato questo legame? Consideriamo tre diverse possibilità.
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1. Lo sviluppo morale influenza l'orientamento politico. Questa interpretazione è coerente con l'approccio cognitivo-evolutivo proprio del modello di Kohlberg, in base al quale vi è una sequenza invariante di stadi dello sviluppo morale, e il passaggio da uno stadio a quello successivo è reso possibile solo da una maturazione delle capacità di ragionamento. Di conseguenza, se si osserva che le risposte prevalenti nei conservatori corrispondono a uno stadio «inferiore» rispetto a quelle prevalenti nei progressisti, si può concludere che l'orientamento politico (conservatore o progressista) è condizionato dal livello di ragionamento morale raggiunto dal soggetto. 2. L'orientamento politico influenza il ragionamento morale.
Secondo questa interpretazione il tipo di ragionamento morale che utilizziamo non dipende dal nostro livello di sviluppo, bensì dalle ideologie politiche che possediamo. 3. Vi è una dimensione soggiacente sia all'orientamento politico che al ragionamento morale. Con un'interpretazione di questo tipo si rinuncia a individuare la direzione del legame causale tra i due fattori. Entrambi vengono fatti rientrare in un'unica dimensione, definibile come orientamento o ideologia politicomorale: questa dimensione orienterebbe il ragionamento e le scelte del soggetto sia in ambito politico che in ambito morale. Emler, Renwick e Malone [1983] hanno effettuato una ricerca nell'intento di dimostrare la maggiore plausibilità delle ipotesi 2) o 3) sopra ricordate rispetto all'ipotesi 1). Inizialmente hanno misurato, mediante una scala di conservatorismo/progressismo, l'orientamento politico di un campione di soggetti, e su questa base li hanno suddivisi in tre gruppi: conservatori, moderati e progressisti. Quindi hanno sottoposto a tutti i soggetti una serie di sei dilemmi morali [Rest 1975] (uno di questi è il dilemma presentato all'inizio di questo paragrafo) e hanno chiesto loro di valutare, su una scala a 5 punti, l'importanza che una serie di affermazioni o interrogativi (si vedano le tre frasi di esempio riportate sempre all'inizio di questo paragrafo) potevano avere nella loro presa di decisione rispetto a ciascun dilemma. Questo compito di valutazione doveva essere effettuato da ciascun soggetto più volte, una volta in base alla propria personale prospettiva, una seconda volta mettendosi nei panni di un conservatore estremista e una terza volta mettendosi in quelli di un progressista estremista (l'ordine delle tre richieste era controbilanciato in modo da evitare effetti dovuti alla sequenza delle richieste stes-
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se). Si è indagata in tal modo la capacità dei soggetti di predire il ragionamento morale di persone con orientamenti politici contrastanti rispetto ai propri. In particolare si intendeva verificare se i soggetti del gruppo dei conservatori, che prevedibilmente nella propria prospettiva avrebbero utilizzato soprattutto un ragionamento di livello convenzionale, sarebbero riusciti, su richiesta, a riprodurre anche il ragionamento prevalente nei progressisti, quello cioè del livello postconvenzionale. In caso affermativo, ciò avrebbe costituito una smentita dell'approccio cognitivo-evolutivo di Kohlberg, in base al quale non si possono comprendere o riprodurre risposte di un livello di ragionamento superiore al proprio. Dai risultati è emersa anzitutto una conferma ulteriore del fatto che conservatori e progressisti tendono a dare risposte che si collocano a due livelli diversi della sequenza di sviluppo proposta da Kohlberg, ma soprattutto è emerso che i conservatori sono in grado di riprodurre, se richiesti, le risposte prevalenti dei progressisti. Nella tabella 4.2 sono riportati i punteggi ottenuti nelle risposte ai dilemmi morali dai tre gruppi di soggetti (conservatori, moderati, progressisti) a seconda della prospettiva in cui erano stati richiesti di collocarsi (la propria, quella di un progressista estremista e quella di un conservatore estremista). Più il punteggio è alto più le risposte dei soggetti riflettono un ragionamento di livello postconvenzionale. Dai dati della tabella emerge in modo evidente che vi è una notevole somiglianza nei punteggi medi di tutti e tre i gruppi quando si collocano nella stessa prospettiva politica. Ciò significa che anche chi non si colloca in una certa prospettiva è in grado di simulare la risposta di chi invece si colloca in quella prospettiva. Questo avviene in tutti i casi, compreso quello del conservatore che si colloca nella prospettiva del progressista e quindi, secondo la sequenza di sviluppo proposta da Kohlberg, è richiesto di dare una risposta di un livello superiore rispetto al proprio. Si potrebbe obiettare che, nel momento in cui i soggetti vengono richiesti di rispondere in una prospettiva politica opposta alla propria, essi siano indotti dalla richiesta a scegliere semplicemente una risposta diversa rispetto a quella per loro spontanea; tuttavia questa obiezione viene smentita dal comportamento dei moderati, che si trovano in posizione intermedia tra conservatori e progressisti, e che hanno mostrato di saper modificare stabilmente e coerentemente le proprie risposte nella direzione
L'orientamento ideologico e politico
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TAB. 4.2. Effetti della prospettiva (propria vs. progressista estremista o conservatore-
estremista) sui punteggi medi ottenuti nelle risposte ai dilemmi morali Orientamento
Prospettiva
del
Propria
soggetto Di destra
Moderato Di sinistra
11 12
11 13 13 13
18,64 18,30 20,82 21,23 32,30 30,36
Progressista Conservatore 31,55 28,18 27,30
14 12,54 11,57
Significatività dei confronti
(p <)
0,002 n.s. 0,01 0,001 n.s. 0,001
Fonte: Emler, Renwick e Malone [19831.
ideologica di volta in volta richiesta, risposte convenzionali quando si identificano con i conservatori, risposte postconvenzionali quando si identificano con i progressisti. Se soggetti che normalmente danno risposte di livello convenzionale sono in grado di simulare anche le risposte di soggetti che ragionano a un livello postconvenzionale, si può concludere, osservano Emler, Renwick e Malone [1983], che la differenza tra ragionamento convenzionale e postconvenzionale non è tanto una differenza di struttura del ragionamento, legata a capacità cognitive che aumentano con lo sviluppo (come propone Kohlberg), quanto una differenza di contenuti, legata all'orientamento ideologico dei soggetti. L'ideologia progressista è tipicamente antitetica allo status quo; di conseguenza coloro che condividono tale ideologia saranno più orientati a riferirsi a principi morali generali piuttosto che a norme e convinzioni approvate socialmente, e ciò li indurrà ad adottare un ragionamento che rientra molto bene nella definizione di ragionamento postconvenzionale offerta da Kohlberg [1976]. Al contrario l'ideologia conservatrice è tipicamente incline al mantenimento della tradizione e dello status quo; di conseguenza chi vi aderisce tenderà a promuovere argomenti coerenti con le regole e le norme vigenti nella società in cui vive, e a ragionare quindi al livello convenzionale descritto da Kohlberg. Di fatto questo tipo di conclusione non implica una critica radicale e completa a una prospettiva evolutiva nello studio del ragionamento morale. A dire degli stessi Emler, Renwick e Malone, si può anche pensare ai primi stadi descritti da Kohlberg [1963; 19761 come a una sequenza di tipo evolutivo ma, quando
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si arriva agli stadi più elevati (in particolare al passaggio dallo stadio 4 allo stadio 5) non si tratterebbe più solo di una questio- ne cognitivo-evolutiva, bensì di una questione connotata ideo- logicamente e legata a uno specifico contesto. La difficoltà, incontrata dallo stesso Kohlberg [1976], nell'individuare sog- getti che si collocano agli stadi più elevati della sua sequenza di sviluppo può essere indicativa del fatto che a questi stadi inter- vengono fattori che non sono solo di tipo evolutivo. Insomma, a parere di Emler, Renwick e Malone, una prospet- tiva esclusivamente cognitivo-evolutiva non sembra adeguata a spiegare né il ragionamento morale né l'orientamento politico. Più che parlare dell'influenza della morale sulla politica o vice- versa, può essere opportuno ipotizzare l'esistenza di un'unica dimensione politico-morale soggiacente agli atteggiamenti dei soggetti. Se ci si pone in questa prospettiva, l'attenzione si può spostare sull'indagine dei fattori, soprattutto di matrice sociale (ad esempio i rapporti con la famiglia, con la scuola, con l'auto- 6-Là in genere) che possono favorire in un soggetto lo sviluppo di una certa ideologia politico-morale piuttosto che di un'altra. 5. Orientamento politico e stile cognitivo
Oltre che con il ragionamento morale, l'orientamento politico conservatore-progressista è stato messo in relazione anche con lo stile cognitivo dei soggetti. Tetlock e collaboratori hanno effettuato una serie di ricerche su questo tema [per una rassegna cfr. Tetlock 1993], basate sull'analisi di testi di contenuto poli- tico prodotti dai soggetti. Se nelle prime ricerche i testi analizza- ti derivavano dalla richiesta, rivolta ai soggetti, di completare una serie di frasi proposte dallo sperimentatore, successivamen- te le ricerche si sono estese a includere testi di vario tipo, spesso derivanti da ricerche di archivio, tra questi alcuni discorsi di uomini politici sia contemporanei (ad esempio Gorbaciov) sia del passato (ad esempio Churchill). Quale misura dello stile cognitivo, Tetlock e collaboratori hanno utilizzato il cosiddetto di complessità integrativa, che deriva dalla combinazione g p di due diversi fattori rilevabili nel testo: — il grado di differenziazione, ossia il numero di dimensioni distinte di un problema che vengono prese in considerazione dal soggetto nel testo esaminato;
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— il grado di integrazione, ossia il numero di connessioni che il soggetto stabilisce tra le varie dimensioni del problema individuate. È evidente che i due fattori sono tra loro collegati, nel senso che il numero di dimensioni individuate condiziona il numero di connessioni che si possono stabilire. Se le dimensioni sono poche non si potranno stabilire più di un certo numero di connessioni; se però le dimensioni sono molte, il numero delle connessioni stabilite può variare anche di molto da soggetto a soggetto: in altre parole non è detto che chi individua molte dimensioni di un problema stabilisca anche molte connessioni tra queste. Per comprendere come venga attribuito il punteggio di complessità integrativa (variabile da 1 a 7), si prendano in esame i due estratti che seguono, tratti dai discorsi di due uomini politici sovietici. Si sono accumulate gravi deformazioni nel campo della programmazione. L'utilità del programma come strumento principale della politica economica è stata seriamente minata da approcci soggettivisti: mancanza di equilibrio, instabilità, il tentativo di includere ogni cosa, fino alle minuzie, e un'abbondanza di decisioni prese al di fuori del programma. Essendo privi di basi scientifiche, i programmi spesso hanno avuto esiti molto inferiori rispetto agli scopi ambiziosi che erano stati definiti dalle autorità centrali [Tetlock e Boettger 1989, 217].
A un brano di questo tipo è stato attribuito un punteggio pari a 1, corrispondente a una bassa differenziazione e una bassa integrazione. Gli elementi presi in esame vengono classificati in modo semplice, in categorie dicotomiche del tipo buono-cattivo. Vediamo ora il secondo brano. Paradossalmente in anni recenti si sono manifestate due opposte tendenze nella politica dei quadri: stagnazione e un elevato turnover. Nonostante in linea di principio una stabilità dei quadri sia necessaria, essa non deve essere spinta all'estremo, una stabilità artificiale che può creare stagnazione. D'altra parte vi è stato un alto turnover di direttori di varie organizzazioni, dovuto a giudizi arbitrari e affrettati nei confronti delle capacità dei quadri, oppure p q ppure a intolleranza nei confronti dell'azione e del pensiero autonomi. Dobbiamo imparare da Lenin a ricompensare la competenza e l'esperienza senza consentire la stagnazione, ad assicurare il turnover quando questo sia opportuno senza creare confusione, e a promuovere una nuova energica leadership senza una valutazione affrettata e senza disaccordo con la leadership locale. Solo se saremo al contempo
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onesti, esigenti e attenti potremo trovare un equilibrio tra questi bisogni contraddittori [ibidem, 218].
A questo secondo brano è stato attribuito un punteggio pari a 7, corrispondente a un'alta differenziazione e un'alta integrazione. Uno stesso tema viene affrontato secondo più prospettive, che vengono poste a confronto tra loro. L'iniziale intento delle ricerche di Tetlock e collaboratori era di verificare, attraverso l'utilizzo dell'indice di complessità integrativa dei testi, quale di due diverse ipotesi sul rapporto tra orientamento ideologico e stile cognitivo fosse più plausibile [Tetlock 1993]. In base alla prima ipotesi, denominata ipotesi di rigidità della destra, i soggetti di destra sarebbero caratterizzati da modalità di ragionamento più rigide, dogmatiche, in una parola più semplici rispetto ai soggetti di sinistra. Questa ipotesi può essere vista come la rilettura in termini cognitivi di ciò che Adorno [Adorno et al. 1950] ha definito, in termini di caratteristica di personalità, come autoritarismo di destra. In base alla seconda ipotesi, denominata ipotesi ideologica, la rigidità non è invece una peculiarità della destra, bensì di chi si colloca agli estremi del continuum ideologico sinistra-destra. Sarebbero insomma gli estremisti, sia di sinistra che di destra, a essere caratterizzati da modalità di ragionamento rigide, dogmatiche e così via, in contrapposizione con i soggetti moderati. Questa ipotesi sarebbe coerente con alcuni risultati degli studi sull'autoritarismo successivi a quello di Adorno, nei quali non solo soggetti di destra, ma anche soggetti di sinistra sono apparsi caratterizzati da un autoritarismo maggiore rispetto a soggetti moderati. Sulla base dei risultati contraddittori ottenuti nelle ricerche da lui stesso effettuate, ben presto a Tetlock è apparsa evidente la difficoltà di stabilire un legame diretto e univoco tra orientamento politico e stile cognitivo, almeno così come viene misurato da un indice come la complessità integrativa, e l'opportunità invece di tener conto dell'influenza di altre variabili, legate al contesto nel quale questa complessità viene misurata. Una di queste variabili è data dal tema politico di cui si parla. Come già ricordato nel paragrafo 3, secondo Tetlock vi sono temi politici che, più di altri, evocano in certi soggetti un conflitto nei valori di riferimento. Nel tentativo di risolvere questo conflitto, di conciliare esigenze tra loro contrapposte, i soggetti farebbero ricorso a strategie di ragionamento e a solu-
L'orientamento ideologico e politico
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zioni politiche più articolate e complesse. È quindi quando ragionano intorno a questi temi che i soggetti sarebbero caratterizzati da un livello più elevato di complessità integrativa. Nell'intento di verificare questa ipotesi, Tetlock [1986] ha chiesto a un campione di soggetti di esprimere per iscritto la loro posizione su sei diversi temi politici, selezionati in base alla maggiore o minore probabilità che il giudizio su questi temi potesse attivare nei soggetti un conflitto di valori. Supponiamo che sia in discussione la questione se si debbano o meno aumentare le tasse sull'assistenza sanitaria in modo da poter garantire più assistenza per i poveri. La richiesta di prendere posizione su questo tema potrebbe generare in me una situazione di conflitto tra due valori ritenuti entrambi importanti, l'uguaglianza sociale (per cui vorrei assistenza garantita per tutti) e la prosperità personale (per cui vorrei pagare meno tasse possibile). Facciamo un altro esempio e supponiamo che mi venga chiesto se si debba permettere un numero maggiore di scavi per la ricerca di risorse energetiche (come giacimenti petroliferi) nei parchi naturali, nell'intento di promuovere la crescita e la prosperità economica della nazione. In questo caso i valori che potrebbero essere in conflitto sono la bellezza dell'universo (per cui voglio proteggere l'ambiente naturale) e, di nuovo, la prosperità personale (per cui non voglio arrestare la crescita economica dalla quale potrei ricavare dei benefici). La soluzione a situazioni di questo tipo può essere piuttosto semplice quando i due valori in conflitto sono di forza molto diversa, poiché il valore più forte prevale agevolmente sull'altro; la soluzione diventa invece più complessa quando i due valori hanno una forza più o meno uguale. Oltre ai due temi ora citati, gli altri quattro temi proposti da Tetlock ai soggetti del campione erano i seguenti: «La CIA dovrebbe avere l'autorità di aprire la posta dei cittadini americani come parte dei suoi sforzi per combattere le spie straniere?» (valori in conflitto: sicurezza nazionale vs. libertà individuale); «Gli Stati Uniti dovrebbero spendere di più per la difesa della nazione, anche se queste spese richiedessero un abbassamento nello standard di vita della maggior parte degli americani?» (valori in conflitto: sicurezza nazionale vs. prosperità personale); «Il governo dovrebbe restringere il diritto dei medici e degli ospedali di stabilire delle tariffe per i loro servizi, così da rendere le cure mediche più accessibili per i poveri?» (valori in conflitto: ugua-
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L'orientamento ideologico e politico
glianza sociale vs. libertà individuale); «Gli Stati Uniti dovrebbero mantenere proficue relazioni commerciali con paesi che negano le basilari libertà civili ai loro cittadini?» (valori in conflitto: prosperità personale vs. libertà individuale). In tutti i casi i valori in potenziale conflitto rientravano tra quelli inclusi nella scala gerarchica dei valori proposta da Rokeach [1973], e Tetlock ha applicato tale scala ai soggetti del suo campione per rilevare l'importanza attribuita da ciascuno di essi ai diversi valori. I testi scritti nei quali i soggetti esprimevano la loro posizione sui sei temi politici sono stati valutati in merito al loro livello di complessità integrativa. Dai risultati è emerso anzitutto che il miglior predittore della posizione che un soggetto assume su un certo tema è quello dei due valori in conflitto a cui il soggetto attribuisce maggiore importanza. In secondo luogo — ciò che qui più interessa — si è rilevato che la complessità integrativa aumenta quanto più simile è l'importanza attribuita dai soggetti ai due valori evocati da uno specifico tema, e quindi quanto maggiore è il conflitto percepito tra questi due valori. È accaduto così che il livello di complessità integrativa di un soggetto variasse, anche di molto, in funzione del tema preso in esame. Un'altra variabile che si è rivelata avere un'influenza sul livello di complessità integrativa del soggetto è il ruolo rivestito dal soggetto stesso nel contesto, in particolare il fatto che il soggetto si trovi o meno in una posizione di potere. Tetlock e Boettger [1989] hanno indagato l'influenza di questa variabile attraverso l'analisi di discorsi di uomini politici sovietici. Si è trattato in questo caso di una ricerca basata su dati d'archivio, nella quale cioè sono stati presi in esame testi già esistenti senza rilevare direttamente misure di alcun tipo sui soggetti che li hanno prodotti. In questo caso dunque non vi è, come nella ricerca precedente, la possibilità di indagare i processi psicologici sottostanti allo stile cognitivo adottato, ma solamente quella di rilevare delle correlazioni tra la complessità integrativa e altri dati noti, relativi al contesto in cui i discorsi sono stati prodotti. Pur riconoscendosi tutti nell'ideologia comunista, gli uomini politici di cui si è occupata la ricerca di Tetlock e Boettger potevano essere distinti in due categorie: tradizionalisti, coloro che condividevano la linea di governo esistente prima di Gorbaciov, e riformisti, coloro che invece condividevano l'impostazione politica di Gorbaciov. Per entrambe le categorie di uomini politici sono stati analizzati discorsi effettuati in due momenti diversi, ossia prima e dopo l'av-
L'orientamento ideologico e politico 2,4 —
Tradizionalisti Riformatori
2 ,3 — 2,2
2,1 o
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123
-
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—
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—
1,4 Periodo Cernienko
Periodo Gorbaciov
FIC. 4.2. Complessità integrativa di riformatori e tradizionalisti nel periodo Cernienko
e nel periodo Gorbaciov.
Fonte: Tetlock e Boettger [1988].
vento al potere di Gorbaciov. L'obiettivo era di vedere se, e in che modo, la complessità integrativa sarebbe variata in funzione di due fattori: a) l'orientamento ideologico, con la categoria dei tradizionalisti assimilabile all'usuale categoria dei conservatori e quella dei riformisti assimilabile a quella dei progressisti; b) la posizione di potere, opposta per i soggetti delle due categorie nei due momenti della rilevazione. Come si può rilevare dal grafico della figura 4.2, dai risultati emerge che la complessità integrativa è in generale superiore nei riformisti rispetto ai tradizionalisti, ma la superiorità dei riformisti risulta ancora più accentuata quando questi giungono al potere. L'influenza della posizione di potere sulla complessità integrativa viene spiegata da Tetlock e Boettger con il fatto che chi lotta per il potere è più orientato a dare messaggi chiari e semplici per porre meglio in evidenza la differenza tra la propria posizione e quella degli altri e quindi è caratterizzato da un basso livello di complessità integrativa; al contrario chi detiene il potere, per poter continuare a mantenerlo, si trova spesso nella posizione di dover conciliare e mediare diverse posizioni, e quindi è caratterizzato da un alto livello di complessità integrativa.
Capitolo quinto La comunicazione politica
Se ci chiedessero di dire quali sono stati per noi gli eventi più salienti dell'ultima campagna elettorale, con tutta probabilità ci verrebbero in mente certi faccia a faccia televisivi tra uomini politici, certi dibattiti o interviste in programmi di punta delle diverse reti. Difficile pensare alla politica senza pensare ai mezzi di comunicazione di massa, a quel complesso e articolato mondo dell'informazione che fa da tramite tra gli uomini politici e i cittadini: da un lato questo mondo ha sensibilmente aumentato la possibilità per gli uomini politici di raggiungere i cittadini, di comunicare, di informare, di lanciare il proprio messaggio persuasivo, dall'altro ha offerto ai cittadini la possibilità di sapere, di vedere da vicino il mondo della politica, di avere una quantità di informazioni prima inimmaginabile. Dunque una possibilità di comunicazione amplificata dai media, ma anche da questi condizionata (selezionata, incanalata, trasformata): i mezzi di comunicazione non sono solamente un tramite, un mezzo appunto, vuoto, neutro, ma, attraverso coloro che li controllano, offrono già una prima codifica e interpretazione delle informazioni, e in questo modo contribuiscono in ultima analisi a creare la realtà politica. L'influenza dei media sui processi di elaborazione delle informazioni politiche sarà il primo degli argomenti trattati in questo capitolo, dopodiché si parlerà della percezione di questa influenza da parte dei soggetti. Il tema del linguaggio utilizzato in politica verrà affrontato in prospettiva psicosociale, con una serie di esempi di ricerca, prima relativi a tre diversi contesti discorsivi nei quali sono coinvolti gli uomini politici (intervista, faccia a faccia, discorso programmatico), poi in relazione al contesto di vita quotidiano in cui la gente parla di politica.
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La comunicazione politica
1. Mass media e politica
In ambito politico, più di quanto accada in altri ambiti di conoscenza, i soggetti selezionano, ricostruiscono, interpretano informazioni che non sono di «prima mano», ma che sono già state selezionate, ricostruite, interpretate dai media. Non vi è da stupirsi dunque del fatto che gli studiosi di political cognition, nell'esaminare i processi di elaborazione delle informazioni politiche, abbiano esteso sempre più la loro attenzione al ruolo giocato dai media [Iyengar e Ottati 1994]. Nel capitolo sulla conoscenza politica si è detto (cfr. cap. II, par. 1) che il modo in cui vengono codificate le nuove informazioni dipende da quali concetti sono accessibili alla mente del soggetto nel momento stesso della codifica; così pure si è detto che diversi fattori possono condizionare l'accessibilità dei concetti, e tra questi fattori vi sono la vicinanza temporale o la frequenza del precedente uso dei concetti stessi. È proprio alla luce di questi fattori che può essere letta l'influenza dei media sull'elaborazione delle informazioni da parte dei soggetti. Supponiamo ad esempio che la disoccupazione costituisca una delle questioni cruciali in un dato momento politico, e che io disponga nella mia mente (nella MLT) di una serie di nozioni che possono essere individuate come possibili cause della disoccupazione, ad esempio la crisi economica mondiale, il carico fiscale sulla piccola-media industria, l'informatizzazione delle aziende, uno squilibrio tra la formazione dei soggetti e la formazione richiesta dalle aziende. Supponiamo poi che un certo canale televisivo proponga frequentemente servizi e immagini sul tema dell'informatizzazione delle aziende; ciò potrà far sì che questa nozione divenga quella più accessibile alla mia mente, e finisca per prevalere su altre nozioni, che magari erano per me originariamente altrettanto rilevanti, ma che sono ora meno accessibili, e che quindi meno probabilmente utilizzerò nel ragionare sul tema della disoccupazione. Non solo la rilevanza di un'interpretazione piuttosto che di un'altra rispetto a uno stesso tema politico, ma anche, più in generale, la rilevanza attribuita a un certo tema a scapito di un altro può essere influenzata dalla frequenza con cui quel tema viene trattato dai media e dallo spazio a esso dedicato. In effetti ricerche che hanno misurato la copertura di un certo tema nell'ambito dei notiziari televisivi in un dato arco di tempo (television
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news coverage) hanno dimostrato che all'aumentare di questa aumenta l'accessibilità del tema alla mente dei soggetti che assistono a questi notiziari [ad esempio Rogers e Dearing 1988]. Altre ricerche hanno dimostrato che l'aumentata accessibilità di un tema politico a scapito di un altro può avere a sua volta un'influenza sulla preferenza per un candidato politico piuttosto che un altro [ad esempio Iyengar e Kinder 1987]; infatti candidati diversi possono incentrare la loro campagna elettorale su temi diversi, e il fatto che questi temi siano più o meno accessibili alla mente del soggetto (quindi più o meno salienti per il soggetto stesso) può evidentemente avere un peso sull'atteggiamento che il soggetto svilupperà nei confronti di quei candidati. Se effettivamente questa influenza esiste, non sorprende che la questione dello spazio da dedicare ai diversi temi trattati in televisione (soprattutto dal servizio pubblico!) sia una questione di evidente rilievo politico. Con l'espressione agenda setting ci si riferisce proprio al processo di decisione in merito allo spazio che deve essere dato alle diverse notizie in televisione. Alcune ricerche [ad esempio Behr e Iyengar 1985] si sono proposte di approfondire il rapporto che esiste tra spazio attribuito ai diversi temi politici in televisione e peso che questi temi effettivamente hanno nella vita reale. E evidente che in questo ambito è difficile stabilire chiari legami di causa-effetto: un tema politico è rilevante perché riceve ampio spazio dai media, oppure riceve questo spazio proprio perché è rilevante? Per poter precisare la direzione del legame si è fatto ricorso alla metodologia delle serie temporali, nel senso che è stata rilevata l'importanza attribuita a certi temi politici in diversi momenti successivi, e in contemporanea è stato misurato lo spazio che veniva attribuito a quegli stessi temi dai media. In base ai risultati emersi, la sequenza causale più probabile è che temi di effettiva rilevanza per l'opinione pubblica trovano spazio corrispondente nei media, ma a sua volta questo spazio contribuisce ad accrescere ulteriormente la rilevanza attribuita ai temi stessi. Insomma i media da soli non sembrano in grado di creare la percezione di rilevanza di un tema, ma sicuramente possono contribuire ad accentuare tale percezione. Dunque i media esercitano un'influenza sui processi di elaborazione delle informazioni politiche; ma siamo tutti ugualmente sensibili a tale influenza? Diverse ricerche si sono occupate del problema, nel senso di indagare i fattori che influiscono sulla vulnerabilità (o viceversa la resistenza) all'influenza dei
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media. A titolo di esempio si può citare una ricerca di Krosnick e Brannon [1993], nella quale è stato indagato il ruolo giocato dai media nelle valutazioni che gli americani davano del presidente Bush e come questo ruolo potesse variare in funzione di tre fattori: a) grado di conoscenza politica; b) interesse per la politica; c) fruizione dei media. I dati utilizzati sono stati tratti da due rilevazioni dei National Election Studies, effettuate rispettivamente prima e dopo la guerra del Golfo, che ha visto coinvolti gli Stati Uniti contro l'Iraq. È emerso così che, dopo la vittoria contro Saddam Hussein, il giudizio globale nei confronti dell'operato del presidente Bush è divenuto chiaramente più positivo. Krosnick e Brannon hanno formulato l'ipotesi che l'incremento nella positività di questo giudizio fosse giustificato solo in parte dalla vittoria in sé, e andasse invece in parte attribuito all'aumentato peso dato dagli americani alla politica estera in quel particolare momento storico, a scapito di altri temi, come la politica interna e le questioni economiche. La politica estera sarebbe divenuto il tema più saliente nella valutazione dell'operato del presidente Bush perché i fatti della guerra del Golfo sono stati a lungo il tema dominante affrontato dai media. In effetti, attraverso due diverse analisi di regressione, Krosnick e Brannon hanno dimostrato che prima della guerra del Golfo i giudizi nei confronti delle tre linee politiche di Bush (politica estera, politica interna e gestione delle questioni economiche) apportavano lo stesso contributo al giudizio globale che i soggetti davano del presidente; invece dopo la guerra l'apporto dato dal giudizio sulla politica estera era significativamente aumentato. A parità di peso dei tre ambiti di attività politica, il successo di Bush in uno di questi ambiti, la politica estera appunto, avrebbe giustificato un incremento nella positività del giudizio su Bush dal 56% al 65%, quindi del 9%. Poiché invece l'incremento osservato è stato del 20%, la differenza (20 9 = 11) è attribuibile al peso maggiore assegnato dai soggetti all'ambito della politica estera e quindi, in ultima analisi, attribuibile all'influenza dei media. Un altro obiettivo di Krosnick e Brannon era di vedere se l'incremento dovuto all'influenza dei media sarebbe variato in funzione del grado di conoscenza politica, interesse politico e fruizione dei media. Dai risultati è emerso che la condizione di maggiore resistenza ai media è quella dei soggetti con alto interesse, alta conoscenza e alta fruizione dei media: le persone con queste caratteristiche sono cioè quelle che hanno modificato —
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meno il loro atteggiamento verso Bush dopo gli eventi della guerra del Golfo. Poiché le tre variabili sono tra loro correlate, Krosnick e Brannon hanno indagato anche, mediante analisi statistiche adeguate, l'effetto di ciascuna una volta controllato l'effetto delle altre. Da questa seconda analisi è emerso un dato interessante, ossia che un'alta conoscenza politica non è, da sola, garanzia di maggiore resistenza all'influenza dei media, al contrario. Una possibile spiegazione è che chi ha un buon grado di conoscenza politica ha un'immediata comprensione dei messaggi, e ciò può aumentare l'effetto dei messaggi stessi nel caso che la conoscenza non sia accompagnata da un alto interesse, che di per sé induce a filtrare con attenzione i messaggi e quindi ne riduce l'effetto di priming. Comunque sia, dati come quelli di Krosnick e Brannon sembrano un'ulteriore conferma del fatto che un'influenza dei media non solo esiste, ma non è nemmeno limitata alle persone che dispongono di uno scarso bagaglio di conoscenze politiche. 2. L'effetto terza persona
Dunque i media ci influenzano, ma noi lo sappiamo? La risposta a questa domanda potrebbe essere: «Sì e no»: infatti riteniamo che a subire questa influenza siano per lo più «gli altri», «la gente», e non noi personalmente. Si tratta del cosiddetto effetto terza persona (third person effect), descritto perla prima volta da Davison [1983] e confermato ormai da numerose ricerche: le persone sovrastimano l'effetto che i media hanno sulle altre persone e sottostimano l'effetto che i media hanno su loro stessi. La scarsa inclinazione a riconoscere l'influenza dei media su se stessi sarebbe dovuta al forte bisogno, che le persone hanno, di percepire di avere un pieno controllo sulle proprie azioni, e in tal modo accrescere la propria autostima. Questa tendenza è stata annoverata tra i cosiddetti self-serving biases, ossia tra le tendenze sistematiche nell'interpretazione e nella spiegazione del reale volte al mantenimento di un'immagine positiva di se stessi (un altro bias di questo tipo è ad esempio la tendenza, in contesto attributivo, a vedere in se stessi la causa dei propri successi e in altre persone, o comunque in circostanze esterne a sé, la causa dei propri fallimenti). La propria capacità di resistere all'influenza dei media sarà esaltata dal fatto che invece altri
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sé e gli altri varia però in funzione di quali «altri» si parla e del non sono in grado di farlo; di qui la messa in atto di un classico grado di identificazione del soggetto con il proprio partito: una processo di confronto sociale, in base al quale la mia «positività» più forte identificazione coincide con un'accentuata tendenza a risulterà enfatizzata dalla «negatività» degli altri. Le ricerche giudicare i membri del proprio partito come meno influenzati dai hanno messo in luce che l'effetto «terza persona» è più accen- media rispetto ai membri del partito avversario. Ciò è coerente tuato quando [Duck, Hogg e Terry 19951: con i presupposti della teoria dell'identità sociale e della catea) la fonte della comunicazione è percepita come tenden- gorizzazione del sé [Tajfel e Turner 1986; Turner et al. 1987] (per ziosa o inaffidabile; una breve descrizione delle due teorie cfr. cap. VI, par. 1), in base b) il messaggio è percepito come dannoso o socialmente ai quali ci sono situazioni in cui i soggetti vedono se stessi come indesiderabile; membri di gruppi più che come individui singoli, e in tali situazioe) gli altri sui quali i media hanno un'influenza sono percepiti ni tendono a fare confronti intergruppo che favoriscono il gruppo come una categoria molto ampia e socialmente distante (ad di appartenenza. Nel caso specifico, quando l'identità di partito è esempio «gli altri spettatori» o «la maggior parte degli americani»). forte, la comparsa dell'effetto terza persona viene condizionata Duck, Hogg e Terry hanno indagato la percezione dell'in- dall'appartenenza di gruppo, e la gerarchia di percepita influenza fluenza dei media a proposito della campagna elettorale che ha dei media risulta essere, in ordine crescente, la seguente: se stessi, avuto luogo in Australia in occasione delle elezioni politiche del i membri del proprio gruppo, i membri del gruppo avversario, gli 1993. Sono stati presi in esame soggetti che avevano votato per elettori in genere. l'uno o per l'altro dei due maggiori partiti contrapposti nelle elezioni, e si è chiesto a questi soggetti di valutare l'influenza sulla decisione di voto che a loro parere potevano aver avuto una serie di trasmissioni televisive del periodo elettorale: servizi dedicati 3. II linguaggio politico: un approccio psicosociale alla campagna elettorale nei telegiornali, dibattiti con i candidati, «La politica è fatta di parole.» Spesso questa affermazione, servizi sui risultati di indagini d'opinione (opinion polls), spot comune nel linguaggio quotidiano, viene fatta con una valenza elettorali a favore (o contro) un partito. La richiesta era di valuta- negativa, per dire che in politica spesso si parla invece di agire, re l'influenza che queste trasmissioni potevano aver avuto su: a) se oppure che in politica le parole sono spesso fumo negli occhi, stessi; b) gli elettori in genere; c) le persone a favore del Partito bugie, promesse non mantenute. Se anche non si condivide quelaburista; d) le persone a favore della Coalizione liberale-naziona- sta accezione negativa, l'affermazione in sé, assunta in modo le. Dai risultati (tab. 5.1) è emerso che ciascun soggetto ritiene che neutro, ha comunque più di un fondamento. Diversi approcci la propria decisione di voto sia molto meno influenzata dai media nell'ambito delle scienze umane mettono in evidenza che la di quanto accada agli altri soggetti. Il grado di differenziazione tra realtà in generale, e non solo quella politica, in un certo senso è fatta proprio di parole. E attraverso il processo di denotazione, attraverso l'individuazione di significati condivisi da attribuire TAB. 5.1. Influenza media percepita su se stessi, sui membri dell'ingroup, sui membri dell'outgroup e sugli elettori in genere in funzione della forza dell'identifica- ai dati di realtà, che gli esseri umani si garantiscono la possibilità zione politica di interagire efficacemente. Se assumiamo che in qualche misura Target f , l a realtà esiste in quanto da noi percepita e dotata di significato, Elettori Outgroup politica Ingroup Sé g p g p è evidente che il linguaggio gioca una parte determinante nella p in genere costruzione della realtà stessa. Nel caso della realtà politica que6,19 5,95 5,66 Bassa 4,46 sto può essere ancora più vero. La politica non è tanto fatta di 5,73 5,44 2,69 4,82 Alta oggetti concreti, tangibili, chiaramente percepibili, quanto piutNota: I punteggi variano da 1 (per niente influenzato) a 9 (molto influenzato). tosto di nozioni astratte, di concetti che esistono proprio in quanto diamo loro un nome, un significato condiviso (fascismo, Fonte: Duck, Hogg e Terry [19951.
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comunismo, diritto ecc.) [Fedel 1994]. A ciò si aggiunge che la politica è in buona misura pianificazione, strategie, programma, anticipazione della realtà futura e di conseguenza è fatta di parole che non hanno un referente concreto attuale, anche se magari potrebbero averlo in futuro. La scarsità referenziale del linguaggio politico fa sì che alcune caratteristiche proprie del linguaggio in generale si ritrovino, in modo ancora più accentuato, in questo tipo di linguaggio, vale a dire la polivalenza, la polisemia e in ultima analisi l'ambiguità del linguaggio stesso (si pensi ad esempio all'uso nel linguaggio politico di termini come «pluralismo», «dialettica interna» o «convergenza»). Come è stato messo in evidenza dagli studi sulla componente pragmatica del linguaggio [Searle 1969; Grice 1981 e per una rassegna Levinson 1983], la possibilità di disambiguare un testo è favorita dall'esame del contesto (luoghi, tempi, co-locutori ecc.) in cui questo è stato pronunciato, e comunque resta sempre un'area di opacità del linguaggio. Nel linguaggio politico la disambiguazione può essere resa ancora più difficile dalla scarsità referenziale, appunto, ma anche dalla presenza di scopi e sovrascopi non sempre chiaramente identificabili, se non addirittura esplicitamente mistificatori. Non vi è da sorprendersi dunque per il fatto che molta parte della ricerca sul linguaggio politico, effettuata nell'ambito di discipline come la linguistica, la semiotica e così via, abbia posto l'accento soprattutto sulle patologie, sulle carenze, sulle deviazioni di questo linguaggio: l'uomo politico come colui che nasconde invece di mostrare, che parla in modo opaco invece che trasparente, che usa parole difficili e astruse invece che semplici e chiare, che fa leva sulle emozioni invece che sulla ragione e così via. In molti di questi studi è rilevabile una preoccupazione di tipo normativo o etico che mal si accorda con i presupposti descrittivi della psicologia (e anche della scienza della politica; Fedel [1994]). Detto questo, rimane il fatto che indubbiamente questi studi hanno contribuito a mettere in evidenza alcuni aspetti peculiari del linguaggio politico rispetto a linguaggi di altro tipo. Dunque il tema del linguaggio politico viene affrontato da molte discipline, come la teoria della comunicazione, la semiotica, la linguistica, la filosofia del linguaggio, la scienza della politica. Gli studi psicologici in questo campo si avvalgono spesso anche dei contributi di queste discipline e d'altra parte negli studi sul linguaggio, di qualunque tipo esso sia, i riferimenti interdi-
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sciplinari sono praticamente la norma. Pur tenendo conto di questo, si può comunque cercare di chiarire qual è l'approccio specifico della psicologia sociale allo studio del linguaggio politico. Ormai da tempo l'attenzione di molte discipline interessate al linguaggio non è più rivolta al testo in quanto tale, avulso dal contesto nel quale viene prodotto o interpretato. L'attenzione è rivolta invece alle produzioni discorsive, intese come espressione di un soggetto locutore che è mosso da motivazioni e scopi e che, nel momento stesso in cui utilizza il linguaggio, presuppone sempre la presenza di un altro, anche se non fisicamente presente. Interessante a questo proposito l'osservazione che anche una situazione di monologo può essere vista e studiata con i criteri del dialogo [Caron-Pargue e Caron 1989], ad esempio in termini di presupposti condivisi con un interlocutore ideale. In una cornice di questo tipo si colloca abbastanza agevolmente la specifica prospettiva psicologica nello studio del linguaggio, una prospettiva cioè nella quale l'attenzione viene posta su colui che parla (o ascolta), sul modo in cui motivazioni, scopi, emozioni, cognizioni, strategie orientano il soggetto nella produzione del discorso e da questa vengono a loro volta influenzate. Nel caso dello studio del linguaggio politico l'attenzione della psicologia è rivolta al soggetto in quanto, appunto, attore politico. Questa precisazione dovrebbe consentire di evitare il rischio, spesso presente negli studi sul linguaggio politico, di confondersi con gli studi sulla cosiddetta componente politica del linguaggio. Quando si parla di questa componente ci si riferisce al fatto che negli scambi comunicativi e linguistici vi è sempre una relazione tra gli interlocutori che si configura come una definizione di rapporti di potere: chi deve parlare e quanto, quali sono gli argomenti dello scambio, sulla base di quali significati, e proposti da chi, decidiamo di interagire e così via. Se è vero che il tema del potere è un tema centrale per la politica e che le relazioni di potere a livello microsociale possono trovare un'eco nelle relazioni a livello macrosociale e politico, collocarsi in questa prospettiva può significare correre il rischio del panpoliticismo, il rischio cioè di estendere i confini della sfera politica fino a includere tutta la realtà sociale, e di perdere in questo modo la specificità della politica stessa. Non si tratterà quindi, almeno quando si parla di approccio psicosociale allo studio del linguaggio politico, di studiare il linguaggio delle persone tout court, sia pure nei suoi aspetti connessi alla defini-
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TAB. 5.2. Tipologia delle mancate risposte degli uomini politici alle domande, e relativi esempi
zione del potere, bensì di studiare il linguaggio delle persone in quanto attori della politica (cfr. cap. I). Perché lo studio del linguaggio è centrale per la psicologia sociale della politica? Perché in questa prospettiva si tiene conto del fatto che le rappresentazioni e le azioni dell'attore politico si costruiscono e si esprimono in un contesto nel quale altri soggetti non solo sono presenti ma interagiscono in vari modi con l'attore stesso. Studiare il linguaggio significa proprio studiare un canale privilegiato (non l'unico, ma l'unico specifico della specie umana) attraverso il quale i soggetti entrano in relazione. 4. Le interviste agli uomini politici
Si è detto che il rapporto tra politici e cittadini è quasi sempre mediato dai mezzi di comunicazione di massa. Uno dei modi in cui questa mediazione tipicamente si manifesta sono le interviste agli uomini politici. Le ricerche sul rapporto tra domanda e risposta effettuate in prospettiva psicosociale hanno cominciato a mettere in evidenza alcune tra le diverse, sottili strategie linguistiche che il soggetto può adottare nella formulazione della domanda per perseguire i propri scopi [ad esempio De Poot e Semin 1995], così come alcune delle strategie che invece possono essere adottate da colui che risponde, pur in uno spazio di manovra che è in ogni caso limitato dalla domanda. Proprio delle risposte, o meglio delle non-risposte, degli uomini politici durante le interviste televisive si è occupata una ricerca di Bull e Mayer [1993]. La ricerca si è basata sull'analisi di otto interviste rilasciate alla televisione inglese da Margaret Thatcher e da Neil Kinnock durante la campagna elettorale del 1987, interviste nelle quali la percentuale di non-risposte era stata mediamente di più del 50% per entrambi i politici. La ricerca si è proposta soprattutto un obiettivo descrittivo e classificatorio, quello di offrire una tipologia delle non-risposte, di come cioè i politici eludono o trasformano le domande a loro rivolte. Le non-risposte costituiscono sicuramente una parte importante dell'intervista, se si considera che nel caso specifico più del 50% delle repliche alle domande rivolte a entrambi i politici rientravano in questa tipologia. I principali tipi di nonrisposta individuati da Bull e Mayer, insieme ai relativi esempi, sono riportati nella tabella 5.2.
1. Ignora la domanda
Giornalista: «Ma tornando a quel 27 gennaio, perché ha fatto quella dichiarazione?». Thatcher: «E poi non dimentichi che ho anche un altro punto da sottoporre al giudizio del mio partito, ed è che io sono il primo leader a cui è accaduto questo...».
2. Riconosce la domanda senza rispondere
Giornalista (interrompe): «Riconosce che vivono in povertà, Primo ministro?». Thatcher: «Per favore, solo un'altra cosa. Quando le condizioni atmosferiche sono state cattive ilartito laburista ha dato solo 90 milioni di sterline all'anno per indennità di riscaldam ento, mentre noi siamo oltre i 400 milioni...».
3. Risponde con un'altra domanda
Giornalista: «Se Lei dovesse avere la maggioranza Mr. Kinnock, diciamo con circa parlamentari, che proporzione di loro sarà dell'estrema sinistra?». Kinnock: «Beh, me lo dica Lei».
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4. Attacca la domanda
Giornalista: «Nelle attuali circostanze Lei pensa che quei 2 milioni circa di pensionati che contano sulla pensione minima dallo Stato abbiano abbastanza per vivere una vita decente?». Thatcher: «Ma non devono contare sulla pensione minima».
5. Attacca l'intervistatore
Giornalista: «Questo è tutto?». Thatcher: «... ora non mi dilungherò oltre, Mr. Dimbleby, per una ragione molto valida... sl, gente come Lei cerca di andare avanti e ancora avanti, e nel momento in cui noi diciamo una cosa, voi ne trovate un'altra e poi ancora un'altra».
6. Rifiuta di rispondere
Giornalista: «L'ipotesi che stavo discutendo, non la vedrebbe come una sfida?». Thatcher: «Non ho intenzione di fare profezie su ciò che accadrà giovedì e non intendo farmi tentare su questa strada».
7. Affronta una questione politica
Giornalista: «Questa è la ragione per cui Le chiedo cosa farebbe». Kinnock: «... è un governo, è un governo laburista che si impegna a ridurre l'inflazione per combattere la povertà».
8. Dà una risposta incompleta
Giornalista: «Ma perché no allora, a causa dei Suoi principi?». Thatcher: «Perché il servizio sanitario è guidato... Guardi Mr. Frost, anche Lei usa il servizio sanitario privato, esercita la sua libertà di scelta».
9. Ripete la risposta a una precedente domanda
Kinnock: «Ciò che ho detto è che il presidente degli Stati Uniti, chiunque fosse, avrebbe preso la decisione di iniziare o rispondere a una guerra nucleare sulla base delle priorità degli Stati Uniti». Giornalista: «Beh, supponendo che decidesse di rispondere Lei cosa farebbe?». Kinnock: «... anche i nostri più forti alleati, gli Stati Uniti d'America, prenderebbero una decisione di utilizzare le loro armi nucleari, per se stessi o in difesa di altri, solo sulla base delle proprie priorità».
10. Afferma o implica che la domanda ha già avuto una risposta
Giornalista (interrompe): «Questo significa che Lei approva il fatto che venga reintrodotto il picchettaggio secondario? o no?». Kinnock: «Beh... Penso di essere stato piuttosto chiaro».
11. Si scusa Giornalista: «... non è una delle difficoltà dei conservatori il fatto che il Suo modo di governare e di parlare del governo irriti molti elettori?». Thatcher: «Beh, mi dispiace se è così, non è nelle mie intenzioni, mi spiace». Fonte:
Bull e Mayer [1993].
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Nelle intenzioni di Bull e Mayer una tipologia di questo tipo, più che costituire il prodotto finale di un percorso di ricerca, costituisce una tappa preliminare, ritenuta essenziale per eventuali ricerche successive che potrebbero indagare come l'uso delle non-risposte possa variare in funzione dei ruoli degli interlocutori, degli scopi perseguiti e di altre variabili contestuali che possono caratterizzare l'intervista politica. 5. I faccia a faccia televisivi
Il secondo esempio di contesto discorsivo che verrà preso in esame è quello dei faccia a faccia televisivi tra uomini politici, un tipo di trasmissione frequente soprattutto in periodo di campagna elettorale. Non vi è uomo politico senza avversario politico. La dimensione conflittuale, la contrapposizione tra posizioni opposte, è una dimensione tipica della politica. Si ricordi a questo proposito quanto detto sulla natura bipolare dell'organizzazione delle conoscenze politiche, ossia sul fatto che in ambito politico i soggetti spesso ricordano non solo le informazioni a sostegno della propria posizione, ma anche quelle contrarie ad essa (cfr. cap. II, par. 4). Ciò verosimilmente perché nella discussione politica conoscere gli argomenti dell'altro diventa essenziale per poter prevedere le sue mosse e controbattere con facilità. Il conflitto, il confronto costituisce tra l'altro una strategia funzionale anche dal punto di vista persuasivo: contrapporre la propria posizione a un'altra opposta può talvolta costituire un'artificiosa semplificazione della realtà, spesso molto più complessa, ma è anche un buon modo per rendere chiaro agli interlocutori il proprio punto di vista e fare il primo passo per convincerli della bontà di esso. Normalmente quanto viene detto nel dibattito politico non è rivolto tanto e solamente ai diretti interlocutori, quanto alla sfera ben più ampia di coloro che assistono al dibattito, perché effettivamente presenti o magari perché spettatori di esso tramite i media. Certo, l'obiettivo immediato, diretto, esplicito dell'interazione è quello di convincere il proprio interlocutore a venire dalla propria parte, ma in realtà i destinatari del messaggio comunicativo sono molti e il vero obiettivo perseguito è quello di convincere loro, più che il diretto interlocutore. Insomma il dibattito politico può essere visto come una messa in scena,
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rivolta a un pubblico che non è direttamente coinvolto nell'interazione, ma è comunque protagonista, e nella quale ben poco è lasciato al caso (i ruoli delle parti, i tempi, il copione) [Larrue e Trognon 1994]. I faccia a faccia televisivi sono in un certo senso l'esempio prototipico di ciò che avviene nel dibattito politico. Coloro che ne sono protagonisti si trovano in un contesto interattivo che, al pari di qualunque altro, presenta determinati vincoli e caratteristiche, e all'interno di questi devono giocare per perseguire i propri obiettivi. Così pure la situazione in cui il discorso politico viene prodotto costituisce un contesto nel quale il soggetto, al pari di quanto accade in qualunque contesto discorsivo, entra e agisce non con uno, ma con più scopi, ciò perché il discorso stesso è un'azione che può essere vista a più livelli. Nell'analisi di quanto accade in un faccia a faccia televisivo si tratta allora anzitutto di capire quali sono gli scopi che possono guidare gli interlocutori, per vedere poi in che modo essi vengono perseguiti. Se indubbiamente lo scopo principale che in questo caso si propongono i protagonisti è quello di ottenere il consenso degli elettori, è anche vero che nello specifico contesto discorsivo questo scopo si articola in una serie di sottoscopi, tra cui quello di difendere la propria immagine, di attaccare quella dell'altro, di dimostrare nel contesto specifico la propria coerenza, quasi che la limitata situazione del dibattito fosse una prova generale dell'azione politica governativa e così via. Certo, l'analisi del testo di un faccia a faccia televisivo può anche riguardare solamente ciò che i due politici si dicono, i contenuti proposti dall'uno e dall'altro, insomma la componente semantica del discorso, ma l'analisi può estendersi anche a esaminare i giochi interattivi tra gli interlocutori, la definizione della relazione, la costruzione, frutto di complessi meccanismi di cooperazione e competizione tra gli interlocutori stessi, di una o più rappresentazioni della realtà espresse attraverso il linguaggio. Può estendersi insomma a indagare la componente pragmatica del discorso. È questa l'indagine che forse più interessa in prospettiva psicosociale, e per effettuarla è necessario disporre di un modello di analisi del discorso che sia preciso e al contempo sufficientemente articolato, che sia in grado cioè di cogliere quella ricca messe di indicatori linguistici che possono segnalare la presenza delle strategie discorsive utilizzate dai soggetti nell'interazione. Analisi che rimane comunque com-
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plessa, perché la già ricordata polisemia e ambivalenza del linguaggio fa si che spesso conclusioni attendibili non si possano trarre solo sulla base della presenza di singoli indicatori, ma caso mai sulla base della conferma reciproca data dalla presenza di molteplici indicatori differenti. Proprio per la complessità di questa analisi, ci si limiterà qui a fare un solo esempio di una ricerca di questo tipo, e all'interno di questa ci si limiterà comunque a presentare le tracce linguistiche individuate in relazione a una sola delle strategie discorsive adottate dagli interlocutori. Il faccia a faccia indagato è quello avvenuto tra Occhetto e Berlusconi, quale chiusura della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1994; esso è stato analizzato da Converso e De Piccoli [ 1996] attraverso l'applicazione dell'Analisi Proposizionale del Discorso (APD) [ Ghiglione 1988]. In questo modello di analisi la proposizione (costituita dall'argomento, ossia ciò di cui si parla, e dal predicato, ossia ciò che si afferma sull'argomento) viene assunta come unità-base per individuare i punti principali affrontati nell'ambito della produzione discorsiva (i cosiddetti referenti nodali) e si utilizzano poi diverse altre categorie di analisi, tra cui i verbi, le espressioni avverbiali e le congiunzioni, come indicatori delle strategie discorsive adottate dal soggetto. Da un'analisi preliminare, relativa ai contenuti trattati nel dibattito tra Occhetto e Berlusconi, è emerso anzitutto che le aree tematiche toccate dai due uomini politici sono state sostanzialmente le stesse; non solo, a ciascuna di esse è stato anche dedicato uno spazio simile da entrambi gli interlocutori. I due politici si sono differenziati non tanto per ciò che hanno detto quanto per il modo in cui lo hanno detto: a titolo di esempio si considerino le differenze emerse per quel che riguarda i riferimenti che ciascuno dei due interlocutori ha fatto all'altro. Come si è detto, il dibattito politico è un contesto dichiaratamente conflittuale, e dunque è prevedibile che in tale contesto ciascun parlante faccia riferimento sia a se stesso che all'altro. Uno degli obiettivi di Converso e De Piccoli era tuttavia di vedere se i due interlocutori si sarebbero comunque differenziati per quel che riguarda il numero di riferimenti (positivi) a se stesso e (negativi) all'altro. Nella tabella 5.3 sono riportati alcuni degli indicatori linguistici utilizzati per rispondere a questa domanda. Si può osservare che, se il pronome «io» è decisamente il pronome più frequente nelle produzioni discorsive di entrambi i politici,
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TAB. 5.3. Alcuni indicatori linguistici utilizzati nell'analisi del faccia a faccia televisivo Occhetto-Berlusconi (valori in percentuale)
Berlusconi
Occhetto
68,82
58,79
Pronomi personali Io
Noi (impersonale) Noi (i politici) Noi (gli italiani) Noi (quelli del nostro partito) Totale Noi Voi (dello schieramento rivale) Voi (italiani) Voi (generico)
2,35 — 8,24 14,71
3,52 2,51 0,50 33,67
25,29
40,20
4,71 0,59 0,59
0,50 — 0,50
22,03 5,51 11,44 16,10 0,84 31,78 12,29
21,94 2,95 10,13 5,49 0,42 41,77 17,30
Avverbi
Di tempo Di luogo Modale Affermativo Di dubbio Di negazione Di intensità Fonte:
Converso e De Piccoli [1996].
è però più frequente nel caso di Berlusconi. Tra gli avverbi sono più frequenti quelli affermativi in Berlusconi e quelli negativi in Occhetto. In sostanza, se entrambi i politici risultano caratterizzati da una presa in carico molto esplicita delle proprie affermazioni («Io credo», «Io ritengo» ecc.), e quindi da una chiara messa in evidenza della propria identità, si nota però in Occhetto una più frequente critica e negazione nei confronti di Berlusconi, quasi che l'affermazione della propria identità non potesse passare se non attraverso la negazione di quella dell'interlocutore. Converso e De Piccoli notano che viene adottata da Occhetto, e in misura invece molto minore da Berlusconi, una strategia che si osserva di frequente nella comunicazione politica televisiva, quella cioè di attaccare gli argomenti dell'altro più che proporre in prima persona i propri. L'analisi effettuata da Converso e De Piccoli ha consentito di mettere in luce diverse strategie legate al contesto interattivo, strategie altrimenti non facilmente rilevabili. Quello riportato è solo un esempio parziale di una modalità di analisi che, nel suo complesso, può consentire di cogliere molti dei processi psicologici coinvolti nel dibattito politico.
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6. Le categorie sociali nei discorsi degli uomini politici
E veniamo al terzo e ultimo esempio di contesto discorsivo che ha per protagonista l'uomo politico, e di relativa analisi in chiave psicosociale. Si tratta del discorso politico forse più «classico», quello fatto di fronte a un uditorio, che può essere anche di per sé limitato, ma che spesso viene notevolmente ampliato dalla diffusione operata dai media. L'esempio di ricerca riportato si riferisce all'analisi di due discorsi, fatti rispettivamente da Margaret Thatcher e da Neil Kinnock ai rispettivi congressi del proprio partito, e incentrati su un evento politico scottante del momento, lo sciopero dei minatori inglesi avvenuto a cavallo tra il 1984 e il 1985. Le letture date dai due politici dello stesso evento, e il tentativo di attirare consensi su di esse, servono come spunto di un discorso politico che ha lo scopo di indurre il maggior numero possibile di ascoltatori a schierarsi dalla loro parte, e a impegnarsi perché il partito che ciascuno dei due rappresenta abbia la meglio sul partito avversario. L'analisi dei due discorsi è stata effettuata da Reicher e Hopkins [1996] nell'ambito di un interesse di ricerca per le determinanti psicosociali dell'azione collettiva. È questo un tema sul quale si tornerà ampiamente nel prossimo capitolo. Basti per ora ricordare che, in prospettiva psicosociale, l'azione collettiva è vista in buona misura come derivante dallo sviluppo di una identità collettiva, e di conseguenza la ricerca che si colloca in questa prospettiva è orientata anzitutto a studiare come le persone giungono a sviluppare questa identità, e in quali circostanze pensano e agiscono in base ad essa. Una possibilità di indagine in questo senso è quella di cercare tracce di questo processo nelle produzioni discorsive dei soggetti. Reicher e Hopkins assumono come riferimento la teoria della categorizzazione del sé [Turner 1985; Turner et al. 1987] (cfr. cap. VI, par. 1) in base alla quale i soggetti hanno la possibilità di definire se stessi, quindi la propria identità, in vari modi (in quanto esseri umani, in quanto singoli soggetti, in quanto appartenenti a gruppi di vario tipo ecc.), e il prevalere di un modo di definirsi rispetto a un altro può dipendere dal contesto, quindi dalle circostanze e dalle persone. Dati questi presupposti, diviene di particolare interesse cercare di comprendere cosa può indurre una persona a definirsi in termini di identità collettiva, perché è quando la perso-
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na si definisce in questi termini che si creano le premesse per il coinvolgimento in un'azione collettiva. In questo quadro teorico si colloca lo studio delle strategie linguistiche e argomentative che gli uomini politici, nel caso specifico Thatcher e Kinnock, utilizzano nel discorso politico per indurre chi li ascolta a definirsi appunto nei termini di un'identità collettiva piuttosto che di altre identità, e naturalmente di un'identità collettiva che sia coerente con quella dell'uomo politico che pronuncia il discorso. Secondo Reicher e Hopkins dunque chi, come Thatcher e Kinnock, si propone un obiettivo di mobilitazione collettiva, utilizzerà il linguaggio e l'argomentazione allo scopo di creare nell'uditorio un'identità consonante con l'orientamento del proprio partito e dissonante con l'orientamento del partito opposto. Se questo è l'assunto di fondo, ne derivano abbastanza facilmente due ipotesi in merito agli obiettivi perseguiti nei loro discorsi dai due politici [Reicher e Hopkins 1996, 356]: a) definire il contesto (in questo caso l'evento dello sciopero dei minatori) in modo da riuscire a includere il maggior numero possibile di persone nel gruppo del quale il politico stesso fa parte (ingroup); b) definire le proprie proposte politiche (in questo caso relative a come risolvere la vertenza dei minatori) in modo che siano consonanti con ciò che caratterizza l'identità dell'ingroup e invece dissonanti con l'identità del gruppo avversario (outgroup). Vediamo, attraverso qualche esempio tratto dal discorso della Thatcher, e citato da Reicher e Hopkins, attraverso quali strategie argomentative questi due obiettivi sono stati di fatto perseguiti. Soffermiamoci anzitutto sull'obiettivo a), quello di dare una lettura dello sciopero tale da coinvolgere, accanto a se stessi, il maggior numero possibile di persone. Osservano Reicher e Hopkins che la Thatcher, con la sua lettura dei fatti, crea una cornice (frame) nella quale i minatori che non hanno partecipato allo sciopero, così come i loro familiari, assumono tratti di personalità, quali coraggio, risolutezza e determinazione, che vengono definiti come i tratti tipici dei migliori inglesi. Si veda l'estratto che segue, nel quale la Thatcher ricorda un'esperienza riportata dalla moglie di uno dei minatori, l'esperienza cioè di essere stata minacciata, insieme ai suoi figli, dagli scioperanti.
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Ciò che ha sopportato ha solamente consolidato la sua decisione. Affrontare i picchetti giorno dopo giorno richiede sicuramente un coraggio davvero speciale, ma se ne richiede altrettanto, forse di più, alla casalinga che deve rimanere a casa da sola. Uomini e donne del genere sono quelli che siamo orgogliosi di definire come il meglio dell'essere inglesi [Reicher e Hopkins 1996, 361].
Il discorso della Thatcher prosegue nella stessa linea finché la categoria di coloro che sono contrari allo sciopero finisce per non includere più solo una parte dei minatori e per estendersi invece fino a includere tutti coloro che si «sentono» inglesi. Un processo opposto avviene per la categoria degli scioperanti, che viene ridotta nel discorso della Thatcher fino a includere solo i soggetti più violenti, e coincidere così con la definizione delle minoranze terroristiche che minacciano il paese. Un'idea di questo processo può essere data dall'estratto che segue. Ciò a cui abbiamo assistito in questo paese è l'emergere di una minoranza rivoluzionaria organizzata che è preparata a sfruttare le dispute industriali, ma il cui vero scopo è il crollo del governo parlamentare democratico. Abbiamo visto lo stesso genere di facinorosi e di balordi a Grunwick, più recentemente contro Eddy Shah a Stockport, e ora organizzati in bande in tutto il paese [ibidem].
La cornice creata da Kinnock, avversario politico della Thatcher, è invece di diverso tipo, ma anche nel discorso di Kinnock si muove inizialmente da una categoria limitata, in questo caso quella degli scioperanti, e si arriva a estenderla a tal punto che essa finisce per includere i laburisti, la gente, tutti coloro che si vogliono difendere contro la presenza incombente di Margaret Thatcher. A questo punto ciò che entrambi i politici propongono per il futuro è coerente con le «cornici» prima prefigurate, coerente quindi con l'ampio ingroup al quale ciascuno di essi si rivolge, in modo da indurlo alla mobilitazione nella direzione desiderata. Poiché, come si è visto, l'ingroup definito dalla Thatcher è costituito dai «lavoratori-veri inglesi», mentre l'outgroup è costituito dagli «scioperanti-terroristi», l'azione che la Thatcher propone nel suo discorso è nella linea di una difesa della nazione da forze minoritarie destabilizzanti, e i valori su cui fa leva sono valori tipici di chi si propone di difendere la nazione, quindi risolutezza, coraggio e ordine.
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La nazione affronta quella che è probabilmente la crisi più dura del nostro tempo — la battaglia tra gli estremisti e tutti gli altri. Stiamo combattendo, come abbiamo sempre fatto, sia per i deboli che per i forti. Stiamo combattendo per cause importanti e buone. Stiamo combattendo per difendere tutte queste persone contro il potere e la forza di quelli che li vogliono sfidare. Il governo non si indebolirà. La nazione raccoglierà la sfida. La democrazia prevarrà [ibidem, 362].
Diverso è l'ingroup definito da Kinnock e diversi di conseguenza sono i valori cui si ispira la sua proposta, valori come la compassione e la solidarietà. Per entrambi i politici comunque sembra essenziale costruire una proposta di azione che sia coerente con una identità di gruppo, definita nella prima parte del discorso di ciascuno come propria di un numero di persone il più ampio possibile. Insomma il modo in cui vengono caratterizzati sia l'evento sia le persone in esso coinvolte è cruciale per creare in chi ascolta il senso di appartenenza a una categoria comune, e questo a sua volta costituisce una premessa essenziale per un possibile coinvolgimento degli ascoltatori stessi in un'azione comune. Naturalmente questa componente di costruzione di un'identità comune e delle basi cognitive che possono sostenerla è solo una delle componenti che si possono rilevare nei discorsi degli uomini politici volti a uno scopo di mobilitazione collettiva. Altre componenti, ad esempio una componente di tipo emotivo, potrebbero essere rilevate attraverso procedure di analisi di diverso tipo. 7. Le categorie sociali nei discorsi dei cittadini
Dopo aver preso in esame il linguaggio degli uomini politici, passiamo ora all'esame del linguaggio dei cittadini, un tema indagato finora in misura più limitata. Il primo dei due esempi di ricerca che vedremo si basa sullo stesso approccio teorico della ricerca di Reicher e Hopkins appena descritta. Come in quella, anche in questa ricerca, effettuata da Reicher [1996], l'esame delle produzioni discorsive si inserisce nell'ambito di un interesse di studio per le determinanti psicosociali dell'azione collettiva: nel caso specifico si assume che la ricostruzione di un'azione collettiva da parte di coloro che vi hanno partecipato sia una fonte di informazione importante per comprendere i fattori predittivi dell'azione stessa e dei suoi sviluppi.
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Reicher ha preso in esame un episodio specifico di conflitto collettivo, la cosiddetta «battaglia di Westminster», e indagato la ricostruzione di tale episodio da parte di coloro che ne sono stati protagonisti. I124 novembre 1988 l'Unione Nazionale degli Studenti organizzò una dimostrazione a Londra per protestare contro il progetto del governo di sostituire i sussidi dati agli studenti con un sistema di prestiti agevolati. Presso l'abbazia di Westminster vi fu uno scontro violento tra studenti e polizia, che terminò con feriti da entrambe le parti. Reicher ha interpellato sia studenti sia poliziotti che avevano partecipato allo scontro e ha chiesto loro un resoconto dettagliato di quanto era avvenuto. Sulla base delle produzioni discorsive ottenute, e sulla base di una ricostruzione dei fatti a partire dalle diverse fonti di informazione disponibili, Reicher si è proposto di risalire alle dinamiche di percezione reciproca e di definizione di identità che hanno preceduto e accompagnato quella specifica azione collettiva. Come si è già detto a proposito della ricerca di Reicher e Hopkins, ricerche di questo tipo muovono dall'assunto che definirsi come membro di una categoria sociale costituisca una precondizione essenziale per la partecipazione a un'azione collettiva. Nel caso di un fenomeno di folla imprevisto come quello esaminato da Reicher, l'esame di come si è andata definendo un'identità collettiva si presenta particolarmente interessante per il fatto che questa identità è legata alla situazione creatasi in un particolare momento, ed è invece solo parzialmente radicata nella precedente esperienza dei soggetti. In pratica sia gli studenti che la polizia sono arrivati alla manifestazione con percezioni di se stessi (ingroup) e degli altri (outgroup) di un certo tipo, e queste percezioni si sono modificate ed evolute con il succedersi degli eventi. Attraverso la richiesta di fare un resoconto, in sostanza di ricostruire la storia di quanto era accaduto, Reicher ha potuto rintracciare nelle espressioni linguistiche dei soggetti: a) come questi hanno categorizzato se stessi e gli altri; b) come questa categorizzazione è mutata in funzione dei mutamenti che in parallelo avvenivano nelle relazioni intergruppo; c) infine come tutto ciò è risultato correlato all'azione intrapresa. Per cominciare dal punto a), quindi dall'iniziale categorizzazione di sé, si consideri l'esempio che segue, relativo alla
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ricostruzione, da parte di uno studente, della fase iniziale della dimostrazione, quando gli studenti che si dirigevano verso il Parlamento sono stati bloccati dalla polizia, schierata all'ingresso del ponte di Westminster. e in un certo senso vagavano in gruppi di amici e discutevano, uhm, cercavano di scoprire prima di tutto cosa stava succedendo, e poi quei gruppi si sono divisi tra coloro che volevano andare avanti e coloro che preferivano rimanere indietro: persone che volevano il confronto e persone che non lo volevano [Reicher 1996, 126].
Come si vede, l'iniziale categorizzazione include il riferimento a diversi gruppi di studenti, che partecipano alla dimostrazione con motivazioni e intenti di natura eterogenea. Si consideri invece, e veniamo quindi al punto b) citato sopra, come con l'evolversi degli eventi e l'inizio dello scontro con la polizia l'accento sull'eterogeneità sia sostituito da un accento sull'omogeneità e quindi dal costituirsi di un compatto gruppo di studenti (ingroup) che si confronta con la polizia (outgroup). In qualche misura c'era la sensazione che da una parte c'erano gli studenti e dall'altra c'era la polizia, e tu sapevi da che parte stavi e quindi dovevi schierarti con gli studenti, capisci. E a questo punto si andava sviluppando, creando molta empatia nella folla, ed era ormai chiaro che la cosa da fare era schierarsi in prima linea [ibidem].
Si consideri infine come il fatto di aiutarsi reciprocamente diventi il criterio di appartenenza al nuovo grande gruppo che si è formato in seguito allo svilupparsi del conflitto. Questa connotazione dell'appartenenza in termini di «difesa» degli amici finisce per caratterizzare, e arriviamo quindi al punto c) indagato dalla ricerca, l'intero svolgersi dell'azione collettiva. Quando ci si trova in una folla del genere si rimane rapidamente isolati da quelli con cui si era all'inizio, tutte le persone intorno sono studenti e sono sostanzialmente tutti uguali, e la ragione per cui ci si trovava lì era di andare a opporsi ai programmi del governo, e si agiva come un corpo collettivo, e questo si vedeva dappertutto, nel modo in cui le persone intervenivano ad aiutarsi l'un l'altra [ibidem, 127].
In sostanza dunque anche in questa seconda ricerca, come in quella esposta nel paragrafo precedente, le produzioni discorsive, in questo caso non di uomini politici ma di semplici cittadini,
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sono state analizzate in quanto indicatori dei processi relativi alla definizione di sé, e delle relative conseguenze in termini di predisposizione all'azione collettiva. 8. Parlare di politica nella vita quotidiana
Un secondo e ultimo esempio di politica «parlata» dai cittadini ci conduce a prendere in esame ciò che le persone dicono quando parlano di politica nella vita quotidiana. Il riferimento teorico della ricerca presentata, di Colucci e Camussi [1996], è alla nozione di senso comune [Colucci 1991]. Si tratta di una nozione che presenta diverse analogie con quella di rappresentazione sociale proposta da Moscovici [1961], nel senso che entrambe le nozioni riguardano il modo di ragionare proprio della gente comune e della vita quotidiana, quindi i processi di semplificazione, elaborazione, costruzione della realtà, processi che non vengono tuttavia studiati in prospettiva intraindividuale, come tipicamente avviene nella prospettiva della social cognition, bensì in quanto processi che si sviluppano praticamente sempre in un contesto interattivo. La ricerca di Colucci e Camussi è stata effettuata nel periodo corrispondente a due diverse campagne elettorali in Italia, quella per le elezioni politiche del marzo 1994 e quella per le elezioni amministrative dell'aprile 1995, ed è consistita nell'analisi di materiale discorsivo di vario tipo, derivante sia da diari, che i soggetti erano stati richiesti di tenere in merito ai loro contatti, di qualunque tipo, con la realtà politica, sia da interviste non direttive con gli stessi soggetti. Riferimenti saltuari e abbreviati sia ai testi che alle analisi effettuate su di essi rischiano di violare la natura stessa di ricerche di questo tipo, nelle quali non ci si propone un'artificiale sintesi dei processi psicologici indagati, ma al contrario si valorizza l'articolazione, e persino la contraddittorietà, tipica del linguaggio naturale. Detto questo, rimane il fatto che un esempio può comunque essere utile a dare un'idea della natura di questo tipo di analisi. L'esempio qui riportato riguarda l'effetto terza persona, rilevato però questa volta non attraverso questionari, come nelle ricerche citate in precedenza (par. 2), bensì all'interno di una cornice discorsiva. Nella ricerca di Colucci e Camussi il contesto discorsivo in cui l'effetto terza persona si è manifestato è un contesto nel quale la
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valutazione generale della campagna elettorale appare decisamente negativa, confusa, aggressiva e poco aderente ai reali problemi politici del paese. Si veda la citazione che segue, in risposta alla domanda: «In che senso sei stato influenzato dalla campagna elettorale?». Sono stato solo peggio. Penso che voterò per gli stessi per i quali avevo già deciso, ma non ho visto niente che davvero confermi la mia scelta. Nessuno sembra esserne uscito bene... la campagna elettorale ha rovinato ogni cosa: hanno distrutto ogni cosa, e tutti hanno perso credibilità. Come puoi dare la tua fiducia a qualcuno, quando tutto quello che sembravano voler fare durante la campagna elettorale era gettarsi fango in faccia l'un l'altro? [Colucci e Camussi 1996, 105].
In questo contesto la televisione viene vista come una presenza intrusiva e minacciosa, dalla quale è difficile difendersi. Penso che una campagna elettorale condotta in questo modo finisca per essere una specie di terrorismo televisivo... Specialmente in questo periodo i programmi televisivi sono diventati completamente confusi. Sono preoccupato, per essere onesto, di questa sorta di sparatoria televisiva [ibidem, 103].
Certo, il danno che la televisione può fare dipende dalle caratteristiche delle persone. A parte gli specialisti, coloro cioè che si occupano di politica per professione, i soggetti intervistati da Colucci e Camussi operano una distinzione tra le persone bene informate, che includono loro stessi e altre persone a loro vicine (parenti e amici), e la gente comune, ossia tutti gli altri. Mentre i bene informati possiedono la competenza, le cognizioni necessarie a filtrare e valutare ciò che viene loro proposto dai media, questo non accade alla gente in genere, che è quindi altamente vulnerabile. Compare dunque l'effetto terza persona, e compare in un contesto discorsivo in cui la vulnerabilità ai media della gente comune viene spiegata in termini di mancanza di competenza. Si veda lo stralcio che segue: Personalmente non sono stato influenzato dalla campagna elettorale, ma la gente lo è stata. Voglio dire... Io leggo il giornale tutti i giorni e cerco di tenermi informato, ma non sono un militante: penso di seguire gli eventi economici e politici. Probabilmente il 70% delle persone segue solo lo sport [ibidem, 104].
Pur limitatamente ai pochi esempi che sono stati fatti fino-
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ra, è possibile rilevare in sede conclusiva che una costante delle ricerche psicosociali sul linguaggio politico sembra essere l'esame di come i locutori definiscono se stessi e gli altri. Se il linguaggio è tipicamente il «luogo» della definizione delle relazioni, le ricerche citate mettono in evidenza come questo processo avviene nello specifico ambito politico. Per l'uomo politico si tratta anzitutto di definire se stesso, di definire il proprio gruppo, ma anche, almeno in sede persuasoria, di ampliare i confini del proprio gruppo in modo che altri entrino a farne parte, e si tratta poi di definire il proprio avversario, persona o gruppo che sia. Dal canto loro i cittadini, quando parlano di politica, sembrano avere pressante l'esigenza di definire se stessi in relazione a coloro che percepiscono come schierati sulla sponda opposta dal punto di vista politico, ma anche di definire se stessi in relazione agli «specialisti», siano essi gli uomini politici o i media. Come probabilmente sarà apparso evidente dagli esempi riportati in questo capitolo, l'esame della comunicazione e del linguaggio politico in prospettiva psicologica si propone sostanzialmente di studiare come processi cognitivi e sociali si sviluppano e si manifestano nell'interazione, a partire dalla consapevolezza che la stessa situazione interattiva costituisce un contesto con regole e vincoli che condizionano l'espressione di rappresentazioni già esistenti o addirittura ne creano di nuove. Praticamente da sempre la psicologia studia questi fattori mediante strumenti che si basano fondamentalmente sull'espressione linguistica (questionari, scale ecc.), tuttavia le ricerche di cui si è parlato in questo capitolo si distinguono da altre perché questi stessi fattori vengono indagati in quel contesto dialogico e discorsivo nel quale normalmente tali fattori si manifestano. Insomma, un conto è chiedere alle persone di segnare con una croce quale di una serie di aggettivi meglio rispecchia il loro atteggiamento nei confronti di un partito politico, un conto è studiare come questo atteggiamento si origina, si modula o si trasforma nell'interazione con altri attraverso il linguaggio. È evidente che questo spostamento di accento ha delle conseguenze di rilievo anche in termini di metodologia delle ricerche effettuate. Nel primo caso si avrà un tipo di indagine che costruisce situazioni forse lontane da quelle della vita reale, ma in compenso consente il controllo delle variabili e la verifica di ipotesi. Nel secondo caso si avrà
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un tipo di indagine più vicina alla realtà e che tuttavia, anche a causa della ricchezza, polisemia, ambiguità del materiale utilizzato spesso non consente la puntuale verifica di ipotesi. Naturalmente non è da escludere, ed esempi se ne sono visti anche in questo capitolo (cfr. le ricerche sull'effetto terza persona), la possibilità di contatti tra i due tipi di indagine, ad esempio attraverso la rilevazione di certi processi nel linguaggio naturale e la successiva messa a punto di situazioni più controllate che riproducano questi processi, o viceversa, con un processo di alternanza da situazioni di ricerca non strutturate a situazioni strutturate e così via. Non è nemmeno da escludere che il progresso della ricerca in questo campo consenta di arrivare a definire procedure di indagine che tengano conto sempre più della complessità presente nel linguaggio e in genere nella vita reale, senza rinunciare alle esigenze di controllo e di verifica proprie della ricerca empirica; tecniche automatizzate di analisi dei testi e il ricorso a strumenti statistici adeguati possono dare sicuramente un notevole contributo in questo senso.
Capitolo sesto La partecipazione politica
Perché alle cene fra amici alcuni si scaldano nella discussione politica, altri si scaldano nel parlare di calcio e altri solamente se bevono troppo? Perché quando ci sono i picchetti a scuola una parte degli studenti partecipa alla manifestazione di turno e un'altra parte va al bar a fare quattro chiacchiere? Perché in occasione del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti una parte dei cittadini ha espresso il suo parere e un'altra, anch'essa consistente, non è andata alle urne e magari ha preferito approfittare della bella giornata per fare una gita al mare? Perché più di un milione di persone ha partecipato il 12 novembre 1994 alla manifestazione organizzata a Roma contro la manovra finanziaria del governo Berlusconi, e perché altri lavoratori non l'hanno fatto? Tutte queste domande hanno a che fare con il tema della partecipazione politica, il tema che verrà affrontato in questo capitolo finale e che ci condurrà a riprendere molti degli argomenti trattati finora; è evidente infatti che conoscenze, atteggiamenti, decisioni, orientamenti ideologici e comunicazione sono tutte componenti importanti della partecipazione politica. L'esame di questo tema ci offrirà tuttavia soprattutto l'occasione di trattare finalmente in modo più approfondito quelle componenti di matrice sociale che non possono essere ignorate nello studio del soggetto in quanto attore politico, le componenti che derivano dalla realtà sociale e politica nella quale il soggetto vive, dalle sue relazioni con altri cittadini, gruppi, collettività e istituzioni. La partecipazione implica infatti, a partire dalla stessa etimologia del termine, il riferimento all'azione e, come si è detto all'inizio del volume, nel momento in cui si affronta il tema dell'azione diviene praticamente inevitabile prendere in esame la persona non nelle sue caratteristiche astratte, bensì come inserita in un contesto reale, e quindi in una rete di relazioni con altri.
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Date queste premesse, nel capitolo verranno elencate diver- (trasformazioni somatiche, psichiche e ambientali); b) indise possibili determinanti della partecipazione politica, ma l'ac- vidualità come distinzione dagli altri: i soggetti non sono tra loro cento verrà posto soprattutto sulle determinanti di natura indifferenziati, ciascuno ha una propria unicità, è un'entità in sé psicosociale, in particolare quelle derivanti dall'applicazione e per sé. Io sono io nella misura in cui mi posso percepire come all'ambito politico della teoria dell'identità sociale [Tajfel e Turner distinto da un altro. 1986]. Per questo motivo il paragrafo iniziale è dedicato alla Poiché il soggetto è «originariamente» sociale, è cioè sin presentazione di alcuni punti-chiave di questa teoria. Viene poi dalla nascita inserito in una rete di rapporti con gli altri, parte presa in esame la forma di partecipazione politica di gran lunga della sua identità sarà determinata dall'appartenenza a gruppi. più diffusa, ossia il voto: dopo una breve sintesi delle diverse Tutti apparteniamo ad alcuni gruppi (quelli del nostro sesso, spiegazioni che sono state offerte del comportamento di voto, della nostra generazione, della nostra famiglia, della nostra città, vengono trattate in modo più esteso le spiegazioni del voto regione ecc.) ma, oltre a queste appartenenze «già date» dalla basate sulla teoria dell'identità sociale, antitetiche, per certi realtà in cui viviamo, molti di noi ne sviluppano anche altre versi, alle spiegazioni basate sulla teoria della scelta razionale. (gruppi religiosi, sportivi, di amici, politici ecc.). Secondo la Un'analoga sequenza espositiva viene seguita per quel che ri- definizione proposta da Tajfel [1981; trad. it. 1995, 314] l'idenguarda le forme di partecipazione diverse rispetto al voto, quelle tità sociale è «quella parte dell'immagine che un individuo si fa definibili in termini di «azione collettiva»: dopo aver passato in di se stesso che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un rassegna diverse possibili determinanti dell'azione collettiva, gruppo (o gruppi) sociale, unita al valore e al significato emoziomesse in luce dalla ricerca sia sociologica che psicologica, ci si naie associati a tale appartenenza». sofferma soprattutto sull'identità sociale e su come questo fatto- Uno degli assunti soggiacenti alla teoria dell'identità sociale re può interagire con altri nel determinare l'azione collettiva. di Tajfel e Turner è che ciascuno di noi è alla ricerca di un'identità sociale positiva, in quanto questa contribuisce a mantenere alto il nostro livello di autostima, un bisogno primario per cia1. Identità sociale e politica scuno. Questo obiettivo viene raggiunto mediante il confronto del proprio gruppo con altri gruppi, e attraverso la dimostrazioNel corso del capitolo si farà dunque frequente riferimento ne di una «distintività positiva» del proprio gruppo rispetto agli alla teoria dell'identità sociale, sia nell'originale formulazione di altri. Tajfel e Turner [1986], sia nelle successive rielaborazioni pro- Gli sviluppi proposti dagli allievi di Tajfel (teoria della categoposte da Turner [1985; Turner et al. 1987]. Non è questa la sede rizzazione del sé [Turner 1985; Turner et al. 1987]) pongono un per presentare in modo approfondito tale teoria, peraltro fonda- accento minore sul perseguimento di un'identità positiva da mentale nell'ambito della psicologia sociale europea [per tale parte del soggetto e sono caratterizzati da una maggiore enfasi presentazione cfr. Palmonari 1995]. Se ne ricorderanno qui sulla componente cognitiva dell'identità. Così come rispetto alla solamente i punti essenziali, in modo da renderne comprensibili realtà oggettuale le persone sentono l'esigenza di ricondurre la le applicazioni all'ambito politico esposte in seguito. molteplicità degli elementi a categorie chiare e distinte, allo Ciascun individuo, nel corso dello sviluppo, giunge a com- stesso modo rispetto a se stessi un'esigenza primaria dei soggetti prendere di essere una unità distinta dagli altri, con caratteristi- sarebbe quella di definirsi in modo chiaro, come appartenenti a che proprie. Il sentimento di identità consiste nella percezione una categoria dalle caratteristiche facilmente identificabili e ben che i soggetti hanno del proprio essere continui attraverso il distinta rispetto ad altre. Questa esigenza di autodefinizione tempo e distinti, in quanto entità, da tutti gli altri. Due sono sarebbe addirittura più pressante rispetto a quella di mantenere dunque le componenti della nozione di identità: a) continuità e un'identità sociale positiva, al punto che il soggetto potrebbe stabilità: ciascuno di noi è un'entità che presenta alcune costan- giungere a preferire di sentirsi appartenente a un gruppo magari ti, pur essendo inserita in molteplici possibilità di mutamento non connotato positivamente ma ben definito, piuttosto che a
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un gruppo valutato come positivo ma non abbastanza identificabile [Abrams e Hogg 1988]. Tra le diverse caratteristiche che sono state messe in luce come importanti per una buona definizione di sé vi è la dimensione del gruppo di appartenenza: gruppi di dimensione intermedia sarebbero più «distinti» rispetto a gruppi troppo piccoli o troppo estesi (è la cosiddetta teoria della distintività ottimale, proposta da Brewer [1991; 1993]). Questo vorrebbe dire che in certe circostanze potrei preferire definirmi come appartenente a un gruppo di dimensioni limitate, anche se magari svantaggiato e connotato negativamente, piuttosto che appartenente a un gruppo magari avvantaggiato e connotato positivamente, ma troppo ampio e quindi ai miei occhi «mal definito». Esempi di applicazione di questa teoria all'ambito politico verranno presentati al paragrafo 4. Quale sia il gruppo o, potremmo dire, la categoria meglio definita e identificabile, quindi quella in base alla quale preferisco definire me stesso, varia in relazione al contesto. Prendiamo il caso di un impiegato di banca che sia anche rappresentante sindacale: quando interagisce con i clienti della banca prevarrà la definizione di sé come dipendente; quando interagisce con i colleghi potrà presentarsi o, appunto, come collega o come rappresentante sindacale a seconda delle circostanze; alle riunioni sindacali nazionali poi potrebbe definirsi come appartenente al sottogruppo dei sindacalisti bancari oppure al sottogruppo dei sindacalisti di Milano e così via. Insomma sarà il contesto a definire quali informazioni saranno di volta in volta più salienti e quindi orienteranno la definizione di sé da parte del soggetto. Naturalmente si tratta di un processo molto delicato, che potrebbe essere sensibile anche a leggere variazioni nel contesto. Supponiamo che un dirigente abbia rimproverato il nostro impiegato per un'inadempienza: la conversazione, iniziata come normale scambio tra dirigente e impiegato, potrebbe a un certo punto trasformarsi in uno scambio tra rappresentante della direzione e rappresentante del sindacato. Potrebbe bastare una frase del dirigente come: «Lei non doveva interrompere quel lavoro urgente per la pausa-pranzo. In certe circostanze bisognerebbe mostrare un po' più di attaccamento alla propria azienda». In effetti abbiamo già visto esempi (cfr. le ricerche di Reicher [1996] e di Reicher e Hopkins [1996] presentate nel cap. V, parr. 6 e 7) di come questi delicati processi di definizione di sé
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e degli altri possano essere mediati da diverse strategie linguistiche. Nella stessa sede si è anche già parlato dell'utilità euristica di una nozione come quella dell'identità sociale per lo studio dell'azione collettiva. Identità e azione si influenzano e si alimentano reciprocamente: in linea generale una forte identità di gruppo indurrà il soggetto a partecipare attivamente alla vita del gruppo stesso e a favorirne in tal modo la continuità e il consolidamento; a sua volta il fatto stesso di partecipare, di agire all'interno del gruppo contribuirà a rinforzare ulteriormente il senso di appartenenza già sviluppato nel soggetto. Si vedrà nel corso del capitolo che non solo l'identità politica vera e propria, ma anche l'identità sociale (ad esempio l'identità regionale) può giocare un ruolo nel determinare le modalità di partecipazione politica del soggetto. D'altra parte emergerà anche l'opportunità di sottolineare alcuni aspetti specifici dell'identità basata sull'appartenenza a gruppi politici, a gruppi cioè caratterizzati da fini pubblici di carattere collettivo, rispetto all'identità basata sull'appartenenza a gruppi di altro tipo. 2. La ricerca sul comportamento di voto
Per la stragrande maggioranza di noi il voto è praticamente l'unica forma di partecipazione alla vita politica, e d'altra parte, in un regime democratico, essa rimane anche la forma più importante. Non è un caso che, come si è visto nel corso del volume, molte delle ricerche in tema di conoscenza, atteggiamenti, decisione e comunicazione politica si siano incentrate sul voto e sui fattori che lo determinano. Verranno qui riassunte brevemente le principali spiegazioni che sono state finora offerte del comportamento di voto [Kinder e Sears 1985], per poi esaminare più in dettaglio l'approccio psicosociale. Identificazione con il partito (party identification). «Perché voto liberale? È semplice, perché mi sento, sono liberale, appartengo a una famiglia che ha sempre votato liberale e io a mia volta ho sempre votato in questo modo.» Questa frase di un elettore potrebbe esemplificare quella che storicamente è la prima interpretazione con valenza psicologica che sia stata offerta sul tema della scelta di voto (cfr. cap. I, par. 4). Nel volume The American voter, Campbell [Campbell et al. 1960] avanza
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l'ipotesi che la scelta di voto debba essere ricondotta a una variabile squisitamente psicologica, non oggettiva bensì soggettiva, vale a dire l'identificazione con il partito. Nell'introdurre questa nozione, egli intendeva proporre un deciso cambio di prospettiva rispetto all'interpretazione sociologica allora prevalente [Lazarsfeld, Berelson e Gaudet 1948], secondo la quale la scelta di voto poteva essere predetta, tranne rare eccezioni, sulla base di variabili sociodemografiche, come classe sociale, luogo di residenza, appartenenza etnica, religione e così via. L'insufficienza di questa interpretazione sembrava dimostrata da quanto di fatto accadeva in quegli anni negli Stati Uniti: la composizione sociodemografica dell'elettorato era rimasta a lungo immutata, e ciononostante erano nel frattempo cambiati i risultati elettorali [Kinder e Sears 1985]. La nozione di identificazione con il partito, derivata dalla teoria psicoanalitica, presuppone che il soggetto sviluppi, nel corso dell'età evolutiva, diverse forme di identificazione, e tra queste vi sarebbe appunto anche l'identificazione con il partito. In questo processo giocherebbe un ruolo determinante l'ambiente, e in particolare la famiglia nella quale il soggetto vive, e quindi il soggetto non farebbe sostanzialmente che mutuare da questa la scelta del partito. Proprio perché sviluppata precocemente, questa scelta sarebbe caratterizzata da notevole stabilità, nel senso che difficilmente si modificherebbe nel corso dell'età adulta. L'identificazione con il partito consentirebbe di spiegare, a parere di Campbell, la scarsa conoscenza e l'incoerenza spesso mostrata dai soggetti in ambito politico: i soggetti non si impegnano in un esame «razionale» dei dati provenienti dalla realtà politica, poiché le loro scelte politiche sono basate su una matrice sostanzialmente affettiva. I dati, le informazioni offerte dalla realtà politica vengono in parte ignorati, in parte selezionati o trasformati in modo da risultare coerenti con la scelta già effettuata a priori dal soggetto. Il lavoro di Campbell ha il merito di aver messo in evidenza un tema, ossia l'influenza familiare sulla scelta politica, e un fenomeno, ossia la tendenza a votare sempre per lo stesso partito, che sono di attualità ancor oggi. Tuttavia la nozione di identificazione con il partito, così come è stata formulata originariamente, appare caratterizzata da alcuni limiti, di cui uno, importante, di tipo metodologico. L'identificazione viene vista come causa del voto, ma poi operazionalmente viene misurata proprio
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attraverso il voto: una forte identificazione dovrebbe portare a votare sempre lo stesso partito, ma è proprio questa stabilità nel voto che viene assunta come misura dell'identificazione. Non vi è insomma sufficiente distinzione concettuale tra variabile indipendente e variabile dipendente, e di conseguenza la prima non può essere assunta come esplicativa della seconda [Evans 1993]. In ultima analisi l'approccio di Campbell non appare poi così diverso da quelli sociologici rispetto ai quali intendeva prendere le distanze, nel senso che si riduce più che altro alla messa in evidenza della famiglia (e di rimando della classe sociale) come variabile determinante della scelta di voto. Sono gli stessi cambiamenti intervenuti nella situazione politica a partire dalla fine degli anni '60 che contribuiscono a mettere a fuoco l'inadeguatezza delle spiegazioni del voto basate sull'identificazione con il partito. A partire da quegli anni si assiste infatti a un vero e proprio declino dell'immagine dei partiti e del senso di appartenenza ad essi, confermato da una diminuita stabilità nelle scelte di voto dei cittadini. In occasione di specifiche consultazioni elettorali si osservano sempre più di frequente deviazioni del soggetto dalla sua scelta partitica abituale, e queste deviazioni, magari inizialmente occasionali, finiscono in alcuni casi per trasformarsi in definitivi cambiamenti nella scelta del partito. Si osserva inoltre un aumento del cosiddetto fenomeno del ticket splitting, corrispondente alla scelta di votare per partiti diversi in consultazioni elettorali di diversa natura: per fare un esempio relativo alla situazione italiana, è quello che avviene ad esempio quando votiamo per un partito alla Camera e per un altro al Senato, oppure quando votiamo in un modo alle elezioni politiche e in un altro a quelle amministrative. Le critiche al modello dell'identificazione con il partito (il cosiddetto «Michigan model», dall'università di provenienza di Campbell e colleghi) conducono alla messa a punto di nuovi modelli del comportamento di voto, modelli nei quali l'accento si sposta dai processi che risalgono all'età evolutiva, e hanno effetti stabili nel tempo, ad altri processi, che sono legati invece alla realtà politica vissuta dal soggetto nell'età adulta, e hanno effetti mutevoli nel tempo. Voto basato sui candidati (traitbased voting). «Perché ho votato Alleanza Nazionale? Ma perché ritengo che Fini sia at-
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tualmente il miglior leader politico di cui disponiamo, quello più preparato, quello più capace di destreggiarsi nel difficile gioco della politica.» A partire dagli anni '70 viene posta sempre più spesso in evidenza la possibilità di una scelta di voto basata soprattutto su una valutazione delle caratteristiche dei singoli candidati. Una conferma in questa direzione viene dai risultati delle indagini NES sul comportamento di voto, in particolare quelle effettuate sistematicamente in occasione delle elezioni presidenziali americane. Si ricordi a questo proposito la ricerca di Miller, Wattenberg e Malanchuk [1986] (cfr. cap. II, par. 2), basata su un esame dei dati dei NES nell'arco di vent'anni e giunta alla conclusione che i tratti attribuiti ai candidati sono il fattore più spesso ricorrente nei commenti fatti dai soggetti sulle proprie scelte politiche. L'approfondimento di questo tema, in precedenza praticamente ignorato dalle ricerche sul comportamento di voto, viene favorito dai progressi compiuti negli stessi anni dal filone di ricerche sulla formazione delle impressioni di persona. Nello specifico ambito politico si indaga il modo in cui vengono selezionate e rielaborate le informazioni relative ai tratti del candidato, nonché quali sono i tratti cui viene attribuito maggior rilievo (cfr. sempre cap. II, par. 2). Voto basato sulla prestazione (performance voting). «Perché ho votato Dini alle elezioni politiche? Perché valuto positivamente l'operato del governo da lui guidato nel periodo immediatamente precedente e ritengo che sia opportuno avere una certa continuità con la politica di quel governo.» In questo modello la scelta di voto è vista come legata alla valutazione di come un partito o un governo si è comportato nel passato più o meno recente; è infatti il riferimento al passato la fonte più importante per poter effettuare previsioni, almeno parziali, sul futuro. Sulla base dei dati disponibili [Kinder e Sears 1985] sembra si possa affermare che un simile criterio può essere adatto a spiegare la scelta di voto solo in momenti particolari della vita politica di un paese, ad esempio quando viene dato un voto di protesta oppure quando il paese si trova in una situazione di emergenza. Voto basato sui temi politici (issue voting). «Perché ho votato Rifondazione Comunista? Perché è l'unico partito che si prende veramente a cuore il problema delle pensioni, della necessità
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di garantire un livello di vita adeguato a chi ha dato il meglio di sé al lavoro e ora non è più in grado di farlo.» A un panorama di informazioni più ampio, non solo strettamente legato al recente passato, si riferisce il soggetto la cui scelta di voto è basata sui programmi dei diversi partiti politici e sulla loro posizione rispetto a certi temi. I modelli sviluppati in questo ambito si sono contrapposti, almeno nella loro fase iniziale, al «pessimismo» del Michigan model di Campbell in merito alle conoscenze politiche dei cittadini, e si sono orientati nel complesso a una rivalutazione della competenza specifica di cui dispone il cittadino medio. Uno di questi modelli è il cosiddetto «modello del consumatore» (consumer model), proposto da Himmelweit [Himmelweit et al. 1985] e basato su una ricerca sul comportamento di voto condotta in Gran Bretagna, nella quale si è rilevata una sostanziale coerenza tra le posizioni dei cittadini su diversi temi politici e i programmi dei partiti per i quali quegli stessi cittadini avevano votato. Himmelweit ipotizza che, anche a causa delle mutate condizioni storico-politiche, il voto sia sempre più spesso determinato dall'accordo contingente con le posizioni di un partito piuttosto che dall'identificazione con il partito stesso. Di qui la definizione dell'elettore come un consumatore che, in politica come negli altri ambiti, sceglierebbe in funzione dell'esigenza del momento. Secondo un altro modello invece, il «modello ideologico» (ideological model, Heath, Jowell e Curtice [1985]), sempre sviluppato in Gran Bretagna, non è tanto l'accordo contingente su temi specifici quanto la condivisione di credenze (beliefs) più generali che induce i soggetti a optare per un determinato partito. Potrei non fondarmi, nella mia scelta di voto, sulla specifica politica di un certo partito sul tema delle pensioni (o addirittura potrei non condividere quella politica) e tuttavia votare quel partito per ribadire l'importanza di alcuni principi più generali che ritengo di condividere con esso. Secondo Heath, Jowell e Curtice questi principi si possono collocare lungo due dimensioni principali: a) uguaglianza vs. disuguaglianza; b) conservatorismo vs. progressismo. Come si sarà rilevato, nella contrapposizione tra modello del consumatore e modello ideologico si può ritrovare un'eco di una questione già discussa nel capitolo IV, relativa all'esistenza o meno, e alla identificazione, di alcuni principi generali attorno ai quali si organizzano gli atteggiamenti politici.
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3. Interesse personale e scelta di voto
4. Identità sociale e scelta di voto
Sia nei modelli basati sulla prestazione, sia in quelli basati sui temi politici, il più delle volte l'assunto soggiacente è che la scelta di voto sia guidata dall'interesse personale e la teoria ultima di riferimento è quella della scelta razionale (cfr. cap. III, par. 1). Di fatto questa teoria, probabilmente anche grazie all'eleganza formale della sua definizione, è forse quella che è stata finora più frequentemente utilizzata per spiegare la scelta di voto. Della teoria della scelta razionale abbiamo già parlato ampiamente, e abbiamo anche detto che, nel momento in cui la si applica alla decisione dell'elettore, si assume che questi si proponga attraverso il voto di massimizzare il proprio benessere economico. Insomma, nell'andare a votare io sarei guidato dall'intento di difendere i miei interessi, e questi interessi sarebbero soprattutto di carattere economico: così ad esempio potrei decidere di votare per un certo partito semplicemente perché gli esponenti di quel partito si sono impegnati a lottare per alzare la pensione minima, ossia proprio quella che io prendo attualmente. Naturalmente è impensabile che il mio voto (che come voto singolo non è per nulla determinante) possa condurre da solo a immediati benefici in mio favore, e di conseguenza una definizione dell'interesse in termini di costi-benefici, la definizione cioè che viene offerta dalla teoria della scelta razionale, rende comunque difficile spiegare il comportamento di voto. L'interesse potrebbe invece essere utilmente definito in termini diversi, legati ad alcune caratteristiche dei soggetti individuate dalla ricerca psicologica. Come si è già accennato nel capitolo sulla decisione (cfr. cap. III, par. 4), la teoria dell'identità sociale offre spunti interessanti in questo senso, in particolare per quanto riguarda la possibilità che nella scelta di voto l'interesse del singolo soggetto venga di fatto affiancato, o a volte addirittura sostituito, da un interesse che riguarda gruppi di soggetti più o meno ampi con i quali il soggetto si identifica. In altre parole, secondo la teoria dell'identità sociale, in alcuni casi il «benessere» derivante dall'appartenenza a un gruppo può costituire per il soggetto un'esigenza così forte da competere con (se non addirittura superare) il «benessere» derivante dal perseguimento del proprio interesse economico immediato.
Nell'evoluzione della ricerca sul comportamento di voto il rapporto individuo-società può essere brevemente sintetizzato come segue. Negli iniziali approcci sociologici che identificano le variabili sociostrutturali (età, classe sociale ecc.) come principali determinanti del voto si può vedere soggiacente l'idea di un'influenza unidirezionale della società sull'individuo. Non si discosta da questo orientamento nemmeno la nozione di identificazione con il partito proposta da Campbell, non adeguatamente approfondita in termini psicologici e sostanzialmente interpretabile come un'influenza «a senso unico» della famiglia sull'individuo. Al polo opposto si collocano gli altri approcci al voto finora presi in esame, tutti fondati su un soggetto che agisce in quanto singolo, per lo più svincolato dal riferimento alla realtà sociale che lo circonda e volto al perseguimento del proprio interesse personale. Vi è tuttavia una terza possibilità, quella di presupporre che esista un'interazione tra fattori psicologici individuali e fattori sociali strutturali: in questa prospettiva si può assumere che nel voto, così come in ogni altra scelta, il soggetto agisca in quanto «per sua natura» essere sociale, profondamente radicato nella realtà, di persone e di gruppi, in cui vive, al punto che questa realtà finisce per costituire parte integrante della sua stessa identità, quella parte denominata appunto identità sociale (cfr. Tajfel e Turner [1986] e par. 1). Certo, il peso dell'identità nelle scelte politiche dei soggetti può essere maggiore o minore a seconda delle caratteristiche dei soggetti stessi e delle circostanze; detto questo, vale comunque la pena di annoverare questo fattore tra le possibili determinanti del comportamento di voto, come alcune ricerche hanno cominciato a dimostrare. Abrams e Emler [1992] hanno ipotizzato che la scelta di voto del soggetto si basi su valori espressivi, come quello di esprimere la propria identità, piuttosto che su valori strumentali, come quello di trarre benefici più o meno immediati dalla propria scelta (per la distinzione tra valori espressivi e strumentali cfr. cap. III, par. 4). Questa ipotesi è stata formulata come possibile spiegazione del fenomeno delle differenze regionali nei patterns di voto. Si tratta di un fenomeno ampiamente messo in luce dalla ricerca sociologica, che Abrams e Emler si sono proposti tuttavia di rileggere in chiave psicosociale:
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se infatti la sociologia ha indagato e precisato i termini della relazione che esiste tra regione e voto in diversi paesi, la psicologia sociale può indagare quali siano i fattori psicologici sottesi a questa relazione. Uno di questi fattori potrebbe essere una motivazione al voto di tipo strumentale, cioè la convinzione che la forza di un certo partito possa avere come conseguenza dei benefici a proprio favore: ad esempio in una certa regione un partito potrebbe ricevere molti voti perché la gente pensa che quel partito possa garantire l'ulteriore crescita di un settore industriale, o di servizi, che costituisce l'asse portante dell'economia di quella regione. Un altro di questi fattori invece, ed è quello ipotizzato come predominante nel caso della ricerca di Abrams e Emler, potrebbe essere una motivazione di tipo espressivo, cioè che votare per un certo partito sia un modo per esprimere la propria identità, nel caso specifico l'identità regionale: ad esempio potrei votare Lega Nord perché mi sembra un modo di esprimere la mia identità lombarda, o PDS perché mi sembra un modo di esprimere la mia identità emiliana o toscana. Una motivazione di questo tipo non sarebbe tuttavia ipotizzabile sempre, bensì solo nei casi in cui il voto per quel particolare partito costituisca uno degli attributi percepiti come criteriali dell'identità regionale [Turner 19851. Cosa si intende per attributi criteriali dell'identità? Quando l'appartenenza a un certo gruppo diviene saliente, importante per un soggetto, è essenziale, per il mantenimento e il rafforzamento dell'identità di gruppo, che il soggetto ritenga di possedere gli attributi più tipici, più caratteristici del gruppo di appartenenza, gli attributi criteriali appunto. In alcuni casi tra questi attributi vi può essere anche la scelta di voto: per tornare all'esempio riportato sopra, la motivazione espressiva dell'identità lombarda potrebbe intervenire solo se il voto per la Lega Nord fosse percepito come uno degli attributi che maggiormente qualificano l'appartenenza alla regione Lombardia. Abrams e Emler prendono le mosse da una differenza che ha matrice storica in Gran Bretagna, quella tra nord e sud: il nord, più povero, vota prevalentemente laburista, il sud, più ricco, vota prevalentemente conservatore. L'ipotesi formulata è che il voto laburista a nord e il voto conservatore a sud siano un'espressione dell'identità regionale, e quindi che nel nord del paese chi vota laburista si identifichi con la propria regione di
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appartenenza più di chi vota conservatore, e che invece accada il contrario nel sud del paese. I dati utilizzati per la verifica di questa ipotesi derivano da un'indagine su vasta scala relativa al comportamento politico dei giovani in diverse città del sud e del nord della Gran Bretagna, incluse alcune città della Scozia. Come misura dell'identità regionale è stato utilizzato il grado di accordo dei soggetti rispetto a una serie di affermazioni del tipo: «È meglio vivere qui che in qualsiasi altra parte del paese». Questa misura è stata messa in relazione con la preferenza di voto espressa dai soggetti (tab. 6.1). A conferma di quanto ipotizzato, dai dati emerge che nelle città del nord (qui esemplificate da Liverpool) i laburisti si identificano con la propria regione di appartenenza più dei conservatori, mentre un risultato opposto emerge per le città del sud (qui esemplificate da Swindon). Nelle città del nord, da parte di chi vota laburista si osserva anche una minore tendenza alla mobilità (cfr. nella tab. 6.1 la risposta alla domanda «Quanto sei orientato ad andartene da quest'area per avere un lavoro in futuro?»), ma questo dato non ha un corrispettivo nelle città del sud, il che peraltro era prevedibile, perché è normale che la tendenza alla mobilità sia bassa in una zona dove il benessere è maggiore rispetto ad altrove. Dunque viene confermata da questi dati l'esistenza di una correlazione tra scelta di voto a favore del partito più popolare di ciascuna area e grado di identificazione con l'area stessa. TAB. 6.1. Media dei punteggi a due indicatori dell'identità regionale in funzione della
città di residenza e dell'appartenenza partitica Liverpool
Swindon
(Inghilterra del nord) Conservatori
Laburisti Conservatori Laburisti
E meglio vivere qui che in qualsiasi altra parte del paese Scala da 1 (dei tutto d'accordo) a 5 (per niente d'accordo)
3,67
3,00
Quanto sei orientato ad andartene da quest'area per avere un lavoro futuro? Scala da 1 (sicuramente) a 5 (per niente)
1,84
2,41
Fonte: Abrams e Emler [19921.
(Inghilterra del sud)
2,58
2,73
2,98
3,00
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Limitatamente al campione scozzese, Abrams e Emler hanno tenuto conto di un dato ulteriore, disponibile solo per quel campione, quello relativo alla percezione di essere sfavoriti e discriminati da parte del governo britannico (grado di accordo/ disaccordo rispetto ad affermazioni del tipo: «Per gente come te è difficile trovare lavoro qui» oppure «La gente avrebbe tante chances di fare bene in Scozia come altrove, se solo si desse da fare»). I dati relativi al campione scozzese, sempre suddivisi in base all'intenzione di voto per i conservatori vs. i laburisti, sono riportati nella tabella 6.2. Dalla tabella si può rilevare che il voto laburista si associa non solo a un alto grado di identità regionale, ma anche a una forte percezione di essere svantaggiati e discriminati in quanto scozzesi. In sostanza riconoscere di essere in una condizione di deprivazione non induce a staccarsi dal gruppo con il quale si condivide tale condizione; al contrario sembra accompagnarsi a un ulteriore rafforzamento dell'identità di gruppo e a una scelta di voto che consente di confermare questa identità. Questo dato relativo ai laburisti scozzesi viene letto da Abrams e Emler come un esempio del fatto che l'identità sociale può essere più forte dell'interesse personale immediato e, soprattutto, del fatto che la scelta di voto può essere compiuta non sulla base di valori strumentali (voto laburista perché questo è TAB. 6.2. Media dei punteggi a due indicatori di identità regionale e a due indicatori di deprivazione relativa in funzione dell'appartenenza partitica: dati relativi alla città di Kirkaldy in Scozia Conservatori Ho un forte senso di appartenenza alla Scozia Scala da 1 (del tutto d'accordo) 2 a 5 (per ,14 niente d'accordo)
Laburisti
1,89
Quanto sei orientato ad andartene da quest'area per avere un lavoro in futuro? Scala da 1 (sicuramente) a 5 (per niente)
2,62
Quanto è difficile per gente come te trovare lavoro qui? Scala da 1 (estremamente) a 5 (per niente)
2,91
2,33
La gente avrebbe tante chances di fare bene in Scozia come altrove, se solo si desse da fare Scala da 1 (del tutto d'accordo) a 5 (per niente d'accordo)
1,71
2,02
Fonte: Abrams e Emler [1992].
2,95
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strumentale al perseguimento del mio interesse personale), bensì di valori espressivi (voto laburista perché questo voto è tipico dello scozzese e quindi è un modo di esprimere la mia identità). Naturalmente nel valutare dati come quelli ora riportati bisogna considerare che si tratta di dati correlazionali, e di conseguenza occorre cautela nell'inferire legami di causa-effetto a partire da questi dati, ossia nel concludere che l'identità regionale è causa del voto. Rimane il fatto comunque che la relazione identificata induce a mettere in discussione il presupposto teorico in base al quale l'interesse personale è sempre la causa predominante del voto. Ciò tanto più quanto più numerose divengono le ricerche che, pur effettuate in contesti politici differenti, confermano la presenza di una relazione tra identità sociale e scelta di voto. Una conferma di questo tipo viene ad esempio dai risultati di una ricerca effettuata in una regione della Germania, il Saarland [Simon, Kulla e Zobel 1995]. All'epoca di questa ricerca il partito leader del Saarland era il partito socialdemocratico (SPD), mentre il partito dell'unione cristiano-democratica (CDU) era all'opposizione; a livello nazionale la situazione di potere dei due partiti era invece esattamente opposta. Così come era avvenuto per la ricerca di Abrams e Emler, nella ricerca di Simon, Kulla e Zobel è emerso che i sostenitori del partito leader nella regione sono caratterizzati da un'identità regionale più forte rispetto ai sostenitori dell'altro partito. Nel caso specifico ciò è avvenuto nonostante il fatto che, in teoria, le caratteristiche ideologiche dei due partiti avrebbero potuto far presagire un risultato esattamente opposto. Infatti il CDU si presenta come un partito conservatore e attento a valori come la famiglia, la comunità locale e così via; l'SPD invece si presenta come un partito più progressista, caratterizzato da un'ideologia internazionalista e universalista, che poco sembrerebbe conciliarsi con orientamenti più particolaristi, come quelli legati all'identità regionale. In una ricerca effettuata nel 1994 Abrams ha ripreso la distinzione, già presente in Abrams e Emler, tra valori espressivi e valori strumentali, e lo ha fatto nell'intento di riaffrontare in chiave nuova un tema «classico» nella ricerca sul comportamento di voto, quello cioè della possibilità di sviluppare una stabile identificazione con un partito (cfr. par. 2). Abrams [1994] ha ipotizzato che i valori espressivi, in particolare appunto le esigenze di identificazione con il partito, possano avere maggior
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peso quando il partito scelto è un partito di minoranza, e che invece i valori strumentali prevalgano più spesso quando si tratta di un partito di maggioranza. La teoria di riferimento è quella della «distintività ottimale» già ricordata [Brewer 1991; 1993] (cfr. par. 1), in base alla quale c'è un livello ottimale di dimensione del gruppo perché io mi possa identificare con questo: gruppi di dimensione intermedia favorirebbero l'identificazione più di quanto facciano sia grandi che piccoli gruppi. Certo, la dimensione ottimale del gruppo, ai fini della possibilità di identificarsi con esso, può talvolta essere in contrasto con l'obiettivo di perseguire un'identità positiva: questo avviene ad esempio nel caso che il gruppo «ottimale» sia un gruppo di minoranza, visto che difficilmente la mancanza di potere può essere percepita come positiva in quanto tale. Tuttavia, secondo la teoria della «distintività ottimale», la ricerca di un'immagine di noi stessi chiara e coerente, favorita dall'identificazione con un gruppo ben definito, può essere più importante per il soggetto della ricerca di un'identità sociale positiva, e può quindi prevalere su questa quando le due esigenze entrino in contrasto tra loro. Nella ricerca di Abrams è stato chiesto a un campione di giovani di esprimere le loro intenzioni di voto (la domanda era la seguente: «Se domani ci fossero le elezioni nazionali e tu avessi facoltà di voto, quale partito saresti disposto a votare?») e di indicare, all'interno di una lista che veniva fornita, su quali ragioni si sarebbero basati nell'andare a votare. Nella tabella 6.3 sono indicate le percentuali di scelta delle diverse ragioni in funzione di tre diverse intenzioni di voto (astenuti/incerti, voto per partiti di maggioranza, voto per partiti di minoranza). Se è vero che tutti i soggetti appaiono concordi nell'attribuire maggiore peso ad alcune ragioni rispetto ad altre, si rilevano tuttavia alcune differenze significative tra chi è orientato a votare per partiti di maggioranza e chi è orientato a votare per partiti di minoranza. I primi attribuiscono più importanza dei secondi alla qualità dei leader e dei programmi politici dei partiti da loro scelti, e adducono più spesso tra le ragioni del voto la conformità con il voto della famiglia di origine. Se il fatto di condividere gli ideali del partito e il fatto di vederlo come adatto a rappresentare gente come loro sono due ragioni frequenti nei soggetti di entrambi i gruppi, esse lo sono però significativamente di più in chi è a favore dei partiti di minoranza.
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L'ipotesi del riferimento a valori espressivi vs. strumentali nella scelta di voto in relazione al ruolo di minoranza vs. maggioranza del partito votato meriterebbe di essere indagata più a fondo, ad esempio attraverso uno studio longitudinale che segua l'evoluzione nel tempo sia delle dimensioni di un partito sia dell'identità di coloro che scelgono di essere al suo interno. Il passaggio dalla condizione di partito di minoranza a quella di partito di maggioranza potrebbe infatti essere accompagnato da variazioni nella forza dell'identificazione con il partito e quindi nelle ragioni che inducono a sceglierlo. I bisogni di identificazione, in un primo tempo soddisfatti, potrebbero a un certo punto non esserlo più a causa delle aumentate dimensioni del partito. Ciò potrebbe condurre a nuovi modi di dare risposta a quei bisogni di appartenenza che comunque i soggetti avrebbero, e uno di questi potrebbe essere la formazione di correnti e sottogruppi all'interno del partito stesso, più adatti per dimensione a favorire l'identificazione. Naturalmente si tratterebbe anche di vedere come nelle diverse fasi i bisogni di identificazione, quindi di tipo espressivo, interagiscano con quelli, pure presenti, di tipo strumentale. Per completare il panorama di come il riferimento a valori espressivi possa prevalere su quello a valori strumentali, può essere opportuno ricordare una ricerca di Smith e Tyler [1996]. Anche in questa ricerca infatti, come nelle precedenti citate in questo paragrafo, viene affrontata la questione di come l'interesse del gruppo (mediato dall'identità, dal senso di appartenenza al gruppo da parte del soggetto) possa competere con l'interesse personale, o addirittura prevalere su di esso, nel guidare le scelte politiche. Per questo motivo la ricerca di Smith e Tyler viene citata in questo paragrafo, anche se non si occupa specificamente del comportamento di voto, bensì degli atteggiamenti nei confronti delle politiche del governo; d'altra parte si è detto più volte nel corso del volume che tali atteggiamenti costituiscono un importante antecedente del comportamento di voto. Smith e Tyler hanno chiesto a un campione di soggetti statunitensi di razza bianca di dire se secondo loro il Congresso dovesse avere o meno il potere di emanare leggi in merito alle modalità di assunzione, promozione e licenziamento dei lavoratori da parte dell'impresa privata, e in particolare a proposito del fatto di favorire un soggetto di razza nera rispetto a un soggetto di razza bianca di pari qualifica. Le risposte dei soggetti venivano date su una scala da 1 (decisamente favorevole) a 7
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(decisamente contrario), e le misure così ottenute sono state messe successivamente in relazione con una serie di altre misure rilevate sugli stessi soggetti, comprendenti tra l'altro: a) valutazioni relazionali del Congresso, ottenute attraverso una serie di domande nelle quali si chiedeva tra l'altro se i rappresentanti del Congresso fossero disonesti, se il Congresso fosse onesto nel modo in cui prendeva le decisioni e se si preoccupasse di proteggere i diritti del cittadino medio; b) valutazioni strumentali del Congresso, basate sulle risposte a due domande nelle quali si chiedeva se le leggi anti-discriminazione già emanate dal Congresso avessero aumentato o diminuito le opportunità di lavoro dei soggetti stessi e quelle della maggior parte dei cittadini afroamericani; c) identificazione con il proprio gruppo di appartenenza, ottenuta attraverso domande nelle quali si chiedeva ad esempio se il soggetto si sentisse orgoglioso nel pensare a se stesso come a un soggetto di razza bianca; d) identificazione con gli americani in generale, ottenuta attraverso la richiesta di esprimere, sulla base di una scala da 0 a 10, le sensazioni (di «calore» o «freddezza») suscitate nel soggetto dagli americani stessi. Dai risultati delle analisi effettuate sul campione globale è emerso che le valutazioni relazionali del Congresso sono buoni predittori del giudizio nei confronti della politica legislativa del Congresso stesso, almeno quanto lo sono le valutazioni strumentali. Da una suddivisione del campione sulla base del grado di identificazione con il proprio gruppo e con quello degli americani, è emerso inoltre che la capacità predittiva delle valutazioni relazionali diviene addirittura superiore rispetto a quella delle valutazioni strumentali nei soggetti caratterizzati da un basso grado di identificazione con il proprio gruppo e da un alto grado di identificazione con gli americani in generale (tab. 6.4). Nell'interpretazione di questi dati Smith e Tyler assumono, concordemente con la teoria dell'identità sociale, che quanto più l'appartenenza a un gruppo è importante per il soggetto tanto più questi cercherà di perseguire gli interessi del gruppo stesso, in quanto ciò è essenziale alla sopravvivenza e al rafforzamento del gruppo. L'identificazione con una categoria come quella degli «americani», inclusiva cioè sia del proprio gruppo specifico di appartenenza, sia di altri che comunque appartengono alla stessa realtà geografica e politica alla quale il soggetto stesso appartiene, sembra dunque favorire l'adozione da parte del soggetto di una prospettiva in base alla quale lo scopo può
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La partecipazione politica
La partecipazione politica
TAB. 6.4. Peso relativo dei predittori della valutazione dell'attività di governo in soggetti caratterizzati da livelli diversi di identità di gruppo e nazionale (coefficienti di regressione standardizzati)
Bassa identità di gruppo Alta identità nazionale° (n = 63)
Alta identità di gruppo Bassa identità nazionale' (n = 75)
0,36"" 0,28'
0,30" 0,35"
Valutazioni relazionali Valutazioni strumentali °R2 =0,19. "R 2 = 0,24. p < 0,05. p < 0,01.
p < 0,001.
Fonte: 5mitlt e Tyler [1996].
essere sempre di perseguire un interesse, un interesse però non personale o di gruppo bensì, si potrebbe dire, collettivo. Nel caso specifico ciò significa aspirare ad avere un governo che si comporti con giustizia, ossia con imparzialità, nei confronti di tutti i gruppi che fanno parte di una comunità, e valutare quindi l'operato del governo sulla base di questo criterio. Naturalmente si tratta di vedere se e in quali condizioni possa prevalere nei soggetti l'identificazione con un gruppo così ampio come quello costituito dagli «americani». Viene alla mente a questo proposito la teoria della «distintività ottimale» sopra ricordata, in base alla quale l'identificazione con un gruppo è più facile quando le dimensioni del gruppo non sono troppo ampie; se ci si colloca in questa prospettiva, non è facile pensare che l'identificazione con un gruppo nazionale possa facilmente prevalere sull'identificazione con un gruppo più ristretto. Il dato rilevato da Smith e Tyler andrebbe probabilmente sottoposto a ulteriore verifica, attraverso ricerche che anzitutto facciano ricorso a misure più sofisticate (e non solo di tipo affettivo) dell'identificazione con i vari gruppi, e che in secondo luogo si propongano di vedere se gli effetti significativi rilevati a livello di atteggiamenti si riprodurrebbero anche a livello di decisioni di voto, o in generale di comportamenti politici. A partire dai risultati delle ricerche riportate in questo paragrafo, è possibile trarre alcune prime conclusioni provvisorie in merito al ruolo che l'identità sociale può giocare nelle scelte politiche:
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1. il bisogno di esprimere e consolidare la propria appartenenza a un gruppo può in alcuni casi costituire una motivazione delle scelte politiche più forte e immediata rispetto al bisogno di perseguire il proprio personale interesse come singoli individui. 2. Quando la scelta politica viene effettuata sulla base dell'appartenenza a un gruppo «avvantaggiato», che si trova cioè in una posizione di maggiore potere rispetto ad altri, può essere difficile distinguere sul piano empirico se ciò che viene perseguito è l'interesse personale o quello del gruppo cui si appartiene, perché i due interessi sostanzialmente coincidono. Questa distinzione può essere più semplice quando la scelta politica si basa sull'appartenenza a un gruppo senza potere o «svantaggiato» (come si è visto nella ricerca di Abrarns e Emler). In questo caso infatti il legame tra interesse personale e interesse di gruppo è meno diretto e immediato. Indubbiamente il soggetto può pensare che perseguire l'interesse del proprio gruppo significa rafforzarlo e quindi aumentare la probabilità che il gruppo in futuro consenta di perseguire anche il proprio interesse personale, ma nell'immediato l'interesse personale del soggetto potrebbe essere perseguito attraverso una scelta diversa, che non riguarda il gruppo di appartenenza, o magari che implica addirittura un abbandono del gruppo stesso (cfr. cap. III, par. 4). Il caso della scelta politica coerente con l'appartenenza a un gruppo «senza potere» è quindi forse quello che più chiaramente mette in evidenza il ruolo dell'identità sociale in questo tipo di scelta. 3. L'identità sociale di un soggetto, lo si è detto più volte, può essere costituita dall'appartenenza contemporanea a più gruppi; si può trattare di gruppi distinti (ad esempio far parte di un gruppo di lavoro, ma anche di un gruppo sportivo), di gruppi con aree di sovrapposizione (ad esempio frequentare con alcuni colleghi di lavoro lo stesso circolo del tennis), ma anche di gruppi caratterizzati da rapporti di inclusione gerarchica (ad esempio essere abitante di una città, di una regione, di una nazione). A proposito di questi ultimi, quanto più il soggetto deciderà sulla base della sua appartenenza a un gruppo sovraordinato, inclusivo di più gruppi sottoordinati, tanto più aumenterà la probabilità che la sua scelta si allontani dal semplice perseguimento del proprio interesse personale (come si è visto nella ricerca di Smith e Tyler). Tuttavia il tema della compresenza di più identità inscritte l'una nell'altra andrebbe ulteriormente approfondito, in particolare per chiarire in quali
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condizioni personali e contestuali è più probabile che il soggetto scelga sulla base dell'una piuttosto che dell'altra. Se indubbiamente diverse questioni rimangono ancora da affrontare, è pur vero che il riferimento all'identità sociale nel- l'effettuazione di scelte politiche comincia ormai a essere dimo- strato da diversi dati di ricerca. Certo, si potrebbe dire che il bisogno di confermare la propria identità, sia pure sociale, è un bisogno in fin dei conti «egoistico» come quello di perseguire il proprio interesse economico. Anche se così fosse (ma questa obiezione è già stata discussa nel cap. III, par. 4), rimane il fatto che in alcuni casi i bisogni e le motivazioni alla base delle scelte politiche non conducono, almeno nell'immediato, al perse- guimento dell'interesse personale, e questi bisogni e motivazio- ni sono connessi alla natura del soggetto in quanto essere sociale. 5. Azione collettiva
Da sempre limitata a pochi, in tempi recenti la parteci- pazione politica ulteriore rispetto al voto sembra essere andata incontro a un'ulteriore crisi. Se è vero che in singole occasioni o in particolari periodi di transizione politica la partecipazione può estendersi a un numero consistente di persone, resta il fatto che indagini condotte soprattutto su giovani nei paesi occidentali rivelano un'evidente tendenza a non coinvolgersi nella vita politica attiva [Breakwell 1992; Bynner e Ashford 1994]. A ciò non è sicuramente estraneo un fenomeno più generale di crisi delle ideologie e dei partiti, che indurrebbe una parte dei giovani a non identificarsi più con le usuali categorie politiche e a cercare modalità di coinvolgimento nella vita pubblica non mediate dall'appartenenza partitica. In effetti, se si esce dal ristretto ambito dei partiti, è possibile trovare una miriade di attività e di movimenti nei quali è presente, in modo più o meno esplicito, una connotazione politica: in que- sta prospettiva il quadro si amplia a includere gruppi di vario tipo, da quelli sindacali a quelli ambientalisti, a quelli in difesa di particolari categorie più o meno svantaggiate (dalle donne alle minoranze etniche), a quelli legati ad attività di volontariato. Spesso, più che di veri e propri movimenti, si può parlare semplicemente di gruppi che nascono intorno a problemi speci- fici: questi gruppi possono in un secondo tempo trasformarsi in
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movimenti o confluire in movimenti già esistenti, oppure possono sciogliersi una volta perseguito (o non) l'obiettivo che si erano proposti. Per fare solamente un esempio, si può citare la costituzione, in diversi comuni del Ponente genovese, di comitati ecologici aventi l'obiettivo di risolvere una serie di problemi concreti legati al degrado ambientale dell'entroterra e delle coste liguri (riconversione di acciaierie, spostamento di porti-petroli e depositi petrolchimici, collocazione di discariche e inceneritori ecc.). In alcuni casi la durata di questi comitati è stata relativamente breve, legata alla soluzione di problemi specifici; in altri casi si è assistito invece al nascere di un coordinamento tra i vari comitati o al confluire dei loro membri nei movimenti ambientalisti, allo scopo di affrontare i problemi legati al rischio ambientale in termini più generali (legislazione in materia di inquinamento ecc.). Se si vuole muovere da una definizione di partecipazione politica che sia sufficientemente ampia, e che possa essere anche condivisa da più discipline, si può adottare quella proposta nell'Enciclopedia del Novecento da Giuliano Urbani [1980, 92]: «comportamento autonomo di chi, essendo e sentendosi parte di una qualche collettività, concorre in vario modo al processo delle decisioni che la riguardano». Una lettura di questa definizione in chiave psicologica induce a mettere in evidenza soprattutto tre punti: a) tra i requisiti essenziali della partecipazione viene posta, oltre all'appartenenza oggettiva a una collettività, anche quella soggettiva («sentendosi parte...»), e si rileva quindi che la prima può esistere anche senza la seconda: posso appartenere di fatto a una collettività ma non identificarmi con essa, e questa componente psicologica avrà delle conseguenze in termini di azione collettiva; b) il soggetto che partecipa stabilisce delle relazioni con altri («concorre...») per poter conseguire dei risultati che siano diffusi alla collettività e non limitati a se stesso: in altre parole nell'azione collettiva agisco con un fine che può riguardare anche me stesso, ma non solo me stesso; c) il fine è quello di esercitare un'influenza più o meno diretta sulle decisioni che riguardano la collettività. Naturalmente nella realtà questa influenza potrà esserci o anche non esserci, ma è importante in chiave psicologica sottolineare la presenza di questo fine come movente dell'azione collettiva.
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6. Dimensioni e modi dell'azione collettiva
Nell'espressione «concorre in vario modo», contenuta nella definizione di Urbani, vi è il riferimento al fatto che esistono diverse forme e diversi gradi di partecipazione politica, ed è evidente che di questo deve tener conto chiunque voglia approfondire lo studio di questo tema, indipendentemente dalla prospettiva disciplinare in cui si colloca. Si può ricorrere al contributo della sociologia per trovare classificazioni esaurienti delle diverse forme di partecipazione, nonché indicatori atti a rilevarle. Una lista di indicatori sempre attuale è quella stilata da Milbrath [1965], nella quale la partecipazione viene vista lungo un continuum che va da un livello minimo di attività (l'essere esposti a stimoli politici) a un livello massimo (detenere cariche pubbliche o di partito) di attività politica, con una serie di attività di livello intermedio (tab. 6.5). Si tratta di una vera e propria scala gerarchica di attività politica, nella quale si ipotizza che le attività superiori nella scala siano inclusive di quelle inferiori: chi svolge un'attività tipica di un alto coinvolgimento politico spesso svolge (o ha svolto in passato) anche attività tipiche dei livelli inferiori, mentre non vale il contrario. Data questa caratteristica della scala, un modo semplice di ottenere una misura della partecipazione può essere quello di chiedere ai soggetti quale/i delle attività comprese nella lista di indicatori hanno svolto, e utilizzare come indice semplicemente il numero di attività citate. Come si vede dalla tabella 6.5, Milbrath ha tuttavia previsto anche la possibilità di raggruppare le attività in tre diverse categorie, nell'ipotesi che la scala non sia di fatto a intervalli equivalenti, ma vi sia al contrario un salto, quantitativo ma anche qualitativo, in corrispondenza del passaggio da una categoria all'altra. A partire da una metafora di quanto avveniva nel circo degli antichi romani, le attività della categoria più elevata sono state definite da Milbrath attività da gladiatore, quelle cioè di chi si espone in prima persona nel circo della politica, mentre sono state definite attività da spettatori quelle della terza categoria, di chi partecipa allo «spettacolo» della politica, nel senso che prende le parti dell'uno o dell'altro gladiatore, lo incita, si schiera a suo favore o contro di lui. Nella seconda categoria, quella intermedia, vi sono le attività definite appunto di transizione, di chi in qualche modo si
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TAB. 6.5. Gerarchia della partecipazione politica secondo Milbrath
Detenere una carica pubblica o partitica Essere candidato a una carica Sollecitare sovvenzioni politiche Intervenire a un comizio o a un meeting strategico Diventare membro attivo di un partito politico Contribuire col proprio tempo a una campagna politica Intervenire a un meeting o a una riunione politica Dare un contributo in denaro a un partito o a un candidato Contattare una pubblica autorità o un leader politico Portare un distintivo o attaccare all'auto un adesivo Tentare di convincere altri a votare in un certo modo Dare inizio ad una discussione politica Votare Esporsi a stimoli politici
Attività gladiatorie
Attività di transizione Attività da spettatori Apatici
espone, ma non fino al punto dei gladiatori. Mentre all'interno di ciascuna categoria le attività sarebbero molto correlate tra loro (facilmente ad esempio chi è membro attivo di un partito interviene anche ai comizi di quel partito), il passaggio dalle attività di una categoria a quelle di un'altra implica un cambiamento di prospettiva e non avviene quindi in modo automatico all'aumentare del coinvolgimento. La lista di Milbrath offre dunque la possibilità di misurare la partecipazione sia come costrutto unidimensionale che come costrutto multidimensionale. Di fatto la questione se sia più opportuno considerare la partecipazione come caratterizzata da una sola oppure da diverse dimensioni è piuttosto dibattuta. Sulla base di tecniche di analisi fattoriale dei dati, alcune ricerche hanno identificato più dimensioni della partecipazione; tuttavia queste ricerche sono state sottoposte a una critica metodologica, in base alla quale il ricorso a certe tecniche di analisi potrebbe indurre ad accentuare differenze che non sarebbero in realtà così rilevanti [Kelloway e Barling 1993]. In ultima analisi l'utilizzo di una dimensione unica misurata su una scala gerarchica come quella di Milbrath sembra nella maggior parte dei casi una scelta adeguata, mentre in relazione agli obiettivi specifici di alcune ricerche può essere utile introdurre distinzioni tra un tipo di partecipazione e un'altra, basate su criteri che possono di volta in volta mutare.
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7. L'approccio sociologico all'azione collettiva
Il tema dell'azione collettiva, come e forse più di altri trattati nel presente volume, è da tempo oggetto di studio di diverse discipline, in particolare della sociologia, nell'ambito della quale ci si è occupati non solo di descrivere e di classificare le diverse forme di partecipazione, come si è visto nel paragrafo precedente, ma anche di studiare quali condizioni favoriscono oppure ostacolano l'esistenza di gruppi e movimenti politici, e come questi si evolvono nel tempo. Anche se si rimanda ad altri testi [Izzo 1991; Melucci 1984] per una descrizione dettagliata dell'approccio sociologico al tema della partecipazione politica, pare opportuno ricordarne qui alcune linee essenziali perché in esse si ritrova il riferimento a processi e a fattori che vengono ripresi, sia pure in chiave diversa, anche dall'approccio psicosociale. Teoria della mobilitazione delle risorse. Una delle teorie più articolate in merito all'azione collettiva è derivata dalla sociologia dell'organizzazione ed è la teoria della mobilitazione delle risorse [McCarthy e Zald 1979]. In molte circostanze le persone possono acquisire la consapevolezza di avere interessi in comune con altri, e in molti casi questo interesse consiste nella rivendicazione di qualcosa che al momento non si ha e al quale si ritiene tuttavia di aver diritto (ad esempio, un migliore riconoscimento economico per una certa categoria di lavoratori). Secondo la teoria della mobilitazione delle risorse, per ottenere ciò che vogliono i soggetti sono indotti a unire i loro sforzi, ad agire collettivamente. La chiave del successo di queste azioni sta nel disporre di risorse appropriate, e per obiettivi di questo tipo una delle risorse è costituita proprio dalle persone. L'altra, altrettanto importante, è costituita dai mezzi economici. Inoltre, perché sia possibile l'aggregazione di risorse adeguate, sia, personali che economiche, è fondamentale l'organizzazione. E anzi proprio l'organizzazione che assume un ruolo centrale nell'ambito di questa teoria dell'azione collettiva; non basta che più persone si riuniscano perché gli scopi comuni vengano realizzati, è necessario che le persone si organizzino in modo da disporre di uno strumento che consenta loro di perseguire in modo organico ed efficace gli scopi comuni. Un'organizzazione funziona quando è in grado di garantire a coloro che
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ne fanno parte un adeguato equilibrio tra i costi della partecipazione all'organizzazione stessa e i benefici che se ne possono trarre. In sostanza l'organizzazione fa da cerniera tra due elementi: a) i vincoli e le opportunità offerti dal sistema; b) i comportamenti degli «attori», visti, coerentemente con la teoria della scelta razionale (cfr. cap. III, par. 1), come attori che vengono indotti alla partecipazione da un calcolo di costi e benefici. Nel corso degli anni '60 e '70 il riferimento alla teoria della mobilitazione delle risorse ha consentito di accumulare una mole consistente di dati sugli aspetti organizzativi dei movimenti e dei partiti. Le persone sono state studiate, ma in quanto parti funzionali dell'organizzazione, indipendentemente dalle loro motivazioni, se si esclude quella, generica, del perseguimento del proprio interesse individuale. Negli anni successivi le critiche rivolte, nell'ambito della stessa sociologia, a questa teoria si sono centrate sostanzialmente su due punti [Kelly e Breinlinger 1996] :
1. l'accento sulle organizzazioni in quanto tali ha condotto a sottacere l'indagine di come e perché nascono e si costruiscono le rivendicazioni che conducono poi allo sviluppo delle organizzazioni stesse; 2. il riferimento al modello dell'attore razionale ha fatto sì che l'azione collettiva sia stata vista come sempre originata dall'intento di perseguire il proprio interesse individuale; l'azione collettiva si può dire tale solo per il fatto che altri soggetti hanno in comune con me determinati scopi, ma ciò che realmente fornisce la spinta propulsiva alla mia azione è l'interesse personale. Si è giunti in questo modo a un individualismo radicale, in base al quale il soggetto viene visto come completamente svincolato dal rapporto con gli altri e in generale dal contesto nel quale agisce. Approccio sociocostruttivista. A partire da queste critiche si sono sviluppati nuovi approcci allo studio dell'azione collettiva, basati su una prospettiva sociocostruttivista che può essere riassunta sostanzialmente in due punti [Melucci 1989]: 1. i significati si creano e si costruiscono socialmente, attraverso la comunicazione interpersonale, i media e così via. È fondamentale studiare come questo processo avviene se si vuole capire: a) come le persone arrivino ad acquisire la consapevolezza di avere interessi comuni; b) come questi vengano definiti in
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termini di rivendicazione. Prima di associarmi ad altri lavoratori per chiedere un migliore riconoscimento economico per la cate- goria cui appartengo dovrò aver sviluppato una serie di signifi- cati condivisi con quei lavoratori, come la definizione di chi siano gli appartenenti alla categoria stessa e chi sia l'interlocutore di questa, ma anche la definizione del valore e del peso da attribuire a un certo tipo di riconoscimento economico della categoria piuttosto che a un altro e così via; 2. il soggetto dell'azione collettiva o «attore» è chiaramente collocato nel contesto sociale, nel senso che appartiene a gruppi di vario tipo (status, genere, religione ecc.) e ciascuno di questi gruppi ha un peso suo proprio nella formazione dell'identità del soggetto. Non è difficile rintracciare in questi due punti elementi di contatto con le teorie sviluppate dalla psicologia sociale: per il punto 1) viene immediato il rimando alla teoria delle rappresen- tazioni sociali di Moscovici [1961] (cfr. cap. II, par. 10 e cap. V, par. 8) e all'accento che da questa viene posto sulla costruzione sociale dei significati e sulla loro condivisione; per il punto 2) sono evidenti le analogie con la teoria dell'identità sociale [Tajfel e Turner 1986], già più volte citata. Di fatto tuttavia, almeno finora, i riferimenti interdisciplinari di questo tipo sono stati abbastanza limitati nell'approccio sociocostruttivista. Se si può riconoscere a questo approccio il merito di aver offerto una descrizione ricca e articolata delle basi sociali e culturali del- l'identità, così come dei suoi legami con l'azione collettiva, è tuttavia forse a un approccio psicosociale che si potrebbe richie- dere un approfondimento ulteriore della ricerca in termini di descrizione dei processi, anche di natura causale, che accompa- gnano la formazione e l'espressione dell'identità. Un approccio psicosociale di questo tipo si distanzia nettamente dai primi contributi offerti dalla psicologia allo studio dell'azione colletti- va, contributi riconducibili all'opera di autori come Le Bon e Freud. 8. Determinanti psicologiche dell'azione collettiva
Per molto tempo l'azione collettiva è stata definita in chiave psicologica come un'azione guidata da processi largamente irra- zionali e automatici, che trovavano la loro spiegazione solo ed
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esclusivamente nelle caratteristiche della psiche individuale. Nella Psicologia delle folle di Le Bon [1895] l'azione collettiva è descritta in termini di comportamenti generici e standardizzati, frutto di caratteristiche invarianti proprie della folla: determinate circostanze, che evocano reazioni emotive come la paura, scatenano nella folla reazioni violente e incontrollate, che si manifestano su per giù sempre nello stesso modo. Si pensi ad esempio all'aggressività che improvvisamente si scatena in una folla di fronte alla cattura del presunto colpevole di un delitto particolarmente efferato: persone in circostanze normali non violente possono lasciarsi trascinare dall'emotività della situazione fino ad arrivare al linciaggio. L'accento sull'irrazionalità che si trova in Le Bon trova conferma anche nell'approccio psicoanalitico al tema dell'azione collettiva, rilevabile in opere di Freud come Psicologia delle masse a analisi dell'Io (1921), dove si pone in evidenza che il comportamento pubblico in situazioni di questo tipo non è che un modo di proiettare verso oggetti esterni a sé un'aggressività inizialmente rivolta verso gli oggetti interni, e quindi potenzialmente molto pericolosa per la salute mentale e l'incolumità della persona. Le interpretazioni di Le Bon e Freud hanno avuto notevole impatto sullo studio dell'azione collettiva, al punto che in alcuni casi si è giunti a identificarle come rappresentative dell'approccio psicologico tout court. Questo sembra essere ad esempio quanto fa Smelser nel suo Manuale di sociologia [Smelser 1981; trad. it. 1995, 597 - 598), laddove descrive l'evoluzione che ha subito nel tempo lo studio dell'azione collettiva, e vede questa evoluzione come caratterizzata da tre principali cambiamenti: a) lo spostamento di attenzione dall'esame dei processi irrazionali all'esame dei processi razionali e intenzionali; b) il mutamento delle ipotesi sulle cause dell'azione collettiva, da una semplice attivazione di processi automatici a una influenza complessa di più eventi concatenati; c) il passaggio «dall'iniziale approccio psicologico all'attuale approccio sociologico», che vede nelle condizioni sociali (più che nelle caratteristiche individuali) la causa scatenante dell'azione collettiva. Nell'affrontare l'esame delle determinanti psicologiche dell'attività psichica cercheremo di dimostrare che in realtà molta strada è stata percorsa dalla psicologia a partire dagli inizi del '900, e in particolare che un approccio psicosociale può togliere al termine «psicologico»
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quella connotazione di riduttivismo, irrazionalità e individualismo che in alcuni casi così «tenacemente» gli viene attribuita. Un esempio di come proprio il tema della folla, trattato da Le Bon in chiave individuale, possa essere riletto in prospettiva psicosociale è stato già presentato nel cap. III, par. 7, dove è stata descritta la ricerca di Reicher [1996] sulla ricostruzione della cosiddetta «battaglia di Westminster» da parte di coloro che vi avevano partecipato. In questa ricerca la spiegazione di ciò che origina il comportamento della folla, così come della sua variabilità, viene cercata non in processi puramente individuali o irrazionali, bensì nel contesto sociale in cui il comportamento si manifesta, nei meccanismi che regolano le interazioni tra coloro che ne sono protagonisti, così come nel riferimento a rappresentazioni, valori e ideologie più o meno condivisi. Prima tuttavia di esaminare in dettaglio l'approccio psicosociale allo studio dell'azione collettiva, e in particolare il tema dei rapporti tra identità sociale e azione collettiva, conviene presentare una breve rassegna dei diversi fattori o costrutti psicologici ai quali nel corso degli anni ci si è riferiti per offrire una spiegazione della partecipazione individuale all'azione collettiva [Kelly e Breinlinger 1996] . La più parte di questi costrutti (locus of control, efficacia politica, orientamento individualista/ collettivista) rimandano soprattutto a caratteristiche del soggetto in quanto singolo; uno solo di essi (deprivazione relativa) rimanda invece anche alle caratteristiche del soggetto in quanto essere sociale e introduce in tal modo il tema, che verrà trattato nel prossimo paragrafo, dell'identità sociale come determinante dell'azione collettiva. Si può dire sin da ora che probabilmente nessuno dei fattori elencati, preso singolarmente, può essere ritenuto sufficiente a spiegare la scelta di partecipare, nel senso che questa scelta deriva comunque dall'interazione di più fattori. Locus of control. Tra le variabili di personalità che si sono dimostrate correlate all'azione collettiva vi è il locus of control [Rotter 1966]. Si tratta di un'aspettativa generalizzata, presente in situazioni e circostanze di vario tipo, in base alla quale il soggetto può essere orientato o meno a ritenere che la propria azione sarà determinante per il conseguimento dei propri scopi: sono caratterizzati da un locus of control interno i soggetti che percepiscono gli eventi come una conseguenza del proprio agire e come suscettibili di controllo da parte loro; sono invece ca-
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ratterizzati da un locus of control esterno i soggetti che tendono a percepire gli eventi come estranei alla propria sfera di controllo e azione. Quale delle due condizioni sia più correlata all'azione collettiva non è stato finora chiarito in modo univoco dalla ricerca. In un primo tempo si è ipotizzato, e alcuni dati di ricerca hanno confermato questa ipotesi, che chi ha un locus of control interno sia più orientato alla partecipazione politica per il fatto che è convinto di poter in qualche modo controllare gli eventi per mezzo del proprio comportamento. Successivamente, sulla base dei risultati contraddittori emersi da alcuni studi, si è giunti tuttavia a prendere in esame anche l'ipotesi opposta, che cioè vi sia un legame positivo tra soggetti con un locus of control esterno e azione collettiva: questi soggetti intraprenderebbero l'azione collettiva nell'intento di guadagnare potere e in questo modo arrivare a esercitare quel controllo sugli eventi che al momento saprebbero di non poter esercitare. Se dunque nel caso degli «interni» sarebbe la percezione di poter controllare gli eventi, quindi di poter agire in modo efficace, a favorire la partecipazione, nel caso degli «esterni» sarebbe invece la ricerca di un controllo sugli eventi che al momento non si possiede a determinare la partecipazione stessa [Klandermans 1983]. In altre parole la percezione di controllo sugli eventi può essere vista sia come una causa della partecipazione sia come un effetto da perseguire attraverso la partecipazione stessa. Questa duplicità determina una sostanziale impossibilità di prevedere la relazione tra locus of control (interno o esterno) e azione collettiva, a meno che non si disponga di informazioni ulteriori, come la posizione sociale del soggetto, il suo orientamento ideologico e le sue aspettative circa la possibilità o meno di aumentare il proprio potere decisionale tramite l'azione. Ad esempio il locus of control esterno potrebbe essere un fattore che favorisce l'azione collettiva quando il soggetto appartiene a un gruppo di minoranza, o comunque a un gruppo che si trova a essere discriminato rispetto ad altri per qualche motivo. Si tratta, come si vede, di integrare il dato di personalità con dati di diverso tipo, legati al contesto nel quale l'azione collettiva ha luogo. D'altra parte, come si vedrà anche per le altre variabili di personalità esaminate in seguito, un'integrazione di questo tipo appare imprescindibile nel momento in cui l'obiettivo che la ricerca si propone non è semplicemente di identificare una generica predisposizione all'azione collettiva, bensì di prevedere una specifica azione.
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Efficacia politica. La nozione di efficacia politica è stata ori- ginariamente proposta da Campbell, Gurin e Miller [1954], che ne hanno dato la seguente definizione, relativa soprattutto al comportamento di voto: «sensazione che l'azione politica indi- viduale abbia o possa avere un impatto sul processo politico, ossia che valga la pena di compiere il proprio dovere di cittadi- no» [ibidem, 187]. In questa definizione non è chiaro se la sensazione di cui si parla sia basata su una valutazione che il soggetto dà di se stesso, della propria abilità nell'affrontare il sistema politico, oppure su una valutazione che il soggetto dà di un certo sistema politico, della possibilità che quel sistema fun- zioni in modo adeguato. In altre parole non è chiaro se l'accento sia posto sul sistema politico oppure sull'individuo. Di corse- guenza nelle definizioni successive, proposte soprattutto da politologi e sociologi, l'efficacia politica è stata vista come un costrutto costituito da due dimensioni distinte [Balch 1974; Shingles 1981]: 1. efficacia politica esterna, ossia la percezione di efficacia che deriva da componenti esterne all'individuo; in questa di- mensione rientra la cosiddetta fiducia nel sistema, una nozione spesso utilizzata dalla scienza della politica per indicare la con- vinzione che il governo possa e voglia rispondere ai bisogni dei cittadini; 2. efficacia politica interna, ossia la percezione di efficacia che deriva dalla propria personale forza o debolezza. Questa seconda dimensione può essere ricondotta a una nozione che è stata ampiamente studiata in psicologia a proposito del rappor- to tra motivazione e azione, la nozione di autoefficacia (self- efficacy): in particolare, nell'ambito dei modelli del valore-aspet- tativa [Bandura 1977], si intende per autoefficacia la previsione del soggetto circa i futuri esiti delle proprie azioni e si pone in evidenza il ruolo giocato da questa previsione nell'orientare e determinare le azioni stesse. A partire dal contributo offerto dai modelli del valore-aspet- tativa è possibile proporre un'ulteriore distinzione nella dimen- sione efficacia politica interna (o autoefficacia) sopra descritta, e vederla come costituita da: a) aspettative di competenza, relative alla capacità di mettere in atto una certa azione politica; b) aspettative di risultato, relative alla probabilità che quel- l'azione politica abbia successo.
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Nel primo caso si tratta di aspettative basate su una valutazione della difficoltà dello scopo da perseguire rispetto alle risorse cognitive di cui il soggetto dispone; nel secondo caso si tratta invece di aspettative basate su una valutazione della possibilità che lo scopo venga effettivamente ottenuto attraverso l'azione. Entrambe queste componenti dell'autoefficacia politica si sono in effetti rivelate determinanti significative dell'azione collettiva [Krampen 1991]. Si ricordi a questo proposito anche quanto si è detto sui rapporti tra conoscenza e azione politica, ossia che l'autoefficacia gioca in essi un importante ruolo di mediazione (cfr. cap. II, par. 10): perché il soggetto compia un'azione è necessario che egli abbia la competenza cognitiva che gli consente di concepire e pianificare l'azione, ma è altrettanto indispensabile che il soggetto abbia, o almeno percepisca di avere, il potere di compiere l'azione stessa. Ciò che vale nel caso di qualunque azione può valere a maggior ragione nel caso dell'azione in ambito politico, dove il potere, e la percezione di averlo, rivestono un'importanza ancora maggiore rispetto ad altri ambiti. Ciò che può lasciare perplessi in quanto si è detto finora sull'efficacia politica è l'idea che il soggetto si limiti a valutare la propria efficacia personale, e non valuti invece anche quella di coloro che insieme a lui intendono svolgere, o già svolgono, una certa attività politica. Insomma, proprio per il fatto che un'azione collettiva deriva dal coinvolgimento di più persone, è difficile immaginare che una previsione delle conseguenze dell'azione si basi solo sul contributo del singolo, e non anche su quello degli altri. Sulla base di questa considerazione, è possíbile introdurre una nozione che apre alla considerazione della presenza degli altri nella valutazione dell'efficacia [Andrews 1991; Klandermans 1997]: si tratta della nozione di efficacia di gruppo (group-efficacy), che può essere affiancata alla nozione di autoefficacia, e che consisterebbe in aspettative, sia di competenza che di risultato, che il soggetto ha non nei confronti di se stesso, bensì degli altri potenziali o effettivi partecipanti all'azione politica. Operativamente, nel momento in cui si intraprende un'azione politica insieme ad altri, la percezione di efficacia di gruppo si potrebbe definire come costituita dalle seguenti componenti: a) valutazione della probabilità che anche altri, oltre a me, intraprendano la stessa azione; b) valutazione della competenza degli altri ad agire; c) valutazione della probabilità che l'azione abbia successo se molti parteciperanno.
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Orientamento individualista/collettivista. Questo costrutto si è sviluppato soprattutto nell'ambito della ricerca crossculturale [Triandis et al. 1988; Triandis, McCusker e Hui 1990]. Si è osservato infatti, attraverso ricerche effettuate in diversi paesi, che una serie di orientamenti delle persone su temi di vario tipo (ad esempio la cooperazione, misurata attraverso item come «C'è tutto da guadagnare e nulla da perdere quando compagni di corso si ritrovano insieme per studiare e discutere», il comportamento di aiuto, con item come «Nell'ambito delle mie possibilità aiuterei un/una parente, se mi dicesse che si trova in difficoltà finanziarie», il perseguimento di fini personali, con item come «Quando sono tra i miei colleghi/compagni, faccio le mie cose senza badare a loro») sono riconducibili a un denominatore comune, l'individualismo o viceversa il collettivismo. Questo denominatore è fondato culturalmente, nel senso che è ampiamente condiviso all'interno di una medesima cultura, e tuttavia tende a stabilizzarsi nel singolo soggetto fino a trasformarsi in una vera e propria caratteristica di personalità. Si tratta di un modo particolare di definire una caratteristica di personalità: è una caratteristica comune al gruppo di appartenenza culturale, ma al contempo costituisce una disposizione psicologica di base che orienta le azioni dei singoli soggetti. Dalle ricerche effettuate è emerso che vi sono paesi dove l'orientamento individualistico è nettamente prevalente, ed altri dove invece prevale l'orientamento collettivistico. Proprio per l'ambito di ricerca in cui si è sviluppato, questo costrutto è stato finora indagato soprattutto con un'attenzione alle differenze esistenti tra le diverse culture, e non alle differenze individuali all'interno di una stessa cultura. Si può invece ipotizzare che, dato per scontato un livello «base» di individualismo o collettivismo all'interno di una certa cultura, i singoli soggetti possano poi conformarsi a, o differenziarsi da, questo in modo più o meno marcato. Per quanto riguarda la relazione con l'attività politica, i dati disponibili indicano che chi ha un orientamento collettivista ha più probabilità di partecipare e impegnarsi nell'azione collettiva [Hinkle e Brown 1990]. Nel concludere l'esame delle variabili di personalità che sono state indagate come antecedenti dell'azione collettiva può essere opportuno estendere un commento già anticipato a proposito del locus of control. La capacità esplicativa di queste variabili non è sempre stata confermata in modo chiaro e univo-
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co dalle ricerche effettuate [Kelly e Breinlinger 1996]. Proprio in quanto variabili individuali, proprie del singolo soggetto (se si esclude l'efficacia di gruppo), esse possono avere una notevole capacità euristica quando si tratta di predire il comportamento del soggetto in generale, a vasto raggio, in circostanze e condizioni di vario tipo. Si rivelano invece di minore utilità quando si tratta di predire una specifica azione in uno specifico contesto; in questo caso l'esame di processi esclusivamente individuali non appare più di per sé sufficiente e deve essere integrato con l'esame di processi di gruppo, e su questi ci soffermeremo ora più ampiamente. Deprivazione relativa. Una delle determinanti principali dell'azione politica sembra essere la percezione del soggetto di subire ingiustizie, di essere discriminato rispetto ad altri, privato di qualcosa cui ha diritto. I primi riferimenti al costrutto della «deprivazione relativa» risalgono alla fine degli anni '40, ad alcuni studi di matrice sociologica volti a indagare le relazioni intercorrenti fra la classe sociale di appartenenza dei soggetti, lo status, la posizione di potere e, appunto, la percezione di «deprivazione relativa» [Stouffer et al. 1949] . Tre sono le condizioni necessarie perché si possa parlare di deprivazione relativa [Folger, Rosenfield e Robinson 19831: —desiderare qualcosa che non si ha e che si ritiene importante (ad esempio lavoro, cultura); —sentirsi in diritto di avere questo qualcosa; —non attribuire a se stessi la colpa di non averlo, ma al contrario avere la percezione che altri abbiano determinato questa carenza. Nell'ambito della deprivazione relativa è possibile operare una distinzione tra deprivazione egoistica e deprivazione collettiva: nel primo caso l'individuo sente di essere discriminato rispetto ad altri individui; nel secondo caso l'individuo sente invece che il suo gruppo è discriminato rispetto ad altri gruppi. È la deprivazione collettiva che può essere una determinante dell'azione collettiva perché, mentre una carenza percepita come individuale può essere risolta in vari modi, una carenza percepita come collettiva invita a una soluzione di tipo istituzionale. La deprivazione è costituita da una componente cognitiva e da una affettiva: mentre la prima è la percezione della ampiezza della deprivazione, la seconda, più valutativa, è la percezione
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della sua intensità, quindi il peso e il significato emotivo ad essa attribuiti. Una delle prospettive in base alle quali può essere indagata la componente cognitiva è quella di studiare i processi di spiegazione causale che inducono il soggetto a interpretare una data situazione in termini di deprivazione. Il fatto di prendere in esame una possibile causa piuttosto che un'altra avrà tra l'altro un riflesso sulla connotazione egoistica oppure collettiva della deprivazione percepita dal soggetto. Supponiamo che io ritenga di non avere sufficiente possibilità di esprimermi sul lavoro. Un conto è attribuire questa situazione alla presenza di un capufficio invadente e limitante, un conto è attribuirla a un'inadeguata assegnazione di compiti e collocazione nell'orga- nigramma aziendale di tutti coloro che hanno la mia stessa qualifica. Nel primo caso potrei cercare di cambiare ufficio, nel secondo caso potrei rivolgermi al sindacato perché intraprenda una battaglia per la ridefinizione del contratto di lavoro della mia categoria. La deprivazione relativa è la percezione dei soggetti di essere privati di qualche cosa, non in termini assoluti, bensì in termini relativi, cioè rispetto ad altri soggetti o gruppi. Il fatto che la deprivazione derivi in ultima analisi dal confronto sociale, così come la distinzione tra deprivazione egoistica e deprivazione collettiva, costituiscono elementi di parziale somiglianza con la teoria dell'identità sociale proposta da Tajfel e Turner [1986], ed è su questa che ci soffermeremo ora più ampiamente. 9. Identità sociale e azione collettiva
Se l'identità sociale può costituire una delle determinanti del voto, a maggior ragione essa potrà essere indagata come una delle possibili determinanti di altre azioni politiche che richie- dono un maggiore coinvolgimento da parte dei soggetti. Si è detto che l'identità sociale è fondata sul senso di appartenenza al gruppo, ed è sostenuta e rafforzata dalla condivisione con i membri del gruppo di credenze, ideologie e scopi. In questa prospettiva, non è difficile pensare che l'identità sociale sia uno dei fattori che influenzano l'azione collettiva; da più parti infatti si è messo in evidenza che un'interpretazione condivisa della realtà e una condivisione di scopi sono elementi necessari per- ché soggetti, magari profondamente diversi tra loro, decidano di
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riunire le loro forze, di lavorare per il perseguimento di interessi comuni, insomma di intraprendere un'azione collettiva [ Melucci 1989]. Ciò non significa tuttavia che una forte identità sociale debba necessariamente tradursi in: a) azione e b) azione con fini politici. Si tratta anzi di comprendere in che modo e in quali circostanze questo possa avvenire. Una prima indicazione generale in questo senso può venire dal tipo di gruppo sul quale è fondata l'identità sociale del soggetto [Hinkle e Brown 1990]. Vi sono gruppi che, per loro stessa natura, sono caratterizzati da un orientamento individualista e autonomo: il gruppo di pesca sportiva, il circolo di tennis o di golf, l'associazione di trekking sono tutti esempi di gruppi che, almeno in origine, si creano perché ciascun membro possa più facilmente raggiungere gli scopi che si prefigge come singolo, scopi di divertimento, di benessere fisico, di autorealizzazione. Vi sono altri gruppi che invece sono caratterizzati da un orientamento collettivista e relazionale: i partiti politici, i sindacati, il WWF sono esempi di gruppi che nascono e si sviluppano per raggiungere degli obiettivi che non riguardano in primo luogo il singolo, bensì riguardano l'intera comunità o perlomeno una categoria di persone al suo interno. È quando l'identità sociale si basa sull'appartenenza a gruppi di questo secondo tipo che essa più facilmente può costituire una determinante dell'azione collettiva. Può costituire una determinante ma non lo è necessariamente. Di fatto la questione di quali siano le condizioni nelle quali l'identità può indurre all'azione si presenta come tutt'altro che semplice. Nell'ambito della teoria formulata da Tajfel e Turner i riferimenti più utili (anche se indiretti) per lo studio dell'azione collettiva si trovano laddove viene affrontata la questione dei rapporti tra gruppi caratterizzati da status differente, in un modo che riecheggia in parte quanto si è già detto a proposito della deprivazione relativa. La società è fatta di categorie e gruppi che detengono il potere (high status), e di altri gruppi che, confrontati con i primi, appaiono caratterizzati da una mancanza di potere (low status). Solitamente l'appartenenza a un gruppo high status conferisce ai suoi membri, oltre a una serie di benefici materiali e sociali, un'identità sociale positiva e un alto livello di autostima. All'opposto l'appartenenza a un gruppo low status dovrebbe essere più problematica per i membri del gruppo: da essa non derivano vantaggi immediati, né in senso
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materiale o sociale, né in termini di identità sociale positiva e di autostima. Come rispondono gli individui a tale situazione, visto che l'aspirazione di ciascuno è quella di avere un'identità sociale positiva e visto che in questa situazione ciò non accade? Secondo Tajfel e Turner [1986] i soggetti hanno la possibilità di ricorrere a una delle strategie che seguono. 1. Mobilità individuale: cerco di migliorare la mia situazio- ne attraverso l'abbandono del gruppo low status e un eventuale inserimento in un gruppo high status. L'adozione di questa strategia è possibile solo nel caso che i confini del mio e degli altri gruppi siano caratterizzati da un certo grado di permeabilità. In pratica se vivo in India, dove vige un sistema rigido di caste per cui appartengo sin dalla nascita a una di queste e a questa resto confinato, non potrò pensare di adottare una strategia del genere, mentre potrò pensare di farlo se vivo in una società di altro tipo: è difficile tuttavia fare degli esempi di totale per- meabilità dei confini di gruppo, perché, come è facile intuire, spesso questi confini in pratica esistono anche laddove sono formalmente e apertamente negati. È possibile per un uomo di razza nera diventare presidente degli Stati Uniti? La risposta dovrebbe essere sì, ma facilmente si potrebbero fare delle con- siderazioni che indurrebbero invece a rispondere no. Comun- que sia, quando è praticabile, la mobilità costituisce una solu- zione di natura squisitamente individuale, nel senso appunto che riguarda il soggetto e non gli altri membri del gruppo. 2. Creatività sociale: cerco delle dimensioni di confronto con gli altri gruppi che non siano così penalizzanti per la mia identità. La presenza di una strategia di questo tipo è stata verificata attraverso diverse ricerche [per un esame più detta- gliato di questi studi si veda Palmonari 1995]. A titolo di esem- pio si può ricordare una ricerca di Van Knippenberg [1978] in cui gli studenti di un istituto tecnico comunemente reputato meno prestigioso di un altro trovavano modo di riportare in qualche modo il confronto tra i due istituti a loro favore spo- standolo su una dimensione diversa rispetto a quella, abituai- mente utilizzata, della competenza scientifica dei diplomati del- le due scuole. Nel caso specifico la strategia utilizzata dagli studenti poteva essere sintetizzata in una frase del tipo: «Sì, loro hanno (forse) maggiore competenza scientifica di noi, ma noi abbiamo maggiore competenza pratica, e questo tipo di compe-
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tenza è ugualmente importante per un buon adattamento al mondo del lavoro». In questo modo non veniva negata una credenza condivisa da tutti (compresi i membri del gruppo low status), ma al contempo veniva salvaguardata l'esigenza di un'identità sociale positiva. Al contrario della prima, questa strategia non conduce a una soluzione individuale, bensì a una soluzione di gruppo. E però una soluzione che mantiene invariate le posizioni attuali dei gruppi, non implica cioè una ricerca di cambiamento negli equilibri di low e high status, come avviene invece nella strategia seguente. 3. Competizione e cambiamento sociale: cerco di cambiare lo status quo del mio gruppo, di cambiare quindi gli equilibri di potere tra i gruppi. Tajfel e Turner sottolineano che solo quest'ultima strategia conduce allo sviluppo di atteggiamenti, ed eventualmente comportamenti, conflittuali nei confronti degli altri gruppi. Questa strategia verrebbe messa in atto quando si concepisce un'alternativa alla gerarchia attuale, nel senso che le rispettive posizioni di high e low status vengono percepite come instabili e illegittime. Dunque ciò che conduce a questa strategia è sostanzialmente la percezione di deprivazione relativa della quale si è già detto sopra, ed è proprio questa strategia che può divenire una determinante dell'azione collettiva: decido di passare all'azione perché ritengo che la posizione del mio gruppo possa e debba essere modificata in positivo. Di fatto però l'azione collettiva è solo una delle possibili espressioni di questa strategia, che può manifestarsi anche in altri modi, ad esempio attraverso la formazione di atteggiamenti conflittuali nei confronti degli altri gruppi, e la psicologia sociale ha ampiamente indagato come questo avviene, mettendo in luce tra l'altro alcune componenti squisitamente linguistiche dell'espressione di questi atteggiamenti [Maass e Arcuri 1996]. Si tratterebbe dunque di chiarire in quali condizioni le relazioni tra gruppi low status e gruppi high status possano sfociare in vera e propria azione collettiva e non semplicemente in espressione individuale di atteggiamenti conflittuali. Un tentativo in questa direzione lo si può ritrovare in un modello proposto da Taylor e McKirnan [1984]. Nel modello, messo a punto per cercare una verifica empirica di alcune delle ipotesi formulate dalla teoria dell'identità sociale, si ipotizza una sequenza di sviluppo delle relazioni intergruppo caratterizzata da 5 stadi (fig. 6.1). In certe condizioni di stratificazione sociale, nelle
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La partecipazione politica Stadio 1
Relazioni intergruppo chiaramente stratificate. — Stratificazione basata su caratteristiche ascritte a priori
Gruppo
avvantaggiato
Stadio 2
Ideologia individualistica Stratificazione basata sul successo
i
Stadio 3
Mobilità sociale individuale Membri selezionati del gruppo svantaggiato cercano di passare nel gruppo avvantaggiato
Gruppo
svantaggiato
Stadio 4
Presa di coscienza
Gruppo
avvantaggiato
Gruppo
avvantaggiato
Quelli che riescono a passare si conformano completamente al gruppo avvantaggiato. Quelli che non riescono a passare tornano al gruppo originario per dar vita a un'azione collettiva
J
Stadio 5
Azione collettiva
FIG. 6.1.
Modello a cinque stadi delle relazioni intergruppo.
Fonte: Taylor e McKirnan [1984].
quali vi è una chiara identificazione di gruppi low e high status (stadi 1 e 2), chi si trova in un gruppo svantaggiato tenterebbe inizialmente di lasciarlo per inserirsi nel gruppo avvantaggiato e poter così perseguire l'obiettivo di sviluppare un'identità socia-
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le positiva (stadio 3). Se questo tentativo fallisce, a causa della impermeabilità dei confini di gruppo o per altri motivi, il soggetto acquisirebbe una piena coscienza della propria appartenenza di gruppo (stadio 4) e ciò lo indurrebbe a intraprendere un'azione collettiva, allo scopo di modificare la situazione di potere del gruppo stesso. Da notare che questa sequenza non sfocia tanto in un'azione per cambiare il gruppo in sé e per sé, quindi in un'azione all'interno del gruppo, bensì in un'azione rivolta all'esterno, volta a cambiare la definizione dei rapporti con gli altri gruppi. In effetti il modello di Taylor e McKirnan [1984] ha il merito di aver cercato di identificare una possibile catena causale che, a partire da un processo psicologico come lo sviluppo dell'identità sociale, conduce all'azione collettiva. Tuttavia non ci sono state conferme sperimentali inequivoche della bontà di questo modello, e uno degli aspetti del modello che più sono stati messi in discussione è l'ipotesi che l'azione collettiva sia sempre e solo una scelta «di ripiego» dopo che la scelta iniziale di tipo individualistico, quella cioè di lasciare il gruppo, è fallita. Di fatto nei gruppi reali non sempre le cose sembrano andare in questo modo, e comunque sarebbe necessario disporre di più dati di ricerca per meglio chiarire questo punto. Quanto si è detto finora indurrebbe a concludere che la teoria dell'identità sociale può essere applicata utilmente nello studio dell'azione collettiva, e tuttavia tale applicazione è stata finora limitata, perché limitato è stato più in generale l'esame del legame che esiste tra l'identità sociale e la sua espressione attraverso l'azione [Amerio 1995, 248]. I dati empirici per ora disponibili inducono comunque ad affermare che: —l'identità sociale ha un effetto diretto sull'azione collettiva; —l'identità sociale può avere anche un effetto moderatore per quel che riguarda l'influenza di altri fattori sull'azione collettiva. In relazione al primo punto può essere citata una ricerca di Kelly e Kelly [1994], che hanno sottoposto un questionario a un campione di sindacalisti per indagare il peso relativo di diversi fattori associati alla volontà di partecipare all'azione collettiva. Nel questionario veniva anzitutto misurata la prevista partecipazione (« nei prossimi 12 mesi») a 10 diverse attività sindacali. Le altre sezioni del questionario erano volte a misurare una serie di possibili determinanti della partecipazione, e specificamente: a)
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identificazione con il gruppo (ad esempio «Mi identifico molto con il sindacato»); b) orientamento collettivista o individualista (ad esempio «Lavoro meglio in gruppo che da solo»); c) percepito conflitto intergruppo (ad esempio «Sento un forte senso di "loro e noi" tra impiegati e dirigenti sul lavoro»); d) percezione stereotipata dell'outgroup (calcolo della differenza tra la valutazione data dal soggetto e quella che, secondo lo stesso soggetto, darebbe un dirigente, di frasi del tipo «I sindacati hanno moltissimo da dire nel governo del paese»); e) deprivazione relativa egoistica (ad esempio «Mi sento discriminato rispetto ad altre persone che fanno il mio lavoro»); f) deprivazione relativa collettiva (ad esempio «Sento che i membri del mio sindacato sono discriminati rispetto ad altri gruppi simili nella società»); g) efficacia politica (ad esempio «Ogni individuo può avere un impatto sul processo politico»). Come si vede, se si esclude la percezione stereotipata dell'outgroup e il grado di conflitto intergruppo, gli altri predittori rientrano tra quelli che sono già stati discussi nei paragrafi precedenti. Sulla base dei risultati di un'analisi fattoriale sulle risposte relative alle attività sindacali che i soggetti intendevano svolgere, è stata operata una distinzione tra partecipazione «facile» (che includeva attività come discutere le questioni sindacali, leggere il giornale del sindacato, votare alle elezioni sindacali) e partecipazione «difficile» (che includeva attività come fare il delegato sindacale, parlare alle riunioni sindacali, collaborare alla campagna sindacale). Successivamente è stata effettuata un'analisi di regressione per identificare i predittori dei due tipi di partecipazione (cfr. tab. 6.6). L'identità di gruppo è risultata il predittore più importante, mentre ve ne sono altri due significativi, ma solo per la partecipazione «facile», ossia l'orientamento collettivista e la percezione stereotipata dell'outgroup. In una successiva ricerca Kell y e Breinlinger [1996] si sono proposti obiettivi analoghi a quelli della ricerca precedente, ma in questo caso l'azione collettiva indagata non è stata quella sindacale, bensì quella espletata, in vari modi più o meno organizzati, a favore della donna. Inoltre questa seconda ricerca è stata effettuata in due fasi successive: nella prima è stata indagata l'intenzione di partecipare alle diverse possibili attività; nella seconda, effettuata a un anno di distanza, è stata indagata l'effettiva partecipazione che vi era stata nel corso di quell'anno. Come nella ricerca precedente, è stata effettuata un'analisi fattoriale
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TAB. 6.6. Predittori della partecipazione politica (coefficienti di regressione standardizzati') Variabile indipendente
Variabile dipendente Totale
partecipazioneb Identificazione con il gruppo Orientamento collettivista Percezione del conflitto intergruppo Stereotipizzazione dell'outgroup Deprivazione relativa egoistica Deprivazione relativa collettiva Efficacia politica
+ 63* + 07 — 05 + 16* — 02 + 07 — 02
Partecipazione Partecipazione facile' difficil e' + 54* + 15* — 06 + 19* — 02 + 06 — 01
+ 62* — 09 — 02 + 07 — 02 + 07 — 05
° I punti decimali sono stati omessi dai coefficienti di regressione. b R 2 = 0,55 (F = 49,65; gl = 7,268,p < 0,01). ° R 2 = 0,54 (F = 46,85; gl = 7,268, p < 0,01). ' R 2 = 0,33 (F = 20,07; gl = 7,268, p < 0,01). * p < 0,01. Fonte: Kelly e Kelly [1994].
sulle risposte relative alle diverse attività e si è giunti così a identificare 4 diverse forme di partecipazione: a) partecipazione a gruppi femministi (ad esempio lavorare per una campagna femminista, partecipare alle riunioni del gruppo); b) protesta collettiva (ad esempio infrangere la legge, prendere parte a dimostrazioni); c) partecipazione informale (discutere temi femministi, leggere articoli su questi temi); d) protesta individuale (ad esempio contattare i media, firmare una petizione). Come possibili determinanti della partecipazione sono stati utilizzati l'identità di genere (ad esempio «Sento di avere stretti legami con altre donne»), la deprivazione relativa (ad esempio «In termini di potere e status nella società, le donne sono svantaggiate rispetto agli uomini»), l'efficacia politica (ad esempio «Le persone che si coalizzano possono cambiare la politica del governo»), l'orientamento collettivista in generale (ad esempio «Non ci si dovrebbe aspettare che le persone facciano alcunché per la comunità, a meno che non siano pagate per farlo») e l'orientamento collettivista di genere (ad esempio «Le donne devono agire come gruppo piuttosto che come singoli individui»). Dai risultati dell'analisi di regressione è emerso che l'identità di genere è il predittore migliore di tutte le forme di partecipazione; anche deprivazione relativa ed efficacia politica hanno però una buona capacità predittiva.
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La partecipazione politica
La partecipazione politica
Oltre all'effetto diretto dell'identità di gruppo sulla partecipazione, Kelly e Breinlinger hanno indagato l'eventuale effetto moderatore di questo fattore rispetto ad altri. L'ipotesi formulata era che nei soggetti caratterizzati da un'identità di gruppo forte la partecipazione sarebbe maggiormente determinata da fattori sociali come la percezione di disuguaglianza o la deprivazione relativa; nei soggetti caratterizzati da un'identità di gruppo debole la partecipazione sarebbe invece influenzata da fattori individuali come l'efficacia personale. Per verificare questa ipotesi Kelly e Breinlinger hanno distinto i soggetti del campione in due gruppi, caratterizzati rispettivamente da bassa vs. alta identità di gruppo, e hanno effettuato su di essi due analisi di regressione separate, in modo da stabilire il peso relativo dei diversi predittori in ciascuno dei due gruppi. Dai risultati, riportati nella tabella 6.7, si può rilevare anzitutto che le differenze tra i due gruppi non riguardano i predittori dell'intenzione di agire, ma solo quelli dell'azione vera e propria. A proposito di quest'ultima, si osserva che la deprivazione relativa è un predittore più importante per chi ha TAB. 6.7. Predittori della partecipazione all'attività politica in favore della donna in
soggetti caratterizzati da bassa vs. alta identità di gruppo (coefficienti di regressione standardizzatati)
Bassa identità di gruppo
Alta identità di gruppo
Fase 1: intenzione di partecipare (totale)b Deprivazione relativa Efficacia politica Collettivismo (generale) Collettivismo (di genere)
18* 18* 19** 20**
22** 23** 06 10
11 21** 19** 16*
18* 13 06 08
Fase 2: partecipazione effettiva (totale)' Deprivazione relativa Efficacia politica Collettivismo (generale) Collettivismo (di genere)
I punti decimali sono stati omessi dai coefficienti di regressione. Bassa identità di gruppo: R 2 = 0,18; F (4,178) = 10,91; p <0,01. Alta identità di gruppo: R 2 = 0,12; F (4,193) = 7,97; p < 0,01. Bassa identità di gruppo: R 2 = 0,15; F (4,178) = 8,89; p < 0,01. Alta identità di gruppo: R 2 = 0,06; F (4,193) = 4,04; p < 0.01. * p < 0,05. **p < 0,01. b
Fonte: Kelly e Breinlinger [1996].
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un'identità sociale forte, mentre gli altri predittori (efficacia politica, orientamento collettivista sia in generale che di genere) sono più importanti per chi ha un'identità sociale debole. Il tema delle determinanti dell'azione collettiva merita senz'altro di essere indagato ulteriormente, soprattutto per quanto riguarda il peso relativo delle determinanti individuali e di quelle sociali, nonché le condizioni in cui le une o le altre possono prevalere. Se si può dire infatti che la ricerca ha ormai individuato i principali fattori psicosociali che intervengono nell'azione collettiva, molto ancora resta da indagare per comprendere come questi fattori interagiscono. L'approfondimento della ricerca psicologica in questo campo dovrebbe includere anche il riferimento a una tipologia più ricca e articolata di azioni collettive, perché è plausibile attendersi che il ruolo giocato dai diversi fattori vari anche in funzione del tipo di azione espletata. Una conferma in questo senso viene dai dati di una ricerca effettuata da Catellani et al. [1996], nella quale sono state poste a confronto le determinanti psicosociali dell'attività sindacale con quelle dell'attività di partito. Gli attivisti sindacali appaiono caratterizzati da un livello più alto di identità e di efficacia di gruppo, così come di conflitto con l'outgroup, rispetto agli attivisti di partito; questi dal canto loro dimostrano di avere un senso di autoefficacia superiore rispetto agli attivisti sindacali. Se sia nella decisione di appartenere al partito che in quella di appartenere al sindacato hanno un peso fattori connotati socialmente (interesse ad aggregarsi in difesa dei diritti propri e del proprio gruppo, questioni ideologiche, comunanza di idee e di interessi con amici e conoscenti ecc.) certe caratteristiche del sindacato (ad esempio il fatto di agire a livello locale) potrebbero: a) generare un'identità di gruppo più forte rispetto a quanto avviene nel partito; b) aumentare la probabilità che l'identità di gruppo divenga la determinante principale dell'azione collettiva. Disporre di un quadro sufficientemente preciso delle componenti psicosociali della partecipazione politica può essere di particolare utilità per tutti coloro che, dall'interno di organizzazioni con fini collettivi, sono interessati non solo ad aumentare il grado di partecipazione delle persone, ma anche ad aumentare la probabilità che le persone, una volte entrate nell'organizzazione, trovino risposta alle motivazioni di varia natura che le hanno spinte inizialmente, e di conseguenza decidano di rimanere all'interno dell'organizzazione stessa.
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