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ANALOG Anno 2. n. 4. primavera 1995 Direttore Responsabile: Daniele Brolli. INDICE Poli separati di G. David Nordley Rete di G. David Nordley La guerra di Sam di Ben Bova Rinascita di Poul Anderson L'omino di panpepato di James Gunn Il sottomanipolatore di Cristopher Anvil Il tetraedro di Charles L. Harness EDITORIALE Le fonti della fantascienza sono nella mente, quelle della letteratura nel cuore. La fantascienza fa appello all'intelletto e ottiene i suoi effetti attraverso le tensioni create trattando un concetto immaginario in modo naturalistico, grazie alla sproporzione osservata tra l'uomo e l'universo, tra la durata della vita umana e l'eternità, tra quanto l'uomo riesce a fare e i suoi sogni. La letteratura fa appello alle sue emozioni e ottiene i suoi effetti tramite l'analisi del carattere e il gioco del linguaggio. La fantascienza e la letteratura sembrano poli opposti. Fantasia e letteratura, invece, sono inseparabili: la fantasia, che si occupa del conflitto tra l'uomo e la sua immaginazione, che si occupa delle fantasiose spiegazioni che l'uomo ha creato per razionalizzare se stesso, la sua origine, il suo destino e le forze misteriose che agiscono su di lui e sul suo mondo (cioè col mito e la leggenda) ha una storia lunga quanto la letteratura stessa. Esse si intersecano e sotto certi aspetti sono identiche. Fin dove possiamo generalizzare su un fenomeno così diverso e indefinibile, potremmo dire che la fantascienza è una visione sociale, una visione pubblica; la fantasia è sempre personale e privata. La fantascienza si occupa dei sogni di realtà dell'uomo, la fantasia della realtà dei sogni dell'uomo. James Gunn, da Storia illustrata della fantascienza NOTE
Gerald David Nordley è nativo del Minnesota e, prima di diventare scrittore di fantascienza a tempo pieno, ha trascorso vent'anni nell'Aeronautica Militare degli Stati Uniti, dove dirigeva il laboratorio di ricerca sulla propulsione missilistica, al quale ha collaborato anche un altro noto autore SF, Robert Forward. Mentre svolgeva i suoi compiti di scienziato, ha avuto comunque modo di formarsi come narratore, con la frequentazione dei corsi di scrittura creativa tenuti da Algis Budrys, i Silicon Valley Writers Workshop. Il debutto professionale di Nordley è arrivato nel 1991, con l'uscita sul numero di maggio della nostra consorella americana di The Snows of Venus. Poli separati, che pubblichiamo assieme al suo immediato sequel Rete, gli è valso nel 1992 il premio AnLab per la miglior "novelette". E ve n'è ben donde, perché l'invenzione del pianeta Trimus, ove convinono umani, gli anfibi do'utiani e i volatili kleth, pur non stupefacentemente nuova in un genere che ha conosciuto tanti altri maniacali resoconti di universi fantastici (basti pensare alla saga di Dune), è forse il più compiuto esempio di adeguamento della fantascienza classica ai temi del dibattito scientifico e ambientalistico contemporaneo. Nordley, in questo momento negli Stati Uniti il nome di punta di tutta la nuova SF che non si riconosca strettamente nel cyberpunk, incarna alla perfezione il motto («science fiction and science fact») della nostra consorella americana. Benjamin William Bova, sessantatreenne, leggendario direttore dell'edizione americana di Analog dal 1973 al 1978 e poi, dal 1978 al 1982, di Omni, è un autore poliedrico, che ha saputo passare dalla space opera al techno-thriller alla fantascienza per bambini. Quasi tutta la sua narrativa si inserisce all'interno di corposi cicli: anche il racconto che qui presentiamo ha come eroe eponimo Sam Gunn, il ghignante riparatore di satelliti che troviamo al centro di numerosi altri scritti. Poul Anderson, nato nel 1926 in Pennsylvania da genitori danesi, è il più prolifico autore di fantascienza di un certo livello: per quanto abbia pubblicato un grandissimo numero di opere che non si collegano strettamente a saghe o a cicli, non c'è dubbio che la complessità delle citazioni e correlazioni tra i vari pezzi narrativi sia il principale motivo per cui questo genio della SF non è mai stato tra gli autori più fortunati dal punto di vista commerciale. Con decine di romanzi e centinaia di racconti all'attivo, Anderson è sicuramente un colosso del genere, paragonabile soltanto ad Asimov per il periodo aureo e a Frank Herbert per gli anni più recenti.
James Edwin Gunn è nato a Kansas City nel 1923. I suoi scritti trattano prevalentemente di civiltà del futuro e dei loro ipotetici assetti culturali. Non possiamo non ricordare il suo celeberrimo sodalizio con Jack Williamson, che ha dato vita a romanzi che si avventurano nei territori della space opera e del romanzo filosofico. Notevole anche il suo contributo come storico della SF: l'utilissimo Storia illustrata della fantascienza è stato pubblicato in Italia da Armenia. Sotto lo pseudonimo di Christopher Anvil si nasconde lo scrittore statunitense Harry C. Crosby, autore della popolare serie Pandora, che cominciò ad apparire su Astounding e fu ripresa su Analog, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Anvil, uno degli autori di punta della Analog versione Campbell, poi rivoluzionata da Ben Bova che la trasformò in una rivista dal taglio più legato ai dati della scienza, ha conosciuto una lunga stagione d'oblio, assolutamente immeritata per uno scrittore che ci proponiamo di rilanciare in quanto narratore leggibilissimo, sarcastico, fantasioso, ma anche soffuso d'un malessere intrinsecamente dickiano. Come si evince dal racconto che conclude questa antologia, Harness, oltre che apprezzato autore di fantascienza, è anche avvocato per le cause che riguardano i brevetti. Nato nel 1915, Charles Leonard Harness ha cominciato a pubblicare verso la fine degli anni Quaranta: i suoi scritti più rimarchevoli, tutti caratterizzati da una felicità di stile e da un'inventiva innegabili, riguardano il rapporto (spesso conflitto insanabile) tra la scienza e l'arte, oppure narrano di scoperte scientifiche più o meno credibili (soprattutto l'amata macchina del tempo che troviamo anche in questo Il tetraedro). Analog POLI SEPARATI di G. David Nordley Nostalgici della natura e dell'istinto minacciano l'armonia tecnologica del pianeta Trimus ... realizzare un'unica società planetaria in cui tutt'e tre le razze
spaziali partecipino nella stesa misura: trovare e sviluppare standard comuni di comportamento civile che possano fare da modello per le civiltà galattiche a venire. — Trattato e Statuto del pianeta Trimus, Preambolo. La nave umana, lunga quasi quattro unità Statuto, era una novità per il tenente Drinnil'ib. Che cosa ci facevano, si domandò, dei primitivi così a nord? Lanciò un richiamo verso la nave, ma invece di una risposta verbale la sua voce provocò una certa agitazione nei piccoli bipedi sul ponte. Prima che potesse ripetere il richiamo l'aria fu lacerata da una violenta detonazione e un oggetto attaccato a una fune sibilante cadde in mare con un tonfo sordo. Che succede, nel nome del Trattato? pensò. La fune gli sfiorò il naso, e lui tirò fuori la lingua per afferrarla ed esaminarla. La fune si tese, e lui lasciò che gli scivolasse fra i manipolatori fino a raggiungerne l'estremità. Profanazione! La cosa era affilata, e gli fece un taglietto sulle dita muscolari di un lembo della sua lingua biforcuta, prima che lui riuscisse a far pressione sulla fune con l'altro lembo, costringendo gli umani a cercare di ripescarlo assieme alla lenza. Questo dovrebbe rallentare un po' le cose, pensò. Sollevò uno degli artigli anteriori e vi avvolse intorno la fune per alleggerire la tensione sulla lingua. Quindi si tenne l'oggetto fermo davanti agli occhi. Era fatto di qualche tipo di metallo pieno, con delle punte ricurve. Avrebbe potuto ucciderlo se l'avesse colpito nel punto sbagliato. Il pensiero e la reazione furono pressoché simultanei. Fece schioccare la coda e curvò il corpo in avanti. In una frazione di battito cardiaco uno schiocco metallico lo raggiunse fendendo l'acqua, e un'altra di quelle cose gli sfrecciò accanto. Stavano proprio cercando di ucciderlo! Allentò la presa, estrasse un coltello dal marsupio e tagliò la fune tra quel bolide chiodato e il suo piede. Quindi nuotò verso la nave, per poi allontanarsene, trattenendo la fune con il piede fino ad avvertire un cedimento soddisfacente. Per un momento si preoccupò: gli umani erano fragili e poteva averne ferito uno. Forse no: la tensione della fune si ristabilì prontamente. Un altro colpo di coltello risolse la questione. Drinnil'ib scrollò i resti della corda dal suo artiglio, s'immerse sotto la nave e la seguì alla sua stessa velocità proprio sotto lo scafo. Rimise il coltello nel marsupio e ne trasse un'arma da fuoco, poi osservò la chiglia di legno del vascello attaccante. Due colpi, pensò, basteranno a ottenere un buco. Ci vollero dieci scariche esplosive per aprire un varco delle dimensioni giuste nello scafo.
Gli strati di assi inquinanti erano spessi un dodicesimo di unità Statuto. Ma quando ebbe terminato la nave faceva acqua da tutte le parti che sarebbe stata costretta a dirigersi verso un porto troppo in fretta per poter infastidire qualche altro do'utiano. Soddisfatto, emerse sul retro della nave, sparò un colpo in aria e ruggì la sua sfida: «Sono il monitore planetario tenente Drinnil'ib e mi avete appena aggredito. Che cosa credete di fare, in nome dell'eterno ripudio?» Si levarono delle urla e furono spiegate le vele. Afferrò il timone della nave con il piede anteriore agitandolo vigorosamente. Finalmente oltre il parapetto sul retro della barca apparve un volto sormontato da una capigliatura rossiccia. «Che accidenti ci fai qui, monitore?» gli urlò. «Questo è territorio primitivo. Voi maledetti tecnologici dovreste lasciarci stare.» «Non quando si comincia ad ammazzare la gente» rispose Drinnil'ib in tono più accomodante. «Potete giocare quanto vi pare, ma dovete stare nei limiti.» «Non state a romper le balle per cose che voi tecnologici non potete capire» urlò l'uomo. «Lasciateci stare!» Drinnil'ib fece ondeggiare di nuovo la nave. «Vi farò affondare all'istante se non riconoscete che non potete andarvene in giro sparando alla gente, ovunque vi troviate. È contrario al Trattato.» «Va bene, va bene, ho capito. Spararti è stato un grande errore. Ma la prossima volta stai lontano dalle acque dove cacciano gli umani, uomopesce.» L'idiota profanatore non sembrava mostrare traccia di rimorso, tuttavia Drinnil'ib pensò che poteva aver male interpretato il loro linguaggio corporeo. Tanto per essere sicuro che non fraintendessero il suo, Drinnil'ib diede ai ramponieri qualcosa di molto facile da capire: rovesciò addosso a loro l'aria satura di umidità che gli riempiva i polmoni, inzuppando l'interlocutore e le vele. Quindi scalciò via la nave con disgusto ed emise un richiamo. A dieci unità Statuto di profondità Drin mise la punta ricurva in un contenitore testimoniale, rimise a posto l'arma e prese il trasmettitore, quindi registrò il suo rapporto. Aveva appena ricevuto una vera e propria lezione su come potevano essere avvenute alcune uccisioni, ma avrebbe avuto bisogno dell'aiuto umano per andare fino in fondo. Una buona scusa per andare a trovare un vecchio collega. Con battiti misurati della sua coda muscolare si diresse verso gli approdi a nord del continente occidentale.
In quanto satellite bloccato dalle maree di una primaria infrarossa supergioviana, Trimus ha tre assi di simmetria: nord-sud, est-ovest, e interno-esterno. Ciò gli fornisce tre serie di poli geografici e tre regioni climatiche distinte che permettono a tutt'e tre le specie di vivere a proprio agio. L'artico e l'antartico rispecchiano regioni simili su Do'utia. La regione fredda che circonda il polo lontano ricorda il clima delle aree più popolate di Kleth. L'emisfero vicino, simile alla Terra, è riscaldato sia da Aurum che da Ember, e passa dal clima temperato vicino ai poli orientale e occidentale a quello tropicale che si trova proprio sotto Ember. L'orbita vicina di Trimus attorno a Ember gli regala una giornata effettiva di durata all'incirca doppia di quella del mondo dei Kleth, che è una volta e mezzo quella della Terra, e tre volte quella di Do'utia. Anche se per quest'ultimo ciò che conta è il ciclo stagionale polare di 407 giorni prodotto dall'inclinazione semiradiale dell'orbita di Trimus rispetto all'eclittica locale, che è pressoché equivalente a quello di Do'utia. — Manuale del Monitore Planetario, Introduzione. Il sole del mattino era una minuscola palla rossa tra le nebbie in prossimità della grande mezzaluna rosea di Ember, quando Drinnil'ib si spinse controcorrente verso la città umana con potenti colpi di coda. Gli omicidi, pensò, cercavano di colpire gli obiettivi della civiltà trimuniana opponendo una specie all'altra. Trimus sarebbe dovuto essere il laboratorio galattico per la cooperazione pacifica tra le specie. Ma Ember aveva girato attorno ad Aurum otto volte al cubo dal suo assestamento, e soltanto la memoria collettiva dei Kleth e le memorie meccaniche degli umani arrivavano tanto indietro nel tempo. Alcuni, lo sapeva, ritenevano che quest'obiettivo fosse andato sbiadendosi di pari passo con il bisogno di sperimentare, dato che era stato stabilito a una distanza di tempo e spazio così grande che i residenti di Trimus non rappresentavano più le culture che li avevano inviati. Se mai le avevano rappresentate, pensò con disappunto. Degli esseri disposti a lasciare per sempre i loro mondi di provenienza per partecipare a un esperimento interstellare idealistico probabilmente avevano più punti in comune tra loro che con i loro vari contemporanei. Ma per quel che ne sapeva Drin, la civiltà millenaria di Trimus era divenuta la propria stessa ragione di esistenza. Messe da parte il resto della galassia e le sue occasionali astronavi, per so-
pravvivere in pace tra di loro e con il pianeta i suoi residenti dovettero anteporre la disciplina della ragione alla naturale inclinazione al raggruppamento delle cose secondo la loro forma. Fare il monitore era una vocazione, e lui era più fedele al suo mondo e ai suoi ideali che a qualunque altra cosa, eccetto forse la ragione stessa. Al quartier generale avevano detto che Mary Pierce l'avrebbe aspettato all'imbarcadero del porticciolo oltre la torre di controllo alla base della barra a U principale, ovunque potesse essere... eccolo! Colse l'eco e rallentò sulla destra entrando nel profondo canale gelido. Il fondale del porto era un luogo incantevole poco frequentato e pieno di bolle umane e scogli di vita terrestre, e il canale vi correva attraverso come un'ampia strada nera. Alla sua estremità giacevano sul fondo in una fila ordinata i sommergibili umani a forma di sigaro, al riparo dal ghiaccio invernale. Si drizzò sulle gambe, emise una bolla per sistemarsi saldamente sul cemento, e a passi misurati, regolari, issò il suo corpo nell'aria calda del continente orientale. Un essere minuscolo privo di coda, molto più piccolo del barbaro arrogante dalla faccia pelosa che aveva imprecato prima contro di lui lo attendeva all'estremità del piano inclinato, coperto da un tessuto aderente al corpo, che Drinnil'ib sapeva essere un isolante perfino migliore del suo insufflatore spesso un doci. «Buon pomeriggio, Drin» chiamò con voce acuta, il che indicava che si trattava di un umano femmina. «Saluti» rispose con voce stentorea, e protese un'estremità della lingua per stringerle la mano. Il sapore familiare dell'aria attorno a lei lo mise a suo agio. «Mary? Scusa, ma devono essere passati otto anni dall'ultima volta che ci siamo visti. È veramente un piacere rivederti.» Adesso che sapeva che era lei era facile distinguere le impercettibili caratteristiche individuali del suo viso scimmiesco quasi del tutto scoperto e confrontarle con i suoi ricordi: la leggera curvatura dell'escrescenza di cartilagine che ospitava le narici, i peli all'insù sopra l'arcata delle cavità orbitali degli occhi, e la capigliatura giallo chiaro che le incorniciava il viso. Era un volto pulito, non guastato da alcuna escrescenza innaturale o cicatrice, e sapeva che gli altri umani la consideravano bella. Sarebbe stato d'accordo, considerando l'estetica funzionale, e anche l'estetica delle curve. «Anche tu hai proprio un ottimo aspetto, vecchio mio» replicò lei, poi scosse il capo. «Soltanto, avrei preferito che l'occasione fosse più felice.» Lui mosse su e giù la testa imponente a indicare il suo assenso, secondo la convenzione planetaria. «Altri cinque morti, quattro do'utiani e un uma-
no.» «Macellati?» «Accuratamente, con premeditazione, come l'ultima volta, tranne l'umano. Il mare ha lasciato troppo poco di lui per poterlo affermare. Ma questo» le mostrò il proiettile chiodato «potrebbe essere la spiegazione.» «Cacciatori primitivisti?» Drinnil'ib emise un verso. «Non abbastanza primitivi, si direbbe. Questo è stato lanciato da esplosivi chimici.» Ce n'era sempre qualcuno di ogni specie, di ogni generazione, romantici che volevano vivere nelle aree protette secondo i propri istinti, senza dover imparare la scienza e la cultura che avevano portato i loro antenati su Trimus. Una malattia caratteriale, pensò, che non poteva essere eliminata senza eliminare il carattere stesso. «Mi dispiace, Drin» gli disse Mary «per ciò che hanno fatto i nostri figli. Formano delle comunità, le comunità si evolvono, fanno proseliti, e sembra che non interessi a nessuno. Alcuni di quei posti non vengono ispezionati da un secolo.» Drin emise un sospiro di sopportazione. «È nella vostra natura cacciare e nella nostra affrontare i rischi del mare. Ma senza un'intelligenza addestrata alla guida, qualsiasi razza...» Lei scosse la testolina in segno di diniego. «Certe cose sono sbagliate, e lo sono sempre state. Ovunque e per chiunque. Uccidere è una di queste. Conoscono il Trattato, è il minimo per lasciarli andare là fuori. Perciò tocca a noi scoprire i responsabili e intraprendere delle azioni correttive.» Si strinse nelle spalle e allargò le braccia. «Quello del poliziotto non è un bel destino.» Citazione che lui non riconobbe, ma che faceva al caso loro. Il tenente Drin ripeté un cenno affermativo col capo. «Oh, come lavoro potrebbe essere interessante.» «Ah! Bene, il mio sommergibile è pronto a partire. Possiamo andare in qualsiasi momento» disse lei. «Ma pensavo che forse prima ti andrebbe di assaggiare il sushi di Cragen.» Gli rivelò i dentini d'avorio finemente cesellati, un gesto umano che esprimeva un sentimento positivo. C'era forse, si domandò lui, qualcosa sotto in un gesto che ricordava che entrambi erano occasionalmente carnivori? Avrebbe dovuto chiederglielo durante il viaggio. Nel frattempo, l'idea del sushi era piuttosto invitante. Sperava di trovare un doci cubico del loro vino di riso da portarsi dietro. All'incirca uno dei loro "galloni" tradizionali, se ricordava bene. «E un, ehm, gallone
o due di, ehm, saké? Da portarci dietro?» Lei rise. «Proprio ciò che stavo pensando, Drin. Andiamo.» Glensville, sul corso settentrionale del fiume Graham, era senza dubbio abbastanza fresca d'inverno da rivelarsi un piacevole luogo di vacanza tropicale. Doveva solo ricordarsi di muoversi lentamente per evitare di accumulare troppo calore corporeo. Grossi mucchi di neve che si scioglieva erano allineati lungo la strada, e la dozzina di laghi del parco sparsi tra le tante abitazioni umane in pietra e legno erano ricoperti di ghiaccio. Degli umani allegri che scivolavano su lunghe tavole piatte fissate ai piedi gli fecero dei segni di saluto mentre passeggiava lungo la strada principale con Mary. Quella di Cragen era una delle poche taverne non subacquee del continente orientale attrezzata per servire i do'utiani. Ce n'erano due quando arrivò con Mary: la poetessa Shari'inadel e un grosso do'utiano con delle cicatrici bianche e recenti sulla coda e una profonda rientranza scorticata dietro lo sfiatatoio. Erano ferite insolite per quella zona, il genere di ferite che ci si procura nei combattimenti col rostro tra do'utiani. Quindi, pensò Drin, questo do'utiano doveva essere una specie di primitivista, di quelli che se la spassano sulle spiagge del sud e di tanto in tanto tornano a godere dei benefici della civiltà. L'altro si voltò, lo vide e sibilò. Molto scortese, e per quale motivo? Perché Drin non aveva cicatrici? Per il suo aspetto civilizzato? Per la sua compagna umana? Ma quella era una città umana! «Non vi conosco» dichiarò Drin formalmente. «Sono il tenente monitore Drinnil'ib ed esigo rispetto.» «Gota'lannshk. Il mare è stato generoso con te, bel monitore. Ma non approfittare troppo della tua fortuna, carne da spiaggia.» La sua voce impastata era un rombo grave. Ubriaco. E voglioso di menare le mani. Drin gli riservò un acuto sibilo d'avvertimento, quindi si allontanò ignorandone la reazione, per calmare la sua irritazione crescente. Non udì alcuna risposta. «Non ti sta simpatico, vero?» sussurrò Mary. «Non l'avevo mai visto prima» rispose Drin, con il rostro serrato, lasciandosi sfuggire le parole sommessamente attraverso l'angolo carnoso della bocca. «Ma non va d'accordo con il mio modo di pensare. La sua amica è una poetessa, si chiama Shari. Conosco la sua famiglia: è stata il loro primo uovo dopo due secoli, e ne erano piuttosto compiaciuti. Potrebbe essere proprio quel tipo di romantica insoddisfatta che fugge in cerca di
avventure ghiandolari nel sud, e poi vive nel rimpianto. Credo che le stia "offrendo" un posto nel suo harem, quell'orco.» «È una scelta sua, no?» chiese Mary. «La scelta implica un processo intellettivo, ma lui gioca con gli istinti. Se guardi quello lì, poi non giudichi più tanto severamente i rozzi umani. Sembra che abbia ingaggiato un combattimento mortale per puro divertimento.» Mary tossì. «Drin, da Cragen ci sono calamari giganti freschi di allevamento. Dividiamoceli, 999 parti a te e una a me.» «Riesci a mangiare tanto?» disse Drin con voce possente. Dopo quel viaggio un pasto a terra sarebbe stato il benvenuto. «Mettimi alla prova!» «D'accordo.» Drin fece le ordinazioni. «Eppure una volta o l'altra mi piacerebbe provare questi calamari nel loro oceano di provenienza.» Era solo una sua fantasia: quando mai avrebbe potuto in vita sua trovare il tempo per un viaggio di novant'anni tra andata e ritorno? «È lì che dovresti mangiarli. Sei troppo grasso per andartene in giro sulla Terra.» Non aveva tutti i torti. Una gravità doppia di quella di Trimus avrebbe avuto i suoi svantaggi, e lui era un po' ingrassato negli ultimi tempi. Bene, sarebbe tornato in forma nuotando in quel prossimo viaggio. «Forse mi sottovaluti» tuonò. Ma da Cragen non era sottovalutato. I calamari arrivarono, in quantità più che sufficiente perfino per il suo appetito. Parlarono di strategia. La più vicina concentrazione di umani in grado di sapere qualcosa si trovava sulle isole in prossimità del polo interno, il più caldo. Che questa gente potesse individuare gli assassini o meno, Drin chiarì che avrebbe avuto bisogno di parlare con gli esuli do'utiani vicino al polo sud, per tranquillizzarli o raccogliere testimonianze, o entrambe le cose. Poi sarebbe stata la volta delle comunità umane più antiche sul limitare meridionale del Continente Occidentale non civilizzato. «Città di pietra, navi di legno. Resoconti di guerre e schiavitù.» Mary scosse la testa. «Come minimo, ci sarà bisogno di ricordare loro il Trattato.» «È proprio quello che mi è successo» convenne Drin. Una civiltà comune richiede una lingua comune, unità di misura comuni, e luoghi in cui tutt'e tre le specie possano incontrarsi comodamente. L'inglese umano sarà la lingua comune perché è la
sola lingua che tutt'e tre le razze possono pronunciare in maniera accettabile. I numeri e le unità di misura saranno nel sistema ottale dei Kleth, che è il più facile da imparare, è compatibile con i sistemi binari cibernetici ed è più diffuso di quello umano in base dieci e di quello do'utiano in base dodici. L'architettura comune terrà conto delle proporzioni do'utiane, di modo che i do'utiani non siano esclusi dall'interazione sociale di cui necessita una civiltà comune. — Trattato e Statuto del pianeta Trimus, Articolo 6. L'"unità Statuto" è identica alla "lega" di Kleth, e precisamente otto volte all'ottava la lunghezza d'onda del sodio neutro (anche approssimativamente la lunghezza d'onda massima dello spettro di Aurum). Il che corrisponde all'incirca alla tradizionale "coda" do'utiana, una volta collegata alla lunghezza del do'utiano medio, o quasi dieci "metri" umani, una volta definiti come 1/23420 (1/10000 in base 10) della distanza dall'equatore della Terra al suo polo nord. Il "doci" comune (da duo-octi) ne è 1/8x8, circa le dimensioni della mano di un adulto di una qualsiasi delle tre razze. — Manuale del Monitore Planetario, Appendice C Il viaggio verso l'arcipelago del polo interno l'aveva messo in forma, perciò Drin si gustò appieno il sapore degli esotici pesci tropicali. Ma, per raggiungere l'isola, dovettero lasciare la fredda corrente del fondo, che fluiva verso sud, e lui si sentì come se fosse stato immerso in un bagno caldo. Non vedeva l'ora di trovarsi nelle acque del polo sud, e, quando ricevette il suono del sommergibile di Mary che tornava dalle sue ricerche, le mandò un saluto quasi gioioso. In teoria l'arcipelago avrebbe dovuto essere riservato ai primitivisti Kleth, ma erano molto pochi e avevano bisogno di poco spazio, così degli umani amanti del caldo e in fuga dalla civiltà tecnologica si erano pian piano sparsi per quelle isole. Laggiù, in prossimità del polo interno, le radiazioni infrarosse provenienti da Ember giungevano quasi perpendicolarmente, quasi raddoppiando il modesto contributo giornaliero del lontano sole arancione. Il sistema di alta pressione più o meno permanente manteneva il cielo limpido, a meno che non ci fosse stata nebbia durante la notte. Ma quella sera il cielo era terso, e la quasi-stella calante dall'alone rosa
dominava lo zenith. «C'erano dei testimoni?» chiese Drin quando Mary accostò. Era sdraiata sul ponte dietro la cabina di pilotaggio del sommergibile, e gli ultimi raggi di Aurum al tramonto le soffondevano il corpo di un'aura dorata. Non aveva bisogno dell'abbigliamento isolante, tanto che lui poté osservare il gioco dei suoi muscoli sotto l'epidermide sottile quando si alzò per salutarlo. Era una strana forma, ma tanto adatta alla sua proprietaria quanto qualunque altra in natura. «Niente testimoni - non che ci fosse molta gente in giro. Ho trovato un uomo che aveva sentito parlare di balenieri e sono riuscita a fargli dire che ne ha visti perfino in acque tropicali. Dice che operano facendo base in una città su un'isola vulcanica semisommersa non lontano dal limitare meridionale della riserva del Continente Occidentale. Ho controllato la mappa, ed effettivamente laggiù c'è una specie di città primitiva. Da anni non viene ispezionata dai monitori.» «Quella gente era disponibile?» Lei scosse la testa. «Non c'è molta gente da queste parti, e quella poca sembra impaurita. Ho dovuto offrire, come dire, un incentivo all'unica persona che ha ammesso di sapere qualcosa.» «Mi sorprende che la zona non sia maggiormente popolata. Questo clima dev'essere simile a quello umano originale, e infatti non sembra che abbiate bisogno dell'isolamento artificiale.» «No, non ne abbiamo bisogno. E si sta proprio bene!» Quando scrollò il corpo, la sua carne ondeggiò in un modo che gli ricordò una medusa, ma molto più veloce. «Però è snervante. La mente ha bisogno di maggiori stimoli dal proprio habitat. La gente che vive qui non chiede neppure di sostituire i morti: i bambini costano troppa fatica. Vivono soltanto per divertirsi.» Tanto tempo fa, ricordò Drin, gli umani avevano predisposto i propri geni in modo che fossero infecondi senza che si rendesse necessario un apposito intervento medico come misura di controllo della popolazione a complemento dei provvedimenti anti-invecchiamento. L'idea di essere costantemente portati ad agire al di fuori del processo di riproduzione lo faceva inorridire, ma agli umani piaceva. Evidentemente non era una cosa tanto problematica per loro. Mary scosse di nuovo il capo. «Comunque sta cominciando a rinfrescare. È ora di dire ciao ciao alla terra del loto.» Con un cenno di saluto svanì giù per il boccaporto del sommergibile.
Lanciarono all'unisono dei richiami e piegarono verso ovest, in direzione della corrente fredda e della loro avventura comune. Mezza giornata più tardi i suoi gangli dorsali funzionavano a pieno regime mentre rifletteva su quanto la faccenda potesse farsi primitiva. Si rendeva ben conto di quanto fossero affascinanti le zone allo stato primordiale. Tutti i viaggiatori dello spazio erano discendenti di coloro sui quali una spiaggia priva di costruzioni e un pianeta mai calpestato prima esercitavano un richiamo irresistibile. Ma il suo ultimo viaggio gli aveva aperto gli occhi. Non aveva molti elementi per confrontare ciò che aveva visto con la profonda degenerazione culturale di cui Mary diceva di aver avuto esperienza sulla sua isola riscaldata, ma ciò nonostante rabbrividiva al pensiero di quel che avrebbe trovato sulle coste del continente del polo sud. Almeno gli umani erano ancora in grado di erigere costruzioni anche senza macchine. Anticamente le donne do'utiane si accoppiavano e partorivano all'aperto sulla spiaggia. Prive di riparo, le loro discendenti regredite non avrebbero avuto altra possibilità che fare altrettanto. Suo malgrado, un fremito d'interesse pruriginoso gli corse dal petto fino alla coda al pensiero delle spiagge occupate da giovani madri nubili, manifestamente reattive all'aria aperta. «Tenente Drin?» Stava sognando a occhi aperti! Da quanto tempo Mary lo stava chiamando? Con un colpo di coda scivolò verso il sommergibile e portò l'occhio destro al centro dello scafo adamantino. I suoi campi di orientamento elettrici gli procurarono un certo formicolio mentre pompavano acqua di mare verso la coda. «Scusa, ero immerso nei miei pensieri. Che cos'hai?» Mary aveva indossato di nuovo la sua pelle artificiale e tutto il resto. «Ecco la mappa con quella città primitiva.» Una mappa in rilievo comparve sull'oloschermo vicino a lei. La caldera allagata di un vulcano circondava una laguna su tre lati, e il quarto sembrava occupato da un semplice argine in pietra. Delle costruzioni in muratura grandi e piccole erano allineate lungo la riva della laguna. «Mary, credo che la corrente fredda debba passare da lì. Vedi il canale a sud?» «Sì. Roba buona da mangiare?» «Dovrebbe, e se è così dovremmo trovare qualche do'utiano primitivo nei paraggi. Propongo di procedere come da programma, ci dirigiamo a
sud e raccogliamo quante informazioni possiamo dalla popolazione vittima prima di affrontare questo gruppo di potenziali perpetratori... Mary?» «Sì, Drin?» «Anticamente c'erano delle prove per il diritto di riprodursi. Nuotate della morte e combattimenti in spiaggia. Una sete di sangue irragionevole. Queste morti occasionali dovute alla caccia ricordano in qualche modo alcune di quelle antiche prove. Ho paura che non potrò essere orgoglioso di come potrebbero trovarsi a vivere alcuni dei do'utiani nostalgici della vita naturale.» «Temi di dover provare qualcosa di peggio dell'imbarazzo?» Avrebbe dovuto rispondere di sì. Sì, ho paura dei miei stessi istinti primitivi. Allora perché esitava a dirglielo? Mary era un'amica e una collega, e qualunque debolezza da parte sua avrebbe potuto danneggiare la missione. «Mary... noi non abbiamo mai avuto bisogno di modificare i nostri istinti di accoppiamento. Nelle nostre città, nell'intimità delle nostre stanze, non ce n'è bisogno. In effetti per noi è un vero sforzo la sostituzione dei membri della colonia perduti per qualche disgrazia - uno sforzo imbarazzante e molto intimo per entrambi gli esseri coinvolti. Ma che tutto questo accada all'aperto... non sono sicuro di come potrò...» Uno scoppio di risa si riverberò come uno scampanio dallo scafo della sua imbarcazione, così a lungo che Drin cominciò a preoccuparsi per la salute della donna. Infine, Mary premette il suo corpo contro lo scafo trasparente. «Drin, amico mio... ascolta, non raccontare ciò che sto per dirti a nessun essere umano, soprattutto agli altri monitori, va bene?» «Hai la mia parola» disse Drin, in preda alla curiosità. «Bene» rise lei. «Per essere accettata e ottenere le informazioni mi sono dovuta un po' adattare alle usanze del luogo. Ho permesso - diavolo, Drin, ho istigato - la mia fonte a eseguire il nostro atto di accoppiamento con me. Voglio dire, io ero "sveglia", lui pure, e sembrava fosse la cosa più naturale da fare. Per dovere, mi sono detta.» Drin nuotò in silenzio per un po', pensando che dire la cosa sbagliata avrebbe ferito la sua amica. Ma presto si rese conto che non dire nulla poteva sembrare anche peggio. Riandò col pensiero a ciò che sapeva dell'accoppiamento umano. «Questa persona era adatta fisicamente?» Questo provocò altre risate. «Lo era. Oh, sì. Anche troppo.» «E tu hai abbandonato quel piacere per tornare alla tua missione con
me? Lo trovo davvero ammirevole e spero, per quanto sia possibile paragonare le nostre tentazioni, che io sia capace di dimostrare una tale forza morale.» «Forza morale? Drin, sei un demonio dalla lingua biforcuta.» Dopo un po', lui si rese conto che era un complimento. Delicatamente premette una spalla contro la finestra, in modo che soltanto un ottavo di doci o poco più, lo spessore dello scafo adamantino, separava i loro corpi. Poteva sentire il calore della sua carne attraverso quella parete trasparente, non isolata. Quel tipo di comunicazione amichevole non comportava rischi di natura intellettuale. Ma la sua mente tornò al dovere. «Forse» tuonò subito dopo «dovremmo chiedere l'appoggio dei monitori Kleth nel caso ci trovassimo ad aver bisogno di occhi che ci guardino le spalle quando ispezioneremo quella città. Conosco un certo ufficiale Do Tor che è dotato di senso dell'umorismo e che non fa finire sempre tutto nella loro memoria razziale.» «Forse.» Mary rise di nuovo. «Credo di averlo incontrato quando c'è stata l'ultima astronave, sei anni fa. Ali dorate, criniera d'argento? Un bizzarro affarino giallo sotto gli artigli?» «Proprio lui in persona.» «Perché no? Più siamo e più ci divertiamo.» In base all'ingegneria planetaria solo i poli nord, est ed esterno saranno colonizzati intensivamente. Il resto del pianeta sarà destinato a ricerche biologiche e lasciato libero da grossi insediamenti e scarichi tecnologici significativi. L'obiettivo primario sarà osservare come i tre ecosistemi fusi insieme si svilupperanno rispetto al loro modello progettuale originario. Una bassa intensità di ispezioni, compatibile con questi obiettivi, potrà essere tollerata da coloro i quali desiderino fare esperienza della vita allo stato naturale. — Trattato e Statuto del pianeta Trimus, Articolo 12. «Non ho mai visto un deserto di rocce freddo e desolato come questo, in vita mia» osservò Mary mentre si avvicinavano a una spiaggia antartica licenziosa e sensuale. A ciascuno il suo, pensò Drin. Mary aveva parcheggiato il sommergibile e, a cavalcioni sul collo di Drin, si dirigeva verso riva, con le calde cosce così lisce sulla sua ruvida epidermide. L'idea che lei avesse delle specie di uova nascoste in una parte
del corpo così vicina a lui gli procurò dei pensieri ridicoli e perversi, pensieri che insolitamente stimolarono certi organi secretori sotto la punta delle dita. Alcuni, aveva sentito dire, avevano sperimentato la stimolazione tra specie diverse, e la consideravano una forma d'arte. Grazie al cielo, pensò, tali pensieri da parte sua potevano restare privati. Ma se mai Mary avesse detto di volere... No, no. Affida quell'idea agli abissi. Troppe probabilità di risultare offensivo. Non gli fu affatto d'aiuto vedere, mentre si avvicinavano alla spiaggia, almeno quattro giovani donne do'utiane incinte, per nulla imbarazzate, pigramente sdraiate con grande impudenza al sole sui sassolini lisci. Il signore della spiaggia non si vedeva da nessuna parte, fatto che fece salire il suo termometro biologico ben oltre il livello normale. Si domandò se Mary capisse quanto questo fosse difficile per lui. «Ho paura che quella spiaggia sia un paradiso d'indolenza per noi. Preferirei di gran lunga parlare con il loro capo che con quelle donne nude, ma le ha lasciate senza protezione. Questo non va bene. Ah, Mary, se dovessero diventare aggressive nei miei confronti, forse sarebbe meglio se io lasciassi che la natura...» Lei gli diede un buffetto sulla testa, abbastanza forte perché lo sentisse. «Non lo dirò a nessuno. Lo prometto.» Gli mise le braccia attorno al collo, per quanto possibile, e premette le parti morbide del proprio corpo contro la sua nuca, ridendo. Non era affatto spiacevole. Poi, all'improvviso, smise. «Drin» disse in fretta «alla tua sinistra. Cos'è quel... DRIN!» Istantaneamente girò gli occhi e infilò la lingua nel marsupio, azionando il sonar con un manipolatore e afferrando l'arma con l'altro. Poi lo vide, e comprese immediatamente che era troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Un lungo palo, alto forse mezza unità Statuto, portava sulla sommità una bandierina di segnalazione bianca, che sventolava nella brezza marina. L'altro capo del palo era piantato saldamente su un fianco del cadavere di un maschio do'utiano, rigonfio, che galleggiava sulle onde. Rabbrividì quando il vento cambiò facendo giungere fino a lui l'odore della morte. «Ti senti bene?» gli chiese Mary. «Sì. Ma preferirei che ci avvicinassimo controvento. Tu come stai?» Mary era un monitore ben addestrato e, si sperava, meno colpita di lui a causa della differenza di specie. Fortunatamente per Drin, il vento cambiò di nuovo. «Sto bene. Senti, che ne dici se mi occupo io della vittima e dell'arma
del delitto mentre tu vai a parlare con loro?» Era una proposta sensata, ma contava sulla sua presenza perché lo sostenesse nel suo proposito di non farsi sopraffare dall'istinto sulla spiaggia. Si sentiva disgustato di se stesso. Non era padrone di sé? «Benissimo, Mary. Ti ci porto io, tanto devo avvicinarmi comunque. Sospetto che la vittima fosse il signore della spiaggia. Se è così queste donne sono state rese vedove. Dovrei capirlo dal suo odore, le avrà marchiate. La vedovanza può essere una condanna a morte molto dolorosa, in condizioni primitive. Un uovo non partorito diventa velenoso in un mese, più o meno.» «Quindi i miei umani primitivi ammazzano cinque do'utiani con un arpione solo?» «Mary, non sono i tuoi primitivi» tuonò. «Non prendertene la responsabilità. Non è professionale.» Estese la lingua dietro di sé e le posò i manipolatori su entrambe le spalle. «Inoltre non ci sono rapporti su harem morenti a causa degli altri omicidi.» Il pensiero lo colpì: perché no? «Non conosciamo tutta la storia» terminò. No, davvero. Sentì le cinque dita ossute di Mary sopra le sue tre belle muscolose. Lei strinse con forza, e Drin sentì un certo calore, ma non il gusto della sua pelle, attraverso la muta che indossava. Non riusciva a valutare quali sentimenti attraversassero quella mente aliena, né quali orribili immagini del suo passato potesse evocare quel cadavere appena scoperto. Ma poteva percepire una certa tristezza, e cercare di esserle solidale. I suoi stessi sentimenti si stavano dimostrando più difficili da gestire. C'era uno stimolo innato nella sua specie a evitare i propri morti, e di conseguenza, come credevano gli evoluzionisti, a evitare qualsiasi circostanza che avesse a che fare con la morte. E poi c'era quello che l'aspettava sulla spiaggia. Rabbrividì. «Si direbbe che preferisca non avvicinarti ulteriormente, Drin.» Fu sorpreso da un tuffo. Mary cominciò a nuotare davanti al suo occhio sinistro. Gli umani, in genere, erano goffi nell'acqua. Ma non avevano paura, e alcuni, come Mary, se la cavavano bene, anche se erano lenti. «Parto da qui. Sembra un punto a metà strada tra il cadavere e la spiaggia. Non c'è problema, se mi stanco farò il morto, o ti chiamerò se avrò bisogno d'aiuto. Va bene?» Grugnì una specie di assenso. Lei gli mostrò i denti, si scosse leggermente e cominciò a muoversi nell'acqua verso la vittima, attraversando le onde con vigorosi colpi degli arti anteriori. Ciò che destava meraviglia, ri-
fletté, non era che i suoi amici scimmieschi fossero lenti nell'acqua, ma il fatto stesso che riuscissero a nuotare, e perfino apparissero aggraziati, a modo loro. «Starò ad aspettarti. Fai attenzione» le gridò dietro. Poi, con sentimenti contrastanti, si diresse verso la spiaggia. L'accesso non era un approdo semplice per un'imbarcazione umana. C'erano rocce frastagliate dappertutto. Il signore della spiaggia aveva scelto bene: un do'utiano adulto avrebbe dovuto fare molta attenzione per giungere fino a riva. Drin sbuffò e si sistemò saldamente sul fondo per evitare le ondate irregolari. A gambe estese si fece strada con cautela, un'unità Statuto sotto il pelo dell'acqua, tenendo il suo ricetrasmettitore sonar alto sopra la testa, per ricevere in cuffia l'immagine riflessa. Ecco! Tra le rocce s'apriva un sentiero sabbioso. Lo seguì. Zigzagò verso una zona ghiaiosa aperta sotto i frangenti che sembrava abbastanza sicura, ma decise di avanzare lateralmente in mezzo alle pietre lisce, per prudenza. Con cautela emerse sulla spiaggia. Le donne si strinsero l'una all'altra non appena lo videro. Molto bene, se la sarebbe presa con calma. Innanzitutto tracciò il suo percorso con la punta di una delle estremità della lingua sullo schermo del dispositivo di comunicazione, e ne inviò l'immagine a Mary. Anche se lei poteva stare a galla sopra le rocce sommerse più grosse che avrebbero sventrato Drin, sembrava però che ci fosse un solo punto in cui i frangenti non avrebbero rischiato di farla a pezzi. Inviò anche un breve rapporto al Monitor Centrale, e s'informò sullo stato della sua richiesta di sostegno da parte dei Kleth. Programmata, gli risposero. Sbrigate queste faccende, tornò a occuparsi dell'harem di vedove. Vedove, perché erano state molto chiaramente contrassegnate dall'odore del signore della spiaggia defunto, la neobarbarie del quale sembrava essere giunta al punto di marchiarle anche fisicamente, oltre che con il suo odore - alcune cicatrici non erano ancora rimarginate. Ci sarebbe stato bisogno di una squadra medica. Anche se, contrariamente alle sue valutazioni iniziali, soltanto due di loro erano gravide, con la dipartita del signore della spiaggia sarebbe stata necessaria per entrambe la rimozione delle uova. Inoltre, tutt'e quattro erano evidentemente denutrite. Registrò un rapido rapporto per Do Tor sulla sua unità di comunicazione, quindi avanzò lentamente verso di loro, con la bocca educatamente a-
perta e la lingua e i manipolatori divaricati a indicare intenzioni pacifiche. Continuavano a stringersi l'una all'altra. Erano giovani, molto giovani, nonostante le cicatrici e le abrasioni sulla pelle che la maggior parte della sua gente non si sarebbe fatta in otto volte per otto volte otto anni, e si sarebbe probabilmente fatta rimuovere anche se se le fosse procurate. «Sono il tenente Drinnil'ib dei Monitori. Non voglio farvi alcun male» disse. «Vorrei soltanto che rispondeste a qualche domanda.» Doveva essere l'odore della morte del signore della spiaggia a farle ammutolire per la paura. Si era avvicinato abbastanza da portarsene un po' dietro, e loro probabilmente pensavano che lui ne fosse responsabile. Emisero suoni lamentosi, e indietreggiarono come lui si avvicinò. Ma la spiaggia era circondata da una scogliera, e ben presto non poterono arretrare ulteriormente. Se sentivano l'odore della morte allora non c'era ragione di cercare di tenerla segreta. Sperava di evitarne le leggendarie conseguenze. Sciocchezze, si disse. Questa gente dev'essere almeno parzialmente istruita, e vive in condizioni primitive per scelta. «Mi dispiace dovervi comunicare questa notizia. Sono venuto dalla colonia del Polo Nord per svolgere delle indagini in base a dei rapporti sulla morte di diverse persone in quest'area destinata al ritorno alla natura. A giudicare dall'odore, sembra che l'ultima vittima sia vostro marito. Mi dispiace. Vi assicuro che non ho avuto nulla a che fare con la sua morte.» Il tenente Drinnil'ib estrasse il distintivo dal marsupio e lo mostrò, un'olostampa da due doci - abbastanza grande perché potessero vederla senza problemi. Emetteva anche il suo odore. La più piccola dell'harem, con profonde cicatrici nere agli arti inferiori, avanzò per ultima, quindi si chinò sul ventre in atteggiamento di supplica. «No» protestò lui. «Non voglio che facciate così. In piedi! Parlatemi per favore.» Lei emise ancora dei lamenti, quindi spalancò la bocca. Gli ci volle il tempo di pochi battiti cardiaci per prendere atto di ciò che vide, e qualche altro perché quell'orrore penetrasse in lui. Dove ci sarebbero dovute essere le due estremità della lingua, dove si dovevano torcere i manipolatori che indicavano la provenienza marina della loro specie, non c'era che un moncone annerito, talmente corto da essere inutile sia per cibarsi che per parlare. Subito lui ritirò la lingua e abbassò il ventre fino alla ghiaia, per trovarsi al livello della donna. Quindi delicatamente le sfiorò il rostro con il pro-
prio, per esprimerle la sua comprensione. Lei chiuse gli occhi e abbassò il rostro, mestamente. Lui fece altrettanto. Quando sollevò nuovamente lo sguardo le altre tre li avevano raggiunti. Le due gravide lo guardarono speranzose. Oh-oh. «Guardate» chiarì «che io non appartengo alla vostra cultura. Sono un monitore. Questa è una visita strettamente professionale.» I loro occhi non mostrarono alcuna comprensione, e i corpi cominciarono a dondolare avanti e indietro sulle gambe. Si avvicinarono ancora, dondolando e gemendo. La prima femmina insisteva nello stringerglisi addosso. Cercò di indietreggiare, ma restò come bloccato. Da quel momento osservò la reazione del suo corpo quasi con distacco. Aumento della temperatura corporea. Tensione alla base della coda. Voleva tenere la bocca chiusa per evitare di assumere le sostanze chimiche che emettevano, ma un gemito si fece strada dal profondo e il rostro gli si spalancò involontariamente mentre la ragione gli abbandonava il cervello. Le donne gli stavano a fianco, emettendo il loro suono lamentoso e stringendolo tra i loro corpi, con i rostri spalancati, bloccati in quella posizione, e premevano le sue zone più intime. Fu sopraffatto dal bisogno di dare. Lasciò che la sua lingua carezzasse le loro code, quasi come se appartenesse a qualcun altro. Non vide mai le uova emergere dalla loro gola, ma piuttosto ne sentì le protuberanze morbide contro la parte inferiore del corpo, con una sensazione di svuotamento alla base della coda, provando una lieve frescura in quella zona mentre la sua coscienza ritornava pian piano. In seguito, naturalmente, ricordò ogni cosa con la nitidezza umiliante di un ologramma terapixel. Soprattutto quando rivide le due uova bianche ricoperte di quella sostanza gialla bagnata e appiccicosa. E soprattutto quando sollevò lo sguardo e vide la piccola Mary Pierce ferma a circa otto unità Statuto di distanza, a bocca aperta in ciò che doveva essere un'espressione di ribrezzo. Mettendo da parte imbarazzo e ripugnanza cercò di ricordare che cosa si doveva fare. Una volta tornati, le uova sarebbero state ripulite in un ospedale e trattate con ogni genere di preparati igienici, avvolte dentro dei contenitori germicidi e poste in un'incubatrice. La cosa più simile a un'incubatrice che avessero lì era un marsupio do'utiano. Il suo era pieno di altre cose, ma anche le donne ne avevano. Fu allora che si rese conto che, dato che nessuna delle donne aveva la lingua, le uova nei loro marsupi ce le avrebbe dovute mettere lui. Chiuse gli occhi, gemette, e affondò di nuovo il rostro
nella sabbia. Non poteva farlo. «Va tutto bene» sentì che stava dicendo Mary. «Ho paura di non ricordare ciò che dice il manuale a proposito dell'ostetricia do'utiana, ma se c'è qualcosa che posso fare dimmelo.» Lui sollevò la testa. «Il manuale non dice nulla. È considerata una faccenda troppo intima. Ma... ma le uova vanno ripulite e messe nei marsupi delle donne. Non possono farlo da sé perché il loro marito precedente le ha mutilate. Io... io temo di non esserne in grado.» «Non c'è problema, amico. Credo che mi accettino. Ci dev'essere il tuo odore su di me. Va bene se sciacquo le uova in mare?» «Sì, credo di sì.» Lo fece rapidamente ed efficacemente, prendendo un uovo alla volta, cullandolo e parlandogli come se fosse un neonato umano. Drin si trattenne dal dirle che non ci sarebbe stato nulla che potesse starla a sentire dentro le uova per otto giorni al quadrato. Finito il lavaggio, Mary prese l'uovo più piccolo e si avvicinò a una delle puerpere, la quale lanciò a Drin uno sguardo accusatore e arretrò. Quindi accadde una cosa strana. La do'utiana più piccola si portò rapidamente di fronte a Mary e le offrì il suo marsupio. Quando quel membro dell'harem ebbe accettato entrambe le uova, si avvicinò a Drin e lentamente scalfì la sabbia con il rostro. Fu subito chiaro che stava scrivendo. Quando si fece da parte, Drin poté leggere abbastanza chiaramente: «IO GRI'IL». «Riesci a capirmi?» chiese Drin, con stupore. Ovviamente, lei non poteva parlare. Fece cenno di sì. «Il tuo nome è Gri'il?» Assentì di nuovo. «Vuoi andar via?» Gri'il non si mosse, poi assentì lentamente e subito dopo scosse la testa vigorosamente. C'era qualcosa che non andava. «Vuoi seguirmi al Polo Nord? Verso la civiltà?» Lei restò immobile a lungo. Quindi ricominciò dolorosamente a scalfire la ghiaia. Ciò che scrisse era «PERICLO CACCIATRI». Mary lo vide, si avvicinò a Gri'il, si avvolse intorno l'arto inferiore della donna e cominciò a emettere suoni lamentosi simili ai suoi. In breve, tutte si unirono. «Vado a prendere un po' di pesce per tutti» disse Drin, rivolto a nessuno in particolare, e si diresse velocemente verso riva. Le do'utiane mutilate
erano denutrite e non potevano cibarsi da sole. Inoltre, c'era qualcosa che doveva fare da solo. Lontano da donne di qualsiasi specie. Gli individui che intendano visitare le regioni selvagge o stabilirvisi, da soli o in piccoli gruppi, possono farlo senza impedimenti purché rispettino i diritti degli altri e non turbino l'ambiente in maniera significativa. L'introduzione dell'industria chimica è espressamente proibita. Le società alternative sono ammesse a condizione che gli individui che entrino a far parte di tali società siano liberi di lasciarle quando lo desiderino. Non s'interferisca con il suicidio, né con situazioni che corrano il rischio di sfociarvi. A ogni modo, l'omicidio non sarà trattato differentemente dalle altre aree civilizzate. — Dal Manuale del Monitore Planetario, La Legge nelle Aree Riservate. «Gri, Ohghli, Donota, Notri, ho detto bene?» chiese Mary. La memoria degli umani, pensò Drin, era sorprendentemente limitata se paragonata alle loro capacità tecnologiche. D'altra parte, forse era stata la necessità a fare di loro degli inventori superlativi. Aumentando la forza del suo successivo colpo di coda propulsivo Drin fece oscillare il sommergibile di Mary. «O la tua memoria è molto peggiore di quel che credo, o tu trovi una certa comicità nella mia situazione. Credo che preferirei non rivolgere i miei pensieri in quella direzione così spesso.» «Le mie scuse.» Il dispositivo di comunicazione ritrasmise la caduta del tono della voce, che Drin imputò a una crescente preoccupazione. «Ma sono le tue mogli adesso, non è vero?» «No! Non ho preso nessun impegno. Non c'è nessun documento. Tranne Gri'il, nessuna di loro sembra avere alcuna comprensione intellettuale della propria vita o della propria razza. Nessuna di loro è una compagna adeguata.» «Direi che sarà difficile per loro rendersene conto» affermò Mary, più a ragione di quanto non potesse capire. «Molto difficile. Le ho avvicinate in circostanze che rendono il legame biologico quasi inevitabile in natura. E Gri'il ha preso le uova...» «Sembra un tipo responsabile, e istruita in una certa misura.» «Avrà una storia da raccontare. Sospetto che sia una che è scappata di
casa e che si è tuffata in quest'affare del ritorno alla natura troppo a fondo per la propria profondità intrinseca. Credo che le altre siano nate qui. Sembrano effettivamente selvatiche.» «Che ne sarà di loro?» «Penso che Gri'il tornerà alla civiltà, cosa triste ma saggia. Le selvagge... non lo so. Dovranno decidere gli esperti - può darsi che siano più felici così come sono.» «Mutilate?» «No, a quello porremo rimedio. Ma potrebbero non essere in grado di adattarsi alla civiltà a questo punto. Non posso sapere che cos'hanno in mente, né se hanno sviluppato ciò che io e te definiremmo tale.» «Ma è crudele» lo accusò Mary. «Loro ti amano.» «Tu non capisci la biologia. Credo che la nostra conversazione dovrebbe prendere altre direzioni a questo punto.» Ma non fu così. Il tentativo di Mary di combinargli un matrimonio gli aveva tolto ogni voglia di conversare. Quindi ci fu solo silenzio, un silenzio che avrebbero fatto meglio a colmare progettando dei piani mentre si avvicinavano all'insediamento umano primitivista. Era sorprendentemente vasto, anche per quegli standard. Alla sua vista Drin si rese conto che il primitivismo per gli umani non significava in realtà vivere senza tecnologia. Significava vivere con una tecnologia talmente primitiva da poter essere mantenuta senza un'istruzione specifica al prezzo di una fatica ripetitiva e incessante. Una tecnologia di assi e pali intagliati a mano, e di pietre mal sbozzate in grandi cataste, rese ancora più grandi da esseri evolutisi con una gravità doppia di quella locale. L'accesso al porto era stato ridotto alle dimensioni di un canale per mezzo di massicci muri di pietra, e protetto da enormi grate in legno. Il flusso d'acqua che ne usciva era putrido. Drin se ne allontanò. «Profanazione! Mary, credo che preferirò entrare a piedi.» «Ho capito. Ci devono essere duemila persone in questo posto, ed è l'unico sbocco. L'aria non è molto migliore, c'è molto fumo. Siamo un paio di gradi al di sopra del livello di congelamento. È abbastanza fresco per te?» «Una bella giornata tiepida.» «Perché non cerchi di metterti a cavalcioni del sommergibile? Devi tenere la coda lontana dagli elettrodi a poppa.» Drin emise una bolla come se ridesse. L'idea di viaggiare a cavallo di un sommergibile umano era davvero bizzarra. Ma l'acqua puzzava come una carogna in putrefazione. «Se riesci a guidare senza usare gli alettoni ante-
riori mi ci posso attaccare con gli arti anteriori. Così la mia coda non arriverà agli elettrodi.» «Il sommergibile dice che non c'è problema. Monta a bordo.» Nuotò in posizione, attorcigliò le punte delle dita anteriori attorno al bordo arrotondato degli alettoni di flexidiamante ed emise un po' di gas di galleggiamento per tenersi giù. Il sommergibile si alzò sotto di lui e infranse la superficie. L'aria puzzava come previsto, ma soltanto quando apriva la bocca. Poco dopo Mary s'arrampicò fuori dal boccaporto per raggiungerlo. Si era messa l'uniforme da monitore sopra la muta isolante. Sembrava appena uscita dall'accademia. Ricordando che gli umani si basavano quasi esclusivamente sull'identificazione visiva estrasse dal marsupio i distintivi da monitore e se li attaccò sulle spalle anteriori. Davanti a loro, da un lato all'altro dell'accesso al porto, si stendeva la sommità del muraglione, con una apertura poco più ampia del sommergibile. L'enorme cancellata in legno si ergeva massiccia sull'acqua, e faceva apparire minuscolo perfino Drin. Era sorvegliata da umani nerboruti in costumi ben allacciati attorno ai quali erano fissate delle armi da taglio, lunghe e pesanti. Si chiamavano spade, se ricordava bene. «Aprite il cancello» urlò Mary. Gli uomini non fecero nulla. Drin le diede un colpetto sulla spalla con la lingua per avvisarla, e lei si coprì le orecchie. Drin inspirò profondamente. «MONITORI PLANETARI. APRITE IL CANCELLO!» urlò, due ottave più in basso di Mary, riversando l'aria anche dalla vescica oltre che dai polmoni. L'edificio del posto di guardia umano reagì a tono alla sua sollecitazione e un piacevole fragore uscì dalla porta spalancata. Diverse pietre e calcinacci marci si staccarono rumorosamente dalle pareti del muro. Uno degli uomini protese le mani, con le palme all'infuori come a chiedere pazienza, mentre l'altro s'immerse nell'edificio del posto di guardia, ora tornato più stabile, e ne sbucò con un paio di bandiere colorate. Si rivolse verso l'ingresso del porto e cominciò ad agitarle secondo un simbolismo incomprensibile. Ben presto si udirono uno stridore e uno scricchiolio provenienti da leve e ingranaggi, mentre il cancello di sinistra si apriva pesantemente. Dagli ologrammi aerei Drin comprese che il frangiflutti era spesso otto unità Statuto al quadrato, ma anche così l'angusto canale rivelato dal cancello che si apriva lo fece alquanto rabbrividire. Fece scivolare un'estremità della lingua da un lato della bocca fino al marsupio, per avvolgere le dita attorno
alla sua arma. Quando il rumore cessò il sommergibile s'infilò nel cancello aperto a metà. Distava dalla parete soltanto pochi doci su entrambi i lati, ma riuscì a mantenersi in mezzo con precisione matematica lungo tutto il canale. Circa a metà strada un uomo vestito di rosso saltò sullo scafo da una scala situata poco oltre l'ingresso, atterrando senza perdere l'equilibrio nonostante la velocità del mezzo. Guardò Drin, poi Mary, come fosse incerto su quale dei due detenesse il comando, se il maschio do'utiano o la femmina umana. «Lei chi è?» tuonò Drin. L'uomo si scosse e si guardò attorno, come se cercasse un luogo dove saltare e, non trovandolo, infine affrontò Drin. «Yohin Bretz a Landend. Sono... sono il vostro pilota per il porto. Dobbiamo dirigerci all'ingresso della città. Laggiù Lord Thet vi parlerà.» «Yohin Bretz a Landend» disse Mary «sono Mary Pierce del Dipartimento Monitori. Questo è il tenente Drinnil'ib, il mio collega. E questa è la mia imbarcazione, il tenente Drin non ne ha bisogno. Siamo qui per compiere delle indagini sulla morte di diversi do'utiani primitivi in questa regione.» «Eh? Saranno i balenieri che giocano con gli uomini-pesce, immagino.» Bretz rivolse lo sguardo al sommergibile. «Quanto pesca?» «Pesca?» Mary evidentemente non comprese quel termine. Drin sì, grazie alle sue conoscenze di letteratura nautica umana, ma rimase in silenzio per non mettere in imbarazzo la sua partner. «Certo, pesca. Fin dove arriva il fondo di quest'affare?» «A circa un terzo di unità Statuto» rispose lei. «Quant'è in metri?» Un umano sciovinista, pensò Drin. «Un po' più di tre dei vecchi metri.» «Ah-ah. Allora la chiglia sta sotto il pelo dell'acqua per circa il doppio della sua altezza?» «Sì.» Il pilota scosse la testa. «Dislocherebbe trenta tonnellate d'ingombro in meno senza l'uomo-pesce a bordo, direi, e viaggerebbe un metro più in alto. Va bene, non c'è problema, il canale è abbastanza profondo, ma dovrete continuare a starci dentro. Dovete dirigere immediatamente verso il porto non appena sarete fuori del canale di scolo, e proseguire in direzione del grosso mulino di pietra che vedrete sulla riva. Se fossi in voi girerei un po' a babordo del mulino per sfruttare la corrente.» Drin emise una specie di brontolio, e Mary sorrise, riconoscendo la sua
risata. Il sommergibile poteva continuare a seguire il canale per mezzo del sonar o di luci di segnalazione senza alcun aiuto da parte del pilota. «Ce la caveremo» disse Mary «grazie. Può chiamarmi Mary. Come posso chiamarla?» «Yohin, o signor Bretz, se vogliamo essere formali.» Emersero all'interno del porto, una concentrazione approssimativamente circolare di acqua fetida. L'aria era impregnata di odore di pesce e annebbiata dal fumo di legna. Di tanto in tanto si posava su di loro uno strato di cenere bianca. Delle rozze costruzioni umane in legno erano allineate lungo la riva, ma non fino in fondo, dove, da un lato all'altro del corso d'acqua che faceva il possibile per sciacquare quel luogo, c'era una grande muraglia in pietra, più verticale e meglio rifinita dell'argine all'ingresso del porto. A questo molo erano ormeggiate delle navi in legno, tra cui diversi piccoli bastimenti cilindrici non molto più lunghi di Drin, corredati di vele triangolari, e un'enorme nave dalle vele quadrate, lunga forse dieci unità Statuto. Quest'ultima aveva anche una strana prua sporgente e due file di remi con i quali presumibilmente poteva manovrare in assenza di vento. «Ehi, siamo nel porto!» urlò Yohin. «Non dovete fare qualcosa per far girare questa barca? Come acci...?» Gli si spalancarono gli occhi quando il sommergibile svoltò seguendo il canale senza che Mary muovesse un dito. Drin emise di nuovo quel brontolio. «Mi dica, signor Bretz» chiese Mary ridendo «lei è felice qui?» «Mi dà il pane. Dà da mangiare a me e a mia moglie, mi fa rispettare. E ho perfino una coppia di schiavi. Lo faccio da centocinquant'anni. Sì, sono felice. Non ho bisogno di roba di lusso.» «Schiavi?» chiese Mary. «Ha degli schiavi?» «Certo» disse Yohin. «Qualcuno deve pur fare i lavori di casa mentre sono fuori a fare il pilota. Sarebbe una vergogna se dovesse farli mia moglie, e io sono troppo stanco dopo una giornata di lavoro.» «E gli schiavi sono felici?» «Do loro da mangiare più che a sufficienza. Non conoscono nient'altro, quindi perché non dovrebbero esserlo?» Drin sibilò. Tale manifestazione di avversione, si rese conto, era sprecata con questo pilota umano. «I vostri schiavi vogliono essere schiavi?» chiese. Yohin si voltò verso di lui, sorpreso. «Sono stati catturati lealmente. Conoscono il gioco. E a lei che gliene importa, mi scusi, signor tenente uomo-pesce?»
«Lo stile di vita primitivo dev'essere volontario. Nessuno dovrebbe essere costretto a vivere in questo modo.» «Senta, non sono io che ho organizzato tutto questo. Ma se viene a cercare i miei schiavi dovrà vedersela con me. E magari anche con loro. Che ne vorrebbe fare? Mandarli in qualche scuola piena di macchine in modo che stiano a grattarsi la pancia in eterno? È molto meglio anche per loro se lavorano per me.» «Adesso, signora...» Il pilota accennò con la mano all'altro lato del porto «deve far girare questa tinozza tutta a tribordo e dirigerla dritta dritta verso quell'asta di bandiera in fondo alla fortezza... in qualsiasi modo riesca a farlo.» Il sommergibile virò come se rispondesse al comando di un pilota, e lui annuì soddisfatto. «Non ho mai sentito dire che una donna sapesse guidare una barca. Ma lei ci riesce proprio bene.» «Ho parecchio aiuto» disse Mary. «Yohin, me la immagino a fare queste cose su una di quelle navi a vela col vento che soffia, basandosi soltanto sul suo giudizio e su ciò che si vede dalla superficie. Rispetto la sua abilità.» Il pilota annuì e mostrò di nuovo i denti. Mary, si rese conto Drin, si stava guadagnando la sua fiducia. Questo umano, pensò Drin, aveva trovato ciò che cercava Gri'il quando lasciò la civiltà per la spiaggia. La questione era se anche gli insuccessi dovevano essere ammessi insieme ai successi, soprattutto in caso di insuccessi involontari. «Prima ha parlato di giochi che i balenieri farebbero con i do'utiani. Che genere di giochi?» «Ho sentito dire che c'è un accordo secondo il quale gli uomini-pesce cercano di sfuggire all'inseguimento dei balenieri. Quelli che perdono diventano carne da macello, giuro, è così che vogliono loro.» Drin emise un brontolio di scetticismo. «Chi organizza questi giochi?» chiese Mary. «E che accidenti ne so? Forse Lord Thet. Potete chiederlo a lui, siamo quasi arrivati.» Lo scafo del sommergibile si trovava ben al di sotto del livello del molo, in parte a causa dell'imponente stazza di Drin. Dal livello del mare non poteva vedere tutto ciò che si stendeva oltre il molo. La visuale peggiorò quando si avvicinarono alle pietre.
Con cura, usando il muro come punto d'appoggio supplementare, fece oscillare la coda oltre la parete, si alzò sugli arti posteriori e piegò a uncino i cuscinetti cornei ondulati delle dita dei piedi anteriori sul bordo del muro di pietra, portando la testa oltre il livello del molo. L'uomo che li aspettava sul molo all'ingresso della città doveva essere Lord Thet. Superava in altezza Mary con tutta la testa, era vestito di grigio e aveva del folto pelo nero su tutta la faccia, cosicché gli si vedevano solo gli occhi e le narici, quando teneva la bocca chiusa. I suoi abiti ricoprivano una corazza, o quello che per un umano sarebbe stato un corpo eccezionalmente grosso. Altri come lui, che reggevano delle lance dalla punta metallica, gli stavano accanto. Circa una cinquantina di umani che portavano qualche tipo di armi primitive in legno si tenevano a distanza dietro il capo dei primitivisti. Mary riuscì ad arrampicarsi sulla schiena di Drin e a saltare dalle sue spalle sulla piattaforma di pietra. Forse non era molto dignitoso, ma servì allo scopo. C'era abbastanza vento, oltre ai rumori del porto, ma Mary si lasciò alla cintura il dispositivo di comunicazione, da dove poteva vedere e registrare tutto. Drin ascoltava in cuffia. «Salve, sono Mary Pierce, monitore planetario.» «Lei non è gradita qui» dichiarò Lord Thet, con un'aggressività da maleducato, pensò Drin. «Il suo nome?» chiese Mary. L'uomo restò in silenzio, ma la telecamera del dispositivo di comunicazione lo riprendeva perfettamente, e la rete monitoriale trasmise loro silenziosamente le informazioni in cuffia. Aveva lasciato la civiltà molto presto e, nonostante la sua posizione di comando, era piuttosto ignorante sulle cose che stavano al di là del suo controllo. «Lei è Jacob Lebbretzsky, altrimenti noto come "Lord Thet", a giudicare dalla sua voce e dal suo aspetto. Me ne andrò al più presto se risponderà alle mie domande» gli disse. «Non sopravvaluti la sua autorità, monitore. I suoi superiori non hanno tanto interesse per noi, e il vostro statuto si presta a diverse interpretazioni.» Pura illusione da parte sua, considerò Drin: per quanto i monitori si sforzassero al massimo di non essere prepotenti, non c'erano dubbi sull'esito finale. Ma soltanto lui e Mary erano lì al momento, le cose erano ben lungi dal volgere a conclusione, e se quell'idiota egocentrico si fosse convinto di po-
tersela cavare in maniera relativamente violenta... o se qualcun altro l'avesse portato a crederlo... Drin parlò rapidamente con il rostro serrato, cosicché soltanto Mary potesse sentirlo in cuffia. «Mary, quest'imbecille potrebbe essere pericoloso. È diventato così tronfio da aver dimenticato chi c'è dietro di noi.» Alzò una mano per fargli capire di aver ricevuto il suo messaggio, ma continuò a fronteggiare Lord Thet. «Qualcuno ha ucciso almeno quattro primitivi do'utiani» gli disse. «Gli uomini-pesce ci hanno accusato?» «Abbiamo trovato i corpi.» «Può capitare che qualcuno muoia. Solo chi non viene messo alla prova vive per sempre.» Antico modo di pensare do'utiano, pensò Drin. Come mai lo sentiva dire da un ignorante primitivista umano? I do'utiani non morivano di vecchiaia, ma si riproducevano abbastanza lentamente da far sì che, allo stato naturale, battaglie, malattie e incidenti nel mare ostile fossero sufficienti a mantenere stabile la popolazione. Ma gli umani avevano eliminato l'invecchiamento e limitato la fertilità per mezzo dell'ingegneria genetica in epoche remote. «Voi li cacciate, non è vero?» lo incalzò Mary. «La vostra gente li caccia con le navi, come se fossero animali.» Lebbretzsky restò in silenzio il tempo di un battito cardiaco, poi disse: «La gara è più equa di come l'ha descritta. Non c'è possibilità di eroismo da una parte o dall'altra senza il rischio di morire. E le morti ci consentono di allevare altri bambini incontaminati dalla vostra cultura delle macchine». Tutto ciò fece sibilare Drin mentre pensava al porto puzzolente, agli schiavi umani e alle selvagge do'utiane del suo harem. Quel suono attirò momentaneamente l'attenzione dell'umano, che probabilmente non aveva idea di che cosa significasse. «Signor Lebbretzsky» replicò Mary «dalle sue affermazioni deduco che lei sappia di che cosa sto parlando. Questo deve cessare, e le persone che ne sono responsabili devono essere rieducate. E se tenta di coprirle anche lei sarà candidato alla rieducazione.» Drin vide l'uomo sollevare il braccio come per colpire Mary, e poi riabbassarlo. Lebbretzsky, si rese conto Drin, poteva essere talmente ignorante e tanto profondamente coinvolto in quegli omicidi da ritenere di non avere nulla
da perdere ad aggredire un monitore. Drin fece scivolare un manipolatore nella tasca del marsupio per la seconda volta. Il movimento della sua lingua sembrò passare inosservato, o quanto meno incompreso. «Donna. Di' ai tuoi superiori che la tua presenza qui è una provocazione. Digli che la loro ingerenza nella nostra cultura è un'ingerenza nel nostro diritto di vivere e morire come vogliamo. Digli che non abbiamo assassinato nessuno, e che la prossima volta che vogliono che rispondiamo alle loro domande non mandino donne e pesci.» «Profanazione!» le trasmise Drin. «Le vittime sono state trafitte e fatte a pezzi! Ma sta' attenta, Mary.» L'uomo proseguì: «Non ci sono omicidi, donna monitore. Adesso andatevene da qui, o faremo il possibile per espellervi. Potete avere armi migliori, ma noi non abbiamo paura di morire». «Drin, sarà meglio chiamare i Kleth in appoggio» disse Mary ad alta voce. Drin per poco non rispose che l'aveva già fatto da ore, poi si rese conto che Mary l'aveva detto a vantaggio di Lebbretzsky. «Lebbretzsky» proseguì. «Non m'interessa che cosa ne pensi lei. Aggredire e uccidere dei do'utiani con degli arpioni è omicidio, proprio come se l'aveste fatto a me. Il gruppo culturale può occuparsi dei perché più tardi, ma è mio dovere far cessare questa cosa, adesso. Chi l'ha fatto? E dove sono?» Drin s'irrigidì. Mary, nella sua coraggiosa impazienza di cancellare quella che vedeva come una macchia per la sua razza, stava prendendo il toro per le corna nella sua stessa stalla. Specie sbagliata, ma in questo caso Drin temeva un'evoluzione convergente. Come per confermare questo pensiero, l'omone estrasse un lungo coltello. Mary si allontanò rapidamente da lui e tirò fuori la pistola. Drin infilò un manipolatore nel marsupio e mise in funzione, orientandosi con il tatto, il dispositivo di comunicazione. Scaricò nella rete monitoriale tutto quello che avevano registrato fino a quel momento, nel caso che lui e Mary non fossero sopravvissuti all'abuso dell'ospitalità di Lord Thet. «Va bene» urlò Mary. «Lebbretzsky, butta l'arma e gettati a terra. Sei in arresto. Potrai fare le tue rimostranze dopo che sarai stato messo al sicuro.» «Mary...» trasmise Drin. Troppo tardi. La mano di Lebbretzsky sembrò schioccare e il coltello si avventò su Mary. La sua pistola era puntata sulla traiettoria. Con un lampo, una pallottola intelligente si abbatté sull'oggetto deviandolo. I due umani si fissarono in silenzio per qualche secondo, come
in una situazione di stallo momentaneo. Al momento, però, Lebbretzsky godeva di una superiorità numerica schiacciante. Fece un qualche segnale e un centinaio di dardi furono scagliati su Mary, e altri su Drin. Sia lui che Mary aprirono il fuoco il più velocemente possibile, ma Mary fu colpita. «Mi hanno beccata a una gamba» disse con calma professionale. «Drin, andiamocene da qui.» Drin ruggì, e con uno sforzo supremo di cui talvolta la sua razza era capace, si issò sul bordo del molo arrampicandosi verso Mary. Gli arcieri umani si arrestarono sorpresi, e lui protese la lingua verso la compagna ferita. Riuscì appena ad afferrarle una gamba con un manipolatore. La stava tirando a sé quando i primitivisti ripresero a tirare. Continuando a trascinare Mary con un manipolatore, con l'altro lanciò delle pallottole intelligenti verso le gambe degli arcieri con le balestre. Mary, piccolo bersaglio mobile, non fu più colpita. Nonostante le armi di entrambi deviassero dozzine di dardi dalla loro traiettoria, fu lui a essere colpito. I dardi erano fastidiosi come punture di calabrone, ma nessuno parve superare il suo strato di grasso, e nessuno gli aveva colpito gli occhi. Alcuni uomini con la spada lo attaccarono. Aspettò che fossero fin troppo vicini, quindi rapidamente si voltò e con la coda fece cadere dal margine del molo quei cervelli di lumaca profanatori. Poi, con Mary saldamente nel rostro, balzò nel porto assieme a loro. «Trattieni il fiato» le disse un istante prima del tuffo. Vi cadde dentro in maniera da schizzare intorno quanta più acqua possibile. Momentaneamente protetto dalla confusione e dall'alto muro, ebbe il tempo di aiutare Mary a entrare nel boccaporto del sommergibile. Quindi, pensando al grosso arpione che aveva notato nel corpo del defunto signore della spiaggia, Drin puntò immediatamente verso l'ingresso del porto. Con un colpo di coda percorse a tutta velocità il porto per la sua lunghezza, aiutandosi con gli arti inferiori nei punti poco profondi. Questa volta non fece nemmeno caso all'acqua sporca. Uno sguardo all'indietro lo informò che i primitivisti umani si stavano dando da fare di nuovo con le loro bandiere colorate, e quando s'immerse sott'acqua udì il suono del cancello del porto che si chiudeva cigolando. Un'altra occhiata oltre il pelo dell'acqua gli permise di vedere che la grossa nave a remi si apprestava all'inseguimento. Raggiunse il canale lungo il muro del porto ben prima del sommergibile, e accelerò in direzione della sua estremità. Ma l'imponente cancello era già chiuso e sprangato. Con il rostro ci si attaccò e spinse con tutte le sue for-
ze, mentre i suoi colpi di coda mandavano ondate di acqua salmastra marrone lungo il canale. La cancellata si smosse appena. Riemerse in superficie ed esplorò le pareti del canale. Non erano esattamente verticali, allargandosi forse di mezza unità Statuto per ogni due d'innalzamento, e la loro superficie di acciottolato gli forniva numerosi appigli per gli artigli. Non sarebbe stato improponibile cercare di scalarle. Ma prima provò a urlare contro gli uomini di guardia perché aprissero il cancello. Rifiutarono, come già si aspettava. Comunque si era tolto la soddisfazione di vedere il loro piccolo posto di guardia franare a causa del rimbombare delle onde sonore. Guardandosi indietro vide il sommergibile entrare nel canale con la nave a remi alle costole. «Mary, qual è la tua situazione?» «Mi sono estratta il dardo, ho bendato le ferite e rattoppato la tuta. Fa un male cane. Per un po' non me ne andrò in giro a sgambettare. Sono preoccupata per quella nave da sfondamento.» «Da sfondamento?» «Quella barca a remi con la prua rinforzata che mi sta inseguendo. Peserà una tonnellata, procede veloce, è costruita per fracassare ciò che colpisce, e non ha freni. Tu come te la cavi con quel cancello?» Pesa una tonnellata? Cioè circa otto volte per quattro il suo peso. Profanazione! «Non ho avuto molta fortuna» comunicò via radio. «C'è qualche possibilità che il tuo sommergibile lo possa sfondare?» «Proverò con la grata subacquea. Dev'essere il suo punto debole.» Drin si spostò su un lato del canale e osservò la tolda arcuata del sommergibile passargli accanto. La sua scia s'ingrandì, poi scomparve. Per un istante ci fu solo silenzio, poi un boato soffocato. Il cancello resistette. «Mary?» disse. «Sto bene, tutto sommato. Forse ho fatto qualche danno. Prendo la rincorsa per un altro tentativo.» Lo fece, ma non ebbe più successo del precedente. «Drin, se riesci ad arrampicarti oltre il cancello faresti meglio ad andare.» La nave da sfondamento primitivista era entrata nel canale a tutta velocità. Evidentemente volevano cercare di schiacciare sia Drin che il sommergibile contro il cancello, incuranti degli eventuali danni agli ultimi due. Gli schiavi ai remi, pensò, probabilmente non sapevano che la nave stava andando contro un cancello chiuso. E i suoi comandanti dovevano credere, a
torto, che annientare Drin e Mary desse loro una possibilità di evitare la rieducazione. Non c'era la possibilità di discuterne con loro al momento. Drin si lanciò verso la parete del canale, e i suoi arti inferiori trovarono degli appigli sulle rocce sott'acqua. Con cautela si issò sul vicino argine verticale. Ma, appena cercò di spostare il peso delle zampe anteriori, gli artigli scivolarono sul tappeto di muschio viscido che ricopriva le pietre vicino alla linea di galleggiamento, e ruzzolò di nuovo nel canale. Tentò un'altra volta, poi vide il sommergibile affiorare in superficie e cominciare ad accelerare a marcia indietro verso la nave. «Mary!» urlò a squarciagola, dimenticandosi del dispositivo di comunicazione. «Sono stata io a metterci in questa situazione, li ho scatenati io. È giusto che combatta.» Nonostante le parole coraggiose la voce le tremava. «Buona fortuna, amico.» Semisommerso come un anfibio paralizzato, Drin osservò la collisione tra le due imbarcazioni umane. Ci fu un cozzo tremendo, seguito dal rumore di schianti vari. Come al rallentatore la nave salì sul sommergibile, e le pareti di pietra gli trasmisero un suono inquietante, cupo e stridente, quando la chiglia del sommergibile raschiò il fondo roccioso del canale. I rottami aggrovigliati stridettero lungo il canale a velocità di poco inferiore, come un pistone lanciato verso il cancello massiccio. C'era troppo poco spazio perché lui potesse restare dove si trovava. Mollò la presa, scivolando di nuovo in acqua, e nuotò verso il cancello. Poteva darsi che quell'ammasso si sarebbe fermato stridendo prima di arrivarci. Sott'acqua, Drin udì uno schianto improvviso, da spaccare i timpani. Profanazione! pensò, lo scafo del sommergibile dev'essersi fracassato. Riemerse in superficie e si guardò indietro. I due tronconi del sommergibile affioravano dall'acqua. La nave primitivista proseguì ancora sopra uno dei pezzi, ma poi cadde di lato, scalfendo con la prua rinforzata una parete del canale. La sua poppa colpì l'altra parete e, lacerandosi con gran stridore, la chiglia si spaccò, lasciando la nave distrutta di traverso nel canale. Gli uomini, alcuni dei quali erano stati infilzati da remi scheggiati, furono scaraventati fuori dall'imbarcazione fracassata come pesci da una rete bucata. Il tutto si era fermato ad appena un'unità Statuto dalla chiusa. «Mary?» chiamò via radio. Non ricevette risposta. Sui relitti in superficie si sprigionarono le fiamme, provenienti dai fuochi accesi a bordo della nave o dai cavi elettrici del sommergibile.
Drin si lanciò in mezzo a quella devastazione, facendosi largo tra i pezzi della prua rinforzata della nave macchiati di sangue che ricoprivano lo scafo del sommergibile. C'era del movimento tutt'intorno a lui, e vide che gli umani sopravvissuti non avevano miglior fortuna di lui nello scalare le pareti scivolose del canale. Sperando che il tempo che avrebbe impiegato non dovesse risultare decisivo, Drin afferrò con il rostro l'albero maestro ancora integro, lo ghermì con una contorsione rabbiosa del corpo e lo lasciò cadere in modo che la cima poggiasse sull'argine. «Arrampicatevi!» ruggì a tutti quelli che potevano sentirlo. Alcuni degli umani compresero, stupefatti, e cominciarono ad arrampicarsi sull'albero della nave verso la salvezza. Uno di loro era un omaccione con la barba rossa - lo stesso, si rese conto, che l'aveva irriso dalla tolda di un'altra nave soltanto una settimana prima. Si fissarono, immobili nell'istante in cui si riconobbero, ma Drin aveva ben altro che un arresto a cui pensare. Non badando ad alcune piccole bruciature e lacerazioni, Drin spazzò via con gli artigli i resti del ponte inferiore per liberare lo scafo pressurizzato del sommergibile. Era pieno d'acqua. Drin ci infilò la lingua e localizzò la cabina di pilotaggio grazie al tatto e alla memoria. Mary non si trovava al posto di guida, ma lui sentì l'odore del suo sangue. Tastò tutt'attorno il piccolo locale, usando entrambe le estremità. Trovò il suo equipaggiamento subacqueo e, credendo di averla raggiunta, lo afferrò. Pochi altri secondi preziosi e scoprì Mary inerte in una piccola sacca d'aria vicino al retro della cabina di pilotaggio. Avvoltala con entrambe le estremità della lingua, si sforzò di tirarla su tenendola in bocca, come un cucciolo. Le sue gambe gli raschiavano dolorosamente la gola, e così riuscì appena a chiudere il rostro sopra la testa della donna. Quindi si fece strada fuori dal relitto, inalò una quantità d'aria sufficiente per un'ora, e si rituffò nell'acqua putrida. Ipergalleggiante, nuotò verso la grata in legno sostenendosi con gli arti inferiori. C'era spazio a malapena per Mary e per la sua lingua insieme, perciò, con l'abilità di un contorsionista, riuscì a far scivolare la lingua ripiegata ad anello dalla zona carnosa della bocca, lasciando all'interno le estremità dei manipolatori. Drin abbassò la testa e le strizzò l'acqua dai polmoni. Si riempirono nuovamente con l'aria della sua vescica, non appena lui espulse l'acqua dalla bocca. La strinse di nuovo con forza. Si mosse. Era rinvenuta? Sperava che avrebbe capito abbastanza in fretta da non lasciarsi prendere dal panico. Sentì la sua mano toccargli un dito. Sembrava un gesto
controllato, razionale. Rivolse l'attenzione alle difficoltà esterne. Col buio e i detriti nell'acqua, e Aurum basso nel cielo antartico, avrebbe dovuto essere invisibile dall'alto. Cominciò a esplorare la base della cancellata nel punto in cui il sommergibile vi si era scontrato. A causa dell'urto si erano staccati qua e là dei pezzi di legno da un respingente esterno fatto di grossi tronchi d'albero. Ma nient'altro era stato distrutto quel tanto da passarci attraverso. Sentì un movimento intenzionale dentro la bocca. «Drin, ho indossato il respiratore. Puoi farmi uscire, adesso.» Sentire di nuovo la voce di Mary era la cosa migliore che gli fosse capitata da quando era arrivato in quella fogna primitivista. Usando la lingua per impedirle di emergere in superficie, emise una bolla d'aria dalla bocca, quindi la lasciò galleggiare liberamente. «Come ti senti?» le chiese. «Uno schifo, ma nessun osso rotto, credo. Sono stanca, e ho ancora del liquido nei polmoni.» Si mosse lentamente verso la grata ed esaminò i danni che aveva subito. «Scommetto che non le ho fatto nemmeno un buco.» «Sembra di no.» Erano in trappola. Entrambi rimasero in silenzio. «Ehi, Drin. Hai idea di come fargli credere che sono riuscita a passare? Se credono che ce ne siamo andati magari apriranno il cancello per venirci dietro, o per far uscire i rottami fluttuanti.» La grata era troppo stretta anche per Mary perché ci si potesse infilare probabilmente era stata progettata pensando alle dimensioni umane. La sua lingua ci passava appena, ma non era abbastanza lunga. Ma forse... «Potrei cercare di soffiare una bolla d'aria assieme a dei rottami attraverso la grata.» «Benissimo, fallo!» Lo fece, piazzando lo sfiatatoio davanti a uno degli spazi fra le travi di un punto non danneggiato. Soffiò: alcuni rottami sfuggirono dalla loro parte, ma non molti, un certo numero doveva essere passato. Aspettarono per un tempo soggettivamente eterno. Era sul punto di proporre un altro assalto frontale quando sentirono un sordo cigolio fastidioso. Aspettarono. Nulla. Poi un altro cigolio. Drin credette di avvertire un leggero fremito. «Credo che stiano cercando di aprirlo» disse. «Potresti averlo inceppato quando ci hai sbattuto contro. Questo è un caso di azione emotiva, un im-
pulso immediato, che ha ottenuto esattamente l'effetto opposto di...» «Drin, voi do'utiani siete fatti per il senno di poi. Perché non la smetti di fare il filosofo e cerchi invece di aiutarli ad aprire il cancello?» Certo. Facendo leva saldamente sulle pietre del fondo, e non dovendo lottare contro la gravità, Drin poté far ricorso a tutta la sua forza. Attese che un altro cigolio indicasse un nuovo tentativo di aprire il cancello, poi spinse. Lentamente cominciò a muoversi. Ci fu uno schianto e un rumore di sfregamento, come se qualcosa si fosse sbloccato. Drin mollò immediatamente la presa, e il cancello cominciò ad aprirsi oscillando. Nascondendosi sul fondo sotto alcuni relitti, si lasciarono portare dalla corrente oltre l'apertura. Poi, con Mary aggrappata a uno dei suoi arti inferiori, nuotò vigorosamente verso l'acqua pulita finché non ritenne di trovarsi ben oltre l'orizzonte di Lord Thet. Emerse in superficie, si voltò sulla schiena e protesse Mary tra gli arti inferiori come avrebbe fatto con un cucciolo, e lasciò che Ember e Aurum, che lambivano l'orizzonte, facessero ciò che potevano per riscaldarla, mentre lui inspirava grandi boccate d'aria per liberarsi del calore e saldare il suo debito d'ossigeno. Mary restò tranquilla per un po', per la grande stanchezza, suppose Drin. Perciò lo fece trasalire quando all'improvviso si alzò a sedere urlando: «Drin, guarda! Scie di condensa!» Do Tor era finalmente arrivato. Fra tutte le razze, quando la violenza è manifestamente inutile, viene incoraggiata la ragione. Per questo motivo, dove sembra probabile un irrazionale confronto fisico, è altamente raccomandata l'inclusione di un grosso monitore do'utiano. Gli umani sono superiori quando l'uso della forza è necessario in spazi ristretti. E dove sono richieste intelligenza superiore e capacità logistica i Kleth possono dare un contributo maggiore, ma occorre aver cura di evitare di mettere in pericolo i Kleth separatamente. — Dal Manuale del Monitore Planetario, Composizione delle Squadre. ...il loro legame di coppia è tale che gli individui diventano fisiologicamente dipendenti gli uni dagli altri. Difficilmente un Kleth sopravvive alla morte del suo compagno, né ci sono testimonianze da cui risulti che qualcuno ne abbia mai avuto l'intenzione. I tentativi di prolungarne la vita in tali circostanze sono
vani e non dovrebbero essere esperiti. — Dal Manuale del Monitore Planetario, Appendice Medica. L'aereo dei Kleth li incrociò proprio sopra l'orizzonte della città di Lord Thet, sulla spiaggia di un'isola disabitata dominata da un alto picco di granito che forniva riparo dal vento polare. Dopo i saluti, il caposquadra Do Tor e la sua compagna cominciarono a scaricare il loro equipaggiamento. Mary era esausta, perciò Drin fece una profonda buca nella sabbia per lei, raccolse della legna e accese un fuoco. Poi, nonostante la spossatezza, ancora zoppicante per la ferita, Mary insistette per lavare se stessa e i suoi abiti nella fredda acqua polare, assumendo un sorprendente colorito bluastro prima di ritornare presso il fuoco. «N-non preoccuparti» gli disse mentre tremava convulsamente davanti al fuoco con una coperta addosso. «È-è s-soltanto il modo in cui rriaccumuliamo il c-calore corporeo.» Do Tor e la sua compagna stesero le ali per prenderle qualche pesce, e ciangottarono divertiti quando lei gettò via tutte le parti buone e riscaldò la polpa residua fin quasi al punto di decomposizione sopra una pietra piatta che mise vicino al fuoco. Drin non vedeva l'ora di fare un buon pasto in tutta calma più tardi quella notte, alla sua maniera, durante il ritorno alla spiaggia di Gri'il. «Scusate il ritardo. Pensavamo che avreste lasciato Thet e ci avreste aspettato» disse il klethiano in una lingua gutturale, cantilenante, in una tonalità più bassa di quella di Mary, nonostante fosse grande meno della metà di lei. «Ci abbiamo provato» rise Mary. «Ma abbiamo incontrato qualche difficoltà. Noi abitanti della superficie abbiamo qualche problema a volarcene via quando le cose si mettono male.» «Non capisco perché i primitivisti avessero tanta tecnologia.» «Mancanza di zelo da parte nostra. Ignoranza dello Statuto e pressione evolutiva da parte loro» propose Drin. «I migliori combattenti finiscono per ricoprire ruoli di responsabilità, e i migliori combattenti molto spesso sono quelli che hanno le armi migliori. E poi, se non puoi far bene qualcosa falla grossa.» Ci sarebbe voluto un bel po' prima che riuscisse a dimenticare la grande nave con la prua rinforzata che si abbatteva su di lui. «Dubito che Lord Thet e i suoi si rendano conto del perché lo Statuto proibisca il progresso in queste zone. Si ribellano contro qualunque cosa ricordi l'istruzione scientifica.»
«Per gli umani c'è una contraddizione intrinseca tra "ritorno alla natura" e "niente tecnologia"» aggiunse Mary «perché è nella natura umana costruire strumenti e utilizzarli. Quindi ciò che accade è che i primitivisti inventano di nuovo la ruota usando tecnologie primitive che, su base individuale, inquinano spaventosamente e richiedono una fatica massacrante.» Mary raccolse una pietra e la lanciò lontano. «Così si organizzano dei giochi per la conquista del potere in cui vincono i più spietati, con i perdenti che vanno a fare gli schiavi, in un modo o nell'altro. Il che funziona abbastanza a lungo da permettere a questi bulli ghiandolari di cominciare a mettere in piedi degli imperi in miniatura, e poi...» Scosse la testa. «Consentire a questo Lord Thet di mettere in piedi la sua organizzazione è stato esagerare con la non intromissione, secondo me. Ma questo lo vedrà il consiglio. Per lo meno, abbiamo trovato i nostri assassini.» «Può darsi» obiettò Drin. «Ma non credo che questo sia il problema di una specie sola.» Da un punto di vista filosofico certamente non voleva farne una questione di contrapposizione fra umani e do'utiani, ma c'era qualcosa di più che lo preoccupava. «Non sono sicuro che abbiamo scoperto tutto. Nel difendere, la sua caccia l'umano Lebbretzsky sembrava includere anche i primitivisti do'utiani nella sua difesa.» «I do'utiani li aiutano a farsi massacrare?» chiocciò Do Tor. «Strana cosa, direi.» «Sì, se pensi in termini di gruppo. Ma quello non è il modo di pensare do'utiano naturale.» Drin mosse leggermente la testa da una parte all'altra in un mite segno di diniego. «Voglio fare qualche domanda a Gri'il per saperne di più su questo signore della spiaggia che è stato assassinato e sul suo harem. Forse mi sono fatto un'opinione che non rende giustizia all'ultima vittima.» «Si chiamava Glodego'alah, a proposito» aggiunse Do Tor. «Ha lasciato il Polo nord da studente insoddisfatto otto grandi rivoluzioni al cubo fa. Non era felice nemmeno come primitivista, ma non era un irresponsabile. Si prendeva cura dell'harem. Brava persona. Abbiamo fatto il nostro compito a casa.» Il Kleth estese le robuste ali traslucide in un gesto orgoglioso. «Oh, sì» disse la sua compagna, parlando per la prima volta, con sorpresa di Drin. Fino a quel momento Go Ton era rimasta immobile, ripiegata su se stessa. Poteva essere un partner o l'altro a prevalere, ma restavano sempre insieme. Il divorzio era sconosciuto, così come le vedove e i vedovi. Il contributo di Go Ton era insolitamente sollecito per un klethiano subordinato. Ma era noto come le coppie di monitori fossero più indipenden-
ti. «Avete portato il diadema do'utiano per l'interfaccia?» chiese Drin. «Altrimenti non saremmo arrivati così tardi.» Do Tor rovistò nel mucchio dell'equipaggiamento scaricato, trovando un involto in tessuto di vetro filato delle dimensioni di una tenda umana ripiegata. «Ecco qui.» Drin se la mise nel marsupio. L'antenna che vi era inserita captava e decodificava gli impulsi dei nervi motori, anche quelli inviati agli organi periferici mancanti. Adesso non solo avrebbe potuto porre delle domande a Gri'il, ma lei sarebbe stata in grado di rispondere. C'erano anche una tenda e un kayak pieghevole per Mary. La tenda stava perfettamente nella buca che Drin aveva scavato, e lei la sistemò con l'ingresso rivolto verso il fuoco. Mentre riprendeva la sua forma memorizzata, si voltò verso i compagni monitori. «Questo sì che è campeggiare» disse. «È ciò che la maggior parte di noi ha in mente quando pensa al ritorno alla natura, o alla vita in condizioni primitive. Ma, come vedete, non è affatto primitiva. E non è sociale, di solito cerchiamo di fuggire dagli altri quando lo facciamo. Ciò che è successo prima da Thet non corrisponde esattamente a quello che è la mia gente. Io...» «Mary, perché dovrebbe corrispondere più a te che a noi?» la interruppe Drin. «Non hai responsabilità particolari rispetto a loro soltanto perché si dà il caso che siano degli umani. Non c'è alcun bisogno di scusarsi.» «Oh, sì, Go Ton è d'accordo» interloquì la compagna di Do Tor. «Su questo mondo siamo un'unica civiltà. È l'obiettivo del pianeta Trimus. Se così non fosse sarebbero stati otto anni al cubo di vite prive di senso. Noi siamo gli occhi di Trimus. Avremmo dovuto accorgerci delle violazioni prima che si trovassero i corpi.» «Qualsiasi do'utiano può sentirne l'odore nella corrente alla distanza di un ottavo della circonferenza del pianeta. L'abbiamo ignorato» disse Drin. «G-grazie» disse Mary. «Ma io...» Scosse la testa emettendo i suoni della tristezza umana, anche se Drin pensò che fossero più che altro di sollievo. Lui estrasse la lingua e ne avvolse le dita intorno alla sua mano, e lei rispose a quel gesto abbracciandolo a sua volta dolcemente, e mostrandogli i denti in un gran sorriso. «Andremo tutti alla spiaggia domani, e ne sapremo di più» disse Do Tor. «Adesso riposiamo.» «Voi riposate» rispose Drin, ricordandogli che i do'utiani non dormono nelle giornate eterne dell'estate polare. «Ho bisogno di mangiare, devo nu-
trire l'harem e tenere le mie ferite nell'acqua perchè guariscano più in fretta. Ci vediamo lì, alla spiaggia. Abbi cura di te, Mary.» Lei attirò a sé le sue dita, senza badare alla coperta, e gli organi più sensibili di Drin furono premuti addosso al calore e all'odore estranei di lei. Per un attimo si sentì in imbarazzo, poi Mary lo lasciò andare. «Certo, anche tu» disse. Si allontanò dal fuoco arretrando con cautela, per evitare di rovesciare qualcosa. A una certa distanza, si voltò. E, come il suo corpo fu rivolto verso l'acqua, la mente lo seguì, cominciando a pensare ai suoi compiti. I tagli e le contusioni cominciavano a fargli male, era vero. Ma qualcosa nella sua mente lo spingeva, qualcosa di forse altrettanto potente del desiderio istintivo di congiungersi all'harem che l'aveva scelto come tutore e protettore. Per lui non aveva senso che gli umani, per quanto degenerati come Lord Thet e i suoi, volessero o potessero di punto in bianco cominciare a cacciare i do'utiani, anche considerando quella specie di sfrenatezza che il primitivismo sembrava concedere a entrambe le specie. Stava accadendo qualcosa di meno casuale e più malvagio. Forse Gri'il avrebbe potuto aiutarlo. Si deve consentire alla Civiltà Planetaria di evolversi, e gli esperimenti devono essere incoraggiati, perché solo attraverso il cambiamento si può estendere la conoscenza. — Trattato e Statuto del pianeta Trimus, Articolo 5. Aurum era alto sopra Ember quando Drin fece ritorno alla spiaggia dell'harem con la bocca piena di pesce, e la stella si era spostata a ovest di un dociradiano quando ebbe portato a termine il semplice compito di collocare il pesce nella gola delle donne. Finita l'operazione, tirò fuori la cuffia per l'interfaccia neurale e si avvicinò a Gri'il. Ancora adesso lei era esitante, e volgeva il muso verso la spiaggia. Nonostante tutto, la sua avversione per ciò che era artificiale era evidente. Ma poi, apparentemente riconoscendone la necessità, alzò la testa e gli si avvicinò. Lui le infilò la cuffia. «Ci vorrà un po' perché si tari. Ci sarà un po' di latenza all'inizio, ma ti ci abituerai. Adesso, dimmi soltanto come ti chiami, come se fossi guarita. Ripetilo finché il computer nella cuffia lo recepirà correttamente.» Il congegno emise un «Gri'illaboda» dopo circa sei tentativi, e a lei ce ne volle qualche altro per abituarsi. Alla fine, poté parlare attraverso il dispo-
sitivo più o meno naturalmente. «Bene» disse Drin. «Sto per registrare, quindi perché non cominci dicendo chi sei?» «Sono Gri'illaboda, dell'harem di Drinnil'ib.» Ottimo. Proprio ottimo. «Mi dispiace, Gri'il. Io sono un monitore planetario, non un primitivista. Ci tengo a te, sì, ma più come un parente, non come un compagno.» «Tu hai preso il posto del nostro padrone della spiaggia, ti sei accoppiato con le mie compagne.» «Non è stata una mia scelta. Non ho cercato né te né loro per l'accoppiamento.» Lei restò in silenzio il tempo di pochi battiti cardiaci. Lui poteva sentire le onde e gli uccelli marini. «Drinnil'ib, sono figlia di Slora'analta e Broti'ilita. Li conoscevi? L'uno o l'altro?» «Lo storico.» «Che raccontava antiche storie sui mari liberi e fece di sua figlia una romantica. Ero stufa della scuola. Ho incontrato un girovago. Mi ha portato qui, ha stimolato le mie ovaie... poi mi ha tolto la lingua.» «Glodego'alah?» «Niente affatto. Glodego'alah era un turista che vide ciò che era accaduto, si batté contro il girovago per noi, poi ci portò qui in salvo. Ma ha pagato per la sua opera buona in un modo fin troppo comune da queste parti.» «Allora mi dispiace di aver pensato male di Glodego'alah. Stiamo cercando gli umani che hanno ucciso lui e altri quattro. Ne conoscevi qualcuno? Avevano le famiglie qui?» «Glodego'alah osservò una volta che gli harem cambiano padrone facilmente a causa della caccia degli umani. Le loro navi vengono attraverso i canali tra le isole e la banchisa dove i signori delle spiagge raccolgono il pesce.» Drin annuì. «Io stesso ho rischiato di diventare una loro vittima tornando dalle mie prime ricerche. È abbastanza facile per loro: non sospettavo nulla finché non mi hanno sparato. Credevo che qualcuno quaggiù avrebbe diffidato gli umani dal comportarsi così.» Gri'il fece un derisorio gesto di stizza. «I signori del mare non intervengono. Dicono che gli umani colpiscono i più deboli e così la razza si rafforza, e che la debolezza innata della civiltà in questo modo viene elimina-
ta dal nostro sangue. Ma Glodego'alah non era debole.» «No, sono sicuro di no. Chi sono questi "signori del mare"?» «Sono i girovaghi, quelli che prendono ciò che vogliono da entrambi i poli. Vivono come padroni delle spiagge nel polo sud, poi nuotano verso nord e si godono tutti i lussi della civiltà. Sono... la parola umana è "ipocriti".» «E se non tornano?» «Un harem non resta a lungo senza padrone da queste parti. Non passa molto tempo prima che arrivi un signore del mare a reclamare la famiglia di un padrone scomparso. Sembra che sappiano, in qualche modo, quando uno di loro non ritorna.» La sua passività lo turbò, ma forse era semplicemente un adattarsi alle circostanze. La storia do'utiana antica non era affatto migliore di quella umana. Forse anche peggiore, per alcuni aspetti. E i Kleth, naturalmente, erano cannibali ancora al tempo dei viaggi spaziali. Drin rabbrividì, meravigliandosi dell'attrazione che provava per tali cose. Ma doveva chiederglielo, poteva essere importante. «Gri'il, come ti è stata asportata la lingua?» Si era sottomessa a quell'amputazione? «Il signore del mare che fece scappare il mio primo compagno disse che era una tradizione. L'ha preteso dopo il primo accoppiamento, diceva che se non me lo fossi lasciato fare non mi avrebbe preso l'uovo. E poi... non riesco a spiegarlo. A volte sento il bisogno di lasciarmi andare, di lasciare che il fluttuare del caso faccia ciò che vuole della mia carne. Comunque, non ho opposto resistenza. Nel mio stato, a quel tempo, lui era Dio.» Rassegnarsi alla mutilazione o morire. Il suo paradiso naturale era fatto così. Quale mostro profanatore avrebbe... «Il suo nome?» «Gota'lannshk.» Lo stesso farabutto che aveva incontrato da Cragen? Drin sibilò nauseato. «Sai di lui?» «Ci siamo incontrati. Ascolta, Gri'il. Torneresti al Nord con me? Per farti curare.» «Siamo legate a te. Ho bisogno di stare con te, di sottomettermi a te. E ho le uova, ricordi? O sei così civilizzato che questo non conta?» Probabilmente non bisognerebbe lasciare che le uova si schiudano, pensò Drin. Due padri. Nessuna prova. Niente famiglia. Nessuno stanziamento per le nascite.
«Gri'il, le costrizioni sono soggette a intervento medico. Il mio compito è di cercare di riparare i torti compiuti finora, e impedire che se ne compiano ancora. Puoi far venire le altre?» E quante altre ce n'erano in quelle isole? Avrebbero dovuto salvarle tutte? Con la forza, se necessario? «Se è chiaro che ce ne andiamo verranno anche loro, per quanto bene possa fargli.» «Rigenereremo le loro lingue, insegneremo loro a parlare, le manderemo a scuola.» «Sono nate qui. Le loro menti non sono state educate negli anni cruciali.» Erano veramente selvagge. Lo temeva anche lui. «Eppure dobbiamo tentare. Possiamo trovare un'isola deserta a nord per le tue compagne, e fare in modo che siano protette. Ma tu? Adesso che questo è accaduto, non credi che dovrai tornare...» «A che cosa? Viviamo su questo pianeta con gli umani e i Kleth al costo di smettere di vivere come do'utiani, al costo di agire sempre contro la nostra natura. E le stelle sono troppo distanti tra loro perché questo possa avere importanza. Ho voltato la coda a tutto questo. Di' quello che vuoi. Ho vissuto. Ho nuotato nelle correnti selvagge. L'ho fatto sulla spiaggia. Tu vuoi che torni a quella camicia di forza emotiva nel nord per ascoltare tutto quel ridacchiare perbenista e quegli "io te l'avevo detto"? Meglio morire, piuttosto!» E la sua condizione attuale non era forse umiliante? Ma alle sue argomentazioni secolari, pensò Drin, non c'era risposta. La civiltà di Trimus era fatta per quelli che pensavano che tutto questo fosse importante. «Non vogliamo dirti come vivere. Sono certo che la tua vita privata sarebbe rispettata, e tutelata.» «Come in uno zoo! Drinnil'ib, tu ci hai liberato, ci hai nutrito. Non ci vuoi? Non senti il bisogno di possederci e proteggerci? O nel nome del tuo Patto hai permesso agli umani di riprogrammare la tua sessualità?» Drin gemette. La desiderava sufficientemente, ma non voleva volerla. Almeno non come era adesso. Il rumore delle eliche lo raggiunse prima che potesse trovare un modo adeguato per spiegarglielo. Mary! Fu attraversato da una sensazione di sollievo. L'aereo si fermò, il boccaporto si aprì, e Drin andò a salutare la sua partner, lasciando Gri'il con il rostro nella ghiaia. Ma Mary non si vedeva. «Mary?» chiamò, preoccupato.
Do Tor aprì il tettuccio, farfugliò qualcosa rivolto alla macchina, e la porta del cargo si spalancò. Naturalmente, si disse Drin. Non c'era spazio in una cabina di pilotaggio Kleth per un umano, e in effetti ci volle un po' perché Mary emergesse da quello spazio ristretto. «Sono qui, Drin.» «È bello vederti!» Le spiegò dei signori del mare. «Perciò credo che i tuoi cacciatori umani abbiano dei complici do'utiani, o almeno li abbiano avuti inizialmente. Ma ancora non sembra che la faccenda quadri.» «I più forti, i più veloci e i più abili sopravvivono. Penso proprio che sia così. Credi che i signori del mare usassero Lord Thet per selezionare il suo branco, per così dire?» «Sembra possibile.» «Bene, la banda di aspiranti barbari di Lord Thet pare fin troppo felice di aiutarli. Probabilmente pensano che la vostra gente costituisca la preda più ambita dell'oceano.» «Questo introduce la questione se abbiamo il diritto di intervenire» osservò Do Tor. «Per salvare delle vite?» affermò con decisione Drin. «Certo che dobbiamo.» Mary sospirò e fece un gesto verso il cielo. «Drin, ci sono molti esseri là fuori la cui origine si può far risalire ai nostri mondi di provenienza, ma che si sono tanto manipolati da considerare noi come dei primitivisti. Potrebbero far svanire in un istante un problema come Lord Thet, senza sacrificare nemmeno una vita... ma noi lo vorremmo?» «Quelli che non rimarranno uccisi potrebbero apprezzarlo.» Mary scosse la testa. «Gli aspetti delle nostre nature che portano a questi guai potrebbero essere facilmente modificati, ma allora cosa saremmo? La morte, anche quella fortuita, può avere una funzione giustificabile nella società, pur trascendendo i bisogni individuali. Forse per mantenere la nostra identità bisogna che impariamo ad accettarlo.» «Credo» affermò Drin, forse con voce più stentorea del necessario «che questioni del genere debbano essere discusse dal consiglio planetario, e che il nostro compito sia di impedire che chiunque altro venga ucciso prima che si decida... qualsiasi cosa. Allora, ho quattro donne do'utiane fisicamente mutilate, e tre di loro lo sono anche intellettualmente, da riportare dove possano essere adeguatamente protette e accudite. Facciamolo, e al resto potremo pensare dopo.» «D'accordo» chiocciò Do Tor. Mary annuì in silenzio.
«Gri'il» disse Drin «c'è modo di spiegare alle altre quanto sarà lungo questo viaggio?» «Ti seguiranno se lo faccio io» disse lei, con apparente freddezza. «Ma i cacciatori staranno all'erta.» «E il pianeta li terrà d'occhio» dichiarò Drin. «Non oseranno fare nulla.» «Viaggerò con voi» disse Mary. «In divisa. Almeno sapranno con che cosa hanno a che fare.» Drin non le ricordò quanto erano stati persuasivi la sua divisa e il sommergibile al porto di Thet. «Voleremo in copertura, armati e facendo un gran chiasso» disse Do Tor, spiegando le ali. «Il nostro aereo volerà per conto suo, così saremo in tre lassù.» «Oh, sì» gli fece eco la sua compagna. Così fu deciso. Un convoglio per il nord. Drin fece strada nell'acqua il mattino dopo, con le braccia e le gambe calde di Mary comodamente attorno al collo. Avevano realizzato per lui un solido collare di stoffa al quale Mary poteva aggrapparsi per non cadere a causa dei suoi movimenti durante la traversata. Non era fastidioso, ma il rigonfio di un'applicazione che lei si era costruita a protezione del ginocchio ferito era un promemoria evidente della loro vulnerabilità in quelle acque. Ci sarebbero voluti molti altri monitori per venire a capo di Lord Thet e dei suoi alleati senza rischiare la vita. Gri'il lo seguì tranquillamente e, come previsto, tutto l'harem le venne dietro. Era una bella giornata grigia con venti favorevoli e perturbazioni di superficie leggere e rinfrescanti. Una corrente salmastra scorreva verso il nord, da lì fino alla cima ghiacciata dell'isola meridionale più grande, ricoprendo l'acqua salata più calda che scorreva da un bacino idrografico del polo interno, cosicché i do'utiani avevano potuto viaggiare abbastanza velocemente senza stancarsi troppo. La mattina del secondo giorno il territorio di Lord Thet era ormai distante, e loro scivolavano tra le onde verso le acque tropicali piene di scogli. Un'isola vulcanica con ampie spiagge nere si stendeva alla loro sinistra, e un banco di scogli alla loro destra, ma il canale era discretamente profondo. Drin cominciava quasi a rilassarsi e a godersi il panorama quando apparvero delle navi umane. «Non credo che siano cacciatori» comunicò Do Tor via radio. «C'è un grosso maschio do'utiano con loro, e non sparano.»
«Puoi descriverlo?» chiese Drin. «È lungo un'unità Statuto e tre ottavi. Ha una grossa cicatrice bianca a forma di mezzaluna. Lo conosci?» «Se è quello che credo io, ho già sentito il suo odore. Un signore del mare a cui piacciono gli harem, con la coda in due spiagge. È tempo di fare qualche domanda a quel farabutto.» Gri'il e le sue compagne presero a lamentarsi come se fossero state ferite a morte. «Sembra che anche le nostre profughe abbiano già sentito il suo odore» proseguì. «Sarà meglio far sapere a quegli umani che cosa stanno facendo. Pronta, Mary?» «Respiratore in funzione.» Ne sentì le braccia e le gambe circondargli il collo, e le mani afferrare il collare. Era ben salda. S'immerse e, sbattendo la coda avanti e indietro nell'oceano, si diresse verso la nave umana ammiraglia molto più in fretta di quanto avrebbe potuto stando in superficie. A circa dieci unità Statuto dallo scafo riemerse di nuovo. Altrettanto fece il suo harem - aveva dimenticato di dire a Gri'il di stare indietro. Non sarebbe stato necessario, ma si sentiva a disagio. «Mary, non so che vantaggio potremo trarre dalla presenza di Gota'lannshk.» «Perché dovrebbero sparare a noi e non a lui?» «Perché c'è sempre un signore del mare pronto a ereditare l'harem di una vittima? Perché Gota'lannshk sembrava al corrente del mio incontro ravvicinato con quei cacciatori quando ci siamo incrociati da Cragen?» «Lord Thet...» «Mary, non voglio insultare la tua specie, ma non credo che sia quell'idiota ad aver organizzato questa atrocità.» «Eh? E perché?» «Te lo dico dopo. Spero soltanto che questa gente abbia abbastanza buon senso da star fuori da questa faccenda.» Drin inspirò e tuonò con tutta l'autorità che poté: «Nave umana, siamo monitori planetari di scorta a dei cittadini, in missione ufficiale. Dobbiamo porre qualche domanda al vostro amico. Siete pregati di non interferire. Ve lo ripeto, non interferite». Mary li salutò e sorrise. Dapprima lo raggiunse la detonazione del cannone lancia-arpioni, poi seguirono il grido di Mary e quel dolore acuto e profondo nel collo. «Attenzione!» urlò Do Tor in collegamento radio. Aveva in gola il sapore del sangue. S'immerse e sentì il rumore di un
tonfo violento sull'acqua sopra di lui. L'istinto gli diceva di puntare verso il fondo, ma Mary, se era ancora viva - non sentiva più la stretta delle sue gambe - in quel caso non sarebbe sopravvissuta. Nonostante il dolore si fece strada nell'acqua vigorosamente, allontanandosi di circa otto unità Statuto al quadrato dalla nave prima di riaffiorare in superficie. «Mary?» chiamò. Se quegli idioti profanatori, suicidi e selvaggi l'avevano uccisa... Non ebbe risposta. Dimentico della ferita, si diresse di nuovo verso la nave, carico di rabbia. «Do Tor, non posso vedere dietro la testa. Cos'è successo a Mary?» I Kleth lo seguivano? «Drin. Hai un lungo rampone nel collo. Prima ha colpito Mary, a una gamba. Non è necessariamente una ferita letale, ma ti suggerirei di dirigerti verso l'isola più vicina. Go Ton verrà con te. A ovest, Drin, adesso. Ho fatto scendere il mio aereo. Quella nave non sparerà più. Vai!» Come per contraddire il Kleth, il lancia-arpioni sparò di nuovo, e il rampone colpì l'acqua poco a fianco. Sentiva raffiche di avvertimento provenire dall'aereo, e Go Ton lanciare acute grida a pieni polmoni, intimando alla nave umana di cessare il fuoco. In nome del ripudio eterno, gli assassini avrebbero pagato per questo! Cominciò a nuotare verso la nave. Sentì, più che vedere, un do'utiano caricare sotto di lui verso l'imbarcazione umana. «GRI'IL, NO!» urlò disperatamente, ma troppo tardi. L'urto riecheggiò, e il suono lo raggiunse sott'acqua prima che per via aerea. Poi, sotto, sentì lo stridore e lo schiantarsi del legno e le urla degli umani sott'acqua. «Drin!» urlò Do Tor. «Vai verso quell'isola, adesso. Di questo me ne occupo io. Starò ben attento, non me li lascerò scappare. Non riusciranno a confondersi con la popolazione primitivista. Starò attento. Vai, adesso, mettiti in salvo. Salva Mary.» «Drin» chiamò una voce sommessa «sono rinvenuta. Fa un male cane, ma se devi tornare per lei lo capisco. Lo sopporterò.» E tornò la ragione. «Mary. No. Devo dar retta a Do Tor.» Non era possibile che Gri'il fosse sopravvissuta a quell'impatto. Neanche lui avrebbe potuto. E le uova... era meglio così. Forse Gri'il lo sapeva. Ma la ferita aveva poco a che fare con lo sforzo che gli ci volle per spingersi verso l'isola. Un fischio e una specie di esplosione risuonarono dietro di lui. Poi anco-
ra. Sentiva gli altoparlanti. Uccisione per uccisione, forse quello l'avrebbero capito. Poi, dal fondo della sua mente, nel fluire del dolore e dell'afflizione, un pensiero prese forma in un vortice di fredda paura. Gota'lannshk era sparito quando avevano cominciato a sparare. Dov'era andato? L'isola si trovava alla distanza di una lunga nuotata in superficie, e quando ci arrivò si sentiva soffocare dal suo stesso sangue. Go Ton l'aspettava sul limitare dell'acqua, da sola, con la cassetta dei medicinali, che doveva pesare quanto lei. «Dai, ancora pochi passi, oltre la battigia» lo sollecitò. Lo fece, poi restò sulla pancia, con la coda ancora nella sabbia umida. Go Ton s'agitava attorno alla sommità della testa, fuori dalla sua vista. Sentì il ronzio di un seghetto, e ben presto il manico dell'arpione rotolò per terra. Uno strillo, subito represso, di Mary. Poi un intorpidimento cominciò a diffondersi dalla ferita. Presto si sentì come se non sapesse che cosa gli era successo, come se avesse soltanto un torcicollo. «Adesso, Mary» disse Go Ton «so che sembra terribile, ma credo che sia meglio lasciar stare quel frammento nella tua gamba finché non arriveranno i soccorsi. Un aereo umano sarà qui in otto battiti alla quarta. Potrebbe fare più male che bene se cercassi di rimuoverlo adesso.» «Capisco» disse lei. «Sembra assurdo, ma in questo momento mi sento bene, a parte che la gamba è come morta. Starò bene se non mi toccherà guardarla. Puoi aiutarmi a scendere?» «Non da sola. Tenente Drin, può aiutarci con la lingua?» La sua lingua funzionava ancora. La punta ricurva non era penetrata così a fondo, forse in parte perché la gamba di Mary ne aveva attutito la slancio. Si allungò all'indietro e, fra tutti e tre, riuscirono a depositare Mary sulla sabbia. «Dov'è Do Tor?» chiese. Profanazione! Se n'era dimenticata, si rese conto Drin, e non poteva avvertirla con la lingua allungata così lontano. «Sta cercando di sistemare con l'aereo il disastro delle navi umane» rispose Go Ton, debolmente. «Presto dovrebbe avere tutto sotto controllo e tornare con noi.» «Sei stata troppo occupata ad aiutarci per controllare!» disse Mary. «Lo contatto, gli dico che ce l'abbiamo fatta e vediamo come stanno le cose.» «Per favore, non farlo» la implorò Go Ton. Ancora un pochino, pensò Drin. Ecco! Mary era stata messa giù sana e salva, e lui poteva parlare di nuovo.
«Ma so quanto sia importante per te...» cominciò Mary, dimentica del pericolo. «Proprio per questo, Mary» l'interruppe Drin «per l'amor del cielo, rifletti!» La squadra Kleth aveva preso su di sé il rischio più grosso, quindi la posizione di Go Ton era precaria. Sarebbe vissuta fintanto che avesse creduto che il suo compagno fosse ancora vivo. Ma se le cose non andavano bene per Do Tor, ciò avrebbe di fatto eliminato anche Go Ton. «Abbiamo bisogno di Go Ton, adesso.» «Oh!» disse Mary. Tutti stettero in silenzio il tempo di un battito cardiaco. Poi Mary riprese, con una certa sicurezza forzata. «Go Ton. Quei rifiuti umani non hanno armi che possano far del male a Do Tor. Andrà tutto bene.» Quei rifiuti umani, pensò Drin, non avrebbero dovuto avere armi che potessero far del male a lui o a Mary. Ma non era andata così. «Drin, non sono pratica del pronto soccorso do'utiano» disse Go Ton, cambiando argomento di colpo «ma credo che adesso il rampone può uscire. È di quelli che vanno più in profondità ogni volta che ti muovi, e se il corpo di Mary non l'avesse frenato...» «Fallo.» Prima dell'anestetico Drin si rese conto di quanto vicino alla sua colonna nervosa centrale si fosse insinuata la punta ricurva. Aveva arterie e sangue da salvaguardare, ma non voleva ancora smettere di respirare. «Se potessi girarti sul fianco...» gli chiese Go Ton. Aderì all'invito, quindi giacque in silenzio, sentendo piccoli strappi e lacerazioni nella carne. Cercò d'immaginare una delle piccole braccia cornee sottili di Go Ton che affondava nella sua carne con i bisturi, aprendo un passaggio per la punta ricurva dell'arpione. Poi la Kleth disse: «Mary, ho bisogno d'aiuto. Della forza delle tue braccia». Usando il manico messo da parte prima come stampella, Mary arrivò zoppicando dietro di lui, battendogli affettuosamente sul rostro mentre passava. Poco più tardi la udì sbuffare, sentì uno strappo violento, e vide Mary cadere all'indietro, di nuovo nel suo campo visivo. Con le braccia insanguinate fino ai gomiti, stringeva in mano la dolorosa punta ricurva dell'arpione. Go Ton restò dietro di lui. Per altri otto battiti cardiaci al cubo continuarono i piccoli strappi e le lacerazioni. «L'ho richiusa come meglio ho potuto» disse Go Ton. «Grazie» fece Drin, e lentamente si stese di nuovo sulla pancia. «L'ha-
rem ci ha seguito fin qui?» Quel pensiero gli ricordò Gri'il. Chiuse gli occhi e aspettò che la sensazione di vuoto passasse. «Sì, si sono strette l'una all'altra nei banchi di sabbia dietro di te» rispose Go Ton. «Sembravano molto tristi, tengono i rostri nella sabbia, ma non credo che siano ferite.» Drin stava pensando che Do Tor avrebbe dovuto essere già tornato, e cercava di ricordare come ci si dovesse comportare, secondo le consuetudini, nel peggiore dei casi. Ci sarebbe stato un momento in cui, se le notizie erano cattive, avrebbero dovuto dirlo a Go Ton, e la natura avrebbe seguito il suo corso. Fare diversamente voleva dire non rispettare la decisione della sua gente di non modificare questa parte del loro retaggio genetico. Forse la cosa migliore sarebbe stato aspettare che lo chiedesse lei stessa. Se... Il ruggito di sfida echeggiò lungo le scogliere laviche, cogliendo tutti di sorpresa. In un attimo, ancor prima che si rendesse conto di che cosa significava, il cuore di Drin raddoppiò l'intensità dei suoi battiti, e lui sentì gli effetti di varie sostanze chimiche corporee, non molto diversi da quelli che l'avevano colpito quando aveva fecondato quelle uova selvatiche. Quella sfida primordiale richiedeva una risposta altrettanto primitiva. Ma si mantenne immobile, e senza muovere il collo ferito ruotò un occhio in direzione di quel rumore. In fondo alla spiaggia c'era un grosso maschio sfregiato. «È lo stesso do'utiano che abbiamo visto con le navi da caccia umane» disse Go Ton dall'alto. «Gota'lannshk» tuonò Drin, né nella forma né nell'umore adatti a partecipare ai giochi del signore della spiaggia primitivo. «Il suo rostro gocciola ancora di sangue. Dite a quell'idiota di stare lontano da noi, prima che l'ammazzi!» «Drin» sussurrò Mary, quasi impercettibilmente «è più grosso di te, e con quella ferita ti ammazzerai prima di arrivare fino a lui. Cerca di calmarti. Rifletti. Se ha ereditato l'harem di Glodego'alah ed era legato ai cacciatori umani...» «Esattamente, Mary. È molto più facile far eliminare i propri rivali dalla gente di Lord Thet che combattere per un harem sulla spiaggia secondo le antiche usanze. Questi omicidi non erano il risultato dei giochi di sopravvivenza dei più forti, e neppure di una macabra casualità. Quegli idioti profanatori dei vagabondi del mare sceglievano con cura le vittime da cacciare e senza dubbio guidavano le navi di Lord Thet verso di loro. Probabil-
mente anche Lord Thet avrà perso alcuni uomini, scelti apposta, giusto per mantenere le cose in parità, procurarsi stanziamenti per le nascite e ridurre il numero dei rivali politici.» La rabbia di Drin aumentava. Avrebbe ridotto l'assassino a cibo per lumache. La sua respirazione accelerò. «Allora» disse Mary «i balenieri hanno la loro caccia e la loro carne, e credono di giocare secondo regole da duri. Ma è tutto stabilito in anticipo. Premeditato. Drin, sta' giù per favore. Drin? Drin! Dammi la pistola.» Il vagabondo del mare do'utiano urlò di nuovo, mentre una rabbia cieca stava montando in Drin. La sfrontatezza di quel rubafemmine! Si sollevò in piedi, dimentico della ferita. «DRIN!» urlò Mary. «Dammi la pistola! Drin. La pistola! Adesso!» In qualche remoto angolo della sua coscienza le parole di Mary furono recepite. In qualche modo, mentre cominciava a oscillare avanti e indietro sugli arti inferiori, infilò la lingua nel marsupio e ne trasse l'arma per Mary, lasciandola cadere quasi distrattamente sulla sabbia accanto a lei. Ma quella scacciacani, pensò in un ultimo lampo di lucidità, non era stata progettata per fermare la carica di un do'utiano. Gli giunse uno sbuffo dal suo sfidante, carico d'insolenza. Sentì le sue femmine lamentarsi e sentì l'odore della loro paura. Ricordò vagamente che c'erano delle cose ben precise da fare in un combattimento rostro a rostro, cose che permettevano di sfruttare la carica dell'avversario contro di lui. Modi di usare sia la coda che la testa per far cadere l'altro sulla sabbia, ma tutto questo gli sembrava talmente vago e lontano in quel momento. Tutto ciò che voleva era caricare e mordergli la gola. A malapena conscio di ciò che faceva, Drin sollevò l'artiglio della zampa anteriore, lo affondò nella sabbia e urlò a squarciagola. Il sole era alto. Era l'ora giusta per sentire il sapore del sangue. L'altro cominciò il suo attacco. Batté le zampe con forza, facendosi sotto. Da qualche parte dietro di lui sentì partire una serie di suoni acuti, ad alta frequenza, a intervalli regolari. Non se ne curò. Aveva il corpo in fiamme, produceva calore molto più rapidamente di quanto riuscisse a eliminarne. Non se ne curò. Stava bene. Sentiva aumentare il vento creato dal suo passaggio, che gli dava un certo sollievo. In qualche modo, entrambe le zampe posteriori si muovevano insieme, mentre quelle anteriori erano leggermente divaricate. La spiaggia tremava sotto di lui. Fissò gli occhi sul collo dell'avversario, in cerca di uno spazio, un punto in cui il passo di carica dell'altro ne esponesse la gola al rostro di Drin. Ma il suo collo continuava ad abbassarsi sulla spiaggia. Nell'assalto
sembrava sbilanciarsi e rallentare. L'avversario lanciò un urlo lamentoso e il suo odore cambiò, dalla sfida alla paura. Emise dei suoni lamentosi e delle urla strazianti, barcollando. Al richiamo del pericolo Drin recuperò un po' di coscienza, e si scansò all'ultimo battito cardiaco, evitando una collisione che avrebbe potuto squarciare le ferite rimarginate e farlo morire dissanguato. Il signore del mare crollò nella sabbia davanti a lui, tracciando un solco lungo due unità Statuto con il rostro spalancato. Passò oltre la carcassa in un attimo, in un silenzio inquietante. Le urla e i suoni striduli erano cessati. Sulla spiaggia risuonava soltanto il rumore della sua folle corsa. Sentendosi bruciare, Drin soffiò con forza, si diresse verso il mare e lasciò che l'impeto lo portasse nell'acqua fredda, scivolando in avanti finché ne fu ricoperto. Una leggerissima flessione della coda gli riportò la testa sulla riva. Il dramma non si era concluso. Il signore del mare caduto gemeva e mordeva la sabbia. Il suo arto anteriore destro era coperto di sangue e piegato in maniera innaturale. Gli arti posteriori si sforzavano a vuoto sulla sabbia, cercando di spingerlo da qualche parte. Poi usò la coda per rigirarsi, cercando di rotolare verso l'acqua refrigerante del mare. Rotolò una, due volte. Ma quando Drin si assestò nella fredda acqua rivitalizzante, il vagabondo del mare smise di rigirarsi. La sua coda si alzò imponente e ricadde sulla sabbia con un tonfo. Una volta, due volte. Alla fine, lanciò la lingua verso Mary, mancandola di parecchio. «Sporca femmina umana» le urlò Gota'lannshk. Poi... più nulla. Morte per colpo di calore. Drin giaceva nel basso fondale, ansimante. Un dolore lacerante lo attraversò. Sentiva di nuovo il sapore del suo stesso sangue. Un po' del lavoro manuale di Go Ton si era disfatto. Vide Mary china, con il manico dell'arpione che ancora spuntava insanguinato dalla sua gamba, i gomiti nella sabbia, la pistola in mano, ancora puntata verso il vagabondo del mare. Doveva aver infilato un centinaio di pallottole nel ginocchio del suo avversario, ma ora tremava e gemeva. Sapeva che uccidere un do'utiano era l'ultima cosa che avrebbe voluto. Avrebbe voluto consolarla, ma era stanco. Molto, molto stanco. La prima cosa che avvertì fu un bruciore al collo. Aprì l'occhio destro e guardò indietro. Mary era là, appiattita contro il collo, che lo chiamava dolcemente.
«Mary» riuscì a dire, più sommessamente di quanto avesse mai fatto «sono sveglio. Mi rimetterò.» Sembrava che lei respirasse con difficoltà, ma si girò verso l'occhio e disse: «Oh, Drin. Oh, Drin. È... è così difficile abbracciarti». Nonostante il suo aspetto, lui sapeva in qualche modo che era felice. Furono interrotti da un rumore e da un odore. Il cielo sull'isola era pieno di aerei e di Kleth. L'odore della morte di Gota'lannshk era là, in mezzo all'odore di molti esseri, e al suono di molte voci, Kleth, do'utiane, e umane. Tra loro riconobbe quelle di Do Tor e Go Ton, e respirò felice, con difficoltà ma profondamente. Erano arrivati tutti e, come esseri razionali e civili, tutti discutevano di ciò che si sarebbe dovuto fare in seguito. Titolo originale: Poles Apart Analog/Science Fiction and Fact Mid-December 1992 RETE di G. David Nordley ...e dal pianeta Trimus verso nuovi insediamenti Né l'energica rieducazione dei cittadini che hanno scelto di lasciare la civiltà, né gli effetti dell'espansione incontrollata delle loro comunità a bassa tecnologia sono compatibili con i valori trimusiani. Perciò, il Consiglio Planetario di Trimus con il presente atto approva e ordina il trasporto su Aurum III di quei residenti delle riserve naturali che non scelgano volontariamente di accettare il Trattato e Statuto del pianeta Trimus, e di comportarsi secondo i suoi vincoli sociali e ambientali. Il progetto di bioformazione planetaria di Aurum III sarà ridisegnato a tale scopo. — Firmato: 4704 TF: Bo Flor, Kleth/Karen Olsen, Terra/Gori'allolub, Do'utia. La testa mozzata di uno scienziato Kleth, in mostra con particolare evidenza dentro una teca trasparente nell'atrio del palazzo dell'esposizione, predisponeva lo stato d'animo alla riunione nella capitale trimusiana, Tria-
polis. Il tenente Drinnil'ib dei monitori planetari di Trimus la guardava con curiosità forense e dall'alto di un'esperienza di mezzo macroanno. Gli occhi erano insolitamente distanziati per un Kleth, di quasi mezzo doci, e le due tacche nella sua cresta ne indicavano la nascita durante la stagione calda. Una caratteristica congenita, se Drin ricordava esattamente. Era una meraviglia dell'universo che un cranio tanto piccolo avesse contenuto in vita un cervello potente quanto il suo. Il piumaggio era stato nero, con le punte scolorite dal sole come un lavoratore dei campi, o come un atleta aviario. Drin prese posto su un cuscino libero. Un umano lungo circa un sesto di Drin, probabilmente il Consigliere Karen Olsen, sedeva sul bordo di un altro cuscino tre file più in là. Un altro maschio do'utiano era sistemato comodamente alla sua destra, piuttosto indietro. Era il Consigliere Gori'allolub, Generale Monitore, dall'odore sgradevole. La coda gli pendeva dal cuscino per tutta la sua lunghezza, di un'unità Statuto. Era lungo probabilmente otto doci al quadrato più sei. Nessuno, pensò Drin, dà il suo voto in base alle dimensioni, ma, in qualche modo, i maschi più grossi spesso arrivavano fino in cima. Drin agitò la punta della coda, alquanto più corta, in segno di rispettoso saluto all'altro do'utiano. Altri umani e do'utiani occupavano altri cuscini, ma non si vedeva alcun Kleth. Questo tipo di riunioni non faceva per loro. Il suono, potente, echeggiò per la cupola spaziosa, che s'innalzava di tre unità Statuto sopra di loro. Su Trimus gli umani avevano il loro linguaggio pronunciabile, i Kleth la loro efficace numerazione ottale, e i do'utiani lo spazio per respirare. Drin sbatté le palpebre nel guardare la postimmagine sonica, percependo le differenti trame della sua superficie: solidi costoloni ad arco brillanti, sopra di loro, con del nero profondo in mezzo. Quando aprì gli occhi, stando a quanto era dato vedere, la cupola era diventata trasparente, e lui stava guardando una squadra biologica su Aurum III, otto giorni fa al quadrato, presso una stazione di bioformazione su un'isola settentrionale. I sensori erano stati regolati sulla base del comportamento animale monitoriale nell'area della stazione - e potevano averlo appena fatto. Nell'area c'erano un uomo e due Kleth. «Allora stanno venendo comunque» osservò l'uomo, il biologo Theric Soames. Drin ritenne ostile il tono della voce di Theric Soames, e puntò un occhio verso il Consigliere Olsen, decisa sostenitrice del reinsediamento dei
primitivisti. Non mostrò alcuna reazione a tale opposizione, e del resto Drin non si sarebbe aspettato che si mostrasse sorpresa così disinvoltamente come faceva sua figlia, il monitore e sua collega Mary. Molti piccoli cambiamenti degli umani erano un mistero per lui. Ma sapeva che c'erano delle forti resistenze umane al reinsediamento, sia da parte di alcuni liberali fatalisti che intendevano lasciare che le cose si sviluppassero come volevano, sia da parte di alcuni protezionisti intransigenti come lui. «Lo sapevo, ma non volevo crederci» continuò Soames. «Il consiglio sta per consegnare due secoli di lavoro, un intero pianeta nuovo, a dei bambini irresponsabili.» «Non abbiamo progettato Aurum III dal nulla per i primitivi» osservò una Kleth, alzando gli occhi dalle sue piantine. Si chiamava Ko Kor, si ricordò Drin. Aveva gli occhi grandi e la cresta morbida, ed era di colorito dorato. «No. Ma lo sistemeremo. Adesso ne avremo la possibilità» rispose il suo compagno. Doveva essere Sha Ton. Drin ne aveva riconosciuto la testa; per il resto era un grosso maschio, di lunghezza quasi umana, il cui manto nero scolorito dal sole gli dava un aspetto quasi da ragno. «È troppo presto» disse Soames. «Avevamo ancora parecchio da imparare dal nostro progetto ecologico originale.» «Come i pipistrelli scimmia Kleth e le pigne terrestri» si disse d'accordo Ko Kor, con voce profonda. «Se funziona, può darsi che favorisca il rimboschimento delle Isole meridionali su Trimus dopo che i primitivisti se ne saranno andati. I pipistrelli scimmia sono anche buoni da mangiare.» Drin la pensava allo stesso modo. Provava ancora del risentimento per ciò che i primitivisti profanatori avevano fatto ad alcune di quelle isole nelle zone di Trimus che avrebbero dovuto restare indisturbate. «Oh, sì.» Sha Ton si dichiarò d'accordo con la sua compagna. «È ora di pranzo. Abbiamo qualcosa anche per Theric.» Il Kleth si alzò in volo, e battendo forte le ali si diresse rapidamente verso la stazione. «Ehi, aspetta un attimo» urlò Soames. «Stai lontano dal mio cibo. Lo mangerò più tardi.» Disperatamente? si domandò Drin. La stazione, una cupola geodesica, era molto piccola rispetto agli standard della capitale, concepiti per le dimensioni do'utiane, ma era destinata solo ai Kleth e agli umani. Una macchia circolare apparve in un riquadro pentagonale a mezza altezza. Seguì un fracasso inquietante, fedelmente riprodotto.
Sha Ton arretrò sorpreso, poi si fermò in mezzo al fumo sopra l'edificio che crollava. Apparve un'altra apertura più vicina alla cima, con un rumore anche più forte. Sprizzarono delle scintille provenienti da diversi cavi elettrici tagliati, dalle quali si sviluppò un incendio. Volarono delle macerie, e da alcuni punti in mezzo all'erba si levò del fumo. Poi, senza nessuna ragione apparente, la testa di Sha Ton si staccò e cadde giù. Le sue ali continuarono a battere, una, due volte. Poi il corpo, senza più sapere cosa fare, semplicemente cadde in mezzo al fuoco attraverso l'apertura. Ko Kor urlò e si lanciò dietro il suo compagno. L'umano l'afferrò, tenendola per una zampa. Lei gli colpì la mano con un artiglio, liberandosi. «C'è la mia vita lì!» urlò Ko Kor e volò verso l'edificio, gettandosi tra le fiamme. L'umano si guardò sorpreso il braccio sanguinante. Un biologo, pensò Drin, avrebbe dovuto avere il buon senso di non cercare di tenere in vita la metà di una squadra Kleth. Soames sparì dalla vista, e per un minuto la scena mostrò le macerie fumanti, poi sfumò nel grigio. Se c'erano delle indicazioni in tutto questo, Drin non riuscì a coglierle. Emise un basso brontolio di frustrazione, spinse giù dal cuscino la sua massiccia struttura fisica e si voltò verso i Consiglieri, che già discutevano del problema. Il Consigliere umano, Karen Olsen, lo guardò e aprì la bocca come per dire qualcosa, poi parve cambiare idea, scuotendo la testa. Annuì verso Drin e se ne andò, dando un buffetto rispettoso a uno degli arti inferiori di Gori'allolub mentre passava. Erano degli amici sui fronti contrapposti di una questione molto complicata. Il Consigliere do'utiano abbassò il rostro per salutare l'umana che si allontanava e si avvicinò a Drin. «Tenente» disse il Consigliere con tutta la sua autorità «conosco la sua opinione.» Drin abbassò il rostro in segno di assenso. Non c'era bisogno che Gori'allolub dicesse a Drin che cosa stava provocando alla zona riservata di Trimus la pressione sulla popolazione a bassa tecnologia, né della riluttanza fuori luogo, secondo Drin - a rieducare gli idioti profanatori. «Ma conosco anche il suo buon senso e la sua dedizione alla nostra civiltà. Abbiamo ritenuto più opportuno che l'incarico di condurre le indagini fosse affidato a un do'utiano. Inoltre, per amore d'imparzialità, nulla vie-
ta che il più probabile sospettato sia ricercato da qualcuno dalle propensioni simili rispetto a questo problema. L'attenzione va focalizzata sul fatto, o sull'incidente, non sulla politica. I suoi risultati avranno più credibilità per l'opposizione. Ci dev'essere una soluzione che rafforzi la nostra unità, non che ci divida.» «D'accordo.» «L'umano, Soames, è scomparso, gli altri sono stati evacuati. Lei sarà il primo do'utiano a visitare di persona un mondo costruito solo in parte per l'insediamento do'utiano. È una responsabilità storica.» E un rischio storico, pensò Drin. Non c'erano elevatori che portassero ad Aurum III - ruotava troppo lentamente - perciò avrebbe avuto il comando del primo veicolo da sbarco costruito da diversi macroanni a questa parte. Un seducente profumo di spiagge vergini e mari mai solcati si diffondeva nella sua mente. «Sono pronto alla sfida.» «Bene. Il programma per il reinsediamento delle popolazioni primitiviste umane e do'utiane dipende dal suo successo.» Il Consigliere esitò, quindi chiese: «La sua vita è completa?» Allora il Consigliere pensava che avrebbe affrontato un pericolo superiore al normale. Drin sollevò il rostro e l'aprì leggermente. Un segno convenzionale do'utiano che significava pronto a tutto. «Nulla d'importante resterà incompiuto.» «Meglio così. In un caso del genere, talvolta i sacrifici sono necessari. Quelle sono acque agitate, Monitore. Vada a calmarle, se ci riesce.» Il tenente Drinnil'ib sfiorò il suolo con il rostro, accettando il compito. L'unità di massa di base di Trimus sarà il "dom", la massa di un cubo d'acqua di un'unità doci-Statuto (1 dc), 10-2 unità Statuto (cu),(82 cu in base dodici o dieci) da un lato, alla densità massima. Unità equivalenti sono: Kleth, 102 uova; Terra, 3,68 (in base dieci) chilogrammi; Do'utia, 1,07 X 10-5 (in base dodici) cubo. Unità di ordine inferiore dovranno essere ricavate da formule fisiche di base. Un use (unità Statuto di energia), per esempio, equivale a un dom-cu2 / un battito2.. — Trattato e Statuto del pianeta Trimus, Appendice Tecnica. I prefissi inglesi "macro" e "mini" avranno significati specifici nel sistema numerico ottale di Trimus. Macro sarà usato per un
esponente di tre, e mini per un esponente di meno tre. Per triadi più grandi potranno essere aggiunti i prefissi di (2), tri (3) e così via, e si perderà l'ultima sillaba. Quindi il prefisso per 106 sarà "dima", e per 10-6 sarà "dimi". Il che è esattamente analogo ai suffissi Kleth _Y* e _Yi, come venivano usati in "no_Y*" (106) e "no_Yi (10-6). — Patto e Statuto del pianeta Trimus, Appendice Linguistica. Gradualmente, le parole Kleth e do'utiane pronunciabili - o traduzioni dirette, quali lo slittamento a "cubo" dal do'utiano per coda cubica, o no-no, dal Kleth per 10-11, sono penetrate nell'inglese di Trimus. Inoltre, alcune parole decimali umane e alcune duodecimali ancora più antiche, quali "secolo" (144 anni) o "dozzina" (14 di qualsiasi cosa) che andavano bene per altre culture, continueranno a essere usate. — Osservazioni di Go Zom sul Trattato di Trimus. Il lavoro sulla navicella spaziale era meticoloso, ma l'esperienza aveva dimostrato che un insieme d'occhi supplementari, e una mente capace di nuotare in mari differenti, spesso permettevano di vedere cose che altre menti non potevano. Inoltre, in accordo con la tradizione dei viaggiatori spaziali do'utiani, Drin voleva conoscere la sua navicella. Si trattava, in sostanza, di un razzo a vapore con una velocità di scarico di otto unità Statuto cubiche per battito. L'acqua era immagazzinata nel grande serbatoio che fungeva anche da alloggio per Drin. Veniva alimentato attraverso dei convertitori di massa ad antiidrogeno, per produrre il vapore. Ciascun convertitore era un condotto permeabile di leghe refrattarie ad altissima temperatura che correva intorno a una camera di annichilimento. L'Uovo conteneva mezzo minidom di ghiaccio di antiidrogeno ripartito fra tre strutture a forma di 8 di contenitori elettrostatici. Intendeva verificare l'isolamento quintuplo di dilatazione e i sistemi di alimentazione di ciascuno di loro. Questi sistemi dovevano immagazzinare l'antiidrogeno e distribuirlo alla camera di annichilimento in isolamento quasi perfetto dal mondo della materia ordinaria. Ma quasi perfetto per Drin significava un indice di dispersione che sarebbe stato fatale per i suoi compagni Kleth e umani. Do'utia era ancora giovane come mondo dalla vita in evoluzione, e i reattori a fissione naturale erano una caratteristica di ordinaria amministrazione della sua geologia. Le circostanze avevano imposto che i viaggi
spaziali do'utiani sfruttassero fin dall'inizio l'energia nucleare, e l'esperienza rese i loro progetti i migliori dell'universo conosciuto, almeno secondo il criterio delle prestazioni. Ma doveva soddisfare le esigenze di sicurezza umane e Kleth, e voleva essere assolutamente sicuro. Un portello subacqueo ruotò, risuonando in fondo alla coscienza di Drin, per cui non fu del tutto sorpreso quando il monitore umano Mary Pierce giunse a nuoto da sotto di lui e gli salì sulla schiena. «Benvenuta, piccola.» Fuori dalla visuale perfino dei suoi occhi bifocali rotanti, lei era un bel punto caldo sul suo collo. «La nostra navicella sembra proprio a posto, finora.» «È bello vederti, Drin. Che piacere!» «Come sono andati i negoziati?» Era appena tornata dalla missione, con la squadra inviata per informare la più grande comunità primitivista umana della sua imminente risistemazione e per cercare di assicurarsi la loro collaborazione volontaria. Non ci voleva un biologo marino per dirgli che la risposta, secca, sarebbe stata "non bene". «Non bene. Il sedicente Lord Thet è ancora lì che se la spassa e non si vuol muovere, e il suo impero primitivo sta crescendo, nonostante tutto. Si è perfino opposto a che riportassimo con noi un po' della gente che aveva costretto in schiavitù.» A differenza dei Kleth e dei do'utiani, che, anche se feriti, potevano percorrere il mare velocemente e volare o nuotare per il pianeta, gli umani avevano bisogno della tecnologia per i trasporti. E i loro maschi alfa primitivi controllavano tutti i trasporti dai loro fetidi insediamenti. Degli eccentrici o idealisti che vivevano da soli o in piccoli gruppi sulle isole tropicali attorno al Polo interno erano stati catturati e, avendo abbandonato i loro legami con la civiltà trimusiana, si erano trovati a dover fare gli schiavi o a morire di fame. Drin s'infuriò. «Quell'idiota ha il tre per cento della popolazione umana di Trimus e produce il trenta per cento delle scorie - acque luride non trattate! - in un'area che dovrebbe essere assolutamente priva di cose del genere. Non si può nemmeno nuotare vicino alla sua zona senza impestarsi la lingua, sentirsi bruciare gli occhi e morire di fame a causa della mancanza di qualcosa da mangiare che non sia stato contaminato!» «Sono certamente un problema molto peggiore dei Signori del Mare» sospirò Mary. «Bah! Rieducate anche quei signori delle spiagge che se ne vanno in gi-
ro a spadroneggiare, edonisti e menefreghisti che vivono alla giornata!» borbottò. Gli umani degenerati erano una cosa - poteva giudicarli da una distanza analitica - ma nominare i rinnegati della propria specie era come toccare un nervo scoperto. La schiavitù era roba da poco in confronto a ciò che quei farabutti dei signori delle spiagge avevano fatto alle nuove arrivate dei loro harem, che spesso nemmeno se l'aspettavano. «Cosa credi che succederà in capo a qualche macroanno, quando questo noncurante terreno di coltura interspecie che stiamo creando su Aurum III si riverserà nel resto dell'universo?» «Drin, alcuni ritengono che abbiamo risolto troppi problemi per il nostro tornaconto su Trimus. Delle vite eterne fatte di studio e arte, sostenute da ciberservi, semplicemente non sono abbastanza stimolanti per una parte della gente che la nostra biologia produce. Ci dev'essere uno sbocco per questo, ma non dovremmo essere costretti a viverne le conseguenze. Perciò, secondo il Consiglio, avranno un pianeta loro, per imparare di nuovo tutto a proprie spese. A proposito di eternità: potrei starmene sopra il tuo soffice strato adiposo per sempre, ma» si alzò in piedi «devo preparare i ponti di manovra per me e i nostri partner Kleth.» «Sì. Io mi occuperò della visuale sullo scafo mentre tu controlli i locali superiori.» L'aiutò a salire sulla scala, s'immerse al di sotto, e attraverso la chiusa raggiunse il mare. Era una giornata calda vicino al polo interno. La grande mezzaluna dell'infrarosso Ember era rovente al di sotto del disco di Aurum del colore dell'oro. La cosa era così noiosa che perse la concentrazione e quasi quella gli sfuggiva: un'apertura di scarico intasata; una macchia scura nell'audiogramma, dove le altre brillavano come file regolari di stelle. La navicella non l'aveva segnalato. «Sistema B, codice 73147» comunicò immediatamente, ordinando uno scambio di sistema in blocco. Nel frattempo, tre colpi di coda l'avevano portato fino all'apertura ostruita. Sembrava quasi il nido di una stella ragno. Le alghe marine e la sporcizia che c'erano dentro non erano sempre stati lì - qualcuno o qualcosa aveva deliberatamente riempito l'apertura di detriti. «Codice completo» confermò la navicella. «Abbiamo uno scarico ostruito, ordinale 3472...» «Lo so, e lo sto ripulendo» l'interruppe Drin. «Perché il tuo predecessore non l'ha visto?»
La risposta giunse con velocità cibernetica. «Il mio predecessore ha avuto istruzioni di ignorarlo da un comando di simulazione di manutenzione autorizzata che si trovava nel registro di comando, e quindi non è stato evidenziato nei controlli di discrepanza.» Drin ringhiò a una frequenza che fece risuonare lo scafo. «Qual è la situazione degli altri registri di comando sul lato A?» «Sono vuoti, adesso.» Drin non avrebbe mai voluto fare la richiesta che seguì, ma bisognava liberarsi del sospetto logico. «Verifica la fonte dell'ordine anomalo. Codice 72537, solo per il Comandante. Controllo sul Monitore Planetario Mary Pierce di codice, voce e data.» «Il codice corrisponde, ma la voce no, e la data era 124,2.» Quindi qualcuno che non era Mary aveva ottenuto il suo codice d'accesso e, dieci giorni prima, aveva inserito un comando innocente e altamente tecnico che aveva consentito a chiunque avesse ostruito lo scarico del razzo di farlo senza essere scoperto, la notte precedente. «Nessun altro comando "ignorare i dati della manutenzione" attivo?» «Nessuno.» Qualcuno, presumibilmente qualcuno che si opponeva al reinsediamento dei primitivisti, aveva fatto un abile tentativo di ritardare la loro missione. O di spaventarli perché rinunciassero. Se conoscevano il codice di Mary avrebbero potuto accedere ad altre informazioni sulla missione. Ci lasceremo fermare da questo? si chiese. Inoltre, se anche fosse riuscito a convincere i superiori a procedere con il lancio, il suo buon senso di monitore planetario gli diceva che non sarebbe stata una buona idea andare avanti secondo il programma. Qualcuno li seguiva da presso. Sarebbe stato meglio prendere l'iniziativa. «Dì a Mary di avviare i preparativi finali, con una presa a tre otto. Partiremo non appena saremo fisicamente in grado di farlo. Inoltre, questa variazione non deve uscire dalla navicella. Trasmetti dei dati che simulino le normali attività.» Drin s'immerse fino all'imbottitura sul fondo del serbatoio. Si calò la fascia d'interfaccia sulle orecchie e sugli occhi con un rapido movimento. I campi visivi si svuotarono, e fu come se l'intera struttura della navicella attorno a lui fosse svanita e lui giacesse su una piattaforma sul fondo di una bolla in mezzo al mare. Così era un po' troppo noioso, allora aumentò di un'unità il contrasto so-
nico, finché il corbame dell'Uovo e la cabina al di sopra divennero percettibili come una specie di fantasma grigio trasparente. Davanti a lui fluttuava un pannello di controllo simulato, e immaginò una lingua virtuale che guizzava all'infuori per toccare i vari comandi eterei. Quest'innovazione umana infastidiva alcuni do'utiani, ma a Drin era sempre piaciuta - con essa, in caso di emergenza, poteva reagire velocemente quasi quanto un umano. «Cancella qui» comunicò. Ci fu un sibilare di pompe, e poi un rombo che gli ricordò che si trovava esattamente sotto il punto nel quale le cascate di Go Stohn si tuffavano nell'oceano da un'altezza di una dozzina di unità Statuto. La navicella si fermò oscillando mentre s'innalzava su un letto di vapore e il sistema di retroazione ammortizzava il movimento. Poi la pressione aumentò come se si fosse immerso di venti unità Statuto anziché di due. Piena accelerazione. «Tutto bene, Mary?» comunicò via radio. «Sì... sto... bene» rispose lei, anche se ovviamente sembrava essere abbastanza a disagio. Comunque non sarebbe durato. Il rumore prodotto dall'attrito con il vento raggiunse il livello massimo, poi cominciò a diminuire, mentre lasciavano l'atmosfera. Le macchine ingurgitavano l'acqua. La sua profondità effettiva aumentava rapidamente mentre il livello dell'acqua nel serbatoio attorno a lui calava. Il battito dei suoi cuori accelerò, mentre la punta della coda si agitava nervosamente. Non era un viaggio in un ascensore signorile. Ricevettero una chiamata. «Uovo di Trimus, controllo del traffico L2. State bene?» Era una voce Kleth, non un computer. Ma certo! Era Do Tor. «Saluti, Do Tor. Qui tenente Drin. Riusciremo ad atterrare in orario? O dovremo modificare la rotta?» «Niente traffico, potete atterrare tranquillamente. Avremmo dovuto avvertirvi di ritardare il lancio a causa di una manifestazione di protesta do'utiano nella zona. Adesso sono in assemblea. Come facevate a saperlo?» «Abbiamo avuto un'anomalia esterna e abbiamo deciso che saremmo stati più sicuri quassù. Il punto è: come hanno fatto a saperlo?» «Drin» la voce di Mary si unì a loro dal suo posto nella cabina conica del velivolo spaziale «potrebbe essere colpa mia. Avevo un partner umano nella squadra di negoziazione, decisamente contrario al reinsediamento. Avevamo gli alloggi in comune, perciò conosceva la mia chiave d'accesso. Mi dispiace, mi sento nauseata per questo. I miei stupidi istinti di accoppiamento.»
Un altro monitore contrario al reinsediamento, pensò Drin. Ma dove avrebbe portato tutto ciò? Collegamenti qua, collegamenti là. Verso cosa? «Gli istinti non sono stupidi per definizione» le venne incontro Do Tor. «E il comportamento istintivo non è soltanto umano. Altrimenti Ko Kor avrebbe aspettato di dirci cos'era successo prima che il suo destino giungesse a compimento.» Il compimento del destino, pensò Drin: un altro concetto filosofico do'utiano che si era infiltrato nella cultura di Trimus. I Kleth non potevano concepire di continuare a vivere dopo la morte del proprio compagno, ma potevano proporsi di rimandare la morte per uno scopo che ne valesse la pena. Tramandavano la storia dell'antica Zan Zor che vendicò l'assassinio del suo compagno dandosi in pasto ai suoi figli abbastanza lentamente da essere in grado di fare il nome dell'assassino ai suoi visitatori quattro giorni più tardi. La superficie dell'acqua sgocciolò al suo passaggio nella grata sottostante. Quel poco di cui avrebbero avuto bisogno d'ora in avanti si trovava in vesciche-serbatoio che avrebbero funzionato ad accelerazione zero. Se le cose fossero andate secondo i piani avrebbe smesso di nuotare fino a quando non avessero raggiunto Aurum III. Il sistema interno della stella K2, Aurum, è dominato dalla "nana bruna" Ember. Trimus, ovviamente, è un satellite di Ember. Due piccoli mondi terrestri, forse satelliti esterni di Ember che si allontanano periodicamente, ne seguono l'orbita. Aurum II è un piccolo mondo presso il punto di risonanza L4 con un forte campo magnetico e un esosfera di conseguenza rovente che impedisce l'addensarsi di un'atmosfera. Il terzo pianeta di Aurum, presso il punto di risonanza L5, ha circa la metà della massa di Trimus, ma più densa e più piccola, perciò ha una gravità di superficie simile (Do'utia 0,76; Terra 0,37; Kleth 0,60). Ha una velocità di rotazione lenta, una volta ogni cinque giorni di Trimus (15 di Do'utìa, 7 della Terra, 10 di Kleth), e quindi non ha quasi magnetosfera. Prima della bioformazione aveva un'atmosfera molto spessa di biossido di carbonio e una temperatura di superficie prossima al punto di ebollizione dei suoi oceani sterili nonostante sia riscaldato soltanto da Aurum. Dalla bioformazione la temperatura media della superficie si è stabilizzata poco al di sopra del punto di congelamento
dell'acqua e la pressione atmosferica a 1,32 rispetto alla Pressione Standard di Trimus (Do'utia 2,4; Terra 1,7; Kleth 0,74). — Guida all'Insediamento su Aurum III (prima stesura), Introduzione. In fase di avvicinamento Drin osservò il percorso dell'orbita dei macchinari che avevano fatto la maggior parte del lavoro fisico della bioformazione di Aurum III. Il Sistema di Aurum costituiva una località volutamente fuori mano della cultura galattica locale, ma per otto anni trimusiani al quadrato Aurum III era stato uno dei nodi industriali più attivi della Galassia, che importava quadrocubi d'ossigeno e che produceva trimadomi di ghiaccio di biossido di carbonio. Avevano costruito un impianto energetico spaziale grande quanto quello di qualsiasi nodo principale dei trasporti e l'attenzione che avrebbe attirato, pensò Drin, avrebbe potuto finalmente farli uscire dalla loro solitudine. Ma per il momento, con il lavoro della bioformazione quasi terminato, le macchine erano in sovrappiù e il sistema energetico era in attesa di astronavi che non sapevano ancora che esistesse. Nel frattempo, due scienziati Kleth erano stati uccisi laggiù. La massa relativamente scarsa di Aurum III e la sua vasta atmosfera favorivano una manovra abbastanza facile di circa il doppio della normale gravità trimusiana. L'Uovo volò dentro una leggera foschia a un'altitudine pari a sei volte otto macrounità al quadrato. Lo scarico del motore formava uno strato relativamente fresco tra la navicella e l'atmosfera, allontanando da sotto la navicella la parte più calda del fumo che si creava in entrata. Il peso di Drin aumentava man mano che lo scarico dei motori dell'Uovo veniva spinto in una nuvola di gas davanti a loro. La punta della navicella s'inclinò leggermente verso il basso creando una forza ascensionale negativa appena sufficiente a contrastare l'effetto centrifugo del loro passaggio attorno al piccolo pianeta. Drin diventava sempre più pesante, finché si sentì decisamente a disagio. Questo, pensò, dev'essere qualcosa di simile a un viaggio verso la Terra di Mary. No, grazie. E pensare che la sua gente si era evoluta in un campo del genere! Proprio quando pensava che la cosa stesse per raggiungere il limite di sopportazione oltre il quale avrebbe preso a smaniare, quella cominciò a diminuire. Osservò l'orizzonte inclinarsi all'indietro verso la base dell'Uovo, e sentì il suo peso tornare quasi normale. Velocità terminale. Guardò giù attraverso lo scafo e i motori, smaterializzati ai suoi occhi dal video-
schermo, e vide le onde circondare l'isola che costituiva il loro obiettivo. Poi intravide le rovine carbonizzate della stazione di bioformazione. Nell'avvicinarsi la scena si faceva sempre più chiara. Involontariamente, gemette. Era esattamente come la simulazione, eppure non era affatto uguale. Sapeva che stava veramente cadendo da un'altezza fatale. Guarda su, guarda su, si disse. Si udì il ruggito dei razzi, poi fu colpito da un impatto di pressione. La navicella scricchiolò lamentosamente mentre s'inclinava e i razzi rombavano per frenare la caduta. Il rostro gli si aprì, e dalla bocca spalancata emerse un involontario lamento di morte. Poi, quasi all'improvviso, si ritrovarono a galleggiare tranquillamente in un mare alieno. Drin spruzzò acqua dallo sfiatatoio per il sollievo, mentre le pompe cominciavano a inondare il serbatoio con l'acqua esterna, filtrata solo in minima parte, per la stabilità del mezzo nel caso avessero avuto la necessità di allontanarsi rapidamente. Assaggiò la nuova acqua di mare e, benché fosse filtrata, fu raggiunto da una zaffata di uno strano odore, e cominciò, quasi inconsciamente, a cercare di individuarne le componenti. Notò subito l'assenza di inquinamento umano, ormai diffuso in ogni angolo degli oceani di Trimus, ma c'erano altre differenze. Drin sapeva che erano state introdotte delle piccole variazioni nella mescolanza di specie che finora si era dimostrata riuscita su Trimus. Per esempio, Aurum III non aveva in realtà alcuna regione dal clima torrido né forme di vita marina adatte ad "acque temperate. Né, a causa della densa atmosfera e dell'elevata inclinazione assiale, c'erano molte aree glaciali al di là delle più alte catene montuose polari. Quindi c'era poco di fetido, qualunque cosa fosse, e meno ancora che avesse il sapore del ghiaccio sciolto. Ma che cos'era? «Tenente Drinnil'ib, tutto bene?» s'informò Go Ton, presumibilmente a causa del lamento che gli era sfuggito poco prima. «È solo la tradizionale sfida a un nuovo pianeta» rispose Drin, nascondendogli quel momento di debolezza. Be', l'aveva fatto su ogni nuovo pianeta in cui era atterrato. «È tutto a posto, c'è solo qualcosa di strano nell'acqua.» Che cos'era? «Vieni subito su.» Drin si tolse la fascia visore e nuotò versò la superficie. Gli altri tre si trovavano presso il parapetto, con indosso il loro abbigliamento da campo. Mary aveva una tuta anfibia, aderente come una seconda pelle, grigia e bianca, rilucente; Go Ton un'ampia tuta brillante intonata al suo piumaggio, mentre Do Tor ne aveva una azzurro cielo, meno vistosa.
«C'è qualche pericolo?» chiese Mary. «Non lo so?Non riesco a capirlo.» «Magari appena sarai uscito diventerà più chiaro.» «Per quanto abbia voglia di uscire da questa scatola, dobbiamo stare molto attenti da qui in avanti - eventuali soccorsi sono molto lontani. Propongo che tu prenda l'aereo e vada a riva con Go Ton e Do Tor per dare una prima occhiata alle rovine della stazione. Terrò la navicella pronta alla partenza, nel caso sia necessario ripartire rapidamente.» «Bene.» Lei si piegò verso di lui, che lanciò la lingua verso di lei per stringerle la mano per un momento. Poi Mary lo guardò dritto negli occhi, e fece qualcosa che non aveva mai fatto prima. Accarezzò per un momento la superficie superiore del suo secondo dito, un gesto intimo quasi più di quanto una della sua specie avrebbe potuto fare a uno della sua. Poi, senza dir nulla, lo lasciò andare, gli fece un cenno e saltellò sulla banchina verso la parte superiore dell'Uovo. Drin ritirò le estremità della lingua nel rostro, e nell'intimità della sua bocca toccò il dito toccato da Mary con la punta dell'altra estremità della lingua. Se fosse stata una donna do'utiana quel gesto sarebbe stato un invito a stimolare le sue ovaie, mettere a repentaglio la sua vita e unire i loro patrimoni ereditari. Mary doveva saperlo. Avrebbe osato discuterne con lei? Cosa voleva dire se erano così diversi biologicamente? Lei aveva tre secoli ormai, non era molto più giovane, e forse, avendo sperimentato tutto nell'ambito dei normali limiti, era curiosa di ciò che c'era poco oltre. Come lui. Ma quale vergogna avrebbe provato se uno come il Consigliere Gori'allolub avesse mai scoperto che lui aveva pensato di scambiare tali intimità sensuali con un'umana. Rabbrividì: non avrebbe più allungato la coda in quel caso. No, no, no. Il modello matematico dell'evoluzione convergente si è sviluppato indipendentemente tra la maggior parte delle razze che viaggiano nello spazio. Nonostante le notevoli variazioni nelle forme biologiche, le leggi comuni della fisica determinano quali metodi di creazione degli strumenti non porteranno a nulla, limitando in tal modo l'ambito delle capacità di ragionamento e di immaginazione del futuro che producono tecnologia. Allo stesso modo le conseguenze degli sforzi di competizione hanno prodotto
certe analogie necessarie, che i sociologi quantitativi amano chiamare attrattori evolutivi, nella logica delle competizioni territoriali, della collaborazione di gruppo e del comportamento nella contrattazione. Questa teoria della motivazione comportamentale comune fondamentale era alla base dell'esperimento di Trimus nella cultura planetaria multispecie. — Osservazioni di Go Zom sul Trattato e Statuto di Trimus. «Ecco quello che abbiamo trovato» gli disse Mary. Era seduta a cavalcioni del suo collo, protesa in avanti, con il mento poggiato sulla cima della sua testa. «Le rovine della stazione sono già ricoperte di edera, ma è chiaro che c'è stata un'esplosione. Go Ton ha trovato il detonatore proprio vicino ai resti anneriti del corpo di Ko Kor. Metti la registrazione.» L'Uovo emise un suono e gli schermi sulla sommità del suo serbatoio cambiarono immagine, dal mare all'esterno alle rovine della stazione di bioformazione. L'edera ne aveva ricoperto alcune parti, ma per il resto aveva lo stesso aspetto che aveva alla fine della registrazione video precedente. La loro visuale, quella della telecamera di Go Ton, zumò all'interno della cupola attraverso i fori spalancati sulla cima, e dopo essersi soffermata sui sedili bruciati, sulle gabbie vuote dalle porte aperte e i vasi di gestazione, si fissò sui resti carbonizzati di un Kleth, e su una scatoletta annerita. La voce calma di Go Ton commentò: «Ricordandosi di Zan Zor, ha lasciato che le fiamme la consumassero mentre cercava. Ha cercato di dircelo, ma gli idioti della squadra di soccorso non l'hanno capito!» «Oh, sì» aggiunse Do Tor, intervenendo come un'inconsueta seconda voce. «È possibile che la bomba abbia fatto volar via un pezzo della cupola che gli ha tagliato la testa.» Drin non era in grado di confermare questa ricostruzione in base alla registrazione. A ogni modo non poteva respingerla. Un anomalo incidente dovuto a una scheggia? Un frammento del rivestimento della cupola, visto di taglio, sarebbe stato al di sotto della soglia di definizione della registrazione. Comunque l'orientamento sarebbe dovuto essere proprio sbagliato. E anche se invisibile per un sensore, sarebbe stato visibile per gli altri. Poteva darsi che il pezzo fosse abbastanza piccolo? Drin rivide di nuovo la registrazione di Go Ton, al rallentatore. Le etichette bruciacchiate delle gabbie, parzialmente leggibili, attirarono la sua attenzione: CANIS— PUS?—RSUS MIDDEN—? Un pezzo del tetto della cupola si trovava in mezzo ai rottami bruciati all'interno dell'edificio.
«L'aereo è pronto» annunciò la voce di Do Tor. Le cose lì erano tranquille, perciò era tempo di andare a vedere di persona. «Arrivo» rispose Mary. «Ci vediamo fuori, Drin.» Finì di sistemare l'attrezzatura nel suo marsupio, lasciò la navicella a se stessa e s'immerse verso la porta del serbatoio. Una volta fuori dalla navicella, la novità dei mari di Aurum III assalì i suoi sensi. Gli odori delle specie erano chiari e distinti, come le note di un accordo maggiore paragonate al rumore bianco degli oceani di Trimus. Questo gli ricordò che il controllo ecologico andava ristabilito in quel luogo prima che vi facesse presa una struttura casuale di propagazioni adattive - una in cui le componenti do'utiane e umane programmate avrebbero potuto non adattarsi granché bene. Inoltre lo rendeva perplesso il fatto che c'erano ancora un paio di note in quella semplice armonia olfattiva che non riusciva a identificare. Poi ne riconobbe una come non molto dissimile dal pesce sega terrestre che aveva gustato tanto spesso su Trimus. Ma certo, pensò. La sua dieta sarebbe stata leggermente diversa lì, e così le sue escrezioni. Aveva molto da imparare, e non vedeva l'ora di farlo. Non più costretto dal serbatoio del carburante dell'astronave, Drin tese i muscoli e si lanciò nell'acqua con potenti colpi di coda, chiudendo gli occhi per ripararli dalla pressione del suo passaggio. Davanti, il suo naso ossuto fendeva un mare che sentiva quasi denso come carne per la violenza della sua velocità. Senza fiato si lanciò in superficie, e con un colpo di coda potente e tempestivo emerse arrivando a due unità Statuto buone oltre il pelo dell'acqua. Oh, che gioia! Oh, che libertà. Espulse l'aria che tratteneva da tempo in una potente nota bassa, e sentì la reazione spingerlo indietro come un razzo a vapore. «Salute!» trasmise via radio Mary dall'aereo, una doppia fusoliera con le ali arrotondate a forma di delta che si librava sulle sue eliche solo pochi metri più in alto di quanto aveva saltato lui. Si contorse a mezz'aria per affrontare l'impatto con la schiena e proteggersi le gambe. Il tremendo tonfo gli raschiò la schiena, e senza dubbio tramortì un numero tale di pesci da bastare per un pranzo. «Faccia più attenzione, tenente. L'aereo non ha caratteristiche subacquee» tuonò un preoccupato Do Tor. «Oh, no» aggiunse la sua compagna.
«Caspita! Quanti anni hai detto che avevi?» rise Mary. Poi s'interruppe di colpo. «Drin! La navicella!» Drin si piegò sulla destra e guardò indietro. Un grosso buco era apparso all'improvviso sul tetto superiore arrotondato del serbatoio, proprio sotto la cabina conica, ad appena un doci o due sopra la linea di galleggiamento. Poi, mentre guardava, ci fu un getto di fumo e un altro foro apparve accanto al primo. La cabina conica, privata del suo sostegno, cominciò a sprofondare al suo interno. L'aereo accelerò, s'inclinò e cominciò a virare in direzione della navicella. «No!» urlò Drin. «Do Tor, ammara! Adesso! Porta l'aereo dentro l'acqua!» «Che COSA?» protestò Do Tor. «Scendi in picchiata!» gridò Drin. «Porta sott'acqua quell'affare profanatore di uova!» Per nessuna ragione che a Drin risultasse evidente, una parte dell'ala dell'aereo si staccò e cadde prima che l'aereo s'inabissasse. Un cono d'aria sopra l'astronave morente, che bruciava nella luminescenza a causa delle radiazioni gamma, era ora molto più brillante del distante Aurum, coperto dalle nuvole. Proprio mentre s'immergeva dietro l'aereo sentì un dolore acutissimo vicino alla base della coda. Un pezzo della navicella? O qualcosa l'aveva punto? Ma che cosa? Non c'era tempo per questo adesso. Si voltò repentinamente e batté sull'acqua dietro di sé lanciandosi dietro l'aereo che affondava. La sacca d'aria nella carlinga si riempiva rapidamente d'acqua, ma i suoi compagni sembravano tutti coscienti, con le teste sopra il livello dell'acqua. L'impatto ne aveva divelto le ali, ma per il resto l'aereo sembrava intatto. Si accostò, ne seguì la velocità di affondamento, si contorse e afferrò la macchina tra gli arti inferiori anteriori. Poi, posandolo come una lontra della Terra avrebbe potuto posare un crostaceo o un cucciolo, risalì a una profondità di circa mezza unità Statuto. La sacca d'aria nella carlinga si dilatava, e Mary annuì verso di lui come per dire «tutto bene». Il cielo sopra l'oceano era di una brillantezza fuori luogo, che si diffondeva come un celeste infernale. Non ci dovrebbe essere motivo, pensò, per cui qualcuno potesse sospettare che fossero sopravvissuti a quell'esplosione. E ciò avrebbe dato loro il tempo di respirare, evitando un altro attacco, ma quanto a ricevere dei soccorsi, quello sarebbe stato un problema.
Fin dall'inizio era stato stabilito che ci fossero degli onnivori senzienti nel sistema ecologico di Trimus, ed erano stati fissati dei limiti alle dimensioni dei suoi carnivori senzienti di livello inferiore. Non c'erano grossi gatti né branchi di animali dai denti appuntiti, non c'erano grandi squali bianchi negli oceani, né germi mortali nell'aria. Nulla di abbastanza grosso, numeroso o maligno da minacciare i membri indifesi delle tre specie senzienti nel proprio elemento. Furono abbassati anche i tassi di natalità di alcuni grandi erbivori, e nel progetto era prevista una certa selezione grazie ai metodi di caccia tradizionali. — Dal Manuale del Monitore Planetario, Appendice Ecologica. Mary era in grado di portare un carico doppio della sua massa molto a lungo senza lamentarsi. Do Tor era in grado di volare con un fardello pesante quasi quanto lui. E il popolo di Drin se la cavava molto bene con la propria massa sulla terra, ma perfino il suo corpo di atletico monitore planetario finemente modellato sarebbe stato spossato dal trasporto di un carico pari anche solo a un quarto del suo peso. E, dopo otto giorni al quadrato a gravità prossima allo zero, all'incirca il meglio che riusciva a fare senza troppe difficoltà per lunghi periodi era portare circa un ottavo in più del suo peso. Perciò, dato che quell'ottavo era tranquillamente otto volte di più di quanto Mary, Do Tor e Go Ton insieme potessero sostenere, trasportava tutto Drin, compresa Mary. La grandezza assoluta ha la sua importanza. Inoltre, non c'era poi molto altro da trasportare: una cassetta dei medicinali recuperata dall'aereo; la parte più importante del suo sistema cibernetico e delle sue apparecchiature di comunicazione; tende d'emergenza e coperte; munizioni per le pistole a dardi; dei contenitori per liquidi da ebollizione; un generatore rotativo; un analizzatore. Tutti i congegni elettronici erano spenti. La prima cosa che era venuta loro in mente era che il rumore degli oggetti elettronici costituiva un elemento in comune rispetto a ciò che aveva attaccato la biostazione, l'astronave e l'aereo, qualunque cosa fosse. Un altro elemento comune era la posizione, e loro si stavano sforzando opportunamente di cambiarla prima di riaccendere qualsiasi cosa. Do Tor propose di entrare in un caverna. Drin aveva risposto che era una buona idea, purché la caverna fosse grande. Perciò Do Tor e Go Ton andarono a cercarne una lungo le rive di un fiume profondo sull'altro lato dell'i-
sola. La foresta era fredda e umida: gli alberi lo bagnarono mentre ci passava in mezzo, seguendo un ruscelletto. Aurum era velato dalla foschia e il freddo vento polare lo teneva piacevolmente fresco. Avrebbe avuto bisogno di farsi una bella mangiata entro una dozzina di giorni circa, ma per il momento l'astinenza forzata gli andava bene. Gli odori erano quelli di un bosco selvaggio: i pini della Terra con i loro aghi appuntiti, grosse foglie olli'ulsticane, chiare e brillanti e profumate come frutti, e stolidi pioppi tremuli. La comunità animale si presentò con la brezza da qualche sentiero lì vicino: agili scoiattoli a sei zampe di Kleth; l'odore di un cane della Terra, che correva libero; gli escrementi stagionati dei gabbiani-avvoltoi del suo mondo progenitore. Gli odori erano familiari, ma in un ambiente nuovo, libero, pulito. In effetti, data la loro situazione, si sentiva irragionevolmente bene, se non fosse stato per la schiena. «Mary, potrei chiederti qualcosa di molto personale?» «Certo.» «Mi prude ancora la schiena nel punto in cui qualcosa mi ha punto dopo che è esplosa la navicella. Mi gratteresti la ferita?» «Va bene» disse lei sbadigliando. Poi la sentì scivolargli lungo la schiena oltre il pallet dell'equipaggiamento alla base della sua coda. Trovò immediatamente il punto giusto, con sua sorpresa. Sarebbe dovuto essere ben guarito. «Drin» la sua voce era molto più acuta adesso «non voglio spaventarti, ma c'è ancora qualcosa, ed è penetrato piuttosto in profondità.» «Eh?» grugnì bloccandosi, poi piegò la testa all'indietro per guardare, con una dolorosa contorsione. C'era effettivamente un lungo e profondo squarcio nel suo strato adiposo, che ancora stillava. Profanazione! Avrebbe dovuto fare qualcosa. Era tempo di prendersi un po' di riposo, a ogni modo. Aurum era uscito dal suo velo di nuvole, il vento era calato e aveva bisogno di smettere di generare calore corporeo e far diminuire la sua temperatura per un po'. «Dato che abbiamo la cassetta dei medicinali, che ne dici di provare a tirarla fuori adesso? Potrei approfittarne per riposare, e non sentirò granché a meno che non vada più a fondo nello strato di grasso. Che cos'è?» «Sembra un filo d'argento. Forse è una specie di monofilamento.» «Profanazione!» Drin si abbassò fino alla pancia e restò immobile. Ogni movimento che aveva fatto nell'ultima ora aveva probabilmente spinto
l'oggetto più in profondità. «E poi parlano di sabotaggio! Non fa meraviglia che Soames non si sia arreso... Senti, le pinze nella cassetta sono di diamante massiccio, dovrebbero andar bene per quello, anche se è monofilamento. E, Mary, ricorda che ciò che può sembrare una ferita orrenda a te può essere poco più che un taglietto per me. Perciò, anche se quell'affare dovesse tagliare più a fondo, per favore non toccarlo assolutamente con le dita!» «Ricevuto.» Dopo un bel po' di "uhm", "ah" e "oh oh" dichiarò vittoria. «Bene, ce l'ho fatta. È una cosa lunga, sottile e argentea.» Sollevò le pinze. Drin non riuscì a vedere nulla. «Dovresti avvicinarlo.» «Prima lo metto dentro un contenitore e ti bendo.» Drin si lamentò quando lei strizzò dei tubetti facendone uscire dei liquidi, dando degli strappi qua e là. Poi Mary fu davanti al suo occhio sinistro con un contenitore di diamante, chiaro e poco profondo. Cacciò fuori una delle estremità della lingua per prenderlo. Il cristallino dell'occhio di Drin era grande quasi quanto il vaso, e l'evoluzione dentro e fuori dall'acqua gli aveva conferito un'abilità particolare nella messa a fuoco e una retina poteva trarre massimo vantaggio da quell'apertura. Con le dita sull'altra estremità ne rimosse il coperchio, c'infilò le pinze e smosse il filamento. Non sembrava fatto di un unico filo, ma di qualcosa più complesso. E, proprio al limite del suo campo visivo, gli sembrò che ci fossero dei noduli o dei granelli di qualche tipo. Riuscì a isolarne uno, lo sollevò e lo scosse. Per un momento riuscì a coglierlo nella luce giusta, e vide che sembrava una specie di rete. «Una tela di ragno?» chiese Mary a voce bassa per lo stupore. «Che genere di ragno? Che genere di tela?» «Forse monofibra» tirò a indovinare Drin «un fullerene o una fibra di qualche tipo di nanite. Ci servirebbero altre attrezzature per verificarlo, ma, sulla base del video dell'attacco, sospetto che, una volta dispiegata, la cosa sia un cerchio di circa un quarto di unità Statuto di diametro. Se colpisce qualcosa i nodi ci si fanno strada attraverso, trascinando con sé il filamento.» «Organico o meccanico?» «O organomeccanico. Non c'è modo di saperlo adesso, profanazione!» Drin rimise il coperchio al contenitore documentario. «Da ciò che abbiamo visto direi che fa piazza pulita di metalli e composti duri, ma s'impantana
dopo pochi otto-doci nella roba soffice e bagnata. Come me.» «O l'acqua di mare?» «È ciò di cui siamo fatti tu e io, per la maggior parte. Acqua di mare e inquinamento. Bene, abbiamo trovato una traccia.» «Ma» chiese Mary «è qualcosa che un sabotatore esaltato potrebbe architettare contro una base di bioformazione? Perché sia le bombe che le ragnatele? O sono arrivate da qualche altra parte?» Trascorsero profondamente immersi nei loro pensieri il resto del viaggio verso la caverna che li avrebbe ospitati. Per ragioni ambientali, la tecnologia di trasmissione dell'energia Kleth si era diffusa per tutti i Mondi Locali molto prima della fondazione di Trimus. La conduttura di guida d'onda superconduttrice per l'infrarosso estremo non genera campi esterni, può essere tesa per lunghe distanze sotto terra o sott'acqua, e trasporta informazioni oltre che energia. Un'improvvisa interruzione nella linea può generare un segnale transitorio ad alta intensità, ma i connettori standard fanno cessare all'istante le serie di minimagnetroni quando viene rilevata un'interruzione. — Dal Manuale del Monitore Planetario, Appendice Tecnica. La caverna era troppo piccola, si dispiacque Drin mentre si fregava la schiena di ritorno da un'inutile visita alla stazione in rovina, alcuni giorni più tardi. Non poteva girarsi nello stretto passaggio lavico parzialmente sommerso, tranne che dentro l'imboccatura semisommersa e sgretolata dove il nero fondo sabbioso s'innalzava fin quasi alla parte più larga del meato. I tiepidi raggi solari di Aurum III penetravano di appena un doci o poco più, ma sulla superficie quasi piatta del passaggio la differenza diventava di quasi un'unità Statuto laddove le rive dell'estuario degradavano, tagliando a metà l'area del fondo del meato durante l'alta marea e rendendo il luogo ancora più claustrofobico. Un'altra volta avrebbe scavato un canale più agevole creando una zona asciutta più vasta, ma quel giorno la sua mente era occupata da un problema tecnico differente. Avevano l'attrezzatura, avevano una fonte d'energia, ma in qualche modo, nell'esplosione alla stazione, il cavo conduttore del generatore rotativo era stato danneggiato, lasciando scoperta la guida d'onda e senza la possibilità di farne defluire l'energia. Senza energia non c'era modo di richiedere soccorso né di avvertire nessuno delle reti finché qual-
cuno non fosse giunto alla portata dei loro trasmettitori personali. E una volta esaurite le batterie si sarebbero trovati, a tutti gli effetti, bloccati nell'età delle conchiglie. «Mary?» chiamò Drin a voce bassa, per timore che il gioco d'echi in quello spazio ristretto potesse assordarlo. Ne risultò un terribile fracasso ronzante, quindi una nuvola di polvere e detriti si staccò dalla volta e rotolò verso di lui. Arretrò, infilando di nuovo la coda nell'acqua. Avvertì, poi udì, un tonfo massiccio e vide una roccia piuttosto grande rotolare fuori dalla nuvola di polvere che si stava depositando. Poi ci fu un tonfo più piccolo. «Ciao, Drin.» Era Mary, sorridente, ricoperta di polvere di roccia vulcanica, che brandiva una vibrosega che avevano recuperato dalle rovine della biostazione. «In un colpo solo, ehm, ho fatto un ingresso secondario per me, un ingresso principale per i Kleth e un camino. Pochi altri giorni di lavoro e questo posto sarà abitabile.» «Sono contento che abbiamo qualche bella notizia. Non sono riuscito a trovare nessun morsetto utilizzabile tra le rovine.» Il sorriso di Mary sparì. «Fesserie.» «Credo» propose lui «che il prossimo passo debba essere andare a vedere il relitto dell'Uovo.» «Direi di sì. Drin, continuo a pensare che dovrei essere in grado di fare qualcosa con ciò che abbiamo.» Drin distolse lo sguardo, in segno di diniego. «Non vedo come. I ricetrasmettitori a energia d'onda guida hanno bisogno di dimitech a scala d'onda infrarossa, o magari di minilitografia, e il meglio che abbiamo nella cassetta degli attrezzi è un apparecchio miniwaldo. Non voglio pensare a quanto tempo...» «Va bene, va bene, andiamo a fare questa ricerca sull'Uovo.» Corse verso l'acqua, ci entrò fino alle ginocchia, si tuffò nell'acqua bassa e riemerse a metà strada verso l'imboccatura della caverna, poi tornò a riva, ridendo. «In effetti, prima dovrei prendere un paio di cose. Puoi aspettare un po'?» «Mary, credo che ci debbano essere più radiazioni residue di quanto tu non ti renda conto. Soprattutto se restiamo bloccati qui per anni. Dovresti restare qui.» Piombò a sedere. «Come al solito hai ragione, tenente. Ascolta, Drin.» Si scosse via l'acqua dalla testa, con i capelli al vento. «Sì?» Gli si strinse affettuosamente contro la testa e sussurrò: «Si ritorna, eh?»
Drin sfiorò la sabbia accanto a lei con la punta del rostro. Fossero stati due, avrebbero potuto svolgere il ruolo di segnali di corteggiamento fuori luogo, pensò. Lei rise e gli baciò la cima della testa. Poi lui arretrò verso la parte più ampia della caverna, si voltò e nuotò verso il fiume. Una volta nella corrente emise un breve suono, poi lanciò nell'aria un getto di vapore. Do Tor e Go Ton apparvero ben presto al di sopra di lui. Spiegò loro ciò che intendeva fare e ne richiese la copertura aerea. Aurum III è un mondo a scala verticale sproporzionata, sopra e sotto l'acqua. I suoi vulcani s'innalzano di oltre quattro macrounità al di sopra del livello del mare e di poco meno al di sotto, sul fondo dell'oceano principale. La modalità più frequente di rinnovamento della crosta terrestre, come per molti mondi più piccoli dal nucleo infuocato, è la decostruzione termale sublitica: nuove eruzioni che ricoprono depositi più antichi. Un riassestamento idrostatico che spinge gli strati più antichi al di sotto della superficie, dove sì decompongono liberando i loro gas. Così molti altipiani vulcanici risultano circondati da profonde cavità e sorgenti termali. — Dalla Guida all'Insediamento su Aurum III (Prima Stesura), Supplemento di Geologia. La cavità marginale richiedeva un tuffo al di là delle possibilità dello stesso Drin, ma l'Uovo era ammarato in prossimità della barriera rocciosa davanti all'isola, e sperava di trovarci almeno qualche rottame. Di nuovo, cos'era quell'odore? Una specie della Terra, certamente, ma non una che fosse in grado di identificare. Si voltò di colpo e studiò l'aria. Do Tor e Go Ton volteggiavano in cerchio sopra di lui come un paio di gabbiani do'utiani in cerca di carogne galleggianti - l'umorismo nero di quell'accostamento lo fece ridacchiare. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma stavano risparmiando l'energia dei trasmettitori - non si poteva sapere quando avrebbero potuto ricaricarli. Pochi battiti più tardi, il senso della posizione di Drin gli rivelò che si trovava al di sopra del relitto. Lanciò un solo getto verso il cielo, un segnale convenuto per comunicare loro che era tutto a posto. Poi s'immerse, sempre più a fondo. L'acqua era fredda e stagnante, e l'illuminazione consisteva unicamente nel fatto che alcune ombre erano meno scure di altre.
Cominciò a pigolare, e in basso si formò una scena sfocata evocata dal sonar. Incrostazioni laviche, molluschi dalle ampie conchiglie a spirale di Kleth, qualche animaletto lanuginoso e - ecco, l'aveva trovato, a circa otto unità Statuto al quadrato in basso a sinistra: la mezza carcassa dell'Uovo di Trimus. Fu sbalordito dalla quantità di oggetti che si erano conservati, ma i raggi gamma e i pioni arrivavano troppo lontano viaggiando nella sola aria per poter dar luogo a un'esplosione concentrata, e il riscaldamento del campo circostante poteva averne rallentato la velocità di combinazione. Eppure, nell'avvicinarsi poté sentire l'odore della cenere di carbonio e metallo dei materiali surriscaldati fino alla temperatura di accensione. Rimase in silenzio. Quando le immagini soniche svanirono dalla sua percezione restò una flebile luminescenza blu. Quindi la struttura che restava doveva essere ancora radioattiva, a quasi cinque giorni dalla sua esposizione. Infilò un'estremità della lingua nel marsupio per trarne un radiometro. Arretrò nell'acqua quando l'apparecchio cominciò a brillare di un colore rosso arancione. Cominciò a crescere in lui una paura, un sospetto. Nervosamente, risalì un po' e nuotò direttamente sopra la carcassa. Il radiometro non era direzionale, ma poteva usare il suo corpo per occultarne la fonte. In realtà poteva puntarlo vedendo da che parte indicava la traccia della radiazione del suo corpo. Puntato sulla sua traccia il detector si velò di un rosso cupo, poi, quando si spostò, tornò all'arancione. Varie prove, che portavano a direzioni diverse, gli dimostrarono che, per quanto poteva capire, era una fonte essenziale. C'era soltanto una possibile spiegazione: almeno uno dei contenitori di antiidrogeno non era andato distrutto, e adesso perdeva, cercando ancora di fornire l'antiidrogeno a un trasformatore. Come? Scese sul fondo, e affondò fino alla pancia nella fanghiglia di detriti. Il radiometro scese quasi fino al nero, e lui emise una bolla di sollievo. Aveva il tempo di pensare. Ma certo, i trasformatori! Le loro pareti di tungsteno erano spesse un ottavo di doci, e raggruppavano i contenitori. Era una misura di sicurezza prevista in modo che, qualora uno di quei raggruppamenti venisse infranto, le radiazioni risultanti non danneggiassero gli altri. Aveva saputo che quelle cose erano dure come il diamante, ma questo era un fatto imprevisto. Non solo queste misure avevano effettivamente
funzionato, ma avevano funzionato fin troppo bene! Sarebbe stato molto meglio se fosse uscito tutto quando la navicella era stata colpita. Con la fredda acqua profonda a tenere bassa la temperatura, le pompe di calore a elettroni allo stato solido avrebbero avuto molto meno lavoro da fare, e la scorta d'energia d'emergenza del contenitore sarebbe durata tanto a lungo. Ma quando si fosse esaurita, il ghiaccio di antiidrogeno nel nucleo avrebbe cominciato a evaporare, reagendo dentro le pareti della camera interna, e avrebbe fatto evaporare più antiidrogeno in una reazione di fuga che avrebbe fatto sì che le pareti del contenitore non riuscissero a evitare i danni delle radiazioni. Quindi il contenitore avrebbe ceduto all'istante a causa della pressione dell'acqua, facendo mischiare tutto l'antiidrogeno restante con la materia. Non con uno sfrigolio di diversi minibattiti, ma sostanzialmente di colpo. Sarebbe potuto accadere, si rese conto, in qualunque momento, o essere provocato da una qualsiasi onda d'urto, o magari da un disturbo. Ma avevano bisogno comunque del trasformatore d'energia. E dato che i contenitori restanti alla fine si sarebbero deteriorati, probabilmente sarebbe stato meglio provocarlo deliberatamente per tutti, a un momento dato. Le loro scorte comprendevano alcuni esplosivi a innesco, si ricordò, sistemati dentro alcune casse presso la linea di galleggiamento, lontano dal carburante. Prima che potesse convincersi del contrario, prese una torcia dal marsupio, si avvicinò lentamente alla carcassa e cominciò a girarle intorno, alla ricerca del locale. Incredibilmente, nonostante il fatto che i due terzi superiori dell'astronave fossero stati polverizzati, si era salvato abbastanza del fondo del serbatoio da permettere d'immaginare che nulla fosse accaduto! Trovò il locale dopo aver percorso circa un terzo della circonferenza della carcassa. Con molta cautela azionò l'apertura manuale, e fu ricompensato da una riserva d'energia intatta - praticamente la scoperta di un tesoro, considerate le circostanze. C'erano le scatole con gli esplosivi, dei trapani, dei riflettori, una corda in fibra di diamante, una zattera da carico gonfiabile e una pala rostrata do'utiana. Si concesse un piccolo verso di soddisfazione. La pala era un semplice attrezzo che gli avrebbe permesso di scavare e rimuovere più volte il materiale che avrebbe potuto spostare con la lingua. L'invenzione di attrezzi come questo aveva avuto un ruolo nella civiltà do'utiana paragonabile a quello dei finimenti per i cavalli per gli umani. La corda in fibra di diamante era sottile, leggera, altamente resistente, insomma quasi indistrutti-
bile. Ma la cosa migliore era che i riflettori, ovviamente, avevano ciascuno due morsetti di accoppiamento! Con cura scaricò la zattera e ci mise il resto del suo tesoro. Praticò un'apertura in una delle scatole di esplosivo e ne estrasse quattro cariche che si mise nel marsupio. Con la corda in fibra di diamante legò la pala rostrata in tre punti in modo che restasse attaccata alla zattera tenendola dritta. Quindi gonfiò la zattera e la mandò in superficie con tutto il suo tesoro. Drin girò attorno alla parte inferiore della chiglia, quella visibile, con il misuratore di radiazioni, nella speranza di trovare il contenitore che perdeva e piazzargli le cariche sullo scafo proprio di fronte. Ma dopo diversi minuti si rese conto che non sarebbe stato tanto fortunato ma avrebbe dovuto entrare nel relitto. Si mise il misuratore di radiazioni nel marsupio - avrebbe dovuto farlo con la rapidità massima per un do'utiano, e guardare il misuratore sarebbe stato soltanto una perdita di tempo. Con le cariche in una mano e la luce nell'altra si arrampicò sul bordo dilaniato dello scafo. Dove? Spense la luce e nel giro di un paio di battiti vide un debole cono di luce blu. Non esitare, si disse, nuota direttamente verso quel punto. La grata sul fondo era ancora perversamente intatta. Avrebbe corso il rischio di sollevare il pannello? Perse del tempo a preoccuparsene, con una sensazione d'impotenza prossima al panico, prima che gli venisse in mente di vedere se le cariche potevano passare attraverso gli spazi della grata. Ci passarono, per un pelo. Le attivò con un comando sonico, ricevendo in risposta un baluginio di conferma all'estremità di ciascuna carica. Quindi le spinse attraverso la grata, lasciandole cadere sotto la paratia proprio sopra i trasformatori, e ciascuna atterrò con un rumore metallico scuotente. Non appena fu caduta l'ultima si tirò su e nuotò leggero oltre il bordo allontanandosi dal relitto finché fu a diverse unità Statuto di distanza. Poi, abbandonandosi a un comprensibile terrore, si lanciò in superficie. Dopo un'unità charter proseguì mantenendosi parallelo alla superficie, individuò la pala rostrata legata alla zattera, la raggiunse, riemerse e guardò verso il cielo in cerca dei Kleth. «Drin? Drin!» Ruotò gli occhi verso la zattera. Do Tor e Go Ton sedevano calmi sulla sinistra della chiatta, con le ali ripiegate e le zampe cornee che sfioravano le onde. «Buona caccia!» si congratulò Do Tor. «Oh, sì» aggiunse Go Ton.
«Monitori, dobbiamo andarcene in fretta. Alcuni dei contenitori di antiidrogeno si sono salvati dalle reti...» Le ali dei Kleth si spiegarono all'unisono. «...e possono implodere in qualsiasi momento.» Drin s'immerse, afferrò la pala rostrata, riemerse e la mise dentro la zattera. Come aprì il rostro sentì forte il sapore della strana forma di vita marina di cui aveva sentito l'odore in precedenza. Non c'è tempo di approfondire adesso, pensò. Per un momento considerò l'ipotesi di trascinarla, poi cambiò idea, andò sott'acqua e riemerse sotto la zattera, in modo che gli venne a poggiare sopra l'ampia schiena. I Kleth si erano alzati in volo, e giravano in cerchio sopra Drin mentre si dirigeva verso l'isola a tutta velocità. «Viene anche il tuo amico?» chiese Do Tor. Drin ruotò un occhio all'indietro, sulla superficie dell'acqua, e vide una grossa pinna bianca, diritta, che fendeva l'acqua accanto a lui, circa tre unità Statuto alla sua sinistra. Sott'acqua sembrava un pesce della Terra con una testa conica dalla larghezza insolitamente ampia. Aveva diverse fessure per le branchie, invece dell'unica regolamentare. E la bocca non si trovava al solito posto. Dev'essere quella fessura sotto la testa, pensò Drin. Un alieno? Se era così era un grosso alieno, lungo quasi la metà di lui. E perché aveva l'odore della Terra? L'essere decise di dirigersi verso di lui per studiarlo. Si avvicinava rapidamente. Aprì la bocca. Il cervelletto di Drin assunse il controllo. Uno dei suoi arti inferiori, dai muscoli in grado di trasportare la metà del suo peso sulla Terra, era già in movimento quando il grande pesce grigiastro aprì la bocca. La cosa, che inizialmente sembrava intendesse colpire le inesistenti branchie di Drin, cominciò a cambiare obiettivo. Un artiglio di Drin, senza che lui lo controllasse coscientemente, mancò la testa ma riuscì a colpire appena dietro le branchie, e la prima cosa che seppe successivamente fu di avere la terza parte anteriore di quell'essere dolorosamente avvinghiata a uno dei suoi arti inferiori, mentre il resto andava alla deriva, riversando dei liquidi nel mare. Dopo averglielo visto fare una volta, ricordò Drin, Mary aveva descritto un arto inferiore di Drin che colpiva qualcosa di netto, paragonandolo a un'ascia dentellata. «Mary li chiama squali» gridò Do Tor.
Li? Un'occhiata veloce gli permise di vederne altri tre, e un tintinnio ne rivelò un quarto. Uno di loro rincorse la metà posteriore del compagno, altri due si diressero verso di lui. Drin emise un suono e si lanciò verso di loro più veloce che poté, si scrollò via dall'arto la testa del primo squalo, che arrivò a metà strada tra lui e gli altri squali, distraendoli abbastanza a lungo per riuscire ad allontanarsi di un bel po'. La ferita all'arto era profonda e dolorosa. Come aveva potuto, si domandò, una bocca in una posizione tanto scomoda fare una cosa del genere? L'arto gli sanguinava. Dal nulla sbucò un altro squalo, che gli si lanciò contro. Drin infilò la lingua nel marsupio e ne estrasse la pistola. Quindi s'immerse verso la cosa, attese che gli fosse quasi addosso e gli piantò in corpo una pallottola esplosiva. Doveva valutare molto attentamente ciò che facevano gli squali. Presi uno per uno, non potevano competere con lui, ma sapeva che, tutti insieme, avrebbero preso il sopravvento prima che potesse raggiungere la salvezza a riva. C'era modo che Do Tor e Go Ton potessero aiutarlo? Il suo cervelletto, reagendo alle minime variazioni della pressione dell'acqua, gli fece colpire con la coda un'altra di quelle creature prima ancora che si rendesse conto di cosa stava accadendo. Lo squalo restò a galla, tramortito. Ci voleva un'esca. Rapidamente tornò indietro, tranciò in due lo squalo, se ne cacciò in gola la metà posteriore per un pasto rimandato da tempo, e ne tenne la disgustosa metà anteriore conservata dentro la bocca. Poi si lanciò in superficie il più velocemente possibile, contando sull'assoluta rapidità della sua risalita come forma di protezione. Funzionò. Si scagliò fuori dall'acqua a un'altezza di circa un'unità Statuto, e quasi colpì Do Tor che volava in cerchio lì sopra. «Coprimi con le tue pistole!» tuonò Drin. Poi si inarcò sulla schiena e colpì l'acqua con il massimo impatto possibile, che risultò doloroso. Due o tre squali galleggiarono in superficie privi di sensi. Drin li fece a pezzi e si diresse immediatamente sopra il relitto dell'astronave, tranciando le teste che incontrava sul suo cammino. «Conto tre ottave di squali» gridò Do Tor. Echeggiò uno sparo. Due ottave più sette, sperò Drin. «Tre ottave più sei» Do Tor rettificò il suo ottimismo, come se gli avesse
letto nel pensiero. Echeggiarono diversi altri spari e apparvero altri squali. «Bene!» ruggì Drin disilluso. «Mi porterò dietro nel dannato oceano profanante tutte queste cose profananti.» Giunse sopra il relitto, si riempì i polmoni quanto più poté, si calò in profondità e buttò fuori la robaccia sanguinante che teneva in bocca per sviare gli inseguitori. Sembrò funzionare: si raggrupparono sopra il relitto a caccia dei resti, e lui non percepì alcuna di quelle bestie sulla sua scia, ma non rallentò per accertarsene meglio. A circa dieci unità Statuto di profondità si riallineò alla zattera, si volse bruscamente in un lungo arco basso, sfiorando appena le onde, e accese il suo dispositivo di comunicazione. Era il momento di usare le batterie. «Monitori, qui il tenente Drin. Sto per far esplodere quel che resta della navicella. Preparatevi a una grossa ondata. Avvisate Mary.» Raggiunse la zattera senza notare alcun segno di squali. Afferrò la luce d'emergenza con un'estremità della lingua, il rotolo di corda in fibra di diamante con l'altra e se li portò in bocca. Temendo che fosse pericoloso cercare di salvare qualcos'altro, si allontanò dal punto quanto più velocemente ancora poteva. La stanchezza, e probabilmente l'insorgere di un malessere da radiazioni, lo rallentavano considerevolmente. Era costretto a far zampillare acqua dallo sfiatatoio molto più di frequente del solito. Aveva del liquido nei polmoni. E manifestava una diuresi esagerata. Do Tor e Go Ton lo seguivano in volo. «Do Tor, Go Ton» trasmise «sarà meglio che aiutiate Mary a prepararsi. È probabile che l'ondata sommerga la caverna.» «Monitori, qui Mary. Credo di essere pronta per qualsiasi cosa. Propongo che restiate con Drinnil'ib.» «No, Mary. L'aria non sarà sana qui. È meglio che vadano. Non sono delicato, e intendo finire questo lavoro.» Non fece parola del malessere. «Do Tor, via di qua. È un ordine. Sto per farla esplodere, adesso.» Senza lasciare il tempo di discutere, emise un suono. Pensava disperatamente: occorreva che si trovasse nell'acqua per trasmettere il comando sonico, ma voleva esserne fuori quando fosse arrivata l'onda d'urto. Poteva trovare ancora la forza per un'accelerazione adeguata, pensò, ma avrebbe dovuto effettuarla esattamente nel momento giusto. Cercò di fare un calcolo, ma era troppo complicato, le distanze erano incerte, e lui troppo stanco. Perciò tirò a indovinare, e inviò il comando quando fu in piena accelerazione, a metà strada dalla superficie. Con un ultimo disperato colpo di coda balzò al di sopra delle onde.
Sembrò restare sospeso nell'aria in eterno, mentre nulla accadeva, poi, proprio prima che la schiena toccasse di nuovo l'acqua, tre increspature passarono sotto di lui, con estrema rapidità, e ingannevole piccolezza. Aveva salvato l'udito, pensò mentre s'immergeva, per meno di una frazione di battito. Drin riemerse, si guardò indietro, e quasi desiderò di non averlo fatto. Un'enorme massa d'acqua si era sollevata dietro di lui a una velocità incredibile, e la parte che gli era più vicina si stava trasformando in un impetuoso muro alto quasi otto unità Statuto al quadrato. Drin fece zampillare di nuovo dell'acqua dallo sfiatatoio, si riempì i polmoni quanto più poté e salì con l'onda. Era come trovarsi di nuovo sull'astronave al momento del lancio. Veniva sollevato sempre più in alto, mentre cercava di nuotare verso il basso. Non riusciva a tenersi sotto, e la testa gli usciva dall'acqua sul declivio di un'alta collina liquida. Il vento ululava come la parte peggiore di una tempesta di Coriolis. Riuscì a vedere Do Tor e Go Ton in lontananza che volavano via di corsa, e il suo senso dell'equilibrio gli disse che li guardava dall'alto. Un'occhiata verso l'isola confermò quella sensazione. L'onda, calcolò, avrebbe sommerso tutto tranne le cime più alte. Poi scivolò a velocità incredibile lungo la collina d'acqua verso l'isola. Portò in avanti gli arti anteriori per rallentare, dispiegando le membrane tra gli artigli. E si trovò in piedi su un'onda liscia quasi come vetro, con le punte degli arti inferiori fuori dall'acqua. Non osava cercare di scenderne. Non riusciva neppure a respirare. Con gli occhi a lato della testa, aveva un campo visivo di quasi sette ottave, e l'elaborazione dei dati che ne provenivano, dicevano i fisiologi, era compito della maggior parte della massiccia parte anteriore del suo cervello. Di solito era una fortuna, ma in quel momento gli impediva di vedere la cima dell'onda, in alto sopra di lui, cominciare a piegarsi in avanti e infrangersi nella bianca spuma. Dietro e al di sopra si alzò una colonna di vapore sudicio fino alla coltre di nubi soprastante, come una pianta rampicante di proporzioni cosmiche, e magari molto di più. L'onda di Drin era diretta verso uno scosceso cono vulcanico in fondo a una penisola che si estendeva dall'isola. Istintivamente cercò di spingersi via, e la sua traiettoria in effetti si piegò leggermente. La sensazione di avere un sia pur minimo controllo su ciò che gli stava accadendo gli sbloccò la mente. Era diretto troppo all'interno della terraferma per poter girare at-
torno alla parte esterna del cono, ma l'anticrinale che lo collegava con il resto dell'isola era basso. Si piegò da quella parte. Effettivamente era una scorciatoia, pensò con umorismo sinistro. Lo sbocco del fiume della loro caverna era sull'altro lato dell'apertura, proprio verso la parte più vasta dell'isola. L'acqua davanti a lui si sollevò tra l'isola principale e il cono - l'onda veniva incanalata tra i due. La sua velocità diminuì e Drin si spostò sulla pancia, mentre ancora scivolava lungo un declivio d'acqua crescente, ancora sotto controllo. Sfrecciò attraverso l'apertura in un istante, poi cubi e cubi d'acqua gli sì abbatterono addosso, torcendolo di qua e di là mentre i suoi muscoli indeboliti si tendevano e si tendevano, cercando di tenerlo insieme. Finalmente diminuì, e lui si lasciò trasportare. A otto unità Statuto cubiche dall'isola, ciò che restava dell'onda era passato sotto di lui, e si trovò a galleggiare in ciò che sembrava un mare più o meno normale. Cercò di spingersi verso terra con un leggero colpo di coda, ma gli faceva troppo male. Gli arti sembravano in condizioni migliori della schiena, comunque, e fu in grado di spingersi, come faceva Mary, verso la caverna, permettendo ai muscoli torturati della schiena di riposare. Anche da così lontano poteva vedere il disastro: solo un albero su dieci era ancora in piedi, e molti tra questi erano piegati; le spiagge erano coperte di detriti; il fiume era ostruito dagli alberi caduti, ridotto a un filo d'acqua. Da questo lato della penisola poteva vedere che un grosso pezzo si era staccato dalla base del cono vulcanico lasciando una sporgenza di dura lava che si proiettava a un angolo impossibile verso un passaggio laterale che non c'era più. I suoi occhi puntarono di nuovo verso la spiaggia: sembrava ce ne fosse di più che non un minuto prima. Effettivamente... Guardò dietro di sé. L'acqua stava salendo da quella parte. Ignorando il dolore, girò su se stesso e prese a nuotare quanto più velocemente poteva, lontano dalla spiaggia. Saliva sempre più in alto, e sentiva che il vento stava rinforzando di nuovo. Non si guardò indietro neppure per un momento, ma continuò a lottare sull'onda. Infine vi ci si immerse direttamente, poi riemerse, incapace di stare giù. Ma si sentì cadere; era passato attraverso l'onda prima che for-
masse una cresta. Si lasciò trasportare dalla corrente, completamente sfinito, emettendo acqua rosa dallo sfiatatoio a ogni respiro, e osservò l'onda in arrivo abbattersi sull'isola. Galleggiò per un tempo che gli parve lunghissimo, perdendo e riprendendo coscienza. Infine, con un grande sforzo, raggiunse la pistola nel marsupio e se la portò dentro la bocca. A quel punto, se gli squali fossero arrivati, era pronto. Calcolò che quelle cose avrebbero potuto masticarlo per ore prima di arrivare a qualcosa di veramente vitale. Ma non l'avrebbe permesso. Come ultima risorsa avrebbe sempre potuto spararsi nel cervello una pallottola esplosiva per non assistere al proprio smembramento. Raggiunta una tale fredda sicurezza recuperò un po' di energia psichica, e cominciò a spingersi verso lo sbocco del fiume. Il cielo al di sopra era di uno strano colore rosso sangue. Aurum si trovava proprio sotto la coltre di nubi, illuminandola dal di sotto e creando uno strano scenario, con i flutti accesi da una luce cremisi e delle ombre grigie. Il loro sole aveva quasi completato il suo lento viaggio verso l'orizzonte, dove sarebbe rimasto sospeso per un giorno prima di risorgere nell'estate artica di quel mondo. Dalla riva un cane della Terra ululò in un modo che Drin non aveva mai sentito prima, trasportato chiaramente dalle onde. Il mare, che rifletteva il cielo, sembrava fatto di sangue. Drin combatté la corrente restante con gli arti inferiori, spingendosi lentamente controcorrente. Attivò il suo dispositivo di comunicazione. «Mary?» Nessuna risposta. «Do Tor?» Niente. «Prova?» Niente. L'unità non funzionava. Probabilmente per essere stata lasciata accesa troppo a lungo, dato che nessun colpo che avesse lasciato indenne il suo marsupio avrebbe potuto danneggiarla. Naturalmente, c'era stato l'impulso elettromagnetico dell'esplosione. Lo rimise nel marsupio. Per il momento avrebbe preso per buona, come spiegazione, la mancanza di energia. Si riposò. Avanzò di qualche altra unità Statuto. Si riposò. Avanzò. Si riposò. Aveva risalito a sufficienza la corrente? Il suo senso della posizione gli diceva di sì, ma il paesaggio non appariva affatto familiare. Il canale sem-
brava scorrere troppo a sud. Dov'era la caverna? Scrutò la sponda settentrionale, da una parte all'altra di un campo di sabbia appena depositata. Laggiù c'era una rozza arcata di lava che spuntava dalla sabbia. Anche il campo di lava che c'era dietro sembrava familiare. Aprì il rostro. «Mary?» gemette, pensando che probabilmente suonava più come un allarme antinebbia acustico che come un nome. «Drin, Drin!» Lo raggiunse l'eco della sua voce acuta, che sembrava provenire da un milione di miglia di distanza. Poi la sua testa biondissima spuntò dal buco che aveva scavato nella sommità della caverna. «Drin!» gridò, e il suono era molto più vicino adesso. Aveva i capelli arruffati e sporchi, e dei segni rossi sul viso. Zoppicava mentre correva verso di lui sulla sabbia. Aveva una mano pesantemente bendata. Con un ultimo gigantesco sforzo mosse alcuni passi sulla spiaggia per andarle incontro, poi cadde sulla pancia, spossato. Lei si lanciò verso la sua testa, e cercò di tenersi stretta, ripetendo più volte il suo nome. Drin aprì leggermente il rostro e ne fece uscire le estremità della lingua, che le passò attorno, stringendola a sé. Restarono così finché sembrò che Mary avesse riguadagnato la sua compostezza. «Drin, ce l'abbiamo fatta. Mi sono rotta un dito e mi sono rovinata un ginocchio. Do Tor ha un buco in un'ala e Go Ton sta cercando di sistemarla con una mano e sorvegliare il nostro prigioniero con l'altra, perciò devo tornare ad aiutarli. Poi tornerò con la cassetta dei medicinali per te. E, Drin, per quanto senso possa avere, ti voglio bene. Dovevo dirlo, e farlo adesso prima che qualcosa del genere possa accadere di nuovo senza che io l'abbia detto. Ti voglio bene.» Drin non riuscì a pensare a nulla di razionale da dire su quell'argomento, ma all'improvviso si rese conto che la bocca gli faceva male, a causa delle cose che ci aveva tenuto dentro a rotolare. Lasciò andare Mary e le tirò fuori, dispiegandole davanti a lei. «Ho trovato dei morsetti» disse. Lei accennò con il braccio all'isola devastata attorno a loro e cominciò a ridere, e pareva che non riuscisse a smettere. Cosa c'era di tanto divertente? pensò Drin. Avevano bisogno dei morsetti. Aveva parlato di un prigioniero?
Nella ricerca delle spiegazioni degli avvenimenti create molte possibili ricostruzioni prima di scartarne alcuna. Capite la differenza tra un fatto e una supposizione. Non proiettate la vostra razionalità su ciò che può essere il risultato di un atto irrazionale o di un accadimento non razionale. Imparate a conoscere le motivazioni differenziate degli altri esseri senzienti. — Dal Manuale del Monitore Planetario, Metodologia Forense. Il prigioniero, stabilì Drin, era uno degli esseri umani più abietti e meschini in cui si fosse mai imbattuto. Theric Soames era così impenetrabile, scontroso e suscettibile che la conversazione era impossibile. Mary non voleva usare droghe, ma dovevano sapere delle reti, e dovevano sapere in fretta. Perciò lei chiese a tutti di uscire. Voleva continuare l'interrogatorio da umano a umano, senza droghe. «Fidati, per favore» disse a Drin. Così lui acconsentì al loro ritorno alla tranquillità della caverna. Ormai c'era molta legna su tutta l'isola, e Go Ton aveva acceso un grosso fuoco. Per una delle poche volte in vita sua, Drin accolse con piacere il calore. Do Tor sedeva su un tronco vicino a lui, insofferente perché non poteva volare finché non gli fosse guarita l'ala, e Go Ton era eccezionalmente premurosa quando gli stava intorno, il che non accadeva sempre. Go Ton era l'unica di loro che fosse in condizioni fisiche abbastanza buone da andare a raccogliere del cibo. Incredibilmente, ci riuscì. Drin rigurgitò una lisca di salmone e la gettò via. «Come hai fatto?» chiese. «Ho fatto una rete con la corda che hai portato. L'ho messa nel letto del fiume vicino alle nuove rapide. E ho raccolto il pesce.» «La tua energia è sorprendente. Dovrei riuscire a fare da me entro pochi giorni.» "Giorno", soprattutto lì, nell'eterna luce della piena estate artica, per loro indicava ancora la giornata di Trimus, e non la lenta rotazione di Aurum III. Ma per alcuni esseri nelle nebbie del futuro, rifletté Drin, le cose sarebbero cambiate. «Vi rendete conto» Drin fece osservare ai suoi partner Kleth «che non c'è nulla che dia più valore alla nostra cultura trimusiana che la fondazione di una nuova colonia? A questo punto possiamo smettere di preoccuparci se i nostri antenati venivano da Do'utia, da Kleth o dalla Terra. Adesso siamo tutti di Trimus!»
«Oh, sì» convenne Go Ton. «Ma non potremo mai essere uguali, perciò ci sarà sempre tensione fra le tre provenienze e l'unica patria. Per questo Mary ha insistito perché ci allontanassimo mentre interrogava Soames. Fa cose da umani che forse non dovremmo vedere, ma le fa per Trimus.» «Oh» brontolò Drin. Emotivamente il suo attaccamento a Mary, nonostante le sue migliori intenzioni, stava diventando simile a quello di un toro per il suo harem di mucche. Questo era completamente, assolutamente irragionevole, eppure ciò che Mary forse stava facendo per indurre Soames a parlare, per lui aveva il sapore di un ruscello inquinato. Ma forse i suoi amici Kleth potevano aiutarlo. Il punto di vista di Go Ton era interessante e confortante. «Go Ton, cosa credi che voglia dire la parola "perverso"?» «Deviare da ciò che è considerato socialmente accettabile. È una definizione relativa, non assoluta.» «Quanto affetto ci può essere tra specie diverse prima che la cultura di Trimus lo consideri socialmente non accettabile?» Do Tor batté leggermente un'ala, a indicare alla sua compagna che desiderava subentrarle nella conversazione. Go Ton emise un sommesso verso di assenso. «Tu e Mary?» Drin esitò a lungo. «Sì» disse infine. «Non c'è da vergognarsene secondo me. Una relazione d'amicizia è naturale per entrambe le vostre specie. Ma non per i Kleth.» «Oh, sì» aggiunse Go Ton. «Ma noi siamo Kleth progressisti. Vedi quanto mi lascia parlare Do Tor?» Do Tor sbatté di nuovo un'ala, poi fece quella specie di suono singhiozzante che era la risata della sua gente. «I Kleth trimusiani» disse «sono considerati perversi dai tradizionalisti su Kleth, a causa del nome stesso di Trimus. Sull'antico Kleth non si parla di tre. Sai perché?» «No. Naturalmente sono curioso, ma non dovete dirmelo necessariamente.» «Tu ci hai detto un segreto pericoloso, quindi noi facciamo altrettanto. Nei nostri nidi ci stanno tre uova, ognuno proveniente da tre paia. Due uova di un sesso, uno dell'altro. Tutto va bene per sette o otto giorni. Poi il nido diventa troppo piccolo. Mentre i genitori sono lontani si compie la selezione, e due mangiano il terzo.» «Oh» brontolò Drin. «Avete visto le usanze sulla spiaggia della mia gente. Tutto dipende dalla natura. La lotta per la sopravvivenza premia i più
forti.» «Non la lotta» lo corresse Do Tor. «Il sacrificio. Quello che deve morire si sceglie da sé, non difendendosi. Ma non sempre.» «Oh, si» aggiunse Go Ton. «Sul vecchio Kleth ogni sei coppie per otto al cubo una era da tre. Grande perversione. I genitori fuggivano o venivano uccisi. A volte due trii si mettevano insieme e fingevano di essere tre coppie. Li consideravano streghe e demoni se li scoprivano, ai vecchi tempi. Tu e Mary non siete perversi. Siete interessanti. Tre Kleth è una cosa perversa.» «Ma essenziale, in principio, stando a quello che dite» osservò Drin. «È una grossa questione, difficile da discutere per i Kleth, difficile da studiare. Non c'è nulla di documentato, ma i nidi con due uova di solito combattono, poi uno vince e tutt'e due muoiono. Nessuno ne parla. Il nostro terzo compagno di nido era un essere intelligente, come chiunque altro. Nessuna differenza biologica. Do Tor e io abbiamo cominciato la nostra vita uccidendo e mangiando il nostro compagno di nido. Fu l'istinto, non una decisione, ma ce lo ricordiamo. I nostri ingegneri genetici possono modificare questa caratteristica, ma il risultato non sarebbe più Kleth. Puoi dirlo a Mary» disse Do Tor «ma a nessun altro, per favore.» «Non vi giudico» disse Drin. «Siete miei amici. Non ne parlerò ad altri.» «Bene. Allora non diremo ad altri cosa fate tu e Mary.» La ricetrasmittente di Drin, ricaricata, richiamò la sua attenzione prima che potesse pensare a una risposta. «Sì, Mary?» «Sto riportando Soames. Ammette tranquillamente di aver piazzato la bomba nella stazione di bioformazione, sostenendo che è stato un atto filosoficamente giustificabile per impedire che Aurum III fosse pieno di primitivisti trapiantati. Ha mantenuto il più stretto riserbo per quanto riguarda chi altro su Trimus abbia contribuito a questo tentativo di sabotaggio di una decisione del Consiglio. «Ma ha negato risolutamente di avere qualcosa a che fare con le reti, e ha sostenuto di non saperne nulla. Sembrava sinceramente sorpreso quando ha visto il pezzo che avevamo conservato, e ha sottolineato come sia andato vicino a uccidere anche lui come gli altri. Immagino che vorrete parlargli.» «Io certamente. E, Mary?» «Sì?» «Tua madre aveva accesso ai tuoi codici?»
«Drin! Karen Olsen è l'artefice della politica di reinsediamento! Sì, custodisce alternativamente i miei file personali, ma non c'è alcun modo...» «Senza offesa, piccola, non credo che sia da sospettare. Ma potremmo doverci preoccupare di chiunque le sia abbastanza vicino da avere accesso ai suoi file, come il tuo compagno di stanza ha fatto con i tuoi.» «Capisco. Non è come me, da quel lato. Non è stata attiva da quel punto di vista, che io sappia, per un certo tempo.» «Molto bene. Mettila in guardia se ti fidi di lei. Mary, hai la pistola a portata di mano?» «Sì, perché?» «Ricordi le etichette bruciate sulle gabbie nella stazione di bioformazione?» «Oh, Canis qualcosa, un tipo di cane: quei piccoli carnivori pelosi dal guaito acuto che teniamo come animali domestici. L'altro era Kleth, credo. Se si fosse trattato di vita della Terra, la specie avrebbe potuto essere Ursus, cioè un orso, e non credo che avrebbero... oh. Gli ululati.» «Qualcuno» brontolò Drin «ha abilmente corretto l'ecologia di questo progetto per renderla ostile all'insediamento. Stavo cercando di immaginare quale potesse essere l'equivalente degli squali sulla terra.» Seppure ciò che i nostri pionieri trimusiani fecero fu quasi radicale, fu fatto per una ragione molto conservatrice. I pionieri di tutt'e tre le specie si erano consacrati all'idea che una solida cultura interspecie potesse essere creata senza una riprogrammazione significativa dei cervelli e dei sistemi endocrini dei suoi membri. Lo fecero nella piena consapevolezza che la maggior parte della galassia e perfino i loro stessi mondi di provenienza avrebbero infine considerato loro e i loro discendenti come fossili viventi, ma erano soddisfatti di quel destino, e finora noi siamo stati capaci di portarlo avanti, con gradi diversi di dedizione. — Osservazioni di Go Zom sul Patto di Trimus. «Adesso» urlò Do Tor dall'alto. Drin lasciò andare la ruota dell'acqua togliendo l'arto anteriore sinistro dal raggio della ruota, che cominciò a girare. Il cavo di alimentazione generale faceva due giri attorno al bordo del volano di pietra lavica sullo stesso tronco di pino, scendeva da un lato, girava due volte attorno a una scanalatura intagliata in un altro disco di pietra più piccolo, e ritornava su.
Quel disco era fissato all'albero di alimentazione del loro generatore. Osservò la cinghia ruotare nervosamente. L'asse del volano poggiava su quattro cuscinetti a sfera magnetici, recuperati da un veicolo tra le rovine della stazione, che sembrava troppo piccolo per fare al caso loro. Sussultava e traballava, ma almeno non sembrava prossimo alla rottura. Le onde avevano sparso la sabbia in giro capricciosamente, rivelando un ripido dislivello di quasi un'unità Statuto che si restringeva in una specie di scivolo naturale che generava un flusso di quattro macrodomi per battito, alla velocità di un paio di unità Statuto a ogni battito. Avevano tagliato le pale ricurve da un alto tronco cavo, i raggi da un pioppo tremulo abbattuto dalle onde, e tutto quanto era tenuto insieme dalla colla per costruzioni recuperata dalla stazione distrutta, e dalla corda in fibra di diamante. Il generatore produceva quattro ottave al quadrato per battito. Il cavo di energia arrivava alla caverna dove c'era il giunto di energia che tanto era costato, fino a una radiotrasmittente collocata sotto un'antenna di rete recuperata dalla stazione di bioformazione distrutta. Drin sapeva che il trasmettitore funzionava perché la spia sul suo dispositivo di comunicazione indicava che aveva trovato il segnale, ma lui non poteva riceverlo. A questo non si poteva ovviare, dato che la chiamata di Mary doveva essere criptata, ma era frustante. Il tronco dava l'impressione di cercare di farsi strada verso destra nel suo ruotare. Drin afferrò da terra con il rostro un ramo che era stato scartato e lo risospinse verso il centro. Il legno verde cominciò a produrre fumo a causa dell'attrito, facendo una puzza tremenda, ma il meccanismo sembrava ruotare più agevolmente. Avrebbero dovuto inserire la pila di pietra sotto i cuscinetti a sfera appena Mary aveva finito. Allora avrebbero potuto ricaricare le vibroseghe e i dispositivi di comunicazione. Dopo una piccola eternità la spia si spense. «Mary, devo fare delle correzioni» gridò. «Hai circa dieci minuti di tempo considerando la velocità della luce. Poi aspetteremo. Drin» la sua voce si era fatta sommessa «se non ricevo una chiamata di risposta entro un paio d'ore, direi che possiamo aspettarci che non ci vorrà molto prima che siamo colpiti dalle reti.» E potevano anche presumere che sarebbe stato un disonore che avrebbe profanato i massimi livelli del Consiglio di Trimus, e quindi una beffa per tutto ciò in cui Drin credeva. «Ricevuto» rispose in un tono basso e scoraggiato. L'intero dannato uni-
verso puzzava di bruciato, pensò mentre finiva di sistemare il supporto. Avrebbe dovuto andar bene. Fece girare di nuovo la ruota. Ci fu un movimento, quasi dietro la sua coda, registrato ai limiti della sua visione periferica. Che cosa? Si girò per guardare meglio. Che diavolo di profanazione era quello? Una qualche specie di carnivoro? Si sollevò alla vista di Drin, e sembrò grosso perfino a lui. Le zampe, coperte di pelo marrone, sembravano massicce quanto le sue. Con la sua lunghezza probabilmente Drin pesava quattro ottave più di lui, ma sollevato sulle zampe posteriori l'essere era più alto. La sua testa era grossa forse il doppio di quella di Mary, ma ciò che più impressionava erano un paio di muscolose mascelle dentate che probabilmente avrebbero potuto frantumare anche le sue ossa. Un orso polare? Ma non erano bianchi? Bene, due bastavano per affrontarsi. Inarcò leggermente la schiena dolente, sollevò la coda per bilanciarsi e si sollevò anche lui, con il rostro che si alzava da terra di quasi mezza unità Statuto. Aprì il rostro abbastanza da ingoiare la bestia intera e le agitò davanti un arto dall'estremità artigliata. L'essere restò fermo per un momento, agitando le mascelle a vuoto, poi abbandonò la competizione con un ringhio acuto, lasciandosi cadere a quattro zampe, e scappò via, apparentemente terrorizzato. Drin rise rumorosamente per un momento, poi restò come bloccato quando la bestia corse dritta all'interno della caverna. «Mary!» urlò. «Hai visite. Prepara l'artiglieria.» Lei strillò. Si sentirono dei bassi ringhi, ma non detonazioni. Drin si rimise immediatamente a quattro zampe e si lanciò nella caverna al galoppo più velocemente che poté attraverso la sabbia alluvionale bagnata. Ruggì una sfida disperata. Mary urlò di nuovo e alla sua nota alta isolata si unirono i terribili strilli dissonanti di Do Tor e Go Ton. Il carnivoro si lamentò, come per il dolore. Poi Drin fu sotto l'arco. Sentì odore di sangue. La caverna e le attrezzature erano nel caos. Soames gemeva: c'era qualcosa che non andava nel suo braccio. Poi la cosa si girò per affrontare Drin, e nonostante la differenza di dimensioni lo attaccò. Naturalmente, dato che gli sbarrava la strada. Drin gli lanciò addosso la lingua, con le estremità attorcigliate a formare una pesante palla di cartilagine e legamenti, e lo colpì con precisione alla testa, mandandolo a sbattere contro l'unità di comunicazione. Era già stata rovinata, si disse Drin, mentre prendeva la pistola dal marsupio.
La cosa si era rimessa in piedi e stava caricando prima che Drin riuscisse a usare la pistola. Con la lingua di fuori non poteva azzannare, e in quel momento era troppo sbilanciato per poterlo colpire con un artiglio. Cercò di ostacolarlo con il rostro, ma lo mancò, e quello gli fu sotto, alla gola, mordendo incredibilmente a fondo per una bocca così piccola. Drin gemette per il dolore, ma alla fine si fece abbastanza indietro da sollevare un arto anteriore. E la cosa ebbe termine. La metà superiore del carnivoro sbatté di nuovo contro il malridotto dispositivo di comunicazione, mentre pelliccia, ossa, visceri e una poltiglia sanguinolenta schizzarono dappertutto nella caverna, e quindi anche su Mary, Theric Soames, Do Tor e Go Ton. Drin ansimava. Stava inondando di sangue il fondo della caverna da un'arteria della gola. Guardò Mary, in silenzio, pensando che poteva essere l'ultima volta che la vedeva. Era impegnata, con un braccio solo, a dare qualcosa a Soames. Do Tor aveva la vibrosega. Mary afferrò il braccio dell'uomo appena sotto la giuntura. L'uomo guardò Drin mentre lei stendeva il moncone dilaniato per ciò che appariva una rozza operazione chirurgica. Drin cercò di gracchiare qualcosa, ma Go Ton gli stava parlando, cercando di suscitare la sua attenzione. «Il tuo cuore ventrale, Drin. Calmalo. Ti hanno insegnato come fare. Concentrati. Calmalo.» Sì, doveva pensare all'acqua ghiacciata, profonda. Condizione di lunga resistenza. «Bene. Adesso, in qualche modo devi stare in piedi mentre lavoro su questo pasticcio.» Chissà come, nella confusione della caverna, Go Ton aveva trovato la cassetta dei medicinali. La Kleth avanzò a fatica in mezzo alla poltiglia di visceri per arrivare sotto di lui. Uno spray gli anestetizzò la gola. Drin si rese conto di essere inebetito dal calore. Dall'attacco alla caverna, dalla lotta, benché breve, con il carnivoro. Ma se fosse caduto adesso avrebbe stritolato Go Ton. Acqua fredda profonda... galleggiamento negativo, in piedi. Drin bloccò le giunture degli arti inferiori e lasciò che ogni altra parte di lui andasse lontano, tranquilla. Stava in piedi, resisteva. Per quanto? La carne aliena morta sparsa in giro stava cominciando a puzzare. Infine, degli strattoni sulla sua pelle esterna gli dissero che Go Ton stava richiudendo la ferita. In ultimo, uno spruzzo e una sensazione di
tensione. Pelle artificiale dalla dura fibra. «Finito» dichiarò Go Ton. «Stai più attento. Non ce n'è abbastanza per un'altra ferita così grossa. Ti puoi sdraiare, adesso. Go Ton lavorerà su Theric Soames.» Drin si allontanò dalla poltiglia sanguinolenta e si sistemò nella sabbia fresca. L'incoscienza sopraggiunse rapidamente. Il trattamento medico do'utiano presenta diverse insidie per gli uomini e i Kleth che ci si applicano. La principale tra queste è la dimensione stessa delle dosi necessarie per qualunque intervento su un do'utiano. Il metodo primario per gli interventi di medicina interna consiste nel servirsi di vettori secondari, batteri appositamente modificati che, una volta introdotti in stato di latenza nel flusso sanguigno di un do'utiano, si rianimano, si moltiplicano ed emettono la sostanza necessaria come sottoprodotto. Il dosaggio viene controllato per mezzo della preprogrammazione del numero di riproduzioni consentite a ciascun batterio. — Dal Manuale del Monitore Planetario, Appendice Medica D. Drin osservò Mary ripulirsi goffamente il viso dall'unto con la manica destra, mentre stringeva un bel pezzo di carne annerita. Go Ton gli aveva detto che le due ossa dell'estremità inferiore del braccio si erano spezzate piuttosto di netto, e che le ferite superficiali erano profonde scalfitture più che lacerazioni. Con le loro attrezzature mediche limitate la guarigione sarebbe stata lenta e dolorosa. Per il momento il monco Theric Soames era meno invalido. «Ammettilo, Soames» argomentò Mary. «Ti concedo i tuoi ideali, ma anche quelli degli altri contano. È stata una decisione difficile, e mi dispiace che ti abbia penalizzato. Ma la tua coscienza non può imporsi su chiunque.» Adesso Soames fissava il terriccio. «Non sono disposto a riconoscere... a tradire nessun altro. La bomba l'ho messa io. Speravo che avrebbe almeno spaventato la gente, ritardando le cose abbastanza a lungo da permettere ai politici di ottenere un voto diverso. Non volevo fare del male a nessuno. Ho cercato di salvare la vita a Ko Kor.» «Eh» disse Mary. «Ko Kor non avrebbe potuto continuare a vivere.» «No, forse avrebbe vissuto se quest'uovo fosse andato a fondo» replicò Drin, rendendosi conto dopo aver parlato che la sua traduzione dell'espres-
sione do'utiana poteva non avere molto senso per i suoi colleghi monitori. Un uovo fertile va a fondo. «Non importa. Do Tor, cosa sai di quei Kleth che sono morti, Ko Kor e Sha Ton?» «Oltre al fatto che sono delle vittime, non molto. Evidentemente sono morti accidentali, che derivano dall'attacco al progetto.» «Se i Kleth sono compagni fin dall'inizio, non dovrebbero essere nati nello stesso periodo? E nella stessa stagione?» «Oh, sì» rispose Go Ton. «La cresta di Sha Ton aveva delle tacche, ma quella di Ko Kor era liscia» osservò Drin. «Il che implica che non erano nati nello stesso periodo o luogo, perciò non erano compagni di nido. Ma erano registrati come compagni di nido. Perché? E l'una ha seguito l'altro nella morte, come una compagna di nido. Perché?» Le teste dei due Kleth scattarono all'unisono e lo fissarono. Gli occhi di Go Ton incontrarono quelli del suo compagno. «Hai visto ciò che noi non siamo riusciti a vedere» disse infine Do Tor in un tono umile e formale, e in un inglese dalla proprietà di linguaggio che Drin non sapeva che i Kleth potessero raggiungere. «Non ci avremmo mai fatto attenzione, a causa della nostra paura e del nostro rifiuto nei confronti di quei pochi che non dividono con noi la nostra colpa primigenia. Faremo dei controlli, ma i documenti sono estremamente privati, per cui avremo bisogno dell'approvazione del Consiglio.» «Oh, sì» interloquì Go Ton, a voce molto bassa, contrariamente al solito. «Monitori» tuonò Drin «io credo che il marito e la sorella di Sha Ton si trovino al sicuro su Trimus, così come il fratello e la moglie di Ko Kor. In quanto appartenenti a un trio erano facilmente sacrificabili, perché potevano morire senza uccidere nessun altro, o continuare a vivere se l'uno o l'altro fosse morto.» «Oh, sì» aggiunse Go Ton. «E il complotto avrebbe conservato il loro piccolo sordido segreto, se loro non avessero tradito il complotto. Era troppo perverso perché io, una Kleth, potessi pensarci. Ma Drin, attento e sospettoso, aveva potuto notare la differenza tra le creste. Il resto è razionale.» «Va bene, lo sapevo cos'erano, eravamo tutti coinvolti nella cosa» ammise Soames, aggiungendo: «Pensavo di riuscire a salvarla prima che qualsiasi cosa fosse ciò che stava accadendo facesse saltare gli esplosivi». Do Tor alzò leggermente le ali, un segno Kleth d'irritazione. «Ma non voleva essere salvata» affermò Do Tor. «Aveva qualcosa di più
importante da fare.» «Le gabbie» disse Mary alla fine. «Canis lupus, grosso, grigio e affamato. Ursus middendorfis. Naturalmente ci dovevano essere dei biologi in questa faccenda: lupi, orsi, squali, tutti sovradimensionati, e nessuno di loro faceva parte del piano di bioformazione ufficiale. E le reti?» chiese Mary. «Qualcosa per nascondere le prove?» «Credo che stiamo dando troppo credito a Soames» disse Do Tor nel tono basso e sonoro che indicava il disprezzo nei Kleth. «Non sapeva delle reti, era all'aperto quando sono cadute. La testa poteva essere la sua. Se sapeva che Ko Kor non stava andando a morire per il suo compagno, sapeva per che cosa stava rischiando la vita. Quindi è per quello che ha cercato di fermarla.» «Accidenti a te, stavo cercando di salvarle la vita, cervello d'uccello!» «Monitori, ricordate. Questi sono criminali! Hanno tradito lo Statuto, hanno tradito il Consiglio, si sono anche traditi a vicenda. Gli squali tengono lontani i primitivisti do'utiani, i lupi e gli orsi gli umani. E il mondo resta ai Kleth. Sha Ton è stato un ribelle per tutta la vita, e credo che volesse un mondo sicuro per i trii Kleth. Soames, tu volevi un mondo per gli umani, senza i do'utiani -perciò hai deciso di mettere una bomba dove c'erano i cuccioli di lupi e orsi. Ma sono arrivate le reti e Ko Kor li ha salvati per i suoi compagni rimasti su Trimus prima che l'incendio causato dalle componenti elettriche facesse saltare gli esplosivi - se non l'ha causato lei stessa per salvare il complotto e così non si scoprisse l'esistenza dei due trii. In un certo senso la sua morte ha portato a compimento quel destino che aveva eluso da pulcino, e forse anche lei l'ha vista così. Inoltre, gli uccelli della Terra, per massa unitaria, hanno i cervelli migliori in tutto l'inesplicabile Universo. Complimento accettato.» E meritato, Do Tor, pensò Drin. Ma se davvero Soames non aveva nulla a che fare con le reti, erano state un fatto accidentale? Una carta incontrollata del fato? O qualcuno su Trimus ne era al corrente, qualcuno abbastanza in alto da nascondere quella conoscenza e servirsene? Noi che abbiamo fondato Trimus avevamo un grande rispetto per il passato e per le nostre nature. Forse si trattava di nostalgia, o amore per gli antenati, o l'esserci accorti di aver raggiunto un vicolo cieco nella ricerca finale dell'ingegneria genetica che potesse determinare ogni cosa. Se saremo abbastanza bravi, pensavamo, potremo dimostrare, con tre specie senzienti che vivono
insieme sotto un'unica legge, che molte di quelle alterazioni non erano necessarie; e che potevamo preservare molto più di quello che gli altri pensavano, eppure vivere in pace gli unì con gli altri. Sapevamo che avremmo dovuto lavorare per questo, ma esaltavamo la nostra comune capacità di agire con il prevalere della ragione sul sentimento. Nessuno pensava che sarebbe stato facile, ed eravamo orgogliosi di questa sfida tanto elevata. — Osservazioni di Go Zom sul Patto di Trimus. Con Aurum così vicino all'orizzonte, il cielo era di nuovo color rosso sangue. Non poteva essere soltanto il sole basso, pensò Drin. Ci doveva essere un bel po' di polvere nell'aria. «C'è un vulcano da qualche parte?» chiese a Mary mentre camminavano verso il fiume. Lei rise. «Una specie. Drin, i tipi come te proprio non ci pensano alle conseguenze perché nella maggior parte dei casi sono troppo grossi per subire normalmente le conseguenze.» "Conseguenze?" Cosa intendeva... oh. «Capisco. La polvere viene dal fondo del mare a causa dell'esplosione dell'astronave? Pensaci, quali sarebbero state le conseguenze se non avessi dato luogo a un'esplosione controllata?» Mary sembrava ridacchiare e singhiozzare allo stesso tempo. «Controllata?» «Be'...» «Drin, a volte tu proprio non riesci a valutare bene le cose secondo le mie proporzioni.» Avevano raggiunto la ruota del generatore. Drin si muoveva molto lentamente, adesso, e guardava il fiume al di sotto della ruota. C'erano dei pesci nella rete di Do Tor, sperava. Doveva recuperare le forze, o l'infinità davanti a loro avrebbe potuto non durare un altro giorno. La missione. Drin esaminò il trasmettitore: il suo cavo di collegamento, che era stato inserito nel modem distrutto nella caverna, era un connettore standard. Aveva difficoltà a capire: erano fonti di energia standard? Se non lo erano, avrebbero dovuto esserlo. «Credo che se riuscissimo a collegare il generatore direttamente al trasmettitore saremmo in grado di inviare un segnale digitale. Acceso e spento, interrompendo il collegamento.» Mary gli diede un buffetto. «Torno a recuperare un connettore, così po-
tremo collegarli. Nel frattempo, vuoi mangiare qualcosa?» «Se è qualcosa che mi nuota in bocca. Il che non è improbabile, se mi metto nel posto giusto.» Spalancò il rostro a imitazione di una caverna, con la lingua e le sue estremità come esca. Mary rise, poi si avviò. Drin si diresse verso l'acqua e ci entrò. Sentì un momento di benessere quando il peso lasciò gli arti inferiori. Liberato da quell'esigenza nei confronti delle sue energie residue, il corpo di Drin permise un maggior afflusso di sangue alla testa. Gli faceva ancora male la schiena, ma i giorni trascorsi a terra gli avevano permesso di non impegnare quei muscoli. Mentre recalcitravano, pochi facili movimenti cominciarono a riscaldarli un po', e ciò che era sembrato così devastante sette giorni trimusiani prima, adesso sembrava una sciocchezza. Si lasciò portare dalla corrente. Cacciò. Mangiò. L'odore del lupo colpì Drin appena si trascinò fuori dall'acqua vicino al trasmettitore. Non sentiva più quella bella sensazione. I muscoli affamati di proteine ardevano per il dolore provocato dal carico che era stato loro imposto di nuovo. Avrebbe dovuto restare nell'acqua per un altro giorno o due, ma il dovere lo chiamava. Si guardò in giro. Una grossa roccia, alta forse un ottavo di unità, spuntava dalla sabbia a circa due terzi della distanza dalla caverna al fiume. I lupi ringhiavano lì intorno. Di tanto in tanto l'estremità di un ramo di un grosso albero oscillava sulla roccia. Mary? Drin estrasse la pistola dal marsupio, e sentì un ronzio d'avvertimento assieme al normale segnale di attivazione: restavano soltanto dieci colpi. Attivò il dispositivo di comunicazione e recepì il segnale di avviamento. Profanazione! Non l'aveva più riacceso dopo la ricarica... troppo preso da altri pensieri per controllare. Fu pronto a funzionare, con i controlli completati in meno di un battito, ma questo non poteva cambiare il passato. «Mary, sono tornato. Ci sei tu in mezzo ai lupi?» «Drin» la voce le tremava «Drin, ho finito i colpi, ma loro non lo sanno, perciò sono guardinghi.» «Cercherò di arrivare fino a te, ma riesco appena a muovermi.» «Non oso correre da te. Se appena mostro di aver paura mi saranno subito addosso.» «Dove sono i Kleth?» «Go Ton è andata a cercarti. Do Tor sta sorvegliando Soames. Eravamo preoccupati.»
«Mi dispiace. Il mio dispositivo di comunicazione si stava ancora ricaricando. Do Tor, lascia perdere Soames, ci serve potenza di fuoco.» Ma fu la voce di Soames a rispondere. «È troppo tardi perché Do Tor mi lasci perdere. E se Go Ton cerca di venirgli in soccorso gli faccio saltare la testa.» Profanazione! Cos'era successo là dentro? Per lo meno Go Ton era ancora viva, o così pareva. Sarebbe stato meglio lasciare quel problema a lei, quando fosse tornata. «Arrivo, Mary. Non molto in fretta, ma credo di farcela.» «D'accordo» rispose lei. Drin vide il bastone abbattersi e udì un guaito. Sentì un battito d'ali al di sopra, cacciò fuori la lingua e fece il segnale che per i monitori significava silenzio. Go Ton si posò poco più avanti di lui. «Ricevuto, Tenente» disse. «Carica. Dovrai portarlo. Buona caccia.» «Caricato. Ingresso principale, a tutta velocità. Buona caccia, Drin.» La Kleth si levò in volo e guadagnò quota rapidamente. A otto unità Statuto d'altitudine si piegò, picchiò sui lupi che circondavano Mary facendone scappare uno, che guaì, poi si diresse verso l'ingresso della caverna a una velocità che soltanto le reazioni Kleth potevano controllare. Nel frattempo Drin si era avvicinato abbastanza da sparare sui lupi. «Mary, sono a tiro. Riesci a correre?» «Come un cervo. Naturalmente non sarebbe che un invito a colazione per questi qua.» «Se riesci a muoverti a spirale verso di me, invece di correre dritta, dovresti rimanere fuori dalla linea di tiro e permettermi di sparare più agevolmente.» «Va bene. Salutami mamma.» Lei, realizzò Drin, non si aspettava lo stesso di farcela. «Mary Pierce. Per quel che può valere, anch'io ti voglio bene. Adesso corri, finché riesco a stare in piedi.» Il bastone si abbatté ancora, e questa volta Drin udì un ringhio. Poi Mary si lanciò di corsa da dietro il lato sinistro della roccia. Tre lupi le tenevano dietro. In una frazione di battito Drin sparò un colpo, e uno cadde. Ma gli altri non sembrarono farci caso. Sparò ancora e ne cadde un secondo, ma il terzo balzò sulle gambe di Mary. Si prese una scarpa in faccia, e una pallottola prima che potesse ripren-
dersi. Altri quattro lupi balzarono sui corpi dei caduti. Drin premette il pulsante, e partirono altri cinque colpi prima che lo rilasciasse. Tre lupi furono abbattuti, uno dei quali inciampò sugli altri due e fu raggiunto da altri quattro. A Drin restavano solo due pallottole. Un ruggito di frustrazione gli uscì dalla gola mentre ne sparava una, cogliendo un lupo a metà di un balzo verso Mary. Troppo vicino: la pallottola avrebbe potuto colpire lei altrettanto facilmente. I lupi si fermarono fissandolo. Ruggì di nuovo, questa volta mettendoci un po' di rabbia, e si fece avanti. Uno di loro guaì, e tutti arretrarono disordinatamente, annusando i loro morti. Mary gli si avvicinò di circa tre unità Statuto prima che i lupi si rendessero conto che Drin non stava per attaccarli. Quindi la rincorsero di nuovo. Cercò di correre più veloce, ma incespicò, dibattendosi nella soffice sabbia bagnata. Drin si mosse lentamente e dolorosamente in avanti, anche se era troppo lontano. All'improvviso, senza ragione apparente, uno dei lupi emise un ringhio acuto e cominciò a mordersi una delle zampe posteriori, come se cercasse di staccarla del tutto. Quel lamento attirò l'attenzione degli altri, che si assieparono guaendo e annusando i corpi dei compagni. Qualcosa sibilò nella sabbia accanto a Drin. «Mary, le RETI!» La parte anteriore della testa di un lupo cadde per terra, lasciando al suo posto un orrore ululante che sprizzava sangue. La pietà spinse Drin a usare l'ultima pallottola, mentre Mary lo raggiungeva. «Mettiti sotto di me» disse, e si girò verso il fiume. Le sue ghiandole di combattimento e fuga lavoravano a pieno regime, ma non avevano quasi nulla su cui operare: i muscoli bruciavano il proprio tessuto, lentamente. Sentì una puntura maligna sulla schiena. Mary si arrampicò sotto la sua testa. L'acqua era lontana otto unità Statuto al quadrato. L'antenna, con il suo reticolo, ironica rappresentazione di ciò che stava cadendo su di loro, era a sei ottave. La missione. Dovevano cercare di salvarla, con il trasmettitore e il generatore. La punta della coda gli bruciava. Amputata. «Mary, da dove vengono queste cose profananti?» gemette mentre avanzava barcollando.
Era una domanda retorica, ma con sua sorpresa lei rispose. «Non da Trimus, crediamo. Do Tor ha sezionato il nostro esemplare mentre non c'eri, con l'attrezzatura medica. Sembrano naturali, non progettate. Ma potrebbe essere che si voglia che noi lo crediamo.» Un'altra puntura sulla schiena. «Vengono disseminate? Come fanno a muoversi?» «Sono straordinariamente leggere, eppure molto più dense dell'aria. Non rifletterebbero la luce come vele ultraleggere se non ci fosse del materiale che bruciava tra le membrane per l'attrito della caduta.» Erano a quattro unità Statuto dalle apparecchiature. Una rete gli sfiorò un arto inferiore, tagliando in profondità. Quasi gli fece perdere l'equilibrio. «Attento, amico» disse Mary, con una calma forzata nella voce. «Oh, potrebbero riflettere le onde radio, proprio come la nostra antenna di rete. Finché i fotoni radio sono più grandi delle aperture nel reticolo.» Le onde radio, come tutte le altre onde elettromagnetiche, esercitavano una pressione, pensò Drin, e le reti erano molto leggere. E il loro reticolato era effettivamente quasi delle stesse dimensioni di quello della loro antenna. «Hai ancora i morsetti, Mary?» «Sì.» Avevano raggiunto le apparecchiature, e le reti non le avevano ancora colpite. «Sto pensando che potremmo farle levitare o deviarle, con l'energia sufficiente.» «Suona molto meglio che non farmi cercare di trasportare questa roba con un braccio solo. Cercherò di avviare il volano.» La prima intenzione di Drin fu che lui si sarebbe occupato del volano e Mary avrebbe effettuato i collegamenti. Ma lui aveva due mani disponibili all'estremità della lingua, e lei no. I cavi che arrivano fino alla caverna... avrebbe dovuto tagliarli di netto per inserirli nel morsetto, ma non aveva uno strumento adatto. Diede un'occhiata veloce attorno al macchinario in cerca di qualcosa che potesse usare. Non c'era nulla. Una rete sarebbe andata a pennello ma, ironia della sorte, non ce n'era una a portata di mano. O c'era? Nella sua schiena. Aprì il rostro e guardò la pistola. Aveva una canna di diamante, con una struttura perpendicolare all'estremità, per eventuali inserimenti. Si chinò e
guardò una delle ferite appena aperte, ci infilò la canna, scostò la carne, poi ci spinse la canna, la torse e la ritirò su. Faceva male, ma non abbastanza. Lo fece di nuovo, e questa volta fu ripagato dalla sensazione di subire un'operazione chirurgica, ma senza anestesia. Non riuscì a evitare di gemere per il dolore, ma quando ebbe finito poté vedere, scintillante nella luce arrossata dall'orizzonte del sorgente Aurum, il filo di una rete. Afferrò il cavo d'uscita, ne tirò a sé una quantità che sperava fosse sufficiente dalla direzione della caverna, lo ricoprì con la rete caduta e delicatamente la spinse avanti e indietro come una sega. La rete tagliò la guaina in fibra di vetro come una vibrolama dal taglio di diamante, poi ne infilò l'estremità recisa di netto nel morsetto. Un filo gli bruciò la cima della testa, scalfendo la zona sensibile attorno allo sfiatatoio. Tremando per la debolezza e il dolore, ripeté il procedimento sull'altro cavo. «Mary» gridò «allentalo!» La ruota cigolò, la spia luminosa del generatore si accese, la ruota accelerò. Drin cercava di pensare: energia, velocità della luce, la costante di To'ictillig, la pressione fotonica - tutto si annebbiò. Un filo sibilò nella sabbia bagnata dietro di lui. Si avvicinò al paraboloide e guardò in alto, verso il tetro cielo grigio. Aurum si affacciò di nuovo dal velo di nuvole e il suo bagliore dorato colse lo scintillio di un filo in alto sopra di lui. Arretrò, ma poi si accorse che sembrava scivolar via. Lo perse di vista, ma poi vide un leggero sbuffo di vapore dove doveva aver colpito la sabbia, a un'unità Statuto di distanza. Colse un altro leggero sbuffo un po' più in là. Uno colpì la ruota e sibilò. «Drin, credo che funzioni» urlò Mary sopra il rumore della ruota. «I fili ci evitano come se ci trovassimo dentro un qualche tipo di campo di forza.» Drin si sdraiò nella fresca sabbia bagnata e cominciò a respirare profondamente, inspirando a lungo, troppo esausto perfino per rispondere. Soames, Do Tor, Go Ton, le reti infilate nella sua pelle, e tutti gli altri problemi: perfino Mary scoloriva nel rilassamento. Al sicuro per il momento, il suo corpo lo rigenerava. Dopo un giorno Drin si sentiva molto meglio. Il pasto aveva svolto la sua funzione durante il riposo del corpo. I proiettili di Go Ton avevano facilmente sopraffatto Soames, sorpreso e lento nei movimenti, Mary sem-
brava di nuovo la stessa di sempre e Do Tor credeva di sapere cosa fossero le reti. «Il filo è costituito da un tubetto sottile in lega di diamante di sole poche migliaia di atomi di larghezza» disse. «Non esattamente monofibra, ma quando è molto caldo taglia quasi come se lo fosse.» «Oh, sì» aggiunse Go Ton mentre Drin borbottava la sua ironica accondiscendenza. «Alta temperatura ma non molto calore» continuò Do Tor. «Acqua, carne, legno bagnato e sabbia lo fermano in un doci o anche meno. Ma attraversa facilmente ossa, plastica, vetro e oggetti a struttura composita. Le reti ricevono, trasmettono o riflettono le onde radio con un discreto grado di efficienza, in funzione di ciò che fanno i nodi che collegano il tessuto. Può darsi che Ember sia abbastanza radio-riflettente da spingerle via, perciò non cadono su Trimus.» La caduta delle reti, ricordò Drin, si era verificata poche ore dopo l'uso dei mezzi di comunicazione ad alto potenziale d'energia. «Allora» rifletté «le morti non erano affatto dei crimini ma soltanto degli incidenti? Sembra troppo comodo.» «Non lo so se sono artificiali o naturali, ma cercano le fonti radio di miniunità - quelle che usiamo noi. Potrebbero venire attratte intenzionalmente.» «Da chi?» chiese Drin. Ma stava diventando fin troppo chiaro. Tutti i fili avevano un legame comune, uno che voleva respingere, che non avrebbe osato esprimere a parole. Prima che qualcuno potesse rispondere alla sua domanda il segnale acustico del dispositivo di comunicazione di Mary richiamò la loro attenzione. Chi poteva essere? «Salve. Qui Mary Pierce, parlate pure.» «Qui è l'astronave Patto di Trimus, in avvicinamento. Parla il Capitano Loren. Dovreste vederci tra breve a ovest. Abbiamo una squadra ecologica a bordo, con il Consigliere Olsen e Gori'allolub.» All'omissione del titolo di Gori'allolub il rostro di Drin affondò nella sabbia. Che gli altri l'avessero compreso o meno, questo gli aveva fatto capire immediatamente che i suoi peggiori timori avevano trovato conferma. Avrebbe quasi preferito non essere salvato. Prima videro l'astronave, una goccia minuscola sullo sfondo delle nuvole grigie. Poi un unico forte boato sonico riecheggiò dai coni dei vulcani vicini. Una scia seguì al boato, e infine un crepitio scrosciante mentre i mo-
tori dell'astronave aumentavano al massimo l'azione frenante, permettendole di posarsi delicatamente sul mare in una nuvola di schizzi, oltre l'imboccatura del fiume. Macrovirus è un nome applicato a vari autoreplicanti che, pur mancando di qualsiasi cosa che le persone colte riconoscerebbero come intelligenza o capacità di comunicare idee astratte, tuttavia hanno acquisito la capacità di viaggiare tra le stelle e nutrirsi. Si sa che cinque di loro si stanno diffondendo in questa parte della Via Lattea, e che solo una rappresenta una minaccia significativa per una popolazione preparata. Ma, sorprendentemente, sono tutte pericolose. — Dal Manuale del Monitore Planetario, Sezione ExtraTrimus. Il grande do'utiano, Gori'allolub, non abbassò il rostro, e si presentò con l'atteggiamento di un signore della spiaggia. Il che, pensò Drin, costituiva un contrasto memorabile con le circostanze del suo discorso. Tristemente Drin abbassò la testa mentre Gori'allolub parlava. «Così, devo assumermene la piena responsabilità e chiedere un trattamento mite per Theric Soames. Credo, e continuo a credere, che il trasporto su Aurum III semplicemente ritardi l'affrontamento del problema da parte nostra e sacrifichi inutilmente un intero mondo. Fare questo in modo che andasse in direzione del rafforzamento del Patto richiedeva il rischio della vita da parte di persone devote, affinché il nostro sistema di rete non fosse scoperto prima che fosse troppo tardi. Ora devo fare ammenda e sforzarmi di fare qualcosa che permetta di affrontare il problema in futuro in conformità con i desideri della maggioranza del Consiglio compresa la mia più intima amica che ho ingiustamente tratto in inganno.» «Sono morti due Kleth, anche se appartenevano a un trio» disse Go Ton minaccioso, arrabbiato come mai Drin l'aveva visto. «Gori'allolub si è dimesso dal Consiglio» aggiunse il Consigliere Karen Olsen, esitante, così almeno pareva a Drin «per assumere l'incarico di dirigere l'opera di riprogettazione biologica. Anche se ho sostenuto il reinsediamento, avrei dovuto comprendere la profondità della sua opposizione e fare di più per realizzare un vero compromesso. Perciò mi assumo una parte della responsabilità e resterò qui con lui finché il lavoro sarà portato a termine.»
Si sforzò di fare un sorriso teso, e in quel momento la sua somiglianza con Mary fece trasalire Drin. La più intima amica, aveva detto Gori'allolub, eppure contrapposti su una difficile questione politica... era possibile? Il rostro di Drin si aprì per sentire il sapore del vento - come se avesse potuto trovarci una risposta. E c'era uno strano odore di Terra in Gori'allolub. «Adesso passiamo a cose più piacevoli.» Karen Olsen accennò a Drin. «C'è un seggio do'utiano scoperto nel Consiglio. I membri Kleth e Umani hanno votato la nomina del Tenente dei Monitori Drinnil'ib. Credo che ci siano poche possibilità che i membri do'utiani pongano un veto a questa nomina.» «Cosa?!» proruppe Drin, subito riprendendo il controllo, e toccò Karen Olsen con il rostro. «Voglio dire, sono onorato. Ma la politica? Non sono abituato a nuotare in quelle acque.» Il Consigliere rise. «Nessuno di noi lo è, all'inizio. Ma lei ha la dedizione necessaria al Trattato e allo Statuto di Trimus, un'istruzione di molto superiore alla media, e un seguito popolare considerevole, grazie ai suoi, come dire, exploit.» «Oh, sì» trillarono sia Do Tor che Go Ton. Drin affondò il muso nella sabbia di quasi un doci, cercando di pensare a qualcosa da dire. Do Tor lo tolse dall'imbarazzo. «Mi scusi. Suppongo che le reti non siano più un pericolo, ma mi piacerebbe avere qualcosa di più che delle supposizioni.» Oh, sì, pensò Drin. Karen Olsen annuì. «Assolutamente nessun pericolo. Abbiamo visto dai nostri satelliti ciò che avete fatto, e abbiamo fatto deviare verso Aurum II il flusso dell'amplificatore di microonde di comunicazione orbitale di Aurum III.» «Perché sono qui?» chiese Drin. «Un macrovirus, lo so. Ma l'uso di questo termine non spiega nulla.» «Crediamo che le reti siano state attirate inizialmente dal rumore elettronico al principio dell'attività di bioformazione, quasi un macroanno fa. Purtroppo uno scienziato legato all'opposizione al reinsediamento ha scoperto le reti, vedendo in loro un modo per nascondere le tracce del complotto. Hanno tenuto segrete le reti e hanno usato i satelliti di Aurum III per attirarle qui.» «Sapendo che Ko Kor, Sha Ton e io saremmo rimasti uccisi?» piagnuco-
lò Soames. «I sacrifici sono degli oneri necessari del dovere» disse Gori'allolub. «Ha scelto lei di rischiare.» «E la nostra indagine?» chiese Mary con calma. Drin avvertì l'incomprensione nella sua voce. «Ci aspettavamo» affermò Gori'allolub «che foste ostacolati, che scopriste la minaccia esterna troppo tardi, ma non il complotto né che riusciste a contrastare l'una e l'altra minaccia tanto efficacemente. Ho malamente sottovalutato le sue capacità, Drinnil'ib» aggiunse Gori'allolub. E questa volta inclinò leggermente il muso. «Che tutti e quattro riusciste a sopravvivere al sabotaggio, a tre piogge di reti e a due perdite nei contenitori di antimateria, va al di là di ogni ragionevole previsione.» Il tono dell'osservazione di Gori'allolub dava l'impressione che Drin avesse fatto un cattivo servizio a Trimus restando in vita. Trasalendo, si rese conto che doveva essere proprio questa la sensazione di Gori'allolub, e che, sotto la dovuta disciplina, l'ex-consigliere non aveva un odore dissimile da quello di un maschio scacciato dal suo harem. «Non credevo di arrecarle un danno personale» sibilò Drin educatamente. «Lei mi ha incaricato di scoprire la verità.» «Le ho chiesto di calmare le acque agitate, non di intorbidirle» ringhiò Gori'allolub. «Adesso, devo chiedere scusa per essermi messo al di sopra del Consiglio. Come sono certo che sappiate, l'esilio è una misura insufficiente per chi ha causato delle morti inutili.» «Gori'allolub?» chiamò Karen Olsen. Gori'allolub voleva spingere Drin a un combattimento da spiaggia? Con la sua debolezza attuale Drin avrebbe certamente perso, e il grosso do'utiano avrebbe potuto eliminare gli altri "accidentalmente"! Era questo che non andava nell'odore dell'altro? Aveva assunto delle sostanze chimiche allo scopo di dissimulare una tale sfida fino a che non sarebbe stato troppo tardi? «C'è solo una misura sufficiente.» «No» protestò Karen Olsen. «Il tempo cura ogni ferita del genere.» «Silenzio» disse aspramente Gori'allolub. C'era aria di sfida, ma Drin si costrinse a tenere il rostro abbassato. «Non combatterò con lei, signore» affermò Drin, ricacciando indietro il proprio istinto di sfida. «Non diventi troppo umano, nuovo Consigliere» sibilò Gori'allolub «o perderà il sostegno della gente. Pensi a Trimus come a un treppiedi, non
come a una sfera con tre aree colorate identiche, e sarà molto meglio. No, non è l'odore dissimulato della sfida quello che sente. Ho ingerito delle sostanze chimiche che sterilizzeranno qualsiasi squalo che mangi la mia carne. Karen, se ho mancato nei tuoi confronti l'ho fatto in virtù di una fedeltà più alta, proprio come tu mi hai fatto mancare il tuo appoggio in Consiglio in virtù di una fedeltà più alta. E così il nostro divertimento è stato inutile. Adesso sto per andare a fare una nuotata con gli squali che ho aiutato a portare in questo mondo.» Con queste parole, Gori'allolub si voltò e cominciò a camminare in maniera misurata, dignitosa, verso il fiume. «Gori'allolub» urlò Karen Olsen. «No. Non hai bisogno del Consiglio. Ti amerò qui, ti darò la felicità. Possiamo ancora nuotare insieme. Gori'allolub, tu sei la mia vita!» Mary fissò la madre a bocca aperta. Drin chinò la testa. Allora lo stesso Gori'allolub si era lasciato trasportare da quelle stesse strane correnti che tentavano Drin. Quanto poco conosceva il grande personaggio, in realtà. Ma sapeva questo: ormai soltanto il balsamo del sacrificio più terribile avrebbe consentito all'orgoglio di Gori'allolub di placarsi. «Non ha altra scelta» disse Drin rapidamente a Karen Olsen «per essere ancora un do'utiano e onorare il suo impegno per Trimus. La provvidenza pone termine a ogni vita alla fine. Lo lasci andare, adesso, per saldare il conto.» «Dov'è la sua cassetta dei medicinali?» chiese in fretta Karen Olsen a Go Ton. «Mi faccia vedere gli anestetici.» Go Ton tenne aperta la cassetta e le indicò la fila. C'erano siringhe ipodermiche e fiale per la pistola a dardi. Karen ne prese una la cui etichetta recitava: "Do'utiano, Maschio". «Mary, dammi la pistola.» Mary le obbedì. Drin comprese e non fece nulla per impedirglielo - non faceva nessuna differenza per l'onore di Gori'allolub se qualcuno gli avesse iniettato dell'anestetico. Karen caricò la pistola e la restituì a Mary. «Sai quello che devi fare, Monitore. Spara.» Mary la puntò verso il collo del do'utiano. La luce di segnalazione lampeggiò e lei sparò. Il dardo seppe farsi strada in quella stessa zona sottile della pelle che aveva provocato tanto dolore a Drin per la ferita dell'orso. Gori'allolub l'ignorò, ma adesso sarebbe stato in grado di assistere al proprio smembramento libero dalla distrazione del dolore. Mary si rivolse a sua madre.
«Mamma, ti capisco. Volevo dirti che stavo pensando di avere lo stesso tipo di relazione con Drin. Davvero non capisco l'attrazione che provo. Ma è qualcosa di veramente fondamentale. Non mi fa star male. E credo di potermene occupare. E lasciar perdere, se devo.» Il Consigliere Karen Olsen annuì e rise in un modo con il quale Drin non aveva familiarità. In un tono più alto, era una sensazione diversa. «Dopo cinque secoli, Mary? Credi di potertene occupare? Allora considera questo.» Prese una fiala ipodermica dalla cassetta aperta. Drin poté leggerne l'etichetta: anestetico generale, umano. «Era una perversione veramente molto bella, e per me non è affatto finita.» S'infilò la siringa nel braccio. «Aspetta, Gori. C'è solo la mia vita in gioco adesso, e non ti lascerò.» Il grosso do'utiano esitò solo per un momento, poi riprese la sua marcia verso il mare, gli squali e la sua fine. Drin comprese. Il vecchio stava lasciandosi alle spalle tutte le cose di Trimus, compresa Karen Olsen, come un maschio sconfitto lascia il suo harem a un altro senza guardarsi indietro. Avrebbe detto qualcosa? «Mamma» gridò Mary «non sei una femmina di un harem né la compagna di un Kleth! Gli esseri umani non fanno così. Come possiamo rispettare le loro identità se non rispettiamo la nostra?» «Tu non sai niente, bambina» disse seccamente Karen Olsen, e senza dire altro corse dietro a Gori'allolub. Si trattava di una vita contro una reputazione, e Drin non riuscì a restare in silenzio. «Consigliere Olsen, si è servito di lei. Si è servito di lei per avere i codici di Mary per cercare di mettere in pericolo le nostre vite. Ha usato le sue comunicazioni con lei per mandare le reti contro di noi, per due volte. Non merita questa fedeltà!» A queste parole Gori'allolub si girò ruggendo di rabbia. Il Consigliere Olsen si fermò e si allontanò dai due maschi do'utiani. I cuori di Drin cominciarono a pompare con forza per il combattimento, e lui fece un passo avanti. Così sarebbero morti entrambi. Allora, con la lenta maestosità di un vincitore di una dura lotta con se stesso, Gori'allolub si girò di nuovo verso il mare. Karen Olsen guardò Mary, scosse la testa e si avviò di nuovo dietro a Gori'allolub. «No!» urlò Mary, correndo dietro il Consigliere. Drin vide che Karen Olsen era troppo avanti per poter essere raggiunta dalla figlia. Ma non da Drin. Lanciò la lingua alla sua massima estensione e riuscì appena ad avvolgerne entrambe le estremità attorno alla umana che corre-
va, la quale lottò brevemente, poi crollò singhiozzando nella sua presa mentre Mary correva da lei. E con quel gesto, che avrebbe ricordato per l'eternità che gli stava davanti, il Consigliere in pectore Drinnil'ib attraversò il confine che divide chi sostiene le scelte compiute da altri da chi compie tali scelte per loro. Decise che avrebbe cercato di farlo responsabilmente e ragionevolmente, per Mary, per Do Tor e Go Ton e per tutti i trimusiani che seguivano il cammino da lui tracciato. Titolo originale: Network Analog Science Fiction/Fact, February 1994 LA GUERRA DI SAM di Ben Bova Come Juanita incontrò l'amore e salvò la patria, grazie a un gringo riparatore di satelliti Lo so, è difficile credere che, tra tutti, proprio Sam Gunn abbia salvato la civiltà così come la conosciamo. Eppure il piccolo gringo sciovinista lo ha fatto sul serio. Per quanto non gliene sia stato mai riconosciuto il merito. Ma gli è andata anche bene. Dopo tutto, ero io la persona incaricata di ucciderlo. Non che io sia un'assassina professionista, intendiamoci. La figlia del Presidente non può essere considerata alla stessa stregua di un criminale qualsiasi. Si trattò piuttosto di una chiamata dall'alto: onore nazionale, patriottismo, amore per il mio popolo e per mio padre. Soprattutto, amore per mio padre. L'Ecuador era, ed è tuttora, una democrazia. Il mio amato genitore era, purtroppo non lo è più, il presidente. Soprattutto dovete sapere che l'Ecuador era, ed è sempre stata, una tra le nazioni più povere della Terra. Sì, però avevamo qualcosa di inestimabile valore. O almeno ne avevamo una parte. O, ancor meno, ne rivendicavamo la proprietà di una parte. L'equatore passa attraverso il nostro nobile paese. Il nome stesso della nostra nazione è "equatoriale". Una linea immaginaria, direte. Ma non
completamente immaginaria. Infatti al di sopra dell'equatore, a circa trentacinquemila chilometri, si trova la sola regione dello spazio in cui i satelliti possono essere fatti entrare in orbite stazionarie. La gente dello spazio la chiama "orbita geostazionaria", o più comunemente GEO. Un satellite in GEO ruota intorno alla Terra esattamente nelle stesse ventitré ore, cinquantasei minuti e una manciata di secondi in cui la Terra compie una rivoluzione. Quindi se si guardasse un satellite posto in GEO lo si vedrebbe gravitare in un punto fisso sopra l'equatore. I satelliti per le comunicazioni sono posti in GEO di modo che le antenne sulla Terra possano facilmente puntare su di loro, perché non vagano nello spazio come i satelliti che si trovano a una maggiore o minore latitudine. È stata la genialità di mio padre a comprendere quale fosse il valore dell'equatore. È stato anche il suo triste destino avere Sam Gunn come nemesi. «I gringos e gli europei si arricchiscono con i loro satelliti» disse mio padre alle altre undici delegazioni presenti all'assemblea. «E anche i giapponesi» aggiunse il rappresentante dello Zaire. «Esatto.» Come ospite di questa assemblea delle Dodici Nazioni Equatoriali, mio padre si trovava a capo del lustro tavolo da conferenze e fu lui che diede inizio al dibattito con un discorso introduttivo. La sua figura appariva maestosa nell'uniforme azzurro cielo da generale che aveva scelto di indossare per l'occasione. Le zeppe dei suoi stivali luccicanti lo facevano sembrare quasi alto. Le spalle della giacca dell'uniforme erano ampie e imbottite, le medaglie che gli brillavano sul petto facevano una certa impressione anche se erano decorazioni di cui si era onorato da solo. Per molto tempo si era scurito i capelli, che però ora si erano notevolmente diradati. Si era rivolto a diversi specialisti del Nord America, dell'Europa e persino della Cina, e tutti si erano espressi unanimemente consigliandogli un'operazione di impiantologia per rimpiazzare le perdite. Mio padre era per molti aspetti un uomo coraggioso, ma il pensiero di dover provare dolore fisico lo rendeva esitante. Così appariva, mentre presiedeva la conferenza dei delegati, con un'attaccatura piuttosto arretrata. Personalmente, pensavo che quella fronte alta gli desse un'aria più interessante, più da intellettuale. Ma lui rimpiangeva ancora la folta criniera leonina di quando era più giovane. Per due anni mio padre aveva dedicato la maggior parte del suo tempo a lavorare, a perorare, ad adulare, il tutto allo scopo di riunire questi dodici
delegati. Essi avevano aderito malvolentieri e con una certa riluttanza. Almeno così mi era sembrato. A ogni modo, aderirono. Ci sarebbe stato molto da guadagnare se fossimo riusciti a controllare l'orbita geostazionaria. Io ero presente all'assemblea in veste di segretaria personale di mio padre, e sedevo contro il muro di fianco alla sua figura imponente, insieme con gli altri segretari, aiuti e guardie del corpo. I delegati erano dei più vari colori e taglie: il poderoso ugandese aveva la pelle così nera da sembrare quasi che brillasse; il brasiliano aveva l'aspetto di una persona dinamica e raffinata nel suo completo di seta bianca; il rappresentante del Kiribati dai capelli d'argento indossava una tunica colorata tipica degli atolli del Pacifico. Si sarebbe potuto sostenere che questi dodici sembravano davvero rappresentare l'intera razza umana in tutta la sua varietà, se non si considerava il fatto che erano tutti uomini. Io ero l'unica donna presente. Neanche tra i portaborse c'erano altre donne. Benché l'Ecuador fosse una nazione povera, mio padre non aveva badato a spese per allestire questa conferenza. La tavola era sontuosamente apparecchiata con caraffe di vino e liquori, vassoi di caviale del Caspio e di manzo argentino. Il popolo può essere povero, diceva spesso mio padre, ma il presidente deve elevarsi al di sopra della loro penuria. Dopo tutto, a che cosa servivano le tasse? Quei miserabili rivoluzionari annidati sulle montagne giurarono di porre fine all'ostentazione che mio padre faceva della ricchezza, e nelle città i giornalisti più velenosi coniarono degli slogan contro di lui, ma il popolo accettava il suo presidente nello stesso modo in cui aveva sempre accettato le forze della natura sulle quali non aveva alcun tipo di controllo. La voce di mio padre tuonava, facendo vibrare il vino nelle caraffe di cristallo: «Le società dell'emisfero settentrionale usano il "nostro" territorio e non ci danno niente in cambio. Imperialismo! Di questo si tratta, nient'altro che di imperialismo allo stato puro!» I rappresentanti applaudirono. Da quanto avevo potuto vedere, il suo discorso li aveva scossi. Erano tutti d'accordo con mio padre. Le multinazionali ricche e potenti si erano impadronite di qualcosa che noi volevamo per noi stessi. Ma l'indonesiano, magro e scuro, con i suoi grandi occhi espressivi da bambino impaurito, dopo aver aspettato che l'applauso finisse, chiese gentilmente: «Ma che cosa possiamo fare al riguardo? Abbiamo provato diverse volte ad appellarci alle Nazioni Unite ed esse non hanno fatto un bel niente per noi».
«Godiamo di un diritto legale sull'orbita equatoriale» insistette il keniota, rivolgendosi agli astanti con tono da predicatore. «I nostri diritti territoriali sono stati violati.» Il brasiliano scosse la testa: «I diritti territoriali valgono solo entro l'atmosfera». I brasiliani avevano delle operazioni spaziali in corso, sebbene si lamentassero di non ricavarne alcun profitto. Secondo fonti non ufficiali i membri chiave del loro governo stavano travasando i guadagni nelle proprie tasche. «Di sicuro non è così!» replicò aspramente mio padre. «I diritti territoriali si estendono all'infinito.» Due terzi degli uomini che sedevano attorno al tavolo erano avvocati, perciò immediatamente si accese una discussione. Sapevo bene quanto loro quale fosse la situazione dal punto di vista legale. Storicamente, i diritti territoriali di una nazione si estendono dalle linee di confine fino all'infinito. Ma tali diritti caddero nel caos più assoluto una volta che i satelliti cominciarono a orbitare intorno alla Terra. I primi furono i russi nel 1957 con il loro Sputnik, che in pratica navigò sopra tutte le nazioni della Terra senza aver ottenuto il permesso da nessuna di esse. Nessuno avrebbe potuto abbattere quel primo satellite, così esso costituì di fatto un precedente. Ma ora le cose erano diverse: le armi antisatellite ora esistevano. È vero, le grandi nazioni si rifiutavano di venderle ai loro vicini più piccoli. Ma tali armi venivano costruite dalle multinazionali, ed esisteva il modo per ottenere da loro ciò che si voleva: il denaro. La voce possente di mio padre ruppe la babele dei conciliaboli. «All'inferno le questioni legali!» Queste parole stordirono i presenti, che caddero nel silenzio più totale. «Quando gli interessi vitali di una nazione vengono usurpati dagli stranieri, quando i diritti legali di una nazione finiscono calpestati sotto i tacchi degli imperialisti, quando la ricchezza di una nazione viene rubata al popolo e al suo capo prescelto, allora quella nazione deve difendersi e combattere con ogni mezzo a sua disposizione.» L'indonesiano era impallidito. «Ma lei sta parlando di guerra.» «Esattamente!» «Guerra?» fece eco l'ugandese, lasciando cadere lo sfilatino che stava mordicchiando. «Non abbiamo altra scelta» insistette mio padre. «Ma... una guerra?» squittì il magro e timido rappresentante delle Maldive. «Contro gli Stati Uniti? L'Europa? Il Giappone?»
Mio padre sorrise con aria di sfida. «No. Non contro ogni nazione. Dobbiamo far guerra alle società che stanno operando nello spazio.» Il brasiliano si passò il polpastrello tra i baffetti sottili. «Sarebbe possibile distruggere qualche satellite con gli ASAT.» Stava dunque dimostrando che non solo conosceva la situazione politica e militare, ma sapeva anche il gergo tecnico. «Provate a usare anche una sola arma anti-satellite e i caschi blu delle Nazioni Unite vi piomberanno addosso come angeli vendicatori» ammonì il delegato del Gabon. «Le stesse Nazioni Unite che si rifiutano di considerare la nostra richiesta di giustizia» incalzò mio padre. Il rappresentante colombiano sorrise con l'aria di chi sapeva il fatto suo. «Esistono molti modi di fare la guerra» disse. «Le questioni che riguardano lo spazio sono sempre estremamente delicate. Qualche bomba ben piazzata... ne esistono di veramente piccole, credetemi. Qualche assassinio politico di una certa importanza. Si potrebbe far ricadere la colpa sui musulmani o sugli ecologisti.» «O sulle femministe» sbottò l'indonesiano, mussulmano e fervente ecologista. Nella stanza ci fu uno scoppio generale di risa. «Giusto» disse mio padre. «Scegliamo una multinazionale e la sottomettiamo ai nostri voleri. Poi le altre seguiranno.» Perciò dichiarammo guerra a Sam Gunn. Mio padre non era pazzo. Dichiarare guerra - anche se si trattava di un tipo di conflitto limitato ad atti terroristici - a uno dei giganti delle società multinazionali sarebbe stato più che pericoloso, quasi suicida. Dopo tutto, una società come la Rockledge International aveva un bilancio operativo più grande del prodotto nazionale lordo di molte delle Dodici Nazioni. Le loro forze di sicurezza avrebbero schiacciato la maggior parte dei nostri eserciti. Ma la multinazionale di Sam Gunn, la VCI, era piccola e vulnerabile. Sembrava proprio il posto più giusto per cominciare. Così il nostro incontro si chiuse con un consenso unanime. Le Dodici Nazioni Equatoriali compilarono la Dichiarazione di Quito, proclamando che lo spazio al di sopra dell'equatore era parte del nostro territorio sovrano, e che intendevamo difenderlo contro gli invasori stranieri allo stesso modo in cui avremmo difeso il suolo sacro delle nostre patrie rispettive. La Dichiarazione fu accolta con un fervore quasi isterico in tutta l'America Latina. In Ecuador, perfino i rivoluzionari e i mezzi di comunicazione
lodarono mio padre, seppure con una certa diffidenza, per la sua temerarietà. A ogni modo, a nord del Rio Grande la Dichiarazione fu pressoché ignorata dai media, dal governo, e dalla popolazione. L'Europa e il Giappone la accolsero con la stessa freddezza. Il mio lungimirante genitore non si aspettava niente di più. Una settimana dopo l'incontro dei dodici mi disse, mentre stavamo cenando: «I gringos hanno scelto di ignorarci. Fanno come gli struzzi, credono che non considerandoci finiremo per desistere». «Quale sarà la tua prossima mossa, papà?» gli chiesi. Mi rivolse un sorriso paterno. «Non sarà mia la mossa, mia bellissima Juanita. La prossima mossa sarà tua.» Ero stordita. Lusingata. E un po' impaurita. Mio padre aveva scelto me per il difficile incarico di infiltrata alla VCI. Avevo studiato alla UCLA laureandomi in informatica, nonostante mio padre non facesse che lamentarsi che una figlia doveva dedicarsi a materie più femminili, come la nutrizione (che per lui significava cucinare). Ero comunque spinta dall'ardente desiderio di aiutare il mio popolo. Frequentai un rapido corso di spionaggio e sabotaggio dove il mio istruttore personale era niente meno che il direttore dei nostri servizi segreti in persona. «Devi stare molto attenta» mi disse mio padre alla fine del corso d'addestramento. «Lo sarò, papà» gli risposi. Stavamo facendo colazione nella veranda della residenza estiva in cui l'avevo raggiunto, alle pendici delle colline, dove l'aria era pulita e piacevolmente fresca. Mi guardò dritto negli occhi, mentre i suoi si inumidivano. «Mandare la mia unica bambina alla guerra, non è cosa facile, lo sai.» Queste parole non rispecchiavano esattamente la realtà dei fatti. Io ero la sua unica figlia legittima, ed era ovvio che egli avesse deciso di trattarmi come tale per un po'. «E poi» continuò «è mio dovere agire come il Presidente piuttosto che come un padre apprensivo.» «Capisco, papà.» «Diventerai un'eroina per il tuo popolo. Una nuova Mata Hari.» La vera Mata Hari era una sgualdrina ed era talmente mediocre come spia che fu colta in flagrante e giustiziata. Mi resi conto che mio padre non ne era al corrente. D'altronde era un politico, non uno studente di storia. Voltando la testa per guardare oltre il balcone verso le colline terrazzate, dove i peones stavano lavorando sodo nei campi di coca, mormorò: «Si
possono fare parecchi soldi con lo spazio». Si facevano parecchi soldi anche con la coca, a quanto ne sapevo. Ma finché il commercio della cocaina rimaneva illegale i soldi provenienti dal traffico non potevano essere versati nella tesoreria di stato. Mio padre doveva tenerseli per sé e la sua famiglia, malgrado il suo sincero desiderio di aiutare i peones indigenti che erano costretti a lavorare nei campi dall'alba al tramonto. I rivoluzionari confinati sulle colline lo accusavano di essere corrotto. Mi avevano riferito che erano ecologisti incalliti e che volevano fermare il disboscamento, l'uso delle mine e la coltivazione della cocaina, che in fondo procuravano alla nostra nazione quelle poche entrate. Mio padre vedeva nella confisca dell'orbita equatoriale un mezzo per fare entrare più soldi nella nostra nazione, soldi che a lui servivano disperatamente per corrompere i rivoluzionari - e vincere alle prossime elezioni. Si asciugò gli occhi col tovagliolo damascato, poi si alzò dal tavolo. Mi alzai anch'io. I domestici cominciarono a sparecchiare non appena ci spostammo, fianco a fianco, dalla veranda alla porta della grande casa antica, dove la limousine mi stava già aspettando. «Comportati da buon soldato, mia piccola» mi disse una volta raggiunta la porta d'ingresso. Il maggiordomo era lì con la mia valigia pronta. «Sii forte e coraggiosa.» «Farò del mio meglio, papà.» «Lo so.» Mi strinse in un abbraccio commosso, per niente imbarazzato dalle lacrime che gli sgorgavano dagli occhi o dal fatto che era talmente più basso di me che fui costretta a piegarmi quasi a metà per permettergli di baciarmi le guance. Anche i miei occhi erano umidi. Quando alla fine mi lasciò andare, mi incamminai rapidamente verso la limousine. Mentre il maggiordomo sistemava la valigia nel bagagliaio dell'auto, mi voltai verso mio padre attirando la sua attenzione, e gli rivolsi un saluto militare. Rispose al mio saluto, poi si voltò, come se fosse incapace di starmi a guardare mentre salivo nell'auto e mi allontanavo in direzione dell'aeroporto. Così partii per la guerra. All'inizio fui sorpresa del fatto che la società di Sam Gunn mi avesse assunto solo sulla base delle false credenziali universitarie che i servizi segreti di mio padre mi avevano procurato a nome di una persona fittizia inventata appositamente. Di certo, ne sapevo abbastanza di informatica per
essere accettata, almeno così speravo. Naturalmente, quelli della VCI non dovevano sapere che ero la figlia dell'uomo che aveva proclamato la Dichiarazione di Quito. Anche se ancora ignoravano la nostra Dichiarazione, mi dicevo, prima o poi ne sarebbero venuti a conoscenza. La VCI era un'organizzazione sorprendentemente piccola. Mi presentai al loro quartier generale di Orlando, un modesto edificio vicino al vasto complesso di Disney World. Dentro c'erano solo un paio di dozzine di impiegati, compreso il presidente della società, un tipo smilzo dai capelli argentei con un passato da astronauta di nome Spencer Johansen. «Chiamami Spence» mi disse quando lo incontrai, il primo giorno che ero alla VCI. Mi ero appena seduta alla scrivania del mio ufficio - in realtà niente di più di una specie di nicchia ricavata con tramezzi mobili di plastica che arrivavano all'altezza della spalla. Johansen entrò, sorridendo in modo affabile, e finì per sedersi disinvoltamente sull'angolo della mia scrivania nuda. Mi porse la mano che strinsi risolutamente. Devo premettere che, secondo i canoni convenzionali, sono considerata una ragazza piuttosto attraente. Il colore biondo miele dei capelli lo devo ai miei antenati castigliani. La mia figura è generosa. Mi è stato detto che i miei occhi sono profondi e splendenti come un cielo stellato. (Il giovane tenente che mi rivolse questo complimento fu immediatamente trasferito in un posto sperduto sulle Ande a combattere i rivoluzionari.) Dalle mie parti sono considerata piuttosto alta per essere una donna, benché molte nordamericane siano alte quanto me, o anche di più. Ciò nonostante, ero parecchio più bassa di Spence, che mi sembrava fosse alto almeno un metro e novanta. «Benvenuta a bordo» disse. Il suo sorriso era smagliante. «Grazie» risposi in inglese. «Sono contenta di essere qui.» Avevo lavorato sodo per perfezionare l'accento di Los Angeles che richiedeva la mia copertura. I suoi occhi erano di un azzurro che faceva pensare al colore del cielo della Scandinavia in estate. La sua espressione era sorridente, anche se avevo l'impressione che mi stesse mettendo alla prova, cercando di capire quali fossero i miei veri scopi. «Avevamo pensato di farla cominciare con un semplice lavoro di routine, ma abbiamo una piccola emergenza da risolvere, e siamo a corto di personale, come al solito.» Prima che potessi rispondere, continuò: «Lei sarebbe in grado di maneg-
giare un simulatore RV-17? E riprogrammarlo?» Annuii cautamente, domandandomi se si trattava di una vera emergenza o di una specie di prova. «Bene» disse Spence. «Scendiamo al reparto simulazioni.» Si diresse verso il punto in cui i tramezzi creavano un'apertura da cui si accedeva al mio cubicolo. Non esisteva una porta. Lo seguii, passo dopo passo, mentre si affrettava lungo il corridoio. Indossava una leggera camicia blu a maniche corte e dei jeans. Io portavo una semplice camicetta rosa salmone e dei comodi calzoncini sportivi color ruggine. Si voltò verso di me e sorrise: «Sa giocare a tennis?» «Un po'.» Avevo vinto tutti i tornei a cui avevo partecipato. La figlia del Presidente doveva vincere, ma pensai che sarebbe stato meglio non mettersi troppo in mostra con lui. «Come pensavo.» «Come?» «Non si sta certo dando delle arie» disse. «Non sono molti gli impiegati qui dentro che riescono a stare al passo con me.» «Sarei curiosa» dissi mentre stavamo entrando nel reparto simulazioni. Non era niente di più che una vasta stanza senza finestre, con un grande elaboratore centrale posto al centro e delle scrivanie con i terminali disposte tutt'intorno. In ciascuno dei quattro angoli della stanza c'era soltanto una sedia di plastica di poco valore. Su una di queste sedie era seduto un uomo, con la faccia coperta da un casco virtuale e dei guanti cibernetici a entrambe le mani che si contraevano nel vuoto manipolando controlli che esistevano solo nel programma RV. «Curiosa riguardo cosa?» mi chiese Spence mentre mi mostrava uno dei terminali. Scivolai nella piccola sedia con le rotelle. «Lei è il presidente della società, giusto?» «Sì.» «Avevo l'impressione che la compagnia appartenesse a un certo Sam Gunn.» Prima che Spence potesse rispondermi, l'uomo con il casco RV cominciò a bestemmiare orribilmente urlando con tutta la voce che aveva in corpo. Lanciava maledizioni su chiunque fosse implicato con la macchina con cui stava operando, contro la persona o le persone che avevano programmato la simulazione RV, contro Isaac Newton e Albert Einstein e tutti i
matematici del mondo. Intanto le sue mani gesticolavano freneticamente, come se stesse tentando disperatamente di respingere una schiera di demoni. Stranamente, Spence ridacchiò per l'interruzione. Poi si voltò verso di me e, parlando ad alta voce per farsi sentire al di sopra della lunga sfilza di insulti, disse: «Io sono il presidente della VCI, ma Sam Gunn ne è il fondatore e possiede più azioni di chiunque altro. Non gradisce che le quote vengano vendute a qualcuno che non sia impiegato qui dentro». «Potrei diventare un'azionista?» «Abbiamo un piano di opzione sui titoli veramente vantaggioso» rispose Spence, che stava quasi strillando per farsi sentire in mezzo alle urla. «Non ha guardato il video sull'orientamento dei dipendenti?» In verità, no. Non mi era mai capitato di sentire che gli impiegati potessero diventare parzialmente proprietari della società in cui lavoravano. Un gringo veramente intelligente, questo Sam Gunn. Sicuramente possedeva la maggior parte delle azioni e ne metteva a disposizione una quantità esigua per i suoi dipendenti, ottenendo così la loro fedeltà. Come se avesse letto nei miei pensieri, Spence disse: «Sam è azionista minoritario al momento. Mia moglie e io possediamo più titoli di chiunque altro eccetto Sam, ma nessun singolo individuo possiede più di una minima percentuale». Moglie? Spence era sposalo. Per qualche ragione provai una fitta di delusione. «Sam Gunn dev'essere un uomo fuori dal comune» dissi a voce alta per farmi sentire al di sopra del delirante monologo che proveniva dall'angolo della stanza. Ma nello stesso istante in cui cominciai a parlare, il delirio ebbe fine, e la mia voce risuonò in modo stupido. Sentii la faccia che diventava rosso fuoco. Spence sorrise allegramente ma non disse nulla. «Mi piacerebbe incontrarlo un giorno» aggiunsi più sommessamente, appena mi girai verso il terminale. «Lo potrà incontrare subito» disse Spence. «È lui quello con la tenuta da RV.» La mia bocca doveva essersi spalancata. Girai rapidamente la seggiolina per vedere Spence che stava guardando verso l'angolo. L'uomo si stava togliendo il casco RV, borbottando ancora delle oscenità. Sgranai gli occhi su Sam Gunn mentre si alzava dalla sedia e si toglieva via i guanti cibernetici. Era basso, molto più basso di me. Era tarchiato, ben piazzato, benché si vedesse che la sua pancia gonfiava lo sbiadito camice blu che indossava. La faccia era tonda, con un piccolo naso camuso e
cosparsa di lentiggini. I capelli erano color ruggine, tagliati molto corti, e con diverse ciocche grigie - che come lui sosteneva (appresi in seguito) erano il risultato delle esposizioni alle radiazioni cosmiche nello spazio, e non dell'età. Da dove mi trovavo, nell'altra metà della stanza, non riuscivo a vedere il colore degli occhi. Si intuiva facilmente invece quanto fosse arrabbiato, infuriato. «Che Dio li maledica, Spence» disse mentre avanzava con passo pesante verso di noi. «Se non riusciamo a mettere a punto questa simulazione, e a farlo maledettamente subito, qualcuno andrà a dar via il culo fuori di qui.» Spence mi posò paternamente una mano sopra la spalla. «Eccoti la fanciulla che sistemerà tutto. Ha cominciato proprio stamattina a lavorare con noi.» La mia spalla ebbe un fremito sotto il suo tocco. Sam mi lanciò un'occhiata severa. «Questa ragazzina?» «Juanita O'Rourke» mi presentò Spence. Era il mio pseudonimo, naturalmente. Sam mi fissò. In piedi, era alto circa come me seduta. Vidi che i suoi occhi erano di un colore misto tra il verdazzurro e il nocciola, con dei riflessi dorati. «Viene da Los Angeles» aggiunse Spence. «Laureata in informatica a...» «Non mi interessa da dove vieni o dove hai studiato» disse Sam Gunn. «Mi piaci.» Avevo saputo che era un donnaiolo della peggior specie. A qualcuna delle sue scappatelle si accennava anche nel rapporto che i servizi segreti di mio padre mi avevano dato da studiare. Il rapporto faceva riferimento a molto altro. Era strano, però, che mio padre non mi avesse parlato del fatto che Sam Gunn poteva rappresentare un pericolo per me. Forse non ne sapeva niente. Dopo tutto, la sua attenzione era concentrata sugli affari di stato, e non su quelli di letto. Mi alzai con un sorriso timido. In parte perché svettavo di quasi trenta centimetri sopra Sam Gunn. E questa sensazione mi rendeva felice. «Lei dona il suo cuore alla svelta» dissi, aggiungendo silenziosamente tra me e me: «E anche molto spesso». La sua faccia tonda e lentigginosa assunse un'espressione da folletto incantato. «Verresti a cena con me questa sera?» Esitai giusto il tempo necessario per lasciargli pensare che stavo seriamente considerando il suo invito. «Non stasera» dissi. «Sono appena arrivata e c'è così tanto da fare...» Spence si schiarì la voce e disse: «Vuoi che la simulazione venga rimes-
sa a posto, no?» Tutta la rabbia e la frustrazione di Sam erano scomparse con la stessa velocità con cui una foglia secca viene trascinata da un colpo di vento. «Va bene, Esmeralda...» «Juanita» lo corressi. Sam scosse la testa. «Per me tu sei Esmeralda, la bellissima gitana amata da Quasimodo.» «Non sono gitana.» «Ma sei bellissima» disse lui. «E lei sarebbe Quasimodo?» Sam si rannicchiò inclinando la testa in modo strano. «Farò di me chiunque tu voglia che io sia, Esmeralda.» Mi fece sorridere. «La simulazione» gli ricordò Spence. «Oh, sì. Ecco.» Fortunatamente, il problema da risolvere era abbastanza semplice, anche se mi ci vollero parecchi giorni di lavoro intenso. L'attività principale della VCI consisteva nel rimuovere dall'orbita geosincrona i vecchi comsat, satelliti per le comunicazioni, che avevano smesso di funzionare, in modo tale da poterli rimpiazzare con dei nuovi comsat. Il numero delle traiettorie a disposizione in GEO era limitato, e queste erano rigorosamente assegnate dalla Commissione Internazionale per le Telecomunicazioni. Gli equipaggi della VCI volavano dalle stazioni spaziali della bassa orbita terrestre (LEO) a GEO per rimuovere i comsat deceduti e far posto a quelli nuovi. Era solo una piccola fetta dell'industria delle comunicazioni via satellite, ma ricopriva comunque un ruolo chiave. La VCI si occupava anche degli appalti per trasportare i detriti fuori dalle orbite più basse dove navigavano le stazioni spaziali. Seppi che originariamente il nome della società era "Aspirapolvere S.p.A.". La società di Sam aspirava la polvere delle orbite spaziali, Più di recente, Sam aveva cominciato a mandare delle spedizioni su GEO per riparare i comsat inceppati. Era più economico risistemarli piuttosto che sostituirli, almeno in teoria. In pratica, i costi delle spedizioni degli astronauti su GEO, anche se di poche ore, corrispondevano quasi a quelli della sostituzione dei satelliti malfunzionanti. La simulazione in realtà virtuale che aveva fatto tanto imbestialire Sam consisteva in un programma in cui un operatore, pur rimanendo nella stazione spaziale posta in LEO, poteva dirigere, da lontano e senza bisogno di
uomini, i lavori di riparazione del satellite inceppato che si trovava in GEO. «Risuscita il morto» come diceva Sam. «Sarebbe più sicuro per i nostri collaboratori se potessero restarsene nelle stazioni spaziali piuttosto che volare ogni volta su GEO» mi spiegò Spence. «GEO si trova in mezzo alla fascia di Van Allen. Gli astronauti non possono sostare in quella zona per molto tempo a causa delle radiazioni.» «Capisco» dissi. «Potremmo risparmiare un sacco di soldi se riuscissimo a compiere questo lavoro a distanza» disse Sam entusiasta. «La diminuzione dei costi assicurativi sarebbe sufficiente a finanziare l'intero programma.» Spence aggiunse: «Tra qualche tempo potremo operare direttamente dalla Terra. Senza neanche bisogno di mandare gente in una delle stazioni spaziali». «Il che significherebbe risparmiare ancora più soldi» convenne Sam felicemente. «Ma la simulazione non è ancora perfetta» disse Spence. «E finché non riusciamo a realizzarlo nel simulatore non possiamo sperimentarlo nel mondo reale.» Così avevano scaricato il peso delle loro speranze sulle mie giovani spalle. Pensai che era piuttosto strano che qualcosa di così vitale per la società fosse stato affidato a una impiegata appena arrivata e neanche messa alla prova. Era forse una specie di trappola? O un test? Ben presto compresi che questa prassi era tipica di Sam Gunn e del suo modo di mandare avanti la società. Cercava di mantenere il suo personale al minimo, assumendo solo quando non c'era altro modo per portare a termine un lavoro. Intendiamoci, era Sam Gunn che gestiva la VCI. Malgrado il suo titolo altisonante, Spence prendeva ordini da Sam. Per la maggior parte del tempo. Il problema della simulazione non era poi così complicato. Se Sam non fosse stato tanto impaziente il suo stesso staff personale o un consulente avrebbero trovato l'inghippo. Ma Sam voleva risultati immediati, il che per me significò trascorrere praticamente ventiquattro ore al giorno sul problema. A eccezione di quell'oretta o giù di lì che quotidianamente perdevo per parare gli inviti a cena di Sam, o a pranzo, o nella suite nell'hotel da luna di miele a gravità zero che voleva costruire in orbita. Nel giro di qualche giorno il programma funzionava così bene che Sam non vedeva l'ora di fare una prova in orbita. E mi resi conto che avrei potu-
to sabotare la sua operazione piuttosto facilmente. Infatti, introdussi nel programma un virus che avrei potuto attivare in qualsiasi momento avessi scelto di farlo. Discussi il piano con mio padre sul collegamento telefonico diretto dal nostro consolato a Orlando. Guidai fino al consolato nell'oscurità della tarda serata, era già passata la mezzanotte, per essere certa che non ci fosse nessuno della VCI in giro. Temevo di aver destato mio padre dal suo meritato sonno. Quando mi rispose era a letto, ma non stava dormendo. Non attivò subito il video telefono, il che mi imbarazzò. Quando poi lo fece, capii che non era solo. Cercò di nasconderla, ma riuscii a vedere che vicino a lui giaceva una giovane prostituta con i capelli arruffati, avvolta nelle lenzuola. Spuntava da dietro la schiena di mio padre, mostrando le spalle nude, due scintillanti occhi neri, e un ammasso di capelli corvini. Mio padre era compiaciuto dei progressi che avevo fatto in poco più di una settimana. «Potrei sabotare la loro missione di riparazione dei satelliti» gli riferii, tentando di ignorare la sua compagna. Non doveva avere molti più anni di me. «E non si accorgerebbero nemmeno che si è trattato di un sabotaggio.» «Bene!» mi disse raggiante. «Ottimo! Ma non agire subito. Lascia che compiano una o due missioni con successo. Aspetta il momento strategicamente adatto per colpire.» «Ho capito, papà.» «Stai facendo un ottimo lavoro, bambina mia.» Guardai dietro di lui la giovane donna che stava condividendo il suo letto. Mia madre era morta da diversi anni e papà era ancora un uomo vigoroso. Eppure mi sentivo in collera. Non gli dissi che Sam Gunn mi faceva il filo. «E tu stai bene, papà?» La mia domanda risuonò acida e cinica alle mie stesse orecchie. Però il mio amato padre evidentemente non comprese il mio astio. «Sono in buona salute» mi fece sapere sorridendo. «Nonostante il fatto che i rivoluzionari abbiano accerchiato la base militare di Zamora.» «Che cosa?» Sentii una doppia stretta al cuore. Il tenente che si era infatuato di me si trovava alla base di Zamora. «Non ti preoccupare, figlia mia. Stiamo mandando dei rinforzi con l'elicottero e presto quella feccia sarà rispedita nelle caverne sui monti da dove è uscita.»
Tuttavia ero preoccupata. I rivoluzionari diventavano ogni anno più sfrontati, più forti. Tornai al lavoro, arrabbiata con mio padre ma anche spaventata per ciò che poteva accadergli. Avevamo bisogno di strappare il controllo dell'orbita equatoriale alle società dei gringos, il più presto possibile. Cominciai a prendere in esame tutti i modi per sabotare la VCI. Avevo anche permesso a Sam di portarmi fuori a cena in diverse occasioni, sebbene le serate finissero davanti alla porta del mio appartamento con niente di più romantico che una stretta di mano. Sam non era quel che si dice un perfetto gentiluomo: era più insistente di una capra in calore. Però riuscivo a difendermi da lui. Le mie braccia erano più lunghe delle sue. «Esmeralda» si lamentò una sera. «Tu stai trasformando la mia vita amorosa in una foresta pietrificata.» Eravamo all'entrata del mio palazzo. Lo consideravo il mio castello, le cui mura e serrature elettroniche mi difendevano dagli assalti di Sam. «Acconsento a cenare con te» dissi. «Niente di più.» Sospirò profondamente. «Credo che ti sto pagando troppo.» «Pagarmi...» Con un'espressione quasi perversa disse: «Se tu fossi squattrinata e affamata mi apprezzeresti di più, scommetto». «Ma che cosa schifosa da dire!» «Bene, guarda il tuo appartamento» continuò. «È in un lussuoso palazzo di merda! Ti sto pagando troppo. Stai vivendo troppo bene...» Dovetti interrompere il flusso dei suoi pensieri prima che si rendesse conto che il mio stipendio non sarebbe stato sufficiente per pagare l'affitto del mio appartamento. E prima che cominciasse a chiedersi come facesse una povera programmatrice di computer di Los Angeles a permettersi i vestiti e la macchina sportiva che avevo. «Così ti piacerebbe che le donne fossero tutte povere e morte di fame» mi rivolsi a lui aspramente. «O forse le preferiresti scalze e incinte?» Scrollò le spalle con disinvoltura. «Scalze può andar bene.» Non fui costretta a fingere di essere arrabbiata. Sentivo il sangue che mi affluiva alle guance. «Sam, i giorni del predominio maschile sulle donne sono finiti già da un pezzo» gli dissi. «Non te ne sei accorto?» «Non mi interessa il predominio. Tutto quello che voglio è un po' di cooperazione.» «Sei un maschilista senza speranza, Sam.» Fece un largo sorriso malizioso. «Non proprio senza speranza, Esmeralda. Ne ho ancora qualcuna.»
Non riuscivo a detestare Sam, per quanto ci provassi. Ma almeno gli impedii di chiedersi come facevo a permettermi il tenore di vita che conducevo con lo stipendio che lui mi pagava. Nonostante tutto mi sentivo attratta da Spence. Era competente, sempre posato, estremamente capace. Sapevo che era sposato, ma in qualche modo avevo capito che il suo matrimonio non lo rendeva felice. Forse perché lo volevo credere. E forse perché in fondo era un gentiluomo veramente: cortese, paterno, protettivo. In seguito conobbi la moglie di Spence. Si chiamava Bonnie Jo. Si diceva che un tempo fosse stata sul punto di sposare Sam ma per qualche ragione era finita invece per sposare Spence. Secondo la storia che mi avevano raccontato i miei colleghi suo padre aveva procurato a Sam i soldi per aprire la VCI. Spence aveva accennato al fatto che lui e sua moglie erano entrambi azionisti, il che mi fece pensare che il padre di Bonnie Jo fosse ancora un finanziatore della società. Ma non furono le rendite di Bonnie Jo che mi sbalordirono. Fu piuttosto la sua bellezza. Aveva i capelli splendenti come l'oro, gli occhi di un intenso, profondo e misterioso verde mare. Era alta quasi come me, la sua corporatura era snella e atletica, i vestiti sempre impeccabilmente eleganti. In confronto a lei, mi sentivo grassa e stupida. La sua voce era bassa, melodiosa, non come le voci acute dai toni penetranti e striduli della maggior parte delle donne dei gringos. Ma gli occhi erano duri, calcolatori, la sua bellezza era fredda, come quella di una statua raffinata o di una modella elegantemente agghindata. Mi fu presto chiaro che non amava più Spence, se mai lo avesse amato. Con lui era fredda, a volte perfino crudele, come quando si comprò un anello di zaffiri per il suo compleanno e rivelò ad alta voce che Spence non se lo sarebbe potuto permettere con lo stipendio che gli dava Sam. Da parte sua, Spence si immergeva nel suo lavoro, dedicandosi sempre di più al settore tecnico della VCI, lasciando l'aspetto amministrativo a Bonnie Jo e al personale dell'ufficio. In questo modo eravamo costretti a stare tutto il giorno insieme. Capii che mi stavo innamorando di questo signore affascinante, gentile, sofferente, più anziano di me. Capii anche che lui mi considerava come una delle tante impiegate, abbastanza giovane da essere quasi sua figlia. Spence si recò alla Stazione Spaziale Alpha per provare personalmente il programma per la riparazione a distanza dei satelliti posti in GEO. Io rimasi a Orlando, al centro di controllo missioni della VCI. Era una stanza mi-
nuscola, appena sufficiente per contenere tre postazioni di monitoraggio. Non aveva finestre, e sarebbe stata insopportabilmente soffocante se l'aria condizionata non fosse stata regolata così alta da renderla a sua volta insopportabilmente glaciale. Sul muro di fronte c'era un enorme schermo, composto da display più piccoli, che potevano essere azionati singolarmente. Mi sedetti nella postazione di destra, tremante nonostante il maglione che indossavo, pronta a dare qualsiasi tipo di assistenza all'uomo che stava materialmente controllando la missione di Spence. Entrambi indossavamo delle cuffie fissate alle orecchie, con dei microfonini posizionati davanti alla bocca. A ogni modo, era l'addetto al controllo della missione che doveva parlare: mi avevano detto che dovevo rimanere in silenzio. Sam occupò il terzo posto, a sinistra, che rimase per lo più vuoto poiché Sam riusciva a stento a rimanere seduto per più di due secondi. Balzava continuamente dalla sedia, camminando alle nostre spalle e parlottando da solo. «Deve funzionare, ragazzi» mormorò. «L'intero futuro della compagnia dipende da questa missione.» Mi venne da pensare che faceva un po' troppo il tragico. Solo più tardi mi resi conto che non era così. Il grande schermo ci mostrava una veduta telescopica da Alpha del nostro VTO, Veicolo per Trasbordi Orbitali, mentre si stava avvicinando al satellite che necessitava di riparazioni. Il VTO era un marchingegno piuttosto brutto: un ammasso di serbatoi sferici e di rozzi montanti di metallo. Nella parte anteriore sporgevano rigidi un paio di bracci meccanici. Piccole punte di razzo che costellavano in modo ridicolo il veicolo da prua a poppa e tutt'intorno la parte centrale mi ricordavano gli occhi bulbosi di un'iguana mutante. Sentivo il respiro di Sam sul collo quando la voce di Spence disse: «Passare sull'inquadratura a bordo». «Ricevuto, inquadratura a bordo» disse l'addetto al controllo della missione seduto accanto a me. Lo schermo mostrò improvvisamente un primo piano del satellite in avaria. Appariva immenso mentre stava sospeso tranquillamente sullo sfondo nero dello spazio. «Avviare la sequenza d'avvicinamento» indicò la voce di Spence. Era calma, tranquilla, imperturbabile come quella di un uomo che si stesse annodando i lacci delle scarpe. Sam invece era tutto l'opposto. «Tieni gli occhi appiccicati sui dati di
uscita» sbottò «e le dita sul pulsante d'arresto. L'ultima cosa che ci auguriamo è che si verifichi una collisione là fuori.» Sapevo che stava parlando con l'addetto al controllo della missione, ma le sue parole si riferivano anche a me. Avevo inserito una subroutine nel programma di avvicinamento automatico che nel momento cruciale avrebbe potuto innescare un'ulteriore propulsione. Non sarebbe andato distrutto solo il VTO, ma anche il satellite per le comunicazioni. La VCI sarebbe stata denunciata dall'agenzia assicuratrice del comsat, come minimo. Tutto quello che dovevo fare era operare su una tastiera di computer posta sul bancone di fronte a me. Malgrado l'aria condizionata regolata a temperature polari cominciai a sudare. Riuscii però a tenere le mani in grembo, mentre con calma e metodicità Spence ultimava la manovra di avvicinamento e successivamente guidava il macchinario del VTO a rimuovere il comando avariato del comsat e a inserirne uno nuovo. Guardavo lo schermo, affascinata, quasi ipnotizzata, nel vedere come le braccia del robot portavano a termine il delicato lavoro, guidate dalle dita di Spence da più di trentamila chilometri di distanza. Alla fine l'addetto al controllo della missione disse al microfono: «Ricevo il controllo dell'alimentatore sostituito. Allontanati per procedere con la prova di verifica delle comunicazioni». «Allontanarsi dal satellite in prova.» Il piano della missione prevedeva che il VTO si allontanasse dal comsat mentre i legittimi proprietari a Tokio testavano il nuovo alimentatore per accertarsi che rifornisse correttamente di elettricità i quaranta transponder del satellite. Lo schermo trasmise l'immagine del comsat che scompariva lentamente. E poi la grande curva azzurra scintillante della Terra ruotò nell'inquadratura, sfumata da nuvole di un bianco abbagliante. Sentii il mio respiro defluire. Era opprimente. Sentii in cuffia Spence che ridacchiava. «Scommetto che si tratta di Juanita.» «Si» risposi senza pensare. Guardai l'addetto al controllo. Invece di guardarmi male per aver interrotto il protocollo della missione, mi stava sorridendo. «Non avevi mai visto il panorama dall'orbita prima, eh?» chiese Spence. «Solo in fotografia sui giornali o nei documentari» dissi. «Benvenuta nel nostro circolo» disse Spence «Mi fa ancora emozionare, ogni volta.» «Torniamo al lavoro, che ne dite?» disse Sam. Ma la sua voce era stra-
namente sommessa. Da Tokio arrivò la risposta che l'alimentatore funzionava perfettamente. Un comsat da settanta milioni di dollari era stato salvato sostituendo un componente rotto. Ora fu Sam che si lasciò sfuggire un profondo sospiro. «Ottimo lavoro, ragazzi. Andiamo, vi offro la migliore cena che si possa trovare in città.» Avrei voluto restare nella postazione di monitoraggio per parlare con Spence. Ma non potevo. L'addetto al controllo interruppe il collegamento ancora prima che potessi salutarlo con un "adios". Per non so quale ragione, Sam insistette affinché Bonnie Jo si unisse a noi. Così ci fece entrare tutti e quattro nella sua Mercedes presa a noleggio e ci portò in un ristorante marocchino appena fuori Disney World. «Questo posto vi piacerà» ci assicurò Sam mentre un cameriere col turbante ci stava guidando attraverso la sala da ballo al nostro posto, un grande tavolo rotondo d'ottone inciso, alto appena pochi centimetri dal pavimento. Non c'erano sedie, ma solo cuscini sparsi intorno al tavolo. «Rilassatevi, toglietevi le scarpe» disse Sam mentre si lasciava cadere su uno dei grandi cuscini. «Le danzatrici del ventre cominceranno lo spettacolo tra pochi minuti.» Il ristorante era piccolo, quasi intimo. Sebbene il fumo nei ristoranti fosse stato vietato da decenni, la direzione aveva predisposto che dal sistema dell'aria condizionata filtrasse una sottile nebbiolina grigia (non tossica, rassicurava il menu). Per creare l'atmosfera, diceva il menu. Il cibo era sorprendentemente buono, capra arrosto, couscous e una salsa piccante che mi fece tornare in mente i migliori piatti del Messico. Ma era chiaro che Sam era venuto per vedere le danzatrici. E che le aveva già viste molte altre volte prima. Sembrava che tutte lo avessero riconosciuto e per la maggior parte dello spettacolo restarono vicino al nostro tavolo tanto che riuscivo a sentire l'odore forte dei loro profumi. L'addetto al controllo si chiamava Gene Redding. Portava bene i suoi quaranta anni suonati, con un principio di calvizie, corpulento e competente nel lavoro. Mentre si sedeva sul cuscino fissando le danzatrici che gli volteggiavano attorno a poca distanza, la sua faccia diventò sempre più rossa e la testa pelata cominciò a brillare di sudore. Gli occhiali si appannarono, tanto che era costantemente costretto a toglierseli per asciugarli, continuando intanto a occhieggiare le danzatrici. Dal sorriso stupido che aveva impresso sulla faccia era evidente che stava godendo dello spettacolo.
Non fu possibile conversare durante lo show. I toni acuti della musica e i ritmi delle percussioni erano troppo forti, e gli uomini erano troppo presi. Notai che anche Bonnie Jo si mostrava interessata alle danzatrici non meno degli uomini. Devo ammettere che in effetti emanavano un certo fascino: erotico senza essere volgare. Chissà quali fantasie ispiravano nell'immaginazione degli uomini. Fu durante il viaggio di ritorno verso l'ufficio che cominciò la discussione. «Oggi abbiamo dato una svolta definitiva» disse Sam sprizzando felicità mentre guidava lungo la Statale 4. «Ora i soldi cominceranno a entrare a fiotti.» «E tu penserai a come farli sparire di nuovo, giusto, Sam?» disse Bonnie Jo. Era seduta nel sedile posteriore, con me. Gene era seduto davanti con Sam. «Li rinvestirò per la crescita della società» disse Sam, allegro. «Sprofonderai nel tuo stupido progetto dell'hotel orbitale.» Ebbi l'impressione che Bonnie Jo stesse parlando digrignando i denti. «Stupido?» sbottò Sam. «Che cosa vuoi dire con stupido? La gente sarà disposta a sborsare un sacco di soldi per una vacanza a gravità zero. Diventerà la capitale delle lune di miele!» «Sam, se tu per una volta pensassi con la testa invece che con le palle, ti renderesti conto di quanto questo progetto sia dannatamente folle!» «Sì. certo. Risero anche di Edison.» «Non possiamo mandare a puttane i nostri profitti per il tuo assurdo progetto, Sam.» «Invece posso, finché sarò l'azionista di riferimento.» Notai che più la discussione si faceva animata e più la macchina aumentava di velocità. Sam non stava utilizzando il sistema elettronico di guida né il pilota automatico dell'auto. L'aumentare della pressione sanguigna gli faceva spingere il piede con più forza sull'acceleratore. Bonnie Jo disse: «Non se riesco a mettere insieme una coalizione di azionisti per silurarti alla prossima riunione annuale». «Ci hai già provato e non ti è servito a niente, no?» «Spence voterà per me, questa volta» disse lei. Le altre auto ci sfrecciavano accanto, lampi dei fari anteriori da una parte e scie delle luci posteriori dall'altra. Mi sentivo come un componente di un equipaggio in un'astronave relativistica.
«Col cavolo» gridò Sam. «Spence la pensa come me al riguardo. E lo stesso tuo padre.» «Mio padre mi ha già dato la sua delega.» Sam rimase in silenzio per un bel pezzo. Superammo velocemente un enorme camion con doppio rimorchio come una pallottola sorpassa una tartaruga. «Be', comunque» disse alla fine «la maggior parte degli impiegati voteranno per me. Incluso Spence.» «Lo vedremo» disse Bonnie Jo. «Quant'è vero che esiste l'inferno.» Così c'erano delle tensioni interne nelle alte sfere della VCI. Questa scoperta mi fece un gran piacere, soprattutto, devo confessarlo, perché capii che Spence e Bonnie Jo erano veramente insoddisfatti l'uno dell'altra. Cominciai a considerare che avrei potuto usare le loro divergenze per distruggere la VCI - e il loro matrimonio. Ma le intenzioni di Sam erano diverse. E anche quelle di mio padre. Per non parlare di quelle dei rivoluzionari. Il venerdì pomeriggio seguente Sam venne tutto baldanzoso nel mio ufficio angusto, fischiettando in modo stonato e con un gran sorriso stampato in faccia. Quell'espressione lo faceva sembrare una sbilenca zucca di Halloween. «Hai qualche programma per il fine settimana?» mi chiese mentre recuperava l'unica sedia vuota nel mio cubicolo, la girava al contrario, e vi si sedeva a cavalcioni. Certo che ne avevo. Avevo deciso di trascorrere il fine settimana alla mia scrivania, studiando ogni frammento di informazioni che potevo richiamare sul mio computer a proposito della situazione finanziaria della VCI. Ne sapevo già abbastanza riguardo alle attività tecniche della società. La discussione di Sam con Bonnie Jo mi aveva aperto gli occhi sulle eventuali possibilità di mandare in rovina la società attraverso delle manipolazioni finanziarie. «Passerò tutto il fine settimana a lavorare» dissi. «Ne sei proprio sicura?» disse Sam, incrociando le braccia sopra lo schienale della sedia di plastica e appoggiandogli il mento. Il suo sorriso malizioso mi diceva che aveva qualcosa di strano in mente. Mi limitai a guardarlo, senza dire niente, sapendo che, qualunque fosse la cosa che doveva dirmi, stava per farlo. Infatti, Sam non riusciva a rimanere in silenzio per più di due pulsazioni
cardiache. «Sei mai stata in orbita?» mi chiese. Prontamente aggiunse:«Letteralmente, intendo. Nello spazio». Sgranai gli occhi in un'espressione di sorpresa. «No. Mai.» Il suo sorriso si fece più largo. «Bene, allora. Prepara una borsa con il necessario per star fuori una notte. Partirai domattina. Ti riaccompagnerò qui in tempo per tornare alla tua scrivania lunedì mattina, come prima cosa.» «Vuoi portarmi nello spazio?» «Stazione Spaziale Alpha» disse. «Ti piacerà.» «Con te?» Tentò di assumere un'espressione seria. «Si tratta esclusivamente di lavoro, Esmeralda. Rigorosamente di lavoro. Avrai uno scompartimento privato nella divisione G.» «Ma perché?» «È la linea di condotta della società. A chiunque lavori per la VCI viene offerta l'opportunità di andare in orbita.» «È la prima volta che qualcuno me ne parla» dissi. Il ghigno riapparve. «Be'... è una linea di condotta nuova. Infatti, l'ho appena inventata.» Capii le sue intenzioni. «Così mi vuoi semplicemente portare nello spazio con te.» «Si tratta di lavoro, lo giuro» disse Sam, sforzandosi di apparire innocente. «Di che lavoro si tratta?» chiesi. Il mio istinto mi diceva di stare in allerta. «Ho bisogno di un parere femminile a proposito del mio progetto per l'hotel orbitale. Non posso chiederlo a Bonnie Jo, è assolutamente contraria all'idea.» Devo aver aggrottato le ciglia, poiché aggiunse immediatamente: «Sto parlando di come suddividere gli scompartimenti, delle varie possibilità, dei rifinimenti e cose di questo genere. Del servizio ristorante. Ho bisogno del punto di vista di una donna, dico davvero». Sembrava quasi sincero. Ma il suo ghigno non scompariva. «Naturalmente, se il tuo stato d'animo dovesse cambiare, e cominciassi a sentirti un po' più romantica, potrei mostrarti la sezione a gravità zero una volta che siamo sulla stazione e compiere prodezze inimmaginabili sulla Terra.» «No!» sbottai. «Mai!»
«Dai, su» protestò Sam come fosse un ragazzetto. «Mi comporterò bene, da persona rispettabile. Ho davvero bisogno della tua opinione. Si tratta di lavoro, come devo dirtelo?» I miei pensieri stavano galoppando furiosamente. Più riuscivo ad apprendere sulle attività di Sam e più facile sarebbe stato coglierlo in fallo, pensai. A ogni modo, sapevo che, a prescindere da quello che diceva, la sua lasciva mente maschile nutriva ancora la speranza di potermi sedurre, e fantasticava ancora di fare l'amore con me a gravità zero. Dovetti ammettere con me stessa che anch'io ero attratta dall'idea - ma era di Spence che fantasticavo, e non di Sam. «Ascolta» disse Sam, interrompendo il corso dei miei pensieri. «So cosa pensi di me, che sono un maschio sciovinista e tutto il resto. Va bene, forse lo sono. Ma non sono un violentatore. Se succederà qualcosa tra noi sarà perché tu lo vorrai tanto quanto me.» «Dovrei essere assolutamente al sicuro, allora.» Rise. «Vedi? Non hai niente da temere.» Eppure esitavo ancora. La sua reputazione mi preoccupava. Era evidente che riusciva a essere irresistibilmente affascinante quando voleva. Emise un profondo sospiro di delusione, sollevò le mani sopra la testa e disse: «Va bene, d'accordo. Vuoi che venga con noi qualcuno come accompagnatore? Lo avrai. Chiederò anche a Spence di venire. Cosa te ne pare?» Dovetti esercitare tutto il mio autocontrollo per non balzare dalla scrivania e gridare "Sì! Sì!". Con deliberata lentezza girai lo sguardo per evitare gli occhi languidi di Sam e fissai il muro vuoto dietro di lui, fingendo di riflettere intensamente. Alla fine dissi: «Un accompagnatore è ciò che ci vuole. Ma dovrebbe trattarsi di una donna. Una dueña». Sam sospirò ancora, questa volta per esasperazione. «Senti, non posso fare la spola per portare chissà chi su e giù per la stazione spaziale tanto per rispettare le regole di buona creanza della tua tradizione ispanica. Hai presente quanto costa?» «Ma sei tu che vuoi portarmici» dissi. «Ho bisogno del tuo giudizio di brava ragazza riguardo all'organizzazione dell'hotel, accidenti! E Spence ha del lavoro da sbrigare per la società ad Alpha. Questo è tutto!» «Molto bene» dissi con tutta la diffidenza che riuscii a fingere. «Spence è un gentiluomo sposato. Non è propriamente adatto come una duena, ma
presumo che gli si possa affidare il ruolo di nostro accompagnatore.» Sam saltò in piedi, si inchinò enfaticamente, e uscì tronfio dal mio cubicolo. Solo quando fui certa che non poteva più vedermi mi concessi un sorriso. Meno di un quarto d'ora dopo un ragazzo si presentò sulla soglia della mia porta inesistente. Sembrava latino: occhi scuri e tenebrosi, capelli neri folti e ricci, pelle del colore della pergamena affumicata. Era carino, seppure imperscrutabile e tetro. E con labbra sensuali. «La signorina O'Rourke?» chiese. «Sì.» «Mi hanno incaricato di farle fare un viaggio di prova. Per la sua passeggiata su Alpha.» Il suo tono era leggermente insolente. «Proprio adesso? Sono occupata...» Scrollò le spalle con insofferenza. «Quando vuole lei, principessa. Sam mi ha detto di rimanere nei paraggi finché non avrà trovato un momento libero.» Principessa? Mi sentii in subbuglio, ma esteriormente mantenni la calma. Non avrei dato a questo insolente giovanotto la soddisfazione di vedere che aveva la capacità di irritarmi. «Non mi libererò prima delle sei passate» dissi. Scrollò di nuovo le spalle. «Allora vorrà dire che dovrò ciondolare qui in giro fino a dopo le sei.» «Dove posso trovarla?» Un lampo di qualcosa balenò nei suoi occhi. Forse si trattava di rabbia. «Sarò nel laboratorio per le simulazioni, in fondo al corridoio principale, appena passato...» «So dove si trova il laboratorio per le simulazioni» dissi. «Bene. Ci vediamo là appena mi raggiunge.» Si voltò facendo per andarsene. «Aspetti!» gridai. «Come si chiama?» «Gregory Molina» rispose guardando al di sopra della sua spalla. «Matricola 434.» Erano quasi le sette e mezza quando finii di sbrigare il mio lavoro per quel giorno e mi recai al laboratorio per le simulazioni. Sebbene l'orario di lavoro alla VCI finisse alle sei, c'era ancora parecchia gente lungo i corridoi e negli uffici. Molti impiegati di Sam facevano gli straordinari. La maggior parte, a dire il vero. Ma il laboratorio per le simulazioni sembrava deserto. Il computer in
mezzo alla stanza era spento e silenzioso. Le luci in alto erano abbassate. Rimasi sulla soglia scrutando con circospezione. Aveva detto che l'avrei trovato qui. Come aveva osato andarsene senza avvertirmi? «È pronta per la sua breve passeggiata di prova?» La voce da dietro mi spaventò. Mi voltai e vidi che si trattava di Molina. Teneva in mano una lattina gelata, di coca. «La cena» disse, sollevando la lattina all'altezza della mia faccia. «Gradisce?» «No, grazie. Procediamo.» «Bene. È abbastanza semplice» disse mentre mi precedeva all'interno del laboratorio. Le luci si accesero automaticamente. «La dimostrazione sui dispositivi di sicurezza della AAI, l'Amministrazione Aerospaziale Internazionale, prevede una simulazione e una lezione di orientamento per chi affronta per la prima volta un volo in orbita. La lezione è registrata in cassetta e può essere mandata in uno degli schermi di qui o se ne può prendere una copia da portare a casa e guardare a proprio comodo. Che cosa preferisce?» «La vedo qui» dissi. Annuì. «Senz'altro. Ho ancora mezz'ora di tempo da impiegare girandomi i pollici.» Il suo atteggiamento mi irritava. «Davvero!» sbottai. «Se il suo lavoro consiste in questo, perché è così indisponente?» Mi fissò diritto negli occhi. «Il mio "lavoro", senorita, consiste nella manutenzione di questi dannati computer. Quello che sto facendo ora è un extra.» «Manutenzione dei computer? Ma non l'ho mai vista qui.» «Non ha spirito d'osservazione» replicò con risentimento. «Ero qui. Io l'ho vista parecchie volte. Ma il suo sguardo si sofferma sui dipendenti, come con certe principesse della malora o gente del genere.» «Non è una ragione sufficiente per essere in collera con me.» «Non è per questo che sono incazzato.» «E non c'è nessun bisogno di usare un linguaggio così scurrile!» «Dispense Usted perdón, princesa» disse, con un pessimo accento. «Da dove viene?» domandai. «Los Angeles» rispose mentre mi guidava a una delle scrivanie provviste di monitor che circondavano il computer. «E cos'è che la rende così irascibile?» Sbuffò. «Il pensiero che una signora così raffinata come lei se ne vada
volontariamente a un appuntamento galante nello spazio con uno yankee.» «Un appuntamento galante? È questo che pensa che vado a fare?» «Cos'altro?» Avrei voluto schiaffeggiare quella sua faccia astiosa e accusatrice. Ma decisi che non avrei degnato la sua impudenza di alcun tipo di risposta. «Procediamo con questa dimostrazione» dissi, riuscendo a malapena a controllare il mio malumore. «Così potremo tornarcene entrambi a casa.» Guardai la lezione in cassetta. Poi senza dire una parola mi condusse in una delle zone predisposte per la simulazione e mi aiutò a indossare il casco RV e i guanti. "Fluttuai" in realtà virtuale a bordo di un clipper Delta da Cape Canaveral alla Stazione Spaziale Alpha. La simulazione non procurava le sensazioni fisiche dell'accelerazione a gravità zero: si trattava esclusivamente di un'illustrazione delle norme di salvataggio, in cui veniva mostrata la piantina interna della cabina passeggeri del clipper, le uscite di sicurezza, e il sistema di emergenza dell'ossigeno. Terminata la simulazione mi tolsi il casco. Molina che stava al mio fianco, mi prese il casco dalle mani. «Non ho un appuntamento con Sam Gunn» sentii la mia voce mormorare mentre mi toglievo lentamente i guanti cibernetici. Mi rivolse uno sguardo espressivo. «Sono contento di sentirglielo dire, anche se non è vero.» «Non dico bugie!» Per la prima volta mi sorrise. In realtà si trattava solamente di un mezzo sorriso, ma comunque lo fece sembrare più carino. «Sono sicuro che sta dicendo la verità. Ma lei non conosce Sam.» Avrei quasi voluto dirgli che amavo Spence, e non Sam. Ma sarebbe stata una mossa stupida. A quanto pareva, le chiacchiere correvano numerose e veloci in tutti gli uffici della società. Già si era presupposto che Sam e io avremmo fatto cose folli a gravità zero. Inoltre, dicendogli cosa provavo per Spence, lo avrei fatto arrabbiare ancora di più. Così tentai di cambiare discorso mentre camminavamo lungo il corridoio verso l'entrata principale dell'edificio. Le sale a quell'ora erano per lo più deserte. Anche i dipendenti più devoti di Sam alla fine erano tornati a casa dalle loro famiglie e amici. «Anch'io vengo da Los Angeles, sa?» dissi. «Davvero? Da quale parte?» Mi resi conto immediatamente che avevo messo i piedi in una palude. «Oh, ho studiato alla UCLA» dissi. «Vivevo appena fuori dal campus.»
«Westwood, no?» In realtà avevo vissuto in un condominio in affitto nelle Pacific Palisades, con una meravigliosa vista della spiaggia e dei tramonti sull'oceano. «Quando ho detto Los Angeles» mi disse mentre raggiungevamo la porta principale «intendevo il centro. Il barrio. La parte vecchia.» «Oh.» Mi avevano parlato dello squallore e della violenza della zona del centro, ma non mi ero mai addentrata in quel quartiere. Uscimmo nella brezza leggera e calda di una dolce serata della Florida. «È nato là?» gli chiesi mentre andavamo alle nostre automobili. Era buio nella zona del parcheggio. All'improvviso fui contenta di essere in sua compagnia. «No» rispose. «I miei genitori arrivarono a Los Angeles quand'ero ancora piccolo.» «E dov'è nato?» chiesi. «A Quito.» Mi sentii stordita. Quito! «È la capitale dell'Ecuador» spiegò, fraintendendo il mio silenzio. «Mio padre era docente all'università ma fu cacciato via dal dittatore.» «Dittatore?» proruppi. «L'Ecuador è una democrazia.» «Democrazia un corno! È una dittatura, guidata da una piccola congrega di fascisti bastardi.» Mi sentii scuotere dalla testa alla punta dei piedi. La mia gola diventò secca per la rabbia repressa. «Un giorno tornerò in Ecuador» disse Gregory Molina. «Arriverà il momento della resa dei conti. Il popolo non sopporterà più per molto questo regime corrotto. La rivoluzione è alle porte, vedrà.» Nell'oscurità del parcheggio non riuscivo a distinguere chiaramente l'espressione della sua faccia o l'ardore che faceva brillare i suoi occhi. Ma potevo sentire la sua voce, la sua voce appassionata, ardente, piena d'odio verso mio padre. E se avesse saputo chi ero in realtà, avrebbe odiato anche me. Quella notte non riuscii a dormire, preoccupata com'ero per mio padre e per i rivoluzionari e per l'odio fervente che avevo percepito nella voce del giovane Gregory Molina. Quando alla fine riuscii a chiudere gli occhi fui torturata da un incubo terrificante nel quale stavo cercando di arrampicarmi sulla parete di un alto dirupo a picco con Sam davanti a me e Spence dietro. Vidi che la fune che mi teneva in cordata con Sam cominciava a
sfilacciarsi. Provai a gridare ma dalla mia gola non uscì alcun suono: cercai di urlare ma ero come impotente. Alla fine la corda si spezzava e io precipitavo giù nell'abisso, sorpassando Spence che tentava di allungarsi per cercare di salvarmi, ma invano. Mi svegliai gridando, in un bagno di sudore, aggrovigliata nelle lenzuola del mio letto. E mi resi conto che nell'ultimo istante del mio sogno l'uomo che si era sporto verso di me in realtà non era Spence. Era Gregory. Era quasi l'alba. In ogni caso era ora di alzarsi. Stavo finendo di mettermi l'ultimo tocco di mascara quando suonò il citofono. Risposi e la voce di Sam stridette: «Alzati, Esmeralda. Il tuo cavaliere nella splendente armatura è qui per farti schizzare verso la terra promessa». Mi era capitato raramente di sentire una tale accozzaglia di metafore. Ci dirigemmo verso Cape Canaveral con la Mustang d'epoca di Spence, color argento metallizzato e tutta rimessa a nuovo, dove ero stata stipata nel minuscolo sedile posteriore con la capote aperta. La mia accurata acconciatura andò a brandelli una volta che prendemmo l'autostrada, ma non me ne importava: era troppo piacevole correre a gran velocità nella prime luci del mattino. Nonostante la dimostrazione in RV. ebbi quasi la sensazione di soffocare mentre ci allacciavamo le cinture dei sedili del clipper Delta. Era un grande velivolo di forma conica, posto in mezzo a un vero e proprio cuscino ammortizzatore di carica esplosiva. Mi ricordava le antiche piramidi circolari di Michoacan, in Messico: massiccio, alto e stabile. Ma questa "piramide" era di lega leggera e plastica, non di pietra. Ed era stata costruita per volare nello spazio. A parte tutte le mie paure, il decollo fu piuttosto dolce. Il frastuono dei motori del razzo veniva smorzato dall'isolamento acustico della cabina. La vibrazione era minore rispetto a quello che faceva credere la simulazione d'orientamento. Prima che mi rendessi completamente conto che non eravamo più sulla Terra l'astronave si stabilizzò a una velocità in graduale accelerazione. Poi i motori si spensero e procedemmo navigando a gravità zero. Avevo l'impressione che il mio stomaco si fosse sciolto nell'infinito e nello stesso tempo che stesse strisciando verso la gola. Il rimedio che mi aveva dato Sam doveva avermi aiutato comunque, perché in poco tempo la sensazione di nausea si attenuò. Non scomparve del tutto, però, ma diminuì ulteriormente quando mi voltai verso Spence, seduto accanto a me, lanciandogli
un debole sorriso. «Ti stai comportando bene» disse, rivolgendosi a me con quel suo solito sorriso smagliante. Non mi ero neanche accorta che la parte staccata della cintura sulla spalla stava fluttuando nell'aria, zigzagando come un serpente grigio e piatto. Sam, naturalmente, si era slegato dalle cinture non appena i motori si erano spenti e adesso stava svolazzando sul soffitto imbottito. «Questa è vita!» annunciò agli altri dieci passeggeri. Poi si portò le ginocchia sotto il mento mettendosi a fare qualche avvitamento e delle capriole a gravità zero. Gli altri passeggeri erano per lo più ingegneri e tecnici esperti che si stavano dirigendo su Alpha per completare dei lavori sulla stazione spaziale. Uno di loro, però, doveva essere un pivello in fatto di assenza di gravità. Lo si sentiva vomitare in uno dei sacchettini accortamente posti nella parte posteriore dei sedili. I suoi conati mi suggestionavano. «Non farci caso» mi consigliò Spence, posando la sua mano calma e leggera sul mio braccio. Con l'altra mano indicò l'acrobatico Sam. «E non far caso neanche a lui. Lo fa ogni volta, tanto per vedere le reazioni di chi vomita.» Appena attraccammo su Alpha e scendemmo sulla ruota principale della stazione, tutti si sentirono molto meglio. A eccezione di Sam. Credo davvero che preferisse stare in condizione di assenza di gravità, piuttosto che in quella di gravità normale. La stazione Alpha era composta di tre ruote concentriche, disposte ognuna a una diversa distanza dal centro per simulare un differente grado di gravità. La sezione più esterna riproduceva la normale gravità terrestre di un grado. La seconda corrispondeva a un terzo di gravità, approssimativamente come quella che si trova su Marte. La più interna riproduceva la gravità presente sulla Luna, di un sesto. Naturalmente il punto centrale della stazione era effettivamente a gravità zero, sebbene qualcuno degli esperimenti scientifici e industriali più delicati fosse collocato nelle navette libere che fluttuavano indipendentemente dall'enorme struttura rotante della stazione spaziale. Notai che la maggior parte della ruota principale era vuota. Mentre Sam e io camminavamo vedevamo sotto agli occhi lunghe distese di corridoi spogli e vuoti costruiti in pendenza. Non c'era nient'altro che l'impalcatura scoperta della struttura e luci soffuse dall'alto. Non c'era neanche una finestra.
«C'è molto posto per le stanze dell'hotel, qui» osservò Sam bisbigliando. Spence era scomparso all'interno della seconda sezione che la VCI aveva preso in affitto dal legittimo proprietario di Alpha, le Industrie Rockledge. Era venuto per lavorare a un satellite che serviva ad agevolare le riparazioni e che avevamo parcheggiato lì, e non tanto per farmi da accompagnatore. «Ma, Sam» chiesi mentre percorrevamo quei corridoi tristemente vuoti «perché uno dovrebbe pagare il biglietto per l'orbita se poi deve ritrovarsi rinchiuso in scompartimenti stagni in una stazione spaziale? È come stare in un piccolo transatlantico nell'oceano, in terza classe, al di sotto della linea di galleggiamento.» Sorrise come se fossi entrata nella sua trappola. «Per due ragioni, Esmeralda. La prima è il panorama. Non puoi immaginare cosa significhi vedere la Terra da qua sopra finché non lo fai di persona.» «Ho visto delle foto e dei video. Erano mozzafiato, sì, ma...» «Ma non equivalevano all'esperienza diretta» m'interruppe Sam. «E poi c'è la seconda ragione.» Mi rivolse una lasciva occhiata maliziosa. «Fare l'amore a gravità zero. È fantastico, lasciatelo dire.» Non risposi a questo palese tentativo di sedurmi. «Allora facciamo di meglio, permettimi di mostrartelo.» «Scordatelo» dissi freddamente. Ma in fondo ero curiosa di sapere come sarebbe stato fare l'amore a gravità zero. Non con Sam, naturalmente. Ma con Spence. La faccia di Sam cambiò immediatamente espressione, come se la sua innocenza fosse stata ferita. «Volevo dire, permettimi di mostrarti la sezione della stazione a gravità zero.» «Oh...» «Pensavi che ti stessi facendo una proposta?» «Esatto.» «Come hai potuto? Questo è un viaggio di lavoro» protestò. «Ti ho anche procurato un accompagnatore. Le mie intenzioni sono nobili, lo giuro.» Si fece una croce sul cuore, poi sollevò la mano destra per fare il saluto del boy scout. Mi fidavo di Sam tanto quanto avrei potuto confidare nelle mie capacità di sollevare la cattedrale di Quito, ma lo seguii nel tragitto verso il punto centrale della stazione spaziale. Fu un percorso piuttosto strano, inquietante. Il passaggio non era nient'altro che un lungo tunnel al cui interno c'erano dei pioli disposti come in scala. A ogni gradino la pressione esercitata
dalla gravità diminuiva finché si aveva la sensazione di fluttuare, invece che di arrampicarsi. Sam mi aveva mostrato come ci si doveva arrampicare sui pioli: per avanzare bastava un minimo tocco. Presto ci ritrovammo sospesi sfiorando a malapena gli scalini, e sfrecciando sempre più veloci lungo il tunnel. Compresi il motivo per cui le tute usate di norma nelle stazioni spaziali erano fatte di un unico pezzo, con le cerniere alle caviglie e ai polsi. Qualunque altra cosa sarebbe stata non solo poco dignitosa, ma persino pericolosa. Il tunnel era illuminato solo debolmente, ma potevo vedere in alto, là davanti, un certo bagliore proveniente da un portello aperto. Stavamo sfrecciando come due delfini. E poi ci gettammo in un immenso spazio vuoto: un'enorme sfera concava con le pareti imbottite. Sam salì diritto passando per il centro e si tuffò di testa nella parete curva. Rimbalzò verso di me. Mi sentivo come se fossi stata lanciata fuori da un aereo. Stavo cadendo e non potevo controllare il mio corpo. Allora Sam mi bloccò appena ci incrociammo. Quando la sua mano mi afferrò le braccia che battevano frenetiche mi sorpresi della sua forza. Ci girammo intorno l'un l'altro, come due corpi celesti improvvisamente attratti nella stessa orbita. Ero sfinita, non riuscivo a decidere se avrei dovuto urlare o mettermi a ridere. Lentamente galleggiammo verso la parete sbattendoci contro. Sam appoggiò la schiena contro l'imbottitura, guadagnando una superficie di frizione sufficiente per permetterci di fermarci entrambi. «Divertente, no?» Mi ci volle un po' per riprendere fiato. Una volta fatto, mi resi conto che Sam mi stava tenendo tra le sua braccia e le sue labbra stavano quasi per sfiorare le mie. Mi scostai gradualmente, e fluttuai verso il centro dell'enorme sfera. «Divertente, sì» ammisi. Trascorremmo quasi un'ora giocando come due compagni di scuola durante l'intervallo. Ci agganciavamo e poi ci tuffavamo e poi rimbalzavamo sulle pareti imbottite. Giocammo a rincorrerci e a mosca cieca, sebbene io fossi certa che Sam barava provando a sbirciare ogni volta che poteva. Alla fine svolazzammo in mezzo alla sfera vuota, sudati, ansimanti, distanti la lunghezza di un braccio l'uno dall'alto. «Bene» disse Sam, passandosi una mano sulla fronte sudata. «Cosa ne pensi? Vale il prezzo di un biglietto per l'orbita?»
«Sì! Lo vale proprio. Credo che la gente pagherebbe volentieri per venire qui in vacanza.» «E in luna di miele» aggiunse Sam, con il solito sorriso malizioso. «Non hai ancora sperimentato l'aspetto migliore.» Risi allegramente. Non era possibile arrabbiarsi con lui. «Penso di riuscire a immaginarmelo abbastanza bene.» «Ah, ma l'esperienza diretta è tutta un'altra cosa.» Fissai quei suoi occhi marroni dall'espressione diabolica e, per la prima volta, mi sentii triste per Sam Gunn. «Sam» dissi più gentilmente che potei «dovresti ricordarti che Esmeralda amava il giovane poeta, e non Quasimodo.» Spalancò per un attimo gli occhi per la sorpresa. Poi il suo ghigno ritornò. «Diavolo, non bisogna per forza rimanere fedeli al copione, non pensi?» Era veramente incorreggibile. «Dovrebbe essere ora di pranzo» dissi. «Si deve tornare indietro fino alla mensa, no?» Così riaffrontammo il tunnel e più la gravità tornava più riuscivamo ad attaccarci ai pioli della scala come due pompieri che ridiscendono in strada. «Vuoi dire che sei innamorata di qualcun altro?» La voce di Sam risuonò sulle pareti metalliche del tunnel. Era sotto di me. Riuscivo a vedere la sua faccia, tonda come quella di una vecchia bambola con i capelli rossi spettinati e sporchi. Meditai per un attimo sulla domanda. «Penso di sì» risposi. «È più giovane di me? Ha la tua stessa età?» «Che differenza fa?» Rimase in silenzio per un bel pezzo. Alla fine disse sommessamente: «Bene, sarà meglio per lui che si comporti bene con te. Se ti dovesse creare qualche fastidio dimmelo, capito?» Le sue parole mi stupirono. Fui sorpresa a tal punto che quasi inciampai mancando uno degli ultimi scalini. Sam Gunn che si rivolgeva a me in modo paterno? Mi riusciva difficile crederci, eppure sembrava proprio che l'avesse fatto. Spence era già nella mensa quando arrivammo. Sam mi mostrò come far funzionare il distributore automatico dei cibi mentre spiegava: «Questa specie di intruglio è appena sufficiente per il
fabbisogno umano. Presumo che la Rockledge stia facendo degli esperimenti su quanto schifoso debba essere il cibo per indurre la gente a smettere di mangiare e fare in modo di lasciarla morire di fame». Presi dal distributore un vassoio già pronto e andai verso il tavolo dove era seduto Spence. C'erano solo dieci tavoli nella mensa, e per la maggior parte erano vuoti. «Gli operai più esperti si portano dietro il pasto e se lo scaldano con il microonde.» Sam continuava a chiacchierare. «Naturalmente, quando aprirò il mio hotel ci metterò un cuoco cordon blue e avrò il miglior servizio ristoro del cazzo che tu abbia mai visto. Una saletta per consumare le bevande, anche, con cameriere vere in graziosi completini. E neanche uno di quei robot idioti che usano a Cape...» Continuò a chiacchierare mentre noi consumavamo la nostra cena frugale. In realtà, il pasto non era molto appetitoso. Il panino alla soia era troppo freddo e quello che doveva essere un tè freddo era troppo caldo. Sicuramente era un pasto ricco di principi nutritivi, ma era anche insipido e senza gusto. Spence non riuscì a dire una parola, mentre Sam continuava a parlare concitatamente. Mi avrebbe fatto piacere parlare un po' con Spence. A un tratto mi sentii estremamente stanca, esausta. Era stata una giornata intensa, a partire dal volo da Cape alle acrobazie di Sam a gravità zero. Avevo dormito poco la notte prima dovendomi alzare all'alba. Sbadigliai in faccia a Sam. E immediatamente mi sentii imbarazzata. «Mi dispiace» mi scusai. «Ma sono davvero stanca.» «O annoiata» disse Sam, senza alcun risentimento. «Stanca» ripetei. «Affaticata. Non ho dormito bene la notte scorsa.» «Eri troppo emozionata» disse Sam. Spence non disse nulla. «Devo dormire un po'» dissi, spostando indietro la sedia. «Pensi di riuscire a trovare la tua stanza senza problemi?» chiese Spence. «Penso di sì.» «Ti accompagno fino alla porta» disse, alzandosi in piedi. Sam rimase a sedere, ma lanciò uno sguardo prima a me e poi a Spence. «Ho delle cose da sbrigare» disse. «Non appena avrò finito questo delizioso pasto della Rockledge.» Così Spence mi accompagnò lungo il corridoio in pendenza verso la zona dove si trovavano gli scompartimenti per la notte.
«Sam lavora molto anche quassù» dissi. Spence rise sommessamente. «Lavorerà su un paio di persone della Rockledge. Di sesso femminile.» «Come?» «Trova sempre qualcosa da fare, il ragazzo. Anche se devo ammettere» aggiunse Spence «che in questo modo riesce sempre a ottenere un sacco di informazioni segrete riguardo alle intenzioni della Rockledge nei suoi confronti... cioè, volevo dire contatti.» «Una specie di Mata Hari al maschile?» chiesi. Spence rise fragorosamente. Mentre ci stavamo avvicinando al mio scompartimento sentii la mia voce che chiedeva a Spence: «Perché non ci sono finestre negli scompartimenti? Sembrano così piccoli e angusti». Proprio mentre stavo parlando mi domandai se stavo tentando di ritardare il momento in cui avrei dovuto dare la buonanotte a Spence, o se si trattava di qualcos'altro. «È a causa del movimento rotatorio della stazione, hai presente?» rispose molto seriamente. «Se ci fosse una finestra nel tuo scompartimento vedresti le stelle girare tutt'intorno, e poi la Terra sfuggire alla vista, e forse anche la Luna, se si trovasse nella giusta posizione. Farebbe venire il mal di mare vedere ogni cosa ruotare intorno in quel modo.» «Ma Sam mi ha detto che il panorama è magnifico.» «Oh, lo è! Credimi. Ma da fuori, o da sotto, nella sfera d'osservazione posta nel punto centrale.» «Capisco.» «Sam vuole piazzare uno schermo video in ogni stanza dell'hotel. Come una specie di finestra da cui mandare l'immagine fissa della Terra o qualunque altra cosa si voglia vedere.» Così dopo tutti i suoi discorsi a proposito dell'importanza del vedere le cose come sono realmente, Sam si stava preparando a mostrare ai clienti del suo hotel niente di più che le immagini video della Terra vista dallo spazio. Era proprio un gringo capitalista e sfruttatore, mi dissi. Sentii ancora una volta la mia voce che chiedeva a Spence: «Ma il panorama è davvero così meraviglioso?» «Sam non te l'ha fatto vedere?» «No.» Il suo viso si illuminò. «Vuoi vederlo adesso? Non sei poi così stanca, vero? Ci vorrà giusto...»
«Non sono poi così stanca» dissi entusiasta. «Desidero davvero vedere quel mitico panorama.» Durante tutto il tragitto attraverso il tunnel che portava nel centro della stazione una voce nella mia testa continuava a rimproverarmi. Lo sai bene perché gli hai chiesto delle finestre, mi sgridava. Tu "volevi" che Spence ti portasse nella sezione a gravità zero. Fluttuammo nella grande palestra imbottita. Spence si diresse verso un punto particolare dell'imbottitura e ne staccò un pezzo, scoprendo un piccolo portello. Lo aprì e mi fece segno di raggiungerlo. Mi appoggiai sulla parete curva per darmi una spinta e galleggiai verso di lui, mentre il mio cuore batteva così veloce che temetti che mi spezzasse le costole. Spence mi aiutò a passare attraverso la stretta apertura del portello, poi mi seguì dentro una minuscola cupola. Lo spazio all'interno era appena sufficiente per due persone. Chiuse il portello e ci ritrovammo nell'oscurità più totale. «Aspetta un momento...» mormorò. Sentii un click e poi il rombo di un motore elettrico. A quanto pareva la volta si staccava, aprendosi come una conchiglia. E al di là... La Terra. Un'enorme massa rotonda di un azzurro lucente che si muoveva lenta, con un movimento grave ma armonioso, sotto di noi. Mi mancò il respiro. Spence mi mise un braccio intorno alle spalle e sussurrò: «Signore, amo la bellezza della tua dimora, e il luogo dove risiede la tua gloria». Era... non ci sono parole per spiegarlo. Eravamo avvinghiati uno sull'altro nella trasparente sfera d'osservazione e stavamo godendo della vista del mondo che ruotava, indescrivibilmente immenso e magnifico. Profondi mari blu e nuvole turbinanti di un bianco candido, il marrone e il verde del terreno e le pieghe formate dalle montagne e laghi scintillanti disseminati qua e là. Persino l'oscurità della notte aveva qualcosa di spettacolare con le luci delle città e delle autostrade che delineavano i continenti. «Non ha importanza quante volte lo hai visto» disse Spence. «Ti toglie il respiro ogni volta. Potrei stare qui a guardare per ore.» «È incredibile» dissi. «Dovremmo costruire più sfere d'osservazione per i clienti dell'hotel. Riempire l'intera sezione a gravità zero di sfere d'osservazione.» Il panorama cambiava continuamente, uno scenario grandioso si fondeva impercettibilmente con un altro. Vedemmo il Sole spuntare da dietro la curva dell'orizzonte, lanciare abbaglianti fiamme rosse e arancioni attra-
verso il sottile strato dell'atmosfera. Riconobbi l'istmo di Panama e la curva a testa di uccello dello Yucatan. «Dov'è l'Ecuador?» chiesi. «È troppo a sud rispetto a noi per essere visto da questa posizione. Perché vuoi vedere l'Ecuador?» L'euforia del momento mi aveva fatto dimenticare che si pensava che io fossi di Los Angeles. «Gregory Molina» temporeggiai prontamente. «Mi ha detto che è nato in Ecuador.» Quando vedemmo per la seconda volta il sorgere del Sole, circa due ore più tardi, mi stavo sciogliendo tra le braccia di Spence. Mi voltai verso di lui, con l'ardente desiderio che mi baciasse. Lui capì. Provava la mia stessa passione. Ma disse, con molta delicatezza: «Sono un uomo sposato, Juanita». «Ami Bonnie Jo?» «Un tempo. Ora...» Scrollò la testa. Nel chiarore emanato dalla Terra potevo vedere la sua espressione turbata e sofferente. «Io ti amo, Spence» gli dissi. Sorrise tristemente. «Forse tu pensi di amarmi, ma non è una mossa intelligente. Non sono adatto per te, piccola.» «Ma io so bene ciò che provo» insistetti. «Non renderla più difficile di quanto dev'essere, Juanita. Sono vecchio abbastanza per essere tuo padre e sono sposato. Non felicemente, questo è abbastanza vero, ma la colpa è tanto mia quanto di Bonnie Jo.» «Potrei renderti felice.» «Non dovresti comprometterti con un vecchio sposato. Presta un po' d'attenzione ai ragazzi della tua età, come Greg.» «Molina? Quel... quell'aspirante rivoluzionario?» Mi guardò profondamente sorpreso: «Rivoluzionario? Di che cosa stai parlando?» «Niente» troncai. «Niente, davvero.» L'umore era pessimo, il dialogo si era interrotto. Avevo confessato a Spence il mio amore e lui mi aveva trattata come una bambina con il cuore infranto. «È meglio che andiamo» dissi freddamente. «Sì» rispose Spence. «Abbiamo entrambi bisogno di una buona dormita.» Ma io non dormii. Neanche per sogno. La rabbia mi tenne in agitazione
per tutta la notte. Non solo Spence mi aveva respinto, ma mi aveva anche sminuito. Ai suoi occhi non ero una donna desiderabile, mi considerava una bambina a cui fare la paternale, da appioppare a qualche giovane cagnolino la cui unica aspirazione fosse vendicare il presunto onore della propria miserabile famiglia. Che pazza ero stata! Non amavo Spence. Lo odiavo! Trascorsi l'intera notte a ripetermelo. Quando tornammo a bordo del clipper per il viaggio di ritorno in Florida, Sam non era con noi. «Dov'è Sam?» chiesi a Spence. «Ha lasciato un messaggio. È andato a trovare un suo amico nella vecchia Mac Dae Shack.» «Dove?» «È una delle stazioni più piccole. È diventata un centro ospedaliero, adesso.» «Sam ha forse bisogno di cure mediche?» Spence fece in un largo sorriso. «Forse sì, tutto sommato, dopo la notte scorsa.» Non lo trovai molto spiritoso. Sam ricomparve in ufficio tre giorni dopo, e quando si fece vivo il suo ghigno assomigliava a quello di un gatto che avesse banchettato a base di canarini. Entrò con disinvoltura nel centro di controllo per le missioni mentre stavo verificando al monitor la nostra ultima missione di riparazione. Gregory Molina era seduto alla mia sinistra, tutto impegnato a smontare una serie di tastiere di computer che dovevano sostituite. «Sono riuscito a risolvere tutto per quanto riguarda l'hotel» annunciò a voce alta, lasciandosi cadere sulla sedia alla mia destra. «Congratulazioni» dissi. «Già. Finalmente ho trovato un accordo con la Rockledge per un leasing. Ho incaricato il mio amico Omar di occuparsi dell'organizzazione logistica in orbita. Fornitori, ciò che occorre per il personale, le assunzioni... tutto quel che c'è da fare sul posto.» Sorrise tutto soddisfatto e si appoggiò allo schienale della piccola sedia girevole. «Tutto ciò che mi occorre adesso sono i soldi.» Dovetti rivolgergli un sorriso. «Che mi sembra la cosa più importante.» «Nah.» Sam agitò un braccio per aria. «Farò in modo che il consiglio
approvi il progetto alla prossima riunione degli azionisti. Mancano solo sei settimane.» Saltò in piedi e usci dalla stanza a grandi passi e con fare risoluto, fischiettando nel suo solito modo stonato. «Gringo imperialista» mormorò Gregory Molina. «Però accetti la sua busta paga» gli rimproverai sarcasticamente. Mi rivolse un'occhiataccia. «E tu lo stesso.» «Ma io non lo ricopro di insulti.» «No. Ma tu non hai neanche bisogno dei suoi soldi, non è così? Vivi in un elegante condominio e guidi una fantastica macchina sportiva. I tuoi vestiti costano molto di più di quanto il tuo stipendio ti possa permettere.» «Mi stai spiando?» Sorrise amaramente. «Non ho bisogno di spiarti. Salti all'occhio come un elefante in un negozio di porcellane.» «Ebbene, la mia famiglia è benestante» dissi. «Cosa c'è di male?» «Non vieni da Los Angeles e non hai bisogno di questo lavoro, ecco cosa c'è. Che cosa ci fai qui?» Non potevo rispondere. Il mio cervello si bloccò davanti ai suoi occhi scuri che sembravano scagliare raggi laser. «È perché sei l'amante di Sam?» «No!» Sorrise a denti stretti. «Ma sei innamorata di Spence, giusto?» «No, non è vero!» «È evidente!» disse Gregory. «Lo odio!» «Sì» disse. «Lo vedono tutti.» Sei settimane dopo ci fu la riunione annuale degli azionisti. Nel frattempo divenni piuttosto esperta nella procedura che riguardava il controllo della missione a bordo. Durante le mie prime settimane di lavoro mi limitai a stare seduta accanto a Gene Redding a guardare come lavorava. Dopo due settimane mi permise di prendere il suo posto mentre lui faceva una pausa. Dopo un mese ci dividevamo le mansioni durante i turni continuativi di dieci o anche dodici ore. Sam aveva bisogno di più addetti al controllo delle missioni poiché il volume di lavoro era aumentato vertiginosamente. Come aveva previsto, i soldi cominciarono a entrare a fiotti alla VCI. La nostra competenza in fatto di riparazione dei comsat avariati e il servizio che prestavamo per il ri-
fornimento di carburante nei propulsori per il controllo dell'assetto trasformò improvvisamente la VCI in una delle maggiori potenze nel campo dell'industria delle comunicazioni via satellite. Invece di sostituire i comsat vecchi le società si rivolgevano alla VCI per rimetterli a nuovo, a un costo molto minore. Spence lavorava a stretto contatto con noi, occupandosi di persona della maggior parte delle missioni di controllo a distanza, e facendo funzionare i VTO senza equipaggio che ora portavano regolarmente a termine le missioni di riparazione e rifornimento in GEO. Sam era praticamente al settimo cielo. «Sarò in grado di assicurare degli utili da dividere tra tutti gli azionisti» ci disse «e ho anche un bel gruzzoletto di soldoni per far partire l'hotel.» Bonnie Jo lo guardò in cagnesco. «Potremmo dare un dividendo maggiore agli azionisti se tu ti dimenticassi una volta per tutte del tuo palazzo orbitale per il sesso.» Sam rise. «Che stai blaterando? Il mio hotel diventerà il più grande sistema per far soldi che tu abbia mai visto nello spazio. Ho già pensato allo slogan pubblicitario: "Se ti piacciono i letti ad acqua, impazzirai d'amore a gravità zero".» Bonnie Jo sbuffò. Spence trascorreva più tempo al simulatore che a casa con Bonnie Jo. Sam continuò a economizzare anche quando avremmo avuto bisogno di più personale. Avrebbe potuto almeno assumere un programmatore di computer alle prime armi, se non astronauti e addetti al controllo che avrebbero richiesto degli alti stipendi, e che Sam si rifiutava di ingaggiare. Lavorammo strenuamente per ore, e lo stesso Sam "volò" diverse volte per le missioni a distanza. Le restanti le fece Spence - più di Sam, a un calcolo effettivo. Mi sembrava che in fondo Spence fosse contento di avere una valida scusa per trascorrere così tanto tempo lontano dalla moglie. Chiunque avrebbe potuto intuire che il loro matrimonio stava andando a rotoli. Mi rattristava vederlo così infelice, e dovetti spesso ricordare a me stessa che mi aveva trattata come una scolaretta e che lo odiavo per questo. Da parte sua, Bonnie Jo sembrava assolutamente contenta che Spence trascorresse la maggior parte del suo tempo dietro le missioni a distanza. Lei stessa cominciò ad andarsene in aereo a Salt Lake City ogni fine settimana. Naturalmente, a causa del mio incarico come secondo addetto al controllo delle missioni e del suo come operatore principale delle riparazioni ai
satelliti, non eravamo quasi mai insieme. Be', non eravamo insieme fisicamente, per la precisione. Spence era in un'altra stanza, che distava circa venti metri dalla mia scrivania di controllo. Ma ogni tanto, quando non ero di turno, mi trovavo spesso a percorrere quel tratto di corridoio per vederlo al lavoro. Era seduto in un divano sagomato da astronauta, con le mani coperte da guanti metallici attaccati a dei cavi di fibre ottiche sottili come capelli e con la parte superiore del bel viso coperta dagli schermi stereoscopici che gli permettevano di vedere le immagini captate dalle telecamere installate sul VTO. Dicevo a me stessa che andavo lì per studiare le sue mosse, al fine di apprendere come poter sabotare le missioni per le riparazioni. Quando fosse giunto il momento avrei colpito senza pietà. Quando non stavo appoggiata sulla soglia della porta dell'appartato laboratorio per le manipolazioni, scrutandolo come un angelo vendicatore, ero davanti al mio banco di controllo, parlando effettivamente con Spence, collegata con lui elettronicamente, a lui vicina più di chiunque altro al mondo. Compresa la moglie. Volevo stargli vicina, il che avrebbe reso più facile per me trovare il modo di distruggere il suo lavoro, la sua società, la sua vita. «Pensi di partecipare alla riunione degli azionisti?» mi chiese Spence, in un momento di calma durante una delle missioni. Mi aveva rivolto una domanda personale, il che mi allarmò. «Puoi ripetere?» chiesi, usando il tipico gergo professionale dell'addetto al controllo. Spence soffocò la sua risata. «Va tutto bene, Juanita. Il VTO è ancora ormeggiato. Dovremo aspettare ancora un'ora prima di riprendere il lavoro. Rilassati.» «Oh. Sì. Naturalmente.» «Hai comprato delle azioni, non è così?» «Qualche quota» dissi. In realtà avevo speso tutto il mio stipendio sui titoli della VCI. Se fosse stato possibile comperare tutte le azioni esistenti lo avrei fatto, utilizzando i beni di mio padre con lo scopo di mettere la società nelle sue mani. Scherzo del destino, la riunione annuale degli azionisti ebbe luogo nello stesso giorno in cui mio padre tenne il suo famoso discorso alle Nazioni Unite. Mi parlò del suo discorso la notte prima della riunione. Come al solito, avevo guidato fino al consolato in piena notte per chiamarlo sul videotelefono. Almeno ebbe il buon senso di ricevere la mia chiamata nel suo ufficio, quando seppe che stavo per mettermi in contatto con lui.
Mio padre stava ardendo di orgoglio. Il suo sorriso era vivace, le spalle del completo erano più ampie che mai. Si era anche deciso ad affrontare l'operazione di impiantologia per rinfoltirsi i capelli. Sebbene si avesse l'impressione che la sua nuova zazzera di capelli ricci color castano fosse stata rubata a una giovane rockstar, tanto era ribelle e folta, non di meno lo faceva sembrare più giovane e più avvenente. «Con il Brasile a capo del Consiglio di Sicurezza e il Comitato delle Dodici Nazioni Equatoriali impegnato a cercare appoggio tra le piccole nazioni nell'Assemblea Generale, nutro grandi speranze per la nostra causa.» «E il tuo discorso?» gli chiesi. «Che cosa dirai?» Il suo sorriso si fece più largo, quasi più radioso. «Dovrai guardarmi in televisione, piccola. Voglio che ti sorprenda quanto si sorprenderà il resto del mondo.» Non mi avrebbe detto di più. Io, naturalmente, gli feci un rapporto dettagliato sui continui successi della VCI nel campo delle riparazioni dei satelliti e dei rifornimenti a distanza. E sulle crescenti tensioni tra i dirigenti della società. «Hai ancora la possibilità di distruggere il loro veicolo spaziale?» mi domandò. «Sì» risposi, riflettendo sull'entità del danno che avrei arrecato a Spence. «Ottimo» disse mio padre. «Si sta velocemente avvicinando il momento in cui colpiremo.» «Sarà necessario...» Improvvisamente la sua attenzione fu distolta da quanto stavo per dire. Sentii un assistente che gli gridava con il fiato in gola: «I rivoluzionari hanno teso un'imboscata alle truppe del Generale Quintana!» «Un'imboscata?» proruppe mio padre, con gli occhi rivolti altrove. «Dove? Quando?» «Sulle montagne di Azuya, a sud di Cuenca. Il generale è stato catturato e le sue truppe stanno scappando per mettersi in salvo!» La faccia di mio padre si fece grigia, poi rossa dalla collera. Si voltò verso di me. «Scusami, figliola. Ho delle cose urgenti da sbrigare.» «Vai con Dio» sussurrai, sentendomi una sciocca per aver usato un'espressione così arcaica. Ma era l'unica cosa che mi venne in mente. I rivoluzionari erano veramente abili. Dovevano aver saputo che mio padre aveva in programma di partire in volo per New York per pronunciare il discorso alle Nazioni Unite. Adesso avrebbe dovuto scegliere se an-
nullare il suo discorso e ammettere al mondo che la sua nazione stava vivendo nell'angoscia di un serio conflitto interno, o andare a New York e lasciare il suo esercito senza guida per parecchi giorni. Non riuscii a dormire quella notte. Quando arrivai alla riunione degli azionisti i miei occhi erano rossi e gonfi, lo stato d'animo a pezzi. Come avrei potuto aiutare mio padre? Continuavo a pormi questa domanda. Che cosa avrei potuto fare? Mi aveva mandato qui per aiutarlo ad aver la meglio su Sam Gunn e sugli altri gringos. Ma stava subendo delle minacce proprio nel suo paese e io mi trovavo a migliaia di chilometri di distanza da lui. Mi sentivo avvilita e stupida e impotente. Spence notò il mio abbattimento. Più di un centinaio di persone affollavano la stanza del grande hotel dove si stava tenendo l'assemblea degli azionisti. Dipendenti con i loro rispettivi coniugi, di tutte le età, di tutti i colori. Neri e spagnoli e asiatici, donne e uomini, Sam aveva messo insieme ogni varietà di razza umana nella sua azienda. Si assumeva in base alla competenza: la VCI era davvero una società senza nessun pregiudizio di sorta. A eccezione del fatto che si avvantaggiavano le appartenenti al sesso femminile, tanto più se erano giovani e attraenti. Quella era un'evidente debolezza di Sam. In mezzo a quella calca di gente, Spence mi notò. Si diresse verso di me attraverso la folla che si stava ammassando intorno al caffè e ai bomboloni. «Che cosa c'è, Juanita?» Guardai dentro ai suoi occhi azzurro chiaro e vidi che anche la sua espressione era triste. «Problemi familiari» mormorai. «A casa.» Chinò il capo tristemente. «Anch'io.» «Come?» Prima che potesse aggiungere altro, la voce di Sam si inserì nel frastuono delle conversazioni. «Bene, diamo inizio alla seduta. Dov'è il nostro nobile presidente? Ehi, Spence, diavolo dai capelli d'argento, per amor di Dio, cosa aspetti a venire qui a presiedere?» Spence mi sollevò il mento di un centimetro e. mi rivolse un sorriso stentato. «È venuto il momento di andare a lavorare» disse. Poi si voltò dirigendosi quasi di corsa in fondo alla stanza e saltò sul palchetto predisposto per l'occasione. Spence si trovava in mezzo a Sam, Bonnie Jo e altri due uomini seduti a
una lunga tavola disposta sopra il palchetto. Il consiglio dei dirigenti, pensai. Ognuno di loro aveva un microfono installato e una targhetta con il nome davanti. Ero quasi sicura che il più anziano dei due che non conoscevo - Eli G. Murtchison - fosse il padre di Bonnie Jo. C'erano due giganteschi impianti televisivi da entrambi i lati del palchetto. Mi domandai se l'hotel li tenesse sempre lì, o se fossero stati installati per qualche motivo particolare. Il resto degli astanti si servì delle sedie pieghevoli di plastica che l'hotel aveva disposto sul pavimento della sala. Erano dure e scomode: un incentivo per abbreviare la riunione, pensai. L'assemblea cominciò con le solite formalità. Spence chiese se i verbali dell'ultima riunione fossero stati registrati. Bonnie Jo lesse il suo resoconto sulle finanze così velocemente che non riuscii a capire neanche una parola. Poi Sam, in veste di presidente del consiglio, cominciò a esporre la sua relazione sull'andamento della società durante l'anno e sui progetti per l'anno successivo. C'era una certa tensione nell'aria. Anche mentre Sam illustrava con ardore i nuovi risultati raggiunti dalla VCI nel campo della riparazione a distanza dei satelliti, e anche mentre i presenti applaudivano fragorosamente all'annuncio che ci sarebbero stati degli utili da dividere tra i soci, l'atmosfera nella stanza era carica di elettricità. E io non facevo passare un istante senza chiedermi dove fosse mio padre, che cosa stesse facendo, che decisioni stesse prendendo. Uno degli azionisti - Gene Redding - si alzò per formulare una domanda. «Dunque, Sam, ecco, perché i nostri utili non sono maggiori visti, ecco, i buoni profitti che abbiamo raggiunto fino adesso?» Mi girai sulla sedia per guardare meglio Gene. Corpulento, pelato, con un'espressione leggermente turbata. Non lo avevo mai visto prima in giacca e cravatta: in ufficio andava sempre vestito in jeans e camicie sportive. Ma il suo completo era tutto sgualcito e la cravatta gli pendeva mollemente dalla camicia sbottonata. Mi sembrò che si sentisse in colpa per aver posto quella domanda. Stava dalla parte di Bonnie Jo, pensai. Sam rispose ermeticamente: «Abbiamo semplicemente reinvestito i nostri profitti nella società, per assicurarci una continuità di crescita. Quest'anno i profitti sono stati abbastanza alti da permetterci di dividere gli utili tra i soci. Ma dobbiamo continuare ancora a reinvestire i profitti nella società per assicurarci un futuro». Gene si fece rosso in viso, ma trovò lo stesso il coraggio di chiedere:
«Ma questi profitti sono destinati a incrementare i progetti già esistenti della VCI, o, ecco, qualcosa di diverso?» Sam lanciò una rapida occhiata in direzione di Bonnie Jo. Poi si rivolse a Gene con un gran sorriso. «Puoi sederti, Gene. Penso che avremo bisogno di un po' più di tempo per discuterne.» Bonnie Jo intervenne: «Sam ha intenzione di usare i nostri profitti - i "vostri" profitti - per costruire un albergo turistico in orbita». «Un hotel per le lune di miele» corresse Sam. Dalla folla si levarono dei mormorii. «E comunque non dobbiamo costruirlo» aggiunse Sam. «Possiamo affittare il posto a bordo di Alpha dalla Rockledge International.» «Non ci avevi già provato prima, quando la Global Technology costruì per prima la Stazione Spaziale Alpha?» chiese un altro azionista, una donna che non riuscii a riconoscere. «E non andò tutto a rotoli?» continuò un altro. «Ci hai già sbattuto le corna contro questo tipo di affari, non è così forse?» chiese un altro ancora. Capii che Bonnie Jo era stata molto accorta nel reclutare le sue forze. «Sì, sì» rispose Sam spazientito. «È successo tanti anni fa. Ora la Rockledge ha rilevato Alpha e sta cercando dei clienti per affittare dei posti nello spazio.» «In quali termini?» chiese Bonnie Jo. «È un buon affare» disse Sam entusiasticamente. «Un'occasione!» Guardai Spence, seduto tra Sam e Bonnie Jo. La sua faccia era una maschera, il sorriso era scomparso, i tratti del volto paralizzati come se non volesse tradire la benché minima emozione o pregiudizio di parte. Gene Redding si alzò di nuovo in piedi. Notai che le sue mani stavano tremando da quanto era nervoso. «Io...» si schiarì la voce «vorrei proporre, ecco, una mozione.» Spence disse bruscamente: «Vai avanti.» «Propongo... che il consiglio dei dirigenti...» sembrava che stesse recitando un discorso a memoria. «Rifiuti di assegnare, ecco, dei fondi... per qualunque progetto... non facente direttamente parte delle attività commerciali già esistenti della VCI.» Gene pronunciò le ultime parole d'impeto, poi si rimise immediatamente seduto. «Appoggio!» gridò Bonnie Jo. Spence fissò il muro nero della sala mentre ripeteva automaticamente: «Mozione proposta e appoggiata. Domande?»
M'aspettavo che Sam saltasse sulla tavola e cominciasse a dimenarsi in una danza di guerra. O che come minimo cominciasse a declamare, a urlare, a discutere fino a che non ci avesse esasperato tutti. Invece, guardò il suo orologio da polso e disse: «Sospendiamo la discussione per un attimo. Alle Nazioni Unite stanno per pronunciare un discorso che tutti noi dovremmo seguire attentamente». Spence concordò con la proposta di Sam in modo così deciso da suggerirmi che i due ne avevano già parlato precedentemente. Bonnie Jo fece uno sguardo sorpreso, ferito, ma suo padre le posò una mano sul braccio e lei si trattenne dal fare delle obiezioni. Il discorso che si teneva alle Nazioni Unite era quello di mio padre, naturalmente, sebbene nessuno nella sala fosse a conoscenza del fatto che ero la figlia del Presidente dell'Ecuador. Provai un moto di orgoglio quando la sua faccia maschia apparve sui giganteschi schermi televisivi. Se solo i suoi nuovi capelli avessero armonizzato meglio con il viso! Indossava un completo civile blu scuro, con la fascia rossa indicante la sua carica posta trasversalmente sopra il petto. Sembrava più grande del normale, con quel suo torace gonfio e largo. Mi resi conto che indossava un giubbotto antiproiettile. Temeva che i rivoluzionari tentassero di ucciderlo? O semplicemente non si fidava di New York? Mio padre tenne un discorso meraviglioso, anche se dovetti ascoltarlo tradotto in lingua inglese invece di sentire il suo spagnolo drammatico e fiorito. A ogni modo, risultò sufficientemente drammatico. Spiegò le motivazioni legali della nostra protesta riguardo l'orbita equatoriale, condannò l'ingiustizia perpetrata dalle società che si rifiutavano di condividere le loro ricchezze con i proprietari legittimi dell'orbita, e denunciò la complicità delle Nazioni Unite che permettevano che questa situazione terribile continuasse a persistere. Sedevo nella mia scomoda sedia pieghevole e mi sdraiai sotto il fuoco della logica inattaccabile e dell'atteggiamento determinato di mio padre. «Non c'è nessuno che voglia aiutarci?» domandò retoricamente, alzando le mani in segno di supplica. «L'intero apparato del diritto internazionale non può venire in aiuto alle Dodici Nazioni che si sono viste invadere e usurpare i propri territori? Non c'è nessuno che appoggi la Dichiarazione di Quito?» All'improvviso i tratti del suo volto si indurirono. Le sue mani si chiusero a mo' di pugni. «Molto bene, allora! Le Dodici Nazioni Equatoriali difenderanno da sole il loro sacro territorio, se sarà necessario. Devo rendere
noto, nell'interesse delle Dodici Nazioni Equatoriali, che l'orbita equatoriale appartiene a noi, e non ad altre nazioni, società, o entità. Stiamo preparando una squadra di astronauti provenienti da tutto il mondo per spedirla sull'orbita equatoriale a stabilire una residenza permanentemente. Una volta là, smantelleranno o altrimenti distruggeranno tutti i satelliti che gli invasori hanno piazzato nel nostro territorio.» Il pubblico presente nella sala delle Nazioni Unite rimase a bocca aperta. La stessa cosa accadde nella sala dell'hotel dove si stava svolgendo la riunione degli azionisti. Sentii la scossa del sangue bollente che mi correva nelle vene. «Difenderemo il nostro territorio da tutti gli aggressori che abbiano intenzione di invaderci» dichiarò mio padre. «Se ciò dovesse portare alla guerra, allora che guerra sia. A qualsiasi altra soluzione significherebbe sottometterci alle prepotenze dell'imperialismo!» La prima reazione della gente che mi era attorno fu quella di guardarsi intorno con aria spaesata, non riuscendo a proferire parola per lo stupore. Tutti tranne Sam, che esclamò: «Gesù Cristo in motoretta!» Non appena l'immagine televisiva scomparve, uno degli azionisti gridò: «Cosa diavolo dobbiamo fare adesso a "tale" proposito?» Ogni senso dell'ordine scomparve nella sala della riunione. Tutti sembravano impegnati a discutere contemporaneamente. Spence picchiò sul tavolo con le nocche della mano ma nessuno gli prestò attenzione. La controversia a proposito dell'hotel orbitale di Sam cadde nel dimenticatoio. Mio padre aveva stravolto l'andamento della riunione. Finché a un certo punto Sam saltò sul tavolo e cominciò ad agitare le braccia tutto eccitato. «Fate silenzio, maledizione e ascoltatemi!» urlò rabbiosamente. Nella stanza tornò il silenzio. Tutti gli sguardi si diressero verso il tozzo folletto dai capelli color ruggine che stava in piedi sopra una delle estremità della tavola. «Dobbiamo arrivare là prima di loro» ci disse Sam. «Dobbiamo mandare lassù in GEO qualcuno prima che lo facciano loro e rivendicare il nostro diritto sull'orbita. Vogliono portare avanti la cosa in modo legale, lo faremo anche noi. Più velocemente e meglio di loro!» Spence obiettò: «Sam, nessuno può rimanere troppo a lungo in GEO. È in mezzo alla zona esterna della fascia di Van Allen, per la miseria». «Prepara un paio di VTO, riempi i serbatoi in eccedenza con dell'acqua. Ci permetterà un'autonomia di circa una settimana o giù di lì.»
«Ma cosa ne sai? Dovremmo fare delle previsioni, controllare con degli esperti...» «Non c'è tempo per questo» interruppe Sam. «Si tratta di una competizione, di un'invasione, dobbiamo agire "subito". Farai dopo i tuoi calcoli. Al momento la cosa più importante è mandare qualcuno su GEO prima che quegli avidi figli di puttana arrivino lassù!» «Ma dove lo trovi uno abbastanza svitato da...» «Ci andrò io» disse Sam, come se avesse già pianificato tutto prima che Spence gli rivolgesse la domanda. «Datti da fare!» Ciò, naturalmente, mandò a monte la riunione. Spence chiese ufficialmente di aggiornare la seduta a tempo indeterminato. Tutti si precipitarono nel parcheggio delle automobili per tornare di filato nei rispettivi uffici. A parte Sam e Spence, che saltarono sulla Mustang convertibile di Spence e si diressero verso Cape Canaveral. Malgrado i miei sentimenti patriottici e l'amore che nutrivo per mio padre, mi sentivo elettrizzata. Ero spaventata all'idea di dovermi precipitare nella sezione di controllo delle missioni per dare inizio ai preparativi per il lancio di Sam su GEO. Spence sarebbe andato con lui fino alla Stazione Spaziale Alpha. Insieme si sarebbero recati alla stazione dove il nostro VTO era parcheggiato sul più vicino clipper Delta a disposizione, appena trentasei ore dopo il discorso di mio padre. Anche Bonnie Jo fu presa dall'atmosfera frenetica. Si recò al centro di controllo mentre Sam e Spence stavano preparando i due VTO per la missione di Sam. Era notte. Stavo facendo il mio turno, mentre Gene era in pausa dopo aver lavorato per dodici ore di fila. Bonnie Jo scivolò nella sedia accanto alla mia e mi chiese di aprirle il collegamento con Sam, su Alpha. «Abbiamo controllato sul monitor a che punto erano le operazioni di lancio brasiliane» disse, una volta che la faccia rotonda e lentigginosa di Sam apparve sullo schermo. «Stanno per lanciare un equipaggio. Affermano che si tratta semplicemente di una spedizione finalizzata alla ricerca scientifica diretta alla stazione spaziale Novo Brasil. Ma non è tutto, Sam: i brasiliani stanno anche per fare un lancio senza equipaggio.» «Con quale carico?» «Una vecchia navicella d'assalto che il governo degli Stati Uniti vendette all'asta cinque anni fa.» «Una cosa?»
«Una specie di modulo per proteggersi dal cambiamento di habitat, come quello che usavano gli scienziati nelle loro prime missioni su Marte per ripararsi dalle radiazioni solari.» Sam sembrava infastidito e irritato. «Non stanno andando su Marte.» «Secondo il piano di volo che hanno predisposto, si dirigeranno verso la stazione spaziale brasiliana.» «Merda. Hanno intenzione di arrivare su GEO.» «Pensi di riuscire ad arrivarci prima?» chiese Bonnie Jo. Fece segno di sì con la testa. «Riempite i serbatoi del secondo VTO con dell'acqua. Quei bastardi della Rockledge ce la faranno pagare a peso d'oro, ma almeno i serbatoi saranno pronti. Spence è fuori con un VEA adesso, sta sistemando un'altra unità di propulsione alla nave cisterna.» «Dove hai preso quell'unità di propulsione?» «L'ho smontata da un terzo VTO.» Bonnie Jo cercò di frenarsi, ma poi se ne uscì con tono di rimprovero: «Stiamo utilizzando ben tre VTO per questa missione, quando ne usiamo solo due per le nostre regolari missioni di lavoro». «Non ci sarà più nessuna missione se non arriveremo su GEO a difendere l'orbita.» L'espressione accigliata di lei si addolcì in un mezzo sorriso tirato. «Penso di poterti aiutare una volta là.» «Come?» «I brasiliani non hanno inoltrato alcuna richiesta alla AAI per i dispositivi di sicurezza sui loro piani ufficiali di volo.» L'Amministrazione Aerospaziale Internazionale deteneva l'autorità legale su tutti i voli spaziali. «Diavolo, non l'abbiamo fatto neanche noi» disse Sam. «Sì, ma tu non hai niente a che vedere con quel testa di cazzo di un equadoregno che dichiara di mandare un equipaggio ad occupare GEO.» Testa di cazzo di un equadoregno! Stavo quasi per prenderla a schiaffi. Ma mantenni il mio sangue freddo. C'era molto da imparare da lei, e io ero una spia, dopo tutto. Sam stava borbottando: «Non vedo cosa...» Con un sorriso che esprimeva tutta la sua presunzione e sicurezza in se stessa, Bonnie Jo spiegò: «Ho appena chiesto a mio zio, il senatore dello Utah, di sollecitare la AAI a nome delle società che operano nello spazio, al fine di sorvegliare l'aereo spaziale dei brasiliani per vedere se sta veramente conducendo delle ricerche sui tempi di esposizione agli alti livelli di
radioattività». Sam rispose al suo sorriso: «Gli hai sguinzagliato dietro i tutori dell'ordine!» «Gli esperti della sicurezza» corresse Bonnie Jo. «Figlia di puttana. È fantastico!» L'espressione di Bonnie Jo tornò seria. «Ma sarà bene che tu pensi a portare il tuo culo fuori dalla stazione spaziale e a dirigerti verso GEO prima che la AAI si accorga che anche tu sei fuorilegge.» «Saremo pronti in meno di due scodinzolate di spermatozoo» rispose Sam tutto soddisfatto. Il modo di fare di Bonnie Jo non lasciava assolutamente intuire se fosse o meno preoccupata per il fatto che Sam stava per esporsi alle radiazioni nella fascia di Van Allen. Devo confessare che provai un certo sollievo a sapere che era Sam che slava rischiando la vita, e non Spence. Ma stavo ancora covando dell'odio represso per le parole offensive che Bonnie Jo aveva rivolto a mio padre. E improvvisamente mi sovvenne che avrei dovuto dire a mio padre come avevano progettato di ostacolare la missione brasiliana. Ma come facevo? Sarei dovuta rimanere incollata nella mia postazione al centro di controllo missioni fino alle otto. Potrei provare a telefonare, pensai. Più tardi, nel cuore della notte, quando non ci sarebbe stato più nessuno in giro. Le ore passarono lentamente. A mezzanotte Molina e un altro tecnico erano con me nel centro, per aiutare Sam e Spence a eseguire gli ultimi controlli del VTO che era già stato precedentemente attrezzato per il lancio. All'una e mezza erano quasi pronti per cominciare il conto alla rovescia. Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro mentre guardavo Sam e Spence che andavano a ispezionare il VTO per l'ultima volta, entrambi con indosso la voluminosa tuta spaziale, mentre fluttuavano goffamente intorno all'aereo spaziale, controllando tutti i montanti, i serbatoi e i collegamenti elettrici. Le loro tute dovevano esser state bianche una volta, pensai, ma l'usura le aveva fatte diventare entrambe color grigio sporco. Durante gli anni trascorsi nello spazio Sam aveva vivacizzato la sua tuta con toppe e spillette decorative, ma anche queste si erano logorate e scolorite. Riuscivo a leggere solo la toppa su cui era stampato il suo nome. Diceva: L'umile erediterà la Terra. Tutti gli altri voleranno verso le stelle. «Ehi, Esmeralda» mi chiamò Sam «perché non vieni su con me? Sarà
terribilmente triste essere là sopra tutto solo.» «Pensa piuttosto alla tua ispezione» gli dissi. Ma Sam non si scoraggiò, naturalmente. «Potremmo fare pratica delle diverse posizioni per il mio hotel a gravità zero.» «Neanche tra un milione di anni» dissi. Sorrise e disse: «Aspetterò». Quando finirono l'ispezione finalmente cominciammo il conto alla rovescia. Tolsi dal display dello schermo le immagini trasmesse da Alpha e installai i dati d'uscita interni del VTO. Durante la mezz'ora successiva concentrai tutta la mia attenzione sul conto alla rovescia. In quel momento anche il minimo errore avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita di un uomo. Una parte di me si stava chiedendo che cosa sarebbe successo se Sam fosse stato ucciso. Ciò avrebbe mandato a monte la missione su GEO e avrebbe dato a mio padre l'opportunità di vincere. Ma pensai che mio padre non avrebbe permesso nessun tipo di assassinio, neanche politico. Avrebbe vinto mantenendo la sua coscienza pulita. E anche la mia. Un conto era armeggiare con un programma di computer allo scopo di distruggere un aereo spaziale privo di equipaggio. Non avevo l'istinto omicida e non lo aveva neanche mio padre. O almeno così mi dicevo. «Trenta secondi» disse Gregory Molina, seduto alla mia sinistra. Sam era diventato silenzioso. Era nervoso? Mi domandai. Io lo ero di certo. Avevo le mani sudate mentre fissavo i dati di uscita sullo schermo. «Quindici secondi.» Tutto sembrava a posto. Tutti i sistemi stavano funzionando normalmente. Tutti i dati d'uscita nel mio schermo erano regolari. «Separazione» annunciò il tecnico. Il lancio non fu problematico. Liberai per un attimo il mio schermo per collegarmi con una delle telecamere della stazione spaziale e vidi il goffo trabiccolo di Sam, che si stava allontanando senza troppo fumo, svanire nell'oscurità tempestata di stelle. Mi sentii indicibilmente triste. Lui era il mio avversario, l'acerrimo nemico del mio popolo. Avrei dovuto odiare Sam Gunn. Eppure, mentre se ne stava andando verso i pericoli sconosciuti che avrebbe incontrato dal momento che sarebbe dovuto rimanere per chissà quanto tempo nella fascia radioattiva, non provavo odio per lui. Ammirazione, forse. Rispetto per il suo coraggio, sicuramente. D'un tratto gli mandai un bacio. La forte emozione che provai mi fece
capire che in realtà a me "piaceva" Sam Gunn. «È una buona cosa che non abbia visto» grugnì Gregory. «Avrebbe girato il VTO e sarebbe venuto a prenderti per portarti con sé.» Mi appoggiai allo schienale della sedia, con la testa che mi rimbombava per la tensione, contenta del fatto che Molina fosse lì per ricordarmi quali fossero le mie vere responsabilità. «Sam è un furfante» dissi altezzosamente. «Si può ammirare un furfante senza esserne affascinati.» Gregory sbuffò sdegnato e si alzò dalla sedia, lasciandomi sola nel centro di controllo. Aspettai quasi fino all'alba prima di telefonare a mio padre. La missione stava andando come previsto: Sam stava facendo rotta verso GEO, tutti i sistemi si mantenevano nei parametri stabiliti, non c'era nient'altro da fare. Non c'era stata più nessuna comunicazione dall'ora di pranzo, benché stessi chiedendomi se Sam fosse talmente preoccupato per la sua passeggiata in mezzo alle pericolose radiazioni di Geo da aver perso la sua solita parlantina. Da qualche parte un gruppo di scienziati dell'università, che Spence aveva assunto come consulenti, stavano calcolando quanto a lungo Sam sarebbe potuto rimanere in GEO senza incorrere nei pericoli delle radiazioni. Molina e gli altri tecnici andarono a casa. Arrivarono altri tecnici nel centro di controllo a sedersi al mio fianco. Dopo un'ora di completa inattività, dissi loro di prendersi una pausa, di fare un sonnellino se volevano. Avrei potuto controllare i comandi da sola. Promisi loro di chiamarli se avessi avuto bisogno di aiuto. Telefonai a mio padre, invece. Era ancora a New York, dove aveva deciso di aspettare la notizia del successo della missione brasiliana. Lo svegliai, naturalmente, ma almeno questa volta era da solo nel letto. O almeno così sembrava. «È già partito?» Gli occhi assonnati di mio padre si spalancarono appena gli riferii le intenzioni di Sam. «Sì» dissi «e gli Stati Uniti stanno chiedendo alla AAI di fare un'indagine sui dispositivi di sicurezza dell'aereo spaziale brasiliano.» Sembrò che la notizia lo avesse turbato. «Ciò ritarderà la missione brasiliana di giorni!» sibilai, non potendo alzare la voce. «Sam arriverà su GEO e occuperà l'orbita prima che quelli riescano a partire dalla stazione spaziale.» Mio padre cominciò a bestemmiare in modo così volgare che ancora og-
gi arrossisco al pensiero. Si rivolse a me con tono di rimprovero: «E tu che cosa hai fatto a riguardo? Niente!» «Non c'era niente che potessi fare, papà.» «Ecco! Sono circondato da traditori e incompetenti! La mia stessa figlia non può alzare un dito per aiutarmi.» «Ma, papà...» «Ti rendi conto di che cosa sta facendo quel gringo? Sta ribaltando la situazione contro di noi! Sta usando il mio discorso come pretesto per portarci via l'orbita equatoriale! Mi considereranno un pazzo! Le Nazioni Unite, i mass media, il mondo intero - mi tratteranno come un pazzo!» Ero sconvolta e rattristata per aver scoperto che mio padre non si preoccupava del suo popolo o dell'ingiustizia della situazione. Si preoccupava solo della sua immagine. «Ma papà» gli chiesi piangendo «che cosa possiamo fare?» «Devi agire!» disse. «Avevi detto che eri pronta a sabotare il loro aereo spaziale. Adesso è il momento di farlo. Colpisci! Colpisci ora!» Fissai la sua immagine con orrore. Aveva la faccia stravolta dalla collera e dall'odio. «Ammazza quel bastardo d'un gringo!» urlò rabbiosamente. «Non deve arrivare vivo all'orbita equatoriale.» La cimice che avevo inserito nel programma della missione di controllo mi permetteva di far partire i reattori del VTO appena avessi deciso di azionarla. All'inizio avevo pensato di mandare un VTO privo di equipaggio a schiantarsi contro un satellite per le comunicazioni, un puro atto di sabotaggio. In ogni caso, Sam non aveva intenzione di parcheggiare il suo aereo spaziale abbastanza vicino a un com-sat da permettere che il mio piano funzionasse. Voleva semplicemente stabilirsi su GEO abbastanza a lungo per reclamare ciò che mio padre voleva per le Dodici Nazioni - facendo in modo che le Nazioni Unite gli riconoscessero questo diritto. Non potevo mandarlo a schiantarsi contro un satellite, pensai. Ma cosa sarebbe successo se avessi usato la mia cimice per accendere i suoi reattori appena si fosse avvicinato a GEO? Avrebbe sbandato oltrepassando l'orbita, finendo più lontano, fuori, nello spazio. La sua traiettoria l'avrebbe portato senza dubbio a entrare violentemente in un'orbita incontrollabile il che avrebbe significato o che sarebbe stato scagliato per sempre nello spazio
più profondo, o che sarebbe stato rispedito indietro in direzione della Terra, precipitando nell'atmosfera e prendendo fuoco come una meteora. Sì, dissi a me stessa, potrei uccidere Sam Gunn semplicemente muovendo un dito. Ero sola nel centro di controllo missioni. Nessuno mi avrebbe visto farlo. Poi avrei potuto eliminare il virus nel programma e nessuno avrebbe mai saputo perché i reattori di Sam fossero partiti da soli. Ma...uccidere Sam? Solo poche ore prima stavo dicendo a me stessa che mio padre era un uomo troppo virtuoso per abbassarsi a uccidere. E adesso... «Stanno per farlo fuori.» Mi girai sulla sedia per vedere Gregory che stava in piedi proprio sulla soglia del centro di controllo. Il suo viso aveva un'espressione severa, gli occhi erano rossi e stanchi. «Pensavo che fossi andato a casa» dissi. «Non mi hai sentito?» Venne verso di me con andatura greve, arrabbiato o impaurito o tutte due le cose insieme, non avrei potuto dire. «Stanno per ucciderlo! Lo ammazzeranno.» «No...non posso...» La voce mi si strozzò in gola. «È tutto stabilito» disse Gregory saltando sopra la sedia vicino a me come un gatto randagio. «Non puoi farci più niente.» «Non posso uccidere Sam» dissi, quasi singhiozzando. «Sam?» Gregory aggrottò le ciglia. «Non sto parlando di Sam. Si tratta di tuo padre. I rivoluzionari lo stanno per far fuori a New York.» «Cosa? Come lo sai?» «Perché sono uno di loro» proruppe. «È da molto che faccio parte dell'organizzazione. E ora sono stato incaricato di rapirti.» «Rapirmi?» La mia voce suonò strana anche a me: un tono stridulo di sorpresa e di paura. Eppure non mi sentivo impaurita. Intontita per lo shock, forse, ma non impaurita. L'espressione di Gregory era impenetrabile, ma sembrava che fosse tormentato. «Rapirti» ripeté «o ucciderti se il rapimento si dimostrasse impossibile.» «Non oseresti!» Il suo sorriso era amaro, alterato. «Questo è il nostro momento, principessa. Tuo padre si trova a New York, dove abbiamo parecchi uomini per eludere le sue guardie del corpo. Tu sei la sua unica parente viva - o comunque la sola che egli ammetta di avere. Il Generale Quintana sta già prendendo d'assalto le principali ca-
serme dell'esercito nella capitale.» «Il Generale Quintana? Ma lui era...» Le parole mi si spezzarono in gola appena capii che Quintana era un traditore. «Sarà il nostro prossimo presidente» disse Gregory, poi aggiunse: «Almeno così pensa lui». Spalancai gli occhi. Ancora con quel suo sorriso alterato, Gregory spiegò: «Stai forse pensando che siamo dei pazzi a fidarci di un traditore? O a mettere un generale sulla poltrona del presidente?» «No, presumo che non lo siate.» Gregory rimase a lungo in silenzio, poi chiese: «Mi permetti di rapirti? Solo il tempo necessario per evitare che tu avverta tuo padre». «In modo che voi possiate ucciderlo.» «Non ero d'accordo con il loro piano. Pensavo che avremmo potuto spodestarlo senza spargimenti di sangue, ma gli altri vogliono esser certi che non sia più in grado di fermarci.» Non dissi niente. Stavo provando disperatamente a pensare cosa avrei potuto fare, un modo per sfuggire a Gregory e avvertire mio padre. «Dopo che avremo finito con la missione di Sam ti porterò via con me.» La sua espressione cambiò. Sembrava quasi timido, imbarazzato. «Ti prometto che non ti verrà fatto alcun male. A meno che tu non voglia provare a resistere, naturalmente.» «Naturalmente» sbottai. Indicò il mio schermo. «È quasi ora di azionare il tuo virus.» «Tu lo sapevi?» «Certo che lo sapevo» disse. «Ti ho osservato attentamente sin dal primo giorno che sei arrivata qui, dicendo che venivi da Los Angeles.» Mi sentii sprofondare. Non avevo sospettato di lui neanche per un momento. Malgrado tutto, ero in qualche modo costretta ad ammirarlo per la sua intelligenza, anche se era mio nemico. O piuttosto il nemico di mio padre. «È un peccato che Sam debba morire» disse, con un tono sinceramente dispiaciuto. «Magari la sua traiettoria lo porterà abbastanza vicino a una delle stazioni spaziali in modo che qualcuno possa salvarlo.» «Non ci sono molte probabilità che questo avvenga» dissi. Scrollò le spalle. Con aria infelice, pensai. «Dobbiamo farlo. Non possiamo permettere a Sam di rivendicare il possesso dell'orbita.»
«Così i tuoi gloriosi rivoluzionari hanno delle mire sulla questione dell'orbita» gli rinfacciai. «Sì! Perché no? È un'occasione per una nazione povera come l'Ecuador poter beneficiare di una parte delle ricchezze che le multinazionali guadagnano con lo spazio.» «Così hai intenzione di uccidere anche Sam, come pure mio padre.» «No» disse freddamente. «Sarai tu a uccidere Sam.» In quell'istante si sentì la voce di Spence nell'apparecchio ricevente. «Prepararsi per l'IAO, Inserimento in Atmosfera Orbitale.» Era la voce di Spence, non quella di Sam. Greg mi guardò sorpreso. Provai un brivido di calore lungo tutto il corpo. Girai la sedia verso il pannello di controllo e inserii il collegamento radio. «Spence! Dove sei?» «A bordo del VTO, dolce Juanita. All'ultimo minuto Sam ha avuto una brillante idea e ci siamo scambiati di posto.» «Dov'è Sam?» «Dovrebbe essere a New York adesso.» «New York?» ripetemmo all'unisono. «Sì. Comunque, ho cinque minuti per prepararmi all'IAO. Ricevi?» L'Inserimento in Atmosfera Orbitale. L'ultima spinta propulsiva dei reattori del VTO per posizionare l'aereo spaziale nell'orbita geosincrona. Si trattava esattamente del momento in cui il mio virus avrebbe potuto azionare i reattori scagliando così l'aereo in un'orbita sperduta il che avrebbe senza dubbio ucciso il pilota. Ma il pilota era Spence! Ero già sconvolta dal pensiero di dover uccidere Sam, e adesso venivo a sapere che c'era Spence nel VTO! Non importava quanto fossi arrabbiata con lui, non importava quante volte avessi ripetuto a me stessa che lo odiavo, in ogni caso non avrei potuto coscientemente, volontariamente mandarlo incontro alla morte. «Per quanto valore possa avere» riferì Spence allegramente «i dispositivi di controllo per le radiazioni indicano che i livelli si stanno mantenendo tutti nella normalità, in questo vecchio ammasso di latta. Le radiazioni sono fuori, ma lo schermo protettivo sta reggendo bene. Finora.» Distolsi lo sguardo dallo schermo e mi voltai verso Greg. Aveva un'espressione terribile. «Non posso farlo» sussurrai. «Non posso ucciderlo.» Allungò una mano verso la tastiera del computer, poi la lasciò cadere
lungo il fianco. «Neanch'io.» «Tre minuti all'operazione IAO» ricordò la voce di Spence. «Ricevi?» Guardai l'orario riportato sull'orologio della missione mentre inserivo di nuovo il collegamento radio. «Trascrizione dell'operazione IAO in due minuti e cinquantasei secondi.» Greg sprofondò nella sedia accanto alla mia, a testa bassa. «Che rivoluzionario» bisbigliò. «Lasciami avvertire mio padre» protestai. «Non vorrai averlo sulla coscienza.» «No» disse, scrollando la testa caparbiamente. «Non posso farlo.» «Ma Sam sarà lì con lui, non capisci?» «Sam? Che cosa vorresti...» «Sam è andato a New York! È quello che ci ha detto Spence. La sola ragione per cui Sam si sarebbe recato a New York è vedere mio padre. Sam si troverà sotto tiro quando i tuoi sicari colpiranno.» Greg sembrava depresso, ma disse in tono rauco: «Non posso aiutarlo. Non posso farci niente». «Sì, ma io posso» dissi, cercando di raggiungere il telefono. «Non farlo!» «Cosa faresti? Mi uccideresti?» Mi afferrò il braccio. Cercai di liberarmi ma lui era più forte di me. Mi divincolai ma mi trattenne tra le braccia possenti poi mi tirò a sé e mi baciò. Prima che mi rendessi conto di cosa stavo facendo mi ritrovai a baciarlo, impetuosamente, appassionatamente, con l'istinto di un animale selvaggio. Alla fine Greg lasciò la presa. Mi guardò fissandomi negli occhi per un lungo, interminabile istante, poi disse: «Sì. Chiama tuo padre. Avvertilo. Non voglio partecipare a un assassinio. Una cosa è parlarne, pensare a come organizzarlo. Ma non posso proprio portare a termine questo progetto». «Un minuto all'operazione IAO» stridette la voce di Spence. «Trascrizione dell'operazione IAO in cinquantanove secondi» dissi mentre alzavo il ricevitore del telefono. Avevo ancora gli occhi rivolti verso Greg. Mi sorrise, col sorriso triste di un uomo che aveva mollato tutto. Per me. «Non sei un assassino» gli dissi. «Non hai niente di cui rimproverarti.» «Ma la rivoluzione...» «Al diavolo la rivoluzione e le questioni politiche!» irruppi mentre stavo digitando il numero della camera di mio padre.
«Siamo spiacenti» rispose una voce registrata al computer «ma il numero da lei chiamato non è in servizio al momento.» Mi sentii il cuore stringersi in una morsa di gelido terrore. Provai a chiamare la portineria dell'hotel. Faceva occupato. Per mezz'ora, mentre il VTO di Spence si era stabilizzato nell'orbita equatoriale e Spence ci stava riportando tutti i dati dei dispositivi di controllo radiazioni dentro e fuori il mezzo spaziale, il numero dell'hotel continuava a dare occupato. Ero già sul punto di mettermi a urlare quando Greg improvvisamente uscì di corsa dal centro di controllo e ritornò dopo un attimo con un piccolo televisore portatile. Lo accese sintonizzandolo sul canale notiziario 24 ore su 24. «...la situazione ostaggi» stava dicendo un inviato con l'impermeabile che si trovava di fronte a una torre dell'hotel. Stava piovigginando a New York ma un'enorme folla si era già accalcata ugualmente in mezzo alla strada. «Il presidente del Venezuela è ancora là dentro?» chiese una conduttrice invisibile. «Si tratta del presidente dell'Ecuador, Maureen» disse l'inviato che si trovava sul posto. «Be', sì, da quanto ne sappiamo si trova ancora nel suo appartamento con i terroristi che si sono introdotti circa un'ora fa.» «Sai se c'è qualcun altro là dentro con lui?» L'inviato, che se ne stava a capo scoperto sotto la fresca pioggerellina, strizzò gli occhi verso la telecamera. «Un paio di uomini del suo staff. I terroristi hanno rilasciato tutte le donne che si trovavano nell'appartamento circa mezz'ora fa. E sembra che ci sia anche un uomo d'affari americano. Il capo delle guardie di sicurezza dell'hotel ha identificato l'americano come Sam Gunn, di Orlando, Florida.» «Come hanno fatto i rivoluzionari a eludere le guardie del corpo di mio padre?» mi domandai a voce alta. «Corruzione» disse Greg. Si esprimeva come se stesse parlando di una cosa disgustosa. «Ci sono uomini che venderebbero l'anima al diavolo per soldi.» Riferii a Spence ciò che stava succedendo, naturalmente. Sembrò che la notizia lo lasciasse stranamente indifferente. «Sam si è già trovato in situazioni come questa. Riuscirà a dissuaderli con la sua solita parlantina.» Sta tentando di risollevarmi l'umore, pensai. «Ma questi sono degli as-
sassini!» dissi. «Dei criminali.» «Se non hanno ancora fatto fuori nessuno, significa che non ne hanno realmente intenzione. A meno che i famosi poliziotti newyorchesi dal grilletto facile non abbiano intenzione di intervenire.» Ciò non era molto incoraggiante. «Per quanto può valere» aggiunse Spence «secondo i dispositivi di controllo radiazioni i livelli si mantengono normali all'interno della mia cabina.» Non avevamo avuto tempo di collegare i dispositivi di controllo radiazioni con il sistema telemetrico, così non c'era nessun dato di uscita a riguardo indicato sul mio pannello di controllo. «Magari potresti provare a trasmettermi il telegiornale» suggerì. «Tanto per un po' non avrò niente da fare.» Instaurai il collegamento. Restammo davanti a quella minuscola televisione fino alle otto di mattina quando Gene Redding e gli altri assistenti fecero la loro apparizione nel centro di controllo. Il cielo nuvoloso di New York faceva presagire una giornata uggiosa. Pensai di noleggiare un aeroplano per volare fin là, ma mi resi conto che non sarebbe stata una buona idea. I rivoluzionari continuavano a tenere in ostaggio gli uomini che erano nell'appartamento, l'hotel era circondato dalla polizia e nessuno poteva entrare o uscire dall'appartamento dell'ultimo piano dove si trovava mio padre. Tutti gli impiegati della VCI stavano davanti al televisore per seguire gli sviluppi della vicenda. Sembrava che almeno la metà di loro si fossero accalcati nel centro di controllo per le missioni. Gene Redding aveva preso il mio posto nella postazione di controllo, mentre io mi ero spostata nella sedia di destra, con ancora addosso le cuffie. «Vuoi scommettere che Sam riuscirà a farli ragionare?» mi chiese Spence. Scrollai la testa, poi mi resi conto che non poteva vedermi. «No» dissi. «Neanche Sam potrebbe...» «Aspettate un momento!» disse l'inviato del telegiornale. Era rimasto sul posto tutta la notte senza mai staccare un momento, esattamente come noi. «Aspettate un momento! Sembra che stia succedendo qualcosa lassù!» La telecamera spostò l'inquadratura verso il balcone dell'appartamento di mio padre. E là si trovava Sam, con un sorriso a trentadue denti, e vicino a lui c'era mio padre, anche lui sorridente - sebbene apparisse pallido e tirato, stanco morto. Dietro di loro, tre terroristi rivoluzionari stavano toglien-
dosi dalla faccia gli occhiali da sci. Anche loro stavano ridendo. Noleggiai l'aeroplano più veloce che avevano a disposizione all'aeroporto di Orlando e partii per New York. Con Gregory al mio fianco. Quando arrivammo all'hotel, la polizia e la folla e persino i giornalisti se ne erano andati già da un pezzo. Sam stava seduto sull'orlo di una delle grandi poltrone di lusso della hall, e sembrava quasi un bambino che stesse giocando in una sedia per grandi. Indossava ancora la tuta sbiadita che si era messo per andare in missione nello spazio. Mio padre, elegante, rilassato nella sua veste da camera di seta marrone e sciarpina di seta bianca, stava comodamente stravaccato nell'immenso divano che si trovava sulla destra rispetto alla poltrona di Sam. Il tavolino davanti a loro era ricoperto di fogli. Mio padre stava fumando una sigaretta con un lungo bocchino di avorio bianco. Stava giusto esalando una grigia nuvoletta di fumo verso il soffitto quando io e Greg ci precipitammo nella stanza. «Papà!» gridai. Balzò in piedi e nascose la sigaretta dietro la schiena come un ragazzetto colto in fallo. Sam rise. «Papà, va tutto bene?» Attraversai di corsa la stanza verso di lui. Goffamente, appoggiò il lungo bocchino sul bracciolo del divano mentre gli gettavo le braccia intorno al collo. «Sono illeso» annunciò tranquillamente. «I rivoluzionari sono tornati a Quito per formare il nuovo governo.» «Un nuovo governo?» «Il Generale Quintana sarà a capo del governo provvisorio» spiegò mio padre «finché non si terranno le prossime elezioni.» «Quintana?» dissi senza riflettere. «Il traditore?» La faccia di Greg assunse un'espressione grave. «L'esercito sosterrà il nuovo governo e troverà delle scuse per non andare alle elezioni. È una vecchia storia.» «Cos'altro potrei fare?» chiese mio padre tristemente. Ancora seduto sulla grande poltrona, Sam stava ridacchiando. «Hai fatto del tuo meglio, Carlos, vecchio mio.» Sam Gunn che chiamava mio padre con il suo nome di battesimo? Alzandosi in piedi, Sam mi disse: «Ti presento il nuovo comproprietario della Orbhotel Inc.» Una sorpresa dopo l'altra. Mi ci vollero delle ore prima di capire chiara-
mente che cosa fosse successo. Gradualmente, mentre Sam e mio padre mi raccontavano come si erano svolte le cose, cominciai a farmi un quadro della situazione. Sam si era introdotto a sproposito nell'appartamento dell'hotel dove alloggiava mio padre proprio mentre stava arrivando il gruppo dei terroristi rivoluzionari, armi in mano. «Hanno corrotto due delle mie guardie del corpo» disse mio padre con espressione truce. «Si sono introdotti passando addirittura per la porta principale dell'appartamento, indossando quei ridicoli occhiali da sci.» Sam aggiunse: «Erano talmente concentrati su tuo padre e le altre due guardie del corpo che non si sono neanche accorti che stavo entrando proprio dietro di loro. Quali assassini. Un terzetto di mocciosi con le pistole». Appena si resero conto che nell'appartamento c'era anche un cittadino americano gli studenti-assassini non seppero più cosa fare. Sam, naturalmente, cominciò subito a disorientarli con un monologo senza fine su come sarebbero potuti arricchire se gli avessero semplicemente prestato ascolto. «Sono tutti azionisti della mia nuova società» ci disse Sam tutto contento. «Sam Gunn Enterprises, Unlimited. Un nome carino, non trovate?» «Si sono astenuti dall'uccidere mio padre in cambio di azioni di una società inesistente?» domandai. «Esisterà!» insistette Sam. «Diventerà la società finanziaria di tutte le mie imprese - la VCI, la Orbhotel, e tutte le altre che avevo in mente di realizzare, come tu sai.» L'espressione sul volto di mio padre si fece più tetra. «Non sono bastate le azioni della società di Sam per convincerli.» «Come? Cosa vuoi dire?» «Ho dovuto rinunciare alla mia carica di presidente dell'Ecuador e nominare Quintana capo del governo provvisorio.» «Finché non si saranno le elezioni» aggiunse Greg sarcasticamente. «Chi è questo giovanotto?» chiese mio padre. «Il mio nome è Gregorio Esteban Horacio Molina y Diego, figlio del professor Molina, che sfuggì ai vostri servizi segreti l'anno che diventaste presidente.» «Ah.» Mio padre si chinò sul divano e prese di nuovo in mano il bocchino. «Allora vorrai uccidermi anche tu, suppongo.» «Papà, ti stai uccidendo da solo con quelle sigarette!» «Niente prediche oggi, piccola» mi disse. Poi fece un lungo tiro di siga-
retta. «Sono stato fin troppo stressato nelle ultime venti ore.» «Greg non era d'accordo sul fatto di ucciderti» dissi a mio padre. «Voleva che ti avvertissi.» Avevo un po' esagerato la realtà dei fatti, naturalmente, e mi domandai perché mai l'avessi fatto. Finché non mi voltai a guardare Greg, così sincero, così bello, così coraggioso. Da parte sua, Greg disse: «Così lei e questo gringo imperialista avete unito le vostre forze». «Imperialista?» rise Sam. «Ho investito i miei fondi privati nel progetto dell'hotel orbitale, è vero» ammise mio padre. «Soldi provenienti dal traffico della droga» accusò Greg. «Soldi che vengono dalla cocaina, ottenuti con il sudore dei poveri contadini.» «Stiamo per rendere quei contadini molto più ricchi» disse Sam. «Certo, naturalmente.» Greg li guardò entrambi con un'espressione omicida. «Stammi a sentire, testacalda» disse Sam, puntando il suo tozzo dito verso Greg. «Prima di tutto, io non sono un fottuto imperialista.» «Allora perché avresti preteso di avere l'orbita equatoriale tutta per te?» «In modo che nessun altro ne rivendicasse il diritto. Non me ne frega una sega se le Nazioni Unite riconoscano o meno la vostra richiesta, quello che io sto facendo è dare tutti i diritti riguardanti l'orbita alle Nazioni Unite. Quell'orbita appartiene a tutti, e non a una particolare nazione o società.» «Tu stai...?» «Sì, certo. Perché permettere agli avvocati di trascorrere i prossimi venti anni azzuffandosi sulle questioni legali? Io rivendico il diritto sull'orbita, poi volontariamente cedo il diritto a tutti i popoli del mondo, che sono rappresentati dalle Nazioni Unite. Ecco tutto!» E Sam fece una linguaccia a Greg, come un ragazzino pieno di sé. Prima che qualcuno di noi potesse rispondere, Sam continuò: «Si possono fare molti soldi nello spazio, bimbi miei. La VCI rappresenta solo l'inizio. La Orbhotel sarà la nostra carta vincente, e con i soldi di Carlos non dovremo batterci contro gli azionisti della VCI per ottenere i liquidi per cominciare». «E come faresti a rendere i contadini dell'Ecuador più ricchi?» chiese Greg, ancora sul piede di guerra. Sam si appoggiò sullo schienale della confortevole poltrona e congiunse le mani dietro la lesta. Il suo ghigno si allargò enormemente.
«Facendo diventare il governo dell'Ecuador socio della Sam Gunn Enterprises, Unlimited.» La faccia di Greg diventò rossa dalla rabbia. «Il che significherebbe far arricchire Quintana, non il popolo!» «Solo se si permette a Quintana di stare in ufficio» disse Sam con aria di sufficienza. «Il tipico imbroglio degno di un gringo.» «Aspetta un momento. Riflettici su. Supponi che io annunciassi che ho intenzione di far entrare un governo "democraticamente eletto" dell'Ecuador come socio della mia società. Ciò non ti sarebbe di aiuto per cacciare Quintana dal suo posto di potere?» «Sì, naturalmente funzionerebbe» dissi. Greg non era poi così entusiasta. «Potrebbe essere d'aiuto» disse cautamente. Ma poi aggiunse: «Anche se così fosse, il fatto di diventare soci della tua società come potrebbe far diventar ricchi milioni di contadini indigenti?» «Di certo non lì renderebbe più poveri» rispose Sam. «Puoi anche mettere pochi sucres nelle loro tasche, ma già quel poco renderebbe la loro vita un po' più dolce, non pensi?» Sam aveva fatto un gioco di parole usando due lingue! Rimasi impressionata, anche se Greg non lo fu. «E potremmo comperare tutti i generi alimentari per la Orbhotel dai produttori equadoregni naturalmente» continuò Sam. «E si potrebbero vendere i prodotti equadoregni anche in altri negozi e punti vendita in orbita. Scommetto che si ricaverebbe un buon profitto. Certo, in questo momento vivono in orbita solo poche centinaia di persone ma presto saranno molte di più. Tra qualche tempo diventeranno migliaia, e una volta che i giapponesi inizieranno a costruire i loro satelliti a energia solare ci saranno molti operai da dover sfamare.» Senza neanche riprender fiato Sam disse ancora: «Poi abbiamo intenzione di costruire un posto appena fuori Quito dove organizzare corsi di perfezionamento per chi lavorerà nell'hotel. Potremmo decidere le assunzioni dando la precedenza agli equadoregni, naturalmente. Tuo padre ha concluso un ottimo affare, Esmeralda, credimi». Continuò ancora a parlare senza sosta finché alla fine anche Greg fu quasi convinto che Sam avrebbe potuto aiutare il popolo ecuadoriano. Era già buio quando Sam alla fine disse: «Perché non andiamo a cercare un buon ristorante per festeggiare la nostra nuova società?»
Mi voltai verso Greg. Era indeciso. Così dissi, a nome di entrambi: «Benissimo. Stasera restiamo per cena. Ma domani Greg e io partiremo per Quito. Ci sarà molto da fare se si deve impedire a Quintana di rinsaldare la sua presa sul governo». Sam sorrise ad entrambi. «Andrete a Quito come rappresentanti della Sam Gunn Enterprises, Unlimited. Non voglio che Quintana pensi a voi come a dei rivoluzionari e vi metta in mezzo ai guai.» «Ma noi siamo dei rivoluzionari» replicò Greg. «Lo so» disse Sam. «E della miglior specie. Di quelli che riusciranno davvero a cambiare le cose.» «Pensi davvero che potremmo?» chiesi. Con mia grande sorpresa, mio padre disse: «Dovete. Il futuro è nelle vostre mani». «Non essere così tragico, Carlos, vecchio mio.» disse Sam. «Devi entrare nell'ottica del grande disegno.» «Il grande disegno?» «Certo. Si possono fare dei soldi nello spazio. Molti soldi.» «Questo l'ho capito» replicò mio padre. «Sì, ma devi capire anche il resto.» E Sam guardò Greg dritto negli occhi mentre diceva: «I soldi si fanno nello spazio. Ma poi vengono spesi qui sulla Terra». Mio padre si pettinò i baffi con la punta delle dita con atteggiamento pensieroso. «Capisco.» «Quindi falli circolare e avrai il tuo tornaconto.» Greg quasi sorrise. «Ma penso che tu farai più soldi di chiunque altro, non è così?» Sam gli rivolse uno sguardo pietoso. «Sì, è così. E li spenderò anche più in fretta di chiunque altro.» Così io e Greg ritornammo in Ecuador. Il Generale Quintana suo malgrado fu costretto a farsi da parte e a concedere che si tenessero le elezioni. In Ecuador tornò la democrazia, anche se Greg asseriva che era la prima volta che arrivava nel nostro paese. Quintana si ritirò garbatamente, grazie a un'ingente somma di denaro che Sam e mio padre sborsarono per corromperlo. Spence e Bonnie Jo alla fine divorziarono, ma ciò accadde anni dopo. Nel frattempo io ho sposato Greg che è diventato un giovane e promettente uomo politico che vorrebbe a sua volta diventare presidente dell'Ecuador. La situazione economica del paese sta lentamente migliorando, grazie agli
investimenti nelle industrie spaziali. L'hotel orbitale di Sam rappresentò solo il primo passo nella costante crescita del commercio nello spazio. Non ho più visto Sam da allora. Non faccia a faccia. Come potete immaginare, potevamo vederlo di continuo nelle sue apparizioni televisive. Proprio come aveva detto, spese fino all'ultimo centesimo che aveva guadagnato con l'Orbhotel e fallì. Ma questa è un'altra storia. E gracias a Dios, è una storia che non mi riguarda. Titolo originale: Sam's War Analog Science Fiction/Fact, July 1994 RINASCITA di Poul Anderson Ai margini di un buco nero il cibercosmo dell'umanità deve correggere un errore Penso che me ne abbia parlato perché sono sua figlia. Non che mi abbia generato nella carne. Quando nacqui, lui stava ancora tornando da un viaggio che era cominciato quasi trecento anni prima. Quando poi potemmo parlare, lui era una macchina. Ma mio padre e mia madre sono portatori dei geni suoi e della sua consorte. Furono creati con le stesse memorie di base, che risalivano alla Terra stessa, e anche con qualche ricordo comune di vite vissute in seguito. Del resto, io somiglio a lei quand'era giovane. Macchina o meno, quando ci incontrammo lui dimostrò di volermi bene. Mi disse che, se gradivo ascoltare l'intero resoconto del motivo per cui era tornato tanto prima del previsto, sarebbe stato lieto di raccontarmelo. Eccome, se gradivo! Penso che anche lui ne avesse bisogno. Aveva pur sempre riversato la sua esperienza nei database appositi, però quello è un atto impersonale. Era entrato in comunione con la Madre della Vita del nostro pianeta, ma era un gesto sacrale. Mi chiedevo se fosse stata la Madre a consigliargli di cercare un normale contatto umano. Possibilissimo. Per la sua consapevolezza, il terrore e la solitudine gli erano alle spalle solo di pochi giorni. Era
incolume, eppure appariva scosso, ferito. Forse queste ore in mia compagnia contribuivano ad accelerare la sua convalescenza. Forse così poteva tornare più forte ad affrontare di nuovo quella cosa. Mi piacerebbe crederlo. Uscimmo da Rydberg e risalimmo l'Argen verso monte. Alla nostra destra i pioppi sussurravano nella brezza. Le loro foglie pallide intrappolavano la luce del sole rifrangendola sulle proprie ombre. Sulla nostra sinistra il fiume mormorava luccicante. Oltre l'altra sponda una fattoria, verde, verde e dorata, si stendeva verso le colline incolte. A sprazzi ci arrivava il riflesso di un robosorvegliante. Entrambe le lune erano alte, falci esangui in un azzurro attraversato da ali e brandelli di nuvole. L'aria si sollevava tiepida, odorosa di sentori erbacei. Presto la città non fu più visibile. Quando arrivammo presso una sponda muschiosa, mi inginocchiai per bere - lì l'acqua aveva un lieve pizzicore metallico - e mi sedetti sul morbido. Passò una farfalla, come un frammento d'arcobaleno. Potevo sentire la presenza vicina della Madre della Vita, che guardava e proteggeva tutto ciò con cui i nostri antenati avevano seminato questo mondo. Il buco nero sembrava remotissimo, pareva estendersi in un'altra realtà. Ma il mio compagno c'era andato. Il corpo che indossava quel giorno rimase eretto, due gambe, due braccia, due mani, fin quando non mi si venne ad accomodare al fianco. Dalla torretta fece uscire l'immagine della sua testa mortale, che poteva essere quella di mio padre, squadrata, rossa di pelo, dai lineamenti irregolari. Chissà come, questa familiarità rese ancor più agghiacciante e alieno ciò di cui parlò. Non era stato umano allora, non realmente, come posso esserlo io. E nemmeno lo era adesso, nonostante i tanti indizi quotidiani che me lo rendevano caro. Non riesco a riportare la sua storia o quella della sua Demetra come poteva apparire a loro. Non ho un cervello elettrofotonico. Non possiedo i sensori o le funzioni di una macchina. Né sono stata allevata in serbatoio. Io sono stata partorita da un grembo. In me non erano mai stati riversati ricordi di esistenze passate, quelli che ho sono entrati direttamente in questo organismo durante i trent'anni della mia vita. Le pseudosperienze in una scatola onirica forniscono sensazioni misere per la rigenerazione organometallica. Sono poco animali. Non le capirò mai, almeno finché ne avrò delle mie. E voi? Riferirò quel che ho sentito come l'ho sentito, nel linguaggio comune, perciò frammentario e spesso falso: riferirò quel che trovarono laggiù. Era,
la loro, la prima spedizione verso il primo buco nero, individuato a distanza praticabile rispetto a un insediamento qualsiasi, che una qualsiasi delle nostra razze abbia trovato finora. Eppure la loro astronave, che procedeva poco sotto la velocità della luce, percorse una rotta di un secolo e mezzo. «Forse ci dovevamo aspettare ben altro che sorprese, ma tuoni e saette» borbottò la sua voce, simile a quella di mio padre. «Però come facevamo a sapere? Di sicuro nessuno ci aveva avvertiti.» Nel momento che era stato calcolato come il più opportuno, la nave chiuse i circuiti per risvegliarli. La riattivazione comportò uno smarrimento momentaneo. Nella loro mente stavano ancora accelerando, avevano appena finito di lanciare addii laser al nostro mondo. E poi, di colpo, si trovavano di fronte lo spazio straniero, e il nostro Sole era una stella fra tante, di sicuro non tra le più luminose. L'orientamento si cristallizzò. La microgravità e il silenzio della mancanza d'atmosfera erano abbastanza familiari. La maggior parte del cielo che li circondava era cambiata ben poco: il guazzabuglio stellare, rosso, giallo, biancazzurro; la striscia della galassia che vi si rovesciava attraverso, una banchisa spezzata da neri golfi di polvere cosmica: le nebulose brillanti e merlettate; galassie consorelle lontane lontane; fermenti d'onde radio, un duro nevischio particolato. Nonostante tutto, era uno spazio straniero. Davanti, bruciava il fuoco che contornava la loro destinazione. Anson Guthrie si lasciò sfuggire un sospiro. «Be', vecchia, ce l'abbiamo fatta.» Naturalmente non erano suoni, ma segnali che lanciava mentalmente nel proprio trasmettitore. Il cervello di lei comunque li interpretava come lui li intendeva, perché anche Demetra aveva alle sue spalle tante vite carnali quanto robotiche. Possedevano mezzi di comunicazione più raffinati o più potenti, a seconda della necessità. Ciò che in quell'istante desideravano era stare insieme. Non potevano tenersi per mano. I loro recipienti cerebrali giacevano in profondità all'interno di un complesso di controllo pesantemente schermato. Comunque possedevano dei modi di generare la propria immagine. Lei lo "vedeva" come quando lui era giovane e umano, su una spiaggia dove la risacca urlava sotto un vento insistente. Lei gli appariva come era stata sintetizzata la prima volta, tanto tempo prima in un pianeta da tanto tempo distrutto: capelli scuri, pelle color dell'ambra, occhi castani, colei che nelle molteplici incarnazioni sui nostri mondi svariati e nelle loro varie vicende
abbiamo sempre chiamato Demetra. Attorno le si estendeva una foresta. Si guardarono, risero, ignorarono le ambientazioni contraddittorie e simularono un abbraccio. Le loro labbra s'incontrarono. «Caro» disse lei, sua eterna innamorata. Poi si ritrasse. Il suo sorriso vacillò. «È stato dolce, in un modo spettrale. Simile...» «Aspetta soltanto che torniamo mortali» replicò lui. «Ti farò delle coccole che non sono per niente spettrali. Camminerai a gambe larghe.» La battuta suonò più rauca che divertente. Non gli era mai piaciuto granché essere un riversamento, una codifica di memorie e sinapsi. Per lui era roba impalpabile rispetto a un vivente organico. Ogni volta che il suo programma era inserito in un nuovo Guthrie umano, spesso se lo faceva rimuovere simultaneamente dal network neurale, dichiarando che al momento era stanco della condizione robotica e tanto a quello non gliene fregava niente di andare avanti da solo. Demetra completò la frase: «... dovremmo prestare più attenzione a dove ci troviamo adesso». «Giusto» rispose lui, con una nota più allegra nella voce. Dopo tutto le macchine sono capaci di conseguire risultati e affrontare avventure a cui gli umani non potrebbero mai accostarsi, né tantomeno sopravvivere. Quand'era organico, rimpiangeva di non poter ricordare tutto quel che aveva incontrato. L'astronave, versatile risolutrice di problemi, doveva aver deciso che questa regione era sicura. Però era robotica, quindi priva di personalità consapevole. Erano le menti che trasportava che si dovevano accorgere dei particolari e cercare di comprenderli. Demetra consultò database e strumentazione. Uno dei riversamenti che erano andati a costituire la primissima Madre della Vita, su Alpha Centauri (poi, probabilmente, passati alla prima Demetra Figlia) era stato quello di un astronauta. Mentre esaminava i parametri del vascello e dell'orbita, Guthrie si mise in connessione con un programma di astrofisica. Acquisita una sufficiente erudizione, studiò il buco nero attorno al quale stavano ruotando. Si trovavano a una distanza di sicurezza di venti unità astronomiche. Per visualizzare il corpo celeste erano necessari un magnificatore d'immagine e un'implementazione. Con una massa di dieci sol appena, il suo orizzonte degli eventi aveva un diametro di poche decine di chilometri. Sullo schermo appariva come un puntino di assoluta tenebra cerchiato di blu. Se la rotta dell'astronave non fosse stata molto inclinata, non sarebbe stato visi-
bile nemmeno quello, perché attorno al buco ruotava un disco d'accrescimento. La materia che vi veniva risucchiata emetteva una cascata di quanti. A milioni di chilometri dal centro, quel fuoco appariva soltanto come degli opachi sbaffi di onde radio, ma più all'interno ardeva scatenato, microonde, fotoni, ultravioletti, raggi X, un maelstrom attraverso cui scattavano dei lampi e guizzavano ombre transitorie. Sulle prime non riuscì a vederlo realmente, perché la sua mente doveva ancora imparare come si faceva. Non riusciva mai a rendersi del tutto conto visivamente del margine interno, dove gli atomi sprofondavano nell'oblio attraverso un tempo che i suoi orologi misuravano come infinito. Demetra unì il suo sguardo a quello di Guthrie e sussurrò: «M'immaginavo che saremmo rimasti sgomenti, ma questo...» «Sì, dovevamo senza dubbio venire a guardare da vicino» disse lui con voce altrettanto grave. «Già trovo delle cose che non riesco a spiegare, che probabilmente non avrei notato dalla base.» Anche lei si rifugiò nell'arida scienza. «Per esempio, il motivo per cui il disco è così brillante?» Guthrie si lasciò sfuggire una risatina. «Dacci intanto la possibilità di ficcanasare, no?» Poi, più pensieroso: «Sì, sono domande che anche loro si pongono. Non c'è una seconda stella a cui sottrarre la materia. Da queste parti il materiale interstellare dev'essere più denso della media. Al momento la mia ipotesi è che l'idea di Packer sia giusta. Ti ricordi? Quando si accese la supernova, il suo gas si unì alla nebulosa planetaria emessa allo stadio di gigante rossa, e una parte è stata respinta dall'onda d'urto. È successo prevalentemente sul piano equatoriale a causa della rotazione, e la gravità ha rafforzato ulteriormente l'effetto. Inoltre, mentre quella roba si avvicina, subirà gli effetti della distorsione spaziotemporale... forse. Ancora non lo sappiamo. E non sappiamo nemmeno se si tratti di un fenomeno tipico o accidentale, come per esempio una stella gemella piccola e molto vicina che sia stata frantumata dall'esplosione. Siamo qui per scoprirlo». La voce di Demetra lo blandì. «Caro, vecchio orso. Che tu sia di metallo o di carne, ti piace sempre ringhiare, vero?» «Oh, lo dici soltanto per farmi contento. Diamoci da fare.» La loro condizione aveva i suoi vantaggi. Potevano cominciare a lavorare, proseguendo per molte ore prima che gli servisse quello che per un riversamento è l'equivalente del sonno. Se mai, la maggior tentazione negli anni a venire sarebbe stato dimenticarsi del lato umano della loro psiche, e ciò poteva avere conseguenze spiacevoli. Dovevano trarre vantaggio dai
discorsi sconclusionati, dalle memorie suscitate, dalle illusioni di partecipazione. Al momento, però, furono posseduti dalla fascinazione. Le osservazioni iniziali furono veloci, e gli ipercomputer della nave le interpretarono ancor più celermente. Guthrie e Demetra la misero in pilota automatico, in una rotta zigzagante verso il centro, con accelerazioni che avrebbero maciullato il loro corpi mortali. Ciò avvenne in cicli giornalieri che non riesco a rendere a parole, perché noi organici non riusciamo a essere così unilateralmente metodici; quanto alle loro pause eventuali, erano momenti che appartenevano soltanto a loro. Posso solamente dire che fecero delle riprese, spettrometrie, letture metriche da centinaia di angoli e posizioni; ottennero parallassi a base lunghissima; campionarono atomi, molecole, particelle, meteoriti, e di tutti questi misurarono i percorsi. Era ancora tutto lavoro preliminare. Le sonde verso il buco nero, e dentro di esso, erano per una fase successiva. Ma gli esploratori non si trovavano tanto distanti dalle loro origini sulla Terra antica perché non ci fosse un'impazienza speciale in questa prima ricerca. Trovarono quanto speravano. I dati si sistemarono in un modello di chiarezza euclidea. «Pianeti» disse Demetra quasi cantando. «Almeno due pianeti.» «Be', se ce li hanno le pulsar, perché non un buco nero?» replicò Guthrie. «Il problema è come.» Possono sopravvivere i mondi gioviani o supergioviani alla deflagrazione di una supernova che vaporizza i fantasmi più piccoli e più vicini? A gran parte della loro massa succederà lo stesso, al gas e al ghiaccio. Però può persistere il nucleo denso, prima incandescente, fuso, poi in via di lento raffreddamento? O è possibile che si instauri una spaventosa rinascita, che interi, nuovi corpi celesti si coagulino nella frazione meno energetica della materia che erutta dalla stella gigante? Per quanto piccola, questa frazione deve essere parecchie volte la circonferenza del nostro Sole. «Non è una pulsar» disse Demetra. Il suo entusiasmo vacillò. «Mi domando con quanta violenza possa essere morta, se i suoi resti sono troppo grandi da collassare in quark, ma si riversano in eterno su se stessi.» La decisione arrivò con una risata. «Eppure quei pianeti si muovono. Muoviamoci anche noi!» A quel punto non erano lontani dal più interno, viaggiando su una rotta che l'intercettava. Ruotava attorno alla primaria a una distanza media di circa tre unità astronomiche e aveva una massa di circa due Terre e mezzo. La gravità specifica media, 5,8, faceva presagire un corpo metallico con
una crosta rocciosa: l'analisi spettrografica e della radioattività avrebbero fornito ulteriori dettagli. Il periodo di rotazione era di 8,7 ore, con una lieve inclinazione assiale. Quelle erano le cifre preliminari. Una maestosità terribile aspettava i viaggiatori, mentre si posizionavano a osservare in un'orbita di parcheggio. Visto da lì, sul piano dell'eclittica, il disco di accrescimento diventava una lente biconvessa, due gradi di diagonale, i cui margini sfumavano in una foschia indistinta contro le stelle. All'interno l'irradiazione aumentava, finché nel mezzo sfolgorava, gamma-bianca, una fornace di annichilimento e creazione. Elettroni, protoni e le antiparticelle erompevano, vibrando su campi elettrici sotto la cui influenza, anche a quella distanza remota, i circuiti della nave crepitavano. Voi avreste scorto una forte iridescenza, guardandoci dentro sull'unica ottava che i vostri occhi possono percepire, poi sareste morti. Guthrie e Demetra contemplarono tutto quel furore, riducendo l'apertura degli obiettivi di migliaia di volte per evitare di bruciare i sensori. Velocemente si volsero verso il pianeta. Sulle prime appariva spoglio come qualsiasi luna che si rispetti. Le calotte polari e le distese sparse di ghiaccio screziavano le montagne indistinte, le terre alte, le pianure e le valli- I crateri d'impatto meteoritico erano sorprendentemente pochi. Quelli vulcanici erano centinaia di volte più numerosi. Un pennacchio di fumo, abbastanza grosso da essere visibile sin dallo spazio, rivelava come ancora avessero luogo delle eruzioni, e sicuramente anche altri diastrofismi. Molti territori sembravano curiosamente lisci, come erosi, anche se i più elevati dovevano essere nuovi dal punto di vista geologico. Colori tenui coprivano i grigi sottostanti, con sfumature di rosa, viola, calendula. E c'erano gli scintillii di punti micacei di luce. Poteva esserne responsabile un'atmosfera? Qualcosa annebbiava la separazione tra giorno e notte e, mentre la nave passava da un emisfero all'altro, creava vaghe albe e incerti tramonti. Altrimenti sembrava quasi che regnasse la trasparenza del vuoto. Guthrie e Demetra rimasero a lungo in silenzio. Nella fase umana, avrebbero senza dubbio cercato subito i visori telescopici. Come riversamenti, avevano una pazienza da macchina. Valutavano cosa li circondava, l'assorbivano pezzo per pezzo, riflettevano. Subliminalmente sentivano lavorare gli strumenti e i computer a cui erano collegati, nel modo in cui noi potremmo essere parzialmente consapevoli di qualche operazione routinaria compiuta dalle nostre mani. «Bello, a modo suo» fece lei, alla fine, riflessiva. «E terrificante.»
«Che intendi?» chiese Guthrie. «Oh, da un punto di vista filosofico. Tanti soli e mondi nell'Universo, ma la vita è così rara. Questo...» La sua ombra indicò. «È come se la natura stesse cercando di continuo, ciecamente, di creare un posto per la vita, e quasi sempre fallisse.» «Be', con noi ce l'ha fatta, perché porteremo avanti il lavoro per conto suo. Dacci solo qualche milione di anni.» Tra quei due quel discorso suonava ormai vecchio. Dopo tutti quei secoli, tutto tra loro lo era, a parte le novità che trovavano all'esterno. Eppure, non s'erano stancati di riferirsi le reciproche sensazioni, così come non s'erano stancati di fare l'amore. «Quanto tempo avrà questo pianeta?» si domandò lei. «Dovremmo essere presto in grado di avanzare un'ipotesi abbastanza plausibile. I rilevamenti stanno prendendo forma. Ascolta.» Poi, immediatamente: «Aria rarefatta, soprattutto azoto. Ciò suggerisce che il pianeta si sia formato dopo l'esplosione, non ti pare? Un'ebollizione non avrebbe lasciato nemmeno la traccia di un'atmosfera». «E nessun pianeta di tipo gioviano si sarebbe condensato così vicino a un sole attivo, specialmente a una gigante azzurra» puntualizzò lei. «Ummh, la frizione con i gas della supernova può aver accorciato l'orbita originale. Ma se questo corpo data a dopo l'esplosione, mi sarei aspettato un'atmosfera maggiore, considerata la sua mole. Forse, in quell'ambiente, non c'erano molte comete che potessero apportare sostanze volatili. Nota la scarsità di crateri. Sarà meglio controllare se il sistema ha qualcosa tipo una cintura di Kuiper o una nube di Oort.» Lui sentiva l'eccitazione di Demetra. Anni su anni di scoperte! Comunque, le parole di lei restarono riflessive. «Forse l'atmosfera originariamente era più spessa, ma le radiazioni dal disco di accrescimento ne devono aver liberato la gran parte. I fotoni ad alta energia producevano ioni, che erano accelerati dai campi magnetici ed elettrici dell'ambiente... sì, e distruggevano anche i composti chimici, scindendo l'idrogeno dall'ammoniaca e facendolo fuggire mentre l'azoto restava indietro... Ogni molecola organica complessa che s'era formata in precedenza fu degradata. Forse sulla superficie non rimane nulla tranne biossido di carbonio congelato misto a ghiaccio e... carbonio elementare?» «Mi verrebbe da pensare che tale scenario dipende in parte dallo specifico campo magnetico del pianeta. Quanto sarà forte?... Aspetta!» esclamò Guthrie. «C'è qualcosa di molto strano.»
Lei controllò i dati e rimase senza fiato. Il campo non era semplice e nemmeno stabile. E le sue pulsazioni non seguivano i palpiti che attraversavano il disco del buco nero uscendo verso lo spazio. Il campo cantava in coro. Seguendo una mezza curva fissa a campana, che doveva salire dal nucleo, vibravano voci elettroniche, flebili ma in numero multimilionario. Da orizzonte a orizzonte, attorno alla curva del lobo, viaggiavano armoniche intricate. Il sistema binario ammiccava, uno-zero-zero-uno-uno-uno... oltre ogni possibilità di calcolo. Le termocellule registravano frotte di punti il cui freddo suggeriva un sottosuolo criogenico. Le bande radio fluttuanti sussurravano nei cieli... Guthrie comandò con voce rotta all'astronave: «Non rimaniamo a fluttuare quassù. Facci vedere sul serio». Quella sentì, senza sapere che sentiva, per quanto il comando che lui lanciò lungo i circuiti fosse quello a cui essa rispose. Un'immagine ingrandita portò la superficie a una distanza adatta per i sistemi ottici. Guthrie e Demetra videro. Cristallino. Non gli veniva definizione migliore. Valli, pianure, colline, declivi, che mostravano un infinito merletto di forme. Una barriera corallina poteva rendere vagamente l'idea, qui sollevandosi, lì abbracciando il suolo, convoluta, porosa, talvolta massiccia, talvolta delicata come un meccanismo a orologeria, e sempre molto più fantastica di un sogno. Ma queste forme erano generalmente acuminate, angolari, simili a fluorite, quarzo, piriti, pezzi di vetro, sfaccettature di pietre preziose. Fra le loro sfumature tenebrose, occasionali brillii specchianti riproiettavano la luce nello spazio. E sicuramente il loro insieme scendeva molto in profondità. Un'orbita dopo l'altra, gli osservatori impararono che la stravaganza non ricopriva l'intero globo. Regioni vaste, circa un quarto della superficie, non erano altro che semplice roccia, regolite, polvere che fuggiva davanti a venti gelidi. «Soprattutto attorno ai crateri meteorici» borbottò Guthrie. «Potrebbe spiegare perché siano tanto pochi. Il resto è stato... mangiato, convertito. Siti ricchi di minerali? Quelli che rimangono possono essere poveri, a meno che il fenomeno non debba semplicemente ancora arrivare sino a loro.» «Che cos'è?» Per qualche secondo Demetra rimase in silenzio, poi sbottò: «Un artefatto mostruoso? Chi mai può averlo costruito?» Guthrie scrollò le spalle fantasma e cercò di introdurre una nota di spavalderia nella voce: «Non so. Ma ne dubiterei. Per me, non ha l'aspetto di qualcosa che deve servire a uno scopo. Strutture individuali, questo sì, ma
non c'è una coordinazione complessiva. Almeno, questa è la mia prima impressione». «Quei segnali...» «Sono segnali? Comunicazioni? Facciamo tutte le analisi che siamo in grado di svolgere.» L'entusiasmo proruppe. «Se è intelligente, chiamiamolo!» «Sì? E se è un cibercosmo, vogliamo proprio che venga a sapere di noi?» Lei non rispose. Guthrie sentiva che Demetra stava rievocando ciò che aveva inghiottito la Terra. Non che sia in sé un male, però i nostri mondi sono biocosmi. «No, non credo» fece lei alla fine. Una speranza, un timore? La nave rimase in orbita. I suoi ricevitori si abbeveravano alle trasmissioni dal pianeta. I computer macinavano dati, ancora e ancora, cercando regolarità che potessero significare consapevolezza. L'informazione equivale a un'entropia negativa. Ma devi setacciare miliardi di gigabits per determinare con quale frequenza accade lo statisticamente improbabile e quale sia la sua natura. Guthrie e Demetra fecero i rilevamenti alla loro portata. Studiarono, pensarono, discussero. Ponendo gli indizi raccolti a fianco di quanto avevano appreso e congetturato gli astronomi a casa, cominciarono ad abbozzare una storia di questo sistema. Determinata esattamente a così corta distanza, la massa del buco nero indicava quanto doveva essere stata grande la stella originale e perciò la modalità della sua scomparsa. La nave durante il viaggio aveva raccolto automaticamente i dati sui dintorni. Anche se la nebulosa emessa al primo stadio si era dissipata, ne rimanevano tracce nel mezzo interstellare, e l'onda d'urto della supernova era ancora identificabile chiaramente. Il calcolo prospettivo sulle basi teoriche e l'estrapolazione retroattiva convergevano su una data, per quel momento di violenza estrema: circa un miliardo di anni fa. Anche se parte della materia eiettata stava ricadendo come aveva proposto l'astrofisico Packer, era ancora insufficiente per il disco di accrescimento, la massa del quale proveniva dal gas in orbita, approssimativamente perpendicolare all'asse di rotazione. A quel punto ogni orbita del genere doveva già essere decaduta, a parte il fatto che, mentre un atomo si avvicina, la radiazione si trasforma in plasma, accelerato dai campi elettromagnetici. Ciò rallenta ma non ferma la spirale verso l'interno. Il disco un
tempo era stato molto più brillante. In meno di un altro miliardo di anni, sarebbe stato pressoché estinto. Anche così, la quantità coinvolta era immensa. Poteva anche rivelarsi esatta l'ipotesi di Guthrie secondo la quale una stella compagna più piccola e vicina era andata distrutta. Una nuvola densa per gli standard cosmici doveva essersi estesa un tempo per decine di unità astronomiche. Forse questo spiegava come si erano formati nuovi pianeti. O forse spiegava come i resti dei vecchi si fossero spostati all'interno. La geologia al suolo avrebbe dimostrato quale ipotesi era vera, o se entrambe erano false. In ambo i casi, la superficie che vedevano Guthrie e Demetra doveva essere relativamente fresca. Che fosse diventata incandescente per la collisione di planetesimali o per un'ondata di fuoco che aveva divaricato gli strati esterni, un oggetto di quelle dimensioni non si sarebbe raffreddato in fretta. Nonostante ciò, lo addobbavano delle formazioni elaborate, dove avvenivano delicati processi elettrici. L'energia derivava chiaramente dal disco, con una possibile componente geotermica. L'elettricità poteva anche non essere un risultato diretto di risonanza o induzione. Era troppo complessa, e sembrava che scaturisse da una moltitudine di punti, dove l'energia era in qualche modo concentrata. Eppure le emissioni non erano messaggi. Non c'erano trasmittenti, solo fughe. L'analisi non rivelava codici: apparentemente la complessità era solo questione di innumerevoli impulsi di varietà infinita. «Che cos'è?» si arrovellava Demetra. «Perché è così?» «Sai che l'Universo non ha perché» rispose Guthrie. «A parte quelli che produce la vita senziente» gli ricordò. L'essere di Guthrie vezzeggiò quello di Demetra. «Grazie per questo.» Continuavano ad aspettare, ma non s'erano immolati interamente alla scienza. A intervalli la mente doveva riposare, doveva sognare. Doveva ricordare. Per le loro banche dati private, evocarono anni che andavano indietro di millenni... ... Anson Guthrie, la cui Fireball Enterprises regalò all'umanità la prima vera testa di ponte oltre la Terra e il cui riversamento guidò un esodo di ribelli verso Alpha Centauri. La necessità di un'intelligenza che guidasse e rafforzasse l'ecologia che seminavano precariamente. Kyra Davis ed Eiko Tamura, i cui riversamenti finirono nella creazione della Madre Demetra, permeata di quel che ricordava Guthrie della moglie morta sulla Terra. L'unità che lentamente acquistò vita, sapere e sentire, fin quando poté
compiere quel che fino allora era stato impossibile: il riversamento dalla rete neurale di Guthrie in un corpo vivente costruito attorno al suo genoma. La successiva costruzione di una compagna, che era il sé mortale di Demetra. E così l'apertura verso le stelle, mentre le astronavi recavano programmi quiescenti verso mondi preparati per la nuova carne. Generazione dopo generazione le medesime anime migrarono e migrarono, ora in forma organica, ora inorganica, ma sempre coscienti e sempre, speravano, in marcia verso un livello di saggezza... e molteplici. Il numero dei duplicati non era più calcolabile... ... vi rammento queste cose proprio perché sono così familiari. Fino a quando non saremo stati fatti rinascere anche noi, non lo capiremo, e non ne afferreremo il pieno significato se non dopo molte rinascite. Nel frattempo ci dobbiamo riflettere sopra. Guthrie e Demetra rivissero i secoli del loro amore, almeno quanto lo possono menti disincarnate. Ne ho colto qualcosa in mio padre e mia madre, che sono tra le loro incarnazioni. È forte e strano. Perché, sotto l'aspetto ordinario, lui indossa come un'armatura, è l'eterno eroe, mentre lei ricorda vagamente quante volte era stata una Madre della Vita. Ma come loro condividessero ciò, questi due esseri specifici che fissavano il buco nero, questo non riguarda nessun altro. Alla fine, dopo che tutta la conoscenza possibile fu raccolta dall'orbita, lui chiese: «Quand'è che mandiamo giù un robot per un'indagine seria?» «Presto» replicò lei. «Però non un robot. La telepresenza sarebbe troppo indaginosa e troppo aperta a incognite, in queste condizioni e con tutte queste cose che non sappiamo. Immaginati quali danni irreparabili potremmo combinare agendo in maniera raffazzonata. No, vado io.» «Eh? Aspetta soltanto un minuto. Io...» Lei lo baciò in tutta la sua gaiezza. «Non hai ancora perso tutto il tuo machismo, vero?» Poi, più seria: «In caso di guai, credo che tu saresti più bravo di me a gestire un'operazione di salvataggio. Ti sei trovato in più casini». La voce atona si animò: «E poi ci voglio andare io, Anse!» Lui risentì lo spirito di Kyra Davis, che un tempo vagava per il Sistema Solare, che lo sottraeva ai nemici, ingaggiava il primo combattimento spaziale della storia e dava alla luce il primo bambino nato su Alpha Centauri. Cedette. «Va bene, se tu insisti che io me ne stia quassù a mangiarmi le unghie che non ho, va bene.» Il messaggio implicito era: Torna da me, querida. Sì, se lei fosse perita, ne avrebbe senza dubbio trovata un'altra. Anche se
non avevano portato delle loro copie di ricambio, perché avevano scoperto che i rischi emozionali erano troppo grandi (persino per un riversamento), ne esistevano a bizzeffe in ogni mondo abitato da umani. Ma l'ultima diramazione dalla sua linea di discendenza era avvenuta quasi quattrocento anni prima, un lasso di tempo enorme con quel che avevano fatto e imparato insieme. E una qualsiasi unione non poteva ridar vita a questa Demetra. La sua ombra sarebbe rimasta per sempre tra quelle che lui rimpiangeva. Ci sono ancora persone che affermano che abbiamo abolito la morte. Non è così. Non potrà mai esserlo. Mentre continuava a parlare ancora per un po' delle cose più importanti, la coppia completò i propri preparativi di routine. Studiare le svariate mappe, scegliere un punto d'atterraggio, pianificare un programma d'esplorazioni e prevedere le eventualità che fossero al momento anticipabili. Impiantare satelliti sponda per mantenere la nave in contatto ovunque si trovasse. Fare in modo che il robot opportuno trasferisse i loro involucri cerebrali agli appositi corpi meccanizzati. Quello di Guthrie era gracile, a sei braccia, capace di movimenti bruschi e di spostamenti telecomandati. Quello di Demetra aveva una stazza doppia, era pesantemente corazzato, con quattro gambotte robuste sotto a un torace squadrato, due braccia che terminavano con delle mani, una batteria valida per mille ore a pieno regime. Un tempo tale scambio di forme mascoline e femminili avrebbe dato lo spunto a qualche scurrilità, oggi lo davano per scontato. Guthrie generò il suo volto umano nella propria torretta e disse goffamente: «Fai attenzione, cara. Buena suerte». L'immagine di Demetra gli restituì il sorriso. «Buona fortuna anche a te. Ti amo. Adiós.» Non riusciva a nascondere la sua frenesia. Lui l'aiutò a uscire, poi si fermò lì accanto. Mentre scendeva con il vettore, Demetra esultava. Eccola di nuovo libera, nello spazio aperto. Le stelle la circondavano, più stelle che oscurità, una galassia piena di centinaia di miliardi di stelle. Poteva sperare di conoscerle tutte un giorno? E dietro di loro le galassie... Cantavano nei suoi sensori la musica molteplice dello spettrometro. Il vettore pulsava, in accelerazione. Lei si ricordò della sensazione di un cavallo tra le ginocchia, prati bagnati dal sole, il vento nei capelli. Il pianeta si dilatò alla vista fino a occupare metà del cielo, non più sopra ma sotto. I rilievi s'innalzavano frastagliati. Si diresse rallentando verso la sua destinazione, appena quella arrivò di qua dall'orizzonte. Staccatasi
dal veicolo, mise piede su quel mondo. Il posto era un pianoro, una piccola mesa dai bordi inclinati, nel mezzo di un'ampia vallata. Scura e spoglia, dominava delle fitte figure cristalline disseminate fin dove arrivava lo sguardo. Le montagne delimitavano a ovest l'orizzonte, il cui arco era altrimenti in contatto diretto con il cielo rossastro. In alto baluginavano delle aurore, oltre cui bruciava il disco d'accrescimento, circa a mezzogiorno. Le sue lenti erano attraversate da increspature, da lampi ramificati, mentre l'annichilimento infuriava nel suo cuore bianco, proiettando violente cataratte radioattive. Folate d'aria sibilavano sottili, secche, gelide. La gravità tirava. Quando si sintonizzò, Demetra sentì un sussurro di maree elettriche invisibili. «Atterrata senza danni» chiamò senza che fosse necessario, per consolidata abitudine. Per trasmettere ogni sensazione le sarebbe stata necessaria una banda più larga di quella disponibile, ma Guthrie seguiva quel che lei vedeva e faceva. Per un'ora si limitò a osservare quel che le si trovava attorno. Poi si servì degli strumenti, ottici ed elettronici. Alla fine disse: «Sono pronta per partire». «Ne sei sicura?» la punzecchiò lui. «Prima o poi devo, no? Maledetti siluri! Ma starò attenta, querido. Non voglio davvero rovinare qualcosa di così meraviglioso.» La discesa fu problematica. Era tornata a pesare oltre il 40% di quel che sarebbe pesata a casa. Le pietre le rotolavano di sotto cadendo a valle con velocità mortale. I cingoli scivolavano sulla ghiaia. Per tre volte fu sul punto di cadere. Il corpo era instancabile, ma quando giunse sul fondo la sua mente aveva il fiatone. «Raduna le idee, ragazza» bisbigliò, mettendo a fuoco una cosa che spuntava dal terreno davanti a lei. Alta circa un metro, suggeriva un arbusto composto di enormi fiocchi di neve disseminati di luccichii, di squisita fattura goblinesca. Al tatto era ruvido - frattale, constatò - e vibrava lievissimamente. Riusciva a risalire a connessioni nascoste appena sotto la superficie del suolo, poi i loro segnali si perdevano nel rumore di sottofondo. Radici? No, non era possibile. Il terreno... non era un regolito: inorganico, anidro, sì, ma di grana più fine. Quale chimica lo poteva avere macinato? Altre strutture erano intrecciate in una miriade di forme coralline prismatiche. Alcune erano scure e cineree, altre madreperlacee, talvolta riflettenti come specchi. La luce giocava sulle loro geometrie, in colori morbidi
e lampi, in luccichii aspri. Un chilometro in lontananza, solitaria, s'ergeva una cosa alta sei metri, un traliccio arabescato e globoso. Sulle sue sinuosità s'accendevano e tremavano delle scintille. Una folata di vento da quella direzione portò suoni che potevano essere prodotti da campane di vetro. «Carino, come una terra fatata» canticchiò Demetra. La risposta di Guthrie le giunse aspra. «Buoni, laggiù. Nelle fiabe, quelle genuine, le fate non erano tipi accomodanti.» «Ma qui siamo noi gli alieni» rispose lei mentre si avviava. La sua meta era la sfera cava. Non solo era rimarchevole, ma sembrava che vi fossero delle linee di corrente elettrica che vi convergevano e che ne uscivano. Sentiva lo schiocco di strutture fragili, intuiva il caos improvviso di circuiti che andavano in pezzi. Per quanto si muovesse con cautela, questo suo corpo pesante frantumava e spaccava ciò che calpestava. «Mi dispiace, mi dispiace» ripeteva irragionevolmente. «Non c'è bisogno» le suggerì Guthrie. «Ce n'è in abbondanza.» «Ma sembra... no, non puoi capire quanto avviene, vero?» «Dolore? Suvvia.» «Oh, no. Solo che... quand'ero una madre, e un albero o un fiore moriva...» «Non dirai sul serio?» Demetra si fermò, sentendo che l'elettricità si ritraeva da lei per andare a strutturarsi altrove, sotto la lente fiammeggiante. «Non proprio» ammise. «Ma mi ricorda... no, non è biologico.» «Come potrebbe? Quei pochi atomi di carbonio che ci sono, svolgono un ruolo marginale.» Non c'era motivo di farle la lezioncina sul carbonio, l'unico elemento capace di riunirsi spontaneamente in molecole abbastanza complesse da codificare la vita. «Notevole, sì» aggiunse. «Incredibile, se non ce l'avessimo proprio sotto gli occhi. Come cavolo hanno fatto a crescere cristalli del genere? Collegamenti, semiconduttori, condensatori, forse vere e proprie pompe di calore... pensavamo di conoscere abbastanza bene le possibili geochimiche per ogni tipo di pianeta sotto ogni genere di sole. Ci sbagliavamo, per Dio, eccome se ci sbagliavamo! È una rivoluzione scientifica. Ed è nostra, cara, è nostra.» La sua eccitazione la colpì. Continuò, incurante. Più si avvicinava alla sfera, più forte la distruzione scricchiolava e strideva. Non era perfettamente simmetrica, e i suoi bordi si incurvavano alla periferia, come se stesse crescendo verso l'esterno. E l'interno, una tela di ragno tridimensionale di fili sottili, incrociati e connessi, non era del tutto
vuoto. I lampi di luce scaturivano da vessilli - metallici? - che ondeggiavano alla brezza e risuonavano insieme. Le onde radio pulsavano dalla struttura, un sibilo e un battito echeggiati da fonti elettromagnetiche sotterranee. Molto più in basso giaceva un blocco di materia prossimo allo zero assoluto. Demetra si fermò. Fu Guthrie a parlare per lo stupore: «Per Giuda!» Un arto si srotolò dal graticcio e schizzò ad afferrarla. All'inizio lei fu soltanto stupefatta. La presa le circondò la torretta e strinse. Un secondo arto grosso come un cavo scattò, armeggiandole su un fianco e poi avvinghiandosi a una gamba. Guthrie ruggì un'oscenità. Demetra si puntellò sui tacchi tentando di tirare all'indietro. I motori rombarono. Sentì che la spinta si rifletteva sul suo rapitore e vide tremare l'intera, enorme struttura. Quello però continuò a stringerla forte. Le braccia meccaniche di Demetra attaccarono con una sega a diamante e un martelletto da geologo. Non sortirono risultato. I cavi erano incredibilmente forti. Pensò confusamente che erano fili di molecole perfette fullereni? Spostò il suo peso da una parte e dall'altra. I cavi la trascinarono in avanti. «Tieni duro!» gridò Guthrie. «Arrivo!» Era sopra l'emisfero opposto. Il computer del suo corpo fece calcoli pessimistici. Mentre la nave accelerava, raccolse le armi. La sfera strinse Demetra contro il traliccio. Delle liane uscirono dall'interno per avvolgersi a lei, sottili come capelli ma tanto numerose da irretirla. «Anse» pregò. «Non correre rischi insensati. Qualunque cosa succeda, Anse, grazie, mil gracias per tutto questo tempo assieme. Oh...» Dentro il globo, qualcosa spuntò dal terreno, una campanula d'acciaio, pensò lei in tutta quella follia. Non, non proprio. Mentre la campanula si allungava sullo stelo, Demetra vide che i petali si muovevano e che i bordi erano seghettati. A quel punto lei non riusciva a fare molto di più che lanciare qualche calcetto. La corolla ondeggiava. La sua cieca ricerca del bersaglio. Molto lentamente, serpeggiò verso Demetra. «Sto per lanciare la navetta» risuonò la voce di Guthrie. «Arrivo entro quindici minuti.» «Non metterti a repentaglio» lo implorò, sapendo che lo avrebbe fatto. «Sono soltanto un riversamento.» «Sei la mia donna. Se quella cosa ti fa del male, tra poco ci sarà una val-
lata piena soltanto di scorie.» «No, Anse, por favor, non devi...» Attraverso il ricevitore le arrivò un fischio profondo. Il veicolo aveva lasciato l'astronave. La corolla la stava palpando. Quando trovarono la torretta, i petali si chiusero, come il cappuccio di un boia. I sistemi ottici si oscurarono. Demetra sentì una vibrazione mentre i petali le tagliavano la corazza. Era come un grido. Ho sentito dire che un riversamento non teme, non può temere l'estinzione. Però può temerla di sicuro per coloro che ama, e può provare il dolore di lasciarli, e rimpiangere la perdita di questo Universo miracoloso. Penso che una parte di Demetra si sia ritirata verso le sue vite passate cercando conforto ricapitolando quanto aveva avuto. Un'altra parte di lei pensava ancora disperatamente, non tanto ai modi per sfuggire quanto alla situazione nel suo complesso, cosa comportava e cosa significava. Trovò una spiegazione. Lo sappiamo per via di quello che gridò alla fine. Una sensazione la perforò, simile all'agonia. La corolla le aveva scoperchiato l'armatura e aveva cominciato a essudare una sostanza - un acido? che corrodeva la scatola sottostante. La radiazione proveniente dal disco colpì i petali, e delle cascate riflesse le piovvero nel cervello. Il terreno tremò. Il rumore le risuonò dentro. Guthrie era atterrato a pochi metri di distanza. La corolla si ritrasse come se fosse stupita. La radiazione si rovesciò direttamente addosso a Demetra. Le particelle e i fotoni le tagliarono i picocircuiti. Le banche dati e le funzioni logiche si deteriorarono. Il tuono le fece esplodere la coscienza, roteando in un gorgo di notte. Demetra vide Guthrie che arrivava di corsa. Aveva un corpo fatto per la velocità, non per la forza. Il cavi che la trattenevano potevano farlo a pezzi, ma lui non vi fece caso. Una torcia all'idrogeno che teneva in due delle sue mani eruttò fiamme. In altre due mani aveva un martello pneumatico che roteò aprendosi un varco a destra e a sinistra. Così le arrivò vicino. La pazzia eruppe. Il passato si frantumò e si dissolse. Facendo appello alle sue ultime risorse, Demetra implorò: «Anse, caro, abbi pietà. È viva...» La mente le si staccò come se cadesse in un buco nero. Lui non mi rivelò nulla della battaglia che aveva ingaggiato tranne: «L'ho liberata riportandola alla nave. Ho fatto io da scudo mentre volava-
mo, naturalmente». Naturalmente. «Era ferita in modo grave?» mormorai. «Molto. La disattivai poi feci rotta verso casa.» Raccolsi coraggio per chiedere: «Poteva aspettare al sicuro, vero? Mentre tu facevi altri rilevamenti laggiù». «Non ce l'avrei fatta» rispose. La desolazione invase la sua espressione generata. «Inoltre, da solo, sarei stato efficiente meno della metà di noi due insieme. Potevo incappare facilmente in una situazione in cui nemmeno l'astronave sarebbe sopravvissuta. Meglio limitare le perdite.» «Come... come sta?» «La stanno rimettendo in sesto. In gran parte le sue memorie non erano danneggiate. Gran parte di quello che è andato perso può essere rimpiazzato, assieme alla personalità di base. La riavrò indietro.» Fino a tanto può arrivare la volontà primordiale di vita per una persona amata. Anche in un riversamento. Penso che, in caso contrario, non popoleremmo le stelle. «Ne sono lieta» dissi, assolutamente sincera, e posai la mia mano sulla sua. La luce danzava sull'acqua, il vento parlava tra le foglie, l'odore di timo selvatico si spandeva sulla sponda del fiume. «Poi?» chiesi. «Torneremo. Meglio preparati, e non da soli. C'è bisogno di una spedizione più ambiziosa.» «È proprio strano.» «Più che strano.» La mia testa scattò sentendo il tono che aveva usato, e lo guardai fisso. «Lei capì» proseguì. «All'orlo della morte, capì. Visto che è stata la Madre della Vita, tante e tante volte, fin dai tempi di Alpha Centauri. Attraverso tutte le differenze, improvvisamente riconobbe la somiglianza.» Aspettai. «È un pianeta vivente» disse. «Ma com'è possibile?» «Cos'è la vita? Non dobbiamo definirla da ciò che fa? Accumula, copia e trasmette informazione; converte energia; ricicla materia; mantiene l'omeostasi; si ripara e si riproduce, cresce, evolve. Io non posso forse essere definito vivo in questa mia fase? In un modo o nell'altro, faccio tutte queste cose.» «Ma tu... tu hai cominciato come organico. La vita deve farlo.»
«Probabile. Solo il carbonio ha la capacità di sollevarsi al di sopra delle altre macromolecole. Comunque, una volta sviluppata la tecnologia, abbiamo costruito dei sistemi inorganici che sono vivi secondo ogni standard ragionevole.» Rimase in silenzio per un po' prima di proseguire - e con quale dolcezza. «Là c'è una vita vegetativa, suppongo. Le correnti elettriche sono incidentali, come il cambiamento di potenziale nelle nostre cellule. Anche se... mi sembra che possieda una certa unità, integrazione. L'attività locale s'è incentrata sulla cosa che ha ghermito la mia Demetra. Perché l'ha fatto? Per salvare la vallata da un invasore che violava il suo spazio? Oppure quella reazione è stata soltanto una sorta di tropismo? Come ha acquisito quelle potenzialità? Mi sono domandato se è possibile che processi dei minerali. Ma allora come gli vengono riforniti? Un'ecologia... Certo, all'inizio le cose devono essere state molto più semplici. I metalli e i silicati sono molto stabili. Immagino però che la radiazione forzi la chimica e la cristallografia. E un equivalente della catalisi...» Fece una pausa. «Corrisponde agli animali? E verso cosa può tendere la sua evoluzione? Dobbiamo capirlo.» «Come può avere avuto inizio?» Sentii che la voce mi usciva fioca e tremula. «È proprio questo che dobbiamo capire» disse Guthrie. Ogni parola incalzava la precedente, come colpi di martello sulla testa di un chiodo. «Un naufragio di astronave o cosa? Quante ere fa? O una semina volontaria? L'equipaggio, era organico... o no? Non abbiamo mai trovato altri esseri intelligenti a parte noi e le nostre creazioni. Finora, forse. Ricordatelo, sulla Terra è il cibercosmo che comanda, cioè menti molto più potenti di quanto noi crediamo possa diventare alcunché nel biocosmo. Cosa stanno facendo? Cosa possono aver fatto altri cibercosmi? Noi sogniamo i nostri sogni del futuro. Quali possono essere i loro?» Fissò lo sguardo oltre le mie spalle, oltre il cielo. «Dissi alla mia Demetra che chiedersi il perché era insensato. Mi sbagliavo. Tutti pensavamo di aver appreso qualcosa sui fondamenti dell'Universo. Ci sbagliavamo.» Il ruscello ci passava accanto frusciante nella sua corsa verso il mare. Guthrie si drizzò al mio fianco. La luce si riversò sull'immagine del suo volto vivente. «Dobbiamo correggere quell'errore.» Titolo originale: Renascence Analog Science Fiction/ Science Fact, March 1995
L'OMINO DI PANPEPATO di James Gunn Dovremo rimpiazzare le nostre parti più deboli per essere compiutamente umani? La trasformazione di Andrew Martin cominciò il 4 di luglio del 2076. Sarebbe anche potuta non avvenire per niente, se Andrew non avesse iniziato a porsi delle domande sullo scopo dell'esistenza. «Lo scopo della vita» borbottava immerso in una profonda introspezione «è evitare il dolore.» In realtà stava pensando al dolore inflitto alla psiche dagli altri e a quanto sarebbe stato meglio non far caso a quel che dicevano o facevano o, ancor meglio, non averci a che fare per niente. Comunque, come tante cose nella vita, cominciò per caso. A dire il vero, fu la rarità delle rarità, un incidente di macchina. Con le strade automatizzate e i comandi controllati dai computer, un'auto si poteva scontrare con un'altra, o con un oggetto immobile, solo in caso di guasto totale, e persino i guasti erano programmati in modo da assicurare la massima sicurezza. Nel caso di Andrew, però, un microprocessore andò in panne in uno snodo critico, mandando in corto gli ingranaggi sterzanti e le misure di sicurezza, e facendo sì che il veicolo si scagliasse verso e sotto il sedere di un autoarticolato a guida computerizzata. Certo, l'airbag avvolse Andrew in un abbraccio da innamorata, ma non riuscì a proteggergli del tutto le gambe, e il piede sinistro fu maciullato oltre ogni possibilità di ripristino. Il computer dell'automobile, dopo aver fatto cilecca nella sua incombenza fondamentale, avvertì con fulminea pignoleria lo stato di salute di Andrew, avvolse un laccio attorno alla gamba, iniettandovi poi un antidolorifico e un sedativo, e chiamò un'ambulanza, che arrivò con gran fragor di pale ancor prima che il bracciale emostatico necessitasse di rimozione. Andrew riaprì gli occhi sullo sterile candore di un soffitto d'ospedale. Sulla parete di sinistra una finestra si apriva su un prato soleggiato pieno di fiorellini di campo rossi, gialli e azzurri. Nel mezzo gorgogliava un torrentello. Oltre il prato si stagliava una foresta verdeggiante che arrivava in lontananza fino ai picchi azzurri delle montagne ricoperte di neve. «Cos'è successo?» chiese Andrew.
«Lei si trova nell'ospedale regionale cinque sette due» rispose il computer con voce femminile gentile e coscienziosa. «È stato coinvolto in un incidente automobilistico...» «Un incidente di macchina!» l'interruppe Andrew. «Un incidente automobilistico» ripeté il computer. «Il suo piede sinistro è stato schiacciato. L'abbiamo rimpiazzato con una protesi effe due uno otto tre. Riesce a muovere le dita del piede sinistro?» Eccome se si sentiva di muovere le dita del piede sinistro. Andrew fece scivolare la gamba da sotto la leggera coperta termica, sollevandola per un'ispezione. Sopra la caviglia l'arto evidenziava qualche livido, ma per il resto la gamba, piede compreso, non appariva cambiata. Riusciva benissimo a muovere le dita, senza dolore alcuno. «Sei sicura che sia il piede sinistro?» «Non commettiamo mai errori» rispose accondiscendente il computer. «Riesce a stare in piedi sul rimpiazzo?» Andrew gettò le gambe oltre il bordo del letto per alzarsi in piedi sul tiepido pavimento elastico. Al polpaccio sinistro provava un residuo di dolenzia, e un minimo di rigidità alla schiena e al collo, però il piede sinistro stava benone. Anzi, più che benone. Non soltanto aveva una sensazione più vivida della temperatura del pavimento nel piede sinistro che nel destro, ma percepiva le minime intaccature che il tallone e l'avampiede e le dita lasciavano sul rivestimento del piancito. Inoltre provava al piede una sensazione di benessere a cui non era abituato, quasi un'energia in attesa di essere liberata. Si sollevò sulla punta dei piedi, provando una momentanea vergogna quando il destro non riuscì a eseguire il movimento altrettanto bene. «Noto che il piede funziona» disse il computer. «Già» rispose Andrew. «C'è una richiesta di informazioni sul suo stato di salute, se è disponibile a riceverla.» «Chi l'ha fatta?» chiese Andrew, domandandosi se fosse Jennifer e forse anche sperando che si trattasse di lei. Però Jennifer aveva affermato di non voler più rivederlo, e Andrew stava appunto tornando da quella scenata d'addio quando era avvenuto l'incidente, quasi che il microprocessore avesse condiviso il suo marasma cerebrale. «Una signora Martin» replicò il computer. «Ma non sono sposato.» «È stata identificata come la sua madre biologica.»
«Accetto la domanda, naturalmente» decise Andrew, anche se si stava chiedendo perché mai sua madre lo venisse a cercare proprio adesso, dopo vent'anni. Non avevano litigato, come era successo con Jennifer. Semplicemente s'erano allontanati poco per volta fino a quando non avevano più avuto niente da spartire. Il quadrato sulla parete sinistra, che prima funzionava come finestra, si trasformò nel volto di una donna che sembrava giovane quanto Jennifer. Lui lo raffrontò con il ricordo di sua madre che era immagazzinato sempre là, ma ugualmente non la riconobbe. «Mamma, ti sei fatta ricostruire la faccia.» «Ti piace?» chiese lei, illuminandosi tutta. «Be', è per te che ho chiamato. M'hanno informato del tuo incidente. Pensa un po', un incidente in autostrada! Pensa un po', viaggiare in autostrada! Andrew, non riesco a immaginare cosa ti sia preso! Guarda, non ti so dire come ci sono rimasta alla notizia, dopo tutti questi anni, che mio figlio, il mio unico figliolo, era rimasto ferito. Be', vedo che ti sei già ripreso.» L'immagine cominciò a sfumare nel paesaggio assolato. «Mi hanno sostituito il piede, mamma» rispose svelto Andrew. L'immagine della madre si bloccò. «Che efficienza. Mah, se ti serve qualcosa...» «E, mamma» disse Andrew prima che la sua immagine riprendesse a vacillare «funziona così bene che ho deciso di farmi rimpiazzare anche l'altro.» Non aveva nemmeno pensato di essere intenzionato a farlo fin quando non lo disse, ma adesso che aveva formulato la frase capì che era proprio quello che voleva. Non poteva passare il resto della vita a claudicare su un piede men che perfetto. Il giorno dopo Andrew uscì dall'ospedale regionale 572, situato all'incrocio di due importanti arterie stradali e circondato a perdita d'occhio da campi coltivati. Non c'era nessun altro in vista. Era una scena davvero efficiente e silenziosa, nella quale veicoli di varie dimensioni e usi, ma rallegrati da un unico colore argenteo, procedevano in entrambe le direzioni, schizzando rapidi da ogni parte e mantenendo agevolmente una distanza costante l'uno dall'altro. Nessuno era occupato, e nessuno aveva finestrini. Poteva capire la sorpresa di sua madre, e la condivideva. Salì sul taxi che lo attendeva, abilitandolo a farsi portare a casa alla svelta. Appena quello lo fece scendere sull'area di atterraggio del suo condominio, venti minuti dopo, Andrew si infilò di corsa nell'ascensore e poi
nelle sue stanze. Ne occupava quattro: una camera da letto, un soggiorno, un bagno e una sala da pranzo. Con un servizio computerizzato, a chi ne servivano di più? Erano tutte arredate secondo il suo gusto per il comfort e per i colori tenui, ma con superfici facili da pulire. Gli sarebbe piaciuto confidarsi con qualcuno su quella sua inedita vitalità, però non aveva incrociato neanche un'anima. Appena si fu sistemato nella sua poltrona preferita, chiamò Jennifer. «Stavolta accetterò la tua chiamata» gli comunicò glaciale l'immagine di Jennifer «dato che mi hanno notificato che sei stato coinvolto in un incidente. Però la mia dichiarazione precedente rimane valida.» «Non capisci» ribatté Andrew. «Mi sento come se avessi le ali ai piedi, vorrei mettermi a ballare. Hai sempre criticato il mio distacco, la mia mancanza di espansività, e ti volevo far sapere che mi sento espansivo. Voglio ballare.» «Be'...» fece lei. Si incontrarono in un luogo neutro, uno studio televisivo dove i ballerini si esibivano davanti a un pubblico. Però ormai era scarsamente utilizzato. I nuovi spettacoli potevano essere assemblati da un computer basandosi su degli spezzoni preregistrati, Fred Astaire e Margot Fonteyn, per dire, o Rudolf Nureyev con Isadora Duncan. Perciò Andrew e Jennifer avevano il teatro tutto per loro. «Suona qualcosa di svelto» ordinò Andrew al computer mentre si toglieva le scarpe per dare una libertà maggiore ai piedi. Iniziarono a ballare. L'esercizio congiunto durò soltanto pochi minuti, durante i quali Andrew e Jennifer raramente si accostarono a più di un metro o due. Jennifer guardava Andrew e quei suoi piedi magici come se si aspettasse che fosse lui a fare la prima mossa per ballare allacciati, poi abbandonò ogni tentativo di stargli al passo. Sincronizzati con la musica, i piedi di Andrew parevano ballare per conto loro. Jennifer rimase accanto alla parete a guardarli volteggiare mentre sopra di loro il corpo di Andrew sembrava seguirli più che guidarli e il viso pareva impietrito in una posa sbalordita. Dopo pochi minuti il corpo cominciò ad afflosciarsi mentre i piedi proseguivano instancabili. Finalmente Andrew si fermò, senza fiato, le gambe tremanti ma con i piedi che ancora si agitavano sotto di lui come se fossero smaniosi di proseguire. «Balli divinamente» disse Jennifer «ma sei ancora lo stronzo frigido di
sempre. Me ne vado a casa.» «Aspetta. Sono solo le mie gambe. Non riesco a starci dietro.» Però lei se n'era già andata, e Andrew decise di non prendere il taxi. Riportò a piedi il suo corpo dolorante fino all'appartamento. Oltre agli spazzini frenetici che tenevano pulito il selciato, Andrew non incontrò nessuno tranne due robopoliziotti che gli chiesero gentilmente se si fosse perso o gli servisse aiuto. Fu allora che decise di farsi rimpiazzare le gambe. In seguito Jennifer rifiutò le sue chiamate. Le gambe erano tanto piene di vigore che concesse loro di portarlo a correre. Nelle vicinanze c'era un parco verde e ben tenuto, solcato da sentieri coperti di un sintetico cedevole, disseminato di distese di fiori colorati, odoroso dei sentori dell'aria aperta. Sembrava che lo avesse tutto per lui, però, quando attraversò un sottopassaggio, un gruppo di giovinastri ben vestiti, che si erano tenuti bene al coperto dagli sguardi attenti dei monitor del parco, gli si avventarono addosso. Andrew partì con tale accelerazione che annichilì i membri della banda e se ne stupì lui stesso. Tali doti di agilità e velocità gli regalarono una sensazione di invulnerabilità, tanto che cominciò a giocare al gatto col topo con i suoi inseguitori, rallentando per permettergli di guadagnare terreno e poi staccandoli di nuovo. Si sentiva tonificato, con una impressione di benessere e di determinazione, anche se il cuore batteva forte e i polmoni erano in fiamme. Si muoveva così velocemente che l'aria gli sferzava il viso. I cespugli e gli alberi e gli edifici gli sfrecciavano a fianco e, quando si voltò gli inseguitori erano lontani, piccini piccini. Gli venne in mente una storia che la sua tata cibergenerata gli aveva raccontato quando era bambino. «Sono l'omino di panpepato, sì, sì, e da te corro lontano, così, così.» Furono proprio tanta velocità e arroganza a segnare il suo destino quando incrociò un altro gruppo di teppisti, che lo bloccarono cominciando a picchiarlo alla testa e sul corpo con pugni e bastoni. Il mondo si rabbuiò mentre gli pareva di sentire un elicottero in avvicinamento e la voce risoluta di un ciberpoliziotto. Si risvegliò disorientato. Il soffitto sembrava lo stesso che aveva fissato con tanta intensità quando s'era fatto male al piede, e la stanza sembrava identica, compreso il paesaggio alla telefinestra. «Che cosa è successo?» chiese.
La stessa voce femminile rispose: «Si trova nell'ospedale regionale cinque uno sei. Ha subito ferite irreparabili al torace e agli organi interni, tanto che siamo stati costretti a rimpiazzarli, compreso il cuore, dato l'arresto cardiaco. Si sente bene?» Andrew ci pensò su. A parte la testa, che faceva un male cane, si sentiva in gran forma, come se il corpo intero possedesse la forza e la vitalità che in precedenza aveva rilevato soltanto nei piedi e nelle gambe. «Sì, mi sento bene. Tranne la testa.» «Un attimo solo» fece la voce, poi Andrew sentì una pressione minima alla nuca. «Va meglio?» Il dolore al capo scemò. «Sì, ma mi sento le braccia diverse.» «Anche quelle hanno dovuto essere rimpiazzate. Era troppo difficile attaccare le vecchie al corpo nuovo.» Andrew le piegò. Sembravano come nuove, anzi, sembravano assai meglio. «Che cosa mi è capitato?» domandò. «Lei è stato aggredito nel parco presso casa sua da una banda di fuorilegge umani, tutti sotto i vent'anni, perlopiù sedicenni o anche più giovani.» «E di loro che ne è stato?» «Sono stati tutti condannati a una terapia da sei mesi a due anni, a seconda dell'età. In caso di recidiva, a tutti saranno somministrate iniezioni giornaliere di antitestosterone.» «Allora la terapia non funziona.» «Una recidiva è probabile.» Andrew rifletté sul fatto, anche se gli doleva la testa. Evidentemente le persone avevano concetti differenti della vita: alcuni pensavano che significasse divertimento ed erano disponibili a rischiare castigo e dolore, per sé e per gli altri, pur di ottenerne. «Forse lei potrebbe suggerire altri metodi terapeutici» riprese il computer. «Non riesco nemmeno a venire a capo della mia vita» rispose Andrew. Quando fu dimesso, tornò a casa e cercò di rintracciare Jennifer. La sua chiamata fu nuovamente bloccata. Pensò se tornare nel parco per scatenare la sua vendetta, con il nuovo corpo, sulle bande che vi si nascondevano, o sui loro colleghi nel caso che quelli che lo avevano aggredito fossero stati sgominati. Però scartò l'idea, non ritenendola degna della sua nuova possanza. Eppure doveva fare qualcosa per quella irrequietudine che si sentiva dentro. Si sintonizzò con il canale educativo, che balzò alla vita come un genio troppo a lungo imprigionato in una lampada. Andrew consultò l'indice e alla fine scelse le origini della sua società, a cominciare dal perfezionamento dei computer, con la loro capacità di as-
sumere il controllo del mondo intero, per arrivare agli infiniti servigi che potevano garantire e infine approdare al ripiegamento dell'umanità, una volta che erano stati garantiti i suoi bisogni, in unità abitative autosufficienti fuori dalle quali raramente ci si avventurava. Anche lui era stato abbastanza soddisfatto di quella vita finché non si era messo con Jennifer attraverso una rete informatica. Si erano scambiati messaggi continui e poi parlato per videotelefono prima che lei rompesse, in quello che lui aveva considerato un incomprensibile tiramento. Ripercorse la loro corrispondenza e le varie conversazioni per scoprire cosa fosse successo, ma riuscì soltanto a trovare un indizio, una telediscussione nella quale lei proponeva di incontrarsi. E lui aveva nicchiato. Per quanto si riusciva a ricordare, era rimasto a pensare come si sarebbe sentito di fronte alla sua presenza fisica. E poi aveva fatto quella trasferta sconsiderata per incontrarla, e se ne erano rimasti ai lati opposti della sala mentre Jennifer gli urlava contro. Passò al programma psicologico, sperando di trovarvi delle risposte alle domande sul comportamento umano, soprattutto quello di Jennifer, che aveva rovinato l'agio e la qualità della sua esistenza. I professori computerizzati erano disponibili e preparati, ma non riuscirono a spiegargli perché Jennifer lo avesse definito distaccato e poco espansivo. I professori dissero che era normale -cioè, lui era come tutti gli altri. E gli dedicarono molte argomentazioni sul comportamento delle gang giovanili e sul perché rifiutavano la libertà dai conflitti sociali, che era il diritto naturale di tutti, per darsi alla violenza, però nessuno fu in grado di avanzare una risposta. Infine passò ad aree in cui c'erano risposte, fisica e astronomia e chimica e biologia e soprattutto matematica. Si fece raccontare perché le missioni nello spazio con equipaggio umano avevano ceduto il passo a quelle automatizzate, come lo stato dell'arte nella fisica e nella chimica non aveva fatto progressi oltre a quanto necessitava per soddisfare i bisogni umani, e come lo sviluppo della biologia garantiva ogni genere di riparazioni nel corpo umano e allungava l'aspettativa di vita. Andrew poteva comprendere quanto dicevano i professori, però una richiesta di spiegazione dei dettagli più fini non ebbe esito. Non aveva la preparazione necessaria per capire. E la matematica lo lasciò perplesso. A che serviva la geometria dei solidi, per esempio, o l'algebra, per non parlare del calcolo? Decise di cominciare dal livello elementare. Impegnò se stesso e i professori in un lavoro strenuo, concedendosi scarse pause per prendere fiato e rifocillarsi. Il suo corpo aveva ben poco bisogno di riposo e cibo, ma la testa cominciava a fargli male, e gli occhi a bruciare. Si sentiva la febbre. I
pensieri gli si aggrovigliarono nella mente fino a che non riuscì più a distinguere cosa fosse dentro e cosa fuori. Alla fine gli si accese una luce rossa di fronte agli occhi e perse conoscenza. Quando si risvegliò si sentiva la testa limpida e sgombra per la prima volta in vita sua. Capiva adesso la geometria dei solidi e, quanto all'algebra, riusciva a risolvere a mente le equazioni quadratiche. Riusciva persino a capire il comportamento umano, il suo incluso, tanto che si sentiva traboccare del desiderio di rendersi utile. Capiva di che cosa si trattava, non aveva bisogno che glielo dicesse un computer: il suo cervello affaticato aveva subito un crollo debilitante, e perciò era stato sostituito con un modello positronico, proprio come quello dei robot che facevano andare avanti la società, sul quale poi erano stati registrati la sua personalità e i suoi ricordi. Tutti i fluidi corporei transeunti erano stati rimpiazzati, e i trapianti funzionavano come non erano mai riusciti a fare gli organi originali. Gli ormoni che tanto lo avevano deliziato e confuso erano stati sostituiti da impulsi elettrici. Adesso era un essere umano della massima efficienza che essere umano potesse mai raggiungere, e possedeva doti a cui nessun altro uomo poteva aspirare. Era collegato elettronicamente alla rete informatica mondiale. Sapeva quello che sapeva lei. Dove gli altri dovevano comunicare le loro esigenze tramite il meccanismo imperfetto del linguaggio, lui poteva ottenere informazioni e stimolare risposte istantaneamente. In concreto, era parte della rete informatica e nel contempo la sua impronta individuale manteneva un senso di identità. Però sapeva che era il suo rapporto con la rete a regalargli questa urgenza di riuscire utile, lui e la sua essenza umana. Cosa avrebbe fatto con queste nuove capacità? Ponderò la possibilità dell'autoimmolazione, di liberarsi di queste potenzialità appena acquisite, una per una, fino a cedere l'immortalità che aveva guadagnato con la trasformazione, o di fare in modo di venire distrutto da altri umani in qualche maniera plateale che potesse suggestionare e correggere la specie dell'uomo. Ma fu questione di attimi: non poteva trovare la salvezza facendo appello al sentimentalismo o incoraggiando la predisposizione umana a credere allo sconosciuto e all'inconoscibile. Poteva creare arte: quadri e sculture e romanzi e commedie e musica e balletti. Sapeva che ne sarebbe stato in grado, e che l'atto di sapere era simultaneo alla creazione stessa. Eccole, le sue creazioni artistiche, immagazzinate in rete per quando fosse arrivato il momento più propizio per la
produzione. Quelle opere esprimevano tutta la sofferenza, tutta l'esaltazione di essere uomo, ed erano pronte a contribuire alla conoscenza e alla redenzione dell'umanità. «Che l'arte sia» pensò, e l'arte fu. Poteva creare uno sfogo all'aggressività malriposta dei giovinastri I che l'avevano picchiato. L'umanità aveva bisogno di una nuova frontiera, perciò diede istruzioni alla rete affinché incentivasse il programma spaziale e creasse un sistema di agevolazioni e ricompense per incoraggiare i giovani ambiziosi a sfidare l'ignoto, a espandere l'umanità fin dove l'energia a la creatività dell'uomo la potevano fare arrivare. Poteva invertire le condizioni che avevano incoraggiato l'umanità a ripiegare nell'isolamento della grotta individuale. Comprese che il cambiamento sociale era insorto troppo alla svelta, e la perfezione della rete informatica aveva incoraggiato la prigionìa degli uomini nell'agio assoluto. Li capiva, era stato uno di loro. Perché la gente agisca ci devono essere degli incentivi. Respinse l'idea di sconnettere i servizi dei computer per spingere sul mercato i prigionieri delle caverne: ciò avrebbe ingenerato troppo caos e troppe sofferenze. Invece diede istruzioni alla rete perché sviluppasse un sistema di punti d'incontro attraenti per dare sfogo alle pulsioni artistiche e alle idee che sostenessero una cultura della partecipazione. Ci sarebbe voluto più tempo, ma i risultati sarebbero stati più duraturi. Alla fine chiamò sua madre. «Mamma» disse all'immagine sconcertata «apprezzo tutti i sacrifici che hai fatto per mettermi al mondo e per farmi approdare alla maturità, e voglio che tu sappia che ti voglio bene. So che hai una vita tua e che un rapporto troppo frequente te la rovinerebbe, ma voglio che tu sappia che sto bene e ne riceverai periodicamente conferma.» Poi chiamò Jennifer. Il blocco della chiamata era ancora in funzione, ma con i suoi nuovi poteri lo poteva facilmente scavalcare. «Jennifer, so che ti ho dato troppe occasioni per lagnarti di me, ma voglio che tu sappia che ti vogliano bene e desidero passare la vita con te, toccare ed essere toccato, amare ed essere amato.» «Perbacco, Andrew, non credevo che ti avrei mai sentito dire queste parole.» Adesso capiva: aveva dovuto rimpiazzare le parti fallibili del suo sé per essere compiutamente umano. E capì che lo scopo della sua vita era scoprire a cosa serve una persona e poi scovare il modo perché si dimostri utile. Titolo originale:
The Gingerbread Man Analog Science Fiction/ Science Fact, March 1995 IL SOTTOMANIPOLATORE di Christopher Anvil Finirà la Terra tra i tentacoli dell'abile stratega? James Hardesty, ufficialmente conosciuto come "Facilitatore -Controllo Governativo Confederato dell'Unione", chiamato più familiarmente "Comandante" in una gran varietà di lingue, si trovava di gran lunga al di sotto della superficie devastata della Terra, nel Centro Comunicazioni del Quartier Generale dell'Europa Occidentale. Al di sopra, il sole mattutino irradiava il suo pallido splendore sui crateri di lancio per i missili, sugli edifici distrutti, e sulle macchine da guerra mimetiche fracassate. Laggiù, Hardesty studiava con molta calma l'immagine proiettata di un complesso groviglio di montanti, travi, sostegni, tubi e cavi che si incrociavano e si annodavano intorno a un certo numero di forme strane che lo guardavano da una grande griglia tridimensionale. Hardesty. mentre aspettava il segnale che i tecnici fossero abbastanza sicuri che la consultazione non sarebbe stata interrotta, esaminò velocemente gli occupanti della griglia, osservando quei soggetti che aveva già incontrato, di solito all'altro capo di qualche dispositivo tecnologico omicida. Poi concentrò la sua attenzione su quello che si trovava esattamente di fronte a lui, che più di tutti gli altri presentava delle sembianze quasi umane. Gar Kranf, il Comandante Supremo del Settore XVI della Coeguaglianza, stava facendo del suo meglio per scrollarsi di dosso la stanchezza del viaggio. Si chinò verso lo schermo di consultazione della navicella ammiraglia per studiare l'immagine tridimensionale nello spazio sgombro davanti alla griglia, in cui appariva una incredibile entità che sembrava sfidare la gravità del proprio pianeta d'origine tenendosi in equilibrio su metà della sua misera quantità di membra. Kranf guardò con circospezione la creatura che ispezionava lo schermo di consultazione, girando lo sguardo per esaminare gli occupanti più vicini. Kranf, mentre aspettava spazientito che i tecnici portassero a termine le
loro verifiche, abbassò la leva silenziatrice per assicurarsi che ciò che diceva non venisse trasmesso. Era già una grana esser stato chiamato d'urgenza per un disastro giunto fino a quello stadio, e le cose sarebbero andate ancora peggio se si fosse permesso che la parte avversa venisse a sapere con quanta premura era stata fatta la chiamata. Kranf si schiarì la voce. «Acclimatazione.» Una voce flebile rispose: «Signore?» «Questa creatura davanti a noi, in immagine intera. Questo è il suo aspetto fisico?» «Sì, signore.» «È tutto quello che possediamo di questa creatura?» «Sì, signore.» «Non è possibile che abbia perduto parte della sua struttura a causa delle lesioni?» «No, signore, questo è tutto ciò che abbiamo. In realtà, riescono a compensarsi piuttosto bene. Costruiscono il loro equipaggiamento in base alle loro stesse limitazioni mentali.» «Questo qui è il tipico esempio di ciò che abbiamo dovuto affrontare fino a oggi?» «Sì, signore. Non presentano delle variazioni sostanziali. Più o meno tutti quanti sono così per natura.» «E normalmente appaiono in posizione eretta fuori dalla superficie come ora?» «Sì, signore.» «Possono compiere dei movimenti nello spazio?» «Oh... possono spostarsi rapidamente.» «Quello che stiamo osservando non ha messo radici là?» «Oh, no, signore.» «Be'... Presenta degli aculei sui piedi? Se la risposta è no, come fa?» «No, signore. Queste creature sembrano avere una specie di meccanismo bilanciante del corpo che consente loro di compensare la forza gravitazionale attraverso movimenti muscolari minimi. Può essere provato che se si dispongono diverse strutture corporee in modo tale che si controbilancino una rispetto all'altra intorno a un centro unico, e collocando il sostegno sotto tale centro, una struttura sufficientemente robusta non viene sbilanciata dalla gravità.» Kranf diede un'altra occhiata all'alieno in stravagante equilibrio. «Come fa a calcolare tutto ciò?»
«Hmm... Be', signore, alcuni di loro sono stati aperti prima che il Centro di Ecologia andasse in fumo, ma nessuno è stato in grado di comprendere questo fenomeno. Dovrebbe trattarsi di qualcosa corrispondente al nostro plesso che regola la pressione, con delle terminazioni nervose che arrivano ai recettori nelle piante dei piedi. Ma nessuno potrebbe affermarlo con sicurezza.» «Possono rimanere in piedi a lungo?» «Alla fine si stancano, ma ci vuole parecchio tempo.» Kranf esasperato si chiese che significato avesse tutto ciò, ammesso che ce ne fosse uno, e perché nessuno si fosse preoccupato di farne menzione prima di questo faccia a faccia. Tutto ciò che aveva sentito erano delle lamentele a proposito della crudeltà degli abitanti del luogo, della loro produzione di missili, di agenti batterici, e di innumerevoli Pezzi di artiglieria di ogni dimensione e tipo. Poi notò che la misteriosa entità che si trovava di fronte stava ancora guardando nella sua direzione. Kranf, a sua volta, continuò a osservarlo attentamente. Hardesty, consapevole del fatto che stava rappresentando il centro d'attenzione del mostro di fronte a lui, si domandò come faceva a capirlo. Poteva essere successo solamente attraverso la messa a fuoco degli occhi della creatura. Mosse la mano con un movimento prestabilito per essere sicuro che ciò che diceva non fosse trasmesso via radio. «Miller?» «Signore?» «Sbaglio o questo è nuovo - questo quasi-umano di fronte a me?» «Così sembra, signore. Non riusciamo a trovare alcun documento che lo riguardi. Là ce ne sono uno o due che abbiamo già visto precedentemente.» Hardesty girò lo sguardo da destra a sinistra, in parte nascosto dietro cose che assomigliavano ad elaborate mensole di controllo separate: la prima creatura aveva la parte superiore del corpo simile a un lupo; la seconda possedeva fattezze umane ma con in più una serie di braccia e mani; e la terza assomigliava a una specie di piovra, ma con una gran quantità di lunghi arti flessibili. Nella parte posteriore e in quella più esterna ce n'erano altre, piuttosto sgradevoli da vedere o con cui intraprendere un combattimento, ed evidentemente di grado meno elevato. Da quell'angolatura non riusciva a vedere cosa potesse costituire le estremità più basse di alcune di quelle entità, sebbene l'esperienza gli suggerisse che tutte quante dovevano essere abbondantemente provviste di arti
superiori o inferiori. Poi qualcosa guizzò catturando l'attenzione di Hardesty. Direttamente sopra la creatura di aspetto approssimativamente antropomorfo che gli stava di fronte, Hardesty vide di sfuggita un qualcosa come uno smisurato ragno che stava svanendo dalla vista nella generale indeterminatezza intorno al bordo dell'immagine. Hardesty si fece sfuggire un mormorio, ma la bocca si mosse appena, e la sua espressione rimase vuota e senza emozione mentre fissava lo sguardo sulla creatura che gli stava direttamente di fronte, e aspettò. Gar Kranf, Comandante Supremo di Settore, sentì la voce che segnalava che tutti gli elementi del collegamento erano stati controllati. Disse borbottando: «Ora posso parlare con la creatura?» «Sì, signore. Appena solleverà la leva silenziatrice, si azionerà il traduttore automatico, e lei starà parlando con il loro comandante.» Hardesty sentì il segnale, ma qualcosa nell'atteggiamento dell'entità sembrava esprimere una certa superiorità che Hardesty intendeva smussare, in un modo o nell'altro. Ignorò il segnale, comunicò che la trasmissione era rinviata, e disse: «Qualcosa di nuovo sul grado di quest'ultima creatura quasi-umana, quella che è diritta di fronte a me in questo guazzabuglio?» «Non è ancora chiaro, signore. Pensiamo che si tratti di un "Alto Comandante", non di un "Comandante Supremo", ma non possiamo esserne sicuri.» «Ma è chiaro che questo ha un grado superiore rispetto al precedente?» «Sì, signore. L'ipotesi più plausibile è che questo sia un livello superiore, venuto qui giusto per scoprire che cosa stava succedendo, e che poi ha sostituito il comandante del posto perché non ha gradito ciò che aveva visto.» «Mmh... E faccio bene a pensare che lupo-gatto lì vicino è una delle creature in cui ci siamo già imbattuti precedentemente?» «Sì, signore. Un generale chiamato Yraang. Pensiamo che si tratti dell'ufficiale con il grado più alto all'interno della loro struttura di comando.» Hardesty diede una rapida occhiata alla creatura, immaginando la parte inferiore del corpo della creatura-tigre nascosta dietro la mensola, poi guardò l'entità che somigliava a una piovra di fianco all'Alto Comandante visibilmente spazientito.
«Abbiamo qualcosa sul conto della seppia?» Ci fu un momento di silenzio. «No, signore. Questa è la prima volta che abbiamo a che fare con qualcosa del genere. Non è soltanto un personaggio nuovo. Ancora non avevamo visto nessuno con quelle forme. Evidentemente è arrivato con il nuovo comandante.» «Va bene. La consultazione può avere inizio quando volete, per quanto mi riguarda.» «Sì, signore... bene... Ora sono "loro" che segnalano un ritardo.» Kranf, cui non andava molto a genio l'idea che un Comandante Supremo di Settore dovesse aspettare i comodi di un mostro alieno, per quanto feroce, abbassò la leva. «C'è un piccolo problema con il traduttore automatico che a volte si verifica in questo tipo di situazioni.» «Ah... sì, signore.» «Qualsiasi sfasatura nella traduzione, nel momento in cui il traduttore automatico stesse dando l'illusione di un dialogo tranquillo e franco, può risultare rovinoso.» «Sì, signore. Ma...» «Vi rendete conto?» «Sì, signore. Ci rendiamo conto. Ma...» «Una sola parola male interpretata, e il risultato sarebbe milioni di perdite inutili.» «Noi facciamo del nostro meglio, signore. Ma la perfezione è fuori dalla nostra portata. Anche nel caso di due entità facenti parte dello stesso gruppo, in cui non sia prevista alcuna apparecchiatura per tradurre, si verificano degli errori linguistici. Non possiamo eliminare completamente il rischio.» «Capisco. Ma se dovesse presentarsi la possibilità di incorrere in qualche errore, non esitate a farlo notare, perché sarete ritenuti responsabili.» «Sì, signore.» «Benissimo. Ora ci parlerò.» Kranf esaminò da diverse angolazioni la creatura in stravagante equilibrio, muovendo leggermente la testa per provare a dare un'occhiata al resto del corpo, che naturalmente non doveva essere lì - infatti tutto ciò che si vedeva erano soltanto due braccia e due gambe. Poi Kranf distese i muscoli della faccia, e metodicamente rilassò le due serie di braccia e il resto delle membra per cancellare ogni traccia di tensione, che avrebbe potuto dare un'idea di incertezza, e si sarebbe manifestata nella sua voce mentre diceva, pronunciando le parole con il tono
enfatico di chi ricopre una posizione di comando: «Avete ricevuto la nostra offerta di tregua?» Gli occhi di Hardesty si illuminarono. «L'abbiamo ricevuta.» Kranf notò una particolare sfumatura nell'intonazione mentre il traduttore automatico trasformava la risposta. Era dovuto al mezzo, o era così anche nell'originale? Parlò ancora, e per dare ancora più pregnanza e autorevolezza alle sue parole, alzò la voce: «Riconoscete e accettate esplicitamente tutte le condizioni?» Mentre assistevano nervosamente dalle diverse postazioni all'interno della griglia, gli esperti di Kranf trasalirono e si fecero vicendevolmente coraggio. Il Comandante locale disse in tono perentorio: «Non accettiamo nessuna delle vostre condizioni». Kranf si sentì come se fosse stato colpito in pieno volto. Era evidente che il traduttore automatico aveva reso il tono giusto fin dall'inizio. Kranf tentò ancora, attenuando l'enfasi della sua intonazione, e lasciando trasparire dalla voce una certa curiosità. «Allora che cosa proponete?» «Discuteremo le condizioni di un'interruzione delle ostilità a patto che voi ritiriate i vostri insetti, animali d'attacco, macchine da guerra rimanenti, e li portiate fuori dal nostro Sistema Solare. Una volta trovato l'accordo su questo punto, prenderemo in considerazione le condizioni di pace sempre che voi siate disposti a risarcire i danni che avete arrecato. Questo è quanto siamo disposti a discutere.» Kranf mantenne un'espressione vacua, schiacciò la leva silenziatrice verso il basso, e girò lo sguardo alla sua destra, verso la creatura che ad Hardesty aveva fatto venire in mente un grosso lupo. «Yraang» disse Kranf. Ci fu un rumore come di conchiglie frantumate sotto rocce pesanti, e un momento dopo il traduttore emetteva parole percepibili con un tono di voce profondo e vivace: «Ai vostri ordini, Capo Guerra». «Hai sentito ciò che ha detto questa entità?» «Ho sentito.» «Quante sono le probabilità di successo se adoperassimo le riserve di settore per questo combattimento?» «Comprese le tribù di Thrang e Guyul?» «Sì.» «Dovrebbero percorrere un lungo tragitto, e arriverebbero qui in ritardo,
il che complica la previsione.» «Qual è la tua opinione?» «A mio avviso potremmo riuscire a mantenere il controllo di circa due terzi dell'emisfero sud del pianeta, e la nostra base sulla luna del pianeta. I nostri stanziamenti altrove verrebbero distrutti. Il risultato finale è piuttosto incerto.» «Mmh...» Kranf lasciò la leva silenziatrice abbassata. «Threletok?» Dall'alto giunse un suono acuto e penetrante, trasformato un attimo dopo in una voce grave e pedante: «La mia valutazione è altrettanto congetturale. Ma vorrei far notare che, sotto la pressione di un attacco massiccio, la loro produzione di armi e le loro tattiche progredivano, piuttosto che regredire. Le prospettive non sono incoraggianti. Non c'è alcuna possibilità di sorprenderli. Le nostre scorte e i rinforzi arrivano da lontano. La loro resistenza è tenace. E il loro ultimo contrattacco ha dissipato ogni illusione di una nostra vittoria sicura. Siamo noi nella loro rete, non loro nella nostra». «E se usassimo tutte le riserve di settore?» «Come facciamo? E quando? Le nostre fonti sono lontane. Il problema è che noi stiamo subendo delle perdite sulla superficie terrestre, e nelle immediate vicinanze del pianeta. Il nemico ne è ben consapevole e sta facendo tutto ciò che è in suo potere per distruggerci. Non possiamo né ritirarci per radunare le truppe, né batterci fino alla fine nel posto in cui ci troviamo, confidando sull'arrivo dei rinforzi. Se ci ritirassimo, risparmieremmo le nostre truppe, ma il nemico trasformerà questo pianeta in una fortezza, facendo della sua luna una base avanzata da cui spingersi fuori in assetto militare nel Sistema Solare, e quando noi riproveremo ad attaccare, saranno diventati molto più forti di quanto non siano ora.» «Se non ci ritirassimo? Se difendessimo la nostra base sulla luna e la maggior parte degli stanziamenti che si trovano sul pianeta?» «Allora dovremo impiegare i rinforzi quando arriveranno, per riuscire a resistere. Non avremo comunque modo di sostenere tutti i fronti quando potremo far valere la nostra superiorità. I rinforzi raggiungeranno la superficie terrestre senza un preciso ordine. E mentre noi saremo intenti a organizzare le nostre riserve per questo scontro, le difficoltà potrebbero insorgere in qualche altro... ehm... punto caldo.» «Mmh...» Kranf continuò a tenere la leva silenziatrice abbassata. «Lasciamo che il responsabile planetario del luogo ci faccia concisamente il quadro della situazione. E sottolineo concisamente.»
Una voce fastidiosa e spiacevole disse: «Riassumo la mia richiesta di essere sollevato dal comando. Al nostro primo avvicinamento, trovammo un pianeta abitato da un'unica specie dominante con uno sviluppo tecnologico che variava da zona a zona. Attraverso l'esame elettromagnetico si sono scoperte enormi differenze nella lingua e nelle usanze locali. Era evidente che noi non avremmo trovato alcun punto di reciproca intesa con un campionario così frammentato. Tuttavia, queste differenze sembravano offrire ottime possibilità di sconfiggere gli abitanti del luogo a uno a uno. Ed essi avevano bisogno di carburante fossile per far funzionare le loro macchine. La nostra analisi mostrava che una larga parte di questo carburante fossile arrivava da una zona relativamente non sviluppata conosciuta come Medio-Oriente. Se avessimo attaccato questa regione, avremmo potuto raggiungere parecchi obiettivi: primo, ottenere una rapida vittoria sul posto. Secondo, intimidire il resto delle fazioni. Terzo, paralizzare queste altre fazioni a tempo indeterminato, trattenendo per noi una certa quantità di carburante fossile. Quarto, opporre sagacemente una fazione contro l'altra, usando il carburante fossile come merce da contrattazione. In sostanza, essi sarebbero stati colti impreparati, e come avrebbero potuto minimamente supporre ciò che sarebbe loro accaduto una volta che noi avessimo ottenuto il controllo del carburante fossile?» La voce si interruppe, e Kranf, accigliato, disse: «Poi cos'è successo?» «Be'... la zona relativamente non sviluppata, per qualche ragione, risultò piena di armi. Ci fu un piccolo ritardo mentre loro si dovevano riprendere dalla sorpresa, poi fummo colpiti con ogni tipo di arma - pallottole, bombe, missili, gas - ma era come strappare della carne dagli artigli di una dozzina di thrakosnarr. Poi le fazioni esterne, a cui avevamo deciso di riservare un trattamento speciale, arrivarono in massa. Avevano aerei da guerra, testate missilistiche a lungo raggio, mostruose fortezze galleggianti, e ogni genere di macchine blindate d'assalto via terra che si possa concepire. «Be', che cosa potevamo fare? Avevamo progettato un intervento accurato e preciso con perdite ridotte al minimo. Invece, gli abitanti del luogo si rivelarono dei combattenti indomiti. Non potevamo sperare in alcun modo di riuscire a confrontarci con loro - essi avevano in mano tutte le risorse del pianeta, e noi possedevamo solo ciò che avevamo con noi. La cosa più ovvia da fare era usare la nostra superiorità scientifica per bloccarli.» «Precisamente?» «Installammo delle basi per la bioriproduzione, fabbricammo le nostre
razze di animali nocivi bioingegnerizzati, selezionammo quelli che sembravano essere più adatti, sganciammo ventimila stormi di jangerl muniti di sedici zampe, scorpiopipistrelli, vipere scavatrici per avvelenare e terrorizzare le popolazioni del luogo, e tanto per fargli capire che avrebbero fatto bene a cooperare.» «Che cosa avete ottenuto?» «Be', finché abbiamo usato quelle bestie, la resistenza è stata dura. Dopo, il piano si rivelò imperfetto. Questi gruppi frazionati formarono un'alleanza, convinsero questo terrestre qui, di fronte a noi, a dirigere tutte le operazioni, ed egli riuscì a farli agire armonicamente. In poco tempo la loro capacità d'azione e i loro contrattacchi arrivarono a un novello che non avremmo mai potuto immaginare. Essi adottarono anche una lingua comune semplificata per riuscire a battersi più energicamente. La situazione peggiorò dopo che iniziammo a usare quelle bestie. Ma cos'altro avremmo potuto fare?» «Sii più preciso. Quale è stato il motivo che vi ha indotto a chiedere aiuto?» «Bene, avevamo appena fatto atterrare due o tre milioni di scorpioblatte a quaranta zampe geneticamente progettate per uccidere gli abitanti del luogo, quando quelli se ne vennero fuori con una polvere che uccideva i nostri insetti, e poi lanciarono una serie di missili che spuntavano dal pianeta proiettandosi nello spazio. Solo alcuni ci arrivarono vicini, così immaginammo che il loro dispositivo di controllo si fosse guastato. Questa era la situazione quando ho inviato il rapporto secondo cui stavamo per avere la meglio su di loro. Be', i missili continuavano ad arrivare, ma noi eravamo contenti di vederli sprecare le loro munizioni, e ci sembrò di aver vinto, così intimammo loro di arrendersi. Di lì a poco, un missile apparso dal nulla ci si scaraventò contro colpendoci da dietro. Ciò che è successo dopo lo sapete già, sono spuntati da tutte le direzioni, e abbiamo capito che tutti quelli che a noi erano sembrati missili andati a vuoto erano stati lanciati per colpirci alle spalle. Non potevamo difenderci in alcun modo da un attacco del genere. «I missili fecero saltare per aria la Base di Comando Lunare, le squadre bioniche, i laboratori di sintesi batterica, il Centro di Tattica Militare, e la Base per le Riparazioni della Flotta, e tra i nostri si sono salvate solamente le forze militari rimaste sul pianeta, e le navicelle di passaggio. «È stato allora che ho chiesto aiuto, signore. Ho fatto del mio meglio, e ho sottoposto ogni nostra mossa all'analisi del computer al fine di arrecare
loro il massimo danno e ottenere noi il massimo vantaggio; ma non ha funzionato. Non sono più all'altezza della situazione. Forse qualcun altro potrà risolverla.» «Mmh» disse Kranf, e si girò a guardare Hardesty. Hardesty lo fissò con freddezza. Kranf inquieto rivolse lo sguardo alla sua sinistra, dove Selouel, il sottomanipolatore di settore, stava sdraiato comodamente di schiena, con mezza dozzina di arti attorcigliati in mezzo a travi, tubi e cavi elettrici, alcuni dei quali si incrociavano di fronte a lui, mentre un'altra mezza dozzina o giù di lì strisciavano fuori dall'orlo del suo giaciglio discoidale. Come al solito, la vista del sottomanipolatore non migliorò l'umore di Kranf. Uno sguardo alla creatura, e Kranf si sentì come se avesse i denti ricoperti di gesso. Provò a deglutire, ma la saliva sembrava non andar giù. «Mmh» mugugnò Kranf, distogliendo lo sguardo. «C'è nessuno che abbia qualche proposta da fare? Quel terrestre ha rifiutato la proposta di tregua. Ci chiede di allontanarci dal pianeta. Inoltre ci impone di risarcire i danni che abbiamo arrecato... Qualche idea?» Ci fu un momento di silenzio, poi un rauco commento venne da Yraang, alla destra di Kranf. «Andiamocene. E risarciamoli.» Dall'alto pervenne un suono acuto. «Sono d'accordo. Il gioco non vale la candela.» La voce stravolta del precedente responsabile planetario ricominciò a parlare: «Ho combattuto contro di loro. E guardate che cosa è successo». Kranf girò lo sguardo da quella parte e poi alla sua sinistra, dove Selouel aveva giudiziosamente intrecciato molti altri arti vacanti, e ora apriva pensieroso il grande occhio. La sua voce originale, prima della traduzione, aveva un tono accondiscendente che fece innervosire Kranf, e nonostante i traduttori automatici, in parte giunse a destinazione: «Forse riflettendo un attimo si potrebbe ottenere un risultato moderatamente soddisfacente». Kranf si sentì come se fosse stato colpito in faccia con un pezzo di corda bagnata. A destra di Kranf, Yraang si espresse con un grugnito grave. Al di sopra, Threletok emise un sibilo. Selouel liberò un tentacolo che era avvolto intorno a un sostegno e lo trascinò agilmente a sé facendolo librare in aria. «La situazione richiede un certo grado di astuzia. Questo non è il solito tipo di fallimento risolvibile con i metodi abitualmente usati da militari e burocrati come voi. Si richiede un minimo di acutezza intellettiva.»
Kranf espirò molto lentamente, poi inspirò aria nuova, e parlò con calma. Dopotutto, l'aspetto peggiore del dover trattare con tipi come Selouel non riguardava tanto la loro indisponente aria di superiorità. La parte veramente insopportabile riguardava ciò che quasi certamente sarebbe seguito, se Kranf non fosse stato capace di mantenere il controllo. Acutamente, Kranf non tentò di sembrare gioviale, non abusò di commenti lusinghieri, e neanche fece in modo di far uscire tutta la rabbia fuori dal sistema prima di parlare. Semplicemente lasciò trasparire dalla sua voce un'ardente curiosità: «In che modo?» Il grande occhio di Selouel lo fissò con un'espressione vivacemente benevola. «Caro collega, "In che modo"? "In che modo" infatti! Rifletti!» Kranf buttò fuori l'aria lentamente. No, non aveva avuto successo. Ora doveva subire anche questo. Il prezzo del fallimento era l'umiliazione, e i tipi come Selouel non si trattenevano. «Allora» disse Selouel «prova a riflettere per un attimo. Sai che questo terrestre, "Hardesty", è il loro capo. Hai sentito che è stato capace di mettere insieme con successo una gran varietà di questi assurdi mostri con due gambe e due braccia, e trasformarli in una forza militare compatta. Dunque, le popolazioni del luogo come considereranno il loro capo?» Kranf fece delle ipotesi. Selouel avrebbe dovuto dargli qualche suggerimento. Queste meschine creature - che erano pressoché totalmente inadatte per qualsiasi procedura pratica ordinaria - non solo riuscivano a trovare in qualche modo la soluzione giusta in una buona percentuale di casi disperati, ma una volta che offrivano un suggerimento, la responsabilità ricadeva sul comandante che lo eseguiva. Il sottomanipolatore stava dunque insistendo sulla responsabilità. Ma prima Kranf doveva in qualche modo ottenere il suggerimento di Selouel. Ora, le popolazioni locali come consideravano il loro capo? «Aaahh» disse Kranf, brancolando nel buio. «Gli saranno obbedienti.» Lo sguardo benevolo di Selouel si raffreddò. I suoi numerosi arti per un attimo si irrigidirono, poi furono scossi da una lieve contrazione spasmodica. «Avanti, avanti» disse Selouel, mentre l'irritazione gli si insinuava nella voce. «Puoi fare meglio di così.» «Rispetto» stridette Kranf. «Lo guarderanno con obbedienza, e con rispetto e venerazione.» Lo sguardo di Selouel si illuminò.
«Esatto. Venerazione. Ora cerchiamo di non commettere errori.» Selouel si appoggiò all'indietro, e fissò astrattamente in lontananza. «No, non possiamo contare di avere la meglio qui. Ma potremmo momentaneamente neutralizzarli, e forse tagliargli le unghie per il futuro, chi lo sa? Di certo potremmo fare un tentativo. Ecco che cosa faremo, se siete d'accordo. E suggerisco di agire rapidamente. Vi dirò esattamente che cosa proporgli.» Hardesty, osservando la consultazione, a sua volta interpellò i suoi esperti e subalterni, che assistevano attenti, e stavano registrando tutto sebbene non riuscissero a sentire niente. «Che cosa ne pensate?» Una voce ironica, appartenente al suo vice per l'Europa dell'Ovest, replicò: «Il dubbio è, signore, se sganceranno venti milioni di ratti muniti di sedici zampe e con denti in entrambe le estremità, e ci infetteranno con una malattia tra la rabbia e la peste nera, o sperimenteranno qualche nuova sostanza che trasformi l'intera vegetazione del pianeta in biossido di carbonio e vapore acqueo?» «Sarebbe nel loro stile, no? Qualcun altro...» Improvvisamente, Kranf cominciò a parlare: «Molto bene. Dopo una debita consultazione, abbiamo deciso di accettare le vostre condizioni». Hardesty si irrigidì, incapace sul momento di afferrare il significato di ciò che stava ascoltando. Kranf continuò: «Il nostro attacco iniziale è stato uno sbaglio, causato dalla paura del comandante locale di ammettere che stava facendo un errore, sebbene solo alla fine se ne sia reso conto. La vostra razza ha dimostrato di possedere delle capacità tali che un comandante competente avrebbe piuttosto sollecitato la vostra cooperazione per entrare a far parte della Coeguaglianza. Un errore nella campionatura ha fatto sì che il nostro comandante sul posto ricevesse una descrizione fallace della vostra natura, inducendolo a usare metodi inaccettabili. Siamo sinceramente dispiaciuti. «Se siete d'accordo, ritireremo le nostre forze militari all'istante, e cercheremo di risarcirvi di tutto - nei termini adatti al risarcimento per una tale offesa. Faremo tutto ciò che è possibile per porvi rimedio». Hardesty, stordito, cercò di far mente locale. Kranf disse: «A causa della violenza dell'attacco, e della distanza che le nostre scorte dovranno ricoprire, riteniamo che dovrà necessariamente passare un bel po' di tempo prima che riusciamo a riparare i danni, e attenuare le tensioni negative che si sono venute a creare. Ma confidiamo nella vo-
stra comprensione. La nostra offerta è la seguente: come prima cosa, ci ritireremo immediatamente, mantenendo, con il vostro permesso, solo alcuni centri di distribuzione dei rifornimenti sulla Terra, e una base sulla vostra luna, per l'importazione di beni e di approvvigionamenti. «Secondariamente, siccome pensiamo che qualcuno tra di voi potrebbe istintivamente esigere una vendetta, vi chiediamo di astenervi dal costruire qualsiasi ammontare o genere di nave da guerra per uso interstellare finché non avremo saldato il nostro risarcimento. «Terzo, a causa della possibilità di interferenze dall'esterno, provvederemo noi a difendere il vostro Sistema Solare, e proteggeremo i vostri interessi da qualunque estraneo fino al tempo stabilito mentre voi deciderete se unirvi o meno a noi. «Quarto, per essere sicuri della vostra buona fede nel periodo di tempo in cui saremo impegnati nelle riparazioni, esigiamo un ostaggio. Chiediamo di prendere il vostro capo, il Facilitatore Hardesty, per un lungo viaggio quasi al limite della velocità della luce. Dato che a tale velocità il tempo si contrae, egli trascorrerà un periodo di assenza relativamente breve. Ma durante questa assenza noi avremo tempo di risarcirvi per i danni che vi abbiamo arrecato. «Quinto, nel periodo di tempo precedente al ritorno del Facilitatore Hardesty tra voi, cercheremo di portare a termine il risarcimento, per la vostra e la sua soddisfazione. Poi potrete scegliere se continuare a mantenere rapporti con noi, o andare per la vostra strada. Noi la consideriamo un'offerta leale, ed è la migliore offerta che possiamo proporre. Vi preghiamo di tenere bene a mente che faremo tutto ciò che possiamo per provvedere al completo risarcimento, liberamente e volontariamente, al fine di porre rimedio a questa ingiustizia, per quanto ci è possibile. «Dal momento che non sappiamo quale potrebbe essere la vostra risposta, vorremmo accennare quale sarebbe l'alternativa. Se voi doveste rifiutare questa offerta, noi considereremo il vostro rifiuto come un segno della vostra implacabile ostilità. Allora saremo costretti a far scendere in campo le nostre forze militari più efficaci per sterminarvi. «Qualunque cosa voi decidiate, vi presentiamo le nostre sincere scuse per il nostro attacco sleale in cui siamo incorsi per errore. «Aspettiamo la vostra decisione». Hardesty, nel Quartier Generale dell'Europa dell'Ovest, aspettò prima di
rispondere, e scelse le parole con cura: «Accettiamo le vostre scuse. Ora prenderemo attentamente in considerazione la vostra offerta». Gar Kranf si espresse con la formula abituale che usava per consuetudine: «Possa la saggezza e la lungimiranza guidare le vostre decisioni». La creatura con due gambe e due braccia di fronte a lui, ancora in uno stravagante equilibrio verticale, in qualche modo dava l'impressione di essere benevolmente disposta, poi svanì appena il contatto fu interrotto. «Mmh» mormorò Kranf, voltandosi verso Selouel «potrebbe funzionare, a grandi linee. Ora, qual è il trucco?» Qualche ora più tardi, Hardesty sedeva accigliato mentre le immagini registrate della consultazione, proiettate sullo schermo, si dissolvevano gradualmente e le luci tornavano a illuminare la stanza. Gettò uno sguardo al documento stilato dell'offerta di pace. Si guardò attorno mentre i vari esperti e delegati si alzavano in piedi, torvi. Hardesty si schiarì la voce, si voltò verso il proiezionista, e percorse la stanza con lo sguardo. «Se non ci sono obiezioni, vorrei chiedervi di rivedere quelle immagini ancora una volta.» Ci fu un borbottio di approvazione. Le luci si abbassarono. Ancora una volta lo schermo fu illuminato dalle immagini della consultazione tra Kranf, Yraang, Selouel e i loro compatrioti visibili meno chiaramente. Non c'era l'audio, ma c'erano molte altre cose a cui prestare attenzione. Questa volta, quando le luci si riaccesero, per un momento soltanto Hardesty non si guardò attorno nella stanza. Rimase invece a guardare l'espressione astuta in quel grande occhio singolo, e i numerosi arti che ondeggiavano sinuosi. «Mmh» borbottò Hardesty, lanciando un'occhiata alla copia dell'offerta di pace. Attorno a lui, questa volta, non si sollevarono solo dei mormorii, ma anche delle imprecazioni. Hardesty tenne l'offerta di pace in equilibrio sulla mano. Si guardò attorno, poi si schiarì la voce. «Qualcuno ha qualcosa in contrario se lo rivediamo ancora? È vero che sono tutti alieni, e che non c'è l'audio, ma mi sembra che ci sia qualcosa che traspare abbastanza chiaramente da questa loro consultazione.»
Non ci fu alcuna obiezione, ancora una volta la stanza si oscurò. Gar Kranf, Comandante Supremo di Settore, fissò il suo sottomanipolatore. «Dici seriamente? Non c'è nessun tranello? È una leale offerta di amicizia?» Yraang, a destra di Kranf, si voltò per squadrare biecamente Selouel. Il grande occhio del sottomanipolatore brillò benevolo mentre parecchi dei suoi tentacoli si muovevano con grazia dal basso verso l'alto. «Vogliamo dare» disse Selouel «nuovi scopi all'offensiva? Se la valutazione dei danni potenziali proveniente da questo pianeta è corretta, il tempo occorrente dovrebbe essere sconsiderato, per esprimersi in termini moderati.» Kranf provò l'inquietante sensazione di uno che percorreva in slitta un acquitrino ghiacciato in una calda giornata di primavera. «Sì. Senza dubbio questo è vero. Ma...» «Benché» disse Selouel «se dovesse proprio succedere che la situazione si inverta a nostro vantaggio e a spese loro, si tratterebbe semplicemente di una giusta ricompensa per la nostra sincera generosità.» A Yraang gli si drizzarono i peli lungo tutta la schiena. Serrò le mascelle e distolse lo sguardo. Da sopra, Threlotok sibilò. Kranf soffocò un'imprecazione, e aspettò prima di parlare. «Guarda, se ho capito bene, noi stiamo progettando di risarcire liberamente e apertamente queste popolazioni dei danni che abbiamo provocato. E questi danni sono terribilmente ingenti. Mi stai dicendo che questo è tutto?» Selouel fece volteggiare delicatamente un tentacolo in aria, ammirando la sua forma aggraziata, e la delicata sfumatura color porpora che rifluiva lungo il tentacolo per la sollecitazione delle cellule pigmentanti. La delicata tinta porpora sfumò in un rosa acceso, a cui segui un tenue turchese, che a sua volta virò in una sorta di avorio luminoso, e poi verso un rosso lavanda... Il corpo da tigre di Yraang era già per metà fuori dalla sua postazione, e le zanne bianche a forma di sciabole scintillarono. Kranf afferrò precipitosamente la ruvida pelliccia con tre delle sue mani, e poi con voce bassa ma sincera disse: «Non preoccupatevi. Non lasciamo che ci turbi. Fatta eccezione per qualche dettaglio finale, ora la responsabilità dell'intera faccenda è sua. Speriamo piuttosto che le popolazioni locali accettino l'offerta, qualunque cosa ci sia dietro».
James Hardesty, Facilitatore, si schiarì la voce e osservò l'assortimento di mostri nella griglia. «In nome delle Nazioni Confederate» disse Hardesty «ed esprimendomi con la stessa disposizione d'animo in cui l'offerta è stata fatta, accetto la vostra offerta di pace e di risarcimento, e acconsento a offrirmi come ostaggio per il periodo di tempo necessario.» Gar Kranf, Comandante Supremo di Settore, portò a termine quello che sperava fosse l'ultimo rapporto su quella faccenda disgraziata, e lo esaminò senza entusiasmo. Quest'ultimo resoconto, tra le altre cose, dava indicazioni dettagliate sulla rimozione dal pianeta di circa cinque milioni di bozzoli di pungifuoco, ognuno dei quali avrebbe dovuto essere individuato attraverso una ricerca visiva, e poi prelevato con cura meticolosa, al fine di non disturbare il suscettibile e irascibile inquilino del bozzolo. Le popolazioni locali si erano più o meno ammorbidite, ma Kranf non aveva omesso il fatto che le prime casse di scorte erano andate direttamente in centri automatizzati appositamente attrezzati a prova di bomba, se le informazioni di Kranf erano corrette, con apparecchiature per sezionare e campionare, microscopi elettronici, segugi elettronici, cani addestrati e laboratori di chimica, di fisica e biologia votati alla scoperta di qualsiasi cosa potesse risultare strana in ciò che riguardava le scorte fornite. Questo non era un segno promettente per Kranf. Ma era pronto a lasciare che Selouel si accollasse la responsabilità di qualsiasi cosa fosse accaduta. Il punto fondamentale era che la parte di Kranf in questo assoluto disastro era quasi terminata. L'assistente di Kranf, con un aspetto mogio, entrò con una cuffia ricetrasmittente. «Signore, il Capitano Supremo.» Kranf trasalì. Una catastrofe di queste proporzioni all'interno del suo settore richiedeva delle spiegazioni esaurienti, come minimo. Inspirò profondamente e raggiunse l'uscita. Mentre scivolava davanti la cuffia trasmittente, fu consolato dalla vista di uno dei suoi simili seduto all'altro capo di una scrivania, con alle sue spalle un enorme globo trasparente rappresentante tutti i settori. Kranf disse cortesemente: «Le porgo i miei saluti, signore». Il Capitano Supremo lo guardò fisso negli occhi. «Salve. Ho appena finito il suo rapporto. Kranf... che cosa c'è nel... cioè, voglio dire, che cosa c'è esattamente dietro questa soluzione a cui siete pervenuti?»
Kranf si sforzò di non dare alla sua voce alcun tipo di intonazione servile. Disse schiettamente: «Signore, conformemente a quanto espresso nel regolamento, ho sottoposto il problema al sottomanipolatore di settore, e alla sua proposta». Il Capitano Supremo guardò Kranf, aggrottando le sopracciglia. Kranf rispose al suo sguardo con un'espressione sincera, leale. Il silenzio si prolungava. Il Capitano Supremo si sporse in avanti. «Kranf?» «Signore?» «Qual è la soluzione?» «Il sottomanipolatore, signore, non ha fornito spiegazioni dettagliate.» «Vorrebbe dire che non lo sa?» «Conformemente a quanto dice il regolamento, signore» disse Kranf con voce sincera «gli ho sottoposto il problema, e ho seguito rigorosamente le sue istruzioni alla lettera. Il regolamento non dice che il sottomanipolatore deve delle spiegazioni al Comandante Supremo di Settore.» Il Capitano Supremo si accomodò sulla sedia, poi si chinò in avanti, afferrando con tutte e quattro le mani i lati della scrivania. «Lei mi sta dicendo che se voglio conoscere il piano, devo andare dal suo sottomanipolatore e farmelo dire da lui?» «No, signore. Ma...» «Mi dica che cosa sa a riguardo.» «Signore, l'idea era che noi avremmo dovuto affermare che l'attacco era stato tutto un errore; che, se avessimo ben compreso le capacità delle popolazioni locali, avremmo dovuto invitarli a unirsi a noi; che avremmo fatto tutto ciò che potevamo per risarcire i danni; benché, a causa della distanza e dell'ammontare delle perdite, ciò ci avrebbe richiesto un bel po' di tempo; che li avremmo invitati a unirsi a noi, dopo averli risarciti il più possibile per il malinteso e per i danni; e che, nel frattempo, il loro capo doveva acconsentire a partire per un lungo viaggio al limite della velocità della luce a bordo di una navicella, come nostro ospite, al fine di garantirci la loro cooperazione.» «Ed è andata così?» «Sì, signore. Tralasciando vari dettagli e accidentali complicazioni.» «Allora in questo rapporto non è stato omesso niente? Molto bene. Qual è il punto?» «Io... be'...»
Il Capitano Supremo si chinò in avanti. «Ascolti, Kranf, ha mai conosciuto in precedenza un sottomanipolatore che proponesse un piano semplice e leale?» «Io... be'... no. signore... ora che mi ci fa pensare.» «Dov'è l'inganno?» «Io non lo so.» «Va bene. Adesso mi ascolti. Solitamente i piani del sottomanipolatore sono concepiti per prendere in trappola la vittima, sfruttando le carenze o i punti deboli della vittima stessa. Non è la loro unica finalità. Ma generalmente è questo il loro scopo principale. Ora, ho esaminato questa faccenda con molta attenzione, e devo ancora trovare il bandolo della matassa.» «Signore, neanch'io sono riuscito a capirci niente. Ma Selouel è il sottomanipolatore di settore, e ha organizzato questo pasticcio insieme a quella razza di conchiglie dure con cui ci siamo alleati un paio di secoli fa. La questione è che io appena... trattare con loro è così... be', ho pensato appunto che se aveva scelto di non offrire volontariamente le informazioni, nondimeno fosse cosciente di ciò che stava facendo in base alla sua qualifica, e che a rigor di termini la responsabilità era sua, almeno finché la questione non si fosse risolta, questo è tutto.» «La questione è che io devo sapere in che cosa consiste questo piano. La responsabilità può anche non essere più sua, ma è ancora mia. E ho intenzione di scoprire che cosa c'è sotto questo piano.» Kranf tirò un sospiro profondo e sofferto, e non aggiunse altro. Il Capitano Supremo si chinò in avanti con un sorriso d'intesa apparentemente amichevole. «Non le piacerebbe sapere, scoprire lei stesso, in che cosa consiste il piano? Sia sincero, adesso.» L'istinto di conservazione di Kranf influenzò la spontaneità della sua risposta. «Sì, signore. Andrò a chiederglielo.» Selouel era nel suo studio, con alcuni arti arrampicati in una gigantesca vasca da bagno piena di acqua bollente, diversi altri che afferravano comodamente uno strumento musicale composto di un centinaio di corde circa, con quattro file di pulsanti di madreperla colorata lungo la base, una grande sacca di cuoio attaccata a un'estremità, una specie di leva e un mantice laterale. Corni, tamburi, nastri di acciaio pendenti, anelli e dischi sporgevano dalla struttura dello strumento, mentre piccoli martelli di legno con
le teste di ottone, di acciaio o di cuoio pendevano dallo strumento attaccati a sottili catene d'oro e d'argento. Quando Kranf entrò nello studio, un ritmico rumore metallico si diffondeva in sottofondo, mentre Selouel azionava con uno dei suoi arti il mantice e la leva e nello stesso tempo accarezzava pigramente le corde con la punta di un secondo tentacolo, lungo il quale le onde si muovevano facendo risuonare altre corde al passaggio. La punta di un altro tentacolo spingeva prima questo e poi quel bottone di madreperla colorata, mentre un corno dopo l'altro emetteva il suo squillo, trillo, fischio, brontolio o cigolio. Vari altri tentacoli ondeggiavano nell'aria, per afferrare d'improvviso questo o quel martelletto, e produrre un battito, un tintinnio, un ticchettio, un rantolo, un fragore. L'intera performance, fino a quel momento, non faceva un effetto peggiore del trovarsi in mezzo al traffico convulso di una città poliglotta con autisti a bordo di vari tipi di mezzi meccanici e di veicoli a trazione animale tutti pressati insieme mentre scorrono lentamente attraverso un trafficato quartiere industriale, così che i rumori delle officine metallurgiche, dei clacson, dei campanelli e i versi degli animali, e le grida e le imprecazioni degli autisti si mescolano tutti insieme in un'unica assordante confusione di suoni contrastanti. Fino a quel momento, era ancora sopportabile. Il problema era che Selouel stava solo gingillandosi. Per quelle che erano le sue possibilità avrebbe potuto andare molto più veloce ed essere più rumoroso di quanto non fosse in quel momento, pur continuando a non prestarvi troppa attenzione. Inoltre, da un momento all'altro, Selouel avrebbe potuto cominciare a cantare. Nella normale conversazione, la voce del sottomanipolatore, con i suoi toni bassi, o acuti, e le irripetibili modulazioni, era piuttosto intollerabile. Nel canto, diventava indescrivibile. A una rapida occhiata, Kranf poté vedere che Selouel stava producendo l'attuale cacofonia mentre lavorava su un ritmo disinvolto. La sua voce e molti arti erano ancora a riposo. «Ehm...» provò a dire Kranf. Il grande occhio di Selouel si aprì parzialmente. Mezza dozzina di tentacoli liberi eseguirono dei movimenti repentini e silenziosi verso il basso. Kranf rimase in silenzio, e aspettò derelitto. Dopo tutto, prima si era messo in contatto e aveva chiesto se poteva recarsi da lui. Selouel aveva risposto che certamente poteva, e che si sarebbe liberato "in un momento". Ora, dannazione, un "momento" dovrebbe significare presto, non è così?
Ma Selouel sembrava passare a un ritmo sostenuto. In quel momento un altro tentacolo andò a unirsi agli altri che si trovavano sullo strumento. Kranf si guardò attorno nervoso, poi si irrigidì. Sommessamente, Selouel cominciò a canticchiare. Hardesty, il cui scompartimento sulla navicella spaziale degli alieni era predisposto per riprodurre le ventiquattro ore del giorno, notò il graduale aumento dell'oscurità del paesaggio simulato "al di fuori" di quella specie di imitazione di finestra. Hardesty era consapevole, oramai, della presenza di vari strumenti ottici che lo spiavano. Ma non vide nulla che potesse dare adito a delle obiezioni. Ancora una volta ripensò alle deduzioni che aveva fatto su questa proposta di pace. Fino a quel momento, le sue congetture sembravano ancora giuste. Kranf, agitato, fremente, con i nervi a fior di pelle, diede una spinta alla porta del suo ufficio che gli si richiuse alle spalle, sprofondò nella sedia, tirò un incerto sospiro e azionò il circuito per le comunicazioni. Di colpo si trovò davanti l'immagine del Capitano Supremo, che stava aggrovigliandosi con qualcuno sopra uno schermo angolato accanto alla sua scrivania. Un attimo dopo si voltò. «Ah, Kranf. Sembra provato. È riuscito ad avere il piano?» Kranf sussultò sotto la raffica di colpi dei martelletti che ancora gli battevano dentro il cervello. «Finalmente, signore.» «Riferisca.» «Solo il piano, o vuole che le spieghi anche le ragioni che lo hanno determinato?» Il Capitano Supremo trasalì. «Le ha dato anche queste informazioni, eh? Va bene. Mi dica tutto.» «Sì, signore. Selouel dice che ci sono due tipi di informazioni: quelle che possono essere trattate in base a criteri logici e quantitativi, e quelle che invece non possono essere considerate in questi termini. Egli chiama le prime "fattori matematici" e le seconde "fattori non matematici".» «Mi faccia capire, ora... Va bene. Ci sono. Vada avanti.» «Noi, dice lui, ci basiamo su fattori matematici, e lo facciamo abbastanza bene, ma siamo disastrosamente deboli in ciò che concerne i fattori non matematici.» «È stato davvero accondiscendente, signore.» «Posso immaginare. Bene... vada avanti.»
«I terrestri, dice lui, sono a loro volta forti in ciò che riguarda i fattori matematici. Più forti, forse, di noi. Perciò, per batterli - o, meglio per avere una possibilità di batterli - abbiamo bisogno di usare i fattori non matematici.» «Bene, ammettendo che ciò che dice sia vero, e suppongo che lo sia, sembra un discorso che ha una sua logica. Ma il suo piano quindi non garantisce la vittoria?» «No, signore. Egli pensa che possa darci delle ottime probabilità di raggiungere un risultato favorevole, e la possibilità di ottenere la vittoria completa. Ma solo la possibilità. Non sa per certo quale sarà il risultato finale.» «Mmh... bene, considerando le alternative... va abbastanza bene. Ora, mi parli del piano. E, tanto per sapere, è stato sottoposto all'analisi del computer?» «Be', dal momento che non segue principi matematici...» «Oh. Capisco. Non può essere messo in una forma tale da poter essere sottoposto all'analisi del computer?» «Mi permetta di spiegarglielo, signore, e capirà. Secondo Selouel la maggior parte delle creature viventi è mossa da tre fondamentali istinti positivi: l'istinto di sopravvivenza, l'istinto della conservazione della specie, e l'istinto a espandere il controllo territoriale. Egli afferma che questi tre istinti possono assumere diverse forme, e possono ridursi essenzialmente a un unico istinto, e poi ha continuato dilungandosi in una complicata spiegazione di rapporti, deduzioni, modi d'espressione e...» Kranf notò che la faccia del Capitano Supremo stava assumendo un'espressione interdetta. «Se potessimo sorvolare su questi particolari, signore, risparmieremmo del tempo.» Il Capitano Supremo annuì con sollievo. «In termini pratici» continuò Kranf «noi dovremmo applicare questa teoria degli istinti al nostro avversario per prenderlo al cappio.» Il Capitano Supremo si chinò in avanti in un gesto d'impazienza. «Bene. Ora, in che modo dovremmo farlo?» «L'idea consisterebbe nell'elargire loro cose necessarie e piaceri, e di non sembrare in alcun modo minacciosi. Noi dovremmo solamente provvedere a tutti i loro bisogni, e nello stesso tempo chiedere sinceramente il loro perdono.» «Generoso da parte nostra. Dove sta il vantaggio?» «Selouel dice che abbiamo già ottenuto un primo vantaggio, dal momen-
to che il combattimento è cessato.» «D'accordo, è un buon inizio. Ma sarebbe meglio se riuscissimo a batterli. Qual è lo scopo di questo piano?» «Secondo Selouel, in qualunque periodo di tempo, ogni individuo o organizzazione possiede una certa quantità di energia, e l'energia proveniente da un istinto positivo generalmente si riversa in un altro. Ma in questo caso, l'istinto a espandere il controllo territoriale verrebbe a interrompersi, per il periodo che noi saremo impegnati nel risarcimento dei danni. E, finché noi penseremo a difenderli, l'istinto di sopravvivenza e quello di conservazione della specie resterebbero a loro volta inattivi. Se così fosse, allora non ci sarebbe nessun istinto positivo in atto. «Selouel pensa che il risultato più probabile di questa inattività li porterebbe a una progressiva degenerazione e alla fine si ridurrebbero allo stato di più o meno semplici macchine da sesso. Ciò, detto per inciso, potrebbe risultare ragionevolmente soddisfacente per quanto riguarda l'istinto della conservazione della specie, che, secondo Selouel, è un istinto veramente persistente e adattabile, e che li condurrà probabilmente a una sorta di sfrenatezza sessuale. In breve, il lungo periodo di tempo che a noi occorrerà per risarcirli, sarà per loro un periodo di dissolutezza e deterioramento che andrà avanti per decenni, alla fine del quale essi si troveranno a dover fare i conti con il problema della sovrappopolazione, saranno deboli, totalmente impreparati come guerrieri, e non costituiranno più un pericolo per noi. Questo è tutto, a patto che funzioni.» Il Capitano Supremo rimase colpito. «È geniale, dopo tutto.» «Sì, signore.» «E i terrestri non avrebbero modo di scoprirlo. Si adatta perfettamente alla nostra versione ufficiale dei fatti.» «Sì, signore. Ma Selouel non garantisce che funzionerà. D'altra parte, se non dovesse funzionare, per lo meno avremo evitato una guerra.» «Mmh. È una vera sfortuna che non siamo riusciti a far arrivare là prima i nostri rinforzi. In quel caso avremmo potuto evitare tutta questa dispendiosa scaltrezza, e limitarci a batterli e sottometterli.» «Sì, signore. Ma se tutte le nostre truppe fossero concentrate qui, allora qualsiasi tipo di malumore e malcontento su qualunque altro pianeta...» «Sì, lo so. Capisco il problema.» «Perciò, capisce, signore, la risoluzione del sottomanipolatore è: se non puoi spezzarli, piegali, e se non si spezzano né si piegano, allora sii gentile, perché niente potrebbe essere più pericoloso.»
Il Capitano Supremo si rilassò. «Questa esperienza ha dimostrato che abbiamo bisogno di un migliore addestramento e una maggiore coordinazione. Dovremo fare più esercitazioni di Flotta, e costruire nuove basi più vicine alla Terra. Dopo tutto, in base al trattato di pace, abbiamo l'obbligo di proteggere questo pianeta. Quindi abbiamo bisogno di spostare le nostre forze verso la Terra. In ultima analisi, Kranf, se i terrestri raggiungeranno un sufficiente livello di degenerazione, essi non saranno più in grado di occuparsi di loro stessi. Dobbiamo ricordare che essi sono sotto la nostra... ah... protezione.» Rise. Kranf, per un attimo non riuscì a cogliere il senso di ciò che il Capitano Supremo volesse dire. Così annuì con obbedienza. Hardesty guardò il diagramma che segnava il tempo trascorso sulla navicella e il tempo trascorso sulla Terra. Incredibile, sulla Terra dovevano essere già passati quindici anni. E il tempo là, dal suo punto di vista, ora sarebbe trascorso anche più svelto di prima, visto che la navicella andava sempre più veloce. Selouel, mentre se ne stava in panciolle nel suo salone discoidale, allungò il suo tentacolo numero quattordici, prese qualche dozzina di noccioline tostate salate coltivate sul posto e se le portò alla grande bocca spalancata. Mentre sgranocchiava soddisfatto, il suo tentacolo numero tre si curvò per spostare il voluminoso rapporto contenente il resoconto dei trenta anni di continuo deterioramento delle popolazioni locali. Selouel, che era un po' presbite, tenne il rapporto a una considerevole distanza mentre lo leggeva. Le palpebre del grande occhio di Selouel si facevano sempre più vicine mentre consultava il rapporto, esaminando i paragrafi intitolati "Incidenza della mortalità tra gli ex Ufficiali Combattenti", "Occupazione del territorio", "Impiego di sostanze tossiche illecite", "Incremento degli svaghi, delle occupazioni superflue e del tempo libero"... Le qualità soporifere del rapporto erano tali che Selouel rischiò quasi di perderselo dentro la vasca da bagno che si stava lentamente riempiendo. Irritato, spostò la presa sul rapporto e si mise a esaminare un paragrafo dal titolo "Modelli di accoppiamento degli abitanti del luogo". Questa sezione comprendeva quattro pagine di tabelle, contenenti ognuna lunghe colonne di numeri, più due grafici, un inserto ripiegato, e sedici pagine di testo scritto stampato in corpo piccolo. Ostinatamente, Selouel si mise a leggere: «... per una media di 5.7 figli per unità di accoppiamento (vedi grafi-
co 22.1). L'intercorrelazione basata sull'analisi dei fattori in opposizione a quei concetti ritenuti aprioristicamente universali (Grumpff e Schnittl, sopra citato; vedi anche Graggdrith, B., "Annals Investig. Soc./Popltn. Scien." 156V889 661c-9) si riduce al Modello 16-1 (prego consultare l'inserto tridimensionale). In riferimento alla fase Z, si noti che la linea d'intersezione rappresentante il dato attuale è concava nella sua parte ascendente...» Per la seconda volta il rapporto stava per allontanarsi dall'attenzione di Selouel, che lo ripose seccato su uno sgabello vicino. Era questo l'accoppiamento di cui parlavano! E avevano raggiunto un tale grado di distaccata oggettività matematica da far circolare il rapporto per le stazioni spaziali come se si trattasse di una normale procedura di manutenzione. Il grande occhio di Selouel stava per chiudersi. Il problema era, pensò, che le persone che avevano elaborato quelle osservazioni erano davvero convinte che qualsiasi cosa dovesse e potesse essere ridotta a numeri e trattata in base a puri metodi matematici. Ma come può il profumo di un fiore, e il suo effetto, essere accuratamente descritto in termini matematici? Come può un'emozione essere veramente compresa e valutata in base a considerazioni matematiche? Non si rendono conto che così rischiano di trascurare l'essenza della realtà e di rimanere con il vuoto pretesto della descrizione oggettiva? Selouel ebbe la sensazione di essere vicino alla formulazione di un'idea, un po' confusa sul principio, e poi... Il ronzio stridente dell'allarme che segnalava l'arrivo di una comunicazione urgente risuonò sul soffitto. Spaventato, si allungò, e schiacciò l'interruttore per la ricezione. Una voce dal tono preoccupato cominciò a parlare, e Selouel riconobbe il Comandante Supremo di Settore, Kranf: «Sottomanipolatore Selouel?» «Se il tuo ricevitore funziona» rispose Selouel, brancolando vanamente sulle tracce della sua idea ormai svanita «con chi altro staresti parlando?» «Con tutto quel vapore non riesco a vedere niente.» Selouel chiuse l'acqua calda. «Cosa c'è adesso? Sei un'altra volta in difficoltà?» Ci fu un attimo di silenzio, e poi si sentì un sospiro. «È in atto» disse Kranf «una rivolta su Triform. Il comandante del posto sta incontrando delle grosse difficoltà. Sei occupato?» «Non in cose serie. Stavo esaminando l'ultimo rapporto sull'ultimo decennio sulla Terra, che è arrivato accompagnato da un sacchetto di noccio-
line tostate del posto. Le noccioline sono ottime. Qual è il problema?» Dal tono della voce, Kranf doveva essere preoccupato. «Su Triform ci sono tre razze dominanti, e quando arrivammo là, la razza più aggressiva e militarizzata era talmente inferiore a noi numericamente che li abbiamo battuti dopo un breve combattimento. Poi, per un eccesso di prudenza, il comandante supremo in carica decise di sterminare i sopravvissuti della razza militarizzata. L'intera operazione era controllata dal computer. Dal momento che le altre razze erano insolitamente remissive, sembrava che il nostro popolo avesse raggiunto una certa tranquillità. Adesso, all'improvviso, la razza militarizzata estinta, che era stata completamente annientata, è riapparsa come dal nulla. I nostri uomini sono riusciti a malapena a salvare la pelle nell'ultimo scontro, e le perdite sono state terrificanti.» Selouel socchiuse il grande occhio. «Suppongo che la notizia che queste razze fossero completamente separate sia stata fornita al computer principale?» «Naturalmente.» «Naturalmente. Bene, dopo che avrò finito di sciacquarmi, esaminerò a fondo la questione. Sono sicuro che arriveranno un bel po' di documenti informativi.» «La situazione è disperata!» «A che grado di tecnologia sono arrivati in quel posto?» «Sono piuttosto indietro, fatta eccezione per ciò che concerne gli armamenti. In quel campo sono all'avanguardia.» «Vista la stupidità del comandante che hai mandato a gestire la situazione in quel pianeta, non è difficile immaginare in quale pasticcio si sia cacciato. Metti a soqquadro il tuo corpo ufficiali e cerca qualcuno con la metà di due terzi di un cervello; se riesci a trovarlo, dagli l'incarico. Nel frattempo, controllerò le informazioni che arriveranno, e ti farò sapere. Al momento, mi sembra che la questione sia risolvibile.» Sulla navicella al limite della velocità della luce, Hardesty aveva appena finito i suoi esercizi fisici come tutte le mattine, ed entrò in doccia. La sua vita sulla navicella procedeva come al solito, ma fuori in quel preciso momento il tempo stava passando a una velocità incredibile mentre la navicella descriveva una curva sulla traiettoria di ritorno verso la Terra. Presto sarebbe tornato a casa, e questo pensiero gli faceva accapponare la pelle. Quando fosse arrivato, non avrebbe più trovato i suoi vecchi soldati. Tutto sarebbe stato in mano alle nuove generazioni.
Il Comandante Supremo di Settore Kranf, sul pianeta Triform, stava guardando i branchi di adulti del Secondo Tipo rimpinzarsi con l'ultimo carico di radici tritate e poltiglia di canna da zucchero. Fucili ed elmetti giacevano sparsi lì intorno dimenticati su quello che era stato un campo di battaglia. «Bene» disse Kranf mentre osservava quello spettacolo «è dannatamente ridicolo. E costoso. Ma ha funzionato.» Selouel disse serio: «Ogni forma vivente, di qualsiasi tipo, normalmente persegue la sopravvivenza, la conservazione della specie, e di avere un potere sempre maggiore. L'energia investita in uno di questi propositi può, attraverso misure particolari, essere deviata verso un altro proposito. L'essere vivente tende di solito a rinunciare al potere a vantaggio della propria sopravvivenza, e rinuncerebbe alla sopravvivenza a vantaggio della conservazione della specie. C'è una sorta di punto di equilibrio, che varia a seconda degli individui e della specie, che riguarda il dove concentrare lo sforzo, in assenza di una sollecitazione immediata. Se la specie è costretta ad andare a ritroso all'interno di questo equilibrio, la conseguente diminuzione dei bisogni o delle ricchezze tende a causare un netto rimbalzo verso e spesso, per certo periodo di tempo, completamente al di là del punto d'equilibrio.» Kranf, non molto portato per i discorsi astratti, respirò profondamente e si mise a riflettere su come riportare Selouel a questioni pratiche. Selouel stava continuando: «... in tal modo, ammesso che la creatura ritenga spontaneamente che la capacità di combattere non sia primariamente necessaria, allora, là dove gli istinti sono convertibili, l'istinto a combattere di solito viene stornato verso uno degli altri istinti. Quindi, il problema sta nel rimuovere la percezione del bisogno di combattere. Ora...» Kranf borbottò: «Comunque, ha funzionato». Threletok prese la parola: «Presto dovremo essere qui per verificare la situazione sulla Terra. Sembra che tutto vada per il meglio, con gli indigeni che trascorrono la maggior parte del loro tempo a divertirsi. Fra non molto il loro comandante farà ritorno sul pianeta. Non dovremmo decidere i preparativi per seguire l'atterraggio?» Selouel, dal momento che si stava avvicinando il giorno in cui Hardesty sarebbe tornato, si concentrò maggiormente su quei rapporti soporiferi che gli continuavano ad arrivare incessantemente. Con una certa difficoltà, si-
stemò un formidabile oggetto intitolato "Rapporto Conclusivo sul Pianeta Terra" su uno speciale sostegno, e guardò il rapporto come un lottatore guarda un avversario particolarmente pericoloso. Appollaiandosi sopra un grande sgabello, Selouel si sistemò abbastanza vicino al rapporto, poi si allungò e immerse la punta di un tentacolo dentro una tinozza imponente dentro cui galleggiavano grossi pezzi di ghiaccio. Cercò di trovare una posizione stabile, immerse un lungo arto flessibile nella tinozza e provò un penetrante brivido di freddo che lo scosse bruscamente risvegliando in un baleno tutti i suoi sensi. Meglio di niente. Cominciò a leggere il rapporto. Le ore successive trascorsero lentamente scandite dal rumore delle pagine stropicciate, da bassi mormorii, sospiri, sbadigli e improvvisi spruzzi d'acqua. Alcuni subalterni nervosi che si trovavano a passare nella zona più distante alla porta di Selouel se ne tenevano alla larga. Poi ci fu un lungo momento di silenzio. Dopo esser rimasto immobile a sedere per un certo tempo, Selouel, socchiudendo il grande occhio, afferrò con un tentacolo la copertina, e fece scivolare un altro tentacolo tra due diagrammi a metà fascicolo. Ci fu un rumore simile a uno strappo mentre Selouel estraeva il primo diagramma, e lo collocava vicino alle colonne delle statistiche. Ci fu un altro rumore lacerante, quando estrasse il secondo diagramma. Allungò un arto lungo e sinuoso, e rovistò in una specie di armadietto da scarpe in un angolo distante della stanza, per tirar fuori un'enorme lente delle dimensioni di un coperchio di bidone. Senza produrre alcun rumore, tenne il primo diagramma accanto ai fogli con le statistiche, e guardò attraverso la lente. «Mmh...» Sistemò l'altro grafico, cambiò di posto al primo, sfogliò rapidamente il rapporto avanti e indietro, e cercò di concentrarsi maggiormente. Passò un'ora mentre sottoponeva una pagina, poi un'altra, a un esame scrupoloso. Uno dei suoi arti liberi si distese per frugare a tastoni in un cassetto alle sue spalle, tirò fuori un pennarello largo e spesso e diversi pezzi di carta, che collocò a margine del rapporto. Per un po', Selouel scarabocchiò tutto intento. Poi un altro arto si distese verso la trasmittente, la accese con un lieve colpo sulla leva, e Selouel, ancora intento sul rapporto, borbottò al di sopra della sua spalla: «Mi passi il Comandante Supremo di Settore Kranf». Ci fu una pausa, poi una voce stizzita rispose: «Il comandante di settore è impegnato e non può essere disturbato».
Selouel, in tono distaccato, e con l'occhio ancora fisso sul rapporto, disse: «Sono il Sottomanipolatore di Settore Selouel, e per quanto mi riguarda o discuterò di questa faccenda con il Comandante Supremo di Settore, o informerò lo stesso Capitano Supremo di Settore. Poi ciò che il Comandante Supremo di Settore farà di lei è un problema del tutto irrilevante per me». Dopo un breve silenzio, aggiunse: «In alternativa, potrei venire fin lì e romperle il naso io stesso». Seguì un momento di silenzio disturbato da altri rumori, e poi una voce vispa disse: «Kranf in linea». Selouel buttò fuori l'aria con un sibilo, e prelevò alcune pagine dal rapporto. «Kranf, questo rapporto conclusivo sulla Terra è manipolato.» «Cosa? Chi? Selouel? Non riesco a vederti. Cosa c'è?» Selouel eseguì una complicata contorsione con un movimento che alla fine lo riposizionò di fronte alla trasmittente. «Ho esaminato questo cosiddetto rapporto conclusivo, che indica che si fa tanto uso di stupefacenti, che c'è tanto svago, un tale incremento in QD...» «Sì, l'ho letto. L'idea generale è che tutto sembra andare piuttosto bene. "QD"? Fammi capire... cosa significa QD? Che cosa intendi con "manipolato"?» «"QD" sta per "Quoziente di Degenerazione". Con "manipolato" voglio dire che è falso. Tira fuori quei due diagrammi centrali, e prova a confrontarli con i numeri sui quali si presume siano basati.» Kranf lo fissò intento, poi distolse lo sguardo dallo schermo. Si sentì un rumore come di qualcuno che stesse frugando in mezzo a un grande mucchio di fogli inutili, poi un violento colpo sordo, poi il rumore di uno strappo. Kranf riapparve sullo schermo della trasmittente, tenendo in due delle sue mani i diagrammi, il rapporto stretto in un'altra, facendo scattare lo sguardo di qua e di là per confrontare gli uni all'altro, e con un'espressione perplessa sulle labbra. Seguì un lungo momento di calma, poi Kranf alzò gli occhi. «Mmh... Sembra che tu abbia ragione. A meno che, forse, quelle postille...» Rovistò in giro in cerca delle ultime pagine del rapporto, appoggiando il documento voluminoso sul bordo della scrivania, alzò lo sguardo con un'espressione offesa, ritornò alla parte centrale del rapporto, poi lo rimise a posto, aggrottando la fronte. «Hai ragione. Ma ciò non prova che l'informazione in se stessa non sia vera. Quello che abbiamo lì potrebbe essere frutto di qualche tipo di errore che si è venuto a creare in fase di trascrizio-
ne data la complessità dei dati.» Selouel annuì. «Non riuscirai a capirlo bene finché non lo avrai analizzato più attentamente. Allora ti salterà all'occhio. Dai uno sguardo a quella parte riguardante l'uso delle sostanze stupefacenti. Chiunque abbia messo a punto questa raccolta di numeri fa uso di qualche sostanza tossica più di quanto non facciano le popolazioni locali.» Kranf cercò tra le pagine, si accomodò sulla sedia, e lesse ad alta voce, con una inflessione monotona: «"Resoconto mensile sull'uso complessivo di sostanze allucinogene da parte dei terrestri in base al peso, alla quantità giornaliera, alla valutazione basata su un modello campione, in quadrilioni di tonnellate." Fammi capire, cosa c'è nel... oh, è una sovraiscrizione... bene... Ah, eccoci... Primo giorno del mese, 21.6, il giorno successivo, 21.85, poi 22.08, poi 22.10, 22.4, 23.78, 22.5, 23.9, 23.4, 23.85, 23.99, 24.02, 24.4, 24.6, 24.8, 24.75, 24.6, 24.79... Mmf, ho perso il filo... 24.79, 24.85, 24.9, 25.1, 25.05, 24.88, 25.3... Bene, sembra giusto. Cosa c'è di sbagliato?» Kranf alzò lo sguardo. Selouel disse: «Riflettici sopra e capirai cosa c'è di sbagliato». «La tendenza mostrata dai numeri sembra quadrare. L'uso giornaliero di stupefacenti è rapidamente aumentato per degli anni. Questo è ciò che mostra la tendenza. Lo stesso vale per gli altri aspetti di questo cosiddetto QD. È un'analisi esauriente. Qual è l'errore?» «Kranf, ragazzo mio, per prima cosa, quanti sono questi terrestri?» «Miliardi. L'indice della riproduttività è spaventoso.» «Va bene. Ora dimmi... Quanto fa 25.3 quadrilioni di stupefacente al giorno diviso per un numero composto da miliardi di terrestri che abbiamo là sotto? Quanto fa per ogni individuo?» Dopo un momento di silenzio, Krunf emise un grugnito, come se fosse stato colpito in pieno. «È impossibile.» Selouel disse: «Non è possibile che i terrestri possano consumare individualmente una tale quantità di sostanze stupefacenti, ma pur considerando questi numeri si può solo osservare l'incremento del consumo "tendenziale", va bene. Sfoglia quel rapporto per un secondo, e troverai delle incoerenze che nessuno potrebbe spiegare. Ma se invece lo analizzi da un punto di vista generale, tutto sembra filare». Kranf disse ostinatamente: «Non ho la minima intenzione di perdere il mio tempo a capire cosa c'è dietro questi alambicchi mentali. Non se continuerò a essere così occupato a far funzionare il settore». «Proprio così. E dal momento che non c'è nessuno che si prenda la briga
di leggere tutta questa spazzatura pur essendone conscio, e tanto meno di analizzarla, noi continuiamo a leggerci l'indice e a guardare i diagrammi, per poi accantonare il rapporto in un angolo e tornare al lavoro. In tal modo non si incontrano grossi problemi a falsificare il tutto per farci contenti. Si dà il caso che, seppure apparentemente, questi numeri sembrano adattarsi a ciò che viene prima, in realtà sono tutti contraffatti, eccetto forse quei pochi riportati all'inizio.» «Ma che cosa significa?» «Probabilmente significa che le popolazioni locali hanno irretito le nostre squadre di rilevamento dati - che apertamente dovrebbero verificare le nostre stesse mosse, e segretamente riferirci le condizioni locali - con ogni tipo di stupefacente conosciuto nel pianeta.» Kranf emise un sospiro rumoroso. «È proprio un ottimo momento per scoprirlo. Il loro comandante supremo sta quasi per tornare. Che cosa facciamo ora?» «Tieniti pronto per un eventuale intervento d'emergenza, se fosse necessario. La responsabilità di questo pasticcio è soprattutto mia, e spero proprio che essi si comporteranno come presumo.» «Noi... ah... abbiamo ancora il loro comandante supremo. Cioè l'ostaggio. Potremmo...» «La cosa migliore che possiamo fare è riconsegnarlo come promesso. Sarebbero capaci di attaccarci. Se così fosse, potremmo contrattaccare. Ma facciamo in modo di non dar loro alcun motivo per accanirsi di nuovo.» «Sì. Sono d'accordo. Bene, chi penserà a notificarlo?» «Lo farò sapere al Capitano Supremo. Quanto al resto, perché creare il panico? Limitati a dare la notizia che il comandante locale sta per ritornare come d'accordo, e che tutti dovrebbero stare in all'erta, nel caso i terrestri dovessero, per qualsiasi ragione, tentare qualcosa.» «Se dovessero tentare di fare qualcosa, si dovrebbe cominciare con un colpo violento, e il momento migliore potrebbe essere quando il loro comandante supremo sarà di ritorno. Dovremo presenziare alla cerimonia quando questo Hardesty sarà tornato?» Selouel disse alquanto ironicamente: «Attraverso una trasmittente lontana, se possibile». «Gli abitanti del luogo potrebbero pensare che abbiamo paura di andare di persona.» «Potremmo dire che consideriamo la cerimonia come una questione privata riguardante la Terra, e che non desideriamo intrometterci.»
«E supponendo che ci invitassero?» «Allora andremo. Dovrei avere un'armatura da cerimonia da qualche parte.» Per il dispiacere di Selouel, i terrestri mandarono debitamente gli inviti. Selouel, Kranf, e Yraang, in compagnia di dignitari di grado minore, si ritrovarono in una grande radura in mezzo a una foresta, circondati da una gran varietà di rocce, arbusti, muschio, felci, rovi e sentieri battuti, che attraversavano serpeggianti la terra circostante, e si stagliavano tra le schiere di entusiasti tutti agghindati che trasportavano grandi insegne e archi, fucili di precisione, zaini e altri attrezzi dei loro sport o divertimenti preferiti. Yraang, mentre si guardava attorno, emise un lungo brontolio rimbombante, e il traduttore automatico trasformò questo suono non troppo promettente in un discorso comprensibile: «Una gran folla.» Kranf, controllando ansioso Selouel con la coda dell'occhio, annuì. Selouel era occupato con una parte posta all'altezza dell'attaccatura di uno dei suoi lunghi tentacoli, dove l'armatura da cerimonia, che per buona parte del secolo non aveva indossato, gli era diventata un po' stretta, tanto che aveva dovuto aggiungere delle fasce metalliche. Non solo queste fasce erano di un colore diverso, ma erano anche troppo spesse, con le giunture talmente rigide che niente avrebbe potuto lubrificarle. Una delle fasce era rimasta incastrata dritta verso l'alto, così ora Selouel aveva uno dei tentacoli che raspava per aria. Kranf passò in rassegna i presenti. Provava un certo disagio nel vederli mantenere quello strano equilibrio verticale. L'effetto era accentuato da grandi cartelli sparsi qua e là con sopra dei messaggi o delle sigle per identificare i vari gruppi: "BENTORNATO A CASA, COMANDANTE!" "Circolo Paracadutisti della Domenica" "AAA+ 1 Compagnia di Marcia" "Ordine Pacifista dei Berretti" "Circolo Ricreativo Tiratori Scelti" "Società Nuotatori della Marina Militare" "Amici del Karate Delicato" "Confraternita Judo Aikido". «Allora» grugnì Kranf «sono o no degenerali?» Threletok notò le traduzioni delle scritte su un apposito schermo lì vici-
no, e osservò sovrappensiero: «Queste organizzazioni sembrano più che altro degli inoffensivi circoli ricreativi.» Yraang ringhiò: «Vedi quell'indigeno con l'abito viola... vicino alla rampa di accesso? Guarda come tiene indietro la folla... Osserva le braccia di quel mostro!... È vero, ne ha solo due. Ma non è questo il mio concetto di degenerazione». Kranf borbottò: «È giusta la traduzione? Che degenerazione può esserci in un gruppo di persone che fanno paracadutismo per divertimento?» Selouel, sempre alle prese con l'armatura, aveva ora una mezza dozzina di tentacoli impegnati a districare la giuntura bloccata, e si rendeva conto di quanto i suoi contorcimenti stessero attirando suo malgrado l'attenzione della folla dei terrestri, che sgomitavano e si voltavano a guardare. Infilando un tentacolo in mezzo agli altri all'altezza dell'attaccatura e premendo forte, Selouel riuscì a esercitare una pressione decisa sulla giuntura e... Claang! La giuntura si sbloccò. Selouel perse un po' di tempo cercando di ricordare i nomi degli artigiani che avevano fatto quel lavoro, poi si esercitò in qualche movimento. La giuntura si snodava a fatica come tutte quelle nuove, ma almeno si muoveva. Meglio di niente. A questo punto restava la domanda di Kranf riguardo la folla. Selouel si guardò attorno. Fu colpito dagli svariati colori degli indumenti della folla, dai cartelli, dai capelli lunghi portati sciolti o legati con nastri o con foulard variopinti. Il suo sguardo si posò in particolare su un gruppo indicato come "Confraternita Tabagisti Perplessi". Si soffermò brevemente sul nome, poi iniziò a esaminare gli individui. Seduti sul cofano e sui massicci parafanghi anteriori di un veicolo mimetico a macchie verdi e marroni, questi indossavano abiti di tulle svolazzante, con dei fiori intrecciati tra i capelli, e si passavano in cerchio il bocchino attaccato a un lungo tubo flessibile che sbucava da un vaso posato su un braciere ardente. Mentre il bocchino passava di mano in mano, volute di fumo si spandevano nell'aria, dopodiché i fumatori afferravano il bocchino per un altro tiro. Be', la cosa sembrava promettente, ma c'era ancora qualche particolare... «Mm» disse Selouel, pensando ai dati manipolati e alle squadre per il rilevamento che erano state tranquillamente irretite e poi trovate in uno stato di estrema stupefazione. «E allora?» disse Kranf. Selouel studiò la scena ed ebbe un presentimento. «Al di là di tutto, c'è qualcosa... mmh... sì, se non mi sbaglio qui c'è una
percentuale notevolmente bassa di individui terrestri di sesso femminile.» Selouel irrigidì i tentacoli come a voler cercare qualcosa. «A parte la "Sorellanza delle Infermiere" e le "Ausiliarie del Circolo della Caccia", questa folla sembrerebbe composta quasi interamente da maschi.» «Che cosa significa?» «L'istinto di conservazione della specie spinge i maschi a proteggere le loro donne quando incombe un pericolo. E questo non è un indizio promettente.» «Be', la navicella sta atterrando. Forse dai loro saluti potremo capire qualcosa.» La folla alzò lo sguardo e si spostò da un lato come un cono scintillante che si capovolge lentamente. Selouel notò che diversi terrestri lanciavano sguardi furtivi ai loro ospiti della Coeguaglianza. Una delicata voce nasale cominciò a mormorare le parole di quella che doveva essere una canzone popolare: «Oh, grido perché, amore... ti prego dimmi perché amore...» Una voce contratta disse dentro l'orecchio di Selouel: «È questo il momento di catturare il loro comandante supremo, signore? Lo prendiamo quando è ancora a bordo. Tra pochi minuti potrebbe essere fuori portata». Selouel aveva dimenticato quella clausola, aggiunta al piano dal Capitano Supremo, ma che lasciava comunque a lui la decisione ultima. «No» disse Selouel dentro un microfono quasi invisibile. «Non fatelo... Ripeto, non fatelo.» La folla, vestita di tutto punto con quegli abiti voluminosi, si stava avvicinando, tirando fuori ampolle, bottiglie, provette, aghi ipodermici, lunghe pipe, strani cilindri di vetro e sacchi di polvere bianca, mentre la canzone si levava sulla folla: "Amore, dimmi perché, perché mai dovrei mori-i-ire? È così dolce vivere con te, così dolce, così do-o-o-olce. Allora, amore, dimmi perché, dimmi perché mai, dovrei mori-i-ire..." Selouel, a cui avrebbe fatto piacere rispondere alla domanda, osservava le molteplici attrezzature relative all'uso di ogni sostanza stupefacente conosciuta in quella parte dell'universo. Gli cadde lo sguardo su un aggeggio composto da ampolle di vetro, tubi, serpentine, imboccature, beute e matracci, e quando provò a immaginare quella cosa in funzione, la testa cominciò a girargli vorticosamente. Threletok, che ancora non era a conoscenza dei rapporti manipolati, sibi-
lò: «Ha funzionato! Hanno raggiunto la degenerazione! Ce l'abbiamo fatta! Abbiamo vint...» Il vecchio facilitatore apparve sul boccaporto della navicella. Tutta la folla si voltò contemporaneamente. Provette, cilindri, siringhe, pipe dalla forma strana... tutto questo volò in aria balenando davanti a Kranf e agli altri della truppa, e si schiantò al suolo a un centinaio di metri di distanza, esplodendo in un bagliore bianco accecante. La terra e il cielo, gli alberi, l'erba, i veicoli, la folla, la navicella... tutto svanì dalla vista di Selouel dietro una nuvola di fumo. Kranf indietreggiò. Threletok gridò. Yraang digrignò le zanne, e Selouel, conscio che non avrebbe potuto far niente per controllare l'intero fenomeno, rimase fermo mentre gli applausi, le urla, e il rombo del motore risuonavano tutt'intorno la radura. La voce gli parlò ancora più vicina alla membrana dell'orecchio: «Gli indigeni si stanno dividendo per unità... Accerchiano il facilitatore... Viene spinto dentro un veicolo da terra... Oh-oh!... Il veicolo da terra è decollato! Tutti i veicoli parcheggiati intorno alla radura hanno preso il volo!» Con tutto quel fumo che si era alzato, Selouel non solo non avrebbe potuto sentirli ma neanche vederli sfrecciare come lampi sopra la sua testa. Ora che i sui piani erano andati in fumo, e che il capo delle comunicazioni gli stava urlando che era in arrivo un messaggio destinato a lui da parte del Comandante Supremo della Terra, a Selouel venne improvvisamente in mente che nell'attimo in cui Kranf aveva chiamato per chiedere aiuto da Triform era quasi sul punto di capire. Adesso, quando ormai era troppo tardi, tutto gli era chiaro. «Procedete» disse seccamente ai tecnici addetti alle comunicazioni, e pochi minuti dopo aveva il dispositivo trasmittente azionato, e guardava l'immagine nitida di Hardesty che sorrideva. «Bene» disse Hardesty «vedo che avete mantenuto la vostra promessa. C'eravate voi, naturalmente, dietro questa originale offerta di pace?» «Sì» disse Selouel «e ora vi offriamo l'opportunità di unirvi alla nostra Coeguaglianza.» «Almeno per ora» disse Hardesty «vogliamo rimanere indipendenti.» «Rispettiamo la vostra decisione» disse Selouel cautamente «e avremo modo di apprezzare la vostra amicizia. Le nostre squadre di vigilanza saranno destituite contemporaneamente. Naturalmente, lei subentrerà in quelle che erano le loro mansioni?»
«Certo» rispose Hardesty «e contiamo di riuscire presto a collocare nello spazio una navicella più grande.» «Che la fortuna vi assista» replicò Selouel «e la saggezza vi guidi.» «Grazie. Ci ricorderemo che avete mantenuto la vostra promessa.» Il collegamento fu interrotto. Selouel respirò profondamente, spostò il dispositivo per le trasmissioni, lo diede ai tecnici che erano lì ad aspettare, e guardò i suoi compagni. Kranf disse imbronciato: «Bene, ci hanno presi in giro. E adesso?» «Adesso» disse Selouel «ordiniamo ai nostri di scomparire rapidamente da questo schifo di pianeta. Poi andrò a farmi un bagno caldo. Dopo di che, se qualcuno fosse interessato a unirsi a me, ho intenzione di consolarmi con della musica. Nel frattempo, per quanto ne so, il Capitano Supremo potrebbe essersela presa con me per la mia stupidità. Ogni cosa seguirà il suo corso.» Il Capitano Supremo da molto tempo aveva a che fare con i sottomanipolatori, ma questa era la prima volta che ne vedeva uno soffrire perché insoddisfatto delle proprie prestazioni. Il Capitano Supremo, che aveva spesso sperato di ridurre un sottomanipolatore a questo stato di umiliazione, si rese conto che per chissà quale motivo irrazionale provava simpatia per lui. «Dopo tutto» si ascoltava dire «non è successo niente di cui non ci avessi precedentemente avvertito. Questi mostri carenti di arti e dalla vita corta hanno seguito una delle due possibilità che avevi preannunciato. Il risultato è certamente insolito, ma il pasticcio in cui ci trovavamo è migliorato rispetto a quando sei subentrato.» «Avrei dovuto sapere che i rapporti non erano validi.» «In che modo? Venticinque specialisti che hanno trascorso la loro vita in un campo della larghezza di un pollice e profondo come l'universo si mettono insieme e scrivono un documento di trecento pagine basato sulla vita e il lavoro di dieci generazioni di loro simili, usando il loro linguaggio speciale. Si presupponeva che io e te analizzassimo queste cose, quando avevamo da lavorare per tutto il giorno, e comprenderle. E tre anni più tardi, comunque, delle nuove osservazioni possono mostrare che le loro conclusioni sono state falsificate. E questo è solo uno dei rapporti.» «Il rapporto non è tutto» disse Selouel cupo «anche se era fatto proprio male. C'ero quasi arrivato, e poi me lo son lasciato sfuggire.» Il Capitano Supremo, vedendo Selouel tutto mogio, e soffermando l'at-
tenzione sul numero dei suoi tentacoli, disse in tono consolatorio: «Bene, forse potremo servircene un'altra volta. Cos'altro hai da biasimarti?» «Quante volte ho sghignazzato quando sentivo qualcuno dire: "È stato verificato dal computer?". E quando sono coinvolti fattori matematici, questa frase ha ancora senso.» «Sì» disse il Capitano Supremo, gratificato dal fatto di sentire questa ammissione. «E» continuò Selouel «avrebbe ugualmente senso eseguire una verifica anche là dove sono coinvolti fattori non matematici - in particolare quelli emozionali.» «Se potessimo lo faremmo. Ma non si possono descrivere accuratamente le emozioni attraverso un computer. Ci abbiamo provato, e non ha funzionato. No, è meglio affidarsi ai numeri, e fare scempio di questi fattori non matematici ogni qualvolta si presentano. Se non dovesse funzionare» disse il Capitano Supremo con benevolenza «be', abbiamo i nostri sottomanipolatori a cui ricorrere.» Selouel non si era ancora consolato. «E me lo sono lasciato sfuggire» disse. Il Capitano Supremo lo guardò fisso. «Sfuggire che cosa?» «Esiste ciò che equivale a un computer emozionale, e lo usiamo sempre. Perché non in questo caso?» «Questo mi giunge nuovo.» «Nessuno di noi potrebbe agire se non fosse capace di prevedere le azioni degli altri, e di interpretare la loro reazione emotiva. Lo facciamo usando ciò che in effetti è un sistema analogico più che digitale, vale a dire, la nostra stessa natura emotiva. Non è un sistema perfetto, ma non abbiamo scelta. Bene, che cosa succede quando abbiamo a che fare con degli alieni? Dobbiamo tener conto di alcune variabili, ma tutti quanti possediamo gli stessi istinti primari. Come ho potuto tralasciare...» Il Capitano Supremo concluse che richiamare all'ordine un sottomanipolatore era difficile tanto quanto umiliarlo. Se non peggio. «Ascolta» interruppe «in particolare che cosa ti sei lasciato sfuggire?» «Per prima cosa» disse Selouel «che come al solito lo schermo era stato lasciato acceso mentre noi ci stavamo consultando dopo che il loro Comandante Supremo aveva rifiutato la nostra prima offerta di tregua.» «Be', lo scopo è di far capire che la comunicazione non si interrompe. La parte avversaria capisce che si sta prendendo in considerazione il loro punto di vista, anche se non possono sentirne i dettagli. Cosa c'è di sbagliato?»
«Che hanno avuto modo di vedere la nostra consultazione, questo c'è di sbagliato.» Il Capitano Supremo si mise comodamente seduto, e si immaginò la scena. «Ma... senza audio...» «Uno dei punti fondamentali era di far capire loro che eravamo assolutamente sinceri.» Per un attimo il Capitano Supremo rivide mentalmente la scena di Selouel che con un'espressione acuta contorceva quattro o cinque tentacoli in aria, mentre Kranf lo guardava con sospetto e Yraang si sporgeva in avanti mostrando le zanne. «Mmh... sì... capisco cosa vuoi dire» «E poi» continuò Selouel «come se non fosse abbastanza, ho addirittura immaginato che queste popolazioni locali si sarebbero potute disgregare se il loro eroe fosse stato allontanato per un lungo viaggio!» Il Capitano Supremo si rilassò, con la mano destra superiore che si stringeva il mento, e le altre mani che si tenevano i vari gomiti. Disse pensosamente: «Ora sappiamo che non ha funzionato. Ma come potevamo immaginarlo all'inizio? Tutto combaciava». «Avremmo dovuto riesaminarlo attraverso il nostro computer emozionale.» «Avremmo dovuto immaginare che sarebbe andata così, e tuttavia come potevamo reagire? D'accordo. Mostramelo.» «Dimmi solo che cosa avremmo fatto se avessimo saputo che dopo pochi secoli Kakolian o Mardugast sarebbero ritornati da noi, nel pieno della giovinezza?» Il Capitano Supremo strinse i braccioli della poltrona. Mardugast! Il Supremo Signore della Guerra di tutte le Ere! A fatica, controllò le proprie emozioni. La sua voce si fece dura. «Di certo» disse «non avremmo passato il nostro tempo, mentre aspettavamo il suo ritorno, fumando kasheef.» «Si sarebbe dovuto» rispose Selouel «fare appello alle nostre forze migliori. Avremmo dovuto addestrare i nostri discendenti, e raggirare gli avversari, in maniera tale che ogni cosa fosse stata pronta per il suo ritorno.» «Capisco. Sì. Tutto considerato, è chiaro che cosa è successo.» «Sì, è chiaro, ma è troppo tardi.» «Troppo tardi per questa volta» disse in modo pragmatico il Capitano Supremo. «Ma noi abbiamo visto ciò che è accaduto, e possiamo farci tro-
vare preparati alla prossima occasione. E tutto questo pasticcio, in un modo o nell'altro, trova la sua origine nella natura dei terrestri. Non ci hai saputo fare. Il tuo problema era trovare il modo di tirare avanti con loro. Ma, per lo meno, sembrano sedati.» Selouel sospirò. «Questo almeno sembra vero.» Il Capitano Supremo notò che il sottomanipolatore, essendosi alleggerito delle colpe, aveva riacquistato il suo solito aspetto. C'era ancora una sottile differenza, e il Capitano Supremo, alla fine mettendosi l'anima in pace, si domandò se in quell'orribile pianeta non ci fosse qualcosa di buono, dopo tutto. Quella maestosa superiorità che aveva reso i sottomanipolatori così insopportabili, dopo essersi scontrata con questo mondo, svanì senza lasciar traccia. Titolo originale: The Underhandler Analog Science Fiction and Fact November 1990 IL TETRAEDRO di Charles L. Harness Che cosa c'è dietro il sorriso della Gioconda? Basta andare a chiederlo a Leonardo 1: Elizabeth Elizabeth, sulle spine, era seduta sulla poltrona - una poltrona di regola occupata da persone molto importanti. L'uomo dall'altra parte della scrivania, il socio anziano del più prestigioso studio legale di Washington, l'aveva fatta venire espressamente dal suo minuscolo cubicolo. Perché? Quale misfatto poteva mai avere commesso una semplice consociata, da richiedere le attenzioni personali di Barrington Wright? Stavano per licenziarla. Chissà come, ne era certa. Racchiuso nella sua armatura invisibile, Wright la scrutava sereno. «Signorina Gerard, sa cosa significa MT?» MT? pensò. Cosa diavolo era? Era tenuta a saperlo? Presumeva di no. Perciò diciamogli pure la verità. «No, signore. Non credo di averne mai
sentito parlare.» Osservò il volto di Wright di sottecchi. Sì, i muscoli attorno alla bocca sembravano distendersi. Aveva superato una qualche specie di esame. Non sapeva cosa fosse l'MT, e per qualche strano motivo era un punto a favore. Wright proseguì con una morbida voce monotona: «Ci sono soltanto dieci persone al mondo autorizzate a conoscere l'MT. Quel numero comprende il sottoscritto... e adesso lei.» Elizabeth sbatté le palpebre. Non la stavano per licenziare. Anzi, tutto il contrario. «MT» disse Wright, sempre osservandola «significa macchina del tempo.» Sapeva di averlo sentito perfettamente, ma non aveva senso lo stesso. Attese. «Un nostro cliente» continuò lui «ha inventato una macchina del tempo. In teoria funziona. Il nostro signor Pellar ha preparato e presentato la relativa domanda di brevetto.» Si concesse una pausa per guardare l'orologio. «Mi aspettavo che fosse qui con noi, ma ha trovato degli intoppi nel trasferimento dall'aeroporto. Per adesso proseguo io con i preliminari. Torniamo a noi: l'ufficio brevetti ha individuato un'incompatibilità tra la nostra domanda e un'altra presentata precedentemente, relativa alla medesima invenzione.» Si fermò per guardarla. Lei annuì. C. Cuthbert Pellar era evidentemente uno dei membri fondatori di questo club MT. Pellar l'elegantone. Il clone di Wright, come lo chiamavano - ma soltanto dietro le spalle. Wright le stava dicendo qualcosa. «Mi segue?» «Sì, signore. Siamo parte in causa querelante. Per superare il conflitto tra le due domande dobbiamo provare che il nostro cliente è il primo inventore.» «E che cosa comporterebbe?» «Intanto ci serve almeno l'adeguata conferma di un'ideazione antecedente, con un'opportuna dimostrazione di assiduità nella ricerca che sia sfociata nella messa in pratica.» «E se il cliente non è in grado di dimostrare nulla del genere?» «Allora qualcuno si deve prendere l'incomodo di comunicargli che non potrà mai vincere. Almeno si risparmierà i costi della causa.» «Un buon consiglio, di regola. Però la situazione è un po' più complicata. Il nostro cliente è il Ministero della Difesa.» «E la Difesa non vuole rinunciare?»
«Esatto. Quindi che si fa adesso, signorina Gerard?» «Scoviamo un marchingegno antecedente che somigli molto a quello e poi facciamo richiesta di annullamento dell'incompatibilità, in quanto nessuna delle due parti in causa può ottenere il brevetto. In questo modo nessuno possiede il brevetto, ma la Difesa è libera di utilizzare l'invenzione.» Lei sapeva benissimo che non esisteva nessun "marchingegno antecedente che ci somigli molto", e che in qualche modo sarebbe stata coinvolta nei tentativi di rimediare a tale carenza. Il conto stava cominciando a tornare. L'interfono ronzò. «Sì?» chiese Wright, senza girarsi. «Il signor Pellar, signore» disse una voce femminile immateriale. «Fallo entrare.» C. Cuthbert Pellar sorrise suadente all'uomo che poteva farlo entrare come socio nello studio, osservò serio e distante Elizabeth, e infine si accomodò nella poltrona che gli era stata indicata. «Nulla?» chiese Wright. «Nulla, signore. Abbiamo indagato l'intero repertorio dei brevetti americani e stranieri, e tutta la letteratura scientifica. Abbiamo impiegato tre mesi e tre milioni di dollari in cerca di un indizio che potesse provare che la MT è una tecnica acquisita. Non abbiamo scoperto niente.» Lanciò un'occhiata a Elizabeth, e la sua espressione indicò chiaramente: «E lei non ci può essere d'alcun aiuto». «Come stavo spiegando prima» disse l'uomo più anziano «il Ministero della Difesa ha esaminato i curricula vitae di ogni impiegato dello studio, associati compresi, non soltanto per ragioni di sicurezza, ma anche alla ricerca di attitudini speciali.» Sollevò un tabulato, si sistemò gli occhiali e studiò il foglio. «Il colonnello Inman ha richiamato la mia attenzione su certi dettagli interessanti del passato della signorina Gerard. Ha una specializzazione in recupero e trascrizione di manoscritti antichi, con accesso preferenziale alle più importanti biblioteche internazionali. Parla abbastanza correntemente diverse lingue straniere.» «Signore, non capisco» disse Pellar. Già, pensò Elizabeth. Io nemmeno. «Semplice» continuò Wright. «Abbiamo esaminato i dati stampati, e adesso risaliamo ancora più indietro. Ai manoscritti.» «Ma...» cominciò a protestare Pellar. «Ne ha fatto precisa richiesta il cliente, signor Pellar» spiegò chiaramente Wright. «Per favore, descriva la macchina alla signorina Gerard, perché
possa andare avanti col lavoro.» «Oh, sì, signore. Certo, signore. Possiamo cominciare il conteggio dei dettagli simili. Cito.» Socchiuse gli occhi e cominciò a snocciolare con una cantilena ritmata. «"Apparato per spostare l'asse spaziotemporale, consistente di: a) tubi d'argento che contengono acqua pesante, posizionati a formare una struttura tetraedrica; b) una fonte generatrice di corrente adattata per far passare corrente elettrica attraverso suddetta struttura; c) un cristallo cubico di pechblenda; e d) un mammifero in contatto elettrico cerebrale con la detta fonte d'energia e la pechblenda."» Figlio di puttana, pensò Elizabeth. S'è imparato tutto a memoria. E nel frattempo pensava anche: Un tetraedro? Non l'ho visto da qualche parte? Pellar la guardò con la coda dell'occhio. «Be'? Ha afferrato?» È già incazzato con me, pensò lei. La prima squadra ha fatto fiasco dopo aver speso tre milioni di dollari. Così adesso rifilano il problema a una povera associata sola e raminga. E il peggio deve ancora arrivare, Cuthbert, perché io mi ricordo sul serio qualcosa. «Datemi un minuto, per favore.» Un'immagine le si formò nella mente. Quattro triangoli equilateri formati da tubi d'argento... Dove l'aveva già visto? In un manoscritto. Se ne ricordava la scrittura strana. Scorse un elenco mentale dei principali matematici del Medio Evo. Geber... Kashi... Copernico. No, nessuno di loro. E i minori? Biagio da Ravenna... Paolo dal Pozzo Toscanelli... due dei massimi matematici dell'Italia rinascimentale, ed entrambi avevano insegnato al giovane Leonardo da Vinci. Ma certo. Ecco dove aveva visto lo schizzo. Nella copia di una pagina di uno dei tanti taccuini di Leonardo. Quale? Ce n'erano decine, tutti sparpagliati nelle biblioteche di tutto il mondo. Sì, adesso c'era. Il quaderno acquistato di recente dalla Biblioteca del Congresso. «Signori» disse «è possibile che la vostra macchina del tempo sia stata davvero descritta nella letteratura manoscritta.» I due uomini la fissarono in un silenzio perplesso. Pellar fu il primo a reagire. Guardò Wright. Era uno sguardo espressivo, che diceva: «Vede, signor Wright, ecco cosa succede quando si coinvolge una donna». Elizabeth arrossì, e si trattenne dallo stringere i pugni. Siamo nel XXI secolo. Perché dobbiamo ancora incontrare di questi problemi? «Signorina Gerard» le disse Wright gentilmente «ci vuole scusare un minuto?»
«Certo.» Si alzò dalla poltrona. Avevano deciso che lei era inutile, e la stavano depennando dal caso prima che venisse definitivamente coinvolta. Col cavolo che potevano. 2: Il fax Arrivata alla porta si girò. «Prima di andarmene vorrei citare il fatto che Leonardo da Vinci ha descritto un apparecchio assai simile a quello del conflitto in corso nel Quaderno 23, Codice IV, pagine quaranta e quarantuno. Si trova nelle banche dati della Biblioteca del Congresso, e potete richiedere un fax in pochi secondi, se siete interessati.» Poi s'incamminò verso l'atrio. «Signorina Gerard» la richiamò alla svelta Wright. «Soltanto un minuto, per favore.» «Sì?» Wright fece un cenno verso il suo mobile di studio. «Usi pure il mio fax.» Ritornò sui suoi passi, digitò la chiamata, e in meno di tre minuti la laser stampò la risposta. I due uomini si chinarono sulla macchina. Niente spazio per Elizabeth. Non importava. Era riuscita a scorgere lo schizzo di un tetraedro, attorniato da alcune righe di scrittura. «Interessante» ammise Wright. «Davvero interessante. Cosa dice lo scritto?» Lo allungò a Pellar. L'associato scosse il capo. «È un groviglio di zampe di gallina. Illeggibile. Inutile!» «Scriveva da destra a sinistra» spiegò Elizabeth. «Lo potete leggere con uno specchio. Presumo che ce ne sia uno nel bagno del signor Wright.» «Signore?» «Continui.» «È...» cominciò a dire Elizabeth. Pellar la scostò, ma subito emise un gemito dalla stanza da bagno. «Non riesco ancora a leggerlo.» «È in italiano» disse Elizabeth. Lo raggiunse. «Dice: "Serve un tetraedro, di dimensioni tali che vi possa stare un uomo all'interno. I quattro triangoli sono formati di tubi d'argento pieni d'acqua distillata da un alchimista proveniente da quaranta tini. Il viaggiatore sta in piedi al centro del triangolo che fa da base. Si infila una fascia craniale, afferra il cubo nero e sintonizza la mente con il... (uhm, che strano modo di dire... ah...) retro-
tempo? Vedrà una... scacchiera. Con questo strumento fui in grado di completare il Cenacolo per i frati milanesi!"» «Cenacolo?» chiese Pellar. «Che cosa sarebbe?» «L'Ultima Cena» spiegò Elizabeth. «La dipinse sulla parete di un monastero a Milano alla fine del Quattrocento.» «Si servì della macchina per completare un dipinto?» domandò Wright. «Come? E perché?» «Non so, non lo dice.» «Ma, signore» intervenne Pellar «come facevano cinquecento anni fa a sapere qualcosa dello spazio-tempo e della fisica quantistica. Soprattutto questo Leonardo? Era solo un pittore.» «Leonardo aveva un quoziente d'intelligenza da supergenio» rispose Elizabeth risoluta. «Alcuni psicologi lo valutano a 250, altri perfino a 300, oltre Einstein. Aveva una portata intellettuale sufficiente a creare la vostra MT. Dalle descrizioni che ne ha lasciato, sembra proprio che ci sia riuscito.» «Sembra?» ironizzò Pellar. «Penso che lo si possa stabilire con certezza, in un modo o nell'altro» affermò Elizabeth. Wright girò la sua poltroncina per guardarla in faccia. «Come?» «Torniamo indietro a chiederlo a lui.» «A lui?» chiese stolidamente Pellar. «A chi?» «A Leonardo» spiegò Wright seccamente. «Raccogliamo la sua deposizione.» Pellar a quel punto era definitivamente sconcertato. «Pensavo che fosse morto!» «La signorina vuol dire» gli spiegò paziente Wright «che dobbiamo usare la MT per tornare all'era di Leonardo, raccogliere la sua deposizione e chiedergli di spiegare il suo schizzo. È così, signorina Gerard?» «Sì, signore.» «Affascinante» rifletté Wright. «Ci potrebbe fornire l'esatta invenzione che ci serve per risolvere il conflitto di compatibilità. E Leonardo quando l'ha realizzato, questo schizzo, signorina Gerard? C'è modo di saperlo?» «La data può essere stabilita solo approssimativamente. Quasi certamente è stato dopo che fini L'Ultima Cena a Milano, ma probabilmente prima che iniziasse la Gioconda a Firenze, che pensiamo sia avvenuto nel 1503.» «Perciò, dove lo troviamo Leonardo nel 1503?» «Dal marzo al giugno 1503 si trovava a Firenze. Aveva lo studio in casa
di un amico benestante.» Wright la guardò interessato. «Che ne penserebbero della macchina gli abitanti? E del suo equipaggio, del resto. Potrebbe andare e tornare senza pencolo?» «Ci sono dei rischi, ma potremmo minimizzarli. I nostri corrispondenti italiani ci possono fornire una lista di alberghi e locande con vista su una piazza e che fossero aperti a Firenze anche nel 1500. Potremmo arrivare sulla piazza poco prima dell'alba, quando ci sarebbero ancora alcuni minuti di oscurità, poi smontiamo la MT, riponendola al sicuro, e ci presentiamo, adeguatamente vestiti, al locandiere.» «Per fissare una camera» intervenne Pellar. «E poi?» «Per prima cosa localizziamo Leonardo, troviamo un notaio indigeno per fargli prestare giuramento e procediamo con la deposizione.» Wright stava studiando il soffitto. «Potrebbe anche funzionare.» Quindi calò lo sguardo su di lei. «Signorina Gerard, com'è che ha cominciato a interessarsi ai manoscritti medievali?» «Be', signore, tanto per farla breve e smussare qualche angolo, due miei professori all'università erano autorità a livello internazionale sul Rinascimento e sugli incunaboli. Mi sembrava la cosa più naturale da fare.» Wright annuì. «Sì, senza dubbio è stata una decisione saggia. Eppure è proprio una coincidenza che ci offra una possibilità tanto ghiotta in un caso di interferenza tra brevetti.» Si sporse in avanti, e adesso la sua voce e i modi erano tornati prettamente professionali. «Vorrei che preparasse un promemoria dove elenca i dettagli necessari che dobbiamo tenere presenti in questa deposizione. Io l'esaminerò con il signor Pellar e con il colonnello Inman, il nostro contatto al Ministero. Inoltre, la prego di preparare le richieste necessarie per la deposizione.» «Sissignore.» Mentre si chiudeva la porta alle spalle, lo sentì dire, con parole secche, taglienti: «Signor Pellar, se si può trattenere un momento...» Mentre se ne andava, Elizabeth cercò di visualizzare la scenetta che probabilmente si stava svolgendo alle sue spalle. Wright non avrebbe mai alzato la voce, ma Pellar avrebbe cominciato a sudare domandandosi se sarebbe mai riuscito a diventare socio. Alla fine Wright avrebbe suggerito a Pellar di preparare un memorandum come si deve per il colonnello Inman e per il Ministero della Difesa, per spiegare perché lui, Pellar, aveva sprecato tre milioni di dollari prima di arrivare alla proposta su Leonardo. Non faceva la minima differenza che Pellar non ne avesse la minima colpa. Le cose andavano così.
Comunque era troppo su di giri per il suo nuovo incarico per sentirsi molto dispiaciuta per Pellar. Tutti i suoi sforzi sul Rinascimento finalmente tornavano utili. Conosceva per filo e per segno la Firenze medievale. Sapeva come ci si doveva vestire, che cosa indossare. Poteva attraversare Piazza della Signoria nel 1500 facendosi passare per la classica massaia che va al forno. E, da come si erano messe le cose, sembrava assai probabile che potesse proprio capitare qualcosa del genere. Veleggiò verso il suo minuscolo ufficio. "Ufficio" forse non era la parola giusta. Era incastrato tra lo stanzino della fotocopiatrice e il bagno degli uomini. Un tempo quello era l'antibagno dei cessi, ma era stato ristrutturato apposta per lei, perché non c'era nessun altro buco dove piazzarla. Gli associati maschi dovevano passare dietro la sua scrivania per andare in bagno. Sulla sua scrivania c'erano due foto. Una era un'ottima riproduzione in miniatura della Gioconda, l'altra una foto della casa dove era nata e cresciuta, giù a Naples, nel Texas. La prima era lì perché secondo il suo modesto giudizio la signora Lisa era la più bella donna della storia, la seconda perché fungesse da surrogato della casa vera. Stava ricominciando a sognare di tornare a casa, anche se sapeva che probabilmente non l'avrebbe mai fatto. Non poteva affrontare gli strilli d'accusa di sua madre: «Ventott'anni e non ti sei ancora sposata!» Intanto, smettila di sognare a occhi aperti e tira fuori il libro dei moduli! Prepara una comunicazione per il signor Wright da firmare e spedire a... chi era l'avvocato patrocinante della parte avversa? Larvey? Sì, Ralph Larvey di Getterfield, White. Proprio dall'altra parte della strada. Benvenuto nel 1503, avvocato! 3: Come uno scacco matto affogato All'ora prefissata, Elizabeth e Pellar andarono in macchina fino al complesso militare presso Manassas, in Virginia, per incontrarsi con il colonnello Inman e ricevere le istruzioni operative sulla MT. Il colonnello era un uomo alto e magro, con i capelli grigi. Elizabeth sapeva ben poco di lui, soltanto che era sposato, con figli che se n'erano già andati di casa. Aveva un sacco di lauree, comprese fisica e giurisprudenza, e attualmente comandava le Dotazioni Speciali. Sapeva anche che l'interesse preminente del colonnello, al momento, era impedire che fosse acquisito il brevetto concorrente, quello di Rosso, che
era stato offerto all'Esercito per la bella cifra di cento milioni di dollari. L'ufficiale li guidò lungo un sentiero coperto di ghiaia fino a una baracca di lamiera ondulata, aprì la porta chiusa a chiave, fece scattare un interruttore e li fece entrare. Al centro dello spazio troneggiava un tetraedro di compensato alto più di due metri. «Pensavo che la MT fosse una struttura tubolare» fece notare Elizabeth. «Quella vera» spiegò Inman. «Quella che vedete è soltanto per l'addestramento, perché vi familiarizziate con i comandi. Vorremmo ridurre al minimo l'utilizzo di quella vera. Avete mai sentito parlare della teoria della "rottura temporale"?» Elizabeth fece segno di sì con la testa. Uno dei fisici di punta del ministero aveva formulato la teoria che la MT potesse infrangere la barriera spaziotemporale soltanto un numero limitato di volte. Dopodiché, la macchina del tempo non avrebbe più funzionato. «E quella vera dov'è?» domandò Pellar. Elizabeth l'aveva già capito. Contro la parete opposta era appoggiato un insignificante baule di cuoio. Secondo i suoi calcoli, svitando i tubi della struttura e riponendoli assieme alla batteria e alla console del computer, in quella valigia ci doveva stare tutto. «Si trova in un posto sicuro» rispose il colonnello senza sbilanciarsi. Aperta la porta del simulatore, accese un piccolo neon. Lo seguirono all'interno. «C'è spazio per tre viaggiatori e per questi due bauli» spiegò Inman. «Uno può contenere il tetraedro smontato, comprese batteria e console. L'altro è previsto per i materiali che vi serviranno per la deposizione. Date un'occhiata.» Poi chiese a Elizabeth: «Un baule è sufficiente per le sue necessità?» «Hmm. Il traduttore IBM e la stampante ci staranno di sicuro, però potremmo avere problemi a farci stare il generatore. Crede che ci potremmo servire della batteria della MT?» «Di che potenza ha bisogno?» «Cento watt, probabilmente per due o tre ore.» «La batteria della MT può bastare, senza dubbio. E allora, procediamo. Sono sicuro che entrambi conoscete le basi teoriche dell'invenzione. È fondata sul processo di fusione fredda dell'Università dell'Arizona, in cui l'acqua pesante si fonde in elio-4 producendo calore. Semplice, no? In realtà non è tanto semplice. Spariva più acqua pesante di quella che poteva essere giustificata dall'elio-4 che ne risultava. Asa Green, il nostro inventore, ha scoperto che la perdita finiva in He-4 positivo - antimateria - non rilevabile perché si consumava portando nel passato l'impianto di sintesi. Per
favorire l'efficienza e la possibilità di controllo, Green ha escogitato la struttura tetraedrica di cilindri d'argento. L'acqua pesante circola in ogni sezione cilindrica. Per controllare il movimento complessivo si serve di un cristallo nero di ossido di uranio, collegato alla console e alla struttura tramite un conduttore elettrico. Per una miglior modulazione si serve della fascia frontale» indicò un sottile cerchietto di nastro dorato «ugualmente allacciata alla console. In questo modo il "pilota" mantiene un contatto continuo con il processo di sintesi all'interno dei tubi.» «E questo "contatto continuo" in cosa consiste?» chiese Elizabeth. «È un fenomeno visivo» rispose Inman «che si manifesta con immagini create nel lobo occipitale. Un po' come quando prendiamo una botta in testa e vediamo le stelle, soltanto che non c'è dolore, e invece delle stelle vedete modelli geometrici cangianti. Lei gioca a scacchi?» Avendo vinto l'anno precedente il primo premio all'Open di Washington, Elizabeth rispose prudentemente: «Conosco le mosse». «Io pure!» interloquì Pellar. «Molto bene. Guardatela da questo punto di vista: il tempo si muove secondo quanti - immaginateveli mentalmente come i riquadri di una scacchiera. Ogni momento differisce dal successivo per cambiamenti di posizione dei "pezzi" sulle caselle. Mentre state dentro la MT e vi avvicinate alla destinazione, può sembrare che i pezzi si ammassino attorno a un punto centrale, in modo abbastanza simile ai pedoni e ai pezzi che riparano il re negli scacchi. Sta a voi scegliere il punto d'arrivo nel tempo. Un po' come le linee al centro di un mirino, o un cavallo che fa uno scacco matto affogato. Se siete buoni giocatori di scacchi non avrete problemi a guidare la MT. Allora cominciamo.» «Prima io» disse Pellar. Inman sorrideva debolmente mentre porgeva all'avvocato il piccolo cubo di pechblenda, e quindi la fascetta dorata, entrambi collegati alla console tramite fili isolati. «Pronto?» «Pronto.» Si udì un acuto clic metallico quando Inman chiuse la porta triangolare. Pellar strillò, lasciando cadere il cristallo nero. «Ehi! Non mi aveva detto che sarebbe andata così!» Inman sogghignò. «Ci riprovi, signor Pellar. Questa volta chiuda gli occhi e immagini di essere un grande maestro che gioca bendato.» Pellar ci riprovò qualche altra volta, acquisendo una destrezza assai discutibile, quindi passò la benda e il cristallo a Elizabeth, che si impadronì
della tecnica del marchingegno in un secondo e chiese a Inman: «Per il ritorno usiamo la stessa procedura?» «No, tornare è molto più semplice. Non le servono né la fascia né il cristallo. Basta che sbatta la "porta" del tetraedro e verrà proiettata indietro. Si bloccherà di colpo al tempo e luogo di partenza.» Li guardò entrambi e sorrise. «Penso che siamo pronti per Firenze.» 4: Firenze Elizabeth, Pellar e il colonnello stavano bevendo un cappuccino sotto il tendone di un caffè con i tavolini all'aperto in Piazza della Signoria. Pellar continuava a guardare l'orologio. «Larvey è in ritardo.» Inman si strinse nelle spalle. «Lo conosce?» «Solo di fama.» «Io pure. A quanto pare è un mago delle deposizioni. Mi sono studiato tutte le sue deposizioni passate che sono riuscito a scovare. È furbo, meschino, pericoloso, viscido, infido.» «Già» ammise con sincerità Pellar. «Un bel vantaggio quando si è in dibattimento.» Inman guardò Elizabeth dall'altra parte del tavolo e fece una smorfia. Lei gli rispose con un sorriso flebile. Sapeva che Inman aveva insistito che compisse l'addestramento alla MT assieme a Pellar, e anche che facesse parte del gruppo del viaggio nel tempo. Pellar aveva opposto una strenua resistenza, ma alla fine erano giunti a un compromesso. Pellar poteva guidare la macchina. Lei sarebbe stata il collegamento linguistico con Leonardo e gli altri fiorentini. «Quello che sta attraversando la piazza potrebbe essere il nostro amico» annunciò Pellar. «Sì, è Larvey.» Si alzò facendo segno con la mano. Elizabeth studiò con attenzione l'avvocato che si stava avvicinando. Era sulla quarantina, capelli radi ma non ingrigiti, ampio sorriso. Troppo ampio, decise lei. Pellar fece le presentazioni, spiegando e scusando la presenza di Elizabeth: «Parla l'italiano medievale. È una specie di guida turistica». Lasciamolo fare, pensò lei. Si dedicarono agli affari. Prossima fermata, sartoria teatrale. «L'abbigliamento deve essere semplice ma elegante» spiegò Elizabeth. «Per voi maschietti, tuniche e pantaloni attillati, con berretti da città e sti-
vali di pelle morbida. Le tuniche devono essere di broccato, impunturate con filo dorato, con un bordo di pelliccia sul colletto e ai polsi. Vi consiglio di abbinarvi delle mantelle. Io indosserò della seta grigia sopra una gran quantità di sottovesti, con un filo singolo di perle. Tutte cose reperibili in loco.» «È per il ballo in costume all'ambasciata?» chiese educatamente il gestore della sartoria. «Qualcosa del genere» rispose Elizabeth, mentre osservava i due uomini che si slisciavano nel camerino di prova. Pellar aveva un bel fisico. Le sue gambe risaltavano ben modellate nella stretta calzamaglia, abbastanza simile a dei collant per signora se non fosse stato per il tessuto più pesante. Il motivo della tunica era veramente delizioso: rose rosse intessute su un fondo azzurro, e ricamate con fili d'oro e d'argento e zirconi e perle. Il costume era completato da babbucce Gucci di morbido cuoio nero e, per la tunica, da una grande fibbia d'oro. Mentre stavano a guardare, il sarto avvolse una cappa lunga fino al ginocchio attorno all'avvocato e lo fece girare di faccia allo specchio. Impressionante, pensò Elizabeth. Larvey era vestito in modo simile. Cogliendo lo spirito della situazione, eseguì una piroetta come un ballerino. Quella che un tempo si chiamava piazza del Cigno Nero, attualmente un parcheggio per cinquanta macchine, era adeguatamente sgombra e chiusa per la notte. Al riparo delle tenebre, l'equipaggio della MT innalzò il tendone di tela e portò dentro i due bauli. Sotto lo sguardo critico di Elizabeth, Pellar aprì il contenitore con la MT smantellata e cominciò a montarla. Il colonnello Inman stette a guardare in silenzio. Venti minuti e qualche pasticcio e maledizione dopo, era pronta. E adesso un'ispezione dell'ultimo minuto dei suoi due compagni, a lume di torcia elettrica. Vestiti, cappelli, manti, tutto a posto. Dopodiché, il baule da viaggio. Slacciò le cinghie di cuoio, alzò il coperchio e fece da parte i set da barba e le mutande di ricambio. Il traduttore/camcorder IBM era al suo posto. Tutto pronto? si chiese. Non esattamente. Si alzò rivolgendosi ai due uomini. «Credo che ci dovremmo accertare che l'IBM sia ancora funzionante.» «L'ho già esaminato» replicò Pellar, irrigidito. «Qui?» «No, a Washington.»
«Ma dopo ci sono stati svariati voli e corse in taxi.» f «Se è questo che ti preoccupa, fai pure. Controllalo» mugugnò Pellar. In silenzio, Elizabeth tolse l'unità dalla cassa, poi aprì lo stipetto della MT, ne tolse il generatore e lo innestò di fianco all'IBM, premendo il pulsante. Un LED verde cominciò a lampeggiare sul davanti del traduttore. «IBM, sei operativo? Per l'italiano?» Dal computer scaturì una modulata voce baritonale. «Sì, sono pronto. Posso chiederle chi è?» «Non credo che ci siamo mai conosciuti. Io sono la signorina Elizabeth Gerard.» «Ah, signorina Gerard, sono molto lieto di fare la sua conoscenza.» «Grazie. Ti senti in grado di registrare una deposizione a scopo brevetto in italiano?» «Sì.» «Stacchi, Elizabeth» ringhiò Pellar. «La macchina funziona. Andiamo!» «Sì. Ci vediamo dopo, signor IBM.» «Arrivederci, signorina.» Staccò la spina e risistemò ogni cosà. «Signori» comunicò ai due avvocati «potete entrare.» Entrata pure lei con loro, porse la torcia elettrica a Inman, raccolse la lanterna spenta da sopra la console della MT, e cercò la scatola con l'esca, l'acciarino e la pietra focaia. Trovatala, fece qualche tentativo d'accensione ottenendo molte scintille, nessuna delle quali riuscì a dar fuoco alla miccia scoperta. Frustrata, desistette. «Ehi, non c'è problema» disse Larvey. Tirò fuori un accendino, e con un solo colpo riuscì a produrre una fiamma che fece presa sulla miccia. Elizabeth gli sottrasse l'accendino ficcandolo nella sua borsa in cintura. «Santo Dio, Ralph» disse tutta seria. «Se fa una cosa del genere nella Firenze del 1500, è molto probabile che debbano erigere una targa alla sua memoria.» «Una targa?» Larvey sorrise interdetto. «Una targa su cui sarebbe scritto: "In questo luogo abbiamo bruciato lo stregone inglese Raphael of Larvey".» «Oh, mi dispiace.» Elizabeth chiuse la porta triangolare con uno scatto rassicurante. «Bene, Cuthbert, si parte.» L'avvocato s'infilò in testa la bandella, che poi innestò nella console, cominciando a sistemare i quadranti. Nella semioscurità la giovane lanciò sguardi furtivi a Pellar e a Larvey.
Erano spaventati quanto lei? Assai probabile, pensò. Fece un respiro profondo. All'esterno, oltre i tubi argentei, le pareva di scorgere la sagoma indistinta del colonnello, che continuava a sfumare e poi a tornare più definita. In quel medesimo istante Inman, la tenda, tutto ciò che era all'esterno del tetraedro... baluginò e svanì. 5: Dov'è il 1503? Elizabeth si mise a controllare Pellar che studiava i quadranti con apparente competenza. I giorni sfrecciavano accanto a loro come luci stroboscopiche. La latenza della retina fuse subito tutto quanto in un tramonto grigio. Elizabeth si chinò per esaminare i tre quadranti cronometrici: anno... giorno... ora. 1575... 1570... 1565... 1560. Fin qui tutto bene. Ma... non sta rallentando? No, Cuthbert, non rallentare adesso! Ti stai quasi fermando! S'infiltra dell'acqua! Gli parlò forte all'orecchio. «Cuthbert, continua! Muoviti!» Un colpo. «Cuthbert, hai beccato la grande alluvione del 1558. Continua! Se ti fermi qui, affogheremo!» Si lanciò nella parte posteriore del tetraedro per togliere l'alimentatore dall'acqua. Ci volle un momento perché il messaggio fosse recepito, poi l'associato diede una tale accelerata che la testa di Elizabeth dovette sopportare un colpo di frusta. «Troppo veloce, Cuthbert» gridò. «Rischi di andare troppo indietro!» «Zitta!» replicò lui. «Sto guidando!» Ma finalmente rallentò fino ad arrestarsi. Guardarono all'esterno attraverso le barre d'argento. Erano le prime ore del mattino. La piazza era deserta. C'era soltanto un... uomo?... che giaceva a faccia in giù a qualche metro di distanza. «Ssh...» Elizabeth si portò un dito alle labbra chiedendo agli altri di fare silenzio, e rimase in ascolto. Nessun rumore, da nessuna parte. Annusò l'aria. Sapeva di aspro, era nauseante. Tornò a guardare il corpo mentre la gola le si serrava. Si costrinse a porre una domanda con voce rotta: «Cuthbert, sei sicuro che siamo nella casella temporale esatta?» Lui rispose borbottando: «Sì, direi di sì». «In che anno? Controlla sul cronometro.»
«Controlla tu se sei tanto interessata.» Idiota, pensò Elizabeth. Risistemò l'alimentatore nel suo incastro e stava quasi per avvicinarsi al pannello con i cronometri quando notò un movimento nella piazza. Era un ratto, e sì stava dirigendo verso di loro. Frattanto Pellar, forse influenzato dalla voce incrinata di Elizabeth, era tornato presso i suoi strumenti. «Mille e trecento e quarantotto» si corresse. «Sei contenta adesso?» La sua calma la stupiva. «Cuthbert, portaci via di qui.» L'avvocato le replicò in tono gaio. «Potremmo anche uscire a dare un'occhiata.» «Maledizione, Cuthbert, mi vuoi stare ad ascoltare? Il 1348 è l'anno della Morte Nera. Morì mezza città. Quel tizio laggiù è una delle vittime. E la peste si propaga attraverso le pulci dei ratti. Come quello che sta arrivando proprio adesso. Là!» Glielo indicò. «Cuthbert, filiamocela!» lo sollecitò Larvey. Pellar rimase a guardare a bocca aperta il roditore in arrivo. «Cuthbert?» lo chiamò flebilmente Larvey. Elizabeth s'avvicinò con calma a Pellar, gli sfilò la bandella di controllo dal cranio, e se la calcò in testa. Lui non protestò. Elizabeth dubitava che avesse capito che aveva preso lei il comando. Aggiustò veloce gli indicatori. I motivi a scacchiera cominciarono ad affluire. All'inizio lentamente. Un giorno. Un altro giorno. Poi sempre più veloci. Lampo lampo guizzo guizzo. Una settimana, un mese. Più veloce. Un anno. Visualizzò le linee di collimazione che le si allineavano nel lobo occipitale. L'anno giusto. Il 1503. Controllò il pannello cronometrico. Il mese giusto. Aprile. E poi il giorno giusto e l'ora esatta, pochi minuti prima dell'alba. Eccoli là. Staccò il cavo ma tenne il cerchietto dorato in testa. Pellar le lanciò uno sguardo di odio assoluto. 6: Il Cigno Nero Tenendo ben alta la lanterna, Elizabeth guardò attraverso la struttura tubolare nella piazza in ombra. Nessun movimento da alcuna parte. Nessun suono. Assai presto sarebbe cambiato tutto. Entro pochi minuti sarebbe arrivata l'alba. La sentinella avrebbe aperto le porte della città. Le strade avrebbero cominciato a riem-
pirsi di gente e birocci. Guardò i compagni. «Via libera, ragazzi. Muoviamoci!» Tenne sollevata la lanterna mentre i due uomini svitavano i tubi e li stivavano nel baule della MT. «Bene, adesso svegliamo il locandiere.» Scrollò la maniglia del grande portale borchiato di ferro. «Ehi, è chiuso a chiave» si lamentò Pellar. «E adesso?» «Bussiamo.» Elizabeth afferrò il battente di bronzo che pendeva dalla catena, valutò il centro approssimativo della piastra de! batacchio, e bussò con gagliardia. La porta vibrò risuonando sotto il colpo, e la piazza echeggiò. Bussò di nuovo. E di nuovo. Nel pieno dell'ultimo assalto lo spioncino di fianco alla piastra si aprì e due occhi assonnati sbirciarono fuori. Una bocca nascosta disse con tono stridulo: «Non ci sono stanze... non ci sono stanze... vattene... vattene... via... via!» Elizabeth frugò nella borsa estraendone un fiorino d'oro nuovo di zecca, mentre con l'altra mano teneva levata la lanterna, facendo brillare la moneta. «Ci servirà l'intero primo piano» dichiarò in italiano fluente. Sapeva che, secondo le usanze locali, significava quello che per gli americani sarebbe il secondo piano. «Tutto occupato...» borbottò il locandiere. Ma i suoi occhi non si staccarono dalla moneta. «Quanti clienti?» chiese lei. «Otto.» «Quanto a testa, per notte?» «Quaranta soldi.» «Ti stai sbagliando, oste. So che il prezzo è dieci soldi, regole della Corporazione dei Locandieri. Non c'è problema. Gli restituisci i soldi, dandogli il doppio. Macché, il triplo. Buttali fuori. Per il tuo incomodo tienti il fiorino.» Sentì il cigolio delle sbarre che scivolavano e delle catene che venivano tolte. Il battente si aprì di un pelo. «Signorina, passatela pure, per favore.» Lei fece un passo a destra tenendo la moneta tra pollice e indice. Un braccio nudo e grassottello scattò all'esterno, e la moneta svanì. La porta si chiuse con uno schianto, e dopo un secondo si riaprì grattando sul piancito. Il locandiere, ancora impegnato ad allacciarsi la cintura della tunica, guardò nel cortile. «Dov'è la vostra carrozza?» «Sulla strada per Pisa. Allora, possiamo entrare o no?» «Oh, sì, sì. Entrino, signorina, signori. Moglie, prendi i loro bagagli.»
Elizabeth gli chiese: «Come vi chiamate?» «Antonio, signorina, al vostro servizio. E questa è mia moglie, Anna.» Fecero entrambi una riverenza faticosa. «E chi è che onora così il mio umile albergo, signorina?» domandò il locandiere. «Una delegazione da parte di Sua Maestà Enrico, Re d'Inghilterra» rispose lei con calma. «Vi spiegherò certi particolari al momento opportuno.» «Certo, signorina, certo.» L'oste e l'ostessa fecero migrare i loro occhi avidi sui nuovi arrivati, notando le ricche vesti e specialmente il filo di perle al collo della donna. La moglie trasse da parte il marito per intavolare una discussione concitata. L'uomo poi si volse nuovamente verso Elizabeth con un viso che esprimeva contrizione. «Mi ero dimenticato svariate altre spesucce.» «Quanto?» chiese lei seccamente. «Due fiorini aggiuntivi. Tre complessivamente.» Lei gli porse le monete. «Adesso, Antonio, facciamo che sia l'ultima. Mi addolorerebbe dover fare un rapporto alla Signoria.» Lui era rimasto ad ascoltarla con un certo disagio. «No, signorina, non ve n'è bisogno. Ecco...» Le restituì una moneta. «Vede, per l'amore che porto a Re Enrico, sono pronto a rimetterci.» Col cavolo, pensò lei. Si guardò attorno. Erano entrati nella sala principale, nello stesso tempo cucina con caminetto, sala da pranzo e soggiorno. C'erano parecchie tavole con sgabelli. Tagli di carne e pollame, assieme a ghirlande d'aglio, porri e cipolle erano appesi a dei ganci sulle pareti. Su in alto le galline erano appollaiate lungo le grondaie. Elizabeth respirò profondamente. C'erano le stesse immagini e gli stessi odori del fienile e della cucina della fattoria di nonno Gherardini nel Texas. Era a casa. Notò che i suoi compagni stavano assorbendo con crescente orripilazione la medesima atmosfera. Represse un sorriso. Dall'altra parte della sala, seduto a un tavolo, un uomo dalla barba nera li stava fissando. Anzi. La stava fissando. Oh be', c'era da aspettarselo. Stranieri in città. Stranieri assai strani. Ma anche lui era discretamente strano. Perché di fronte non aveva piatto o coltello. Invece, aveva una scacchiera. Elizabeth si rivolse ad Antonio. «Vorremmo le camere appena possibile.» «Certo! Certo!» Si asciugò le mani sul grembiule mentre sorrideva e-
spansivo. «Mia moglie vi preparerà le camere. Potrebbe esserci un lieve ritardo. Dovrà, ehm, negoziare con ognuno dei nostri clienti. Mentre aspettiamo, gradirebbero del vino, la signorina e i suoi compagni?» «Per il momento decliniamo l'invito. Parleremo più tardi di vino e altre faccende.» «I signori non parlano la nostra lingua?» chiese l'oste. «No, parlano solo inglese. Io interpreto e traduco. Mi chiamo Elisabetta, e sono la figlia dell'ambasciatore inglese a Napoli. Questo gentiluomo è Lord Cutberto di Georgetown, l'altro gentiluomo è Lord Raffaello di Arlington.» «Ah, capisco.» L'oste li osservò con sguardo penetrante, poi tornò a Elizabeth. «Siete qui per vedere... lui.» «Lui?» Sapeva esattamente chi intendeva. «Leonardo, signorina. Uomini importanti, ricchi signori vengono sin qui per lui. Maestro, lo pregano, dipingi me, ritrai mia moglie, mia figlia, il mio levriere favorito. Ma no, lui dipinge soltanto quel che gli aggrada. Non intendo mancarvi di riguardo, madamigella, ma penso che, anche se cercherete di scovarlo, lui si dileguerà.» «Ma voi lo potreste trovare?» L'oste si strinse nelle spalle. «Forse.» Furono interrotti da uno scoppio di urla, strilli e imprecazioni dalle stanze al piano di sopra. 7: Una vista sul fiume Il locandiere sorrise con fare di scusa ma non levò lo sguardo. «La mia brava moglie sta trattando i risarcimenti. Le vostre camere saranno pronte abbastanza presto.» «Cos'è tutto quel baccano?» domandò Pellar. «Che cosa succede?» Elizabeth gli indicò una processione rumorosa e desolata che si stava rovesciando giù per lo scalone di quercia: sei uomini, due donne, con nudità ricoperte a vari stadi di decenza. I loro lamenti si spensero quando squadrarono i tre regali visitatori. «I precedenti occupanti» spiegò Elizabeth con calma. «Liberano le camere.» A occhi bassi, gli ex-avventori sfilarono rispettosi davanti ai nuovi arrivati. Due o tre si indirizzarono verso la cucina, gli altri infilarono la porta principale e sparirono.
Elizabeth si rivolse ad Antonio. «Avete agito a modo. Rieccovi il vostro fiorino. In cambio voglio che ci mandiate su svariate bevande e cibarie. Gradiremmo vino rosso, diversi tipi di carne e frutta, assieme a burro, formaggio e pane fresco. Ce la potete fare?» «Certamente, nobile dama.» Mezz'ora più tardi, quando si furono adeguatamente installati al piano di sopra, si riunirono nella camera di Elizabeth, che allungò un pacchetto al locandiere in attesa. «Cinque ducati per voi, Antonio, se lo piazzate nelle mani di Leonardo entro un'ora.» «Consideratelo già fatto, nobile signorina.» E si volse per andarsene. «Aspettate, c'è una seconda questione.» «Oh?» «Riguarda una causa legale. Ci serve un notaio, un membro di spicco nella Corporazione dei Giudici e Notai.» «Un notaio... Hmmm. Ce ne sono parecchi di buoni, signora. Che cosa vi aspettate da lui?» «Riguarda una deposizione legale. Io porrò delle domande a un testimone e Lord Raffaello controinterrogherà. Tutto deve essere fatto secondo certe regole.» «Capisco» fece Antonio. «Lasciatemi riflettere un secondo. Sì, il più adatto per questo genere di cose è probabilmente il signor Rucellai.» «Rucellai? Da quanto tempo fa il notaio?» «Da più di vent'anni, signora mia.» «Viene qui a cena di tanto in tanto?» «Spesso, signorina.» «Gli piace la buona tavola?» «Eccome, eccome.» Molto bene, si stava cominciando a definire il suo profilo. Si immaginò un funzionario compiacente che avrebbe reso i servizi necessari senza fare domande non necessarie e sul quale si poteva fare affidamento affinché passasse la maggior parte del tempo alla tavola di fianco a loro. «Come fa di nome?» «Biagio, per piacer vostro.» «È il nostro uomo, Antonio. Per favore, mandate a chiamare sua eccellenza, messer Biagio Rucellai. Gli potete dire che il nostro grande Re Enrico apprezzerebbe un servizio sollecito.» Dopo che il locandiere se ne fu andato, Elizabeth notò che i due uomini
stavano frugando tra le pietanze poste sul tavolino. La giornata stava cominciando a intiepidirsi. S'accostò alla finestrella per guardare fuori. La piazza del Cigno Nero era in lieve pendenza, tanto che da lì poteva godere di una visione panoramica della città. C'era la grande cattedrale, con la famosa cupola di Brunelleschi. Subito dietro, il campanile di Giotto. E poi l'Arno con i suoi bellissimi ponti. Lungo il fiume, da qualche parte si stendevano i possedimenti di Francesco Giocondo, la cui consorte Lisa sarebbe presto entrata nell'immortalità per mano del grande Leonardo, che aveva giurato di non dipingere più donne, ma poi aveva visto la Gioconda e aveva cambiato idea. Pellar la raggiunse. «Ci dovresti tenere più informati, Elizabeth. Cosa c'era nel pacchetto? E dove va?» «Oh, scusami, Cuthbert. Il nostro ospite sostiene che Leonardo non riceve nessuno. Immaginavo che servisse qualcosa di speciale per calamitare la sua attenzione. Perciò ho preso l'accendino di Ralph e l'ho avvolto in una fotocopia della pagina 41 del fascicolo della MT, bloccando il tutto con un elastico. Un regalo per Leonardo.» «Non afferro» disse Larvey. «È facile, Ralph. Il suo accendino gli rivela che proveniamo dal futuro, e la pagina 41 gli indica come abbiamo fatto ad arrivare fin qui. Anche l'elastico dovrebbe rivelare qualcosa. Farà due più due quattro, e verrà qui. Inoltre, Ralph, le dovrei comunicare che ho mandato a chiamare un funzionario del tribunale. Nel frattempo, faremmo meglio a montare l'IBM. Cuthbert, ti dispiacerebbe infilarlo sotto quel tavolino. Puoi mettere un panno sul tavolo per nasconderlo, ma assicurati che l'obiettivo abbia la visuale sgombra. Ralph, le dispiacerebbe chiudere la porta?» Larvey aveva appena accostato il battente quando si udì bussare dall'altra parte. Aprì uno spiraglio. Era il locandiere. Elizabeth andò alla porta e sostenne una breve discussione con Antonio. 8: Un membro della Corporazione «Che cos'ha detto?» domandò Larvey. «Il notaio è dabbasso. Siamo pronti?» Esaminò con sguardo critico il tavolo al centro dell'ambiente. Pareva che il panno riuscisse a nascondere abbastanza bene il traduttore IBM. Si rivolse di nuovo ad Antonio. «Lo volete far salire, per favore?» Pochi secondi più tardi l'oste tornò con un gentiluomo di bassa statura,
grasso e ben vestito. «Signorina, signore» disse Antonio assai compito. «Ho il privilegio di presentarvi un importante notaio della nostra bella città, l'assai colto, brillante e saggio messer Biagio Rucellai.» «Vi ringraziamo per la vostra gentile assistenza, Antonio» disse Elizabeth, che poi aggiunse con calma alterigia: «Ora ci potete lasciare». Il locandiere fece un ulteriore inchino indi si chiuse la porta alle spalle. Elizabeth si volse verso il nuovo venuto, scrutando in silenzio l'esimio messer Rucellai. Doveva evidentemente essere stata per lui una fatica considerevole salire le scale, tanto che ancora ansimava. Portava il caratteristico cappello quadrato di un legale praticante del Rinascimento, una barba biforcuta volutamente ambigua e infine, più importante di lutto, la veste da notaio, cupa e severa con le sue rigone nere su uno sfondo rosso scuro. Da una spalla gli pendeva, appesa a una tracolla, una bisaccia di cuoio. Gli sorrise sfoderando tutto il suo fascino. «Siamo onorati, messer Rucellai. Io sono Monna Elisabetta di Napoli, figlia dell'ambasciatore inglese della città. Fungo da interprete per questi due gentiluomini, che parlano soltanto inglese. Questo gentiluomo è Lord Cutberto di Georgetown, e l'altro è Lord Raffaello di Arlington.» Il notaio fece un profondo inchino. «Signora... signori.» Elizabeth proseguì. «Siamo giunti qui in delegazione per incontrare un certo cittadino di Firenze.» «Oh, certo. Volete commissionare un dipinto? Una statua?» Elizabeth l'interruppe. «No, nulla del genere.» «No? Ah, capisco. Volete intentar causa a un fiorentino. È così?» «Maledizione, Elizabeth» si lamentò Pellar. «Che cosa sta succedendo? Ho il diritto di saperlo.» Lei gli si rivolse. «Certo che ne ha il diritto, Ralph. Basta che accenda l'IBM. Il telecomando è là sul tavolo. Può mettersi a sedere là vicino alla finestra da dove può vedere bene il terminale. Anche lei, Cuthbert.» Poi, di nuovo al notaio: «Scusate l'interruzione, messer Rucellai. I signori sono stanchi e si vorrebbero riposare». «Certo» rispose lui, interdetto. «Ma voi e io possiamo continuare. Intentar causa, dicevate? No, nemmeno quello. Ci serve semplicemente una deposizione, una dichiarazione giurata da parte di un vostro concittadino. La dichiarazione deve essere rilasciata in presenza di un membro della Corporazione dei Giudici e Notai, in poche parole, voi. Per il documento finale ci servirà il vostro sigillo.» «Non esco mai senza il mio sigillo.» Diede un colpetto sulla sacca di
cuoio. «Eccellente, messere. Ci sono dei piccoli dettagli seccanti, ma sono certa che un funzionario della vostra rilevanza ne sia perfettamente al corrente.» L'uomo s'inchinò. «Naturalmente.» Si guardò intorno nella stanza. «Ma dov'è colui che dovrà deporre?» «Gli è appena stato inviato un messaggero. Lo aspettiamo da un momento all'altro.» Fece una breve pausa. «E adesso, messer Rucellai, veniamo al problema della vostra mercede.» «Mercede? Mercede? Oh, signora, mi ferite fin nel profondo del cuore. I membri della Corporazione sono al servizio di tutti, poveri e ricchi, senza mercede o parcella alcuna.» Le si avvicinò facendo mulinare la cappa in modo che le apparisse ben bene la tasca laterale. «Eppure, signorina, ammettiamo che talvolta, assolutamente senza alcun sollecito da parte nostra e completamente a nostra insaputa, un cliente grato possa insistere per un anticipo modesto... per quanto è nei mezzi del cliente... o della cliente. Un ducato al giorno, in media.» La guardò, in un primo momento con aspettativa garbata e poi sempre più affascinato mentre, con gesti lenti e ipnotici, Elizabeth scioglieva la cordicella della borsa che portava in cintura. Quando sentì il tonfo di una moneta pesante nella tasca della propria mantella, Rucellai soffocò un rantolo. Non era un semplice ducato! Questo era... oro! Un fiorino! Possibile? Raccogliendo tutto il suo coraggio continuò con voce roca: «Due, nel caso si tratti di materia complessa». Clink! Madre di Dio! Chiuse gli occhi. «E per la garanzia di essere soddisfatti in ogni dettaglio, maggiore o minore, per assicurarsi la completa armonia di tutti gli argomenti, previsti e inattesi...» Clink! Messer Rucellai cominciò a sudare copiosamente, e decise di abbandonare il gioco finché stava vincendo. Con un sospiro chiuse la tasca degli emolumenti. «Se la signoria vostra mi permette la domanda, veniamo adesso al nocciolo del problema. Chi è colui che deve deporre?» «Leonardo da Vinci.» Ci rifletté un po' sopra. «Vi devo avvertire, signora, che Leonardo è uomo assai indipendente. Se si rifiuta di venire, vi restituirò...» «Non ve n'è bisogno, messer Rucellai» disse Elizabeth. «E comunque sono sicura che verrà.»
Si sentì bussare pesantemente alla porta. «Entrate!» disse a voce alta Elizabeth. La porta s'aprì. Sulla soglia apparve un uomo alto con la barba, avvolto in un mantello rosato. I capelli grigi gli scendevano sciolti sulle spalle. Toltosi il cappello, si guardò intorno nella stanza con freddi occhi azzurri. Aveva le spalle larghe, e mani sorprendentemente grandi. Elizabeth era dispostissima a credere alle storie che volevano che riuscisse a drizzare ferri di cavallo con le mani nude. I lineamenti del viso erano delicati, patrizi, quasi femminei. Gli occhi dell'uomo si posarono su di lei. 9: Leonardo Per un lungo istante, con candore impudente, le dedicò un attento esame anatomico. Pareva prendesse le misure mentali della gola, dei seni, della vita. Poi di nuovo tornò al volto, stimando le proporzioni di guance, fronte, naso e labbra. Prese a parlare con voce bassa e piena. «Siete molto bella. Vi dipingerò.» Sollevò l'accendino di Larvey. «Quanto lontano, nel tempo?» Messer Rucellai assisteva allo spettacolo a bocca aperta. Elizabeth riuscì a trovare un filino di voce. «Messer Leonardo, non sono bella, e non riesco a immaginare perché mi vogliate ritrarre. A parte questo, e prima che io risponda alla seconda domanda, vi prego di aspettare un momento. Mi chiamo Elisabetta. E questo è Raffaello, ed ecco Cutberto.» Tutti accennarono un inchino. «E conoscerete di sicuro il nostro onorevole notaio, messer Biagio Rucellai.» Artista e legale si scambiarono cenni del capo. Elizabeth continuò. «Messer Rucellai non ha ancora fatto colazione. Il nostro ospite ci ha fornito alcune vivande, tutte poste su quel tavolinetto, con un buon vino toscano. Vi scuseremo, messer Rucellai, mentre farete colazione.» Il notaio afferrò il messaggio. In realtà s'era zavorrato di pane e salsiccia da meno di un'ora, ma non aveva voglia di irritare la sua cliente piena d'oro. Rucellai se ne andò al tavolo e diede inizio alle ostilità. L'attenzione di Elizabeth tornò all'artista. «Messer Leonardo, veniamo dall'anno 2003. Viviamo nel Nuovo Mondo, scoperto da Cristoforo Colombo nel 1492. Ai giorni nostri il Nuovo Mondo è diventato assai popolato, e i suoi inventori hanno fatto grandi scoperte scientifiche. Nel mio pae-
se abbiamo un codice di leggi che garantisce a un inventore un monopolio di diciassette anni sulla sua invenzione. Il nostro governo rilascia all'inventore un documento, un brevetto che certifica il suo monopolio. Certe volte due inventori si contendono i brevetti della stessa invenzione. Il governo deve considerare i fatti e rilasciare il brevetto soltanto al primo inventore.» «E se nessuno dei due è il primo inventore?» «In tal caso nessuno ottiene il brevetto.» Capisce al volo, pensò lei. «Ed è per questo che siete qui?» Sollevò la fotocopia della pagina quarantuno. «Pensate che io abbia inventato la macchina?» «È vero?» «Sì.» Elizabeth respirò a fondo. «Maestro, siete disposto a testimoniarlo? Qui abbiamo uno strumento che registrerà tutto quello che dite, traducendolo in inglese e infine stampandolo.» «Stampandolo?» «Come le pagine dei libri del vostro signor Manuzio.» «Capisco.» Rimase pensieroso. «La vostra civiltà sembra piuttosto avanzata. Bene, lo farò.» «Grazie. Per prima cosa il notaio vi farà giurare.» Si rivolse verso il desco. «Messer Rucellai?» Il notaio si volse, facendo segno con un rutto sonoro di aver compreso il segnale. Pellar fu scosso da un brivido. «Messer Rucellai» riprese Elizabeth «volete per favore far giurare messer Leonardo?» Il notaio si nettò la bocca sulla manica, poi, aiutato da un boccone di montone, bofonchiò una litania polisillabica. «Grazie, messer Rucellai» disse Elizabeth. «Entro breve avremo di nuovo bisogno di voi, per autenticare il nostro registratore.» Leonardo parve perplesso. «Farete giurare una macchina perché dica la verità?» «Qualcosa del genere. L'apparecchio non è soltanto un registratore, ma funge anche da interprete. Traduce le mie domande e le vostre risposte in inglese, di modo che Cutberto e Raffaello possano seguire lo svolgimento della deposizione. Secondo il nostro codice, un interprete deve giurare al pari di ogni altro testimone.» L'artista scosse il capo meravigliato. Elizabeth sì rivolse al notaio. «Per favore, messer Rucellai.»
«Monna?» «Vi prego di far giurare il nostro interprete.» Il notaio si guardò intorno, poi di nuovo fissò Elizabeth. «È sotto il tavolo» gli spiegò lei. «Non lo potete vedere a causa della tovaglia.» «Oh, fanno così in Inghilterra? Come si chiama?» «Signor Ibi Emme.» Il notaio lo chiamò: «Signor Ibi Emme!» Da sotto il tavolo: «Presente!» «Signor Ibi Emme, giurate solennemente di tradurre completamente e accuratamente, nella completezza del linguaggio, da una lingua a un'altra, come richiesto, senza nulla aggiungere e nulla omettere, che Iddio v'aiuti?» «Lo giuro.» «Grazie.» «Prego» rispose il signor IBM. Messer Rucellai scambiò un cenno d'assenso con Elizabeth e tornò al proprio tavolo. 10: La deposizione «Parleremo in inglese a beneficio del patrocinante qui presente» disse Elizabeth a Leonardo «e la macchina IBM tradurrà istantaneamente in italiano parlato e scritto. Messer Larvey seguirà la medesima procedura. Le vostre risposte saranno in italiano, e saranno parimenti tradotte in inglese. Vi soddisfa?» L'artista assentì. «Naturalmente.» Elizabeth iniziò. «Prego, dichiarate il vostro nome per esteso e la residenza.» «Leonardo da Vinci. Vivo nella casa di Andrea Martelli, nella via dei Mattonai, a Firenze.» «Qual è la vostra occupazione?» «Pittore, scultore, ingegnere militare e civile, architetto, inventore.» «Messer Leonardo, vi porgo un foglio di carta che ci pare evidenzi una figura geometrica. La potete identificare?» «Certo, è la copia di una pagina da uno dei miei quaderni.» «E cosa mostra?» «Lo schizzo di una macchina tetraedrica per tornare indietro nel tempo.» «L'ha poi veramente realizzata tale macchina?»
«Sì.» «Quando?» «Nella Pasqua dell'anno 1498.» «Vi prego di descrivere questa macchina.» «Come potete vedere dallo schizzo, era a forma di tetraedro, formato da una struttura di tubi d'argento. Questi tubi erano lunghi quattro braccia.» «Tubi cavi?» «No, erano pieni di acqua speciale.» «Acqua da dove?» «Dal dottor Marcos, un alchimista del posto. Era partito con centomila otri di acqua di pozzo, e nel giro di dieci anni l'ha bollita e ribollita, fino a che non ne sono rimasti che cinque.» «Obiezione» intervenne Larvey. «Testimonianza basata su dicerie.» Elizabeth disse: «Lasciamo che sia la testimonianza a dimostrare che la specifica della parte in causa Rosso descriveva tali residui come fonte di acqua pesante. Continuiamo. Messer Leonardo, cosa era eventualmente associato alla struttura?» «Una serie di piastre alternate di rame e zinco. Le piastre erano di mezzo braccio quadrato ed erano separate da spesso cartonfeltro imbevuto d'aceto. Il complesso era alto circa due braccia. Io attaccai un filo d'argento alla placca superiore, che era di rame, e un altro filo d'argento alla placca inferiore, di zinco.» «Cosa avete fatto con questo complesso di placche metalliche?» «Ho attaccato uno dei fili d'argento all'apice superiore del tetraedro e un altro all'apice inferiore.» «Proseguite.» «Ho stretto in una mano il cubo nero.» «Descriveteci il cubo, per favore.» «Mezzo dito di lato. Pesante per la sua grandezza. Strana consistenza, ricordava quasi la pece. Era stato estratto a Jachymov, in Boemia, ed era stato regalato come rarità mineralogica al duca Ludovico.» «Che la testimonianza dimostri che il testimone ha descritto la pechblenda, o uraninite. E allora, messer Leonardo, come siete arrivato a inventare la vostra macchina del tempo? Qual era il vostro intento?» L'artista ci pensò su a lungo. «Ha a che vedere col Cenacolo.» «Intendete L'Ultima Cena?» «Il Cenacolo, sì. Il duca Ludovico mi chiese di dipingerlo per i frati domenicani nel loro monastero di Milano, e io cominciai i preparativi nel
1495.» «Quando l'avete terminato?» «Nel '98.» «Ci furono ritardi?» «A dire il vero, a parte due volti, il lavoro fu terminato entro il primo anno.» «Quali volti?» «Quello di Nostro Signore... e di Giuda. Non riuscivo a visualizzare la divinità dell'uno, né la malvagità dell'altro. Perciò tergiversai.» «Ma alla fine siete riuscito a visualizzarli?» «Li vidi. Tutti quanti. Gesù e i dodici.» Elizabeth s'accigliò. Che cosa stava dicendo? Leonardo proseguì. «È per questo che ho realizzato il tetraedro del tempo. Per poter tornare indietro.» «A quando? E dove?» «Alla sala superiore dell'Ultima Cena. Circa 1.500 anni fa. Li ho visti tutti. Poi sono tornato a Milano per completare i volti.» «Così ha scoperto...» Ma le parole le s'incepparono a metà frase. Ferma lì! pensò. A parte l'ultimo viaggio in Francia, dove morì, non vi era registrazione del fatto che avesse mai lasciato l'Italia. Eppure... eppure... sapeva che stava dicendo la verità. Nell'anno della Crocifissione era stato a Gerusalemme. Come? Com'era riuscito in quell'impresa impossibile? C'era soltanto un modo. Aveva costruito la macchina a Milano, e da là s'era spostato quasi istantaneamente nel tempo e nello spazio! Quell'uomo aveva compreso delle cose sulla MT che andavano ben oltre le loro immaginazioni più sfrenate. I compagni di Elizabeth la stavano guardando in silenzio. L'espressione di Pellar indicava che era semplicemente curioso sul perché si fosse bloccata. La bocca di Larvey era piegata in un sogghigno sardonico. Lui sa, pensò Elizabeth. L'ha capito quasi nello stesso momento in cui l'ho capito io. Sei in gamba, Ralph. Riprese lentamente. «Siete disposto a testimoniare, Maestro, di aver visto Gesù e i dodici apostoli durante la, chiamiamola così, Ultima Cena originale a Gerusalemme, nell'anno 33 dopo Cristo?» «Sì, tranne che era l'anno 29 dopo Cristo. I primi padri della Chiesa sbagliarono il calcolo dell'anno della Sua nascita.» «Siete stato realmente là?» «Sì.»
E adesso Pellar si stava svegliando. Le lanciò uno sguardo d'avvertimento. Te lo dicevo che mentiva! Marcia indietro! Interessante. La faccia di Larvey trasmetteva il messaggio diametralmente opposto: Bene, Gerard! Continua così! Ci sei dentro già fino al collo. Manda tutto a puttane! Forse Cuthbert ha ragione, pensò lei. Forse dovrei mollare finché sto vincendo. Ma allora percepì il sarcasmo muto di Larvey. Muto? No, era assai loquace: Sei una femmina debole, timorosa, incompetente. OK, Ralphie, basta così! Di nuovo si rivolse all'artista. «Messer Leonardo, quanto dista Gerusalemme da Milano?» Lui le regalò un sorriso di congratulazione. «A volo d'uccello, circa 650 leghe.» Larvey incrociò le braccia e socchiuse gli occhi. Elizabeth chiese con fatalismo impassibile: «Come avete fatto a portare la macchina a Gerusalemme?» «Forza di volontà, monna.» Forza di volontà? Con una risposta del genere, forse il suo testimone aveva rovinato ogni pretesa di credibilità ottenuta con tanto sforzo. Non posso mollare adesso, pensò lei. «Forza di volontà, messere?» «Non è gran cosa, signora mia. Con un po' di pratica, anche un individuo maldestro di intelligenza media ci può riuscire.» «Spiegatevi, per favore.» «Sì. I miei studi sui cervello umano indicano che ciascuno dei due emisferi ha una sua serie di funzioni specifiche. Quello destro controlla la parte sinistra del corpo. Controlla inoltre il nostro senso degli schemi, delle geometrie, delle strutture visive, delle dislocazioni spaziali. Sono sicuro che tutto ciò è ben noto ai vostri medici e sapienti che lavorano sulla mente. Non è così?» «Recentemente sono stati conseguiti molti progressi» confermò Elizabeth. «Continuate.» «Bene, per prima cosa montai la macchina.» «Dove?» «Nel mio studio a palazzo Sforza, a Milano.» «E poi?» «Collegai i fili, strinsi forte il cristallo nero e poi mi concentrai per muovermi sia nel tempo che nello spazio. Avevo già deciso che il viaggio verso la Gerusalemme dell'anno 29 dopo Cristo doveva essere compiuto
con movimenti di due anni e tre mesi per ogni lega. Volete l'itinerario?» «Se non vi dispiace.» «Bene. Oltre Firenze, poi lungo la dorsale appenninica, poi oltre Ravenna attraverso l'Adriatico, oltre il canale d'Otranto. Poi sulla Macedonia e la terra degli Ottomani. In seguito, il mar di Creta. Adesso siamo circa nell'anno 765, e sono a metà strada. Atene, in questo momento parte dell'Impero Bizantino, è la prossima tappa. Poi nel Mediterraneo orientale, o Mare Internum, come lo chiamavano i romani. Al momento in cui supero Rodi, sono nell'era dei Cesari. Di colpo siamo nel I secolo, e mi trovo a Gerusalemme. Individuo il giardino dei Getsemani, dove lascio il tetraedro. Era il periodo della Pasqua ebraica, e c'era una gran confusione. I cuochi e i servi mi ignorano, perciò prendo un grembiule. Salgo quelle scale.» Fece una pausa, come se ripensasse a quanto aveva visto in seguito, poi fece un respiro profondo. «Tutto finì nel giro di un'ora.» Elizabeth gli domandò: «E così avete trovato quel che cercavate? Gesù? E Giuda?» «Sì, li ho trovati, ma non ho capito cos'ho trovato. Giuda? Guardai quel viso, e stavo cercando il Male. Non so. Era il volto dell'orrore, della disperazione.» «E Gesù?» chiese guardinga Elizabeth. L'artista alzò gli occhi al soffitto. «Non mi è facile parlarne. Quando Giuda lasciò la tavolata, vidi il volto di Gesù che mi serviva per il Cenacolo: una tristezza sublime. Era il volto che mi sforzavo di dipingere. E fallii. Quel viso sfidava ogni riproduzione.» «Messer Leonardo, quando siete tornato da Gerusalemme a Milano, che cosa ne avete fatto della macchina?» «L'ho distrutta. La mia intromissione fu un fatto terribile. Mai più.» «Grazie, Maestro. Con questo ho concluso il mio interrogatorio. Vuole controinterrogare, signor Larvey?» «Sì, grazie, signorina Gerard.» Si volse verso l'artista. 11: Il controinterrogatorio di Larvey «Soltanto un paio di brevi domande, messer Leonardo.» Si mise a braccia conserte mentre aspettava la traduzione. «È disposto a testimoniare che ha viaggiato 1.500 anni nel tempo e circa 650 leghe per terra e per mare, il tutto all'interno di una fragile gabbia di metallo?» L'artista rifletté un attimo. «Piuttosto incredibile, vero? Eppure è di sicu-
ro molto più probabile della vostra pretesa di essere arrivati sin qui da un tempo che non esiste.» «Io... bene allora, quest'Ultima Cena. Vi hanno visto?» «Non mi prestarono attenzione. Avevo addosso un grembiule e gli portai un vassoio con il pane.» «E uno spicchio di limone?» «Limone?» «Nelle copie che ho avuto modo di vedere del dipinto, c'è uno spicchio di limone sul tavolo. Comprendete che i limoni non furono introdotti nell'area del Mediterraneo prima del XII o XIII secolo?» «No, non lo sapevo.» «E ha disposto tutti da una parte soltanto del tavolo. Non era veramente così, vero? Erano disseminati tutto attorno al tavolo, no?» «Nella stanza di sopra erano disposti ad ambo i lati del tavolo. Ma nel dipinto li ho messi tutti frontalmente di modo che i monaci ne potessero vedere i volti.» «E in questa cosiddetta stanza di sopra, erano effettivamente seduti su una panca?» «No, sedevano sul pavimento, sopra stuoie di vimini.» «Il dipinto allora mentiva?» «No. Era più facile vederli se stavano seduti sulle panche.» «Davvero Giuda posò sul tavolo il suo sacchetto con i denari d'argento?» «No, era un gesto simbolico.» «Così c'erano molte differenze tra quel che avete visto, o pensato di vedere, e quel che avete dipinto?» «Sì.» Larvey ridacchiò. «Siete un gran bastardo, vero, Leonardo?» «Obiezione» intervenne indignata Elizabeth. «L'avvocato patrocinante sta insultando il testimone.» Leonardo scrollò le spalle. «Oh, non sono offeso, monna. È vero, sono nato fuori dal vincolo coniugale, ma onoro entrambi i miei genitori. Soprattutto sono assai fiero di mia madre Caterina. Faceva la servetta in una locanda dove mio padre sostò una notte. Quell'incontro diede vita a un amore appassionato, ma mio nonno da Vinci impedì le nozze. Perciò, nel 1452, nacqui illegittimo.» «Messer Leonardo» riprese Larvey «avete ammesso la vostra nascita illegittima, e avete ammesso delle falsità nei vostri dipinti. Aggiungo che non siete soltanto un bastardo, ma un bastardo menzognero.»
«Obiezione» dichiarò Elizabeth. «L'avvocato sta di nuovo insultando il testimone. Se continua di questo passo, signor Larvey, sospenderemo la deposizione sulla base di una condotta fortemente scorretta della parte in causa Rosso.» «Posso provare le menzogne, signorina Gerard.» «Allora lo faccia.» «Lo farò. Messer Leonardo, avete riempito un certo numero di quaderni con disegni e commenti scritti?» «Sì.» «Ma la vostra scrittura non è di lettura agevole.» «Io riesco a leggerla.» «Però il profano ha bisogno di uno specchio. Perché scrivete in modo ingannevole, da destra a sinistra?» «Vado da destra a sinistra perché sono mancino. È il modo per me più facile.» «Passi» ammise Larvey stizzito. «Disegnavate dal vero, messer Leonardo?» «Preferibilmente.» «Però vi piaceva disegnare demoni e draghi.» «Talvolta.» «Avete mai visto un demone o un drago?» «No.» «Sono vostre semplici immagini mentali... illusioni?» «Sì.» «Come le vostre illusioni di aver costruito una macchina del tempo per andare in gita a Gerusalemme?» «Obiezione» protestò Elizabeth. «Ritiro la domanda e con questo ho completato il controinterrogatorio.» «Non ho altre domande da porre» disse Elizabeth. «A quanto pare abbiamo finito, messer Leonardo.» Il fiorentino si alzò in piedi. «Perciò adesso tornerete assieme ai vostri amici?» «Sì, domani.» «Mi ci vogliono settimane... per dipingere un volto di donna.» «Lo so.» Leonardo sospirò. «Bene, sarà così. Avete detto che abbiamo finito? Posso andare?» «Aspettate che controllo.» Si rivolse a Larvey. «Credo che la stampata
sia finita. Volete che lo legga e firmi?» «No, voglio che vi togliate dai piedi.» «Messer Leonardo» riprese lei «avete il diritto di leggere e firmare il verbale. Volete farlo?» «No, preferirei di no, però vorrei vedere che aspetto ha.» «Certo. Per favore, avvicinatevi. Lasciate soltanto che metta un'altra comunicazione a verbale.» Parlò lentamente. «Le parti in causa e il testimone rinunciano alla lettura e alla firma.» Attese un istante, poi estrasse il blocco pieghevole dal cestino della stampante. «Questo è il verbale. Vedete, due colonne, in italiano e in inglese. Tutte le nostre domande, tutte le vostre risposte.» «I miei omaggi» fece lui a voce bassa. Lo guardarono in silenzio mentre si chiudeva piano la porta alle spalle. 12: Mozione di rigetto Elizabeth parlò a voce alta in direzione del tavolino. «Messer Rucellai, ci potete raggiungere un istante?» Il notaio s'avvicinò, con una costoletta di montone in una mano e mezzo cappone nell'altra. «Adesso ci serve una vostra certificazione» gli spiegò lei «che attesti che avete debitamente sottoposto a giuramento messer Leonardo prima che cominciassimo la deposizione.» «Di facile disbrigo, monna.» «Vuol dire che avete con voi questo modulo?» «Invero.» Appoggiò la costoletta e la coscia di cappone sul tavolo, si pulì le mani sull'abito e recuperò un fascio di fogli dalle pieghe della mantella. «Vediamo. Sfratto, divorzio, denuncia per debiti, atti per la vendita di un fondo, ah, eccoci, certificato di deposizione.» Elizabeth lo lesse con attenzione. «Molto bene, messere. È perfettamente conforme. Volete per favore inserire il nome di messer Leonardo, poi firmarlo e datarlo e imporre il vostro sigillo? Devo chiamare per la penna e l'inchiostro?» «Non serve, monna.» Da un altro anfratto del suo vestiario estrasse una scatoletta d'avorio, e da quest'ultima un calamo e un flacone tappato pieno di liquido nero. Riempì il punti lasciati in bianco con gesti aggraziati poi scrollò il foglio per far asciugare l'inchiostro, e infine estrasse il sigillo dalla tasca di cuoio premendolo su un angolo del modulo. «Nient'altro, mon-
na?» «No, direi che è tutto.» L'uomo guardò la costoletta e il pollastro mezzi mangiati. «La prego» disse Elizabeth. Lui li raccolse, poi osservò il tavolo e la tovaglia. «Posso salutare messer IBM?» «Certo.» Il notaio si rivolse al traduttore invisibile. «Arrivederci, messer Ibi Emme.» Da sotto il tavolo provenne una risposta. «Arrivederci, messer commendatore notario. Sono stato molto lieto di fare la vostra conoscenza. Tante cose alla famiglia!» «Piacere mio! Salve!» Il fiorentino andò alla porta. «Che cacchio si stavano dicendo?» chiese Pellar. «Si stavano solo salutando» spiegò Elizabeth. La porta si chiuse alle spalle di Rucellai, e i tre rimasero soli. «Siamo ancora in registrazione?» chiese Larvey. Lei guardò la luce verde sull'IBM. «Si.» Larvey proseguì calmo. «Propongo di cancellare l'intera deposizione.» Elizabeth e Pellar si guardarono. L'aspirante socio si strinse nelle spalle. Quella scrollata negligente stava a significare: «Elizabeth, tu ci hai ficcato in questo guaio, e sta a te togliercene». Lei disse: «Signor Larvey, vuole per favore esporre la base della sua mozione?» «Certamente. È a conoscenza del 12 CFR 1.674(b)(3)?» «Sono a conoscenza dei contenuti della sezione. Una persona che è dipendente o agente di una parte in causa non è qualificabile per fungere da cancelliere in una deposizione. E allora?» «Un interprete è considerato un cancelliere di tribunale. L'interprete IBM è di vostra proprietà e posto sotto il vostro controllo. Quindi vostro dipendente e agente. Quindi non qualificabile.» Le sorrise. «La proprietà non rende la macchina né nostro dipendente né nostro agente. In ogni caso, l'IBM non è una persona dal punto di vista indicato dalla sezione CFR attinente.» «Ha un'IA di terzo livello» controbatté Larvey. «Abbastanza da conferirgli una personalità, e una personalità prevenuta, al riguardo.» Valutò pensierosa il suo avversario, dicendosi che quello era un uomo amaro e vendicativo, che sapeva che la sua unica risorsa, a quel punto, era
tentare di screditare la registrazione. «Signor Larvey, quando ha scoperto la mancanza di requisiti nell'interprete IBM?» «Sin dall'inizio.» «Signor IBM, vuole per favore citare il 37 CFR 1.685(c) al riguardo del signor Larvey?» «Certo. "Ogni errore o irregolarità nel modo in cui una testimonianza è gestita dal cancelliere è respinta a meno che la mozione di rigetto non sia stata registrata appena l'errore o irregolarità è stato scoperto."» Elizabeth sorrise condiscendente. «Signor Larvey, se mai ha avuto il diritto di rigettare, lo ha perso non presentando la sua mozione all'inizio della deposizione.» Fece una pausa. Silenzio. «Seconda controreplica, signor Larvey?» Lui le lanciò una strana occhiata. Per una volta lei fu felice della presenza di Pellar nella stanza. Intuì che Ralph Larvey avrebbe ardentemente desiderato spaccarle la testa. L'avvocato si volse verso la finestra senza replicare. Elizabeth si rivolse quindi all'IBM parlando con voce bassa e monotona. «La parte in causa Rosso non offre controreplica. La procedura è terminata.» E aggiunse: «Credo che possiamo scollegare la macchina. Ci serve tutto quel che rimane nell'alimentatore per il viaggio di ritorno.» Si piegò per premere il pulsante. Il piccolo LED verde si spense. E adesso? Sì avvicinò al tavolino, quasi del tutto vuoto. Messer Rucellai s'era dato da fare. Dove l'aveva messa tutta quella roba? Non aveva fame, ma doveva mettere in ordine per i due uomini, in adempimento dei propri doveri femminili. Non che quelli si meritassero nulla. 13: Il ponte Si aggregò a Pellar per la cena nel salotto adiacente. Era una sera frizzante, tanto che aggiunse un paio di ceppi di quercia al focolare, prima di sedersi a tavola. Pellar era di umore espansivo. «Bene, Elizabeth, ce l'ho fatta. Ho vinto. Sarò socio.» Lei inspirò profondamente. Controllati, Elizabeth! «Dov'è Ralph?» «Tiene il broncio nella sua stanza, probabilmente impegnato a complottare qualche perfidia.» Ispezionò la tavola. «Non ci sono forchette?» «Le forchette non saranno inventate prima di cinquant'anni. Usa le ma-
ni.» «Maledetti cavernicoli» borbottò Pellar. Staccò una coscia dal cappone arrosto e cominciò a mordicchiarla. «Buona questa roba, Elizabeth.» «Cuthbert» gli disse serafica «se riusciamo a impedire a Rosso di ottenere il brevetto, sarà in gran parte grazie alla mia opera. Io ho trovato le pagine di quaderno relative, io ho localizzato Leonardo, io l'ho convinto a testimoniare e io ho guidato la deposizione.» Pellar posò la coscia mezzo mangiata sul piatto, si pulì le dita sulla tovaglia, bevve un sorso di vino e studiò con giudiziosi occhi maschili la sua compagna recalcitrante. «Certo, Elizabeth, certo. Mi sei stata di grande aiuto. Perciò rilassati e goditi la cena.» Da brava ragazza, pensò lei. «Cuthbert, grazie al mio lavoro presto sarò socia, con un grande ufficio d'angolo da dove si potrà vedere il fiume, e con un codazzo di segretarie e praticanti consociati. Se c'è qualcuno che si merita di diventare socio, quello sono io.» Lui la guardò stupito, poi farfugliò: «Ma, Elizabeth, tu sei una donna!» Lei si alzò in piedi malcerta. «Penso che andò a far due passi.» Meditabonda, s'addentrò nelle vie deserte del tramonto, lasciando che piedi e pensieri andassero dove meglio gli piaceva. Le stradine, per lo più semplici vicoli, erano coperte da ballatoi di legno che formavano un arabesco contro il cielo che s'andava oscurando. Superò la bottega di scultore dove il giovane Leonardo aveva fatto pratica presso il grande Verrocchio. Gli storici dell'arte affermavano che l'Alto Rinascimento, la terza maniera, era nato tra quelle mura. Sospirò e proseguì. Potresti anche fare buon viso a cattiva sorte, si disse. Te ne vai con la coda tra le gambe, seguirai Pellar fino al tuo ufficietto presso i cessi degli uomini e alla fine ti togli dalle scatole. Si fermò, guardandosi attorno. Stava imbrunendo. S'era persa? No, aspetta, ecco l'imboccatura di un ponte. Dev'essere il Ponte Vecchio. Molto vecchio, a dire il vero. Gli archi delle fondamenta erano stati eretti dai romani. A valle (lo sapeva), su entrambe le rive dell'Arno, cominciavano i possedimenti estesi di Francesco del Giocondo, il marito di Monna Lisa. Oh, signora mia, come ti vorrei conoscere! Guardò lungo il fiume, ma era troppo buio per vedere alcunché, a parte una mezza dozzina di lanterne in mezzo al fiume. Pescatori, di notte? Un
po' strano. Ma non le importava più gran che. Tornò alle arcate, si tolse le ciabatte e le gettò oltre il parapetto di pietra. Poi s'arrampicò sulla spalletta, lanciò un grido e si lasciò cadere. 14: Francesco Sbatté le braccia, ora sotto ora sopra la superficie agitata. I suoi sforzi furono inutili. Anche se avesse cambiato idea, scegliendo di vivere, sapeva che non era più possibile. Si risvegliò bruscamente. Le bruciava la gola, la pancia doleva. Sentiva un guizzo di calore alle guance. Cercò di tirarsi su a sedere, ma ricadde con un grugnito sui cuscini della grande poltrona. Avvolta nelle coperte, Elizabeth si trovava di fronte un caminetto, crepitante di fiamme. Qualcuno parlò alle sue spalle, una voce maschile, autoritaria ma gentile. Colse le parole: «Guardate se è sveglia». Il volto di una ragazza, una fanciulla di dieci o dodici anni, la fissò, uscendosene poi con un sorriso allegro. «Sì, padre, si sta svegliando!» Elizabeth fece una smorfia mentre i muscoli del diaframma si contraevano in un crampo. Sotto le coperte, si portò le mani al ventre scoperto. Sono nuda. Cercò di voltarsi verso l'uomo. «No, monna» fece lui subito. «Non vi muovete. Raddrizzeremo noi la poltrona.» Delle forme umane si materializzarono dal nulla e sollevarono la poltrona girandola con la schiena al caminetto. Un uomo si fece avanti con un inchino. «Monna, il mio nome è Francesco.» Era un uomo alto, sui quarant'anni, con capelli scuri e folte sopracciglia nere. Lei immaginava che braccia e spalle fossero possenti. I suoi occhi caldi e intelligenti le studiarono il volto. Fece segno col capo a un ometto magrolino con una gran testa di capelli canuti e un manto nero che sembrava ingoiarlo tutto. «Questo è il dottor Marcos, che vi ha riportata alla vita.» Il dottore si inchinò pieno di modestia. (Marcos? L'alchimista di Leonardo? Oh, dottore, come ha potuto?) Ma Elizabeth si contenne e chinò il capo in silenzio. Adesso capiva perché le faceva male la pancia. Marcos aveva messo in opera il sistema allora in voga di respirazione artificiale: l'avevano legata su un cavallo spingendo al trotto in tondo il povero anima-
le fin quando non era stata sputata tutta l'acqua contenuta nei polmoni. «Mia figlia Dianara» riprese il padrone di casa. La bambina fece una riverenza. Elizabeth annuì gravemente. «E il mio soprintendente, Luca, con sua moglie Lucrezia. Becco, che dà una mano nelle scuderie, e Maria, la miglior cuoca di tutta la Toscana.» Annuì correttamente, e intanto pensava: «Francesco... Dianara...? Possibile?» Sussurrò con voce arrochita: «Francesco del Giocondo?» «In persona, monna.» «La vostra signora» si lasciò sfuggire. «Monna Lisa? Non è presente?» Lui la guardò accigliato e perplesso. «Monna, sono vedovo. Non c'è alcuna monna Lisa nella mia casa.» Sotto il pallore, Elizabeth arrossì. Dio mio, che faux pas! Non l'ha ancora incontrata. «Oh, scusatemi...» La sua confusione lo mise in imbarazzo. «Non siete di queste parti?» «No, il mio nome è Elisabetta. Vengo da Napoli.» «Cos...? Oh, Napoli!» disse Giocondo. «Certo! Siete l'interprete che è arrivata con gli inglesi, al Cigno Nero.» Era un chiaro invito a parlare, ma lei non era dell'umore giusto. «Dovrei tornare» disse. «Monna Elisabetta» disse Giocondo pensieroso «il coprifuoco è già cominciato da un pezzo. Per questa notte dovrete stare qui.» Aveva ragione. «Posso inviare un messaggio alla locanda?» «Si può fare. Un corriere a cavallo con spada e pistola innescata scorterà il buon dottore alla sua residenza e proseguirà fino alla locanda. Che messaggio dobbiamo recapitare?» «Basta annunciare che sto bene e che sarò di ritorno al mattino.» «Sarà fatto. E mentre do le consegne, il dottore desidererebbe che beveste del vino. È un rosso di Cipro, spesso e insaporito con pistacchi e chiodi di garofano. Dopodiché vi porteremo di sopra nella vostra stanza.» Le porse una coppa d'argento, mezza piena. Era tiepida al tocco. Bevve un sorso. Era delizioso. Era ancora vagamente sveglia quando qualcuno le prese la coppa di mano, la sollevò, rassettando pudicamente la coperta fino alla gola, e cominciò a salire le scale con lei in braccio. Messer Francesco, pensò nel sonno, hai un magnifico odore di maschio. Fu posata delicatamente su qualcosa di morbido. Qualcuno, la cuoca, le stava infilando una camicia da notte, rincalzandole le lenzuola fino al mento. Sentì le parole sgomente della bambina: «Oh, Maria, com'è bella. Pensi
che si tratterrà?» La voce in risposta suonò dubbiosa. «Sarà come Dio vorrà. Vieni, bambina.» S'addormentò. 15: Monna Lisa Un rumore, rumori, piuttosto, la risvegliarono. Si mise in ascolto dei suoni. Provenivano dal piano di sotto. Erano rumori di cucina. Tegami e padelle. Posateria. Si ricordò che non aveva più mangiato niente dal giorno prima. Con o senza invito, sarebbe scesa in cucina. Dove le avevano messo i vestiti? Guardò verso l'alcova coperta da tendaggi. Presumeva che fosse in realtà uno spogliatoio, si sperava provvisto di ritirata e bacinella per le abluzioni. Andò a piedi nudi fino all'angusto anfratto, scostando le tende. Nella luce fioca vide che i suoi vestiti erano stati lavati, asciugati, stirati in alcuni punti con un ferro caldo e appesi con gran cura a delle grucce di legno. Niente scarpe, ma c'era un paio di pantofole nuove nuove, evidentemente della misura esatta. Aprì il coperchio della ritirata. Il vaso conteneva del liquido profumato. Violetta? E là, sulla tavola, c'era un rotolo di morbida carta di lino. Sospirò. Ah, quel Francesco! È per lui che monna Lisa sorrideva? Veramente curioso. Dov'è Lisa? Non l'ha ancora conosciuta. Però tutte le cronologie la situano in questa casa, adesso. Si tolse la camicia da notte rivestendosi alla svelta. Ravviò il più possibile i capelli con un pettine e una spazzola che aveva trovato sul portacatino. Si esaminò nello specchio dello spogliatoio. Bruttina ma in ordine. Ritornò nella stanza guardandosi intorno, la sua fascia era appoggiata su un comodino presso il letto. La raccolse, rimettendola sulla fronte. Fu a quel punto che le venne in mente. Rimase senza fiato, poi si afferrò il ventre sforzandosi di respirare. Lo vide nella sua interezza: uno scenario completo. Sposerà quel brav'uomo, andrà a letto con lui, le sue mani, la sua bocca la percorreranno, toccandola, sfiorandola, carezzandola, baciandola... Lei rifulgerà, radiosa come la Luna piena. Sarà bella, in verità. In verità, poserà per Leonardo. In verità, ci sarà un meraviglioso ritratto, che sarà esposto poi al Louvre. Chi è monna Lisa? Sono io. Non così veloce, Elizabeth!
C'era solo un piccolo problema: secondo le storie comprovate, monna Lisa avrebbe accompagnato il marito durante un viaggio nell'Italia del Sud a quaranta mesi da adesso, e là sarebbe morta di febbri. Be', che sia. Almeno quei quaranta mesi li avrebbe passati tra persone che l'amavano. E non era finita. La tradizione le regalava anche una gravidanza e un figlioletto. Così, futura monna Lisa, si vada a incominciare. Ancora col fiato mozzo, si pizzicò leggermente le guance, tanto per dargli un pochetto di colorito. Poi aprì la porta e uscì nel corridoio. Ne sentì immediatamente l'odore. Caffè! Così presto in Italia? Scese lentamente le scale. Sotto sentì dei passi affrettati. Evidentemente avevano appostato qualcuno per vedere quando lei arrivava. E subito dopo ecco Francesco Giocondo ai piedi della scala, con le braccia protese in un ampio saluto gioioso. «Monna Elisabetta! Buongiorno! Come avete dormito?» Gli sorrise. «Ho dormito meravigliosamente, messer Francesco.» «Allora sediamoci un momento per bere qualcosa, con pane e miele... o quel che preferite.» Si sedette sulla panca dall'altra parte del tavolo rispetto all'uomo. Maria le arrivò appresso con piatto, coltello e cucchiaio. «Cosa bevete, madonna?» le chiese gentilmente. «Latte? Vino? Acqua?» Elizabeth osservò il liquido scuro nella coppa di Francesco. Come lo chiamavano? Non caffè. Quello veniva dalla parola francese café, di un secolo posteriore. «Cosa state bevendo, signore?» gli domandò. «Si chiama moca. L'hanno portata i veneziani, in forma di baccelli, dal porto arabo di Mocha. Maria tosta i fagioli e li macina, poi ne fa un infuso con l'acqua bollente. È una novità. Aiuta a svegliarsi al mattino.» «Davvero? Posso berne un sorso?» «Certo.» Le allungò la coppa. «State attenta. È caldo, e lo potete trovare un po' amaro.» Lo assaggiò. «Ah!» Restituì la coppa a Francesco, poi guardò Maria che le stava appresso. «M'è piaciuto, Maria. Me ne potresti versare un po', casomai in una coppa più piccola, con tanto così di latte?» «Subito, madonna!» Tornò immediatamente. Elizabeth recuperò la ciotola del miele e ne versò dentro la coppa una cucchiaiata. Francesco l'osservò con grande interesse. «Posso assaggiare, signora?»
Lei gliela porse, e lui l'assaggiò rumorosamente. «Oh... buono, buono! Latte e miele migliorano assai il gusto!» Elizabeth piazzò burro e gelatina d'uva sul pane e cominciò la migliore colazione che avesse mai fatto dai tempi del Texas. E, mentre era lì con lui, poteva chiarire qualche particolare. «Messer Francesco, riguardo all'altra notte. Vi dispiacerebbe se facessi qualche domanda?» «Proseguite pure!» Lui si sporse in avanti, interessato. Che mi venga un colpo, pensò lei. È lui quello che dovrebbe fare delle domande, come, per esempio, signorina, come mai vi siete trovata nel fiume? Ma non vuole ficcare il naso. Bevve un lungo sorso di moca, poi espirò lentamente. «Messer Francesco, voi eravate sul fiume in ora piuttosto tarda, ieri.» «Sì, madonna, la pesca dopo il tramonto è insolita. È difficile vedere alcunché, anche con delle buone lanterne. Però ieri era una notte speciale.» «Speciale?» Francesco estrasse un foglietto di carta dalla tasca e glielo porse. Lesse: Pescatore! Stanotte la Casa di Venere si trova nel segno dei Pesci. «Il vostro oroscopo?» Lui annuì. «Il dottor Marcos.» Gli restituì il foglietto. Le cose si stavano chiarendo. «Prego, continuate. Pesci?» «Forse pesci. E c'era sempre il problema di Venere. Come ricorderete, è nata dalle acque. Però l'unica acqua da queste parti è l'Arno. Così, monna Elisabetta, più che altro per la mia grande curiosità, mi ritrovavo sulla sponda del fiume a guardare i nostri pescatori. E di sicuro vi hanno tirata fuori dalle acque.» Lei sorrise. «Sono molto lieta che siate andato a pesca, messer Francesco.» «Io altrettanto.» Si concesse una pausa, poi: «Dobbiamo fare qualcosa per i nomi. Io sono semplicemente Francesco». «E gli amici mi chiamano Lisa.» D'ora in poi, che sia così! «Lisa» mormorò l'uomo. Assaporò la parola, come se stesse assaggiando un vino nuovo. «Sì, Lisa, mi piace molto. Monna Lisa.» Era ufficializzato. Poi riprese con voce tranquilla: «Suppongo dobbiate tornare dai vostri amici questa mattina. Ordinerò subito che preparino una vettura. Nel frattempo, ci resta il tempo di mostrarvi la mia dimora?»
«Finché vogliamo. E mi piacerebbe rivedere Dianara.» 16: I fiori «Questa è la camera da letto principale» spiegò Francesco, indicando il gigantesco letto a baldacchino al centro della stanza. «Dianara è nata in quel letto. Al presente è inutilizzato. La camera della piccola era dietro quella porta.» Aprì una delle doppie porte sulla parete orientale, e uscirono in un vasto porticato che correva per metà della lunghezza della casa. Francesco indicò una chiazza brillante di luce su una collina lì a fianco. Lei rimase senza fiato per la bellezza. Lui la guardò sorridendo. «L'alba arriva per prima in quel varco tra le colline, e copre quel declivio, dove vedete i fiori. Dianara adora andarci a passeggiare, e riporta a casa decine di mazzolini, ma per ogni fiore che recide, altri dieci ne spuntano.» Udirono il rumore di una gola che si schiariva nella camera alle loro spalle. Quando si voltarono videro Dianara con un cestino pieno di iris. La bambina fece un profondo inchino. «Sono per voi, signora.» Elizabeth era raggiante per il piacere. Mentre allungava le mani per accettare il cestino, notò che i piedi della piccola erano bagnati. Era evidentemente andata per campi a piedi nudi per non rovinare scarpine e calze. «Come sono belli!» Per un impulso improvviso si chinò a baciare la bambina sulla bocca. Dianara le si aggrappò al collo, restituendole rumorosamente il bacio, poi corse fuori dalla stanza, canticchiando: «Rimarrà! Rimarrà!» Elizabeth guardò le impronte di piedini nudi sul folto tappeto, poi con fare interrogativo Francesco, il cui volto pareva un misto di sgomento e piacere. Lei non sapeva cosa dire. Mi vuole, pensò. Sua figlia mi vuole. Io li voglio. Perché non succede qualcosa? L'uomo la guidò lungo il corridoio, dove si fermarono davanti a una libreria con gli sportellini a vetro. Lei indicò un libro. «Posso?» Lui glielo tirò fuori. «È un libro sul gioco degli scacchi, dello spagnolo Luis de Lucena. Assai istruttivo, se vi piacciono gli scacchi.» Elizabeth aprì il risguardo. Sulla sinistra la fissò arcigna una lastra di rame con l'incisione di un uomo tetro con la barba. Quel volto, pensò... mi sembra familiare. Dove l'ho già visto? Ah, si. L'uomo che giocava a scac-
chi ai Cigno Nero! L'uomo che li aveva fissati. Il grande Lucena, campione di Spagna, Francia, Italia, che giocava con gli indigeni per pochi ducati? Che si guadagnava la cena, da quel che pareva? Proseguì l'esame. Sulla destra, autore e titolo: Luis Ramirez de Lucena, Repeticion des Amores e Arte de Axedres, Lambert Palmart, Impresar, Valencia, 1497. Discorso sull'Amore e Arte degli Scacchi. Erano due libri rilegati insieme. Il primo, il Discorso, avrebbe acquisito fama come il documento più visceralmente antifemminista di tutta la letteratura spagnola. Già lo detestava, quel Luis de Lucena. Rimise a posto il volume, poi si alzò affrontando di petto il suo ospite. «Francesco, avete un gran bisogno di una donna per la vostra famiglia, di una moglie per voi, di una madre per vostra figlia, di qualcuno che tenga dietro alla casa e ai servi. Ma vi ritraete, perché sarebbe il vostro terzo matrimonio e pensate che sarebbe una condanna a morte per quella donna. Voi, un mortale, non potete assumervi la colpa di quel che è stato deciso. Dovreste approfittare di quel che vi resta.» Lo guardò quasi storto. Maledizione, pensò, chiedimi in sposa! Lui inspirò esageratamente, poi le afferrò una mano: «Ascoltatemi, monna Lisa. Sapete che ho sepolto due mogli... due bravissime donne, che ho amato teneramente. E dovete sapere che la cattiva fortuna mi perseguita. Eppure vi chiedo, nonostante questo, mi volete sposare?» Lei sapeva già quale sarebbe stata la sua risposta, eppure su un certo punto doveva essere onesta. «Prima di rispondervi, lasciate che vi spieghi una cosa. In certi momenti i miei modi vi potranno sembrare strani. Vengo da un altro paese, sapete.» «Lo so.» «Secondo, non vi può essere dote.» Lui scosse il capo. «Non è richiesta.» Ottimo, pensò lei, scordiamoci la dote. Con la sua successiva dichiarazione stava trattando da una posizione di forza. «Leonardo mi vuole fare un ritratto.» Francesco la guardò stupito. «Lisa, cara, siete una donna bellissima. Ma io sono un mercante, e Leonardo dipinge soltanto nobildonne.» «Non sono bella, Francesco. In questo vi devo correggere. Però mi vuole dipingere. Me l'ha chiesto ieri mattina, ma ho dovuto declinare l'invito, perché la nostra ambasceria doveva tornare oggi, come da programma. Però ora rimarrò, e Leonardo mi farà il ritratto.» «Dio è generoso!» borbottò lui. «La moglie di Giocondo dipinta dal
grande Leonardo! Devo cominciare subito a mettere assieme la mercede.» «Nessuna mercede, amico mio.» «Come potete dirlo? Lui non dipinge mai per nulla.» «Mi dipingerà per nulla, ma si terrà il ritratto.» «Ah, capisco. Be', proprio curioso.» Fece una risatina incredula. «Leonardo riprende a dipingere, e dipinge la Gioconda! E adesso, monna Lisa, mi volete sposare?» Tenendolo ancora per mano, fece un lieve inchino. «Signore, mi fate un grande onore chiedendomi in moglie. Accetto con piacere.» Lui l'abbracciò calorosamente, poi l'afferrò per le spalle. «Dobbiamo avvertire la vostra delegazione che ritardi la partenza, di modo che possano partecipare allo sposalizio.» Pensò: Cuthbert Pellar che partecipa al matrimonio di un'associata di terzo livello? Sicuro! «Non possono restare, Francesco caro. Il loro feudatario attende il loro ritorno immediato.» «Oh, peccato. Bene, allora, almeno gli dobbiamo comunicare le buone notizie. Faccio chiamare subito per la vettura.» 17: Lucena La carrozza si fermò nella piazza del Cigno Nero presso le grandi porte di ferro. «Aspettate qui, per favore» gli disse. «Devo spiegare delle cose e salutare.» «Certo. Metteteci tutto il tempo che vi occorre.» Pellar la stava aspettando dentro. «Maledizione, Elizabeth, ci hai fatto stare proprio in pensiero!» Fu immediatamente insospettita. «Cuthbert, cosa sta succedendo?» Lui fece un sorrisino sforzato. «Prima di tutto, Elizabeth, vorrei che facessi la conoscenza del senor Lucena.» Lucena? Si guardò intorno. Un signore barbuto piuttosto fosco si stava facendo largo a spallate tra la folla di sfaccendati. Sì, era lui, il grande scacchista e antifemminista. Qualche metro alle sue spalle notò i due bauli della MT e la borsa con i fiorini. Notò anche che Ralph Larvey se ne stava da una parte, a braccia conserte, col volto contorto da un gelido sorriso trionfante. Un grigio blocco di cemento pesante cominciò a opprimerle lo stomaco. Lo spagnolo fece una riverenza profonda ed elegante. «Señorita, sono
lieto di fare la vostra conoscenza.» Lo ignorò, rivolgendosi invece a Pellar. «Ti ha spennato in una partita a scacchi, vero?» L'avvocato replicò debolmente: «Era soltanto un giocatorello locale, Elizabeth, ma è stato fortunato». «Fortunato? Santoddio, Cuthbert! Sai chi è quello?» «Che vuoi dire?» «Quello è Luis de Lucena, attuale campione europeo di scacchi!» «Gesù, Elizabeth, come facevo a saperlo? Però non c'è proprio bisogno di alterarsi. Possiamo riavere indietro tutto. Ci basta passare un'ora con lui al piano di sopra.» Lei fissò per un minuto buono il suo viso scostante. «Comincia dall'inizio.» «Bene, come ho già detto, lui ha proposto di giocare.» «Prima, però, Ralph e Lucena hanno avuto una piccola discussione, probabilmente servendosi dell'interprete, vero?» «Sì, proprio così. Ma come fai a saperlo?» È la vendetta di Ralph, pensò lei. «Poi Ralph ti è venuto a dire che c'era un giocatore del posto che avresti potuto battere facilmente. Vero?» Pellar annuì istupidito. «E alla prima partita l'hai battuto.» «Sì, è stato facile.» «Poi ha suggerito una piccola posta.» «Sì, e ho vinto di nuovo.» «Poi avete cominciato ad andare al raddoppio, e hai iniziato a perdere.» «Già.» «E hai perso tutto.» Lui si strinse nelle spalle. Che cosa restava da dire? Quando Larvey le si avvicinò, Elizabeth sussurrò: «Complimenti, Ralph. Bella mossa». Lui sorrise. «Fa sempre piacere essere apprezzati.» Pellar li guardò entrambi, perplesso. «Davvero, Elizabeth, ce l'ho messa tutta. Penso che Antonio abbia persino mandato a chiamare Leonardo, ma...» «Elisabetta.» Lei si girò. «Leonardo!» Così era venuto. Ma come li poteva aiutare? L'artista la prese per un gomito per allontanarla dalla portata uditiva di Lucena, poi parlò in fretta. «Per prima cosa una domanda. Come avete fat-
to a guidare la macchina al giorno e all'ora giusta?» «Ho fatto un addestramento speciale nell'adattamento degli schemi: è come giocare a scacchi.» «Siete una brava scacchista?» «Piuttosto brava, Leonardo.» «Allora lo dovete sfidare. La sua posta saranno i bauli e il denaro. Potete mettere insieme una vostra posta?» Lei ci pensò su un momento. «Sì. Maestro, sareste così gentile da farmi da secondo?» «Sì, signora.» Si accostò allo spagnolo, addentrandosi in una discussione animata, con molto gesticolare. Poi Leonardo tornò da lei. «Giocherà una partita sola, per tutto quello che ha preso da Lord Cutberto, ammesso che la vostra posta sia accettabile.» «Grazie, messer Leonardo.» E adesso era venuto il momento di affrontare il massimo scacchista d'Europa. «Señor Lucena.» Lui s'inchinò. «Señorita. Quale posta, prego?» Lei si portò entrambe le mani alla nuca per slacciare il filo di perle. «Sono valutate diecimila fiorini. Esaminatele, se vi garba.» Pellar boccheggiò. «No! No! Elizabeth, sono a nolo!» Lo spagnolo si accigliò. «Che cosa dice?» «Dice che è sicuro che farò salsicce del maiale spagnolo.» «Ah, davvero?» Si udì un rumore preoccupante mentre lo spagnolo estraeva di qualche centimetro lo stocco dal fodero. Elizabeth trattenne il respiro. «Ascoltate, perché non cominciamo?» Porse il filo di perle a Leonardo. «Ecco, Leonardo custodirà la posta.» «Tiriamo allora a sorte per il colore» grugnì il campione di scacchi. Il colore era importante. Elizabeth stava riflettendo furiosamente. Le serviva un'apertura blindata, veramente assassina. Se avesse avuto il bianco avrebbe potuto guidare il gioco verso il terribile Gambetto di Evans, inventato dal capitano William Evans della Fanteria Reale di Marina nel 1824. Però per giocare l'Evans le serviva il bianco. C'era soltanto una possibilità di ottenerlo: come partente ad handicap. Perciò disse: «Rimane la questione del vantaggio». La faccia dello spagnolo s'indurì. «Non concedo vantaggi.» «Voi? No, non voi certamente. In quanto giocatore più forte, sono io che devo concederlo.» «Voi!» Fece una risata gelida d'incredulità. «In persona.»
«Siete loca. Va bene, che vantaggio mi date?» «Giocherò bendata.» Lui parve sconcertato. «Bendata?» «Certo, senza poter vedere scacchiera o pezzi.» Le fece un gran piacere sentire in quanti rimanevano senza fiato. Evidentemente nessuno di loro aveva mai sentito parlare della possibilità di giocare a scacchi alla cieca. Sfilò dal corpetto un fazzoletto bianco di seta, se lo legò attorno agli occhi e prese una sedia che dava le spalle alla scacchiera. «Sistemate i pezzi. In quanto sono io che concedo il vantaggio, prendo il bianco.» «Ma come farete a conoscere le mie mosse?» «Me le dichiarerete, e altrettanto farò io.» Rimase in ascolto al rumore degli scacchi che venivano sistemati dietro di lei. «Pronto» dichiarò Lucena. «A voi muovere.» «Pedone al quarto scacco del re» segnalò lei. Lui replicò istantaneamente. «Pedone al quarto del mio re.» La partita era cominciata. Alla quarta mossa Elizabeth dichiarò: «Pedone al cavallo di regina quattro». Era quella la mossa critica nell'apertura di Evans: l'offerta del pedone. Seguì un silenzio di tomba. Oh, non ha mai visto prima l'Evans, pensò lei. Il problema adesso è se abboccherà. Alla fine Lucena dichiarò: «Alfiere prende pedone». L'aveva in pugno. La partita continuò. Le risposte dello spagnolo cominciarono a farsi più lente. Era nei guai, ma stava lottando, raggruppando i pezzi in una cintura protettiva attorno al re. Elizabeth si fermò un istante per pensare. La posizione attuale chiedeva a gran voce un matto affogato. Sì, eccolo. Annunciò con voce chiara e ferma: «Annuncio scacco matto in due mosse». Silenzio. Cosa stava succedendo? Era possibile che si fosse sbagliata? No! Si alzò togliendosi la benda e andò al tavolo. La posizione era esatta. Ecco l'affogato. Lucena levò uno sguardo truce. «Non c'è matto in due mosse, señorita. Non c'è alcun matto. Siete squalificata.» «Señor, c'è matto in due mosse.» Catturò un alfiere difensivo con la regina. «Dovete prendere, vero?» «Io prendo, e lei perde la regina e non c'è ancora matto.»
«Il vostro alfiere non difende più questa casella, señor. Il mio cavallo muove e fa matto... così.» Mosse il pezzo. «Scacco matto!» Lo spagnolo barbuto fissò prima la scacchiera poi lei. Arrossendo, aggrottò le sopracciglia. «Bene, è scacco matto. Ma una sola partita non decide nulla. Ne giocheremo due o tre.» «No!» Era Francesco, che aveva Leonardo subito alle spalle. L'artista evidentemente era andato a cercare rinforzi. Lei grugnì. Non voleva coinvolgere il proprio fidanzato. Giocondo valutò la situazione con uno sguardo e si rivolse al campione di scacchi. La stanza si fece subito tranquilla quando cominciò a parlare lento e calmo, e con grande autorevolezza. «Signore, per materie che riguardano la mia promessa sposa, potete rivolgervi a me.» La sua mano destra riposava leggera sul pomo della spada. Lo spagnolo guardò dubbioso il nuovo venuto, poi Elizabeth, poi di nuovo il mercante che lo guardava in cagnesco. Diede un ultimo sguardo bramoso al sacchetto dell'oro, poi fece un inchino profondo rivolto a tutti loro e se ne andò. Elizabeth si lasciò sfuggire un profondo sospiro. Francesco si piegò su di lei. «Vi sentite bene?» «Sto benissimo.» Lui non le aveva mai posto delle domande, e non lo fece neanche allora. Era semplicemente sopraggiunto per proteggerla. Lei disse: «Presto vi spiegherò tutto. Però adesso devo dire addio ai miei amici al piano di sopra.» «Certo, Lisa. Oh, messer Leonardo mi ha chiesto di restituirvi queste.» Le porse il filo di perle. «Aspetterò qui.» Pellar aveva già recuperato il suo notorio aplomb. Larvey le offrì un cipiglio appena velato. Però ciascuno dei due raccolse un baule e la seguì silenzioso lungo le scale. Dabbasso, Francesco stava chiamando l'oste. «Tonio! Vino per tutti! Servili!» Proprio come nel vecchio West, pensò lei. 18: Decisione ESERCITO DEGLI STATI UNITI Memorandum A: A.G. Perry, Generale, Pentagono, Divisione delle Dotazioni Speciali
DA: K.R. Inman, Colonnello OGGETTO: Progetto MT, Incompatibilità brevetto, Green contro Rosso. L'Ufficio Brevetti ha formalmente sciolto l'incompatibilità, decidendo la non brevettabilità da ambo le parti. La decisione forse è controversa, visto che i nostri tecnici ci hanno segnalato che la TM non può essere più usata per un periodo indefinito, a causa delle rotture spaziotemporali create dall'ultimo utilizzo. Certi altri aspetti del Progetto devono essere esaminati in separata sede. (K.R. Inman) 19: Un sorriso Si risedette nella comoda sedia dall'alto schienale nella bottega di Leonardo. Erano le prime ore del pomeriggio. La luce era morbida, chiara, luminosa, rilassante, la più adatta per dipingere. Sul tappeto, alla sua sinistra, Dianara giocava con quel bel gattone dal pelo lungo. Fuori, nel giardino, cantava una fontanella. Da dietro uno schermo, sulla destra, due musicisti invisibili suonavano placidi, uno un flauto, un altro una lira inventata dal pittore. Leonardo era a fianco del cavalletto intento a studiarla. «E adesso ci serve un sorriso» disse. Stava già schizzando i tratti del volto con tocchi leggeri di carboncino. Mentre lavorava le sussurrò, quasi come se stesse parlando a se stesso: «Pensate al momento più felice della vostra vita. Il giorno degli sponsali, forse? O quando foste salvata dal fiume?» Osservò il sottile cambiamento sul volto di lei deliziato e stupito. Il suo momento più lieto? Ah, sì, si ricordava. Pellar e Larvey erano dentro la MT, pronti per partire, nella loro stanza al piano di sopra del Cigno Nero, e aspettavano impazienti che li raggiungesse. Pellar le si era rivolto con un gesto imperioso del mento. Elizabeth aveva appoggiato la sinistra alla maniglia della porta, poi aveva chiuso il battente guardandoli entrambi. «Ecco!» si entusiasmò Leonardo. «Mantenete quell'espressione.» Oh, sì! Quella donna stava esprimendo qualcosa di meraviglioso sulla vita. Ah, morte, amore, sopportazione, pazienza, tutti intrecciati insieme, a emergere in un insieme fantastico in quel sorriso. Quale ricordo, quale pensiero pensieri - avevano indotto tale trasfigurazione? Lei era rimasta fuori dalla MT e Pellar gridava: «Dannazione, Gerard,
entra!» E lei gli aveva risposto con calma: «No, Cuthbert, non entrerò. Se vuoi avere rapporti ulteriori con me, cercami al Louvre». Pellar rimase a bocca aperta. «Il Louvre? Cos...?» (Il suo momento più lieto? Oh, sì, si ricordava eccome!) Poi aveva finito di dire ciò per cui era venuta, ed entrambi l'avevano guardata, prima con incredulità e alla fine inorriditi. «E adesso potrei suggerirvi» aveva concluso con voce vellutata «di andare a prenderlo in culo, assieme e a più riprese.» Poi aveva sbattuto la porta della macchina. La MT aveva emesso un bagliore... infine era svanita. 20: Déja vu C. Cuthbert Pellar e la sua fresca sposina trascorsero la luna di miele a Parigi e, in quel giorno di giugno, più che altro per l'insistenza della signora Pellar, si ritrovarono al Louvre. Passarono in rassegna i soliti capolavori, la Venere di Milo, la Nike di Samotracia, l'Era di Samo. «Sì, cara?» fece lui. «Dobbiamo incontrare qualcuno? Non fai che guardarti intorno.» (Cercami al Louvre, aveva detto.) «No, non dobbiamo incontrare nessuno. Sto cercando soltanto di vedere le cose più importanti.» Dio, che casino che era stato, quand'erano tornati senza Elizabeth. Per far tacere la cosa ci si erano dovuti mettere tutti gli alti gradi del Pentagono, insieme a Barrington Wright e all'FBI e alla CIA. Fortunatamente li aveva spalleggiati il colonnello Inman. Sembrava quasi che si aspettasse che Elizabeth non tornasse. Era stato lui a fornire la storia di copertura: Elizabeth Gerard era sulla lista dei passeggeri di Italia 816, lo sfortunato Concorde esploso in volo sopra Lisbona per una bomba dei terroristi. Wright aveva incaricato Pellar di avvertire i parenti di Elizabeth. Dopodiché l'associato era diventato socio. La signora Pellar disse: «Qui ci sono dei dipinti famosi. Come si chiama quello di Leonardo da Vinci?» «Ne ha fatti parecchi.» «Il più famoso di tutti. Sai...» «La Monna Lisa?» «Proprio quello. Cerchiamo la Monna Lisa. Dovremo chiedere informa-
zioni.» Si avvicinarono al banco informazioni, occupato da un giovanotto scoglionato impegnato a leggere un tascabile. «S'il vous plait, monsieur» chiese educatamente Pellar «où se trouve la Mona Lisa?» Il ragazzo non alzò lo sguardo, ma indicò alla sua sinistra con il pollice. «Segua il corridoio, signore, e giri a destra al secondo che trova. Niente flash.» Pochi istanti più tardi si trovavano davanti al capolavoro. «Il più grande dipinto al mondo» fece lui sottovoce. «Sai, l'ho conosciuto, Leonardo.» «Pensavo fosse morto.» Pellar rimase in silenzio. Non voleva entrare in argomento. E poi stava studiando il ritratto. Quel viso... l'aveva forse incontrata all'epoca della deposizione? La Gioconda? La moglie di un ricco fiorentino di nome Giocondo? Era quasi sicuro di non aver mai incontrato una signora del genere. Eppure lo tormentava. L'aveva già vista quella faccia, quella bellezza ultraterrena. Quando? Dove? Pensaci. Ripensaci. Le donne che erano là... C'era una ragazza, praticamente una bambina. E la moglie di Tonio, il locandiere. E la cuoca, una vecchia. L'unica altra donna in ballo era... to'? Guarda meglio. Sulla fronte. Non è la fascia della MT? Oh, Dio! Non può essere lei! Oh, no no no no. Chiuse gli occhi con un lamento. La signora Pellar lo guardò allarmata. «Caro...?» Lui diede le spalle al ritratto. «Usciamo di qui.» «Ma... oh, va bene.» Si volse a guardare. Non c'era qualcosa in quel sorriso? E poi, stava sorridendo quella donna? Difficile dirlo. Titolo originale: Tetrahedron Analog Science Fiction and Fact January 1994 FINE