Santiago Gamboa
PERDERE È UNA QUESTIONE DI METODO Traduzione di Pino Cacucci
Sulle rive del lago Sisga, nei pressi d...
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Santiago Gamboa
PERDERE È UNA QUESTIONE DI METODO Traduzione di Pino Cacucci
Sulle rive del lago Sisga, nei pressi di Bogotá viene ritrovato un cadavere orrendamente mutilato. Victór Silanpa giornalista e, a tempo perso, detective privato a caccia di coniugi infedeli, segue il caso per la sua testata. Comincia così, la sua avventura in un ambiente dove la corruzione e la violenza sono all’ordine del giorno e la morte sembra aspettare dietro ogni angolo. E nonostante i rischi, Silanpa, aiutato dall’obeso capitano di polizia Aristófanes Moya e dal fedele compagno Estupiñán ce la metterà tutta per dipanare l’intricato groviglio che si cela dietro l’efferato delitto. Ma nulla cambierà davvero, a cadere saranno soltanto i pezzi minori di un rompicapo troppo complesso e oscuro.
PREFAZIONE ................................................................................................. 5 PARTE PRIMA ............................................................................................... 8 PARTE SECONDA ...................................................................................... 130 EPILOGO ................................................................................................... 265
PREFAZIONE di Luis Sepúlveda
Questo pregevole romanzo di Santiago Gamboa è senza dubbio tra le opere più rappresentative della collana «La frontiera scomparsa». E dato che le storie si presentano raccontando storie, mi permetto di narrarvene una. Quattro anni fa, alla fiera del libro di Bogotá, ho avuto il piacere di presentare Páginas de vuelta, il primo romanzo di questo giovane scrittore colombiano e grandissimo amico dei suoi amici che è Santiago Gamboa. In quella occasione, mentre dicevo che era un piacere presentare un’opera come Páginas de vuelta perché era scritta con audacia e qualità, raccontava una storia dall’inizio alla fine e, soprattutto, era un romanzo scritto da un colombiano che, pur nascendo all’ombra di giganti della letteratura quali Gabriel Garcia Márquez e Alvaro Mutis, riusciva a esprimersi con voce propria e originale, Santiago Gamboa accarezzava con fare nervoso e paterno una copia del romanzo, del suo primo romanzo, che odorava ancora di inchiostro. Poi l’ho visto firmare altre copie e scrivere dediche chilometriche, come se ogni lettore fosse un amico di vecchia data. Quando siamo usciti dalla fiera del libro, in un clima di festa, l’ho seguito fino a una cabina telefonica. Santiago Gamboa ha composto lentamente il numero del nostro amato Osvaldo Soriano, e con voce emozionata gli ha raccontato che il suo romanzo era già in circolazione. E più tardi, festeggiando l’evento circondato da amici, non ha parlato di se stesso e tantomeno del suo libro. Ci ha raccontato quanto sentisse la mancanza dello scrittore peruviano Julio Ramon Ribeyro. Immagino che questo non debba stupirci: gli scrittori latinoamericani sono così, siamo così, il successo di uno appartiene a tutti. Quando il suo primo romanzo veniva venduto in tutte le città dell’America Latina, Santiago Gamboa si trovava a Parigi, come corrispondente di un giornale colombiano e conduttore radiofonico di Radio Francia International. Alla fine di una nottata, ci siamo seduti in un caffè del boulevard Saint Germain con José Manuel Fajardo e Antonio Sarabia. A un certo punto è arrivato Santiago Gamboa e ci ha stupito vederlo a testa 5
bassa, piuttosto taciturno, forse persino triste, comunque in un atteggiamento ben poco abituale per lui, che, probabilmente perché è il più giovane del gruppo, ci ha sempre contagiato con la sua allegria. «È che ho appena messo il punto finale al mio secondo romanzo», ha detto, e lo abbiamo capito, perché non c’è niente di più terribile che finire un romanzo, accomiatarsi da lui, dai personaggi, dal mondo della storia che si racconta. Se c’è un alto prezzo da pagare nel mestiere dello scrittore, è proprio questo: l’odioso e lacerante momento del commiato definitivo, il punto finale. Ci siamo spostati nel suo appartamento, e lì Perdere è una questione di metodo è passato di mano in mano. Lo abbiamo cominciato a leggere, scoprendo di trovarci di fronte a un grande romanzo scritto da un grande narratore. Nel frattempo, Santiago Gamboa ci ha servito rum con ghiaccio chiedendoci di fare con lui una serie di curiosi brindisi: prendeva un libro di Conrad, e non rendeva omaggio a Joseph bensì a «Pepito» Conrad, a «Julito» Cortázar, a «Gabito» Garcia Márquez, a «Emilito» Salgari. Conclusa la lettura e la bottiglia di rum, avevamo davanti a noi una pila di libri disposti in una sorta di altare. L’altare della letteratura, dei nostri maestri ai quali dobbiamo brindare con gratitudine e orgoglio. Perdere è una questione di metodo è il romanzo di una Bogotá marginale, percorsa, studiata e compresa da personaggi marginali, perché la genialità sarà sempre marginale nelle società governate dalla stupidità e dalla corruzione. Con questo romanzo, Santiago Gamboa si presenta come una delle voci più poderose della nostra letteratura. È un romanzo dai dialoghi magistrali, di grande immediatezza, con una profonda conoscenza del mestiere di scrivere. Tutti questi particolari non sono passati inosservati ai critici di Spagna e America Latina, che lo hanno giustamente elogiato. Perdere è una questione di metodo impreziosisce la collana «La frontiera scomparsa». Santiago Gamboa è un giovane scrittore che conosce bene il vecchio mestiere di raccontare storie.
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PERDERE È UNA QUESTIONE DI METODO
Alla memoria del fotografo Ricardo Gamboa, che amava leggere Dickens e Vargas Llosa, e al quale ho voluto tanto bene. Con il legittimo e impossibile desiderio di regalargli questo libro.
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PARTE PRIMA
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I
«Tutto quello che accade ha un senso», pensò Víctor Silanpa nel notare che era una mattinata diversa. Aveva finito i due volumi del romanzo Shanghai Hotel, di Vicki Baum, rimanendo a leggere fino all’alba con gli occhi irritati, e ancora non capiva se gli era piaciuto. Non sapeva neppure perché lo avesse letto. Durante la notte aveva infranto ancora una volta la promessa di non fumare e, per giunta, doveva ricorrere alla pomata per le emorroidi, che lo aspettava al varco sulla mensola del bagno. Guardò con odio il tubetto rosso, avvitò l’applicatore di plastica e, con la sensazione che nella sua psiche fosse crollata una galleria, lo avvicinò al corpo facendo uscire un liquido freddo. Lo squillo del telefono rimbombò dall’ingresso. «Pronto?» Silanpa sosteneva la cornetta con il pollice e il mignolo. «So che è domenica, ma la faccenda è grossa», riconobbe la voce del capitano Moya. «Sui cinquantacinque anni, impalato sulla riva del Sisga e nudo come un Mercurio in posa. Nessun documento, né alcuna traccia dei vestiti. Niente.» «Quando è stato ritrovato?» «Stamattina, ma sembra fosse lì da vari giorni. È in un punto della chiusa lontano dalla strada. L’hanno visto dei giovani che praticavano canottaggio. Si sbrighi, ho dato ordine di non rimuoverlo finché lei non arriva. Buona la dritta, no?» «Sì, capitano. Ci vado immediatamente.» S’infilò un vecchio paio di pantaloni di fustagno, si accomiatò con un cenno dal manichino di donna che il sole baciava sulla fronte, così bella sul suo piedistallo di fianco alla biblioteca, e un attimo dopo stava già scendendo per l’avenida Chile in direzione dell’autostrada. «Silanpa. Stampa», mostrò il tesserino. «Vada pure, è là.» Da lontano gli sembrò un Cristo obeso. Un elefante pallido disegnato da un bambino.
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«Si metta questo sul naso.» L’agente gli porse un batuffolo di cotone con dell’ammoniaca. «Laggiù c’è una puzza che non si resiste.» Si premette il cotone sulla bocca; con gli occhi che lacrimavano prese a scavalcare cespugli e giunchi fino a raggiungere il posto. Il corpo era violaceo, gonfio e sporco di fango secco. I pali lo attraversavano come una croce. I muscoli di Silanpa si contrassero istintivamente e avvertì una fitta dolorosa. Fece uno schizzo sul taccuino, disegnò la posizione del cadavere a qualche metro dalla riva, in mezzo al canneto, e poi cominciò l’ingrato compito dei rilievi sul corpo. Presentava segni sui polsi e sul collo. Lo avevano legato e sicuramente trascinato. L’agente gli passò una scala da imbianchino e, trattenendo il ribrezzo, si avvicinò al viso. Le orbite degli occhi erano vuote e la bocca socchiusa, piena di terra e sabbia. Poi prese la sua piccola Nikkormat e scattò varie foto. «Sembrerebbe morto affogato, prima che lo impalassero, vero, agente?» «Sissignore. E lo guardi dietro. Quelle che gli escono dal sedere non sono alghe?» «Sì, così pare...» Silanpa scese dalla scala. «Bene, adesso tocca a voi. Dite a Piedrahíta che ci vediamo domattina presto.» Rifece il percorso in salita fino alla strada e guardò il lago dal ponte. Da lì si erano buttati tanti disperati, persone che avevano sognato una telefonata, il gesto di qualcuno o qualcosa che non era mai arrivato. Sentì freddo. Una brezza umida increspava l’acqua formando linee parallele. Chiamò il capitano dalla radio della volante. «Qui è Aristófanes Moya», sentì rispondere all’altro capo della linea, «capitano della 40a Brigata, dica pure.» Silanpa si qualificò. La sigaretta gli tremava tra le dita. «È un affogato», disse. «L’hanno tirato fuori dal lago artificiale per poi crocifiggerlo. Strano, no?» «Ha trovato qualche indizio?» «Gli agenti hanno battuto la zona in un raggio di duecento metri e non hanno notato niente. Neanche un rametto spezzato.» Il capitano si schiarì la voce. «Bene, leggerò l’articolo. Ha foto mie recenti?» «Certo, capitano.» 10
Poi chiamò la redazione dell’«Observador». «Esquivel? Qui è Silanpa, urgente. Ho bisogno di un richiamo in prima per la foto a colori e una pagina intera nella cronaca nera.» «E non vuoi anche che ti canti Smoke in your eyes?» «È una faccenda molto grossa, Esquivel, credimi, un tizio impalato sulla riva del Sisga. Tra un po’ arrivo e ti spiego.» Rientrò a Bogotá fumando una sigaretta dietro l’altra, ipnotizzato dall’immagine del cadavere, quelle orbite sfondate e la smorfia sul viso. Provò orrore pensando che, fino a poco prima, era un uomo come lui, una persona che gli altri ascoltavano, a cui stringevano la mano e che forse amavano. L’ultimo tiro alla sigaretta gli riempì la bocca di un sapore aspro e abbassò il finestrino per sputare. Brutta cosa stare troppo vicino ai morti. Arrivando al terzo ponte guardò l’orologio, erano quasi le cinque: «Moníca sarà furiosa», si disse. Accelerò fino all’avenida 127 e poi scese verso Niza rimproverandosi di essere come era: perduto nel tempo, incapace di rispettare un appuntamento, come se le coordinate dell’orologio fossero un linguaggio estraneo alla sua vita. Le aveva promesso di accompagnarla a correre, ma ormai era troppo tardi. Moníca gli aprì la porta con il muso lungo e poi andò in cucina a versarsi un caffè. Indossava la tuta da ginnastica. «Dove accidenti sei finito? Ti ho chiamato a casa tua. Al giornale mi hanno detto che non ti avevano visto.» «Sono dovuto andare al Sisga. Hanno rinvenuto un cadavere impalato sulla riva, Una faccenda orribile.» «Impalato?» Lo guardò sorpresa e intanto soffiava sulla tazza. «E che storia è: paramilitari, narcotraffico, guerriglia?» «Lo sai che non mi immischio in certe cose.» Si versò un bicchiere di latte. «Per il momento si tratta di semplice omicidio. Sei andata a correre?» «Sì, con Oscar. Aspettami che vado a fare una doccia.» La seguì con lo sguardo fino in camera pensando a Oscar. Era stato il fidanzato di Moníca prima che si mettesse con lui, e non si era mai rassegnato a perderla. Le andava dietro, le faceva dei favori... sempre attento al minimo capriccio con la segreta speranza di riconquistarla. Dallo spiraglio della porta la guardò togliersi i pantaloni e rimanere con quelle mutandine azzurre che avevano su di lui un effetto istantaneo. La 11
raggiunse con un balzo e la guardò negli occhi, che brillavano senza affetto. Anzi, con un velo di rabbia. «Perdonami, facciamo domenica prossima?» «Giura.» «Giuro.» L’abbracciò con trasporto, percorse il suo corpo con le mani finché lei non si divincolò. «Fermati, pace, pace!» gli disse ridendo. «Aspetta, me le tolgo io.» Il giorno che l’aveva conosciuta, tre anni addietro, Silanpa stava tornando da un reportage su uno strano incidente nella Guajira. Un aereo da carico pieno di fiori era caduto tra le dune senza che vi fosse traccia di morti o di sopravvissuti. I piloti si erano forse gettati con il paracadute? Erano fuggiti prima che arrivassero le squadre di soccorso? Mistero... Non risultava essere decollato da alcun aeroporto del paese ed era stato ritrovato soltanto lo scheletro calcinato dell’aereo in mezzo a una montagna di garofani e rose bruciacchiati e coperti di cenere e fuliggine. Tornato da là, su un piccolo Cessna noleggiato dal giornale, Silanpa aveva avuto la bella idea di fermarsi in aeroporto a scrivere l’articolo con il pretesto che il rumore degli aerei gli sarebbe servito per ispirarsi. Così aveva fatto, restandosene seduto a uno dei tavolini del Presto per più di due ore, finché una donna gli aveva chiesto cosa stesse facendo, per poi raccontargli che stava aspettando un amico da Panamá il cui volo era in ritardo, e così avevano continuato a chiacchierare anche dopo che Silanpa aveva dettato l’articolo per telefono e il volo da Panamá era atterrato a Medellín per problemi tecnici. Lui, piuttosto timido, sentiva che le parole gli uscivano di bocca con singolare eloquenza, mentre lei, Moníca, lo ascoltava descrivere i resti dell’aereo, le facce silenziose degli abitanti della zona che avevano sentito l’esplosione e dato l’allarme, la probabile ricostruzione del tragitto eccetera. Lo guardava con uno strano scintillio negli occhi quando, ormai molto tardi e dopo alcune birre, erano passati a parlare dei loro desideri e delle mancanze, delle rispettive ossessioni e piccole manie, e avevano cominciato a trovarsi così d’accordo su tutto e con tante cose in comune nella vita, che a un tratto Moníca si era messa un dito sulle labbra invitandolo a casa con una frase che Silanpa non aveva mai sentito pronunciare, e che sarebbe stata la prima cosa che avrebbe scritto custodendola poi in una tasca del suo manichino: «Voglio che tu mi veda nuda». L’aereo da Panamá, con Oscar dentro, non sarebbe mai arrivato a Bogotá, e quando quest’ultimo 12
era ricomparso con la valigia piena di cioccolatini Milky Way e flaconi di profumo Dior, Moníca l’aveva fatto sedere davanti a un caffè annunciandogli in tono fatidico: «Dobbiamo parlare, sono successe delle cose». Moníca si alzò dal letto per andare in bagno, e lui riprese a smaniare. Chi poteva essere quel cadavere anonimo? Come era arrivato in quel posto? Immaginò le mani che lo avevano impalato e lasciato lì, esposto al vento e alla pioggia. Mani dure, abituate alla morte. Si rivestì mentre Moníca faceva la doccia. «Vado in redazione a scrivere l’articolo. Poi ti va di andare al cinema?» «Benissimo, sì. Cosa vuoi vedere?» «Non saprei, è lo stesso. Tu?» «Dicono che Guardia del corpo sia bello. Lo danno all’Astor Plaza.» «Okay, ti chiamo più tardi.» Arrivò al giornale che stava facendo buio e andò a consegnare il rullino in laboratorio. «Guarda.» Silanpa indicò il negativo, mentre Esquivel abbassò gli occhiali sulla punta del naso. «Questa è roba che scotta.» Le foto vennero mandate in stampa e Silanpa si sedette davanti al vecchio computer nel suo ufficio. Accese una sigaretta e cominciò a picchiettare con due dita sulla tastiera. L’IMPALATO DEL SISGA Chiusa del Sisga, Cund. (16 ottobre). Il cadavere di un uomo non ancora identificato è stato rinvenuto ieri sulla riva sud della chiusa del Sisga, dopo essere stato oggetto di uno dei più crudeli e ancestrali castighi ideati dalla barbarie umana: l’impalamento. La 40a Brigata di polizia, sezione Bogotá, comandata dal Giulio Cesare dell’ordine pubblico, il capitano Aristófanes Moya (foto 1, in alto), ha avviato immediatamente le indagini. «La cittadinanza può stare tranquilla», ha dichiarato il capitano Moya, «perché il singolo individuo o l’associazione a delinquere che ha commesso questa infamia riceverà la giusta punizione.» Dunque, le indagini sono appena cominciate e, nonostante vi siano vari indizi e molte piste, questo giornale si astiene dal divulgarli per proteggere il segreto istruttorio. Qual è l’identità del misterioso cadavere? E il mo13
vente di questo orrendo crimine? Bisognerà aspettare che il capitano Aristófanes Moya e la sua squadra di investigatori ci diano la risposta. Ma soffermiamoci su un particolare: in cosa consiste l’impalamento, oscura tecnica ereditata dai Balcani, praticata in tempi lontani dal conte Dracula, conosciuto anche come il Signore della Transilvania? Chi è troppo sensibile dovrà astenersi dal leggere la spiegazione che segue: la pratica macabra, a tutti gli effetti, consiste nell’introdurre un palo in senso trasversale dalla regione anale fino ad attraversare il torace spezzando la clavicola. Un secondo palo compie un percorso analogo, introdotto non più nella regione anale ma un po’ più in alto, all’altezza del rene, formando una terrificante X il cui fine è sostenere il peso del condannato (foto 2 e 3).
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II
Nell’anfiteatro dell’Istituto di Medicina Legale l’umidità aveva finito per staccare l’intonaco del soffitto lasciando in vista crepe e buchi. Da una di queste spuntavano le sottili antenne di uno scarafaggio. «Quella schifezza che mi hanno portato stanotte è una delle cose peggiori che ho visto in vita mia.» Piedrahíta beveva caffè e mordeva una ciambella senza essersi ancora tolto i guanti di gomma. «E di cosa è morto?» «È sfondato da tutte le parti. Ha una frattura alla colonna vertebrale, lo stomaco perforato, acqua nei polmoni e la trachea schiacciata. Gli bastava molto meno per andarsene al creatore.» Silanpa osservò terrorizzato i flaconi di formalina dove Piedrahíta conservava i suoi trofei: un cuore con tre fori di pallottola, un fegato devastato dalla cirrosi, una mano che stringeva un coltello... «Accidenti. E riguardo al periodo del decesso c’è qualche indizio?» «Due settimane, magari di più. È difficile appurarlo quando i danni sono tanti. Posso calcolare un massimo di due mesi tenendo conto che è rimasto sott’acqua. Altrimenti, si sarebbe sfatto.» «Minimo due settimane e massimo due mesi?» «Sì.» «Bene. Per lo meno abbiamo dei limiti. Che età gli attribuirebbe?» «Tra i cinquanta e i sessanta. Non si può accumulare tanto grasso in meno anni.» «E i tratti somatici?» «Bianco. Capelli bianchi, calvo davanti e a spazzola sui lati. Uno e sessantotto di statura. Ho già passato i dati al capitano Moya, staranno preparando l’identikit.» «E quello che aveva dentro: la terra, le alghe?» «Ho mandato tutto in laboratorio. Se va bene, domani pomeriggio sapremo qualcosa.» «Grazie. Per qualsiasi novità, mi avvisi.» 15
«Sì, arrivederci.» Il capitano Moya era un uomo dall’aspetto poco salutare che sembrava aver compiuto i cinquanta. I suoi tratti erano segnati dall’eccesso di cibo e dalla mancanza di sonno: occhi iniettati di sangue, borse scure sotto le palpebre, sudorazione abbondante. Il naso era un tubero percorso da un’infinità di vene sul punto di scoppiare sopra un paio di labbra molto sottili, come disegnate a matita. Quel volto sembrava dire: un uomo che ha sofferto, che è stato schiaffeggiato dalle avversità ma, nonostante tutto, continua a credere nella sostanziale bontà degli esseri umani; un martire che ha sorriso tra le fiamme e che ha compreso il profondo senso del sacrificio e del dovere. Moya teneva la foto dell’impalato sulla scrivania. Sembrava un uomo dai tratti gentili. «In questa cartellina c’è tutto quello che le posso dare. L’elenco delle persone scomparse, innanzitutto. Mi ha detto due mesi?» «Sì, per cominciare.» «Selezioniamo i maggiori di venticinque anni, maschi. Ovviamente, ci limitiamo a quelli del Distretto. Stamattina ho richiesto i dati a livello nazionale, ma i computer sono saturi. Credo ci siano alcuni nomi di Chocontá.» «Da qualche parte bisogna pur cominciare.» Il capitano si appoggiò allo schienale della poltroncina e respirò con forza tentando invano di accavallare le gambe. L’uniforme gli comprimeva l’enorme pancia e la voce era così roca che sembrava avesse un grumo di sabbia in gola. «Mi permetta una domanda di carattere personale, giornalista», disse Moya piantandogli gli occhi addosso mentre si accarezzava il mento. «Le voglio parlare da amico, caro Silanpa, da uomo a uomo, perché modestamente mi sto preparando a fare un’esperienza profonda... Conosce un gruppo che si fa chiamare L’Ultima Cena?» «Sì, capitano, è un’associazione evangelica che aiuta la gente a dimagrire leggendo passi della Bibbia», rispose Silanpa. «Perché me lo chiede?» «Il fatto è che mia moglie si è messa in testa di mandarmici. Ma io non lo so, queste faccende mi suonano così strane...» «Potrebbe anche essere utile. Al giorno d’oggi c’è molta gente che segue questo genere di cose. Quando comincia?» 16
Moya si guardò lo stomaco e tentò di ritrarlo. Lo schienale della poltroncina scricchiolò e lui si rimise dritto. «Ancora non lo so. Il problema è che mi hanno detto che si deve parlare agli altri nella prima seduta, spiegare perché ci si trova lì... E lei mi conosce, io sono un tipo molto timido. Non so parlare in pubblico.» «L’importante sono i risultati», disse Silanpa. «Vuole che faccia delle ricerche al giornale?» «No, soltanto se c’è qualche informazione particolare. Per ora ci sto solo pensando.» Silanpa uscì e, incamminandosi lungo la 13, aprì la carpetta che gli aveva dato Moya. Ogni fascicolo conteneva una foto, un curriculum e le dichiarazioni dei familiari sulle circostanze, lo stato mentale e i possibili motivi della scomparsa. Si fermò a mangiare nel Burger, ordinò un super al formaggio e andò a sedersi accanto alla finestra con le sue trentotto schede, poi, di colpo, cadde in una profonda indolenza. Da dove cominciare? Cercò di concentrarsi ma il rumore della strada lo spinse a guardare all’esterno. Lesse più volte un cartello che penzolava dall’alto del semaforo: «Bogotá è di tutti. Rispettala». L’orologio del Granahorrar segnava le due del pomeriggio e dall’altra parte dell’avenida, su un muro scrostato pieno di vecchi manifesti elettorali, qualcuno aveva scritto: «Non sarò un Don Johnson... Ma neppure un Don Nessuno!»* Quando tornò al commissariato con le schede, il capitano Moya lo avvertì che a partire dalle due del pomeriggio erano state convocate alcune persone all’obitorio per tentare di identificare il cadavere. «I parenti di questi?» disse agitando la carpetta. «Sì. Vada a dare un’occhiata, giornalista. Di sicuro lì troverà qualcosa.» Piedrahíta gli consegnò un camice e lo invitò a sedersi. Il primo ad arrivare fu un giovane di ventisette anni. «Nome della persona scomparsa e grado di parentela?» «Tulio Poveda Bejarano. Figlio maggiore.» «Venga.»
*
Don Nadie significa «il signor nessuno» (come dire «Pinco Pallino» o «Tizio e Caio»): gioco di parole con il nome dell’attore Don Johnson. (N.d.T.)
17
Lo portarono davanti alla barella e alzarono il lenzuolo. Il giovane fece un’espressione schifata e gli bastarono tre secondi per dire no, non è lui. «Lo guardi bene», insistette Piedrahíta. «Non è lui, gliel’ho detto.» «Il corpo è in pessimo stato, le posso chiedere perché ne è così sicuro?» «Dalla bocca, dottore. A mio padre restava soltanto il canino sinistro.» Silanpa, che ascoltava alle loro spalle, fece un segno sulla scheda. Poi toccò a una signora accompagnata da un giovane. «Marcos Nemqueteba Carrero. Moglie e nipote.» Si avvicinarono. Il giovane rimase indietro quando alzarono il lenzuolo. «Non è lui.» «Ne è sicura, signora?» «Sì.» «Possiamo saperne la ragione?» «Mi scusi se glielo dico dottore», abbassò la voce, gli si avvicinò all’orecchio. «E sia chiaro che non mi permetterei se lei non me lo avesse chiesto... Una moglie conosce bene suo marito, non le pare?» «Qui si tratta di un’indagine di polizia, signora, può spiegami la ragione?» La donna si accostò all’orecchio di Piedrahíta. «A Marquitos mancava un testicolo, dottore... È stata una cosa orribile. Lui era nato come tutti, normale e completo, ma dopo il matrimonio ha avuto l’incidente. Si immagini, andando a cavallo nel Llano è finito contro una recinzione e cadendo si è impigliato nel filo spinato. Marquitos ne era rimasto menomato. Ma intendiamoci, non per questo ha smesso di essere un uomo...» «Grazie per la sua collaborazione, signora.» Nel tardo pomeriggio era sfilata oltre la metà delle persone e la risposta era stata sempre la stessa: non è lui. «Arturo Carrizo Sinoco. Cognato.» Alla vista del corpo, l’uomo fece segno di no con la testa. «Per quale ragione?» «Dev’esserci un errore, dottore. Mio cognato non era così grasso e neanche tanto anziano, e l’ultima volta che lo abbiamo visto era negro.» 18
«In tal caso, sì, dev’esserci stato un errore. Il prossimo.» «Osler Estupiñán Juárez. Fratello minore.» «Si concentri e osservi bene», disse Piedrahíta. «Vediamo un po’.» Si mise a guardarlo con attenzione. Lo studiò dalla testa ai piedi. Rimase indeciso. «A prima vista non sembra, però c’è qualcosa di familiare.» «Lo guardi bene. Abbiamo tutto il tempo.» «Potrebbe essere, sì.» «Passi di là, l’infermiere le farà alcune domande di routine.» Silanpa lo invitò a sedersi a un tavolo di formica. L’uomo era piuttosto basso, indossava un vestito a righe e una cravatta blu di lana. Le scarpe erano sporche di fango. «In questa scheda lei dice che suo fratello è scomparso un mese e mezzo fa. Lo conferma?» «Sì.» «Suo fratello era scapolo, aveva cinquant’anni, viveva a Fontibón, non soffriva di disturbi mentali ed era autista di un taxi urbano, Chevrolet del ’66 targato FT 3643. Giusto?» «Sì. Chevrolet del ’66 con meccanica del modello ’73.» «Qui dice che lei non lo vedeva dal febbraio dell’anno scorso. È così?» «Confermo.» «Considerando che siamo in ottobre, vuol dire che sono trascorsi ventun mesi dall’ultima volta che lo ha visto. In quali circostanze è avvenuto quell’incontro?» «Una cosa incredibile. Si figuri, io lavoro al CAN, il catasto. Un giorno esco di corsa per prendere l’autobus Samper Mendoza-Bosque Izquierdo e mentre aspettavo alla fermata sull’avenida Eldorado, vedo un taxi che mi suona e accosta. All’inizio pensavo che una delle persone che aspettavano l’autobus avesse deciso di concedersi il lusso di fermare un taxi, ma quando è arrivato più vicino ho visto una mano fare dei cenni. Mi sono avvicinato e, con mia grande sorpresa, era Osler. Bene, le confesso che se non fosse stato per lui, io non lo avrei riconosciuto, perché a quel tempo non lo rivedevo da quando me n’ero andato a Cartagena, si figuri, erano passati nove anni.» 19
«A Cartagena?» «Sì. Una città divina», continuò Estupiñán. «Le cose andavano così male a Bogotá che appena mi hanno offerto un impiego modesto in un’impresa della costa, la Royal Crown che fa le bibite, l’ho preso al volo. Un posto decente, come capo magazziniere in una delle filiali addette alla distribuzione. Lo stipendio non era un granché ma neppure miserabile. Bastava per pagare un affitto, comprare vestiti una volta all’anno e, detto tra noi, inzuppare il biscotto dalle parti della muraglia, che con il buio non si dà nell’occhio, e in confronto a Bogotá costa poco. In quella zona passeggiano delle belle more che, se mi consente l’espressione, calano le mutande facilmente. Si offre loro una birra, un sacchetto di tostatine e qualche sigaretta, si infila un biglietto da mille nella scollatura e, contatto!, si aprono che è un piacere, ah, ah! Di cosa stavamo parlando?» «Suo fratello. Lei stava aspettando l’autobus e lui è arrivato.» «Ah sì. Come le stavo dicendo, quasi non lo riconoscevo. Però luì mi ha visto e mi ha fatto salire. Quel giorno, siccome andavo di fretta perché dovevo fare un lavoretto fuori dall’orario nel Bosque Izquierdo, non siamo rimasti insieme granché. Ma alla fine della settimana seguente ci siamo incontrati in calle 23, all’angolo con la Settima, per andare a fare una mangiata al Punto Rojo, un posto frequentato dai camionisti.» «E il corpo che le abbiamo mostrato, è o non è lui?» «No, credo di no. Non lo so. O forse sì.» «Mi dica... cosa pensa possa essere successo a suo fratello?» «Mistero. Lui beveva poco, non gli piaceva il gioco d’azzardo e con le femminucce giusto lo stretto necessario per fare onore alla voce ‘maschio’ sui documenti. Ci siamo capiti?» e fece una risatina maliziosa. «Non ne ho idea. Era un tipo buono, un uomo senza nemici.» «Pensa a un sequestro?» «Nooo... Chi potrebbe sequestrare un tassista che non è neppure proprietario del suo taxi?» Riprese fiato, si avvicinò all’orecchio di Silanpa. «La faccenda è diversa: la macchina è stata ritrovata parcheggiata e senza segni di scasso. Casa sua era in ordine. Davvero, non ne ho idea. Ma mi dica un po’, gli infermieri fanno sempre questo genere di interrogatori?» Silanpa tirò fuori dal portafogli un tesserino falso e glielo mostrò. «Ah, adesso capisco... Servizi segreti?» 20
«Collaboro con la polizia. Posso chiederle di telefonarmi se viene a sapere qualcosa di suo fratello? Magari se ci mettiamo in due lo ritroviamo.» «D’accordo, capo. Le telefono. Keep in touch.» «Parla inglese?» «Mi sto allenando per emigrare. Lei è mai stato da quelle parti?» «No, ma mi piacerebbe.» Silanpa uscì scoraggiato. Nessuna delle persone aveva riconosciuto il cadavere e già immaginava la valanga di schede in arrivo da tutto il paese. Chiamò Moya e lo mise al corrente dei risultati, poi se ne andò a casa e trovò un messaggio nella segreteria: «Signor Silanpa, sono la signora Gallarín. Ho già consultato il mio avvocato e lui è d’accordo. Dice che con le foto sarebbe sufficiente, quindi le faccia pure e me le porti prima possibile. Grazie». Si avvicinò al manichino di donna e disse a bassa voce: «Stanotte usciamo insieme», e le mandò un bacio. Controllò l’orologio e constatò che aveva ancora molto tempo a disposizione. Si versò una birra e se la gustò con calma riguardando le foto dell’impalato e alcune schede. Poi pensò che non rivedeva Guzmán da diversi giorni. E così andò a trovarlo. Fernando Guzmán lo aveva conosciuto al liceo. Dopo il corso di giornalismo alla Javeriana, sempre insieme, erano stati assunti entrambi a «El Observador». Guzmán direttamente alla cronaca, visto che con la migliore prova d’ammissione l’avevano lasciato scegliere, mentre Silanpa era stato costretto a un periodo di apprendistato nell’inserto domenicale. Guzmán era il giornalista più lucido della sua generazione: un uomo colto, meticoloso fino all’ossessione, dotato di intuito. Silanpa lo guardava discutere con i colleghi di redazione sui diversi casi e si sentiva orgoglioso. «Quello è amico mio», pensava, ammirandolo per come li metteva in scacco, perché era sempre Guzmán, inesperto e l’ultimo arrivato, quello che riusciva a risolvere tutto portando a termine l’inchiesta, trovando la pista, sapendo dove e come cercare ciò che sembrava introvabile. Quando Silanpa era finalmente riuscito a farsi assegnare alla cronaca, Guzmán riceveva l’incarico di caporedattore, che per lui era la cosa più naturale del mondo, visto che, in realtà, lo faceva già da vari mesi grazie al suo dinamismo e alla perspicacia. A partire da quel giorno i più solerti, quelli che arrivavano al giornale con il primo autobus, lo trovavano seduto, 21
la sigaretta accesa, che beveva un caffè forte davanti al computer, con gli occhi arrossati. Guzmán gesticolava, si faceva coinvolgere dalla realtà e la inseguiva come una preda. Voleva anticiparla, comprenderla, quasi sedurla... Lavorava fino a molto tardi. E quando anche gli ultimi redattori diurni se n’erano andati Guzmán restava lì, con la cravatta storta, in maniche di camicia e fumando una Pielroja dietro l’altra, a dare istruzioni ai redattori della notte e assegnando ricerche, facendo telefonate, passando in rassegna gli informatori e, in certi casi, uscendo di corsa a cercare qualche dato urgente. Verso la mezzanotte se ne andava, a volte con Silanpa, che lo aspettava bevendo rum con quelli delle redazioni locali, oppure da solo, e quando Guzmán non c’era tutti sentivano che mancava qualcosa di importante, che una delle colonne del giornale era assente. La rapida ascesa aveva trasformato Guzmán in un uomo chiuso in se stesso. Il lavoro occupava la totalità della sua mente e se qualcuno gli parlava, lui volgeva lo sguardo verso un angolo del soffitto, come se venisse risucchiato dalle proprie idee. Le uscite notturne lo avrebbero portato prima all’alcol e, in seguito (ma questo Silanpa non era stato in grado di appurarlo) alle droghe... Dicevano che si drogava per sopportare il lavoro, per restare lucido e sveglio tutto il giorno e tutta la notte. Dal suo posto di redattore di cronaca nera Silanpa poteva osservarlo da lontano e alimentare la sua ammirazione. Ma standogli più vicino si era reso conto che Guzmán cominciava a perdere la bussola. Si ubriacava ogni giorno più presto, i sorsi di rum erano sempre più lunghi. Alle dieci di notte, Guzmán era una specie di cartina al tornasole: le guance si gonfiavano e il naso sembrava un peperone rosso. Silanpa diceva che forse quello era il prezzo che pagava per la sua intelligenza, e tutti lo accettavano così com’era. E verso le undici, quando Guzmán aveva gli occhi rossi e la voce ridotta a una caricatura, a una sorta di registrazione allucinata, se ne andava in bagno barcollando. Al ritorno era un altro: non c’è male al mondo che non si curi mettendo la nuca sotto l’acqua fredda, diceva, Silanpa arrivava in redazione alle nove del mattino e, mentre sorseggiavano il caffè, Guzmán gli spiegava cosa c’era da fare in giornata, con grafici e righe, poiché era uno di quei grafomani che non possono parlare senza disegnare, accompagnando le parole con bozzetti sul foglio. Una mattina gli aveva sentito l’alito ed era rimasto perplesso. 22
«Hai già bevuto a quest’ora?» aveva chiesto Silanpa. «Sono le nove del mattino... È successo qualcosa?» «Niente, appena un sorsetto per schiarire la gola.» «Sei ubriaco. Ma guardati...» Aveva visto una bottiglia di rum accanto al portacarte. «Tranquillo.» Guzmán si era acceso un’altra sigaretta con un gesto nervoso. «Sono come quella bottiglia: pieno di alcol, ma non ubriaco. Ci vogliamo concentrare sul lavoro?» Le cose erano precipitate un giorno che, affermando di vedere scarafaggi giganti, aveva preso a calci tutte le lampade e i computer della redazione. Secondo gli psichiatri, il suo cervello era ormai devastato da stress, droghe, alcol e lavoro... Dovevano internarlo, allontanandolo dalla redazione. Da allora Guzmán era rinchiuso in una casa di riposo a Chía, lontano da tutto. Silanpa andava a fargli visita di tanto in tanto. Lasciò l’R6 nel parcheggio all’entrata, si diresse a piedi fino al cancello e chiamò una delle suore. «Sono venuto a vedere Fernando Guzmán. Sono un amico di famiglia.» La suora lo accompagnò fino alla sua stanza. Vedendolo, come ogni volta, sentì un nodo alla gola. «Come ti trattano, bene?» Gli porse il pacchetto di frittelle e dell’uva. «Sì...» Lo fissò con uno sguardo tagliente e aspettò che la suora uscisse. «Speravo di vederti, ieri ho fatto un importante passo avanti verso la libertà.» «Quale?» «Li ho convinti a lasciarmi leggere i giornali...» «Ma ti farà male!» esclamò esasperato Silanpa. «Il medico ha detto niente informazione.» «Aspetta, aspetta, le cose stanno così: ho proposto di lasciarmi leggere un giornale al giorno, non per le notizie o l’attualità ma per la storia, mi capisci?» «No.»
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«Loro mi danno ogni giorno un giornale vecchio, dell’anno in cui sono entrato in clinica... E in tal modo vengo a sapere le cose con anni di ritardo e a piccole dosi, ma le vengo a sapere.» Silanpa lo guardò con ammirazione. Ne aveva inventata un’altra delle sue. «Adesso sono all’occupazione del Palazzo di Giustizia, che brutta storia, no? Questo paese è malato. Betancur dovrà fare un referendum, o dimettersi.» «Non te lo immagini neppure quello che succederà dopo...» «Neanche una parola, poeta», gli disse Guzmán. «Se ci fosse stato un secondo bogotazo* me ne sarei accorto.» Un velo di lacrime lo costrinse a indietreggiare. Andò alla finestra e guardò le montagne con tristezza. A quel punto decise di raccontargli la storia dell’impalato. «Non so chi sia, né da dove venga. Una palla di grasso ripiena di sabbia e alghe...» «Bisogna controllare se esiste un precedente simile», puntualizzò Guzmán. «Guardare negli archivi della polizia se ci sono altri casi di qualcuno impalato, o crocefisso, o impiccato e abbandonato all’aria aperta. Bisogna trovare un punto d’appoggio, l’identificazione del cadavere non può essere l’unica pista.» «La faccenda è piuttosto complicata.» Silanpa si accese una sigaretta e aprì la finestra. «Sto cercando tra le schede di persone scomparse, Moya mi dà una mano in cambio di collaborazione.» «Una cosa simile non si fa senza odio, Víctor, e un odio molto profondo. Questo non è solo un crimine. Qui c’è umiliazione, disprezzo, bassezza morale.» Entrò l’infermiera con una pastiglia e scrutò Silanpa dall’alto in basso, diffidente. Pensò che fosse il momento di andarsene. Si salutarono con una stretta di mano che a lui scaldò il sangue e, ancora una volta, evitò di guardarlo negli occhi.
*
Insurrezione popolare del 1948 in seguito all’assassinio del leader della sinistra liberale Eliécer Gaitán, che nella capitale assunse una tale violenza da passare alla storia colombiana come bogotazo. (N.d.T.)
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Tornò a Bogotá guidando piano, ripensando ai pomeriggi di studio con Guzmán, il Negro Ferreira e Juan Carlos Elorza. Analizzavano i ritagli di giornale, discutevano sui dettagli dell’informazione e si immaginavano già seduti davanti a un IBM, nella redazione di un importante quotidiano, con la cornetta del telefono appoggiata all’orecchio e battendo qualche dichiarazione di vitale importanza che l’indomani avrebbe cambiato il corso della realtà. Sentivano che l’inchiostro scorreva nelle loro vene e che la pagina stampata era la dimensione temporale a cui anelavano dedicare pomeriggi di lavoro, nottate di amicizia e fatica. Guardò l’orologio: le sei del pomeriggio. Il signor Gallarín non sarebbe uscito prima delle sette e mezzo, ma era meglio essere previdenti. Controllò di avere con sé il libro di Cioran prestatogli dall’amico filosofo Tabo Chirolla e si diresse verso la clinica. Alle sette e trenta precise la BMW Sedán di Gallarín uscì dal parcheggio. Avanzò fino all’incrocio della 100 con la 19 e al semaforo, come al solito, fece salire l’amante. Poi scese lungo la 100 fino all’autostrada e arrivò a Estadero del Norte. Silanpa controllò la sua Nikkormat e la piantina dei motel. Gallarín occupava sempre una delle stanze che davano sul cortile interno, quelle con minidiscoteca e sauna. Tastò il grimaldello che aveva in tasca e si accese una sigaretta controllando le luci della BMW, qualche metro davanti a lui. Arrivato al motel Silanpa sistemò il manichino di donna sul sedile di fianco al suo, le mise addosso uno scialle e se la appoggiò sulla spalla. Avanzò verso la porta e suonò due volte. «Benvenuta nel tempio di Malpighi», le disse all’orecchio, e gli parve che sorridesse. Un giovane venne ad aprire in fretta e furia indicandogli di seguire i segnali. Girò a sinistra cercando le stanze interne e vide che la BMW Sedán era parcheggiata davanti alla numero 7. Scese con la sua bambola in braccio e salì verso la stanza con gli occhi fissi sul corridoio interno. Sarebbe entrato da lì. Una volta in camera si guardò allo specchio, controllò l’attrezzatura e tirò fuori il libro. Voleva prenderli con le mani nel sacco e quindi doveva aspettare qualche minuto. Prima di uscire andò in bagno a orinare e spense il mozzicone di sigaretta. «Aspettami qui», disse alla bambola, sistemandola davanti al televisore. Gli tremavano le gambe mentre si avvicinava alla porta. Ascoltò i gemiti e si disse: «Sono già sul più bello». Preparò la macchina fotografica e spalancò la porta scattando flash e gridando «Nessuno si muova, poliziaaa!» 25
Gallarín era a faccia in giù. Indossava un reggiseno di pizzo rosa, le braccia erano legate con le calze di nylon al bordo del letto e portava scarpe con i tacchi alti color argento. Dietro di lui c’era il negro Zoltán, l’addetto alle pulizie della clinica, con una maglietta attillata che gli arrivava all’ombelico. «Sorridete e non muovetevi», urlò Silanpa senza smettere di scattare fotografie. Il nero sodomita si staccò come un fulmine da Gallarín e affrontò Silanpa brandendo il suo scuro membro. «Buono... Polizia.» Non fece in tempo a terminare la frase che già cadeva per terra sotto un tremendo colpo. L’etiope aveva il pugno veloce. «Zoltán, bruto, che diavolo fai? Lascialo, non complichiamo di più le cose.» Gallarín cercò di ricomporsi. Silanpa si rialzò ammaccato e il nero si fece da parte guardandolo con odio misto a umiliazione. «La polizia ha circondato l’hotel», mentì con una voce che pretendeva di suonare aggressiva. «Questa è un’operazione di routine, quindi rimanete qui senza muovervi finché non arriva il capitano.» «Zoltán, in bagno. Lasciami parlare con questo signore.» Il nero entrò e richiuse la porta. «Non so chi sia lei, giovanotto, ma lo immagino. Non ci credo alla storia della polizia e sono più propenso a ritenere che sia uno di quegli investigatori che pedinano i mariti adulteri. Mi sbaglio?» Silanpa non disse né sì né no. Preferì massaggiarsi lo zigomo colpito ed evitò di guardare l’uomo nudo, sudato. «So che è mia moglie a mandarla e quindi possiamo parlare con franchezza. Quanto?» «Quanto cosa?» «Non facciamo i finti tonti. Quanto, quanto le ha dato mia moglie?» «È un segreto professionale.» «Al diavolo il suo segreto professionale. Quanto per il rullino? Mi chieda quello che vuole. Vanno bene duecentomila pesos?»
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Silanpa pensò che aveva incassato esattamente quella somma e che l’aveva già spesa per riparare l’impianto elettrico della Renault 6. «Per quella cifra non mi gratto neppure un orecchio, dottore. Senza contare che la sua proposta non è legale.» «E le sembra legale immischiarsi nella vita degli altri?» Provò vergogna, ma si diede un contegno. «Lei sta tradendo sua moglie, dottore, non mi faccia la predica. Ciò che viene a fare qui con quel maschione è condannato persino dalla Bibbia.» Si massaggiò lo zigomo. Fece il gesto di andare verso la porta. «Aspetti... Mezzo milione le basta?» rilanciò Gallarín. Silanpa guardò la macchina fotografica e un’espressione di sorpresa lo tradì. «Venga, le faccio subito un assegno.» L’uomo si coprì con il lenzuolo. Si avvicinò alla giacca e prese una stilografica. «Ecco fatto. Mi dia il rullino.» Silanpa prese l’assegno e consegnò la pellicola. Si girò e camminò verso la porta pensando che era l’ultima volta che faceva una cosa simile. La vita privata degli altri esercitava su di lui un grande fascino, ma disse tra sé: «Io sono un giornalista, perdio. Cosa c’entro con queste storie?»
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III
Mi chiamo Aristófanes Moya. Sono alto un metro e ottanta e peso centoventiquattro chili. Forse qualcuno di voi mi conosce già per la mia modesta e sacrificata condizione di uomo semipubblico, ehm... che dedica la propria vita al servizio della cittadinanza. Ma non ci troviamo qui per parlare di quello che facciamo in strada, bensì di cosa ci ha portati in questo posto, nella nostra rispettabile associazione. Mangiare o non mangiare, chi lo decide? La faccenda è diventata grave un giorno che, oltre ai tre pasti regolamentari, mi sono sgranocchiato la stronzatina, chiedo scusa alle signore, di diciassette cioccolatini Jet, quattordici confezioni di Chitos e undici Chocorramos. E questo per quanto riguarda i dolci, perché anche sul salato mi sono strafogato: nove empanadas, sei focaccine all’uovo e strutto con peperoncino, quattro hamburger con formaggio e altrettante porzioni di patate fritte, irrorate di ketchup e senape. Tutto questo, sommato all’impegno con cui spazzolo la tavola tre volte al giorno secondo i dettami della Chiesa cattolica, fanno più di novemila calorie, il triplo di quanto un essere umano di normale costituzione fisica necessiti per sostenersi. Sono una persona di scarsa istruzione, ma non per questo mi considero un ignorante. Guardo la televisione e ascolto la radio. Leggo un quotidiano tutti i giorni, mi soffermo sulle pagine sportive ma non trascuro le notizie di politica, cronaca e attualità. Una volta al mese, su consiglio della mia signora, compro «Selezione del Reader’s Digest» e, nonostante ciò che lei dice quando vuole burlarsi del sottoscritto, leggo diversi articoli e non solo la pagina delle barzellette. È stato così che ho cominciato a prendere coscienza del mio problema, in particolare grazie a un capitolo intitolato «Sono lo stomaco di Juan». Ho appreso, riassumendo, che lo stomaco è una cosa e il sacco dell’immondizia un’altra. E qui ricorro a un’altra iperbole chiedendovi di scusarmi: la mia signora, che è una santa e che in cucina, con un mestolo in mano, è capace di smuovere le montagne, mi dice sempre: «Finisci questo pochino di zuppa rimasta, ti va? Guarda che altrimenti dovrò buttarla via», «Fatti questa salsina con un altro po’ di riso così la finiamo, te la scaldo?», e cose del genere, tutto il giorno. E io, che davanti a un piatto ho la forza di volontà di un poppante, le do retta. Una volta ho letto, sempre su «Selezione», che gli animali predatori mangiano tutta la carne che cacciano. Una tigre o una pantera finiscono 28
sempre la loro preda per non lasciarla ad altri. Un animale di quelli può mangiarsi trentacinque chili di carne, e si ferma solo quando le ossa sono ben ripulite e non c’è più niente da succhiare. È un fatto naturale e la differenza sta tutta lì. Mi sono detto: «Aristófanes, tu non sei una tigre né una pantera», anche se devo ammettere che i miei colleghi mi chiamano a volte El Tigre, ma per altri motivi che qui non c’entrano. Insomma, non sono un animale e ho la facoltà di pensiero, e per questo, sono venuto a chiedere l’aiuto di tutti voi, dell’associazione L’Ultima Cena. Non credo sia una debolezza chiedere aiuto, no? Se è umano sbagliare, è umano anche sapere che un problema esiste e che bisogna metterlo sotto i denti, per quanto tale espressione mi abbia già tradito.
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IV
La gonna le stava bene. Di stoffa a buon mercato, questo sì, ma di qualità, un bel colore, e grazie ai ritocchi fatti in casa con la Singer della nonna le aderiva al corpo come un guanto di raso. Dietro le cadeva senza una piega, era attillata sui fianchi e un orlino spumoso le conferiva una certa grazia. Ricordò un cartellone pubblicitario che diceva: «Il mondo è tuo. Osa». Lei osò. Nancy arrivò nello Studio Legale Barragán molto orgogliosa, senza più la timidezza della prima settimana di lavoro. «Eccola lì la principessa», mormorò Trini, la seconda segretaria, all’orecchio di Nacha, la centralinista. «Guardala. Quella viene per piantare grane.» «Non pensare sempre male», rispose Nacha. «È così timida.» «Timida? Io da certe timide sto alla larga.» Bevve un sorso di caffè macchiato. «La timidezza, ragazza mia, è l’anticamera della troiaggine interessata. Scommettiamo? Io dico che prima della fine del mese quella si sarà già infilata il dottore dove sappiamo.» «Be’, non è che il dottore sia un sacerdote gesuita. Se mi dessero un peso per ogni pizzicotto nel sedere che ho preso adesso starei bevendo champagne ad Acapulco.» La porta si spalancò di colpo e il vano si riempì con la figura di Emilio Barragán, quarantenne elegante, alopecico con parrucchino importato dall’Italia, avvocato del Rosario, temibile giocatore di Risiko e buon raccontatore di barzellette sconce nel Jockey Club. Era sempre preceduto da una zaffata di profumo Obsession di Calvin Klein. Trini e Nacha lo guardarono a bocca socchiusa. Tomate, il terzo segretario, e Domitilo, il fattorino, lasciarono ciò che stavano facendo e si voltarono verso di lui: «Buongiorno, dottore!» gridarono tutti e quattro. «Buongiorno», rispose indaffaratissimo, Tomate notò l’armonia tra la camicia di un bianco immacolato e il nodo della cravatta, un rettangolo perfetto con elevazione di un centimetro che gli conferiva un’aria di ele30
ganza casual. Provò invidia e si sentì inferiore, condannato alla trasandatezza. «Dov’è quella nuova? Come si chiama?» chiese Barragán fermandosi un istante prima di aprire la porta del suo studio. «Nancy? Non ne abbiamo idea, dottore, è arrivata poco fa ma è sparita.» In quel momento Nancy aprì, la porta del bagno ed entrò nell’ufficio. Non si era sbagliata nella scelta dei tempi per andarsi a rifare il trucco e a lisciare le pieghe della gonna, ricordo dei quarantotto minuti passati sul minibus 98A dove, per altro, un bulletto le aveva detto una volgarità facendola sorridere: «Regalami i tuoi collant, bambolina, ma solo quando saranno proprio sporchi». «Buongiorno, dottore», disse educatamente. «Buongiorno, Nancy.» La guardò negli occhi, si portò un dito alla tempia e disse: «Cerchi la pratica Pereira Antúnez. Faccia una fotocopia del glossario e me lo porti nello studio. Trini, mi chiami il dottor Marco Tulio, al Consiglio». Trini guardò Nacha verde di invidia. Domitilo guardò Nancy con libidine e scambiò un’occhiata allusiva con Tomate. Tomate concentrò le pupille sulla zona pelvica di Nancy e la immaginò nuda, a gambe aperte, e vide se stesso che si infilava un preservativo dicendole: «Ecco, biscottino, ci siamo». Tutti inghiottirono la saliva e Tomate s’infilò una mano in tasca. Il consigliere comunale Marco Tulio Esquilache osservava i nuvoloni dalla finestra del suo ufficio, sorpreso per il fatto che a quell’ora l’inquinamento permettesse di vedere un pezzo di cielo. «La vita riserva colpi duri, che volete farci»,* recitò ad alta voce, quando il telefono suonò. «Barragán sulla tre, dottore», sentì dire alla segretaria. «Aspetti un attimo e poi me lo passi», rispose tranquillo. Aprì il cassetto in basso, prese un sigaro Montecristo e lo accese con calma. Riattaccò: «Se oggi tocca dire qualche piccola bugia, che sia almeno da un milione di pesos». Poi alzò la cornetta. «Emilio, che piacere sentirti così presto.»
*
È il primo verso della poesia Los heraldos negros, del poeta peruviano Cesar Vallejo, ma le ultime parole vengono storpiate dal personaggio, ottenendo un effetto grottesco per il lettore latinoamericano che conosce la celebre opera. (N.d.T.)
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«Lo stesso vale per me, Marco Tulio. Hai già letto i giornali?» «Certamente. Tutte sciocchezze, come sempre...» «Non hai notato la faccenda dell’impalato?» «Ah, be’, quella è un’altra cosa. Lo sai, vecchio mio, certe storie qui succedono tutti i giorni.» «Io invece ne sono rimasto colpito, Marco Tulio. Sai qualcosa al riguardo?» «Sei sempre stato un sentimentale, Emilio. Come sta Catalina?» «Marco Tulio, per favore. Ti ho fatto una domanda.» «Sono io quello che fa le domande, pezzo di fesso. Come sta Catalina?» «Bene, bene. Mi chiede sempre quando vieni a mangiare da noi.» «E Juanchito e Cata?» «In collegio. Cata ha avuto un encomio per il francese.» «Allora va tutto bene.» Esquilache prese fiato, guardò il monte di Guadalupe oltre la finestra e ruttò. «La prima cosa è la famiglia, scimunito. E adesso sì, dimmi, che succede con questa storia dell’impalato?» «Il fatto è che dopo aver letto i particolari sull’‘Observador’ mi è sembrato ci fosse una serie di coincidenze.» «La vita è piena di coincidenze, Emilito, non hai letto Le affinità elettive di Goethe?» «Per favore, Marco Tulio.» «Dovresti leggerlo perché ti spiegherebbe più o meno questo. Cos’è che ti preoccupa tanto?» «Mi preoccupa che abbia qualcosa a che fare con Pereira Antùnez.» «Pereira era un imbecille. A suo modo un tipo precoce: fin da piccolo era già un coglione.» «Ho paura, Marco Tulio.» «Non bisogna aver paura della paura, mio caro. ‘Un uomo senza paure è uno stupido’: Federico Fellini.» «Sto parlando sul serio.» «Anch’io parlo sul serio. Di’ a Catalina che per domenica prepari qualcosa di squisito. Tu compra una bottiglia di Casillero del Diablo e io porto il dolce e i Montecristo per dopo. Intesi? Ne parliamo lì. E nel frattempo, 32
mio caro, smettila con i piagnistei. Fa’ un respiro profondo e cerca di rendere onore a quel paio di palline di carne che hai sotto il pene, d’accordo?» Esquilache sbatté giù il telefono con violenza. «Mondo di merda», pensò, «i giovani non sanno più neanche dove stiano le palle.» Era un giorno diverso. Se n’era accorto alzandosi e sentendo che alla radio parlavano di inondazioni a sud di Bogotá. Non riusciva a capire come potesse diluviare in quella parte della città mentre sopra casa sua brillava il sole. Stimolato dalla conversazione telefonica si avvicinò allo scaffale e prese il vecchio dizionario di Covarrubias. Lo aprì alla lettera c e cercò una parola: «Codardo: uomo di poco animo e molta paura». Poi prese l’elenco telefonico e sfogliò varie pagine: Valdés, Varela, Vargas Vicuña... Alzò la cornetta e marcò il numero. «Pronto?» «Il dottor Vargas Vicuña, per favore.» «Da parte di...?» «Marco Tulio Esquilache, del Consiglio di Bogotá.» Nell’attesa tornò ad accendere l’avana, soffiò il fumo con forza e si voltò verso la finestra. «Come sta mio stimato dottore?» disse con voce soave. «Marco Tulio, credevo che non mi avresti più chiamato. Come vanno le cose nel Consiglio?» «Al solito, le stesse faccende di sempre.» Una goccia di sudore si formò sul suo labbro. Un’altra scivolò lungo la schiena formando una traccia scura nella camicia. «Volevo parlarle di una certa cosuccia, dottore», si decise a dire. «Lei che è un grande manager, alla testa di una delle più grandi imprese di costruzione del paese, non ha dei consiglieri per le questioni legali riguardanti le costruzioni?» «Ovviamente sì, Marco Tulio. Ho tre avvocati che mi ammorbidiscono l’osso e me lo danno quando è ben tenero, perché questa domanda?» «È che, pensi un po’ com’è la vita, dottore. Ho qui, davanti ai miei occhi, un rapporto del nostro addetto alle questioni legali che dice, riassumendo, che i terreni di Bosa sui quali lei intende costruire il centro abitativo Vivere in Armonia III hanno un problemino con la degradazione del suolo. E segnala che il progetto della sua impresa, cioè un’unità di nove 33
edifici da sei piani ciascuno, è del tutto inattuabile perché il fondo argilloso non garantirebbe che la struttura possa restare in piedi più di cinque anni. Si immagina che grana?» «Ma cosa mi dici mai, Marco Tulio», bofonchiò con la voce roca. Un silenzio imbarazzante calò tra i due. Esquilache inghiottì la saliva e soffiò il fumo contro la finestra. Vargas Vicuña riprese: «Anch’io ho fatto eseguire uno studio del suolo, un gigantesco incartamento che porta i timbri di varie ditte straniere e persino di un laboratorio dell’Università Centrale. Credi, mio caro Marco Tulio, che mi sarei infilato in un’impresa simile senza prendere le mie precauzioni?» «Questa è sempre stata una sua caratteristica, dottore, non ne parliamo neanche. Ma l’altro problema è che ho qui le copie notarili della vendita e si suppone che lei abbia pagato a un prezzo di superficie edificabile di categoria B, cioè un massimo di tre piani. Mi capisce? Non è che il progetto sia sbagliato, il fatto è che bisognerebbe apportare qualche piccola modifica.» «Hai sempre voglia di scherzare, Marco Tulio.» Respirò più volte contro il microfono. «Senti, tu lo sai bene che quei terreni non li voleva nessuno e che il Distretto me li ha venduti perché in quella zona sperduta non c’è un cane che investa un centesimo. Volete una politica di recupero della città? Eccomi qui, pronto a investire per costruire dove nessuno lo fa, su terreni in zone depresse, su superfici morte...» «Dottore, cerchi di capirmi...» «Io ti capisco, Marco Tulio. E se devono essere di tre piani, bene, allora si faranno di tre piani. Non andiamo contro la legge e non vogliamo certo mettere in pericolo i futuri inquilini.» «È questo che volevo sentirle dire, dottore.» «Non stiamo tanto a girarci intorno», concluse Vargas Vicuña. «Mandami il dossier del progetto e dove dice sei piani, ci scriviamo tre. E chiuso. E a quegli americani che mi hanno fatto i rilievi del terreno, un candelotto di dinamite nel culo a ciascuno, come ti sembra?» «Ah, ah... Ma certo, dottore», rise Esquilache, adesso più tranquillo. «E mi dica una cosetta, se non sono indiscreto, non avrà per caso altri progetti di urbanizzazione, magari infilati in una manica?» «Vivo di questo, mio caro consigliere. E te li manderò mano a mano che saranno pronti.» 34
Si salutarono ed Esquilache tirò un sospiro. Riusciva ancora a intendersi con un nemico pericoloso come Vargas Vicuña. Entrambi avevano recitato bene il proprio ruolo. Un frastuono di clacson gli arrivò dalla strada. Un camion del latte cercava di fare inversione sul marciapiede mentre un minibus veniva in senso inverso. Estraneo a tutto questo, giocherellando con il portachiavi della Peugeot 605, l’avvocato Emilio Barragán lasciava scorrere i pensieri. E nonostante l’assurdo colloquio con Esquilache la mattinata si era messa al bello: sole splendente, vento fresco che scendeva dai monti e un cielo limpido, senza nubi. Aprì la finestra e guardò la città al di là degli alberi. A un tratto si toccò la pancia con un gesto rapido e, schifato, constatò che era aumentata. Tirò indietro lo stomaco e trattenne il respiro, poi si passò le mani sui pettorali, tese i muscoli, alzò il mento e si guardò il profilo vagamente riflesso sul vetro. Perché Esquilache lo trattava in quel modo? Ovvio: perché gli procurava i lavori, perché lo considerava un moccioso, perché era lo zio di Catalina e fin dai tempi dell’università gli forniva degli agganci per aiutarlo a farsi strada. Poi si passò un dito sul collo e se lo portò al naso. Con un gesto nervoso aprì il terzo cassetto della scrivania, prese un flacone di profumo e se ne mise un paio di gocce. Lo preoccupava la storia dell’impalato. Era orribile che certe cose succedessero così vicino alla gente civile. Era per questo che cullava ansiosamente l’idea di andarsene a vivere a Londra. Sognava le camicie di Harrods e il mercatino di Camden Town. O Parigi: i negozi di rue SaintHonoré, le boutiques sugli Champs-Elysées e gli innumerevoli negozi nel quartiere dell’Opera. Quella sì che era vita, non questo trantran insulso e insipido che doveva vivere quotidianamente a Bogotá, con tutti i fastidi e le brutture da dover vedere ovunque. Il giorno prima, senza spingersi troppo lontano, al circolo gli avevano raccontato che uno storpio che lavava i vetri a un semaforo aveva infilato la mano nel finestrino dell’auto alla moglie di Cansino Prada. Mettendole sotto il naso un pezzo di cacca le aveva gridato: «Se non vuoi mangiare merda, signora, passami un bigliettino da diecimila pesos». Per poco non le veniva un infarto, gli avevano detto, e lui poteva capirla. Che schifo.
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V
Quando tornò a casa, trovò un messaggio di Moníca nella segreteria telefonica: «Ti sei perso un’altra volta. Sono le otto e mezzo e io sono qui che ti aspetto come una scema nel Centro Granahorrar. Se non arrivi entro dieci minuti chiamo Oscar». Guardò l’orologio: erano le dieci. Si sentì solo, con la sensazione di lasciarsi sfuggire qualcosa di bello. Andò in cucina e si servì mezzo bicchiere di Viejo de Caldas, mise un compact di Scott Joplin e cominciò a rileggere le frasi che conservava nei taschini del manichino: citazioni da libri, promesse, parole di Moníca, frasi di Guzmán o sue che annotava volta per volta con l’Underwood elettrica o scarabocchiava su foglietti sparsi e che adesso leggeva in disordine, tirando boccate di fumo al ritmo della musica e bevendo rum a piccoli sorsi. «L’unica speranza sta nel prossimo bicchiere»: Malcolm Lowry. «Non farmi vedere rosso se non vuoi che ti pianti le corna»: Moníca. «Clave mi ha regalato un pugnale, e io gliel’ho piantato in corpo»:* Virgilio Piñera. «Ho perso. Ho sempre perso. Non mi irrita né mi preoccupa. Perdere è una questione di metodo»: Luis Sepúlveda. «Vinto dalle mie sventure, ridotto alla miseria nonostante l’enorme mole di lavoro, mia moglie pazza ricoverata in clinica, senza poter pagare la sua retta, la faccio finita»: Emilio Salgari. «C’è nella tua vita un’ombra mistica»: Trío Matamoros. La bambola a grandezza naturale era stata un’idea di Guzmán. L’avevano vista un pomeriggio nella vetrina di un negozio di cappelli, vicino alla piazza Bolívar. Indossava un vestito nero e portava una veletta sul volto. «Con una bambola così non resterai mai più da solo», aveva detto lui. Silanpa non aveva aggiunto nulla, ma il giorno dopo c’era tornato con la sua R6 e l’aveva comprata a un prezzo ragionevole: un busto di legno su una base verticale, due braccia e un viso di gesso con gli occhi di vetro. Occhi colorati di un nero intenso. Prese il rapporto sull’impalato e si mise a studiare i dati mangiando fette di salame. Pensò a quello che aveva detto Guzmán: l’identità del morto *
Gioco di parole: qui Clavé è un nome proprio, e anche il passato del verbo clavar, piantare, inchiodare. (N.d.T.)
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non può essere l’unica pista. Che fare? La storia di Estupiñán era tutto ciò che aveva. Forse l’indomani sarebbero arrivate le schede dal resto del paese e allora sì che avrebbe avuto il suo da fare. Di malavoglia, alzò la cornetta del telefono, marcò il numero di Moníca e lo lasciò suonare. Non c’era, e lui lo sapeva. «Non guardarmi così», disse alla bambola. «Lo so che è colpa mia e che non la merito.» Si avvicinò al manichino, infilò la mano nel taschino del vestito nero (un vecchio pizzo di Siviglia) e tirò fuori un altro foglietto a caso. Lesse: «I galantuomini hanno un lavoro fisso, buone entrate... Hanno sempre da qualche parte qualcosa che gli appartiene, come lei ha il suo albergo. Noi che viviamo alla giornata... ecco, ci arrangiamo qua e là, nei bar... Andiamo in giro con gli occhi ben aperti e le orecchie tese». Era una citazione di Graham Greene. Cos’era lui? Moníca voleva che fosse un galantuomo e lui desiderava con forza essere uno che vive alla giornata. Andò in cucina e si versò un altro dito per il lungo di Viejo de Caldas: lui non era né l’uno né l’altro. Con i soldi che aveva non poteva essere considerato un vagabondo, ma non erano abbastanza per sentirsi rispettabile. Gli sarebbe piaciuto avere qualcosa da scrivere. La storia dell’impalato gli solleticava le dita, ma pensò che sarebbe stato inutile. Comunque, si sedette davanti alla Underwood elettrica e infilò un foglio: «Non ho niente da dire stanotte. Spero di sognare qualcosa». Ricopiò la frase più volte con delle variazioni: «Non posso scrivere niente, perché non succede niente». Bevve un lungo sorso di rum guardando verso la finestra, fumò con calma e tornò alla tastiera: «Mi piacerebbe un bell’incubo, ma non quello della valigia piena di serpenti. Mi mette il panico». E poi: «C’è del marcio nel regno di Danimarca, ma qui non succede niente». Nel cuore della notte il telefono squillò e Silanpa diede una manata nel buio verso il tavolino di metallo. «Pronto?» «È urgente, investigatore. Parla Emir Estupiñán.» «Chi?» «Sono il fratello dello scomparso, si ricorda, all’obitorio?» «Mi dica...» «Ho una pista. Può venire subito da me?» «Sono le tre del mattino. È molto urgente?» 37
«Non posso dirglielo per telefono. Sono nel bar Lolita, dietro il parco Santander. Venga subito.» La telefonata si interruppe e Silanpa, preoccupato, si alzò con un balzo che lo fece urlare di dolore. Esplorò la zona con il dito e notò terrorizzato che l’emorroide si era gonfiata diventando più dura, moltiplicandosi in grappolo verso l’interno. Si vestì alla meglio, uscì tremando di freddo e corse sulla circonvallazione fino al parco Santander. Il posto puzzava di piscio di gatto. Sulla porta c’era un sordomuto che a gesti lo invitò a salire per una scala stretta. Quando Silanpa entrò, l’uomo si palpò i testicoli per fargli capire che di sopra c’erano delle belle donne. La scala lo portò a un secondo piano. Poi a una porta nera con un campanello. «Sì?» Un uomo aprì uno sportellino. «Buonasera... Si può?» L’uomo lo squadrò dall’alto in basso. «Mi hanno consigliato questo posto e scritto l’indirizzo su questo foglietto, ma io non riesco a leggerlo», gli passò un biglietto da mille. «L’hanno consigliata bene, si accomodi.» Dentro era molto buio. Bisognava abituare la vista e Silanpa cominciò a cercare Estupiñán. Avanzò verso il bancone e andò a sbattere contro un tavolo male illuminato dove un uomo con la cravatta ciondolava la testa di fronte a un bicchiere di aguardiente. Agli altri tavoli c’erano donne addormentate e uomini che le palpavano. Da un jukebox veniva musica ranchera. In fondo, oltre un corridoio, vide la sala biliardi. «Un rum.» All’inizio il cameriere lo guardò con diffidenza ma poi si dimostrò gentile. «Ecco, è bello pieno. Vada pure a sedersi che le mando una ragazza.» «Grazie. Lasci scegliere a me.» Camminò verso la sala illuminata del biliardo e notò sulla destra vari tavoli da gioco. Non vedeva Estupiñán e cominciò a spazientirsi, finché non udì una voce alle sue spalle. «Vada al biliardo sotto la finestra e prenda una stecca. La raggiungo lì.» 38
Seguì le istruzioni e, passando, guardò oltre la finestra, verso la strada. Non c’era un’anima. Le foglie degli urapan giacevano sull’asfalto bagnato. Il salone invece era affollato: tavoli da quattro pieni di carte e soldi, domino, dadi, pirinola, parqués. Una vera e propria bisca. Le donne andavano e venivano sollevandosi la gonna, lasciandosi toccare dai clienti in cambio di birra o biglietti da mille. «Facciamo una partitina?» Estupiñán lo salutò con un inchino. «Ma certo.» Cominciarono a giocare. Estupiñán non parlò per le prime venticinque carambole. Poi a un tratto disse: «Guardi. Quel tipo laggiù». Gli indicò un uomo a uno dei tavoli. Aveva due donne sedute sulle gambe: una nera sui diciassette anni e l’altra maggiorenne, dai capelli tinti, che gli accarezzava il collo. «Sono quattro giorni che non esce da qui. Paga la musica, beve aguardiente e manda a prendere da mangiare alla rosticceria di fronte. Si è conquistato le puttane infilando biglietti nelle mutande. Scommette con chiunque e non gli interessa perdere, ha una borsa piena di soldi.» «E cosa c’entra?» «Poco fa mi sono fermato a guardare e ho sentito che parlava di un lavoretto che aveva fatto.» Silanpa si avvicinò, posando la stecca. «Non smetta di giocare, mandi in buca.» «Che lavoretto?» «Guidare un camioncino con un carico particolare.» «Ha detto che genere di carico?» «No.» «E allora?» «Ha parlato di un viaggio da Tunja a Chocontá, che si trova vicino al lago dove hanno ritrovato il corpo, no?» «Oddio...» «Ecco perché l’ho chiamata.» 39
«Riusciamo a parlargli?» «Quando finisce di giocare lo invitiamo a bere e scommettiamo con lui.» Estupiñán gli lanciò un’occhiata furtiva. «È il tipo di uomo che parla a briglia sciolta perché si sente orgoglioso di quello che ha fatto e ha voglia di raccontarlo. Glielo si legge in faccia, aspetti e vedrà.» L’uomo finì la partita a domino, aprì la borsa e tirò fuori tre biglietti da mille per darli al suo avversario. Con lo stesso gesto ne prese due da cinquecento e li infilò sotto le gonne delle signorine. «Musica, perdio!» urlò. «Una partitina?» Silanpa si rivolse a lui con cortesia. «Si sieda. A cosa gioca?» «A quello che preferisce...» «Vediamo... Parqués?» «Parqués.» «Lotario Abuchijá, trasportatore. Per servirla», gli tese la mano. «Emir Estupiñán, contabile, e il mio amico è il signor...» «Víctor Silanpa.» Cominciarono a giocare parlando di cose banali. Al centro del tavolo c’erano tre biglietti da mille. «La vita è una festa, no?» disse a un certo punto Estupiñán. «Sì», confermò il tipo. «Bevute, scommesse e bei culi. Amore mio, vorresti mostrare il culetto ai miei amici?» La più giovane si alzò la gonna fino alla cintola lasciando vedere due natiche di ebano. «Ah... peccato che tutto sia così effimero», disse guardando il soffitto. «Però lei ha fortuna», Silanpa parlò senza guardarlo. «Vorrei averla io.» «Lei è...?» «Agente assicurativo.» «Sarà per questo che le piace giocare.» «E lei?» «Io faccio trasporti per conto terzi.» Estupiñán rifilò a Silanpa un pestone sotto il tavolo. «Deve essere un lavoro interessante, no? Cosa trasporta?» 40
«Di tutto. Anche la cacca, se me la pagano.» Risero. Silanpa tirò i dadi, e fece le sue mosse. «Soffiato!» gridò Estupiñán. «Poteva mangiare con questa.» «Ah!» Silanpa chiamò il cameriere e ordinarono un giro di birre. «A lei devono pagarla proprio bene, sennò come potrebbe permettersi questi lussi?» e guardò le signorine. «È che a volte capitano dei grossi affari», e strizzò l’occhio. «Buon per lei. Io invece, sempre uguale.» Da una panca in fondo alla sala penzolavano due gambe di donna con scarpe dai tacchi a spillo. Silanpa le guardò incuriosito. «E che genere di affari, se si può sapere?» «Niente di speciale, non creda chissaché... Affari puliti, che però rendono di più.» Estupiñán pensò che fosse arrivato il momento: l’uomo aveva voglia di parlare, ma gli mancava ancora una spintarella. Propose un brindisi, gli strizzò l’occhio, lo prese per un braccio e disse sorridendo: «Ci racconti il suo segreto, siamo tra amici.» «Non so.» Bevve un lungo sorso con gli occhi che brillavano di orgoglio. «Cose strane, a volte misteriose e difficili.» «Pago per vedere», disse di colpo Silanpa, lasciando cadere un biglietto da cinquemila pesos sul tavolo. «Ha sbagliato gioco», rispose il camionista. «Non c’è niente da vedere.» «Una storia ben raccontata vale sempre la pena», disse Silanpa. «A un tipo come lei piacciono le storie?» «È che ho avuto un’infanzia senza feste di compleanno...» «Ah...» Abuchijá si accarezzò il mento guardando la banconota, poi la prese tra le dita e se la portò al naso. Si guardò a destra e a sinistra, avvicinò la faccia al centro del tavolo e parlò in tono solenne. «Va bene, ma che non esca da qui...» «Nooo», dissero Estupiñán e Silanpa ammiccando.
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«È stato un colpo di fortuna, che volete...» si schiarì la voce e li guardò con un’espressione furbesca. «L’altro giorno mi hanno fatto portare una cassa da Tunja fino a Chocontá in cambio di un mucchietto di soldi niente male. Mi hanno detto di fare il viaggio di notte e di non fermarmi. Non ho saputo di cosa si trattava ma, sia chiaro, io sono una persona onesta. O meglio: ho il naso onesto. Quando fiuto qualcosa di losco, anche senza sapere cosa, non l’accetto. Ma qui ci si annoia. A chi tocca?» «A me», disse Estupiñán raccogliendo i dadi. «Chocontá è un bel posto. Si è fatto una cioccolata con frittelle dolci nella piazza? È una vera delizia.» «Macché, in paese ci sono a malapena entrato. Non lo conoscevo.» «E come ha fatto?» «Mi hanno dato una piantina, l’indirizzo e le indicazioni per arrivarci.» «Deve essere difficile orientarsi di notte.» «Il percorso era ben segnalato. Oltretutto si trattava dell’unico magazzino fuori dal paese. Ma adesso giochiamo. E prenda i suoi soldi, la storia la offro io.» Silanpa annotò mentalmente i dati e continuò a guardare le gambe della donna finché non si alzò. «Con permesso, vado in bagno.» Passando la guardò in faccia e si rese conto che era una ragazzina che dormiva con la testa appoggiata sulle braccia. Tornando al tavolo disse a Estupiñán: «Ho la nausea, mi ha fatto male il bere». «Andiamo fuori a prendere una boccata d’aria.» «Andiamo.» Si scusarono, raccolsero i soldi e si diressero alla porta del bar. Passando davanti al bagno sentirono il rumore dello sciacquone, poi alcuni passi e un colpo di tosse. La porta si aprì e videro uscire la ragazza dalle belle gambe che si tirava su la gonna per sistemarsi le calze. «Come ti chiami?» si azzardò a chiedere Silanpa. «Quica, ma per stanotte ho finito.» «Un altro giorno?» Gli piaceva quel suo viso da adolescente, la bocca fine e gli occhi da gatta. «Venga venerdì sul presto, magari verso le sette.» 42
Uscirono nel freddo della notte e Silanpa guardò l’orologio: le quattro e mezzo del mattino. Salirono sulla R6 e senza parlare né mettersi d’accordo si diressero verso l’autostrada.
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VI
E qui devo aprire una parentesi nella mia storia. Una parentesi integrativa: da bambino, nella lontana e brumosa Neiva dell’infanzia e dei ricordi, i miei genitori avevano una bancarella di frittate, spuntini, birra e avena nella piazza del mercato. La frittata è uno degli alimenti più nobili, spagnola o colombiana che sia, ma diciamo, senza offendere la patria, che è un veleno per la circolazione e il colesterolo. Io sono cresciuto così, mangiando di nascosto avanzi di frittata, infilandomi in bocca pezzi di cotica fritta inzuppati nell’avocado, salsiccia e fegatelli freddi, dadini di maiale mordicchiati a metà, il tutto senza che mi vedessero i miei pazienti genitori che, per la cronaca, avevano un concetto spartano dell’educazione infantile e mi davano da mangiare appena un piattino di riso con insalata e un triangolo di carne secca. E voi che mi ascoltate vi starete già chiedendo il perché di un’infanzia tanto dura. Ebbene, il motivo è che Aristófanes Moya, il sottoscritto, uno che oggi svolge un ruolo determinante nella società da uno dei bastioni più onorevoli, che porta l’uniforme della guardia della nazione considerandola una delle cose più serie e importanti della sua vita... in conclusione, chi vi parla, ha cominciato partendo dal fondo. Come educazione elementare ho avuto, a parte la vita, il libro aperto della piazza del mercato. Ho imparato a leggere e scrivere grazie alla scuola di Neiva, scuola pubblica, ovviamente, che comunque non mi ha permesso di andare oltre la quinta elementare. Ma non importa, perché il legno era buono e bisognava solo cominciare a lavorarlo, e non vado oltre su questo argomento non per vanità ma perché rappresenta la minuta della mia storia, stimati e rispettabili amici. La mia infanzia si è sviluppata tra due poli: da un lato la solitudine e la fame, dall’altro la felicità e il mangiare. E questo mi è entrato dentro con il trapano, signori, riuscite a capirmi? E ha portato alle ovvie conseguenze: una volta, quando avevo undici anni, ho sentito mio padre che diceva: «Aristófanes è un buono a nulla. L’unica cosa che sa fare è mangiare. Mi vergogno di lui». Quella frase ebbe su di me, sul giovane che ero, l’effetto di un fulmine: passai tre settimane senza mangiare, senza mettere letteralmente niente in bocca, e non per rabbia o per umiliazione, ma perché il mio corpo sembrava essersi chiuso a doppia mandata dall’interno. Arrivai a pesare ventotto chili, e in ospedale la gente 44
mi guardava come si guarda uno che non esiste più, che, come diciamo in commissariato, sta tirando le cuoia. E come è andata a finire? Nella maniera più umana e, se mi consentite, più bella possibile: quando ormai non ce la facevo più, con le ossa che mi uscivano dal corpo, mio padre è rimasto una notte in ospedale. Molto tardi, verso l’alba, sono stato svegliato da dei gemiti: era papà che piangeva. Voi potete immaginare cosa prova un essere umano quando vede piangere il proprio padre. È qualcosa di così profondo e pieno di mistero che il mondo viene messo in dubbio ed è come l’inizio di un nuovo ordine, qualcosa che getta nell’oblio tutto ciò che è accaduto fino a quel momento. E lì si è cancellato tutto. L’indomani il mio corpo si è sbloccato e ho potuto riprendere a mangiare. Ma la conseguenza di quella malattia è stata molto chiara, ho cominciato ad aver paura delle parole. Mi sono reso conto del danno che può fare una frase, e voi direte, come è possibile che Aristófanes Moya abbia paura delle parole? Ebbene sì, signori, ne ho molta paura. Più del coltello di un teppista o della pallottola di un fottuto delinquente, e chiedo scusa alle signore qui presenti. Perché le ferite inflitte dalle parole non si curano nell’Hortúa* con disinfettanti e flebo, ma solo con la tristezza, e non sanguinano, ma restano in agguato, aspettando il momento propizio per saltarci addosso come certi ragni, se mi si consente la similitudine animale, appostati nel buio pronti ad attaccare chi cade nella ragnatela. Allora mi faceva paura ascoltare la conversazione degli adulti, e me ne andavo in strada a tirare sassi, o al fiume a guardare scorrere l’acqua, o mi arrampicavo sugli alberi di mango per spiare il prossimo, passatempi naturali di una sana infanzia contadina. Perché gli unici suoni che non mi spaventavano erano quelli degli uccelli, della cascata e della corriera che passava a raccogliere la gente diretta a Bogotá. E io guardavo da lontano quegli autobus colorati, e li tenevo in grande considerazione perché sapevo che un giorno anch’io ci sarei salito per venire nella capitale...
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Il più grande ospedale di Bogotá. (N.d.T.)
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VII
Stava albeggiando quando arrivarono sul Sisga ed Estupiñán cominciò a preoccuparsi. «Cosa ci faccio io qui, a giocare a guardie e ladri, se tra due ore devo essere in ufficio?» «Non si preoccupi, il problema glielo risolvo in un minuto. Mi scriva il telefono e il nome del suo capo su questo foglio.» Entrando a Chocontá si fermarono a un telefono pubblico e Silanpa chiamò il capitano Moya. «Capitano? Sì, lo so che è troppo presto. Sto sempre dietro alla faccenda dell’impalato e ho trovato una pista importante. Ma ho bisogno di un favore: chiami questo numero, prenda nota: 248 39 26, chieda del direttore della Sezione Bilanci che è il signor Teófilo Mejorado e gli spieghi che Emir Estupiñán oggi non può andare a lavorare perché sta collaborando con la Polizia Nazionale a un caso urgente e segreto. Mi fa questo favore?» «E chi sarebbe questo Estupiñán?» «È il fratello di uno degli scomparsi, capitano, poi le racconterò il resto.» «Okay, Silanpa. E senta un po’, è troppo disturbo chiederle di portarmi delle mogollas chicharronas?»* «Con piacere, capitano, quante ne vuole?» «Una quindicina, non di più, giusto per sgranocchiarle qui in commissariato.» Erano le sei del mattino. Per strada passavano contadini con poncho e sombrero, faceva freddo, cadeva una pioggia leggera che era come un velo di acqua nell’aria. Silanpa vide arrivare il parroco. «Reverendo, mi scusi. Siamo di Bogotá e stiamo cercando il magazzino.» «Magazzino? Vorrà dire il granaio.»
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Sorta di croissant con pezzetti di cotica fritta. (N.d.T.)
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«Sì, padre, proprio quello. È che ho viaggiato tutta la notte e non so più quello che dico.» «Percorra questa strada fino in fondo. Lì vedrà un sentiero che sale verso la montagna costeggiando una cava. Continui per circa cinquecento metri e poi giri a sinistra. C’è un sentiero con le indicazioni.» «Grazie, padre.» La pioggerellina si trasformò in acquazzone quando arrivarono all’incrocio. Non c’era un’anima in giro e decisero di lasciare la macchina sotto degli alberi per continuare a piedi. «Niente ombrelli?» Estupiñán guardò sotto il sedile. «No, ma non si preoccupi. Mi aspetti qui.» «Neanche per sogno. In macchina entra l’acqua e non c’è la radio.» «Non mi prendo la responsabilità di quello che può succederle.» «Tranquillo, investigatore. L’accompagno per mia volontà.» Era una costruzione di legno e cemento di inizio secolo. Nell’edificio centrale, con l’insegna Granaio La Union, c’erano vari uffici. Poi un capannone con il tetto spiovente e grandi vetrate protette da grate. Non si muoveva niente, non si vedeva nessuno. Non c’erano auto parcheggiate davanti. «Andiamo a vedere dietro.» Silanpa si mise a correre da un albero all’altro per non bagnarsi. Estupiñán aprì una porta di legno corrosa dall’umidità ed entrarono in una vecchia cucina. Da lì passarono in un salone con il tetto senza volta che odorava di terra e videro i silos allineati, con enormi tubi da cui il grano si riversava in recipienti di rame. «La faccenda mi puzza.» «Puzza come un topo morto», fu l’analisi di Estupiñán. «Strano che non ci sia nessuno.» I sacchi avevano tutti un marchio rosso con le lettere LU, e sotto, a caratteri neri: «Chocontá-Boyacá». Il rumore di una porta che si apriva li fece saltare dietro i sacchi. «Lì c’è il carico», disse una voce. «Quanti sacchi mi ha detto?» «Sessanta. A che ora posso venire con il camion?» 47
«Quando vuole. Se preferisce farlo subito le apro il garage, così non si bagna.» «Facciamo alle dieci, è meglio. Per stamattina mi bastano ancora quelli che ho.» Quando rimasero di nuovo soli uscirono dal nascondiglio e ispezionarono il locale. Non trovarono niente di strano. Silanpa riuscì a vedere la camionetta del tipo. Sullo sportello posteriore c’era scritto «Panificio Boyacá Real». L’uomo chiuse la porta e salì per la scala. Uscendo dal granaio, Silanpa notò un capannone separato da un groviglio di filo spinato. Entrarono e videro delle panche di legno ammuffite, vari bracieri a carbone, specchi rotti e tavoli sfondati. Su un pezzo di porta c’era scritto «Bagni Turchi Il Paradiso Terrestre». Facendo un largo giro raggiunsero la R6 e si precipitarono al commissariato di polizia di Chocontá. Silanpa mostrò il tesserino, accreditò Estupiñán, e il tenente Camargo, la massima autorità, li ricevette nel suo ufficio. «Vi posso offrire un caffè?» «Grazie.» «Dunque lei è giornalista?» «Sì.» Estupiñán, sorpreso, guardò Silanpa: giornalista? Portarono un vassoio con tre tazze di caffè e un cestino da pane. «Provate la mogolla chicharrona. È una vera delizia. In cosa posso esservi utile?» «Volevo chiederle una cosa. Chi è il proprietario del granaio La Union?» «Del granaio? È il dottor Angel Vargas Vicuña, che voi avrete sentito nominare. Un uomo influente, un gran lavoratore, prodotto tipico di questa città. Non si sarà messo in qualche grana?» «Al contrario. Vogliamo sapere chi è affinché non ne abbia. Tutto qui. E il chicharrón che mettono nella mogolla lo fanno qui a Chocontá?» «Sì, che gliene pare?»
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«Madonna mia, tenente. Viene voglia di fermarsi a vivere qui, con tutte queste delizie.» Uscendo, Silanpa si rese conto che aveva già riempito uno dei foglietti del suo taccuino: Biliardo Lolita. Lotario Abuchijá. Calcolo: circa 300.000 pesos per viaggio notturno Tunja-Chocontá. Controllare. Cercare magazzino. Quica. Venerdì sul presto. Granaio La Union. 60 sacchi al panificio Boyacá Real. Bagno Turco Il Paradiso Terrestre. Dottor Vargas Vicuña. Tenente Camargo-Chocontá. Stavano tornando a Bogotá in autostrada e Estupiñán, rimasto in silenzio fino a quel momento, disse a un tratto: «Mi permetta una domanda, signor Silanpa, lei ha detto giornalista?» «Sì, lavoro per ‘El Observador’.» «Accidenti, io pensavo che fosse dei servizi segreti.» «Per carità, amico, l’unico segreto che ho è che faccio colazione con le aspirine.» Arrivati a Chía disse a Estupiñán: «Mi aspetti una mezz’ora e nel frattempo mangi qualcosa in quel ristorante», accostò davanti a un’insegna. «Vado a vedere una persona che mi dovrebbe aiutare a risolvere questa faccenda.» «Ai suoi ordini, capo. Posso chiamarla capo?» «Mi chiami come vuole. Torno subito.» Estupiñán si accomodò a uno dei tavoli della terrazza e Silanpa entrò nella casa di riposo. Salì le scale fino al secondo piano contemplando la tranquillità che regnava in giardino: diversi anziani sulle sedie a rotelle prendevano aria al sole accanto a una fontana, e una coltre di buganville colorava quel posto di rosa e violetto. «Che brutta storia quella di Armero!»* Guzmán lo aveva appena letto sul giornale ed era agitato. «Mi sarei immaginato di tutto, ma non questo... Te lo dico sul serio, questo paese è andato a puttana.»
*
Nel 1985 l’eruzione del vulcano Nevado del Ruiz sciolse il ghiacciaio provocando una valanga che seppellì la città di Armero. Qui si riferisce alla tragica vicenda della bambina Omaira, intrappolata nel fango, la cui lenta agonia venne filmata dalle televisioni di mezzo mondo, senza che nessuno riuscisse a salvarla. (N.d.T.)
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«Quello che viene dopo è anche peggio.» «Non scherzare, peggio di questo?» «Neanche te lo racconto.» Si sedette sul letto e gettò un’occhiata alle copie ingiallite di «El Tiempo», «El Espectador» e «El Observador» accatastate di fianco al comodino. «Piuttosto, sono venuto a vedere se mi dai una mano con il caso dell’impalato.» Guzmán lo fissò con i suoi occhi da lince. «Ho bisogno che mi racconti tutto quello che sai, che mi descrivi esattamente cosa hai visto: il luogo, le caratteristiche fisiche, tutto.» Silanpa cominciò a parlare mentre Guzmán, carta e matita alla mano, prendeva nota e tracciava disegni. Descrisse la zona del lago dove si trovava il cadavere e il tipo di legno dei pali, gli parlò di Estupiñán, del bar Lolita e del camionista. Raccontò il viaggio a Chocontá e gli passò tutte le informazioni che aveva annotato sul taccuino. «Bene, tra poco arriverà la suora a romperci le scatole, è meglio che te ne vai.» Gli occhi di Guzmán sprizzavano scintille. «Lasciami riflettere qualche giorno su questi dati.» «Grazie, fratello.» Uscì triste, maledicendo la lacrima facile che gli impediva sempre di essere all’altezza della situazione.
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VIII
Nancy entrò nello studio di Barragán tenendo i fogli in mano. Il dottore era in maniche di camicia ed esibiva un elegante paio di gemelli a forma di ancora. C’era nell’aria un’atmosfera di intensa attività che le fece sentire freddo ai talloni e la colmò di ammirazione. «Ah, grazie. Si sieda per favore», e le indicò una sedia accanto alla scrivania, sempre indaffaratissimo. Rimase in silenzio a guardare le fotocopie finché, all’improvviso, disse con voce ferma: «Signorina, voglio parlare con lei di una questione riguardante l’ufficio ed è una cosa che bisogna fare in privato. Per questo le chiedo di venire con me a pranzo... Qui i muri hanno orecchie». «Come vuole, dottore.» «Lei esce e io la passo a prendere dietro l’angolo. In due parole si tratta di questo: sto pensando di fare una serie di cambiamenti e ho bisogno di sapere l’opinione di qualcuno come lei, che non ha ancora pregiudizi, visto che ci ha appena conosciuti, e che sicuramente vede le cose in modo più chiaro di chiunque altro.» Nancy arrossì e le tremarono le gambe. «Va bene, dottore... Se si tratta di aiutarla...» «Ma mi deve promettere una cosa: neanche una parola con le signorine che stanno di là.» «Promesso», disse, orgogliosa di condividere un segreto con il dottore. Uscì con le guance rosse. Trini e Nacha la trapassarono con lo sguardo e poi si scambiarono un’occhiata facendosi uno strano cenno che a Nancy sembrò volgare e antipatico. Tomate, come sempre, le piantò gli occhi nello spacco della gonna. Andò alla scrivania, inserì i documenti nei classificatori e pensò che avrebbe dovuto parlare di persone che a malapena conosceva. Così, durante la mattinata, cercò di osservarli, di analizzare segretamente i loro movimenti e farsi un’idea più o meno precisa di ognuno. A mezzogiorno e mezzo si alzò, prese la sua giacca e uscì senza dire niente. 51
«Non vieni a mangiare con noi, Nancy?» le chiese Nacha alzandosi dalla macchina da scrivere. «No, vado a pranzo con una cugina.» «Ah...» Arrivò all’angolo, controllò bene che nessuno la stesse spiando e camminò svelta fino al centro commerciale. Si fermò davanti a una vetrina a guardare delle stoffe e lì sentì la voce di Emilio Barragán. Le aprì lo sportello dell’auto e prima di salire lei ripiegò la giacca sul braccio. «Grazie per essere venuta, Nancy.» «Dottore...» disse con timidezza, con le guance rosse come papaveri. Andarono a pranzo in un ristorante che rimaneva sulla salita verso La Calera. Presero un tavolo al secondo piano, accanto alla finestra, e Barragán le mostrò la suggestiva vista della città. Nancy arrossì ancora e pensò che era una stupida, che con una persona gentile e educata come il dottore non aveva motivo di vergognarsi. «Lei conosce New York, Nancy?» «No, dottore. Io non ho viaggiato granché.» «In tutto il paese questo è il posto che più assomiglia a New York. Il panorama mi ha sempre ricordato un ristorantino delizioso che c’è nel New Jersey. Dalle finestre si vedono i grattacieli di Manhattan.» Con l’arrivo dei piatti entrarono in argomento: Barragán le chiese il suo parere sul personale dell’ufficio. Lei cercò di essere all’altezza e di ricordare bene quello che aveva pensato durante la mattina. «Domitilo mi sembra serio, dedito al lavoro con lealtà. È sincero, onesto e servizievole.» Il dottore approvò con un sorriso, ordinò altro vino bianco e continuò ad ascoltarla con interesse, deviando ogni tanto lo sguardo verso la scollatura. Insistette: «Me ne parli partendo dalla sua esperienza personale». «Trini all’inizio mi era sembrata un po’ diffidente», disse bagnandosi la bocca con un sorso di Tacama bianco. «Mi guardava in modo strano, ma poi mi sono resa conto che era solo la mia timidezza. È una brava professionista, credo, è sempre a disposizione e conosce ogni dettaglio dello studio.» «Siete diventate amiche?» 52
«No, lei sta sempre con Nacha, e per la verità quando le vedo insieme mi sembra di disturbarle e così non mi avvicino.» «E Tomate?» «Mi pare a posto. Gentile e simpatico. Mi ha spiegato tutto quello che c’era da sapere per non perdersi nell’ufficio. A volte mi accompagna alla fermata dell’autobus.» «Molto bene, Nancy, prendo nota di quanto mi dice...» tornò a guardarla, stavolta negli occhi. «E Parigi, neanche quella conosce?» «No, dottore. Quanto mi piacerebbe.» «È una città divina. Piena di ristorantini con vista sulla Senna. Io sono di quelli che pensano che per formarsi sia necessario viaggiare, Nancy, ecco perché parlo tanto di altri paesi.» «Ha ragione, dottore», e provò vergogna. «Per questo... Sa cosa? La prossima volta che dovrò fare un viaggio di lavoro all’estero le chiederò di accompagnarmi. Io voglio che tutti i miei impiegati abbiano una cultura e ci sono cose che non si imparano sui libri.» «La ringrazio per la fiducia, dottore.» Tornarono in ufficio prima delle due del pomeriggio. Il dottore la ringraziò per la collaborazione, assicurandole che era stata di estrema utilità, e la lasciò due incroci prima, per non destare i sospetti dei portieri. Nancy camminava tutta orgogliosa. Non aveva detto niente di male su nessuno e trattato bene tutti, nonostante quel parlottare di Trini e Nacha, che mentre confabulavano tra loro le lanciavano occhiate da aquile, la vestivano e la spogliavano facendosi certe risate che buon per lei se non sentiva cosa dicevano. Tornato in ufficio, Barragán ricevette una telefonata urgente. «Dottore, il signor Vargas Vicuña sulla cinque. Glielo passo?» «Gli dica di aspettare un momento, che sono in linea con l’estero.» Si accomodò nella poltrona, nervoso. Aprì un cassetto e prese uno stuzzicadenti a forma di spada toledana. Si ripulì le gengive, si tolse un residuo di cibo, e finalmente premette il tasto dell’interfono. «Adesso puoi passarmelo.» «Emilito, che piacere salutarti...» «Lo stesso vale per me. Le chiedo scusa per l’attesa, ma stavo parlando con New York. A cosa devo il piacere?» 53
«Le cose della vita... Avrei voluto parlare con te di letteratura, di musica, dell’opera. Di tutto ciò che tu conosci così bene e che io ammiro, ma la dura realtà mi costringe a stare con i piedi per terra. Volevo parlare di quei piccoli terreni sulla sponda del lago.» Barragán avvertì un tremito alla vena del collo. Tre gocce di sudore gli spuntarono sopra il labbro. «Sì...? Sono tutto orecchie, dottore.» «È un piccolo paradiso, un vero sogno. Mi stai capendo? Parlo dei quattrocento ettari dei Figli del Sole.» «Senta, dottore. Io ho appena cominciato a studiare il caso Pereira Antúnez. Mi chiami la settimana prossima e vedrà, con la memoria fresca, si parla meglio.» «La memoria è una cosa incredibile, non è vero? Bisogna innaffiarla come le piante perché si mantenga brillante.» Barragán sentì che il collo della camicia era umido e, con un gesto rapido, si aprì il primo bottone, slacciandosi la cravatta. «Parla con il consigliere comunale Esquilache, se vuoi. Lui è adatto per le questioni della memoria», continuò Vargas Vicuña. «Parla con lui e poi chiamami. Sai una cosa? Piace anche a me essere chiamato dagli amici.» «Certo, dottore. La settimana prossima. Promesso.» «Pensa, a dire il vero proprio un momento fa stavo parlando con Esquilache. Però non ho voluto accennare ai terreni prima di averne parlato con te.» «Così a prima vista la questione non sembra facile, dottore. Lei sa che mettere le mani in quelle carte non è, come si suol dire, da buon cattolico, e io ho bisogno di tempo.» «Il cattolicesimo è la religione dei nonni e dei poliziotti di quartiere. Meglio pensare al mondo in cui viviamo. Come è difficile da interpretare questa realtà, vero?» «Sì, dottore. Ma ho bisogno di tempo.» «Di tempo ne abbiamo, Emilio, grazie a Dio.» «Allora la richiamo io.» Barragán riattaccò e si alzò dalla sedia come se gli avessero toccato un nervo. Non si era azzardato ad accennare alla storia dell’impalato, ma pen54
sò che forse i suoi sogni sul mercatino di Camdem, a Londra, o sulla rue Saint Honoré, non erano poi così lontani.
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IX
«Ahi!» Silanpa gridò di dolore quando il dottore gli tastò le emorroidi con la pinza fredda. «È grave?» «Be’, se continuano a crescere dovrà comprarsi una ciambella per sedersi.» «E cosa si può fare?» «Dipende. Ha preso le pillole alla crusca?» «Sì... Insomma, più o meno.» «Ha smesso di bere gazzose, liquori, di mangiare roba fritta e piccante?» «Più o meno, dottore.» «Ecco dove sta il problema. Se continua con la dieta del ‘più o meno’ sarò costretto a operarla.» «È molto doloroso?» «Come togliersi le tonsille, ma dal sedere.» Uscì dalla visita anestetizzato, pensando a Chocontá e agli appunti del suo taccuino. Era giovedì. Estupiñán lo avrebbe chiamato alle tre del pomeriggio. La sezione informazioni riservate aveva sempre i computer in tilt, senza possibilità di comunicare con i vari commissariati, e lui pensava che gli sarebbe piaciuto risolvere il caso prima della fine della settimana per andare con Moníca a Melgar e dimenticare tutto per qualche tempo, tornare in uno di quei bungalow dove erano stati così felici l’anno prima: lui sdraiato su un’amaca, immerso nelle pagine coinvolgenti di Joseph Roth, e lei intenta a leggere Virginia Woolf sul bordo della piscina, abbronzandosi al sole. Il capitano Moya aveva detto: «Tranquillo, giornalista, non c’è bisogno di affannarsi», e intanto Moníca era sparita. Aveva chiamato varie volte a casa sua ma non rispondeva nessuno, e al laboratorio non sapevano dove fosse. Lui conosceva quella maniera di fargli capire che aveva la luna di traverso, che si era comportato male, e sapeva che bisognava solo aspettare. Quindi decise di lasciarle un messaggio con un appuntamento per l’indomani e tornarsene a casa. Poi prese l’agendina e cercò un nome. 56
«Pronto? Informazioni?» «Sì, dica pure.» «Vorrei il numero di telefono dei bagni turchi Il Paradiso Terrestre, per favore.» «Un momento.» Annotò il numero, ringraziò e riattaccò. Accese una sigaretta e si rivolse alla sua bambola: «Al diavolo, mi opero, tu che ne pensi?» Andò in cucina e si versò un bicchiere di rum. Tornò in sala e riprese in mano la cornetta. «Bagni turchi Il Paradiso Terrestre, mi dica.» «Buonasera. Telefono per informarmi sugli orari.» «Il signore è socio del club Figli del Sole?» «No.» «Allora è inutile, questo è un club privato.» «E a chi bisogna rivolgersi per diventare socio?» «Mandi una lettera di richiesta per posta. Noi le risponderemo con tutte le informazioni del caso.» «E l’indirizzo?» «Chilometro 18 sulla strada da Chocontá a Machetá. Ma è meglio spedirla al nostro ufficio, casella postale 32505.» «Grazie.» Appena posò la cornetta il telefono suonò. Ebbe un sussulto pensando: «È Moníca». «Investigatore, qui parla Estupiñán. Passo.» «È già pronto?» «Sì, e ho parlato con l’ufficio. Mi hanno dato un permesso fino a lunedì.» «Allora vada all’angolo della Caracas con avenida Chile, passo a prenderla lì entro mezz’ora.» «Dove andiamo?» «Di nuovo al Sisga.» «Accidenti, sembra che quel lago le piaccia proprio. C’è qualche pista?» «Le racconto strada facendo.» 57
«Signorsì. Passo e chiudo.» L’autostrada era deserta. Solo qualche camion e corriera. «Mi permetta una domanda, capo», esordì Estupiñán grattandosi il mento: «Lei crede che i liberali siano socialdemocratici?» «Non lo so, Estupiñán, perché me lo chiede?» «È che l’altro giorno ho letto sul ‘Tiempo’ che noi colombiani non abbiamo educazione politica. È per questo che mi piace affrontare l’argomento ogni tanto, per vedere se imparo qualcosa.» «Non so che dirti, il problema è che anch’io sono colombiano.» La proprietà era circondata da una fitta barriera di pini. All’entrata c’era un cartello di legno con la scritta in rosso: Il Paradiso Terrestre. Cominciava a calare la sera e Silanpa cercò di guardare al di là del portale. Sul fondo, al termine di un viottolo di terra battuta e pietre, intravide una luce. «Passiamo da dietro», disse a Estupiñán. «E se ci sono dei cani?» «Se ci sono dei cani siamo fottuti.» Aggirarono lo sbarramento di pini imboccando un sentiero che risaliva la collina. Alla fine trovarono una costruzione e, sotto, seguendo un viottolo lastricato, una scarpata. «Potremmo passare da lì.» Silanpa guardò il posto corrugando la fronte. «No, quel punto deve essere il più controllato. Meglio scavalcare il muro.» «Forza, le faccio da scaletta.» Silanpa si diede la spinta appoggiando il piede sulle mani incrociate di Estupiñán fino a raggiungere il bordo. Poi Estupiñán lo issò in alto. «Cosa c’è?» «Non si vede niente. Mi aspetti lì.» Si tolse le scarpe e avanzò con cautela sul tetto di tegole. Lo sforzo fatto per issarsi gli aveva provocato una scarica elettrica alle emorroidi che adesso gli facevano male. Arrivato alla grondaia vide un lucernaio dai vetri appannati accanto a un comignolo da cui usciva vapore. «È il bagno turco», pensò. Più in là c’era un cortile interno e si disse: «Arrivo fin lì e poi torno indietro». Scese con ogni cautela, arrivò a un altro comignolo e si affacciò. Rimase stupefatto. 58
«Tutti nudi. Una trentina. Uomini e donne. Tutti nudi, che chiacchieravano e ridevano.» Silanpa si accese una sigaretta, mentre Estupiñán lo guardava sorpreso. «Nudi? Vuole dire... senza vestiti?» «Sì. Passeggiavano in giardino, leggevano, fumavano. Tutti nudi.» «Mi scusi se glielo chiedo, ma anche le donne?» «Sì, tutti.» «La prossima volta vado su io.» Estupiñán si riaccomodò sul sedile della R6. «Si immagini, solo con quello che mi ha raccontato mi si sta rizzando.» «Sembravano così tranquilli...» «Sarà per questo che si chiama Il Paradiso Terrestre.» «Adesso capisco perché tanto mistero al telefono.» «Ma, non sarà un casino? Voglio dire, gli uomini con le donne... No?» «No. Chiacchieravano, passeggiavano per il giardino.» «Bullshit! Allora è roba da froci. Tutto questo è molto strano, giornalista.» «Bisognerà tornarci.» Estupiñán scese all’angolo tra l’avenida Suba e la 127 e Silanpa si diresse all’appartamento di Moníca. Voleva vederla nonostante il messaggio con l’appuntamento per l’indomani. Non avrebbe rispettato i tempi abituali di attesa per ottenere il perdono. Salì con l’ascensore e intanto cercava nelle tasche la chiave che lei gli aveva dato e che non usava quasi mai. «Se non c’è la aspetto bevendo un rum dentro la vasca». E invece Moníca c’era. Lasciò la giacca sul sofà ed entrò in camera. «Che ci fai qui?» Moníca lo guardava sorpresa. Era nuda sopra la trapunta del letto: aveva i capelli scompigliati, il respiro agitato e le guance rosse come papaveri. «Mi stavi aspettando?» Silanpa la guardò con desiderio e lei abbassò gli occhi, senza azzardarsi a parlare. A un tratto un rumore lo distrasse: qualcuno tirava lo sciacquone. «Chi...?» 59
Non riuscì a finire la frase che vide Oscar sulla porta del bagno, nudo. Lo vide avvicinarsi con l’aria rilassata, ravviandosi i capelli e grattandosi i testicoli. «Non è come credi...» Moníca lo disse senza convinzione. Oscar cercò di parlare ma Silanpa gli passò davanti senza dire niente. Uscì sbattendo la porta. Pioveva, il vento portava il freddo dalle montagne. Con la mente offuscata da un’ombra vischiosa, Silanpa riusciva a ricordare soltanto la pagina di un libro, una di quelle frasi di Graham Greene che conservava nel taschino della sua bambola: «Al momento di ricevere il colpo si soffre poco». Era vero e adesso toccava a lui. Doveva fare immediatamente qualcosa. Ricordò il filosofo Chirolla. Era stato lui a dirgli un giorno: «Quella tipa ti darà una fregatura». Il guardiano del bar Lolita lo riconobbe subito e gli aprì la porta. Silanpa entrò e si diresse al bancone. «Un whisky. No, meglio un rum.» Ai tavoli c’erano donne sole che lo guardavano tra uno sbadiglio e l’altro. Era giovedì, le undici di notte. A quell’ora si vedevano pochi clienti. «E Quica?» chiese al barista. «È in cucina. Gliela chiamo?» Silanpa annuì, si sedette a un tavolo e un minuto dopo la ragazza era, già accanto a lui. «È arrivato in anticipo, papito. Le avevo detto venerdì.» Silanpa la guardò senza aprire bocca. «Ahi ahi, la cosa sembra grave. Posso ordinare del vino?» «Ordina quello che vuoi.» Indossava un body rosa, che metteva in risalto le natiche e il ventre piatto. Silanpa tracannò il rum in un colpo solo e ne chiese un altro. «Quanto mi costa salire in camera?» «Ottomila.» «Andiamo.» Fece un cenno al barista perché gli servisse un ultimo rum doppio. 60
Percorsero un corridoio fino alla stanza numero 6. Quica andò subito in bagno. «Si sdrai lì. I vestiti può appenderli all’attaccapanni.» La guardò scomparire dietro alla porta. Si tolse le scarpe, la camicia e i pantaloni. L’aspettò in mutande. Quica tornò nuda e si distese accanto a lui mostrando uno splendido sedere punteggiato di nei. «Vuole che le faccia qualcosa o mi monta sopra?» «Fa lo stesso.» Il soffitto volteggiava sulla sua testa. Una lampadina appesa a un filo elettrico attirava farfalline e mosche. Continuò a bere finché si rese conto che Quica stava sopra di lui, muovendosi con vigore. La vedeva come dietro un vetro. «Questo le succede per aver bevuto troppo.» «Non importa, mi è piaciuto lo stesso.» Al bancone continuò a bere rum, uno dopo l’altro. Passate le tre del mattino appoggiò la testa sul ripiano e lì rimase. Non si rese conto di niente, non sentì i richiami del proprietario né le grinfie del portiere che lo sollevava di peso, sbattendolo fuori al freddo e abbandonandolo sul marciapiede.
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X
A questo punto del racconto, agli albori della mia pubertà, entra in scena doña Simona de Moya, la mia nobile nonna, che riposi in pace. Doña Simona era rimasta vedova dopo uno di quei matrimoni duri e difficili che, non per questo, risultano meno felici. L’allegria nella casa l’avrebbero portata soprattutto gli undici figli battezzati con rito cattolico, anche se come è logico e umano non mancavano i dissapori e i piatti rotti, presenti in ogni relazione concreta e destinata a durare, in pratica per l’attrazione del marito verso la birra, le bische, le sottane e le scollature delle altre, strumenti con i quali, è notorio, suona da secoli il concerto della virilità nazionale. Mio nonno, ben lontano dall’essere un uomo istruito, fu piuttosto uno di quei pionieri capaci di tirare su la famiglia a forza di muscoli: cameriere in un ristorante di Armenia, una volta sposato emigrò a Barranca e si mise a fare il pescatore nel Magdalena. Poi tornò al sud e fece il camionista a La Linea, il meccanico a Ibagué, s’imbarcò come marinaio nel Pacifico, divenne armatore a Buenaventura e alla fine, dopo un incidente che gli lesionò una caviglia condannandolo a usare il bastone, sarto modista nella città di Barranca, di ritorno alla casella di partenza. Come nel gioco del parqués, se mi permettete il paragone.... Il parqués della vita. E chiedo scusa, se mi esprimo in termini troppo poetici, ma sono la mia passione. Avevo undici anni quando andai a vivere lì, e doña Simona era già riuscita a sistemare tutti i suoi figli meno una, la più piccola, rimasta accanto a lei da nubile amorevole e solidale, aiutandola nelle faccende domestiche e a tirare avanti un banchetto di dolci con cui guadagnarsi il companatico di ogni giorno. E lì scoprii il sapore malefico e sublime del dolce, qualcosa di ben diverso da ciò che mangiavo nella piazza del mercato, e fin dal primo momento fu come un aroma per lo spirito, quel mio spirito fosco e in via di formazione. Dopo la prima cucchiaiata di miele si è drizzata un’antenna nella mia coscienza, e mi sono detto: «Questa è una cosa da re, un boccone da cardinale, come dice quell’opera». Per quel poco che ne so, e ho già spiegato che la mia unica formazione è stata nella libera scuola della vita, il dolce produce nel bambino una sorta di cataclisma. Qualcuno di voi conosce un bambino di normale costituzione che non diventi pazzo per una pasta alla crema o al cioccolato? No, e se 62
mai ne esistesse uno fatemelo conoscere, Per quale motivo il dolce attira i bambini? Perché si succhia, si fruga con il dito e fa venire l’acquolina in bocca, gesti tipici dell’infanzia e meno frequenti in altre età dell’uomo. E permettetemi di dire qui, in questa rispettabile sala, che l’uomo, quello che gli antropologi e i preti chiamano «essere umano», è vissuto per diciotto secoli senza zucchero. L’ho letto su «Selezione» in un articolo sui fattori che portano la malefica ipofisi a secernere nello stomaco il veleno che fissa i grassi e ci deforma il corpo. Deformazione che, secondo i filosofi classici, comporta seri danni allo spirito, ma sto andando fuori tema... Continuo la mia esposizione: lo zucchero naturale, quello presente nella frutta e negli alimenti che la natura ha fornito all’uomo... va bene. Il malefico è quell’altro, il bastardo, chiedo scusa alle signore, la polvere cristallina e trasparente che ogni mattina mettiamo nel caffelatte e usiamo per avvelenare la metà dei dolci che, comunque, restano sempre il vanto gastronomico del nostro paese, tanto qui come all’estero... Quel tipo di zucchero è il veleno della vita, signori, perché una volta che il palato lo ha provato si attacca come l’anima al peccato, se mi concedete la similitudine morale, e dopo diventa difficile liberarsene. Io, che sono un uomo abituato alla disciplina, mi sono detto: «Da quando l’hai assaggiato, ti sei fregato... Adesso non ti resta che tentare di porvi rimedio attraverso il dolore». E mano a mano che il corpo si irrobustiva e si formava la rigida muscolatura dell’adolescenza, la mente e lo spirito si sforzavano di tenerlo lontano dal veleno che ogni giorno mia nonna e mia zia producevano nei paioli e con il quale, ironia della sorte, garantivano il mio sostentamento. Ma nonostante le sofferenze e gli sforzi, quando alla fine abbassavo la guardia e mi lasciavo tentare da un cornetto alla crema, una treccia al miele o un piattino di panna cotta, mi sembrava che il sole fosse più luminoso, la vita più vita e l’essere umano qualcosa di più che una scimmia piagnucolosa. Poi, arrivava il senso di colpa, che scendeva planando come un rapace per beccarmi l’anima nel suo punto più vulnerabile, e con un gesto che non voglio descrivere da quanto è umiliante e vergognoso, mi costringevo a vomitare, l’unica maniera di ripulire la pancia dalla malefica pozione.
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XI
«Dove sono?» mormorò Silanpa aprendo un occhio. Vide una finestra da cui entravano fasci di luce, un armadio metallico con delle ammaccature, uno specchio rotto, una poltrona verde, cartoline e foto in bianco e nero attaccate con gli spilli alla parete e, in tutta la stanza, minute particelle di polvere nell’aria che sapeva di chiuso. Cercò di alzarsi ma sentì un peso gelido sulla testa. Sudava. La luce lo accecava. Il vano della porta era celato da una tela colorata che, a un tratto, si spostò. Apparve Quica, in jeans e maglietta bianca con la scritta «I love Girardot». «Allora? Le è già passata la sbronza? Era proprio cotto, papito.» «Cos’è successo?» «Si è addormentato e Ulises l’ha sbattuta in strada. Ha avuto fortuna che nel portafogli c’erano abbastanza soldi per pagare il conto, altrimenti finiva spellato vivo.» «Che ore sono?» tentò di alzarsi ma la testa riesplose. «Tranquillo, amico. Si trova a casa mia. È presto.» «Mi ha portato qui lei, stanotte?» «Sì, mi deve i soldi del taxi. L’autista ha chiesto il doppio per aiutarmi a portarla su.» Finalmente riuscì ad alzarsi. «Dov’è il bagno?» chiese, vergognandosi. «Là. Se vuole l’acqua calda bisogna metterla sul fuoco.» Si gettò varie manate d’acqua in faccia, si passò la mano bagnata sul collo fin dietro le orecchie e cominciò a sentirsi meglio. Allora lo assalì il ricordo di Moníca e strinse i denti. Non poteva essere vero, doveva trattarsi di un sogno orribile. La finestrella del bagno dava su un cortile. Sullo sfondo, come una macchia scura dietro le nubi, vide l’immagine delle montagne e davanti una fila di edifici di cemento con piccole finestre dalle quali penzolavano panni, ruote di bicicletta, tappeti sdruciti. «Dove cazzo siamo?» 64
«Nel barrio Kennedy, amico. Non lo conosceva?» «Ci sono stato qualche volta.» Cercò l’orologio e guardò l’ora, erano le due del pomeriggio. «Posso fare una telefonata?» «Sì, certo, se ha una moneta da dieci pesos. Il telefono è all’angolo.» Presero un caffè e Quica lo accompagnò a telefonare. Fece il numero dell’«Observador». «Esquivel? Parla Silanpa.» «Dove accidente eri finito? Sono due ore che chiamo casa tua. Stamattina è venuto Solórzano alla riunione di redazione e abbiamo dovuto inventare una scusa.» «Sto sempre dietro alla faccenda dell’impalato. Ma ho bisogno di fiducia e tempo.» «Vieni qui e spiegalo in direzione. Sono stufo di farti da avvocato.» Salutò Quica, le lasciò una banconota da cinquemila e andò in avenida de las Américas a prendere un taxi. Lungo il tragitto rievocò l’orribile immagine: Moníca nuda e Oscar che usciva dal bagno. Sentì nausea e una morsa allo stomaco, aprì il finestrino per prendere aria. Gli sarebbe piaciuto raccontarlo a Guzmán, cercare sollievo nelle sue battute e nel suo cinismo. Ma le storie degli amori finiti sono banali. Tutte uguali, interessanti solo per chi le vive. Arrivato al giornale andò nella caffetteria e si fece tre caffè in un colpo. Si sentiva già meglio. «Il capitano Moya mi ha chiesto una certa discrezione finché gli elementi non saranno chiari. Ho diverse piste.» Il rumore delle tastiere arrivava fino alla sala della redazione. «Quali piste?» Solórzano lo fissava mordicchiando una matita. «Al momento non posso rivelarle.» «Sono il responsabile della cronaca, Silanpa. Ho il diritto di saperlo.» «Ho dato la mia parola...» «Io sono un professionista. E sa cosa le dico? Mi sembra che qui ci sia qualcosa di strano. L’impalato lo abbiamo visto, certo, ma non so...» Solórzano si voltò e guardò dalla finestra. «Lei sta facendo meno ore per andarsene in giro a indagare, ed è proprio lì che la storia si complica e mi di-
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co: non sarà che questo furbacchione se ne approfitta, mentre gli altri lavorano?» Silanpa non rispose, prese la borsa e andò a sedersi alla scrivania. Accese il computer e, infuriato, constatò che non aveva niente da scrivere. Gli faceva male la testa, avrebbe voluto essere lontano da quel posto ma si sforzò di controllarsi. MISTERIOSI CADAVERI Redazione di Bogotá. Il Delitto dell’Impalato del Sisga promette fin d’ora di diventare uno dei più inquietanti misteri delle cronache. Trasferito il cadavere nell’obitorio dell’Istituto di Medicina Legale e dopo essere stato esposto agli attenti sguardi del nutrito gruppo di familiari di persone scomparse, non è stato riconosciuto da nessuno di loro. In altre parole: il cadavere resta ignoto. La morte, che tutto porta via, sembra che in questo caso abbia cancellato il passato e l’identità dell’uomo di grossa corporatura, tratti delicati ed età approssimativa cinquantacinque anni (vedi foto). Ma se non siamo ancora in grado di sapere chi sia, e quale il motivo che l’abbia portato a una così tragica fine, possiamo invece immaginare la sofferenza atroce a cui è stato sottoposto, la crudeltà gratuita subita e con quale accanimento i carnefici hanno infierito sul suo corpo. Mentre continuano le indagini sull’impalato, in attesa di informarvi sugli eventuali sviluppi, invitiamo i lettori, a ricordare il caso di un altro cadavere anonimo, quello del cosiddetto «ragazzo argentato», avvenuto nei pressi della cittadina di Dollarton, nella zona orientale del Canada conosciuta come Columbia Britannica. Il «ragazzo argentato» fu rinvenuto da alcuni sciatori nell’inverno del 1978. Il cadavere, congelato, apparteneva a un ragazzino di circa tredici anni, dagli enormi occhi azzurri e i denti aguzzi. Difficile rispondere alla domanda: chi era, cosa gli era successo? Nessuno, in tutta la Columbia Britannica, aveva denunciato la scomparsa di un giovane con quelle caratteristiche. La notizia arrivò a Ottawa, attraversò il paese fino a Montreal, convertendosi in uno dei grandi enigmi: chi era quel bel ragazzo? Le redazioni di radio e giornali cominciarono a ricevere valanghe di telefonate e lettere di donne che asserivano di esserne la madre, ma in nessun caso fu possibile comprovarne la veridicità. Sono stati scritti racconti immaginando la vita del ragazzo, mentre gli investigatori esaurivano ogni sorta di ipotesi, ma il mistero rimase. 66
Rimase finché una giovane giornalista di «Le Soir» di Montreal, Valerie Neier, trovò la soluzione: il «ragazzo argentato» – così lo aveva ribattezzato la stampa negli otto mesi di mistero – era svizzero e si chiamava Karl Aspern. Lui e i genitori erano scomparsi in un incidente aereo sette anni prima nella zona dei laghi del nord, e ritenuti morti Ma Karl, secondo la giornalista, era saltato sulla neve prima che il piccolo aereo da turismo si schiantasse e il congelamento ne aveva conservato il cadavere. Lentamente, in quei sette anni, il corpo del ragazzo era stato spinto dalle tormente invernali fino a un piccolo ruscello, trasportato da una corrente sotterranea che, anni dopo, lo avrebbe depositato nelle vicinanze di Dollarton. Le fotografie di Karl Aspern fornite dai parenti di Zurigo coincidevano e la giornalista ebbe la conferma della sua ipotesi. Dunque, il cadavere di Karl aveva percorso 978 chilometri in sette anni, prima di tornare alla luce. In sottofondo sentì suonare un telefono e il dolore alla testa riesplose. «Silanpa, per lei sulla due.» Raggiunse il telefono tremando: era lei? «Pronto?» «Parla Estupiñán. Che fine ha fatto? Stanotte ho ricontattato il camionista Lotario Abuchijá. Abbiamo un appuntamento con lui alle sei del pomeriggio nella sala biliardi Caracas.» «C’è qualche novità?» «Ha detto che mi avrebbe raccontato in ogni dettaglio la faccenda del viaggetto a Chocontá.» «Ci vediamo lì.» Gli dolevano le emorroidi e non si azzardava ad andare in bagno. La sensazione di nausea aumentava se concentrava lo sguardo. Scese nella caffetteria. «Pochi, non ha un alkaseltzer per un povero malato?» «Certo don Víctor. Che le succede, ci ha dato dentro?» «Con il pensiero, Pochi. Si figuri, mi hanno pure messo le corna.» «Davvero?» «Meno male che non è una cosa importante, anche se fa male lo stesso.» 67
«Aspetti un attimo», e si spostò in cucina per poi servirgli qualcosa in una scodella. «Si beva questo brodino di carne prima dell’alkaseltzer e vedrà. Le passa tutto.» Scrisse un paio di articoli di cronaca nera usando i dispacci dell’agenzia Colprensa, passò le tre cartelle in composizione, e andò a cercare un taxi nella Settima. A casa lo aspettavano quattro messaggi di Moníca. Premette il tasto della segreteria e si sedette sul divano con una lattina di Clausen. «Víctor. Quello che è successo la notte scorsa ha una spiegazione. Mi chiami a mezzogiorno? Ciao.» Più avanti: «Mezzogiorno è passato e non hai chiamato. Sei molto incazzato? Ti ho cercato al giornale e dicono che non ci sei. Resto in laboratorio fino alle due. Telefonami. Dobbiamo parlare». Il nastro andò avanti. «Sono le due e cinque. Vado a trovare Lorena al consultorio e, per le tre e mezzo, sarò a casa. Aspetto che ti faccia vivo. Ciao.» E poi: «Sono a casa, c’erano dei messaggi ma nessuno tuo. Perché non mi chiami? Resterò qui tutta la sera finché non telefoni. Mi piacerebbe che ci vedessimo stanotte per parlare. Capisco che sei arrabbiato. Ciao». Silanpa accese una sigaretta e scolò la birra, con la voce di Monica che gli risuonava ancora nel cervello. Gli occhi si inumidirono al pensiero che fosse tutta colpa sua: arrivava sempre tardi, la lasciava sempre sola. Ma non si azzardò a telefonare per paura di invischiarsi in una discussione da cui non sarebbe uscito per chissà quante ore, sicuro che il silenzio fosse al momento l’arma migliore. Guardò il manichino, che sembrava più pallido, alzò il velo per vederne gli occhi e disse: «Lo so, tu me l’avevi detto. Sono un coglione». Poi sbirciò l’orologio e scese nel parcheggio del palazzo. La porta della sala biliardi Caracas, all’angolo con calle 57, era incastrata tra un chiosco di hotdog e una rivendita di tabacchi. Silanpa entrò frettolosamente. «È in ritardo, giornalista.» Estupiñán lo guardò attraverso il cono di luce della lampada. «Il traffico...» disse porgendo la mano a Lotario Abuchijá. «Piacere di rivederla.» «Il piacere è mio. Emir, o meglio, l’investigatore Estupiñán, mi ha spiegato chi siete veramente voi due. Il vostro dev’essere un lavoro tutt’altro che facile, no? Dover usare nomi falsi, come Batman e Robin...»
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«Più o meno», disse Estupiñán dall’altra parte del tavolo. «Il signor Abuchijá», continuò, «ha letto le notizie sul caso dell’impalato e ha delle informazioni. È per questo che siamo qui... E ha fatto bene, vero? Perché in questo genere di cose, come gli ho già spiegato, è meglio stare dalla parte della legge.» «Io sono un uomo onesto, signor giornalista.» «Vediamo un po’, ci racconti quello che è successo.» «Ho il mio trabiccolo, come vi ho detto, e mi guadagno da vivere facendo trasporti. Quando c’è bisogno di fare un viaggio a Neiva, Villao, Cúcuta, ecco pronto Lotario. Un trasporto di frutta da Honda a Bogotá? Lotario. Per il resto me ne sto parcheggiato tra la 58 e la Caracas aspettando un ingaggio. Qualcuno mi conosce già e mi chiama: che si tratti di un mobile, un trasporto a Paloquemao, o un trasloco completo...» «Va bene, il nostro giornalista può risparmiarsi questa parte, amico Lotario. Arriviamo ai fatti», esortò Estupiñán strofinando il gesso sulla stecca. Abuchijá si sedette accanto alla finestra, accese una Nacional con filtro, aspirò una solenne boccata e cominciò a raccontare: «Il pomeriggio del 10 ottobre mi trovavo al mio posto di lavoro abituale, a dieci metri dall’incrocio della 58, sulla Caracas, e mangiavo un’arancia scherzando con Porcospino, un tipo che guida una Chevrolet. A un certo punto è arrivata una signora ben vestita e mi ha chiamato da parte. Lei fa trasporti fuori da Bogotá? mi ha chiesto. Le ho detto di sì, ovunque sia, perché dovete sapere, signor scrittore di notizie e signor investigatore, che la situazione per un trasportatore non è di quelle che lasciano scelta. Se uno non accetta c’è sempre qualcun altro pronto a farlo, vi basti pensare che mentre parlavo con la signora, un gran bel pezzo di femmina, il Porcospino allungava il collo incuriosito. Mi sono detto: quello sta sbirciando il culo alla signora, cosa comprensibile e umana, ma in realtà cercava di spiare la conversazione pronto a saltar su dicendo: io, io! Nossignore, mi sono detto, e ho accettato la proposta senza neppure parlare di soldi. Ho chiesto quando, e lei si è voltata dicendo: ‘stasera stessa, mi venga dietro’. Subito dopo è salita su una Mitsubishi e l’ho seguita fino al parcheggio dell’Unicentro. Lei non l’ho rivista perché, tra le file di macchine parcheggiate, è spuntato un tizio che mi ha fatto cenno di fermarmi. Ha detto di andare a Tunja, mi ha dato una cartina della città indicando la maniera per arrivare fino a un centro commerciale. Lì, nel distributore di benzina, sarei stato contattato da una certa persona. Poi ha detto testualmente queste pa69
role: ‘Vada pure e buona fortuna. Non è niente di illegale, né di pericoloso, ma è molto importante’. E poi mi ha dato una busta di carta con dentro centomila pesos. Vedendo tutti quei soldi mi sono addirittura eccitato, chiedo scusa, e quello ha aggiunto: ‘Arrivato a Tunja le consegneranno una busta con altra grana e il carico. Vada tranquillo che là le spiegheranno tutto’. Ho fatto il viaggio senza fermarmi mai, pensando alla Lupe, una donnina del bar Lolita che mi fa uscire di testa. Sono arrivato a Tunja alle undici di notte e ho raggiunto il parcheggio indicato. Non c’era nessuno. Ho aspettato un po’ con il motore acceso, e niente; allora l’ho spento e mi sono detto: se mi hanno già dato tutti questi soldi vuol dire che la cosa interessa. Prima o poi qualcuno verrà. E così è stato, perché cinque minuti dopo ho sentito un colpetto sul vetro che mi ha fatto fare un salto. Era un signore di una certa età, e ha detto: ‘Infili il camioncino là dentro’, indicando la porta di un garage che si stava aprendo. Io ho obbedito e sono sceso. L’uomo mi ha accompagnato in un negozio di fronte al centro commerciale chiedendo se ero stanco, se avevo voglia di bere qualcosa o di mangiare, e io ho accettato perché, dall’inizio di tutta la faccenda, avevo messo nello stomaco solo l’arancia. Tornati al garage sono rimasto sorpreso vedendo il camioncino con il telone abbassato, e il tipo ha detto: ‘Stia tranquillo. L’abbiamo già caricato’. E poi: ‘Dietro, con il carico, c’è un ragazzo che se ne prenderà cura fino all’arrivo a Chocontá’. Chocontá? Ho pensato: ma perché non hanno preso un autista della zona? Poi mi è tornata in mente la busta e anche le gambe della Lupe e mi è venuto duro, così ho detto di sì. Ho incassato altri soldi, una botta da cinquantamila, mi hanno spiegato come arrivare a quel granaio che già conoscete e sono partito. Stessa trafila all’arrivo: ho messo il camioncino in un garage, mi hanno fatto scendere e, dopo un caffè con cornetto, mi hanno dato l’ultima busta e tante grazie. E la cosa è finita lì, perché il resto riguarda il bar Lolita con la Lupe e non ve lo sto a raccontare.» «È in grado di riconoscere le persone che ha visto?» Silanpa accese una sigaretta e tirò fuori il taccuino. «Sì, soprattutto la signora, il tipo di Tunja e quello di Chocontá.» «Di che colore era la Mitsubishi?» «Azzurra.» «Chiara o scura?» «Chiara.» «Per caso ha notato la targa?» 70
«No.» «La Mitsubishi aveva qualche segno particolare, tipo adesivi, accessori, gomme larghe, eccetera?» «Non ricordo.» «Com’era vestita la signora?» «In gonna e giacca. I dettagli dovrebbe chiederli al Porcospino, che l’ha radiografata dalla testa ai piedi, soffermandosi particolarmente nella zona dei fianchi.» «E le altre persone?» «Portavano vestiti qualsiasi, niente di speciale.» «La signora era bionda, mora, castana?» «Bionda.» «Occhi?» «Chiari.» «Statura?» «Più alta di me, che sono uno e sessantotto.» «Età?» «Una quarantina o forse più, ma portati bene.» «Carnagione?» «Bianca.» «Secondo lei era di Bogotá, Boyacá, Medellín, della costa, del Llano...?» «Bogotá.» «E il tipo di Tunja?» «Alto, con i baffi, cinquant’anni, jeans e una giacca di panno blu mare. Anche lui mi sembrava di Bogotá.» Abuchijá si alzò dallo sgabello e li fissò con le mani sui fianchi. «Non sarete della Cia, voi due?» «Nooo...» risposero entrambi. «Ah, bene. Possiamo continuare.» «Saprebbe individuare il garage di Tunja?»
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«Forse sì, anche se c’erano cinque porte uguali perché si trattava di garage per residenti.» «Per me è tutto», disse Silanpa. «Estupiñán?» «Solo due cose... Non ha notato qualcosa di anormale o diverso dal solito durante il viaggio? Per esempio un odore di cadavere, o di formaldeide?» «No. Per essere sincero l’odore assomigliava a quello del pane. E mi ricordo d’aver pensato: non mi avranno fatto passare una notte sulla strada per trasportare duecento chili di panini...» «Perché duecento chili?» «Conosco il mio camioncino, investigatore. Quando è rallentato per il peso, riesco a calcolarlo.» «E un’altra cosa: ha visto in faccia la persona che viaggiava dietro?» «No. Non l’ho neppure sentito, pensi un po’...» «Grazie, è tutto.» Estupiñán si voltò e camminò solennemente fino alla finestra, si irrigidì, alzò l’indice e parlò ad alta voce: «Sulla testa di quei malfattori pende la spada di Demostene!» «Demostene?» fece Silanpa. «Vorrà dire Damocle.» «È lo stesso, capo. A quei tempi tutti giravano armati.»
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XII
«Zio!» I figli di Barragán si gettarono addosso a Esquilache. «Cosa ci hai portato?» «Il mio affetto, bambini, come sempre, e questi dolcetti», tirò fuori un pacchetto di Coffee Delight. «Ma mi raccomando, dopo aver pranzato.» Catalina, la moglie di Barragán, era in cucina a preparare gli spaghetti alla carbonara e andò alla porta per salutarlo con il grembiule addosso. «Che casa piena di allegria, Cata. La cosa più bella della vita è la famiglia», sentenziò il consigliere. «Dimmi, dov’è quel balordo di tuo marito?» «Adesso arriva, Marco», si avvicinò alla scala. «Emilio! È arrivato Marco Tulio! Il fatto è che ha un sacco di lavoro da sbrigare, se ne sta sempre chiuso nello studio.» Barragán scese giù. Indossava pantaloni bianchi di tela e una Lacoste a maniche lunghe. «Come stai, Marco Tulio. Che piacere vederti.» «Ogni promessa è debito, eccoti gli avana», posò sul tavolo una scatola di Montecristo n° 5. «Un debito è un debito», disse Emilio stappando una bottiglia di Casillero. Durante il pranzo chiacchierarono dei possibili finali di una telenovela e ascoltarono i racconti dei bambini in collegio. «La professoressa di francese ha i baffi, zio, e dice che se continuo a prendere buoni voti mi manderà a Parigi con il gruppo di quinta.» «Devi andarci, Juancho, e studiare molto. I tuoi genitori fanno tanti sacrifici perché voi due abbiate il meglio.» Terminato il pranzo, Barragán ed Esquilache si appartarono nello studio. «Ficcati bene in testa quello che ti dico, Emilio. La faccenda dell’impalato non ha niente a che vedere con noi e neppure con Pereira Antúnez. Pereira lo abbiamo seppellito due settimane fa, o te lo sei già scordato?» 73
«Sì, Marco Tulio, certo... Ma è che, non so, l’immagine pubblicata dall’‘Observador’, la foto dell’impalato, non so perché...» «A chi poteva saltare in mente di fare una cosa simile a Pereira Antúnez, Emilio, eh? Tu concentrati sul tuo lavoro. Come va l’acquisizione dei terreni?» «Anche di questo volevo parlarti. Nelle carte che ho ricevuto, i certificati di proprietà che mi hai mandato, non c’è traccia di quei quattrocento ettari.» «Cosa?!» L’avana cadde sul tappeto. «Hai sentito bene. Nessuna traccia. Non compaiono fra le proprietà.» «Non può essere, Emilio, controlla bene la numerazione, non sarà che manca una pagina?» «Ho controllato e tutto è in ordine, non c’è nemmeno un palmo di terra nelle proprietà dichiarate dagli avvocati.» «Quattrocento ettari non possono scomparire dalla sera alla mattina, Emilio, e tanto meno con quella banda di matti che si sono piazzati lì.» «Pereira Antúnez era naturista, Marco Tulio, per questo ha ceduto ai Figli del Sole l’uso di quei terreni. Chissà. Bisognerà fare delle indagini.» «Ma non è possibile che ci siamo sbagliati. Lui figurava come proprietario nell’ultimo certificato catastale.» «Marco Tulio, sei al corrente del fatto che Vargas Vicuña è interessato a quei terreni, no?» «L’ho saputo da te. Lui non mi ha detto niente.» Esquilache si rosicchiò un’unghia e ricordò con rabbia il tono del dottore. «Vargas Vicuña deve averci giocato qualche tiro mancino. E dei Figli del Sole si sa già qualcosa?» «No. Non abbiamo preso contatto, però la settimana prossima possiamo convocare l’amministratore.» «Chi è?» «Una donna, si chiama Susan Caviedes.» «Dobbiamo trovare quei terreni, Emilio. Quelli di GranCapital hanno già pronto un progetto di urbanizzazione vicino al lago, quarantacinque lotti con campo da golf, sci nautico e un parco per la caccia. Se non mantengo i patti mi tolgono l’appoggio in consiglio. Inutile che ti dica altro.» «Hai già un accordo con loro?» 74
«Ti ho già spiegato tutto nel memorandum del 1° ottobre, non l’hai neanche letto, curioso come sei?» Esquilache cominciò ad alzare la voce. «Marco Tulio, calmati. Ogni cosa a suo tempo, non mettiamo il carro davanti ai buoi.» «Il carro c’è già, caro Emilio, e tu adesso mi dici che mancano i buoi?» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che una parte dei fondi della campagna dell’anno scorso provenivano da GranCapital, e che se non otteniamo quei terreni ci tagliano quel che sappiamo e ce lo fanno mangiare.» «Ma... e Vargas Vicuña? Io credevo che stessi lavorando per lui con quei terreni...» «A Vargas Vicuña non devo niente, ma a GranCapital sì. E non dire cazzate. Sono anni che non lavoro con Vargas Vicuña.» «E lui cosa ne sa?» «Questo lo racconto a te, a casa tua, dopo aver passato una domenica in famiglia. Se esce da queste quattro mura la tua carriera è finita, chiaro?» «Non minacciarmi, Marco Tulio. Siamo tutti e due sulla stessa barca. Il problema è che Vargas Vicuña mi sta telefonando per lo stesso motivo, e quindi volevo sapere...» «Bisognerà mettersi a cercare le carte dei terreni, Emilio. Non so dove, sei tu l’avvocato. Dobbiamo trovarle per registrarli al Distretto come riserva e cederli a GranCapital. Mi spiego?» «Non posso promettere niente... Se Vargas Vicuña ci ha messo le zampe sopra non c’è modo di recuperarle.» «E se le avessero i Figli del Sole?» «Potrebbe risultare più facile, comunque, io non li conosco.» «Bisogna stare attenti anche con loro. Quegli svitati girano nudi come cavernicoli, ma non sono certo stupidi.» «E con le altre proprietà di Pereira Antúnez che facciamo?» «È più semplice. Se non ci sono eredi nessuno ci complicherà le cose. Ma si tratta di catapecchie, Emilio, ciò che importa qui, caro mio, sono i quattrocento ettari.» Verso le sei del pomeriggio Esquilache se ne andò e Barragán salì di sopra a cambiarsi. Fece una telefonata parlando a bassa voce. Poco dopo 75
scese giù con indosso un blazer blu mare e un fazzoletto bordò che spuntava dal taschino. «Esci?» Catalina lo guardò, prendendo in braccio Catica. «Vado a bere qualcosa al Country, amore mio, ma prima passo un momento dall’ufficio a controllare dei documenti che mi ha chiesto Marco Tulio.» «Non fare tardi, i bambini hanno piacere che tu sia qui quando vanno a letto.» «Non preoccuparti.» Uscì lasciandosi dietro una zaffata di acqua di colonia. Sulla porta dell’ufficio si imbatté in Nancy. Avevano pranzato insieme quasi tutti i giorni ed Emilio le aveva raccontato che stavano lavorando a un’operazione commerciale molto complessa. La portò in un locale a nord della città. «Quello che non capisco, dottore», disse Nancy, un po’ imbarazzata nel ritrovarsi assieme al suo capo la domenica sera, «è perché siamo dovuti venire in questo posto per parlare...» C’era poca luce, due coppie ballavano al centro della pista. «Mi pedinano, Nancy. Ho paura dei microfoni e così mi tocca venire qui.» «Ma...» fece lei, intimorita, «chi la pedina?» «La mafia, Nancy... Lei sa che faccio l’avvocato. Che in studio arrivano diversi casi e... Per dirle la verità, non mi fido di nessuno.» «E io cosa c’entro in tutto questo?» «Lei, Nancy, è l’unica che può aiutarmi.» «Ma... come?» «Non posso dirle granché, per non coinvolgerla. Ma oggi, trovandosi qui con me, lei rende un grosso servigio al paese.» Le coppie che ballavano cominciarono a baciarsi e Nancy si innervosì. «Quello laggiù», disse Barragán indicando un tipo grande e grosso, con una cravatta gialla, «è un agente della Cia. Poco fa, quando sono andato in bagno, ho ricevuto un messaggio. Ma non posso dirle di più.» «La questione è così pericolosa?» 76
«Non immagina quanto.» Chiamò il cameriere con un cenno. «Altri due cubalibre.» «Ma dottore, le ho già detto che non bevo.» «Faccia come le dico, Nancy, siamo in grande pericolo.» «Mi gira la testa.» «Non fa niente. Pensi al suo paese, alla democrazia, al presidente. Adesso, tutto questo è in gioco.» «Quel signore è della Cia?» «Sssh, non vorrei che mi avessero già intercettato e ci stessero ascoltando.» «Ma chi?» «I russi, Nancy. E non mi chieda altro.» A ogni parola si avvicinava di più all’orecchio di lei. Nancy sentiva il profumo Obsession di Calvin Klein, poi la mano di Emilio la toccò. «Cosa fa, dottore?» «Dobbiamo fingere, Nancy, altrimenti se ne accorgeranno.» «Ho paura.» Barragán le strinse la mano. «Tranquilla, ci sono qui io e il cameriere laggiù è un mio agente. Se dovessero arrivare, lui è armato.» «Non possiamo andarcene?» «No. Devo aspettare il messaggio.» «Ma... non ha detto che il signore con la cravatta gliel’aveva già dato?» «Mi ha dato il messaggio, ma non la chiave del codice. Nancy, è meglio per la sua incolumità che non mi faccia tante domande.» La mano di Barragán cominciò ad alzarle la gonna. «Questo le sembrerà strano, ma deve essere così.» Con l’indice arrivò fino al suo sesso, la accarezzò. «Dottore...» Nancy si staccò da lui. «Attenta», disse Barragán. «Ho appena visto un russo accanto alla porta del bagno.» «Quello là?» 77
«Sì, non lo guardi.» «Ma se è nero.» «Nero, ma lavora per i russi. Mi sono già scontrato con lui una volta.» «Allora, vi conoscete?» «Mi aspetti qui...» Barragán si alzò, andò al banco e prese tempo. Dopo un po’ tornò a sedere e si avvicinò all’orecchio di Nancy. «La porta d’entrata è piena di russi. Il mio agente dice che possiamo nasconderci nel retro. Venga...» Salirono per una scala stretta fino a una piccola stanza. Entrarono e Barragán chiuse a chiave. «Dobbiamo aspettare qui finché il mio agente non mi darà il segnale.» «Ma dottore, non sono neppure riuscita a prendere le carte in ufficio...» «Quella era una scusa per uscire, Nancy. Le ho già detto che devo diffidare di tutti. Venga, si sieda e mi aspetti un attimo. Se non torno in venti minuti chiami il DAS.»* Uscì e Nancy rimase ad aspettare su un divano color vinaccia. Guardò la lampada dalla luce soffusa, i quadri asimmetrici, il tappeto bianco con bruciature di sigaretta. Di lì a poco Barragán tornò. Teneva in mano due cubalibre. «Il mio agente è riuscito a procurarmi questi, ha detto che non possiamo ancora uscire. Bisogna aspettare il segnale.» «Ci vorrà molto?» «Non ne ho idea, la cosa migliore è aspettare qui. Salute.» Nancy bevve un sorso e cominciò a girarle la testa. Quando Barragán la baciò le sembrò piacevole. Lo lasciò fare e qualche istante dopo era nuda, una gamba sulla spalliera del divano e l’altra sulla spalla del suo capo.
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Departamento Administrativo de Seguridad, corpo speciale della polizia con funzioni di servizio segreto. (N.d.T.)
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XIII
La storia continua a sedici anni, signori, in piena adolescenza, periodo in cui un giovane comincia a trasformarsi in un uomo e quindi, in maniera naturale e sana, cambia il proprio modo di guardare le donne. Non entrerò in particolari, perché non è il luogo adatto né siamo qui per questo, ma l’adolescenza è un momento di dubbi, e ne consegue l’importanza della donna per qualcuno sprovvisto di esperienza e che, come nel caso del sottoscritto, ha dovuto infilarsi i pantaloni da uomo di casa molto prima del dovuto, spinto dalla necessità e dalle circostanze di una zia zitella e di quella santa donna di mia nonna. Il banchetto di dolci forniva di che vivere con dignità, questo sì, ma la vicinanza dello zucchero fiaccava la mia resistenza e con il tempo divenne frequente l’ingenuo gesto di infilare il dito nell’impasto, nella crema calda. Il giovane non si preoccupa di mangiare perché deve crescere, ma chi vi parla, giunto ai sedici anni, aveva già preso tutto quello che gli sarebbe bastato per il resto della sua vita, quindi gli zuccheri cominciarono a depositarsi nello stomaco, aggrappandosi alle pareti come zecche. I sedici anni sono un’età difficile perché si desidera quello che non si può avere, e a questo punto, distinte signore, turatevi le orecchie, perché devo dire che ciò che non si può avere sono i corpi delle donne, orgoglio della razza patria, molto rinomate all’estero. Le ragazze, diceva mia nonna, non si toccano neppure con un petalo di rosa, e quelle parole arrivavano come una staffilata alle orecchie del giovane, che, in piena febbre adolescenziale, vede gambe anche a occhi chiusi. Va da sé che, e adesso signore turatevele davvero le orecchie, il giovane finisca con le prostitute, scuola virile di tante generazioni. In quelle prime escursioni nel sesso a pagamento, che Dio mi perdoni, ho imparato cosa volesse dire essere grasso. All’inizio la questione si manifestava in modo neutro. «Senti, ciccio, mi offri una birretta?» dicevano le infingarde, e per me l’appellativo «ciccio» suonava come qualcosa di estraneo, che non mi riguardava. Ma non c’era niente da fare, le donne mi chiamavano «ciccio», soprannome che ben presto si trasmise agli amici del quartiere, e poco a poco mi divenne familiare. E lo dico perché a partire da quel momento molte cose naturali come correre, ballare nelle feste e giocare a calcetto cominciarono a diventare sforzi faticosi. Ci mettevo tutto l’impegno per muovere le gambe con agilità, ma arrivava sempre un momento in cui mi 79
mancava il fiato e una voce mi diceva all’orecchio «Fermati qui, arrenditi, sei un ciccione». Allora, cominciai a detestare lo zucchero. Odiavo quella droga cristallizzata e giurai mille volte di allontanarmi dai dolci come se fossero la peste o il colera... Ma arrivavo a casa alla sera e mia zia, nell’accogliente cucina, diceva: «Ragazzo mio, quanto sei sudato, vuoi una fettina di torta?» e io facevo segno di no, con la testa, perché se aprivo la bocca la risposta sarebbe stata sì, cioè la verità, e mia zia, che sapeva leggermi dentro, mi passava la mano sulla fronte e mi portava un dolce, e io mi sentivo amato, coccolato, protetto e... al tempo stesso miserabile. E così sarebbe sempre stato, e mi guardavo allo specchio senza riconoscermi perché al mio posto vedevo il ciccione che dicevano le prostitute, e pensavo che quello non ero io, che mi ritrovavo infilato dentro una figura riflessa dallo specchio e cercavo di ritrovarmi, e così tiravo dentro la pancia, mi mordevo le labbra, e tiravo fuori il petto, ma niente, l’immagine era sempre la stessa: l’essere molliccio e flaccido di cui gli amici si burlavano, che arrivava ansimante in cima alla collina per tirare sassi e andare a caccia di roditori, si stancava nelle scorrerie notturne e faceva ridere le prostitute.
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XIV
La donna camminò a passi nervosi verso la fila dei taxi. Salì su una Dodge Dart gialla che la portò al cinema Astor Plaza. Davano La guardia del corpo, con Kevin Costner, e lei si avvicinò al botteghino con una banconota da duemila pesos in mano, comprò un biglietto ed entrò. In platea andò a sedersi in un angolo, dove pochi vanno se la sala non è piena. Di lì a poco, quando le luci si spensero, un uomo le si sedette accanto. «Ti ha visto qualcuno uscire dall’ufficio?» «No. Credo di no.» «Bene, andiamo.» «Ti aspetto nella 14.» La 14 voleva dire la stanza numero 14 del motel La Bilirrubina che rimaneva dietro l’angolo, tra la Caracas e la 13. La donna arrivò per prima. Andò in bagno, fece la pipì e poi si sollevò la gonna davanti allo specchio: si guardò i fianchi, fece una giravolta mordendosi le labbra per sembrare più sexy e intanto si dava dei colpetti sulle natiche. Poi si tirò ancora più su le mutandine. Andava tutto bene. A quel punto si spogliò mettendo in mostra un bel paio di gambe e due seni cadenti. Poi arrivò l’uomo e, senza perdere tempo, si infilò nel letto dove lei lo aspettava completamente nuda. Cominciarono a toccarsi, e mentre stavano gemendo Silanpa entrò scattando foto con la sua Nikkormat. «Polizia, perquisizione di routine!» I due rimasero impietriti. «Fai qualcosa, José Luis, non stare lì come un imbecille!» gridò la donna, ma l’uomo nascose il viso sotto il cuscino. Dai sussulti si poteva intuire che stesse piangendo. «Figlio di puttana!» riprese a gridare. «Non si rende conto del danno che ci fa?» Silanpa la guardò negli occhi: il rimmel le colava sulle guance, i capelli erano raccolti in una coda e, al polso, aveva un braccialetto d’argento. Gli parve attraente, mentre si copriva con il lenzuolo il corpo nudo e sudato. La sua espressione era di supplica. Annotò un numero sul tavolo e disse: 81
«Chiamatemi che ne parliamo». Detto questo uscì, sentendo odio per quella messinscena e, al tempo stesso, pietà per la povera coppia che si incontrava in motel da quattro soldi per un amore clandestino, veloce e un po’ squallido. Pensò che doveva smetterla con quel lavoro di investigatore privato. Aprì la macchina fotografica, estrasse il rullino e lo lanciò in mezzo all’autostrada cercando di immaginare cosa avrebbe provato lui se qualcuno gli avesse portato delle foto di Moníca. C’era una perversione in quel dolore: vederla tra le braccia di altri, sottoposta alla pressione di un altro corpo. Pochi minuti dopo parcheggiava davanti alla casa di riposo di Chía. Guzmán era tranquillo. Silanpa gli diede un pacchetto di achiras* e riferì nei minimi particolari il racconto di Abuchijá e l’incursione nel bagno turco. «Per quel che mi riguarda ci ho pensato su, Víctor, studiando la faccenda, e mi è venuta un’idea... Una cosa tanto schifosa, non si era mai vista in questo paese. Sì o no? Voglio dire, quelli che ammazzano tutti i giorni sono dei sadici, ma non erano mai arrivati a fare qualcosa di così efferato. Per questo penso che ci sia un altro significato e... non lo so, non so perché mi sembra che la cosa abbia un che di rituale, che sia come un messaggio, qualcosa diretto a qualcuno, una sorta di linguaggio privato, mi capisci? La crudeltà si manifesta in vari modi, ma impalare qualcuno, in un certo senso, è un’esclusiva... Forse mi sbaglio.» «È vero che una cosa del genere non era mai successa.» «Infatti. Fai delle ricerche negli archivi. Documentati sui libri di storia, studia chi impalava la gente e perché.» Silanpa gli spiegò quanto era riuscito a verificare su una enciclopedia e Guzmán prese nota. Poi lo fissò negli occhi. «Sento che c’è qualcosa di più.» «È tutto ciò che ho.» «Mi riferisco a te. È successo qualcosa.» Guardò verso il soffitto cercando un’ombra, una crepa... «Si tratta di Moníca.» «Oddio.» *
Piccoli biscotti al mais, tipici delle regioni tropicali colombiane. (N.d.T.)
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«Mi sta facendo le corna con Oscar, l’ex fidanzato, ti ricordi?» «Ecco, lo dicevo che c’era qualcosa... Ma sei sicuro?» «Li ho beccati insieme.» Guzmán si grattò le guance. «E ti fa molto male?» «Sono ridotto a una merda, ma cerco di non pensarci.» «Cos’è successo tra voi due?» «Stronzate. L’ho lasciata un po’ da parte per via del lavoro.» «Non è una stronzata. È la cosa peggiore che si possa fare a una donna. Ne avete parlato?» «Non mi azzardo a vederla, mi fa paura sapere la verità.» «Se una donna come Moníca fa questo, è perché qualcosa le si è rotto dentro. Qualcosa di fondamentale.» Silanpa lo guardò in silenzio e Guzmán continuò: «L’amore è come una sbornia. Finché uno ha la bottiglia davanti si sente felice. Ma poi finisce, ci si addormenta e il giorno dopo ci si sveglia con il mal di testa. Poi uno promette di non bere più... La ami ancora?» «Sì.» «E lei?» «Credo che si senta in colpa, non l’avevo mai vista così.» Silanpa si passò la mano fra i capelli. «Non so cosa fare, mi sento perduto, con la paura di aprire gli occhi e non trovarla.» «Non devi avere paura. Tu sei un tipo sveglio, Víctor, sai che la vita comincia dietro la verità.» «Non mi interessa più la verità, preferisco vivere nell’inganno», rispose. «Stiamo parlando di qualcuno in carne e ossa, vecchio mio. Se le vuoi bene cercala e perdonala, perdonale tutto e fatti perdonare da lei. Ricordati che la vita va avanti a suon di calci. Tira fuori qualcosa di buono da quello che è successo. Ma se non le vuoi bene, dimenticala.» «Non so cosa pensa lei. Non so cosa vuole.» «Se si è innamorata di quell’altro, la faccenda è diversa. In tal caso ubriacati, piangi, sparati i risparmi, rompi un paio di bicchieri contro il muro. Ammazza Moby Dick e poi festeggia con una bottiglia di Old Parr, il whisky dei pirati. È l’unica cosa da fare. Lottare contro una donna è una 83
battaglia persa in partenza. Napoleone, che ha conquistato mezza Europa, ha detto una cosa saggia: ‘Le battaglie contro le donne sono le uniche che si vincono fuggendo’.» «Ma io non voglio vincere.» «Concentrati su altre cose, tieni occupata la mente», insistette Guzmán. «Il problema è che l’amore è come il gioco: un vizio senza sostanza. Non c’è cura possibile.» Guzmán stava alzando la voce e, a un certo punto, la porta si aprì. Apparve un’infermiera con un vassoio di pastiglie. Allora Silanpa decise di andarsene. Durante il tragitto pensò alle parole di Guzmán: era facile vedere le cose da lontano, quando non si ha un chiodo rovente piantato nelle viscere. «Sono completamente sobrio», si disse. Si fermò in un bar e bevve d’un colpo tre aguardiente. La realtà si dimostrava eccessivamente ostile per non sentire il bisogno di alterarla. Ma era stato inutile, si disse pensando alla sua Underwood: la realtà è l’unica cosa che non si può lasciare indietro. Ci raggiunge sempre. Entrando in casa notò una busta che non aveva visto nel pomeriggio. Era indirizzata a lui e l’intestazione diceva: Bagni Turchi Il Paradiso Terrestre. L’aprì e trovò le informazioni che aveva richiesto. Compilando il formulario e aggiungendo le fotografie e un assegno da ventimila pesos poteva aspirare a essere ammesso. Comunque aveva diritto a una visita e a sfruttare le installazioni del Paradiso Terrestre per un pomeriggio, il tutto incluso nel pagamento della tassa di iscrizione prima di ricevere la tessera di socio naturista. Un dettaglio: inutile presentarsi da solo. «Il Paradiso Terrestre, per la sua filosofia rispetto ai rapporti dell’uomo con la natura, vuole preservare innanzitutto i valori morali. Pertanto vengono accettate soltanto domande formulate da coppie.» Infilò il foglio nella borsa e premette il tasto della segreteria telefonica. «Silanpa, sono Moníca. La faccenda è così grave? Sono le nove di sera e me ne sto seduta accanto al telefono come un’imbecille. Aspetto sempre che mi chiami.» Inghiottì la saliva, si asciugò gli occhi e continuò ad ascoltare il nastro. «Qui Emir Estupiñán. Passo. Per riferire che Lotario Abuchijá è disposto ad andare a Tunja domenica e a cercare il famoso garage. Passo e chiudo.»
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Avvertì all’improvviso su di sé lo sguardo accusatore del manichino. «Sì, ho bevuto un paio di bicchieri lungo la strada», mentì, «ma solo due. Giuro.» Andò in cucina. Aprì il frigo e lo richiuse dopo aver constatato che non c’era niente da mangiare. Che fare? Non voleva telefonare a Moníca. Non voleva andare al cinema. L’idea sembrò cadere dall’alto: Quica. Ripartì facendo stridere le gomme, tagliando le curve e passando semafori rossi. Il corpo di Quica era umido, e quando la penetrò gli sembrò di entrare in una chiesa del Chocó dopo un acquazzone. Quanti anni aveva? «Dipende, per la polizia venti, per il cliente sedici. Cosa preferisce?» «La verità.» «La verità non la so nemmeno io.» Dovette offrirle mari e monti per convincerla a uscire con lui, ma alla fine accettò. Prima la portò a mangiare un hamburger tra la 84 e la 15, e per chiudere in bellezza a lei venne in mente di andare a ballare la salsa nel Salomé. «Lei ha detto che avrei potuto fare tutto quello che volevo.» «Va bene, andiamo...» Ordinarono delle birre e ballarono mescolandosi alle coppie di amanti. Forse Moníca era stata lì anche con Oscar, come aveva fatto con lui. Forse erano andati via da poco, stanchi, e adesso stavano chiacchierando a luce spenta. Magari parlavano di lui. Del tempo che, per colpa sua, erano rimasti separati. Alle quattro del mattino Quica fece uno sbadiglio e Silanpa andò a pagare il conto. «Adesso dove andiamo?» chiese Quica. «A casa mia, dobbiamo riposarci.» «Riposarci? Quello che vuole è sbattermi... Sporcaccione», disse strizzandogli l’occhio. «Io li conosco gli uomini.» Silanpa non disse niente e l’accompagnò sotto braccio fino alla macchina. Gli sembrò una cosa triste che una ragazza tanto giovane fosse così smaliziata. A casa, Quica aprì tutti i cassetti, il frigo, lo sportello della dispensa, gli armadi, accese e spense il televisore, fece domande sul manichino e volle togliergli il velo, cercò della musica sullo stereo vagando da un canale all’altro della radio, si servì un bicchiere di cocacola che poi non bevve, 85
accese una sigaretta, aprì un barattolo di olive e chiese un sorso di whisky. Poi andò in bagno e domandò a Silanpa se poteva fare una doccia, ma alla fine, in mutande, si lasciò cadere sul letto con gli occhi arrossati dal sonno. «Domani ho una sorpresa per te», disse Silanpa. «Di che si tratta?» «Andiamo insieme in un posto molto speciale.» «Dove?» «Vicino a Bogotá, ma non voglio raccontarti di più.» L’indomani, verso mezzogiorno, imboccarono l’autostrada. Quica canticchiava le canzoni della radio e a ogni bancarella che vedeva ai lati della strada chiedeva di fermarsi a comprare frutta, meringhe, fragole con panna. Silanpa la osservava in silenzio, invidiandola. Chissà se aveva mai sofferto. Glielo domandò. «Sì, quando hanno ucciso mio fratello», rispose con la bocca piena di fragole. «Aveva due anni più di me. Gli hanno sparato tre colpi a Ciudad Bolívar.» «Perché?» «Non me lo chieda, non mi piace parlarne.» Cercarono per un po’ il posto finché Silanpa, da lontano, riconobbe la muraglia di pini. Quica si mise a ridere vedendo il cartello del Paradiso Terrestre. «Qui bisogna parlare poco, Quica, e solo tra di noi. Poi ti spiego.» Un uomo dai modi distaccati aprì la porta. Silanpa gli consegnò la busta con l’invito e quello li squadrò dall’alto in basso. «Venite in ufficio.» Lo seguirono. «Posso sapere perché volete iscrivervi al club?» «Siamo stufi della città, dell’ipocrisia, delle apparenze... Vogliamo godere un vero riposo e per questo abbiamo deciso di abbracciare la filosofia naturista.» «Bene, bene. Passate pure nelle sale, gli spogliatoi sono laggiù.» Quica sgranò gli occhi. Doveva spogliarsi nuda e attraversare vari saloni dove uomini e donne, tutti nudi, chiacchieravano e leggevano il giornale. Le scappò da ridere. 86
«Andiamo a fare un bagno di vapore.» All’inizio tossì, ma poi, sentendo i pori che si aprivano e i nervi che si distendevano con il calore, cominciò a prenderci gusto. «È piacevole, le piastrelle sono molto belle.» La sauna risultò meno gradevole: un salone in penombra con panche di legno e un calore che le irritava la pelle. Un forte odore di eucalipto. In pochi minuti era tutta bagnata di sudore. «Adesso una doccia di acqua gelata.» Silanpa osservava: pance flaccide, schiene pelose, donne dalle tette enormi che ricadevano su ventri deformati dall’età, di tanto in tanto qualche corpo giovane... Riconobbe il padiglione su cui si era arrampicato e poi il patio, ma niente gli sembrò sospetto. Stava forse seguendo una falsa pista? Decise di fare una passeggiata; attraversò il patio e aprì una porta che diceva «Privato». Camminò lungo un corridoio, scese una scala e passò accanto a un ufficio dove alcune persone discutevano. Un’altra scala lo portò in un atrio, e se ne stava lì senza sapere che fare quando sentì dei passi che si avvicinavano. Dove nascondersi? L’unica via d’uscita immetteva nel garage e ci si infilò. Sgranò gli occhi: dietro un paravento di legno era parcheggiata una Mitsubishi azzurra metallizzata. Memorizzò i numeri della targa e tornò su per cercare Quica. Stava ripercorrendo il corridoio quando una mano si posò sulla sua spalla. «Il signore cosa cerca?» «Il bagno.» Gli aprì la porta e lo invitò a uscire nel patio. «È dall’altra parte.» «Grazie.» Si mise a cercare la donna descritta da Abuchijá: bionda, occhi chiari. Guardò da tutte le parti ma niente. Forse era una delle voci provenienti dall’ufficio. Quica era contenta. Stava parlando con un signore di una certa età nella sala del vapore e sembrava non avere nessuna voglia di andarsene. «Le presento il signor Alberto.» «Piacere», disse Silanpa. 87
«Mi rallegra vedere che anche ai giovani interessa il naturismo. È qualcosa di così... Una vita nuova, come direbbe Dante.» «Lei lo pratica da molto?» «Da quando avevo diciannove anni, si immagini. A quei tempi dicevano che eravamo dei degenerati, che l’unica cosa che ci interessava era mostrare le vergogne. Ottusi. Come se la nudità riguardasse soltanto il pistolino. Poi è stato fondato questo club con l’associazione, però devo dirle che se riusciamo a vivere tranquilli è perché ci proteggiamo.» «Quando è stato costruito il club?» «Nel ’71, ne è passato di tempo.» Silanpa continuò a guardarsi intorno, e a un tratto, da una delle sale, vide arrivare una donna attraente che si avvicinava alla descrizione di Abuchijá. Aveva le mani punteggiate di lentiggini, gli occhi incavati, e il collo solcato da rughe. Vedendo Quica la donna fece un’espressione sorpresa. «Vieni, Susan, vieni che ti presento... Sono nuovi», disse il vecchio. La donna si sedette sulla panca di legno accavallando le gambe. Guardò con aggressività il corpo di Quica, radiografò Silanpa con un’occhiata e, alla fine, come disegnato a mano su un volto di argilla, apparve un sorriso. «Molto piacere, e benvenuti.» «Stavo dicendo loro quanto sia importante per noi avere nuovi soci, gente giovane.» «Certo, certo...» «Anche lei è naturista fin da ragazza?» chiese Silanpa. «Sì», rispose leggermente nervosa. «Chiedo scusa: Alberto, ti stavo cercando... Mi accompagni un momento in ufficio?» «Certamente, andiamo.» «Ci vediamo dopo, signori, e godetevi la permanenza.» L’espressione della donna era tornata ostile. Silanpa li seguì con lo sguardo fino alla porta e controllò l’orologio. Erano le quattro del pomeriggio. La visita aveva già dato i suoi frutti, adesso non gli restava che riposarsi.
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XV
«Bagni Turchi Il Paradiso Terrestre?» L’uomo annotò i dati con una matita mordicchiata e subito dopo s’immerse negli schedari. «Grazie, Baquetica. Come può immaginare, è molto urgente.» L’impiegato dell’ufficio del registro catastale aveva due particolari sgradevoli: una mano rattrappita che nascondeva dentro la manica e un labbro leporino coperto in parte dai baffetti radi. Baquetica andava in ufficio anche al sabato per respirare l’aria dei fascicoli, fare cruciverba, sentirsi libero e ozioso nello stesso luogo in cui lavorava durante la settimana. Una volta aveva confessato a Silanpa che lo spaventava l’idea di trascorrere ore miserabili nella sua stanza in affitto a Fontibón, dove si recava solo per dormire, preferibilmente ubriaco. Era per questo che rimaneva fino alle sei tra le scartoffie e poi, se si sentiva nello stato d’animo adatto, andava al Copelia a vedere un porno. Silanpa lo conosceva da tempo, gli dava delle mance e ascoltava i suoi problemi. «Ecco qui il foglio di registrazione. Manca il certificato del proprietario, ma c’è quello dell’amministratore: Alberto Cossío, cedola numero eccetera. Le serve?» «Sì, aspetti che me lo copio.» Silanpa lesse il foglio di registrazione e notò che la data era del 10 agosto. «Questa registrazione è di appena due mesi fa, Baquetica?» «Sì, stando alla data riportata.» «Ma quel club esiste da oltre vent’anni. Cosa può essere successo?» «Non lo so, a ogni cambio di proprietà si fa una nuova registrazione, ma qui non c’è la documentazione. Aspetti, vado a cercare la transazione nello schedario delle donazioni. Potrebbe anche trattarsi di questo.» La luce del pomeriggio entrava dai finestroni formando fasci di polvere. La figura di Baquetica andava e veniva tra i mucchi di fascicoli, legati con lo spago e contrassegnati con numeri scritti a matita. «Eccolo. Era proprio una donazione, guardi. La documentazione c’è.» «Una donazione di chi?» 89
«Casiodoro Pereira Antúnez a Heliodoro Tiflis. È recente, guardi, meno di due mesi fa.» Silanpa ricopiò tutti i dati e uscì di corsa. Stava ormai calando la sera. Quica aspettava nella R6 con la faccia imbronciata. «Ci ha messo troppo, maleducato. Mi porti subito al Lolita che sto facendo tardi.» Una volta arrivati, si salutarono con un bacio sfuggente. Vedendola salire la scala stretta, sentì qualcosa nelle viscere, e provò rabbia e gelosia quando il sordomuto la accolse con una manata sulle natiche. Nella segreteria c’erano diverse telefonate. Guardò la spia rossa che lampeggiava e si voltò verso il manichino: «Ha chiamato? Scommetto un cappello nuovo che l’ha fatto». Premette il tasto play, ascoltò la propria voce nel messaggio registrato, e poi: «Silanpa, sono Moníca. Ti comunico che comincio a stancarmi di questa stronzata. Se non vuoi parlare con me, abbi almeno il coraggio di dirmelo in faccia. Sono le cinque e resto a casa. Non esco. Chiamami appena arrivi». Tre segnali intermittenti e poi: «Qui Emir Estupiñán, passo. Faccio rapporto: durante una seconda chiacchierata con Lotario Abuchijá non sono emersi nuovi elementi utili alle indagini. Resta fissato l’appuntamento di domani per il sopralluogo nei garage di Tunja, ma Abuchijá preferisce non usare il suo camioncino per due motivi: primo, per non essere riconosciuto. Secondo, perché ha dei problemi all’accensione. È tutto. Passo e chiudo». Bip, bip, bip... «Sono le sette, Silanpa. Sai cosa ho pensato? Se non mi vuoi parlare per fare il duro o roba del genere, ti faccio una proposta. Vieni a casa, ordiniamo una pizza e guardiamo Sábados felices* Se poi avrai voglia di chiacchierare, chiacchieriamo, altrimenti, te ne vai. Okay?» Provò panico e guardò l’orologio. Ce l’aveva sì qualcosa da dire! Erano le otto e dieci. Andò alla finestra, osservò le luci della città e accese una sigaretta chiedendosi se fosse il caso di chiamarla. «La chiamo o non la chiamo?» Per due volte alzò e riabbassò la cornetta. Si spostò in cucina e mise a bollire l’acqua per farsi degli spaghetti al tonno. Sedendosi sullo sgabello sentì il fastidio delle emorroidi, però si rese conto che per tutto il *
Programma umoristico tra i più popolari della televisione colombiana, in onda ogni sabato sera. (N.d.T.)
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giorno non gli avevano fatto male. Forse era l’effetto del bagno di vapore. Il telefonò squillò in salotto: rimase a guardarlo senza rispondere. «Cucù. Mi riconosce? Mi sono scritta il suo numero di nascosto. Ciao.» Era Quica. Un minuto dopo riprese a suonare e nella segreteria riconobbe la voce di Esquivel: «Chiamo per ricordarti che stanotte è il tuo turno in redazione. Te ne sei dimenticato? Be’, ricordatelo, a partire dalle undici». Mangiò in cucina, decise di vedere Sabados felices e si portò il televisore in bagno. Riempì la vasca, si spogliò ed entrò in acqua strofinandosi le braccia. A quel punto suonò il campanello. Si mise addosso un asciugamano e andò alla porta tremando di freddo. Era lei? Ma nello spioncino vide una donna che non conosceva, deformata dalla lente. «Chi è?» «Il signor Víctor Silanpa?» «Sì...» «È per una questione di lavoro, urgente...» «Un momento, per favore.» Aprì la porta e sentì un tuffo al cuore: era la donna del bagno turco, la stessa che aveva descritto il camionista Abuchijá. La invitò a entrare. «Sono mezzo nudo perché stavo facendo il bagno... Si accomodi che arrivo subito.» «Non si preoccupi, immagino che il suo corpo sia lo stesso che ho visto al bagno turco.» Silanpa le rivolse uno sguardo sornione, andò in bagno a mettersi un accappatoio e tornò in salotto con i sandali. «In cosa posso esserle utile?» «Ho letto i suoi articoli sul giornale riguardo quel caso, Víctor. Come lo chiama...? Ah, sì, il Delitto dell’Impalato.» Quel tono confidenziale lo colse di sorpresa e, imbarazzato, si coprì le gambe magre e bianchicce con un lembo dell’accappatoio. La donna indossava un completo color vinaccia e fumava una lunga Pall Mall. «E sa cosa le dico? Secondo me è stata la sua inchiesta su quel caso a portarla nel nostro club. Mi sbaglio?» «Posso offrirle qualcosa... una birra, un bicchierino?» «Se ha del whisky sì, altrimenti un caffè.» 91
«Ho del whisky.» La donna lo seguì con lo sguardo fino in cucina. Silanpa sentì freddo nella schiena. «Non mi ha risposto», e bevve un lungo sorso, infilando poi la lingua nel bicchiere per giocherellare con i cubetti di ghiaccio. «Io sono un giornalista, signora. Ho dei doveri verso il giornale che vanno oltre la semplice indagine di polizia. Lo sa che scrivo anche articoli di cronaca sociale? E che il suo club è poco conosciuto e potrebbe interessare a molti dei nostri lettori?» «Non sono venuta qui a perdere tempo con certe stupidaggini, Víctor.» Lo guardò negli occhi, accavallò le gambe e diede un lungo tiro alla sigaretta. «Come ha trovato il mio indirizzo?» «È sulla richiesta di iscrizione al club, non ricorda?» «Sì.» «Parliamoci chiaro. Lei crede che abbiamo qualcosa a che vedere con l’impalato. Sì o no?» «Sto facendo un’inchiesta, signora. Se vuole dell’altro whisky glielo offro volentieri, ma non sono obbligato a rispondere alle sue domande.» «Sono venuta qui con le migliori intenzioni.» La donna assunse una posizione più comoda nella poltrona e Silanpa, abbassando lo sguardo, notò che sotto il vestito non portava biancheria intima. «Nel mio lavoro incontro molte donne come lei. Donne eleganti, abituate a sottomettere gli uomini.» «Non volevo sedurla, Víctor. Forse pensavo di comprarla, tanto per essere chiara, perché conosco le sue tariffe e so che lei ha un prezzo.» «E cosa vorrebbe comprare?» «Il Paradiso Terrestre non ha niente a che vedere con la faccenda dell’impalato, ma vista la piega che sta prendendo, potremmo subire dei danni. Le offro un milione di pesos per lasciarci in pace, continui a frequentare il bagno turco e non si immischi in cose che non la riguardano.» «Avrei preferito la seduzione, signora. Un milione di pesos per me è quasi un’offesa.» 92
«Stabilisca lei il prezzo.» Prese un libretto degli assegni dalla borsa e tornò a fissarlo negli occhi. «Ma prima... mi offrirebbe un altro sorso?» Silanpa andò in cucina, e disse: «Metta via gli assegni, signora. Non c’è prezzo possibile». «In tal caso dovrò sedurla», rispose. «Questo mi piace di più, lo ammetto.» Quando tornò in salotto, la donna stava osservando incuriosita il manichino. «È strana, ha un’espressione triste.» «Cambia a seconda della luce.» «Vedo che le piacciono i corpi inerti, forse è per questo che le interessa tanto l’impalato... È carina, complimenti.» Bevve un sorso con gesto elegante e si sedette accanto a lui sul divano. «Venga qui, vicino a me, e vediamo quanto resiste. L’avverto che sto per sedurla e che andrò subito al sodo.» Gli prese la mano, accarezzò i polpastrelli e poi, aprendo le gambe, se la infilò sotto la gonna. «Ecco, gli uomini non trovano più argomenti appena toccano una donna. Come le ho detto, so che tutti abbiamo un prezzo.» «Un prezzo e un orario. Io, per esempio, devo andare a lavorare adesso.» «Se va via e mi lascia sola metterò in dubbio la sua virilità.» «Qui la cosa che conta meno è la mia virilità. Come ha detto di chiamarsi?» «Susan.» «Mi permetta di accompagnarla alla porta.» «Nessun uomo che mi abbia toccata se ne va su due piedi.» «Mi ci ha costretto lei.» «Fa lo stesso», e andò a prendere la borsa, tirando fuori una pistola. Gliela puntò al petto. Silanpa impallidì. «Faccia attenzione...» gli tremava la voce. «Potrebbe partirle un colpo.» 93
«Lei non immagina quanto sia pericolosa una donna piantata in asso. Vuole verificarlo?» «No, metta via la pistola.» La donna gli puntò l’arma alla testa, si sedette dall’altra parte del divano e tirò su di nuovo la gonna. «Venga qui, e si tolga l’accappatoio.» Silanpa obbedì tremando di paura. La canna della pistola davanti alla faccia eliminava qualsiasi accenno di erezione. «Vediamo un po’, superdotato, cosa è capace di fare adesso.» Ci provò più volte ma l’arma gli impediva di concentrarsi. La donna lo spinse via con un piede. «Basta così, superdotato. Ho già visto che non supererà l’esame.» Si alzò, raccolse la borsa e si diresse alla porta. «Quando si sentirà un ometto venga a farmi visita al bagno turco. Nel frattempo continui a giocare con la sua bambola e ci lasci in pace.» Uscì sbattendo la porta, e lasciandosi dietro una boccata di fumo che rimase immobile nell’aria.
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XVI «Quel Tiflis mi puzza, Marco Tulio», disse Barragán bevendo un caffè mentre aspettavano. «È un poco di buono. Perché dovremmo trattare con lui?» «È un buon alleato, Emilio, uno che ci aiuterà a trovare i terreni. E piantala con le scempiaggini, tutti sono buoni o cattivi a seconda delle circostanze.» «Forse sì, ma io avrei preferito...» Heliodoro Tiflis entrò in quel momento nel bar dell’Hotel Bacatá seguito da due guardaspalle. Emilio lo osservò e avvertì un brivido freddo nelle ossa. Cercò di farsi forza guardando Esquilache ma notò che anche lui era nervoso. «Buongiorno, mio caro consigliere...» tese la mano grassoccia ed Emilio fissò il suo braccio peloso, cinto da un bracciale d’argento. «Questo è l’avvocato Barragán, dottor Tiflis, gliene ho parlato...» «Piacere...» «Cosa posso servire al signore?» chiese un cameriere che si avvicinò con un tovagliolo bianco sul braccio. «Ecco... Con questo sole avrei voglia di un guarilaco* che ne dite? Mi porti un Cristal con limone, e altri due per quei miei amici là dietro.» Barragán aveva perso la lingua. Guardò fuori e pensò a Nancy, al profumo che si era lasciata dietro e ai finestrini della Peugeot aperti, per tornare a casa senza che Catalina lo sentisse. Avvertì, di colpo, un forte senso di colpa e desiderò uscire da quell’orrendo bar e passare dal Liceo Francese a prendere i suoi due figli, poi Cata, e portarli tutti in qualche bel posto. «Con una giornata simile, a Bogotá, viene voglia di andare a trovare gli amici, non è vero?» disse Tiflis, dando una manata sulla spalla di Esquilache. «Proprio così...» «E a cosa devo l’onore della visita?»
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Aguardiente, in gergo colloquiale. (N.d.T.)
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«Il mio socio, l’avvocato Barragán, e io, stiamo cercando i certificati di certi terreni vicino al Sisga. Forse lei ne sa qualcosa, signor Tiflis, si tratta di un appezzamento che apparteneva al defunto Pereira Antúnez.» «Poveretto... Quanto tempo è che se la passa sottoterra? Più di un mese.» Gli servirono l’aguardiente e Tiflis, appoggiato il bicchiere alle labbra, lo vuotò in un colpo. «Brindo a quel grand’uomo, e che mi possa sentire là dove si trova.» «Ebbene, come le dicevo... Stiamo cercando i certificati di quei terreni, perché l’avvocato qui presente si occupa dell’eredità di Pereira Antúnez e io, ecco, in qualità di consigliere, sono incaricato della questione. Come lei sa, signor Tiflis, se non ci sono eredi la cosa riguarda il Distretto.» «Sì, ehm...» Tiflis si schiarì la voce. «Sì, certo.» «Bene, ma il fatto è che non troviamo quei documenti da nessuna parte, capisce? Comunque, non c’è problema, i terreni stanno lì e non si perdono, però vorremmo fare le cose come si deve e archiviare il caso, per evitarci il fastidio di stilare un nuovo certificato di proprietà con tutte le complicazioni del caso.» «Già...» Tiflis diede un morso alla fettina di limone e si voltò verso i guardaspalle. «Mi scusi un momento, dottore. Vi andrebbe un altro bicchierino, ragazzi?» Fece un cenno al cameriere per ordinare un secondo giro e tornò ai suoi ospiti. «Scusi ancora, dottore, continui pure, mi dica...» «Tutti qui, volevamo vedere se lei, con le cose che sa e i contatti che possiede, può dirci cosa ne è stato di quelle carte.» «E i terreni sono...?» «Sul Sisga, sulle rive del lago.» «Uh, in quella zona devono valere una fortuna, no?» «Sicuramente sì, don Heliodoro.» «Insomma, che posso dirle? Mi lasci fare qualche ricerca qua e là, va bene, signor consigliere? E una volta che avrò chiarito le cose», Tiflis inghiottì il secondo aguardiente in un colpo e Barragán sentì un calcio in gola, «quando saranno proprio belle chiare, allora ne riparleremo.» «Il fatto è che, lei capisce, sto tenendo fermi quelli del Dipartimento Terreni del Distretto che vorrebbero mettersi subito a fare i nuovi certifica96
ti... Sa quanto costerebbe tutto questo allo stato? Un lavoro inutile, se si riuscissero a trovare gli originali.» «Il problema sta proprio qui, signor consigliere, perché... si immagina se Pereira Antúnez li avesse lasciati a qualcuno, quando era ancora vivo? È quello che dovremmo sapere prima di ogni altra cosa, e soprattutto che si può fare in un caso del genere.» «Un’eventualità davvero improbabile, dottor Tiflis, perché Pereira Antúnez, a quanto si sa, non aveva nessuno a cui lasciarli.» «Sa cosa mi fa rabbia, signor consigliere?» Esquilache e Barragán si irrigidirono. «No, dottor Tiflis.» «Mi fa rabbia che una persona come Pereira Antúnez debba morire mentre restano vivi, e chiedo scusa al signor avvocato, tanti farabutti. È d’accordo con me?» «Sono d’accordo, dottor Tiflis.» «Allora do un’occhiata in giro e la chiamo, signor consigliere», Tiflis si voltò, fece un cenno a uno dei suoi perché pagasse il conto e, con aria solenne, uscì in strada. Barragán ed Esquilache rimasero in silenzio, a osservare lo spazio lasciato da Tiflis nel salone: odore di anice, quattro fette di limone mordicchiate e il cuscino della poltrona stropicciato. «Togliti quell’espressione da sonnambulo, Emilio», disse a un tratto Esquilache, alzandosi. «Quello è il tipo che ci toglierà dagli impicci.» «Sì, ma... a quale prezzo?» «Al prezzo che ci sarà da pagare, mio caro.»
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XVII
E siamo arrivati, egregio pubblico, al momento più importante nella vita del sottoscritto. E permettetemi una piccola digressione, poiché così come per il novizio il giorno fatidico della sua vita è quello in cui prende i voti, per chi vi parla, per ciò che io ero in quella lontana e confusa adolescenza, segnata dalla vocazione per le armi e per il pubblico servizio, il mio giorno fondamentale, il culmine o, come diceva un prete di Barranca, «la mia notte oscura dell’anima», è stato quello del giuramento alla bandiera. Giovane appassionato, come tutti coloro che rallegrano e sostengono la nostra amata patria, mi dedicai con ardore al corso di formazione dopo una rude e patetica lite familiare, poiché mia nonna e mia zia non volevano che il loro rampollo, l’uomo di casa, si andasse a perdere dietro i muri di una caserma. I miei problemi di secrezione ghiandolare e incipiente pinguedine, e qui torno al nostro argomento, sono stati al tempo stesso un impedimento fisico e un incentivo morale. Mi sono detto: «Aristófanes, la fiducia e la concentrazione di cui hai bisogno per superare i difetti fisici le troverai nella severa formazione della Scuola di Polizia, e oltretutto renderai un servizio alla patria» che, se mi permettete, è la cosa più importante che abbiamo. E così andò, con la consapevolezza dell’uomo che va incontro al proprio destino. E cominciò la mia formazione, gentile pubblico, e contemporaneamente la lotta personale contro quell’ammasso di carne che nascondeva il mio io e lo soffocava. Dall’essere il «ciccio» delle prostitute, ed è l’ultima volta che lo dico, signore, promesso, diventai il Chancho* Moya, tenero soprannome con cui i miei colleghi di corso, con la severità tipica di quell’ambiente, si riferivano al sottoscritto. Non dico che furono anni felici, perché mentirei... L’ostacolo della carne, se permettete, attirò le attenzioni di vari tenenti e caporali che si accanirono su di me più di quanto già non facessi da solo, ma nonostante le flessioni, i giri del campo di calcio, le corse con i sacchi e tutto il resto, il grasso non voleva andarsene. Nella scuola, con il tempo, il Chancho si trasformò in una delle persone più volenterose e disciplinate, caratteristica che, e questo non sono io a dirlo, il *
Chancho significa maiale, ma il termine può essere usato anche in senso affettuoso. (N.d.T.)
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sottoscritto ha mantenuto come linea di condotta per tutta la vita. Serviva qualcuno per raggiungere la cima di una collina e piantarci una bandiera? Ecco pronto il Chancho. Qualcuno per spostare i tavoli della mensa? Il Chancho. Uno che vada con quelli delle pulizie a bruciare le immondizie? Il Chancho. I superiori della scuola smisero di vedere chi vi parla come l’avevano immaginato all’inizio, e cioè un ciccione smidollato, e persino il caporale che cercava sempre di farmi sputare l’anima finì per diventare un buon amico, un tipo stimabile e corretto, e dal soprannome di Chancho durante il primo anno di corso passarono a quello di Leon, perché pur essendo il re della foresta, e lo dico senza vanità, è un animale grande e grosso, e non per questo meno fiero, anzi. Il giorno del giuramento alla bandiera, dunque, con la zia e la nonna in prima fila, come si dice nelle poesie «in un mare di lacrime», il sottoscritto segnò una volta per sempre il proprio destino di patriota, di uomo al servizio dei cittadini. L’uniforme mi stava, secondo la zia, benissimissimo, e posso dirvi che, nonostante la segreta disgrazia di aver ceduto di fronte a una torta di vari chili preparata da quelle due sante donne, quello è stato uno dei giorni più felici della mia vita.
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XVIII
La redazione era vuota, si sentivano solo il rumore del telex e il ronzio dei computer. Silanpa controllò i dispacci d’agenzia e non trovò niente. Gli facevano male le emorroidi. La paura per la pistola della donna e gli sforzi per penetrarla le avevano fatte sanguinare. Stava seduto di lato, con la sgradevole sensazione della pomata nelle mutande, maledicendo la sorte. Pensò a Guzmán e un leggero tremito gli percorse la schiena. Sarebbe stato quello il suo destino? Un progetto inconcluso, una vita appena sfiorata. Ma era difficile sfuggire a certe cose, si disse, e ancor più quando non si sa cosa siano né da dove vengano e perché. Cosa lo costringeva a seguire la faccenda dell’impalato? A malapena il tentativo di conservare un po’ di dignità, pensò. Niente, in ogni caso. Si rialzò a fatica per andare in bagno a orinare, e di ritorno si affacciò nella sezione notizie della provincia. I giornalisti, in maniche di camicia, avevano steso un panno verde sulla scrivania e stavano giocando a dadi. Li guardò attraverso la cortina di fumo e notò i bicchieri di plastica, la bottiglia di rum e i tovaglioli di carta con i mucchietti di noccioline. «Ehi, Silanpa... fai una partita?» chiese Bayo, il mulatto, allungandogli i dadi. «No, grazie, preferisco stare a guardare.» «Toglimi una curiosità», gli disse Figueras. «Tu sei dei Silanpa di Huila, quelli dei magazzini di stoffe?» «No, sono dei Silanpa della Finlandia. Un prozio è stato premio Nobel. Tanto perché lo sappiate.» Tornò alla propria scrivania, accese il computer e digitò il codice dell’archivio. Quando lo schermo gli chiese «enter name» scrisse: «Figli del Sole». Il computer ci pensò un po’, sembrò indugiare e alla fine rispose: «not found». Svogliatamente, quasi senza badare a quello che faceva, digitò un altro dei nomi che Baquetica gli aveva dato: «Heliodoro Tiflis», che secondo i registri del catasto aveva ricevuto i terreni del bagno turco in donazione dal precedente proprietario, Casiodoro Pereira Antúnez. Stavolta c’era una risposta. «Heliodoro Tiflis. Calciatore. Santa Fe. 1960-61. Associazione sportiva Quindío. 1961. Esportatore di lenticchie in Ecuador, soprannominato ‘Dottor Lenticchia’. 1963. Arresto per guida in stato di 100
ubriachezza. 72 ore. 24-12-1965. Proprietario del ristorante El Faisán Feliz, a Bucaramanga. 1965. Ristorante italiano La Vita Facile, Manizales. 1966. Ristorante cinese Singapur, Armenia. 1966. Proprietario del bar La Perla de Oriente, Santa Marta. 1967. Proprietario dell’albergo a due stelle Amarillo Imperial, Santa Marta. 1967. Proprietario del bar La Estrella de Oceania, Tunja. 1968. Proprietario bar El Condor Pasa, Tunja. 1968. Proprietario bar night-club El Rey de los Andes, Tunja. 1969. Proprietario della liquoreria Condorito, Tunja. 1969. Proprietario liquoreria Los Andes, Armenia. 1969. Proprietario motel El Ratico Rico, Tunja. 1970. Proprietario liquoreria El Negro Cosmopolita, Armenia. 1970. Proprietario motel La Felicidad Ja-Ja, Armenia. 1970. Proprietario bar night-club Constelaciones del Piacer, Bogotá. 1973. Proprietario motel Las Murallas de Jericó, Bogotá. 1973. Proprietario albergo Esmeralda, Bogotá. 1989. Proprietario bar Lolita, Bogotá. 1990...» Silanpa lasciò cadere la sigaretta. Proprietario del Lolita? Diede un pugno sulla scrivania che gli procurò una fitta al fondoschiena e si alzò di scatto. Andò in archivio e cercò tra gli annunci funebri: Pu, Po, Pe, Pereira. Eccolo. «È deceduto il dottor Casiodoro Pereira Antúnez all’età di 62 anni. Infarto del miocardio.» Era morto da trenta giorni, la sepoltura aveva avuto luogo due settimane prima nel Cimitero Centrale. Guardò una foto del funerale e riconobbe Susan Caviedes. Bayo il mulatto gli arrivò incontro barcollando. «Prestami le chiavi della macchina, abbiamo finito il rum.» «E quelli delle rotative non ne hanno?» «L’hanno finito. Questa è una notte speciale.» «Vuoi andare in una liquoreria?» «Sì. Figueras dice di portare qui anche delle ragazze. Che te ne pare?» «Per me niente ragazze. Ma portamene una da mezzo litro di Tres Esquinas.» Silanpa gli allungò i soldi e le chiavi. «Dove l’hai parcheggiata?» «Dietro l’angolo, di fronte alla sala biliardi. E fa’ attenzione a come guidi.» Bayo uscì e Silanpa continuò a guardare lo schermo con interesse. Morto da un mese? Controllò sul taccuino i dati di Baquetica e si mise a scarabocchiare spirali guardando il soffitto. Scrisse dei nomi e tracciò delle 101
frecce: Pereira Antúnez fa una donazione di terreni a Tiflis due mesi fa. Muore dopo un mese. Susan Caviedes ingaggia Abuchijá per trasportare un carico di duecento chili dalle parti del lago. Lei è l’amministratrice. Stava pensando a questo quando sentì gli urli di Bayo. «Lurido maiale», esclamò gettandogli le chiavi. «La tua macchina è piena di merda e ha le gomme bucate.» «Cosa?» Si precipitò in strada e svoltato l’angolo vide le gomme dell’R6 a terra. Poi aprì lo sportello a cacciò un urlo: qualcuno aveva sparso nell’abitacolo salsa di pomodoro, avanzi di cibo e bottiglie di birra. Sul sedile di guida c’era una merda che sembrava recente. Sul volante, un pezzo di carta con il messaggio: «Siamo stati qui. Qui abbiamo mangiato e poi cagato». Dalla fessura del cofano, socchiuso, spuntava un groviglio di cavetti. Gli avevano distrutto il motore. Silanpa tornò di corsa in redazione anestetizzato dal panico: si scontrò con il portinaio, sbatté contro una scrivania e fece volare un vassoio di caffè all’impiegata che scendeva le scale. Ce l’avevano con lui. Lo avevano individuato. Telefonò al Lolita. «Pronto?» «Mi passi Quica, per favore, subito, è urgente...» «Quica sta lavorando.» «Le ho detto che è urgente.» «E io le ripeto che sta lavorando.» «Chiamo dal commissariato di polizia, razza di imbecille, sono un amico del signor Tiflis.» «La chiamo subito...» Sentì la voce di Quica. «Chi parla?» «Quica, sono Víctor. Non parlare, non dire niente. Non fare neppure un cenno. Sei in pericolo. Esci immediatamente dal bar e vai all’angolo tra la Jiménez e la Decima. Ti passo a prendere tra venticinque minuti.» «Ma...» «Quica, non c’è tempo per le domande. Corri.» Riattaccò e chiamò il capitano Moya. 102
«Sì, capitano, qualcuno si è infilato nella mia Renault 6. Qui, dietro il giornale. Si renda conto, me l’hanno distrutta. E riempita di merda.» «E chi potrebbe essere stato, eh? Qualche marito cornificato o qualcosa che riguarda il giornale?» Moya teneva la cornetta sulla spalla e masticava semi di cardamomo. Sulla scrivania c’era una scacchiera e di fronte, in poltrona, il collega Montezuma si grattava il mento e accarezzava le pedine. «C’entra il giornale, capitano. Ne sono sicuro. Ha a che vedere con il Delitto dell’Impalato.» «Dell’impalato?» chiese senza smettere di ridere. «Ma non sarà uno scherzo dei suoi colleghi giornalisti?» «No, capitano. Mi creda.» «In ogni modo bisognerà fare un’indagine... Lei vada a casa tranquillo, Silanpa. Me ne occupo io.» Il capitano riattaccò e, con gesto solenne, lasciò cadere una pedina. «Ho vinto!» disse a Montezuma. «Accidenti, mi devi già tre tamales e due libbre di formaggio salato. Un’altra partita?» Silanpa uscì in fretta e furia dalla redazione pensando che forse stava correndo troppo, magari la faccenda di Tiflis, il Lolita e i danni alla macchina non c’entravano niente. Lo angosciava non riuscire a capire, ma non poteva rischiare. Fermò un taxi sulla Settima e si fece portare all’angolo della Jiménez con la Decima. «È una questione di vita o di morte, signore. Faccia presto.» «Non si preoccupi.» Il taxi prese a zigzagare nel traffico, imboccò sensi vietati, salì su un marciapiede e frenò sulla Jiménez tagliando la strada a un autobus. «Grazie, capo. Ecco quanto le devo e la mancia», e gli porse una banconota. Quica arrivò poco dopo con la sua andatura distratta. «Cosa sono tutti questi misteri? Alle due del mattino...» «Andiamo a casa tua, Quica, è l’unico posto sicuro.» «A casa mia?» «Sì. Nel Lolita hanno il tuo indirizzo?» «No, ci mancherebbe altro.» 103
«Allora andiamo.» «Non mi spieghi niente?» «Lo farò nel taxi.» Quica lo ascoltò sgranando gli occhi. Di colpo, lo scintillio da donna sensuale si spense lasciando nello sguardo un’espressione da ragazzina di diciassette anni indifesa e spaventata. «Tu mi hai messo in questa rogna, Víctor. E tu devi pagarmi. Comunque, togliti dalla testa che smetta di andare al Lolita. Cosa vuoi che faccia, se no? Dove vado a lavorare?» «Non dico di non tornarci più, ma stanotte rimani a casa finché non veniamo a sapere cos’è successo realmente.» «In tutta questa faccenda io non c’entro, e tu mi devi pagare.» «Come vuoi, Quica, però adesso andiamo.» Una volta arrivati, cercò il numero di Estupiñán ed entrò in una cabina. «Pronto?» La voce di Estupiñán gli ricordò che era molto tardi. «Sono Silanpa. Dobbiamo vederci.» Gli spiegò la situazione. «Di merda? Intende dire uno stronzo?» Estupiñán non riuscì a trattenersi dal ridere. «Che schifo, capo, l’unica cosa che posso consigliarle è di non guardare e di buttarci dell’acqua.» «Estupiñán, per favore...» «Mi scusi, investigatore. Lei sa che io scherzo su tutto. E adesso mi dica, cosa posso fare?» «Dovrebbe andare a casa mia. Può spacciarsi per uno delle pulizie, verificare se c’è qualcuno che la tiene sotto controllo e prendermi alcune cose di cui ho bisogno.» «Bullshit, vuole usarmi come esca?» «Ce l’hanno con me, lei non la conoscono.» «A una condizione, investigatore...» «Quale, Estupiñán.» «Mi giuri che non c’entrano i narcos. Se non abbiamo a che fare con i narcos, sono disposto anche a entrare nella gabbia dei leoni. In caso contrario, getto la spugna.» «Glielo giuro, Estupiñán.» 104
«Allora arrivo. E mi dica un’altra cosa, com’è finita con la tipa del bagno turco?» «Poi le racconto. Tra mezz’ora nel San Remo?» «Okay, ricevuto e ciao.» Riattaccò e tornò dalla ragazza. «Quica, sali in casa e non uscire finché non torno. Forse ti stanno già cercando ed è meglio non rischiare.» In strada non c’era un’anima. Dove trovare un taxi che lo portasse in centro? Tentando di evitare una grossa pozzanghera inciampò nel bordo del marciapiede. Cadde bocconi e un ginocchio cominciò a sanguinare, fino a macchiargli i pantaloni. Era senza fiato, ma doveva andare avanti. Arrivò nel San Remo ventisette minuti dopo. Il salone era pieno a metà. Sul fondo, sedute a vari tavoli, ragazze seminude scambiavano carezze con clienti ubriachi. Sulla pista due donne in bikini ballavano la lambada facendo gesti osceni. Di lì a poco comparve Estupiñán: indossava una tuta da lavoro blu mare, stivali di gomma e un casco giallo. Per proteggersi dal freddo aveva una mantella nera. «Sorpresa! Le piace il travestimento?» «Sì, ma... cosa sarebbe?» «Un dipendente del Ministero dei Lavori Pubblici. Abbiamo fondi sufficienti per invitare un paio di sbarbine? Qui c’è dell’ottimo materiale.» «Stiamo lavorando. Più tardi, quando tutto sarà chiarito.» Dal telefono pubblico del bar chiamò la portineria del suo condominio. Rispose Ricardo, che era di turno, a cui spiegò che un operaio dei Lavori Pubblici avrebbe ispezionato gli scarichi di casa sua al mattino presto, che lo lasciasse entrare. «Non dimentichi che alle nove del mattino abbiamo l’appuntamento con il camionista Abuchijá per andare a Tunja», disse Estupiñán sbirciando le mutande di una delle ballerine. «Non lo dimenticherò, ma con che macchina andiamo?» «Vedremo, intanto concentriamoci su quello che devo fare adesso. Provo a ripetere: andare a casa controllare se ci sono tipi sospetti intorno all’edificio; guardare se tutto è in ordine; ascoltare i messaggi premendo il play in una scatoletta che sta sotto il telefono; portarle una carpetta gialla 105
che si trova dietro lo scarico del gabinetto, e un tubetto rosso che è sulla seconda mensola del bagno. Va bene?» «Perfetto.» «E ci vediamo alle nove nel posto dove staziona Lotario Abuchijá.» «Sì. Comunque io resto qui. Se c’è qualcosa di urgente, mi chiami.» Una pioggia fine cominciò a bagnare l’asfalto. Estupiñán se ne andò via in taxi e Silanpa, alle prime luci dell’alba, rientrò nel San Remo. Il condominio era al buio. Estupiñán salì le scale fino al quarto piano e aprì la porta con le chiavi che gli aveva dato Silanpa. Aveva paura, ma entrò lo stesso. Accese la luce e rimase impietrito... Mobili rovesciati, scaffali sul pavimento e cuscini sventrati. Fece il percorso richiesto da Silanpa: prima la segreteria telefonica, che era rotta, e poi il bagno. Dietro la tazza trovò la carpetta, e quindi andò in camera. A quel punto sentì un rumore: qualcuno stava entrando nell’appartamento. Spense la luce e si nascose. «Quel figlio di puttana non torna più...» disse una voce. «In ogni caso dobbiamo aspettare», rispose l’altro, «il capo ha detto di fare così. Vediamo, accendi la radio.» «Ho sonno, fratello, credo che me ne andrò a dormire. Quella pizza mi ha stroncato.» «Va bene, facciamo i turni.» Estupiñán avvertì un tremito alle gambe e si guardò intorno. Da dove uscire? Sentì dei passi che si avvicinavano e, in preda alla disperazione, aprì la finestra e uscì, infilandosi la carpetta dentro i pantaloni. Faceva freddo, piovigginava, e la mano di Estupiñán, precariamente aggrappata alla grondaia, cominciava a perdere la presa. «Gesù, Giuseppe e Maria», pensò, «in che merdaio mi sono cacciato?» La mano scivolava verso il vuoto e lui non si azzardava a guardare in basso, sentendo il rumore delle rare auto di passaggio. L’uomo si sdraiò sul letto di Silanpa ed Estupiñán vagliò varie ipotesi: «Entro e dico che sono un operaio del Ministero dei Lavori Pubblici, che stavo controllando la grondaia, chiedo scusa e me ne vado». «Entro e dico che non ho niente a che fare con tutta questa storia, che sono un vicino insonne e a volte mi metto a sistemare le finestre». 106
«Entro e li affronto: a quello sveglio do un calcio nei coglioni e l’altro lo soffoco con il cuscino.» Ma nessuna delle possibilità gli sembrava fattibile... Gli dolevano le dita. La pioggia fine peggiorava le cose e le gambe continuavano a tremare, sospese nel vuoto. Aveva tutti i muscoli indolenziti e la schiena era come un muro di granito sul punto di cedere. «Non sarò arrivato al capolinea?» pensò. «Chi me l’ha fatto fare di giocare all’investigatore?» Estupiñán non voleva ammettere che la situazione era disperata, stava per cadere, l’indomani avrebbero trovato il suo corpo in mezzo alla strada e nessuno sarebbe stato incolpato per questo. Chiuse gli occhi e l’ultimo pensiero fu per Cora. Si lasciò andare pensando che era giovedì, e morire di giovedì era già di per sé un brutto segno. Gli sarebbe piaciuto arrivare almeno al sabato per farsi un’ultima scopatina con la sua bella. Il volo gli mozzò il respiro. Lo stomaco gli salì fino alle tonsille e sbatté più volte contro il muro. Passando davanti al secondo piano vide dei puntini luminosi, forse gli occhi di un gatto. Sentì che l’asfalto si avvicinava, un colpo, qualcosa che graffiava, un altro colpo. Aprì gli occhi e constatò che si trovava in strada, avvolto in un telo a fiori. Di fronte a lui c’era la scritta: Specialità coreane El Ruiseñor de Pyongyang. Respirò a fondo: il telone del negozio l’aveva salvato. «Viva Ho Chi Minh, perdio!» gridò mentalmente prima di rialzarsi e svoltare l’angolo di corsa.
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XIX
«Per me niente whisky o gin, dottore», disse Tiflis a Vargas Vicuña. «Quella è roba per ermafroditi inglesi e froci gringos... A me date un patrio guarilaco, possibilmente doppio e con limone.» «Come preferisce, don Heliodoro. In questi tempi così difficili per il paese è di conforto vedere qualcuno tanto attaccato alle tradizioni.» «Le confiderò un segreto, dottor Vargas... Ogni mattina, prima di fare colazione, esco in giardino e prendo un pugno di terra. La bacio e poi la lascio scorrere tra le dita. Questa è la mia terapia per tirare avanti.» «Tutte queste bombe, la corruzione, la delinquenza... La gente per bene è sempre più rara.» «Di chi è la colpa? Secondo me, e le faccio un’altra confidenza, il governo è infiltrato. Questi liberali sono solo dei cialtroni camuffati.» «Sono le regole del gioco, qui comandano le urne.» «Ma lei sa, mio caro dottore, che il destino delle urne è quello di finire a pezzi, prima o poi.» Quando il maggiordomo portò la bottiglia di Cristal e i bicchieri, Tiflis gli fece segno di lasciare tutto sul tavolo. «Arriviamo al punto, don Heliodoro. Lei immaginerà che non l’ho invitata a casa per farle sentire le mie lagnanze.» «Dica pure, caro dottore... Posso servirla?» «Piano, don Heliodoro... Una cosa è l’amore per il paese e un’altra il fegato. Non posso più permettermi certi lussi.» «Che razza di vita, no? Tutto quello che è buono ammazza.» «Anche quello che è cattivo ammazza, e allora, come si fa a decidere?» «Sono tutto orecchie, dottore.» «Riguarda una questione confidenziale, si tratta di certi terreni vicini al Sisga. Alcuni lotti molto buoni, accanto al lago, proprietà del defunto Pereira Antúnez.» «Conosco il caso, dottore.»
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«Non posso nascondere niente a una persona come lei.» Si alzò, andò alla finestra e scostò la tendina. Sullo sfondo si scorgeva la massa scura della città punteggiata da minuscole luci. «Sono interessato a quelle terre per costruire un complesso turistico. Come può immaginare, un villaggio di villette di campagna per il fine settimana, un posto per gente facoltosa, con campo da golf, piste da sci nelle vicinanze, e respirando l’aria pulita delle montagne. È una buona idea, un grosso affare.» «Certo, da quelle parti il clima è ottimo, e se piove, accendendo il caminetto e bevendo un sorso la vita diventa una poesia.» «Proprio così.» «Sì, dottore, è un affarone. Ma mi consenta una domanda... Cosa c’entro io con questi progetti così allettanti?» «Ha toccato il punto. Lei è stato molto vicino a Pereira Antúnez e ho pensato che forse sa che fine abbiano fatto i certificati di quei terreni, perché nessuno sa dove siano andati a finire.» «Ah sì? Quella vecchia volpe di don Casiodoro... Permetta che le racconti un segreto. Il signor Pereira Antúnez era un mastino per gli affari. Aveva una dote che in questo paese rappresenta un miracolo: sapeva prevedere il futuro. Quando ha comprato quei terreni, me lo lasci dire, non valevano granché. Chi poteva immaginare che quindici anni dopo avrebbero acquistato tanto valore? Ma deve sapere che lui, che aveva le sue manie, apparteneva a quella specie di setta a cui piace girare nudi... Come si chiamano?» «Naturisti.» «Ecco, naturisti. Per questo gli è saltato in testa di concederne l’uso a quei depravati. Riesce a immaginare il perché? Un signore così serio, importante, e gli piaceva andare in giro come una gallina spennata... Roba da non crederci.» «Ma quei naturisti continuano a usufruire del terreno?» «Sì, almeno finché qualcuno non arrivi con un certificato di proprietà a sbatterli fuori.» «E lei sa qualcosa di quelle carte?» «So che c’è un buon affare in vista, dottore, quello che dobbiamo ancora sapere è quanto siano disposti a pagare gli interessati.» «Interessati? Ce ne sono molti?» 109
«A quanto ho sentito ultimamente, dottore, lei non è l’unico.» Il dottor Vargas Vicuña riempì fino all’orlo il bicchiere di Cristal, lo alzò e lo vuotò d’un fiato, cosa che lo fece impallidire. Si schiarì la gola, spalancò gli occhi e tornò a fissare Tiflis. «Faccia attenzione, dottore. Quando non si è abituati è meglio andarci piano. Il bere è come la donna: se si abbassa la guardia, colpisce nel segno.» «Sono disposto a mettere un assegnino con vari zeri nella mano amica che mi porti quei documenti, don Heliodoro. Sono stato chiaro?» «Permette una domanda, dottore?» «Certamente, don Heliodoro.» «Lei ha fatto studi di un certo livello, vero?» «Sì, una laurea a Stanford e qualche corso di specializzazione a Londra e a Parigi.» «Allora mi dica una cosa, e chiedo scusa: non le hanno insegnato in quei posti così dotti che offrire denaro in una faccenda del genere è una mancanza di rispetto?» Vargas Vicuña impallidì per la seconda volta. «Non credevo di...» Tiflis, orgoglioso di se stesso, calcò la mano. «Io so che lei, da persona colta quale è, ha ben altro da offrire. Con un affare simile per le mani... non le viene voglia di coinvolgere gli amici?» «Ho una società, gente che lavora con me, don Heliodoro... Non sono solo.» «La solitudine ha anche degli aspetti positivi, dottore. A volte, per non stare da soli, non si può fare ciò che si vuole.» «Potrei parlarne...» «Parlare va sempre bene», Tiflis bevve il settimo aguardiente d’un fiato e si alzò guardando l’orologio. «Uh, è tardissimo.» «Vedrò cosa posso offrirle, don Heliodoro. Parlo con i miei soci e poi le telefono. Va bene?» «Ma certo, per me sarà sempre un onore trattare con persone a modo.» Vargas Vicuña lo accompagnò alla porta e gli strinse la mano. Vedendoli uscire, i guardaspalle di Tiflis nascosero il mazzo di carte. 110
Tiflis salì sulla Trooper e guardò il giardino con le luci accese. Pensò che anche lui avrebbe potuto avere una di quelle case nella zona nord, anche se la sua vita si svolgeva da tutt’altra parte. Era contento: aveva dato una lezione al vecchio. Il suo ufficio, nell’attico dell’Hotel Esmeralda, era una stanza rettangolare con le finestre che davano verso Monserrate, le Torri del Parco e la Plaza de Toros. Facendo semplicemente girare la poltrona, poteva vedere l’edificio dell’Avianca e la sagoma spettrale dell’Hotel Hilton.* Le pareti della stanza erano tappezzate di manifesti di corride e foto di cantanti, e davanti alla scrivania, sotto il mobile bar, un giradischi diffondeva i violini di Pedro Infante. Seduto sulla tazza e guardandosi la fibbia dei pantaloni, Tiflis rifletteva sulle conversazioni della giornata. «C’è da far soldi», si disse, «Vargas Vicuña è ansioso ed Esquilache balla che è un piacere...» Tirò lo sciacquone, si allacciò i pantaloni sotto la pancia e andò a sedersi alla scrivania. Aprì un cassetto e prese una carpetta grigia con la scritta «Documenti terreni Sisga» che lo fece sorridere; diede un morso a una fetta di limone e premette il tasto dell’interfono. «Vieni, Runchito, ho bisogno di un favore.» «Subito, capo.» Il tirapiedi entrò nell’ufficio accennando un inchino. «Adesso spiegami bene la faccenda di quel giornalista. Come hai detto che si chiamava? Silamba?» «Silanpa, dottore.» «Ecco, raccontami tutto, figliolo.» «Sta seguendo la storia del ciccione, capo, e a me non piace affatto perché lei sa cosa succede quando la stampa ficca il naso in certe questioni.» «Sì, ho letto l’articolo pubblicato dall’‘Observador’. Niente di straordinario.» «Ma queste cose creano allarme, capo, mi creda.» «Che mi consigli, Runchito?» «Di dargli un avvertimento.» *
I lavori per ultimare l’Hotel Hilton sono stati abbandonati in seguito a un attentato, lasciando un edificio fantasma nel centro di Bogotá. (N.d.T.)
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«Fargli prendere uno spavento o conciarlo per le feste?» «No, capo, soltanto un po’ di paura. Non vale la pena crearsi altre rogne. Ne abbiamo già abbastanza cercando di scoprire chi diavolo ci ha fregato il ciccione per poi lasciarlo impalato.» «Fai tu, Runchito. Però ascolta: sai che mi piace sempre acchiappare due piccioni con una fava. Bisogna fare qualcosa che metta paura a Esquilache, a Vargas Vicuña, a tutti.» «Cos’ha in mente, capo?» «Io mi limito a fornire delle idee, Runchito, l’uomo d’azione sei tu. L’essenziale è non fare troppo rumore, questo sì. E perquisite la casa del giornalista, non vorrei ci fossero cose interessanti che non conosciamo.» «Bene, ho già capito.» Runcho uscì, ma prima di chiudere la porta si riaffacciò dentro. «Ha una visita, capo.» «Che entri, Runchito, e di’ a tutti gli altri che possono andarsene.» Susan Caviedes entrò nell’ufficio accendendosi una Pall Mall. Si avvicinò a Tiflis e gli diede un bacio sulla fronte. Tiflis azionò il telecomando del giradischi e i violini di Pedro Infante ripresero a suonare. Senza alzarsi, accarezzò le ginocchia della donna e poi, con l’indice, cominciò a sollevarle la gonna. «Ay mamita, questa tua mania di andare in giro senza mutande.» Saltando i preamboli, Susan gli aprì la cerniera, abbassò i pantaloni fino alle ginocchia e si sedette su di lui. Mentre si dondolavano sulla poltrona e Tiflis ansimava, lei tentava di guardarsi nel riflesso del vetro, ma riusciva solo a scorgere le luci dei palazzi vicini. Dopo, Susan si alzò e chiese un whisky. «La tua bottiglia è lì, dietro ai dischi. A me versa un guarito, tesoro, il limone è in quel piattino.» «Ogni volta sei sempre più maschio, Heliodoro», mentì. «Mentre eri dentro di me pensavo che quei rumori non fossero di Bogotá, ma di Manhattan, e che le luci delle Torri del Parco fossero il Plaza, e quella macchia scura il Central Park.» «Ti ho fatto vedere le stelle, mamita!» «Non proprio, però mi fai vedere quello che non c’è.» 112
«Ti prometto che il mese prossimo, quando tutto questo casino si sarà risolto, ce ne andremo a New York. Io non la conosco, tesoro, ma tu mi hai fatto venire la voglia... Mi conosci, non cambierei la zona di Boyacá per niente al mondo, ma visto che c’è tanto da vedere, meglio farlo in buona compagnia.» «Ti farò conoscere New York, Heliodoro, ti porterò nel posto dove hanno ammazzato John Lennon e nelle saune russe di Brighton Bridge.» «Con te, mamita, anche in capo al mondo.» «Perché un giorno non vieni nel Paradiso Terrestre?» «Lo sai, se devo tirare fuori quello che ho nelle mutande è per darlo a qualcuno come te. Il resto non mi interessa.» «Ti farebbe bene.» «Mi fa meglio questo, ciccina... Vieni qui, fammi rivedere quella bella cosina che hai tra le gambe.»
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XX
Alle nove del mattino Estupiñán se ne stava seduto sul muretto all’angolo tra la 60 e la 13. Silanpa lo vide da lontano e quasi non lo riconobbe: tremava dalla testa ai piedi. «Due tipi sono entrati nell’appartamento quando stavo per uscire», disse. «Sono rimasto a penzolare fuori dalla finestra, capo, e le assicuro che... Senta, mi giuri ancora che tutto questo non ha niente a che vedere con i narcos. Lo giuri guardandomi negli occhi.» «Glielo giuro, ma è meglio che torni subito a casa sua. Non voglio che corra altri rischi per colpa mia.» Estupiñán, ancora pallido, si allontanò di qualche metro per riflettere. Accese una sigaretta, sputò, diede un calcio a una buccia di mandarino e tornò sul muretto. «Resto qui, investigatore, me ne assumo la responsabilità. Ma devo darle una brutta notizia: casa sua è sottosopra, come se ci fosse passato un elefante in cerca di una caramella. La segreteria telefonica aveva i fili strappati, i cassetti erano aperti e tutta la roba sparsa sul pavimento. Ma quello che mi aveva chiesto ce l’ho qui», e sollevò tutto orgoglioso una borsa di plastica. «Si vede che quei farabutti non hanno avuto il tempo di perquisire il bagno.» Silanpa impallidì: «E non ha visto una bambola?» «Una bambola?» «Un manichino di donna con un cappello e una tunica nera. Era accanto al divano.» «Per la verità non ci ho fatto caso, ma se c’era non l’ho visto.» Silanpa inghiottì la saliva, si passò una mano sulla testa e imprecò in silenzio, scalciando una lattina di Pepsi contro il muro. «Stia calmo, capo, se non altro ho portato a termine la missione. Guardi.» Tirò fuori la carpetta gialla e poi, ridendo, il tubetto rosso con il cappuccio di plastica. 114
«E questo sarebbe per il ‘mal peruviano’* o c’è nascosto un microfilm?» Controllò la carpetta e constatò che c’erano tutti i suoi appunti. Era stato uno sbaglio esporre Estupiñán a quel pericolo per così poco. «La ringrazio per quello che ha fatto e le chiedo che la prossima volta eviti di correre certi rischi.» «Una cosa come questa si fa una sola volta nella vita, investigatore. Però bisogna farla, almeno per provare.» «Va bene, andiamo, credo che se non altro adesso abbiamo costretto il nemico a uscire allo scoperto.» A un tratto Silanpa impallidì. «Moníca», disse tra i denti. Si precipitò a un telefono e fece il numero del posto di lavoro. Uno squillo, due, tre, quattro, cinque... Sentì che gli mancava l’aria quando, al settimo, ascoltò la sua voce. «Sì?» «Moníca. Sono Víctor.» «Víctor! Dove diavolo ti eri cac...» «Non posso parlare. Sono in pericolo per via di una certa inchiesta, e anche tu. Mi hanno distrutto la macchina, e devastato la casa... Vai da qualche parte dove puoi stare al sicuro. Ciao.» «Ma Víc...!» Riattaccò lottando per non crollare. Fece in modo che Estupiñán non vedesse le lacrime. «Adesso andiamo a risolvere la faccenda del trasporto», disse. Estupiñán lo precedette lungo la fila di camion e parlò con Abuchijá. Quindici minuti dopo tornò da Silanpa, che aveva già rimesso in tasca il fazzoletto inumidito. «Tutto a posto, capo. Abuchijá lascia il suo ferrovecchio a quel collega laggiù, che chiamano il Porcospino», e indicò un autista, «e noi ce ne andiamo con il mezzo del tipo. Tutto questo, è ovvio, per un prezzo molto più economico della tariffa andata e ritorno per tre persone.»
*
L’autore ironizza sul fatto che buona parte degli scrittori peruviani, da Vargas Llosa a Ribeyro e a Bryce, hanno sofferto di emorroidi. (N.d.T.)
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Si accordarono. Era un camioncino Chevrolet del ’67 riammodernato al modello del ’72. Sulla leva del cambio campeggiava uno scarabeo multicolore e un cavallino argentato sul cofano. Al di sopra del volante c’erano due scritte adesive: una diceva «Il primo urlo di Tarzan», e l’altra «Me 109cito».* Inchiodata al tettuccio, praticamente crocefissa, una radio Motorola sputava notiziari. Abuchijá si mise al volante e il viaggio iniziò. Estupiñán cercò di rallegrare l’ambiente... «A voi due non piace cantare strada facendo? Vediamo di trovarne una che conosciamo tutti!» La proposta non suscitò alcuna eco. Silanpa fissava la striscia bianca come ipnotizzato, rimuginando, e Abuchijá mangiava spicchi di mandarino che prendeva in una sportina. Arrivarono a Tunja alle due del pomeriggio. Faceva freddo, piovigginava a tratti. «Città di preti, dicono», sbottò Estupiñán svegliandosi. «Bisognerà buttare qualcosa in corpo, no?» Mangiarono empanadas e pannocchie di mais abbrustolite in una piazza vicina alla stazione delle corriere. Poi si incamminarono verso il garage. «È quello là. Adesso mi ricordo.» Era chiuso. Nel portone del palazzo non incontrarono nessuno, e così si decisero a entrare. «Che cos’è?» chiese Silanpa guardando incuriosito un cartello appeso nel corridoio. «Sembra un collegio. Guardi, se non altro qui c’è un elenco di nomi.» Raggiunsero un cortile e trovarono un’altra porta, chiusa anche questa, che probabilmente immetteva nel garage. «Qui ci dobbiamo separare», ordinò Silanpa. «Estupiñán e io forziamo la porta. Lotario, lei si piazzi davanti all’ingresso e se vede qualcosa si metta a fischiare. Estupiñán, resti qui mentre io scendo giù. Intesi? Se non torno entro dieci minuti o se sente dei rumori, può scendere, e se la faccenda si complica, chiami la polizia.» «Intesi...» disse Abuchijá impaurito. *
Si legge: me ciento-nueve-cito, cioè «mi sento come nuovo». (N.d.T.)
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«Tranquillo, io e il capo siamo dei professionisti.» Il legno della porta era mezzo marcio e riuscirono a forzare la serratura. C’era una scala. «Bene, io vado giù», disse Silanpa. «Un momento.» Estupiñán alzò il pugno all’altezza degli occhi e disse in tono agitato: «Sincronizziamo gli orologi». Silanpa scese le scale con un accendino in mano. Camminò con cautela tra mucchi di scatoloni fino a una grossa mole ricoperta da un telone impermeabile. Ne sollevò un lembo e vide la chiglia di un motoscafo. Annotò sul taccuino il nome, Poseidon, il numero di matricola e la marca. Poco più in là, sempre sotto il telone, scorse una scaletta. Si arrampicò fino alla cabina di pilotaggio e trovò due porte che immettevano nella stiva. Accese una lampadina che penzolava dal soffitto e raggiunse un salottino con delle brande sul fondo. C’erano degli attrezzi, taniche, strumenti di misurazione e corde di ogni sorta. In un angolo, dentro una cassa con la scritta «Panificio Boyacá», notò dei teli di plastica nera che emanavano un odore penetrante. Infilò la mano, trovò della sabbia sul fondo e ne mise un pugno in tasca pensando che una volta tornato a Bogotá l’avrebbe portata a Piedrahíta. Era così assorto che non udì il fischio di Estupiñán e, improvvisamente, sentì delle voci e il rumore del portone del garage che si apriva. Si precipitò nell’altra cabina e spense la luce. Poi tornò nel locale degli attrezzi e si nascose dietro un mucchio di scatoloni. A quel punto avvertì uno strattone e si rese conto che il motoscafo si stava muovendo. L’avevano attaccato a una macchina, se lo portavano via. Silanpa pensò al da farsi: saltare giù e seguirli? Era pericoloso restare lì ma lo era ancora di più saltare perché, nonostante il rimorchio, filavano a una certa velocità. Tornò in cabina e sporse la testa fuori da un oblò. Vide degli edifici, una strada larga. Riconobbe la via d’uscita da Tunja. Si protese il più possibile e riuscì a scorgere la strada. Dietro un autobus, spuntava il camioncino del Porcospino, che si sforzava di raggiungerlo. Estupiñán e Abuchijá lo stavano seguendo. Un paio d’ore dopo, le curve aumentarono e la strada sembrava piena di buche. Era sicuro che fossero diretti al bagno turco, e lo assillava il pensiero di come diamine uscire da lì, come fuggire senza dover saltare. Il moto117
scafo si fermò di colpo. Si spostò nel locale degli attrezzi e attese in silenzio, con il cuore in gola. Ma non accadde nulla. Nessuno salì. Aspettò ancora un po’, circa venti minuti, e a quel punto si decise a uscire. Affacciandosi fuori, vide la Mitsubishi azzurra. Si guardò intorno e riconobbe il granaio dove era stato con Estupiñán. Il granaio La Union? Sì. Proprio quello. Saltò giù e corse a nascondersi dietro alcuni sacchi di farina. Da lì osservò un gruppo di persone nell’ufficio. «In ogni modo è già tutto pronto.» Era la voce di Susan. «Susan, per favore, non essere così dura. Certe volte mi fai paura.» Voce maschile. «Niente affatto, dobbiamo semplicemente esserne sicuri.» «Va bene, fai quello che vuoi.» «Lo stiamo già facendo, no?» Uscirono. Silanpa rimase acquattato dietro i sacchi, poi si diresse al portone e uscì in strada. Due curve più in là, sotto un albero, era parcheggiato il camioncino. «Che spavento, giornalista, ha trovato qualcosa?» «Sì, la cassa con cui hanno trasportato il cadavere. Ho raccolto un pezzo di plastica e un po’ di sabbia.» «Però tutto questo non basta a fornirci una risposta: chi è il ciccione con il palo nel culo? Perché l’hanno ammazzato?» Estupiñán si accarezzò il mento. «Una cosa alla volta.»
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XXI
Avevo ventun anni, signori, o come dicono da certe parti, ventuno primavere, e di colpo, cosciente del fatto che la vita ti offre la possibilità di scegliere il tuo destino, cioè di mettere un mattone sull’altro senza che il muro cada giù alla prima folata di vento, mi resi conto che il giovane cresciuto all’aperto, allevato a suon di miele e dolci, era diventato un adulto. La nonna e la zia, che all’inizio si erano opposte alle mie scelte, divennero orgogliose di vedermi rincorrere delinquenti per la strada e me lo facevano capire per mezzo di torte e omaggi alimentari, la loro unica maniera di esprimere i sentimenti, che Dio le perdoni. Prima sono stato, e continuo con la mia storia, agente dell’ordine pubblico a Barranca, ma ben presto mi hanno trasferito nella capitale, e allora le immagini che conservavo fin da bambino, quando guardavo passare il treno da Santa Marta o le corriere sulla strada, e che tanto mi angosciavano per una sorta di premonizione, sarebbero diventate realtà, perché uno di quei giorni anch’io sono salito sul treno, un giorno piovoso e grigio, come in tutti gli addii di un certo rilievo, e sporgendomi dal predellino di un vagone, ho agitato la mano nell’ultimo saluto tra le lacrime verso quelle donne che mi avevano allevato. Che tristezza dover dire addio alle persone amate, signori, voi lo sapete, ed è stato tanto triste che nelle prime due ore di viaggio, con una voracità indescrivibile, mi sono mangiato l’intera borsa di dolci che le adorabili donne pensavano potessero bastare per vari giorni di solitudine metropolitana. L’arrivo a Bogotá ha avuto un’importanza pari a quella del giuramento alla bandiera. Un evento fondamentale per una persona di provincia, arrivare nella prima città della nazione, e ancora di più per uno come me, così sensibile ai simboli della patria. Tutto mi suscitava ammirazione e orgoglio, e mentre rispettavo con disciplina i regolamenti e gli orari della Brigata, nei momenti liberi passeggiavo per la città, emozionato dalla modernità e dalla grandiosità della nostra capitale. Il primo colpo mortale l’ho ricevuto scoprendo un cibo che a Barranca non esisteva proprio e che per me si è rivelato una vera tentazione peccaminosa: gli hot dog. Non avevo mai provato niente del genere, e un po’ per la novità e un po’ per il sapore ben presto si è trasformato in un vizio. E da quelli agli hamburger, il passo è stato breve, e allora la questione ha assunto proporzioni davvero gravi. Mi chiedevo: «Come fanno questi stupidi gringos a inventare cibi del genere, 119
capaci di far abbassare la guardia?» Non so se ci avete mai pensato, ma per i bambini quella roba è molto più allettante del nostro riso, carne, patate e insalate nazionali. Ai bambini non piace mangiare, è risaputo. Ma un hot dog, un hamburger o un brownie se lo divorano in un sol boccone. E qui torno alla mia storia per confessarvi in tutta umiltà che io, arrivando dalla provincia nella capitale, ero come un bambino. Le difese di fronte a quei cibi risultavano alquanto scarse, e allora ci davo dentro con gli hot dog, prima quelli semplici con la senape e poi il tipo hawaiano, e non c’era depressione, paura o gioia che non mi portasse davanti alle bancarelle del parco Lourdes a leccarmi le dita dicendo al venditore: «Vediamo un po’, me ne faccia un altro con molta cipolla».
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XXII
Silanpa telefonò a Piedrahíta e poi chiese ad Abuchijá di portarlo al laboratorio della polizia. «Mi rendo conto che è tardi ma la faccenda è grave», disse Silanpa. «Lo so, questa frase è tipica del capitano», rispose Piedrahíta abbottonandosi il camice. «Vediamo, cosa mi ha portato?» Osservò con attenzione il pezzo di plastica, poi la sabbia. «Ho saputo che ieri notte le hanno danneggiato l’auto. Ha scritto qualcosa contro la mafia?» «No, Piedrahíta. Riguarda un’altra storia.» «Il capitano non la fa proteggere?» «Lui si domanda se non sarà stato un marito cornuto.» Si misero a studiare il materiale portato da Silanpa. «A prima vista», disse esaminando la sabbia, «sembra la stessa che usciva dal sedere di quel tipo del Sisga. Ma mi lasci un po’ di tempo per analizzarla bene.» Fermò un taxi sulla 13 e andò a casa di Quica. All’improvviso, la città dove aveva sempre vissuto si era trasformata in un luogo ostile. Dietro ogni angolo poteva nascondersi un pericolo. Arrivando nel barrio Kennedy si sentiva male sul serio; poteva sopportare lo spettacolo della povertà ma non i suoi odori, i mucchi di spazzatura e i muri bagnati di orina. Accese una sigaretta e salì le scale con la paura di non trovarla. Desiderava la sua compagnia. Bussò due colpi alla porta. Niente. Bussò ancora e, non ottenendo risposta, la forzò con il coltellino svizzero. Non c’era luce. Fece due passi in avanti finché non sentì un colpo in testa e una voce in lontananza che gridava «Prendi, figlio di puttana!» Si afflosciò come un burattino di pezza. Faceva freddo, da qualche parte entrava uno spiffero di vento gelido. Silanpa aprì gli occhi lentamente e riconobbe la stanza di Quica. Le foto attaccate con gli spilli, i poster dell’Uniroyal. Aveva le palpebre pesanti co121
me se vi saltasse sopra un branco di scimmie. Sollevò un braccio e toccò una borsa di ghiaccio che gli aveva intorpidito buona parte della faccia. «Finalmente ti sei svegliato, papito!» sentì dire dalla voce di Quica. «Cos’è successo?» «Mi sono spaventata e ti ho dato una botta in testa con la padella. Potevi dirlo che eri tu. Che storia, hai un bernoccolo che sembra una montagna. Ed è verde.» «Che ore sono?» «Le tre del mattino.» Avvertì di colpo una fitta di angoscia. Una voce gli sussurrò nell’orecchio un nome: Moníca. «Hai del rum?» «Certo, papito... È per mandare via il dolore?» «Sì, per mandarlo via...» Gliene versò un bicchiere e si sedette di fronte a lui. «Sei triste, vero? Vedrai che passerà.» Aprì l’armadio e prese una scatola piena di nastri. Ne scelse uno e lo infilò nel registratore. Alle prime note, Quica si piazzò davanti al letto, mise una mano sul fianco e cominciò a cantare: «Dai miei occhi stanno sgorgando lacrime, alla mia età sono innamorata...» Come microfono usava un flacone di talco Mexana. «Cos’è?» chiese. «Non la conosci? Guarda, è lei.» Alzò il dito verso un poster e lui notò che le brillavano gli occhi: «Chavela Vargas». Quica mandò avanti il nastro e ne cantò un’altra, e poi altre due. Alla fine si versò un rum e andò a sedersi accanto a lui. «È il mio idolo», disse. «Vorrei fare la cantante. Lavoro nel Lolita per risparmiare qualche soldo e potermi dedicare alla musica. Una volta mi hanno detto che ho una bella voce.» «Hanno ragione.» «Davvero?» «Sì.» «Ma tu sei sempre triste. Vuoi che te ne canti un’altra? Sono tutte d’amore.» 122
«Va bene. Dai, scegline una bella.» Trascorse la notte guardandola dormire, pensando che era troppo giovane per conoscere tante cose ed essere così indifesa. L’angoscia aumentava sempre di più. Che fare? Quica era lì, ma il contatto e le parole di lei raggiungevano soltanto la periferia della sua paura. Si addormentò quando ormai la tristezza si era dissolta nel dolore e nella stanchezza. Prima di chiudere gli occhi pensò che in una notte così era difficile trovare un motivo, qualcosa per andare avanti. Cercò di non pensare a Moníca, di ignorare che con lei, spesso, era stato felice. Doveva dimenticarla, lasciarsi alle spalle quella vita. L’indomani telefonò a Estupiñán. «Con tutto il rispetto, capo... la posso invitare a casa mia? So che non ha un posto dove andare.» «Ho già risolto, Emir. Quello di cui ho bisogno è un cambio di roba pulita.» Per la prima volta da quando viveva a Bogotá non sapeva dove andare. Camminò verso l’avenida de las Américas e poi salì su un autobus diretto in centro. Quale sarebbe stato il passo seguente? Si sedette in un caffè sulla Jiménez a pensare, guardandosi nel riflesso della vetrina, e constatò che era ormai un uomo diverso. Avvertì qualcosa nel petto e prese una moneta. Raggiunse un telefono e fece il numero di Moníca... Niente. Camminò fino alla Caracas e prese un altro autobus. Arrivando davanti alla casa di riposo si chiese angosciato se fosse il caso di entrare. Ma ormai era lì e attraversò la soglia. Guzmán sembrava ansioso di vederlo e Silanpa gli raccontò dell’auto devastata. Guzmán prese nota di tutto e poi disse: «Ho qualche idea. Ho fatto diversi grafici». Prese un fascio di fogli e glieli mostrò. Silanpa notò una croce, varie linee e molti nomi scritti ai margini. «È ovvio, Víctor, che la faccenda gira intorno ai terreni del lago. Chi è in questo paese che si interessa ai terreni? I costruttori, gli urbanisti, non so. È l’affare del secolo, fratello. E vicino a Bogotá, dalle parti del Sisga, la questione si fa pesante.» «I naturisti vogliono i terreni per starsene all’aria aperta, e camminare nudi sui prati.» Silanpa sbirciò con la coda dell’occhio e si accorse che la 123
mandibola di Guzmán tremava. «Ma non è sufficiente a giustificare quella barbarie.» «Cambia il percorso della palla, Víctor... E se il ciccione non fosse stato impalato dai naturisti? Se al contrario rappresentasse un avvertimento minaccioso nei loro confronti?» «Ma... di chi? Se il ciccione fosse solo un mezzo per mettere loro paura, chi può essere stato?» «Per adesso scordatelo, perché chi l’ha impalato avrà fatto in modo di non lasciare tracce. Se continui per quella strada non arriverai da nessuna parte, bisogna girarci intorno e prendere la faccenda da lontano.» «Lo so, Fernando, ma il fatto è che non mi ci raccapezzo...» «Il ciccione è solo un corpo. Un’immagine orribile che qualcuno doveva vedere.» «I terreni sono di Tiflis e li usano i naturisti. Questo è certo.» «E Tiflis è naturista?» «Non lo so.» «Controlla. Occorre sapere chi è Tiflis, perché possiede quei terreni e, date le circostanze, cosa pensa di farne. Bisogna sapere chi possa avere interesse a spaventare i naturisti, o Tiflis. Il punto è lì. Qui dice che ha un albergo a Bogotá, l’Esmeralda, vai a cercarlo, tienilo d’occhio.» Accesero due sigarette e andarono alla finestra. Rimasero in silenzio per un po’ finché Guzmán si azzardò a chiedere: «E Moníca?» «L’ho chiamata per avvisarla che era in pericolo. Credo di aver esagerato e ora mi sento ridicolo.» «La cosa ridicola è che non rispondi quando lei ti telefona. Pensaci. Continui a starci male?» «Molto.» «Ahi, fratello, con il tempo ti renderai conto che l’esperienza ti è servita. In fondo, è la stessa cosa successa a Cristo: alla fine ci riconoscono per le ferite.» «Mi dispiace perderla. Una donna così affettuosa, simpatica, colta...»
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«Colta? Scusa se te lo dico, Víctor, ma è la prima persona che conosco a non essere stata capace di leggersi per intero il diario di Anna Frank. Me l’ha detto un giorno che siete venuti a trovarmi.» «Lo so, gliel’ho regalato io.» Uscì dalla casa di riposo e andò ad aspettare la corriera all’incrocio con la strada per Cota. Il tempo di fumare due sigarette e la vide arrivare. Fece un cenno per fermarla e andò a sedersi in fondo, guardando distrattamente le poche auto che a quell’ora percorrevano l’autostrada. Scese sulla 127 e senza pensarci salì su un minibus diretto a Niza. Sapeva di fare una cosa assurda, ma le parole di Guzmán e la tristezza accumulata lo spinsero fino all’appartamento di Moníca. «Starò peggio se non lo faccio», si disse. «Guzmán ha ragione.» Aveva le chiavi in tasca e salì fino al quarto piano. Entrò. L’appartamento era vuoto. Vuoto nel vero senso della parola. Non c’erano mobili, né vestiti, neppure una traccia che qualcuno avesse mai vissuto lì. Varie ipotesi, come pugnalate, gli attraversarono la mente: «Vive con Oscar, stanno insieme e intanto preparano i documenti per sposarsi». Arrossì, ebbe la sensazione di svenire e, quando stava cominciando a scivolare contro la parete, la vide comparire sulla porta. «Sapevo che saresti venuto, Víctor», disse Moníca. «Ma mi chiedevo quanto tempo sarebbe passato. Non abito più qui. Ero venuta a chiudere il contatore.» Rimase sorpreso, un alito di speranza lo fece tornare in sé. «Moníca...» «Tu stesso mi hai detto che sarei dovuta andare in un posto sicuro. Ecco, ti ho dato retta.» «Credevo che fossi in pericolo, ma è stata una stupidaggine.» «Ero in pericolo quando provavo amore per uno come te. Adesso me ne rendo conto.» «Moníca, tu sai bene di cosa sto parlando...» «Non me ne frega un accidente di cosa stai parlando. So di cosa parlo io, e ti dico che me ne vado. Scompaio da qui, capisci? Scompaio da tutto ciò che questo posto significa per te e per me. Scompaio dalla tua vita, capito?» 125
Gli occhi di Silanpa si inumidirono e pensò di dover nascondere la sua debolezza. «Scusa, è meglio che me ne vada», e si diresse alla porta dandole le spalle, convinto che lei lo avrebbe trattenuto con gli occhi lucidi, che si sarebbero baciati e avrebbero fatto l’amore sulla moquette e lui non sarebbe mai più rimasto solo, e il mondo, dopo quell’orribile pausa, avrebbe ripreso a girare. Ma si sbagliava. Raggiunse la porta e uscì, camminò fino all’ascensore e la mano di Moníca, che lo aveva accarezzato tante volte, non si era ancora posata sulla sua spalla. Si infilò dentro e premette il bottone dei pianterreno sentendo che la vita finiva lì. Uscì dal portone e, con profonda tristezza, guardò verso la sua finestra. La luce era accesa, ma. quella luce non significava più amore. Si sentiva indolenzito e in un gesto disperato si morse l’anulare fino a sentire il sapore del sangue. Voleva un dolore reale, qualcosa che stordisse quel nervo contorto che provocava le lacrime. Rivide di colpo la sua vita con lei, e un pianto incontrollabile salì dallo stomaco fino a bagnargli le guance. Camminò verso l’avenida Suba. Guardò gli autobus fermi lungo la strada e pensò che quel mondo fosse un luogo ostile perché era lo scenario del suo amore finito, la strada dove aveva perduto tutto ciò che aveva, quello che più amava, ed ebbe voglia di vomitare, di mescolarsi al fango della strada, di non essere più quell’uomo smarrito nella notte che piangeva una donna per la quale avrebbe dato la vita, per la quale sarebbe stato capace di umiliarsi, di accettare qualsiasi cosa. Ubriaco di sofferenza, fermò un taxi e, facendo uno sforzo per riacquistare la dignità, si disse ad alta voce: «La mia vita vale molto di più», e a quel punto crollò, perché sapeva che era una menzogna, che nessuna parola avrebbe potuto cancellarla, e si vide ancora una volta precipitare, perdersi in un dolore che lo avvolgeva, e capì che se qualche volta aveva provato la felicità, il prezzo da pagare era una notte come quella in cui la vita terminava, perché non riusciva a immaginare nient’altro che il ritorno in quel piccolo appartamento, dove gettarsi in ginocchio davanti a lei e supplicarla di non lasciarlo... Ma era certo che questo lo avrebbe fatto sprofondare ancora di più, relegandolo per sempre in una zona di oblio dalla quale nessuno, o quasi nessuno, ritornava mai.
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XXIII
Emilio Barragán non riusciva a conciliare il sonno. Il riflesso delle luci del giardino si insinuava fra le tende della camera e il profondo silenzio faceva rimbombare i suoi pensieri. Al suo fianco, tra le lenzuola, sentiva il respiro di Catalina. Quella presenza lo tranquillizzava. Gli dava forza sapere che se lei poteva dormire era perché aveva fiducia in lui. Anche lui si sentiva protetto dalla sua vicinanza, da quella fiducia cieca. Avrebbe dato tutto ciò che possedeva e anche di più per non perderla, per restare sempre così, accanto a lei, sentire il calore del suo alito, ascoltando quei mormorii che ogni tanto si lasciava sfuggire nel sonno. Ma allora... perché la tradiva? Perché andava dietro alle altre donne? Se lo chiedeva mille volte e mille volte gli rimordeva la coscienza. Era più forte di lui. Gli piaceva trovare la conferma in altre donne, occasionali, dell’immagine adolescenziale che aveva di se stesso: quella del playboy che percorreva la 15 su una Renault 12 con la radio a tutto volume, l’uomo irresistibile, vincitore, l’eroe malinconico e silenzioso per il quale le donne si sentono morire. Ma soltanto Catalina gli dava tutto il resto, la sicurezza che tornando a casa, uno sguardo di lei, una carezza sul braccio, facevano sfumare ogni problema della giornata. Niente era impossibile e neppure difficile quando l’aveva accanto. Il respiro di Catalina lo incoraggiava a pensare che sarebbero arrivati giorni migliori. Era preoccupato per i debiti, il denaro che perdeva quasi quotidianamente nelle assurde scommesse al Club dei Dirigenti. Un’altra catena che lo legava alla sua adolescenza: l’immagine dello sfidante, di chi non ha paura del rischio. Per questo si trovava ora nelle mani di Esquilache. Lui era l’unico a sapere la verità sulle sue finanze, sul permanente stato di bancarotta. E neppure del tutto, perché anche a lui nascondeva il peggio. Le entrate dello studio, quello che guadagnava per sé, non bastava per la vita che conduceva, ma l’idea di limitarsi, di affrontare la realtà, lo spaventava e gli dava angoscia. Non sarebbe stato capace, per esempio, di confessare a Catalina la propria situazione economica. E la cosa gli faceva paura, perché sentiva che lei avrebbe potuto perdere la fiducia. E poi... che ne sarebbe stato di Cata e Juancito? Lo stomaco gli si annodava al solo pensiero di mettere in pericolo i figli. Lui pretendeva sempre che avessero 127
il meglio, che andassero tutte le domeniche al Club per stare a contatto con le migliori famiglie, che imparassero le lingue e viaggiassero. Se c’era qualcosa che faceva sentire Catalina orgogliosa, era vedere quanto si preoccupasse del futuro dei figli, ma solo lui, in quelle notti di colpevole insonnia, sapeva che la realtà era un’altra, che tutto poteva crollare come un castello di carte se Esquilache gli avesse tolto l’appoggio. La questione dei terreni del Sisga era la sua ancora di salvezza e, a quanto poteva capire, anche quella di Esquilache. Non conosceva la sua situazione economica, ma intuiva che anche lui era piuttosto disperato. Doveva esserlo per scendere a patti con uno come Tiflis, un vero mafioso, un uomo rozzo e volgare. Ma aveva bisogno di quei soldi, e senza Esquilache e i suoi contatti gli sarebbe stato impossibile. Dipendere così tanto da lui lo faceva star male, ma tutto sommato era sempre andata così. Fin da quando aveva aperto l’ufficio era stato lui a dargli lavoro, a procurargli cospicue commissioni. All’inizio avrebbe potuto essere indipendente, ma si era sbagliato illudendosi che quello stato di grazia sarebbe durato per sempre. Con i primi contratti si era messo a fare investimenti sbagliati che lo avevano lasciato senza un soldo; e per di più, convinto che il contatto con gente ricca gli avrebbe aperto altre porte, si era abbandonato a spese che l’avevano prosciugato: risultava difficile stare dietro ai manager di successo; a quelli non importava perdere cinque milioni di pesos alla roulette del Club perché l’indomani ne avrebbero guadagnati venti, al contrario di lui. La decisione era ormai presa. Avrebbe fatto quell’ultimo lavoro con Esquilache e poi si sarebbe comprato la propria indipendenza. Il denaro che gli aveva promesso era sufficiente a saldare i debiti e trasferire la famiglia in Europa almeno per un paio di anni, il tempo di dimenticare, rimettersi in sesto e poi tornare con un capitale ancora solido per riprendere il lavoro di avvocato, forse non più con uno studio proprio ma lavorando per qualche impresa. Era l’unica soluzione. Il problema era che non aveva un piano. Non che diffidasse di Marco Tulio. Il legame di parentela con Catalina gli dava sicurezza. Il fatto era che non aveva le redini in mano ed Esquilache non si fidava di lui. Dall’altra parte c’era Vargas Vicuña, e anche quello faceva pressioni avanzando delle offerte. Gli aveva già dato due assegni di una certa consistenza per la gestione dei terreni e tremava al pensiero che non si era azzardato a parlarne con Esquilache, a raccontargli la verità. Se Esquilache li aveva già promessi a GranCapital la cosa sarebbe finita molto male, perché avrebbe 128
dovuto risponderne a Vargas Vicuña e di conseguenza perdere quell’ottimo contratto. Non sapeva quanto dovesse Esquilache a GranCapital, e se avesse operato in favore di Vargas Vicuña, era probabile che Esquilache sarebbe finito in bancarotta, e allora sì che avrebbe avuto dei problemi. Come fare? Rifletté per un po’, ascoltando in silenzio il respiro di Catalina e tentando di mettere ordine nella propria testa. Com’era tutto difficile, pensò. Fece il gesto di alzarsi, ma sentì la mano di Catalina, ancora addormentata, che lo tratteneva. Non si mosse. Forse la cosa migliore era cominciare a sapere che genere di affari avesse Esquilache con GranCapital, e quanto poteva guadagnare di più con Vargas Vicuña. Sì, avrebbe fatto così. Strinse la mano di Catalina, chiuse gli occhi e finalmente riuscì a dormire.
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PARTE SECONDA
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I
L’Hotel Esmeralda era un vecchio edificio a sette piani che aveva visto giorni migliori pur conservando sulla facciata e nel tendone all’ingresso una lontana nobiltà, qualcosa di quel mistero che ancora possiedono alcuni palazzi nel centro di Bogotá, testimoni di un’epoca ormai finita. Osservandolo in silenzio per qualche istante, si sarebbe potuto immaginare che all’interno succedessero cose straordinarie. Silanpa si fermò davanti all’edificio e guardò verso l’alto cercando di indovinare quale fosse la finestra dell’ufficio di Heliodoro Tiflis. Ancora una volta, Guzmán aveva ragione: il problema erano i terreni, e se risultavano intestati a Tiflis, avrebbe dovuto cominciare da lì. Scoraggiato, pensò di non avere imboccato la strada giusta, ma si consolò dicendosi che se gli avevano devastato la macchina e gli controllavano la casa era perché forse qualcosa di quanto stava facendo era azzeccato. Ma dipendeva davvero dall’impalato? Provò disgusto pensando che tutto potesse invece dipendere dalle sue infami investigazioni private. Entrò nell’albergo e oltrepassò la reception nascondendo il volto dietro una copia del «Tiempo». Gettò un’occhiata in giro, si diresse all’ascensore e salì all’ultimo piano. Nel corridoio vide diverse porte e rimase incerto sul da farsi finché una di queste si aprì e, con sua sorpresa, apparve il profilo elegante di Susan Caviedes. Prima che lei potesse scorgerlo, tornò in ascensore e premette il bottone del sesto. Cosa ci faceva lei lì? Nella sua testa, Susan e Tiflis appartenevano a bande opposte, e a quel punto non ci capiva più niente. Che fare? Forse la cosa migliore era seguirla, ma presentava dei rischi. Alla fine si decise e tornò giù. Susan attraversò la sala d’ingresso senza guardare verso il portiere e con passo sicuro raggiunse la strada, svoltò all’angolo ed entrò in un parcheggio. Silanpa attese a vari metri di distanza finché vide sbucare la Mitsubishi azzurra e il cuore gli balzò in gola. Fermò un taxi e disse: «Segua quella jeep». Il tassista lo sbirciò dal retrovisore con un’espressione truce che Silanpa evitò provando un certo disagio. Percorsero la circonvallazione fino alla 92. Gli faceva male la gola, aveva un po’ di febbre, e arrivando sulla Settima ebbe un forte attacco di tosse e pensò che ci mancava solo quella. Quando prese lo spray per la la131
ringe che aveva comprato al mattino, sentì la frenata. Alzando lo sguardo, vide che il tassista gli puntava un revolver a due palmi dal naso. «Molla quel coso, gran figlio di puttana, mollalo o ti brucio!» urlò. Gli tremava la mano. Le auto dietro cominciavano a suonare. «Non so di cosa stia parlando, signore», la voce uscì incrinata «questo non è...» «Mollalo, gran figlio di puttana, teppista di merda, buttalo a terra o ti faccio volare via il naso!» «Ma questo è per la gola, guardi!» e si spruzzò mezzo flacone in bocca. «Guardi, guardi!» La faccia del tassista cominciò a distendersi. Gli occhi smisero di lanciare bagliori di fuoco. Sul volto deformato dalla furia comparve una vaga espressione di sorpresa. «Come? Non è gas paralizzante?» «Ma quale gas, amico, non vede che me lo sono ingoiato?» I clacson aumentavano di intensità e il tassista abbassò l’arma, confuso. «Mi scusi, signore, credevo fosse una rapina. Le confesso che da quando è salito, e con quella faccia...» La Mitsubishi di Susan era scomparsa. «Si muova, che quelli dietro ci linciano», disse Silanpa, tremando ancora. «E si fermi al primo posto che trova, le offro una birra.» «Ottimo, signore. Così ci passa lo spavento.» Bevvero una birra e finirono a ridere per la storia della rapina. L’autista alla fine chiese: «Mi scusi se mi permetto, ma lei stava seguendo quella jeep?» «Sì.» «Vede, anche questo mi è suonato molto strano. Oggi non si sa mai... Le giuro che mi sono accorto subito che c’era qualcosa di strano, e quindi ho cercato di osservare bene la Mitsubishi e la signora al volante. E ho pensato: sarà un amante cornuto? La starà spiando per conto del marito?» Il tassista faceva cerchi in aria con il dito. «Mi segue?» «Sono un giornalista», e gli mostrò il tesserino. «Sto svolgendo un’indagine.»
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«Le chiedo ancora scusa. Ma lei capisce, con quell’aspetto, chi se lo immaginava. Uno pensa che un giornalista guadagni abbastanza per comprarsi almeno un rasoio.» Silanpa si passò la mano sulle guance. Non sapeva che fare e così tornò all’Hotel Esmeralda. Lungo la strada pensò che tanto era lo stesso, seguendo Susan non avrebbe ottenuto granché e ancora una volta stava facendo delle sciocchezze. L’importante era sapere che rapporto avesse con Tiflis. «Vuole che l’aspetti dietro l’angolo, giornalista? Mi fermo nella caffetteria a bere un caffè, e se c’è da aspettare non importa, ormai è ora di cena e lì hanno una buona cucina.» «Non si disturbi per me. Quanto le devo?» «Lasci stare. Vorrei almeno sdebitarmi per lo spavento che le ho fatto prendere.» Silanpa rientrò nell’albergo. In ascensore, approfittando dell’orribile specchio alla parete, tentò di lisciare le pieghe della giacca, ripulire con la saliva il colletto della camicia e sistemare i capelli arruffati. Aveva un aspetto penoso. Raggiunse il settimo piano e si diresse alla porta sul fondo, da cui aveva visto uscire Susan. Nessun rumore, nessuna luce. Decise di entrare. Prese il grimaldello che usava nei motel e con due giri la serratura cedette. Si guardò intorno, avanzò di un passo e si immerse nel buio della stanza richiudendo subito la porta. Controllò che non vi fosse nessuno, si tolse la giacca, la sistemò ai piedi della porta per coprire la fessura e accese la luce. Apparvero il giradischi, i manifesti delle corride e il minibar. Andò alla scrivania ma i cassetti erano chiusi a chiave. Una coppa, un bicchiere con ghiaccio sciolto e un mozzicone di Pall Mall con il filtro sporco di rossetto denunciavano l’incontro di Tiflis e Susan. Guardò sugli scaffali ma non notò niente di interessante, così decise di forzare i cassetti della scrivania. All’inizio quei documenti non gli dicevano nulla, ma sfogliandoli capì che erano proprio quelli che stava cercando: «Documenti terreni Sisga». Nel secondo cassetto trovò una carpetta con lettere e fotografie di Tiflis e Pereira Antúnez. Mise tutto in una busta e se la infilò nella cintura. C’era anche una mazzetta da quattrocentomila pesos, ma lui non stava cercando soldi. Senza pensarci troppo, uscì dall’ufficio.
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Il tassista era nella caffetteria e Silanpa, vedendo il piatto di carne e fagioli, ricordò di non aver mangiato niente fin dal mattino. «Può aspettare un momento? Mi dia solo il tempo di finire questo spuntino.» «Me ne ordini un piatto, sto morendo di fame.» Il tassista fece un cenno al cameriere e Silanpa andò al telefono accanto alla cassa. «Parla Estupiñán...» «Sono Silanpa, ho appena trovato delle cosette interessanti che vorrei farle vedere. Ho bisogno di Abuchijá per domani.» «Lo contatto subito, capo. Dove si trova?» «In una caffetteria vicino all’Hotel Esmeralda.» «E l’appuntamento?» «Vediamoci nel Faisán di Chapinero entro un’ora, lo conosce?» «Sì, capo. Passo e chiudo.» «A presto...» I fagioli e la spremuta di guayaba gli restituirono fiducia nella vita. Mentre mangiava, il tassista non smetteva di raccontargli le sue storie. «Ma questo è niente», disse. «Una volta mi sono capitate due tipe tutte moine, a dir poco disponibili. Ho chiamato Wilber via radio, un collega della centrale che per le donne va fuori di testa, e gli ho dato appuntamento vicino all’aeroporto. Le due tipe erano uno schianto, glielo giuro, ma al momento di invitarle nel motel hanno detto che dovevamo pagarle, che senza soldi non se ne faceva niente, si immagina la delusione? Comunque, abbiamo accettato e alla fine Wilber ha rifilato loro un assegno fasullo.» Per poco non si strozzò dalle risate. Silanpa lo ascoltava a malapena. «In fin dei conti, la faccenda si è chiusa pari e patta...» Nel Faisán, Estupiñán lo stava aspettando a un tavolo vicino all’entrata. Faceva freddo. Erano le dieci di sera. «Credo che questa carpetta spieghi chi sia il morto e perché lo hanno ammazzato.» Estupiñán si mise a leggere i fogli che conteneva. «Capo, e questo non le pare anche troppo pericoloso? Voglio dire, infilarsi nell’ufficio di un mafioso... Perché se il tipo ha l’ufficio in 134
quell’albergo, significa che è un poco di buono, come minimo un esmeraldero.»* «Lo so, ma non ho corso alcun rischio. Sapevo che non c’era nessuno.» «Anche i trafficanti sono mafiosi, capo. Gliel’ho detto fin dall’inizio che non volevo problemi.» «Era ovvio che una faccenda del genere, un tizio impalato sulla riva del lago, prima o poi ci avrebbe portato a qualcosa di molto sporco. Volevo raccontarle cosa abbiamo in mano, ma se preferisce abbandonare l’indagine, nessun problema. Ha corso anche troppi rischi per aiutarmi.» Estupiñán si mise a riflettere. Un autobus si fermò davanti alla porta della caffetteria e ripartendo riempì l’aria di un fumo nero che li fece tossire. «Mi scusi, giornalista. Ma lo spavento dell’altro giorno è stato grande. Inutile che glielo spieghi, le palle mi sono arrivate in gola.» «È meglio che se ne torni a casa tranquillo, Emir, se scopro qualcosa di suo fratello mi farò vivo.» «Bullshit! Adesso non esageriamo, e inoltre non dimentichi che sono in permesso speciale dall’ufficio. Può spiegarmi di nuovo perché abbiamo bisogno di Lotario Abuchijá?» «Vede, la donna del bagno turco è stata la prima ad aver parlato con lui, quella che lo ha ingaggiato, questo è chiaro. Ma dopo averla vista uscire dall’Hotel Esmeralda le cose si sono complicate, per questo voglio verificare se Abuchijá riconosce Tiflis.» «E il ciccione con il palo nel sedere?» «Credo di sapere chi sia.» «E... posso saperlo anch’io?» «Eccolo qui», e gli indicò una figura sulla foto. «Glielo presento: Casiodoro Pereira Antúnez.» «Be’, in effetti gli somiglia. Al cadavere, intendo.» «L’unica cosa che non quadra è che Pereira Antúnez è morto un mese prima, c’è scritto anche lì, e per giunta l’hanno sepolto. Un funerale con tanto di cerimonia funebre nel Cimitero Centrale.» *
Negli anni Settanta la malavita organizzata controllava il traffico di smeraldi, e da allora esmeraldero è diventato sinonimo di «mafioso». (N.d.T.)
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Finirono il caffè, si salutarono dandosi appuntamento per l’indomani, e Silanpa si diresse a un albergo del centro, vicino a plaza de Bolívar. Ma il desiderio fu più forte... Entrò nel Lolita cercando di passare inosservato, e lei era lì, che chiacchierava con due colleghe. Quando lo vide, Quica si mosse per avvicinarsi, ma lui le fece cenno di restare a distanza e di seguirlo fuori, senza sapere se quelle precauzioni avessero senso o meno. In strada, lei lo prese per mano e si mise a fischiettare. «Perché non mi metti un braccio sulle spalle? Anche se mi paghi, sono pur sempre una donna...» La abbracciò con forza, desideroso di stare a contatto con l’innocenza che credeva di vedere in lei. Dormirono nello stretto letto dell’albergo e al mattino fecero colazione insieme. Si salutarono e lui trovò la forza di telefonare al giornale. «Esquivel? Sono Silanpa...» «Víctor, fratello, dov’eri finito? Il direttore chiede continuamente di te. Ha saputo di quello che ti è successo e si preoccupa molto, pensa si tratti di un avvertimento al giornale.» «Digli che rimango nascosto, ma che continuo a indagare.» «Ha dato carta bianca e ordinato alla tesoreria di aprirti un conto speciale. È preoccupato, dice che la cosa migliore sarebbe andartene dal paese.» «Qui sto bene, Esquivel. Se ho bisogno di qualcosa, telefono. Ringrazialo per i soldi.» Estupiñán gli confermò l’appuntamento con Abuchijá alle undici del mattino e pensò che aveva il tempo di fare un giro all’Hotel Esmeralda. Si sedette in una caffetteria di fronte e controllò l’ingresso cercando di riconoscere l’immagine del tipo grassoccio nella foto. Dopo le nove e mezzo, due fuoristrada Trooper si fermarono davanti al portone e scese Tiflis, che entrò con il passo sicuro del padrone. Silanpa lo accompagnò mentalmente nel percorso fino all’ultimo piano e quando ritenne che fosse arrivato, alzò lo sguardo: la luce si accese. Ordinò un altro caffè macchiato e continuò il controllo leggendo «El Observador»: non dava un’occhiata alle notizie da giorni. Ma di lì a poco Tiflis riapparve con alcuni dei suoi uomini. Aveva scoperto il furto dei documenti? Gli uomini salirono sull’auto e, attraverso il finestrino, ebbe l’impressione che Tiflis stesse dando loro delle istruzioni. 136
Aspettò a lungo, il tempo di bersi altri due caffè macchiati e fumarsi una sigaretta. Alle dieci e mezzo decise di pagare e di sgranchirsi un po’ le gambe, ma mentre si alzava, gli uomini tornarono. Dalla Trooper vide scendere Susan scortata da due guardaspalle. «Tutto come previsto», disse tra sé. Adesso poteva andarsene, Estupiñán e Abuchijá lo stavano aspettando. «L’investigatore Emir mi ha detto che era urgente.» «Sì, venga, sediamoci.» Gli mostrò le foto ma Lotario non riconobbe l’uomo. «Macché, questo tipo ha la faccia da pasticciere. Niente da spartire con quelli che mi hanno ingaggiato.» «La faccenda è già più chiara...» disse Silanpa. «Grazie, Abuchijá. Estupiñán?» «Non ho domande da fare.» «Allora andiamo.» Camminarono fino alla 13. «E adesso?» «Torniamo all’Hotel Esmeralda, lì dentro dev’essersi scatenato un bel vespaio.»
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II
L’ufficio di Tiflis era pieno di fumo. Runcho e Camaleón fumavano Nacional e bevevano aguardiente Cristal, mentre don Heliodoro accendeva e spegneva un avana, mordicchiando fette di limone a ogni sorso e alzando il bicchiere per farselo riempire di nuovo. Susan, seduta in una poltrona, li guardava con disprezzo. «Te lo chiedo per l’ultima volta, tesoro, e nota che sono molto gentile: dove sarebbero finite quelle carte?» «Heliodoro, sono stanca di questa farsa. Se vuoi che ne parliamo di’ a questi animali di andarsene.» «Sono come figli, mamita», disse guardandoli. «Ciò che io dico, e persino quello che penso, loro possono sentirlo senza problemi.» «Tu sì, ma io no.» «Allora, tesoro, mi sto già stufando di questa stronzata», e spense l’avana con un gesto rabbioso, «I certificati dei terreni sono spariti. E chi poteva sapere che li avevo io? Tu eri l’unica, mia cara, capisci...?» «Non so di che diamine stai parlando, Heliodoro. O meglio, so di quei certificati, ma... cosa c’entro io se adesso non li trovi?» «Ahi, tesoro, ahi... Che ingenua. Runchito, portami uno specchio, che voglio vedere se ho la faccia da coglione e non me n’ero accorto.» «Heliodoro, in questa storia ci stiamo insieme. Sono uscita da qui diretta a casa mia, se non mi credi telefona alla domestica.» «Il lato buono della questione, tesoro, è che adesso sì che staremo davvero insieme.» «Perché?» «Facile: finché non saltano fuori i documenti, dovrai rimanere con me.» «Non ne hai il diritto... Sarebbe un sequestro.» Susan si alzò e andò verso la porta, ma Tiflis fece un cenno e Runcho l’afferrò per un braccio. «Lasciami, imbecille.» «Fai la brava, tesoro. Non rendere le cose più difficili. Al piano di sotto ti abbiamo preparato una bella stanza, con il televisore e tutto il resto.» 138
«Se ti hanno rubato i certificati, pensa a chi potrebbero interessare. Non mi hai raccontato che Esquilache e Barragán li stavano cercando? E Vargas Vicuña? Senza contare il giornalista che indaga sul caso.» «Prima o poi scopriremo chi è il figlio di puttana, intanto da qui non se ne va nessuno finché non ricompaiono. Runchito, vuoi farmi il favore di accompagnare la signora nella sua stanza?» «Non puoi farmi questo...!» furono le ultime parole di Susan prima di uscire, spinta fuori da Runcho. Tiflis andò in bagno e si sedette sulla tazza: «Non c’è nulla che non si possa risolvere mentre si fa una bella e salutare cagata», filosofeggiò tenendo gli occhi fissi sulle mutande. Susan era l’unica a sapere che i certificati li aveva lui, ma era anche vero che altri come Vargas Vicuña o Esquilache potevano immaginarlo. Tanto che lo avevano cercato per fargli delle proposte. Non era stato facile farsi donare i terreni da Pereira Antúnez tre mesi prima. Ricordò la scena, in quello stesso ufficio: «Tutto ciò che vorrei, dottore, sono quei piccoli terreni. A lei non importano granché. Tanto è vero che li lascia a quei mezzi matti, mentre per me sarebbero un sogno». «Heliodoro, quel gruppo ha fiducia in me. E per l’amor di Dio, non li chiami mezzi matti, si ricordi che anch’io sono un naturista.» «Mi scusi, dottore. Lei sa che io mi esprimo così.» «La conosco, Heliodoro.» «Diciamo le cose come stanno, dottore.» Tiflis aveva addolcito la voce. «Io per lei mi sono esposto per dieci anni, e ho dovuto sopportare sette mesi di galera al posto suo, o se lo è scordato?» «Ah, Heliodoro, perché rivangare cose tanto tristi?» «Io me lo ricordo perché ogni giorno in carcere mi dicevo: devo essere forte perché il dottore si ricorderà di me. Non mi dica che ha dimenticato i miei sacrifici, perché sarebbe davvero un gran dolore.» «Non ho dimenticato niente, il fatto è che la vita è così lunga, così piena di parole e volti inutili che a volte uno si confonde.» «Io invece non dimentico. Sette mesi di cella, dottore, e non le racconto cosa ho dovuto passare per non farmi rompere il culo nelle docce.» 139
«E pensare che c’è gente che paga per questo... Che mondo ingiusto.» «Lei mi conosce fin da giovane e sa che non mi piace tergiversare o parlare al vento.» «Questo è vero, Heliodoro.» «Sarò molto franco. Voglio quei terreni, altrimenti diventerò così triste che mi toccherà raccontare a tutti le tribolazioni che ho passato.» «È una minaccia?» «Noo... dottore. Ma se lei è per me come un padre. Il mio era solo un suggerimento.» «E visto che stiamo parlando chiaro, cosa succede se non glieli do?» «Problemi, dottore. Ecco cosa succede. Problemi, per lei e per me.» «E che genere di problemi?» «Guardi, guardi dottore che cosa ho qui.» Aveva preso un foglio e si era messo a leggerlo: Dichiarazione giurata di Yndamiro Juárez Sanjuán. Io, Yndamiro Juárez Sanjuán, nato a litica il 15 settembre 1943, dichiaro che il 28 luglio 1973 il dottor Casiodoro Pereira Antúnez, per il quale lavoro nel bar El Rey de los Andes, mi ha ordinato di andare a prendere Osvaldo Trias Dueñas, proprietario del bar La Nariz de Pinocho, portarlo in collina dopo la mezzanotte e sparargli un colpo alla testa, lasciando un messaggio che diceva: Un oligarchico di meno, Viva Marx, cosa che sono stato costretto a fare sotto la minaccia di essere eliminato io stesso. Scritto di mio pugno e firmato, Yndamiro Juárez Sanjuán. «Avanti, come vuole accordarsi?» «È facile, dottore. I certificati a mio nome in cambio dell’originale di questa dichiarazione.» «Non mi aspettavo una cosa simile da lei.» «È stato lei a dire che la vita è piena di volti inutili. Per questo io mi ricordo delle parole.» «Mi mette con le spalle al muro.» «Io non direi così, dottore, preferirei dicesse che mi riconosce una vita di sacrifici.» «È lo stesso.» Tiflis ricordò poi che erano andati all’ufficio del catasto, e don Casiodoro, con lo stesso fiammifero con cui aveva acceso la pipa, aveva bruciato la 140
dichiarazione di Yndamiro. Ma c’era un problema: i certificati non risultavano firmati da don Casiodoro e questo complicava la questione perché alla fine non avevano potuto fare un passaggio di proprietà del tutto legale. Per questo occorrevano gli originali, per poter prima impugnare un vizio procedurale e poi sancirne la proprietà. C’era forse il consigliere Esquilache dietro a quella grana? Magari bisognava fargli prendere uno spavento prima di riparlare con lui. Tirò l’acqua, uscì dal bagno e chiamò Runcho. «Agli ordini, capo.» «Fate una visitina al consigliere Esquilache. Non rompetegli niente, ma ammorbiditelo un po’, perché dovrò fare una chiacchierata importante con lui.»
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III
A Bogotá, appena scesi da un autocarro che ci aspettava alla stazione e che aveva lo stemma della polizia sugli sportelli, ci alloggiarono in una caserma vicino alla collina, nei pressi del Parque Nacional. Per uno come me, che veniva dalle zone calde e che era abituato a sentire cantare i galli, non fu facile. Al mattino, anziché un venticello tiepido, dalle alture spirava un’aria che gelava le ossa. Dovevamo fare la doccia con acqua fredda e poi uscire di corsa al primo squillo di tromba in un cortile dove, un giorno sì e l’altro pure, cadeva una pioggerellina che ci inzuppava fino al midollo, e che adesso, paradossi della vita, è diventata una presenza familiare nella nostra bella capitale. Ma appena arrivato, quel freddo mi intristiva. L’unico cibo disponibile a quell’ora, signori, era il caffelatte con un pezzo di pane, nient’altro, e con quello nello stomaco ricevevamo le prime istruzioni riguardo l’ordine pubblico a Bogotá, i quartieri malfamati, le zone controllate da mafia e trafficanti, insomma, tutti i focolai di illegalità che ogni guardiano della quiete pubblica deve conoscere per non farsi prendere alla sprovvista. Seguivamo quelle lezioni, impartite da un sergente che disegnava schemi su una lavagna, in un salone che dava su Monserrate. Era la tipica stanza di una vecchia casa, con il tetto altissimo e le finestre sfondate da cui entrava il vento e le folate di pioggia. Credetemi, in una situazione simile, seduto su uno sgabello di legno e ferro che, chiedo scusa alle signore, congelava quel che sappiamo, seguire una lezione diventa molto difficile. Mi sforzavo di ascoltare le parole del sergente, un vallecaucano che si chiamava Chumpitaz, ma la mente andava per conto suo e al posto dei quartieri e dei gruppi criminali, vedevo una cioccolata calda con paste e ciambelle che servivano in una caffetteria da quelle parti. Ed è inutile aggiungere che appena finita l’esposizione del sergente Chumpitaz il sottoscritto schizzava in quel localino e, dopo essersi fatto il segno della croce e aver ringraziato il Signore per i favori ricevuti, si buttava avidamente sulla suddetta cioccolata; alla fine, quando uscivo, erano almeno due o tre le tazze che doveva ritirare dal mio tavolo la figlia del padrone, una ragazzina che faceva da cameriera, e così, con la pancia calda e finalmente felice, la mente ormai rischiarata, anche la lezione diventava
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più agevole e le parole di Chumpitaz mi si imprimevano in testa come un ferro rovente sulla pelle di una vacca.
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IV
Nancy contrasse i muscoli, prese a mordere il cuscino per soffocare un grido e tutto il suo corpo sussultò. Poi tornò in sé, aprì gli occhi e vide il volto sudato di Barragán. «Ti voglio bene, Emilio. So che è stupido dirtelo, ma è la verità.» L’illuminazione nella stanza era alquanto fioca. Il muro sulla sinistra era ricoperto di specchi e di fronte, su una mensola, riposava un vecchio televisore Philips. «Anch’io, Nancy, ma in questi casi è meglio non provare sentimenti. Può risultare pericoloso per entrambi.» Si diedero un paio di baci e Nancy si alzò. Barragán la guardò andare verso il bagno e pensò che quei fianchi valessero il prezzo di un rimorso di coscienza. Controllò l’orologio: erano le due del pomeriggio. Uscirono dal motel e tornarono rapidamente in ufficio. Nancy scese dall’auto qualche isolato prima e aspettò che la Peugeot scomparisse oltre l’ingresso del garage. Entrando, Barragán chiese che gli passassero al telefono Esquilache, mentre si dava dei colpetti sul collo con la mano inumidita di profumo Obsession. Aspettò diversi secondi prima di sentire la voce del consigliere. «Buon pomeriggio, mio caro. Hai qualche buona notizia da darmi come digestivo?» «No, Marco Tulio. Non ancora. Volevo chiederti alcune precisazioni sulla questione dei terreni. Devi darmi più informazioni. Ho bisogno di sapere tutto.» «E cosa vorresti sapere?» «Che genere di accordo hai fatto con GranCapital. Se non me lo dici, non posso sapere cosa devo fare né come risolvere certe faccende.» «È semplice. Ho bisogno dei documenti per aggiudicarli a loro a prezzo d’asta, mi capisci? Per questo l’unica cosa da fare è un annuncio di pubblica vendita con la data di convocazione cambiata. Così restituisco loro il favore e, oltretutto, una parte di quello che mi hanno anticipato.» «E per essere chiari, quanto pensi di guadagnarci?» 144
«Varie centinaia di milioncini, mio caro, di cui una fetta destinata a te per il disturbo, è logico. Ma... non credi di essere un po’ indiscreto con tutte queste domande?» «Io ho piena fiducia, Marco Tulio, però ho bisogno di essere sicuro che la cosa sia abbastanza grossa da giustificare un eventuale scontro con Vargas Vicuña.» «Stai tranquillo, c’è di mezzo gente che potrebbe tenere a bada dieci come Vargas Vicuña.» «E un’altra cosa. Continuo a pensare alla storia dell’impalato e, te lo giuro, a volte mi sveglio di notte con la tachicardia, l’ansia non mi fa dormire.» «Ma cos’è che ti preoccupa tanto?» «Tiflis mi è sembrato un brutto ceffo e... non so perché, ma da quando l’ho visto penso che c’entri qualcosa.» «Non fare certe congetture. Non si sa neppure di chi sia il cadavere.» «Piantiamola con le scempiaggini. Sai bene che è Pereira Antúnez; l’ho riconosciuto dalla prima foto.» «Ancora con questa stronzata... Lascia che la polizia faccia il suo lavoro, d’accordo? Tu concentrati sul tuo, se non riesci a dormire beviti una camomilla, e se la cosa persiste fatti una bella sega. È la cosa migliore contro l’insonnia.» Riattaccarono ed Emilio si girò sulla poltrona. Adesso doveva parlare con Vargas Vicuña. Era molto agitato, il cuore gli andava a mille. Prese un bicchiere dal minibar e si versò del whisky con ghiaccio, tornò sulla poltrona bevendo piccoli sorsi e chiese a Nacha di passargli la telefonata. «Dottor Vargas Vicuña? Buon pomeriggio.» «Emilio, che sorpresa. E che piacere.» «Il piacere è mio, tutto bene nel suo ufficio?» «Insomma, sono qui a sbrigare le solite faccende. Qualche novità sulla questione del Sisga?» «Pensi un po’, dottore, la chiamavo proprio per questo.» «Mi dica pure.» «Ho bisogno di sapere una cosa e non perdo tempo in preamboli. Questo lavoro ha i suoi rischi e lungo il cammino si è costretti a fare molti sa145
crifici. Volevo chiederle, mi scusi, quanto ci guadagno io nell’intera questione.» «Senti, Emilio, non devi scusarti perché è normale. Il nostro progetto è una faccenda grossa. Una volta sistemato tutto, la cosa può arrivare sui centocinquanta milioni. Che te ne pare?» Emilio fece i suoi calcoli mentalmente e si entusiasmò. L’emozione gli provocò un formicolio alle dita e pulsazioni alle tempie, all’improvviso si vide davanti alle vetrine di Harrods piene di camicie e cravatte, o in un bistrot di Parigi a leggere il giornale con aria disinvolta, come un industriale in esilio, e immaginò Cata e Juanchito poco più in là, che correvano nei giardini del Luxembourg. «Sì, dottore. Ora che lo so mi sento più tranquillo.» «Devo dirti però che non possiamo fare contratti, mi capisci? Tutto questo dovrà basarsi sulla parola.» «Non si preoccupi. Ho piena fiducia in lei.» «Questa è la cosa più importante. E adesso permettimi una domanda: entro quanto tempo pensi si risolverà la questione?» «Ho bisogno di vari giorni, forse un paio di settimane.» «Inutile dirti che il tempo stringe. Sai che qui i materiali da costruzione aumentano di prezzo ogni giorno e prima cominciamo meglio sarà.» «Lasci fare a me. E si tenga pronto.» «È quello che volevo sentire.» «Un’ultima cosa: lei sa che queste pratiche costano, dottore, e avrei bisogno di un piccolo anticipo.» «Quanto vuoi?» «Una sciocchezza, il dieci per cento andrebbe bene.» «Sono molti soldi, Emilio.» «Niente al confronto di quello che guadagneremo.» «D’accordo, ti mando entro oggi un assegnino e resto in attesa di notizie.» «Stia tranquillo.» Riattaccarono e Barragán tirò un sospiro di sollievo. Adesso doveva trovare quei documenti prima di riprendere le trattative. Per prima cosa sarebbe andato all’ufficio del catasto per seguire le tracce dei terreni. 146
V
La Mazda grigia uscì dal parcheggio del consiglio municipale di Bogotá e si diresse verso le colline lungo la 26, per poi imboccare la circonvallazione in direzione nord. All’interno, Esquilache stava tornando a casa sfogliando un libro di Rafael Pombo che aveva comprato per i figli di Emilio Barragán. Osservò le illustrazioni, lesse emozionato i titoli e le prime strofe delle poesie, poi cedette alla tentazione di recitarle a memoria al suo autista per constatare quanto fossero ormai lontani i tempi dell’infanzia. L’altra auto, la Trooper bianca ricoperta di adesivi, comparve all’incrocio del Parque Nacional e prese a seguirlo a distanza. All’altezza della 67 la Trooper si teneva a due auto dalla Mazda, ma oltrepassando l’ospedale militare cominciò ad avvicinarsi. Nella strada stretta che saliva in collina, davanti al collegio Nueva Granada, la Trooper li affiancò e costrinse la Mazda a deviare bruscamente. Esquilache lanciò un urlo e sputò la sigaretta accesa sulla fodera del sedile. «Ma guarda quel figlio di...!» riuscì a dire, prima che tutti gli sportelli della Trooper si spalancassero e comparisse la faccia glabra e sorridente di Runcho. «Si ricorda di me?» chiese Runcho. «Lei è... Ma che razza di maniere sono queste?» Un uomo grasso, con occhiali da sole e una camicia Valdiri incollata alla pancia, si piazzò di fronte all’autista di Esquilache. «Non si preoccupi, oggi siamo venuti con intenzioni pacifiche», disse Runcho. «Devo riferirle un messaggio riguardo a qualcosa che lei sa.» «E... di che si tratta?» «Una cosa molto semplice. Si figuri, ha a che fare come sempre con quei terrenucci che sappiamo. Il mio capo ha smarrito alcune carte importanti e vuole parlare con lei.» «Carte? Quali carte?» «Delle carte importanti», ripeté Runcho muovendo l’indice molto lentamente. «Io gli ho detto di calmarsi, al capo, perché il signor Esquilache è una persona onesta. Allora ha detto va bene, per questa volta concediamogli di fornire una spiegazione.» 147
«Giovanotto, le giuro che non so...» A quel punto il grassone con la camicia Valdiri si avvicinò al finestrino e parlò all’autista con espressione torva: «Cos’hai da guardare tanto, non ti piace la mia camicia o che?» «No, no», ribatté l’autista. «Al contrario, mi sembra davvero bella.» «Perché se non ti piace, puoi anche dirlo, pezzo di frocio.» Sferrò un calcio allo sportello, poi tirò fuori uno sfollagente e fracassò lo specchietto. «Ma se le sto dicendo che è bellissima...» «Sii uomo, coglione. Se non ti piace, devi dirlo», urlò rosso di collera e con un colpo ruppe il faro sinistro. «È divina, le sta benissimo, dove l’ha comp...» «Questo aborto mi sta prendendo in giro, cazzo, tenetemi fermo...» E in un accesso di furia prese a menare mazzate con lo sfollagente sul faro destro, le frecce, il cofano e infine il parabrezza. Gli altri due uomini lo fermarono. «Calmati, Morsita. È un malinteso.» «Il giovane vuole solo sapere dove l’hai comprata, Morsita», disse Runcho. «Non prendertela.» «È che la sbirciava come se pensasse ‘guarda quel burino’... E la cosa mi manda su tutte le furie.» Esquilache sudava freddo e non sapeva che fare. Alla fine trovò la forza di parlare. «Insomma, Vladimir, chiedi scusa al signore, che diamine!» «Mi scusi, signore. Non volevo...» «Questo è il bello di ritrovarsi tra amici», disse Runcho, «prima o poi si aggiusta tutto.» Fece un cenno ai suoi e tornò verso la Mazda. «Come le stavo dicendo, signor Esquilache, dovrebbe dare un colpo di telefono al capo. È di cattivo umore, ma sono sicuro che se ne parlate si calmerà.» Risalirono sulla Trooper e se ne andarono. Esquilache si asciugò la fronte e guardò la macchina: il muso era uno sfacelo e il parabrezza sembrava 148
una ragnatela. Quando Vladimir mise in moto, erano ormai passate le sei del pomeriggio. «A casa, perdio, e in fretta.» Tornarono sulla circonvallazione. Il traffico era un lento serpentone di luci che avanzava a stento, accelerando e frenando. Arrivando all’uscita La Calera sentirono il frastuono dei clacson sulla settima, anche quella intasata. Non si muoveva nessuno. Le auto sembravano disegnate sull’asfalto. Gli abitanti dei vicini palazzi cominciavano ad accendere le luci e in un giardino una domestica stava raccogliendo le sedie di plastica perché non si bagnassero. Nell’Hotel Esmeralda, Tiflis aspettava ansioso. «Cosa gli sarà successo a quelli, perdio, che non tornano.» «Tranquillo, capo. Con il traffico che c’è, per forza ritardano.» «Portami qui la mia amichetta. Credo che la poverina se la stia passando male, ma così è la vita.» Cinque minuti dopo Susan entrò nell’ufficio di Tiflis. Diede uno spintone a Wilber e fissò Heliodoro con odio. «Se mi mandi un’altra volta uno di questi teppisti ti strozzo. Digli di andarsene.» Tiflis, improvvisamente intenerito, fece un cenno al segretario. Wilber posò una bottiglia di Cristal sulla scrivania, rimise il disco del Binomio de Oro e si ritirò facendo un inchino. «Dunque, mamita. Vorrei farti capire che tutto questo non ha niente a che fare con i sentimenti, mi spiego? È una questione di affari, e gli affari non vanno mai mescolati al sesso. O meglio, al cuore... Ah, non mi so esprimere. Ma tu mi capisci.» «Heliodoro, come puoi pensare che io stia contro di te? Hai già dimenticato tutto quello che ho fatto prima che Pereira Antúnez morisse? In questo ci siamo dentro insieme.» «Ma il fatto è che io, mamita, per principio diffido di tutti. È un insegnamento paterno. Cosa posso farci?» «Così l’unica cosa che ottieni è metterti contro quelli che stanno dalla tua parte.» «Diciamo che ci ho pensato a lungo», disse Tiflis, «e sono arrivato alla conclusione che forse tu non c’entri con il furto dei documenti. Stavo lì 149
nella sala delle riflessioni», e indicò il gabinetto, «e a un tratto le cose mi si sono chiarite. Ho deciso di avere fiducia in te, dolcezza, a patto che mi aiuti a capire chi sia stato.» Susan rinunciò all’espressione truce, rimise la puntina del giradischi all’inizio del long-playing e si versò un whisky. «Mi pare che cominciamo a intenderci.» «Con una donna come te, è facile.» Susan si sedette accanto a lui appoggiando le gambe incrociate sulla scrivania, e tentò di sbrogliare la situazione. Non c’era forse tanta gente interessata ai terreni? Chi sapeva che i documenti erano in suo possesso? Esquilache, per esempio. «Non preoccuparti, tesoro», disse Tiflis, «quello me lo sto già lavorando. Sto giusto aspettando che mi telefoni.» Aggiunse che c’era anche quell’altro, il frocetto, come si chiamava? Barragán, disse Tiflis buttando giù un bicchiere di Cristal in un colpo. «Già, Barragán.» Susan succhiò un cubetto di ghiaccio. «È un moscerino ma ha debiti a non finire, e senza contare Vargas Vicuña. Non avrà comprato qualcuno dei tuoi collaboratori?» «Impossibile, sono come figli. Tu li conosci.» «E qualcuno dell’albergo? Perché alla fine il furto è avvenuto qui, no? In questo stesso ufficio.» «Sì, ma il problema è che non hanno preso nient’altro. Sopra la carpetta con i documenti c’era una mazzetta di soldi e non li hanno neppure toccati, capisci? Chi è stato qui sapeva cosa cercare.» Susan bevve un sorso di whisky e accese una Pall Mall. Continuò dicendo che il giornalista non le piaceva, e lui rispose di non preoccuparsi, che quel ficcanaso aveva già ricevuto una piccola lezione, e infatti era sparito dalla circolazione, il fratello di Morsita stava controllando la casa e quello non si era rifatto vivo, e poi accennò allo scherzetto della macchina. Susan prima si stupì e quindi scoppiò a ridere. «Davvero?» «Sì, ma resti fra noi...» Gli si avvicinò, appoggiò le labbra all’orecchio di Tiflis e disse: «E riguardo l’impalato?» 150
Tiflis prese la bottiglia di Cristal, ne versò ancora e se lo bevve d’un fiato. Poi si accese una Nacional. «Il ciccione ce l’hanno rubato. Questa è un’altra cosa che non siamo ancora riusciti a chiarire. Qualcuno ce l’ha rubato, giuro, e a un certo punto è ricomparso laggiù, impalato sulla riva del lago.» «Ti confesso, Heliodoro, che in tutto questo tempo ho pensato che fossi stato tu.» «Noi lo tenevamo ben custodito in un magazzino qui a Bogotá. Ma un bel giorno siamo entrati e non c’era. Qualcuno l’aveva portato via.» Susan lo guardò sorridendo. «E chi potrebbe aver fatto una cosa simile?» «Non ne ho idea, ho messo il Burro a indagare ma per ora niente. Te l’ho detto, ultimamente accadono cose stranissime.» Si versò dell’altra aguardiente. «Ma lasciamo perdere per adesso il ciccione e torniamo a noi. Avanti, raccontami per bene come sono andate le cose nel bagno turco. Ma dal principio, tesoro, e senza dimenticare niente.» «Il panico è cominciato quando Alberto, sai?, Cassiani, il direttore, si è reso conto che i terreni di Pereira Antúnez che avevamo in concessione, alla sua morte sarebbero finiti al Distretto perché non c’erano eredi. Quando siamo andati a controllare, Esquilache ci ha detto che la cosa era complicata, quei terreni erano stati inclusi in un nuovo piano regolatore e non sarebbe stato facile tenerseli. E così Alberto ha pensato di suggerire a Pereira Antúnez di lasciarceli. Non a lui ma al club.» «Quello che non capisco è perché Esquilache ne fosse al corrente.» «Più che al corrente: Alberto ha saputo che Esquilache aveva offerto i terreni a qualcuno, a un’impresa di costruzioni. Forse a Vargas Vicuña.» «Sì, può essere», mormorò Tiflis, «perché anche Vargas Vicuña sta dietro ai terreni con un progetto enorme.» «Infatti, Alberto ha deciso di dare battaglia ed è riuscito a fare firmare a Pereira Antúnez un certificato di concessione dei terreni.» «Fin qui lo sapevo.» «Poi la cosa si è complicata, perché Alberto ha creduto che a quel punto tutto fosse sistemato e ha affrontato Esquilache. Quello gli ha messo paura, ha detto che non era legale, che doveva dimostrare che Pereira Antuñez gli 151
aveva firmato la concessione in pieno possesso delle sue facoltà, che con tutti i malanni del vecchio nessun giudice gli avrebbe creduto. Insomma, Alberto ha cominciato a innervosirsi.» «Innervosirsi?» Suonò il telefono. Susan si spostò alla finestra e Tiflis sollevò la cornetta. «Pronto? Sì? Mio caro consigliere, come va... Sì? Più o meno?... Ah, mi racconti com’è andata... Con Runcho? Sì, e... Le hanno riferito il mio messaggio? Ah, bene dottore, allora è per questo che mi ha chiamato... La ringrazio.» Coprì il microfono. Con un cenno chiese a Susan di abbassare il volume e di versargli dell’aguardiente. «Vede, dottore, si immagini che stamattina arrivo in ufficio e scopro che mi mancano dei documenti importanti, sa di cosa parlo? E allora mi sono detto che io, che mi fido sempre degli altri, finisco sempre per sbattere il muso e farmi fregare da tutti, perché più mi fido e più mi fottono, capisce? So che sbagliare è umano, ma comincio a essere stufo che gli altri mi dimostrino continuamente di essere umani, e questo andazzo deve finire. Lei è una persona istruita e per questo preferisco parlarle direttamente... Oggi è martedì? Sì, martedì. Allora guardi, consigliere, l’aspetto sabato qui nell’albergo per pranzare insieme, e le chiedo, questo sì, di portarmi i documenti di cui ho bisogno. Glielo dico perché altrimenti Runchito si fa prendere da un attacco di rabbia e chissà cosa potrebbe succedere a lei e ai suoi familiari, capisce quello che le dico? Se lo annoti bene sull’agenda: sabato all’una qui in albergo.» Con queste parole riattaccò e si concesse un sorriso. «Quello se la sta facendo addosso. Vieni, tesoro, alza la musica e fammi ballare.» «A una condizione.» Lo affrontò con un atteggiamento al tempo stesso fiero e seducente. «Quale?» «Che mi lasci andare via.» «Per ora non se ne parla, mamita», e chiamò Wilber con un fischio per farsi aiutare ad ammanettarla. «Conosci il detto: ti maltratto perché ti amo...»
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VI
Silanpa li vide arrivare dalla caffetteria. La Trooper salì sul marciapiede e tre uomini scesero ridendo. Tanta euforia gli fece pensare che stesse per succedere qualcosa. «Eccoli, guardi», disse a Estupiñán. «Malavitosi, senza dubbio, capo. La faccenda si mette male.» Lasciò Estupiñán a controllare la situazione dalla caffetteria e prese un taxi per raggiungere il giornale. Forse negli archivi avrebbe trovato qualcosa che spiegasse cosa ci faceva quella donna insieme a Tiflis. Lungo il tragitto avvertì un nodo allo stomaco, come se stesse tornando in un posto che pensava di aver abbandonato per sempre. Una volta arrivato, dovette fare uno sforzo per oltrepassare l’ingresso e salire le scale. «Hanno aperto il cimitero», disse Esquivel vedendoselo davanti. «Come va, fratello?» «Bene, bene. Sono venuto a cercare delle informazioni.» I redattori della cronaca e poi quelli delle sezioni vicine cominciarono ad accalcarsi intorno. Gli chiesero come stava, se aveva bisogno di aiuto, cosa potevano fare per lui, se era venuto per lavorare. Lo salutarono con calore, gli rivolsero sguardi cordiali e persino un po’ ammirati, ma Silanpa li sentiva lontani, al di là di un muro invalicabile. Nell’archivio si mise a cercare alla voce «Pereira Antúnez». Trovò l’annuncio funebre che aveva già visto e andò a prendere le copie di quel periodo. Con un fascio di giornali in braccio, si sedette a una scrivania in fondo alla sala, vicino alla finestra che dava sul parcheggio. Guardò il volto di Casiodoro Pereira Antúnez, un uomo dall’espressione bonaria, calvo e con un enorme doppiomento che ricadeva sul nodo della cravatta. Scorse le foto del funerale al Cimitero Centrale, immagini in bianco e nero che non permettevano di riconoscere molte facce. «Amici e parenti dell’industriale danno l’ultimo saluto», diceva la didascalia. Riconobbe Susan accanto a un tipo con i baffi, e anche l’uomo del bagno turco. Andò nell’archivio fotografico e cercò la copia originale, molto più grande. C’era Heliodoro Tiflis, che osservava la scena da dietro in compagnia di quattro persone. Poi altra gente, che non conosceva. Si spostò nella redazione della cronaca mondana. 153
«Víctor, che sorpresa, non sapevo che saresti venuto al giornale», Angela Sanabria aveva una tazza di caffè macchiato accanto alla tastiera. «Mi fa piacere rivederti.» «Volevo chiederti un favore, senti. Ho preso in archivio questa foto, riguarda un tuo articolo sui funerali di Pereira Antúnez. Mi piacerebbe sapere chi sono queste persone.» Le indicò vari volti. «Li conosci?» «Vediamo un po’, aspetta. Sì, questo qui è un consigliere conservatore, si chiama Marco Tulio Esquilache. Questo è un altro consigliere, Carlos Villarín, gli altri non saprei. La signora è Susan Caviedes, un’ex attrice di cabaret, e questo sullo sfondo è Angel Vargas Vicuña, il costruttore. Questi qui sono i direttori esecutivi dell’azienda di Pereira Antúnez e questi i rappresentanti della Hollymoon Inc., un’impresa gringa che faceva affari con lui. Gli altri non li conosco.» «E l’attrice era famosa?» «Non molto. Ogni tanto partecipava a riviste musicali e café concerto nel cabaret Los Andes. Mi ricordo di lei perché ha lavorato con Fanny Mikey, ma un sacco di tempo fa. Credo si sia ritirata dalle scene.» «Grazie mille, Angela.» «Non ti vedo bene, hai la faccia triste.» «È che non riesco a dormire, semplice stanchezza.» «Chiamami uno di questi giorni, che beviamo un caffè insieme.» Lo fissò per qualche istante. «Víctor, ti do un consiglio stupido prima che incontri qualcuno della direzione: togliti la giacca e portala al braccio. Hai una manica scucita, guarda, non te n’eri accorto?» «No, grazie per avermelo detto. Ti telefono. Ciao.» Tornò nella sala dell’archivio con la giacca ripiegata e accese il computer. Era sicuro di aver letto il nome del cabaret Los Andes tra le proprietà di Tiflis. Infatti, c’era. Adesso tutto risultava più chiaro. Andò a sedersi alla sua scrivania per scrivere un articolo che aveva già abbozzato sul taccuino. IMPALATO PER MOTIVI D’INTERESSE? Redazione di Bogotá. Le indagini sul Delitto dell’Impalato, il cadavere senza nome rinvenuto dalla polizia sulla riva del Sisga lo scorso 16 ottobre, sono risultate una complicata trama della quale la polizia non trova 154
ancora il bandolo. Una cosa è sicura, stando a quanto ha dichiarato a chi scrive il capitano Aristófanes Moya, comandante della 40a Brigata di Polizia: «Con gli elementi raccolti fino al momento è possibile dedurre che si tratta di qualcosa di nuovo, senza relazioni apparenti né dirette con gli ambienti tradizionali del crimine capitolino e nazionale, cioè il narcotraffico, i gruppi paramilitari o la guerriglia». Inoltre non viene scartato, secondo le dichiarazioni delle massime autorità, che nel mistero siano coinvolti noti esponenti della società civile e, testuali parole di Aristófanes Moya, «non propriamente dei suoi settori bassi o medi, nei quali, per i tragici motivi che tutti conosciamo, è più frequente la vicinanza con azioni delinquenziali». Può essere, come si deduce dalla dichiarazione riportata, che siamo di fronte a un caso di «delitto per motivi legati a interessi economici», anche se non si scartano nuove direzioni nelle indagini. In ogni modo, la polizia ha già in mano diversi nomi riguardo la possibile identità del corpo rinvenuto, sui quali viene mantenuto il riserbo per ragioni sia di sicurezza che di rispetto verso i parenti della vittima. Lasciò il pezzo pronto sullo schermo con una nota per Esquivel che diceva «Per dopodomani». Poi uscì dalla redazione senza salutare nessuno e si precipitò al laboratorio medico della polizia. «Sì», disse Piedrahíta, «la sabbia che mi ha portato è la stessa che il tipo aveva nell’intestino. Nessun mistero, è semplice sabbia di mare.» «Si può sapere di quale località?» «Presenta tracce di petrolio e benzina. Potrebbe essere di Barranquilla, di Santa Marta, o giù di lì. Non è facile stabilirlo.» Poi andò dal capitano Moya. Lo trovò in piena attività, con le maniche arrotolate e un mucchio di pezzi di plastica sparsi sulla scrivania. Con estrema accuratezza, il capitano stava incollando ogni pezzetto seguendo le istruzioni appoggiate al telefono. Era un modellino in scala della Revell, una corazzata con la bandierina tedesca sul pennone. «Mio caro giornalista», disse il capitano, «erano giorni che non si faceva vedere, eh? Le confesso che stavo pensando l’avessero impacchettato, capisce cosa intendo?» «Ma no, eccomi qui. È una nave della seconda guerra mondiale?»
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«La Graf Spee, vanto della marina tedesca!» disse sgranando gli occhi. «Ha fatto naufragio a Montevideo, si è autoaffondata per non finire nelle mani degli inglesi che l’aspettavano in mare aperto.» «Accidenti, capitano, non sapevo le piacesse la storia militare.» «Sono un collezionista. Quelle degli Alleati le ho già costruite tutte, adesso mi mancano queste per poter riprodurre le battaglie.» Silanpa osservò per un po’ i pezzi della corazzata e le bandierine e insegne che Moya aveva ritagliato e incollato, poi si decise a chiedere: «Volevo sapere come va la faccenda dell’impalato». Il capitano mise in bocca una gomma da masticare, fece una pallina con la stagnola e la gettò nel cestino. «Le cose vanno a rilento, ma vanno...» Rimase in silenzio, lo guardò con un’espressione sorniona e strizzò l’occhio. «Sta registrando?» «No. Al momento seguo il caso per conto mio, il giornale mi ha dato un permesso per andarmene in vacanza da qualche parte, dopo la storia della macchina, ma ho preferito restare.» «Giovane tenace, che diamine, magari fossero tutti così.» «Grazie, capitano. Mi stava dicendo...?» «Sì, che le cose vanno a rilento. Ho messo tre uomini a indagare, ma niente. Il problema dell’informatizzazione ci ha creato qualche ritardo e non abbiamo ancora ricevuto i dossier sulle persone scomparse nel resto del paese.» «Questo sì che è un problema.» «E lei, caro Silanpa, ha trovato qualcosa?» «Poca roba», mentì, inghiottendo saliva e schiarendosi la voce. «In realtà, ho appena cominciato. E riguardo la mia macchina?» «Ecco, in questo caso qualche passo avanti c’è stato. Posso dirle, mio caro, che stiamo studiando le impronte digitali e analizzando il prodotto depositato sul sedile di guida. Che porcata.» «E c’è modo di sapere qualcosa?» «Dunque, ho dedotto che una schifezza di quel genere non poteva essere prodotta senza l’ingestione di alimenti solidi, e per questo ho ordinato di analizzarla in laboratorio. Le giuro che quelli non me lo perdoneranno mai.» «E i risultati?» 156
«È difficile, sembra che sia indubbia l’ingestione di una serie di piatti tipici. Aspetti, ho qui il rapporto.» Aprì un cassetto, prese una carpetta e si mise gli occhiali. «Le leggo l’elenco completo», disse Moya. «Lievito di birra, mais, patate, carne, pomodori... Bene, riassumo e salto all’ipotesi: minestra d’orzo con carne di maiale e midollo, lenticchie, insalata mista e due o tre birre Bavaria. Che gliene pare?» «Non se ne cava niente.» «Ricorda la mafia di una quindicina d’anni fa. Oggi vanno avanti a bombe e colpi alla nuca. Che tempi.» «Prima era così?» «Sì, nessuno si azzardava a uccidere se non per qualcosa di molto grave. Adesso la vita non ha più alcun valore.» «Intende dire che una cosa del genere potrebbe averla fatta qualcuno dei tempi andati.» «Non sono in grado di affermarlo», e si schiarì la voce. «Ma non posso neppure negarlo...» Il capitano prese un’altra gomma e se la mise in bocca con un gesto nervoso. «Mastico queste porcherie per non mangiare. Sa? Sto pensando seriamente all’associazione dietetico-evangelica. Ho saputo che sono devoti al Bambin Gesù di Praga, lo conosce? A quanto sembra è un gruppo molto serio, di grande spessore spirituale. Mi sono detto: se devo cacciarmi in una storia simile, che almeno risulti utile a più livelli, non crede?» «Ha ragione.» «Non mi sono ancora iscritto, ma intanto ho fatto le prove, ho buttato giù una bozza per il discorso di presentazione. Mi piacerebbe fare qualcosa di originale.» «La presentazione davanti al gruppo?» «Esatto. Mia moglie, poverina, insiste tanto che alla fine sta quasi per convincermi.» «Io penso che potrebbe servirle. Gliel’ho già detto, c’è un sacco di gente che lo fa.» «Comunque, intanto che decido, sto facendo una nuova dieta. Si vede?» 157
«Sì, capitano. Mi sembra molto dimagrito.» «Me lo dicono tutti. Credo che stavolta otterrò dei risultati.» «E un’altra cosa, le volevo chiedere, capitano... È vero quel che si dice sulle sue intenzioni di ritirarsi dal servizio?» «Dicono così?» «Be’, lo sa, le solite voci...» «Sono al servizio della cittadinanza da oltre due decenni. Da dove saltano fuori certe scemenze?» Il capitano tentò nuovamente di accavallare le gambe. Ma niente da fare. Guardò Silanpa e strizzò l’occhio. «Quel che è certo è che mi sto preparando a fare un’esperienza profonda. Lo dice il mio oroscopo.» Poi fece un cenno con il pollice verso l’alto, prese un’altra carpetta da un cassetto e si rimise gli occhiali, facendo capire che la conversazione era terminata. In strada, Silanpa tirò fuori il taccuino e scrisse: «La faccenda della macchina è un tiro di Tiflis». Poi fermò un taxi e andò da Estupiñán.
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VII
Una volta appresa la complessa mappa della delinquenza dalla voce e dagli schizzi sulla lavagna del sergente Chumpitaz, il sottoscritto ha finalmente potuto affrontare la strada in pattuglia con un agente che di cognome faceva Montezuma, magro come uno spaghetto e, di conseguenza, l’ideale perché i colleghi ci chiamassero Stanlio e Ollio. Nonostante il carattere timido e riservato, Montezuma aveva un gran cuore ma nei momenti di particolare tensione diventava balbuziente, problema non da poco se si svolge un servizio pubblico. Non ho mai capito, e scusate se mi dilungo su un personaggio secondario, come sia riuscito a nascondere il suo difetto durante l’addestramento che era stato per tutti un periodo di notevoli tensioni. Insomma, un bel giorno, e riprendo il filo del discorso, ci eravamo appena sbafati delle frittelle sull’avenida Jiménez quando abbiamo sentito delle urla. Io, che ero grassoccio ma agile, mi sono precipitato verso il tumulto, seguito da Montezuma. E lì è arrivato il bello, il mio battesimo del fuoco, perché quando stavo per raggiungere il posto ho sentito uno sparo e poi un venticello che mi sfiorava, facendo ffft. Mi sono chinato per non offrire un facile bersaglio, riparandomi dietro un camioncino, con la pistola già in mano. Ho guardato indietro, Montezuma se ne stava accucciato contro un portone e tentava di dirmi: «Qu-qu... quanti sono?» e io, sudando fuori e dentro, gli ho gridato che non lo sapevo, ma dovevamo tentare di avvicinarci. Detto ciò, una raffica di colpi ha polverizzato i vetri del camioncino, piantandosi anche in una macchina dietro di me, e poi un’altra, e stando rasoterra ho visto varie persone uscire correndo da una succursale del Banco Popular. Montezuma voleva dirmi qualcosa ma non riusciva a parlare, così mi sono lanciato verso un taxi che si trovava più avanti e ho sparato diversi colpi. Non vedevo niente, e mentre stavo ricaricando la pistola, Montezuma mi ha raggiunto dicendo: «Hai p-p-preso il v-v-vetro deeeell’auto». E in effetti, i rapinatori stavano cercando di scappare su un’Alpine che aveva i vetri sfondati, così ho sparato altri colpi dicendo a Montezuma di attraversare la strada per prenderli tra due fuochi. A quel punto, li abbiamo tenuti inchiodati lì finché sono arrivati i rinforzi che ci hanno permesso di catturarli.
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Passato il pericolo, mi sentivo le membra congelate, il sudore freddo e un vuoto dentro; i muscoli mi sembravano diventati di vetro. il sergente Chumpitaz si è complimentato con noi, ma quando sono tornato di pattuglia continuavo a provare quella sensazione di vetri rotti nelle vene. Allora ho preso la decisione e facendo finta di niente ho portato Montezuma nei dintorni dello stadio El Campín, e con una scusa ci siamo fermati, ho detto che dopo uno spavento bisognava togliersi uno sfizio, per ritemprare lo spirito. E... sorpresa: io, che provavo vergogna per quanto stavo proponendo, alla fine ho dovuto trattenere il mio collega, perché Montezuma, sebbene magrolino, era un mangione peggiore di me, e si è sbafato quattro porzioni di patate alla creola, sei sanguinacci e due piatti di maiale al forno.
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VIII
Nancy entrò nell’ufficio del registro catastale ancheggiando vistosamente, e consegnò una richiesta di documenti a Baquetica. Nel foglio ripiegato, c’era una banconota da diecimila pesos che Barragán aveva messo per ungere l’impiegato, e Baquetica si sentì felice immaginando tutto quello che avrebbe potuto farci, cose che riguardavano più le parti basse del corpo che non la mente, e tantomeno l’intelletto. Guardò la donna e tentò di nascondere il labbro leporino, fantasticando su come dovevano essere al naturale quei fianchi e quel sedere tondo e sodo. Che femmina, pensò, chi sarà il fortunato che si gode una simile sventola? Accartocciò la banconota e disse che ci avrebbe messo un attimo, di sedersi pure. Nancy guardò le montagne di fascicoli e provò pena per quell’uomo, e al tempo stesso sorrise, orgogliosa di poter aiutare Emilio in qualcosa di importante. Magari, più avanti, se tutto continuava ad andare così bene... Si vergognava a pensarlo, diventava rossa. Lui era sposato, ma non sarebbe stata la prima volta che succedeva una cosa del genere, e di fatto ogni giorno stavano meglio insieme. Nel frattempo Baquetica, che sapeva già cosa cercare, stava tirando fuori i documenti e si chiedeva quale interesse ci fosse dietro, se in meno di una settimana due persone erano venute a chiedergli delle copie. Lui non avrebbe dovuto fornire quel genere di informazioni, lo proibiva il regolamento, ma la sua vita era così piatta e grigia, il lavoro così monotono, che un po’ di movimento non guastava. E se per giunta poteva guadagnarci qualche peso, meglio ancora, in fin dei conti nessuno era mai venuto a controllare quello che faceva e i fascicoli marcivano tra umidità, morsi di topi e tarli. «Ecco qui, signorina, la sua copia. Normalmente queste cose non le facciamo, ma trattandosi di una persona come lei...» «La ringrazio», disse seria, e prese il foglio, lo infilò in una busta e uscì con passo deciso, facendo risuonare i tacchi sulle piastrelle. In ufficio, Emilio l’aspettava ansioso. «E così c’era di mezzo Tiflis», disse allentandosi il nodo della cravatta, con una mano già sotto la gonna di Nancy. «Perdio, questa è una bomba, avrei dovuto pensarlo fin dall’inizio.» 161
Nancy si allontanò dicendogli «Stupidone, se continui così quelle di là se ne accorgeranno». Avrebbe dovuto mettere uno specchio nello studio se ogni volta che entrava lui la spettinava e le scompigliava il trucco. Adesso la faccenda sarebbe diventata più facile. Si trattava di mandare qualcuno a fare una visitina a Tiflis, prendere i certificati di proprietà e consegnarli a Vargas Vicuña. Se spariva l’originale, Tiflis non avrebbe potuto impossessarsene. S’infilò la giacca, s’aggiustò la cravatta e uscì. Da una cabina all’angolo con la Settima, telefonò a Elmer, un ex poliziotto che era stato l’autista di suo padre e aveva contatti con gli ambienti della malavita. Barragán gli spiegò la situazione, chi era Tiflis e quali documenti doveva procurargli. Elmer accettò l’incarico. Tornò in ufficio pieno di entusiasmo. Nancy era alla scrivania, intenta a controllare delle carte. La sollevò abbracciandola, le abbassò i collant e la portò fino al divano. «Mi fai impazzire.» «Non dire sciocchezze, Emilio», e arrossì, felice, pensando che forse sì, perché no... La radio dell’ufficio diffondeva un notiziario. Poi musica e pubblicità. Avevano alzato il volume per poter gridare e così all’inizio non sentirono squillare il telefono. Suonò tre, quattro volte, finché Emilio allungò la mano e rispose. «La faccenda si è messa davvero male, caro mio», la voce di Esquilache tremava. «Siamo in un casino enorme. Ti aspetto al club alle otto.» «È così importante?» «Ti sto dicendo che rischiamo grosso, pezzo di deficiente, non parli la mia lingua? Ti aspetto, punto e basta.» Esquilache riattaccò infuriato e si mise a rimuginare: di quali documenti si trattava? Tiflis era un uomo di poche parole. Un tipo pericoloso. Adesso si sarebbe dovuto muovere con cautela. Gocce di sudore comparvero al di sopra delle labbra, guardò l’orologio con ansia. Mancava un’ora, aveva il tempo di radersi per controllare i nervi. «Spiegami di che si tratta, Marco Tulio», disse Barragán, con un whisky Old Parr in mano. «Non ho capito un accidenti di quello che hai detto.» «Tiflis mi ha mandato i suoi tirapiedi per darmi un avvertimento e mi hanno sfasciato la macchina. Dice che gli hanno rubato dei documenti e che io glieli devo restituire sabato prossimo. Non so quali documenti siano, 162
ma avevo una tale paura che non ho osato contraddirlo. Non avremmo mai dovuto metterci con quel tipo.» Barragán si schiarì la voce, nervoso. Doveva riferire a Esquilache ciò che sapeva? Pensò che qualcuno aveva giocato d’anticipo. Alla fine si decise. «Senti, Marco Tulio, ho fatto dei controlli e ho scoperto che Pereira Antúnez aveva donato i terreni a Tiflis.» «Ah sì?» «I documenti di cui parla dovrebbero essere gli originali dei certificati di proprietà.» «Oh cristo. Che casino. E adesso come facciamo a trovarli?» «Bisognerà scoprire chi li ha rubati.» «Hai qualche idea?» «Il primo che mi viene in mente è Vargas Vicuña», disse Barragán, «oppure quelli del bagno turco. Chi altri potrebbe essere interessato?» Esquilache percepì la calma di Barragán e provò fastidio. Come e perché Emilio aveva fatto quei controlli senza dirglielo? Senza consultarlo? «Razza di cialtrone», disse tra sé. «Abbiamo poco tempo, dobbiamo muoverci in fretta. E sabato ho bisogno che tu venga con me all’Hotel Esmeralda: in questa faccenda ci siamo dentro tutti e due.» «Va bene, Marco Tulio, io collaboro con te, ma ricorda che fin dal principio non mi sembrava il caso di fare affari con quel mafioso.» «Vorresti dire che non ci vieni, pezzo di idiota?» «No, no, Marco Tulio, cerca di capirmi, il fatto è che...» «Attento a quello che fai, Emilio, che se vado a fondo io tu mi vieni dietro.» «Insomma, calmati, domani ci mettiamo a cercare quei documenti e sabato li portiamo a Tiflis, okay?» Si salutarono guardandosi con rabbia. Barragán salì sulla sua Peugeot e partì senza voltarsi. Esquilache lo guardò con diffidenza mentre si allontanava e pensò: «Quel ragazzo ha qualcosa per le mani». Tornò in biblioteca e andò al telefono. Pensò che la soluzione migliore fosse scoprire le carte in tavola e coinvolgerli tutti, così la matassa si sarebbe sbrogliata da sola. 163
«Dottor Vargas Vicuña? Buona sera, mi scusi se la chiamo così tardi, disturbo?» «No, assolutamente. Di che si tratta?» «Volevo chiederle una certa cosa, una faccenda che non ho ben chiara, e ha a che vedere con i terreni del Sisga.» «Mi dica.» «Non ha avuto notizie al riguardo?» «A dir la verità no, stavo piuttosto aspettando che me le desse lei.» Esquilache prese il fazzoletto e si asciugò il sudore. Doveva essere prudente, ricordare che stava parlando con un nemico. «È che, non so, mi sembra che ultimamente succedano cose molto strane. Ho appena avuto un colloquio con Barragán, l’avvocato, e mi pare che lui sappia qualcosa che io non so.» «Non la capisco, Esquilache, non lavorate insieme?» «Ecco, più o meno. Collaboriamo.» «E allora?» «Ho la sensazione che i certificati dei terreni, quelli che non comparivano tra i documenti di Pereira Antúnez, li abbia lui. Credo che li abbia trovati, ma quello che non capisco è cosa intende farci.» Il dottor Vargas Vicuña ebbe un sussulto, ma si controllò. «È sicuro di quello che dice?» «È soltanto un’impressione, ma mi sembra che lui nasconda qualcosa.» «Cosa le ha detto esattamente?» «Pensi un po’, ha saputo che c’era un lascito dei terreni in favore di Heliodoro Tiflis fatto da Pereira Antúnez prima di morire. Una donazione.» «In favore di Tiflis!?» «Sì, si rende conto? Come l’abbia saputo non lo so, certi atti sono riservati.» «E lui cosa potrebbe farci con quel documento?» «Il lascito è una concessione che si fa a favore di qualcuno, ma senza gli originali dei certificati di proprietà Tiflis non può fare niente perché non sono a suo nome.» «Cioè chiunque abbia i certificati può fare quello che gli pare?» 164
«Più o meno, dottore, diciamo che faciliterebbero le cose.» «E non sarà Tiflis ad averli? Se c’è un lascito in suo favore la cosa più logica è che li abbia lui.» «Non credo, Tiflis sembra molto preoccupato.» Esquilache preferì non parlare delle minacce perché non sapeva esattamente che rapporti ci fossero tra il dottore e Tiflis. «Allora bisogna tenere sotto controllo Barragán. Non sarà in combutta con qualcuno?» «È quello che non so. Per questo l’ho chiamata, non gliene ha parlato ultimamente?» Vargas Vicuña si lisciò i baffi. «Ma no, si figuri.» «Allora bisognerà essere prudenti. Io lo vedo domani.» Riattaccarono e Vargas Vicuña si guardò allo specchio con un vago sorriso di trionfo. Barragán non era così inutile come aveva creduto. Magari aveva già i documenti ed era pronto a consegnarglieli. Doveva telefonargli? Era molto vicino a ottenere ciò che cercava e non voleva danneggiare tutto facendo precipitare le cose. Forse la soluzione migliore era perquisire l’ufficio di Barragán. Chiamò l’autista e il guardaspalle. «Ragazzi, stanotte dovete farmi un servizio davvero speciale.» Diede loro l’indirizzo dell’ufficio, le istruzioni per entrare dal retro e una piantina con i punti da ispezionare. «Vuole che ci andiamo subito, dottore?» «No, non c’è fretta. Dopo la partita.» L’intera città era incollata al televisore, seguendo una partita della Coppa Libertadores de América. Ma Esquilache non riusciva a calmarsi, e al terzo Old Parr ebbe la stessa idea di Vargas Vicuña: perquisire l’ufficio di Barragán. Erano passate da poco le nove quando chiamò il suo autista. «Usciamo un momento, Vladimir.» «Dottore, il Nacional ha appena pareggiato, è molto urgente?» «Sì, molto.» «Finirà ai rigori, dottore.» 165
«La seguiremo alla radio in macchina.» Arrivati sotto l’ufficio di Barragán, Esquilache disse a Vladimir di aspettarlo a fari spenti. Entrò nell’edificio e salì le scale silenziosamente, senza neppure accendere la luce. Infilò la chiave e aprì la porta dell’ufficio. Tutto tranquillo. Andò alla scrivania di Barragán e si mise ad aprire cassetti e a controllare documenti usando una pila. Nel primo non c’era niente di interessante, a parte il flacone di Obsession di Calvin Klein, varie copie di Newsweek e un pacchetto di preservativi. Nel secondo c’erano vari documenti con la dicitura «primo semestre»: processi, cause, eredità. Niente di interessante. Andò a controllare nell’archivio della segretaria e neppure lì trovò nulla. Li teneva forse in casa? Continuò a guardare negli scaffali alla parete finché vide, in un contenitore, una carpetta con la scritta «Terreni Sisga». Dentro c’era la fotocopia del lascito in favore di Tiflis. Niente di più. In un’altra, con la dicitura «Conti da saldare» scritta a mano, trovò varie fatture intestate al club: $ 6.023.675 da pagare prima del 15 del mese entrante, $ 3.674.980 per la stessa data. Erano tutte del casinò. In quel momento sentì il rumore di un vetro rotto. Vide un’ombra dietro la finestra, una mano guantata che tentava di afferrare la maniglia dall’esterno. La pila gli cadde sul pavimento e si spense. Ebbe paura. L’avevano visto? Chi poteva essere? Sgusciò lentamente verso la porta e si nascose dall’altra parte, nella stanza delle segretarie. Erano due uomini. Li sentì parlare a bassa voce, dispiegando una piantina. «Tu cerca laggiù, guarda, quello deve essere l’archivio che ha detto il dottore.» Il dottore?, si chiese Esquilache. Forse Vargas Vicuña? Sì, era l’unico a saperlo. E Tiflis? I suoi uomini non lo chiamavano «dottore». Raggiunse la strada pensoso. Se Vargas Vicuña aveva mandato qualcuno significava che neppure lui si fidava di Barragán, quindi non c’era un accordo tra i due. Tirò un sospiro, perché ciò che più lo preoccupava era che Emilio fosse in combutta con il dottore. Che faccenda complicata, dannazione, chi glielo aveva fatto fare di cacciarsi in una rogna simile?
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IX
Estupiñán se ne stava seduto allo stesso tavolo, accanto alla finestra. Quando Silanpa arrivò, c’erano varie tazzine di caffè vuote e tre involucri di Chocorramo accartocciati. Con il calare della notte il traffico era un po’ diminuito. «Adesso dobbiamo fare un lavoretto piuttosto difficile», disse Silanpa. «Una faccenda complicata.» «Di che si tratta, capo?» «Dobbiamo verificare se il corpo seppellito al Cimitero Centrale sia quello di Pereira Antúnez.» «Intende dire... infilarsi nel cimitero?» «Stanotte stessa. Su, andiamo.» Estupiñán aveva dentro una domanda che premeva per uscire, ma non riuscì a trovare le parole. Quindi rimase in silenzio e si limitò a scrutare l’oscurità sull’avenida 26, i ponti che scorrevano sulla sua testa, e alla fine tremò vedendo il lunghissimo muro del cimitero. Il tassista li guardò con curiosità quando scesero davanti a quel posto così insolito, ma loro fecero finta di niente e attraversarono frettolosamente l’avenida. Soffiava un vento gelido ed entrambi alzarono il bavero della giacca. La strada dei fiorai era ancora più buia. L’unico segno di vita, di fronte alle montagne di detriti e immondizia, era una porta illuminata da un lampione. A quel punto Estupiñán sentì che con la paura e il freddo la sua mente si schiariva e così la, domanda affiorò: «Come entriamo, Silanpa?» «Venga con me che glielo faccio vedere, e prenda fiato perché la faccenda sarà molto dura.» Aprirono la porta ed Estupiñán rimase sorpreso: si trovavano nella cantina dei becchini. Le pareti erano ricoperte di scritte e annunci funebri, persino disegni che rappresentavano le porte del cielo e dell’inferno. Da un vecchio giradischi provenivano le note di La cavia de piedra. Dietro il
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bancone un cartello indicava il nome del locale: Bar Caffetteria El Más Acá.* Seduti sugli sgabelli, vari uomini con la mantella nera bevevano birra tra le mosche e il fumo. Un forte odore di detergente e grasso freddo li nauseò. Silanpa invitò Estupiñán a sedersi e andò al bancone, parlò con la proprietaria e tornò con due Bavaria in mano. «Lei ci aiuterà.» Estupiñán ancora una volta rimase senza parole. I clienti li guardavano incuriositi e lui non si azzardava a muoversi. Sentiva mormorii e risatine soffocate. Dopo un po’ la signora li chiamò. Si alzarono lasciando le birre intatte e uscirono dalla porta sul retro sbucando in un cortile ingombro di lapidi rotte, vagamente illuminato da una lampadina che penzolava da un filo. A un tratto Estupiñán fu sul punto di cacciare un urlo: un uomo sfigurato dalla lebbra, con un grumo di carne al posto del naso, tese loro la mano. Indossava una mantella di plastica che gli arrivava fino alle caviglie e in testa un berretto da notte nero di sporcizia. «Non si spaventi, signore», disse il tipo a Estupiñán, «può tranquillamente stringermi la mano perché la lebbra non è contagiosa. Per di più, me la stanno curando all’Istituto Federico Lleras, e se la cosa può metterla a sua agio, sappia che anche a me fa schifo guardarmi, ma che posso farci?» Silanpa strinse le dita monche e inghiottì la saliva. Estupiñán era bianco come la carta. «Vi accompagna lui, sono diecimila pesos», disse la signora. Silanpa infilò la mano in tasca e tirò fuori i soldi. L’uomo afferrò un piccone e una pala e attraversò la strada senza dire altro. Camminarono lungo il muro del cimitero fino a una baracca di legno dove il lebbroso si fermò per cercare una chiave in un grosso mazzo. Aprì ed entrarono. L’uomo accese una pila e scostò alcuni cartoni che nascondevano un’apertura nel muro. Chiese che tomba cercassero e poi si portò il moncherino dell’indice alle labbra per raccomandare il silenzio. Entrarono attraverso il varco della parete e il tipo s’incamminò senza fare altre domande.
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L’aldiqua (contrario di el mas alla, l’aldilà). (N.d.T.)
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«Questo è peccato, capo», disse Estupiñán con i denti che battevano e la voce incrinata. «Infilarsi in un camposanto di notte è un peccato mortale e un reato. Se ci prendono ci sbattono dentro.» «Coraggio Estupiñán, facciamo in un momento.» Un piccione spiccò il volo spaventato dal rumore dei passi ed Estupiñán fece un salto. «Mi si sta rivoltando lo stomaco, capo, non sarà meglio che l’aspetti fuori?» «Va bene, ma in tal caso dovrà tornare indietro da solo.» «Allora no...» Estupiñán si contrasse. «Mi sento pieno di gas.» «È la paura, cerchi di controllarsi.» L’uomo si fermò e prese a dare picconate ai bordi di una lussuosa lapide su cui si leggeva «Casiodoro Pereira Antúnez». La sollevò e una zaffata di terra umida arrivò alle loro narici. Gettò il piccone da una parte e impugnò la pala mettendosi a scavare. «Io non ce la faccio, capo.» Un colpo secco annunciò la presenza della bara. «Vuole che le tiri fuori la salma o preferisce prima dare un’occhiata?» «Soltanto un’occhiata, grazie.» «Io neanche quella», disse Estupiñán. «Mi sento mancare.» Rimosse i chiodi con un piede di porco e sollevò il coperchio. Estupiñán lanciò un urlo di orrore, si fece il segno della croce e tese il dito. «Ma... è Osler!» Davanti ai loro occhi era comparso un volto verdastro, illuminato dalla pila. Aveva capelli e unghie lunghi. Silanpa non sapeva cosa fare vedendo la faccia addolorata di Estupiñán. «È mio fratello!» esclamò sul punto di scoppiare a piangere. «Noo... questa lurida storia mi sta facendo a pezzi.» Indietreggiò con la bocca scossa da un tremito e si lasciò cadere sul muretto di un mausoleo. Silanpa rimase in silenzio, rispettando il raccoglimento di Estupiñán. Dopo qualche minuto si avvicinò. «Le sono vicino, Emir. Che brutta cosa averlo dovuto scoprire così, in un modo tanto brutale.» 169
«Era l’unico parente che avevo, capo. Grazie per quello che ha detto.» «Comunque, lei mi ha raccontato che vi vedevate raramente.» «Tra fratelli non c’è bisogno di vedersi spesso. Io, finché sapevo che lui era in giro, non mi sentivo solo.» Estupiñán nascose la faccia tra le mani e chiuse gli occhi. Silanpa lo fece piangere sulla sua spalla e lo sottrasse allo sguardo freddo del lebbroso. «Mi scusi, capo», la voce di Estupiñán si mescolava ai gemiti. «Non dovrei piangere, lo so, ma il fatto è che mi sento in colpa per non averlo visto più spesso.» «Deve essere forte, Emir. Nella vita certe cose succedono tutti i giorni e ogni tanto ci toccano. Si sfoghi pure, pianga. Quando muore una persona cara è giusto piangerla.» I due uomini rimasero abbracciati nel buio per un po’. Estupiñán si asciugava continuamente le lacrime finché non si rese conto di aver smesso di piangere, e le gocce che gli scorrevano sulla faccia erano di pioggia. «Mi permetta una domanda, capo: lei è cattolico praticante?» «No, non ci sono mai riuscito.» «Allora, chiedo scusa...» Si gettò in ginocchio davanti alla tomba, unì le mani e chinò la testa per pregare. Silanpa rimase indietro, in silenzio, e il lebbroso, che all’inizio li guardava senza capire, lasciò la pala e andò a inginocchiarsi accanto a Estupiñán. Silanpa osservò le due figure. Provò vergogna per non essere in grado di consolarlo in quel momento di dolore e si chiese se c’era, ancora al mondo qualcuno che lo considerasse insostituibile. Sarebbe stato un conforto crederlo, immaginare che la sua presenza fosse ancora in grado di illuminare l’esistenza di qualche persona. Moníca se n’era andata via, così pensò al suo manichino di donna, ai biglietti con le frasi scarabocchiate... Avevano forse portato via anche quella? Lo tranquillizzava pensare che almeno lei non poteva soffrire. I due uomini si alzarono. «Adesso può richiudere», disse Silanpa al lebbroso. «Non volete prendere qualcosa per ricordo?» chiese con un sorriso che si indovinava a malapena nella cavità deforme della bocca. «Non sapevo che fosse un parente.» 170
«No, grazie.» Silanpa mise un braccio sulla spalla di Estupiñán e gli indicò la tomba. «Stiamo seppellendo suo fratello. Quelle palate di terra e quella bara che scompare sono per lui.» «Sì...» e riprese a singhiozzare. «E lei è qui per non lasciarlo solo...» «Sì, sì.» Estupiñán si chinò a raccogliere un pugno di terra e lo gettò sul feretro. Poi tracciò alcune parole sul marmo: «Qui giace Osler Estupiñán». Raccolse dei fiori dalle tombe vicine, li depose e scrisse ancora: «Da parte di suo fratello». Uscirono dal varco nel muro e si incamminarono nel buio, nella notte deserta. Estupiñán sembrava riprendere fiato. A metà strada sentirono la voce del lebbroso. «Scusate se vi dico una cosa, un momento, per favore...» Li raggiunse trotterellando. «Io sarò quello che sono, ma ho un nome. Visto che non me l’avete chiesto ve lo dico io: mi chiamo Jaime Bengala. Ricordatevelo bene, Jaime Bengala.» «Ci scusi, signor Bengala», disse Silanpa. «È che per la commozione uno dimentica le cose più importanti.» «Mi succede sempre, ma con voi non volevo lasciare perdere. Non dovete scusarvi.» «Le sono grato per aver pregato con me, signor Bengala», disse Estupiñán imbarazzato. «La ringrazio davvero. Il morto era mio fratello e gli volevo molto bene. La sua compagnia mi è stata di conforto.» «Ricordatevi che siete stati con Jaime Bengala. La signora non mi presenta mai, non mi lascia neppure entrare nel locale perché gli spavento i clienti. Ricordate, Jaime Bengala.» «Lo ricorderemo.» Il lebbroso riabbassò gli occhi e si voltò incamminandosi verso il fondo della strada. Estupiñán e Silanpa si guardarono. Poi raggiunsero l’avenida senza scambiare una parola.
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«Dunque hanno sepolto mio fratello al posto di Pereira Antúnez», disse a un tratto Estupiñán. «Adesso capisco perché era sparito.» «Il che conferma che il corpo del lago è di Pereira, no?» «Lei è proprio in gamba, capo.» «Però resta da scoprire la cosa più difficile: chi ha organizzato tutta la faccenda.» «Ah, certo... E l’avverto: per me è diventata una questione personale, adesso devo mettere le mani su chi ha ammazzato mio fratello, capisce? Anche se dovessi rimetterci la pelle.» «La capisco, Estupiñán. Lei lo prenderà e si farà giustizia. Ne ha tutto il diritto.» «Che situazione assurda. Una tragedia simile, e di colpo ho trovato un motivo per andare avanti.» Rimasero di nuovo in silenzio. Poi Estupiñán fece schioccare le dita e si fermò. «Lei si preoccupa dell’assoluto, capo?» «Non so a cosa si riferisca.» «Neanch’io lo so bene», disse Estupiñán riprendendo a camminare. «Ho un vicino cinese che fa meditazione, il dottor Lung Mo. L’altro giorno l’ho incrociato sulle scale e mi ha chiesto: ‘Lei si pleoccupa dell’assoluto, signol Estupiñán?’ Io non ho saputo cosa rispondergli perché non so cosa sia l’assoluto. Pensavo che lei lo sapesse.» «Dev’essere qualcosa di molto complicato. Arriviamo fino alla Settima, di sicuro laggiù troveremo un taxi.» «L’assoluto, l’assoluto...» continuò a farfugliare Estupiñán. Le ombre dei due diventavano sempre più lunghe fino a perdersi in direzione del centro. Passavano poche auto. Un branco di avvoltoi rovistava tra una montagna di spazzatura.
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X
Esquilache arrivò nel bar Condal poco dopo la mezzanotte e chiese un whisky sour al banco. Aveva le tempie bagnate di sudore, gli tremava la mascella e il cuore rimbalzava in petto come una palla di gomma. Guardava il soffitto e aveva la sensazione che qualcosa tra le ombre si burlasse di lui. Si sentiva tradito. Sapeva bene cosa volesse dire, solo che stavolta era toccato a lui ritrovarsi per forza nel posto in cui nessuno avrebbe voluto essere. La macchina distrutta da un energumeno mafioso, la carriera politica in pericolo, e forse persino la sua vita. Sì, quello era il sapore del tradimento. Una nube vischiosa fluttuava intorno a lui. «A che gioco starà giocando quella carogna?» pensò, intravedendo nello scintillio dei bicchieri lo sguardo da gatto di Barragán. «Sarebbe capace di fottermi sistemando le cose per conto suo? No, Emilio non ha abbastanza fegato. O meglio, il fegato sì, ma non le palle, quel pezzo d’imbecille. È sempre stato un bambino viziato. Viziato da me. Ma da ora in avanti le cose cambieranno... Sabato devo portare quei documenti a Tiflis, e dove diavolo li tiro fuori?» Ordinò un altro whisky sour, indicando al barman la bottiglia di Jack Daniels. «Forse sarebbe meglio far prendere un bello spavento a Emilio, dirgli per esempio che Tiflis crede che i documenti li abbia lui. Così se la fa addosso dalla paura, chiederà aiuto e mi racconterà tutto quello che sa piagnucolando e giurando di non rifarlo mai più.» In fondo, su un piccolo palco, un gruppo jazz suonava brani di Charlie Parker. «Ciò di cui ho bisogno è sapere che accidenti sta facendo Emilio, con chi se l’intende e quali sono gli accordi. Se pensa di fregarmi, ne uscirà con le ossa rotte.» Esquilache bevve il secondo whisky sour lentamente, alternando ogni sorso con un lungo tiro di Marlboro. Era rimasto impressionato dai debiti di Barragán. Completamente rovinato. Ecco il motivo della sua disperazione e di quel comportamento da idiota. E, forse, del tradimento. Bisognava muoversi con cautela. La situazione era delicata: se non riusciva a fornire i terreni a GranCapital avrebbe dovuto risarcirli con favori politici, e questo gli faceva più paura ancora perché adesso indagavano su chiunque. Lui sapeva bene chi c’era dietro GranCapital e con quella gente era meglio non 173
scherzare. Trovò rabbia per Tiflis, rabbia per non aver scoperto in tempo ciò che adesso sapeva: era lui a tenere i terreni sulla punta delle dita. Se quello stronzo di Emilio gli avesse detto la verità fin dall’inizio, avrebbe potuto sistemare le cose. Arrivare a un accordo. Giunti a questo punto, era fottuto. L’indomani chiese alla segretaria di passargli la comunicazione. «Marco Tulio, ti sembra l’ora? Non sapevo che andassi in ufficio così presto.» Barragán si stava radendo nel bagno di casa sua. Il vapore della doccia aveva appannato lo specchio. «Ascoltami bene, pezzo d’idiota. Tiflis mi ha appena telefonato per dirmi che tu gli hai rubato i documenti, e adesso vieni qui e mi racconti tutto.» «Cosa!?» «Hai sentito bene, e sai che con Tiflis non si scherza. Ti sei cacciato in una rogna bella grossa, e se non vuoi che qualcuno ti tagli le palle lascia perdere il rasoio e vieni qui al volo, ti aspetto entro mezz’ora.» Esquilache riattaccò e Barragán rimase paralizzato dalla paura: i certificati di proprietà? Era una menzogna, lui possedeva solo delle copie che non servivano a niente, come aveva fatto Tiflis a sapere dei suoi maneggi all’ufficio del catasto? Oltre a lui ne era al corrente solo Nancy, e quella non sapeva niente dell’intera faccenda. Doveva essere una sparata di Esquilache, ma mentre cercava di convincersi di ciò la paura gli entrava in corpo come la lama di un coltello. Catalina, con una vestaglia blu e verde, entrò in bagno. «La colazione è pronta, amore mio, e i bambini stanno preparando la cartella in attesa che li accompagni.» Si spogliò mentre lui si sciacquava la faccia. Nello specchio vide l’immagine di un volto pallido. «Non posso accompagnarli, tesoro. Ho appena parlato con Marco Tulio e devo andare subito nel suo ufficio.» «Voi due lavorate troppo, e poi perché così presto?» disse infilandosi sotto la doccia. «Non fa niente, li accompagno io. Ma devi dirglielo, lo sai che a loro piace andarci con te.» Barragán uscì dal bagno, si vestì in fretta e furia e andò a parlare con i bambini. «Sabato andiamo in campagna e affittiamo dei pony, va bene?» 174
Uscì di corsa e, sgusciando nel traffico del mattino, riuscì a raggiungere l’ufficio di Esquilache prima delle nove. «Il mattino ha l’oro in bocca, giovanotto.» «Spiegami cos’è questa stronzata che io avrei i documenti.» «Così mi ha detto il nostro caro malavitoso. È stato fin troppo chiaro: ‘La cosa le risulterà facile, mio caro consigliere, perché ciò che a me manca lo ha il suo protetto’. Queste sono state le sue testuali parole.» Barragán andò verso la finestra. «Non è possibile. È una menzogna. Come diavolo potrei averli io? Se li avessi te l’avrei già detto.» «È proprio di questo che volevo parlare. L’altro giorno mi hai chiesto di essere chiaro e io lo sono stato. Adesso tocca a te. Allora, a che gioco giochiamo?» «Non c’è niente da chiarire. Io sono solo andato nell’ufficio del registro catastale per vedere a chi erano intestati i terreni. Tutto qui.» «Questo è illegale, come ci sei riuscito?» «Ho i miei agganci, Marco Tulio, come tutti.» «Va bene, non girarci tanto attorno. Continua.» Esquilache si tirò i pantaloni al di sopra della pancia. «Ho voluto controllare, pensavo fosse la prima cosa da fare. Immaginavo che i terreni risultassero ancora intestati a Pereira Antúnez e se lui avesse fatto qualche cambiamento, doveva risultare. Ecco perché ci sono andato. Una volta verificato questo, il resto sarebbe stato più facile, no?» «E invece le cose per te si sono complicate, mio caro... Adesso che gli vai a raccontare a Tiflis? Ti ricordo che non si tratta di una personcina delicata. Vai giù a vedere com’è ridotta la mia macchina.» «Allora dovrò dirgli la verità. Io non ho i documenti originali, se vuole può perquisirmi la casa e l’ufficio. Non ho niente da nascondere.» «Non mi stupirebbe se lo stesse già facendo.» Emilio pensò ai bambini, a Cata. Li aveva messi in pericolo? «Non dire così, Marco Tulio. Sabato gli spieghiamo bene l’intera faccenda e ci mettiamo dalla sua parte.» «Dicendo ‘ci’ intendi tu e io?» «L’hai detto tu stesso che in questa storia ci stiamo insieme.» 175
«Sì ma... è proprio qui che volevo arrivare. Se te ne vai in giro a sistemare faccende per conto tuo, allora non possiamo più dire di starci dentro insieme, mi spiego, razza di cialtrone? Se giochi sporco con me non puoi pretendere che resti con le mani in mano. Nooo, caro mio.» «Io giocherei sporco? Non so di cosa parli.» Emilio si grattò la testa. Esquilache lo fissava con una certa soddisfazione, come un cacciatore che guarda la preda intrappolata. «L’unica cosa chiara è che sei fottuto, caro mio. Totalmente fottuto. Per dirla in maniera popolare: sei nella merda fino alle orecchie.» «Quello che dobbiamo scoprire, Marco Tulio, è chi ha rubato i documenti. E subito.» «E cosa proponi? Per Tiflis la faccenda è già chiarita.» «Credi a Tiflis? Credi davvero che ti stia tradendo?» «I filosofi greci, mio caro, dicevano che il tradimento è una componente dell’anima, come l’amore o l’amicizia. Non c’è bisogno di grandi studi, per capirlo... Prendi Giuda, per esempio: il tradimento è alla portata di qualsiasi imbecille. La lealtà è più difficile. E sai cos’altro dicevano i filosofi?» «Marco Tulio, per favore...» «Rispondi, pezzo di coglione!» «No, non lo so.» «Che si tradisce soltanto chi ti è vicino. È la storia del cane che morde la mano che gli dà da mangiare, mi segui?» «Non so dove vuoi arrivare.» «Mao, che era un furbone, diceva cose azzeccate, e una volta ha detto che chi attacca l’imperatore non ha paura di morire squartato.» «E cosa c’entra Mao con Tiflis?» «Che secondo entrambi tu sei fottuto. Ecco cosa c’entra.» «Cominciamo dall’inizio. Quello che bisogna fare è andare all’ufficio del catasto e chiedere chi altri si sia interessato alla questione, no? Questa è la prima cosa. La seconda è che tu mi creda, del resto che motivi avrei per voler risolvere tutto da solo?» «Sono venuto a sapere certe cosucce... Per esempio, che al club bevi come una spugna.» Emilio sentì il sangue che gli montava alla testa. 176
«Sono faccende private, Marco Tulio, mi stai forse spiando?» «È sempre bene sapere come se la passano gli amici, non credi?» «Questa discussione non ha senso», disse Emilio infilandosi la giacca. «Andiamo al catasto e cominciamo a vederci chiaro. È l’unica cosa utile.» «Bene, sono contento che ti cominci a funzionare quella testa vaporosa che ti pettini in continuazione.» Uscirono. Tre studentesse universitarie che passavano lanciarono lunghe occhiate a Emilio sorridendo e lui rispose con sguardo da seduttore. «È questo che ti fotte», disse Esquilache, «pensi troppo con l’uccello.» Baquetica stava finendo un cruciverba quando li vide entrare. Si alzò e andò allo sportello pensando «fiume tedesco di quattro lettere?» Esquilache mostrò il tesserino da consigliere e lo apostrofò: «Siamo venuti a sapere, giovanotto, che lei fornisce informazioni confidenziali a privati». Baquetica impallidì. Qualcuno se l’era cantata. «No signore», disse, «è una volgare calunnia.» Si lisciò i baffi che nascondevano il labbro leporino ed evitò lo sguardo di Esquilache. «Mi guardi negli occhi, che la faccenda è molto seria!» «La sto guardando, dottore.» «E allora mi dica la verità se non vuole ritrovarsi domani stesso a leggere gli annunci di lavoro.» «Chieda pure, dottore.» «A chi ha dato informazioni riguardo gli atti di proprietà in questi ultimi giorni?» Baquetica, balbettando, si vide già in mezzo a una strada. Era fregato. Lo avevano scoperto. «E sia sincero, perdio! Se mi dice tutto potremmo anche dimenticare l’intera questione.» «Ecco, dottore, sì...» «Sì cosa!?» sbraitò Esquilache. «Sì, insomma, devo confessare che l’ultima è stata una signo... una signorina.» «E chi era questa signorina!?» 177
«Ecco, per la verità dottore...» Barragán si avvicinò all’orecchio di Esquilache e mormorò: «Era la mia segretaria, quella non conta». «Va bene, e a chi altri!?» Baquetica riprese a lisciarsi i baffi. Guardò verso le ragnatele del soffitto e parlò piano. «Dunque... qualche giorno fa è venuto anche un giovane. Un giornalista.» «Chi? Un giornalista di cosa?» «Un tipo dal cognome strano. Lavora per ‘El Observador’.» «Ah, e cosa le ha chiesto esattamente?» «La stessa cosa della signorina, una copia dell’atto di donazione di alcuni terreni del Sisga.» «Come si chiama?» «Non mi ricordo, dottore, ma se lo rivedo posso riconoscerlo.» «Le do tre secondi per ricordare il nome, pezzo d’idiota, in caso contrario prenda i suoi stracci ed esca con noi!» «Aspetti dottore, mi pare di ricordare... Si chiama Silamba.» «Silamba?» «Sì, dottore.» «Me lo scriva su questo foglio.» Uscirono. Baquetica tirò un sospiro di sollievo e andò in bagno a sciacquarsi la faccia. Se ne erano andati senza chiedergli una copia del documento, né una confessione firmata, o una dichiarazione solenne con la promessa di non commettere più il reato di... Si chiama forse abuso? Dolo? O magari corruzione? Ormai non ricordava più le nozioni di giurisprudenza, e mentre si scervellava un’altra parola affiorò alla sua mente: Reno. Fiume tedesco di quattro lettere. Si asciugò la faccia e andò di corsa a scriverla nel cruciverba.
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XI
Ci sono giorni in cui vediamo tutto nero, ma così nero... proprio come dice la poesia, e scusate se mi lascio un po’ andare, gentili amici, ma quello che sto per raccontarvi ha un che di lirico. Una volta ottenuti i gradi di caporale, e continuando la routine del lavoro di pattugliamento con Montezuma, cominciai a conoscere la realtà di questa città dal di dentro, dai suoi vicoli più oscuri e malfamati. Ma andiamo subito al sodo: stavo percorrendo con Montezuma la 30, lui leccava un gelato alla guanábana e io mordicchiavo una pannocchia abbrustolita comprata dalle parti dello stadio, quando abbiamo sentito delle urla. Ho portato la mano alla fondina e sono uscito di corsa verso il parapiglia, con il mio compagno dietro, e arrivati lì abbiamo visto una Chevrolet Sprint ferma in mezzo all’avenida e una signora che gridava che le avevano portato via la collana. La signora strillava indicando un tipaccio che in quel momento stava raggiungendo il marciapiede opposto. Ho fatto un cenno a Montezuma e gli siamo corsi dietro, io da una parte e lui dall’altra, fino al ponte della 57. Lì il tipo, che era un energumeno cencioso e scalzo, ha cercato di nascondersi dietro un pilone di cemento, ma io sono riuscito a scorgerlo e gli ho urlato di venire fuori. Gli ho puntato contro il revolver per mettergli paura, perché con certi matti non si sa mai. Montezuma gli ha sbarrato il passo dall’altra parte del ponte e lui ha provato a nascondersi, ma vedevamo una ciocca di capelli e potevamo addirittura sentirlo respirare, dato che ansimava per la corsa. Gli ho intimato una seconda volta di venire fuori e abbiamo cominciato ad avvicinarci, ma arrivati a pochi passi quello ha fatto un balzo, dando una spinta a Montezuma per poi lanciarsi di corsa verso l’avenida. Mi sono voltato di scatto, ho sentito la frenata di un autobus e l’unica cosa che ho potuto vedere era un mucchio di stracci sotto le ruote. Non vi descrivo nei dettagli il resto, vi dico solo che la pozza di sangue attraversava la strada fino a colare in un tombino. L’autista dell’autobus è sceso bianco come la carta dicendo che non aveva fatto in tempo a frenare, che non era colpa sua, e con Montezuma ci è toccato infilarci sotto per tirare fuori quel che ne restava. E non era granché. La ruota gli aveva spiaccicato la testa e un braccio. Tentando di tirarlo via è comparsa l’altra mano e fra le dita c’era la collana della signora. Una collanina di perle. Montezuma l’ha restituita alla proprietaria che ci aveva raggiunto tappandosi la bocca con la mano, terrorizzata per quanto 179
era successo. Il tipo avrà avuto una ventina d’anni. La testa sembrava un uovo schiacciato sull’asfalto, e io ho provato una tremenda nausea. Sono venuti a raccogliere il cadavere e Montezuma, pallidissimo, si è messo a parlare e non la finiva più. Il poveretto sparava a raffica una frase dietro l’altra, senza che io riuscissi a capirlo. Saltava da un panettiere che vendeva ottime ciambelle dalle parti di Tulcán a una fidanzata della pianura che aveva una volta e poi al cane di suo nonno, e così di seguito... Vi confesso di aver pensato: «Ma questo non era balbuziente?» Con lo shock era successo qualcosa, qualche filo aveva fatto contatto. Anch’io mi sentivo male, con una sensazione di nausea in bocca, e quando siamo arrivati al comando e sono andato a comprare della cioccolata al negozio vicino non mi è riuscito di mangiarla, mi tornava davanti l’immagine di quel ragazzo maciullato, che grondava sangue dalla testa spappolata. Mi sono ricordato di quando ero bambino e ho pensato: «Mi si è chiuso lo stomaco un’altra volta, guarda che roba».
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XII
Arrivati a casa di Estupiñán, Silanpa si bloccò sulle scale. «Venga, capo. Avanti. È modesta, ma dignitosa.» Silanpa fece segno di no con la testa. In strada stavano insieme, ma dietro quella porta c’era l’altra vita di Estupiñán, e sentiva che dovevano separarsi lì. «Grazie, Emir, ma non posso.» «La smetta di fare l’orgoglioso, dove andrà a dormire?» «Non si preoccupi per questo, buona notte.» All’angolo fermò un taxi e chiese all’autista di dirigersi a nord, mentre lui cercava un indirizzo nell’agendina: Oscar Quintas. Era scritto con la calligrafia di Moníca. «Alla 19 angolo con la 106, per favore.» «Subito, capo.» Voleva vederla, fosse anche da lontano. Doveva constatare che continuava a esistere, che l’immagine conservata nella mente e che lo faceva soffrire, aveva una vita propria al di là della nostalgia. Avvicinandosi al posto sentì panico e si disse che forse, con un po’ di fortuna, poteva anche dirle un paio di frasi sincere. In fondo, le parole erano lì pronte ad aiutarlo. Scese all’angolo e si incamminò sul marciapiede opposto. Vide le luci e qualche auto parcheggiata. Un piccolo giardino nascondeva le finestre del primo piano, così si avvicinò a quella che dava nella sala. E la vide. Indossava un vestito nero che le lasciava le spalle scoperte e portava una bellissima collana. Accanto a lei, Oscar riattizzava le braci nel camino, e poco più in là un tizio stava raccontando qualcosa agitando le mani, sicuramente una divertentissima barzelletta. Gli altri ridevano. Una pioggia leggera cominciò a bagnare il giardino ma Silanpa non si mosse. Inzuppato, con la faccia incollata al vetro, la vide alzarsi e andare in cucina e, un minuto dopo, ricomparire con un vassoio pieno di antipasti e un’altra bottiglia di vino. Viveva con lui? Era tardi. Aveva la giacca fradicia e le gambe addormentate. La pioggia ammorbidiva la terra e le scarpe stavano sprofondando nel fango. Doveva 181
suonare il campanello e tentare di parlarle? Gli girava la testa. A un tratto pensò che forse non lo avrebbe respinto, magari, vedendolo, le sarebbero brillati gli occhi come un tempo, e allora tutto sarebbe stato possibile. Ma si sentì troppo lontano da quelle figure che bevevano vino. Le guardava come si guarda la felicità altrui dal buio di un cinema. Strascicò i piedi fino alla porta e alzò il braccio senza convinzione. Il suono del campanello gli perforò i timpani. Un attimo dopo un’ombra comparve davanti a lui. La faccia di Oscar si scompose in un’espressione strana e Silanpa ebbe a malapena la forza di guardarlo. Non riuscì a dire niente. Abbassò gli occhi imbarazzato e, rialzandoli, si rese conto che Oscar non c’era più. Sentì la musica e un rumore di tacchi che gli fece balzare il cuore in petto. Era lei. «Víctor, che succede?» La fissò negli occhi ma non poté parlare. «Sei tutto bagnato e sporco di fango, e come ti sei vestito? Sembri un mendicante.» La voce non gli usciva dalla gola e, ormai sconfitto, si asciugò le lacrime con la manica. «Parla, di qualcosa... Che ti succede?» Dalla testa scivolavano gocce che si infilavano nel collo della camicia dandogli una gelida sensazione di abbandono. Raccolse tutte le forze per dire: «Perdonami. Non so perché sono venuto qui». Si voltò e fece per raggiungere la strada, ma stavolta la mano di Moníca lo afferrò per la spalla. «A te è successo qualcosa... Vieni dentro, sta piovendo.» «Volevo soltanto vederti, adesso me ne vado.» «Non te ne vai di qui finché non mi dici cosa sta succedendo.» «No, lascia perdere. Non è bello ricomparire così.» «Siamo stati insieme, Víctor, non dire scemenze. Aspettami un momento, prendo le chiavi della macchina e andiamo a parlare da un’altra parte.» Quando la vide sparire nel corridoio sentì un forte impulso, un insopprimibile desiderio di essere lontano da lì, di fuggire da quella strana casa dove Moníca riceveva gli amici, dove dormiva e studiava e forse viveva. Indietreggiò fino a raggiungere il cancelletto e ritrovatosi sul marciapiede si mise a correre a rotta di collo. Arrivato sulla 19 riprese fiato e si mise a 182
cercare un taxi. Era tempo di tornare dall’altra parte di Bogotá, di rientrare in quell’altra vita dove le cose erano amare e reali. Il pacchetto di sigarette era bagnato. Ne prese una e provò ad accenderla. Niente taxi, era quasi mezzanotte. Che fare? Pensò di andare da Quica, dormire con lei in qualche albergo del centro e poi riprendere con le indagini, il suo posto di vedetta davanti all’Hotel Esmeralda e le chiacchiere con Estupiñán. Gli sarebbe piaciuto essere con lui, consolarlo per la morte del fratello e cercare così, in silenzio, una consolazione per se stesso. A un tratto una Renault 12 gli frenò accanto. Un’ombra scese di corsa e si gettò tra le sue braccia. Era Moníca. «Tu non mi pianti così con le chiavi in mano. Non mi devi fare certe stronzate.» Pianse a lungo sulla sua spalla. Poi si accorse che anche lei stava piangendo. «Andiamo nel mio appartamento», disse spingendolo dentro l’auto. «Dovrebbe esserci rimasto qualcosa di tuo, che non ho ancora buttato via. Conciato così fai pena. E comunque voglio che mi spieghi questa storia che saresti in pericolo di morte.» «Credo di aver esagerato.» «Forza, andiamo. Me lo racconti dopo.» Entrati nell’appartamento, Moníca andò subito in bagno e aprì i rubinetti della vasca. «Fai un bel bagno caldo, altrimenti ti prenderai un malanno. Io intanto ti preparo un’agua de panela.»* Il profumo di bucce di frutta, la luce e l’ordine regnante nella casa rendevano ancor più evidente il suo stato penoso. Si infilò nell’acqua bollente ed ebbe la sensazione di rinascere. Quando vide Moníca entrare in bagno si coprì con un gesto istintivo. «Non essere stupido, Víctor. Conosco il tuo corpo meglio di te, puoi evitare di coprirti.» «Grazie di tutto.»
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Bevanda calda a base di panela, che è la massa solida della canna da zucchero non raffinata. (N.d.T.)
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«E piantala con queste scempiaggini, per favore. Stai parlando come se ci fossimo appena conosciuti.» Gli lasciò un paio di pantaloni e una camicia puliti. Moníca si era cambiata e adesso indossava una maglietta che le arrivava fino alle ginocchia. «Quando esci usa questo asciugamano. Restaci quanto vuoi, so che ti piace. Cerca di riposare, chissà in che accidenti di rogna ti sei cacciato.» «Niente dell’altro mondo.» «Mi immagino. E ti avverto: se si tratta di storie di donne non raccontarmele neppure. Ti aspetto fuori, devo fare una telefonata.» Per la prima volta in diversi giorni la realtà sembrava stare dalla sua, ma preferì non fare domande per paura di scoprire la verità e restare di nuovo solo. Uscì dalla vasca, si vestì e tornò in sala. Moníca gli porse una coperta. «Adesso ti do l’agua de panela.» Anche lei era nervosa. Ma si sentì protetto, lontano da quei terribili momenti d’incertezza e dolore. Moníca portò la tazza e gli si sedette accanto. «Perché fai tutto questo?» chiese Silanpa, timoroso. «Ma non ti sei guardato allo specchio? Sei pelle e ossa. Vuoi mangiare qualcosa?» «No, grazie.» «Quando è stata l’ultima volta che hai mangiato?» «Prima di venire da te», mentì. «Allora... stai lavorando molto?» «Il normale, però non mi hai risposto.» «Lo faccio per me, e adesso basta con le domande sceme. Domani ne parliamo.» Sentendola dire così, Silanpa pensò che avrebbero dormito insieme. Ma non si azzardò a guardarla negli occhi. «Hai i capelli troppo lunghi, non ti dicono niente al giornale?» «Non vado in redazione da giorni. Lavoro fuori.» «Non raccontare niente adesso. Vuoi andare a dormire?» «Va bene.» 184
«Allora vieni.» Si sdraiarono uno accanto all’altro e Moníca spense la luce. «Non chiedermi nulla», disse lei, «ma mi sei mancato.» «Anche tu.» «Domani esco presto, tu puoi restare finché ti pare.» «Devo sbrigare alcune faccende domattina.» «Vieni a pranzo?» «Non lo so.» «Se vieni ti do la chiave, io non tornerò fino al pomeriggio.» «Tu vuoi che venga?» «È ovvio che sì, stupido. E poi, dobbiamo parlare, non illuderti di farla franca.» Silanpa rimase teso, senza osare muovere un dito per il timore di toccarla. «A domani», dissero entrambi.
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XIII
Susan uscì dalla doccia, accese l’asciugacapelli e cominciò a pettinarsi davanti allo specchio. Il vapore nascose l’immagine del Runcho che la osservava dalla porta, con gli occhi piantati sulle sue natiche nude. Runcho si avvicinò lentamente sbottonandosi i pantaloni e a un tratto lei si ritrovò con una mano sulla bocca e l’altra che le frugava tra le gambe. Urlò e gli diede un morso bagnando di saliva quelle dita nervose finché qualcosa di freddo tentò di penetrarla. Cercò di liberarsi e lui le sussurrò all’orecchio: «Sgambetta pure, mamita», ma in quello stesso istante Susan riuscì ad afferrare un flacone di acqua di colonia e glielo fracassò in testa. «Prendi, figlio di puttana!» Le palpebre del Runcho si chiusero come due saracinesche e il corpo cadde inerte sul pavimento. Susan uscì dal bagno, si vestì in fretta e furia e fuggì. In strada stava diluviando. Fermò un taxi e diede l’indirizzo di casa sua, ma poi se ne pentì e chiese al tassista: «Lei va anche fuori Bogotá?» «Sì, se mi paga il doppio di quello che segna il tassametro più un extra per uscire dal perimetro urbano, un altro per la lontananza dalla famiglia e un contributo per il pasto. A questo va aggiunta una piccola somma per l’assicurazione da malattie e incidenti, più una quota di rischio se si tratta di una zona infestata dalla guerriglia o dai paramilitari.» «È dalle parti del Sisga.» «Aspetti che controllo. Mi pare che laggiù ci sia un’epidemia di malaria e... non c’è anche un fronte delle FARC?»* «Le do quello che vuole, ma andiamoci a tutta velocità.» «Devo dirle, signora, che posso abbonarle l’extra per la lontananza. Il Sisga è vicino, però la informo che sono una persona molto attaccata alla famiglia.» «Gliel’ho già detto, pago quello che vuole.»
*
Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas, la principale organizzazione guerrigliera del paese. (N.d.T.)
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Susan guardò scorrere i palazzi contorti sulla 15 e poi le periferie e i campi brulli accanto all’autostrada. «Potrebbe mettere un po’ di musica?» «Ma certo, e per di più tale servizio è incluso. Ha qualche preferenza per una stazione radio precisa?» «No, quello che capita.» Dietro di loro, in un altro taxi, Silanpa stava discutendo con l’autista. «Non so dove vanno, amico, ma l’importante è che non li perda di vista.» «Si tratta di una questione passionale?» «Sì, e anche personale. Gli stia dietro e non li perda.» Susan fumava una sigaretta dopo l’altra, sprofondata nel sedile. Giunti sul posto diede ulteriori indicazioni al tassista e infine scese davanti all’entrata del Paradiso Terrestre. «Lieto di averla servita, signora, vuole una ricevuta?» «No, va bene così.» Sparì oltre gli arbusti che occultavano l’edificio. Un minuto dopo il taxi di Silanpa arrivò nello stesso punto. «Eccoci qui, capo, quanto le devo?» Il tassista calcolò la somma su un foglietto e disse la cifra. «E non le faccio pagare l’extra per la strada non asfaltata.» «Molto gentile.» Silanpa tirò fuori il suo tesserino di socio provvisorio del club e spinse il cancello. Era quasi mezzogiorno e c’erano solo due auto parcheggiate. Entrò nello spogliatoio e si fece dare la chiave di un armadietto. Si tolse i vestiti chiedendosi cosa avrebbe fatto al momento di affrontare Susan e poi andò in una delle sale. Le dense volute di vapore profumate all’eucalipto gli fecero bruciare gli occhi e dovette aspettare qualche istante prima di riaprirli. Susan si trovava sul fondo, sdraiata su un asciugamano. «Lei esiste ancora? È incredibile», disse senza guardarlo. «Se ne sta aggrappato alla vita.» «È l’unica cosa che mi resta, giunti a questo punto.» Si sedette accanto a lei. «Ho sette vite come i gatti, ecco perché i nemici mi rispettano.» «Non penserà che abbia qualcosa a che fare con...» 187
«Con la faccenda della mia macchina? Sì che lo penso, ma non sono qui per parlare di questo.» «Si sbaglia, ho letto la notizia sul giornale e ho immaginato che se ne andasse in giro a ficcare il naso in storie pericolose. Si vede che le piace complicarsi la vita.» Susan appoggiò il viso sulle mani. «Lei non sa niente di noi perché è un falso naturista. Se conoscesse la nostra filosofia saprebbe che la violenza e gli intrighi sono agli antipodi dei nostri fini.» «L’ultima volta che l’ho vista aveva un revolver in mano e me lo puntava contro. Non è forse un gesto di violenza?» «Era una situazione speciale, si trattava di proteggere l’intimità che ci è costata tanta fatica conquistare. Lei sa che in certi casi la lepre deve trasformarsi in pantera per poter continuare a vivere come lepre.» «Però la lepre con i canini insanguinati non è più una lepre, diventa una pantera per sempre.» La fissò negli occhi. «Anche a me piacciono le metafore.» «La pistola mi serviva a intimidirla, non avrei mai sparato.» «Diciamo piuttosto ad umiliarmi, non si ricorda?» «Le chiedo scusa.» «Vorrei che anche quelli che mi hanno devastato la macchina mi chiedessero scusa. E guarda un po’ la coincidenza: è successo la stessa notte in cui lei mi ha minacciato.» «Non siamo stati noi. Deve credermi, anche se non posso provarlo. Mi creda sulla parola. Non abbiamo niente a che vedere.» «Le credo», disse Silanpa, «ma pensavo che Heliodoro Tiflis le avesse raccontato qualcosa al riguardo.» Susan sobbalzò. Spalancò gli occhi, all’inizio lo sguardo era aggressivo, poi assunse un’espressione di supplica. «Non starà dicendo sul serio...» «Non la capisco, Susan.» «Pensa che abbia rapporti con quel tipo?» Silanpa rimase in silenzio per qualche istante. «Sì.» «E su cosa si basa per...?» «Sa bene di che parlo. Sono un giornalista, ho i miei metodi.» 188
«Va bene. Ma continuo a sostenere che non so niente della sua macchina.» «In realtà quella faccenda non ha più importanza. C’è ben altro.» «L’impalato?» «Già. E i terreni di Pereira Antúnez.» Susan gli fece cenno di aspettare. Uscì dalla sala del vapore, andò nella doccia e tornò. «Prima mi racconti cosa sa», disse Susan. «Poco.» «Mi dica, l’ascolto.» Silanpa si passò l’asciugamano sulla faccia sudata. «So che lei e Tiflis siete amanti. E che Tiflis ha ricevuto i terreni di Pereira Antúnez che oggi usate voi. So che l’impalato era Pereira Antúnez.» «E allora, cos’altro vuole sapere?» «Chi ha ucciso Pereira Antúnez. Chi ha ucciso Osler Estupiñán per usare il suo cadavere e chi si servirà di questi terreni.» «Sta facendo tutto questo solo per scrivere articoli sul suo giornale?» «Mi limito a indagare.» «Cerca la fama, un riconoscimento?» «Faccio il mio lavoro. Questo mi dà tranquillità.» «E cosa le fa pensare che risolverà il caso?» «È semplice: da quando ho cominciato, non sono più riuscito a conciliare il sonno. E questo mi irrita.» «Mi hanno sempre intrigato quelli che cercano di capire le questioni altrui», disse Susan. «Ci sono verità che fanno male, signor Silanpa.» «Il motore della mia Renault 6 è ridotto a un groviglio, mi hanno devastato la casa e non posso neppure avvicinarmi... Definirebbe tutto questo una questione altrui?» «Nessuno le ha chiesto di immischiarsi.» «Le brutte faccende hanno una sorta di calamita. Sono come spugne. Quelle buone, invece, scivolano via.» «È venuto fin qui per filosofeggiare? Vedo che le fanno bene i bagni di vapore.»
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«Sono venuto a parlare con lei perché so che è in pericolo. Quindi è meglio se mi racconta ciò che sa. Io posso aiutarla.» Andarono nella sala del relax e Susan rimase in silenzio. Con l’asciugamano annodato alla cintura, Silanpa si avvicinò alla finestra e guardò verso la strada. Aveva smesso di piovere e sullo sfondo si intravedeva una schiarita tra le nubi. A un tratto, il cancello si aprì di colpo. Due fuoristrada Trooper entrarono a tutta velocità. «Venga», disse lui in tono nervoso. «Dobbiamo andare via di qui.» Corsero fino alla scala che scendeva in garage. Silanpa riconobbe il piccolo corridoio e la porta dell’ufficio. Susan entrò, aprì un cassetto e prese un mazzo di chiavi e un revolver. Da sopra arrivavano delle urla. Susan riconobbe la voce del Runcho e le proteste del portiere. Consegnò l’arma a Silanpa. «Prenda, lei deve sapere come si usa.» Salirono sulla Mitsubishi senza vestirsi, coperti a malapena con gli asciugamani. Partirono facendo fischiare le gomme. «Passiamo dalla strada sul retro.» Susan accelerò risalendo la collina mentre Silanpa controllava la situazione alle spalle. Tutto sembrò filare liscio finché, dietro i cespugli e gli arbusti, non sbucarono le sagome delle Trooper. Li stavano inseguendo. «Ci hanno visti», avvertì Silanpa. «Si tenga forte. Conosco bene questi monti. Non ci raggiungeranno.» «Cosa faccio se si avvicinano?» «Le ho dato una pistola proprio per questo.» Silanpa non aveva mai sparato e guardò l’arma che teneva in mano, incredulo, come se fosse uno strano insetto. «Più veloce, Susan.» All’improvviso il vetro posteriore si trasformò in una ragnatela. Echeggiarono altri due colpi secchi contro la carrozzeria. «Che aspetta a sparare, non posso andare più forte finché non arriviamo in cima.» Silanpa impugnò il revolver con entrambe le mani, sporse la testa dal finestrino e prese di mira una delle auto. La detonazione lo accecò, ma riaprendo gli occhi si rese conto che non era successo niente. Le Trooper sta190
vano ancora lì, a una quarantina di metri. Tirò il grilletto una seconda volta. «Spari al motore, alle ruote. Faccia qualcosa intanto che arriviamo sulla cima.» «E sulla cima cosa succede?» «C’è un burrone che non si vede da questa parte. Loro non faranno in tempo a frenare.» Silanpa si sentì vulnerabile. L’asciugamano che doveva coprirlo era finito sul tappetino. «Si prepari, siamo quasi arrivati.» Le Trooper si avvicinarono e Silanpa sparò un altro colpo. Il parabrezza di una delle auto andò in frantumi. «Adesso! Si tenga forte!» Susan sterzò a destra e la Mitsubishi si sollevò su due ruote. Pietrificato dal panico, riuscì a scorgere il bordo di un burrone a pochi centimetri dal finestrino, e poi rimase senza fiato sentendo che spiccavano un salto e ricadevano al suolo, sbattendo contro un monticello erboso. Subito dopo udì un fragore e trovò la forza di guardare indietro: la prima auto aveva tentato di frenare ma la seconda l’aveva tamponata, ed entrambe stavano cadendo giù. Susan sterzò e accelerò dirigendosi alla sommità della collina. Costeggiarono il lago e raggiunsero la strada seguendo un sentiero stretto, con giunchi sui lati. «Ci siamo salvati per un pelo», disse Silanpa con voce tremante. «E adesso?» «Andiamo a Bogotá. Dobbiamo trovare un posto dove nasconderci. E dei vestiti. Non dimentichi che andare in giro così è un reato.» «Abbiamo gli asciugamani. Allora, si decide a parlare?» «Prima risolviamo il nostro problema immediato. Poi vedremo.» Nei pressi di Bogotá si fermarono a una cabina telefonica. Silanpa pensò di chiamare Moníca, ma fece il numero di Estupiñán. «Vestiti per lei e per una femmina? Con piacere, ma... perché non mi porta mai quando ci sono certe situazioni? Non vale, capo, lei tiene sempre il meglio per sé.» «Tra mezz’ora, Estupiñán. Siamo nelle sue mani.» 191
«E chi è la tipa?» «La vedrà, si prepari a una sorpresa.» Tornato nell’auto, si accorse che Susan era distrutta. Per la prima volta notò la paura sul suo volto, l’angoscia di non sapere cosa fare. «Il mio socio ci aspetta nel parcheggio del centro commerciale Granahorrar con dei vestiti per tutti e due. Si calmi. Ormai è tutto risolto.» «Non ha risposto alla mia domanda», disse Susan. «Quale?» «Perché fa tutto questo.» «Quando lo saprò, glielo dirò. Adesso andiamo.»
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XIV
L’immagine di quel giovane disperato ridotto a una chiara d’uovo mi lasciò scosso. Vi sarete già resi conto che sono un uomo sensibile, uno che si avvicina alle cose con il cuore in mano, anche se rischio di apparire un debole... Ma non voglio dilungarmi oltre. Dunque, io, persona sensibile e, senza immodestia, spirito colto, mi sentivo lo stomaco chiuso. Ogni volta che infilavo la forchetta in un piatto di cibo, rivedevo l’espressione terrorizzata di quel poveraccio. All’inizio tentai di nascondere il mio piccolo dramma, non sono certo il tipo che si lamenta al primo contrattempo, ma dopo quattro giorni la cosa mi preoccupò. E non ero l’unico, perché Montezuma, neppure lui fatto di legno, diventò di colpo un instancabile chiacchierone e non balbettava più. Allora parlai con il sergente Chumpitaz in privato e gli raccontai quanto stava succedendo, e lui mi consigliò di farmi vedere dal medico della polizia. Riassumendo: una settimana dopo non era cambiato niente, e così dovetti ricoverarmi in ospedale, con la flebo nel braccio e visite quotidiane della psicologa che si chiamava Carmencita. Sì signori, proprio una psicologa. E Carmencita, che al sottoscritto, per essere sinceri, sembrava un po’ troppo giovane per trattare con un uomo di una certa esperienza, mi chiese di raccontare cos’era successo. Le spiegai ciò che a mio modesto parere aveva causato il blocco, e lei mi disse che era stato uno shock. Mi sentivo a disagio e tenevo nascosto ai colleghi che venivano a trovarmi quello che succedeva. Raccontavo che mi ero intossicato, ma intanto il tempo passava e non c’era niente da fare. Lasciavo che le pietanze passate dall’ospedale si raffreddassero, e un giorno sentii il medico pronunciare una frase che mi colpì: «Come va, mio caro anoressico?» E io: cosa? Mi spiegò che si definiscono così quelli che non riescono a mangiare, e io pensai che nella vita accadono cose davvero strane. Ma conoscere la verità non cambiò nulla perché rimasi lì, da solo nella stanza, con più fili addosso che il computer del comando e senza neppure la forza di andare in bagno da solo, scusate il particolare. Quella volta il blocco durò tre settimane. Mi ricordavo del precedente e cercavo di immaginare come uscirne senza dover inghiottire le pastiglie che mi dava Carmencita, ormai divenuta un’amica, e proprio come la prima volta, la soluzione risultò essere, signore e signori, molto umana. Grazie alle flebo e alle pastiglie ogni tanto riuscivo ad alzarmi e in uno dei 193
miei giretti, passeggiando nel corridoio, mi imbattei in uno di quegli spettacoli così duri e crudi e che, per nostra disgrazia, si ripetono sempre più spesso: una giovane signora, sulla trentina, piangeva sconsolata su una poltrona della sala d’aspetto. Erano circa le otto di sera e mi sembrò stano perché a quell’ora non erano consentite le visite. Mi avvicinai immaginando cosa poteva esserle successo: era la moglie di un meccanico a cui avevano sparato una revolverata in una rissa da bar. Brutta storia, pensai, perché alla giovane donna era toccato andarlo a prendere e portarlo fino all’ospedale e poi restare lì, finché il medico le aveva annunciato che l’operazione era stata sospesa per il decesso del meccanico. Lei non voleva andarsene via se non glielo facevano vedere e stava appunto aspettando che lo portassero fuori dalla sala operatoria. Mi sedetti accanto alla giovane donna e le raccontai chi ero, cosa facevo, quali storie drammatiche avessi dovuto affrontare, e tentai di spiegarle qualcosa di cui a volte parlavo con Montezuma, cioè che in questa vita così stana sembra debbano succedere le cose brutte perché esistano le altre, quelle buone, e alla donna, che in lacrime pareva ancora più giovane, cercai di spiegare che tutti i conti tornano, se un giorno si subisce una disgrazia un altro giorno si riceve un aiuto, perché chi sta lassù sa quello che fa e ogni cosa ha un senso, e se succede una tragedia vuol dire che dopo arriverà una buona azione. E lei, ascoltandomi, e lo dico in tutta modestia, sembrò calmarsi, rasserenarsi un po’, e smise di piangere, chiese come mi chiamavo, e io continuai a spiegarle che le cose della vita seguono un certo ordine, come in un ristorante dove se paghi ti portano da mangiare, e se paghi di più te ne portano ancora, e avendo lei sofferto tanto quella notte, chi stava in alto era in debito e lui pagava sempre, e quando arrivò il medico a dirle che poteva entrare, la donna si alzò e sembrò più serena, piena di una dignità che mi riempì il cuore. Tornando nella mia stanza, vidi il vassoio e in un batter d’occhi ingurgitai primo e secondo per poi attaccarmi al campanello del letto, deciso a chiederne ancora.
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XV
Quando la vide entrare, Barragán le fece segno di richiudere bene la porta. Nancy si avvicinò con le guance rosse e gli occhi scintillanti di desiderio. «Finiranno per accorgersene», disse baciandolo. «Non importa, le pago anche per questo.» «Nacha e Trini spettegolano sempre di più e l’altro giorno mi hanno chiesto quando diventerò la capa qui dentro.» «Non dar retta a quelle.» Le sollevò la gonna lentamente fino a scorgere ciò che aspettava con ansia: il suo bellissimo e armonioso sedere, le cosce sode fasciate nelle calze di nylon. La distese sul divano, le sfilò le mutandine e si sdraiò sopra di lei. «Mi piace di più farlo in albergo», disse Nancy con il respiro ansimante, «lì posso gridare.» «Gridami nell’orecchio.» Nancy gridò, fece rumore, gli riempì l’orecchio di saliva e gli morse il collo togliendo ogni traccia dell’acqua di colonia. Dopo, Barragán si sistemò i pantaloni e tornò alla scrivania. «Nancy, devo chiederti un favore.» Prese il foglio con il nome che gli avevano dato al catasto. «Cercami questa persona, è un giornalista che lavora per ‘El Observador’. Ho bisogno dell’indirizzo, il telefono e tutto il resto. E se sarà possibile, di parlare con lui. Se ci riesci, passamelo.» «Subito.» Nancy uscì riprendendo fiato e guardò l’orologio. Era durato quindici minuti. A Barragán tornò in mente l’incontro con Esquilache e riprese a tremare. Non era possibile, non poteva essere vero. Tiflis non lo conosceva, da dove saltava fuori l’idea di dargli la colpa? Pensò che il suo patto con Vargas Vicuña fosse in pericolo e non sapeva cosa fare. Alla fine si decise a telefonargli. «Mi chiami il dottor Vargas Vicuña», disse a Nacha nell’interfono. Un minuto dopo sentì la voce pacata del dottore. 195
«Che piacere, Emilio, buone notizie?» «Non ancora definitive, dottore, e sarò sincero con lei: nella questione dei terreni è coinvolto Heliodoro Tiflis, che forse conosce. Uno che lavorava con Pereira Antúnez. Pensi un po’, è venuto a sapere che io stavo cercando i documenti dei terreni e adesso mi ha minacciato.» «Minacciato? Ma che sciocchezze...» «È proprio così, dottore. Le ho telefonato per questo. Vorrei essere sicuro di poter contare sulla sua protezione.» «Ma è ovvio, Emilio, tu sei il mio avvocato, lavori con me. Comunque, dimmi, a che punto sei?» «Sto seguendo una buona pista, dottore, ma il problema è che più mi avvicino e più la cosa diventa pericolosa.» «Hai tutto il mio appoggio, e non solo fisico ma anche economico. Ti ho già dato del denaro, adesso vuoi protezione?» «Al momento non per me, ma le sarei grato se proteggesse i miei figli e mia moglie. Una cosa discreta, senza che se ne accorgano.» «Mando subito qualcuno, non preoccuparti. Tu concentrati su come ottenere quei documenti che al resto ci penso io, d’accordo?» «D’accordo, dottore, e molte grazie.» Stavano per salutarsi quando Emilio aggiunse: «E un’ultima cosa...» «Ti ascolto.» «Non dica niente a Esquilache. Ho avuto modo di stare a contatto con lui e, non so, ma mi ispira poca fiducia.» «Non racconterei mai nulla a Esquilache, Emilio, stai tranquillo che lo conosco bene anch’io.» Barragán riattaccò, prese il flacone di Obsession e se ne mise qualche goccia sulle tempie. Un attimo dopo suonò il telefono. «Ho già i dati che mi ha chiesto, dottore», era la voce di Nancy, «ma al giornale mi hanno detto che è in ferie.» «Può venire un momento nel mio ufficio?» Nancy entrò e lui la guardò sorridendo.
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«Non è per quello che pensi... Volevo chiederti il favore di andare a parlare con quel giornalista, chiedi un appuntamento, digli che voglio discutere con lui di una cosa importante. Hai l’indirizzo di casa sua?» «Sì.» Nancy prese la giacca e chiamò un taxi. «Esci un’altra volta?» chiese Nacha lanciando un’occhiata a Trini. «Sì, vado a fare una commissione. Se mi cercano, torno verso le cinque.» «Con piacere, possiamo fare qualcos’altro per te?» Diede l’indirizzo al tassista e si sentì felice: Emilio aveva sempre più fiducia in lei. Le affidava un incarico dietro l’altro. Forse ne era ormai innamorato, magari quello che le diceva la sua amica era vero: «Se vuoi accalappiarlo, all’inizio dagli ciò che vuole e poi tienilo a distanza, e vedrai che diventerà pazzo di te, a quel punto non concedergli neppure di sfiorarti finché non ti propone di sposarlo». Rise, divenne tutta rossa e decise di non pensare più a certe sciocchezze. Scese davanti all’edificio e, entrando nell’atrio, vide che il portinaio non c’era. Salì in ascensore fino al quarto piano: appartamento 405. Raggiunse la porta e suonò il campanello. All’inizio non sentì alcun rumore, ma finalmente la porta si aprì e comparve la faccia di un uomo minuto. «Víctor Silanpa?» «Venga dentro, per cortesia.» Entrò e vide altri due uomini seduti davanti al televisore. I cuscini erano sventrati. Ogni cosa giaceva sparsa sul pavimento. «Dev’esserci uno sbaglio...» disse intimidita, sentendo che richiudevano la porta. «Nessuno sbaglio, tesoruccio», disse uno degli uomini di Tiflis. «Questa è la casa di Silanpa e anche noi lo stiamo aspettando.» «Se lui non c’è, sarà meglio che vada.» Fece per avvicinarsi alla porta ma l’uomo le sbarrò il passo. «E che fretta hai? Aspettiamolo insieme, così ci divertiamo un po’, no?» Gli altri risero quando l’uomo le mise una mano sulla bocca. Lei tentò di divincolarsi senza ottenere niente. «Quando ti sarai data una calmatina, bella mia, ci racconti chi sei e cosa cercavi qui, d’accordo?» 197
L’uomo si decise a toglierle la mano dalla bocca e Nancy poté parlare. «Chi siete?» «Siamo amici, non agitarti.» Nonostante il panico, la mente le si schiarì di colpo. «Voi siete i russi? Se sì, vi avviso che non ho niente a che fare con tutto questo, io sono soltanto una segretaria.» «Vediamo un po’, tesoro. Siediti qui e raccontaci bene tutta la storia.» Nel suo ufficio, il consigliere Esquilache guardava i monti oltre la finestra. Monserrate, Guadalupe. La scatolina rossa della funivia che saliva e scendeva. Aveva parlato con uno degli avvocati di GranCapital ed era molto nervoso. Gli avevano chiesto la stessa cosa di sempre, cioè quando potevano cominciare a costruire sui terreni del Sisga. E lui era stato costretto a rispondere evasivamente, dicendo che la faccenda risultava ancora complicata. «Sarà più complicata se non iniziamo subito, signor Esquilache», aveva ribattuto l’avvocato in tono serio. «Ai miei clienti non piace essere presi in giro, soprattutto considerando che hanno riposto tanta fiducia in lei.» Sapeva che con quella gente era meglio non scherzare e pertanto, quando la segretaria gli annunciò una telefonata di Heliodoro Tiflis, sospirò di sollievo. «Don Heliodoro, buonasera.» «Mio caro consigliere, ho chiamato per sapere se non si fosse per caso dimenticato del nostro appuntamento di sabato.» «No, ma vorrei dirle che se non si fida di me, si sbaglia di grosso. Sto facendo l’impossibile per recuperare quei documenti, ma sappia che non è affatto facile.» «Guarda che caso, stavo proprio pensando a lei, cercando di capire cosa fosse successo, quando a un tratto mi chiama uno dei miei uomini e mi dice che si sono ritrovati davanti la segretaria del suo socio, sa di chi parlo, no?» «Dell’avvocato Barragán?» «Esatto, non le sembra un caso curioso?» «E dove l’hanno trovata?» «A casa del giornalista, si figuri. La ragazza è morta di paura e ha chiesto ai miei se sono russi, lei ne sa qualcosa?» 198
Russi? Esquilache si sentì ancora una volta tradito: che diavolo stava combinando Emilio? A quel punto si decise. «Non ne ho idea, signor Tiflis, però mi fa piacere che me lo abbia detto perché, senta, visto come stanno le cose, le confiderò un segreto.» «Davvero? I segreti sono la mia passione.» «Allora, Barragán e io non siamo più soci, perché mi risulta che da qualche tempo a questa parte lui sta facendo affari per conto proprio. E non è tutto: credo, ma non ne ho le prove, che i documenti li abbia lui.» «Ah sì?» Esquilache inghiottì amaro ma ormai era fatta. Adesso doveva andare avanti. «Ebbene sì, e il problema nasce tutto da lì.» «Allora si spiega anche la faccenda della segretaria, mio caro Esquilache. Adesso mi toccherà tenere in custodia la ragazzina finché tutto non si risolva. Che razza di storia, eh?» «Le chiederei, questo sì, di trattare l’intera questione con discrezione, don Heliodoro. Lasci che intervenga io per primo, cercherò di sistemare le cose con le buone.» «Spero di sì, ho già avuto troppe rogne per colpa di questa faccenda.» Esquilache riattaccò e chiamò il suo autista. «Tiri fuori la macchina dal garage.» «Dove andiamo?» «Nell’ufficio di Barragán.» Guardò l’orologio: erano quasi le cinque. Nell’Hotel Esmeralda, Tiflis beveva bicchieri di aguardiente mentre il Runcho gli forniva spiegazioni. «Quella donna è davvero intrattabile, capo, le chiedo scusa. Sono entrato per vedere se aveva bisogno di qualcosa, come lei mi ha ordinato, e quando meno me l’aspettavo mi ha rotto in testa un flacone ed è scappata via. Guardi come mi ha conciato il sopracciglio», e mostrò la benda insanguinata. «Per poco non ho dovuto farmi dare dei punti.» «Sì, quella donna è un pericolo. Ma a me piacciono così. E adesso raccontami del bagno turco.» «Siamo andati a cercarla e se l’è svignata su una jeep», spiegò Runcho. «L’abbiamo inseguita per un po’ sui monti, ma ci ha attirati in una trappola 199
e siamo finiti in una scarpata. I ragazzi sono ancora là a cercare di tirare fuori le macchine.» Tiflis si alzò dalla scrivania sorridendo, si avvicinò al Runcho e disse: «Vuoi farmi compagnia con un bicchierino?» «Va bene, capo, giusto per calmare i nervi.» Tiflis gli versò l’aguardiente. Runcho, tremando, lo bevve d’un sorso senza azzardarsi a guardarlo negli occhi. All’improvviso Tiflis si girò, strinse il pugno e lo colpì con tutte le sue forze sul naso. Runcho cadde di schiena e sbatté la testa contro lo scaffale dei dischi. Due fili di sangue gli colarono dalle narici. «Perdonami, Runchito», disse Tiflis aiutandolo a rialzarsi, «perdonami se ti ho fatto questo, ma tu sai benissimo quanto mi fanno arrabbiare certe storie.» «Non si preoccupi, capo. Io avrei fatto lo stesso. Me lo merito, per essere stato un coglione.» «Che diamine, se avessi saputo che con quei terreni finivo in una rogna simile, avrei chiesto qualcos’altro a Pereira Antúnez. E poi non sai l’ultima... Sembra che ci siano coinvolti anche i comunisti.» «Comunisti?» «Immagina un po’, dei russi. L’ho sempre detto, no? Questo paese è pieno di infiltrati.»
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XVI
Cominciava a imbrunire quando la Mitsubishi scese nel parcheggio del centro commerciale Granahorrar. Susan fece vari giri e percorse lentamente le file di auto finché non sentì una voce distorta dall’eco: «Sono qui, capo!» Era Estupiñán. Si fermarono e lui uscì dal nascondiglio. Aveva una borsa di plastica in mano e faceva cenno di avvicinarsi. «Possiamo fidarci?» «Sì.» Estupiñán si avvicinò al finestrino e li guardò con stupore. «Capo, lei è proprio un bel tipo. Posso confermare che è una bella puledra.» «Forza, mi dia quei vestiti.» Aprì la borsa e tirò fuori un paio di jeans, una maglietta e le scarpe da tennis. Il resto era per Susan. Si vestirono in fretta, lasciarono l’auto nel parcheggio e salirono con le scale mobili fino al centro commerciale: i pantaloni erano troppo corti e le scarpe strette. Susan indossava un orrendo vestito dai colori sgargianti. Comprarono altri capi nei magazzini dell’ultimo piano e tornarono fuori che era ormai buio. Silanpa guardò l’orologio e pensò a Monica. Le sei di sera. Doveva telefonarle, ma non aveva il nuovo numero. Dove poteva andare? «A casa mia è impossibile», disse Susan, «gli uomini di Tiflis la staranno tenendo sotto controllo.» «Allora l’unica soluzione è un albergo.» Andarono al Residencial Nueva York, vicino a plaza de Lourdes, e si registrarono con i dati di Estupiñán. La stanza era molto grande, con tre letti e un salottino. Susan si infilò subito nella doccia. «Insomma, capo, se l’è già fatta?» Estupiñán parlava mordendosi il labbro. «Con quel vestitino a fiori si vedeva tutto. Le confesso che mi sono eccitato. Come diciamo in ufficio: ha un culo che sembra un’area edificabile, con tutti i servizi annessi...»
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«È la donna del bagno turco. Adesso devo parlare con lei sperando che mi racconti quello che sa. È meglio che se ne vada.» Estupiñán si diresse verso la porta e poi tornò indietro. «Se ha bisogno che la tenga sotto controllo mi avvisi. Non sia egoista.» Poco dopo Susan uscì dal bagno e si sedette sul letto. «Adesso dobbiamo proprio parlare.» «Senta, Víctor, non vorrei deluderla, ma la sola cosa che posso dirle riguardo l’impalato, l’unica che so, è quella che mi ha raccontato lo stesso Tiflis. L’impalato era in effetti Pereira Antúnez, questo lo sappiamo tutti; ciò che nessuno sa è come sia arrivato sulla riva del lago. Tiflis lo teneva nascosto in un magazzino a Bogotá. Ma qualcuno l’ha portato via, oppure è scappato, e poi non se ne è saputo più nulla.» «Lo aveva sequestrato?» «Sì, per la faccenda dei terreni. Pereira Antúnez li aveva ceduti ma Tiflis temeva che cambiasse idea e per questo ha deciso di rapirlo. Tiflis è fatto così, voleva solo spaventarlo un po’.» «E chi potrebbe averlo portato via?» «Può essere stato Vargas Vicuña, il costruttore. O Marco Tulio Esquilache, un consigliere corrotto che fa affari con terreni distrettuali e appezzamenti abbandonati. Lei lo sa, Víctor, qui il business delle costruzioni è una miniera d’oro.» «Cosa pensava di farne Tiflis dei terreni?» «Venderli. Non so esattamente a chi.» «E voi, i Figli del Sole?» «Noi volevamo conservarli. Il direttore ha tentato di convincere Pereira Antúnez, ma quello è sparito proprio mentre le trattative erano in corso.» «E lei, Susan, da che parte sta?» «Adesso non lo so più... Ho paura.» «Lei era in combutta con Tiflis. L’ho vista nell’Hotel Esmeralda.» «Ci ha minacciati e io volevo sistemare le cose. Ma lui è una persona difficile. Imprevedibile.» «Me ne sono accorto. Perché mi hanno devastato la macchina?»
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«Leggendo i suoi articoli sull’‘Observador’ ha cominciato a preoccuparsi, voleva metterle paura. Non intendeva farle male, era solo un avvertimento.» «Non voglio fare il duro, Susan, ma questa faccenda è troppo grave. Se collabora posso fare in modo che siano indulgenti con lei. C’è di mezzo un morto e un affare piuttosto sporco. La polizia sta indagando e prima o poi scoprirà tutto. Quindi le conviene stare dalla parte dei buoni.» «E chi sarebbero i buoni?» «Non lo so ancora, ma di sicuro non lo è Tiflis, né il consigliere di cui mi ha parlato.» «Posso chiederle una cosa?» Susan si alzò per accendersi una sigaretta. «Certo.» «È stato lei a rubare i documenti?» «Il termine giusto non è rubare. Adesso li ha la polizia», mentì e in quell’istante ricordò che li aveva nascosti in casa di Quica, e doveva andarli a prendere per portarli da Moníca. In un posto più sicuro. «Se li ha consegnati alla polizia ha commesso un errore. Avrebbe potuto guadagnarci un bel gruzzolo.» «Io non faccio certi affari, Susan, sono un giornalista.» «Un fesso, ecco cos’è. Un fesso. Nessuno rifiuta una cosa simile, si rende conto che un sacco di gente sarebbe disposta a sborsare una fortuna?» «Lo immagino.» Silanpa andò alla finestra e guardò in strada. Nessuna auto, solo un albero asfittico che sembrava emergere dai detriti del marciapiede. Sullo sfondo, al di là dei tetti, si scorgevano le guglie della chiesa di Lourdes. Pensò a Moníca come si pensa a qualcuno che ci appartiene. Adesso doveva avere fede. «Mi racconti cosa è successo con Tiflis», continuò, «perché sono venuti a cercarla nel bagno turco?» Susan si era ripresa. Sembrava del tutto serena. «Lui crede che i documenti li abbia presi io. Mi teneva rinchiusa nel suo albergo, ma stamattina sono riuscita a scappare.» «Perché è andata al bagno turco?»
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«Non sapevo dove andare. Ho dovuto decidere in fretta e pensavo che lì sarei stata al sicuro. Mi sono sbagliata.» «Può ripetere il nome del consigliere?» «Marco Tulio Esquilache.» Silanpa lo annotò sul taccuino e pensò che l’indomani avrebbe chiesto a Estupiñán di pedinarlo. Poi si infilò il maglione e andò alla porta. «Non apra a nessuno finché non torno. Vengo a prenderla domani.» «Se ne va? Credevo che sarebbe rimasto a proteggermi.» «Non posso.» «Avrei preferito che rimanesse.» Silanpa la guardò e pensò che non doveva farlo. Moníca lo stava aspettando. «Ci vediamo domani», disse e uscì. Arrivando a casa di Moníca avvertì una sensazione di benessere; i vestiti nuovi gli avevano ridato fiducia in se stesso e pensava che fosse bello avere un posto dove andare alla fine della giornata. In quel momento si rallegrò di possedere ciò che senza dubbio rendeva tediosa e infelice la vita di tanti altri. Moníca sorrise vedendoselo davanti. «Credevo che saresti arrivato prima.» «È un’indagine complicata, ogni giorno ho l’impressione di dover ricominciare da zero.» «Vieni, dobbiamo parlare.» Lo fissò negli occhi e notò la sua paura. «Non possiamo far finta che non sia successo niente, Víctor.» «Mi spaventa quello che stai per dire, ti sei rimessa con Oscar?» «Questa non è la cosa più importante.» «Voglio saperlo.» Moníca accese una sigaretta. Soffiò il fumo con forza e lo guardò. «Sì.» Il silenzio non fece altro che accentuare la profonda sensazione di nausea di Silanpa. Voleva capire.
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«Perché ieri mi hai cercato, perché hai lasciato la festa e mi hai portato qui?» «Non va bene lasciare le cose a metà.» Fumava e, mentre parlava, stropicciava un foglietto tra le dita. «Credevo che il nostro rapporto sarebbe dovuto finire in un altro modo. Non ti pare? Siamo due persone adulte, abbiamo passato del tempo insieme... Il dolore è egoista. Chi soffre si sente unico e ritiene che il mondo gli debba qualcosa. Adesso avrebbe voluto stare da solo e trovarsi lontano da lì, da solo, nella situazione che lui stesso aveva creato. «Ero convinto che saremmo tornati insieme. Mi sono sbagliato.» «Non ti sei sbagliato, ti voglio bene, ma abbiamo già visto che non è possibile...» «Non dire più niente.» Silanpa si alzò, si diresse lentamente alla porta e pensò che questa volta sarebbe stato definitivo. «Non te ne andare, Víctor. Non andartene così. Vorrei stare con te tutto il tempo necessario perché le cose si aggiustino.» «Intendi dire per separarci restando amici?» «Sì.» «Questo è impossibile.» Gli occhi di Moníca si inumidirono. Víctor accese una sigaretta e andò alla finestra in silenzio. Poi disse: «Cosa hai raccontato a Oscar?» «Che dovevo parlare con te.» «Sa che abbiamo dormito insieme?» «No.» «Allora è meglio che me ne vada. Non devi cominciare a raccontargli bugie per colpa mia.» «Piantala con le stronzate e siediti. Adesso Oscar non importa, e tu lo sai.» «E invece importa, mi hai lasciato per lui.» «Ti ho lasciato perché tra noi non funzionava più. Lui non c’entra.» «L’ultima volta che vi ho visti insieme mi sembrava che c’entrasse.» Moníca arrossì. Lui preferì non guardarla. 205
«Non avresti dovuto vederlo, io dopo mi sono sentita così...» «Io mi sono sentito peggio.» Moníca lo abbracciò, in lacrime, e lui sentì di essere molto lontano da lei e da ciò che avevano vissuto insieme. «Perdonami. Sono stata una carogna.» «Calmati», Silanpa si sentì più forte. «Fammi capire: siamo qui per parlare, per chiarire tutto e permetterti di andare via con la coscienza tranquilla, vero?» «Non essere cinico. Se sto qui con te sarà pure per qualcosa, no?» «Cos’è questo qualcosa?» «Non lo so.» «Prova a pensarci.» «Sono confusa...» «Stanotte mi hai detto che ti ero mancato.» «Tre anni non si cancellano tanto facilmente.» «Neanche per me è facile. C’ero anch’io.» Si rialzò. Adesso doveva farsi coraggio. «Per favore, non te ne andare.» «Tu non sei più la Moníca che io amo. Stiamo giocando con i sentimenti e a me fa troppo male.» «Vieni qui, resta con me.» Si guardarono e Silanpa pensò che avrebbe potuto baciarla. Non lo fece. «Ho l’immagine di quel giorno conficcata qui... Tu nuda sul letto, e Oscar che esce dal bagno.» Gli occhi di Moníca tornarono a riempirsi di lacrime. «Taci, dimenticalo, cancellalo dalla memoria.» «Non riesco a non ricordarlo ogni volta che ti rivedo.» «E tu? Non sei stato con altre donne in questi giorni?» Silanpa la fissò. «È diverso. Hai cominciato tu.» Le guance di Moníca divennero rosso fuoco. Si alzò dirigendosi alla finestra. Lui la seguì, le mise una mano sulla spalla ma lei la tolse con un gesto brusco. 206
«Che bello il supplizio di San Víctor Martire, eh? Avanti, quante te ne sei fatte, se si può sapere?» Cercò di calmarla ma non fu possibile. Moníca si spostò al centro della sala, si tolse una scarpa e gliela tirò in faccia. «Come hai osato? Io a preoccuparmi tanto, e tu... Fuori di qui, accidenti a te!» Stava attraversando il corridoio quando la seconda scarpa si schiantò contro la parete, a un centimetro dalla sua testa. La sentì urlare: «Questa me la paghi!» ma prima che arrivasse all’ascensore lei gli corse dietro e lo abbracciò con forza. Silanpa sentì che una mano lo tirava fuori dall’acqua, e che almeno temporaneamente le cose ritrovavano un senso.
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XVII
Quando ebbi superato il problema con lo stomaco e mi fui rimesso in sesto sia nello spirito che nell’appetito, tornai come un leone al lavoro, alla strada e ai suoi pericoli, e mi dicevo: tremate farabutti, tremate che sono tornato! E tremarono. Un giorno ero con Montezuma dalle parti di San Andresito e gli proposi di andare a vedere dei televisori perché in realtà, di fronte al negozio di hi-fi, vendevano una porchetta squisita. E siccome la vita è piena di segni del destino, appena presa la decisione arrivò una chiamata dalla centrale: c’era un sequestro in corso a San Andresito, un gruppo di delinquenti aveva preso in ostaggio un intero magazzino e la faccenda rischiava di mettersi molto male. Arrivati sul posto, trovammo una quindicina di pattuglie nelle strade adiacenti. Il magazzino era circondato e un capitano parlava nel megafono. Quei farabutti chiedevano cinquanta milioni di pesos e un aereo per lasciare il paese, in caso contrario avrebbero fatto saltare in aria il magazzino, dove c’erano almeno duecento persone. Montezuma e io ci mettemmo subito a disposizione del capitano, che ci chiese di controllare una delle entrate laterali. Non avevo mai partecipato a un’operazione così importante ed ero contento di poter imparare qualcosa dall’esperienza diretta, pur sempre anteponendo gli interessi della cittadinanza al mio bisogno di apprendimento. Peccato per la porchetta, pensavo, ma la vita del poliziotto è questa: sacrificio e imprevisti. Nel frattempo, quelle carogne continuavano a trattare. Volevano più soldi, sessanta milioni, e Montezuma, con la sagacia dell’uomo del sud abituato a guardare le cose dall’alto della cordigliera, disse: «Questi non sono delinquenti comuni, sono guerriglieri». Arrivarono i corpi speciali che salirono sui tetti indossando i passamontagna, con i fucili di precisione e le divise scure, tutti particolari che osservavo attentamente. E mi dissi: «Qui si scatena un casino di quelli grossi», e così fu, perché non avevo finito di pensarlo che dal radiotelefono arrivò l’ordine di entrare nel magazzino e già echeggiavano i primi colpi. Avvisai Montezuma, che era ormai tornato quello di prima, cioè balbettava. Ci salutammo preparandoci al peggio e io mi feci il segno della croce, perché in casi simili è meglio essere in pace con il Signore. Si scatenò l’inferno. Spari, raffiche di mitra e piccole esplosioni, e io pronunciai la mia frase d’assalto: «Avanti, Aristófanes, che quando uno difende la legge le pallottole dei farabutti diventano zucchero filato!» e mi lanciai 208
contro una delle porte, con Montezuma dietro. All’interno c’era un mucchio di gente sdraiata sul pavimento, in mezzo al fumo, e a quel punto cominciai a distribuire piombo. La faccenda dovette durare una buona mezz’ora finché, all’improvviso, calò un silenzio terrificante. Devo dirvi a questo punto, stimati amici, che in tali momenti gli uomini d’azione compiono profonde riflessioni: quando le armi tacciono si pensa a tante cose, ed è proprio in quell’istante che si capisce cosa sta veramente succedendo. E cos’era successo? I malviventi si arrendevano. Uno era a terra, sanguinante, altri due risultavano feriti e i restanti avevano abbassato le armi cominciando a uscire con le mani in alto. Camminai tra la gente, tra i chioschi del mercato coperto, e passando davanti a uno di profumi sentii un gemito. Mi chinai a guardare dentro e vidi una ragazza svenuta che stava riprendendo i sensi. Entrai e le chiesi come si sentiva, lei aprì gli occhi e mi guardò, all’inizio stranita e poi fiduciosa, e mi chiese cosa fosse successo. Le spiegai che tutto era sotto controllo, che i malviventi si erano arresi, e l’aiutai a rialzarsi. Uscendo in strada, con lei aggrappata al mio braccio, potei guardarla alla luce del giorno: la pelle bianca, gli occhi come tizzoni ardenti, i capelli crespi... E scusate se mi dilungo in dettagli, ma quando le chiesi il suo nome mi rispose con fare vezzoso: «Mi chiamo Matilde, a sua. disposizione».
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XVIII
Nancy era terrorizzata. Alle otto di sera, quegli uomini non volevano ancora lasciarla andare. Per il momento si erano comportati decentemente, ma poco prima uno di loro aveva tirato fuori una bottiglia di aguardiente e tutti si erano messi a bere e a raccontare barzellette. Poi si agitò ancora di più sentendone uno parlare di lei al telefono, e dopo aver riattaccato nessuno si prese la briga di dirle per quanto tempo sarebbe dovuta rimanere lì. «Bevi un goccio con noi, bellezza?» Camaleón aveva gli occhi spiritati. «No, non bevo aguardiente, grazie.» «Uh, è un tipo fine...» disse un altro. «Preferisci forse lo champagne o il whisky?» «No, nemmeno quelli.» «Questa è una cosa che non ho mai capito delle donne», sbottò il più giovane. «Bere dà alla vita un colore più brillante. Un po’ di musica? Forza, Camaleón, metti su qualcosa e balliamo con la signorina.» Nel suo ufficio Barragán guardava continuamente l’orologio preoccupato. Perché Nancy non tornava? Aveva avuto qualche problema? Decise di chiamare per parlare con Catalina, e per fortuna lei lo tranquillizzò: stava giocando a Scarabeo con i bambini.» «Rientri tardi, amore?» «Temo di sì, non lo so. Sto aspettando una telefonata da New York per certi dati importanti.» «Vuoi che ti lasci la cena nel forno?» «No, Cata, grazie. Mangio qualcosa qui.» Parlò con Juanchito e poi con la bambina, e riattaccando pensò che le cose cominciavano a precipitare. Se Tiflis era convinto che i documenti li aveva rubati lui, non doveva sottovalutarlo. Forse avrebbe dovuto accettare la protezione di Vargas Vicuña. Fece il numero di Nancy e rispose una signora di una certa età. «Dica.» «Vorrei parlare con Nancy, per favore.» «Non è ancora arrivata. Chiama dall’ufficio?» 210
«Sì, signora... Niente di importante.» «Riprovi più tardi.» Andò a cercare i dati del giornalista nell’agenda della segretaria e, nervoso, compose il numero. Non rispondeva nessuno e allora, con l’indirizzo in mano, decise di andare a vedere cosa fosse successo. Giunto di fronte all’edificio guardò in alto cercando il quarto piano tra i rami degli alberi. Poi entrò pensando che avrebbe dovuto prendere delle precauzioni. Dall’appartamento di Silanpa arrivava della musica. «Avanti, tesoro, tirati un po’ su quella gonna, dai. Fai la brava.» Camaleón era accaldato per l’aguardiente e il ballo. L’abbracciò e lei tentò di divincolarsi. Udì le urla di Nancy e si spaventò. Corse giù saltando gli scalini a due a due, ma arrivando alla macchina due tipi armati gli sbarrarono il passo. «Emilio Barragán?» La voce del Runcho gli perforò i timpani. Tentò di fuggire ma una mano lo bloccò e qualcuno gli fece vedere una pistola. «Attento, l’ho appena oliata e spara con estrema facilità. La cosa migliore è salire su a scambiare due chiacchiere al riparo dalla pioggia.» Il gruppo si apprestava a entrare nel palazzo quando due camionette Chevrolet inchiodarono e diversi uomini saltarono giù con le armi in pugno. Echeggiò uno sparo e Barragán, in preda al panico, sentì che la mano sulla spalla mollava la presa. Runcho lasciò cadere la pistola e alzò le braccia. «Stia calmo, signor Barragán, ci manda il dottor Vargas Vicuña. Siamo qui per aiutarla.» Barragán sospirò di sollievo e li avvisò che dovevano salire al quarto piano, porta sinistra. «Fate attenzione», si raccomandò, «dentro c’è la mia segretaria. L’hanno sequestrata.» Due uomini avvolsero il corpo senza vita di Morsita in una coperta e lo deposero sul pianale della camionetta. Poi fecero salire il Runcho con le mani legate dietro la schiena. Barragán rimase in attesa nella sua auto, fumando come un ossesso e giurando che da quella sera la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Sentì diversi spari e accese il motore. Poi vide i guardaspalle di Vargas Vicuña 211
uscire frettolosamente dall’edificio. Con loro, tremante di paura, c’era Nancy. «Volevano...» cominciò a piagnucolare, «violentarmi, Emilio. Quando sono arrivati i poliziotti mi stavano già...» Lo abbracciò. Uno degli uomini si avvicinò. «È meglio andarsene da qui, dottore. Ci venga dietro.» Seguì le due camionette fino a una casa vicino all’Unicentro. «Questa gente non è della polizia, Nancy. Sono amici, venuti a proteggerci.» Entrarono nella casa. Nancy aspettò in sala mentre Barragán e uno degli uomini scendevano nello scantinato. Sdraiato sul pavimento, con la bocca e il naso sanguinanti, c’era il Runcho. «Abbiamo pensato che le sarebbe piaciuto fargli qualche domanda», dissero a Barragán. «Infatti», rispose. «Forza, amico, chi ha messo in testa a Tiflis che a rubargli i documenti sarei stato io, eh?» Anziché parlare, il Runcho sputò, sporcando il risvolto dei pantaloni a uno degli uomini. Questi alzò il pugno e lo colpì sul naso. Gli altri si misero a sferrare calci e uno gli fracassò una sedia sulla schiena. «Continua a sputare sangue, figlio di puttana.» Barragán era contrariato. «Non voglio che lo pestiate», disse accendendo una sigaretta. «Però mi deve dire com’è venuta in mente al suo capo l’idea che i documenti li dovrei avere io.» Runcho alzò la testa e Barragán guardò la sua faccia maciullata. «È stato Esquilache. Ieri ha telefonato al capo e gli ha detto che li aveva lei, che dopo averli rubati pensava di piazzarli all’estero. Che era in trattative con dei russi. È per questo che ci ha ordinato di pedinarla.» «Russi? Ma non è possibile.» Una ginocchiata nello stomaco fece piegare in due il Runcho. «Digli la verità, grandissimo figlio di puttana, se stanotte non vuoi dormire con gli occhi aperti.» «È stato il consigliere, vi dico. Il suo indirizzo ce l’ha dato proprio lui. Guardi, ho qui il foglietto.» 212
Emilio tornò verso le scale tremando di rabbia, e lesse l’indirizzo dell’ufficio e di casa. Prese il telefono sconvolto dall’ira. Chiamò l’ufficio di Esquilache ma non rispose nessuno. Lo avrebbe cercato al club. Prima di uscire parlò con Nancy. «Non preoccuparti di nulla, Nancy. Quello che è successo stasera ha a che vedere con quanto ti ho raccontato alcune settimane fa, ricordi? Ma adesso è tutto sotto controllo.» «Grazie, Emilio, mi hai salvata.» «Domani non venire in ufficio. Telefona a Nacha e dille che sei malata. Prenditi una vacanza a mie spese, intanto io risolvo questa faccenda.» «Emilio, quello che voglio è starti vicino. Mi fa sentire al sicuro.» «Adesso non è possibile, Nancy, è meglio che tu vada a riposare. Te lo sei meritato. Quando vuoi andare a casa, uno di questi signori ti accompagna. Ho già dato istruzioni al riguardo.» Uscendo, Emilio notò un revolver sul tavolo della sala. Con un gesto furtivo se lo infilò in tasca. Fuori pioveva. Le strade erano buie e, attraversando pozzanghere, accelerò raggiungendo la Settima. Poco dopo, scorse le luci del club. Parcheggiò dall’altra parte della strada ed entrò. Esquilache era appoggiato al banco, intento a sorseggiare un whisky sour. Vedendolo, sgranò gli occhi. «Mio caro Emilio, spero che non sarai venuto a sperperare i tuoi risparmi nel casinò.» «Devo parlarti, Marco Tulio, è una questione molto urgente.» «Non mi dire, urgente?» «Sì.» «Immagino abbia a che fare con i documenti di Tiflis. Sono ricomparsi?» «Andiamo nel tuo ufficio. Voglio farti vedere una cosa.» Esquilache pensò che lo stratagemma con Tiflis avesse già ottenuto qualche risultato. Aveva forse i documenti in tasca? «Andiamo con la mia macchina. È qui fuori.» «Perché tanti misteri? Non puoi parlarne qui, con calma, nella sala biliardi?» «No, poi ti spiego il perché.» 213
Si diressero verso l’ufficio senza aprire bocca. Barragán accese lo stereo e si mise a guidare veloce. Sudava. «Sei nervoso, la faccenda dev’essere proprio grave.» «È grave, sì.» L’edificio era al buio. Entrando, Esquilache accese le luci e tirò fuori una bottiglia di whisky. «Bevi un sorso? Sembra che tu ne abbia bisogno.» «Sì, e doppio.» «Avanti, raccontami cos’è successo.» Quando Esquilache finì di versare e si girò, vide il revolver nella mano di Barragán. «Che diavolo significa? Mettila via!» «Potresti ripetere quello che dicevi l’altro giorno riguardo il tradimento?» «Abbassa quella pistola, pezzo d’idiota! Potrebbe partire un colpo...» «Soprattutto la citazione di Mao. Mi è piaciuta.» «Non so di che stronzate stai parlando.» «Non fare il coglione. Hai dieci secondi per spiegarmi perché hai detto a Tiflis che io gli avevo rubato i documenti.» Alzò l’arma e gliela puntò alla testa. Esquilache si versò un altro whisky, si sedette e lo guardò negli occhi. «Vuoi sapere la verità? Ti accontento subito.» Bevve un lungo sorso, triturò un cubetto di ghiaccio tra i denti e continuò. «Mi sono ipotecato fino al midollo con quelli di GranCapital. Il posto nel Consiglio lo devo a loro e adesso pretendono che li rifonda per i terreni. Non so se sai bene chi c’è dietro GranCapital, ma al loro confronto uno come Tiflis è una mammoletta, okay? Mi stanno tenendo sotto pressione e non sapevo più cosa fare. Quando ho saputo da te che Pereira Antúnez aveva donato i terreni a Tiflis ho pensato che sarebbe stato facile avvicinarlo, proporgli una collaborazione e poi toglierglieli con qualche cavillo legale.» Esquilache si riempì nuovamente il bicchiere, accese una sigaretta e riprese a parlare.
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«Per giunta c’è di mezzo Vargas Vicuña. Quello è protetto da gente pericolosa. È un tipo senza scrupoli, una brutta persona. Fin dall’inizio, quando ho capito che mirava a quei terreni, ho tentato di fermarlo buttandogli addosso la colpa della morte di Pereira Antúnez, ma è stato inutile...» «Dunque l’impalato era davvero Pereira.» «Sì, vecchio mio, però io non potevo dirtelo. C’è una cosa che alla tua età dovresti sapere, ed è che al di sopra del tavolo tutti si sorridono, ma se alzi la tovaglia, vedi solo calci. A Vargas Vicuña non rimane altro che contare su di me, perché io posso approvare i suoi progetti nel Distretto, ma chi sta dietro di lui e quelli di GranCapital sono avversari, mi segui?» Barragán lo guardò con un misto di interesse e rabbia. «Ed è lì che si complica tutto. I documenti spariscono e nessuno ne sa niente. Io comincio a notare che tu fai strani giochetti, anticipi le cose, possiedi informazioni che non mi riferisci. Ho pensato, e dimmi se sbaglio, che Vargas Vicuña ti aveva tirato dalla sua parte e che stavi agendo contro i miei interessi. Se ho detto a Tiflis che le carte le avevi tu è perché lo credevo davvero.» «Hai messo in pericolo la mia vita, razza di cinico irresponsabile. La mia e quella di Catalina, senza parlare dei bambini.» «Non esagerare. Ho detto a Tiflis di prendere le cose con calma.» «Hanno sequestrato una delle mie segretarie, e per poco non la violentano, questo lo chiami prendere le cose con calma?» «Non venirmi a dare lezioni, imbecille. Se non fosse per me saresti un poveraccio qualsiasi. Mi basta alzare un dito per farti cadere. Credi non sappia niente dei tuoi debiti? Che non sia al corrente del fatto che nel casinò del club, se volessero, ti potrebbero togliere anche le palle, ammesso che le trovino? Tu da solo non vali niente, dipendi da me. E con quale coraggio parli della povera Catalina? Non le pianti forse le corna con tutte quelle che ti capitano a tiro? Lo sa lei dove finiscono i soldi che guadagni? Stai attento con me, ragazzino, conosco troppo bene la tua vita per poterti permettere di fare il furbo...» Emilio fissò Esquilache con un odio intenso, alimentato dal tempo: lo guardò come un orfano guarderebbe l’assassino dei genitori. «Attento a come ti muovi, fallito che non sei altro. Dammi quella pistola.» Echeggiò uno sparo. La pallottola spezzò due dita della mano che si era levata per chiedere tregua, invano, prima di conficcarsi nella fronte del 215
consigliere. Esquilache fece una piroetta in aria con gli occhi sbarrati, sfondò la, vetrata e scomparve al di là della finestra. «Non ti devo più niente», disse Barragán. Il corpo di Esquilache, ridotto a un ammasso di carne e ossa, si schiantò sul tetto di una vecchia Toyota.
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XIX
Quando si svegliò, Moníca non c’era più. Gli aveva lasciato la colazione pronta e un biglietto appoggiato alla tazza di caffè: «Ti aspetto stasera. Dobbiamo parlarne, che ti piaccia o no». E sotto: «PS... Stanotte mi hai fatta godere in modo delizioso». Si rivestì velocemente, scese in strada e fermò un taxi. L’edificio dove viveva Quica gli sembrò molto più vecchio e scrostato, a quell’ora del mattino, una costruzione di cemento grigio piena di macchie e muffa. Fino al primo piano la facciata era coperta di scritte e i vetri rotti erano stati sostituiti da teli di plastica. Salendo le scale avvertì un forte odore di gas, e dovette bussare più volte alla porta. Dopo un po’ udì una debole voce. «Sono io, Quica, aprimi.» Indossava una maglietta corta e aveva lo sguardo assonnato. Disse solo «entra» e tornò a letto. «Che ore sono?» chiese tra uno sbadiglio e l’altro. «Quasi le otto.» «Lasciami dormire.» «Come vanno le cose al Lolita?» «Il solito.» Silanpa scostò una delle tendine. Un raggio di luce inondò la stanza e Quica infilò la testa sotto le coperte. «Chiudi!» «Solo un momento.» Frugò nel cassetto della cucina ma non trovò la busta con i documenti. «Quica, avevo lasciato una cosa qui...» «Era tua? Non sapevo di che si trattava e l’ho infilata nel cassetto dell’armadio. Ringrazia che non l’ho buttata via.» Ritrovò la busta tra i panni sporchi e tirò un sospiro. «Che spavento. Adesso devo andarmene.» Quica si alzò dal letto e gli corse incontro. 217
«Non sparire per troppo tempo», disse. «Sto provando altre canzoni, davvero mi aiuterai?» «Sì, oggi stesso parlo con quelli della sezione spettacoli.» Il volto di Quica si illuminò. Le brillavano gli occhi, e lo baciò sulla guancia. Poi aprì lo sportello dell’armadio. «Il problema è che non ho niente di bello da mettere per comparire in pubblico. Mi piacerebbe qualcosa del genere, guarda.» Gli mostrò un ritaglio di rivista: un vestito arancione con le bretelline. «Sarebbe meglio bianco», disse Silanpa. «Il bianco ti sta bene.» La ragazza si mise a ballare davanti allo specchio, ma a un tratto avvicinò il viso, si guardò le occhiaie e lanciò un grido. «Uhii! Non mi devi vedere così, sono orribile.» Chiuse gli occhi, si coprì la faccia con le mani e cominciò a piangere. Silanpa pensò che era ancora una bambina. «È perché hai dormito poco, Quica, tra un po’ spariranno.» Tentò di abbracciarla ma lei si scostò. «Non è per questo... È che ho fatto un sogno orribile. Una cosa che sogno spesso.» Le parole uscirono spontaneamente dalle sue labbra. Dallo sguardo, sembrava provasse dolore a pronunciarle, ma continuò. «È terribile... Mi trovo nel Lolita e qualcuno viene a ingaggiarmi per andare a letto con un uomo. Mi portano in una casa molto buia lontano da Bogotá e prima di farmi entrare in camera mi dicono di spogliarmi e di lavarmi, perché dovrò essere ben profumata e truccata. Quando esco dalla doccia e comincio a sistemarmi davanti allo specchio, la stessa voce mi dice all’orecchio: «Fallo felice, bimba, perché domani lo ammazziamo». Allora mi conducono lungo un corridoio oscuro e sul fondo vedo un uomo di spalle. Quando si gira, risulta essere mio fratello...» Quica gli si avvinghiò al collo e riprese a piangere. «Ma... perché fai dei sogni tanto brutti?» «L’hanno ucciso. Te l’ho già raccontato.» «Chi?» «I mafiosi. Una banda avversaria. Non lo so.» 218
Cercò di calmarla, preparò un caffè e glielo servì a letto. Poi le accarezzò i capelli coccolandola finché non si riaddormentò. «Non mi lasciare», mormorò lei, con gli occhi ormai chiusi. Uscì e andò verso la cabina ripensando alle parole di Quica. Era bello provare compassione per qualcuno, sapere che nel suo animo c’era ancora posto per il dolore degli altri. Fece il numero di Estupiñán. «Buongiorno, capo, come si è svegliato stamattina?» «Bene, Estupiñán. Volevo chiederle un piccolo favore.» «Prima mi dica come è andata stanotte con la sventola. Deve averglielo ridotto come un formaggio groviera, vero?» «Non ho dormito con lei.» «Certo, certo, come no...» «Davvero. L’ho chiamata per chiederle un favore. Ha da scrivere?» Gli passò i dati del consigliere Marco Tulio Esquilache e lo pregò di tenerlo sotto controllo. «Ai suoi ordini, capo. C’è altro?» «No. Alle tre del pomeriggio la richiamo alla caffetteria La Pasarela, che è qui vicino.» «Perfetto.» Guardò l’orologio e constatò di avere ancora tempo. Da diversi giorni sentiva il bisogno di rivedere Guzmán. Voleva chiedere la sua opinione riguardo alle ultime novità. La stanza era vuota e una suora gli consigliò di cercarlo nella sala di ricreazione. Attraversò il salone principale e vide un gruppo di anziani che leggevano riviste, giocavano a scacchi e a dama cinese. Altri guardavano senza la minima emozione le immagini che propinava un vecchio televisore Telefunken. Una suora stava tentando di imboccarne uno. In un angolo, un uomo gemeva con la faccia contro il muro e altri due malati gli urlavano di piantarla. Silanpa si sentì stranamente normale. «Vecchio Víctor! Cominciavo a pensare che ti fossi dimenticato di me.» Guzmán era seduto a un tavolino del giardino. Indossava un accappatoio e delle orrende pantofole. Da molto tempo Guzmán aveva smesso di essere un uomo comune, una di quelle persone che vanno al cinema alla sera e guardano le partite di calcio, che provano pena o allegria e ogni tanto hanno bisogno di consolazione. 219
«Meno male che sei venuto. Credo di avere ormai le cose chiare in testa.» «Vediamo...» «Chi sono quelli che vogliono i terreni? Molti. Però c’è un gruppo per il quale non si tratta di un affare, bensì di sopravvivenza, e sono quelli del bagno turco. Solo loro possono aver fatto una cosa del genere, con gratuita crudeltà. In quel crimine c’è qualcosa di rituale. Pensaci bene: lasciare un corpo infilato in un palo ha in fondo un che di religioso. Ho passato un po’ di tempo nella biblioteca delle suore e mi è capitato di leggere del supplizio di Asdrubale, che poi si è trasformato in un albero. Molto simile a quello di Cristo. E cos’è tutto questo in fondo? Un grido. La morte di un innocente affinché la creazione, che in definitiva è la Natura, continui a procreare. Ricorda che quelli che hanno una fede usano sempre dei simboli.» «Però quelli del bagno turco hanno già i terreni.» «Bisogna calarsi nella mente del criminale. Occorre pensare come lui, assimilarne le idee, le motivazioni e le credenze. La nostra logica è utile solo a cuocere le lenticchie, non certo per scoprire i criminali. Un nemico lo si riduce in quel modo solo quando è in gioco la salvezza.» «Ma Pereira Antúnez non era loro nemico.» «Lo erano gli altri, quelli che lo tenevano in pugno. È diventato un simbolo, e comunque spettava a lui decidere cosa fare dei terreni.» «Ne sei sicuro?» «Sicurissimo. Quella morte è un emblema. Rappresenta le dita incrociate: il vecchio scongiuro contro le epidemie di peste. È l’unica spiegazione possibile... Ci vuoi scommettere?» «Scommettiamo.» «Una festa in piena regola quando uscirò di qui.» «Ci sto.» La voce di Silanpa aveva un tono opaco e Guzmán lo avvertì. «C’è qualcosa di strano. Mi sembra che la storia non ti faccia più ribollire il sangue.» «Troppi fili da dipanare.» Silanpa si schiarì la voce. «Sento di girare a vuoto, intorno a qualcosa che non riesco a vedere.» «I consigli non servono se non c’è la passione per la verità, questo è il punto», disse Guzmán. «Adesso che ti vedo mi sembra che non t’interessi 220
più granché scoprire chi lo ha impalato. Sei come quegli uccelli che volano tutto il giorno verso un albero e appena lo raggiungono crollano.» Silanpa non disse nulla. Guzmán lo guardò con curiosità e malizia. «Quello che cerchi va al di là del crimine in sé e credo abbia a che fare con la tua vita. Come va l’altra questione?» «Meglio», rispose Silanpa. «Credo ci sia una speranza. Moníca è piena di dubbi, ma so che mi vuole ancora bene.» Gli raccontò dell’incontro. La notte trascorsa insieme, le sue parole e l’atteggiamento protettivo. Si sentì stupido. «Stai attento con le illusioni, fratello», sentenziò Guzmán. «Se uno se ne va è perché è già andato via... Non ricordo chi l’abbia detto.» «Almeno adesso sono un po’ più tranquillo. Quando si pensa tutto il giorno a una donna non la si dovrebbe sognare anche la notte. A me succedeva.» «E che succederà se andrà via di nuovo?» «Mi opero di emorroidi, mi licenzio dal giornale e vado a vivere in Ecuador.» «La cosa mi suona bene, ma ricordati del tuo amico», disse Guzmán. «La mia famiglia non si è ancora ripresa dalla vergogna. Tu sei l’unico che viene a trovarmi.» «Non preoccuparti. Non ti lascerò da solo.» «Vacci cauto con Moníca, La faccenda mi puzza e non voglio vederti ridotto peggio di come sei adesso.» «La moneta sta ancora volteggiando in aria. E tu? Come va la lettura dei giornali?» «Ho smesso», disse in tono rassegnato. «Mi annoiava venire a sapere cose che ormai non appassionano più nessuno. Continuo solo a seguire i fumetti, soprattutto la serie Educando papà.» Silanpa lo salutò e uscì, convinto che Guzmán si sbagliasse riguardo l’impalato. E questo gli faceva più male del suo stesso fallimento. Sulla corriera che lo riportava a Bogotá chiuse gli occhi e cercò di non pensare a niente. Si lasciò cullare dalla musica della radio, ma fu inutile. Gli scorreva ancora nel sangue la notte passata con Moníca. Sentiva a tratti il suo odore e a un certo punto, mezzo addormentato, pensò che dovesse recuperare le forze, cercare consolazione in qualche posto dove abbando221
narsi. Arrivato in centro camminò lungo la Settima fino al Centro Internacional e si diresse, per la prima volta nella sua vita, verso la chiesa di San Diego. Erano le sei del pomeriggio e a un tratto le campane cominciarono a suonare spaventando i piccioni che volarono verso un cielo denso, carico di umidità e smog. Una folla di mendicanti e venditori di biglietti della lotteria si disputavano la scalinata, e oltrepassando la cancellata un gruppo di donne lo assalì mettendogli davanti una scatola di cartone. «Siamo devote di padre Almansa, giovanotto», disse una donna ricoperta di santini. «Stiamo facendo una colletta per costruire una nuova nicchia nella cappella, vuole offrire qualcosa?» Silanpa prese una banconota e la infilò nella scatola. Un’altra donna gli porse un foglio. «Il nome e la firma, per favore. Stiamo chiedendo per la terza volta la canonizzazione. Lo sa che la settimana scorsa il ritratto ha ripreso a lacrimare? Stavolta ci dovranno ascoltare.» Entrò nella cappella, osservò la nicchia con l’immagine della Vergine del Campo e andò a sedersi su una panca, in mezzo alla gente. Non ascoltò l’orazione, ma pensò che almeno, in quel luogo, il suo di dentro non gli apparteneva più. Nel Nueva York, Susan lo aspettava fumando una sigaretta dietro l’altra e intanto rimuginava un’idea in testa. Guardava spesso la finestra, andava alla porta ogni volta che sentiva un rumore sulle scale e alla fine si decise. Prese la cornetta e compose un numero. «Heliodoro Tiflis, per favore.» «Principessa! Sei proprio incorreggibile, eh? Che razza di scherzo, scappare in quel modo.» «Non mi hai lasciato altra possibilità, Heliodoro.» «Dove sei?» «In un posto sicuro. I tuoi gorilla non sono i galantuomini che tu dici. Runcho ha tentato di violentarmi. Ecco perché me ne sono andata.» «Povero Runchito, bisogna capirlo. Figurati che la fidanzata lo ha lasciato e lui fa una pazzia dopo l’altra. È come un bambino.» «Non ti importa che abbia tentato di violentarmi?» «Non preoccuparti, mamita, l’ho già punito.» «Volevo parlare con te... So chi ha i tuoi famosi documenti.» 222
«Anch’io lo so, tesoro. Dimmi qualcosa che non so ancora.» «Vorrei che tornassimo a essere soci.» «Mia regina, ma è ciò che voglio anch’io. Avanti, raccontami quello che sai.» «Il giornalista Silanpa. Li ha lui. Ma c’è un problema: dice di averli consegnati alla polizia.» «Non mi dire. E dove lo posso trovare, quel giornalista?» «Ho un appuntamento con lui più tardi, quando saprò cosa intende fare ti richiamo, okay?» «D’accordo, tesoro. E intanto potrei preparare un assegnino.» «Di questo parliamo dopo.» Susan sentì dei passi nel corridoio. «Adesso devo riattaccare, ciao.» Bussarono, e lei andò ad aprire. «Buongiorno», disse Silanpa. «Víctor, finalmente sei arrivato.» Lo prese per un braccio tirandolo dentro. «Che paura, accidenti. Ogni volta che sento dei passi nel corridoio penso siano gli uomini di Tiflis.» «Qui sei al sicuro, Susan. Non devi aver paura.» «Quanto tempo dovrò restare in questo albergo?» «Non lo so ancora, ma la cosa migliore è rimanere qui finché tutto non sarà risolto. Nel pomeriggio vado a parlare con la polizia.» «Potrebbe essere peggio.» «Per come stanno ormai le cose, tocca a loro risolvere la questione, io sono solo un giornalista.» «Ma in fin dei conti i terreni appartengono a Tiflis, perché toglierglieli? Il problema comincia da lì.» «Non dimenticare che ci sono di mezzo due morti.» «I morti stanno dappertutto, Víctor. Ovunque guardi, saltano fuori cadaveri.» «Però uno può anche scegliere da che parte stare.» «Io sto dalla parte dei vivi. Per questo non mi piace mettermi contro uno come Tiflis.» 223
«I tuoi fini sono diversi dai miei», disse Silanpa accendendo una sigaretta. «Lo so. però con i miei si può vincere.» «Non sempre vincere è la cosa più giusta.» «Se si tratta di restare vivi, sì.» «Tutti siamo vivi, non preoccuparti.» «E per quanto tempo ancora?» «Questo non lo sa nessuno.» Susan si avvicinò. «Ti propongo un accordo, Víctor. Tu hai i documenti e io ho l’informazione che può esserti utile. A te i terreni non interessano, quello che vuoi è sapere chi ha ucciso Pereira Antúnez, chi lo ha impalato sulla riva del lago e perché. Mi sbaglio?» «Vai avanti, qual è l’accordo?» «Dammi i documenti e io ti aiuto a risolvere il caso. Se li porto a Tiflis, lui si fiderà di me, e a quel punto otterrò le informazioni per te riguardo l’omicidio. Tu pubblichi il servizio sul giornale, diventi famoso, e io torno libera, che te ne pare?» «Non cerco la fama.» «Non dire scemenze, Víctor. Tutti cercano qualcosa in una storia simile.» «Mi interessa l’informazione che non mi hai ancora dato. Parlami di Pereira Antúnez.» «Ti ho proposto un accordo.» «Non lo accetto.» «E pretendi che ti dica quello che so?» «Sì, perché altrimenti sarò costretto a chiamare la polizia e il loro modo di interrogare è meno gentile del mio.» Susan accese una Pall Mall e si sedette di fronte a lui con una espressione stanca. «Pereira Antúnez era un brav’uomo, un animo nobile che per sua sfortuna si circondava di rifiuti. Aveva molti soldi, un’infinità di affari, ma in fondo era uno dei nostri, una persona che si avvicina alla natura senza preconcetti, con sincerità. Per questo approfittavano di lui.» 224
«Tiflis l’ha sequestrato per poi ucciderlo e tenersi i terreni?» «Ti ho già detto che non intendeva ucciderlo. Per quanto ne so, lo teneva narcotizzato. Qualcuno l’ha preso e ammazzato.» «Chi?» «Forse Esquilache, o Vargas Vicuña. Torniamo sempre sugli stessi nomi. È tutto ciò che posso dirti, per ora.» Silanpa prese la giacca e si diresse alla porta. Prima di uscire le mostrò la busta che teneva in tasca. «Eccoli qui, i documenti che cercate tanto. Fatti venire in mente altri dettagli, e forse oggi pomeriggio raggiungeremo un accordo.» Richiuse la porta. Arrivato in piazza Lourdes entrò nella caffetteria San Fermín, ordinò un’empanada di carne e andò al telefono. «Salve, vorrei parlare con un cliente che si chiama Estupiñán», disse. «È un signore grassoccio, di media statura...» «Un momento che chiedo...» «Capo, che puntualità.» «Mi racconti cosa ha visto.» «È seduto?» «No, ma sono appoggiato alla parete.» «Allora si tenga forte.» «Cos’è successo?» «Stanotte hanno ammazzato Marco Tulio Esquilache, una pallottola in fronte, nel suo ufficio.» «Nooo.!» «Proprio così, la faccenda si fa pericolosa.» «E si sa chi è stato?» «Macché. Quando sono arrivato, sul presto, c’era una volante della polizia davanti al portone. Il cadavere l’avevano già portato via ma stavano ancora raccogliendo testimonianze.» «Vediamoci al comando della polizia. Tra dieci minuti.» «Signorsì.»
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Prese un bus sulla Caracas. Un mutilato gli mise il moncherino sotto il naso chiedendo l’elemosina e Silanpa, per l’orrore, gli rifilò una banconota da cinquecento pesos. «Quanto mi manchi», si disse, «quante cose avresti potuto dirmi oggi, e ne ho tanto bisogno». Pensava al suo manichino di donna. Sul portone del commissariato, sotto lo scudo e la bandiera nazionale, Estupiñán lo aspettava ansioso. «Dunque hanno stecchito il consigliere», disse. «Che cosa effimera, la vita, non trova?» «Andiamo a vedere cosa ci raccontano qui.» Il capitano Moya continuava a cacciarsi in bocca gomme da masticare. Vedendoli entrare, si alzò dalla scrivania e li accolse con un sorriso. Accanto alla scrivania, Silanpa notò con stupore un’immagine del Divin Gesù e due ceri accesi. «Non è il Divin Gesù, caro Silanpa, ma il Bambin Gesù di Praga. E questo è padre Almansa, vede? Il ritratto ha ripreso a piangere, in tutto il centro non si parla d’altro.» Moya si spostò alla finestra e parlò stando di spalle. «Ma... che cosa mi racconta, il mio uomo di lettere preferito?» «Che sono sorpreso, capitano», rispose Silanpa. «Già, il trattamento per dimagrire sta dando dei risultati, no? Se vado avanti così, finirò a fare l’acrobata in un circo russo.» «Ecco, per la verità, mi riferivo all’omicidio del consigliere.» «Ah, certo...» «Ma in effetti stavo per dirglielo, è davvero dimagrito.» «Mi dicono tutti la stessa cosa...» Prese un dolcetto Bon Bon Bum e se lo infilò in bocca. «Eh sì, proprio una brutta fine, quel tipo, Esquilache.» «Non ci crederà, capitano, ma penso abbia a che fare con la storia dell’impalato.» «Dell’impalato?» «Sì.» «Quell’indagine è ancora bloccata, mio caro giornalista. Sta registrando?» Silanpa fece segno di no.
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«Dunque, le dicevo che è bloccata perché non siamo riusciti a sapere niente, nemmeno chi diavolo fosse quel poveraccio.» «Non mi dica.» «Immagini un po’.» «E riguardo il consigliere, cosa si sa?» «Niente di speciale, per ora. Che era un tipo regolare, senza precedenti. Una persona rispettabile.» «Qualche sospetto?» «No, ma abbiamo interrogato il suo autista.» «E cos’ha detto?» «Niente di interessante: che il suo capo era un uomo molto occupato.» «Può darmi i suoi dati, che vedo se ne tiro fuori qualcosa?» «Si chiama Vladimir Osasuna Rivas, ecco, li copi pure, qui c’è l’indirizzo.» Silanpa ringraziò e, ormai sulla porta, sentì dire al capitano: «Un’ultima cosa, se non le dispiace... ha saputo qualcosa sull’Ultima Cena?» «A essere sincero, no», rispose Silanpa. «In questi giorni non sono andato spesso al giornale.» Moya lo squadrò con sguardo complice e Silanpa capì che stava per fargli una confidenza. «Penso di aver preso la decisione. Adesso che sto dimagrendo sento come un venticello, qualcosa sulla nuca che mi annuncia grandi cambiamenti.» «Allora è vero quel che si dice in giro, che lascia la polizia.» «Piano, non corra, io parlavo di cambiamenti interiori... Mi piace l’aspetto morale e religioso dell’associazione. Lei non può capire perché è troppo giovane, ma alla mia età le questioni terrene perdono importanza.» «Comunque sia, lei merita di prendersi un periodo di riposo», disse Silanpa salutandolo. Estupiñán aspettava nella sala al pianterreno, raccontando barzellette a un agente. Questi si contorceva dalle risate ed Estupiñán, soddisfatto per il risultato, si teneva la pancia con le mani. Vedendo Silanpa, strinse la mano 227
al poliziotto e uscì. Silanpa gli mostrò il foglietto con l’indirizzo dell’autista di Esquilache: una casa a Usaquén, vicino alla montagna. «Sì?» chiese una voce di donna dietro la porta. «Vorremmo parlare con il signor Osasuna.» «Chi lo desidera?» «Polizia.» «Lo hanno già interrogato.» «Niente di grave, signora, solo qualche domanda in più, non volevamo convocarlo in commissariato per così poco, vuole aprire la porta, per favore?» «Prima qualificatevi.» Silanpa sfoderò uno dei suoi tesserini. «Va bene, venite.» La donna si decise ad aprire. Dal fondo, comparve l’autista, con la faccia spaventata. «Ci scusi se la disturbiamo, signor Osasuna, ma ci sarebbero ancora alcune cose da chiarire.» Osasuna li invitò a sedersi intorno al tavolo della cucina e fece cenno alla donna di andarsene. «Quali persone ha frequentato il consigliere nella settimana prima della sua morte?» «Be’... molte, signore. Era una persona conosciutissima.» «Nomi, indirizzi», disse Estupiñán. «Ecco... Il signor Emilio Barragán, per esempio, che oltretutto era anche parente del dottor Esquilache.» «Chi altri?» Vladimir si grattò il mento. «Le rammento che in questo paese occultare informazioni è un reato», disse Silanpa. «Il mio collega e io non abbiamo fretta e siamo qui per facilitarle le cose, quindi ci pensi pure con calma.» «Insomma, ha visto diversi funzionari del Consiglio di Bogotá... Gente del club...» «Per caso ha visto il signor Heliodoro Tiflis?»
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Vladimir impallidì. Un accesso di tosse lo costrinse ad alzarsi, per bere un bicchiere d’acqua. «Sì.» «In quali circostanze?» «Si sono incontrati la settimana scorsa. Il dottore era in compagnia dell’avvocato Barragán. Nel bar dell’Hotel Bacatá.» «Ed è stato l’unico contatto con Tiflis?» «Ecco...» Li guardò e poi abbassò gli occhi. «Mi garantite la massima discrezione su quanto sto per dirvi?» «Totale e assoluta.» «Il signor Tiflis gli ha mandato dei suoi gorilla, martedì scorso. Ci hanno bloccato sulla circonvallazione e danneggiato la macchina.» «E per quale motivo?» «Il capo dei picchiatori ha detto che a Tiflis erano spariti dei documenti. Non so a cosa si riferissero, ma il dottore era molto nervoso.» Silanpa annuì e guardò Estupiñán. «E da quel giorno il consigliere ha cambiato abitudini, orari, ha cercato protezione?» «Più o meno. Quella sera mi ha ordinato di portarlo nell’ufficio del dottor Barragán. Era piuttosto tardi.» «Quando è successo?» «Martedì, me lo ricordo perché c’era la partita del Nacional per la Coppa Libertadores.» «Ah...» «E inoltre andava tutte le sere al club. Anche ieri, nel pomeriggio. Mi ha chiesto di lasciarlo lì, prima che venisse ucciso.» «È lì che l’ha visto per l’ultima volta?» «Sì.» «Per me è tutto... Estupiñán?» «Sì», e si alzò per fare un giro intorno all’autista. «Lei ha detto che siete andati nell’ufficio dell’avvocato il giorno della partita. È finita ai rigori, è stato prima o dopo?» «Erano già finiti i tempi regolamentari. Ho seguito i rigori alla radio, mentre lo aspettavo.» 229
«Cioè, saranno state le dieci di sera.» «Infatti.» «E lo aspettava qualcuno, nell’ufficio?» «No. Mi è sembrato che non ci fosse nessuno in tutto l’edificio.» «Un ultimo particolare... Chi ha calciato l’ultimo rigore del Nacional?» «Leonel Alvarez.» «È tutto, grazie.» Silanpa ed Estupiñán uscirono. Scesero fino alla Settima e presero un taxi per recarsi nell’ufficio di Esquilache. Un poliziotto giovane montava la guardia all’entrata. «Silanpa, stampa.» «Signor giornalista, come va? Lei arriva sempre al momento giusto dappertutto, eh?» Silanpa lo guardò incuriosito: era un tipo di bassa statura, l’uniforme gli andava stretta e alla giacca mancavano due bottoni. «Di sicuro non si ricorda, ma sono stato io a mostrarle il tipo laggiù, al lago, se lo è dimenticato?» «Certo che mi ricordo, agente.» «Scriverà anche di questa storia?» «Ci proverò, ma è una faccenda molto strana, non le pare?» «Sì, stranissima. Comunque vada pure. Veda se riesce a trovare qualcosa.» «Grazie, agente, con permesso.» Una bottiglia di whisky e due bicchieri. Un portacenere con vari mozziconi. Andò alla finestra e guardò in basso. Avevano già portato via la Toyota ma restavano i segni con il gesso sull’asfalto del parcheggio. Frugò negli archivi. Trovò la copia dell’atto identico al suo, fatta nell’ufficio del catasto. Poi altre carpette con scritto: «Archivi Vargas Vicuña», «Archivi Società Figli del Sole», «Archivi GranCapital», che infilò nella borsa assieme a una foto incorniciata dove Esquilache, in smoking, faceva un brindisi. «Per me è tutto, agente. Grazie.» «Fino al prossimo morto, giornalista. Ha trovato qualcosa?» «Ho solo dato un’occhiata alla scena del delitto.» 230
Si salutarono. Estupiñán lo stava aspettando in strada. «Come è andata la caccia, capo?» «Bene. Lei vada a vedere cosa combina l’avvocato Emilio Barragán, che tutti lo nominano, io intanto vado a mettere via quello che ho trovato e a controllare i movimenti di Tiflis.» «Subito. Dove e a che ora ci vediamo?» «Nella caffetteria di fronte all’Hotel Esmeralda. Stasera alle otto.» «Passo e chiudo, capo.» Estupiñán alzò il pugno sinistro. «Sincronizziamo gli orologi?» «Fatto.» Silanpa andò a casa di Moníca e avvicinandosi all’edificio ebbe la sensazione di entrare in una zona neutrale. Non sentiva ancora dell’affetto per quelle pareti e finestre, ma in quel posto e in una sola notte lei lo aveva rigenerato. Salì con l’ascensore dando un’occhiata alle carte e, entrato nell’appartamento, la vide nella sala. «Víctor...» e lo baciò a lungo sulla bocca. «Morivo dalla voglia di vederti.» «Anch’io», disse senza pensarci. «Sono venuto a lasciare dei documenti.» «Spero non sia niente di pericoloso.» «Non posso rischiare di perderli.» «Voglio parlare con te...» «Ti ascolto.» «Quello che è successo stanotte non deve ripetersi.» Era bellissima: i capelli sciolti, i jeans attillati e un maglione a losanghe. «Lo so.» «Non è così che riusciremo a separarci.» «Ti sei pentita?» «No di certo.» «Allora?» «Sto con Oscar, non posso venire a letto con te.» «Però ci andavi a letto con lui, quando stavi con me.» 231
«Era diverso, tu e io eravamo in rotta.» Mise un CD dei Supertramp. Diceva che quella musica era ottima per pensare. «Non deve ripetersi, me lo prometti?» «Sei stata tu a cominciare.» «Lo so. La prossima volta non me lo devi permettere.» «Sarebbe sufficiente non averne voglia.» «È proprio questo il problema.» «Quale?» «Che ne ho voglia.» Accese una sigaretta e subito dopo la spense. «Non farmi parlare, ho un gran casino in testa.» «Vuoi che torniamo insieme?» «Non me lo chiedere.» «Sei innamorata di Oscar?» «Credo di sì.» Silanpa riprese a sentire nausea, e un nodo alla bocca dello stomaco. Riaprì gli occhi e quelle parole continuavano a echeggiargli in testa. «Capisco. Prendo le mie cose e me ne vado.» «No, resta. Lo sai che ti voglio bene.» «Non puoi stare con tutti e due contemporaneamente. Lui lo sa? Gliene hai parlato?» «No.» «Devo andarmene.» Tentò di andarsene ma lei si mise davanti. «Toccami, guarda che effetto mi fai». Lo spinse fino al divano e lui la lasciò fare per pietà vedendo quell’altra immagine di se stesso che adesso gli sembrava lontana: l’uomo solo che la perdeva per sempre. Il sole del pomeriggio inondava la stanza. Il vento scuoteva le tendine e in lontananza si sentiva il rumore di un martello pneumatico confuso con quello del traffico. «Mostro, perché hai permesso che succedesse?» Moníca camminò nuda fino al bagno e lui la guardò: la amava e per di più gli piaceva. 232
«È l’ultima volta, intesi?» «Sì.» Quando tornò, Moníca cercò l’orologio. Era ora di andare. «Stasera farò tardi», disse infilandosi i pantaloni. «Ma tu resta in casa.» Si salutarono sulla porta. «Questo casino bisogna risolverlo una volta per tutte.» Moníca lo baciò. «Pensa a cosa vuoi fare e stasera me lo dici», rispose Silanpa. «Mi fai venire i nervi... Stai tranquillo, stasera ti do una risposta.»
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XX
Dice la famosa canzone che «quando l’amore arriva così, in questa maniera, uno non ne ha colpa»... E il fatto è che la Matilde di cui vi ho parlato si rivelò fin dal primo appuntamento una cuoca eccezionale. Dopo qualche scaramuccia nei cinema sulla 13 e qualche ballo al circolo della polizia, Matilde mi permise di accedere alla sua residenza, nell’attualmente tumultuoso barrio di Suba che allora era solo una frazione a sé, e scoprii una casa dove, se mi concedete l’espressione, la felicità trasudava dai muri. Viveva con i genitori, tre sorelle e due cugine minorenni venute da Chiquinquirá a studiare nella capitale. Tutte cucinavano, ma era Matilde che sapeva dare al lesso quel sapore così patriottico da rappresentare il piatto preferito di imperatori e ministri. E non parliamo dei dolci o dei frullati, o dell’abilità nel cuocere a puntino torte e budini... «Aristófanes, ancora un po’ di pollo? Qualche altra patatina?» e io, se le signore permettono, mangiavo quei manicaretti con la sensazione di inghiottire lei, in senso poetico, è ovvio, e così, tra una cena e l’altra, c’incamminammo verso l’altare. Fu una cerimonia semplice nella chiesa di Suba. Il prete ci benedì, Montezuma era il mio testimone, e per lei una delle cugine, e da lì andammo a fare una gran mangiata nel giardino della casa dei miei suoceri, come mai mi era capitato in trentotto anni di felice e irresponsabile celibato: carne arrosto, patate, costolette di agnello, insalata di avocado, petto di pollo in salsa piccante, tutto quello che c’era nella dispensa finì sui fornelli, bagnato da birra e aguardiente e accompagnato da un trio di musica tipica boyacense. Matilde, che per quanto giovane era piuttosto in carne, non restava indietro se si trattava di avventarsi su uno zampone, e alla fine ce ne andammo verso Anapoima con lo stomaco soddisfatto e il cuore palpitante, per una luna di miele di tre giorni in un albergo con piscina e il fiume a pochi passi. Da quel momento, stimati amici, la vita del sottoscritto sarebbe cambiata in modo radicale, perché la serietà dell’impegno assunto e l’attaccamento al focolare domestico mi hanno trasformato in un’altra persona. Niente più baldoria con i colleghi alla fine del turno, niente scommesse al biliardo, né bevute con Montezuma per stimolare la riflessione e passare in rassegna la vita. Addio 234
feste inconfessabili, anche se normali e persino tollerate dalla Chiesa quando si tratta di adulti scapoli. In cambio, ho avuto la felicità della cucina casalinga, la cucchiaiata di dolce davanti al televisore e l’amore per le frittelle dorate al punto giusto.
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XXI
Barragán se ne stava sdraiato sul bordo della piscina nel club, con un bicchiere di Planter’s Punch in mano, intento a osservare il corpo slanciato di una ragazzina che nuotava. Era rimasto lì tutta la mattina sorpreso per la propria calma, per il sangue freddo dimostrato. Non c’era nella sua mente un solo atomo di rimorso. Al contrario: si sentiva tranquillo, finalmente libero da un pesante fardello. Dopo l’omicidio, era tornato a casa e aveva dormito accanto a Catalina cadendo in un sonno profondo e rigenerante. «Telefonata urgente, dottore», disse un cameriere porgendogli un apparecchio portatile. «Dottor Barragán, è successa una cosa orribile.» Era la voce di Nacha. «Cosa?» «Hanno ucciso il dottor Esquilache.» «Non è possibile!» «Sì, dottore, stanotte.» «Vengo subito in ufficio.» Chiamò Catalina e le diede la notizia. «Com’è potuto accadere?» chiese con voce angosciata. «Non lo so, adesso mi trovo nel club. Vado di corsa in ufficio per vedere se riesco a saperne di più. Poi ti richiamo.» Si vestì e andò in ufficio. Entrando nel garage per poco non investì un uomo basso e panzuto che stava leggendo tranquillamente una copia di «El Espacio» seduto contro il muro. Era Emir Estupiñán. Fece varie telefonate, scorse una serie di messaggi e quindi uscì per raggiungere l’obitorio dell’ospedale San Ignacio. Giù, l’uomo basso non c’era più, ma Barragán non ci fece caso. «Parente?» gli chiese uno dei medici legali. «Sì. Era lo zio di mia moglie.» «Venga.» Gli mostrarono il cadavere e luì guardò la faccia verdastra di Esquilache come una cosa del passato, il foro della pallottola si era annerito formando un coagulo secco. 236
«Parente?» chiese un altro uomo, avvicinandosi. «Sì, l’ho già detto al medico.» «Dovrei farle alcune domande... Polizia.» «A sua disposizione.» «Conosce le circostanze della morte?» «Mi ha detto qualcosa la mia segretaria, sarebbe successo stanotte in ufficio, no?» «Sì.» «Non riesco ancora a crederci...» «Come lei sa, oggi può capitare a chiunque.» Andarono a sedersi a un tavolo. Barragán sentiva freddo e un vago nervosismo. «Lo vedeva di frequente?» «Sì, lavoravamo assieme ad alcune questioni, e comunque veniva a pranzo da noi quasi tutte le domeniche.» «Ha idea di chi potrebbe essere stato?» «No, al momento non mi viene in mente nessuno. Ma deve scusarmi, sono troppo sconvolto.» «L’ultima volta che l’ha visto?» «Due giorni fa.» «Ha notato se era nervoso, le ha riferito qualcosa su eventuali minacce?» «Marco Tulio sembrava di granito. Se non parlava esplicitamente dei suoi problemi, era impossibile intuirli.» «A cosa stavate lavorando ultimamente?» «A delle successioni, come sempre.» «Qualcuna in particolare?» «Sì, un condominio sulla Pablo VI. La proprietaria è deceduta senza lasciare eredi e quindi il caso l’avevano passato a lui. Io ero il suo consigliere legale.» «Niente altro?» «Ci sarebbe qualcosa in più. Passi nel mio ufficio e le mostrerò tutto in ogni dettaglio.» 237
Gli diede un biglietto da visita e si alzò. «Mi scusi, adesso devo andare a prendere mia moglie.» «Prego, vada pure.» Inalò a pieni polmoni l’aria pomeridiana. Adesso c’era un ostacolo in meno per realizzare i suoi progetti, ma doveva essere prudente, e come del resto in tutti gli affari, la parte finale risultava la più insidiosa. Percorse sulla Peugeot la Settima fischiettando I will survive, diffusa dal canale Caracol Stereo, seguendo il ritmo con colpetti della mano sul volante. Dietro, in un vecchissimo taxi che sembrava la Batmobile, Estupiñán lo seguiva. «Quando si dice la scalogna, ha visto quel palo?» Il tassista lo guardava nel retrovisore e agitava le braccia. «Quando ha tirato mi sono detto: porcatroia, gol! La palla era già dentro, no? E quando è rimbalzata fuori, vaccamiseria, ho cacciato un urlo...» «È sempre lo stesso problema», rispose Estupiñán, senza distogliere lo sguardo dalla Peugeot. «Questo è il paese dei pali e delle traverse. E mi pare più difficile centrare un palo che infilarla in rete, o no?» «Eccome.» «Capo, acceleri che se no lo perdiamo.» «Non c’è problema, al semaforo della 57 lo riacchiappiamo. A quest’ora sarà già intasata. Mi permette una domanda?» «Certo, se non è niente di troppo complicato.» «Lei è della polizia?» «No, sono un investigatore.» «Non mi dica. Sul serio?» «Sì, sto pedinando un tipo sospetto.» «Magarret...» «Chi?» «Magarret, quello di Hawaii 5-0.» «Già, proprio come lui.» L’autista accelerò all’improvviso. «Insomma, quel tipo è forse un assassino? Prendiamolo, no?» «Ma no.» Estupiñán rise. «Allora cos’è? Un narco? Non mi spaventi, la prego.» 238
«Se dovessimo inseguire i narcos in taxi, saremmo proprio fottuti.» «Va bene, non le faccio altre domande per evitare guai a me e alla mia famiglia.» «Bravo, meglio così. E guardi avanti, che altrimenti mi innervosisco.» Sulla scrivania, nell’Hotel Esmeralda, Tiflis aveva una copia di «El Bogotano», dove campeggiava la foto della testa perforata di Esquilache. Il titolo a caratteri cubitali diceva: «Non ha avuto nemmeno il tempo di chiudere gli occhi: chi stavano guardando?» «Qualcuno ci ha dichiarato guerra, dannazione», disse a Camaleón. «Prima ci fanno fuori due dei nostri a casa del giornalista, poi scompare il Runcho e adesso questo.» «Eh sì. Brutta faccenda, capo.» «Mi sa che ci dovremo muovere con ogni cautela, e scoprire da che parte arrivano le pallottole. No?» «Eh sì. Brutta faccenda, capo.» «Comunque sia, bisognerà scambiare due chiacchiere con il signorino Barragán, questo è sicuro, perché qui c’è qualcuno che sta cercando di fregarci, e dire che non siamo così coglioni...» «Eh sì. Brutta faccenda, ca...» «Ma non sai dire altro, pezzo di imbecille!?» «Ecco, sì... È che la faccenda... Scusi...» «Buono, Camaleoncito, buono, che se sapessi anche parlare, non mi faresti da autista. Ah, perdonami, figliolo, è che con tutte queste brutte notizie ho un umore da cani.» «Sì...» «Prendi due uomini e portami qui Barragán prima che si spaventi ancora di più, intesi?» «Agli ordini, capo.» Silanpa li vide partire su una Renault 18 e pensò che avrebbe dovuto seguirli. Era forse Tiflis, l’assassino? L’auto imboccò la circonvallazione sull’avenida Jiménez gettando lo scompiglio tra la folla che si dirigeva a piedi verso le alture di Monserrate, e arrivata alle teleferiche svoltò in direzione nord. Lui li seguiva a pochi metri, su un taxi Fiat Mirafiori, innervosito dal fatto che le cose stavano prendendo una piega inaspettata. Pensò a 239
Moníca: cosa aveva deciso? Non poteva non volergli più bene, in fondo certe cose succedono solo se c’è ancora dell’amore. La Renault 18 parcheggiò davanti a un edificio della zona nord e lui scese dal taxi dietro l’angolo. Da lontano, li vide entrare in una delle eleganti residenze e poi, senza farsi notare, si avvicinò per leggere i nomi sul portone. In quel momento, da dietro un arbusto, scorse una figura piuttosto bassa che gli sembrò familiare. «Estupiñán?» «Capo, che ci fa qui?» Vedendolo, intuì subito cosa stava succedendo. «Ho seguito gli uomini di Tiflis dall’albergo. Questo è l’ufficio di Barragán?» «Sì, e presto si scatenerà un putiferio, perché poco fa sono entrati tre ceffi con l’aria da guardaspalle.» Silanpa tirò fuori i documenti che aveva preso nell’ufficio del defunto Esquilache e aprì la carpetta intestata «Caso Pereira Antúnez». C’erano lettere, fatture, schede, fotocopie di assegni. Un documento manoscritto su carta da fax attirò la sua attenzione. Niente firma né data, «La faccenda sulla costa è finita male, il dottore non viene più. Entro tre giorni deve inaugurare un albergo a Pasto, che ne facciamo del bebé?» Pensò di rifletterci sopra quella sera, mentre aspettava la risposta di Moníca. A un tratto echeggiarono alcuni spari all’interno dell’edificio. Silanpa si precipitò a un telefono pubblico. «Capitano Moya? Sono Silanpa, mandi subito una volante a questo indirizzo, scriva...» Glielo dettò. «Qui la situazione comincia a scottare.» «Ha fatto bene a chiamarmi, caro il mio uomo di lettere preferito, perché si immagini un po’, i miei agenti hanno trovato proprio oggi un paio di corpi crivellati dentro casa sua.» «A casa mia?» «Sì, i vicini hanno dato l’allarme poco fa. Ha sentito parlare del mar Rosso?» «Sì.» «Ecco, il pavimento di casa sua sembra il mar Rosso, mi spiego?»
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«Ne riparliamo dopo, capitano, mandi immediatamente qualcuno perché qui si mette male. La cosa ha a che fare con l’impalato e forse anche con l’omicidio del consigliere.» «Adesso arrivano.» Intanto, scorsero la figura di un uomo che saltava in giardino da una finestra sul retro. Estupiñán lo riconobbe: era Barragán. «Lo segua, Estupiñán, e non lo perda. Ci vediamo più tardi al commissariato, e se non può mollarlo, mi telefoni.» «D’accordo, capo, passo e chiudo.» Di lì a poco, Silanpa udì la sirena della polizia. Li vide passare sulla strada di dietro e si sbracciò, ma quelli continuarono verso le colline a tutta velocità. Tornarono giù e la sirena echeggiò alle spalle degli edifici di fronte, poi due isolati più a sud e infine in una strada che sbucava dalla Settima. «Si sono persi», pensò correndo verso l’incrocio. Finalmente li raggiunse: uno dei poliziotti stava mostrando un foglietto a un custode e quello gli indicava il punto giusto. «Sono Silanpa, della stampa, il posto è là.» «È che qui gli indirizzi sono un tale casino», disse l’agente. «Quanti sono?» «Saranno almeno sei e si stanno sparando tra di loro. Fate attenzione.» Quattro agenti entrarono dall’ingresso principale e altri quattro fecero il giro da dietro. Silanpa si acquattò dietro le auto parcheggiate. La gente si affacciava alle finestre e due uomini si spostarono fino all’incrocio per deviare il traffico. Risuonarono varie raffiche, urla e rumore di vetri infranti. Arrivarono altre due volanti che bloccarono la strada. Il silenzio calò di colpo, e pochi istanti dopo gli agenti uscirono trascinando quattro uomini ammanettati verso le macchine. Poi portarono fuori alcuni corpi avvolti in coperte grigie. Silanpa andò al commissariato insieme ai poliziotti. Erano le cinque del pomeriggio. «Alcuni di quegli uomini lavorano per Heliodoro Tiflis, capitano, il mafioso dell’Hotel Esmeralda.» «Non mi dica...» Moya si sedette e tentò, sempre invano, di accavallare le gambe. «Sì, li ho seguiti da là fino all’ufficio di Barragán.» 241
«E dov’è andato il nostro caro avvocato?» «Il mio socio lo sta pedinando.» «E cosa ci facevano i tirapiedi di Tiflis nell’ufficio di Barragán?» «Lo cercavano per una faccenda riguardante certi terreni.» «Ah... La cosa si fa interessante», disse Moya. «Ma prima lasci che le racconti di casa sua.» «Li hanno trovati questo pomeriggio?» «Sì, ma secondo i vicini è successo la notte scorsa.» «E chi sarebbero i morti?» «Non si sa ancora. Abbiamo un fuoristrada Trooper parcheggiato di fronte che apparteneva a loro.» «Trooper? Allora anche quelli lavoravano per Tiflis.» «E cosa ci facevano a casa sua, giornalista?» «Cercavano gli stessi documenti che oggi speravano di trovare da Barragán.» Moya unì le dita, si pulì un’unghia e poi lo guardò. «Avanti, di che documenti si tratta?» Silanpa gli raccontò per filo e per segno l’intera storia: i terreni, la società Figli del Sole, Esquilache, Susan... «E quella donna sarebbe ancora in albergo ad aspettare che lei le telefoni?» chiese il capitano corrugando la fronte. «Sì, devo darle una risposta per l’accordo che mi ha proposto.» «Allora andiamo a vedere cosa ci nasconde questo angioletto.» Gli porse il telefono. «La chiami e le dia un appuntamento, dica che accetta. Se le cose stanno come dice, quella chiamerà Tiflis e subito dopo arriveranno addosso a lei, non è così?» «Esattamente, capitano, finalmente mi ha capito.» «Va bene, si muova, e quando si faranno sotto, io e i miei uomini piombiamo sul posto e li prendiamo in flagrante.» «Comunque, faccia sorvegliare Tiflis in albergo, nel caso annusi la trappola.» «D’accordo... Lei è una tigre, giornalista.»
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Silanpa chiamò Susan e le disse che accettava. Appuntamento nella caffetteria San Fermín entro un’ora. Stava calando la sera. In strada, aumentavano i clacson, le frenate e il fumo. Barragán arrivò a casa con gli occhi fuori dalle orbite. «Che succede, amore?» Catalina aveva aperto la porta e, vedendolo in quello stato, si era gettata fra le sue braccia. «Dobbiamo andarcene. Prendi tutti i passaporti e prepara i bambini.» «Ma... andarcene dove? Che succede? I bambini sono a lezione di inglese.» «Allora andiamo a prenderli. Metti in una borsa i gioielli e le cose di valore, tesoro, siamo in pericolo. Poi ti spiego.» Catalina cominciò a piangere e lo guardò con occhi colmi di angoscia.» «In che guaio ti sei cacciato? Ha a che fare con la morte di Marco Tulio?» «Adesso non c’è tempo, Cata, per l’amor di Dio...» Prese con sé il minimo indispensabile. Prima di uscire telefonò all’Avianca e prenotò quattro posti sul volo per Miami della notte. «E la Peugeot?» «L’ho dovuta lasciare sotto l’ufficio. Andiamo con la tua.» Catalina tirò fuori la Chevrolet Sprint e andarono a casa del professore di lingue. Fecero salire i bambini sull’auto e, arrivati all’aeroporto, Emilio ebbe un sussulto: «Le mie carte di credito!» ma controllando nel portafogli le trovò tutte: MasterCard Oro, Visa Preferred, American Express Gold. Per un attimo aveva creduto di essersele dimenticate in ufficio. Vicino alla sala d’aspetto, in una cabina telefonica, Estupiñán parlava senza perderlo di vista.
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XXII
Silanpa recuperò i documenti dei terreni a casa di Moníca e nascose quelli di Esquilache. Prima di uscire respirò profondamente. Quell’atmosfera pulita era ancora sua. Fece il tragitto fino alla caffetteria in autobus. Lo stomaco riprese a rivoltarsi e provò nausea, ma almeno le emorroidi gli concedevano una tregua. L’agitazione degli ultimi giorni sembrava avergli anestetizzato il corpo. Sentiva male solo nell’animo. Scese al parco di Lourdes e si chiese dove fossero gli agenti di Moya. Non gli importava cosa poteva succedere: sapeva di essere in pericolo ma riteneva fosse arrivato il momento di giocarsi la pelle per qualcosa di serio. S’incamminò tra la gente. La chiesa era chiusa e sulla scalinata si rincorrevano i ragazzini che prendevano in custodia le auto parcheggiate ai lati del parco. «Sei in ritardo, Víctor.» Ordinò un caffè macchiato e una empanada di pollo. Susan stava bevendo un tè. «Allora? Chi comincia?» chiese, guardandola negli occhi. «Per un gesto di cavalleria, dovresti cominciare tu.» Sfilò dalla tasca interna la busta con i documenti. «Eccoli qui... Controlla pure.» Susan scorse i fogli. A Silanpa sembrò che li contasse, mentre controllava l’intestazione ufficiale e i timbri che autenticavano le firme. «Ti posso chiedere come hai fatto a procurarteli?» «Per caso.» «Hai avuto fortuna.» «E adesso? Tocca a te fare la tua parte.» «Sì, ed è la parte più complicata.» Alzò lo sguardo e li vide. Erano in due, si sedettero accanto e uno gli premette contro lo stomaco un oggetto freddo.
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«Stia calmo e sorrida», disse un terzo uomo avvicinandosi. «In fondo siamo tra amici... no?» Heliodoro Tiflis fece un cenno a Susan e si sedette. Il suo alito puzzava di anice. «È da tempo che volevo conoscerla, stimato giornalista.» «Eccomi qui.» «Ma finisca pure il suo caffè, altrimenti si raffredda.» Uno degli uomini di Tiflis afferrò l’empanada di Silanpa e le diede un morso. «Che maniere sono queste, perdio! Fammi il favore di rimettere a posto quell’empanada, cosa ti salta in mente? Adesso ci toccherà pagare il conto. Forza, Celestino, vai e paga.» Susan lo guardò con disprezzo. Tornò a innervosirsi. «Che bella serata», disse Tiflis, «varrebbe la pena andare un po’ in giro.» Si alzarono e Silanpa pensò agli agenti di Moya. Fuori faceva freddo. Stava cominciando a piovigginare quando la polizia li circondò. Tiflis accennò una reazione, ma subito dopo si rese conto che era inutile provarci. L’uomo di fianco a Silanpa impugnò la pistola e gliela puntò alla testa. «Buono, Celestino, buono», disse Tiflis, «non complichiamo le cose, intesi?» «Alzate le mani lentamente», disse il capitano. Gli agenti di Moya portarono via gli uomini su auto diverse. Silanpa riprese fiato senza la canna della pistola puntata addosso. Dall’altra parte della città, nell’aeroporto, Barragán aspettava ansiosamente. Quando finalmente fu annunciato il suo volo e lui si alzò, uno sconosciuto si fece avanti. «Dottor Emilio Barragán? Venga un momento con noi.» «Non vede che sto partendo? Se volete altre dichiarazioni chiamate il mio ufficio, la segretaria vi fisserà un appuntamento per la prossima settimana.» «Abbiamo l’ordine di non lasciarla partire, dottore. Ci scusi ma deve proprio venire con noi.» 245
«impossibile, sono qui con la mia famiglia e devo fare un viaggio all’estero, Tra una settimana torno e farò tutto quello che volete.» L’agente si spazientì. «E va bene, piantiamola con le stronzate...» Si rivolse agii altri dicendo: «Arrestatelo». Barragán tentò di opporre resistenza ma gli agenti lo immobilizzarono. «Che sta succedendo, amore mio?» «Niente, cara. Non posso partire con voi, ma tu porta via i bambini. Vi raggiungo domani a casa di tua zia.» «Ma...» «Dammi retta, tesoro, io sistemo la questione e vi raggiungo domani... Fai in modo che i bambini non se ne accorgano, ti prego. Abbi fiducia in me.» Lo portarono via. Prima che uscisse dall’aeroporto arrivò Juanchito di corsa e lo abbracciò. «Non vieni con noi, papi?» «No, Capitan Uncino. Devo andare a risolvere un problema e poi arrivo anch’io, non preoccuparti.» Lo sollevò, e strofinò il naso contro il suo. «Stai attento alla mamma e alla sorellina. Finché non vi raggiungo te le affido, d’accordo?» «Sì, papi.» Il bambino guardò impaurito gli agenti e tornò in fila di corsa. Estupiñán, un po’ più indietro, si asciugò una lacrima e andò a prendere un taxi. Gli uomini salirono su due Toyota con targhe della polizia e imboccarono l’avenida El Dorado in direzione del centro. Mezz’ora più tardi erano tutti in commissariato. «Molto bene, mio caro», disse Moya guardando Silanpa. «Devo anche congratularmi con il suo socio, il signor Estupiñán. Grazie a lui abbiamo evitato che l’avvocato Barragán lasciasse la Colombia e così ci potrà spiegare cos’è stato tutto quell’andirivieni di pistoleri e tirapiedi nel suo ufficio.» Moya si infilò in bocca una merendina e riprese a parlare.
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«Aveva ragione lei riguardo i tipi in casa sua. Li abbiamo già identificati ed entrambi lavoravano per Tiflis. Devo avvertirla con profondo dispiacere, stimato giornalista, che l’appartamento è ridotto un disastro. Meglio se prima di andarci chiama sua madre e un paio di zie per dare una ripulita.» «E dov’è Estupiñán?» «Nella stanza di fianco, che rilascia una deposizione.» Silanpa andò a cercarlo e lo trovò seduto su uno sgabello, intento a dettare la sua versione dei fatti a un agente in divisa che batteva sui tasti di una vecchia Remington. «E a quel punto ho sentito un brivido, ma mi sono detto che se me lo lasciavo scappare si sarebbe perso un elemento chiave per le indagini. Il traffico si stava diradando, e l’avenida Pepe Sierra era una vera e propria bocca di lupo, come un tunnel senza fine...» «Senza che?» chiese l’agente chino sui tasti. «Senza fine. È un’espressione poetica...» L’altro annotò la frase e fece segno di continuare. «Allora l’auto di Emilio Barragán si è fermata di fronte a un edificio e un uomo che sembrava aspettarlo si è avvicinato al finestrino per parlare con lui.» «Potrebbe descrivere quell’uomo?» «Avrà avuto poco più di cinquant’anni, doppio petto e cravatta. Uno e settantacinque di statura. Carnagione chiara, capelli bianchi radi al centro e folti ai lati, tipica alopecia capitalina. Nei suoi gesti c’era un che di elegante, un’educazione evidente...» Silanpa ascoltava incuriosito le parole di Estupiñán e pensò che doveva essere un socio di Barragán, qualcuno che lo aiutava a lasciare il paese. «È sufficiente o vado avanti con la descrizione?» chiese Estupiñán. «Va bene così», disse l’agente. «Mi sembra di vederlo... Gracielita, vieni un momento!» Una delle segretarie si avvicinò. «Guarda, leggi questa descrizione dettagliata. È di questo signore.» La segretaria prese il foglio e si mise a leggere. Estupiñán arrossì, cercò di intuire nei suoi occhi approvazione o critica, fissò ansiosamente la punta delle scarpe finché Graciela non distolse lo sguardo dal foglio. 247
«È davvero ben fatta. Specialmente quando dice ‘quel tipo di persone che uno vedrebbe meglio al banco di un circolo privato piuttosto che in una strada deserta’. Bella frase, il capitano l’ha già letta?» «No. Adesso gliela mostriamo.» «Complimenti, sul serio.» Estupiñán sorrise, rosso come un papavero. Quando uscirono dal commissariato erano quasi le nove. Silanpa pensava alla discussione che lo aspettava quella notte e stava facendo di tutto per arrivare il più tardi possibile. «Se lo ricorda bene il posto dove si è fermato Barragán?» «Sì, certamente, capo, non ha sentito la mia descrizione? Ha conquistato tutti.» «Mi ci accompagni e vediamo chi era.» Presero un taxi sulla Tredicesima e fecero il tragitto chiacchierando. Estupiñán raccontò che gli si era spezzato il cuore assistendo all’arresto dell’avvocato nell’aeroporto. «Il bambino è arrivato quando stavano ormai uscendo, capo, e lui lo ha preso in braccio con gli occhi pieni di lacrime...» Imboccata l’avenida Pepe Sierra, chiesero all’autista di rallentare. «Qui», esclamò Estupiñán. «È questo.» Scesero. Era un palazzo di uffici, tutte le luci spente. Silanpa andò a leggere le targhe all’ingresso e una attirò la sua attenzione: «Vargas Vicuña e Associati». Era lui, senza alcun dubbio. Camminarono lentamente fino alla Quindicesima, con le mani in tasca. A un tratto Estupiñán ruppe il silenzio. «Posso farle una domanda, capo? C’è una cosa che non ho mai capito.» «Dica pure.» «Che differenza c’è tra stato d’assedio e stato di diritto?» Silanpa lo guardò, incredulo. «Scusi, giornalista», abbozzò Estupiñán. «Ma eravamo così silenziosi... Gliel’ho detto, che mi piace imparare qualcosa di nuovo ogni giorno.» Silanpa glielo spiegò alla meglio. «Sono proprio un somaro», concluse Estupiñán. «Io pensavo che dove diceva stato di diritto bisognasse scrivere ‘celibe’.» 248
Arrivati sulla 15, si salutarono. «L’aspetto domattina presto nell’ufficio di Barragán, vediamo se troviamo qualcosa che ci chiarisca il suo rapporto con Vargas Vicuña.» «D’accordo, capo. Ci vediamo alle dieci. Passo e chiudo.» Silanpa camminò fino all’Unicentro. Aveva smesso di piovigginare e la notte era fresca. Pensò di bere qualcosa, magari una birra nella Taberna Alemana. Si sentiva molto nervoso; con lo stomaco in subbuglio, si chiese se Oscar fosse al corrente di tutto. Continuò a camminare e, all’improvviso, avvertì una forte nostalgia per il giornale. In certe notti come quella, quando non sapeva che fare, andava in redazione e ci rimaneva fino a tardi, giocando a Monopoli con i compositori o bevendo con quelli delle sezioni di provincia. Ebbe l’impulso di andarci, ma non voleva allontanarsi troppo e pensò che lo aspettavano anche i documenti di Esquilache. Si fermò in un negozio di liquori e comprò una bottiglia di Tres Esquinas, poi prese un taxi e andò ad aspettare Moníca a casa. Una volta lì, mise della musica e tirò fuori gli incartamenti. Scorrendoli, beveva un sorso dopo l’altro, fumava ininterrottamente prendendo appunti e alla fine si mise a scrivere una bozza di articolo per chiarire le idee. STORIA DI UN CADAVERE 1) Il corpo di Pereira Antúnez ha lasciato Bogotá su un furgone della gelateria Yupi diretto a Santa Marta, dopo che Esquilache lo aveva «trafugato» da un vecchio casolare nel barrio di Quinta Paredes dove Tiflis lo teneva nascosto. Secondo la versione di Susan Caviedes, Pereira Antúnez era ancora vivo, anche se in stato semicomatoso per la continua somministrazione di un forte sedativo... È morto a causa di ciò? Forse bisognerebbe chiedere ulteriori analisi a Piedrahíta. Esquilache l’ha sottratto (da morto?) e trasportato a Santa Marta su un veicolo dotato di cella frigorifera, per far sì che non andasse in decomposizione durante le diciotto ore di viaggio, ma una volta lì l’hanno dovuto lasciare tre giorni in mare perché per un errore di calcolo il «carico» (gli uomini di Esquilache lo chiamano anche «il bebé») era arrivato prima che la zona fosse agibile, cioè prima che i guardiani del magazzino dove pensavano di tenerlo se ne andassero per il ponte di carnevale. 249
2) Esquilache si è infuriato per l’errore, ma tre giorni dopo hanno potuto tirare fuori il cadavere, che comunque era dentro un sacco pieno di ghiaccio, mettendo in atto l’avvertimento rivolto a Angel Vargas Vicuña, costruttore (amico di Barragán), che Esquilache voleva intimidire per tenerlo alla larga dai terreni del Sisga. E come l’avrebbe intimidito? Vargas Vicuña doveva mostrare a un gruppo di azionisti e di giornalisti un complesso alberghiero vicino al Rodadero. L’idea di Esquilache era di piazzargli il cadavere proprio là, facendolo comparire davanti a fotografi e giornalisti. 3) Ma Vargas Vicuña ha cambiato programma, andando a inaugurare un albergo a tre stelle a Pasto, prezzi modici, per i piccoli commercianti che vengono dall’Ecuador. Allora Esquilache ha ordinato di portare la «statuina», come lo chiamava a quel punto, fino a Pasto, per attuare il suo piano. E come? Non era facile, i suoi uomini sono dei duri ma certe cose fanno impressione a tutti, e anche paura: cosa avrebbero detto se li fermavano con il cadavere di un obeso congelato, che a forza di ghiaccio raggiungeva ormai i trecento chili? Ma Esquilache non ha voluto sentire ragioni, e con lo stesso furgone della Yupi lo hanno trasportato fino a Pasto via Ventanas-Medellín-Cali-Popayán. Gli autisti avevano l’indirizzo di un magazzino vicino a Tulcán, alla frontiera con l’Ecuador, dove potevano depositarlo in attesa di far scattare il piano. 4) Vargas Vicuña aveva piazzato i suoi guardaspalle in tutta la zona (sospettava qualcosa?). E ha funzionato, perché è riuscito a ritrovare il cadavere prima che Esquilache glielo mettesse davanti, anche se non è stato grazie ai suoi uomini bensì per puro caso: il magazzino Ibarra, l’unico nella zona di grandi dimensioni, custodiva per lui materiali da costruzione comprati in Ecuador a basso prezzo. Uno dei suoi uomini, un certo Contreras (così viene chiamato negli appunti di Esquilache), in ogni spedizione di materiali infilava due o tre pacchi di oggetti d’artigianato per guadagnare qualcosa in proprio, di nascosto dal capo. Quando il furgone della Yupi è arrivato nel magazzino, Contreras si trovava lì per tirare fuori una cassa di coperte di alpaca. La targa di Bogotá ha richiamato la sua attenzione, poi ha sentito parlare gli autisti e la faccenda gli è sembrata molto strana. Contreras ha confidato i suoi sospetti a un dipendente del magazzino, e per ingraziarsi Vargas Vicuña, credendo si trattasse di un attentato, ha deciso di rubare il furgone quella notte stessa, approfittando del fatto che uno degli autisti stava parlando al telefono e l’altro si trovava 250
in bagno (questa è stata la spiegazione che entrambi hanno fornito a Esquilache). A partire da questo punto, il filo si perde. Dalle indagini di Esquilache risulta che Vargas Vicuña avrebbe portato via il cadavere da Pasto su uno dei suoi aerei piper tenendolo poi nascosto per quasi una settimana in una fattoria nei dintorni di Popayán. Esquilache non sapeva come avrebbe reagito Vargas Vicuña e temeva un contrattacco, quindi ha raddoppiato gli sforzi e a quanto pare è riuscito a recuperarlo una settimana dopo, in un deposito di fiori vicino a Cali. Lì i suoi uomini hanno fatto irruzione, e ci sarebbe stata una sparatoria perché si parla di due feriti e di una pistola e un fucile persi nella fuga. Esquilache lo ha così riportato a Bogotá. Però a Bogotá la situazione non era certo facile e Tiflis, molto preoccupato per l’intera faccenda, per poco non recupera il cadavere grazie all’indiscrezione di un segretario di Esquilache, il quale subito dopo si è licenziato trasferendosi all’estero. Superato il momento critico, Esquilache ha deciso di allontanare il cadavere da Tiflis trasferendolo a Tunja, ma laggiù quelli dei Figli del Sole (venuti a sapere della scomparsa di Pereira Antúnez tramite Susan, e temendo di perdere la concessione dei terreni) sono riusciti a trafugarlo con l’intenzione di seppellirlo e «insabbiare la faccenda». Come? Impossibile verificarlo con assoluta certezza, ma si suppone siano arrivati al cadavere in seguito alle informazioni che lei carpiva a Tiflis e svolgendo delle ricerche in proprio. Una volta recuperato, l’hanno nascosto nel capannone dove tenevano un motoscafo, a Tanja. Ed è stato il quel momento che Tiflis ha deciso di «organizzare» il funerale di Pereira Antúnez, con l’aiuto dei suoi e di Susan Caviedes (che ingannava Tiflis, visto che non gli diceva la verità riguardo il cadavere: Tiflis credeva l’avesse Esquilache; ed Esquilache, a quanto pare, pensava che Vargas Vicuña glielo avesse sottratto per la seconda volta). Al funerale, hanno detto che Pereira Antúnez era rimasto assente a lungo per una strana malattia, e alla fine deceduto in un luogo discreto. Gli uomini di Tiflis si sono incaricati di procurare un corpo somigliante, cioè quello del tassista Osler Estupiñán. 7) Preoccupati per quanto stava succedendo, i Figli del Sole hanno deciso di trasferire il cadavere in un posto vicino al bagno turco, e per questo Susan ha ingaggiato il camionista Lotario Abuchijá, che l’ha trasportato in un granaio nei dintorni di Chocontá, dove credevano di poterlo custodire al sicuro visto che il direttore è un socio naturista del club. Ma la 251
cosa è andata storta perché il granaio La Union apparteneva in realtà a Vargas Vicuña, che ha scoperto tutto. A quel punto Vargas Vicuña ha ordinato di impalare il corpo sulla riva del lago per intimidire i Figli del Sole e dimostrare a Tiflis e a Esquilache chi era il più forte.
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XXIII
Quando Moníca arrivò, si era ormai bevuto oltre metà bottiglia di rum ed era lucidamente ubriaco. «Víctor, sei ancora sveglio?» «Ti stavo aspettando.» «Sei ubriaco?» «Ti stavo aspettando.» «Non mi sembra affatto divertente...» disse lei, e lui notò che le guance cominciavano ad arrossarsi. «Cos’è che non sarebbe divertente?» «Rientrare a casa alle due del mattino e trovare un ubriaco, il portacenere pieno di cicche, l’aria irrespirabile e il tavolo zeppo di fogli.» «Avevi detto che dovevamo parlare, è per questo che ti ho aspettato.» «Non prendermi in giro.» Dal color seppia, le guance virarono al rosso vivo. «Credi che una decisione simile si possa prendere in un solo pomeriggio?» «Sei stata tu a...» «Piantala di fare lo stronzo!» Si girò, lanciò rabbiosamente la borsa sul divano e andò verso di lui. «Va bene, Víctor. Vuoi una risposta? Eccotela: resto da sola, capito? So-l-a. Né tu, né Oscar. Sola.» «Non devi per forza darmi una risposta se non ce l’hai.» «No...» Tentò di calmarsi ma era troppo infuriata. «Mi rendo conto che tutto questo ti sta danneggiando. Guardati. Fai pena. Sembri un disgraziato raccolto per strada.» «In effetti mi hai raccolto per strada...» «Oscar non sa niente di quanto sta succedendo tra te e me, ma comunque lui esiste, capisci? Lui c’è e noi non possiamo farci niente. Lo so che questa situazione ti fa stare male, e anche a me, pensi forse che non soffra abbastanza?» «Non penso niente.» 253
«Ma certo, per te è facile. Venire qui, ubriacarsi e aspettare che io risolva i problemi di tutti.» «Senti, la cosa migliore è dimenticare tutto. Continua a stare con Oscar, e se lui non sa niente, evita di raccontarglielo.» «Quello che faccio con Oscar è un problema mio, intesi?» «Calmati...» «Allora tu piantala di dire scempiaggini e di starmi addosso.» «Va bene, lasciami mettere via la mia roba.» Riordinò i fogli e li infilò in una carpetta. Tolse di mezzo il bicchiere e la bottiglia, vuotò il portacenere sotto lo sguardo gelido di Monica e si mise la giacca. «Me ne vado.» Lo accompagnò alla porta tremando di rabbia e la richiuse senza neppure un’ultima parola di consolazione. In strada, Silanpa provò vergogna. Era un bene che non ci fossero testimoni per quella sconfitta. Vagò senza meta, così vuoto da non sentire nemmeno dolore. Si allontanò lentamente, la sigaretta in mano, e un passo che poteva essere di chi cammina verso la gloria o di chi girovaga prendendo a calci i barattoli. Fermò un taxi e, senza troppa convinzione, diede l’indirizzo del Lolita. Entrando, riconobbe le stesse facce del primo giorno. Nulla era cambiato. Quica stava con un cliente, e gli chiese di aspettarla. Allora si sedette a un tavolo e ordinò un rum, ansioso di andarsene con lei nella casa del barrio Kennedy. Guardò l’orologio: le tre del mattino. L’appuntamento con Estupiñán era per le dieci. «Ti vedo stanco, papito, tra poco ti porto a casa e ti preparo un’agua de panela», gli disse passando. Il colpo per averla persa definitivamente non si decideva ad arrivare, e pensò che gli restava ancora qualche ora di pace. La cosa migliore era farsi trovare preparato, così ordinò, al banco, un altro rum senza ghiaccio. «Dentro!» si disse vuotando il bicchiere. Lo spinse verso il barman e guardò il getto di liquore. «Dentro!» e lo fece riempire due, tre volte, finché gli occhi cominciarono a brillare e si sentì abbastanza forte da poter tornare al tavolo. Ma lì lo attendevano i suoi pensieri, perché ciò che aveva vissuto in quegli ultimi giorni era solo il preludio di qualcosa di molto più triste. Allora ricordò con amarezza le cose orribili che Moníca gli raccontava di 254
Oscar: «È tirchio e complessato. Non gli si rizza perché ha vergogna del corpo che si ritrova». Un’ora dopo vide sbucare Quica in jeans e con un orrendo soprabito rosso. «Andiamo, amico. È stata una serata con i fiocchi, guarda cosa mi hanno regalato...» Gli mostrò un anello di plastica verde, una collana rosa e un orsetto di peluche. «E perché?» «Oggi è il giorno dell’amore e dell’amicizia.» «Ah...» Sulla Settima presero un taxi e Silanpa si mise a guardare le luci della città senza dire una parola, ricordando quelle sere con Moníca quando il silenzio di ognuno era la migliore prova di affetto. Il rum gli impediva di piangere, ma sapeva che a partire da quella notte tutto sarebbe stato diverso; la città, il suo tempo, le ore di lavoro in redazione destinate a trascorrere nell’attesa di lunghissime notti di solitudine e insonnia. Guardava dal finestrino e si sentiva lontano, straniero in quella città che ancora una volta sembrava abbandonarlo. Perché l’amava tanto? Nel buio, capì che Moníca si era portata via un’immagine di se stesso, una parte del suo passato, della sua vita. A un tratto la compagnia di Quica gli parve insopportabile. Odiò quell’odore di acqua di colonia da quattro soldi, il contatto dei suoi capelli sul collo. Arrivato a casa s’infilò sotto le coperte senza neppure guardarla. «Va bene, papito, dormi tranquillo che domani ti preparo una bella colazione.» Non voleva stare lì. Si sforzò di essere gentile, almeno per sfiorare le gambe di lei sotto le lenzuola, ma non ci riuscì. Avrebbe preferito andarsene in un albergo e aspettare l’indomani da solo. All’alba si alzò senza fare rumore, si vestì con cautela e uscì. Ma prima lasciò un biglietto e un paio di banconote: «Grazie di tutto». Era molto presto e gli autobus scarseggiavano. Un tassista si rifiutò di portarlo al nord e alla fine accettò di lasciarlo in centro. «Sono alla fine del turno, fratello, altrimenti ti ci portavo...» 255
Fece colazione vicino al Centro Internacional pensando alla delusione di Quica quando si sarebbe svegliata. E Moníca? Era già sveglia? Si morse le dita per non afferrare un telefono. Alle dieci, Estupiñán lo stava già aspettando seduto su un muretto di fronte al palazzo dove c’era l’ufficio di Barragán. «Ho una sorpresa per lei, capo.» «Quale?» «Ho parlato con l’autista di Esquilache, quel Vladimir, si ricorda?» «Sì.» «Mi ha detto che doveva raccontarmi certe cosucce», disse orgoglioso. «Mi scusi se ho preso l’iniziativa, ma non dimentichi che di mezzo c’è anche mio fratello, che riposi in pace.» «Non l’avevo dimenticato, Estupiñán. E cosa ha detto?» «Dobbiamo andare a parlare con lui a mezzogiorno. Io gli ho messo paura dicendogli che se non tirava fuori tutta la verità lo denunciavamo alla polizia.» «Ben fatto, dopo ci andiamo.» Davanti all’ufficio di Barragán c’erano tre agenti che chiacchieravano. Silanpa si qualificò e li lasciarono entrare. «Dobbiamo cercare qualsiasi incartamento che dica Vargas Vicuña, ha capito?» «Sì, capo.» Estupiñán si occupò degli schedari delle segretarie e Silanpa dello studio di Barragán. Frugò nei cassetti della scrivania, poi sugli scaffali, ma senza trovare niente. Un trillo echeggiò nella stanza: era un cellulare chiuso in un cassetto. Silanpa ebbe un attimo di incertezza, ma subito dopo rispose. «Sì?» «Dottor Barragán?» Era una voce di donna. «Sì, sono io.» «Telefono da parte di Elmer, Mi scusi se l’ho chiamata al cellulare ma ha detto che la cosa era troppo importante per lei.» «E perché non mi ha chiamato lui stesso?» 256
«Il fatto è che, si immagini dottore, proprio mentre stava facendo il lavoretto che lei gli aveva affidato, ha avuto un problema e l’hanno arrestato.» «Con chi parlo?» «Sono la moglie di Elmer, dottore.» Ci fu un lungo silenzio. «Mi ha incaricata di riferirle un messaggio, una cosa molto grave. Ma si è raccomandato di non dirgliela per telefono, possiamo vederci?» «Sì, se è urgente, sì.» «L’aspetto alla Golondrina entro mezz’ora.» Silanpa rimase perplesso: dove si trovava quel posto? «Aspetti, signora. Intende dire La Golondrina di Suba o quella di...» «No, qui a Chapinero, tra la 57 e la 13.» Uscì di corsa. «È successa una cosa strana, Estupiñán, ci vada lei da Vladimir. Se dovessi tardare mi aspetti nella caffetteria della Hacienda Santa Bárbara.» «Va bene, capo, passo e chiudo.» Arrivò sul posto e si sedette a un tavolo. Tentò di darsi una sistemata alla meglio e attese. Finalmente, una donna di umile aspetto si fermò sulla soglia e guardò dentro. Le fece segno di avvicinarsi. «Caro Barragán, che piacere rivederla...» Silanpa era imbarazzato. «Lei non può ricordarsi di me perché era troppo piccolo, ma io sì.» «Si sieda, per favore.» «Dottore, lei è in pericolo... Elmer mi ha detto di consegnarle questo foglietto. È in carcere, l’hanno arrestato ieri. Mi ha detto corri, porta subito questo al dottore.» Silanpa aprì il foglietto ripiegato. Era scritto a matita, con una grafia incerta: «Stia attento a Vargas Vicuña. Sa che è stato lei a sparare a don Esquilache e intende accusarla. Inoltre adesso se la intende con Tiflis, gli ha restituito il Runcho che aveva sequestrato, e in cambio scenderanno a patti sui terreni. Tiflis gli ha garantito che ieri pomeriggio avrebbe recuperato i documenti e si sarebbero visti la sera per negoziare. Se la squagli, perché io ormai non posso più proteggerla». 257
Silanpa alzò lo sguardo e vide che la donna aveva gli occhi pieni di lacrime. «Cosa succederà a Elmer, dottore?» «Niente, signora. Me ne occupo oggi stesso. Torni a casa tranquilla.» «Grazie, dottore.» Si asciugò gli occhi con la manica. «Una domanda, signora: qui Elmer non dice perché l’hanno arrestato.» «Per una sciocchezza, ma poi dal suo fascicolo è saltata fuori una cosa che avrebbe fatto l’anno scorso. Vada a trovarlo e lui glielo spiegherà.» Silanpa mise in tasca il foglietto e salutò la signora. Percorse la 57 fino alla Settima e aspettò che passasse un taxi pensando che almeno l’appuntamento tra Tiflis e Vargas Vicuña era saltato. Arrivò all’Hacienda Santa Bárbara e vide subito Estupiñán. «Allora?» «Vladimir ha cantato, capo. Mi ha detto che Esquilache e Tiflis avevano deciso di organizzare il funerale di Pereira Antúnez per evitare scherzi con il vero cadavere. Però hanno dovuto cercare qualcuno che avesse una corporatura piuttosto simile. A quanto mi ha confessato, sono stati gli uomini di Tiflis a uccidere mio fratello.» «Ha fatto dei nomi?» «No.» «D’accordo, deve raccontare tutto al capitano Moya.» «Subito.» Il capitano Moya l’ascoltò con attenzione, tenendo gli occhi bene aperti e sistemandosi la pancia sulle gambe. Alla fine chiese di parlare in privato con Silanpa ed Estupiñán uscì. «Senta, uomo di lettere», disse accompagnandolo alla finestra. «Le sue indagini sono arrivate fino a questo punto, il resto lo lasci alla polizia. E lo dico perché la faccenda è molto intricata.» «Perché sarebbe intricata?» «Qualcuno ci ha fatto avere le prove contro Barragán. È saltato fuori il revolver, dei testimoni a carico, tutto. Pare che il giovanotto abbia davvero ammazzato il consigliere, come dice lei.» «E allora dov’è l’intrico?» 258
«Tiflis, mio caro. Sembra non vi siano prove sufficienti e domattina lo rilasciano sotto cauzione in attesa del processo.» «E i pistoleri di Tiflis non sono una prova contro di lui?» «Hanno dichiarato tutti di lavorare per conto proprio. Addirittura quello della caffetteria che teneva sotto tiro lei, ha detto che la pistola era per minacciare Tiflis, si rende conto?» «Ah...» Il capitano lo guardò negli occhi. «Le uniche cose chiare sono che Esquilache ha impalato il tipo e Barragán ha steso Esquilache. Il resto, è lavoro per noi. Punto e a capo.» «No, capitano, non è stato Esquilache. È Vargas Vicuña...» «Ahi, mio caro giornalista, non mi complichi ulteriormente le cose, io le dico forse come deve scrivere quei suoi ottimi articoli? Vargas Vicuña è pulito, non abbiamo la benché minima prova.» «Ma nelle carte di Esquilache che le ho dato risulta chiarissimo che è stato Vargas Vicuña, quelle sono una prova.» «Senta, caro Silanpa», disse Moya evitando di guardarlo, «noi controlleremo tutto quel materiale con la massima attenzione, e se dovessimo prendere Nostro Signore Gesù Cristo e sbatterlo in carcere lo faremo, d’accordo? Ma queste cose deve lasciarle a noi.» «Ho capito.» «È quello che spero, giornalista. Il suo lavoro è ormai finito. Piuttosto, vada a casa e cominci a rimettere in ordine, che lì c’è da lavorare per qualche giorno. Oppure si prenda una vacanza.» «E cosa ne è stato di Susan Caviedes?» «L’abbiamo rilasciata ieri notte, e comunque ha deciso di non sporgere denuncia contro nessuno.» Tornò da Estupiñán e uscirono insieme. Camminarono in silenzio fino alla Settima e presero un taxi per andare nel suo appartamento. Aprendo la porta, fu come andare a sbattere contro se stesso: tornava a casa e si sentiva svuotato. Pensò che aveva vinto la scommessa con Guzmán, ma avrebbe preferito mille volte perderla. Il manichino di donna era lì, abbandonato sul pavimento. Silanpa sorrise: «Credevi che mi fossi dimenticato di te?» 259
«Da dove cominciamo, capo?» chiese Estupiñán guardando quel disastro. «Vuole che chiami la mia amica per farci dare una mano?» «No, grazie. Venga, cominciamo da qui», e prese una bottiglia di rum miracolosamente sopravvissuta su una mensola. «Finalmente è arrivata l’ora di bere qualcosa.» «Lei ha qualcosa che non va, capo. Si confidi pure, si tratta di una donna?» Silanpa guardò il telefono e pensò che avrebbe trascorso intere giornate a fissarlo in attesa di un’improbabile chiamata. Che sarebbero venute notti di alcol e dolore, seduto sul pavimento con il telefono sulle ginocchia, implorando una frase che già immaginava e che più tardi avrebbe battuto a macchina per conservarla nelle tasche del manichino: «Dio, non ti ho mai chiesto nulla. Ma adesso fa che suoni e che sia lei». Si avvicinò alla sua bambola e prese un foglietto dalla tasca. Lesse: «I bei tempi passati. Adesso, solo un mucchio di merda. Un indiano d’America». «Sì, Estupiñán, guardi, è questa qui...» Gli mostrò una foto: Moníca che prendeva il sole in spiaggia. «Madre mia, che caldo doveva fare quel giorno...» «Mi ha lasciato. Arrivavo sempre tardi agli appuntamenti.» «Ahi, capo, in amore la puntualità è indispensabile.» «È stata tutta colpa mia.» «Macché colpa sua. Le belle donne sono il massimo in discoteca, ma a casa sanno solo dare ordini.» «Forse ha ragione.» «Certe tipe sono come le giacche di pelle: all’inizio sono belle e care, poi diventano brutte e durano tutta la vita. Cosa vuole che sia colpa sua. Io la conosco e lei è una brava persona.» «Grazie, Estupiñán.» Silanpa si versò il secondo bicchiere e lo vuotò in un colpo. «Stia allegro, capo, quando le passerà la tristezza mi capirà. Si figuri, io invece mi tengo la mia cicciona e me la passo a meraviglia. Niente di speciale, certo, ma sopporta tutto e quando c’è bisogno, mi basta allungare una mano, e lei è lì.»
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A un tratto si udì uno strano suono. Silanpa si ricordò che nella giacca aveva ancora il cellulare di Barragán. «Pronto?» «Emilio?» Era una voce di donna. Non sapeva cosa dire. «Emilio, sono Catalina, sei tu?» «No, signora, sono un impiegato dell’ufficio, mi dica.» «Vorrei parlare con mio marito...» Aveva la voce impaurita. Il timore dell’inevitabile. «Suo marito in questo momento non c’è. Provi a richiamarlo domani.» Pensò che sarebbe andato al commissariato per consegnare il telefono al capitano Moya. «Mi scusi ma è tutto quello che posso dirle.» Riattaccarono. Disse a Estupiñán chi era al telefono e si versò dell’altro rum. La sofferenza altrui riprendeva a scalfirlo. Pensò che il destino non avrebbe dovuto provocare più di due tragedie contemporaneamente. E gli tornò la tristezza. «Su con la vita, capo. Pensi a tutto quello che abbiamo fatto e che è servito a qualcosa. Ottenere certi risultati dovrebbe rincuorare.» «Sì, ha ragione.» «Com’è strana la vita, no? All’improvviso, senza che uno cerchi niente, salta fuori qualcosa. Pensi a Osler... Se quella notte non fossimo andati al cimitero io non saprei neppure che è morto. Ha visto Flashdance, capo?» «Sì.» «Quel film mi ha cambiato la vita. Ho imparato che il destino non si regala. Che bisogna lavorarselo, lottare per cambiarlo. Se uno non va in giro a cercarlo, quello non arriva, ma quando arriva, è per restare.» «Non sapevo si interessasse di filosofia, Estupiñán.» «Questa non è filosofia, è semplice logica. Non dimentichi che sta parlando con un contabile. Non c’è niente nell’universo che non si possa risolvere con i numeri.» «E i sentimenti?» «Ahi, capo, come si vede che è innamorato. Quelli non stanno nell’universo», e scoppiò a ridere. «Stanno solo qui, nella testa. Posso versarmene ancora?» 261
Si riaccomodò tra i cuscini sventrati e accese una sigaretta guardando le pareti piene di macchie, gli scaffali rovesciati e i mobili fracassati. Pensò che forse avrebbe chiesto il trasferimento in un’altra sezione del giornale, che avrebbe cambiato vita. «Su, Estupiñán, brindiamo.» «A cosa brindiamo?» «Alla Coppa Libertadores, il Nacional ha vinto, vero?» «Sì, capo, abbiamo vinto.» «E allora, alla vittoria.»
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XXIV
Sono giunto così al termine di questa storia nella quale, senza alcuna intenzione di esaltarmi, trattandosi della mia vita, figuro da protagonista, e ho saltato molti dettagli per mancanza di tempo e perché in ogni storia, come diceva mia nonna, bisogna sempre lasciare qualcosa in penombra. E finisco raccontandovi di un’esperienza profonda. Fin qui ho descritto la mia vocazione a servire la cittadinanza, il mio anelito a una società con meno delinquenza e più persone oneste, vocazione alla quale ho dedicato ben ventisette anni di vita. Da qui, la decisione, l’esperienza profonda di cui vi parlo. Il mondo non è più lo stesso di quando entrai nella polizia. Oggi, se permettete, persino una persona come me, non troppo istruita ma neppure analfabeta, si rende conto della supremazia del privato su ciò che alcuni chiamano «la sfera pubblica», qualcosa che potremmo definire il predominio dell’interiore sull’esteriore. Io sono un uomo del mio tempo, come ho già avuto modo di dire, e quindi la mia decisione di passare dalla sfera pubblica a quella privata significa in concreto lasciare la polizia e mettersi a lavorare in proprio. Potete immaginare che nessuno, in tempi di crisi come questi, è tanto stupido da lasciare la sicurezza di uno stipendio fisso statale per andare all’avventura. Ovviamente no. Ma il sottoscritto, e lo dico senza alcuna vanità, ha avuto la possibilità di scegliere tra varie offerte di lavoro, optando per quella che gli è sembrata più sostanziosa rispetto al perseguire una buona causa, di responsabilità verso la patria, che in fin dei conti è la cosa più importante. E proprio in questi giorni, dopo aver incassato la liquidazione frutto di un’esistenza esemplare, il sottoscritto inizia qualcosa di nuovo, al comando della sicurezza di uno degli imprenditori di maggior rilievo e valore nella nostra rispettabile nazione: il costruttore Angel Vargas Vicuña, che voi conoscerete per i meriti ottenuti non solo in ambito nazionale ma anche estero. Ora, è ovvio che una simile decisione non deriva soltanto da una riflessione politica e, se permettete, morale, ma è stata anche incoraggiata da una recente esperienza di servizio che, oltre a impressionare sul piano fisico, portava in sé insegnamenti sul piano metafisico. Ve la racconto come conclusione.
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Ormai con i gradi di capitano, al comando di uno dei commissariati di maggior prestigio nella capitale, mi è toccato vedere molte cose brutte. Forse qualcuno di voi ricorda quel caso, qualche tempo fa, di un tipo grasso e anonimo che comparve impalato vicino al lago del Sisga. Lo trovarono i miei agenti, accanto alla zona dove adesso stanno costruendo quel centro residenziale così elegante proprio sulla riva, avete presente? Bene, il signore grasso, che faceva star male solo a vederlo, poveretto, ha rappresentato una delle indagini nelle quali il sottoscritto, tralasciando ogni falsa modestia, ha potuto dare il meglio di se stesso, ma è stato anche uno dei casi da cui ho tratto maggiore insegnamento. Mistero dei misteri, non si riusciva a sapere chi fosse né da dove venisse. E devo ammettere che la cosa non fu certo facile, abbiamo dovuto seguire tracce vaghe, infilare il naso in ambienti oscuri, rimuovere la crosta per far uscire tutto il pus, e scusate, signore, la similitudine medica, comunque alla fine si è scoperto che sotto c’era un’organizzazione criminale così estesa da comprendere tagliagole di strada e distinti signori in doppiopetto. Ci sono cose orribili a questo mondo, ma a cinquantacinque anni ho dovuto accettare che la miseria morale è la peggiore di tutte perché non si cura con nessuna medicina, e nel caso di quell’uomo anonimo, che alla fine è risultato un povero innocente, mi sono imbattuto in diverse forme di crudeltà che sono rare nei bassifondi ma più diffuse nei salotti bene. Non intendo, signori, propinarvi un sermone, tutti sappiamo quali siano i veri valori, ma volevo dirvi, per concludere, che con il passare degli anni un poliziotto finisce per abituarsi alla delinquenza, ma non può mai evitare di impressionarsi per certi raggiri che il canagliume riesce a inventare. E con ciò torno al mio posto, e non so se sono stato chiaro, ma in tutti i modi, come dicevo all’inizio, la lotta contro quel brutto vizio che ci riunisce qui, è stata alquanto ardua per uno come il sottoscritto, esposto costantemente a eventi disdicevoli. Spero che il contatto con le Scritture, con la loro materna e feconda vicinanza, mi dia la forza per vincere una volta per tutte il nefasto predominio della carne. E adesso torno davvero al mio posto. E scusatemi.
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EPILOGO A differenza di quanto succede nei libri pensava Silanpa – nella vita le storie non finiscono mai. «Il giorno dopo uno continua a essere lo stesso di prima» aveva scritto per la sua bambola a grandezza naturale, «la stessa faccia che sbadiglia davanti allo specchio, gli stessi occhi stanchi di guardare.» Aveva trascorso la mattinata a «El Observador» scrivendo un articolo sull’evasione fiscale e adesso aveva fame e una gran voglia che non accadesse nulla di eccezionale. Desiderava semplicemente che il tempo passasse lento, scivolasse senza ostacoli fino al termine del pomeriggio per poi uscire con Angela, passeggiare verso il Planetario e quindi salire sulle Torri del Parco, il condominio dove lei abitava, e bere qualcosa in casa sua, guardando dalla finestra la scatolina rossa della funivia del Monserrate e ascoltando musica mentre sotto di loro scorreva il traffico della sera. Seduto davanti al computer, diede un’occhiata alla redazione e vide che tutti cominciavano ad alzarsi dal proprio posto, a infilarsi giacche e giubbotti per andare a pranzo, e con un gesto istintivo portò la mano al petto cercando una sigaretta. Angela era ancora attaccata al telefono e lui aspettò, non voleva fermarsi di fronte a lei facendo tintinnare il mazzo di chiavi. Dalla finestra si scorgevano nubi grigie, sporche di smog, spinte da un vento freddo e umido. Non gli era importato nulla che Moníca vivesse con Oscar – glielo aveva detto un amico – ma era stato comunque doloroso vederla un giorno da lontano, che entrava nel cinema Astor Plaza dove davano Batman II. Si era nascosto tra la gente, camminando a testa bassa fino alla 13, sentendo che la città era come uno di quei campi dove all’improvviso, nel mezzo di un paesaggio gradevole, qualcosa ti ricorda che in un’altra epoca, in quello stesso luogo, è avvenuta una tragedia. Per la verità, le cose andavano meglio da quando era riuscito a stabilire il momento preciso in cui l’aveva perduta. Lei una volta gli aveva detto: «Mettimi incinta, adesso», ma lui non ci aveva badato ed era rimasto immerso in uno di quei silenzi che lei odiava tanto. Era stato lì che l’aveva persa, in quella notte di vari mesi addietro. Il resto, era stato soltanto un lento sgretolarsi, pezzo dopo pezzo, di una costruzione già fragile. «Ci sono domande alle quali bisogna risponde265
re subito perché te le rivolgono una volta sola», pensava. A lui era mancato il coraggio e adesso se ne stava da solo. Finalmente Angela finì la telefonata e lui si avvicinò sorridendo. «Stai ingrassando», gli disse guardandolo, «dovresti bere meno rum e mangiare più pomodori e carote.» «Se non altro ho smesso con le aspirine. Una cosa alla volta.» Angela si preoccupava per lui. Le aveva raccontato di Moníca con il timore di fare una confessione assurda, ma in realtà gli era stato d’aiuto e la cosa l’aveva reso più interessante agli occhi di lei. Pensava che nulla univa tanto due persone quanto la presunta cattiveria di una terza, la minaccia di qualcuno che non c’è più ma continua a causare inquietudine e il solo evocarlo provoca dolore. Angela gli chiedeva i particolari e lui notava la sua reazione ammirata nel calcolare le sofferenze, immaginare cosa avrebbe fatto lei al posto di Moníca. Credeva di piacerle. Non sapeva ancora perché. Scesero le scale e uscirono in strada. Mentre camminavano lungo la Settima, Silanpa pensò che forse quel sabato Angela poteva venire con lui a casa di Estupiñán e Cora, per provare il famoso stufato piccante cotto sul fuoco a legna. Più tardi glielo avrebbe proposto. Era una buona idea.
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