I CONVEGNI DELLA FONDAZIONE NICCOLÒ CANUSSIO 7
FONDAZIONE NICCOLÒ CANUSSIO
PATRIA DIVERSIS GENTIBUS UNA? Unità politica e identità etniche nell’Italia antica Atti del convegno internazionale Cividale del Friuli, 20-22 settembre 2007
a cura di GIANPAOLO URSO
Edizioni ETS
La presente pubblicazione è stata realizzata con il sostegno di
Ministero dell’Università e della Ricerca
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Patria diversis gentibus una? Unità politica e identità etniche nell’Italia antica, Cividale del Friuli, 20-22 settembre 2007 / a cura di Gianpaolo Urso. – Pisa : Edizioni ETS, 2008 306 p. : 24 cm. – (I convegni della Fondazione Niccolò Canussio; 7) In testa al front.: Fondazione Niccolò Canussio ISBN 978-884672128-0 CDD 21 - 946 Italia – Roma – Storia – VIII sec. a.C. / V sec. d.C. – Congressi – Cividale del Friuli – 2007. I. Urso, Gianpaolo II. Fondazione Niccolò Canussio
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SOMMARIO
Introduzione di Marta Sordi
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JORGE MARTÍNEZ-PINNA, Italia y Roma desde una perspectiva legendaria
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HARTMUT GALSTERER, Foedus, ius Latii und civitas im römischen Italien 27 MIREILLE CÉBEILLAC-GERVASONI, Les rapports entre les élites du Latium et de la Campanie et Rome (III s. av. J.-C. - I s. ap. J.-C.): l’apport d’une enquête prosopographique
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FEDERICA CORDANO, Epigrafia greca nell’Italia romana
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MATHILDE MAHÉ-SIMON, Les Samnites existent-ils encore à l’époque d’Auguste ?
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MARTA SORDI, Il paradosso etrusco: il “diverso” nelle radici profonde di Roma e dell’Italia romana
89
LUCIANA AIGNER-FORESTI, Sopravvivenza di istituzioni etrusche in età imperiale
99
DOMINIQUE BRIQUEL, Il ruolo della componente etrusca nella difesa della religione nazionale dei Romani contro le externae superstitiones
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MARIE-LAURENCE HAACK, Il concetto di “transferts culturels”: un’alternativa soddisfacente a quello di “romanizzazione”? Il caso etrusco
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ANNA MARINETTI, Aspetti della romanizzazione linguistica nella Cisalpina orientale
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CESARE LETTA, I legami tra i popoli italici nelle Origines di Catone tra consapevolezza etnica e ideologia
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CHRYSANTHE TSITSIOU-CHELIDONI, Ecquando communem hanc esse patriam licebit? (Liv. III 67,10): Livius’ Geschichte als einheitsstiftender Faktor
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MICHAEL VON ALBRECHT, Ovid und die Romanisierung der griechischen Kultur
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STEPHEN HARRISON, Laudes Italiae (Georgics 2.136-175): Virgil as a Caesarian Hesiod
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ALESSANDRO BARCHIESI, Bellum Italicum: l’unificazione dell’Italia nell’Eneide
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LUCIANO CANFORA, Cosmopolitismo antico
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GIULIO FIRPO, Roma, Etruschi e Italici nel «secolo senza Roma»
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INTRODUZIONE Marta Sordi
Il problema della romanizzazione dell’Italia si inserisce assai bene nel problema dell’integrazione nel mondo greco e romano, che abbiamo posto al centro di molti fra i nostri precedenti convegni, dal secondo del 2000 riguardante questa tematica in generale, a quelli dedicati alle singole province, la Spagna, l’Illirico, l’Asia. Si aggiunga l’attualità del problema nella storiografia contemporanea riguardante il mondo antico, col dibattito sviluppatosi in questi anni sulla romanizzazione, spesso negata e ridotta, in modo a mio avviso anacronistico e inaccettabile, ad una sorta di “creolizzazione”, o concepita più prudentemente come una trasposizione culturale. Si è deciso di affrontare il problema della romanizzazione in Italia, sia perché l’Italia era il centro dell’impero, sia perché rappresentava essa stessa, per le molteplici etnie che l’abitavano, diverse per lingua, costumi, origine, un’accolta di identità e di alterità da integrare. Di fronte a questa situazione Roma, con la sua vocazione universalistica e centralizzante, poteva essere vista – ed è stata vista per moda o per politica in altri periodi della storia italiana – un nemico da abbattere, come nel ’700 e agli inizi dell’800 con l’etruscomania e le rivendicazioni sannitiche. Il metodo con cui il problema è stato affrontato è da una parte l’attenzione alle singole etnie, ben rappresentate con la loro identità culturale ancora in età augustea, dall’altra l’attenzione alla coscienza che di queste diverse identità avevano gli scrittori e i poeti ad esse contemporanei. Non è per caso che gli Etruschi hanno avuto in questa analisi la parte maggiore, con ben quattro relazioni: si tratta infatti dell’unica popolazione che, ben consapevole della propria diversità e nello stesso tempo del proprio inserimento nel mondo veteroromano, affronta apertamente la necessità di un’integrazione, partendo proprio dalla sua tradizione religiosa, che fissava in dieci saecula la durata del nomen Etruscum e nel 44 a.C. l’inizio del decimo e ultimo secolo della sua storia; l’unica popolazione che, rinunciando alla propria lingua, tradusse tempestivamente in latino i propri libri sacri, per assicurare la sopravvivenza all’Etrusca disciplina che, divenuta ormai religio publica del popolo romano, rappresentava il lascito più importante dell’eredità etrusca e che giunse, pienamente vitale, fino al tardo antico.
Marta Sordi
Altrettanto importante è il comportamento della componente greca, anzi magnogreca, dell’Italia meridionale, la cui filosofia, il Pitagorismo, era stata la prima esperienza filosofica dell’Italia antica e che, pur nella fedeltà a Roma, conservò la propria lingua e le proprie istituzioni teatrali e ludiche almeno fino al III secolo d.C., con differenze interessanti, attestate dall’epigrafia, nelle tre principali città greche, Taranto, Reggio, Napoli. Particolarmente complesso è infine il rapporto col mondo osco, legato a Roma, nelle classi dirigenti della Campania fin dai secoli della repubblica, ostilissimo ad essa nel gruppo sannitico, con una resistenza che si spinge fino oltre la guerra sociale e l’inizio delle guerre civili. Più tranquillo il rapporto con i Veneti, inclusi almeno fin dal III secolo a.C. nella formula Togatorum e, dopo la sanguinosa sottomissione, con i Celti della Padania, detentori dello ius Latii già all’inizio del I secolo e cittadini romani con Cesare. Il secondo approfondimento ha riguardato gli scrittori e i poeti, fondamentali per cogliere la realtà del dibattito e la sua teorizzazione a livello culturale. Se per l’Italia del II secolo a.C., uscita dalla terribile esperienza della guerra annibalica, massima è l’importanza di Catone, con la sua concezione già geograficamente unitaria dell’Italia, dalla Calabria alle Alpi, è soprattutto la cultura augustea, con gli storici, Livio e Dionigi di Alicarnasso, con il peso del suo ellenocentrismo, e, più ancora con i poeti, il Virgilio delle Georgiche e dell’Eneide, Ovidio, Orazio e Properzio, a darci un quadro vivo degli antagonismi, ancora presenti fra le popolazioni italiche, delle amarezze, delle aspirazioni presenti nel dibattito allora attualissimo sull’integrazione. Il senso più profondo della rivoluzione romana va cercato, a mio avviso, nella ricerca, da parte del potere, del consensus Italiae e nella sostituzione della vecchia nobilitas con le classi nuove emergenti dai municipia e dalle colonie dell’Italia. Oltre a questi due filoni principali, giusta attenzione è stata concessa agli strumenti giuridici dell’integrazione, foedera, ius Latii, civitas e al clima cosmopolitico, collegato con la diffusione dello stoicismo e con la sempre più ampia concessione della civitas romana, caratteristica dell’età imperiale, ma già presente nella più antica tradizione romana.
Italia y Roma desde una perspectiva legendaria Jorge Martínez-Pinna
En su brillante estudio sobre la identidad de Italia, A. Giardina invoca como punto primero de discusión la célebre oratio pronunciada ante el Senado por Claudio en el año 48 d.C. En ella el emperador proponía la admisión de la aristocracia de la Galia Comata en el orden senatorial, utilizando como argumento principal la propia historia de Roma: la ciudad nunca se había negado a admitir entre los suyos a gentes extranjeras, en la certeza que aportarían nueva savia a su grandeza. Los senadores, por el contrario, resaltaban la carencia de una consaguinitas itálica para oponerse a la propuesta de Claudio. El tema de la comunidad de origen romano-itálica no era una novedad en el plano político. Con acierto señala Giardina cómo este motivo emerge con fuerza en el debate suscitado por los hermanos Graco a propósito de la ampliación de la ciudadanía, aunque ciertamente con escasa eficacia en ambiente romano: a la afirmación general de Tiberio sobre los vínculos de sangre existentes con los itálicos, sigue la precisión de su hermano Cayo, quien reconoce una synghéneia sólo con los latinos y no con el conjunto de los aliados. Como se sabe, la cuestión itálica se plantea en el siglo II a.C. como consecuencia de las nuevas condiciones derivadas de la victoria de Roma en la guerra de Aníbal y su inmediata elevación a la hegemonía mediterránea. La antigua alianza romano-itálica se había ido desviando hacia una relación más próxima a la del señor-súbdito, cuya única solución posible no era otra que la integración plena de los itálicos. Pero esta situación sólo podía hacerse efectiva, en el mejor de los casos, entre los miembros de las élites, no así respecto * Este trabajo se enmarca en el proyecto de investigación HUM2005-01590, del Ministerio de Educación y Ciencia, y en el grupo de investigación HUM-696 de la Junta de Andalucía. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di una identità incompiuta, Roma 2004, pp. 3 ss. Giardina, L’Italia..., pp. 22 s. App. Bell. civ. I 9 (Tiberio); 23 (Cayo). Cf. P.M. Martin, L’éthique de la conquête: un enjeu dans le débat entre optimates et populares, en Il pensiero sulla guerra nel mondo antico (Contributi dell’Istituto di Storia Antica. 27), Milano 2001, pp. 151 ss. Sobre la cuestión, en general, pueden verse C. Nicolet, Rome et la conquête du monde méditerranéen. I. Les structures de l’Italie romaine, Paris 1979, pp. 287 ss., así como los capítulos redactados por E. Gabba y U. Laffi en Storia di Roma, II.1, Torino 1990, pp. 267 ss.
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al pueblo en su conjunto, que vivía en una casi completa inseguridad jurídica, generando un creciente ambiente de malestar que culminó en la guerra social. En líneas generales, la clase política romana asumió ante el problema la misma posición que más tarde adoptarán los senadores frente a la mencionada propuesta de Claudio: negarse a extender los privilegios de la ciudadanía, en la creencia que si es compartida por todos puede perder su esencia originaria. Pero con ello incurría en una grave contradicción histórica, pues precisamente el poder alcanzado por Roma en parte descansaba en la actitud contraria, es decir el desarrollo de una política de integración, como indica Veleyo Patérculo e incluso llegaban a reconocer los propios enemigos de Roma. Pero quizá no se trata sólo de una contradicción histórica, sino también ideológica. Los romanos siempre proclamaron con orgullo su origen mixto. Cierto es que las primeras manifestaciones claras al respecto proceden de autores del siglo I a.C., pero esta idea aparece ya implícita en la misma leyenda fundacional de Roma a propósito del asylum romúleo. Tampoco está de más recordar cómo los enemigos de Roma señalaban con desprecio no sólo la impureza de los fundadores, sino también la variada procedencia de sus reyes, según se observa por ejemplo en un pasaje de Justino que, en última instancia, muy probablemente deriva de Metrodoro de Skepsis. Pero al contrario de los griegos, los romanos no extendieron sus elementos pseudo-históricos a otros pueblos. Las notables coincidencias que se observan en leyendas de fundación y definición de los héroes en referencia a diferentes ciudades latinas, Roma incluida, obedecen a unas raíces comunes, no al deseo de relacionarse con Roma. Esta última nunca promovió a nivel general una concepción de la prehistoria itálica similar al helenocentrismo definido por Elias J. Bickerman. Vell. I 14,1: referencia a la propagatio civitatis a partir de la invasión gala y vinculada a la política colonial; cf. E. Gabba, Italia e Roma nella “Storia” di Velleio Patercolo, en Esercito e società nella tarda Repubblica romana, Firenze 1973, pp. 352 ss.; M. Sordi, L’excursus sulla colonizzazione romana in Velleio e la guerre sannitiche, “Helikon” 6 (1966), pp. 627-638 (= Scritti di storia romana, Milano 2002, pp. 177-191); Ead., Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma, Milano 1989, pp. 91 ss. Sobre la posición de los enemigos de Roma puede verse, por ejemplo, la carta de Filipo V de Macedonia a los ciudadanos de Larisa (IG IX.2 517). M. Sordi, Integrazione, mescolanza, rifiuto nell’Europa antica: il modello greco e il modello romano, en Integrazione mescolanza rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo, Roma 2001, pp. 23 ss. Iust. XXXVIII 6,7. Véanse al respecto D. Briquel, Pastores Aboriginum (Justin 38, 6, 7): à la recherche d’une historiographie grecque anti-romaine disparue, “REL” 73 (1995), 44-59; Id., Le regard des autres, Besançon, pp. 137 ss. Sobre el particular, me permito remitir a mi trabajo Rómulo y los héroes latinos, en Héroes y antihéroes en la Antigüedad clásica, Madrid 1997, esp. pp. 131 ss. E.J. Bickerman, Origines gentium, “CPh” 47 (1952), pp. 65-81 (= Religion and Politics in the Hellenistic and Roman Periods, Como 1985, pp. 399-417).
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Si nos situamos ahora en la perspectiva itálica, la situación no es la misma respecto al valor de la consanguinitas con Roma: puede ser que no fuese ésta una idea muy querida por los romanos, pero para los itálicos termina convirtiéndose en una necesidad. En el famoso el pasaje de Veleyo Patérculo que refleja las quejas de los itálicos en los preámbulos de la guerra social, se expresa la ingratitud de los romanos al negar la ciudadanía a aquellos que tanto habían contribuido a extender el poder de Roma, a quienes consideran como extranjeros pese a tener la misma raza y la misma sangre10. Si la insistencia en la participación militar está perfectamente justificada por los hechos, la invocación a una comunidad étnica, lo que lleva implícito la aceptación de un mismo origen, se asemeja más bien a una expresión retórica. Ciertamente no existe una leyenda de consanguinitas común a todos los pueblos de Italia. Lo más cercano que puede recordarse al respecto es el “pansabinismo” reflejado en los mitos relativos al ver sacrum. Estas leyendas sitúan el origen, directo o indirecto, de diversos pueblos de Italia en la región de Sabina11, concepción resumida en el calificativo de Varrón sobre el lacus Cutiliae como umbilicus Italiae12. Y no puede descartarse que en el fondo tales leyendas respondan a hechos históricos. Pero esta presentación de la prehistoria de Italia sólo llega a incluir a Roma, como parte integrante del Lacio, a partir de Catón y sobre todo de Varrón, cuando los aborígenes, como primeros habitantes del Lacio, son desplazados a Sabina13. Las tradiciones de procedencia itálica ideadas para crear un vínculo particular con Roma no se reparten de manera uniforme por toda la península. Ante todo, hay que tener en cuenta que el concepto de synghéneia es extraño a la mentalidad italica14, lo cual excluye no pocas regiones. En cierto sentido, puede establecerse un paralelo con otro motivo propagandístico muy utilizado en las relaciones interestatales griegas: la libertad. Señala A. Erskine cómo el slogan “la libertad de los griegos” sólo fue aplicado a Italia en una ocasión: Aníbal se presentó ante los itálicos como su libertador, pero sólo después de Cannas su proclama alcanzó cierto éxito entre las ciudades
10 Vell. II 15,2: per omnis annos atque omnia bella duplici numero se militum equitumque fungi neque in eius civitatis ius recipi, quae per eos in id ipsum pervenisset fastigium, per quod homines eiusdem et gentis et sanguinis ut externos alienosque fastidire posset. 11 Pueden verse sobre el particular, con amplias referencias, C. Letta, L’Italia dei mores romani nelle Origines di Catone, “Athenaeum” 72 (1984), pp. 420 ss.; E. Dench, From Barbarians to New Men, Oxford 1995, pp. 185 s.; D. Briquel, La zona reatina, centro dell’Italia: una visione della penisola alternativa a quella romana, en La Salaria in età antica, Roma 2000, pp. 79-89. 12 Plin. nat. III 109. Cf. L. Deschamps, Pourquoi Varron situe-t-il au lac de Cutilia l’Ombilic de l’Italie?, “Euphrosyne” 20 (1992), pp. 299-310. 13 J. Martínez-Pinna, La prehistoria mítica de Roma, Madrid 2002, pp. 62 ss. 14 Cf. Giardina, L’Italia..., pp. 25 s.
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griegas del sur y de Sicilia, no así entre los pueblos itálicos, ajenos por completo a esta idea15. Algo similar sucede con la synghéneia. La documentación disponible, tanto en referencia a Roma como a otros pueblos16, nos conduce hacia las regiones con un nivel cultural más elevado, sobre todo a los helenizados ambientes del sur peninsular y de Sicilia. El instrumento utilizado preferentemente para crear esa parentela mítica no es otro que la leyenda troyana, una elección que no puede sorprender. Como se sabe, el único mito de synghéneia aceptado conscientemente por los romanos fue el de su lejano origen troyano, ampliamente invocado por Roma en sus relaciones con Grecia, sobre todo durante la etapa de la conquista17. Y si Roma fue integrada en el universo griego a través de Troya y Eneas, este mismo vehículo podía servir perfectamente a los intereses itálicos. Pero antes de nada, conviene considerar el caso de los latinos, cuya relación con Roma era muy distinta a la de los aliados. La primera vez que Livio menciona la consanguinitas romano-latina la sitúa en los preámbulos de la guerra latina del año 340 a.C. El pretor latino L. Annio, en primera instancia ante el consejo federal y luego ante el Senado romano, invoca el origen común como base para la constitución de un Estado conjunto en cuyo gobierno latinos y romanos tendrían una participación paritaria18. Hace ya tiempo se reconoció que este discurso era la traslación al siglo IV de una situación que sólo se produjo con la guerra social19. Y en efecto así parece, pues cuesta mucho admitir que en el mencionado año los latinos quisieran integrarse en el Estado romano, cuando su intención no era otra que contestar una hegemonía que les resultaba cada vez más onerosa. Sin embargo, y reconociendo este hecho, no cabe duda que la idea de la comunidad de origen romanolatina se adapta perfectamente no sólo a la situación imperante en el siglo IV, sino a toda la historia anterior. De hecho lo reconoce el mismo Livio cuando tras narrar la ejecución de Turno Herdonio, el rey Tarquinio el Soberbio, en su discurso ante la asamblea de los latinos, resalta el común origen de todos 15
A. Erskine, Hannibal and the Freedom of the Italians, “Hermes” 121 (1993), pp. 58-62. Recuérdense por ejemplo aquellas tradiciones sobre el origen lacedemonio de algunos pueblos itálicos, fundamentalmente los samnitas: Strab. V 4,12,250; cf. M. Sordi, I Sanniti fra Roma e i Greci nel IV sec. a.C., “Abruzzo” 13 (1975), pp. 95-100; D. Musti, La nozione storica dei Sanniti nelle fonti greche e romane, en Strabone e la Magna Grecia, Padova 1994, pp. 203 ss.; Dench, From Barbarians..., pp. 53 ss. 17 Así, E. Gabba, Sulla valorizzazione politica delle leggenda delle origini troiane di Roma fra III e II secolo a.C., en I canali della propaganda nel mondo antico (Contributi dell’Istituto di Storia Antica. 4), Milano 1976, pp. 84-101. Más escéptico A. Erskine, Troy between Greece and Rome, Oxford 2001, pp. 162 ss. 18 Liv. VIII 4,1-11; 5,3-6. 19 G. Dipersia, Le polemiche sulla guerra sociale nell’ambasceria latina di Livio VIII, 4-6, en Storiografia e propaganda (Contributi dell’Istituto di Storia Antica. 3), Milano 1975, pp. 111-120, con bibliografía previa. 16
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los allí reunidos con las palabras omnes Latini ab Alba oriundi sint20. Por su parte, Dionisio de Halicarnaso, que contempla la historia de Roma desde otra perspectiva, es mucho más prolífico en mencionar la comunidad de sangre romano-latina, que de hecho se convierte en un lugar común en su relato desde el reinado de Tulo Hostilio. La consanguinitas romano-latina descansa en la propia historia. Tratando sobre la organización de los latinos, señala acertadamente C. Ampolo como punto de partida los factores que, al decir de Heródoto, definían la raza helena: comunidad de sangre y de lengua, santuarios y cultos comunes, costumbres e instituciones similares21. No cabe duda que tales principios son asimismo aplicables al Lacio. La identidad del pueblo latino, que implica el reconocimiento de un origen propio, se expresa fundamentalmente a través de dos elementos, traducidos uno en el plano mítico y otro en el religioso. El primero se personifica en la figura de Latino, héroe ancestral del pueblo homónimo, cuya presencia aparece ya documentada en la Teogonía de Hesíodo22. A partir de aquí, Latino pasa a ocupar un lugar destacado en las leyendas griegas sobre la fundación de Roma, en representación de la componente indígena, hasta que finalmente fue desplazado por Rómulo23. El segundo aspecto a considerar son las feriae Latinae, ocasión en la que todos los pueblos latinos se reunían en el monte Albano para honrar a Júpiter Latiaris24. Esta fiesta, de señalada antigüedad, viene a expresar en ámbito religioso la existencia de una comunidad nacional que ha adquirido plena conciencia de su propia singularidad. Por todo ello no puede sorprender que en un determinado momento Latino y feriae Latinae aparezcan íntimamente unidos. Un notable transformación se produce tras la culminación de la guerra latina del 340 a.C. y la incorporación del Lacio al dominio de Roma. En tales momentos la ciudad de Lavinium alcanza una señalada posición en los ámbitos religioso y cultural, aspirando al privilegio de ser reconocida como metrópolis latina en competencia con Alba25. Es muy posible que entonces, 20 Liv.
I 52,2. Her. VIII 144; C. Ampolo, L’organizzazione politica dei Latini ed il problema degli Albenses, en Alba Longa. Mito, storia, archeologia, Roma 1996, p. 136. Asimismo T.J. Cornell, Ethnicity as a factor in early Roman history, en Gender and ethnicity in ancient Italy, London 1997, p. 9. 22 Hes. Theog. 1011 ss. 23 Sobre la evolución de la figura de Latino, me permito enviar a J. Martínez-Pinna, El rey Latino o la decadencia del héroe, “RBPhH”, 83 (2005), pp. 63-77, con amplias referencias. 24 Acerca de los aspectos rituales de la fiesta, A. Pasqualini, I miti albani e l’origine delle feriae Latinae, en Alba Longa. Mito, storia, archeologia, pp. 218 ss.; B. Liou-Gille, Naissance de la ligue latine: mythe et culte de fondation, “RBPhH”, 74 (1996), pp. 93 ss. 25 Sobre esta posición de Lavinium, puede leerse con provecho cuanto escriben A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Ann Arbor 1965, pp. 29 ss., 246 ss.; M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, en Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l’Oriente (Contributi dell’Istituto di Storia Antica. 8), 21
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a iniciativa de los círculos eruditos lavinates, se recreasen las tradiciones relativas a Eneas y en general a la prehistoria mítica del Lacio – es decir la etapa anterior a la fundación de Roma – en un sentido favorable a Lavinium. En este contexto habría quizá que situar la captación de Eneas como fundador de Lavinium26, la íntima relación entre Latino y la institución de las feriae Latinae en el seno de la leyenda troyana27 y la formulación de la etnogénesis latina a partir de la fusión de un elemento indígena, los aborígenes de Latino, y otro extranjero, los troyanos de Eneas. Este origen mixto del pueblo latino deriva de un planteamiento novedoso. Frente a la tipología griega que contemplaba dos formas de etnogénesis, la autoctonía y la migración, en Italia se introduce una tercera resultado de la unión de las dos anteriores. El concepto de aborígenes es una construcción erudita por completo artificial, ideada como forma local de la autoctonía: su misión no es otra que representar a la población indígena, asentada en la región desde el origen de los tiempos, que recibe a Eneas cuando éste desembarca en el Lacio28. En consecuencia, el pueblo latino resulta de la mezcla de gentes autóctonas con otras emigrantes. Pero su nobleza no reposa sólo en esta segunda componente, sino también en la primera, como afirma con rotundidad el gramático Servio: ergo descendunt Latini non tantum a Troianis sed etiam ab Aboriginibus29. De esta manera los latinos aceptaron su integración en el universo griego, pero conservando a la vez su propia identidad. Si esta construcción es del todo original, no puede afirmarse con seguridad. Contemporáneamente debió desarrollarse en Etruria, y más en concreto en Tarquinia, una versión similar sobre el origen de los etruscos que mezclaba la autoctonía con la migración. Tal puede deducirse de una tradición, transmitida por Estrabón, que atribuye al lidio Tirreno la fundación de la dodecápo-
Milano 1982, pp. 72 ss.; Ead., Ancora sulla storia romana del IV secolo a.C., “Aevum” 73 (1999), pp. 76 ss. (= Scritti di storia romana, Milano 2002, pp. 520 ss.); K. Galinsky, Aeneas in Latium: Archäologie, Mythos und Geschichte, en 2000 Jahre Vergil, Wiesbaden 1983, pp. 47 ss.; A. Dubourdieu, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Roma 1989, pp. 372 ss.; E.S. Gruen, Culture and National Identity in Republican Rome, London 1993, pp. 28 s.; Th. Mavrogiannis, Aeneas und Euander, Napoli 2003, pp. 65 ss. 26 Tal hecho aparece ya atestiguado en Timeo (FGrHist 566,59 [= Dion. I 67,4]) e indirectamente también en Licofrón (Alex. 1259 ss.). Este último autor menciona la escultura de la cerda y los treinta lechones que se alzaba en el foro de Lavinium, que posteriormente también recuerda Varrón (rust. II 4,18). Este grupo escultórico contiene un evidente carácter fundacional, similar por tanto al que representaba a Rómulo y Remo amamantados por la loba que contemporáneamente fue situado en el Comitium de Roma (Liv. X 23,12). 27 Fest. 212 L; Schol Bob. in Cic. Planc. 23 (154 s. Stangl); cf. A. Grandazzi, Le roi Latinus: analyse d’une figure légendaire, “CRAI” 1988, pp. 485 ss. 28 Sobre la definición de los aborígenes, puede verse Martínez-Pinna, La prehistoria..., pp. 17 ss. 29 Serv. Aen. I 6.
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lis etrusca, cuya jefatura encomendó al héroe indígena Tarchon, quien había nacido con los cabellos blancos, descripción del puer senex que le aproxima estrechamente a Tages30. Como parte irrenunciable del pueblo latino, los romanos llegaron a aceptar esta versión, aunque parece que no de manera inmediata. Los escasos fragmentos disponibles de Nevio y Ennio relativos a la llegada de Eneas al Lacio sugieren un panorama diferente. Por una parte, no hay referencia clara a los aborígenes31. Pero más señalado es quizá el hecho de que la ciudad de Alba existía antes de la presencia de Eneas, quien habría entrado en contacto con Amulio, no con Latino, y contrajo matrimonio con una princesa real32. Quizá Nevio hablaba también de la fundación troyana de Lavinium, si verdaderamente se refieren a este acontecimiento unos versos que presentan a Anquises cumpliendo una operación augural33. Parece entonces que Nevio y Ennio prefieren vincularse a las antiguas tradiciones latinas, que otorgaban a Alba la primacía cronológica sobre Lavinium, y a la vez, de acuerdo con las versiones griegas, relacionan directamente a Eneas con Rómulo y Remo34. En cualquier caso, no parece tampoco que Roma se opusiera frontalmente a la construcción lavinate, si hemos de juzgar por el éxito que ésta alcanzó de forma inmediata. A comienzos del siglo III Calias de Siracusa habla de Latino como rey de los aborígenes que recibe a Eneas35, mientras que Licofrón y Timeo, como hemos visto, se hacen eco de tradiciones lavinates. Hasta donde sabemos36, habría sido Catón quien introdujo a los aborígenes en una re30 Strab. V 2,2,219. Sobre esta leyenda trata también D. Briquel, L’origine lydienne des Étrusques, Roma 1991, pp. 127 ss., aunque con conclusiones diferentes. 31 Generalmente se admite que el verso de Nevio silvicolae homines bellique inertes (Naev. fr. 21 M = Macr. Sat. VI 5,9) hace alusión a los aborígenes, pero tal identificación se encuentra lejos de ser segura: cf. Martínez-Pinna, La prehistoria..., pp. 47 ss., con referencias. 32 Naev. fr. 24 M (= Non. 116.31 M); Enn. fr. 26 V (= Fort. GLK VI.284). Cf. F. Krampf, Die Quellen der römischen Gründungssage, Leipzig 1913, pp. 38 ss.; G. D’Anna, Alba Longa in Nevio, Ennio e nei primi annalisti, en Alba Longa. Mito, storia, archeologia, pp. 110 ss. 33 Naev. fr. 3 M (= Prob. Ad Verg. ecl. 6,31): postquam avem aspexit in templo Anchisa, / sacra in mensa penatium ordine ponuntur, / immolabat auream victimam pulchram. Sobre el significado fundacional, G. D’Anna, Problemi di letteratura latina arcaica, Roma 1976, pp. 84 s.; Id., Alba Longa..., pp. 107 s. 34 Serv. auct. Aen. I 273: Naevius et Ennius Aeneae ex filia nepotem Romulum conditorem urbis tradunt; Serv. Aen. VI 777: dicit [Ennius] Iliam fuisse filiam Aeneae; quod si est, Aeneas avus est Romuli. 35 Calias FGrHist 564, 5 (= Dion. I 72,5). 36 Por desgracia es muy poco lo que se conoce al respecto de la obra de Fabio Píctor (cf. D’Anna, Problemi…, pp. 93 ss.). En uno de sus fragmentos (4 P = 5 Ch [= Diod. VII 5,4-5]) se refiere al episodio de la cerda, cuyo parto múltiple no tiene lugar en el solar de Lavinium sino en el de Alba, ciudad que será fundada después por Ascanio. Es decir, Alba no existía cuando Eneas llegó al Lacio. Quizá Fabio admitiese la anterioridad de Lavinium, ya que por un lado los treinta lechones que parió la cerda blanca no simboliza los triginta populi Latini, como figura en Licofrón (Alex. 1250 ss.), sino los treinta años que deben transcurrir hasta la fundación de Alba, y por otro conoce a Amata, la esposa de Latino (fr. 6 CH [= Serv. auct. Aen. XII 603]. Dice Fabio que Amata se suicidó por inanición y no por ahorcamiento,
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construcción completa de la prehistoria romana, avalando con su autoridad la etnogénesis latina y sentando las bases de la tradición previrgiliana. De esta manera la idea de los aborígenes como primitivos habitantes del Lacio queda profundamente enraizada en la mentalidad histórica romana, hasta el punto que Salustio, que en esto sigue a Catón, limita su carácter general latino al solar de Roma, presentando el origen de la ciudad mediante la fusión de troyanos y aborígenes37. Al igual que los latinos, los itálicos acudieron asimismo a la vía troyana como instrumento preferente para aproximarse a Roma. Pero se trata de una relación más forzada, pues de hecho carecían de vínculos históricos directos. Los latinos invocan un patrimonio común como vehículo de integración; los itálicos, por el contrario, lo intentan a través de figuras interpuestas que, de manera más o menos artificiosa, puedan relacionarse con el pasado legendario de Roma y establecer así un rasgo de synghéneia. No obstante, algunas ciudades latinas tampoco despreciaron este recurso, como veremos inmediatamente. Entre todos los personajes implicados en este proceso, sólo Dárdano posee unas raíces troyanas, aunque su origen se situase en Arcadia38. Las noticias más antiguas sobre la presencia de Dárdano en Italia se localizan en la Etruria septentrional, más en concreto en la ciudad de Cortona. Cierto es que las fuentes no son del todo explícitas, comenzando por el mismo Virgilio, quizá la mas importante entre todas ellas. En dos ocasiones, el poeta menciona el origen itálico de Dárdano, con especial referencia a una Corythus Thyrrena como punto de partida del héroe hacia la Tróade39. Virgilio no lo dice claramente, pero diversos indicios conducen a identificar Córito con Cortona, de acuerdo con la opinión más extendida en la actualidad40. Este origen itálico de Dárdano no es una invención de Virgilio, como
como menciona Virgilio (Aen. XII 593 ss). Sobre el particular, J.-L. Voisin, Le suicide d’Amata, “REL” 57 (1979), pp. 254-266; Martínez-Pinna, El rey..., pp. 66 s.. 37 Sall. Catil. 6,1-2: urbem Romam, sicuti ego accepi, condidere atque habuere initio Troiani, qui Aenea duce profugi sedibus incertis vagabantur, cumque eis Aborigines, genus hominum agreste sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum. Hi postquam in una moenia convenere, dispari gente, dissimili lingua, alius alio more viventes, incredibile memoratu est quam facile colaverint: ita brevi multitudo diversa atque vaga concordia ciuitas facta erat; cf. Serv. Aen. I 6. Sobre este pasaje, últimamente, D. Briquel, Salluste, Catilina, VI, 1-2: une vision aberrante des origines de Rome, en Aere perennius, Paris 2006, pp. 83-105. 38 Sobre el Dárdano itálico pueden verse, con referencias, V. Buchheit, Vergil über die Sendung Roms, Heidelberg 1963, pp. 151 ss.; G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, “ArCl” 32 (1980), pp. 1-15; D. Briquel, Les Pélasges en Italie, Roma 1984, pp. 161 ss.; D. Musti, Dardano, en EncVirg, I, Roma 1984, pp. 998-1000. 39 Verg. Aen. III 165 ss.; VII 205 ss. 40 En contra se manifiesta N. Horsfall, Corythus: The Return of Aeneas in Vergil and his Sources, “JRS”, 63 (1973), pp. 68 ss., quien se inclina por Tarquinia. Pero sus argumentos no son del todo convincentes: cf. E.L. Harrison, Vergil’s location of Corythus, “CQ” 26 (1976), pp. 293-295.
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sostenía V. Buchheit41, sino que debió inspirarse en las propias tradiciones etruscas, con las que el poeta estaba familiarizado. Son muy significativas al respecto, como ha sido señalado repetidamente, las inscripciones etruscas de Túnez en las que se dedican a Tinia los límites de los “dardanios”42. Como se sabe, estos epígrafes denuncian el asentamiento en Africa de un grupo de etruscos septentrionales en torno al año 100 a.C.43, que se califican a sí mismos como dardanios en referencia a su antepasado mítico, Dárdano, lo que indica sin lugar a dudas que la leyenda sobre este personaje ya estaba entonces firmemente asentada en Etruria. Pero Córito es también el nombre de varios héroes griegos. El que aquí interesa es uno de origen arcadio, introducido tanto por razones de homofonía como por su relación con Télefo en Cortona, donde probablemente se superpuso a otro héroe griego relacionado previamente con la ciudad, Odiseo44. A este respecto, el gramático Servio resulta más explícito cuando recuerda una variante de la tradición, según la cual Dárdano era hijo de Córito, epónimo de Cortona, de donde salió para dirigirse a la Tróade45. Y en efecto, parece que fue Córito quien atrajo a Dárdano hacia Cortona, proceso cumplido, según señala G. Colonna, a instancias de los ambientes eruditos de la ciudad, empapados desde antiguo de una fuerte influencia griega, en una fecha no anterior el siglo II a.C.46 La introducción de Dárdano en Cortona sólo se justifica por el intento de establecer un vínculo con Roma. Siendo Dárdano el progenitor de la estirpe troyana, incluido Eneas, los cortoneses proclaman una ascendencia común y a la vez su mayor antigüedad respecto a Roma. Esta misma proyección de Dárdano se observa en la ciudad latina de Cora, fundada a Dardano Troiano47. En las breves referencias conservadas Córito no es mencionado, pero su presencia fácilmente se intuye por la proximidad fonética entre los nombres del héroe y de la ciudad, lo que permite suponer que esta versión se creó una vez asentada la leyenda de Córito y Dárdano. Una segunda versión identifica al fundador de Cora en el héroe
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Buchheit, Vergil..., pp. 151 ss. Véase en contra Horsfall, Corythus..., pp. 74 ss. ET Af 8. Sobre las inscripciones, puede consultarse J. Heurgon, Inscriptions étrusques de Tunisie, “CRAI” 1969, pp. 526-551 (= Scripta varia, Bruxelles 1986, pp. 443-447). 43 Con diferentes perspectivas cronológicas, Heurgon, Inscriptions...; Id., Les Dardaniens en Afrique, “REL” 47 (1969), pp. 284-294; M. Sordi, La fuga di Mario nell’88 e gli Etruschi di Africa, “Klio” 73 (1991), pp. 408-412 (= Prospettive di storia etrusca, Como 1995, pp. 115-120); Ead., C. Mario e una colonia etrusca in Tunisia, “ArCl” 43 (1991), pp. 363-366. 44 Véase Briquel, Les Pélasges…, p. 164. 45 Serv. Aen. III 167. 46 Colonna, Virgilio…, p. 12. 47 Plin. nat. III 63; también Sol. 2,7: Coram a Dardano. 42
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Coras48, personaje conocido también como uno de los tres hermanos argivos, junto a Tiburto y Catilo, que fundaron Tibur49. Entre estas dos ciudades, Cora y Tibur, surge un cierto paralelo: ambas poseen una leyenda de fundación argiva más antigua y junto a ésta, y de forma independiente, desarrollan otra con el propósito de relacionarse con Roma. Tibur acude a Evandro, cuyo praefectus classis, llamado Catilo, aparece como fundador de la ciudad en una tradición recogida por Catón50, mientras que Cora hace lo propio a través de Dárdano. Esta última versión llegó a Plinio, fuente a su vez de Solino, probablemente desde Varrón51, quien a su vez la recogió en ambientes locales. Quizá la leyenda surgió al amparo de la remodelación monumental del templo de los Castores en Cora en la primera mitad del siglo I a.C., habida cuenta que ya se había producido en Roma una asimilación entre Castores y dioses Penates, y estos a su vez con los Magni Di de Samotracia, cuya relación con Dárdano y los Penates troyanos era aceptada desde antiguo52. Como antes señalaba, la mayor parte de las tradiciones itálicas que se vinculan a Roma proceden del sur, de ambientes culturales de matriz griega y por tanto familiarizados con el concepto y la aplicación de la synghéneia. Un primer personaje a tener en cuenta es Télefo. Según una versión anónima transmitida por Plutarco, Rhome, quien dio nombre a la ciudad, era hija de Télefo, hijo de Heracles53. La interpretación casi general vincula esta tradición con aquella otra relativa a la presencia de Télefo en Etruria, en concreto con la genealogía que menciona Licofrón, según la cual Tarchon y Tirreno era hijos suyos54. De esta manera, Rhome sería hermana de los grandes hé48 Serv.
Aen. VII 672. noticia principal se encuentra en Sol. 2.8, quien invoca como fuente a un tal Sextio; también aluden al origen argivo de Tibur, Verg. Aen. VII 670 ss.; Hor. carm. II 6,5; Porph. in Hor. carm. I 7,13; II 6,5; Serv. Aen. VII 670. Sobre el particular, M.T. Laneri, Una strana narrazione catoniana sulla fondazione di Tivoli (in Solin., 2.7-8), “Sandalion” 18 (1995), pp. 133-146; D. Briquel, La légende de fondation de Tibur, “ACD” 33 (1997), pp. 63-81; W. Lapini, Solino e la fondazione di Tivoli, “BStudLat” 28 (1998), pp. 467-477; A. Meurant, La valeur du thème gémellaire associé aux origines du Tibur, “RBPhH” 76 (1998), pp. 37-73. 50 Catón fr. 56 P = fr. II 26 Ch (= Sol. 2,7): Tibur, sicut Cato facit testimonium, a Catillo Arcade praefecto classis Evandri. Los vínculos de Tibur con Roma a través de Evandro se refuerzan con aquella versión que identifica a Carmenta, madre de Evandro, con una ninfa local (Serv. auct. Aen. VIII 336). 51 En contra, Horsfall, Corythus..., p. 72. Por su parte, Musti, Dardano, p. 999, parece inclinarse por Catón. 52 Sobre el papel de Dárdano en la historia de los Penates, A. Dubourdieu, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, pp. 131 ss. 53 Plut. Rom. 2,1. 54 Lyc. Alex. 1245 ss. Así, con distintas apreciaciones, B. Niese, Die Sagen von der Gründung Roms, “HZ” 59 (1888), p. 489; A. Rosenberg, Romulus, en RE I.A (1914), col. 1082; F. Schachermeyr, Telephos und die Etrusker, “WSt” 47 (1929), pp. 155 ss.; Alföldi, Early..., p. 279; W.A. Schröder, M. Porcius Cato. Das erste Buch der Origines, Meisenheim 1971, p. 68; P.M. Martin, Héraklès en Italie d’après 49 La
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roes etruscos, con lo cual se establece un vínculo entre Etruria y Roma. Sin ir tan lejos, otra corriente moderna niega el parentesco de Rhome con Tarchon y Tirreno, pero sí inserta la versión de Plutarco en un contexto etrusco55. Pero esta línea de interpretación suscita, en mi opinión, algunas dudas. Rhome es una figura griega, inventada con una finalidad eponímica respecto a Roma: así se muestra en la primera mención conocida de este personaje, el fragmento de Helánico relativo a la fundación de Roma por Eneas (y Odiseo), cualidad que no perdió a lo largo de toda su existencia56. No tiene sentido alguno que Rhome fuese relacionada con Etruria, y desde luego la gran mayoría de las referencias a este personaje proceden de la Grecia propia o de ambientes griegos de la Italia meridional. Según creo, el origen del vínculo de Télefo con Roma a través de Rhome hay que buscarlo en otra dirección57. Télefo gozó de no poca fama en Etruria al menos desde comienzos del siglo IV58, pero no menos presencia tenía en Campania, donde era considerado fundador de Capua y como tal representado en sus monedas59. Teniendo en cuenta, por un lado, que la figura de Rhome era muy conocida en los círculos helenizados del sur de Italia y, por otro, la estrecha relación política entre Roma y Capua previa a la guerra de Aníbal, no sería aventurado pensar que la tradición que ahora nos ocupa procede de ambiente campano. Pero no habría sido éste el único vínculo de synghéneia creado entre Roma y Capua. A comienzos del siglo II a.C., Hegesianax de Alejandría Troas, bajo el pseudónimo de Cefalón de Gergis, regoge una versión según la cual Rómulo y Rhomos, hijos de Eneas, fundaron Capua60. La noticia nos ha llegado de forma muy escueta, pero fácilmente se puede presumir que se trata asimismo de los fundadores de Roma. Esta versión no fue inventada por Hegesianax, sino que muy posiblemente el historiador microasiático la conoció Denys d’Halicarnasse (A.R., I, 34-44), “Athenaeum” 50 (1972), pp. 271 ss.; C. Ampolo, en Plutarco. Le vite di Teseo e di Romolo, Milano 1988, p. 267; M. Sordi, Il mito di Telefo e gli Arcadi in Etruria, “Aevum” 80 (2006), p. 64. 55 Cf. J. Perret, Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris 1942, pp. 468 s.; D. Briquel, L’origine lydienne des Étrusques, Roma 1991, pp. 185 ss. 56 Helánico, FGrHist 4,84 (= Dion. I 72,2. Sobre este personaje, J. Martínez-Pinna, Rhome: el elemento femenino en la fundación de Roma, “Aevum” 71 (1997), pp. 79-102). 57 Apoyándose en la imagen de Télefo como antepasado de los Atálidas, algunos autores interpretan esta tradición desde una perspectiva pergamena: P. Gros, La légende de Télèphe à Pergame et à Aphrodisias, en Historia y biografía, Madrid 1997, p. 74; Erskine, Troy..., pp. 222 s.; en un sentido más amplio, Mavrogiannis, Aeneas..., pp. 137 ss.; Id, Evandro sul Palatino, “A&R” 49 (2004), pp. 14 ss. Pero la variante de Plutarco se mueve en un contexto itálico. 58 M. Harari, La preistoria degli Etruschi secondo Licofrone, “Ostraka” 3 (1994), pp. 273 s.; Sordi, Il mito di Telefo… 59 J. Heurgon, Recherches sur l’histoire, la religion et la civilisation de la Capoue préromaine, Paris 1942, pp. 224 s. 60 Cefalón FGrHist 45,8 (= Etym. Magn. 490 G).
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en sus viajes a Italia como embajador de Antíoco III61. Siguiendo esta misma línea, Dionisio de Halicarnaso transmite a su vez una extraña tradición sobre una doble fundación de Roma, la primera de las cuales – la segunda es la canónica latina de Rómulo y Remo – concede el protagonismo a Rhomos, hijo de Eneas, quien además de Roma habría fundado Capua, Anquisa y Enea62. Es posible que estemos ante el reflejo de una antigua crónica campana, que buscaba reafirmar los vínculos entre Capua y Roma mediante una synghéneia mítica, consecuencia en última instancia del estrecho vínculo político que durante más de un siglo unió a ambas ciudades63. Localizada asimismo en área campana es aquella extraña versión sobre el origen de Roma que el gramático Festo atribuye a un desconocido historiae Cumanae compositor64. La noticia habla sobre gentes originarias de Atenas, que tras pasar por Sicione y Tespies, llegaron finalmente al Lacio, donde tomaron el nombre de aborígenes y fundaron una ciudad sobre el Palatino llamada Valentia; tiempo después se presentaron Evandro y Eneas y rebautizaron el poblamiento como Roma. Esta leyenda ha suscitado interpretaciones muy diversas y no pocas discusiones, desde la identificación de su autor y época de redacción hasta su significado en función de diferentes situaciones políticas65. Según creo, el relato es de composición relativamente reciente, no anterior a mediados del siglo II a.C., pues aunque deriva de mano griega, exige un conocimiento nada superficial de tradiciones latinas: la etimología que propone del nombre de los aborígenes, así llamados multo errore, tiene valor de prueba. El único dato seguro es que el autor es de Cumas, ciudad sobre la cual existía una leyenda protagonizada por tespios con antecedentes atenienses, que bajo la dirección de Iolao colonizaron Cerdeña, asentándose finalmente en Cumas66. Parece entonces que este desconocido historiador pretendía aplicar a Roma un origen similar al de su propia ciudad, pero aceptando también elementos ya muy anclados en las tradiciones romanas. En nuestro recorrido por el sur, el siguiente personaje que encontramos es Italo. Al igual que sucede con Télefo, el nexo entre Italo y el origen de Roma se establece a través de la genealogía del fundador o de la figura epónima. Se conocen al respecto dos versiones, procedentes quizá de la misma matriz. Una de ellas, transmitida por Plutarco, dice que la heroína epónima, Rhome, era hija de Italo y de Leucaria y se casó con Eneas; la segunda, que 61 Así
lo supone con fundamento Perret, Les origines..., p. 512. I 73,3. 63 Niese, Die Sagen..., p. 490; W. Schur, Griechische Traditionen von der Gründung Roms, “Klio” 17 (1920-1921), pp. 145 s. 64 Fest. 328 L. 65 Sobre el particular, con discusión y referencias, Martínez-Pinna, La prehistoria..., pp. 32 ss. 66 Diod. V 16. Véanse asimismo Paus. X 17,5; Steph. Byz. 21 M. 62 Dion.
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conocemos por Dionisio, concede la fundación de Roma a Rhomos, hijo asimismo de Italo y de Leucaria, hija de Latino67. Uno de los aspectos fundamentales es la identificación de Leucaria, en quien muy probablemente haya que ver una interpretatio graeca de la ciudad de Alba68: su relación directa con Latino así induce a verlo. No sería ésta la única vez que Alba es personificada como madre del fundador de Roma, condición que previamente fue utilizada por al siciliano Alcimo69. Desde esta perspectiva, Roma es presentada como fruto de la unión de una componente italiota con otra latina, de forma que aceptando antiguas tradiciones del Lacio, se introduce a la vez un elemento nuevo que determina una comunidad de origen con los griegos del sur70. A un momento posterior pertenece otra tradición protagonizada por Italo, no centrada propiamente en Roma sino en el Lacio. Transmitida por Servio, habla de Italo, rey de los sículos, que llega al Lacio desde Sicilia durante el reinado de Turno, se asienta en la región de Laurentum y a partir de su nombre se denomina toda Italia71. No puede negarse que se trata de una noticia muy singular, ya que sin mencionarla, se enmarca en el contexto de la leyenda troyana. En efecto, Italo es dibujado como un doble de Eneas y su aventura latina rememora la del héroe troyano. Servio nada dice sobre su autor, pero debe tratarse de un siciliano que conoce las tradiciones latinas sobre Eneas, y en particular aquélla fijada por Catón, el primero en otorgar a Turno un papel destacado. En esta versión se presenta una comunidad de origen entre Sicilia y el Lacio, pero reconociendo la hegemonía romana. Italia tiene su origen en el Lacio, al contrario de la visión tradicional griega, en la que el concepto de Italia se va extendiendo de sur a norte72. Con Italo nos introducimos en Sicilia, que si bien se incluye stricto sensu en el ámbito provincial, constituye una de las regiones más fecundas en tradiciones de synghéneia con el Lacio. Estas se expresan en referencia bien a ciudades concretas del Lacio, bien a la región latina en su conjunto, Roma incluida. En el primer caso se trata de héroes de origen siciliano inventados a
67 Plut.
Rom. 2,1; Dion. I 72,6. lo defendía ya A. Schwegler, Römische Geschichte, I, Tübingen 1853, p. 400 n. 1. Esta es la opinión que en la actualidad goza de mayor número de seguidores, aunque no la única alternativa propuesta. Leucaria ha sido también interpretada como una personificación de Lucania o de la ciudad apula de Luceria (sobre esta última, Niese, Die Sagen..., pp. 490 s.; D. Musti, Il processo di formazione e diffusione delle tradizioni greche sui Daunii e su Diomede, en La civiltà dei Dauni nel quadro del mondo italico, Firenze 1984, pp. 104 ss. [= Strabone e la Magna Grecia, Padova 1994, pp. 186 s.]). 69 Alcimo FGrHist 560,4 (= Fest. 326 L). 70 Cf. Ampolo, en Plutarco. Le vite…, pp. 266 s. 71 Serv. Aen. I 2; 533. 72 Cf. F. Prontera, L’Italia nell’ecumene dei Greci, “GeogAnt” 7 (1998), pp. 5-14. 68 Así
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propósito como fundadores de ciudades latinas. Un grupo consistente de noticias fueron recogidas por el analista romano Casio Hémina, quien recuerda como fundadores de Aricia y de Crustumerium a los sículos Arquíloco y Sículo respectivamente73. Quizá también se deba a Hémina la procedencia de la tradición sobre Gabii, fundada por los hermanos sículos Galatio y Bión, que conocemos por Solino74. En este mismo contexto hay que situar la tradición atribuida a Fabio Píctor en una inscripción de Taormina sobre el siciliano Lanoios, quien en compañía de sus aliados Eneas y Ascanio se trasladó a Italia75. Este Lanoios no es otro que el mítico fundador de la ciudad latina de Lanuvium, que como sabemos por otra inscripción, era considerada una apoikía de la siciliana Centuripe76. No puede precisarse cuál era el papel de Lanoios en la obra de Fabio. En el mejor de los casos, el historiador romano habría recogido una tradición siciliana qua hacía de Lanuvium una fundación del héroe, aunque cabe también la posibilidad de que se trate de un añadido del redactor de la inscripción77. En cualquier caso, las aspiraciones de Centuripe son claras: establecer un parentesco con Lanuvium e indirectamente también con Roma78. Desde una perspectiva más general, la componente siciliana en el pasado más lejano de Roma se identifica en la presencia de los sículos. Sin duda, este pueblo siciliano fue utilizado como vehículo de integración de Roma en el mundo griego a partir de la incorporación de Sicilia al dominio romano, proceso del cual las tradiciones anteriores no son sino un mero reflejo. La idea de un Lacio sículo debió estar muy enraizada en el siglo II. Así se aprecia, por ejemplo, en el oráculo de Dodona relativo a los pelasgos, que son enviados al Lacio, caracterizado como tierra de los sículos: pero como ha mostrado D. Briquel, se trata de un Lacio entendido desde el punto de vista romano79. Esta misma idea llegó a penetrar también en las tradiciones locales latinas, como lo muestra aquélla relativa a Tibur, desarrollada a partir del
73
Hémina fr. 2 P = fr. 2 Ch (= Sol. 2,10); fr. 3 P = fr. 3 Ch (= Serv. auct. Aen. VII 631). 2,10. No es improbable que Solino derive de Hémina, a quien menciona inmediatamente después a propósito de Aricia, teniendo además en cuenta la preocupación de este analista hacia la etimología y la eponimia: cf. M. Chassignet, Étiologie, étymologie et éponymie chez Cassius Hemina: mécanismes et fonction, “LEC” 66 (1998), pp. 321-335. 75 Fabio Pictor fr. 1 Ch. Sobre esta inscripción pueden verse los trabajos de G. Manganaro, Una biblioteca storica nel ginnasio di Tauromenion e il P.Oxyr. 1241, “PdP” 29 (1974), pp. 395 ss., y el incluido en A. Alföldi, Römische Frühgeschichte, Heidelberg 1976, pp. 87 ss. 76 G. Manganaro, Un Senatus consultum in greco dei Lanuvini e il rinnovo della cognatio con i Centuripini, “RAAN” 38 (1963), pp. 23-44. 77 Véase una discusión sobre el particular en Martínez-Pinna, La prehistoria..., pp. 90 s. 78 Cf. Giardina, L’Italia..., pp. 23 s. 79 Dion. I 19,3; Macr. Sat. I 7,28. Véase D. Briquel, Les Pélasges en Italie, pp. 355 ss. 74 Sol.
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nombre de un barrio de la ciudad80. La misma Roma no se vio al margen, de modo que los romanos llegaron a aceptar una componente sícula en su más remoto pasado, si bien transformando su significado originario: los sículos no llegan a Roma como colonizadores, sino que salen de allí para colonizar otras regiones. De esta forma lo representa Varrón, para quien los sículos eran los primeros habitantes del Lacio, expulsados por los aborígenes81, reconstrucción que inmediatamente será desarrollada por Dionisio, quien ve en los sículos a una población bárbara, autóctona del Lacio, a la que era necesario desalojar. También Verrio Flaco presenta un panorama similar, con los sículos víctimas de la expansión de los aborígenes, que les expulsan del lugar llamado Septimontium, donde más tarde surgirá Roma82. En definitiva, estos autores recogen el sentir de la historiografía oficial romana, traducida en la expresión de los anales pontificales donde se afirma que los sículos eran originarios de Roma83. Esta última se alza entonces como metrópoli, no como colonia, conforme a la posición de Roma como señora de Italia. Intentemos ahora obtener algunas conclusiones. Durante el proceso de conquista de Italia y la inmediata fase de normalización del dominio romano tras la sacudida de la guerra de Aníbal, se lleva a cabo una revisión de antiguas leyendas en función de las nuevas condiciones que se están creando. Tal proceso se desarrolla tanto desde el punto de vista itálico como del romano. Así, vemos cómo nuevas familias de la nobilitas, procedentes de diversas regiones peninsulares, aportan consigo su propio patrimonio histórico y legendario, que insertan en el ambiente romano que viven. Por otra parte, tampoco es infrecuente la aplicación del mecanismo de superposición de héroes, de forma que antiguos fundadores griegos son sustituidos por otros locales con el fin de establecer vínculos de parentela con Roma84. Pero también desde el lado romano se contribuye a reforzar nexos con Italia. La política expansionista romana se ve acompañada de una mitología que transfoma elementos locales proporcionándoles una perspectiva propia. Sirva a modo de ejemplo lo sucedido con Diomedes tras la instalación en Benevento de una
80 Véase
Briquel, La légende…, p. 66. F. Della Corte, L’idea della preistoria in Varrone, en Atti Congresso Internazionale Studi Varroniani, I, Rieti 1976, pp. 114 s. 82 Fest. 424 L. En esta versión los sículos están acompañados de los ligures, atraidos a Roma por los primeros (cf. D. Briquel, Denys, témoin de traditions disparues: l’identification des Aborigènes aux Ligures, “MEFRA” 101, 1989, p. 103). En el interpolador a Servio aparece un desarrollo de esta versión, con una serie de pueblos que sucesivamente habrían habitado en el solar de Roma: sículos, ligures, sacranos y aborígenes (Serv. auct. Aen. XI 371). 83 Varro ling. V 101: a Roma quod orti Siculi, ut Annales veteres nostri dicunt. 84 Cf. A. Mastrocinque, La fondazione di Adria, en Antichità delle Venezie, Este 1990, esp. pp. 55 ss. 81 Cf.
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colonia romana: allí se localiza entonces el encuentro entre Diomedes, presente en el lugar con anterioridad, y Eneas y la entrega a éste del Paladio85. O la actuación de C. Sempronio Tuditano en su campaña en Istria en el año 129, que se presenta bajo la apariencia de Antenor86. En esta misma línea cabe recordar cómo en el siglo II a.C., con Italia por completo sometida, se siente la necesidad de estudiar la protohistoria italiana87, destacando en este sentido la obra de Catón, cuyo eje ideológico, en palabras de C. Letta, no era otro que «l’esaltazione di Roma e dell’Italia», y en efecto, «i mores nazionali ... non erano solo strettamente romani, ma comuni a Roma e all’Italia»88. Como consecuencia lógica, las tradiciones que buscan establecer una synghéneia con Roma, o en cualquier caso una proximidad en los orígenes, se sitúan preferentemente en la época en que Italia está sometida al dominio romano, con anterioridad a la guerra social. Superada esta última, apenas se suscita ya una necesidad imperiosa de invocar unos orígenes comunes, puesto que toda Italia se encuentra bajo el amparo de la civitas romana, de forma que la integración se ha consumado perfectamente a través del derecho. El proceso culmina en la época de Augusto, en cuyas manifestaciones literarias se exalta la unidad de Italia reconociendo unos valores comunes89. Así se entiende que en la descripción del palacio de Pico, Virgilio menciona la presencia de las estatuas de los antepasados y entre ellas las de Italo y Sabino, ausentes sin embargo cuando unos versos antes relaciona a los ascendientes de Latino90. En opinión de V.J. Rosivach, «this series of kings and heroes emphasizes war and victory, and hegemony in Italy»91; pero según creo, más que la hegemonía este hecho parece simbolizar la unidad de Italia, lograda bajo la égida romana. Tampoco con anterioridad a la anexión de Italia se justifica con nitidez la existencia de tradiciones de este tipo en un contexto puramente itálico. No hay un interés manifiesto por vincularse a Roma, lo que no surgirá, una vez producida ya la incorporación política de los itálicos, hasta que se desvanezca toda posibilidad de recuperar la independencia. Casos extraordinarios
85 Véase G. Traina, Roma e l’Italia: tradizioni locali e letteratura antiquaria (II a.C. - II d.C.), “RAL” 4 (1994), pp. 592 s. 86 L. Braccesi, La leggenda di Antenore, Padova 1984, pp. 98 ss. En este sentido cabe reseñar la tragedia de Accio titulada Antenoridae, que como sugiere Gabba, Sulla valorizzazione..., p. 93, posiblemente haya que poner en relación con la expedición de Sempronio Tuditano. 87 Cf. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.1, Bari 1966, p. 86. 88 Letta, L’Italia…, pp. 24 y 416, respectivamente. 89 Véase M. Sordi et a., L’integrazione dell’Italia nello Stato romano attraverso la poesia e la cultura proto-augustea, en Contributi dell’Istituto di Storia Antica, 1 (1972), pp. 146-175. 90 Verg. Aen. VII 45 ss. (ascendientes de Latino); 170 ss. (regia de Pico). 91 V.J. Rosivach, Latinus’ Genealogy and the Palace of Picus, “CQ” 30 (1980), p. 150.
Italia y Roma desde una perspectiva legendaria
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pueden ser aquellos en los que la leyenda troyana representa un elemento común ya desde antiguo, y que por tanto se localizan en áreas no propiamente itálicas. El primero fue protagonizado por la helenizada ciudad élima de Segesta, cuyo origen troyano – como el del pueblo de los élimos en su conjunto – se eleva a la historiografía ática del siglo V a.C.92 En el año 263, Segesta solicitó la ayuda romana contra los cartagineses reclamando estas comunes raíces troyanas93. Pero se trata de un caso precoz, que precede a la profusa utilización del mito troyano en las relaciones entre Grecia y Roma en el siglo II a.C. Un segundo ejemplo de este mismo motivo se refiere a los vénetos, aunque las fuentes no son tan explícitas. Al igual que los latinos, los vénetos podían reclamar también para sí un origen troyano, en este caso a través de la figura de Antenor, cuya presencia en la región aparece ya documentada en autores griegos del siglo V a.C.94 En su estudio sobre la leyenda de Antenor, L. Braccesi llama la atención acerca de las diferentes alianzas y ayudas que los vénetos habría prestado a los romanos, señalando aquellas históricamente documentadas95 y otras por el contrario de carácter legendario96. Tan amistosas relaciones fueron interpretadas posteriormente en razón a la común parentela troyana existente entre romanos y vénetos, lo que permite concluir, en opinión de Braccesi, que la leyenda de Antenor se revitalizó en ambientes locales del Véneto, a finales del siglo III y comienzos del siguiente, en función de estas relaciones con Roma97. El análisis de Braccesi, muy fundamentado, resulta convincente, salvo quizá en la fecha de desarrollo de la leyenda troyana en el Véneto, que posiblemente conviniese rebajar algún decenio. En cualquier caso, parece cierto que los vénetos intentaron establecer una relación de synghéneia con los romanos invocando un origen común. El caso de los mamertinos resulta sin embargo difícil de comprender. En el año 264 los mamertinos solicitan la ayuda de Roma invocando un paren-
92 Thuc. VI 2,3; Helánico FGrHist 4,31 (= Dion. I 45,4-48,1). Sobre la cuestión, R. Sammartano, Origines gentium Siciliae, Roma 1998, pp. 54 ss., 233 ss. 93 Zon. VIII 9,12; asimismo Cic. II Verr. IV 72; Diod. XXIII 5; Plut. Nic. 1,3. Ciertas dudas al respecto en Perret, Les origines..., pp. 452 s.; A. Erskine, Troy..., pp. 178 ss. 94 Sófocles, en Strab. XIII 1,53,608 (Radt, IV, pp. 160 s.). Tal origen se convierte en un lugar común en la literatura posterior: Ps.-Scym. 387-390; Cato fr. 42 P = fr. II 12 Ch (= Plin. nat. III 130); Verg. Aen. I 242 ss.; Liv. I 1,1-3; Strab. I 3,21,61; III 2,13,150; V 1,4,212; XII 3,8,543-544; Iust. XX 1,8; OGR 1,5; Sol. 2,10; Schol. Verg. Aen. I 242. Antenor era asimismo considerado como el fundador de Padua: Verg. Aen. I 247 s.; Tac. ann. XVI 21; Mela II 60; OGR 1,5. 95 Por ejemplo, Pol. II 23,2: en el año 225, en el último enfrentamiento entre galos y romanos. 96 Pol. II 18,3: a propósito de la invasión de Roma por los celtas de Brenno; Sil. VIII 602 ss.: en la guerra de Aníbal, con referencia a Antenor. 97 Braccesi, La leggenda…, pp. 80 ss.
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tesco común98. Se desconoce el fundamento de tal vínculo, que quizá haya que relacionarlo con Campania o quizá con la idea de una Italia ya sometida al dominio romano. En cualquier caso, los mamertinos llevaban mucho tiempo en contacto directo con los griegos, como lo denuncia la “helenización” de su origen a través de un ver sacrum, ordenado por Apolo en vez de Marte99, por lo cual no eran ajenos a conceptos como la synghéneia. Así pues, vemos cómo en la mayoría de las expresiones legendarias que vinculan a Roma con algunos ambientes itálicos, el elemento troyano ocupa un lugar destacado. Según palabras de M. Sordi, «il mito troiano fu … un grande mito di impero»100, y en efecto así parece. La leyenda troyana no sólo fue útil a Roma en sus relaciones con el mundo griego, y a la inversa. También se ofrece como el canal más adecuado para que determinados pueblos de Italia, especialmente aquellos con un mayor nivel de helenización, intenten por su parte una aproximación a Roma. Se trata de un gran mito de synghéneia, y así era reconocido igualmente en Italia, de forma que una vez que Roma alcanza una hegemonía indiscutible y para los itálicos no existe otra solución que su inclusión en la civitas romana, el mito troyano se alza como una vía propicia para la integración ideológica, paso previo a la posterior integración política. Pero esto no es sino el comienzo de un larguísimo desarrollo que sobrepasa los límites geográficos de Italia e incluso los temporales de la propia historia de Roma. Y en este punto podemos volver al inicio de la exposición, pues cuando el emperador Claudio defendía ante el Senado su propuesta a favor de los nobles galos, podía haber recurrido al argumento de la consanguinitas. Una tradición que al menos se eleva al siglo I a.C., ya que fue utilizada por César en los comienzos de su expedición de conquista a las Galias, atribuía a los eduos un origen troyano101. Todavía en época medieval la invocación a unos orígenes troyanos gozó de un amplio eco en Europa, con múltiples desarrollos relativos a muy diversas naciones102. La idea de la continuidad con el mundo antiguo, y muy especialmente con el Imperio romano, encuentra pues en la leyenda troyana un instrumento de probada eficacia. 98 Pol.
I 10,2; Zon. VIII 8,4. Fest. 150 L. Pueden consultarse, J. Heurgon, Trois études sur le “Ver sacrum”, Bruxelles 1957, pp. 20 ss.; Dench, From the Barbarians..., pp. 55 s. 100 Sordi, Il mito troiano…, p. 17. 101 Caes. Gall. I 33,2; también se refieren a la misma Cic. Att. I 19,2; fam. VII 10,3; Diod. V 25,1; Strab. IV 3,2,192); Tac. ann. XI 25; Plut. Caes. 26,5. Según Lucano (I 427 ss.), igualmente los arvernos proclamaban tener la misma estirpe. Sobre el particular, O. Hirschfeld, Die Haeduer und Arverner unter römischer Herrschaft, en Kleine Schriften, Berlin 1913, pp. 186-208; H. Hommel, Die trojanische Herkunft der Franken, “RhM” 99 (1956), pp. 323-341. 102 Véanse B. Luiselli, Il mito dell’origine troiana dei Galli, dei Franchi e degli Scandinavi, “RomBarb” 3 (1978), pp. 89-121; J. Poucet, L’origine troyenne des peuples d’Occident au Moyen Âge et à la Renaissance, “LEC” 72 (2004), pp. 75-107. 99
Foedus, ius Latii und civitas im römischen Italien Hartmut Galsterer
Die Fondazione Canussio, deren Vorsitzender Carla Canussio ich für die ehrenvolle Einladung hierher sehr dankbar bin, schlug mir vor, einen Vortrag aus dem Umfeld von „Foedus, ius Latii, civitas nell’Italia Romana“ zu halten. Mit Rücksicht auf den Obertitel der Tagung, nämlich der Frage nach den verschiedenen Ethnien unter dem gemeinsamen Dach des römischen Staates werde ich zunächst die rechtlichen Bindungen der Italiker an Rom, also Bürgerrecht usw. behandeln, dann die unterschiedlichen Organisationsformen wie Municipien und Kolonien, und schließlich die fast noch wichtigeren zwischenmenschlichen Beziehungen zwischen den Regierenden in Rom und Italien, d.h. zwischen den Senatoren und den lokalen Aristokratien. Die zu untersuchende Thematik behandelt also die politischen und sozialen Aspekte dessen, was man gemeinhin als Romanisation behandelt. Ich komme hierauf am Ende meines Vortrages nochmals zurück. Auf lokale Unterschiede näher einzugehen ist leider im Rahmen meines Vortrags nicht möglich. Unter „Rom“ ist im Prinzip Rom und sein Territorium zu verstehen, doch wird die Identifikation undeutlich durch die zunehmende Eigenstaatlichkeit der Munizipien, auf die unten einzugehen sein wird. Der behandelte Zeitraum endet, mit Ausnahme einiger Ausblicke in die Kaiserzeit, mit dem augusteischen Prinzipat. Bevor ich mich jedoch dem eigentlichen Thema zuwende, sollte ich vielleicht in bester deutscher Tradition, aber dennoch sehr kurz auf die Quellen eingehen. Wie Sie alle wissen, ist Livius nur für die Zeit bis 293 und dann wieder von 218 bis 167 erhalten. Gerade die Zeit, in der sich die römischitalischen Verhältnisse grundlegend änderten, fehlt also. Darüber hinaus mangelt es Livius – wie allen antiken Historikern – nicht nur an dem Interesse für Strukturen und deren Geschichte, sondern auch am Bewusstsein, dass Begriffe, wie etwa Municipium, in der frühen Republik möglicherweise eine ganz andere Bedeutung hatten als in der augusteischen Zeit. Eine Korrekturmöglichkeit durch Inschriften ist nur in Ausnahmefällen möglich, da Inschriften überhaupt, und solche mit Informationen über staatliche Organisationsformen im besonderen, erst ab dem 2. Jh. v.Chr. etwas häufiger
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werden. Ausgrabungen schließlich zeigen zwar das, was man als materielle Romanisation bezeichnet hat, den Gebrauch von Garum durch entsprechende Amphoren oder die Schriftkultur durch Graffiti und Dipinti – die dahinterstehenden Konzepte bleiben uns verborgen.
1. Die Bindung an Rom Die traditionelle Ordnung Roms unterteilte die Bewohner zuerst Italiens, dann des Reiches in drei verschiedene Gattungen: An der Spitze der Pyramide standen die römischen Bürger, die cives Romani; unter ihnen, wenngleich mit ihnen rechtlich und historisch verwandt, kamen die Latiner, zunächst die kleinste Gruppe. Alle anderen Italiker und Reichsangehörigen waren Fremde, peregrini. Unter Augustus dürfte die Zahl der römischen Bürger um 5 bis 6 Millionen betragen haben, wovon maximal eine Million außerhalb Italiens lebte – bei einer geschätzten Zahl für die Reichsbevölkerung insgesamt von 50-60 Millionen also um 10%. Die Zahl der Latiner nahm, wie noch zu zeigen sein wird, ab der späten Republik dramatisch zu, hauptsächlich durch en bloc – Verleihungen, wenig, wenn überhaupt, an Einzelne. Das Bürgerrecht hingegen wurde sehr häufig an Einzelne vergeben, meist als individuelle Anerkennung ihrer Verdienste um Rom, woraus dann in der Kaiserzeit die Prämie für Hilfstruppensoldaten wurde, die mindestens 25 Jahre ohne Tadel in ihrer Ala oder Kohorte gedient hatten. Die Verleihung an Kollektive war auf Städte beschränkt, ganze Provinzen bekamen das Bürgerrecht anscheinend nie, obwohl die Vorbilder solcher Verleihungen, die leges Iulia, Pompeia u.a. im Bundesgenossenkrieg gerade das geregelt hatten. Für die meisten Angehörigen des Reiches war die Art ihres Bürgerrechtes verknüpft mit ihrer Gemeindezugehörigkeit, wobei es eine Art von Kompatibilität von oben nach unten gab: In einer römischen Stadt konnten nur cives Romani Stadtbürger sein, in einer latinischen Römer und Latiner und in einer Gemeinde peregrinen Rechts neben den eigenen Bürgern auch Latiner und Römer. Dies war die Folge einer der bemerkenswertesten rechtlichen Neuerungen in der ausgehenden Republik, von der wir, und das ist typisch für die Überlieferung, weder den Urheber noch den Zeitpunkt kennen: Es handelt sich W. Scheidel, Human Mobility in Ancient Italy I: The Free Population, “JRS” 94 (2004), 1-26; II: The Slave Population, “JRS” 95 (2005), 64-79; auf das Doppelte, nämlich 10 bis 12 Millionen unter Augustus, kommt E. Lo Cascio, The Population of Roman Italy in Town and Country, in J. Bintliff - K. Sbonias (edd.), Reconstructing Past Population Trends in Mediterranean Europe (3000 BC - AD 1800), 1999, 1963.
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um die Vereinbarkeit des römischen Bürgerrechts mit anderen, d.h. Roms Öffnung für Angehörige anderer Gemeinden, die nicht die Absicht hatten, nach Rom überzusiedeln. Man muss betonen: „die nicht die Absicht hatten, nach Rom überzusiedeln“. Für Einwanderer nämlich, vor allem wenn sie aus der Aristokratie ihrer Heimat kamen, war Rom immer offen; ich brauche nur auf Tarquinius Priscus hinzuweisen, Enkel eines korinthischen Exulanten und Sohn eines etruskischen Adligen aus Tarquinii, der dann der 5. König Roms wurde. Ein anderes bekanntes Beispiel ist Atta Clausus, der mit angeblich 5000 Angehörigen seines Clans aus der Sabina nach Rom übersiedelte und dort der Vorfahr der adelsstolzen Familie der Claudier wurde. Neben solchen einzelnen Zuwanderern, die die Bevölkerungszahl Roms vermehrten, gab es auch die „Zuwanderung“, oder besser Eingemeindung ganzer Völker. Von den Sabinern am Quirinal im 7. Jh. über die Bewohner Veiis 396 bis zu einer Reihe alter latinischer Städte 338 wurden die Überlebenden der Eroberungskriege von Rom geschluckt und in die civitas Romana aufgenommen. Sie verloren ihre eigene Verwaltung und Rechtsordnung und wurden Römer unter Römern. Dies klingt für heutige Ohren misstrauenerregend großzügig von den römischen Siegern, statt eines generellen Massakers oder der Versklavung der Bevölkerung „Milde“ walten zu lassen. Auch ist ja in den Quellen für die römische Frühzeit oft genug die Rede davon, dass diese oder jene Stadt „zerstört“ oder „vernichtet“ wurde (deleta, excisa). Häufig ist auch die Rede von nomen (Aequorum, Volscorum etc.) deletum. Man sollte nomen hier ganz wörtlich nehmen: „der Name wurde ausgelöscht“. Mehr und Genaueres wusste wohl auch Livius von solchen Zerstörungen nicht als dass die betreffende Stadt von der politischen Landkarte verschwunden war und nicht mehr als Gegner in Kriegen und als Lieferant für Triumphe auftauchte. Nomen ist der politisch-religiöse Zusammenschluß der Mitglieder eines Stammes: Das nomen Latinum umfasste in seiner letzten Form dreissig Mitglieder. Helfen kann hier zur Aufklärung, was bei solchen „Vernichtungen“ passiert sein kann, die Archäologie. Ich möchte Sie aus Italien kurz in meine rheinische Heimat entführen und Ihnen den Fall der Eburonen in Erinnerung rufen. Sie erinnern sich an das fünfte Buch des Bellum Gallicum: Der
Die
Zahl 5000 für die Claudier sollte man natürlich schnell vergessen. H. Galsterer, Herrschaft und Verwaltung im republikanischen Italien. Die Beziehungen Roms zu den italischen Gemeinden vom Latinerfrieden 338 v.Chr. bis zum Bundesgenossenkrieg 91 v.Chr., München 1976, 84 ff. und jetzt: Rom und Italien vom Bundesgenossenkrieg bis zu Augustus, in M. Jehne - R. Pfeilschifter, Herrschaft ohne Integration? Rom und Italien in republikanischer Zeit, Frankfurt/M. 2006, 293-310.
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Eburonenfürst Ambiorix hatte sich mit Germanen von jenseits des Rheins verbündet und 15 Kohorten Caesars, die im Gebiet seines Stammes überwintern sollten, vernichtet. Als Rache hierfür rief Caesar einen Vernichtungsfeldzug gegen die Eburonen aus, der mit deren Untergang endete. Man sollte also in deren Gebiet zwischen Rhein, Maas und Eifel Zerstörungsspuren in Masse erwarten. Hiervon kann jedoch keine Rede sein. Die Eburonen verschwinden zwar aus der historischen Überlieferung, d.h. weder literarisch noch epigraphisch sind später Eburonen belegt; an ihrer Stelle tauchen an den Randgebieten des früheren Eburonengebiets aber neue Stämme auf, wie die Sopeni, Sunuci und Tungri, die die archäologische Kultur der Eburonen weiterführen. Es handelt sich hier anscheinend um Teilstämme der Eburonen, die nun als selbständige Einheiten agieren, nachdem der zentrale Nucleus des Stammes mit der Herrscherfamilie, an dem der Eburonenname hing, verschwunden war. Einige Generationen später verschwinden auch die Sopeni und Sunuci und werden in den neuen Großstamm der Ubier integriert, den Agrippa zur Besiedlung der deserta Eburonum, wie man sie nennen könnte, von der anderen Rheinseite geholt hatte. Die Ubier wiederum existierten noch etwa 50 Jahre neben der neuen Colonia Claudia Ara Agrippinensium weiter, die Claudius in ihrer Mitte gegründet hatte, bis auch der letzte von ihnen Koloniebürger geworden war. Damit war auch das nomen Ubiorum untergegangen, es gab nur noch Agrippinenses. Das Verschwinden von Stammes- oder Stadtnamen, des nomen, muss also nicht in jedem Fall bedeuten, dass seine Träger physisch verschwunden waren. Wir sehen das auch hier in Italien, wo die Senonen und die Boier von den Römern bekanntlich „ausgerottet“ wurden und ihr Land als ager Gallicus an den römischen Staat fiel, der dort Kolonisten ansiedelte. Die Archäologie zeigte in den letzten Jahren jedoch mehr und mehr, dass diese „Vertreibung“ der Gallier höchstens das Kernland beider Stämme in der fruchtbaren Küstenebene betraf. Im weniger ertragreichen Vorappenin hingegen finden sich weiterhin eine ganze Reihe von gallischen Nekropolen, die bis ans Ende des 3. Jhs. v.Chr. reichen. Selbst in der Vorgängersiedlung der Zu dem Weiterleben der Kultur der Eburonen vgl. jetzt G. Creemers - A. Vanderhoeven, Vom Land zur Stadt. Die Entstehung des römischen Tongern, in G. Uelsberg (ed.), Krieg und Frieden. Kelten - Römer - Germanen, Bonn 2007, 263 f. W. Eck, Köln in römischer Zeit. Geschichte einer Stadt im Rahmen des Imperium Romanum, Köln 2004, 152 ff. H. Galsterer, Coloni, Galli ed autoctoni. Le vicende della colonia di Rimini ai suoi albori, in Rimini e l’Adriatico nell’età delle guerre puniche, Atti Convegno Rimini 2004, Bologna 2006, 11-18. Von gallischen Städten, in die die Römer zur Zeit der Samnitenkriege Gesandte schickten, spricht Appian Kelt. 11 und Samn. 6. Man darf dies wohl aber nicht als einen Beleg für eine durchgreifende Urbanisierung im Gebiet der südlichen Gallier ansehen.
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Kolonie Ariminum gab es anscheinend eine große Zahl von Galliern. Da es die Stämme der Boier und Senonen nicht mehr gab, wurden ihre verbliebenen, nunmehr ‚staatenlosen’ Angehörigen, die auf römischem ager publicus saßen, nach einiger Zeit vermutlich als römische Bürger registriert. Diese „Großzügigkeit“, wenn man sie so nennen will, war natürlich nicht Altruismus und noch weniger die Anerkennung von irgendwelchen Menschenrechten. Sie zeigt viel eher die profunde Gleichgültigkeit der römischen Okkupanten gegenüber politisch belanglosen Außenseitern, die zudem nützliche Rekruten für die Legionen stellen konnten.
2. Die Organisationsform Die römische Überlieferung geht davon aus, dass Rom von Romulus als Stadt gegründet wurde, eine Mauer erhielt und damit sozusagen wie ein junger Vogel flügge war. Solche Gründungen gab es natürlich in Italien, vor allem sind hier die griechischen Kolonien im Süden des Landes zu nennen. Sehr viel häufiger sind jedoch Aggregationen benachbarter Dörfer gewesen, die sich freiwillig oder unter Zwang, meist an einem gut zu verteidigenden Platz, zusammenschlossen. Der griechische Ausdruck hierfür ist Synoikismos, wie ihn z.B. in Athen Theseus durchgeführt haben soll, als heros ktistes dieser Stadt wie Romulus der von Rom. Dessen Roma quadrata auf dem Palatin wurde durch weitere ‚Anschlüsse’ zum Septimontium. Die Latiner westlich der Forumssenke lernten sich mit den Sabinern östlich dieses Sumpfes zusammenzutun und um 600 oder kurz danach war eine Stadt entstanden, deren Mauern sogar einem Griechen Respekt einflößen konnten. Und Rom war kein Einzelfall: auch das etruskische Veii entstand (wie viele andere Städte) aus einem solchen Synoikismos. Neben der militärischen Gewalt spielte häufig wohl auch die Bedrohung durch dritte Mächte eine Rolle, dass man lieber bei „Verwandten“ Unterschlupf suchte als bei „Fremden“. Dies half Rom bei der Errichtung seiner Herrschaft über die Latiner während der Kämpfe gegen die Volsker, Aequer und Sabiner. Daß Spannungen auch nach einer solchen Vereinigung blieben, versteht sich von selbst. Der Synoikismos fand seine natürliche Grenze in der Länge des Weges, den die in der Stadt wohnenden Bauern bis zu ihren Äckern zurückzulegen hatten. War dies zuviel der Mühe, blieb man draußen wohnen, in Einzelhöfen (villae) oder in den Dörfern, die ursprünglich teilweise einmal selbständig gewesen waren. Zumindest in Rom gab es keine Rechtsungleichheit zwischen den Bürgern, die in der Stadt, und denen, die außerhalb der Mauern wohnten. Dies hing mit der archaischen sozialen Ordnung zusammen, die den einfachen Bürgern nur wenige politische Rechte zubilligte. Sowohl im privaten Recht wie in der politischen Sphäre waren es die patres familias, die
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Chefs der einzelnen Clans, die über die Familienangehörigen wie über das Familienvermögen entschieden, und aus ihrer Perspektive machte es häufig wohl wenig Unterschied, ob es sich bei ihren Untergebenen um Familienangehörige oder Clienten, um Freie oder Sklaven handelte. Dies änderte sich natürlich schnell, spätestens während der Ständekämpfe, aber das soziale Muster, das die Einbürgerung unterworfener Nachbarvölker erleichterte, da sie die bestehende politische Ordnung nicht zu stören drohte, blieb bestehen. Dies war ein fundamentaler Unterschied zu den klassischen griechischen Poleis, deren den Staat tragende Bürgerschaft sich eifersüchtig nach außen abschloß. Einsichtige griechische Politiker wie König Philipp V. von Makedonien erkannten sehr wohl, dass diese Bürgerrechtsverleihungen eine Kraftquelle für die neue Macht im Westen war wie sie kein griechischer Staat zur Verfügung hatte, aber gerade die demokratischen Strukturen der griechischen Poleis schlossen eine Nachahmung der römischen Bürgerrechtspolitik wohl aus. Das eingemeindete Gebiet, von dem bisher die Rede war, wurde Teil des römischen Territoriums, des ager Romanus. Rom schuf keine eigenständige Verwaltung für dieses Land: Mit Ausnahme einiger Präfekten, die von dem Prätor urbanus in Rom in solche Gebiete – keineswegs in alle – geschickt wurden und die sich dort vorwiegend um Rechtsprechung zu kümmern hatten, fanden Verwaltung und Politik ausschließlich in Rom statt, ein Zustand, der nur durch die sehr geringe Teilnahme des römischen Volkes an der Politik seines Staates möglich war und der sich dann im 2. Jh. schnell änderte. Es gab freilich auch einige Städte in der Umgebung Roms wie z.B. Tusculum, die entweder freiwillig oder aus einer Position relativer Stärke in den populus Romanus eingetreten waren und sich so – mit Ausnahme von Außenpolitik und Militärwesen – ihren eigenen Staat bewahren konnten, ebenso die eigene – mit der römischen allerdings nahezu identische – Rechtsordnung. Tusculaner waren also Bürger zweier Staaten, was dem entwickelten juristischen Denken späterer Zeit als eine contradictio in adiecto vorkommen mochte, Jahrhunderte lang aber anscheinend kein besonderes Aufsehen erregte10.
Syll. III 543. Ein oft zitiertes Beispiel für die mangelnde Bereitschaft der griechischen Demokratien, ihr Bürgerrecht mit den Bewohnern unterworfener Städte zu teilen, ist der zu späte Versuch Athens, Samos durch das Zugeständnis gleicher Rechte auf seiner Seite zu halten. In der frühen und hohen Republik stimmte das Volk, durch die Jahrhunderte gerechnet, über ein Gesetz pro Jahr ab; außerdem trat es einige Male zu den Wahlen zusammen. 10 Vgl. die Diskussion in Cicero pro Balbo.
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Noch seltsamer war eine Institution wie die von Mommsen so genannten Halbbürger, die municipes sine suffragio. Es handelte sich um Gemeinden mit fremder Sprache und fremder Kultur, etruskisch wie Caere oder oskisch wie Capua. Sie, vor allem Capua, waren zu reich und zu groß, als dass Rom sie als Verbündete behandeln, ihnen also die Eigenstaatlichkeit und vor allem eine eigene Militärhoheit hätte zugestehen können, doch waren sie zu fremd, als dass man sie wie Tusculum in die römischen Institutionen hätte integrieren können. Wenn deren Bürger aber, und das betraf in erster Linie die campanischen und etruskischen Aristokraten, ihren Wohnsitz nach Rom verlegten, um als Römer unter Römern zu leben, erwarben sie die vollen politischen Rechte eines römischen Bürgers. Ein römisches Italien, in dem die nichtlatinischen Verbündeten Roms nach innen autonom in Sprache, Kultur und Verwaltung lebten, während Außen- und Militärpolitik von Rom bestimmt wurden, ist eine interessante Vorstellung, die, wäre sie verwirklicht worden, den Lauf der römischen Geschichte und der Romanisation Italiens sicher anders gestaltet hätte. Leider bewährte sich das Modell nicht: vor allem der Abfall Capuas zu Hannibal im 2. Punischen Krieg führte dazu, dass dieses als Stadt ausgelöscht wurde und die kleineren Städte dieses Typs sich umso schneller an Rom assimilierten. Aus der Bezeichnung municipia für Städte des Typs Capua und dem Rechtsstatus der Bürgergemeinden vom Typ Tusculum entstand, ohne dass wir wüssten wann und wie, im 2. Jh. das Bürgermunicipium, das dann ab Caesar und vor allem Augustus die „Normalstadt“ römischer Bürger im Westen des Reiches war, mit eigener Verwaltung und durchaus stolz auf die eigene Geschichte (man denke an die Elogien von Tarquinii), aber ohne jeden Ehrgeiz in Bezug auf Autonomie. Der andere Typ von Bürgerstadt war die Kolonie, ursprünglich eine Garnison von 300 Bürgern mit ihren Familien in einer frisch eroberten Stadt, die diesen Ort, häufig einen Hafen, für Rom sichern sollten. Die zu Beginn wohl einigermaßen rechtlose Vorbevölkerung wurde, nach den Fällen, die wir besser kennen (vor allem Antium), nach etwa einer Generation den Römern gleichgestellt; bis dahin hatte sich auch Latein als Umgangssprache durchgesetzt. Die ursprünglich kanonische Zahl von 300 Kolonisten, die vielleicht etwas mit den drei vorservianischen Tribus zu tun hatte, stieg im 2. Jh. bis auf zweitausend an wie in Mutina11. Auch hier ist dies auf den Einfluß einer verwandten Stadtform zurückzuführen, nämlich der sog. latinischen Kolonien. Diese waren ursprünglich Gründungen des Latinerbundes. Als das nomen Latinum nach 338 zu einem
11 Liv.
XXXIX 55,7.
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quasi nur noch ad sacra existierenden Anhängsel Roms geworden war, gründeten die Römer in dessen Namen weiterhin solche Kolonien und zwar aus rein praktischen Gründen, wozu vor allem die sofortige Verfügbarkeit der kolonialen alae und cohortes bei feindlichen Einfällen zählte. Rimini und Bologna, Cremona und Piacenza und natürlich Aquileia waren solche Kolonien. Die schnelle Mobilmachung in ihnen war nur möglich, wenn man nicht die umständliche Aufstellung der Legionen und den Zuzug der bundesgenössischen Hilfstruppen in Rom abwartete – deshalb konnten diese Kolonisten auch keine römischen Bürger sein, da sie sonst in den Legionen gekämpft hätten. Bürger verloren bei der Einschreibung in die Liste der Kolonisten ihr Bürgerrecht und wurden Latiner, was ab dem 2. Jh. zu erheblichen Problemen führte und wachsendem Widerstand, für eine Landanweisung fernab von Rom auf das Bürgerrecht zu verzichten12. Seit den Gracchen versuchten deshalb populare Politiker immer wieder, das latinische Recht durch eine Anreicherung mit Elementen des Bürgerrechtes, z.B. das Appellationsrecht, besser zu „verkaufen“. Diese Angleichung wird vollends deutlich nach dem Bundesgenossenkrieg. Die alten latinischen Städte (das sog. Latium vetus) und die latinischen Kolonien in Italien erhielten durch Pompeius Strabo 90 das Bürgerrecht. Die Städte in Venetien und Gallien jenseits des Po wurden zu latinischen Kolonien neuen Typs ohne jegliche Deduktion. Üblich war jetzt auch eine kollektive Verleihung dieses Rechts: von den Städten der Gallia Transpadana bis zu denen der universa Hispania unter Vespasian. Die erhaltenen Stadtrechte solcher Städte zeigen, dass es keinen substantiellen Unterschied zu der Verwaltung der römischen Gemeinden gab, und die regelmäßige Verleihung der civitas an die Magistrate nach ihrem Amtsjahr belegt, dass das latinische Recht zu einem kleinen Bürgerrecht geworden war13. Es ist nur logisch, dass man dieses Recht nun auch Einzelnen verlieh, die z.B. wegen einer fehlerhaften Freilassung nicht das volle Bürgerrecht erhalten sollten (die sog. Latini Iuniani). Zwischen den alten kleinen Bürgerkolonien und den alten festungsartigen latinischen Kolonien fand am Anfang des 2. Jhs. ein Ausgleich statt, der wohl mit den Erfahrungen des Hannibalkrieges zu tun hatte. Das Ergebnis waren die großen Bürgerkolonien, die seit Caesar und vor allem in der Kaiserzeit an den Grenzen des Reiches Wacht hielten, von York über Köln bis Belgrad und weiter. Ihre Kolonisten sind nun meistenteils Veteranen, verabschiedete Legionssoldaten, die auf dem Territorium der neuen Kolonien ihre 12
Galsterer, Rimini (o.Anm.6) 14 f. B. Galsterer, Latinisches Recht und Municipalisierung in Gallien und Germanien, in E. Estibaliz de Ortiz - J. Santos (edd.), Teoria y practica del ordenamiento municipal en Hispania, Vitoria 1996, 117129; H. Galsterer, Diritto latino e municipalizzazione nella Betica, a.O. 211-221. 13
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Abfindung in Land erhielten. Fast immer waren auch Einheimische unter den Koloniebürgern, zumindest Vertreter der lokalen Oberschicht. Als Stützen der Romanitas haben diese Städte zu einem bemerkenswert großen Teil den Untergang des Reiches überlebt. Die dritte und letzte Gruppe von staatlichen Organisationsformen in Italien und dann im römischen Reich sind die einfachen civitates, freie, verbündete oder einfach nur untertänige Städte, auf deren inneren Aufbau Rom im Prinzip keinen Einfluss nahm. Zu ihnen gehörten in der Republik Kolonien der Griechen in Süditalien und Städte der Etrusker, später solche von Briten oder von Afrikanern, ebenso wie Athen und Alexandria. Aber schon die letzten Beispiele zeigen, dass das Verhalten Roms sehr von dem „Standing“ der einzelnen Städte abhing: Athen wurde wegen seiner Geschichte und seiner Bedeutung für die allgemeine Kultur meist eher rücksichtsvoll behandelt, während Alexandria aus Furcht vor dem „Pöbel der Großstadt“ und einem weiteren Aufflammen der nationalen Konflikte zwischen Ägyptern, Juden und Griechen mit erheblichem Misstrauen überwacht wurde. Nicht umsonst lagen dort, weit von jedem äußeren Feind entfernt, zwei Legionen vor den Toren in Garnison.
3. Soziale Beziehungen Ich sprach bisher von den rechtlichen Unterschieden zwischen Bürgern, Latinern und Fremden sowie den Gemeinden, in denen sie lebten. Dies waren wichtige Unterscheidungen. Noch bedeutender aber waren die Beziehungen zwischen ihnen, die nach heutigem Verständnis eher in die Ebene der zwischenmenschlichen Verhältnisse gehören, wie Patronat, Klientel und amicitia, die aber natürlich in der Politik eine ebenso große, wenn nicht größere Rolle spielten als heute. Ebensowenig wie es eine römische Verfassung gab, existierte eine solche für den sog. Italischen Bund, d.h. Rom und seine Bundesgenossen. Die römischen Bürger außerhalb der urbs, d.h. des pomerium unterstanden dem Imperium der höheren Magistrate in dessen kaum beschränkter Gestalt. Zur Wehr konnte man sich hiergegen nur setzen, wenn man sich nach Rom begab. Für den Umgang mit den latinischen Städten galt weiterhin das foedus Cassianum von 493, das allerdings in erster Linie ein Verteidigungsbündnis war und nur gelegentlich auf das ‚internationale Privatrecht’, wie wir es heute nennen würden, einging. Mit den Verbündeten galten die Bestimmungen des foedus, das sie freiwillig oder häufig unfreiwillig mit Rom geschlossen hatten, doch betraf auch dies vor allem, wenn nicht ausschließlich, Außenpolitik und Militärhilfe. Institutionalisierte Beziehungen auf Regierungsebene zwischen Rom und
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z.B. Aquileia oder Neapel gab es also ebenso wenig wie römische Statthalter oder diplomatische Vertretungen; der normale Dienstweg war ein Brief des Senats an Beamte und Volk einer Stadt bzw. eine Gesandschat der Stadt an den Senat in Rom. In dieses Vakuum trat auf römischer Seite der patronus der jeweiligen Stadt ein, meist ein Senator, der selbst oder einer seiner Vorfahren – der Patronat war erblich – der Stadt einmal geholfen hatte. Dafür begab sie sich unter seinen Schutz, als Klienten, die ihm – wie Freigelassene ihrem früheren Herrn – zu Dankbarkeit und obsequium verpflichtet waren. Manche Aristokraten in solchen Gemeinden waren dort, auch ohne römische Bürger zu sein, Statthalter Roms, wie z.B. die Cilnii in Arezzo, deren jahrhundertlange Bindung an Rom sie häufig in Konflikte mit ihren Mitbürgern brachte14. Vor allem in Städten mit starken sozialen Spannungen, wie in Etrurien, wo die lokalen Adligen auf Unterstützung und notfalls Schutz durch Rom angewiesen waren, stellte dies eine ebenso effiziente wie ökonomische Stütze der römischen Herrschaft dar15. Der Patronat umfasste auch das hospitium, die Gastfreundschaft gegenüber der anderen Partei. Eine Gesandschaft von Aquileia an den Senat wohnte also in Rom im Haus des Patrons und wurde von ihm in den Senat begleitet. Der Patron versuchte auch, für seine Schützlinge eine – modern gesprochen – parlamentarische Mehrheit für ihr Anliegen zu gewinnen. Umgekehrt war dem Patron ein begeisterter Empfang in „seiner“ Stadt, Unterstützung, z.B. mit Geld und anderen Leistungen, bei seinen Unternehmungen sowie erhöhtes Ansehen in Rom sicher. Diese Beziehung zwischen Patron und Klienten war im Prinzip eine rein private, die auch durch keinerlei Gesetz geregelt war; durch das Fehlen anderer Institutionen wurde sie aber zu dem Transmissionsriemen, der die Wünsche Roms und die der Bundesgenossen in Einklang bringen konnte; konnte, denn wenn der Patron auf die Idee kam, seine „verbündeten“ Klienten wie seine ebenso genannten freigelassenen Klienten (liberti) zu behandeln, wurden Verbündete zu Untertanen. Dies war eines der Probleme, die im 2. Jh. das überkommene System in Italien mehr und mehr in Frage stellten. Das Verhältnis von römischem Patron und italischer Stadt betraf natürlich auch die Stadt als Ganzes, viel mehr aber noch ihre regierende Oberschicht. Die Normalform des städtischen Regiments war eine Oligarchie, d.h. eine durch Besitz definierte Oberschicht, die, da Besitz überall erblich war, in sich relativ konstant blieb und nach einigen Generationen zu einer Aristokratie wurde. Demokratien wurden von Rom mit großem Misstrauen betrachtet und bei passender Gelegenheit beseitigt. 14 Liv. 15
X 3,2; X 5,13. W.V. Harris, Rome in Etruria and Umbria, Oxford 1971, 114-144.
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Es waren also Mitglieder meist derselben Familien, mit denen Rom bzw. die Patrone zu tun hatten, und es lag nahe, dass diese Familien den Patron der Stadt sich auch zu ihrem persönlichen Patron wählten. Er konnte dann helfend eingreifen, wenn Mitglieder des lokalen Adels in Rom eine Karriere beginnen oder schlicht dort als Gentlemen unter Gentlemen leben wollten. Unsere Quellen sind erst ab dem letzten Jh. der Republik so gut, dass man ein einigermaßen überzeugendes Gesamtbild der Einwanderung nach Rom erhält, aber verstreute Zeugnisse auch aus der früheren Zeit belegen, dass der Zuzug von auswärtigen Adligen seit dem Beginn Roms anhielt und diese sich dann durch Einheirat in römische Senatorenfamilien zu etablieren versuchten16. Aeneas, der Gründer von Roms „Großmutter“ Lavinium, war nur der erste in einer langen Reihe solcher Einwanderer, von Tarquinius Priscus war bereits oben die Rede. Daß diese zu Römern gewordenen Italiker sich romanisierten, versteht sich von selbst, aber in dem Maße, wie Rom immer bedeutender wurde, wollten, ja mussten auch die domi nobiles in den Städten Italiens sich gegenüber der römischen Sprache und römischen Sitten öffnen. Die Kenntnis der römischen Sprache setzte sich immer weiter durch. Eine hauptsächliche Ursache waren die vielen Kriege des 3. und 2. Jh.s, in denen die Kontingente der Bundesgenossen neben den römischen Legionen kämpften. Die Befehlssprache, zumindest bei den alliierten Offizieren, war Latein, und dies werden nach Dienstschluss auch die einfachen Soldaten in den Schenken der Lager kennen gelernt haben. Daneben waren im 2. Jh. viele Italiker als Geschäftsleute, Händler oder Bankiers im griechischen Osten tätig, wie wir sie ein Jh. später aus den Inschriften von Delos und in Ciceros Briefen kennen lernen. Zumindest in der Sicht der Griechen gab es hier keinen Unterschied zwischen Römern und Bundesgenossen, die abwechselnd als Italici oder, nach dem römischen Nationalgewand, als togati, bezeichnet werden. Ob das Tragen der Toga nun Recht oder Pflicht oder nur Sitte war, erfahren wir in unseren Quellen, die auf Krieg und Politik fixiert sind, leider nicht. Ein anderes Beispiel, nun aus unmittelbarer Nähe unseres Tagungsortes, bleibt ebenso verschieden interpretierbar: In dem römischen Heer, das im Bundesgenossenkrieg Asculum belagerte, befanden sich auch Schleuderer aus Opitergium, dem heutigen Oderzo. Wie in dieser Waffenart üblich, beschrieb man die Bleigeschosse mit obszönen Beschimpfungen des Gegners, mit Drohungen oder mit der eigenen Herkunft, sozusagen der Absenderangabe des hoffentlich todbringenden Projektils. Die Opiterginer unterschrieben nur mit ihrem Ethnikon, meist in venetischer Schrift von rechts
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T.P. Wiseman, New Men in the Roman Senate 139 B.C. - A.D. 14, Oxford 1971, 33 ff.
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nach links, häufig aber auch in Latein von links nach rechts17. Den bisher verbündeten Venetern, und damit auch den Schleuderern aus Oderzo, war wenige Monate zuvor durch die lex Pompeia das latinische Kolonialrecht gegeben worden, aber wieweit diese Maßnahme schon durchgeführt worden war, wissen wir nicht. Wir wissen vor allem nicht, ob der Gebrauch des Latein programmatisch war, um zu zeigen, dass man auf der richtigen Seite stand, ob die lateinisch schreibenden mit ihren Kenntnissen nur angeben wollten oder ob diejenigen, die ihre Bleie in venetischer Sprache beschrieben, damit den guten alten Zeiten der Unabhängigkeit nachtrauerten? Die Interpretation von Sachquellen für Fragen des Bewusstseins ist, wie Sie sehen, mit Problemen behaftet. Dasselbe gilt aber auch für die „Romanisation“ als solche. Das Wort, und sein deutsches Äquivalent „Romanisierung“, implizieren ja eine Aktivität, eine Handlung der Römer, die andere Staaten oder Stämme zu ihrer Romanitas bekehren wollten, sie ihnen aufzwangen oder sie an ihr teilhaben lassen wollten, je nach Betachtungsweise. Während im 19. und in der ersten Hälfte des 20. Jhs. diese Romanisation meist positiv konnotiert war, wird sie heute vor allem in der angelsächsischen Welt eher negativ gesehen18. Vermutlich ist dies eine Spätfolge der Dekolonisierungsdebatte der achtziger Jahre, die manche Kollegen dabei eher an eine verweigerte Chance zur Selbstentwicklung als an kulturellen Aufschwung denken lässt. Wie auch immer die leitenden Motive bei Römern und Italikern gewesen sein mögen: die Romanisierung Italiens setzte sich bis in das 1. Jh. n.Chr. so sehr durch, dass eigene Traditionen weitgehend verschwanden. Die Tempel ähnelten sich von Trient bis Tarent wie ein Ei dem andern, und die Inschriften von Triest könnten auch aus Turin stammen. Eigenes wird verleugnet und Fremdes angenommen, viel radikaler, als in der viel beklagten Amerikanisierung unserer Tage. Auch hierüber schweigen die Quellen.
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ILLRP 1102, vgl. die Abbildung in M.S. Busana, Oderzo, Roma 1996, 27 fig. 12. G. Bradley, Ancient Umbria. State, Culture and Identity in Central Italy from the Iron Age to the Augustan Era, Oxford 2000; R. MacMullen, Romanization in the Time of Augustus, New Haven 2000. 18
Les rapports entre les élites du Latium et de la Campanie et Rome (III s. aV. J.-C. - I s. aP. J.-C.): l’apport d’une enquête prosopographique Mireille Cébeillac-Gervasoni
Avant tout je souhaite exprimer ma gratitude pour leur invitation aux organisateurs de ce colloque international de la Fondation Canussio de Cividale, un lieu où des conditions particulièrement favorables permettent des échanges fructueux avec des collègues de divers pays. En prémisses, j’exposerai les motivations qui, dans le cadre du thème des rapports entre les élites locales et Rome, m’ont amenée, pour cette contribution, à opter pour une chronologie entre la fin de la 2e guerre punique et les débuts des Julio-Claudiens. Ce laps de temps de plus de deux cents ans est fondamental pour l’histoire de Rome mais aussi des rapports entre les élites locales et l’Urbs. Il s’agit d’un moment-clé pour la romanisation, problématique qui est au centre des débats de cette rencontre; le Latium et la Campanie qui vont être l’objet de ma recherche constituent le cœur de la conquête romaine et ces territoires et leurs habitants, depuis l’époque archaïque, ont servi de laboratoire plus ou moins conscient à Rome pour expérimenter toutes les formes juridiques qui lui permirent de gérer les relations avec les cités. A la fin du IIIe siècle et jusqu’à la promulgation des lois de 90/89 qui mettent un terme à la guerre sociale, on trouve côte à côte des cités aux statuts très variés qui représentent un échantillonnage complet des solutions élabo-
Je pense en particulier aux discussions avec mon collègue H. Galsterer, car nos thématiques de recherche et nos thèmes de communication fort proches nous ont amenés à nous féliciter de nous retrouver sur les mêmes positions face aux mêmes problématiques et je le remercie pour son intervention. On trouve donc dans le Latium et en Campanie jusqu’à la guerre sociale (c’est-à-dire avant que tous les hommes libres de la quasi-totalité de la péninsule n’aient reçu la civitas romana) (v. carte fig. 1-2): • des alliés: les Volsques d’Aquinum et les Campaniens d’Herculanum, de Nola, de Nuceria et de Pompéi; • des Latins, divisés entre ° prisci Latini à Tibur et Préneste; ° Herniques avec Aletrium, Ferentinum, Verulae; ° et colonies latines: Setia, Signia, Sora dans le Latium et Cales et Suessa Aurunca en Campanie; • des citoyens romains (en dehors des colonies romaines, certaines cum et d’autres sine suffragio): Anagnia, Aricia, Arpinum, Atina, Casinum, Formies, Fundi, Gabii, Lanuvium, Tusculum, Velitrae dans le Latium et Acerrae, Allifae, Capua, Cumes en Campanie;
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Fig. 1 L’Italie centrale avant la guerre sociale*.
rées par Rome pour régir ses rapports avec les états et les populations qu’elle côtoyait, au fur et à mesure de son irrésistible progression de conquête dans la péninsule. Je voudrais aussi souligner combien l’enquête prosopographique est fondamentale pour la connaissance des élites locales qui, en règle générale (si on excepte le corpus cicéronien, source inestimable d’informations pour les domi nobiles à partir de la fin du IIe s. av. J.-C.) ont été très rarement au centre de l’intérêt de ceux qui, dans l’Antiquité, ont laissé des traités historiques ou des œuvres littéraires. En effet, les auteurs, membres de l’élite urbaine, ne se sont penchés que sur des faits qui concernaient le centre du pouvoir: Rome; aussi les élites locales, si elles apparaissant dans ces récits, ne sont-elles des protagonistes que de manière épisodique ou anecdotique. Le plan chronologique de cette communication s’est imposé de façon quasi naturelle; je traiterai la question entre la fin de la seconde guerre punique et les lois de 90/89, puis dans une seconde partie, de la situation pos• des colonies romaines à Antium, Minturnes, Ostie, Tarracina dans le Latium, Puteoli et Venafrum en Campanie. V. infra la question de Vaccus à Fondi.
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Fig. 2 L’Italie centrale avant la guerre sociale: Latium et nord de la Campanie*. * Les deux cartes sont empruntées à O. de Cazanove - C. Moatti, L’Italie romaine d’Hannibal à César, Paris 1994 (pp. 18-19).
térieure à l’adoption des lois qui mirent fin à la guerre sociale et firent de tous les hommes libres des cités du Latium et de la Campanie des cives Romani.
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1. De la fin de la seconde guerre punique jusqu’aux années 90/89 A la fin du IIIe s., la situation des rapports entre les élites locales et Rome (c’est-à-dire l’élite sénatoriale urbaine qui gouverne dans l’Urbs) est claire, sans aucune ambiguïté, et c’est une évidence aussi bien pour les régions sur lesquelles j’enquête que sur celles du reste de la péninsule: il y a Rome et en face d’elle, de nombreux partenaires. Ces derniers sont d’autant plus isolés, même en cas de voisinage géographique, qu’ils sont souvent régis par des statuts différents même si ce facteur ne compte pas beaucoup dans la pratique de leurs relations avec Rome, mais en revanche, elles permettent à l’Urbs d’avoir en face d’elles, une mosaïque de cités aux conditions juridiques variées. Cette situation ne concourt pas à la formation d’alliances locales tant les intérêts sont divergents. De surcroît, à cette date, aussi bien dans le Latium que dans la Campanie, une partie des membres de l’élite locale jouit de la citoyenneté romaine, soit de droit comme leurs concitoyens, soit à titre personnel, ce qui représente un évident privilège au sein de leur communauté civique et un lien particulier avec l’élite urbaine. Je souhaite d’abord dresser une liste rapide, la moins lacunaire possible, des rapports entre élites locales et urbaines, dans le domaine privé, puis dans la sphère du politique. 1.1. Les rapports dans le domaine privé 1.1.1. L’hospitium privatum Dérivé, peut-être, de l’hospitium publicum, proche de l’amicitia et de la fides, cette antique coutume d’hospitalité réciproque permettait à des notables locaux de trouver auprès d’hôtes urbains logement et protection en cas de séjour dans l’Urbs, et aux magistrats romains de jouir d’une hospitalité privée lors de leurs déplacements en Italie; comme l’écrit Tite-Live, privata hospitia habebant; ea benigne comiterque colebant, domusque eorum Romae hospitibus patebant, apud quos ipsi deverti mos esset. On peut mentionner la Toutes les dates s’entendent avant notre ère; en revanche, il sera précisé ap. J.-C. pour les dates de l’ère chrétienne. M. Humbert, Municipium et civitas sine suffragio. L’organisation de la conquête jusqu’à la guerre sociale, Roma 1978, en part. pp. 140-141, à propos de l’antiquité de cette hospitalité qui remonterait à Servius Tullius qui accorda l’hospitium publicum à certains Latins. E. Deniaux, Clientèles et pouvoir à l’époque de Cicéron, Roma 1993, pp. 40-41. Liv. XLII 1,10. Nous reviendrons sur ce texte infra à propos des abus perpétrés par les magistrats au dépens des élites locales.
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tessera hospitalis de Fondi, datée de la fin du IIIe s. ou de la première moitié du IIe s., qui représente un témoignage crucial des rapports entre l’aristocratie urbaine et l’élite locale et on sait que chaque partie contractante conservait une moitié de la tessère. 1.1.2. Le patronage Il entre comme l’hospitium dans la catégorie des liens forts et anciens que les élites locales ont noué avec l’élite dirigeante de Rome. Comme l’a bien montré Badian10, les imperatores romains vainqueurs se liaient par des rapports de patronage aux villes conquises et ces relations privilégiées venaient en héritage à leurs descendants. Ainsi à Capoue, Sex. Fulvius Flaccus, le consul de 135, petit-fils du consul de 211 qui prit Capoue, jouissait des clientèles locales instaurées par son grand-père; on peut comprendre pourquoi Ser. Fulvius Flaccus fit reconstruire le sanctuaire de Diana Tifatina11, comme en témoigne une inscription12. L’enjeu que représentaient ces clientèles locales pour les ambitions des aristocrates urbains est bien connu et on pourrait, y compris dans les régions sur lesquelles j’enquête, en trouver d’autres exemples13. Le rôle de ces clientèles locales au service des intérêts des patrons romains sera encore plus précieux après 90/89, quand tous les hommes libres de ces cités seront devenus des citoyens romains et donc en mesure de se déplacer pour venir soutenir leur challenger à Rome, aussi bien pour voter que pour manifester leur soutien14.
CIL I² 611 = ILLRP 1068. De petite dimension (6,2 x 3,5 cm), en bronze et en forme de poisson, elle suscite de nombreuses interrogations, v. sur ces questions reprises récemment par A. Storchi Marino, Fondi romana. Società ed economia, dans Fondi tra antichità e medioevo. Atti del convegno 31 marzo - 1 aprile 2000, éd. T. Piscitelli Carpino, Fondi 2002, pp. 19-70 et en part. pp. 27-30 (avec une photographie de la tessère); aussi par M. Di Fazio, Fondi ed il suo territorio in età romana. Profilo di storia economica e sociale (BAR International Series. 1481), 2006, en part. pp. 31-33. Evidemment, la correspondance de Cicéron est pour le premier siècle une source inestimable d’informations sur ces patronages. V. Deniaux, Clientèles... 10 E. Badian, Foreign Clientelae (264-70 B.C.), Oxford 1958, pp. 156-158. 11 Ces travaux furent ensuite poursuivis par les magistri Campani en 108 (ILLRP 721) puis en 99 (CIL I² 680 = ILLRP 717). 12 CIL I² 635 = ILLRP 322: Ser. Folvius Q.f. Flaccus co(n)s(ul) muru(m) locavit / de manubies. 13 Ainsi à Fondi, v. M. Di Fazio, Fondi…, p. 32 sq. On trouve l’influence politique des Aemilii, des Valerii Flacci, et peut-être aussi des Claudii (v. Humbert, Municipium..., pp. 395-397), même s’il semble qu’après la 2e guerre punique, ce sont surtout les Aemilii qui sont particulièrement liés au riche territoire de Fondi. 14 L’œuvre de Cicéron est riche en exemples, aussi bien pour lui-même que pour ses clients lors de procès, v. infra.
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1.1.3. Accueil des fils des membres de l’élite locale dans les maisons sénatoriales romaines Au moins à partir du IIe s. les aristocraties locales prirent l’habitude d’envoyer leurs enfants mâles faire leur éducation dans l’Urbs, sans doute auprès de ces nobles qu’ils avaient côtoyés en leur donnant l’hospitalité. Les témoignages sont très fréquents à partir du Ier s., mais il est difficile de croire qu’il s’agisse d’une innovation; par exemple le père de Cicéron le confia ainsi que Quintus son frère, à Rome, à des maîtres, sénateurs, aristocrates et lettrés. Ces jeunes gens furent d’abord remis aux bons soins de Lucius Licinius Crassus qui leur chercha des maîtres et les aida pour entrer dans la carrière urbaine; à sa mort, le père des deux Tullii choisit de les adresser à un autre grand personnage, Quintus Mucius Scaevola, l’ex-consul de 117, augur de 129 à 89, un éminent juriste auprès duquel ils étudièrent jusqu’à sa mort en 87. Ensuite, ils firent confiance15 à un autre membre de la même famille, lui aussi grand juriste, Scaevola le pontifex maximus de 89 à 82. 1.1.4. Des liens par mariages Il existait, sans qu’on puisse en douter, une stratégie matrimoniale avec de fréquentes noces entre des fils et des filles des aristocrates de l’élite dirigeante locale et des rejetons de gentes sénatoriales, parfois illustres. Les cas connus se multiplient au cours du Ier siècle, mais ce n’était pas un épiphénomène récent; on pense à Pacuvius Calavius, notable de Capoue, qui remit la cité à Hannibal, et pourtant il était le gendre d’Appius Claudius et le beau-père de Marcus Livius qui avait épousé une de ses filles16. Parmi les cas connus, on peut mentionner la tante de César, née dans une famille patricienne, qui épousa Marius, membre d’une gens équestre de l’élite locale d’Arpinum où une Gratidia, elle aussi de la même origine, prit pour époux un Sergius patricien, ou encore le père de Marc Antoine qui, en premières noces, prit pour femme la fille d’un décurion de Frégelles, Q. Numitorius Pullus, celui-là même qui en 124 avait trahi les siens et livré la cité à Rome17.
15 Comme c’est notoire, Cicéron à son tour rendra le même service aux fils de notables de l’élite locale, on pense entre autre au jeune M. Caelius, reçu dans la maison de Cicéron et dans celle de M. Crassus, en principe pour y étudier: cum artibus honestissimis erudiretur (Cael. 4,9). 16 Liv. XXIII 2-8. 17 Cic. fin. V 22,62.
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1.1.5. Le pied-à-terre dans l’Urbs possédé par des membres des élites locales Cet usage bien attesté à la fin de la République pourrait avoir été très ancien si on en croit Quadrigarius (in Tite-Live VIII 19-20) qui affirme que Vitruvius Vaccus, non domi solum sed etiam Romae clarus, le notable qui prit la tête d’une rébellion des Privernates et des Fundani contre Rome au IVe s. aurait possédé sur le Palatin une demeure qui aurait été détruite après sa défaite; le toponyme du lieu: «les champs de Vaccus» en aurait conservé la mémoire. Je ne reviens pas sur tous les doutes que l’ensemble de l’épisode Vaccus fait naître18, mais au moins pour cette question, on peut nourrir quelque perplexité sur la réalité d’un pied-à-terre d’un domi nobilis à Rome à une date aussi haute. J’y verrai volontiers une réélaboration de données à la fin de la République dans le contexte du modus vivendi des élites locales les plus huppées; de fait, au temps de l’historien Q. Claudius Quadrigarius, un quasi-contemporain du père de Cicéron, les aristocrates des cités étaient propriétaires d’une résidence secondaire dans le centre de l’Urbs, comme le grand-père de Cicéron qui lui en possédait une aux Carines. De toutes façons, dans le cadre de cette enquête, cette anecdote signifie qu’à la fin du IIe s. et sans doute bien avant, les domi nobiles avaient compris l’importance pour eux d’avoir, dans l’Urbs, un logement personnel, alors même qu’ils ne revêtaient pourtant pas de charges urbaines qui auraient rendu nécessaire d’y loger. 1.1.6. Des rapports économiques Les nobles romains ont trouvé auprès de leurs amis latins qui n’étaient pas soumis aux mêmes lois restrictives qu’eux, un moyen commode de contourner la législation qui limitait leur capacité d’intervention dans le domaine économique19. Il s’agissait sans doute d’une habitude sur grande échelle, car il fallut une loi en 193, la lex Sempronia de pecunia credita, applicable aux Romains et aux Italiques, pour bloquer les prêts d’argent que l’aristocratie urbaine faisait par le biais des Latins et des socii italiques; les collaborations ne se limitaient pas à cet argument et E. Gabba20 ne manque pas de souli-
18 Voir l’ensemble de la question et de son historiographie reprise récemment par Di Fazio, Fondi..., pp. 19-22. 19 On pense évidemment au plebiscitum Claudium de 219 ou 218 (Liv. XXI 63,3-4) qui interdisait aux sénateurs et à leurs enfants le commerce par mer (sinon pour commercialiser les produits de leurs terres). 20 E. Gabba, Del buon uso della ricchezza, Milano 1988, pp. 90-96.
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gner que les intérêts financiers des nobiles romains et des domi nobiles coïncidaient. Ces pratiques permettaient à l’élite urbaine de réaliser de juteux profits dans les opérations commerciales, en particulier outremer, contrôlées en général par les aristocrates locaux qui agissaient à travers leurs esclaves et affranchis21. On sait que, dès le IIe s., les sénateurs romains possédaient des propriétés, en particulier en Campanie22, mais aussi dans la partie méridionale du Latium, dans les zones collinaires et dans les très riches plaines de Fondi et de Terracina, comme le prouvent divers témoignages de leur présence23. 1.1.7. Des orateurs issus des élites locales24 Le Brutus de Cicéron démontre que de très nombreux orateurs non urbains étaient connus dans l’Urbs ou à l’occasion, ils venaient plaider. On ne peut douter que ces contacts personnels furent très fructueux pour permettre l’intégration des élites locales. 1.2. Les rapports dans le domaine public A partir de la fin du IIIe s., de manière de plus en plus prégnante, Rome va s’imposer dans la vie politique locale avec des moyens d’action variés mais efficaces qui, peu à peu, vont limiter les capacités d’autonomie des collectivités quels que soient leur statut et le type de rapport entretenus avec les autorités urbaines. 21 V. en part. plusieurs contributions dans Les élites municipales de l’Italie péninsulaire des Gracques à Néron, éd. M. Cebeillac-Gervasoni, Napoli - Roma 1996. 22 J.H. D’Arms, Romans on the Bay of Naples. A Social and Cultural Study of the Villas and their Owners from 150 B.C. to 400 A.C., Cambridge Mass. 1970 (rep. dans J.H. D’Arms, Romans on the Bay of Naples and other Essays on Roman Campania, Bari 2003 avec une bibliographie mise à jour). 23 On a les preuves concrètes des intérêts économiques des Aemilii dans cette région et on sait que le censeur de 179, M. Aemilius Lepidus, y possédait des vignobles qui expliquent sans doute l’intérêt du censeur pour l’aménagement aux frais de l’état d’un grand mole dans le port de Terracina qui permettait l’arrivée de grands navires vinaires. Servius Sulpicius Galba, consul en 108, avait lui aussi des propriétés dans la zone et une inscription en mosaïque de Terracina (CIL I² 694 = ILLRP 338) prouve qu’il restaura le temple de l’acropole; ces liens patrimoniaux d’ailleurs perdurèrent puisque Suétone dans les Vies des Césars, Galba 4, nous informe que le futur empereur «princeps né dans une maison de campagne sur une colline que l’on trouve près de Terracine à gauche en direction de Fondi». On a déjà évoqué les intérêts de ces grandes familles de l’aristocratie urbaine pour des terres qui produisaient, entre autres, des vins appréciés comme le Cécube et le Fundanum (v. A. Tchernia, Le vin de l’Italie romaine, Roma 1986, pp. 45, 65, 116-117). 24 V. J.-M. David, Le patronat juridique au dernier siècle de la République, Roma 1992.
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1.2.1. Domaine législatif En principe, les cités avaient la possibilité d’adopter ou de refuser des lois votées à Rome et c’est cette règle que Cicéron rappelait dans le Pro Balbo 20: «Le problème dans son ensemble repose sur la règle et la maxime constantes d’après lesquelles le peuple romain ayant voté une disposition légale déterminée, si les peuples latins et alliés l’ont adoptée [si id adscivissent socii populi ac Latini] cette même loi doit régir tout peuple chez qui elle a été établie … il s’agit de permettre à ces peuples de profiter de la législation établie par nous, d’avantages et de bienfaits déterminés». Ce fut le cas pour des lois testamentaires auxquelles Cicéron fait référence (Pro Balbo 21): «Au temps de nos ancêtres, C. Furius a porté une loi sur les testaments [en 183], Voconius en a porté une autre sur l’incapacité en matière d’héritages des femmes, d’innombrables lois ont été portées en matière de droit: les Latins ont adopté celles qu’ils ont voulu adopter; d’après la loi Julia enfin qui donna le droit de cité aux alliés et aux Latins, les peuples qui n’y consentaient pas ne jouissaient pas de ce droit». C’est toujours Cicéron qui nous fournit des preuves des capacités de refus des cités; ainsi pour les lois tabellaires25 dont Cicéron entretient son interlocuteur26, il est vrai qu’à Arpinum, par exemple, il y eut de vives discussions entre partisans et opposants à l’introduction de ces lois. Le grand-père de Cicéron mena le combat oratoire contre leur adoption dans sa cité et contre son beau-frère M. Gratidius27: «Et dans le municipe où nous nous trouvons en ce moment, ce fut notre grand-père, homme d’un rare courage qui, pendant toute sa vie, s’opposa à Marcus Gratidius, dont la sœur était sa femme, notre grand-mère, et qui proposait une loi tabellaire … et c’est à notre grand-père que le consul M. Scaurus dit, comme la question était plaidée devant le sénat: Cicéron, que n’as-tu voulu, avec ce courage et cette vertu qui te caractérisent, venir avec nous t’adonner aux plus hauts intérêts de l’Etat plutôt qu’à ceux de ton municipe [in summa re publica nobiscum versari quam in municipali maluisses]». On doit souligner qu’au nom du bien commun et suprême de l’Etat, certaines lois furent imposées sans délibération des conseils municipaux; parmi les plus célèbres citons le senatus consultum de Bacchanalibus, applicable à la tota Italia pour réprimer ce qu’on considérait comme un danger extrême, les Bacchanales; on a supposé, sans preuves, que Rome s’était appuyée sur
25 Rappelons la séquence de ces lois romaines: loi Cassia en 137, loi Papiria en 131, loi de Marius en 119 et la dernière, celle de Coelius Caldus qui complète la loi Cassia en 107. 26 Leg. III 35. 27 Cl. Nicolet, Arpinum, Aemilius Scaurus et les Tullii Cicerones, “REL” 45 (1976), pp. 276-304.
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les sénats locaux pour en permettre l’application28. En revanche, on peut citer à nouveau29 la lex Sempronia de pecunia credita de 193, applicable aux Romains comme aux Latins et aux Italiques, qui avait pour but d’éviter les fraudes; la lex Dindia sumptuaria de 145 émise pour la tota Italia, reprenait en l’élargissant la lex Fannia de 161 à laquelle seuls les Romains avaient été assujettis. On pourrait multiplier les exemples qui prouvent les incursions de Rome dans la législation locale, pratique qui, a posteriori, fut théorisée et justifiée par Cicéron30: «Lorsque le peuple Romain a sanctionné une loi, et cette loi est de nature à permettre à des peuples déterminés, fédérés ou libres, de décider eux-mêmes quel système légal ils veulent avoir pour leurs intérêts, non pour les nôtres, il semble alors qu’il y ait lieu d’examiner si ces peuples y ont souscrit ou non, mais, lorsqu’il s’agit de nos intérêts politiques, de notre empire, de nos guerres, de notre victoire, de notre sauvegarde, nos ancêtres n’ont point voulu qu’ils fussent consultés [de nostra vero re publica, de nostro imperio, de nostris bellis, de victoria, de salute fundos populos fieri noluerunt]». Un autre exemple de ces intromissions urbaines dans la vie locale est la diffusion des opérations de recensement, conséquence directe de l’influence de Rome sur les communautés italiques31. Même si les élites dirigeantes étaient impliquées en premières personnes dans la mise en œuvre des lois ou census, de toutes façons, elles ne devenaient dans les faits que les courroies de transmission de décisions urbaines. Bien sûr, c’étaient les bureaux du censeur romain qui pilotaient les opérations de census32 et c’était à Rome que les données étaient rassemblées. 1.2.2. Les interventions des censeurs urbains. Transformation de l’urbanisme des cités A partir des débuts du IIe s., les censeurs vont intervenir de manière tout à fait nouvelle dans la mise en œuvre des constructions publiques dans les cités. Auparavant, il s’agissait essentiellement de réaliser des travaux utiles à Rome, surtout des routes qui facilitaient les transports à travers la péninsule. Désormais, les censeurs font édifier des égouts, des murs de cités, des taber28 J.-M. Pailler, Bacchanalia. La répression de 186 av. J. -C. à Rome et en Italie: vestiges, images et traditions, Roma 1988 et en part. pp. 330-332. 29 V. supra. 30 Balb. 8,22. 31 E. Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia nel II secolo, dans Storia di Roma, II.1, Torino 1990, pp. 267-283, cf. p. 270. 32 Ainsi que nous l’apprend la tabula Heracleensis, II, 142-156, v. Roman Statutes, éd. M.H. Crawford, I, London 1996, p. 358.
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nae, des fora avec portiques, des digues, des aqueducs; ainsi en 184 à Fondi, Terracina, Formia, Sinuessa, en 179 une digue à Terracina33, mais aussi un mur d’enceinte, des tabernae autour du forum de Caiatia et à Auximum, en 174 un aqueduc et le temple de Jupiter à Terracina et d’autres constructions à Sinuessa. Ces travaux souvent très importants n’étaient pas tous réalisés avec des fonds urbains et beaucoup étaient financés sur le trésor des communautés locale, comme par exemple ceux de 174, sans que les textes fassent allusion à des délibérations des sénats locaux. Ainsi les censeurs de 174, Q. Fulvius Flaccus et A. Postumius Albinus firent vendre «les domaines publics de l’endroit, ils consacrèrent l’argent à la construction de boutiques sur les forums des deux villes»34. Par ailleurs, ces cités bénéficièrent aussi, semble-t-il35, d’actes d’évergétisme de la part des censeurs avec la construction à leurs frais «d’un temple de Jupiter à Pisaurum et à Fondi … à Sinuessa d’habitations dans des faubourgs (?) ces villes furent dotées aussi par lui [Fulvius Flaccus] d’égouts et d’un mur d’enceinte ... il fait fermer le forum avec des boutiques et élever trois Janus … Tous ces travaux lui valurent la grande reconnaissance des colons»36. De toutes façons, il s’agissait bien là d’interventions qui, même si elles pouvaient avoir localement des effets bénéfiques, «court-circuitaient» les capacités à décider des élites dirigeantes lors d’opérations d’envergure de l’équipement public de leurs cités. Sous l’impulsion de Rome, de nombreux sanctuaires italiques37 furent reconstruits ou restaurés, ce qui était un moyen pour l’Urbs de contrôler au plus près et éventuellement de réprimer toutes tendances religieuses qui pouvaient apparaître comme subversives. 1.2.3. Les interventions de Rome dans les affaires intérieures et extérieures des cités Une intervention de Rome fut souvent requise par les autorités locales, par exemple dans des cas de difficultés entre deux partis ou groupes d’opi33 Travaux qui n’étaient pas sans arrières pensées personnelles, car la digue permettait l’arrimage de navires vinaires, ce qui facilitait le transport de la production des propriétés du censeur Lépide, v. supra, note 23. 34 Liv. XLI 27,10. 35 Le texte de Tite-Live présente des incertitudes mais il est probable qu’il s’agissait bien d’évergétisme de la part d’un ou même des deux censeurs. 36 Liv. XLI 27,11-12. 37 Voir à ce propos U. Laffi, Il sistema di alleanze italico, dans Storia di Roma, II.1, Torino 1990, pp. 285-304, cf. 288 sq.; J. Scheid, Rome et les grands lieux de culte en Italie, dans Pouvoir et religion dans le monde romain, Paris 2006, pp. 75-86.
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nion dans leur cité, ainsi lorsque le grand-père de Cicéron alla plaider devant le sénat pour empêcher l’adoption de lois tabellaires à Arpinum38 et obtenir dans ce sens un assentiment des sénateurs. C’est à la demande des autorités citadines que Rome expulsa de l’Urbs douze mille Latins qui s’y étaient installés abusivement39. On peut aussi mentionner la médiation entre les habitants de Naples et de Nola pour des questions de frontières qui, en définitive si on en croit Cicéron, se conclut au bénéfice de Rome: «Q. Fabius Labeo [consul de 183] donné par le sénat comme arbitre de leurs frontières, s’étant rendu sur les lieux, recommanda séparément aux deux parties de ne pas se comporter avec convoitise ni avec avidité, et de préférer se retirer plutôt que d’avancer. Quand l’un et l’autre adversaires l’eurent fait, un territoire assez considérable se trouva entre les deux, abandonné. Et ainsi il détermina leurs frontières, comme eux-mêmes les avaient fixées; mais pour le territoire qui se trouvait abandonné entre les deux, il l’attribua au peuple romain!»40. Certes, les cités pouvaient envoyer des membres de leur élite comme ambassadeurs auprès du sénat pour exposer leurs griefs ou récriminations, mais le résultat n’était pas toujours celui escompté; on peut mentionner l’intervention devant les sénateurs de L. Papirius Fregellanus qui, à l’époque de Tiberius Gracchus, prononça une oratio pro Fregellanis colonisque Latinis41 et le résultat fut peu probant puisqu’on connaît la fin tragique de Frégelles, rayée de la carte après la prise de la cité par le préteur L. Opimius. 1.2.4. Prégnance du latin et du système monétaire et pondéral Au cours du IIe s., le latin devint la langue courante dans le Latium, non seulement pour les élites, mais pour l’ensemble de la population; en revanche en Campanie, seule la cité de Cumes fit la demande à Rome de pouvoir faire du latin sa langue officielle. Dans le même temps, la monnaie et les systèmes monétaire et pondéral romains s’imposaient. 1.2.5. Le contrôle de la religion et des lieux de culte symboliques Rome a réussi à contrôler et si besoin à réprimer les idées religieuses qui lui semblaient subversives ou sources de troubles civiques éventuels; si on 38
V. supra, note 26. Liv. XXXIX 3,4-6. 40 Cic. off. I 10,33; anecdote reprise par Val. Max. VII 3,4a. 41 Cic. Brut. 169. 39
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excepte la réaction violente face au succès des Bacchanales42, en général, Rome se contenta de poursuivre une politique qui lui avait réussi depuis déjà des décennies et qui mettait sous sa coupe de grands sanctuaires et les pratiques religieuses qui s’y célébraient par une habile manœuvre d’association de Rome à de grands cultes43. Déjà en 338, après la fin définitive de la rébellion des Latins, les Romains se sont imposés par exemple dans le sanctuaire fédéral de la Ligue Latine du Monte Cavo qui est devenu un lieu de culte romain; à Lavinium, tous les rites furent célébrés désormais par les Lavinates associés à des magistrats et prêtres urbains44. De même à Lanuvium, le temple de Junon Sospes devint commun aux Lanuvini et aux Romains45, pour ne prendre que quelques exemples dans le Latium. Dès le milieu du IIe s., Rome va construire ou restaurer de très nombreux sanctuaires italiques, comme celui déjà cité de l’acropole de Terracina. Ce sont des enseignements qu’Auguste n’oublia pas et au début du Principat, par le biais de cette religion ancestrale italique, il va fortifier encore plus son pouvoir. 1.2.6. Emergence au sénat urbain des membres des élites locales L’accès au sénat et aux magistratures urbaines des domi nobiles est la preuve éclatante de l’intégration des élites locales, du moins de certains membres, dans l’una patria. Cependant, T.P. Wiseman46 a bien noté qu’au cours du IIe s. les promotions ont été de moins en moins nombreuses et que, très souvent, les néo-sénateurs sont aussi restés des parvi senatores. De fait, comme le rappelait Cicéron, à part des cités comme Tusculum et Capoue (et on peut ajouter Préneste et Lanuvium)47 qui depuis longtemps donnaient à Rome des magistrats et des consuls, les autres cités étaient très peu représentées jusqu’à la fin du IIe s. quand Marius, chevalier originaire d’Arpinum, a atteint le consulat et les plus grands honneurs dans la République. 1.2.7. Autres types de rapports: les abus des magistrats envers les élites et les populations locales Les rapports des membres des élites locales sont bien loin d’avoir toujours été idylliques et placés sur un plan d’égalité. Les domi nobiles ont souvent 42
V. supra à propos de la répression par le s.c. de Bacchanalibus. Scheid, Rome..., p. 79. 44 Liv. VIII 11,15. 45 Liv. VIII 14,2. 46 T.P. Wiseman, New Men in the Roman Senate 139 B.C. - A.D.14, Oxford 1971. 47 Ordine senatorio, Roma 1982. 43
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subi des abus de la part de magistrats romains qui passaient par leur cité. La dénonciation de cette situation fut faite par Caius Gracchus dans un discours célèbre48 en 123; il y rappelait le traitement infâmant infligé à des magistrats de Teanum, de Ferentinum et de Venusia pour des motifs futiles ou infondés. Tite-Live49 raconte aussi l’anecdote d’un consul de passage à Préneste en 173 qui infligea une humiliation aux Prénestins sans provoquer de réaction, tant sans doute, étaient-ils difficiles de s’opposer à de tels procédés. La très longue liste (37 pages) de toutes ces prévarications aux dépens des cités hors de Rome a été dressée par Toynbee50. Des rancoeurs ont persisté longtemps, héritées dans certains cas des longues années de guerres entre Romains et Latins. Tite-Live51 et Valère Maxime52 nous rapportent ainsi la rancune des Tusculans envers Rome dont ils ne digérèrent jamais l’attitude qu’elle avait eu envers eux durant la guerre latine. Les préjugés sont restés bien ancrés dans la mentalité des Romains dans leur appréciation des non-urbains et ceci perdura jusqu’à la fin de la République. Caton l’Ancien, originaire d’une cité qui avait déjà donné maints magistrats à Rome était pourtant défini53 comme Tuscolo urbis inquilinus, un émigré pour résumer! Cicéron lui-même, l’homo novus d’Arpinum, désignait des orateurs54 qui exerçaient dans d’autres cités en tant que istis externis quasi oratoribus. Il est vrai que Cicéron lui-même était dit M. Tullius, inquilinus civis urbis Romae par Catilina, le patricien aux ancêtres glorieux55. La sociologie moderne nous apprend combien les modèles du conquérant peuvent parvenir à contaminer le jugement des soumis, quels que soient l’époque et le lieu!
48 ORF4 48: nuper Teanum Sidicinum consul venit. Uxor eius dixit se in balneis virilibus lavari velle. Quaestori Sidicino M. Mario datum est negotium uti balneis exigerentur qui lavabantur. Uxor renuntiat viro parum cito sibi balneas traditas esse et parum lautas fuisse. Idcirco palus destitutus est in foro eoque adductus suae civitatis nobilissimus homo M. Marius. Vestimenta detracta sunt, virgis caesus est … Ferentini ob eandem causam praetor noster quaestores abripi iussit: alter se de muro deiecit, alter prensus et virgis caesus est. 49 XLII 1,6-12. 50 A. Toynbee, Hannibal’s Legacy. The Hannibalic War’s Effect on Roman Life, II, Oxford 1965, pp. 608-645. 51 VIII 37,8. 52 IX 10,1. 53 Vell. II 128. 54 Brut. 170. 55 Propos devant le sénat, rapportés par Sall. Catil. 31,7. Injure méprisante envers un homme, certes homo novus, mais parvenu au plus haut rang de la respublica et originaire d’une cité qui, depuis 188, avait reçu la civitas optimo iure.
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1.3. Apostilles à cette première partie: peut-on parvenir à saisir le degré d’attraction de Rome sur les élites locales? Il est légitime de se demander si les domi nobiles avaient jusqu’aux années 90/89 l’ambition généralisée de parvenir, eux-mêmes ou leurs enfants, à des fonctions urbaines. Si on en croit Cicéron, son grand-père malgré les sollicitations du prince du sénat aurait refusé de venir poursuivre une carrière des honneurs à Rome56. Vérité ou vanité? Sans doute les deux! Cependant, il est vrai que la prosopographie permet de connaître de nombreux membres de l’élite dont la fortune dépassait sans doute le cens sénatorial mais qui ne semblent pas avoir eu la «tentation du cursus urbain». On pense au cas symptomatique, daté du dernier quart du IIe s., de l’évergète fastueux d’Aletrium, L. Betilienus Vaarus (dit Censorinus car il revêtit deux fois la censure dans sa cité). Une inscription57 détaille tous les bienfaits dont il combla à ses frais ses concitoyens; il entreprit une restructuration de la ville dont les restes archéologiques portent le témoignage58: rues (semitas in oppido omnis), espace pour les jeux (campum ubei ludunt), bains publics ([l]acum balnearium, non encore dits thermes), citerne (lacum ad [p]ortam) alimentée par un aqueduc (aquam in opidum arduom adqu(e) pedes CCCXL fornicesq(ue) fecit), doté d’un système très sophistiqué avec des conduites forcées (fistulas soledas fecit), horloge, marché, basilique, sièges, outre une monumentalisation de type hellénistique de la rampe qui menait à la citadelle (porticum qua in arcem eitur). Ce n’est qu’au début du principat qu’un descendant est connu à Rome: le monétaire de 12, P. Betilienus Bassus; ensuite, un chevalier de la même59 gens, le procurateur Betilienus Capito vit son fils promu par Caligola questeur du prince, mais assez vite assassiné sous les yeux de son père60. L’ascension fut lente puisqu’un siècle et demi sépare Bétilienus les fastueux évergète de son lointain descendant, questeur de Caligula; aussi est-il possible, comme le suggère F. Coarelli, que la famille ait pris parti pour Marius contre Sylla, ce qui expliquerait le retard d’émergence pour une gens qui 56
V. supra note 26. CIL I² 1529 (cf. p. 730 et 840) = X 5807 = ILLRP 528. 58 F. Zevi, Aletrium, dans Hellenismus in Mittelitalien, Göttingen 1976, pp. 84-96. 59 S’il est vrai qu’il faut manier avec la plus grande prudence l’outil onomastique, en revanche dans des cas limités et précis, des gentilices sont à rattacher à une cité avec un maximum de certitude; c’est le cas de plusieurs noms de familles de Préneste ou de Cumes par exemple, mais aussi celui de la gens Betiliena qui, jusqu’au début du Ier siècle de notre ère, est présente exclusivement à Alétrium ou dans des zones où se trouvaient ses affranchis et esclaves. 60 V. Sen. ira III 18,3. V. M. Cebeillac, Les ‘quaestores principis et candidati’ aux Ier et IIème siècles de l’Empire, Milano 1972, p. 43, n° XIX. 57
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semblait posséder tous les atouts pour obtenir avant la fin de la République l’accession à des charges urbaines. Par ailleurs, s’il est vrai que des travaux importants furent localement réalisés par les censeurs ou des aristocrates romains, il n’empêche que les aristocraties ont transformé leurs cités et leurs sanctuaires, dans le goût hellénisant du temps, soit avec des fonds publics, soit par évergétisme, avec une frénésie évidente dont on conserve de nos jours les traces archéologiques, pour de grands sanctuaires61 mais aussi pour l’urbanisme62. L’épigraphie permet de connaître les noms de ces magistrats locaux qui ont réalisé ces travaux. On peut y voir le souhait d’imiter Rome qui est elle-même de plus en plus hellénisée mais aussi l’influence directe des modèles de l’Orient Méditerranéen; les élites locales du Latium et de la Campanie, impliquées dans des trafics très rentables avec les pays de la Méditerranée orientale, connaissaient fort bien ces pays et la civilisation hellénistique, aussi peut-on retrouver comme à Aletrium ou à Préneste, l’influence de Pergame. Comme l’a souligné F. Pesando63 dans son étude des maisons des domi nobiles, on peut affirmer qu’à la fin du IIe s. la privata luxuria des aristocraties riches des cités d’Italie était bien supérieure à celle des familles nobles de Rome, soumises au contrôle social et aux législations somptuaires64. Certes, on note qu’à la fin du IIe s., la situation des rapports entre les élites et Rome reste très contrastée, avec des alignements volontaires ou imposés sur les desiderata de Rome, mais, comme le soulignait E. Gabba65, à la fin du IIe s., persistait une grande vitalité des traditions locales. Nous possédons maintes preuves de l’activité indépendante de l’orbite d’influence de l’Urbs, y compris pour des opérations de grand prestige entreprises par des domi nobiles. On doit aussi cependant constater avec U. Laffi66 que Rome avait besoin du bon fonctionnement des institutions locales qui constituaient ses relais d’où découlait une certaine politique du «laisser faire»; mais, à la fin du IIe s., le processus d’assimilation était un phénomène en cours, irréversible et destiné à s’accélérer après la guerre sociale. 61 Cf. les sanctuaires importants du Latium et de la Campanie, presque tous restructurés de manière monumentale, à partir du milieu du IIe s., comme à Frégelles, Férentinum, Gabii, Préneste, Terracina, Tibur ou le temple de Castor et Pollux à Cora, v. F. Coarelli, I santuari del Lazio e della Campania, dans Les “Bourgeoisies municipales” italiennes aux IIe et Ier siècles av. J.-C., éd. M. Cebeillac-Gervasoni, Napoli - Paris 1983, pp. 217-240; Id., I santuari del Lazio in età repubblicana, Roma 1987. 62 Outre Aletrium déjà mentionnée plus haut, v. Pompéi, Férentinum où deux censeurs construisent l’acropole de manière monumentale (CIL I² 1522-1523 = X 5837 = ILLRP 584) au milieu du IIe s., Tibur où vers 120/90 l’acropole est agrandie avec le clivus Tiburtinus et l’antique enceinte, monumentalisée. 63 F. Pesando, ‘Domus’. Edilizia e società pompeiana fra III e I secolo a.C., Roma 1997. 64 M. Torelli, Tota Italia. Essays in the Cultural Formation of Roman Italy, Oxford 1999, pp. 8-9. 65 E. Gabba, Dallo stato-città allo stato municipale, dans Storia di Roma, II.1, Torino 1990, p. 707. 66 U. Laffi, Il sistema…, pp. 301-303.
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2. La situation67 après les lois de 90/89: la voie étroite vers l’una patria: une situation schizophrénique 2.1. Permanence de l’attachement à la «petite patrie» Cicéron, de passage à Arpinum, le municipe où il est né, lors d’une conversation avec Atticus élabore une authentique théorisation des «deux patries»: [Marcus] Quia, si verum dicimus, haec est mea et huius fratris mei germana patria. Hinc enim orti stirpe antiquissima sumus, hic sacra, hic genus, hic maiorum multa vestigia68 … Gaudeo igitur me incunabula paene tibi ostendisse. [Atticus] Equidem me cognosse admodum gaudeo. Sed illud tamen quale est quos paulo ante dixisti, hunc locum – id est, ut ego te accipio dicere, Arpinum – germanam patriam esse vestram? Numquid duas habetis patrias, an est una illa patria communis? Nisi forte sapienti illi Catoni fuit patria non Roma, sed Tusculum. [Marcus] Ego mehercule et illi et omnibus municipibus duas esse censeo patrias, unam naturae, alteram civitatis; ut ille Cato? quom esset Tusculi natus, in populi romani civitatem susceptus est, ita, quom ortu Tusculanus esset, civitate Romanus, habuit alteram loci patriam, alteram iuris69 … Itaque ego hanc meam patriam prorsus numquam negabo, dum illa sit maior, haec in ea contineatur70 … [Atticus] Ut iam videar adduci ad aestimandum, hanc quoque quae te procrearit esse patriam tuam71.
Les propos des deux amis, selon moi, sont bien loin de clarifier la situation; ils confirment ce que Gabba72 définissait comme une théorie qui était une façon élégante de concilier des tendances qui poussaient dans des directions divergentes: un grand attachement à la petite patrie, mais avec un embarras évident et une tentative désespérée pour justifier l’existence contemporaine de ces deux patries; c’est pourquoi j’ose avance le jugement de «position schizophrénique»73! La gravité des temps troublés du Ier s. va amener la plupart des membres des élites locales à s’impliquer dans les conflits et 67 Je ne reprends pas ici toute une série de considérations sur les rapports entre les élites locales et Rome, en particulier dans le domaine privé, déjà traités dans la première partie, car hospitalité, patronage, liens d’amitiés, mariages restent d’actualité et je ne prendrai ici en considération que les aspects nouveaux de ces relations. On peut noter une certaine accélération, une quasi-frénésie, par exemple dans la course aux recommandations, dont la correspondance de Cicéron apporte un témoignage évident (v. Deniaux, Clientèles...). 68 Cic. leg. II 1,3. 69 Cic. leg. II 2,5. 70 Cic. leg. II 2,5. 71 Cic. leg. II 3,6. 72 Gabba, Dallo stato-città..., p. 704. 73 Voir à propos de ces tensions H. Ingelbert, in Histoire de la Civilisation romaine, Paris 2005, pp. 472-474.
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à s’engager sur la route difficile mais incontournable qui va les conduire à l’una patria. 2.2. L’établissement de nouveaux rapports entre les élites locales et Rome 2.2.1. Participation des domi nobiles aux troubles civils Presque toutes les cités de l’Italie vont voir leurs élites s’impliquer dans les luttes intestines sans trêve qui ont déchiré l’Urbs dès la fin de la guerre sociale; ce climat de guerre civile va durer jusqu’à la victoire d’Octavien et s’étendre à toute l’Italie. Le Latium et la Campanie qui forment le premier cercle autour de Rome sont a fortiori les premiers engagés dans cette tragédie. Les élites locales se retrouvent dans l’obligation de choisir entre les différents chefs de partis qui ambitionnent de prendre le pouvoir; ce sera pour le meilleur ou pour le pire dans les combats sans merci que les parties adverses vont se livrer. En cas de victoire du leader qu’ils ont choisi, eux-mêmes et leurs cités vont en tirer bénéfice, mais en cas de défaite, les notables vont être mis à mort s’ils n’ont pas pu s’échapper à temps, ils sont dépouillés de leurs biens et leurs concitoyens sont massacrés, punis, les terres données à des partisans du vainqueur74 et parfois, comme Norba, la cité elle-même est rasée et définitivement détruite. 2.2.2. Les motivations de l’engagement des élites locales aux côtés des imperatores urbains On peut tenter de les analyser et de comprendre les raisons de ce revirement par rapport à une certaine neutralité du passé. 2.2.2.1. Les clientèles traditionnelles des familles des imperatores en conflit ont sûrement été un élément déterminant qui explicite les positions de certaines 74 Les exemples abondent; on pense à Préneste, à Pompéi, châtiées parce qu’elles avaient pris le parti de Marius contre Sylla. On peut mentionner la magistrale étude prosopographique d’Attilio Degrassi sur Préneste (A. Degrassi, Quando fu costruito il santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina, Epigraphica IV, “MAL” s. 8, 14, 1969, pp. 111-127); cette recherche a prouvé que l’élite dirigeante a été entièrement renouvelée (ou presque si on excepte les cas de rares «collaborateurs», au sens que l’on donne depuis la dernière guerre à ce terme) après la victoire de Sylla et l’installation de ses vétérans qui, désormais, gouvernent Préneste.
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cités et régions. On le sait pour Pompée et le Picénum, mais aussi pour Marius; on constate que toute la zone autour de sa cité natale (dans la périphérie d’Arpinum) prit parti pour lui et pour son fils contre Sylla et que tous ont payé un lourd tribut75 à cette fidélité. On peut, entre autres cas, mentionner le cas d’Ostie, pompéienne, dont l’élite en place dans le gouvernement de la colonie subit les conséquences76. 2.2.2.2. A ces traditions, s’ajoute un phénomène qui va prendre de l’ampleur et permettre à des aristocrates urbains de recruter des partisans: revêtir ou faire revêtir à ses fils des magistratures locales. Il devint habituel chez les nobiles de Rome d’ancrer encore mieux leur influence dans le tissu italien par la prise de fonctions dirigeantes dans les cités. Dans quelques cas, il pouvait s’agir de maintenir des liens avec la «petite patrie», terre des ancêtres; ainsi Cicéron fit élire son fils et son neveu à l’édilité en 46 à Arpinum77: hoc anno aedilem filium meum fieri voluit et fratris filum et M. Caesium, hominem mihi maxime necessarium. Milon, le client de Cicéron dans le procès Pro Milone, alors qu’il était déjà préteur urbain, ne dédaigna pas de revêtir la magistrature suprême à Lanuvium, la dictature: quod erat dictator Lanuvi Milo78. De nombreux fils de familles de l’aristocratie, y compris patricienne, ont cherché à se faire élire dans les cités; ainsi on voit M. Juventius Laterensis qui compte dans sa lignée des consuls, mais qui, note avec ironie Cicéron79 dans son plaidoyer, peut se vanter parmi ses mérites d’avoir donné des jeux à Préneste, où il avait sans doute été élu édile! On voit L. Marcius Philippus, le probable consul de 56, beau-père d’Octavien, revêtir le duumvirat à Herculanum. L. Gellius Poblicola, consul en 36, est à identifier au duumvir de Minturnes80. 75 On a déjà mentionné les massacres, les destructions, les spoliations; v. pour les proscriptions Fr. Hinard, Les proscriptions de la Rome républicaine, Roma 1985. 76 F. Zevi, P. Lucilio Gamala senior: un riepilogo trent’anni dopo, dans Ostia, Cicero, Gamala, Feasts & the Economy. Papers in Memory of John H. D’Arms (Journal of Roman Archaeology, Supplementary Series. 57), edd. A. Gallina Zevi - J.H. Humphrey, Portsmouth R.I. 2004, pp. 46-67, en part. pp. 62-65. 77 Cic. fam. XIII 11,3. Arpinum était un municipe d’origine volsque qui avait conservé la titulature traditionnelle de ses dirigeants, c’est-à-dire trois édiles. Le troisième élu était M. Caesius, notable local, vieil ami de l’orateur. 78 Cic. Mil. 10,27. V. M. Cebeillac-Gervasoni, Une relecture du S.C. de Lanuvium trouvé à Centuripe, dans Epigrafia Juridica. Actas del Coloquio Internacional A.I.E.G.L., Pamplona, 9-11 abril de 1987, Pamplona 1989, pp. 103-114 et pl. X. 79 Cic. Planc. 63. 80 CIL X 6017.
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T.P. Wiseman81 lui aussi impressionné par l’ampleur de ce phénomène, typique de la fin de la République, a suggéré qu’il s’agissait d’une mainmise de Rome sur les communautés locales; je serais plus nuancée, car il me semble qu’on devrait plutôt y voir les initiatives personnelles d’ambitieux qui recherchaient des soutiens soit en cas d’élections à Rome82, soit en cas de difficultés politiques, tellement banales dans ces temps troublés. On remarque que cette expérience fera école à l’initiative des princes; nombre d’entre eux revêtiront des magistratures dans des cités avec le souci de resserrer ainsi leurs liens avec les autochtones et d’honorer de manière apodictique le notable qu’ils choisiront comme préfet pour les remplacer et gérer à leur place les charges durant l’année que durait la fonction. 2.2.2.3. Il est possible que les domi nobiles se soient tournés vers des carrières urbaines pour retrouver la position de personnage au-dessus de la masse que les lois juliennes leur avait fait perdre dans leurs propres cités. E. Gabba a noté que la plupart des membres des aristocraties locales avant la généralisation de la civitas Romana à tous leurs concitoyens en 90/89, possédaient déjà à titre personnel la citoyenneté romaine; ceci leur donnait sûrement au sein de leur communauté un sentiment de privilège qui a disparu lorsque tous les hommes libres de ces cités sont devenus cives Romani. Les périodes troublées sont toujours et partout l’occasion pour les ambitieux de faire leurs preuves en devenant les hommes liges d’un leader en qui ils voient le futur vainqueur, ce qui devrait leur assurer à eux aussi une position dominante. 2.2.2.4. L’enrichissement personnel par accaparement des biens des proscrits Les terres confisquées dans des cités purent être distribuées à des vétérans (ainsi à Préneste et à Pompéi par Sylla) ou à des partisans qui surent se partager les biens des proscrits. Citons entre autres exemples celui des très riches propriété agricoles de Casinum dans le Latium méridional qui appartenaient à des élites locales; on les retrouve en possession de C. Quinctius 81
New men..., pp. 45-46. tous les ingenui de ces cités sont des citoyens dotés du droit de vote, certes difficile à exprimer si on est loin de l’Urbs, mais Rome est dans un rayon accessible pour les habitants du Latium et de la Campanie; par Cicéron on apprend que lui-même et plusieurs de ses clients ont été soutenus par la venue de citoyens dont ils étaient les voisins dans leur cité ou à la campagne. 82 Désormais,
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Valgus, beau-père du tribun de la plèbe P. Servilius Rullus qui proposait une loi agraire à laquelle Cicéron s’opposa avec vigueur. Cicéron83 reproche au tribun les biens mal acquis de son parent et il ne fait qu’allusion aux autres biens usurpés par le même partisan de Sylla et que l’on connaît grâce à des inscriptions, à Casinum84, à Pompéi85, Aeclanum86, Frigentum87 et sans doute en d’autres lieux dont on n’en a pas conservé trace. 2.2.2.5. La satisfaction des ambitions politiques par émergence à des carrières urbaines Prendre parti était certes «jouer à la roulette russe», mais sans doute n’avait-on pas le choix; on constate en effet qu’en dépit de tous les risques encourus par eux-mêmes, leurs proches et leurs cités, les membres des élites locales se sont très souvent déterminés pour un parti, ce qui signifiait en clair qu’on devenait hostile à un autre. Si on avait opté pour le parti du vainqueur, outre des avantages matériels, on pouvait aspirer pour soi-même et sa famille à une promotion politique. Nombre des partisans de César88 étaient d’obscurs personnages propulsés aux plus hauts niveaux par les guerres civiles et ces émergences de notables locaux vont se multiplier à partir de la victoire d’Octavien-Auguste. Cet héritier de César était aussi par sa mère un homme issu du milieu municipal des domi nobiles et son appel au soutien de la tota Italia n’a pas été vain. Il a su susciter l’adhésion de la «fleur» de la société aristocratique locale; les études prosopographiques qui, pour la fin de la République et le Principat, disposent de données épigraphiques beaucoup plus abondantes, montrent cette métamorphose qui va conduire à la naissance d’une nouvelle aristocratie. Une recherche que je viens de conduire89 83 Cic. leg. agr. III 14: habet publicos; reddam privatos. Denique eos fundos quos in agro Casinati optimos fructuosissimosque continuavit, cum usque eo vicinos proscriberet quoad oculis conformando ex multis praediis unam fundi regionem formamque perfecerit, quos nunc cum aliquo metu tenet, sine ulla cura possidebit. 84 CIL I² 1547 = X 5282 = ILLRP 565; il est cité comme patron d’un affranchi. 85 CIL I² 1632 = X 852 = ILLRP 645; C. Quinctius Valgus est duumvir quinquennal à Pompéi et ensemble avec son collègue M. Porcius, ils sont les généreux évergètes qui offrent aux colons [qui sont des vétérans que Sylla a installés à Pompéi en spoliant les ex-propriétaires] l’amphithéâtre et auxquels ils ont déjà donné quand ils étaient duumvirs le petit théâtre (dit odéon) (CIL I² 1633 = X 844 = ILLRP 646). 86 CIL I² 1722 = IX 1140 = ILLRP 523; il y est patron du municipe. 87 ILLRP 598, en tant que magistrat quinquennal, il organise une restructuration complète de l’urbanisme. 88 Voir entre autres exemples le cas d’Ostie où des Césariens revêtent les magistratures mais aussi des fonctions urbaines (v. les fastes d’Ostie CIL XIV 4531: années 48-44). 89 M. Cebeillac-Gervasoni, dans Epigrafia e epigrafisti, Roma 2008 (sous presse).
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sur les élites locales d’un certain nombre de cités de la Campanie m’a permis de réaliser que c’est auprès des notables de ces cités qu’Octavien a trouvé un réservoir de partisans fidèles; ce sont eux qui lui ont assuré un soutien sans faille en cas de difficultés. Ainsi, en 12, Auguste dut faire face à la grogne des jeunes de l’aristocratie sénatoriale90 qui refusèrent de se présenter comme candidats à certaines magistratures, comme le tribunat de la plèbe. Une loi permit une élection directe par le peuple sur des listes de candidats équestres qui possédaient le cens sénatorial, soit un million de sesterces; Mario Torelli91 a fait judicieusement le lien avec ces domi nobiles, tribuns de la plèbe, connus par des inscriptions trouvées dans des cités de Campanie; je pense que ces documents prouvent, si besoin était, l’allégeance au princeps des aristocraties campaniennes92 où, dans les mêmes années, ils avaient aussi revêtu des magistratures locales93. Auguste a su récompenser leur engagement et leur a offert la possibilité d’émergences rapides aux rangs équestre ou sénatorial94. Il ne s’agit plus de promotions aléatoires et sur un laps de temps relativement long, de deux à trois générations, comme c’était le cas à la fin de la République; désormais les émergences peuvent être brillantes et même foudroyantes pour ceux qui appartiennent au cercle des fidèles du princeps, comme Aulus Cottius, le questeur de Teanum Sidicinum qu’il faut sans doute identifier, comme le propose G. Camodeca95, au proconsul de Bétique homonyme, sous Auguste. D’autres cas sont flagrants comme celui de L. Lusius Saturninus, duumvir candidat à Nuceria, dont le fils est le consul de 41 de notre ère ou celui de M. Aedius Celer d’Allifae, sénateur dès Auguste ou Tibère, apparenté par sa mère à M. Granius Marcianus et à M. Granius Kanus, préteur proconsul.
90 Dion Cassius LIV 30,2. V. A. Chastagnol, La crise du recrutement sénatorial des années 16-11, dans Miscellanea di Studi Classici in onore di Eugenio Manni, II, Roma 1980, pp. 465-476 (republié dans Id., Le sénat romain à l’époque impériale, Paris 1992, pp. 49-56). 91 M. Torelli, Tribuni plebis municipali, dans Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, Napoli 1983, pp. 1397-1402. 92 Un texte de Suétone (Aug. 40) permet de savoir qu’à la fin de l’année de charge, ces magistrats urbains avaient la possibilité de revenir dans leur classe d’origine. 93 V. C. Tampius Sabeinus, candidat à Pompéi et tr.pl. (CIL IV 3872 = ILLRP 1143); A. Fabius, pompéien; Cn. Vesiculanus, duumvir iure dicundo à Teanum Sidicinum et tr.pl. (CIL X 4797). 94 G. Camodeca, La carriera e la famiglia di M. Aedius M.f. Ba[lbus?], per commendationem Ti. Caesaris Augusti consul ab Senatu destinatus (riedizione di CIL IX 2341+2343 e 2342), dans Studi in onore di Francesco Grelle, edd. M. Silvestrini - T. Spagnuolo Vigorita - G. Volpe, Bari 2006, pp. 27-37. 95 Voir pour les Fastes de Teanum daté de 8-7, G. Camodeca, Il primo frammento dei Fasti Teanenses (8-7 a.C.) e la prima colonia augustea di Teanum Sidicinum, dans G. Camodeca, I ceti dirigenti di rango senatorio, equestre e decurionale della Campania romana, I, Napoli (sous presse). Les Auli Cottii ne sont présents qu’à Teanum et à Délos.
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2.2.3. La voie vers l’una patria passe par la tota Italia du fondateur du Principat Octavien-Auguste va réussir à enraciner son pouvoir grâce à une restauration de la pietas et des plus anciennes traditions de la romanité; il sut récupérer à son profit l’importance des lieux de mémoire italiques qui avaient souvent subi des destructions avec la longue période des guerres civiles96. Le prince parvint à trouver le ciment pour l’una patria dans une exaltation du mos maiorum restauré et à porter à son terme la romanisation culturelle d’une grande partie de l’Italie97. Les élites locales, et tout particulièrement celles de la Campanie, vont adhérer sans beaucoup de réserve aux modèles proposés et à la nouvelle vision de l’espace romain. Les cités comme Pouzzoles98 où les gentes de l’aristocratie locale avaient répondu aux sollicitations du princeps adhéré au projet d’embellissement de leur cité sur le modèle des programmes urbains d’Auguste. L’empreinte est si prégnante que jusque dans le domaine très intime et familial on va retrouver chez les domi nobiles les signes incontestables de cette adhésion. On possède des preuves tangibles de cette adhésion avec des restes archéologiques non seulement pour des monuments publics construits sur impulsion de l’élite, mais aussi dans la typologie adoptée pour des monuments funéraires. Ainsi à Teanum, la décoration de l’autel funéraire des Vesiculani (frise dorique avec métopes à fleurons et triglyphes)99, tout comme l’autel dédiée à leur mère (avec frise dorique comportant bucranes et fleurons)100 ont été conçus, comme le souligne G. Camodeca dans son étude encore inédite, dans un contexte idéologique qui a amené la diffusion de ce modèle à partir de 30, dont une signification idéologique a été démontrée par Mario Torelli101. Avec les débuts du Principat, les liens des élites locales avec leur cité d’origine est toujours aussi fort et ils y poursuivent en général une action évergétique et ils continueront pendant tout le Haut Empire à y revêtir des magistratures locales. Cependant même si cette vie politique conserve une indéniable vivacité, de toutes façons les membres de l’aristocratie dirigeante vont se fondre dans un modèle proposé sinon imposé par Rome et son princeps qui représente cette tota Italia dont Ronald Syme102 avait su si bien comprendre et expliciter dans son magistral ouvrage la gestation et le triom96
Scheid, Rome... Torelli, Tota..., en part. pp. 11-13. 98 Camodeca, “Puteoli” 3 (1979), pp. 17-34. 99 CIL X 4797, 4819. 100 EE VIII 579. 101 M. Torelli, Monumenti funerari romani con fregio dorico, “DArch” 2 (1968), pp. 32-54. 102 R. Syme, The Roman Revolution, Oxford 1939. 97
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phe. Désormais, il y a une patrie unique et les attaches locales tout en restant essentielles ne peuvent plus être définies comme une petite patrie, concurrente de la grande.
Conclusion La politique engagée par Auguste va être poursuivie durant tout le Principat et sous les Julio-Claudiens, le sénat urbain a accueilli des membres recrutés auprès des élites de la péninsule. Les recherches prosopographiques récentes103 ont démontré que même Claude, dont on considère en général qu’il aurait favorisé l’entrée au sénat des élites gauloises104, a en fait promu des homines novi et choisi des consuls issus de familles originaires des zones de recrutement traditionnel de la péninsule105; comme pour le fondateur du Principat, l’élément déterminant qui motivait une promotion était la confiance envers des hommes liges. Ce n’est que sous les Flaviens que les provinciaux, de manière plus significative, vont intervenir dans les troubles civils et obtenir ensuite une émergence sur le modèle de ce que fut celle des Italiens à partir d’Auguste106; ainsi l’una patria va devenir peu à peu, au cours du IIe siècle, avec d’infinies variantes régionales, la règle pour les élites locales de l’Empire.
103 Voir la très fructueuse recherche de A. Tortoriello, I Fasti consolari degli anni di Claudio, “MAL”, s. 9, 17 (2004), pp. 393-693. 104 C’est une remarque de Sénèque (apocol. 3,3) qui a été largement extrapolée: constituerat enim omnes Graecos, Gallos, Hispanos, Britannos togatos videre. 105 Même en Italie, dans certaines regiones, on ne connaît aucun sénateur (regiones VIII et IX) et très peu dans les II, III et V, même la regio X est peu représentée, ce n’est qu’à partir des Flaviens que les Cisalpins arrivent en nombre (v. l’éloge de l’Italie par Plin. nat. III 39). 106 Voir par ex. entre autres très nombreux cas, l’émergence d’une famille de Fréjus, les Valerii Paullini, v. M. Cebeillac-Gervasoni - F. Zevi, Un nouveau préfet de l’annone connu grâce à une inscription inédite d’Ostie, dans Mélanges offerts au professeur Pierre Cabanes, éd. D. Berranger-Ausserve, Clermont-Ferrand 2007, pp. 363-372.
Epigrafia greca nell’Italia romana Federica Cordano
Premessa Un notissimo passaggio di Strabone (VI 253) indica in Taranto, Reggio e Napoli (questo l’ordine, forse geografico) le sole città greche dell’Italia che non si siano “imbarbarite”. Per ora non mi fermo tanto sull’interpretazione del verbo; tengo però a dire che forse aveva ragione Lasserre ad attribuire a Posidonio quella affermazione, oppure Sartori ad attribuirla ad Artemidoro, comunque ad un secolo prima, tanto che i tre nomi si trovano associati anche nel Pro Archia di Cicerone (3,5), proprio nello stesso senso (e nello stesso ordine), pur limitato all’attività teatrale e poetica. Vedremo quanto essa trovi riscontro nell’epigrafia. Gli stessi tre nomi ricorrono in Livio (XXXV 16), in un passo relativo al 193 a.C., importante per trovare il senso che li collega. Infatti le tre città sono socii navales e “fedeli da quando sono entrate in nostro possesso”: ciò che accomuna Reggini, Napoletani e Tarantini è di avere un importante porto, utile ai Romani per via della fedeltà di questi alleati. La situazione prospettata da Livio inizia con il secondo secolo a.C., anche se sarà migliorata da Augusto: ecco perché, piuttosto che a Strabone, penso alle sue fonti e soprattutto mi pare che l’importanza di quelle città non riposi tanto nel non essere “imbarbarite”, quanto nella loro posizione e funzione rispetto a Roma, soprattutto portuale. Le iscrizioni greche più interessanti per noi iniziano proprio nel II sec. a.C. e finiscono nel II o all’inizio del III d.C. Cicerone, nell’elencare le città che hanno concesso la cittadinanza al poeta Archia (ibid. 5,10), mette Locri dopo Reggio e prima delle altre due: questo non fa problema, non solo perché molte sono le città che ospitarono Archia, ma soprattutto perché abbiamo testimonianza della conservazione di istitu Commento
a Strabone VI 1,2 (Les Belles Lettres), p. 220. F. Sartori, Le città italiote dopo la conquista romana, in Atti del XV Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1975), Napoli 1976, pp. 83-137, part. 108. Strabone usa in questo caso i nomi di città e non dei cittadini, com’è uso per le città greche.
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zioni greche anche in città diverse dal breve elenco straboniano; e poi vedremo com’è interessante l’accostamento Reggio-Locri. Un’altra citazione ciceroniana (fin. I 3,7) dimostra che il non imbarbarimento di quelle tre città non vuol dire necessariamente il perseverare nell’uso della lingua greca: infatti Lucilio, citato da Cicerone, dice di scrivere per Tarantini, Cosentini e Siculi, cioè per i non greci, per i parlanti latino, rispettivamente, di Iapigia, Bruzio e Sicilia. Vedremo infatti una situazione epigrafica molto diversa a Taranto, rispetto a Reggio e Napoli: infatti intendo comunque seguire questo schema per riferire sulla sopravvivenza dell’epigrafia greca nell’Italia romana. Se poi, come molti hanno già fatto, si confronta il passo di Strabone, in particolare il verbo ejkbebarbarw`sqai, con un’altrettanto famosa frase di Aristosseno riportata da Ateneo (XIV 632a), quella relativa ai Posidoniati che si sono imbarbariti (ejkbebarbarw`sqai) con l’eccezione della sola grande festa greca “durante la quale ricordano quel loro antico linguaggio e le loro tradizioni” (ed Aristosseno aggiunge: “così anche noi dopo che i teatri si sono imbarbariti e si è gravemente corrotta la musica popolare dei nostri tempi, ci riuniamo in pochi e riandiamo col ricordo alla grandezza della musica di un tempo” [trad. L. Citelli]), abbiamo così, pur riferita ad età più antica, una buona introduzione a quanto troviamo nelle testimonianze epigrafiche in greco di quelle città, che per una gran parte appartengono proprio alle attività teatrali e alle feste, ai giochi e alle gare previsti, a coloro che vi partecipano e a coloro che vi sono preposti. Possediamo testimonianze, da città diverse da quelle tre, per la continuità nell’uso della lingua greca: un dato non trascurabile è, per esempio, il decreto “del senato e del popolo” di Velia per onorare C. Iulius Naso (SEG XVIII 417), databile tra il I a.C. e il I d.C., ed espresso nelle due lingue. Devo fare un’altra premessa importante: non parlo qui di Sicilia, non solo perché non è richiesto, ma perché in Sicilia la lingua greca rimane comunque quella prevalente fino al Tardo Impero, lo sanno tutti, le iscrizioni latine sono poche e sono solo nelle città! Però mi pare pertinente al nostro colloquio ricordare brevemente la cognatio fra Centuripini e Lanuvini. Noi abbiamo la copia di Centuripe, scritta in un greco dorico, a Lanuvio ci sarà stata la copia in latino, ma è molto utile sapere che persino per affermare di essere “latini”,
Quest’ultima è anche un socio navale (Pol. XII 5,2). A. Fraschetti, Aristosseno, i Romani e la “barbarizzazione” di Posidonia, “AION(Arch)” 3 (1981), pp. 97-115; A.G. Tsopanakis, Postilla sull’ejkbebarbarw`sqai di Strabone, “PP” 39 (1984), pp. 139-143; D. Asheri, Processi di “decolonizzazione” in Magna Grecia: il caso di Poseidonia lucana, in La colonisation grècque en Meditérranée occidentale (BEFAR 251), Roma 1999, pp. 361-370; E. De Juliis, Greci e italici in Magna Grecia, Roma - Bari 2004, pp. 53-60. F. Fanciullo, Latinità e grecità in Calabria, in Storia della Calabria, II, Roma 1994, pp. 671-703.
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gli abitanti di Centuripe, forse nel I sec. a.C., scrivessero in greco un documento ufficiale tanto rilevante per loro.
Reggio Reggio, Napoli e Taranto non sono le sole città greche dell’Italia meridionale ad aver conservato usi greci, però sono certamente le città più importanti dal punto di vista dei Romani, i quali giustamente vedono in esse le tracce dei costumi greci e gli usi ellenici che più interessavano i Romani erano le attività fisiche e intellettuali che si svolgevano nei ginnasi. Non è quindi un caso che alcune testimonianze scritte in lingua greca siano relative alla complessa organizzazione dei ginnasi, tre di Reggio, una di Petelia, due di Napoli. Alcune delle più importanti iscrizioni greche di Reggio della repubblica e del primo impero appartengono infatti a questa categoria: vi leggiamo i nomi personali perfettamente greci dei gimnasiarchi e del loro segretario, mentre possono essere latini quelli degli esperti nelle varie attività, naturalmente trasposti in greco. Nella suggestione di un passo della Vita Pitagorica di Giamblico si sono voluti vedere, nei due gimnasiarchi, gli eponimi della città10. Noi sappiamo invece che l’eponimo cittadino era unico, da un decreto (IG XIV 612) certamente precedente la costituzione del municipio, nel quale l’eponimo è il prytanis, ed anche dai numerosi bolli sui laterizi. Così pure i quattro arconti che onorano una signora che aveva beneficato il koinón dei technitai di Dioniso, vanno intesi, come hanno fatto la Lazzarini e la Le Guen11, quali rappresentanti del koinón stesso e non della città. G. Manganaro, Un senatus consultum in greco dei Lanuvini e il rinnovo della cognatio con i Centuripini, “RAAN” 38 (1963), pp. 23-44; A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma - Bari 1997, pp. 23-24. J.L. Ferrary, Philhellénisme et imperialisme. Aspects idéologiques de la conquete romaine du monde hellénistique (BEFAR 271), Roma 1988, pp. 511-527. M. Buonocore, Tradizione ed evoluzione grafico-formale dell’epigrafia greca d’età romana nell’area di Regium - Locri, in Miscellanea in onore di P. Marco Petta, Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata, 45 (1991 [1992]), pp. 229-254; M.L. Lazzarini, Sopravvivenze istituzionali e culturali greche nell’Italia romana, in S. Follet (ed.), L’hellénisme d’epoque romaine. Actes du colloque international à la mémoire de Louis Robert, Paris 2004, pp. 173-182, part. 176; L. D’Amore (ed.), Iscrizioni greche d’Italia. Reggio Calabria, Roma 2007. 10 G. Cordiano, La Ginnasiarchia nelle “poleis” dell’occidente mediterraneo antico, Pisa 1997, pp. 114 ss., in ciò giustamente contestato dalla Lazzarini cit. alla nota precedente. 11 M.L. Lazzarini, Un’iscrizione greca di Reggio: le associazioni di attori in età ellenistica, “Klearchos” 1979, pp. 83-96; B. Le Guen, Les associations des technites dionysiaques à l’époque hellénistique, Paris 2001, pp. 317-326.
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Si tratta naturalmente di associazioni nelle quali erano rappresentati tutti i mestieri collegati con le attività teatrali, ed organizzate con cariche religiose, civili e finanziarie: il koinón stesso, come nel nostro caso, emetteva decreti onorari, faceva dediche ai propri benefattori e nominava prosseni. In tali documenti l’eponimo doveva essere il sacerdote di Dioniso. Diversa la complessa titolatura nelle iscrizioni di età giulio-claudia, tutte scolpite su bassorilievi marmorei riferibili al culto di Apollo e di Artemide, che commemorano addirittura la fondazione della città. Sono bei monumenti che testimoniano la continuità linguistica e ci fanno conoscere una serie di magistrature pubbliche, ad iniziare da un prytanis kai archon ek ton idion / prytanis ek tou idiou kai archon pentaeterikós oppure prytanis kai archon kai agoranomos / prytanis kai archon pentaeterikós, come si vede nelle definizioni stesse, tutte strettamente legate alla vita municipale12. Ancora per Reggio, o per il territorio circostante, mi pare molto interessante ricordare due esempi di scrittura privata, entrambi graficamente diversi dalle iscrizioni ufficiali perché tendenti al corsivo: una defixio del II sec. d.C., nella quale sono stati tradotti in greco dei formulari latini13, e la famosa tegola di Péllaro14, forse del I sec. d.C., per l’immediatezza delle battute fra ceramisti, persone non necessariamente istruite, che parlano fra loro in greco, una lingua greca nella quale, anche qui, si è inserito un po’ di latino. Fra le iscrizioni private andrebbero menzionate le funerarie, però non intendo soffermarmi su questa categoria: mi limito a dire che anche in esse dal II sec. d.C. si insinua il formulario latino trasposto in greco. A Reggio prevale senza dubbio la lingua greca, mentre non è così nel resto del Bruzio. Vanno però tenute in conto alcune testimonianze dell’uso del greco fornite da città con prevalenza della lingua latina. Per esempio a Petelia, che certamente ha sostituito Crotone come punto di riferimento greco sullo Ionio, c’era anche un ginnasio almeno fino al I sec. a.C. (IG XIV 637); e ad un secolo dopo appartiene un’iscrizione bilingue15, la parte greca della quale è determinata dall’origine dei genitori del piccolo defunto, una famiglia di pantomimi, esercitanti cioè un’attività scenica di origine greca benché, secondo la tradizione, introdotta a Roma da Augusto.16 Si è detto all’inizio di un particolare rapporto fra Reggio e Locri, entrambe socii navales: la tradizione scrittoria è simile in queste città ed è certamen12 F. Costabile, Istituzioni e forme costituzionali nelle città del Bruzio in età romana, Napoli 1984; Id., Dalle poleis ai municipia nel Bruzio romano, in Storia della Calabria, II, Roma 1994, pp. 437-464. 13 M. Buonocore, Supplementa Italica 5, Regium Iulium n. 37, Roma 1989. 14 E. Lattanzi - M.L. Lazzarini - F. Mosino, La tegola di Pellaro (Reggio Calabria), “PP” 44 (1989), pp. 286-310. 15 M.L. Lazzarini, Pantomimi a Petelia, “ArchClass” 55 (2004), pp. 363-372. 16 Lazzarini, Sopravvivenze…, p. 179.
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te locale17. A Locri le iscrizioni greche non sono così numerose, però è di grande interesse l’architrave monumentale murato nel castello di Bovalino, con la memoria dei magistrati romani del municipio locrese18.
Napoli Sull’attività teatrale a Napoli siamo ben informati, per esempio da Seneca (epist. 76) e dalla plutarchea Vita di Bruto, nella quale si dice (21) che Bruto, dovendo organizzare degli spettacoli a Roma, si recò a Napoli per ingaggiare degli artisti19. E non ci meraviglia trovare che in questa città si scrive pubblicamente in greco fino all’inizio del III sec. d.C., ad esempio con i mesi espressi sia in greco che in latino. A Napoli prevale veramente la lingua greca, ed il motivo non può essere soltanto cercato nel maggior numero di parlanti quella lingua, perché nelle iscrizioni greche di età imperiale prevalgono i nomi latini trasposti in greco, siano essi personali che definizioni di cariche pubbliche, e, se non ci fossero alcune magistrature specifiche, sembrerebbe di trovarsi in una città dell’Asia Minore di età imperiale. Qui mi pare che si tratti di propaganda imperiale vera e propria: la città di Napoli doveva presentarsi come una città greca a coloro che vi si recavano per partecipare ai Sebastá e per assistervi, i partecipanti agli agoni dovevano arrivare a Napoli trenta giorni prima, durante il soggiorno venivano addestrati e ricevevano una diaria. L’introduzione di gare musicali e teatrali, forse avvenuta in un secondo momento, mettendo a rischio il paragone con le Olimpiadi, si può giustificare con l’importanza che esse avevano assunto nelle città greche d’Italia. In altre parole è un debito che i Romani pagavano alla grecità di Napoli (Miranda 54)20. Ci sono molti greci che vengono a Napoli dall’oriente per partecipare agli agoni, ed è intorno alle attività agonistiche che si concentra l’interesse imperiale. Gli Italikà Romaia Sebastà Isolympia sono stati fondati nel 2 d.C.21 in onore di Augusto, che vi assisteva anche nel 14, poco prima di morire. Da quel momento gli imperatori hanno avuto una partecipazione attiva nella vita pubblica di Napoli: di Nerone sappiamo che era spesso a Napoli e scelse quella città “quasi greca” (Tac. ann. XV 32,2) per esibirsi in teatro prima di 17
Buonocore, Tradizione…, p. 233. F. Costabile, Un nuovo apporto epigrafico alla storia di Locri Epizefiri in età romana, in “Klearchos” 1979, pp. 97-105 (data: prima dell’89 a.C.); Buonocore, Tradizione…, n. 25 (data: metà del I sec. a.C.). 19 Per le testimonianze cfr. Le Guen, Les associations..., II, pp. 36-38. 20 E. Miranda, Gli agoni in Napoli antica, Napoli 1985, pp. 390-392; Ead. (ed.), Iscrizioni greche d’Italia. Napoli, I-II, Roma 1990-1995, d’ora in poi citata solo con cognome e numero. 21 Per la data è importante Miranda 52. 18
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farlo in Grecia (Suet. Nero 20,2; 25,1; 40,4; Tac. ann. XIV 10; XV 33); e poi Claudio – oltre a partecipare ai Sebastá (Cass. Dio LX 6,1; Suet. Claud. 11,2) – vi fece rappresentare una commedia di Germanico in greco (Suet. Claud. 11,5); egli fu addirittura oggetto di dedica (Miranda 17), un busto di Claudio è offerto agli “dei Fratrii” (Miranda 16) e fra le categorie dei partecipanti alle gare ci sono i klaudianoì paides; per non parlare di Tito che fu agonothetes per tre volte (nel 70, nel 74 e forse nell’80: Miranda 19) e ricoprì la carica di demarco (Miranda 20)22 eponimo di Napoli, città a lui cara anche perché vi morì l’amato e famoso pugile Melankomas; e l’istituzione della fratria degli Antinoitai, sia essa autonoma o no, è certamente un omaggio all’imperatore Adriano, al quale venne attribuita persino la demarchia23. Come tutti sanno, i Neapolitani sono distribuiti in fratrie dai nomi prettamente greci24: questi gruppi sono particolarmente utili nella prima età imperiale, nella quale, a parer mio, esse sono state rinnovate con competenze diverse dagli istituti di quel nome creati con la fondazione della Neapolis25 e poi probabilmente accresciute di numero (Antinoitai): per esempio un’iscrizione forse di età augustea (Miranda 43) ci presenta una fratria che funziona come una piccola banca, gestisce i terreni, ha una sede specifica (oikos) nella quale si pratica il culto per la divinità eponima, sempre greca, a volte semisconosciuta, il che fa pensare a ricostruzioni che hanno voluto rinforzare le tradizioni greche26. Le cariche qui elencate (phretarcos, phrontistés, chalkologoi, dioiketaí 27) sono specifiche della fratria e quindi diverse da quelle cittadine, su cui tornerò. Ancora più interessante un decreto emesso dalla fratria degli Artemisioi (Miranda 44) del 194 d.C.28 per onorare un tale Munazio Ilariano, che ha provveduto ad abbellire a sue spese l’oikos della fratria: gli vengono offerte 50 particelle di terreno incolte, diverse da quelle date in affitto, ma lui ne accetta solo 15. È molto interessante che la fratria gestisca i terreni. Quel benefattore ha anche costruito un “tempio” per Artemide, eponima della fratria. Sono numerose le attestazioni epigrafiche dei culti praticati dal-
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Cordiano, La Ginnasiarchia…, pp. 57-60. G. Buchner - D. Morelli - G. Nenci, Fonti per la storia di Napoli antica, “PP” 7 (1952), pp. 370-419, part. 384. 24 M. Guarducci, L’istituzione della fratria nella grecia antica e nelle colonie greche d’Italia, “MAL” VI.1 (1937), 2 (1938); A. Mele, Neapolis. La città greca, in Napoli antica, Napoli 1985, pp. 103-108. 25 F. Cassola, Problemi di storia neapolitana, in Atti del XXV Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1985), Napoli 1986, pp. 37-81. 26 M. Giangiulio, Appunti di storia dei culti, in Atti del XXV Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1985), Napoli 1986, pp. 101-153. 27 “Procuratori”: unica attestazione di questo termine. 28 Data dei consoli corrispondente al secondo anno di Settimio Severo. 23
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le fratrie: fra di essi hanno gran parte quelli per i theoi phreatrioi in gruppo, oltre a quelli rivolti ai singoli eponimi. Nello stesso anno – 194 d.C. – Seia Sepeia vinse i Sebastá (Miranda 66) indicandoci la partecipazione femminile a questa manifestazione. Un altro gruppo esclusivo di partecipanti era quello dei “figli dei cittadini” – forse gli agheneioi, questa strana classe diversa dai paides e dagli andres? I recenti scavi a piazza Nicola Amore hanno prodotto una enorme quantità di iscrizioni relative ai Sebastá: sono stati già schedati – da Elena Miranda e la sua équipe – 1000 frammenti, anche molto piccoli: si tratta di 11 lastre alte 2 metri che tappezzavano il fondo di un portico per almeno 14 metri. Per ora ci sono 159 nomi di vincitori provenienti da tutto l’oriente mediterraneo. Fra le gare va segnalata la corsa con le fiaccole, finora non testimoniata epigraficamente, ma di importante tradizione napoletana. Tra le magistrature cittadine (Miranda 30, seconda metà del I sec. a.C.) vanno ricordate la misteriosa laucelarchia (Miranda 4), la demarchia che diventa eponima dopo l’89 (municipio), il grammateus (Miranda 84) e poi l’“arconte” e l’“antarconte”, che non possono essere i duoviri dal momento che non sono “pari”, l’arconte “pentaeterico” (Miranda 33), che ricorda il “pentaeterico” di Reggio, entrambi con funzioni censorie. Con Reggio si può lanciare un confronto anche sul numero delle assemblee, perché la terza assemblea pone sempre dei problemi (Miranda 82 e 84). L’onomastica personale è ancora mista fra fine repubblica e inizio impero, poi, salvo eccezioni, è onomastica latina trasposta in greco. A tale proposito è molto interessante un gruppo di decreti tutti del 71 d.C. (Miranda 81-86, fra i quali quelli famosi per Tettia Casta): sono interessanti per il formulario romano in lingua greca e anche per il ricorrere delle stesse persone, pur con ruoli diversi nelle diverse iscrizioni, che erano lastre di sepolture di uno stesso gruppo ma non familiare.
Taranto Se Napoli ha tutti i diritti di riconoscersi nella città di Petronio, fra i protagonisti della Cena l’armatore tarantino Lica, con la compagna Trifena, ben rappresenta il posto che Taranto aveva nell’immaginario culturale romano e nello stesso tempo suggerisce il ruolo che i Tarantini conservano nell’attività commerciale tra la Grecia e Roma29. Ricorrendo forzatamente alla documentazione archeologica, in particolare alle anfore da trasporto, noi troviamo a
29 Il più importante testo di riferimento è E. Lippolis, Fra Taranto e Roma. Società e cultura urbana in Puglia tra Annibale e l’età imperiale, Taranto 1997.
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Taranto nella prima metà del II sec. a.C. una grande quantità di bolli rodii, mentre dal 150 al 50 a.C. subentra una massiccia produzione locale di anfore-contenitori di vino e mi piace qui ricordare che Baldacci fu uno dei precursori di questi studi, anche se pensava all’olio30. È ora importante sottolineare che questa storia inizia dopo la guerra annibalica: certamente i cittadini che per salvare la propria casa dovevano scriverci sopra Tarantivnou lo facevano in greco, pure i Romani l’avrebbero saputo fare se non fossero stati minacciati di morte (Pol. VIII 31,4-5). Certamente la città si poi è svuotata di greci ed il ritorno di esuli avvenne in quantità trascurabile, come sappiamo dai vari Tarantini sparsi per la Grecia e l’Egitto31. Eppure mi pare arduo e fuorviante vedere, come è stato proposto da alcuni, in una città precocemente romanizzata un decadimento della cultura artigianale e artistica. Giustamente Floro (I 18,6) chiamava Taranto semigraeca civitas, ma questo non vuol dire che i Romani non apprezzassero il suo porto, il suo teatro e il suo ginnasio. Anche se la via Aemilia (187 a.C.?) taglia fuori Taranto, anche se Brindisi è una rivale incontenibile, il porto di Taranto rimane importante. Per questo e altri motivi (cremazione obbligatoria dalla fine del I a.C.) preferisco ancora la data scelta da Luigi Moretti32 per la cesura con la cultura greca, cioè il 90 a.C.: a prescindere da altre considerazioni, ricavabili dalla ricca cultura materiale dei secoli II e I a.C.33, questa data mi pare coerente con la fonte utilizzata da Strabone per la famosa frase da cui abbiamo cominciato, sia essa di Posidonio o Artemidoro34 . I ginnasi e i teatri sono certamente i luoghi di aggregazione della cultura greca, e lo sono persino a Taranto, città nella quale si parlava latino e della quale abbiamo pochissime iscrizioni greche: infatti, pur tenendo conto delle raccomandazioni di Rolhfs35 nel considerare la casualità dei ritrovamenti, 12 iscrizioni greche, comprese le bilingue, rispetto a 350 latine, sono veramente poche!
30 P. Baldacci, Importazioni cisalpine e produzione apula, in Recherches sur les amphores romaines, Roma 1972, pp. 7-28. 31 Sempre fondamentale J. Hatzfeld, Les trafiquants italiens dans l’Orient Hellénique, Paris 1919. 32 L. Moretti, Problemi di storia tarantina, in Atti del X Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1970), Napoli 1971, pp. 21-65, part. 62. 33 K.G. Hempel, La necropoli di Taranto nel II e I sec. a.C. Studi sulla cultura materiale, Taranto 2001; D. Graepler, La necropoli e la cultura funeraria, in Atti del XLI Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 2001), Taranto 2002, pp. 195-218. 34 Per Artemidoro fonte di Strab. VI 3, 9 (Siponto), cfr. Lippolis, Fra Taranto…, p. 28. 35 G. Rolhfs, Latinità ed ellenismo nei nomi di luoghi in Calabria, “Klearchos” 8 (1965), pp. 115129.
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Mentre le dediche agli dei di età repubblicana testimoniano l’uso della lingua greca, le due dediche a Taras sono una bella testimonianza del recupero delle tradizioni36. Ad un’associazione qui operante doveva essere legato Livio Andronico, il quale portò a Roma quelle tradizioni37, per non parlare di Rintone, che agì soprattutto a Taranto anche se qualcuno lo ha detto siracusano, in collegamento con gli artisti hilarodoi e hilarotragikoi38. L’istituzione greca della proedria, attestata a Taranto in iscrizioni latine di età imperiale (dedica di un liberto di Nerva)39, benché notevole testimonianza di tradizioni greche, non può essere che la proedria del teatro: la base proviene dalle terme Pentascinenses, che è parola greca. Ancora Moretti sottolineò come l’importante ruolo svolto dai nevoi nella guerra annibalica “si esaurì poi in attività essenzialmente ginnastiche”: del ginnasio abbiamo solo la testimonianza di Strabone, che non è poco, dal momento che lui stesso ha raccolto la testimonianza su Taranto da cui siamo partiti. La lex municipii Tarentini prevedeva una ricostruzione della città40, gli interventi urbanistici a noi noti sono però quelli di età augustea. Nel I sec. a.C. il tempio dorico di S. Domenico venne restaurato, come ricorda un’iscrizione latina ancora inedita41. Ed Ottaviano-Augusto ha lasciato a Taranto molti ricordi: Ottaviano ne utilizzò il porto come base navale contro Sesto Pompeo; ne ebbe il patronato se, come credo, ha ragione Marta Sordi, nell’interpretare l’iscrizione “cesarea” pubblicata da Gasperini42; ed infine, nel 19 a.C., egli trasportò a Roma la statua della Nike, per dedicarla nella ricostruzione delle curia, forse con il consenso dei Tarantini. Se il formulario delle iscrizioni latine di Taranto ha risentito di quello greco43, sulle pochissime tracce della grecità tarantina di età romana hanno comunque insistito alcuni studiosi, in particolare Lidio Gasperini: oltre alle iscrizioni già citate, è importante la dedica bilingue di una aedicula / naiskos per Artemide da parte di Aulus Titinius, precedente il municipio, e forse an36 M. Nafissi in E. Lippolis - S. Garraffo - M. Nafissi, Culti greci in Occidente: fonti scritte e documentazione archelogica. 1. Taranto, Taranto 1995, pp. 235, 277, tavv. XXXIII, LIX. 37 Lazzarini, Un’iscrizione…, p. 94. 38 M. Gigante, 1988; Le Guen, Les associations…, II. 39 P. Orsi, “Not. Sc.” (1896), p. 110; A. Sogliano, “Not. Sc.” (1897), p. 68; cfr. L. Gasperini, Ancora sul frammento cesariano di Taranto, “Epigraphica” 33 (1971), p. 53 e n. 16. 40 M. Pani, Politica e amministrazione in età romana, in Storia della Puglia, I, Bari 1979, pp. 83-124. 41 E. Lippolis in Lippolis - Garraffo - Nafissi, Culti…, p. 65. 42 L. Gasperini, Su alcune epigrafi di Taranto romana, “MGR” 2 (1968), pp. 379-397; M. Sordi, Ottaviano patrono di Taranto nel 43 a.C., “Epigraphica” 31 (1969), pp. 79-83; Gasperini, Ancora…, pp. 48-59. 43 Sartori, Le città…, pp. 118-122.
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che la colonia: è un testo in greco “dorico”44; mentre non è più in dorico la funeraria bilingue del II sec. d.C., e quindi testimonianza di filoellenismo letterario45.
Conclusione Ancora dalla lex Tarentina apprendiamo che, “diversamente da Napoli e Reggio, Taranto non conserva le istituzioni elleniche”46: questo conferma che la similitudine con le altre città non è dei tempi di Strabone, appartiene bensì ad una tradizione antica, forse più antica delle fonti dirette del geografo, ma è viva nella cultura romana, attraverso modelli culturali assunti dalla stessa Roma e trasmessi anche in lingua latina: basti pensare ai “ginnasi” di Cicerone a Tusculum chiamati l’Accademia e il Liceo. Più tarda, ma non meno significativa, è stata l’introduzione dei concorsi greci a Roma, sono i Capitolia di Domiziano47, che non sostituiscono i Sebastá napoletani. Il caso di Napoli rimane infatti eccezionale, perché lì i Romani vogliono avere una vetrina, ove si manifesta tutto ciò che di greco si poteva fare, dalle gare alle scritture che le ricordano. Concludo con questo per sottolineare che non si tratta qui di espressione di conservatorismo, di difesa di identità o cose del genere, ma di una nuova creazione, che ha lo scopo di far vedere al mondo che anche in Italia si sapeva “giocare” alla greca!
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L. Gasperini, Il municipio tarentino, “MGR” 3 (1971), pp. 143-209, part. 155-156. L. Gasperini, Epitaffio mistilingue in età imperiale a Taranto, in “Ricerche e studi” 12 (1979), pp. 141-151. 46 Costabile, Istituzioni…, p. 139. 47 Ferrary, Philhellénisme..., pp. 519-520. 45
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Cette question peut paraître provocatrice dans la mesure où les populations samnites ont été vaincues au tout début du IIIème siècle av. J.-C., et que l’on peut considérer qu’il n’existe plus, ethnographiquement, d’entité samnite à l’époque d’Auguste, et même depuis la date symbolique représentée par la bataille de la porte Colline, en 82 av. J.-C., qui vit les – prétendus – Samnites de Pontius Telesinus se montrer menaçants aux portes mêmes de Rome. Certes, la qualité de région de l’Italie semble acquise pour le Samnium au Ier siècle av. J.-C., mais cela va de pair avec une disparition progressive des caractéristiques antérieures du peuple samnite, largement romanisé. Cependant le démembrement de l’ancien Samnium lors du découpage administratif opéré par Auguste avec la création des regiones indique combien la présence de l’ennemi que Rome a eu tant de mal à vaincre entre le milieu du IVème siècle et le début du IIIème siècle av. J.-C. dans l’Italie nouvellement unifiée n’est pas indifférente dans la mémoire collective romaine et dans l’idéologie augustéenne. Et le corpus des témoignages littéraires, constitué essentiellement de textes de l’extrême fin de la République et de l’époque du principat, montre également que la notion de Samnites n’a pas entièrement disparu de l’imaginaire romain, et même que le nom sous lequel sont regroupées les différentes branches de population de l’Italie centrale Cet article développe des éléments d’une thèse de doctorat soutenue en 2001 et qui doit paraître prochainement aux presses de l’Ecole française de Rome. Cf. Liv. per. LXXXVIII; Vell. II 27,2. Cf. Cic. rep. III 4. Cf. les différentes contributions réunies dans Sannio. Pentri e Frentani dal VI al I sec. a.C., Atti del convegno, 10-11 novembre 1980, Campobasso 1984. Le Samnium correspond grosso modo à la région IV mais déborde dans la regio II (pour l’Hirpinie) et la regio I. Cf. les remarques de H. Galsterer, Regionen und Regionalismus im römischen Italien, “Historia” 43 (1994), pp. 306-323, p. 313: «Angesichts des gleich zu konstatierenden parallelen Befundes im Gallierland scheint es mir warscheinlicher, dass der Name der Samniten hier bewusst unterdrückt wurde. (...) Samniten und Gallier gehörten sichtlich nicht zu den Stämmen, deren Erinnerung im augusteischen Italien gepflegt werden sollte».
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possède une valeur riche d’un arrière-plan idéologique prégnant et complexe. Les Samnites, qui n’ont laissé aucune œuvre littéraire propre, n’existent pour nous, mais déjà pour les Romains de l’époque d’Auguste, que dans l’image qui est la leur à travers les textes latins. Les récents travaux d’E. Dench ont bien étudié la manière dont les textes de l’époque d’Auguste témoignent d’une transformation complète de l’image des Samnites, Barbares vivant de rapines et devenus les modèles d’une austérité nouvelle, celle de la Rome des temps héroïques de la République. Nous ne reprendrons pas les étapes de son analyse mais observerons comment, chez Tite-Live, les deux images des Samnites, celle du Barbare n’ayant pas atteint le degré urbain de civilisation et celle de l’Italien vertueux, coexistent et reflètent les ambiguïtés des représentations ethnographiques de l’époque d’Auguste. *** Les Samnites sont donc d’abord, pour Tite-Live, définis comme un peuple qui habite la campagne et non la ville. Le passage fondamental est constitué par une distinction opérée entre les habitants des plaines littorales et les Samnites, présentés par Tite-Live comme montani atque agrestes: Nam Samnites, ea tempestate in montibus uicatim habitantes, campestria et maritima loca, contempto cultorum molliore atque, ut euenit fere, locis simili genere, ipsi montani atque agrestes depopulabantur. Car les Samnites, habitant à cette époque dans les montagnes, de manière dispersée, par bourgades, pillaient les régions de plaine, sur la côte; ils méprisaient, eux qui étaient de rudes montagnards, le tempérament plus indolent de leurs habitants, qui était assorti, comme cela arrive souvent, à la nature des lieux.
Le lien entre la qualité de montani et agrestes des Samnites et la vie de rapines qu’ils mènent et qui paraît définir leur économie est l’aspect le plus frappant du texte. Il permet de suggérer la dimension redoutable10 d’un en
Ou encore dans l’imagerie des gladiateurs, cf. infra. Cf. E. Dench, Images from Italian Austerity from Cato to Tacitus, dans Les élites municipales de l’Italie péninsulaire des Gracques à Néron. Actes de la table ronde de Clermont-Ferrand (28-30 novembre 1991), Napoli - Roma 1996, pp. 247-254; From Barbarians to New Men. Greek, Roman and Modern Perceptions of Peoples of the Central Apennines, Oxford 1995. Son livre le plus récent, Romulus’ Asylum, Oxford 2005, reprend de manière plus générale le problème de l’ethnographie romaine. Liv. IX 13,7. On trouvera un analyse des termes employés dans S.P. Oakley, A Commentary on Livy, Books VI-X, III, Oxford 2005, pp. 153-154, qui rapproche l’adjectif montanus de la sphère du sordide et du brutal, à partir d’un passage des Métamorphoses d’Apulée relatif à l’amour de Cupidon pour Psyché. Ce rapprochement a posteriori ne nous semble cependant pas décisif. 10 Les Samnites constituent l’ennemi le plus difficile à vaincre et le plus dangereux pour Rome dans sa conquête de l’Italie, comme suffit à l’indiquer la réflexion de Tite-Live sur la longueur des guerres
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nemi qui se manifeste par des «raids» imprévisibles et révèle l’affirmation d’une pénétration brutale des Samnites dans les plaines lors de razzias sauvages, mais il rend compte de manière rigide d’une réalité plus complexe, celle d’une acculturation qui marque profondément certains pans au moins de ces sociétés, celles des campestria loca comme celles des montani. Cette présentation des Samnites comme montagnards et étrangers à l’organisation urbaine correspond-elle à la réalité? En fait, cette analyse surprend dans la mesure où Tite-Live cite ailleurs des urbes samnites11, en particulier Bouianum12, dont la nature de centre urbain est suggérée13. Le manque de précision dans l’évocation du territoire occupé par les Samnites peut tenir au fait que ceux-ci, à la lecture de TiteLive, apparaissent d’abord pour Rome comme une force militaire à affronter, avant de correspondre à une ethnie et avant que la région elle-même ne s’impose dans une définition géographique claire14. Cette opposition renvoie aux concepts opératoires dans la pensée ethnographique grecque, pour les deux aspects envisagés ici: d’une part, leur habitat dispersé (uicatim habitantes), de l’autre, leur appartenance à une terre de montagne (in montibus … habitantes et montani atque agrestes, ce dernier adjectif renvoyant plutôt à la ruralité de leur organisation sociale). La première section de la description livienne peut être rapprochée d’une analyse ethnographique qui se trouve exprimée chez Thucydide: dans la conception de l’historien grec, la constitution de la polis correspond à la troisième et dernière étape d’un processus de développement de la civilisation dont les deux premiers stades sont constitués successivement par le nomadisme puis le regroupement en bourgades (kata; kwvma~)15. La référence à ce texte est étayée par la notice de Strabon relative au uer sacrum et qui présamnites, en X 31,10-15: le récit est long, plaide l’historien, mais comment se désintéresser d’un ennemi aussi acharné? Une admiration pour le courage samnite apparaît dans ce texte. 11 Cf. Liv. X 17,3 (Murgantiam, ualidam urbem); 17,6 (Romuleam urbem). 12 Liv. IX 44,14: Bouianum urbs. 13 Cf. Liv. IX 28,1; 31,4 (Bovianum est la très opulente capitale des Pentri); X 12,9; 41,11; 43,15. 14 Cf. V. Sirago, Il Samnium nel mondo antico. Storia di un territorio, “Samnium” 1988, p. 48 sqq., qui rappelle cependant que le nom Samnium apparaît pour la première fois dans l’éloge des Scipions (Taurasia Cisaunia Samnio cepit) et que le Samnium est présenté nettement comme un territoire qu’il faut ravager, en VII 32 et XXIV 20. 15 Thuc. I 5,1; 2,1-2 (ce passage est relatif à la piraterie, dont le succès passé est expliqué par l’absence de poleis, les bourgades étant dépourvues de remparts); la fondation des villes en bordure de mer n’intervient que plus tard (cf. I 7). Cf. A.W. Gomme, A Historical Commentary on Thucydides, I, Oxford 1945, p. 100: la polis envisagée comme stade intermédiaire est une communauté de bourgades reliées de manière lâche, antérieurement au synœcisme, sans que l’unité politique ni le regroupement de l’habitat aient eu lieu: cf. I 10,2, sur le synœcisme. Cf. aussi l’analogie entre la présentation de l’implantation des premières colonies en des lieux, comme les îles, plus protégés que les sites littoraux: cf. Thuc. I 7; Liv. VIII 22,6.
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sente les Opiques, prédécesseurs des Samnites, comme habitant kwmhdovn, par bourgades16. Le terme semble être le correspondant de l’adverbe uicatim choisi par Tite-Live, mais la conception de Strabon semble plus complexe, puisque ce ne sont pas les Samnites, mais ceux qu’ils ont chassés qui avaient, selon Strabon, ce mode de vie. Un peu avant ce passage, le géographe mentionne quelques villes samnites – Bovianum, Isernia, Panna, Telesia –, dont il affirme qu’elles ne méritent plus ce titre mais celui de bourgs, mais auxquelles il accorde une existence antérieure de povlei~17. Il semble donc que les Samnites soient passés au stade urbain, ce que confirme dans le récit du uer sacrum la place jouée par le taureau, qui fonde l’étiologie du nom de la ville de Bovianum: par la fondation de cette ville, les Samnites deviennent même, dans le récit du uer sacrum, ceux qui apportent la civilisation; Strabon luimême invite son lecteur à le penser en précisant qu’une telle pratique est le fait aussi de peuples grecs18. Pour Tite-Live au contraire, la dynamique du passage à l’organisation urbaine n’existe pas pour les Samnites et la partition ethnographique demeure le seul schéma d’analyse. Tite-Live propose un niveau intermédiaire de civilisation qui semble dans une certaine mesure correspondre à la réalité telle que l’archéologie et l’épigraphie ont pu nous la faire connaître19. L’oppidum d’une part, le uicus et le pagus de l’autre ont constitué la forme d’organisation sociale majeure des Samnites20 et des peuples d’Italie méridionale. Mais ces noms, loin d’être équivalents, désignent sans doute des réalités sociales distinctes, que Tite-
16 Cf. Strab. V 4,12. En V 3,2, Strabon utilise le même terme pour définir la situation des peuples indigènes de l’Italie au moment de la fondation de Rome. 17 Cf. Strab. V 4,11. Pour le géographe, les Romains ont précisément essayé d’affaiblir, et même de briser les centres urbains des Samnites: c’était là un aspect essentiel de la tactique engagée pour combattre un adversaire aussi pugnace. La force d’un peuple est liée pour Strabon à la concentration des habitants dans des villes. 18 Strab., loc. cit. Sur l’«hellénisation», à travers l’intervention en particulier d’Apollon dans le récit, de la tradition du uer sacrum, cf. J. Heurgon, Trois études sur le uer sacrum, Bruxelles 1957, p. 20 sqq. 19 Cf. C. Letta, Oppida, uici, pagi in area marsa: l’influenza dell’ambiente naturale sulla continuità delle forme di insediamento, dans M. Sordi (éd.), Geografia e storiografia nel mondo antico [“Contributi dell’Istituto di Storia Antica” 14], Milano 1988, p. 217 sqq. Mise au point récente dans I. Rainini, Modelli, forme e strutture insediative del mondo sannitico, dans Studi sull’Italia dei Sanniti, Roma 2000, pp. 238-254. 20 Sur la distinction entre ces types d’habitat samnite, cf. E.T. Salmon, Samnium and the Samnites, Cambridge 1967; C. Mergen, Peuples italiques en face de Rome: les Samnites vus par Tite-Live, “BAL” 9 (1978), pp. 34-83, p. 47 sqq. pour l’inventaire des centres urbains samnites cités par Tite-Live. L’association entre le type d’habitat et l’organisation politique des Samnites est étudiée par C. Letta, Dall’oppidum al nomen: i diversi livelli di aggregazione politica nel mondo osco-umbro, dans Federazioni e federalismo nell’Europa antica (Bergamo, 21-25 settembre 1992), Milano 1994, pp. 387-405. Bilan récent sur la question dans Dench, From Barbarians…, p. 130 sqq., et, spécifiquement sur ce sujet, S.P. Oakley, The Hill-Forts of the Samnites, London 1985.
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Live n’envisage pas: la mention dans les sources latines d’un oppidum paraît renvoyer à l’existence d’un centre défini par la présence d’une enceinte fortifiée et qui n’est pas nécessairement urbain; celle d’un uicus ou d’un pagus fait référence à un habitat dispersé, qui relève du hameau ou du domaine agricole. À cette divergence de modes de vie correspond un clivage social, suggéré par Strabon qui décrit les éléments démocratiques mais aussi oligarchiques du système politique lucanien21; ce clivage est confirmé par le témoignage récent de l’archéologie: l’étude des nécropoles relatives à ces deux formes d’habitat a permis d’établir que, tout au moins au cours du IVe siècle, les oppida concentraient les éléments aristocratiques – leur hellénisation ayant pu tout naturellement les amener à adopter ce mode de vie22 – tandis que uici et pagi étaient peuplés de «classes intermédiaires» marquées par une idéologie conservatrice et le maintien d’un modèle social traditionnel23. En fait, bien qu’il emploie des termes distincts, Tite-Live n’en précise pas les nuances de sens et tend surtout, dans notre texte, à distinguer les Samnites des Grecs habitant l’Italie centro-méridionale. Il faut remarquer que tous les peuples non-grecs ne sont pas définis comme montani atque agrestes par Tite-Live et il n’est d’ailleurs pas du tout évident que le texte renvoie, en mentionnant les habitants des campestria et maritima loca, aux colonies grecques: il désigne plutôt les populations indigènes des plaines littorales, en particulier de la zone d’Arpi. L’historien signale plusieurs villes apuliennes24, ou bruttiennes25 – bien que celles-ci soient qualifiées, pour l’époque des guerres puniques, d’ignobiles ciuitates, urbes, ou, de manière indistincte, d’ignobiles populi26 21
Cf. Strab. VI 1,3, qui utilise ici sans doute Timée. Comme l’indique Letta, Dall’oppidum… 23 Cf. pour la Lucanie, M. Torelli, Da Leukania a Lucania, dans Da Leukania a Lucania. La Lucania centro-orientale fra Pirro e i Giulio-Claudii, catalogo della mostra, Venosa, 1992-93, Roma 1992, pp. XIII-XXVIII. La divergence sociale à laquelle correspond l’existence des deux types d’habitat est mise en lumière par l’exemple majeur de Roccagloriosa (peut-être la Pixunte lucanienne) pour la forme de l’oppidum et celui de Chiaromonte pour celle du uicus. 24 Cf. Lucérie, présentée clairement comme un centre urbain. 25 Cf. Pandosia en VIII 24. A propos de la structuration politique des Bruttiens et de leur organisation en «poleis» ou en «bandes», le niveau fédéral ne semblant en fait pas atteint, cf. P.G. Guzzo, Il politico fra i Brezi, dans M. Tagliente (éd.), Italici in Magna Grecia, Roma 1990, pp. 87-92. 26 Cf. Liv. XXIX 38,1: eadem aestate in Bruttiis Clampetia a consule ui capta, Consentia et Pandosia et ignobiles aliae ciuitates in dicionem uenerunt («le même été, le consul enleva Clampetia par la force, et Consentia, Pandosia et d’autres cités moins connues se rendirent d’elles-mêmes»). Sur les problèmes posés par l’identification de ces dernières ciuitates, cf. P. François, Tite-Live. Livre XXIX, Paris, 1994, p. 151 n. 1. Cf. aussi Liv. XXV 1,1: ipsorum interim Sallentinorum ignobiles urbes…; XXX 19,10: ...Consentia, Aufugum, Bergae, Besidae, Ocriculum, Lymphaeum, Argentanum, Clampetia multique alii ignobiles populi. L’épithète n’a pas dans ces textes de sens péjoratif; comme le rappelle G. Nenci, Atti del convegno nazionale sui lessici tecnici delle arti e dei mestieri. Cortona, 1979, Firenze 1979, pp. 174-175, l’adjectif doit être mis en parallèle avec le grec asêmos et renvoie à l’absence de monnayage propre dans ces ciuita22
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– ainsi que des ciuitates lucaniennes27: la nature de ville, ou la qualité seulement tribale de ces centres ne peut être affirmée, mais le rassemblement des témoignages permet de penser que c’est la présence d’une enceinte protégeant l’habitat qui définit, dans la conception antique comme dans l’analyse des Modernes, l’organisation urbaine28. Mais si les termes de uicus, pagus et oppidum semblent indistincts chez Tite-Live, la mention de ciuitates italiques n’est pas indifférente: elle suggère le passage à une structuration politique fédérale et non plus cantonale des peuples, par exemple des Lucaniens. Ce phénomène, dont Tite-Live rend plus explicitement compte en citant les magistratus de ce peuple, laisse à voir l’évolution de l’image des populations italiques dans l’historiographie latine: cette description les conduit à échapper à une caractérisation qui les assimile à des Barbares et à bénéficier des aspects positifs, comme civilisés, des traits propres aux Grecs29. On aboutit en quelque sorte à un statut intermédiaire des peuples sabelliques, défini par l’existence d’une organisation précise de la société, qui apparaît nettement chez Strabon30: le géographe met en évidence la singularité – perdue, constate-t-il, à l’époque où il écrit, mais réelle autrefois – a de leurs susthvmata respectifs31: l’attention apportée par le géographe aux organes politiques des peuples italiques montre qu’ils ne relèvent pas pour lui de la catégorie ethnographique des véritables Barbares, qui sont pour Strabon caractérisés par leur apparence physique et leur férocité32, mais des populations indigènes évoluées. *** L’autre élément d’analyse dans le récit de Tite-Live paraît plus fondamental que le premier, et introduit une séparation non plus matérielle mais motes. Il est certain que cette présentation des peuples et ciuitates indigènes comme ignobiles constitue une ligne de partage entre cités grecques et cités italiques pour Tite-Live. 27 Cf. Liv. VIII 24. 28 Cf. le célèbre passage de Thuc. I 2,2; cf. Y. Garlan, Fortifications et histoire grecque, dans J.-P. Vernant (éd.), Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Paris 1968, p. 255. 29 Sur ce point, cf. infra. 30 Cf., à propos de la notion de cité-Etat chez Strabon, S. Bourdin, Denys d’Halicarnasse et l’ethnographie de l’Italie, “Pallas” 53 (2000), pp. 205-239, spéc. p. 216. 31 Cf. Strab. VI 1,2. Le terme de suvsthma est traduit par F. Lasserre par le mot «organisation politique». 32 Celtes et Germains sont présentés selon ces deux critères (cf. VII 1,2). Sur cette conception des peuples barbares chez Strabon et sur la supériorité des Italiques dans la hiérarchie ethnographique du géographe, cf. E. Van Der Vliet, L’ethnographie de Strabon: idéologie ou tradition?, dans Strabone. Contributi allo studio della personalità e dell’opera, II, Perugia 1986, pp. 187-259: le géographe établirait, à l’intérieur des deux grands groupes constitués d’une part par les peuples barbares, de l’autre par les peuples civilisés, groupes distincts mais non antinomiques, une échelle des stades d’évolution auxquels se situent les différentes populations décrites.
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rale entre les Samnites et leurs voisins: c’est l’opposition entre la montagne et la côte, qui détermine la différence de leurs genres de vie et même de leur nature, opposition que l’on retrouve aussi chez Strabon33. Pour l’historien l’hostilité entre Grecs et indigènes est moins forte que l’opposition entre les habitants de la plaine et ceux des montagnes34, et, comme le remarque F. Coarelli, l’aristocratie daunienne ne se présente pas pour les Romains sous le même jour que l’ennemi samnite35. Les conditions géographiques différentes dont jouissent ces deux groupes humains justifient de fait la divergence de leur économie et donc de leur mode de vie: les contraintes dues au relief, qui empêche l’exploitation systématique du sol36 et le manque de ressources naturelles conduisent les Samnites à mener une vie de pillages37 et de rapines38, opposée à la prospérité commerciale des villes côtières, favorisée par leur situation39. Cet antagonisme se manifeste plus exactement, dans le texte de Tite-Live, par l’opposition entre économie pastorale et économie agricole. Même si la première est expliquée par les conditions géographiques et climatiques, elle est une marque de primitivisme, et se voit associée par les sources antiques aux notions de pauvreté, de marginalité et d’incapacité à accéder au stade urbain40.
33 L’inventaire des différents aspects sous lesquels se manifeste l’antithèse barbarie / civilisation est rassemblé par P. Thollard, Barbarie et civilisation chez Strabon, Paris 1987, pp. 8-11: l’opposition entre la montagne et le littoral et les couples qui lui sont associés en fait partie (cf. pp. 8-9). Cette analyse vise surtout à démontrer le caractère barbare des populations du nord de l’oikoumène, mais elle est appliquée aux Samnites au livre VI, qui traite l’Italie. Les Grecs, bien qu’ils habitent un pays de montagnes, échappent à la barbarie car ils ont une provnoia les incitant à la vie sociale (II 5,26). 34 Cf. IX 13,7, texte cité supra. 35 Cf. les remarques de F. Coarelli, Colonizzazione e municipalizzazione: tempi e modi, “DA” 1-2 (1970-1971), pp. 21-30, qui rappelle que les princes d’Arpi obtiennent en 326 l’aide de Rome contre les Samnites, et que ces anciens liens sont rappelés pour 214, au moment où la fidélité de la ville envers Rome paraît vaciller: cf. XXIV 47. 36 Plusieurs sources rappellent que le Samnium a constitué une zone de passage (par exemple vers les saltus Metapontinos: cf. Varro rust. II 9,6 et l’Apulie) dans les mouvements de transhumance, phénomène qui a été largement étudié: cf. A. Grenier - E. Gabba - M. Pasquinucci, Strutture agrarie e allevamento transumante nell’Italia romana (III-I sec. a.C.), Pisa 1979. 37 Cf. Thollard, Barbarie…, p. 9: chez Strabon rigueur des lieux, pillage, brigandage et guerre continuelle définissent l’économie et le mode de vie barbares, tandis que qualité des lieux, paix et agriculture constituent la civilisation. Cf. aussi p. 13 pour le «cercle vicieux» de la barbarie selon Strabon. 38 Liv. IX 13,7: depopulabantur; VII 30,12: nefarium latrocinium Samnitium. 39 Cf. G. Franciosi, Osservazioni sulle strutture sociali dei Sanniti, dans Atti del convegno di studi SAFINIM. I Sanniti: vicende, ricerche, contributi, Agnone, marzo 1992, Isernia 1993, pp. 35-65, à propos de l’économie samnite. Bilan sur les échanges commerciaux dans les centres indigènes de Daunie au Ier siècle, mais aussi après la deuxième guerre punique dans M. Mazzei - J. Mertens - G. Volpe, Aspetti della romanizzazione della Daunia, dans Basilicata. L’espansionismo romano nel sud-est d’Italia. Il quadro archeologico, Venosa 1990, pp. 171-191. 40 Cf. B.D. Shaw, Eaters of Flesh, Drinkers of Milk, “AncSoc” 13-14 (1982-1983), p. 5 sqq.
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Elle est ainsi appliquée à la Rome des primordia41; surtout, elle a été présentée par les Modernes comme un trait essentiel de l’existence des populations d’Italie centrale42. La rudesse des montagnards (montani atque agrestes) contraste donc avec l’indolence des habitants des plaines (cultorum molliore), selon une opposition qui se trouve déjà exprimée par Hérodote43 et qui est ici appliquée au cas de l’Italie méridionale. Tite-Live paraît ici reprendre la théorie de l’influence des conditions physiques et climatiques sur le naturel des habitants, que l’on doit au traité Peri; ajevrwn, uJdavtwn, tovpwn44, et dont témoigne, de manière sans doute indépendante, Hérodote45. Elle a été retravaillée au début du Ier siècle par Poséidonius46, qui peut être ici la source de Tite-Live: dans son Peri; ∆Wkeanou`, le stoïcien énonçait un lien causal entre la situation géographique et le climat d’un lieu d’une part, et la flore, la faune ainsi que le naturel et les mœurs de ses habitants de l’autre. Strabon remet en cause un tel déterminisme47, tandis que Tite-Live semble l’accepter. À côté du cas des peuples d’Italie méridionale, l’historien applique, dans son fameux «excursus gaulois», cette caractérisation aux Rhètes des Alpes, anciens Étrusques rendus farouches par l’âpreté de la montagne: la nature des lieux a infléchi les dispositions naturelles d’un peuple48. D’autres passages célèbres de la première décade de Tite-Live, que nous n’examinerons pas ici, insistent plus directement sur la dimension de barbares des Samnites, en en faisant ressortir certains traits frappants: l’un est d’ordre visuel, puisque les adversaires des Romains sont caractérisés par la splendeur rutilante de leur armement, leur opulentia49, qui manifeste finale41 C. Ampolo, Rome archaïque: une société pastorale?, dans C.R. Whittaker (éd.), Pastoral economies in Classical Antiquity [“PCPhS” suppl. 14], Cambridge 1988, p. 120 sqq., remet en cause cette interprétation. 42 Cf. Dench, From Barbarians…, pp. 111-113. 43 Cf. Hér. IX 122. 44 Airs, eaux, lieux, chap. 12-24, les développements précédents associant seulement telle ou telle pathologie et telle ou telle pratique thérapeutique à la situation et au climat d’une cité. Cf. K. Trüdinger, Studien zu der Geschichte der grieschich-römische Ethnographie, Basel 1918, p. 37 sqq.; K.E. Müller, Geschichte der antiken Ethnographie und ethnologischen Theoriebildung, I, Wiesbaden 1972, pp. 137-144; J. Jouanna, Hippocrate. Tome II. 2ème partie. Airs, eaux, lieux, Paris 1996 (Notice, pp. 54-71). Cf. l’analyse de M.M. Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Torino 1988, spéc. p. 96 sqq. 45 Cf. Jouanna, Hippocrate, spéc. p. 70, qui pense que l’auteur du traité a puisé à d’autres ouvrages que celui d’Hérodote, et a utilisé une multiplicité de sources dont rendent mal compte les fragments d’Hécatée, dont l’œuvre est considérée comme fondatrice pour l’ethnographie grecque. 46 Cf. K. Reinhardt, Poseidonios, München 1921, pp. 74-75 (cf. aussi la notice de la RE, XXII, 1953, col. 674-681, s.v. Poseidonios). 47 Cf. Strab. II 3,7, qui insiste sur le naturel des hommes et le rôle du hasard dans la géographie humaine. 48 Cf. Liv. V 33: quos loca ipsa efferarunt; voir aussi XXXVIII 17,10-11, à propos des Gallo-grecs. 49 Cf. sur ce point, A. Rouveret, Tite-Live, Histoire Romaine, IX, 40: la description des armées samnites ou les pièges de la symétrie, dans A.M. Adam - A. Rouveret (éds.), Guerre et sociétés en Italie aux Ve-
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ment leur échec final, puisque leur souci de la uana species les affaiblit face à la discipline de l’armée romaine. A deux reprises, dans le discours de Papirius Cursor à ses troupes en 309 et dans celui de Papirius Cursor fils en 293, avant la bataille d’Aquilonia, cette même opposition est reprise, ainsi que l’a bien remarqué A. Rouveret50. L’autre est d’ordre moral: l’historien décrit au livre X, avec complaisance, le rite de la legio linteata. Comme l’a montré l’étude de Ch. Saulnier, la notice met en évidence la cruauté des Samnites, qui scellent de leur sang leur engagement, et leur goût du complot, trait emprunté à l’image traditionnelle des Campaniens51. La crainte inspirée par un ennemi si longtemps redouté explique l’insistance sur l’étrangeté de ses rites, qui, même s’ils peuvent être rattachés à un noyau historique52, sont montrés avec outrance par Tite-Live. *** En même temps, les différents passages «ethnographiques» de Tite-Live paraissent marqués par une admiration implicite à l’égard de cette rudesse montagnarde53, qui renvoie aux notions de courage et d’austérité. L’examen minutieux de certains passages liviens permet d’étayer cette hypothèse. Un autre passage du livre IX est à cet égard intéressant: il s’agit du portrait que livre Tite-Live du chef samnite Pontius Herennius, père de Caïus Pontius, vainqueur des Fourches Caudines de 321. Le vieillard est appelé par l’armée IVes. avant J.-C., Actes de la table ronde, ENS, Paris, 5 mai 1984, Paris 1986, pp. 91-120, cf. pp. 118-119. L’historien a pu connaître leur équipement bariolé et clinquant, à travers les gladiateurs. Cf. Oakley, A Commentary…, III, pp. 511-516. 50 Cf. Liv. IX 40,4-6: notus iam Romanis apparatus insignium armorum fuerat, doctique a ducibus erant horridum militem esse debere, non caelatum auro et argento, sed ferro et animis fretum; quippe illa praedam uerius quam arma esse, nitentia ante rem, deformia inter sanguinem et uolnera; uirtutem esse militis decus…(«les Romains connaissaient déjà l’apparat de ces armes faites pour être remarquées, et leurs chefs leur avaient appris qu’un soldat doit avoir l’aspect farouche, et non porter des ciselures d’or et d’argent mais s’appuyer sur ses armes et sa force d’âme; car ces objets étaient plus une proie qu’une arme, et, éclatantes avant le combat, elles devenaient hideuses au milieu du sang et des blessures; le courage était l’honneur du soldat…»); l’autre passage est situé en X 39,11-14: multa de uniuerso genere belli, multa de praesenti hostium apparatu, uana magis specie quam efficaci ad euentum, disseruit: non enim cristas uulnera facere, et per picta atque aurata scuta transire Romanum pilum, et candore tunicarum fulgentem aciem, ubi res ferro geratur, cruentari («il parla sur la nature de la guerre en général, et longuement de l’apparat de l’armée ennemie à laquelle on avait affaire, qui était une apparence plus vaine qu’efficace pour l’issue de la bataille; les aigrettes n’infligeaient pas de blessure, les boucliers peints ou dorés n’arrêtaient pas le javelot romain et la ligne de combat, resplendissant de l’éclat des tuniques, serait couverte de sang quand le fer entrerait en action»). Sur ces deux textes, cf. Rouveret, Tite-Live..., pp. 91-96. 51 Cf. Ch. Saulnier, La coniuratio clandestina: une interprétation livienne des traditions campaniennes et samnites, “REL” 59 (1981), pp. 102-120. 52 Cf. récemment F. Calisti, Il battaglione sacro dei Sanniti, “SMSR” 29 (1) (2005), pp. 63-83. 53 Surtout si les auteurs de ces «raids» sont interprétés comme étant les Romains: cf. A. Russi, Su un caso di duplicazione in Livio IX, 20, “MGR” 12 (1987), p. 98 sqq.
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afin de donner son avis sur la conduite à tenir dans la lutte contre les Romains qui sont alors pris dans le défilé. Herennius, porté sur un plaustrum, se rend au camp samnite54 et conseille soit de vaincre complètement les Romains soit, si ce n’est pas possible, d’accepter une reddition; cet avis s’avère juste, mais n’est pas suivi par les Samnites, ce qui justifie leur acharnement puis leur enlisement désastreux dans la lutte contre Rome. Outre le caractère prémonitoire de l’avis rendu par Caïus Pontius, qui le qualifie comme uates55, la présentation du personnage par l’historien est laudative, elle constitue un portrait relevant de l’elogium: in corpore tamen adfecto uigebat uis animi consiliique56. Le chef samnite s’est consacré non militaribus tantum sed ciuilibus muneribus et est présenté comme longe prudentissimus57. Cette image témoigne du prestige de la vieillesse, attribué par Tite-Live à tous les groupes humains. Pontius manifeste une sagesse pratique, une prudentia qu’il exerce à la fois comme homme d’État et comme homme de guerre; cela, dans le contexte des guerres samnites, rappelle l’image du stratège tarentin Archytas dans la tradition héritée d’Aristoxène. Un élément précis vient justifier cette mise en perspective: la présentation livienne de Pontius Herennius peut être en effet rapprochée – même s’il peut s’agir de deux traditions distinctes58 – d’un passage du Caton Majeur de Cicéron où apparaît également, comme interlocuteur du pythagoricien Archytas, le père du vainqueur des Fourches Caudines, qui aurait prononcé à l’intention du Samnite et en présence de Platon une uetus oratio dénonçant les effets de la recherche des plaisirs physiques sur la uirtus de l’homme d’État et sur la nature humaine en général59. Ce discours moral est, dans le traité, transmis à Caton par le Tarentin Néarque, en 209 av. J.-C., c’est-à-dire à un moment critique pour Tarente qui tente alors une dernière fois de gagner son indépendance. Le Tarentin affirme l’avoir appris a maioribus natu et Cicéron situe la scène en 349 av. J.-C60. Malgré les problèmes posés par la date de l’entrevue et le caractère isolé de la notice, l’historicité de l’épisode est étayée par l’existence d’un Néarque, connu comme médecin pythagoricien dans une tablette de défixion de Métaponte61. Ainsi, il est clair qu’il relève de la tradition pythagoricienne due à Aristoxène, ce dont rend compte 54
Liv. IX 1,2. Cf. Liv. IX 3,8: ses réponses sont comme ex ancipiti oraculo. Bilan sur la présence de ces «warning figures» dans l’historiographie dans Oakley, A Commentary…, III, p. 68. 56 Liv. IX 3,5: «son corps était affaibli, mais sa pensée et sa réflexion demeuraient vives». 57 Liv. IX 1,2. 58 Cf. Oakley, A Commentary…, III, pp. 69-70. 59 Cic. Cato 39-41. 60 Cic. Cato 41. 61 F.G. Lo Porto, Medici pitagorici in una defixio greca di Metaponto, “PP” 35 (1980), p. 282 sqq. 55
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par ailleurs le récit de Plutarque, qui suit une source commune à l’Arpinate et au philosophe de Chéronée62. Ou plutôt, l’argumentation développée par l’oratio renvoie à la polémique qui a suivi la chute d’Archytas à Tarente sur le rôle de la trufhv dans la décadence de la cité, qui est présente chez Strabon et dans le traité apocryphe du pseudo-Archytas, Peri; novmou kai; dikaiosuvnh~. Le lien établi entre la recherche des plaisirs et la trahison de la patrie est dans le Caton Majeur actualisé et adapté à la situation de crise de 209 av. J.-C. La place occupée dans ce récit par les Samnites est particulièrement intéressante. En effet, Aristoxène cite un dialogue analogue auquel aurait participé Archytas, mais son interlocuteur est alors Polyarchos, ambassadeur de Denys II de Syracuse63; le discours hédoniste et sophistique du Syracusain est symétrique de celui du stratège et lui est directement opposé tandis que le rapport entre Pontius Herennius et Archytas est non conflictuel mais dialectique64. Chez Tite-Live et Cicéron, l’endurance et le refus des uoluptates65 qui contrastent avec l’hybris romaine deviennent la caractéristique des Samnites. Etudiant la diffusion du pythagorisme en milieu indigène, A. Mele66 rapproche ces textes d’un ensemble de notices rapportées par Strabon et Justin selon lesquelles les Samnites seraient d’origine spartiate, ou, plus généralement, grecque67. Justin, dans un texte très précieux pour notre enquête, affirme l’existence d’un Graecus mos dans toute l’Italie et défend l’origine grecque des Bruttiens, des Samnites et des Sabins68, et, d’autre part, attribue des leges de type spartiate aux Lucaniens, dont les traditions d’éducation visant à l’acquisition de la duritia et de la parsimonia sont rapprochées de celle des Lacédémoniens69. La mise en valeur de cette filiation nous ren62 Cf. l’analyse d’A. Mele, La Megalè Hellas pitagorica: aspetti politici, economici e sociali, dans Megale Hellas. Nome e immagine, Atti del ventunesimo convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto, 2-5 ottobre 1981), Taranto 1982, pp. 33-80, pp. 70-71. Plutarque présente Néarque comme pythagoricien. 63 Aristoxène, fr. 50 Wehrli = Ath. XII 545-546. 64 Cf. B. D’Agostino, Voluptas e Virtus: il mito della ingenuità italica, “AION(archeol)” 3 (1981), pp. 117-127, p. 123. 65 Cette présentation est encore plus claire dans un autre passage du Cato Maior, où est évoqué le souhait formulé par les chefs romains Manius Curius et Tiberius Coruncanius au moment de la guerre contre Tarente de voir les Samnites et Pyrrhus être gagnés par la soif des plaisirs et, par là, être vaincus plus facilement (cf. Cato 43). Cf. aussi Val. Max. IV 3,6. 66 Cf. Mele, La Megalè… 67 Strab. V 4,12, sur l’ethnogénèse des Samnites. Cf. aussi Iust. XX 1,14. Cf. Dench, From Barbarians…, p. 249. 68 Cf. Iust. XX 1,6.14. 69 Cf. Iust. XXIII 1,7-8: namque Lucani isdem legibus liberos suos quibus et Spartani instituere soliti erant. Quippe ab initio pubertatis in siluis inter pastores habebantur sine ministerio seruili, sine ueste, quam induerent uel cui incubarent, ut a primis annis duritiae parsimoniaeque sine ullo usu urbis adsuescerent («les Lucaniens avaient coutume d’élever leurs enfants selon les mêmes lois que les Spartiates. Dès le début de la puberté, les enfants se tenaient dans les forêts parmi les bergers, sans esclave pour les servir,
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voie à l’image de l’austérité spartiate présente à Athènes au Ve siècle70. Chez la source de Justin – Théopompe ou, plus tard, Timée –, la mise en valeur d’une suggevneia entre les Tarentins et les populations italiques est liée à la volonté d’étendre la grécité d’Italie de la manière la plus large face à la menace représentée par Syracuse71. Dans ce texte, la présentation des Bruttiens est ambiguë72: Justin insiste sur le feritas terrifiante de ce peuple, qui finit par vaincre celui dont il est issu, mais à partir de l’ethnogénèse des Bruttiens, nés d’une sécession de jeunes gens élevés à la manière spartiate depuis la souche lucanienne, elle utilise le mythe d’une origine commune des Tarentins et des Samnites. D’autre part, les Sabins, selon une tradition largement représentée depuis l’annalistique du IIe siècle jusqu’à l’époque d’Auguste, descendraient du héros éponyme lacédémonien Sabos73. Strabon soutient que cette origine lacédémonienne des Sabins n’existe pas et que les Samnites sont issus du uer sacrum pratiqué par les Sabins et qui a conduit les Samnites à recevoir le diminutif de Sabelli. Pour le géographe, le nom de «Samnites» vient du nom par lequel les Grecs appellent ce peuple, les Sauni`tai74. Il précise que c’est Tarente qui diffusait l’idée selon laquelle les Samnites, grâce à la présence de colons spartiates, étaient devenus philhellènes et portaient le nom de Pitanates: tine;~ de; kai; Lavkwna~ sunoivkou~ aujtoi`~ genevsqai fasi; kai; dia; tou`to kai; filevllhna~ uJpavrxai, tina;~ de; kai; Pitanavta~ kalei`sqai. Dokei` de; kai; Tarantivnwn plavsma tou`t’ ei\nai, kolakeuovntwn oJmovrou~ kai; mevga dunamevnou~ ajnqrwvpou~ kai; a{ma ejxoikeioumevnwn, oi{ ge kai; ojktw; sans vêtement pour se couvrir ou pour dormir. Leurs parents voulaient ainsi les tenir éloignés de la ville et les habituer dès le plus jeune âge à une vie austère et frugale»). 70 Cf. E.N. Tigerstedt, The Legend of Sparta in Classical Antiquity, I, Stockholm 1965. 71 Cf. Iust. XX 1,3: prima illi militia aduersus Graecos, qui proxima Italici maris litora tenebant, fuit; quibus deuictis finitimos quosque adgreditur omnesque Graeci nominis Italiam possidentes sibi destinat («sa première expédition fut contre les Grecs qui occupaient les rivages les plus proches de la mer italienne; après les avoir vaincus, il attaque tous ses voisins et cherche à combattre tous les peuples grecs habitant l’Italie»). Cf. Mele, La megalè…, p. 79. 72 Iust. XXIII 1. Présentation de la feritas animorum bruttienne chez Iustin: cf. XXIII 1,3.6.10.14-16. Interprétation négative de la sécession bruttienne chez Strab. VI 1,4 et Diod. XVI 15. Pour Mele, La megalè…, pp. 79-80, la source de Justin est clairement favorable aux Bruttiens, vus comme de farouches guerriers formés par l’éducation spartiate et vainqueurs des Grecs. 73 Cf. Gell. fr. 10 Peter (= fr. 10 Chassignet); Cato orig. fr. 51 Peter (= II 22 Chassignet). Ces fragments sont cités par Serv. auct. Aen. VIII 638; cf. aussi Hyg. fr. 9 Peter; Dion. Hal. II 49,3; Plut. Rom. 16,1; Num. 1,4. Cf. aussi Iust. XX 1,14; Sil. VIII 422. Denys d’Halicarnasse (II 49,2-3) propose une origine autochtone et un héros éponyme Sabinus, mais parle d’une arrivée de colons spartiates chez les Sabins qui existent déjà. Cf. M. Chassignet, Caton, Les origines (fragments), Paris 1986, pp. 77-78, et p. 76 pour les raisons de son choix de la leçon Sabivnou et non Savbou. 74 Cette association repose sur une étymologie fausse qui rattache Sauni`tai à celui de la lance des Samnites: cf. Fest., p. 437 L.
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muriavda~ e[stellovn pote th`~ pezh`~ stratia`~, iJppeva~ d’ ojktakiscilivou~75. Certains auteurs affirment que se sont joints à eux des colons venus de Laconie; cela expliquerait leur philhellénisme et le fait que certains d’entre eux sont appelés Pitanates. Il semble que ce soit une invention des Tarentins, désireux de flatter et en même temps de se concilier leurs voisins puissants, qui étaient capables de mettre sur le champ de bataille quatre-vingt mille fantassins et huit mille cavaliers.
Ce nom de Pitanates est également attesté par les sources littéraires comme constituant le rameau d’élite lacédémonien76 et, en Italie méridionale, par la numismatique77. Le texte de Strabon indique bien que les Tarentins ont utilisé ce thème de la suggevneia pour étendre leur influence sur le monde indigène: il constituait un outil idéologique qui pouvait permettre de masquer un rapport de dépendance à l’égard de mercenaires, dont nous avons vu qu’il était associé à l’image négative de la cité. L’attribution des mêmes qualités non seulement aux Lucaniens et aux Brettiens mais aussi aux autres peuples italiques porte la marque d’une politique tarentine d’ouverture aux Samnites que comprend Strabon78. Le témoignage épigraphique qui atteste que le nom *safineis se retrouve dans des zones extérieures au Samnium proprement dit79 révèle l’ampleur de ce phénomène. Il est probable, comme le remarque D. Musti, que les Samnites décrits par Strabon comme visés par la propagande tarentine, comprenaient les Lucaniens80. Mais le poids des guerres samnites dans la mémoire nationale a sans doute infléchi cette filiation. Contrairement aux Lucaniens et aux Brettiens, les Samnites ont bénéficié d’une représentation positive dont témoigne Strabon81: elle a été associée à celle des Sabins, par le biais de la légende de 75 Strab. V 4,12. Cfr. sur ce texte et ses enjeux, récemment, Taranto e il Mediterraneo, Atti del quarantunesimo convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto, 12-16 ottobre 2001), Taranto 2002, pp. 103-116 (dibattito). 76 Hés., s.v. Pitanavth~ stravto~; Hér. IX 53,2-3. 77 Le corpus est constitué de monnaies provenant du Samnium, de l’Apulie, et de Campanie. Il s’agit d’oboles d’argent datables des années 330 av. J.-C., portant la légende grecque: PITANATAN PERIPOLWN, les perivpoloi étant des formations militaires composées de jeunes gens. Cf. G. Tagliamonte, I figli di Marte. Mobilità, mercenari e mercenariato italico in Magna Grecia e Sicilia, Roma 1994, pp. 173-74, qui pense qu’il s’agit de Samnites embauchés par Tarente et plus généralement, que cette ouverture aux populations indigènes s’est faite aussi par le biais du mercenariat. 78 Cf. l’attitude de Tarente envers les Samnites pendant le siège de Naples. 79 Cf. A. Prosdocimi, Sabinità e (pan)italicità linguistica, “DA” 5,1 (1987), pp. 53-64. 80 Cf. D. Musti, La nozione storica di Sanniti nelle fonti greche e romane, dans Sannio. Pentri e Frentani dal VI al I sec. a.C., Campobasso 1984, pp. 71-84. 81 Cf. le jugement favorable de Strab. V 4,12, sur la coutume samnite des mariages forcés, qui s’appuient sur une sélection eugéniste.
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leur commune ascendance spartiate: la réputation d’austérité de ces derniers, qui fait d’eux un modèle moral pour les Romains de la fin de la République82, est directement liée à l’origine spartiate qui leur est prêtée83. E. Dench montre comment l’image positive des Sabins, que l’on trouve nettement exprimée par Caton84 et qui est liée aux thèmes de la duritia, de la parsimonia et de la vie rurale, s’affine au cours du IIe siècle, au moment où le péril de la luxuria atteint l’Vrbs et inquiète certains milieux romains qui se tournent vers une région qui a acquis depuis peu la citoyenneté pour y chercher un idéal moral. Il faut sans doute supposer que ce modèle a perdu de sa pertinence avec la romanisation complète de la région. Quelques décennies après la guerre sociale et les violences infligées aux Samnites par Sylla, l’intégration des peuples de l’Italie centrale dans la communauté nationale justifie l’attribution des valeurs de la duritia et de la parsimonia à l’ancien ennemi tant redouté. Mais comme le remarque E. Dench, c’est surtout sous le nom de Sabelli, qui marque leur parenté avec les Sabins, que les Samnites sont représentés dans la littérature latine comme le modèle de la uirtus italique85. Nous avons vu combien cette définition de l’italicité préoccupait les auteurs de l’époque d’Auguste: l’exaltation de la uirtus sabellienne trouve donc son origine dans la politique d’ouverture aux Samnites menée par Tarente à l’égard de ses voisins indigènes trois siècles auparavant.
*** Comme pour les Sabins, dont l’éclat des bijoux semble avoir été indiqué par Fabius Pictor86, une double image des Samnites s’élabore alors, associant les thèmes de la barbarie et de l’asocialité, ou de l’étalage de richesses, à ceux de la duritia et de la parsimonia, ressortissent à un déterminisme géographique qui veut que l’âpreté des mœurs suive celle du relief87. Si le débat sur l’italicité prend une vigueur nouvelle avec l’unification de la péninsule, à la suite de la coniuratio Italiae de 32 av. J.-C., l’image des Samnites demeure 82 Cf. Serv. auct. Aen. VIII 638: merito ergo “seueris”, qui et a duris parentibus orti sunt, et quorum disciplinam uictores Romani in multis secuti sunt («c’est à bon droit, donc, que sont appelés “sévères” ceux qui sont nés de parents austères et dont la manière de vivre a été sur beaucoup de points suivie par les Romains qui les avaient vaincus»). 83 Cf. Serv. auct., immédiatement avant le passage précédent: Cato autem et Gellius a Sabo Lacedaemonio trahere eos originem referunt. Porro Lacedaemonios durissimos fuisse omnis lectio docet. Mais Denys mentionne une légende d’origine des Sabins (cf. supra) propre à Caton et où n’intervient pas l’ascendance spartiate. 84 Cf. Cato ORF4 8,128 = Fest., p. 350 L. Cf. aussi Cato agr., praef. 4. 85 Cf. Dench, Images…, p. 252; From Barbarians…, appendix B, p. 224 pour le recensement des occurrences (la première se trouve chez Varron). 86 Cf. Dion. Hal. II 38,3 = Fab. Pict. fr. 8 P. (= 10 Chass.) 87 Cf. Cic. Planc. 22 pour la région de Venafrum.
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ambivalente et ne trouve une certaine cohérence que dans la description plinienne de la IV regio, qui dépeint la gens fortissima88 de l’Italie. Le texte de Tite-Live, qui dépend à la fois de ses sources et du temps de sa rédaction, révèle particulièrement ces ambiguïtés. L’image des Samnites qui ressort de la lecture de l’Ab Vrbe condita doit être rapprochée de l’orientation de l’historiographie romaine du IVe siècle, qui ne nous est malheureusement accessible que de manière fragmentaire. Dans son projet d’histoire nationale, TiteLive veut donner une représentation nouvelle, unifiée, du passé de l’Vrbs, dans laquelle les Samnites occupent une place finalement privilégiée; mais il est tributaire de sources qui entrent en contradiction avec cette vision et contribuent à la complexité du texte livien.
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Cf. Plin. nat. III 106.
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L’Italia, a cui la guerra sociale aveva dato la cittadinanza romana, non era stata efficacemente integrata nella res publica, e le guerre civili la videro spesso solo vittima delle controversie della nobilitas romana: Properzio (I 22,4 sgg.) coglie in modo icastico questa situazione nella contrapposizione fra la Romana discordia e i funera Italiae. Qualche cosa aveva cominciato a muoversi già con Cesare, con la nova ratio vincendi impostata dopo il Rubicone e applicata rigorosamente a Corfinium e in Italia: con essa Cesare aveva affiancato alla sua vecchia immagine di capo dei populares la nuova legittimazione che gli veniva dal consensus Italiae. Questa legittimazione, già presente nella risposta di Pollione a Catone (App. civ. II 41) e nel discorso ai Massalioti, con cui Cesare stesso contrappone l’auctoritas Italiae alla voluntas unius (Caes. civ. I 35), si ritrova nel discorso che Dione (XLI 26-35) attribuisce a Cesare a Piacenza, quando vieta ai soldati il saccheggio e insiste sul rispetto che egli intende riservare all’Italia. La factio paucorum contro la quale egli vuole condurre la sua guerra è la vecchia nobilitas romana, che, sconfitta a Farsalo e poi a Filippi, troverà rifugio nelle file degli stessi cesariani, in quelle di Lucio Antonio e poi di Marco Antonio, accaparrandosi, come aveva già fatto Pompeo, l’appoggio dell’Oriente contro l’Italia e l’Occidente. La vera rivoluzione di Ottaviano, la “rivoluzione romana”, fu questa: egli dette fin dall’inizio una parte preponderante nei suoi piani all’Italia, cominciando dal consilium di amici, estraneo alla vecchia nobilitas e composto in gran parte di homines novi, provenienti dai municipi. Apparentemente oscurato dalla guerra di Perugia, il programma fu ripreso, con paziente opera politica e propagandistica e con l’appoggio di Mecenate e del suo circolo, fino alla coniuratio Italiae del 31 e al consensus Italiae del 12 a.C., nell’affluenza cuncta ex Italia (Res gestae 10) ai comizi per il pontificato massimo. L’Italia è nella poesia augustea alla radice della grandezza di Roma: ma quale Italia? Il primo accenno di Virgilio è contenuto nella famosa lode dell’Italia in georg. II 136 sgg. (173-174: magna parens frugum … magna virum): è l’Italia dei Marsi, della gioventù sabella, dei Liguri, dei Volsci, in cui virtù guerriere
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e virtù contadine si associano in un genus acre virum, contrapposto all’imbelle orientale; alla fine dello stesso libro, però (523 sgg.), l’esaltazione dell’Italia ritorna, collegato questa volta a virtù pacifiche, l’affetto verso i figli, la vita famigliare custodita dalla pudicitia, la laboriosità produttrice di opulenza, la pietà religiosa, il vigore fisico, ottenuto attraverso esercizi “sportivi”: questa è l’Italia dei veteres Sabini, di Remus et frater, della fortis Etruria, dell’età dell’oro, della vita cioè che introdusse sulla terra Saturno, quando la guerra non esisteva ancora. Virgilio distingue e contrappone due diversi gruppi di popoli italici: da una parte le stirpi acres, che trovano i loro rappresentanti soprattutto nel mondo osco, dall’altra i vecchi Sabini, i vecchi Latini, gli Etruschi, i cui valori sono la pietas, la giustizia, il lavoro pacifico, per i quali soli egli usa l’epiteto di fortes, qui come nell’Eneide (X 236 sgg.), abituati a loca iussa tenere, ad esercitare cioè una forza controllata dalla disciplina. Questa contrapposizione di costume, che è anche una contrapposizione etnica fra le due Italie, in particolare fra un’Italia osca e un’Italia etrusca, deve essere superata secondo Virgilio in una fusione, di cui deve essere autore Augusto, nuovo Saturno, portatore di una nuova età dell’oro, che trasforma con le leggi un popolo indocile e guerriero in un popolo giusto e pacifico. L’antagonismo osco-etrusco, ancora vivo in età augustea, come rivela chiaramente Orazio, con l’esaltazione delle virtù guerriere dei Marsi che hanno fatto grande Roma e la condanna dell’imbelle pietas e della mollezza degli Etruschi-Troiani, è già presente nella condanna della tryphé degli Etruschi in un famoso passo di Diodoro (V 40,34), che solo inizialmente riflette Posidonio, ma che forse ci conserva invece il risentimento degli Italici per l’abbandono degli Etruschi nella guerra sociale e riprende le vecchie accuse antietrusche del mondo greco e siceliota. L’identificazione fra Etruschi e Troiani, che ha le sue radici in antichi contatti e, probabilmente, in un’antica immigrazione sulle coste tirreniche dall’Asia Minore, ma che viene esplicitamente recepita dagli Etruschi stessi negli ultimi secoli della repubblica con la leggenda dell’origine di Dardano da Cortona e con la famosa iscrizione etrusca di Tunisi, viene celebrata da
Ho riassunto qui i risultati del dibattito di vari autori su L’integrazione dell’Italia nello stato romano (in Contributi dell’Istituto di storia antica, I, ed. M. Sordi, Milano 1972, p. 146 sgg.), a cui rimando; per la rilettura di Diod. V 40,3-4, v. G. Firpo, Posidonio, Diodoro e gli Etruschi, “Aevum” 71 (1997), p. 103 sgg.; Id., La polemica sugli Etruschi nei poeti di età augustea, in Die Integration der Etrusker und das Weiterwirken etruskischen Kulturgutes im republikanischen und kaiserzeitlichen Rom, ed. L. Aigner-Foresti, Wien 1998, p. 251 sgg. La provenienza indicata dalle fonti è varia: dalla Troade, dalla Misia, dalla Lidia o come Pelasgi. Cfr. M. Sordi, Il mito di Telefo e gli Arcadi in Italia, “Aevum” 80 (2006), p. 65. G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, “ArchClass” 32 (1980), p. 1 sgg.; M. Sordi, C. Mario e una colonia etrusca in Tunisia, in Aa.Vv., Miscellanea Pallottino, Milano 1992, p. 363 sgg.
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Virgilio con la promessa di un impero universale e dell’aeternitas al “popolo misto” che nascerà dall’incontro fra questa “semenza santa” per dirla con Dante, che riprende l’idea nel De monarchia, e gli Italici (Verg. Aen. XII 834 sgg.): per Virgilio, insomma, come per il Sallustio della Catilinaria, proprio da questo incontro col “diverso”, per sangue, per lingua, per costumi, che Roma porta fin dall’inizio nel suo dna, nasce la vocazione di Roma ad un impero universale. A questa identificazione fra Etruschi e Troiani, che Orazio stesso condivide, sia quando esorta la pars melior dei Romani ad abbandonare i lidi etruschi destinati alla catastrofe e raccomanda agli stessi Romani nimium pii di non volere la rinascita di Troia, sia quando, nella palinodia del Carmen saeculare, ritiene irreversibile e voluto dagli dei il cammino di Enea verso l’Etruria e l’Occidente, Dionigi di Alicarnasso, che rappresenta una posizione minoritaria, ma non irrilevante, della cultura augustea, oppone la convinzione che i Troiani e i Pelasgi, progenitori dei Romani, sono greci e per questo a Roma spetta il dominio universale, mentre gli Etruschi non sono né Troiani, né Lidi, né Pelasgi, e “per linguaggio e modo di vivere non sono affini a nessun altro popolo” (Dion. Hal. I 29-30, part. 30,2). L’autoctonia degli Etruschi, che gli Etruschi stessi affermavano col mito del ritorno a Cortona dei Troiani o dei Pelasgi, diventa per Dionigi, nella sua visione ellenocentrica e fondamentalmente ostile agli Etruschi, segno dell’estraneità degli Etruschi all’ascesa di Roma e di un’estrema arcaicità (ajrcai`on te pavnu) di un popolo, di cui il progresso storico prepara necessariamente la scomparsa. L’accenno di Dionigi all’estrema arcaicità degli Etruschi è un’allusione solo implicita alla loro fine imminente: di questa appaiono ben consapevoli invece gli autori augustei di origine etrusca, Properzio, che coglie nella caduta di Perugia nel 40 il segno della fine, e Virgilio stesso, che vanta la sopravvivenza dell’Etruria in Roma pulcherrima rerum, ma sa che il nomen etrusco deve morire, nella sua lingua e nei suoi costumi. Il paradosso etrusco consiste proprio in questo: nella coscienza che gli Etruschi hanno di essere diversi per lingua e per costumi dal resto del mondo italico e nella loro convinzione, solo apparentemente contraddittoria, di essere la radice stessa della romanità; nella convinzione di dover finire come nomen, rinunciando alla propria lingua, i cui scritti cominciano essi stessi effettivamente a tradurre in latino con Cecina e Tarquizio Prisco già nel I
Cfr. M. Sordi, Her. VIII 144,3 - Sall. Cat. 6,2, in Euroal. L’alterità nella dinamica delle culture antiche e medievali: interferenze linguistiche e storiche nel processo della formazione dell’Europa. Atti del convegno, Milano, 5-6 marzo 2001, edd. R.B. Finazzi - C. Milani - P. Tornaghi - A. Valvo, Milano 2002, p. 71 sgg. Sull’ostilità di Dionigi agli Etruschi v. D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi di Alicarnasso [“QUCC” 10], Roma 1970, passim.
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secolo a.C., ma anche nella certezza di sopravvivere come componente fondamentale in Roma pulcherrima rerum. Il problema dell’integrazione dell’Italia è molto forte nell’epoca augustea, ma non c’è dubbio che sono proprio gli Etruschi che hanno (e apertamente ed esplicitamente manifestano) la coscienza della necessità di questa integrazione. La spiegazione di questo atteggiamento viene dalla stessa religione etrusca che è (e rimane) l’aspetto più caratterizzante della loro civiltà: Varrone, citato da Censorino (cfr. infra), sapeva che gli aruspici stabilivano, in base all’Etrusca disciplina e ai libri rituales, quanti saecula erano assegnati a ciascun popolo e a ciascuna città; lo stesso Varrone trovava nelle Historiae Tuscae il numero dei saecula (dieci) attribuito agli Etruschi; un empeiros aner, citato dalla Suda sotto la voce Tyrrenia, parlava delle dodici chiliadi di anni assegnate alla terra, di cui le prime sei erano trascorse nella creazione di tutte le cose prima della comparsa dell’uomo e le ultime sei erano assegnate all’umanità: il passo è apparso sospetto per la sua aderenza alla dottrina giudaico-cristiana della creazione, ma l’attribuzione all’umanità di sei millenni corrisponde pienamente all’attribuzione tipicamente etrusca di periodi definiti di durata ad ogni popolo e ad ogni uomo ed oggi si pensa piuttosto ad una creazione del tardo etruschismo, per il quale la storia era concepita come una durata a termine, per i singoli popoli come per l’intera umanità, scandita da una delimitazione epocale, in cui la cronologia, con la dottrina dei saecula, era legata in modo indiscutibile alla scienza divinatoria. Nel suo De die natali, del 238 d.C., Censorino è, grazie all’utilizzazione indiretta dei libri dell’Etrusca disciplina, la fonte più attendibile sulla teoria dei saecula: saeculum – egli dice (17,2) – è spatium vitae humanae longissimum partu et morte definitum; corrisponde al greco ghenos, ma non alla durata di circa 30 anni che i Greci calcolavano come intervallo fra le generazioni. Per i libri rituales degli Etruschi, che i Romani recepirono attribuendo al saeculum civile la durata di 100 anni, che è quella dei primi quattro saecula etruschi, il saeculum naturale è la durata massima della vita di un uomo, che non può essere fissata a priori, ma può essere conosciuta solo a posteriori, in base ai portenta inviati dagli dei e interpretati dagli aruspici. Secondo la fonte di Censorino, risalente all’ottavo secolo etrusco, i primi sette secoli avevano avuto dunque durata diversa, di 100 anni i primi quattro, di 123 il quinto, di 119 il sesto e il settimo: octavum tum demum agi, nonum et decimum superesse, quibus transactis finem fore nominis Etrusci. Plutarco (Sull. 7,2 sg.) pone nell’88 a.C., nell’anno iniziale delle guerre civili, i portenti che gli aruspici interpretarono come segno della fine dell’VIII secolo: ammettendo che esso fosse iniziato fra il 211 e il 188 a.C., la data proposta dai libri rituales per l’inizio del I secolo etrusco ci porta ad una data fra il 972 e il 949 a.C., e al X secolo, molto vicina, in ogni caso, all’inizio del villanoviano e delle prime
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tracce della civiltà etrusca in Italia e rivela che gli Etruschi avevano una consapevolezza abbastanza corretta della loro storia passata. Essi sapevano però già allora che, in base alle loro profezie, avevano ancora, come popolo, solo due secoli per sopravvivere: quando, nel 44 a.C., secondo un frammento del De vita sua di Augusto (p. 87 Malcovati, apud Serv. auct. ecl. 9,46), comparve una stella a metà del giorno e l’aruspice Vulcatius (o Vulcanius) dichiarò che essa significava la fine dell’ottavo e l’inizio del nono secolo, la fine apparve imminente. Si comprende così l’angoscia che pervase il mondo romano negli ultimi anni 40 del I secolo a.C.: segni e prodigi continuarono prima e dopo la guerra di Perugia e perfino dopo Azio, come rivelano le allusioni di Orazio (carm. I 2) e di Virgilio (georg. I 466 sgg.) ai timori di guerra sempre presenti e alle inondazioni degli anni precedenti. Quando Perugia fu incendiata ed apparve ormai giunta la fine del nomen Etruscum, per i legami profondi che univano fin dalle origini l’Etruria a Roma, sembrò a molti che tale fine incombesse anche su Roma. Fu proprio la coscienza di questa stretta solidarietà a provocare la grande paura, che si esprime negli epodi VII e XVI di Orazio e il suo invito alla fuga verso l’immensità dell’oceano dai litora Etrusca (epod. 16, 39-40). All’inizio dello stesso epodo Orazio parla di una seconda aetas delle guerre civili e le due aetates oraziane corrispondono appunto alla rapida successione del IX e del X secolo etrusco. Virgilio nella IV egloga parla invece dell’ultima aetas del carme cumano, la cui fine corrisponde ad un nuovo ordine di secoli (ecl. 4,5). Originario di un’antica città etrusca, fiera delle sue origini, e direttamente esperto, a differenza di Orazio, delle dottrine aruspicali, Virgilio sa distinguere meglio del Plutarco della Vita di Silla la differenza fra la fine di un saeculum e di un ordo saeculorum, e risolve in positivo l’alternanza che nell’88 gli aruspici avevano lasciata aperta sull’avvento di una nuova umanità più o meno cara agli dei. La nuova generazione, il nuovo saeculum, colto secondo l’uso etrusco nel misterioso puer dell’egloga, è la gens aurea che sorge nel mondo ed è caratterizzata da un senso nuovo della pietas e dalla cancellazione dell’antico scelus che aveva provocato le guerre civili. La fine del nomen Etruscum si identifica per Virgilio con l’integrazione definitiva degli Etruschi, pronti a lasciare la loro lingua e i loro costumi, ma non la loro pietas, in quella Roma pulcherrima rerum, la cui storia gloriosa avevano contribuito a creare in maniera determinante. L’importanza degli Etruschi nella prima grande crisi di Roma, quella del IV secolo dopo la catastrofe gallica, diventa infatti per Virgilio oggetto della pars iliadica dell’Eneide con la trasposizione, nella leggenda di Enea, del Riassumo qui ciò che ho discusso in I saecula etruschi e i portenta, “RSI” 114 (2000), p. 715 sgg., a cui rimando anche per la bibliografia.
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l’aiuto fornito a Roma da Cere nel famoso trentennio postgallico; ma l’influenza dell’Etruria sulla cultura romana non si ferma al IV secolo. La quadripartizione dello spazio orientata secondo i punti cardinali è caratteristica dell’Etrusca disciplina e dà forma, nei libri sacri etruschi, agli accampamenti, alle città e alle proprietà terriere, fondando la limitatio, che i Romani attingono dagli Etruschi e che non ha niente a che fare con la pianta ortogonale di Ippodamo di Mileto, perché ha origine da una concezione religiosa del mondo integralmente diversa. L’origine della limitatio viene in effetti collegata dagli Etruschi con l’origine del mondo, con la rivendicazione che Giove fa a se stesso, nell’oracolo della ninfa Vegoia, della terra Etruria e, con la gravità della colpa della violazione dei termini; essa conferma così la dipendenza del concetto di ius terrae Italiae (che fonda la proprietà iure Quiritium) dal concetto di ius terrae Etruriae, presente nei libri rituali (Serv. auct. Aen. I 2) e in un cippo di Perugia (TLE 570), indipendentemente dall’epoca tarda a cui il cippo appartiene. Il concetto di terra Italia, con l’allargamento fino alle Alpi di una denominazione geografica che, partendo dalla Calabria, si era estesa già nel IV secolo a tutta l’Italia meridionale, nasce in effetti durante la seconda guerra punica, sembra fra il 218 e il 210, con l’equiparazione, dal punto di vista sacrale, nella procuratio dei prodigi, del solum Italicum al solum Romanum; l’espressione terra Italia compare per la prima volta in una profezia dei Libri sibillini riportata da Livio (XXIX 10,4-5) sotto il 205 e collegata con l’identificazione del nemico con l’alienigena a cui si oppone, fin dal 212 con i carmina Marciana, l’identificazione del Romano col Troiugena (Liv. XXV 12,5). La definizione come alienigena del nemico implica l’autoctonia dei Romani come Troiugenae in terra Italia, implica cioè l’accettazione della versione, sostenuta da Virgilio e dagli stessi Etruschi, che Dardano era originario di Cortona e che la venuta di Enea in Italia era in realtà un ritorno: è interessante osservare che anche presso gli Etruschi il motivo dell’autoctonia, che Dionigi di Alicarnasso enfatizza e che tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. il cippo di Tunisi con la menzione di Dardano celebra, era presente almeno nel III secolo a.C., come dimostra la notizia di Mirsilo di Metimna (FGrHist 477,8), secondo cui i Tirreni abitavano in Italia già in età antichissima, erano poi partiti per una pestilenza e vi erano tornati più tardi col nome di Pelasgi, M. Sordi, I rapporti romano ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma 1960, pp. 10; 167 sgg.; 177 sgg.; Ead., Prospettive di storia etrusca, Como 1995, p. 77 sgg. M. Sordi, Terra Etruria - Terra Italia, in Gli stati territoriali nel mondo antico [Contributi di storia antica. 1], edd. C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini, Milano 2003, p. 127 sgg. Per alienigena, cfr. G. Urso, Il concetto di alienigena nella guerra annibalica, in Emigrazione e immigrazione nel mondo antico [Contributi dell’Istituto di storia antica. 20], ed. M. Sordi, Milano 1994, p. 223.
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che Omero ritiene antichissimi e Mirsilo ritiene discendenti dai Tirreni. Origine pelasgica e origine troiana potevano ben conciliarsi, perché per Omero i Pelasgi erano alleati dei Troiani e abitavano le stesse regioni. Al tempo della guerra annibalica Ennio (apud Varr. ling. V 42) chiama Saturnia tellus l’Italia e un oracolo di Dodona aveva appunto promesso ai Pelasgi la terra Saturnia (Dion. Hal. I 19,3; Macr. Sat. I 7,8). È probabile perciò che siano stati proprio gli aruspici, durante la guerra annibalica, ad estendere all’Italia la concezione dello ius terrae Etruriae collegato con la proprietà per diritto divino affermata da Giove nell’oracolo della ninfa Vegoia e confermata per i Romani nel dominium ex iure Quiritium. L’importanza che l’Etrusca disciplina aveva assunto per i Romani durante la guerra annibalica spiega perché il senato, allora o poco dopo, dum florebat imperium (Cic. div. I 41,92) abbia deciso di chiedere agli Etruschi di mantenere l’aruspicina all’interno delle famiglie dei principes, perché non scadesse in un mestiere tanto pericoloso quanto redditizio. L’Etrusca disciplina divenne così publica religio del mondo romano (Cic. har. resp. 27,61). Così, quando tra il I secolo a.C. e il I d.C. il nomen Etruscum giunse alla fine della sua storia, l’identità del popolo etrusco restò affidata alla sua religione, a quell’Etrusca disciplina che Claudio celebrò col senatoconsulto del 47 (Tac. ann. XI 15) come vetustissima Italiae disciplina. Si compiva in un certo modo la profezia che Virgilio attribuisce a Giove al termine dell’Eneide (XII 834 sgg.), quando proclama che il genus Ausonio mixtum quod sanguine surget / supra homines, supra ire deos pietate videbis… La pietas resta dunque il segno della sopravvivenza, in età imperiale e fino al tardo antico, della civiltà etrusca, che anche nel momento del suo massimo splendore, aveva avuto nella religione il suo carattere distintivo. Essa si fondava, come è noto, su una rivelazione divina giunta attraverso i libri sacri, la cui esegesi era appunto compito degli aruspici e dell’Etrusca disciplina. Tradotti in latino fin dal I secolo a.C., da Cecina e da Tarquizio Prisco, furono custoditi e letti fino alla tarda antichità, come rivelano le opere di Macrobio, di Marziano Capella, di Giovanni Lido. Prima di essere un’esposizione di riti, l’Etruria disciplina era una concezione del cosmo e della storia, una filologia e una teologia, come sosteneva Posidonio, utilizzato da Diodoro (V 40) e, proprio per questo, per non scadere nella superstizione e mantenere il suo prestigio, aveva bisogno del supporto di una filosofia, che doveva essere scelta, evidentemente, tra le filosofie che ammettevano non solo l’esistenza di una divinità, ma anche di una divinità pronta a comunicare con gli uomini: questo supporto fu fornito, di volta in volta, dal pitagorismo, dallo stoicismo, dal neoplatonismo10.
10 M.
Sordi, Lo stoicismo in Etruria nel I secolo, in Die Integration…, p. 337 sgg.
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Sulla stessa linea si pongono – credo – certi “aggiornamenti” che il tardo etruschismo tenta col giudaismo e col cristianesimo, pur rimanendo fedele alla propria ispirazione di fondo: come le sei chiliadi di anni assegnate alla creazione e le sei chiliadi assegnate all’umanità dalla Suda (cfr. supra), o la suprema divinità di cui parla la ninfa Vegoia in una citazione di Lattanzio Placido (Schol. Stat. Theb. IV 516-517), il cui nome non può essere pronunziato né ascoltato per naturae fragilitatem pollutionemque, o i praecepta di Tages di cui il sacerdote pagano Longiniano parla in una lettera ad Agostino (Aug. 234,2) e dice concordanti con quelli del cristianesimo. L’Etrusca disciplina era vitale nel tardo antico ed era forse l’unico ramo vitale del paganesimo tradizionale, ormai surclassato dai culti e dalle idee provenienti dall’Oriente: Ammiano Marcellino (XVII 10,2) cita i libri tagetici e vegoici e difende (XXI 1,9-10) la divinazione pagana dalle accuse cristiane, citando esplicitamente Tages monstrator disciplinae11. Nonostante qualche isolato tentativo di avvicinamento, l’Etrusca disciplina fu però profondamente ostile al cristianesimo: la parte che essa – ed esplicitamente un aruspice dal nome programmatico di Tages – avevano avuto, secondo la testimonianza di Lattanzio (mort. pers. 10,3; div. IV 27,4) nell’epurazione militare del 297 e nella persecuzione dioclezianea12 spiega perché il primo sacerdozio pagano preso di mira da Costantino sia stato quello degli aruspici: il 1° febbraio del 319 una costituzione imperiale (C.Th. IX 16,1) vieta agli aruspici di entrare nelle case private e permette a coloro che desiderano superstitioni suae … servire di esercitare solo publice i loro riti. Nel 320 Costantino ribadisce in un’altra costituzione (C.Th. XVI 10,1) il divieto dell’aruspicina privata, permettendo solo quella pubblica ed evitando, forse per rispondere alle proteste del senato, ancora in maggioranza pagano, di chiamare superstitio la stessa aruspicina (consuetudinis vestrae … sollemnia). La condanna si aggrava però con Costanzo II e diventa poi definitiva con Teodosio, con gli editti del 391 e del 392 (C.Th. XVI 10,10; 11; 12), definito quest’ultimo “l’editto della morte del paganesimo”: chi oserà sacrificare e spirantia exta consulere sarà punito come il reo di lesa maestà13. Non c’è dubbio che lo scontro fra il cristianesimo e l’Etrusca disciplina fu durissimo: esso si manifesta anche nell’ultimo intervento degli aruspici riferi11 Sulla sopravvivenza dell’Etrusca disciplina nel tardo antico, v. S. Montero, Política y adivinación en el Bajo Imperio Romano: emperadores y harúspices (193 D.C. - 408 D.C.), Bruxelles 1991, passim; D. Briquel, Chrétiens et haruspices: la religion étrusque, dernier rempart du paganisme romain, Paris 1998, passim; M. Sordi, L’Etrusca disciplina e l’impero romano cristiano, in Da Costantino a Teodosio il Grande: cultura, società, diritto. Atti del convegno internazionale, Napoli, 26-28 aprile 2001, ed. U. Criscuolo, Napoli 2003, p. 395 sgg. 12 M. Sordi, I Cristiani e l’impero romano, Milano 2004, p. 164 sgg. 13 Sordi, L’Etrusca…, p. 397 sgg.
Il paradosso etrusco: il “diverso” nelle radici profonde di Roma e dell’Italia romana
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to da Zosimo (V 41) e noto anche a Sozomeno (H.E. IX 6) al tempo del primo attacco a Roma di Alarico, nel 408/409. In quel tempo, mentre Roma era assediata, gli aruspici vennero a Roma dall’Etruria ed offrirono al prefetto di Roma, Pompeiano, e poi al Papa Innocenzo di salvare Roma, come avevano già fatto con Narni, attirando sui barbari tuoni e lampi. Invitati a celebrare i loro riti di nascosto, essi risposero, sempre secondo Zosimo, che tali riti sarebbero stati efficaci solo se compiuti pubblicamente e se il senato fosse salito in Campidoglio. La notizia, spostata probabilmente dal 406 al 408, va inquadrata in ogni caso nella richiesta da parte dei pagani del ripristino del culto pubblico che, secondo Agostino (civ. V 22-23) e Orosio (hist. VII 37,6-7), si diffuse al tempo dell’invasione di Radagaiso e che creò, secondo Orosio, anche fra i Cristiani periculosa confusio. Radagaiso fu poi sconfitto da Stilicone sui monti fiesolani ed è interessante osservare che proprio Fiesole era, secondo Silio Italico, il centro degli haruspices fulguratores e che proprio ai Fiorentini fu preannunciata, secondo il biografo di Ambrogio, Paolino (vita Ambr. 50,2), la vittoria romana da un’apparizione del Santo, morto ormai da alcuni anni. Alla luce dell’importanza che l’Etrusca disciplina aveva assunto nell’ultima resistenza del paganesimo, l’insistenza della propaganda crisiana sulla manifestazione, nel cuore della vecchia Etruria, di fatti miracolosi, acquista un significato particolare: la vittoria sine proelio sull’esercito di Radagaiso, atterrito divinitus, che Ambrogio annunzia per il giorno dopo ai Fiorentini, e la vittoria sine proelio che gli aruspici fulguratores pretendono di aver riportato salvando Narni, si rivelano come le opposte manifestazioni di fedi contrapposte14. Quella del 408/409 (o del 406?) fu l’ultima apparizione degli aruspici ufficiali, rappresentanti riconosciuti della religio publica populi Romani, appartenenti all’aristocrazia etrusca e abituati a trattare con le autorità dell’impero. Nel VI secolo, poco prima della spedizione di Narsete, Procopio (IV 21) ricorda, durante la guerra gotica, la venuta a Roma di aruspici dalla Toscana: ma si tratta di contadini ignoranti, che vengono accolti con scherno. L’antica religione sopravvive nel folklore e nell’erudizione: alla corte di Giustiniano, Giovanni Lido, un erudito cristiano, attinge ancora, nel De ostentis e nel De magistratibus, ai testi etruschi, che trova ancora – a quanto sembra – in versione bilingue, nelle biblioteche15.
14 M. Sordi, Augustinus, De civ. Dei V, 23 e i tentativi di restaurazione pagana durante l’invasione gotica del V secolo, “Augustinianum” 25 (1985), p. 205 sgg.; Ead., L’impero romano cristiano al tempo di Ambrogio, Milano 2000, p. 86 sgg. 15 Briquel, Chrétiens…, p. 197 sgg.; p. 199 n. 2.
Sopravvivenza di istituzioni etrusche in età imperiale Luciana Aigner-Foresti
Illustri studiosi quali H. Rudolph, A. Rosenberg e S. Mazzarino hanno trattato già in passato, più o meno estesamente, il tema delle magistrature municipali che sarebbero, secondo H. Rudolph – sulla scia di Mommsen –, di origine romana, secondo A. Rosenberg di origine latina e secondo S. Mazzarino epicorie. Prendo oggi in considerazione in particolare le istituzioni ceretane di età imperiale, del tutto diverse da quelle di altre città della regio VII. I progressi fatti in questi ultimi anni da studi etruscologici del tutto indipendenti dal tema qui proposto, invitano infatti a riprendere l’argomento. Essi permettono di apportare alcune prudenti precisazioni alla tesi che le anomalie della costituzione ceretana di età imperiale siano legate alla sopravvivenza di istituzioni etrusche. Ricordo anzitutto i dati di fatto: a Caere tre iscrizioni latine riportano il titolo di dictator, due il titolo di aedilis con alcune specificazioni ed una il titolo di quaestor. Due iscrizioni sono di età claudia, la terza risale al 113-114 d.C., e dunque all’epoca di Traiano. La prima iscrizione in ordine cronologico è di età claudia e dice: T(ito). Egnatio. T(iti). f(ilio). Vot(uria tribu). Rufo. q(uaestori). a(e)d(ili). dict(atori) aed(ili)Etrur(iae) // Egnatia. T(iti). L(iberta). Comp // fecit. sibi. et. suis // T(itus). Egnatius / T(iti). f(ilius). Rufus / vixit ann(is) II et / dies XV.
Tito Egnazio Rufo avrebbe ricoperto le cariche di quaestor, aedilis, dictator e aedilis Etruriae. L’iscrizione è di carattere funerario e dunque privato. Il cursus honorum è ascendente: nella veste di quaestor Rufo si era occupato delle finanze, in quella di aedilis, senza successiva specificazione, dell’approvvigionamento dei cereali. Poiché dittatore, Egnazio Rufo aveva ricoperto una
H. Rudolph, Stadt und Staat im römischen Italien, Leipzig 1935; Rosenberg 1913, 51 sgg.; Mazza1945, 101 sgg.; Inoltre G. De Sanctis, La dittatura di Caere, in Scritti in onore di B. Nogara, Roma 1937, 147 sgg.; Id., Storia dei Romani, I, Firenze 1980 (nuova edizione, stabilita sugli inediti a cura di S. Accame), 465-485; Letta 1979, 34 sgg.; Momigliano 1989, 147 sgg. CIL XI 3615; M. Cristofani, Un <cursus honorum> di Cerveteri, “SE” 35 (1967), 609-618, qui 616. rino
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carica molto alta che lo aveva portato ad occuparsi della giurisdizione, forse dell’ambito militare locale e/o dei sacra, a meno che uno di questi ambiti, probabilmente quello dei sacra, non sia stato di competenza dell’aedilis Etruriae. Quale aedilis Etruriae Egnazio Rufo ricoprì una carica di contenuto discusso tra gli etruscologi e non, testimoniata con sicurezza anche a Cortona e a Chiusi in epigrafi di età augustea la prima, e nel I secolo d.C. la seconda: Rosenberg considerò l’aedilis Etruriae il funzionario di una lega etrusca di carattere sacrale, Pallottino pensò ad un magistrato federale inferiore per carica al successivo praetor Etruriae testimoniato dall’epoca di Traiano; secondo Cristofani, infine, “l’aedilis Etruriae ricalca le magistrature della lega etrusca” – ma le uniche notizie che si hanno sull’esistenza di una lega etrusca risalgono all’epoca della guerra di Veio contro Roma, e dunque a fatti di circa 400 anni prima, e l’unico funzionario della lega testimoniato è chiamato sacerdos. La seconda iscrizione, anch’essa di età claudia, è di carattere pubblico e ricorda una donazione alle divinità della curia Aesernia da parte del dittatore Aulo Avillio Acanto: Deos Curiales / genium T(iti) Claudi Caisaris Augusti / p(atris) p(atriae) Curiae Aesernianae / A(ulus) Avillius Acanthus / dictator / sua impensa posuit.
La terza epigrafe è di carattere pubblico come la seconda. Il testo riporta in belle lettere parti del verbale di fatti che presero l’avvio il 13 aprile del 113 d.C. e si conclusero il primo agosto del 114. La parte dell’iscrizione che ci interessa dice: L(ucio) Publio Celso (bis) C(aio) Clodio Crispino co(n)s(ulibis) idibus Aprilib(us) / M(arco) Pontio Celso dictatore C(aio) Suetonio Claudio aedile iure dicendo
B. Liou, Praetores Etruriae XV populorum. Étude d’épigraphie (Coll. Latomus. 106), Bruxelles 1969, 69, 75, 82 sgg. Rosenberg 1913, 56, 62 sg.: questo aedilis Etruriae sarebbe il successore del maru etrusco, come il più tardo praetor Etruriae sarebbe il successore dello zilath. M. Pallottino, Nuovi spunti di ricerca sul tema delle magistrature etrusche, “SE” 24 (1955-1956), 45-72. Cristofani, Un <cursus honorum>…, 617. L’unico funzionario della lega etrusca che è ricordato dalle fonti è un sacerdos eletto dai rappresentanti dei dodici populi e addetto agli affari religiosi: Liv. V 1,5. CIL XI 3593. L’ultima riga del testo fu ad un certo punto erasa ed al nome di Acanto fu aggiunto il nome di un secondo dittatore, un certo Marco Giunio Eutyco. A(ulus) Avillius Acanthus / M(arcus) Iunius Eutychus dictator(es) de suo posuer(unt). La dittatura si riferiva ad anni diversi: v. Bormann in CIL XI 3593. Anche Rosenberg 1913, 67 esclude l’idea di collegialità per la dittatura che a Roma era stata sempre la carica unica per eccellenza. Letta 1979, 36 fa notare che ancora una cinquantina di anni dopo l’iscrizione di Acanto Caere aveva un solo dictator. CIL XI 3614.
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praef(ecto) aerari / [l. 13] in curiam fuerunt Pontius Celsus dictat(or) Suetonius Claudianus aed(ilis) iuri dic(undo) M. Lepidius Nepos / aedil(is) annon(ae)…
Si apprende così che durante il consolato di Lucio Publio Celso e di Caio Clodio Crispino (113 d.C.), quando erano in carica il dictator Marco Ponzio Celso e l’aedilis iure dicundo praefectus aerarii Caio Svetonio Claudiano, convennero alla Curia di Caere nove persone. Lo stesso dictator Ponzio Celso e l’aedilis Svetonio Claudio avevano convocato anche l’aedilis annonae Marco Lepido Nepote e sei decurioni per esaminare una richiesta fatta da Ulpio Vesbino alle autorità cittadine. Vesbino, un liberto di Traiano, chiedeva l’assegnazione di una parcella di terreno pubblico per edificarvi a proprie spese una sede per gli Augustali degna della città di Caere. La domanda di Vesbino fu approvata; in seguito si richiese per via epistolare anche l’assenso del curator Curiazio Cosano, che fu dato. In occasione dell’inaugurazione della sede, il primo agosto del 114 d.C., Vesbino fece redigere l’iscrizione a perenne memoria della sua opera pia. L’avvenimento viene ricordato una volta riportando la data della riunione in base ai consoli romani, ed una seconda volta nominando le autorità cittadine (il dictator e l’aedilis iure dicundo praefectus aerarii) competenti. Il dictator e l’aedilis iure dicundo praefectus aerarii sono le cariche più alte – e, infatti, convocano l’aedilis annonae ed il consiglio dei decurioni –, l’aedilis annonae è una carica subalterna; il curator (rei publicae), infine, è il rappresentante del governo centrale10. All’epoca di Traiano l’ordinamento magistratuale supremo di Caere era dunque annuale. All’aedilis iure dicundo praefectus aerarii spettavano l’esercizio della giurisdizione ed il controllo delle finanze, l’aedilis annonae curava l’approvvigionamento dei cereali, ed il dictator aveva altri compiti, legati probabilmente all’ambito militare o alla cura dei sacra. Un paragone con le magistrature ricoperte da Egnazio Rufo in età claudia permette di annotare i cambiamenti verificatisi a Caere in campo istituzionale nel giro di alcuni decenni. L’aedilis Etruriae non è testimoniato al tempo di Traiano, il che significa o che abbiamo una lacuna nella tradizione oppure che la carica era stata eliminata. L’edilità senza specificazione e subalterna dei tempi di Egnazio Rufo era stata raddoppiata dando origine ad un aedilis annonae per l’approvvigionamento dei cereali e ad un secondo edile che aveva assunto al tempo di Traiano competenze giurisdizionali, togliendole al dictator di età claudia e diventando un insolito aedilis iure dicundo. A questi furono affidate anche le funzioni che erano state del questore (che ora non compare più), vale a dire l’amministrazione dell’erario; così l’aedilis iure 10
M. Sartori, Osservazioni sul ruolo del curator rei publicae, “Athenaeum” 67 (1989), 5 sgg.
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dicundo ebbe anche le funzioni di praefectus aerarii. La dittatura, che forse manteneva uffici in campo militare a livello locale, rimaneva una carica molto alta del municipio, ora condivisa con l’aedilis iure dicundo praefectus aerarii. È possibile che eliminando la questura i riformatori ceretani abbiano voluto seguire l’esempio di Roma dove la carica era stata abolita dal 44 d.C. Ma l’affidamento, unico nel suo genere, dell’erario all’aedilis iure dicundo, vale a dire ad uno dei due capi supremi, può altrettanto essere stato legato al cattivo stato delle finanze cittadine, situazione questa che aveva richiesto un funzionario di maggior competenza o prestigio: l’intervento di un curator reipublicae, nuovo tipo di funzionari imperiali previsti per casi eccezionali, implica momenti di crisi soprattutto finanziaria. A Roma la dittatura non compariva più dal 202 a.C., e cioè dalla fine della seconda guerra punica: le dittature di Silla e di Cesare erano state, com’è noto, cariche straordinarie. La dittatura ceretana non fu dunque introdotta o imposta da Roma in età imperiale, ma fu una carica che esisteva a Caere da tempo e che accomunava Caere a Roma e/o alle città latine. Dovremo ricercare i precedenti di questa dittatura nel passato di Caere etrusca. *** Passiamo allora all’altro estremo della storia di Caere, vale a dire all’epoca arcaica11. Una valutazione complessiva dell’organizzazione politica ceretana permette di riconoscere anzitutto uno strato sociale benestante, quello che nel VII secolo a.C. è sepolto, con ricchi equipaggiamenti, nei tumuli monumentali delle necropoli del Sorbo, della Banditaccia e del Monte Abatone. Ricchezza significa potere, significa che i gruppi benestanti potevano cogliere ogni occasione sia per imporre la propria volontà, sia per legarsi a persone che ubbidivano ai loro comandi. Nella Caere del VII secolo a.C. tali gruppi di aristocratici formavano un’oligarchia, un organo di comando che organizzava la vita dell’intera comunità. Alcune tombe monumentali con la rappresentazione di persone su un trono e con uno scettro e dunque con insegne dense di significato politico – ricordo il trono e lo scettro della “tomba delle due sedie”12 – suggeriscono l’emergere dalle file oligarchiche di singoli personaggi la cui posizione e la cui azione è ricordata dalle fonti scritte. Per Livio e Virgilio Mezenzio è un rex13,
11
Camporeale 2004, 225 sgg. G. Colonna - F.-W. Von Hase, Alle origini della statuaria etrusca: la tomba delle statue presso Ceri, “SE” 52 (1984 [1986]), 13-59. 13 Re degli Etruschi: Liv. I 2,3; Dion. Hal. I 64,4; CIL I2 316; Varr. ap. Plin. nat. XIV 88. Re di Caere: Liv. I 2,3; Verg. Aen. VIII 481. L. Aigner-Foresti, in Der neue Pauly, VIII (2000), c. 148 sg. s.v. Mezentius. 12
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un certo Orgolnio lo è altrettanto, entrambi sono condottieri. Un’iscrizione dedicatoria ceretana che ricorda un Laucie Mezentie, databile intorno al 670 a.C., colloca in quel periodo l’azione di una famiglia Mezentie14. Orgolnio fu il rex Caeritum “espulso dalla carica” dal praetor tarquiniese Aulo Spurinna, come ricorda un elogium di età claudia15. L’episodio, se storico, sarebbe avvenuto, secondo Torelli, che collega Aulo Spurinna con fatti della storia tarquiniese, tra la fine del V e la metà del IV secolo a.C. Pallottino colloca invece l’episodio sullo sfondo di episodi di guerra avvenuti agli inizi del V secolo a.C.16 A me sembra che l’unico appiglio cronologico che noi abbiamo è la seconda metà del VI secolo a.C.: intorno al 540 a.C., infatti, è testimoniata a Tarquinia la nobile famiglia tarquiniese degli Spurinna, come sappiamo dall’iscrizione con il suo nome nella cosiddetta Tomba dei Tori decorata con splendide pitture17. Si tratta di un appiglio debole, ne convengo, ma è l’unico veramente oggettivo che abbiamo. L’esistenza di un rex a Caere è provata anche da due epigrafi databili intorno alla metà circa del VI secolo a.C. che riportano la parola kalatur: mi kalaturus fapenas cenecu heqie, “sono del Calator Fabio Ceneco” oppure “sono di Calator Fabio Ceneco”; e, calaturus mi, “sono del (di) Calator”18. Kalatur è un prestito dal latino calator, prestito che, se anche nelle nostre due iscrizioni può essere stato un nome di persona, era stato originariamente la denominazione di un incaricato del rex19. Il rex ceretano aveva probabilmente un kalatur a sua disposizione, personaggio legato ai suoi uffici religiosi come lo era il calator del rex romano. Una delle due iscrizioni proviene da un edificio di grandi dimensioni che gli archeologi considerano una “residenza” ovverosia un edificio sacro20. Un momento importante della storia istituzionale ceretana è fissato sul-
14 D. Briquel, A propos d’une inscription redécouverte au Louvre. Remarques sur la tradition relative a Mézence, “REL” 67 (1989), 78-92; F. Gaultier - D. Briquel, Réexamen d’une inscription des collections du Musée du Louvre: un Mézence à Caeré au VIIe siècle av.J.-C., “Académie des Inscriptions & BellesLettres, Comptes Rendus 1989, Janvier-Mars”, Paris 1989, 99-115. 15 Torelli 1975, 39 sg. 16 M. Pallottino, Etruscologia, Milano 1992, 320. 17 S. Steingräber, Etruskische Wandmalerei, Stuttgart - Zürich 1985, 358 sg., n. 120. 18 ET Cr 2.31; Mazzarino 1947, 198 sg.; M. Cristofani, Nuovi dati per la storia urbana di Caere, “BdA” 35-36 (1986), 1-24. 19 I discendenti di un Marcus Marcius che prima del 210 a.C. fu il primo plebeo a diventare rex sacrificulus presero l’appellativo rex che diventò il cognomen dei Marcii Reges: Liv. XLIII 1,12. 20 A. Maggiani, II.A. L’area della città. La Vigna Parrocchiale, in A.M. Sgubini Moretti et al. (edd.), Veio, Cerveteri, Vulci. Città d’Etruria a confronto. Catalogo della mostra, Milano 2001, 129 n. II.A.2.15; A. Maggiani - A. Rizzo, Le campagne di scavo in loc. Vigna Parrocchiale e S. Antonio, in Dinamiche di sviluppo delle città dell’ Etruria meridionale. Atti del XXIII convegno di studi etruschi e italici (Roma - Veio - Cerveteri / Pyrgi - Tarquinia - Tuscania - Vulci - Viterbo 2001), Pisa - Roma 2005, 175 sgg.
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le tre lamine d’oro trovate in un’area sacra di Pyrgi21. Due lamine portano un’iscrizione in etrusco ed una in fenicio; i testi, databili agli inizi del V secolo a.C., ricordano la donazione “di un luogo sacro” ad Uni-Astarte da parte di un certo Thefarie Velianas che, secondo il testo della lamina A, ricopriva lo zilacato: qefariei. Velianas …ci avil …zilacal seleitala22. La munificenza del dono fatto da un magistrato, il solenne riferimento ad una divinità, l’edizione bilingue delle iscrizioni e la duplice versione del testo etrusco testimoniano l’importanza della donazione che ebbe per certo anche valenza politica, anche se i testi mettono in risalto, nel complesso, non tanto Caere quanto Velianas stesso, la sua carica e la sua azione. L’incisione su lamine d’oro garantiva la perpetuazione dell’avvenimento; il testo in fenicio voleva rendere accessibile a Fenici la munificenza di Velianas. Secondo il testo fenicio Velianas sarebbe stato MLK ‘L KYŠRY’, “reggente” o “regnante” oppure “re su Caere”, ŠNT ŠLŠ III “per tre anni” secondo G. Garbini23. Per Levi Della Vida la donazione ebbe luogo “nell’anno tre”, secondo Donner e W. Röllig “unter seiner Regierung (im) Jahr drei”24. Fondamentale in questo contesto è il richiamo dei semitisti alla formula MLK ‘L KYŠRY’, “reggente / regnante / re su Caere” con una costruzione “regnante, reggente o re su” fuori del comune al posto dell’usuale “re di”25. Per la traduzione della formula etrusca ci avil, “tre anni” sulla lamina A, formula parallela a quella fenicia ŠNT ŠLŠ III, sono state fatte diverse proposte: M. Pallottino suggerisce “da tre anni o per tre anni”, ed esclude “nell’anno terzo”26 distanziandosi così dal testo fenicio con il quale concorda invece M. Cristofani che scrive “nell’anno tre”27. Anche A.J. Pfiffig pensa piuttosto a “unter seiner Herrschaft (für) drei Jahr(e)”; per Maggiani, infine, “lo zilacato di Thefarie Velianas durava da tre anni; non era dunque almeno apparentemente una magistratura annuale normale…”28. Si tratta di sfumature semantiche importanti al fine di cogliere il momento della carriera di Velianas in cui egli fece la donazione, allo scopo di stabilire la natura della 21 Aa.Vv., Scavi nel santuario etrusco di Pyrgi. Relazione preliminare della settima campagna, 1964, e scoperta di tre lamine d’oro inscritte in etrusco e in punico, “ArchClass” 16 (1964), 49-117. 22 ET Cr 4.41; 4.42; 4.5. 23 G. Garbini, L’iscrizione punica, in Aa.Vv., Scavi…, 66 sgg. 24 H. Donner - W. Röllig, Kananäische und aramäische Inschriften, Wiesbaden 1971-1976, 331. 25 W. Röllig, in Aigner-Foresti - Siewert 2006, 90 sg. 26 M. Pallottino, Le iscrizioni etrusche, in Aa.Vv., Scavi…, 92 sg. 27 M. Cristofani, Ripensando Pyrgi, in Miscellanea ceretana (Quaderni del Centro di studio per l’archeologia etrusco-italica, 17), Roma 1989, 85-93, part. 89 sgg. 28 A.J. Pfiffig, Uni-Hera-Astarte. Studien zu den Goldblechen von S. Severa - Pyrgi mit etruskischer und punischer Inschrift, Wien 1965, 13 sgg.; A. Maggiani, Magistrature cittadine, magistrature federali, in La lega etrusca dalla dodecapoli ai quindecim populi. Atti della giornata di studi (Chiusi 1999), Pisa - Roma 2001, 37-49, qui 39.
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sua carica che, per la formula ci avil, “nell’anno tre”, non era a termine29. A suo tempo H. Rix collegò il termine zilacal alla parola successiva seleitala, essendo entrambe in genitivo. La locuzione etrusca zilacal seleitala corrisponderebbe alla denominazione di una carica (“Amtsbezeichnung”)30. Più di recente A. Maggiani ha ripreso la proposta di Rix31. Fermo restando per zilac il significato acquisito di praetura e dando a sela il significato di “grande” – significato accettato anche da G. Colonna32 – Maggiani propone di tradurre *zilac seleita con praetura maxima33. Velianas sarebbe stato dunque uno *zilaq seleita, un praetor maximus. Il titolo *Zilaq seleita è testimoniato solo su una delle due iscrizioni etrusche di Pyrgi, mentre il titolo zilaq o la magistratura zilac ricorrono più tardi a Caere ancora tre volte, e cioè intorno alla metà del V secolo a.C. su un frammento di ceramica attica, nel IV secolo a.C. nella formula eponimica “nello zilacato di Larth Nulathe” incisa su un peso, ed alla fine del IV o inizio del III secolo a.C. sul sarcofago di Venel Tamsnie che fu zilath e compì azioni degne di essere tramandate alla posterità34. In un fondamentale articolo A. Momigliano riassunse le opinioni degli studiosi sulla figura del praetor maximus35: questi sarebbe stato un praetor maior tra due praetores, oppure la designazione di entrambi i pretori-consoli di età arcaica, o ancora quello dei due consoli o pretori che in età arcaica aveva i fasci, o, infine, quel magistrato che alle idi di settembre figgeva il clavus annalis secondo il noto passo di Livio36. Questo magistrato, prosegue 29
Siewert in Aigner-Foresti - Siewert 2006, 92. H. Rix, Pyrgi-Texte und etruskische Grammatik, in Akten des Kolloquiums zum Thema Die Göttin von Pyrgi. Archäologische, linguistische und religionsgeschichtliche Aspekte (Tübingen 1979), Firenze 1981, 83-98, qui 91, tav. 3. 31 Maggiani 1996 (1998), 102 sgg. 32 G. Colonna, Epigrafi etrusche e latine a confronto, in Atti dell’XI Congresso Internazionale di Epigrafia greca e latina (Roma 1997), Roma 1999, 435-450, qui 444 e n. 50. 33 Maggiani 1996 (1998), 105. 34 Per il frammento di ceramica attica: D.F. Maras, “REE” 69 (2003 [2004]), 322 n. 30: nella trascrizione si legge […]zilc[…], nel disegno invece si riconoscono cinque lettere (zilci). Per il peso: A. Maggiani, La libbra etrusca. Sistemi ponderali e monetazione, “SE” 65-68 (2002), 163-199. Per il sarcofago di Venel Tamsnie: ET Cr 1.161; G. Proietti, L’ipogeo monumentale dei Tamsnies: considerazioni sul nome etrusco di Caere e sulla magistratura cerite nel IV secolo a.C., “SE” 51 (1983 [1985]), 570 sgg.; G. Morandi Tarabella, Prosopografia etrusca. I. Corpus. 1. Etruria meridionale, Roma 2004, 499, DXXXVII, n. 1; Maggiani 1996 (1998), 105 sg. Sullo zilath del cippo di Rubiera: P. Amann, Die etruskischen „Zippen von Rubiera“ aus der südlichen Poebene. Neue Vorschläge und Versuch einer Einordnung, in H. Heftner - K. Tomaschitz (edd.), Ad Fontes! Festschrift für Gerhard Dobesch zum fünfundsechzigsten Geburtstag am 15. September 2004, Wien 2004, 203-214. 35 A. Momigliano, Praetor maximus e questioni affini, in Studi in onore di G. Grosso, Torino 1968, 161-175 (= Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, 171-181, qui 178). 36 Liv. VII 3,5. 30
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Momigliano, potrebbe essere stato o un console, o un dittatore in caso di guerra o un interrex in caso di vacanza istituzionale. Quest’ultima interpretazione risale a Mommsen ed è stata proposta ancora in tempi recenti da W. Kunkel e R. Wittman37. Essa è l’unica accettabile per la nostra problematica, poiché le altre tre possibilità prevedono due praetores dei quali nella costituzione ceretana non c’è alcuna traccia38. Concludiamo dunque che il titolo praetor maximus di Velianas equivale a quello di console o dittatore o interrex. Ma per Caere è da escludere un legame di praetor maximus con “console” e “interrex” essendo queste ultime cariche legate solo a Roma. Rimane allora solo l’equiparazione del praetor maximus col dittatore. Anche per Mazzarino “i termini ... dictator e praetor maximus” sarebbero stati probabilmente equipollenti e rimonterebbero “ad epoca abbastanza antica”39. Da parte sua Dione Cassio in Zonara riferisce che a Roma il dictator subentrò al rex ed aggiunge che il primo dittatore sarebbe stato Tito Larcio40. Il fatto che la famiglia dei Larcii non fece mai parte dell’aristocrazia romana, garantisce l’attendibilità di Dione. Anche nel Lazio si ebbero città latine quali Aricia, Nomentum, Lanuvium e Tusculum che, una volta esonerato il rex originario, ebbero un dictator già nel VI secolo a.C. e lo mantennero anche quando divennero municipia civium Romanorum e cioè nel 351 a.C. Tusculum e nel 338 a.C. Aricia, Lanuvium e Nomentum41. Tibur, Praeneste e Lavinium sostituirono col tempo il dictator originario con due praetores42. Thefarie Velianas è un magistrato supremo di Caere, ricopre dunque la posizione eminente che era stata del rex, ma detiene una carica, lo zilacato seleita, la praetura maxima. Ma allora il rex ceretano originario fu sostituito da un “re”-magistrato, da un “re” elettivo, come avvenne nelle città latine e a Roma e come avvenne ad Atene dove l’archon basileus, l’arconte-re, era un magistrato43. La notizia che le insegne dei re etruschi passarono ai magistrati romani44 è un altro indizio che anche in Etruria si passò dalla regalità alle cariche magistratuali. Nelle città latine il re-magistrato fu chiamato dictator o praetor, a Roma dictator / praetor maximus ed a Caere *zilaq seleita / praetor maximus. Il traduttore fenicio del testo di Pyrgi ebbe difficoltà a trasferire nella sua lingua una carica, quella del re-magistrato, appunto, che gli doveva sembrare “stra37
Kunkel - Wittman 1995, 697. Mazzarino 1945, 161 vide nello zilaq parcis e nello zilaq eterau una coppia di Zilath. 39 Mazzarino 1945, 159. 40 Zon. VII 13-14; Urso 2005, 43 sg. 41 Mazzarino 1945, 159; Letta 1979, 37. 42 Mazzarino 1945, 159; Letta 1979, 37 sgg. 43 G. Busolt, Griechische Staatskunde, München 19203, 348 sg. 44 Liv. I 8,3; Dion. Hal. II 29; III 61. 38 Ma
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na” e per la quale non aveva a disposizione un termine esatto. I Greci chiamarono basileis i sufeti fenici; dunque i supremi magistrati fenici furono visti dai Greci come “re”45. Ma la carica di Thefarie Velianas non era quella di un sufeta, da una parte perché sine collega, dall’altra perché non era a termine46. L’ inconsueta formula fenicia di “reggente” o “regnante” oppure “re su Caere” tradisce il disagio del traduttore. Lo *zilaq seleita è testimoniato a Caere una sola volta, né lo troviamo nelle altre città etrusche. Ciò può essere dovuto alla lacunosità dei nostri dati, ma non lo ritengo probabile: a Caere abbiamo infatti altre tre iscrizioni successive a quella di Thefarie Velianas che nominano uno zilath. Lo zilath ceretano è pur sempre un magistrato supremo e unico, come dimostra la formula eponimica di Larth Nulathe (IV secolo a.C.) e, forse, gli alti compiti eseguiti da Venel Tamsnie (fine del IV o inizio del III secolo a.C.). Mi sembra dunque piú probabile che il termine *zilaq seleita / praetor maximus col tempo sia stato modificato nel suo contenuto diventando zilaq, praetor. Nella seconda metà del IV secolo a.C. Roma riordinò le città latine di Aricia, Nomentum, Lanuvium e Tusculum lasciando loro il magistrato unico chiamato dictator. Ritengo probabile che allora anche lo zilaq ceretano sia stato chiamato dictator nel senso dato al termine nelle città latine e cioè di magistrato supremo, unico e ordinario, ben lontano dal senso romano di magistrato straordinario, non cogliendosi a Roma alcuna differenza tra la suprema carica ceretana e la dittatura latina. Mentre il potere assoluto e a termine del dittatore romano si ricollegava, da una parte all’antico principio monarchico, dall’altra alla necessità di controllo proprio delle costituzioni repubblicane. Il caso di Nomentum latina che in età imperiale aveva un dictator ed un aedilis iure dicundo come li aveva Caere, dimostra che Caere etrusca si era orientata verso il mondo latino e non verso Roma. In ogni caso: Roma non si oppose né al mantenimento della carica unica anche a Caere (come a Nomentum, Lanuvium, Aricia e Tusculum), né alla scelta del termine latino dictator. Roma stessa invece usò il termine praetor per il meddix osco47 e per lo zilaq etrusco, come, mi sembra, dimostra l’iscrizione latina di G. Genucio. Clousino. prai che si trova sulla parete d’ingresso di una costruzione sotterranea ceretana di carattere monumentale. Per i particolari paleografici dell’iscrizione rimando al disegno nella pubblicazione di M. Torelli48. Nell’abbreviazione prai- si volle riconoscere un praitor – così Cristofani – oppure un praifectos – così Torelli che si richiamò ad un passo di Festo se45
P. Siewert - W. Röllig, in Aigner-Foresti - Siewert 2006, 208. W. Huss, Die Karthager, München 2004, 333 sgg. 47 Galsterer 1976, 52 sg. 48 Torelli 2000, 141-176. 46
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condo cui Caere sarebbe stata una prefettura49. Ma, partendo dalle constatazioni sia che la forma del nome di persona Clousino non è altro che la forma latinizzata del nome di persona etrusco Clevsina ben testimoniato in Etruria50, sia che questo Gaio Genucio Clousino nominato a Caere non è altro che il console romano del 273 a.C., Gaio Genucio Clepsina51, c’è da chiedersi, semplicemente, perché mai il personaggio sicuramente etruscofono che operò il calco linguistico, avrebbe “ricalcato” soltanto il nome e non anche la carica di Clepsina come magistrato di Caere; né vale controbattere che il prai- fu aggiunto da una seconda mano52, e dunque in un secondo momento. Anche prai- è dunque un calco linguistico come Clousino e chi lo operò volle mettere in latino una carica ben nota ai Ceretani e che non poteva essere altro che quella del praetor / zilaq. La carica del praetor era indubbiamente più conosciuta a Caere della prefettura che Roma stessa aveva creato da poco tempo e che quindi doveva essere per i Ceretani qualcosa di estraneo. Del resto anche il fatto che a Fundi e a Formiae, che Festo nomina insieme a Caere quali rappresentanti del suo secondo tipo di prefetture, il sommo magistrato della città fosse un praetor53 conferma che Roma chiamava praetor il sommo magistrato ceretano, chiamato invece dictator dai Latini. *** Resta ora da seguire se e come a Caere si sia evoluta la seconda carica testimoniata e cioè il maronato. A suo tempo Mazzarino “conguagliò” l’etrusco maru con il latino aedilis considerando entrambi “una comune elaborazione di comuni motivi” provenienti “da una koiné culturale italica”54. Da parte etruscologica M. Cristofani ha sostenuto una corrispondenza tra maru e quaestor55, ma Maggiani ricorda che il termine quaestor è in umbro qvestur56. Vediamo allora più da vicino le due iscrizioni ceretane che testimoniano il maru, entrambe venute alla luce dopo la morte di Mazzarino. Il titolo etrusco di maru nella forma marunu[ compare per la prima volta in una delle due iscrizioni su un cippo databile intorno al 570-550 a.C. pro-
49
Cristofani 1989, 167 sgg.; Torelli 2000, 141 sgg. ET s.v. 51 Inscr. It. XIII, III s., 40-47; Dion. Hal. XX 16,1; Oros. hist. IV 3,5. 52 Torelli 2000, 151 sg. 53 In Fundi: Hor. sat. I 5,34; in Formiae: CIL X 6111. 54 Mazzarino 1945, 131 sg. 55 M. Cristofani, Società e istituzioni nell’Italia preromana, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, VII, Roma 1975, 53-112; Id., in Dizionario illustrato della civiltà etrusca, Firenze 1985, s.v. magistratura. 56 Cvestur: ST Um 8; kvestur: Va 23; Vb 2. 50
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veniente dalla località Tragliatella nell’ager Caeretanus57. Entrambe le iscrizioni sono assai lacunose. Secondo un recentissimo studio di G. Colonna il cippo doveva essere in origine accanto ad un altare, apparteneva quindi ad un’area sacra, questa in forma di recinto, area che si trovava non lontano dal confine tra il territorio ceretano e quello veiente58. Il luogo e le circostanze del rinvenimento suggeriscono che i due testi devono essere considerati, ancora secondo Colonna, una dedica sacra. Per la seconda iscrizione che suona [qui mi]ni marunu[ci venelusi (vel sim.)] / [hulus]i (vel sim.) hil qelenq[as ceseqce (vel sim.)] / [zicunce mi]ni ma avil[e acus (vel sim.)]
Colonna propone cautamente la traduzione “[Qui] me, nel maronato di…, avendo compiuto l’azione qel nei confronti del hil, [pose (e) fece iscrivere] me il monumento, Avile [---]”59.
La formula marunu[ci] sarebbe composta dunque da marunuc con l’aggiunta del suffisso pertinentivo -i; il suo significato potrebbe corrispondere a “nel maronato del Tale”. La formula si riferirebbe al marone “sotto il governo e probabilmente per iniziativa del quale ha avuto luogo l’evento commemorato dall’iscrizione”60. L’analogia con le iscrizioni eponimiche, del resto tutte posteriori, sarebbe soltanto formale. Fin qui Colonna. Il maronato di Tragliatella non è dunque eponimico, né collegiale, ed è di secondo ordine. Il maru di Tragliatella era un funzionario che aveva garantito con la propria autorità un’azione legata ad un’area sacra. Egli può aver agito in proprio o incaricato da un’altra persona che può essere stata un rex, un monarca, un magistrato o chiunque era a capo di Caere. Tre iscrizioni tarquiniesi del III-II secolo a.C. fanno menzione di un maronato collegato al culto di Bacco61 e quindi legato all’ambito sacrale. Il maronato è testimoniato a Caere anche nel IV-III secolo a.C.: Larth Lapicane figlio di Vel è il maru protagonista di una seconda iscrizione ceretana. Si tratta di quattro righe collocate a grandi lettere su un muro lungo la strada cimiteriale che porta alla necropoli della Banditaccia62. Si discute se si trat57
Maggiani, Magistrature…, 40: “di pieno VI secolo”. Colonna 2007, 83-109. 59 Colonna 2007, 101. 60 Colonna 2007, 100. 61 ET AT 1.1: marunuc pacaqura, “maronato del collegio dei bacchi”; AT 1.32: maru pacaquras caqsc, “maru del collegio dei bacchi e di Cath”; Ta 1.184: marunuc pacanaqi, “maronato nella dimora di Bacco (= nel Baccanale)”. 62 E. Benelli, “REE” 55 (1987-1988 [1989]), 325 sg., n. 95, tav. XLV; Maggiani 1996 (1998), 109 e n. 2. 58
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ta della parete di una strada o di una tomba che si apre sulla parte interna rispetto alla strada63. Il fatto che si tratti di un’iscrizione con il nome di un magistrato, incisa a grandi lettere e su una superficie ben levigata, suggerisce che l’iscrizione aveva carattere ufficiale e si riferiva alla strada, né si può escludere che la parete posteriore della tomba abbia coinciso con la fiancata della strada. L’iscrizione, disposta su tre righe, dice: larqal.v.c./ lapicane[s]/ v.c. marunu.ci/--inie. E. Benelli che la pubblicò per primo, ritenne ci un numerale indicante l’iterazione “o gli anni della durata della carica”64. Il punto che divide marunu da ci, e che è sicuro come si vede dal disegno della prima pubblicazione, mostra che si tratta di due parole. La ripetizione della filiazione v(elus). c(lan), “figlio di Vel” dopo il prenome e dopo il gentilizio è strana. Benelli pensa ad una svista di chi la scrisse, corretta in seguito ripetendo la formula di filiazione, tanto più che senza la sua ripetizione le tre righe avrebbero avuto la stessa lunghezza. Traduco quindi “di Larq Lapicane, figlio di Vel, esercitante la funzione di maru tre”, nel senso “per tre anni” oppure “per la terza volta” o simili. Anche Morandi Tarabella riporta entrambe le possibilità65. Nel suo studio sul cippo di Tragliatella, Colonna non ha preso in considerazione questa iscrizione e quindi non so se egli considera il punto di divisione tra marunu e ci rilevante da un punto di vista semantico. L’iscrizione di Tarquinia proveniente dalla tomba 5636 sui Monterozzi – una tomba gentilizia del II secolo a.C. e quindi cronologicamente vicina all’iscrizione di Lapicane – ricorda un Arnq: larisal: ruz: arce marunuc: spurana. ci tenu ril XXXIII, “Arnth, fratello die Laris fu marone cittadino …, morto a 33 anni”; egli avrebbe ricoperto il “maronato civico tre” (marunuc: spurana. ci)66. La parola spurana tra marunuc e ci mostra chiaramente che, nell’iscrizione tarquiniese, ci non fa parte di marunuc; ci esprime piuttosto un’iterazione, come del resto pensò Benelli per l’iscrizione ceretana di Lapicane. Il “maronato civico tre” avrebbe dunque il significato “per / da tre anni” oppure “per la terza volta” o simili. Si deve allora concludere che il maru Lapicane ricoprì una magistratura iterativa. L’iscrizione non parla delle sue funzioni, ma il fatto che queste siano state legate probabilmente più ad una strada che ad una tomba, come suggeriscono l’incisione a grandi lettere e la superficie levigata del suo supporto, induce a pensare che il magistrato se ne sia dovuto 63
Morandi Tarabella, Prosopografia…, 270, CCXCVI, 2. Benelli, “REE” 55 (1987-1988 [1989]). 65 Maggiani 1996 (1998), 110; Morandi Tarabella, Prosopografia… 66 ET Ta 1.88: Arnq: larisal: ruz: arce marunuc: spurana. ci tenu ril XXXIII, “Arnth, fratello di Laris fu marone cittadino tre (volte), morto a 33 anni”. 64
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occupare, forse controllandone l’agibilità da un punto di vista edilizio e/o assicurandone il finanziamento, o ancora: garantendone l’accesso da un punto di vista legale. La scarsa differenziazione delle magistrature etrusche in generale fa ritenere che un magistrato abbia avuto più compiti. La proposta di Colonna di un completamento marunu[ci] dell’iscrizione di Tragliatella (nel senso “nel maronato del tale ebbe luogo l’avvenimento”) non vale dunque per l’iscrizione di Lapicane che propone una carica magistratuale iterativa. La tesi di Colonna sul maru di Tragliatella ci porta così a riconoscere uno spostamento semantico, avvenuto nel tempo, della parola maru da un incaricato legato all’ambiente sacrale ad una magistratura. Tre iscrizioni umbre, una proveniente da Assisi67, una seconda dalle vicinanze di Gualdo Tadino68 ed una terza da Foligno69 attestano l’esistenza di maroni nel territorio umbro al confine con l’Etruria. Quella di Assisi dice: ager. emps. Et / termnas. oht(retie) / c. u. uistinie. ner. t. babr(ie) / maronatei / uois. ner. propartie / t. u. uoisiener / sacre. stahu “il campo fu comprato e limitato durante l’autorato di Gaio Vivennio Vestinio e di Nerio figlio di Tito Paprio, nel maronato di Properzio e di un Volsiniese. Io sto”
Quella di Gualdo Tadino: cubrar. matrer. bio. eso / oseto. cisterno. N. CLV / IIII / su. maronato / u. l. uarie: t. c. fulonie “questa fontana è stata fatta per 158 sesterzi per Cupra mater nel maronato di Livio, figlio di Lucio Vario, e di Tito, figlio di Gaio Folonio”
Quella di Foligno, infine, dice: bia. opset[ / marone[-?-] / t. foltonio [-?-] / se. p(e)tr(o)nio [-?-] “essendo maroni Tito Foltonio e Petronio”
Tutte e tre le iscrizioni sono databili nel III-II secolo a.C. e sono dunque cronologicamente vicine a quella di Larth Lapicane. Secondo il parere dei linguisti, il termine umbro maro sarebbe un prestito dall’etrusco70, e ciò fa ritenere che le funzioni del maro umbro, nel momento del prestito, siano state non dissimili da quelle del maru etrusco71. Il mondo latino conosce la parola Maro soltanto come nome di persona. 67 Da
Assisi: ST Um 10 (= Ve 236). da Fossato di Vico: ST Um 7 (= Ve 233). 69 Da Foligno: ST Um 6. 70 Maggiani 1996 (1998), 112 e n. 75; Meiser, in Aigner-Foresti - Siewert 2006, 119. 71 Pallottino, Etruscologia, 320; Colonna, Epigrafi…, 441; Cristofani, Dizionario…, 161 sg.; Maggiani 1996 (1998), 109 sgg. 68 Precisamente
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In tutte e tre le iscrizioni umbre, il maronato si presenta come magistratura ausiliaria – l’iscrizione di Assisi nomina l’autorato al primo posto72 –, non eponimica ma collegiale, legata a opere di carattere edilizio-sacrale delle quali ci si affretta a sottolineare i costi, e, ad Assisi, con un certo aspetto giuridico. Il carattere di magistratura ausiliaria, non eponimica, legata a opere di carattere edilizio, forse non lontana da questioni finanziarie e dall’aspetto giuridico dei lavori, sono proponibili anche per l’iscrizione del maru Lapicane con il suo monumentale supporto. Si può certo obbiettare che le due iscrizioni del maru ceretano non escludono funzioni giusdicenti del magistrato, ma per la loro lacunosità non le garantiscono; e che il paragone con le iscrizioni umbre è soltanto esteriore. D’altra parte l’approssimativa contemporaneità delle iscrizioni umbre con quella ceretana di Lapicane offre una certa garanzia alla funzione anche giusdicente del maru ceretano. La differenza fondamentale tra il maru ceretano e i maroni umbri è data dalla collegialità, cum collega i secondi, sine collega il primo, come lo sono i maru delle altre città dell’Etruria73. Ma il raddoppiamento di una carica in origine non collegiale è spiegabile con la recenziorità del maronato umbro, e con un suo adeguamento formale all’edilità municipale romana. I nuovi dati epigrafici ceretani relativi ad un maru con funzioni sacrali e ad un maru magistrato sfasati nel tempo, riportano ad una vecchia tesi di Rosenberg sulla presenza nell’edilità romana di un edile con funzioni sacrali suggerite dall’etimologia latina del termine, vicino ad edili detentori di una carica magistratuale. Si tratterebbe, ancora secondo Rosenberg, di una costruzione che Roma ha ripreso dal mondo latino, ed in particolare da Tusculum74. È noto, a questo punto, che Roma con la nota riforma istituzionale del 367 a.C. creò, vicino all’edilità plebea quale carica inferiore amministrativa e sacrale affidata agli edili plebei, un’edilità curule di carattere magistratuale superiore rivestita da allora, appunto, dagli edili curuli75 quali rappresentanti del populus Romanus (e non soltanto del patriziato). Gli edili curuli ebbero, vicino a funzioni quali la sorveglianza dei mercati e delle strade – queste però insieme ai loro colleghi plebei – anche funzioni giusdicenti che gli edili plebei non ebbero, come dicono sia il diritto alla sella curule sia la pubbli72 Ad Assisi i maroni sono menzionati insieme ai due uhtur che sono magistrati superiori ed eponimici: Letta 1979, 52 sgg. 73 Mazzarino 1945, 133 partendo da una corrispondenza maru-aediles parla di “uno dei due maru etruschi”. Secondo Letta 1979, 60, l’influsso culturale etrusco avrebbe portato all’introduzione in Umbria di due marones. In realtà il maronato etrusco non è mai collegiale, né a Caere né in un’altra città etrusca. 74 Rosenberg 1913, 10. V. anche Mazzarino 1945, 129 sgg. 75 Kunkel - Wittman 1995, 477 sg.
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cazione di un editto76. Gli edili curuli avevano in origine anche la cura annonae, che Cesare allargò agli edili plebei. Le funzioni giusdicenti e, quale erede del quaestor esautorato, di addetto all’erario dello strano aedilis iure dicundo ceretano ci avvicinano, attraverso l’edilità curule romana, al maru etrusco-ceretano che sarebbe dunque l’antesignano dell’edile ceretano. La vicinanza tra l’organizzazione istituzionale di Caere e quella di Nomentum latina77 prevede in entrambe le città un dictator ed un aedilis con funzione giusdicente. Vicino alla possibilità di un’influenza romana nell’edilità ceretana, dobbiamo dunque pensare anche ad uno sviluppo indipendente da Roma ma comune a Nomentum, e forse anche ad altre città latine. Inoltre si vede che a Nomentum un dictator ed un aedilis IIvirali potestate, in origine separati, formarono col tempo un duumvirato, mentre un secondo aedilis rimase subalterno e senza altra specificazione78. Fra i due edili originari fu quello di maggior prestigio, e cioè quello IIvirali potestate, che diventò il collega del dictator. Un fenomeno simile si verificò a Caere nel corso del I secolo d.C.: un dictator ed un aedilis iure dicundo, in origine due diverse magistrature, formarono col tempo un duumvirato, mentre un secondo aedilis ebbe la specificazione di aedilis annonae. La carica di aedilis, la più alta a Caere all’epoca di Traiano, equipara il titolo sia a quello degli edili latini (Nomentum), sia, nell’ambito dell’edilità romana, a quello degli edili curuli (e dunque non degli edili di Roma in generale). Il terminus post quem per l’equiparazione del maru con l’edile curule romano è il 367 a.C., quando Roma creò l’edilità curule, se una tale equiparazione avvenne all’ombra di Roma. Se invece, come per la dittatura, l’equiparazione avvenne con l’edilità latina, allora si può risalire più indietro nel tempo. *** Riassumiamo. La dittatura e l’anomala edilità ceretana risalgono a magistrature epicorie adattatesi nel corso del tempo alle temperie politiche e istituzionali che investirono l’Italia centrale tra i Monti Albani, i Monti della Tolfa e la foce del Tevere. Ben vide quindi Letta quando respinse la tesi di M. Torelli secondo cui la dittatura ceretana non sarebbe stata altro che una creazione erudita dell’età di Augusto o di Claudio79. 76
Kunkel - Wittman 1995, 478. Letta 1979, 36. 78 Letta 1979, 35. 79 Torelli 1975, 72 sgg.; Letta 1978, 37. Ma la tesi di Letta, secondo cui al rex ceretano sarebbe succeduto un purq poggia sulla labile base di una connessione tra purq e Porsenna, oggi non più accettata. 77
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Luciana Aigner-Foresti
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Il ruolo della componente etrusca nella difesa della religione nazionale dei Romani contro le externae superstitiones Dominique Briquel
La letteratura della fine della repubblica e dell’inizio dell’impero dimostra che, in quei tempi, esisteva un vivace dibattito sull’apporto delle diverse parti dell’Italia, ormai già da tempo riunita sotto l’egemonia di Roma, alla costruzione del mondo nel quale vivevano e che è lecito chiamare mondo romano. Da una parte, questo dibattito è la prova che la penisola formava un’entità ora unificata, soprattutto dopo che, alla fine della guerra sociale, tutti gli abitanti – inizialmente almeno coloro che abitavano nella penisola stessa, eccettuata cioè la zona padana, che fu annessa all’Italia soltanto con Cesare ed Augusto – avevano ricevuto la cittadinanza romana ed erano dunque Romani anche loro a pieno diritto. Ma d’altra parte fa sentire quale peso continua a esercitare il ricordo della situazione anteriore, nella quale l’Italia formava un mosaico di gruppi etnici diversi, ognuno con la sua lingua e la sua cultura, tra i quali le relazioni erano state fatte più di tensioni e di guerre che di contatti pacifici e di imprese comuni. Si sentiva ancora che, nella penisola, c’era un’Etruria, una Sabina, c’erano dei popoli sabellici o liguri, ciascuno con il suo carattere, che nel passato avevano avuto atteggiamenti diversi rispetto a Roma – basta ricordare che la storia dell’Urbe contava tre guerre sannitiche oppure che la guerra sociale era chiamata bellum Marsicum, dal nome del piccolo popolo appenninico presso il quale era stata fissata la prima capitale degli insorti del 90 a.C., Corfinio. Il dibattito si svolgeva particolarmente attorno al ruolo dell’Etruria. Un importante libro di D. Musti, apparso nel 1970 (Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi d’Alicarnasso), dimostrò l’esistenza, nella letteratura storiografica, di due filoni diversi rispetto all’apprezzamento dell’apporto del mondo etrusco a Roma, uno più favorevole, rappresentato da Tito Livio, e uno assai critico, il cui migliore testimone è il contemporaneo greco dello storico patavino, Dionigi d’Alicarnasso. Giudizi opposti sugli Etruschi non si riscontrano soltanto negli storici: Mar-
D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi d’Alicarnasso, Roma 1970.
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ta Sordi, con un gruppo di suoi alllievi, allargò l’inchiesta ai poeti dell’età augustea. Anche loro mostrano atteggiamenti diversi rispetto agli Etruschi. Forse l’esempio migliore che se ne può dare è il rovesciamento che, nell’Eneide, Virgilio fa subire agli Etruschi. Nella forma primitiva della tradizione, erano i nemici di Enea e dei suoi Troiani, sotto la guida del re di Caere Mezenzio, mentre il figlio della dea Venere trovava l’appoggio dei Latini. In Virgilio invece i Latini sostengono Turno contro l’eroe troiano, contro il parere del vecchio re Latino che aveva preferito Enea a Turno come sposo di sua figlia, ma si rivelava incapace di assicurargli l’appoggio dei suoi soggetti. Al contrario, gli Etruschi sono alleati dell’eroe troiano: essi si sono liberati dall’oppressione di Mezenzio, presentato come un tiranno crudele, giustamente cacciato dai suoi connazionali, in un movimento che ricorda il modo nel quale i Romani stessi avevano espulso il loro ultimo re, Tarquinio il Superbo. Insomma, gli Etruschi vengono assimilati ai Romani e al contrario i Latini vengono staccati dai loro antenati troiani. Siamo dunque di fronte ad un gioco di concorrenza tra i popoli della penisola, nel quale ciascuno cerca a mettere in rilievo il particolare debito di Roma verso di sé e a presentare in un modo poco favorevole gli altri. Così si spiega che certi temi ritornano con maggiore o minore credibilità per diversi componenti dell’Italia. Nella geografia dell’Italia che si legge nel libro III di Plinio il Vecchio, quando il naturalista arriva alla descrizione della quarta regione augustea, che comprende il Sannio e gli altri popoli italici della zona appenninica, avverte che tratta delle fortissimae gentes Italiae – in accordo con la solita immagine di questi Italici, che si sono rivelati nella storia pericolosi nemici di Roma, secondo una rappresentazione che è stata studiata di recente da E. Dench. Ma Virgilio, nato in una città orgogliosa del suo glorioso passato etrusco – al quale doveva probabilmente il suo cognomen di Maro – e protetto dal toscano Mecenate, la cui stirpe risaliva ai re di Arezzo, attribuiva l’epiteto fortis all’Etruria, divenuta la fortis Etruria nelle Georgiche, benché la sua immagine sia abitualmente quella di un popolo dedito
M. Sordi e al., L’integrazione dell’Italia nello stato romano attraverso la poesia e la cultura protoaugustea, “Contributi dell’Istituto di Storia Antica” 1 (1972), pp. 146-175. Cfr. le nostre osservazioni in Le personnage de Mézence: érudition et poésie, Ovide entre Verrius Flaccus et Virgile, “REA” 100 (1998), pp. 401-416. Plin. nat. III 106: sequitur quarta regio quarta gentium uel fortissimarum Italiae; E. Dench, From Barbarians to New Men: Greek, Roman, and Modern Perceptions of Peoples from the Central Apennines, Oxford 1995. Sull’atteggiamento di Virgilio rispetto agli Etruschi, L. Gordon, The family of Vergil, “JRS” 24 (1934), pp. 1-12; R. Enking, Vergilius Maro, uates Etruscus, “MDAI(R)” 66 (1959), pp. 65-96; G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda di Dardano, “ArchClass” 32 (1980), pp. 1-15. Verg. georg. II 533: sic fortis Etruria creuit.
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alla tryphé e ai piaceri della vita, ben lontano delle dure condizioni del mestiere delle armi. Ma era necessario, per un difensore degli Etruschi come il uates Etruscus Virgilio, opporsi al solito disprezzo delle qualità militari degli Etruschi e conferire a loro la virtù bellica che appariva congeniale alla parte italica dell’Italia: come fu suggerito da D. Musti e poi ammesso da M. Sordi e dai suoi allievi, appare che esisteva una specie di alternativa tra il mondo etrusco e quello italico, e che spesso il filosabinismo che pervade una parte della letteratura latina era, almeno in parte, una risposta ad un atteggiamento che insisteva sul debito dei Romani verso gli Etruschi. Il nostro intervento non riguarderà il periodo finale della repubblica o quello iniziale dell’impero, nel quale la prossimità cronologica dei tempi dell’indipendenza rendeva ancora vivace il senso di appartenenza a componenti diverse e spesso contrastanti dell’Italia. Parleremo dell’impero già avanzato e del suo periodo finale, dunque di un tempo nel quale l’esistenza di ethne diversi, ciascuno con la sua propria lingua e una cultura autonoma, apparteneva ad un passato superato da tempo. Non si può dire per esempio che il riferimento ai vecchi Sabini, che aveva suscitato tanto interesse nell’età classica, abbia conservato la pur minima importanza nei tempi successivi. Più generalmente l’impoverimento di intere zone della penisola, specialmente nel Sud, fa sì che il ricordo del loro lontano passato non esca dalla mera erudizione: che Servio, oppure ancora più tardi Isidoro da Siviglia ci diano sempre informazioni su quei popoli non significa che essi contino ancora agli occhi dei loro contemporanei; e se nel II sec. d.C. Frontone segnala con interesse di avere visto documenti scritti degli Ernici ad Anagni, questo non va al di là della semplice curiosità archeologica10. Invece, lo stesso non si può dire nel caso degli Etruschi. Certo non esiste più, da tempo, una civiltà etrusca autonoma, distinguibile da quella romana. I tratti più salienti della loro cultura, come usi funerari particolari – im Sulla tryphé attribuita agli Etruschi, J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris 1961, pp. 46-51; W.V. Harris, Rome in Etruria and Umbria, Oxford 1971, pp. 14-23; e da ultimo Y. Liébert, Regards sur la truphè étrusque, Limoges 2006. Sul fatto però che l’immagine dei Sabini nella letteratura non è univoca, D. Musti, I due volti della Sabina. Sulla rappresentazione dei Sabini in Varrone, Dionigi, Strabone, Plutarco, “DArch” 3 (1985), pp. 77-86 = Preistoria, storia e civiltà dei Sabini, Rieti 1982 (1985), pp. 75-98 = Strabone e la Magna Grecia, Padova 1988, pp. 235-257. Sul filosabinismo nella letteratura latina, che va ben al di là dei casi di Catone e Varrone, J. Poucet, Les origines mythiques des Sabins à travers l’œuvre de Caton, de Cn. Gellius, de Varron, d’Hygin et de Strabon, in Études étrusco-italiques, Louvain 1963, pp. 155-225; Recherches sur la légende sabine des origines de Rome, Louvain-Kinshasa 1967; C. Letta, I mores dei Romani e l’origine dei Sabini in Catone, in Preistoria, storia e civiltà dei Sabini, Rieti 1982 (1985), pp. 15-34; L’Italia dei mores Romani nelle Origines di Catone, “ Athenaeum” 72 (1984), pp. 3-30; 416-439. 10 Fronto p. 67 (Naber).
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piego di urne cinerarie caratteristiche, soprattutto nella regione di Chiusi o di Perugia – non si protraggono oltre il I sec. a.C. e il ricorso alla lingua nazionale sparisce nello stesso periodo – l’iscrizione etrusca più tarda che possediamo, un documento bilingue etrusco-latino su un’urna in marmo, proveniente da Arezzo, è datata, grazie alla presenza di ceramica aretina con bollo Ras(ini), agli anni 10-15 d.C., sotto il regno di Tiberio11. Ma si continua a parlare di Etruschi, a riferirsi a loro, e questo per una ragione precisa: l’antica cultura etrusca ha tuttora una grande importanza in un importante settore della vita, sia ufficiale sia privata, del mondo mediterraneo ora controllato dai Romani, quello della religione. L’Etrusca disciplina continuava a mantenere vivo il riferimento a quell’ethnos dell’Italia dei tempi anteriori alla conquista militare e all’unificazione linguistica e culturale compiuta da Roma – diversamente da tanti altri popoli che non rappresentano più niente nel mondo romano di età imperiale. Viene così operata un’identificazione tra gli Etruschi in generale e gli specialisti della scienza religiosa di tradizione etrusca: era ovvio per tutti che, quando l’anonimo autore cristiano del poemetto contro i pagani, scritto all’inizio del IV secolo, criticava un personaggio, dicendo di lui che era “sempre l’amico degli Etruschi” (v. 50), voleva dire che si fidava degli aruspici etruschi. Infatti l’antica scienza religiosa che si riferiva al fanciullo divino Tagete e alla ninfa Vegoia conservava una vitalità nel mondo dell’impero romano che non deve essere dimenticata. Nei tempi della repubblica, il senato si rivolgeva agli aruspici per le necessità religiose della res publica12. In uno stato divenuto monarchico, l’imperatore aveva a disposizione i suoi aruspici personali, che intervenivano sia nei casi di prodigi, sia soltanto per permettere al principe di approfittare della capacità divinatoria degli specialisti dell’Etrusca disciplina, in particolare attraverso l’osservazione del fegato delle vittime sacrificiali13. Esisteva anche un’aruspicina ufficiale a livello municipale: l’esistenza di corpi locali di aruspici, come quello, in età repubblicana, della città di Urso, conosciuto dal testo della lex epigrafica del 44 a.C., trovata in questa colonia della Spagna, è attestata, sotto l’impero, da iscrizioni in molte città del mondo ro11 CIE 378 = H. Rix e al., Etruskische Texte, Tübingen 1991, Ar 1.18; E. Benelli, Le iscrizioni bilingui etrusco-latine, Firenze 1994, n° 2. Possiamo anche ricordare un’altra iscrizione bilingue di poco anteriore, un epitafio dell’ipogeo dei Volumnii a Perugia, dell’ultimo decennio del I sec. a.C.: CIE 3763 = Etruskische Texte, Pe 1.313; Le iscrizioni bilingui etrusco-latine, n° 7. 12 Sugli aruspici nel periodo della repubblica, lo studio fondamentale è quello di B. Mac Bain, Prodigy and Expiation. Religion and Politics in Republican Rome, Bruxelles 1982. 13 Sull’aruspicina nel mondo romano sono apparse di recente le sintesi di I. Ramelli, Cultura e religione etrusca nel mondo romano. La cultura etrusca dalla fine dell’indipendenza, Alessandria 2003; M.-L. Haack, Les haruspices dans le monde romain, Bordeaux 2003.
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mano, in Gallia, Belgio, Germania, Norico, Mesia, Dacia. Altro aspetto dell’aruspicina ufficiale, in quell’età imperiale, le legioni sembrano avere avuto i loro specialisti della disciplina: appaiono in documenti dell’età severiana. Accanto agli specialisti legati alle strutture ufficiali, l’aruspicina privata, già fiorente nei tempi precedenti – come testimonia la letteratura, da Plauto e Catone in poi –, s’era diffusa in tutte le parti dell’impero romano – almeno nella sua metà occidentale di lingua latina, quella orientale di lingua greca avendo altre tradizioni mantiche: il recente studio prosopografico di M.-L. Haack enumera più di un centinaio di iscrizioni di aruspici, per lo più di carattere privato, provenienti da quasi tutte le provincie14. Lungi dall’avere provocato un deperimento dell’antica scienza religiosa degli Etruschi, il periodo imperiale, con l’estensione che aveva dato al dominio di Roma, le aveva concesso un’estensione che era impensabile nei tempi dell’indipendenza etrusca. La situazione non cambia nel tardo impero15. Ancora nel IV secolo, un imperatore rimasto fedele alla religione ancestrale come Giuliano continuava ad avere i suoi specialisti dell’Etrusca disciplina. Quando partì per la sua spedizione contro la Persia, era accompagnato da aruspici16, che mantengono la tradizione degli haruspices imperatoris dei secoli precedenti, come il famoso Vmbricius Melior, che aveva predetto, quando era aruspice di Galba, il prossimo accesso al trono di Ottone17. Più tardi ancora, il praefectus Vrbis Gabinius Barbarus Pompeianus, al quale era stata affidata la difesa di Roma contro la minaccia dei Goti di Alarico durante la loro prima offensiva nel 408, voleva ricorrere all’arte degli aruspici per scatenare contro i barbari i fulmini celesti18. Ma l’Etrusca disciplina e i suoi maestri non riguardavano soltanto gli affari dello stato: continuavano, nella tarda antichità come in precedenza, a rispondere alle domande dei privati. Agostino racconta nelle sue Confessioni che, quando insegnava la retorica a Cartagine, tra il 374 e il 383, si era rivolto verso un aruspice affinché gli assicurasse la vittoria in un concorso di poesia drammatica19. L’importanza dell’aspetto religioso nella percezione dell’identità degli Etruschi, cioè, dietro di essa, l’importanza della scienza religiosa di tradizione etrusca nella società, è un fenomeno che si lascia percepire già nell’età classica, nel I sec. a.C. Rispetto alle vecchie rappresentazioni degli Etruschi, 14 M.-L.
Haack, Prosopographie des haruspices romains, Pisa-Roma 2006. in S. Montero, Politica y adivinacion en el Bajo Imperio Romano. Emperadores y haruspices (193 D.C.-403 D.C.), Bruxelles 1991. 16 Amm. XXIII 5,10-14. 17 Tac. hist. I 27,1; Plut. Galba 24; Suet. Galba 14 (senza il nome dell’aruspice). 18 Zos. V 41,1-3. 19 Aug. conf. IV 2,3. 15 Dati
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legate ad una loro percezione negativa, sia quella del pirata crudele20, sia quella, un po’ contraddittoria, che insisteva sulla tryphé etrusca e ne faceva un popolo incapace di qualunque attività virile, emerge l’immagine, secondo la nota formula di Livio, di una gente ante alias magis dedita religionibus, cioè più di tutte le altre addetta alle pratiche religiose21. Una spiegazione adeguata alla designazione etnica degli Etruschi in latino, Tusci, giustificava tale religiosità: la parola Tusci sarebbe collegata al verbo greco thuein, sacrificare, e, secondo la forma che Varrone deve avere dato a questa pseudo-etimologia (e che appariva anche in Verrio Flacco), risulterebbe dall’alterazione di thuoskoos, che designa il prete addetto ai sacrifici22. Siamo così rientrati nello stesso orizzonte cronologico di Livio, cioè alla fine della repubblica e agli inizi dell’impero: questa nuova percezione del carattere dell’ethnos etrusco corrisponde infatti al posto particolare che l’Etruria, grazie al ruolo degli aruspici, integrati nella religione romana, e specialmente in quella statale, conservano in un’Italia unificata e riorganizzata da Roma. Che questa religiosità etrusca sia da intendere rispetto a Roma e ai bisogni religiosi dei Romani, appare in pieno da una altra pseudo-etimologia: quella che collegava il nome latino delle cerimonie, caerimoniae, con quello della città etrusca di Caere, dalla quale i Romani avrebbero appreso i riti che adoperavano nei loro sacra23. Anche qui, la spiegazione risale ad autori del I secolo a.C.: ci è nota da Valerio Massimo e da Paolo, cioè, tramite Festo, da Verrio Flacco. I Romani di quel tempo conoscevano il debito dei loro connazionali rispetto agli Etruschi in materia di religione, anzi erano a volte propensi ad esagerarlo in un modo quasi assurdo: ovviamente non tutti i riti dei Romani erano di origine etrusca e non è perciò possibile dire che tutte le cerimonie fossero da riportare ai loro vicini settentrionali. Ma tale esagerazione dimostra, una volta di più, l’importanza della scienza sacra degli Etruschi: i riti erano descritti nei rituales libri, una delle tre categorie di libri sacri nei quali era tramandata
20 La rappresentazione dell’Etrusco come pirata crudele, legata alle imprese, considerate come piratesche da parte dei Greci, dei marinai etruschi in età arcaica, culminava nel ricordo del supplizio cui essi sottoponevano i loro prigioneri, legando un uomo vivo ad un cadavere (dati in M. Gras, Trafics tyrrhéniens archaïques, Roma 1985, pp. 446-449). È interessante vedere che, nell’Eneide (VIII 478-488), Virgilio attribuisce quel supplizio al tiranno Mezenzio, liberando così gli altri Etruschi dell’accusa. 21 Liv. V 1,7. 22 La dottrina varroniana si può ricostruire attraverso Dion. Hal. I 30,3; Verrio Flacco, Fest. p. 487 (Lindsay) (e Paul. Fest. p. 486 Lindsay); altre forme della spiegazione in Serv. (e Serv. auct.) Aen. II 781; VIII 479; X 164; Isid. orig. IX 2,86; XIV 4,20.22. Abbiamo studiato la questione in Une explication du nom des Étrusques chez Isidore de Séville: aperçus sur le développement de la divination étrusque à date tardive, “Gerion” 9 (1991), pp. 289-298. 23 Paul. Fest. p. 38 (Lindsay); Val. Max. I 1,10.
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l’Etrusca disciplina24. L’affermazione ci mostra, una volta di più, l’importanza della dottrina sacra degli Etruschi per i Romani – ed era certo giustificata in certi casi, come quello emblematico dei riti di fondazione delle città, per i quali era comunamente ammesso che lo stesso fondatore di Roma, Romolo, avesse fatto venire degli specialisti dall’Etruria25. Però, la capacità che i Romani riconoscevano ai loro vicini etruschi si esprimeva nell’importanza dell’aruspicina nella loro vita privata e pubblica e aveva indotto il senato, eccezionalmente, ad organizzare un corpo specializzato composto di non-Romani, l’ordo dei sessanta aruspici, ordo sexaginta haruspicum, per mettere a disposizione dello stato romano le luci dell’Etrusca disciplina26. Tale decisione deve essere stata presa poco tempo dopo la definitiva sottomissione della regione, che possiamo fissare alla presa di Volsini nel 264. E poiché essa riguardava un tema così delicato come la relazione della città e delle sue divinità con degli stranieri (degli stranieri contro cui, per secoli, i Romani avevano sostenuto numerosissime guerre, a volte marcate da episodi terribili come il sacrificio umano compiuto dai Tarquiniesi sul foro della loro città nel 358 a.C., di cui erano stati vittime 307 prigioneri romani27) non era una cosa che i Romani potessero accettare facilmente. Si capisce che l’affidamento ad aruspici etruschi di una questione tanto grave per la città suscitò reazioni ostili. Ne abbiamo la prova in storie che sicuramente risalgono a quest’epoca, nelle quali gli aruspici etruschi, consultati per prodigi che riguardavano la loro res publica, cercavano perfidamente di ingannare i Romani28. Si raccontava che, quando fu trovata sul Campidoglio la testa umana che doveva dare al colle il suo nome, secondo l’accostamento pseudo-etimologico caput/Capitolium, l’aruspice etrusco consultato dai Romani sul significato di tale segno, lungi dallo spiegare le cose come stavano, cioè che esso
24 Per l’Etrusca disciplina e i suoi libri sacri, è d’obbligo il rimando a C.O. Thulin, Die etruskische Disciplin, Göteborg 1906-1909. La tripartizione dei libri sacri è esposta da Cic. diu. I 72. 25 Plut. Rom. 11,1. Dionigi di Alicarnasso (I 88), coerentemente con il suo atteggiamento verso gli Etruschi, non accenna all’origine toscana del rito. Essa non appare neanche nella breve presentazione di Livio, che non parla del pomerio prima dell’epoca di Servio Tullio (I 44,4). 26 Sulla questione dell’organizzazione dell’ordo sexaginta haruspicum, seguiamo la tesi che ne colloca l’inizio poco dopo la conquista (M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, Firenze 1975, pp. 119-129; Mac Bain, Prodigy…, pp. 49-50; Ramelli, Cultura…, p. 51). Al contrario, M. Rawson, Caesar, Etruria and the disciplina Etrusca, “JRS” 68 (1978), pp. 132-152, part. pp. 146-147; Haack, Les haruspices…, pp. 85-92, preferiscono pensare ad una creazione sotto Augusto, senza rapporto con i testi di Cicerone (diu. I 92) e di Valerio Massimo (I 1,1). 27 Su questo episodio, cfr. le nostre osservazioni in Sur un épisode sanglant des relations entre Rome et les cités étrusques : les massacres de prisonniers au cours de la guerre de 358/351, in La Rome des premiers siècles, légende et histoire. Table ronde en l’honneur de M. Pallottino (Paris 1990) (Biblioteca di Studi Etruschi. 24), Firenze 1992, pp. 37-46. 28 Su questi racconti, Mac Bain, Prodigy…, pp. 53-56.
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annunziava che Roma sarebbe divenuta caput mundi, aveva tentato di attribuire alla propria patria il senso favorevole del prodigio29. Altra storiella del genere: dopo la caduta di un fulmine sulla statua di Orazio Coclite che stava sul Comizio, gli specialisti etruschi, competenti in materia di fulmini, avevavo raccomandato ai Romani di fare il contrario di quel che era da fare dopo una tale manifestazione della divinità, e di porre la statua in posizione bassa anziché in posizione alta30. In questo secondo caso, la fonte viene indicata da Gellio, che ci ha tramandato il racconto: si tratta degli annali dei pontefici, dunque della più antica forma di storia che esisteva a Roma. È chiaro che questi aneddoti risalgono ad un’età vicina alla conquista, risentono ancora del ricordo di una situazione nella quale gli Etruschi erano nemici dei Romani e vogliono sottolineare il rischio che la res publica Romana correva, ad appoggiarsi su un personale così sospetto. Ma, nello stesso tempo, dimostrano che Roma non poteva fare niente altro che chiedere aiuto, in materia di prodigi, agli specialisti etruschi: non possedeva, nelle sue proprie tradizioni religiose, nessun corpo sacerdotale che fosse in grado, davanti ad un’improvvisa manifestazione del divino, di spiegare quale ne fosse il senso e di indicare le adeguate misure da prendere. Testimoniano anche loro dell’importanza cruciale della scienza religiosa degli Etruschi per Roma. Così, nel tempo della repubblica, gli aruspici potevano ancora essere considerati sospetti, capaci di voler mettere le loro capacità al servizio dei nemici di Roma. Nel periodo imperiale, non esiste più nessun timore del genere. Anzi, non viene più sentita una reale differenza tra ciò che è di origine etrusca e ciò che è genuinamente romano. Siamo da tempo in un’Italia unificata, sia politicamente, sia linguisticamente, sia culturalmente, e l’apporto religioso etrusco fa parte del patrimonio comune di tutti gli Italici. È significativo che, nel discorso che l’imperatore Claudio pronunciò nel 47 davanti al senato in favore di una riorganizzazione del vecchio ordine dei sessanta aruspici per dargli una nuova vitalità31, egli accennava alla loro scienza sacra come “la più vecchia scienza d’Italia”, uetustissima Italiae disciplina: non appare 29 Dion. Hal. IV 59-61; Plin. nat. VIII 161; Sol. 45,15; Serv. Aen. VII 345; Zon. VII 11,38. Invece, il filoetrusco Livio non racconta l’appendice della storia, con la scoperta della testa umana sulla collina (I 55,5-6). 30 Gell. IV 5,1-6, riferendosi a Verrio Flacco, res memoria dignae, e agli annali dei pontefici (fr. 4 Peter, 7 Chassignet). 31 Tac. ann. XI 15,1-3: rettulit deinde ad senatum super collegio haruspicum, ne uetustissima Italiae disciplina per desidiam exolesceret: saepe aduersis rei publicae temporibus accitos, quorum monitu redintegratas caerimonias et in posterum rectius habitas; primoresque Etruriae sponte aut patrum Romanorum impulsu retinuisse scientiam et in familias propagasse: quod nunc segnius fieri publica circa bonas artes socordia, et quia externae superstitiones ualescant. Et laeta quidem in praesens omnia, sed benignitati deum gratiam referendam, ne ritus sacrorum inter ambigua culti per prospera obliterarentur. Factum ex eo senatus consultum, viderent pontifices quae retinenda firmandaque haruspicum.
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più come una dottrina etrusca, l’Etrusca disciplina in senso stretto, bensì è divenuta un bene comune di tutti gli abitanti della penisola. In tale prospettiva, non c’è la pur minima ostilità verso l’etruscità: al contrario, ora integrato nella religione nazionale dei Romani, l’apporto etrusco ne appare come la gemma più bella. Via via che si allontana il ricordo delle lotte del passato, il senso della particolarità degli Etruschi, della diversità della loro civiltà rispetto a quella romana svanisce. Ne abbiamo una chiara prova in un settore differente da quello della religione, quello linguistico. Riscontriamo, nella letteratura tarda, affermazioni sulla lingua etrusca che appaiono assurde. Si dice che parole chiaramente latine, come il nome della capra, capra, o quello della dea, dea, siano etrusche32, oppure, per spiegare parole che possono, almeno, avere un’origine etrusca (come cassis, che disegna l’elmo, il nome del maestro dei gladiatori, lanista, oppure il nome delle Camene, le Muse latine), si ricorre a spiegazioni che si riferiscono a parole puramente latine, come il nome latino della testa, caput, nel primo caso, il verbo laniare, che significa “lacerare”, nel secondo, il verbo canere, “cantare”, nel terzo33. Si vede che a quell’epoca, gli autori non percepiscono più la differenza tra il latino e l’etrusco, e si possono dunque attribuire all’etrusco parole che non hanno niente a che vedere con questa lingua, oppure in altri casi, si possono mescolare ambedue le lingue per creare etimologie del tutto artificiose. Tale procedimento risponde ad una concezione che viene esposta da Isidoro, per la quale l’etrusco non è un idioma diverso dal latino, ma una fase dello sviluppo della lingua latina, corrisponde ad uno stadio antico, quello della cosidetta “lingua Latina”, che fu parlata nel periodo regale dagli abitanti del Lazio di allora, definiti come “Etruschi e altri” (Tusci et ceteri in Latio)34. Insomma, il concetto di “etrusco” rimandava ad un orizzonte cronologico antico, ma non sentito come diverso di ciò che era latino o romano. 32 Cfr.
le glosse TLE 820 e 828, da Esichio. rispettivamente Isid. orig. XVIII 14,1 (= TLE 822): cassidam autem a Tuscis nominatam. Illi enim galeam cassim nominant, credo a capite; X 159 (= TLE 841): lanista gladiator, id est carnifex, Tusca lingua appellatus, a laniando scilicet corpora; Macr. somn. II 3,4 (non segnalato nei TLE): Musas esse mundi cantum etiam Etrusci sciunt, qui eas Camenas quasi canenas a canendo dixerunt. 34 Isid. orig. IX 1,6-7: Latinas autem linguas quattuor esse quidam dixerunt, id est Priscam, Latinam, Romanam, Mixtam. Prisca est quam uetustissimi Italiae sub Iano et Saturno sunt usi, incondita, ut se habent carmina Saliorum. Latina, qua sub Latino et regibus Tusci et ceteri in Latio sunt locuti, ex qua fuerunt duodecim tabulae scriptae. Romana, quae post reges exactos a populo Romano coepta est, qua Naeuius, Plautius, Ennius, Vergilius poetae et ex oratoribus et Cato et Cicero uel ceteri effuderunt. Mixta, quae post imperium latius promotum simul cum moribus et hominibus in Romanam ciuitatem inrupit, integritatem uerbi per soloecismos et barbarismos corrumpens. Su questa dottrina, e le etimologie per noi assurde che ne sono la consequenza, cfr. i nostri articoli Les emprunts du latin à l’étrusque: l’approche de la question chez les auteurs anciens, “SE” 63 (1997 [1999]), pp. 291-313; Capus Itala lingua dicitur a capiendo, “Studia Minora Facultatis Philosophicae Universitatis Brunensis”, 6-7 (2001-2002), pp. 51-62. 33 Cfr.
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Per i dati religiosi, siamo di fronte ad una situazione paragonabile. Il personaggio al quale venivano attribuite le maggiori istituzioni romane nel campo della religione, il pio secondo re di Roma Numa Pompilio, è presentato nel Carmen aduerus paganos, degli inizi del IV sec. come “il primo aruspice”35. È dunque considerato come il fondatore non soltanto della religione nazionale dei Romani, ma anche di una pratica così legata all’Etruria, e originariamente sentita come estranea alla tradizione romana, come l’aruspicina. Non si può meglio mostrare che, ora, l’apporto della scienza religiosa degli Etruschi è integrato nel paganesimo romano, ne fa parte come i tratti di ascendenza veramente locale. Nello stesso tempo, il fatto che il riferimento agli Etruschi rimandi a tempi antichi fa sì che l’etruscità, o quel che ne sussiste attraverso la disciplina sacra trasmessa da quel popolo, è mescolata con le più antiche tradizioni religiose del Lazio. Lo vediamo se prendiamo in esame le carriere degli aruspici che l’epigrafia ci fa conoscere: molti di essi rivestono cariche religiose che rimandono ai più antichi culti latini, quelli legati alle vecchie metropoli religiose del Lazio, Alba e Lavinio. Nel III-II sec., l’aruspice imperiale L. Fonteius Flavianus fu dittatore albano, ebbe dunque il compito di presiedere alle feste dell’antica lega latina che continuavano ad essere celebrate in onore di Jupiter Latiaris sul sito della città distrutta da Tullo Ostilio (CIL VI 2161); un altro aruspice dello stesso orizzonte cronologico, Cn. Domatus Priscus, fu pontefice albano (VI 2168), mentre un C. Nonius ebbe il titolo, meno noto, di sacerdos Cabensis montis Albani, la cui funzione era di rappresentare la città di Cabum, sparita da tempo, nelle festività del monte Albano (VI 2175). La stessa presenza di aruspici si nota per l’altra metropoli dei Latini, Lavinio: l’anomino dell’iscrizione CIL VI 2163, nel II sec., e L. Vibius Fortunatus, nel III sec., di X 4721, ambedue aruspici dell’imperatore, ebbero il titolo di Laurens Lauinas, cioè furono onorati dalla cittadinanza della vecchia città, ormai sparita, per compiere i riti che in essa si svolgevano ancora36. La scelta di specialisti dell’Etrusca disciplina per tali cariche non sembra casuale: essi apparivano legati, come diceva l’imperatore Claudio, ad una tradizione religiosa molto antica e dovevano dunque sembrare più adeguati per mantenere questi vecchi riti latini – anche se avevano perso ogni importanza pratica e, diversamente dall’apporto religioso di tradizione etrusca, si riducevano ora a ricordi antiquari, senza incidenza sulle forme di religiosità vissute dai Romani di quel tempo37. 35 Cfr.
Carm. c. pag. 35: e multis primus aruspex. ora rispettivamente Haack, Prosopographie…, nn. 43 (pp. 67-68), 64 (pp. 88-90), 117 (p. 143), 100 (pp. 125-127). 37 Sui sacerdozi legati a Alba, M.G. Granino Cecere, Sacerdotes Cabenses e sacerdotes Albani. La documentazione epigrafica, in Alba Longa, mito, storia, archeologia. Atti dell’incontro di studio (Roma 36 Cfr.
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Infatti, rispetto all’aspetto linguistico, siamo, con la religione, di fronte ad una situazione opposta. Mentre la lingua etrusca era sparita e non si conservava più un ricordo esatto della sua natura e della sua posizione rispetto al latino, gli aspetti religiosi di eredità etrusca godevano, nel mondo romano imperiale, di una presenza e di una importanza nelle pratiche pubbliche e private che gli antichi culti di tradizione latina avevano perso da tempo. Si arrivava dunque alla strana conseguenza che il ricordo delle forme più venerabili della tradizione religiosa propriamente latina era legato ai rappresentanti della tradizione etrusca, che pure rimandava ad una origine diversa, non latina, ma che rimaneva viva e sembrava ancorata in un passato ormai sentito come panitalico, pienamente integrato nella religione romana. Insomma, l’Etrusca disciplina faceva ora parte del mos maiorum dei Romani. Questo spiega che, se il mos maiorum dei Romani sembrava messo in pericolo in ambito religioso, essa poteva apparire come il migliore baluardo contro le novità che lo minacciavano. Ora, durante il periodo imperiale la religione romana tradizionale poteva a buon diritto sembrare minacciata dallo sviluppo di nuove forme di religiosità, che potevano apparire più adatte alle attese spirituali degli uomini di quel tempo, specialmente dalle cosidette “religioni orientali”, tra le quali, naturalmente, c’era la religione nata in Giudea, inizialmente all’interno del giudaismo, dall’insegnamento di Gesù. Si era dunque creata una situazione di concorrenza religiosa e di messa in crisi della vecchia religione nazionale, nella quale la componente etrusca di essa fu chiamata alla riscossa. È significativo che, quando Claudio tentò di dare una nuova vitalità all’ordo degli aruspici, uno dei suoi scopi era quello di lottare contro le externae supersititiones, le superstizioni straniere38. A quell’epoca, si trattava probabilmente soprattutto dell’influenza dei magi e degli astrologi, contro i quali Tiberio aveva preso severe misure nel 1939. Anche l’influenza della religione giudaica è da prendere in considerazione: lo stesso Tiberio, poco tempo dopo, allontanò i Giudei dalla capitale e ne esiliò quattromila in Sardegna, con l’intento non dissimulato di farli così morire40.
Albano Laziale 1994), ed. A. Pasqualini, Roma 1996, pp. 275-316; sui Laurentes Lauinates, C. Saulnier, Laurens Lauinas. Quelques remarques à propos d’un sacredoce équestre à Rome, “Latomus”, 43 (1984), pp. 517-533; Y. Thomas, L’institution de l’origine. Sacra principiorum populi Romani, in Tracés de fondation, ed. M. Détienne, Louvain - Paris 1990, pp. 143-170. Abbiamo studiato questo aspetto dell’aruspicina di età imperiale nel nostro libro Chrétiens et haruspices. La religion étrusque, dernier rempart du paganisme romain, Paris 1997, pp. 104-107. 38 Tac. ann. XI 15,1. 39 Tac. ann. XI 32,3; Suet. Tib. 36. 40 Tac. ann. XI 85,4 (parlando anche di seguaci di dottrine egiziane); Suet. Tib. 36; Flav. Jos., ant. Iud. XVIII 81; Cass. Dio LVII 18,5a (cfr. Sen. epist. 108,22).
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Ma non è da escludere, secondo la proposta di M. Sordi41, che l’inizio della diffusione della fede cristiana, con i disturbi che provocò all’interno delle comunità giudaiche, abbia avuto qualche ruolo nella decisione dell’imperatore. Almeno per l’analoga misura di espulsione dei Giudei, decisa da Claudio nel 49, la dimensione anticristiana appare chiara, se è lecito pensare – come è molto probabile – che il celebre passo di Svetonio relativo all’agitazione dovuta ad un certo Cresto sia da riferire a quest’anno42. Nel periodo successivo, quando le persecuzioni contro i cristiani si svilupparono apertamente43, la difesa della religione tradizionale si appoggiò chiaramente sui rappresentanti della sua componente etrusca. Nella più grave crisi che la nuova religione subì, quella della grande persecuzione di Diocleziano, dal 303 in poi, gli aruspici sono in prima linea. La decisione di perseguitare i cristiani nasce dall’episodio delle “viscere mute”, muta exta: durante un sacrificio offerto dall’imperatore, il capo degli aruspici imperiali avvertì che gli dei rifiutavano di mandare segni agli uomini, come era atteso. Questa gravissima situazione, che rischiava di provocare i peggiori danni per l’impero, era dovuta, secondo gli aruspici, alla presenza, non gradita alla divinità, di cristiani: questo incidente indusse l’imperatore ad iniziare una politica di persecuzione aperta, che non aveva intrapreso nei primi anni del suo regno44. Grazie alla loro posizione nella religione ufficiale dello stato, e accanto alla persona del principe, gli specialisti della scienza religiosa etrusca furono dunque direttamente coinvolti nell’offensiva contro il cristianesimo. Questo viene confermato, poco dopo l’incidente dei muta exta, quando l’imperatore, dopo avere consultato le più alte autorità dell’impero, civili e militari, che erano favorevoli alla persecuzione, si rivolse agli dei, per sapere se confermavano la decisione presa dagli uomini. Perciò inviò un aruspice a Didimi, per avere l’assenso di Apollo: è significativo che colui che intraprese questa missione fu, anche qui, un aruspice45. Appare dunque che gli specialisti dell’Etrusca disciplina ebbero un ruolo diretto nella politica anticristiana, il che era reso possibile dalla particolare posizione di alcuni di essi nella religione statale. Ma questo era il segno di un’ostilità generale degli aruspici contro la nuova religione: ne abbiamo la conferma negli scritti degli autori cristiani, che non nascondono il loro odio nei confronti degli aruspici46. L’importanza che l’Etrusca disciplina ebbe nella resistenza della vecchia 41 M.
Sordi, I cristiani e l’impero romano, Milano 1983, pp. 29-37. hist. VII 6,15-16 (da Flavio Giuseppe); cfr. Atti degli apostoli 18,2; Suet. Claud. 25,4. 43 Sulle persecuzioni, da ultimo, M.-F. Baslez, Les persécutions dans l’Antiquité. Victimes, héros, martyrs, Paris 2007, pp. 169-397, per il caso dei cristiani. 44 Lact. inst. IV 27-32; mort. pers. 10,4; cfr. Briquel, Chrétiens…, pp. 54-58. 45 Lact. mort. pers. 11,8; Euseb. Caes. Const. II 49-51; cfr. Briquel, Chrétiens..., pp. 58-64. 46 Dati in Briquel, Chrétiens..., pp. 75-94. 42 Oros.
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religione romana contro le novità religiose, e specialmente contro l’espansione del cristianesimo, non si limita però allo sfruttamento della posizione privilegiata della quale godeva nelle strutture della res publica, che fece sì che i suoi rappresentanti avessero un ruolo diretto nella persecuzione. Intellettualmente, l’antica tradizione etrusca offriva aspetti che, meglio delle altre componenti della religione nazionale, potevano rispondere alle attese spirituali dei contemporanei. Tra quelli, c’era già il fatto di essere, in gran parte, una scienza divinatoria – ed era proprio per questo (e insieme per i suoi aspetti rituali) che era stata accolta a Roma. Certo, il desiderio di sapere quale sarà il futuro esiste in ogni tempo, in ogni parte del mondo. Ma ha avuto una particolare forza nel mondo dell’impero romano. Siamo, per riprendere la famosa espressione del Dodds, in quell’età di angoscia47, che spingeva gli uomini a domandarsi con timore quale fosse il destino che li aspettava. Ma siamo anche, per riprendere questa volta una espressione del Padre Festugière, in un’età di declino del razionalismo e di ritorno al religioso48: l’interrogazione verso il futuro viene espressa in termini di attesa di un destino comandato dalla divinità, dunque riguarda la religione. Il pagano Celso, nel suo libro contro i cristiani, poteva chiedere: «Esiste qualcosa che sia più divino della previsione e della predizione del futuro?»49. Era un compito essenziale della religione, come era concepita in quel tempo. Ed è significativo che gli autori cristiani, quando attaccano gli aruspici e gli altri indovini che esistevano nel quadro delle pratiche pagane, non negano la validità delle loro indicazioni sul futuro. Lo scetticismo, che dimostrava verso di esse un accademico come Cicerone nel suo trattato De diuinatione, ha lasciato pochissime tracce nei loro scritti50. È chiaro che non mettono in dubbio l’esattezza delle predizioni degli aruspici. Anzi, la presentano come un mezzo inventato dai demoni per ingannare gli umani, e si sforzano di spiegare come le loro predizioni possono essere giuste, senza con questo intaccare la loro concezione di un Dio solo maestro del futuro51: non si può meglio riconoscere l’importanza attribuita a questo aspetto dell’aruspicina. 47 E.R. Dodds, Pagan and Christians in an Age of Anxiety. Some Aspects of Religious Experience from Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge 1965. 48 Ci riferiamo al titolo che P. Festugière diede al primo capitolo del suo libro La révélation d’Hermès Trismégiste, I, Paris 1940, pp. 1-18. 49 Passo citato da Orig. Cels. 4,88. 50 Sull’atteggiamento degli autori cristiani verso la divinazione pagana, Briquel, Chrétiens…, pp. 79-82. 51 Per esempio, Tertulliano (apol. 22,9-10) spiegava che la velocità dei demoni permetteva loro di osservare eventi che si svolgevano a grandissime distanze e di riferirli a coloro che li interrogavano tramite gli oracoli; oppure, avendo la loro dimora nel cielo, essi erano vicini ai fenomeni atmosferici e potevano annunziarli agli uomini; oppure essi avevano ascoltato, quando erano ancora angeli nel cielo, Dio dare indicazioni sul futuro, e le presentavano come frutto della loro proprio capacità divinatoria.
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Ma questo aspetto ebbe certamente una minore importanza, nei confronti del cristianesimo, di un altro aspetto della vecchia religione etrusca, che ha chiaramente giocato un ruolo nella lotta contro la nuova religione. Un punto centrale del cristianesimo, che si riferiva ad un salvatore morto e risorto, era di proporre all’attesa dell’uomo una prospettiva di vita dopo la morte, fatta di felicità e di consolazione delle pene sofferte nella vita terrena. Rispondeva così certo meglio all’attesa degli uomini della vecchia religione nazionale, che poteva offrire soltanto nozioni vaghe, come quelle di lemuri o di mani, e un mondo dell’aldilà che si riduceva al nome dell’Orco, sul quale non si sapeva nulla. Ma, diversamente dei Romani, gli Etruschi avevano idee precise sull’aldilà, che erano esposte in una particolare categoria dei loro libri sacri, i libri dell’Acheronte52. L’Etrusca disciplina aveva infatti sviluppato tutta una teoria sulle prospettive di vita dopo la morte concessa agli uomini: potevano divenire dei, grazie a una particolare categoria di sacrifizi, che erano capaci di trasformarli in dei animales, cioè in dei formati da un’anima53. Tale dottrina, che permetteva di sperare una felicità eterna compiuta da semplici mezzi rituali, può sembrarci meccanica, se non puerile: ebbe però un certo successo nel periodo finale dell’impero, come mostrano le non poche allusioni che ne fanno autori sia cristiani, sia pagani. Essa sembra essere stata, in quel tempo, una delle teorie che la religione pagana poteva proporre come alternativa alla nuova fede cristiana: il cristiano Arnobio e il pagano Marziano Capella la citano insieme con la dottrina dei magi e Agostino, nella sua Città di Dio, la mette sullo stesso piano del mito di Er raccontato da Platone54. Sembra sia stata utilizzata, nel III sec., da un difensore del paganesimo, Cornelio Labeone, che, diversamente di altri fra gli “ultimi pagani”, le cui dottrine risalivano piuttosto ad una matrice greca – come Celso o Porfirio – 55, si fondava sulla religione tradizionale di Roma e perciò dava una particolare importanza alla tradizione etrusca56. Labeone aveva scritto un trattato in quindici libri sulla scienza religiosa etrusca, nel quale riportava la dottrina etrusca come rivelata dai suoi profeti, Tagete e Vegoia57. Ma sappiamo da Servio che egli aveva an-
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Questi libri sono citati da Arnob. II 62. Servio (Aen. VIII 398) parla di sacra Acheruntia. dottrina degli dei animales, A.J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz 1975, pp. 178-181, e il nostro articolo Regards étrusques sur l’au-delà, in La mort, les morts, l’au-delà dans le monde romain. Actes du colloque de Caen (20-22 novembre 1985), ed. F. Hinard, Caen 1987, pp. 263-277. 54 Rispettivamente Arnob. II 62; Mart. Cap. II 142; Aug. civ. XXII 28 (= Cornelio Labeone, fr. 11 Mastandrea). 55 Sulla questione, buona sintesi di P. Chuvin, Chronique des derniers païens, Paris, 1991. 56 Su Cornelio Labeone, cfr. il libro fondamentale di P. Mastandrea (Un neo-platonico latino: Cornelio Labeone, Leiden 1979) e le nostre pagine in Chrétiens…, pp. 119-137. 57 Fulgenzio, sermo antiqua 4 (= fr. 9 Mastandrea); il nome di Tagete è sicuro, ma quello di Vegoia risulta da una restituzione del testo, corrotto, di Fulgenzio. 53 Sulla
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che composto un’opera monografica sulla dottrina degli dei animales, il che mostra l’importanza che allora aveva questo aspetto delle vecchie credenze etrusche58. E l’interesse prestato alla questione da autori cristiani come Arnobio o Agostino è il segno che tale dottrina era diffusa tra i contemporeanei e faceva parte, come le credenze di origine orientale o neo-platoniche che essi pure citano, delle concezioni pagane sull’aldilà che i cristiani dovevano combattere, per imporre la fede in Gesù Cristo. Dunque gli elementi di origine etrusca che erano stati integrati nella religione romana potevano apparire come i più capaci, all’interno di essa, di resistere a quelle externae superstitiones nelle quali, già nel 47, l’imperatore Claudio denunciava un pericolo per la tradizione religiosa nazionale. Più delle altre sue componenti, quella etrusca offriva punti che ne facevano una valida alternativa proprio rispetto al cristianesimo. È stato sottolineato da molti che la religione etrusca era una religione del libro: gli aruspici avevano a loro disposizione i libri sacri nei quali era consegnata la loro scienza religiosa. Essa aveva dunque un punto di riferimento fermo, che le consentiva una solidità dottrinale estranea ad altri aspetti del paganesimo tradizionale. Soprattutto, la religione etrusca era una religione rivelata: la disciplina non appariva come il risultato dell’opera di uomini, bensi di una rivelazione, fatta da esseri soprannaturali, quelle figure profetiche che avevano insegnato i suoi principi agli Etruschi, nei primi tempi dell’esistenza della nazione, il prodigioso bambino Tagete, uscito dalla terra di Tarquinia, o la ninfa Vegoia, legata alla zona di Chiusi. Così, in un tempo nel quale si aspettava una verità che non venisse soltanto dall’uomo, ma che fosse il risultato di una rivelazione fatta da esseri divini, la religione etrusca forniva una risposta nazionale, propriamente italica e romana, alle religioni venute dall’estero, come quelle giudaica e cristiana, con i loro libri sacri e i loro profeti. Il successo finale del cristianesimo ha fatto sì che abbiamo pochissimi testi che ci facciano conoscere le idee dei suoi avversari. Possiamo aggiungere che siamo meglio informati sui difensori della religione tradizionale di matrice greca, che non su quelli che, come Cornelio Labeone, s’inscrivevano in una prospettiva propriamente romana. Lo stesso Cornelio Labeone ci è accessibile soltanto attraverso qualche raro frammento e si sa che l’importanza esatta del suo ruolo per la letteratura successiva è sempre oggetto di discussione59.
58 Serv. Aen. III 168 (= fr. 10 Mastandrea). Sembra da Agostino (loc. cit. = fr. 11 Mastandrea) che abbia cercato di sottrarre alla dottrina il suo aspetto puramente rituale, introducendo considerazioni morali che essa inizialmente non comportava. Cfr. Briquel, Chrétiens..., pp. 135-137. 59 Sulla discussione attorno alla sua influenza e sulla questione del “mito labeoniano”, da ultimo (con posizione assai scettica), J. Champeaux, Arnobe, Contre les Gentils, livre III, ed. CUF, Paris 2007, pp. XIII-XX).
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Perciò è certamente da sottolineare che, tra le poche testimonianze che abbiamo su questi ultimi pagani, ci sono due testi del IV sec., che paragonano il profeta etrusco Tagete a quelli della tradizione giudeo-cristiana. Uno scolio a Stazio, del cosiddetto Lattanzio Placido, che rimanda ad un ambiente ancora pagano, in una discussione sul nome di Dio, dopo avere citato e criticato i Magi, mette sullo stesso piano Orfeo, Mosè, definito come “prete di Dio altissimo”, il profeta Isaia “e gli altri simili a lui”, e gli Etruschi, dopo avere poco prima citato Tagete insieme con Pitagora e Platone60. In un altro documento, la lettera mandata da un prete pagano, Longiniano, ad Agostino, che l’interrogava sul suo parere rispetto al Cristo, Tagete viene citato insieme con Socrate, Orfeo, Ermes Trismegisto e “i profeti di Gerusalemme”61. 60 Schol. Stat. Theb. IV 516: “Et triplicis mundi summum” iuxta picturam illam ueterem in qua tormenta descripta sunt et ascensio ad Deum. Dicit autem Deum dhmiouvrgon, cuius scire nomen non licet. Infiniti autem philosophorum, magorum, Persae etiam confirmant reuera esse praeter hos deos cognitos, qui coluntur in templis, alium principem et maxime dominum, ceterorum numinum ordinatorem, de cuius genere sint soli Sol et Luna. Ceteri uero, qui circumferri a sphaera nominantur, eius clarescunt spiritu maximis in hoc auctoribus Pythagora et Platone et ipso Tagete. Sed dire sentiunt, qui eum interesse nefandis artibus actibusque magicis arbitrantur. In uersu ergo poeta sic dixit “illum”, quasi sciret nomen. Sic repetiuit, ut proderet. Sed hoc magis ad terrorem dixit “illum”, ut putaretur scire. Si ergo sciri nefas est, disci a uate non potuit. Licet magi sphragides habeant, quas putant Dei nomina continere, sed Dei uocabulum a nullo sciri hominum potest sed quid ueritas habeat percipe. Huiusne Dei nomen sciri potest, qui nutu tantum regit et continet cuncta, cuius arbitrio deseruiunt, cuius nec aestimari potest mundus nec finibus claudi? Sed cum magi uellent uirtutis eius, ut putabant, sese comprehendere singulas appellationes, quasi per naturarum potestates abusiue modo designarunt et quasi plurimorum numinum nobilitate Deum appellare conati sunt, quasi ab effectu cuiusque rei ductis uocabulis. Sic Orpheus fecit et Moyses, Dei summi antistes, et Esaias et his similes. Etrusci confirmant nympham, quae nondum nupta fuerit, praedicasse maximi Dei nomen exaudiri ab homine per naturae fragilitatem pollutionemque fas non esse. Quod ut documentis asserreret, in conspectu ceterorum ad aurem tauri Dei nomen nominasse, quem ilico ut dementia correptum et nimio turbine coactum exanimasse. Sunt qui se – licet secreto – scire dicunt, sed falsum sciunt, quoniam res ineffabilis comprehendi non potest. 61 Longiniano, in Aug. epist. 234: quaestionibus siquidem abundet quod ex parte uel iamdudum inter nos conuenerit, uel nunc identidem litteris magis magisque conueniar praeceptis, non dicam tantum Socraticis, nec tuis, Romanorum uir optime, propheticis, aut paucis Ierosolymiticis, sed etiam Orphicis atque Tageticis et Trismegisticis, longe ante illis antiquioribus, et pene rudibus adhuc saeculis diis auctoribus enatis, et toti orbi terrae certis limitibus partitae trifariam diuinitus ostensis, priusquam nomen aut Europa caperet aut Asia acciperet, aut Libya possideret uirum bonum, ut tu, medius fidius, et eris et fuisti. Siquidem adhuc post hominum memoriam nisi Xenophontis figmentis compositae fabulae schema concedas, adhuc audierim, legerim, uiderim neminem, aut certe post ullum, nullum, nisi te. (…) [2] Verum qua uia effici possit, magis est ut tu non nescias, et mihi non insinuato extrinsecus aliquo dissertes, quam ut a me, domine percolende, scias. Quia tunc, fateor, huius boni in sedem profecturus sufficiens, ut mea expetunt sacerdotia, minime necdum, et si tamen potuero, uiaticum colligo. Verum quid traditum sancte atque antiquitus teneam atque custodiam, ut potuero paucis edicam. Via est in Deum melior, qua uir bonus piis, puris, iustis, castis, ueris dictis factisque, sine ulla temporum mutatorum captata iactatione probatus, et deorum comitatu uallatus, Dei utique potestatibus emeritus; id est, eius unius et uniuersi, et incomprehensibilis, et ineffabilis, infatigabilisque creatoris impletus uirtutibus, quo, ut uerum est, angelos dicitis, uel quid alterum post Deum uel cum Deo aut in Deum intentione animi mentisque ire festinat. Via est, inquam, qua purgati antiquorum
Il ruolo della componente etrusca nella difesa della religione nazionale dei Romani 131
Per noi è interessante notare che, per questi rappresentanti della religione pagana sotto il suo aspetto romano, la rivelazione etrusca ha la stessa importanza dei maggiori rappresentanti del pensiero religioso greco o ellenizzante – Orfeo, Ermes Trismegisto, Pitagora, Socrate, Platone – e dei profeti della Bibbia. È chiaro che, per questi pagani che si presentano come Romani, le figure della tradizione etrusca, come Tagete, sono quelle che contano di più. Nella sua lettera ad Agostino, Longiniano abbozza una teoria del profetismo che attribuisce a ciascuna delle parti del mondo – l’Africa, l’Asia, l’Europa – il suo proprio profeta. Mentre il Trismegisto viene assegnato all’Africa, Orfeo all’Asia, quello dell’Europa è Tagete: non si può meglio esprimere che, per questi pagani che si riferiscono alle tradizioni propriamente romane, le profezie trasmesse dal bambino tarquiniese hanno la precedenza e sono da seguire – anche se si inseriscono in una concezione tipica del pensiero pagano di quel tempo, nel quale, come diceva Simmaco, «non c’è un’unica via per pervenire ad un mistero così grande»62 e dunque ogni rivelazione, ogni profezia aveva il suo valore. Certo, in linea di principio, tutti i profeti furono ispirati del Dio unico che, in quei tempi, anche i pagani concepivano come maestro supremo dell’universo: però, per i Romani, la rivelazione fatta agli Etruschi, i loro connazionali, era da preferire63. Questo attaccamento alla tradizione etrusca non significa che essa sia rimasta com’era prima e non abbia subito cambiamenti, anche importanti. Lo vediamo nei testi che abbiamo citato, che illustrano la persistente importanza dell’Etrusca disciplina nel tardo impero e il suo ruolo nella resistenza della religione nazionale contro l’ascesa delle altre religioni, in primis il cristianesimo. Nella sua lettera ad Agostino, Longiniano professa la sua fede monoteista, considerando gli dei abituali del politeismo – che continuano ad essere presi in considerazione (deorum comitatu uallatus) e vengono assimilati agli angeli dei cristiani (quos angelos dicitis) – soltanto come potenze secondarie subordinate al Dio unico, ineffabile e onnipotente. Certo non è sorprendente, nell’ambito del paganesimo di quel tempo, ma siamo ben lontani dalla re-
sacrorum piis praeceptis expiationibusque purissimis, et abstemiis obseruationibus decocti, anima et corpore constantes deproperant. [3] De Christo autem tuae iam credulitatis carnali et spirituali Deo, per quem in illum summum, beatum, uerum, et patrem omnium ire securus es, domine pater percolende, non audeo nec ualeo quid sentiam exprimere, quia quod nescio, difficillimum credo definire. 62 Simmaco relazione 3,10. La risposta a tale apertura da parte dei cristiani fu un rifiuto totale. In epist. 18,8 e retract. I 4,3, Agostino opponeva alla formula di Simmaco la parola di Gesù «Io sono la via», e negava che potesse esistere un altro cammino per andare a Dio. Già nel III sec., Origene insisteva sul fatto che la rivelazione cristiana (o giudeo-cristiana) era unica e che non potevano esisterne altre, se non quella della tradizione biblica (esortazione al martirio 46; Cels. 1,25). 63 Sulla teorizzazione di questa rappresentazione attraverso il concetto degli “dei etnarchi” utilizzato da Celso (cfr. Cels. 5,25), Briquel, Chrétiens…, pp. 106-108.
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ligione etrusca primitiva, quella del tempo dell’indipendenza nella quale era nata la disciplina originale. Ed è ancora più evidente nel testo di “Lattanzio Placido”: in esso, per dimostrare la potenza del nome del Dio supremo, si attribuisce agli Etruschi una storiella che esisteva altrove, in ambiente cristiano, e che non era altro se non il recupero, da parte dei rappresentanti della tradizione etrusca, di un aneddoto inventato dai Giudei di Alessandria che, sotto la sua forma primitiva, faceva intervenire Mosè e il Faraone64. Abbiamo qui un’altra testimonianza di questa intromissione di elementi di origine giudaica, o giudeo-cristiana, nella scienza religiosa degli Etruschi, o almeno in ciò che si presentava come tale in epoca tarda. Un lemma del lessico bizantino della Suda ci ha conservato un preteso racconto etrusco della creazione, che è una parafrasi del Libro della Genesi, con aggiunta di certi elementi di origine iranica65. Questi sforzi della vecchia tradizione etrusca per offrire qualche cosa di simile a ciò che offriva la giovane religione cristiana, o le altre novità spirituali che si diffondevano nell’impero romano, possono apparirci ridicoli e, certo, un tardo tentativo di aggiornamento del genere non bastò a impedire ciò che doveva inevitabilmente succedere, la sparizione dell’antica religione nazionale e il passaggio del mondo romano al cristianesimo. Ma essi esprimono anche, con questi ultimi esempi, in una forma forse eccessiva, la capacità di adattamento, di risposta alle rinnovate esigenze religiose degli uomini di quel tempo, che la componente etrusca della religione romana conservava. Questa componente etrusca possedeva, dalle origini, aspetti che si rivelavano in sintonia con le attese della tarda antichità ed offriva anche certe possibilità di sviluppo che le conferivano una capacità innovativa che essa era quasi la 64 Cfr. F. Cumont, La plus ancienne légende de saint Georges, “RHR” 114 (1936), pp. 5-41; J. Bidez - F. Cumont, Les mages hellénisés. Zorastre, Ostanès et Hystape d’après la tradition grecque, I, Paris 1938, pp. 225-238 (appendice I, Mages, Juifs et Étrusques); Briquel, Chrétiens…, pp. 145-147; la storia appare in un frammento della Storia dei Giudei di Artapanos, che viveva ad Alessandria nel II sec. a.C. (FGrHist 726,3, citato da Eus. PE IX 27,25-26, e, più brevemente, da Clem.Al. strom. I 154,3). Nel racconto di Artapanos, Mosé pronunzia il nome segreto di Dio all’orecchio del Faraone, che cade a terra, ucciso dalla potenza del nome divino – prima che Mosé lo richiami alla vita. 65 Suda, s.v. Turrhniva: iJstorivan de; par∆ aujtoi`~ e[mpeiro~ ajnh;r sunegravyato: e[fh ga;r to;n dhmiourgo;n tw`n pavntwn qeo;n ibV ciliavda~ ejniautw`n toi`~ pa`sin aujtou` filotimhvmasqai ktivsmasi, kai; tauvta~ diaqei`nai toi`~ ivbV legomevnoi~ oi[koi~: kai; th`/ me;n aV ciliavdi poih`sai to;n oujrano;n kai; th;n gh;n: th/` de; bV poih`sai to; sterevwma tou`to to; fainovmenon, kalevsa~ aujto; oujranovn, th/` gV th;n qavlassan kai; ta; u{data ta; ejn th`/ gh/` pavnta, th/` dV tou;~ fwsth`ra~ tou;~ megavlou~, h{lion kai; selhvnhn kai; tou;~ ajstevra~, th/` eV pa`san yuch;n peteinw`n kai; eJrpetw`n kai; tetravpoda ejn tw/` ajevri kai; ejn th/` gh/` kai; ejn toi`~ u{{dasi, th`/ zV to;n a[nqrwpon. faivnetai ou\n ta;~ me;n prwvta~ e}x ciliavda~ pro; th`~ tou` ajnqrwvpou diaplavsew~ parelhluqevnai: ta;~ de; loipa;~ e}x ciliavda~ diamevnein to; gevno~ tw`n ajnwrwvpwn, wJ~ ei\nai to;n pavnta crovnon mevcri th`~ sunteleiva~ ciliavda~ ibV. Per l’analisi di questo testo, cfr. Bidez - Cumont, loc. cit.; Briquel, Chrétiens…, pp. 149-156.
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sola ad avere, all’interno della religione romana66. Mentre tanti altri aspetti del mos maiorum in materia di religione erano ridotti a mere sopravvivenze del passato – gli auguri, che a una certa epoca potevano apparire come la controparte puramente romana degli aruspici, sotto l’impero non hanno più nessuna importanza –, l’aruspicina rimaneva viva e poteva sembrare che sostenesse le speranze dei difensori della religione tradizionale, nella quale era ormai integrata da secoli.
66 Anche un punto come la questione del monoteismo si presentava diversamente per la religione etrusca e per quella propriamente romana. Attraverso la nozione di destino, che aveva tanta importanza per gli Etruschi, l’idea di un Dio supremo, unico, che stava sopra le diverse divinità del pantheon, non appariva necessariamente estranea al pensiero religioso degli Etruschi. Cfr. Briquel, Chrétiens..., pp. 147-149; 157-158. L’ipotesi di Bidez - Cumont (Les Mages…, I, pp. 237-238) di un pasticcio fatto dai Giudei per diffondere, nascondendole, le loro idee nel mondo romano, è senz’altro da respingere.
Il concetto di “transferts culturels”: un’alternativa soddisfacente a quello di “romanizzazione”? Il caso etrusco Marie-Laurence Haack
Gli organizzatori di questo convegno, proponendo un titolo in latino, e non in italiano come nella maggior parte dei convegni precedenti, hanno seguito una moda che ha ancora molto successo negli studi antichi. Cosí hanno forse voluto evitare di suscitare critiche per avere impiegato la prima parola che viene in mente quando si evoca il fenomeno di unificazione dei popoli d’Italia in un’Italia romana, cioè “romanizzazione”. La parola è usata cosí spesso da essere entrata nei dizionari di lingua francese, italiana, inglese, spagnola e tedesca per designare l’assimilazione di territori conquistati dai Romani. Dalla fine del XIX secolo fino ad oggi, l’adozione della lingua latina, della cittadinanza, della toga, del mattone sono state spiegate con una romanizzazione che può assumere aspetti linguistici, giuridici e materiali. Però, in questi ultimi anni, l’impiego della parola “romanizzazione” è stata violentemente criticata e gli organizzatori, coscienti delle difficoltà, hanno forse voluto evitare questa parola nel titolo del convegno. In generale si rimprovera al concetto di “romanizzazione” di essere segnato dal suo contesto di elaborazione, dalle sue implicazioni colonialistiche e dalla sua imprecisione semantica, a tal punto che ci si puo chiedere se si possa ancora parlare di romanizzazione senza essere giudicati superati o reazionari. Già da un trentennio, alcune alternative sono state proposte: l’accul Cfr. N. Terrenato, The Romanization of Italy: global acculturation or cultural bricolage?, in TRAC 97. Proceedings of the Seventh Annual Theoretical Roman Archaeology Conference Nottingham 1997, Oxford 1998, pp. 20-27; P. Le Roux, La romanisation en question, “Annales ESC”, mars-avril 2004, pp. 287-311; H. Inglebert, Les processus de romanisation, in H. Inglebert (ed.), Histoire de la civilisation romaine, Paris 2005, pp. 421-449; S. Janniard - G. Traina, Sur le concept de «romanisation». Paradigmes historiographiques et perspectives de recherche. Introduction, “MEFRA” 118 (2006), pp. 71-79; G.A. Cecconi, Romanizzazione, diversità culturale, politicamente corretto, “MEFRA” 118 (2006), pp. 81-94. Vd. l’uso della parola “romanizzazione” in Th. Mommsen, Die Provinzen, von Caesar bis Diokletian, Berlin 1985; F.J. Haverfield, The Romanization of Roman Britain, “ProcBritAc” 1905-1906, pp. 185-217; Id., The Romanization of Roman Britain, Oxford 19234. Per un’analisi della loro ideologia, cfr. P.W.M. Freeman, From Mommsen to Haverfield: The Origins of studies of Romanization in late 19th c. Britain, in D.J. Mattingly (ed.), Dialogues in Roman Imperialism. Power, Discourse and Discrepant Experience in the Roman Empire, Portsmouth - Rhode Island 1997, pp. 27-50; su F.J. Haverfield, vd. J. Webster, Creolizing the Roman Provinces, “AJA” 105 (2001), pp. 209-225, part. p. 211.
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turazione, la trasculturazione, l’interculturazione, la traduzione, il meticciato, l’ibridazione e, da alcuni anni, il concetto di transferts culturels (utilizzo l’espressione francese non esistendo l’equivalente italiano), che comincia a essere utilizzato per la storia antica. In Francia gli sono stati consacrati un numero della rivista Hypothèses e un libro sul mondo greco ellenistico, curato da B. Legras e da J.-C. Couvenhes. Si tratta di una nuova moda o di un vero strumento euristico e interpretativo? Vorrei esaminare la teoria dei transferts culturels e propormi di vedere, con un esempio, se il concetto di transferts culturels può sostituirsi in parte a quello di “romanizzazione”. La teoria dei transferts culturels non deriva dagli studi sull’antichità. Come molti nuovi strumenti di riflessione utilizzati per l’antichità, è stata elaborata da ricercatori che studiano la storia culturale contemporanea, ed è stata prodotta dalle riflessioni di un gruppo di ricerca del CNRS nell’ambito della storia franco-tedesca (UMR 8547). Due membri di questo gruppo, M. Espagne e M. Werner, l’uno francese, l’altro tedesco, hanno notato che, nella seconda metà del XVIII secolo, la cultura tedesca cerca una identità nazionale, distinguendosi dal modello francese dominante in Europa e che, al contrario, nel XIX secolo, la referenza tedesca entra nel processo di costituzione e di istituzionalizzazione del campo delle scienze umane in Francia. Per questi due ricercatori, la nozione tradizionale d’influenza non è sufficiente per capire, per esempio, la ricezione di uno scrittore tedesco come Vd. R.W. Brandt - J. Slofstra (edd.), Roman and Native in the Low Countries: Spheres of Interaction, Oxford 1983; J. Mertens, L’interaction culturelle dans le nord de la Gaule Belgique à l’époque romaine, “Caesarodunum”, 28.2 (1994), pp. 25-277; J. Webster, Creolizing the Roman Provinces, “AJA” 105 (2001), pp. 209-225; P. Van Dommelen, Colonial constructs: colonialism and archeology in the Mediterranean, “World Archaeology” 28 (1997), pp. 305-323. Sui problemi lessicali, cfr. L. Turgeon, Les mots pour dire les métissages: jeux et enjeux d’un lexique, in L’horizon anthropologique des transferts culturels, “Revue Germanique internationale”, 21 (2004), pp. 53-69. Cfr. F. Villeneuve, Frontières et transferts culturels. Quelques notes d’un antiquisant, “Hypothèses” 2002, pp. 213-218; V. Damour, La théorie des transferts dans la religion gallo-romaine. L’exemple de Mars en Gaule lyonnaise, “Hypothèses” 2002, pp. 177-186. Cfr. B. Legras - J.-C. Couvenhes (edd.), Transferts culturels et politique dans le monde hellénistique, Paris 2006. M. Espagne, Sur les limites du comparatisme en histoire culturelle, “Genèses” 17 (septembre 1994), pp. 112-121; Id., Les transferts culturels franco-allemands, Paris 1999; Id., Introduction, in L’horizon..., pp. 5-8; M. Espagne - M. Werner, Deutsch-französischer Kulturtransfer im 18. und 19. Jahrhundert. Zu einem neuen interdisziplinären Forschungsprogramm des C.N.R.S., “Francia” 13 (1985), pp. 502-510; Id., La construction d’une référence culturelle allemande en France. Genèse et histoire, “Annales E.S.C.” 1987, pp. 969-992; Id., Transferts. Les relations interculturelles dans l’espace franco-allemand (XVIIIèXIXème siècle), Paris 1988; Id., Philologiques III. Qu’est-ce qu’une littérature nationale? Approches pour une théorie interculturelle du champ littéraire, Paris 1994; M. Werner, A propos de la réception de Hegel et de Schelling en France pendant les années 1840. Contribution à une histoire sociale des transferts interculturels, in J. Moes - J.M. Valentin (edd.), De Lessing à Heine. Un siècle de relations littéraires et intellectuelles entre la France et l’Allemagne, Paris 1985, pp. 277-291.
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Heinrich Heine in Francia. Per loro, la costruzione identitaria si comprende analizzando un lungo arco temporale. Quindi si sono chiesti «come il pensiero tedesco si fosse diffuso in Francia prima che i Francesi ne fossero coscienti». Cosí prima hanno isolato empiricamente degli elementi della cultura tedesca presenti in Francia in uno stato latente; poi, progressivamente, hanno formulato dei principi di passaggio degli stessi elementi da una cultura all’altra. Questi principi sono semplici: un transfert è sempre preparato, anche all’insaputa delle persone che fanno da intermediari (traduttori, interpreti) e/o dagli oggetti che trasformano e si trasformano, quando passano da una cultura all’altra. Niente d’originale, si potrebbe dire: il ruolo dei traduttori nella trasmissione dei saperi antichi è già stato studiato e tutti gli antichisti sanno quanto siano importanti i vasi nella trasmissione dei riti di libazione o degli schemi iconografici. Però la teoria di M. Espagne e di M. Werner è interessante per la sua attenzione ai momenti e ai mezzi dei transferts. Con momenti dei transferts essi intendono non soltanto la congiuntura immediata del paese d’accoglienza, ma anche il risultato di quello che lo ha preceduto, il precostruito intellettuale, cioè la tradizione dei prestiti anteriori. Insomma, non vogliono accontentarsi di una spiegazione congiunturale della ricezione o della non-ricezione di un fatto culturale. Un transfert risulta da una moltitudine di “transferts” anteriori. Con mezzi di transferts essi intendono naturalmente i vettori materiali dei transferts, ma analizzano prima di tutto degli oggetti che esprimono una identità e mostrano vivo interesse per gli oggetti “identitari” che possano subire delle ricontestualizzazioni culturali modificando la loro forma, il loro impiego, forse il loro significato. E la loro modifica cambia coloro che li ricevono e che li trasformano per appropriarsene. Le loro credenze, le loro idee e la loro posizione sociale non sono più le stesse10. Cfr. M. Espagne, in G. Noiriel, Transferts culturels: l’exemple franco-allemand. Entretien avec Michel Espagne, “Genèses” 8 (1992), p. 146. Vd., per esempio, A. Traina, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 1970; Id., Le traduzioni, in G. Cavallo - P. Fedeli - A. Giardina (edd.), Lo spazio letterario di Roma antica. II. La circolazione del testo, Roma 1989, pp. 93-123. Cfr. M. Espagne - M. Werner, Présentation, “Revue de synthèse” 109 (avril-juin 1988), p. 188: «Les intérêts de la culture réceptrice exigent qu’elle confère au don un sens adapté à la situation du moment. De même qu’il est vain de chercher le sens d’un échange d’objets entre deux sociétés océaniennes en dehors de la pratique même de l’échange, de son rituel et de l’usage fait de l’objet, de même on peut difficilement déterminer le sens d’un bien culturel transféré en dehors des besoins spécifiques du pays d’accueil»; p. 190: «Il convient d’insister sur le travail de réinterprétation qu’effectue chaque culture en s’assimilant des emprunts extérieurs. En traversant la frontière, l’ «objet» culturel change non seulement de place, mais également de sens». 10 Cfr. J.-P. Saez (ed.), Identités, cultures et territoires, Paris 1995.
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Certo gli antichisti non hanno aspettato M. Espagne e M. Werner per procedere allo studio degli uomini e degli oggetti che servono da mediatori alle metamorfosi di una o più culture, ma è più raro che questi mediatori vengano in primo piano negli studi che rifiutano una concezione chiusa e, per farla breve, morale delle culture e dei popoli, dove la cultura e la nazione sono considerate come delle entità mutevoli e variabili. Secondo M. Espagne e M. Werner, le culture sono lanciate in un processo evolutivo costante e sono attraversate da momenti “stranieri”, nei quali si effettuano i transferts. I sostenitori della teoria dei transferts culturali riconoscono che devono questa concezione aperta e fluttuante della cultura ai lavori di Nathan Wachtel11, e riprendono le sue domande a proposito delle società precolombiane rispetto alla conquista spagnola, cioè: come hanno potuto conservare le proprie strutture mentali malgrado la conquista e l’importazione massiccia di beni culturali stranieri? come possono delle strutture mentali sovrapporsi e costituire a lungo termine una nuova combinazione? Come si può vedere, la teoria dei transferts culturali rifiuta di esaminare i fatti culturali da una sola parte, quella dei vincitori o quella dei vinti, perché non esistono identità pure; nel nostro caso, perché non esistono dei Romani astratti o degli indigeni astratti. Al contrario, i sostenitori dei transferts culturels evidenziano la reciprocità delle relazioni comuni. Per studiarla da vicino, provano ad utilizzare l’antropologia nella ricerca storica e procedono a dei va e vieni tra i casi particolari e le ricerche di modellizzazione. Questa teoria è sembrata tanto piena di promesse che è stata rapidamente utilizzata dagli storici. In Francia alcuni antichisti hanno visto i vantaggi della nozione di transferts culturali per evitare le critiche di un uso delle nozioni di romanizzazione e di ellenizzazione. Nel caso degli studi condotti in Francia, dagli anni sessanta in poi, si rimprovera infatti alla romanizzazione di rendere conto più della situazione degli imperi coloniali della prima metà del XIX secolo che delle realtà antiche. Con la romanizzazione si leggerebbe la storia della dominazione romana con l’idea di un’integrazione programmata, completa e omogenea dei popoli conquistati alla civiltà romana. Questa idea di una politica cosciente romana di romanizzazione, di un programma di romanizzazione consiste nel pensare ai rapporti tra Roma e le province o tra Roma e i popoli d’Italia come un transfert unilaterale da Roma verso i vinti giustificato da un effetto civilizzatore di Roma sui vinti12. Ma l’idea di civil11 Cfr. N. Wachtel, La visione dei vinti. Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola, Torino 1977. 12 Per un esempio di questa confusione tra storia contemporanea e storia antica, cfr. R. Cagnat, L’armée romaine d’Afrique et l’occupation militaire de l’Afrique sous les empereurs, Paris 1937, p. 776: «Nous pouvons donc sans craindre, et malgré les fautes nombreuses qu’il ne sert à rien de cacher, comparer
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tà benefattrice era particolarmente malvista nel momento in cui la Francia e l’Inghilterra provavano a cominciare un processo di decolonizzazione. In Francia, almeno, mentre credevamo di aver potuto mettere una fine a questo pezzo della nostra storia, il problema della decolonizzazione è tornato in primo piano nel dibattito intellettuale nel corso dell’ultima campagna presidenziale: alcuni paesi decolonizzati hanno chiesto la resa dei conti all’expotenza coloniale e tutta una generazione di figli, perfino dei nipotini delle popolazioni immigrate ha messo in causa l’accoglienza e la riconoscenza dei propri genitori. Quindi si può capire che una teoria che non definisca una cultura in termini nazionali, e cerca di capire i transferts riguardando tanto dalla parte della cultura emettitrice quanto dalla parte della cultura ricevente, possa avere un certo successo in Francia. Però non si può dimenticare che la teoria dei transferts culturali è anch’essa influenzata dalle idee e dal contesto politico degli anni in cui è apparsa: è stata formulata da due personalità (i già citati M. Espagne e M. Werner) nate nel dopoguerra, formatesi nel momento della cooperazione franco-tedesca, e i cui lavori sono stati finanziati in parte dall’unione europea o da organismi francotedeschi. Si può dunque capire che le stragi, le distruzioni, le torture compiute nelle guerre non siano studiate da M. Espagne e da M. Werner. Ma, per l’antichità, la visione irenica dei rapporti tra culture è rischiosa. Certo, questa visione è conforme al linguaggio delle fonti, per la maggior parte latine o romane, dove le devastazioni e le depredazioni sono spesso eliminate a favore dell’esaltazione delle gesta dei generali romani. Come dimenticare tuttavia che le due parti non erano uguali, che la guerra era il fondamento del potere delle famiglie dirigenti e, allo stesso tempo, il modo di relazionarsi con le popolazioni locali? La teoria dei transferts culturali non si interroga nemmeno sulla ricezione di culture straniere, perché si dovrebbe interrogare sulla gerarchizzazione che si può produrre nella mente di quelli che subiscono l’opposizione di più culture. Come non capire che molte popolazioni dell’Italia repubblicana dovevano integrarsi per non scomparire? essere romane per non morire? Questa teoria è al contrario segnata da un relativismo culturale che mette l’accento sulla diversità e sulla specificità delle culture. Il “cultural change” interessa M. Espagne e M. Werner in quanto fenomenologia ma non come risultato di una valorizzazione di una cultura a scapito di un’altra. I popoli sottomessi da Roma non dubitavano della sua superiorità militare, perfino politica e religiosa; Roma era in grado di imporre la sua forza militare e quindi di cancellare la parte avversa. notre occupation de l’Algérie et de la Tunisie à celle des mêmes provinces africaines par les Romains: comme eux, nous avons glorieusement conquis le pays, comme eux, nous avons assuré l’occupation, comme eux, nous essayons de le transformer à notre image et de le gagner à la civilisation».
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Tuttavia, il fatto che la teoria dei transferts culturali meriti, come la romanizzazione, delle critiche, non significa che sia totalmente incapace di rendere conto delle trasformazioni culturali dell’Italia prima di Cristo. Vorrei quindi presentare un tentativo d’applicazione di questa teoria all’Italia preromana, per mostrare alcune vie di transfert nell’Italia antica. Ho scelto un esempio che corrisponde ai principi enunciati da M. Espagne e da M. Werner, cioè un oggetto che esprimerebbe una identità e subirebbe una ricontestualizzazione culturale, che studierò mettendo l’accento sulla tradizione dei prestiti anteriori. L’oggetto in questione è la bulla, una capsula rotonda a gocciola, da 4 a 6 cm. di diametro, che si metteva al collo dei bambini romani per mostrare la loro ingenuitas. Nel mondo romano, non c’era dubbio: la bulla definiva il futuro Romano così come i Brettoni o i Numidi, che si volevano mostrare beneficiari di questo privilegio, non esitavano ad appendere la bulla al collo della propria prole13. Come altri popoli dell’area mediterranea, dopo la sconfitta delle loro città, gli Etruschi hanno fatto portare la bulla ai bambini di nascità libera. Infatti una bulla è visibile su statue e statuine votive di bambini, più esattamente di maschi ancora in fasce o capaci di stare seduti o in piedi. Soprattutto, l’adozione della bulla cambia da una città all’altra, ma l’assenza o la presenza dell’oggetto non sembra spiegarsi in base alla quantità di popolazione di nascità libera. Nessuna rappresentazione di bambini con bulla è stata scoperta a Falerii, mentre alcune rappresentazioni di questo tipo sono state trovate a Gravisca e molte a Vulci, nel deposito della porta Nord14. La bulla nelle rappresentazioni votive di bambini nei santuari d’Etruria Falerii
Gravisca
Vulci
Quantità di bambini votivi
2
10
53
Quantità di bambini votivi con bulla
0
2
33
Certo, la parte della scelta personale nella rappresentazione di questi bambini è difficile da valutare perché questi oggetti erano prodotti in serie, ma la disparità tra i modi di rappresentazione dei bambini non è casuale. Infatti rivela l’adozione di un modo di vita diverso da quello che era comune 13 Vd. le bullae nell’arte romana d’Italia e delle provincie in H.R. Goette, Die Bulla, “BJ” 186 (1986), pp. 154-163. 14 Cfr. A. Comella, Il materiale votivo tardo di Gravisca, Roma 1978, A 3 fr 1, tav. 98 c; A 3 fr 3, tav. 99 b; Ead., I materiali votivi di Falerii, Roma 1986; A. Pautasso, Il deposito votivo presso la porta Nord a Vulci, Roma 1994.
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Il concetto di “transferts culturels”
nell’Etruria indipendente. Basta guardare agli altri modi di vestirsi nei votivi: in quattro santuari d’Etruria, dove i bambini votivi portano una bulla, si nota che il velo è rappresentato sulle teste votive e che la toga è visibile sugli adulti votivi. I bambini votivi portatori di una bulla nei santuari ellenistici d’Etruria Porta Nord di Vulci
Tarquinia-Ara della Regina
Bomarzo
Veio-Campetti
Quantità di statuine votive 4 di bambini con una bulla
6
1
3
Quantità di statuine votive 0 di bambini con la testa velata
9
22
23
Quantità di statuine votive 1 ? con una toga
2
0
5
Quindi alcuni bambini votivi con una bulla sono visibili in tre santuari dove il velo ricopre la testa d’adulti, uomini e/o donne. Così nel santuario dell’ara della Regina a Tarquinia: tra i bambini votivi in fasce ci sono sei bambini con una bulla del II secolo a.C. 15 e nove teste velate16. È così anche a Bomarzo, dove c’è una testa velata17. Lo stesso avviene nel santuario di Campetti a Veio, dove due statuine del II o del I secolo a.C. hanno una bulla18, e dove alcune teste della stessa epoca sono velate19. È noto che il velo e la toga indicano l’adozione di modi di vita romani. I riti romani si distinguevano dai riti greci perché il sacrificante romano aveva la testa velata, mentre quello greco aveva la testa nuda. Secondo Dionisio d’Alicarnasso, questa abitudine risaliva a Enea che, quando sacrificava,
15 Cfr. A. Comella, Il deposito votivo presso l’Ara della Regina, Roma 1982, A4I, tav. 4a; A4IV, tav. 5a; A4V, tav. 5b; A3 fr 1, tav. 98 c; A 3 fr 2, tav. 99a; A 3 fr 3, tav. 99b. 16 Cfr. Comella, Il deposito..., B1 XX, tav. 17b; B1 XXI, tav. 18a; B2XIV, tav. 36b; B2XXXIIIf, tav. 49b; B2XXXIIIg; B2XXXV, tav. 50b; B2XXXVIII, tav. 52a; B2XXXIX, tav. 52b; B2XL, tav. 53a. 17 Cfr. G. Vito, Museo civico di Viterbo. Guida delle raccolte archeologiche etrusche e romane, Viterbo 1957, p. 25, fig. 21; M.P. Baglione, Ricognizioni archeologiche in Etruria 2. Il territorio di Bomarzo, Roma 1976, p. 168, C2, tav. CVI. 18 Cfr. L. Vagnetti, Il deposito votivo di Campetti a Veio: materiale degli scavi 1937-1938, Firenze 1971, I XIII, tav. XLI; I XIV, tav. XLII; I XVI, tav. XLII. 19 Cfr. Vagnetti, Il deposito…, F XXII, tav. XXVIII; F XXIV, tav. XXIX; F XXV, tav. XXIX; F XXVI, tav. XXIX; F XXVII, tav. XXIX; F XXVIII, tav. XXIX; G IV a, tav. XXX; G V, tav. XXX; G VI, tav. XXX; G IX, tav. XXXI; G X, tav. XXXI; G XI, tav. XXXI; G XII, tav. XXXI; G XV a, tav. XXXII; G XVIII a, tav. XXXIV; G XIX, tav. XXXIV; G XX a, tav. XXXIV; G XXI, tav. XXXV; G XXII, tav. XXXV; G XXVIII, tav. XXXVII; G XXIX, tav. XXXIX; G XXX, tav. XXXVIII; H 1, tav. XXXIX.
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si velava e voltava le spalle, avendo visto dei nemici20. Gli Etruschi prima del dominio romano sacrificavano al modo greco con la testa nuda21, per cui i Romani avrebbero eccezionalmente sacrificato a capo scoperto a Saturno, dio di origine etrusca22. La toga è un criterio ancora più chiaro. I Romani la portavano ogni volta che volevano mostrare la loro appartenenza alla cittadinanza romana, cioè sul foro e all’esterno della loro casa23, perché la toga e il velo erano vietati agli stranieri24. Il fatto che la toga simbolizzasse la cittadinanza romana era chiaro a tutti: prova ne sia che i Greci Italioti erano chiamati palliati e i Galli bracati25. Quindi, si può dire che dal II secolo a. C. i bambini d’Etruria di nascita libera siano progressivamente rappresentati come i bambini dei santuari del territorio romano26. La presenza della bulla sui votivi è dunque un criterio di romanizzazione. Ma, ad esaminare la bulla sulla lunga durata nel mondo etrusco e nel mondo romano, ci si rende conto che non si tratta di un semplice “transfert” come si vede in Britannia, in Numidia o in Grecia, ma di un secondo transfert o, per utilizzare con un senso diverso il vocabolario della psicanalisi, di un controtransfert. Prima di ornare il petto dei bambini romani di nascita libera che, al momento della pubertà, la lasciavano con la praetexta27, la bulla era portata dagli Etruschi che, nel II secolo a.C., gli davano un significato un po’ diverso. Il primo transfert, dall’Etruria a Roma, risale probabilmente all’epoca dei Tarquini o forse ancora prima. Le fonti letterarie indicano chiaramente 20 Cfr.
D.H. XII 22. Vd. anche Val. Fl. V 97; Act. Arv. a. 90,30: manibus lautis uelato capite. il commento di documenti iconografici in J.-R. Jannot, Devins, dieux et démons. Regards sur la religion de l’Etrurie antique, Paris 1998, pp. 54-57. 22 Cfr. Serv. Aen. III 407: sacrificantes deis omnibus caput uelare consuetos (…) excepto tantum Saturno. Sui riti in onore di Saturno, cf. M. Le Glay, Saturne africain. Histoire, Paris 1966, p. 465. 23 Cfr. Gell. VI 12,3: uiri autem Romani primo quidem sine tunicis toga sola amicti fuerunt. Vd. anche D.C. fr. 39,7 Dind.; LVI 31,3; Non. p. 406,15. Sul modo di portare la toga da parte di un oratore, cfr. Quint. inst. XI 3,137-149. Sulla toga dei candidati alle elezioni romane, cf. E. Deniaux, La toga candida et les élections à Rome sous la République, in F. Chausson - H. Inglebert (edd.), Costume et société dans l’Antiquité et le haut Moyen Âge, Paris 2003, pp. 49-55. 24 Cfr. Suet. Claud. 15: peregrinitatis reum orta inter aduocatos leui contentione, togatumne an palliatum dicere causam oporteret, quasi aequitatem integram ostentans, mutare habitum saepius et prout accusaretur defendereturue, iussit. 25 Cfr. Cic. fam. IX 15,2: bracatis et transalpinis nationibus. 26 Cfr. M.C. D’Ercole, La stipe votiva del Belvedere a Lucera, Roma 1990, p. 228, D III. 27 Cfr. Fest. p. 36 M: bulla aurea insigne erat puerorum praetextatorum, quae dependebat eis a pectore, ut significaretur eam aetatem alterius regendam consilio (…) uel quia eam partem corporis bulla contingat, id est pectus, in quo naturale manet consilium; Pers. 5,30-31: cum primum pauido custos mihi purpura cessit / bullaque subcinctis Laribus donata pependit; Macr. Sat. I 6,9: hinc deductus mos ut praetexta et bulla in usum puerorum nobilium usurparentur ad omen ac uota conciliandae uirtutis ei similis cui primis in annis munera ista cesserunt; Schol. Pers. 5,31: bulla genus est uestis puerilis, quam solent pueri deposita pueritia diis penatibus dare, uel certe ornamenti genus est, quod ante pubertatem habebant. 21 Vd.
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che questo prestito è dovuto ai re etruschi e le fonti archeologiche mostrano un’anteriorità della presenza delle bullae in Etruria. Per la maggior parte delle fonti letterarie, si tratterebbe di un prestito da Tarquinio Prisco. Secondo Plinio il Vecchio28, e poi per Plutarco29 e Macrobio30, Tarquinio Prisco offrì una bulla a suo figlio in seguito a un atto di eroismo precoce. In un’altra versione, anch’essa di Plutarco, il prestito è attribuito a un re di Veio vinto da Romolo, che avrebbe sfilato a Roma con una bulla simile a quella dei bambini romani della sua epoca31. Nei due casi, la bulla serve come attributo a un adulto che si è fatto notare per i suoi atti di guerra. Nel primo caso, al contrario di quello che avviene nel mondo romano, la bulla simbolizzerebbe la virilità del ragazzo: il ragazzo merita la bulla perché è diventato un uomo e ha dimostrato la sua virtù32. Gli scavi archeologici rivelano un impiego un po’ diverso della bulla etrusca. Ci sono alcune bullae molto presto in Etruria, in alcune tombe di bambine, già nella prima metà dell’VIII secolo a.C.: a Bisenzio, nella Tomba 1 della necropoli di Capodimonte33 e nella tomba a fossa 10 della necropoli di Buccacce34 e nella tomba Polledrara 1 Pigorini35. Ci sono bullae anche in contesto villanoviano: a Veio, nella necropoli di Quattro Fontanili36 e a Tar28 Cfr.
Plin. nat. XXXIII 10. Plut. quaest. Rom. 101: -evgetai ga;r e[ti pai`~ w]n ejn th/` mavch/ th`/ pro;~ Lativnou~ a{ma kai; Turrhnou;~ ejmbalei`n eij~ tou;~ polemivou~, ajporruei;~ de; tou` i{ppou kai; tou;~ ejpiferomevnou~ ijtamw`~ uJposta;~ ejpirrw`sai tou;~ ÔRwmaivou~: genomevnh~ de; lampra`~ troph`~ tw`n polemivwn kai; murivwn eJxakiscilivwn ajnaireqevntwn, tou`to labei`n ajristei`on para; tou` patro;~ kai; basilevw~. 30 Cfr. Macr. Sat. I 6,9: quo bello filium suum annos quattuordecim natum, quod hostem manu percusserat, et pro contione laudauit et bulla aurea praetextaque donauit, insigniens puerum ultra annos fortem praemiis uirilitatis et honoris. 31 Cfr. Plut. Rom. 25. Vd. anche Fest. p. 322 M: (…) e senex cum toga praetexta bullaque aurea; quo cultu reges soliti sunt esse E<trus>corum. 32 J. Martínez-Pinna, Tarquin l’Ancien, «fondateur» de Rome, in Ch.-M. Ternes (ed.), Condere urbem. Actes des 2èmes rencontres scientifiques de Luxembourg (janvier 1991), Luxembourg 1991, pp. 75-110, part. p. 96, mette questi brani in relazione con quello di Macr. Sat. I 6,11-12, dov’è ripresa l’opinione secondo la quale Tarquinio avrebbe introdotto dei nuovi rituali destinati a segnare il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. 33 Cfr. H. Müller-Karpe, Beiträge zur Chronologie der Urnenfelderzeit nördlich und südlich der Alpen, Berlin 1959, pl. 34, A 6. La bolla non è pubblicata da K. Raddatz, Bisenzio I. Beobachtungen auf einem eisenzeitlich-frühetruskischen Siedlungskomplex, “Hamburger Beiträge zur Archäologie” 5 (1975), pp. 1-60, part. p. 50. 34 Cfr. “MonAnt” 21 (1912-1913), p. 449, fig. 36; p. 450, fig. 38; F. W. von Hase, Zur Problematik der frühesten Goldfunde in Mittelitalien, “Hamburger Beiträge zur Archäologie” 5 (1975), tav. 23, in alto, sulla destra; tav. 27, in alto, sulla destra. 35 Cfr. Müller-Karpe, Beiträge..., tav. 34, A, n. 6. 36 Cfr. “NS” 1965, pp. 202-203, mm, nn, fig. 104, tomba II, 9-10; p. 220, fig. 109, 11g e tomba KK 10-11; G. Bartoloni - M. Pandolfini, Veio (Isola Farnese). Continuazione degli scavi nella necropoli villanoviana in località «Quattro Fontanili», “NS” 1972, p. 299, OP 4-5, n. 27, fig. 73; p. 309, P Q 4a, n. 29 Cfr.
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quinia, nella necropoli di Monterozzi37, di Arcatelle38, di Osteria dell’Osa39 e a Volsinio40. Tutte queste bullae assomigliano molto a dischi-pendagli a disco lunare o solare dell’epoca del Geometrico recente, più precisamente della seconda metà dell’VIII secolo a.C., scoperti nell’isola di Rodi, a Kamiros, a Ialisos, a Lindos, a Exochi41. In questi luoghi le bullae sono amuleti protettivi dei cicli della vita femminile, come in Anatolia, in Siria-Palestina, a Cipro, in Mesopotamia, in Elam e nell’Iran, dove sono stati scoperti dei pendagli di questo tipo, con una decorazione a stella, risalenti all’età del Bronzo recente. Quindi le fonti letterarie tardo-repubblicane e imperiali hanno forse ragione su un punto: si è prodotto un transfert della bulla dall’Etruria a Roma, ma questo transfert era associato per errore ai re e ai trionfatori d’Etruria. Questo errore si spiega forse con la forza di una tradizione romana sull’origine etrusca del trionfo. Il legame tra la corona d’oro, lo scettro sormontato dall’aquila, il trono d’avorio, la trabea, gli anelli, le phalerae, il paludamentum e il prestigio militare degli Etruschi era ammesso42. Per i Romani, la bulla era un prestito supplementare di uno dei molti insignia imperii; la bulla completava naturalmente il vestito del trionfatore. Però non è sicuro che i Romani abbiano mai utilizzato la bulla come il paludamentum, per esempio, per le cerimonie del trionfo. Al contrario, secondo una delle nostre più antiche testimonianze sulla bulla, almeno fino alla seconda guerra punica i Romani hanno portato la bulla come gli Etruschi dell’epoca orientalizzante. Nel suo Rudens43
2, fig. 76; p. 313, R 3-4, n. 8, fig. 81; A. Guidi, La necropoli veiente dei Quattro Fontanili nel quadro della fase recente della prima età del Ferro italiana, Firenze 1993, p. 62, tipo 159, fig. 10, nn. 10-11. 37 Cfr. H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and Early Etruscans, Cambridge 1968, pp. 261, 269. 38 Cfr. Hencken, Tarquinia…, tomba 14, fig. 170, m; tomba IX, fig. 146, b. Per C. Iaia, Simbolismo funerario e ideologia alle origini della civiltà urbana. Forme rituali nelle sepolture “villanoviane” a Tarquinia e a Vulci, e nel loro entroterra, Firenze 1999, p. 59, nota 66, in quest’epoca la bulla era un privilegio dei giovani nobili. 39 Cfr. A. Zifferero, Rituale funerario e formazione delle aristocrazie nell’Etruria protostorica: osservazioni sui corredi femminili e infantili di Tarquinia, in N. Negroni Catacchio (ed.), Preistoria e protostoria in Etruria. Atti del Secondo Incontro di Studi (Farnese, 21-23 maggio 1993). Tipologia delle necropoli e rituali di deposizione, ricerche e scavi, Milano 1995, pp. 259-260. 40 Cfr. M.T. Falconi Amorelli, La Collezione Massimo, Milano 1968, n. 37; R. Bloch, Recherches archéologiques en territoire volsinien de la préhistoire à la civilisation étrusque (BEFAR 220), Paris 1972, pp. 138-141. 41 Cfr. R. Laffineur, Les disques-pendentifs rhodiens en or de la fin de l’époque géométrique, “Archäologischer Anzeiger” 1975, pp. 305-312. 42 Vd. D.H. III 61,1; Str. V 2,2; Flor. I 4,6. Vd. l’analisi di D. Briquel, Une vision tarquinienne de Tarquin l’Ancien, in Studia Tarquiniensia, Roma 1988, pp. 13-32, part. pp. 24-25. Vd. anche E. Tassi Scandone, Verghe, scuri e fasci littori in Etruria. Contributo allo studio degli Insignia Imperii, Pisa - Roma 2001. 43 Cfr. Plaut. Rud. 1171.
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Plauto menziona una bulla d’oro tra i ricordi d’infanzia che conserva preziosamente Palestra, una ragazza di condizione libera. Quindi, in un primo tempo, i Romani, come gli Etruschi, hanno probabilmente destinato la bulla a tutti i bambini, maschi e femmine, e poi l’hanno data esclusivamente ai bambini maschi, per proteggerli grazie al materiale della bulla44, o alle erbe o ai resti d’animali o alle pietre45 contenute nelle due capsule formanti la bulla stessa46. I due transferts della bulla in Etruria mostrano che uno stesso oggetto può subire delle reinterpretazioni diverse a più secoli di distanza. Ma queste reinterpretazioni mi sembrano problematiche. Nei due casi, si tratta dello stesso oggetto? Certo, la bulla romana degli ultimi secoli della Repubblica non assomiglia alla bulla rodiese dell’VIII secolo, a cui s’ispirano le bullae etrusche orientalizzanti. La bulla romana è convessa, quella rodiese è piatta, ma la forma (una goccia), le misure (da 5 a 6 cm) e il modo d’impiego (attorno al collo) sono identici. Come spiegare queste differenze d’uso? Perché un oggetto, che sembra riservato alle bambine, diventa l’attributo dei futuri cittadini? Come si è prodotta questa esclusione delle bambine? per quale motivo? forse perché Roma era a corto di uomini al momento delle Guerre Puniche. Un oggetto può essere preso in prestito a più secoli di distanza senza che sussista un ricordo del suo impiego passato? insomma, i fedeli d’Etruria che depositavano statue o statuine votive di bambini con una bulla sapevano che la bulla era stata un oggetto etrusco, prima di essere un oggetto romano? Come si vede, la teoria dei transferts culturels applicata alla storia antica suscita nuove domande ma non risolve tutti i problemi. Mette l’accento sui flussi, sugli scambi, sui passaggi da un mondo all’altro, ma non sottolinea le costrizioni alle quali sono sottomesse le parti in causa. L’apparizione della bulla sugli oggetti votivi risulta da un rapporto di forze sfavorevole agli Etruschi. Per questo motivo, quello che ho chiamato un “contro-transfert” della bulla da Roma all’Etruria è proprio una conseguenza della romanizzazione degli Etruschi. È probabilmente una particolarità della ricerca inglese e francese di volere trovare delle alternative alla romanizzazione per liberarsi da una colpa che dipende dalla storia del loro paese, ma i Romani erano effettivamente colo44 Cfr. Plin. nat. XXXIII 84: aurum pluribus modis pollet in remediis uolneratisque et infantibus adplicatur, ut minus noceant quae inferantur ueneficia; Iuv. 5,164 presenta la bolla con l’espressione Etruscum aurum. 45 Cfr. Marcell. med. 8,50: lacerti uiridis (…) oculos erues acu cuprea et intra bullam uel lupinum aureum claudes colloque suspendes; quod remedium quamdiu tecum habueris, oculos non dolebis. 46 Sul contenuto delle bullae romane, cfr. E. Lucchesi Palli, Untersuchungen zum Inhalt der Bullae und anderer Amulettkapseln in Antike, Spätantike und im frühen Mittelalter, “Boreas” 17 (1994), pp. 171-176, part. pp. 172-173.
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nialisti e hanno creato delle colonie in territori che erano loro, per valorizzare e sfruttare gli stessi territori per il proprio interesse. Lo hanno fatto con la forza, ma è anche vero che i romanizzati hanno trovato il loro interesse nella romanizzazione. Mi sembra che si sbagli strada, quando si cerca assolutamente di sostituire una parola o un’espressione ad un’altra. L’archeologia e la storia hanno la loro moda. C’è stata la generazione della “romanizzazione”, un’altra dell’“acculturazione”; forse ci sarà quella dei transferts culturels, ma si corre il rischio di giocare con le parole e di dimenticare i realia. Nella realtà, infatti, malgrado un linguaggio irenico, i Romani non prendevano precauzioni per imporre il loro impero. Tacito esprime chiaramente questa violenza, quando, nella Vita di Agricola, fa parlare cosí Calgaco, il Bretone, alle sue truppe caledoniane coalizzate contro i Romani: auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant47 (“rubare, ammazzare, rapire, ecco quello che il loro vocabolario menzognero chiama autorità e dove creano il vuoto, questo lo chiamano pace”). La bulla del II secolo è nata direttamente da questo rapporto di forze, anche se le rappresentazioni di questi bambini tranquilli ci fanno dimenticare che era nell’interesse dei genitori che le depositavano nei santuari d’Etruria far trovare ai loro figli un posto nel mondo romano.
47 Cfr.
30,7.
Aspetti della romanizzazione linguistica nella Cisalpina orientale Anna Marinetti
La scelta lessicale di usare nel titolo la dizione “romanizzazione linguistica”, in luogo di “latinizzazione”, non discende solo da un adeguamento al taglio del Convegno, prevalentemente orientato in una prospettiva disciplinare di storia; il fatto di privilegiare all’insegna della unificazione il referente politico (Roma) piuttosto che il riferimento alla lingua (latino) – formulazione più corretta dal punto di vista della linguistica come disciplina – intende mettere in risalto un presupposto che è perfino banale da esplicitare: la romanizzazione “politica” come motore primo del fenomeno linguistico della transizione dalle varietà locali al latino; ciò non solo nella fase della conquista territoriale e dell’instaurarsi effettivo di un sistema politico, ma anche nelle sue premesse. La latinizzazione linguistica d’Italia prende l’avvio da forme di romanizzazione anteriori alla “conquista”; parte nel momento in cui Roma – in quanto forza politica ed economica in espansione – diventa polo di attrazione per le culture locali; queste entrano nell’orbita romana e vi attingono modelli culturali (e linguistici) molto prima di essere assimilate nello stato. Tali premesse vanno tenute presenti, perché le precondizioni del
Si dà per scontato che “latino” sia inteso nella sua accezione più completa e non, riduttivamente e arbitrariamente, come equivalente a “lingua di Roma”. A rigore, in prospettiva linguistica l’accezione di “romanizzazione” può suonare proprio per questo ambigua; la differenziazione sociolinguistica all’interno del latino determina l’esistenza di varietà (cfr. la distinzione ormai generalmente accolta tra “latino” (Lateinisch) e “latini” (Latinisch)), per cui si distingue ad esempio tra latino-romano e “latini”-non romani. In questo senso “romanizzazione” parrebbe indicare, nello specifico, la diffusione di un latino-romano, ossia riferito alla varietà dell’Urbe: non è questa, ovviamente, l’accezione in cui qui si usa. – Ho avuto occasione di trattare delle questioni qui discusse in un lavoro di alcuni anni or sono: A. Marinetti, La romanizzazione linguistica della Penisola, in La preistoria dell’italiano. Atti della Tavola rotonda di linguistica storica, Venezia 11-13 giugno 1998, edd. J. Herman - A. Marinetti, Tübingen 2000, pp. 61-79: mi permetto di riprenderne qui, con ampiezza, sezioni pertinenti al nostro tema. Gli esempi in questo senso sono numerosi; solo per citarne alcuni, l’abbandono della scrittura locale in favore dell’alfabeto latino nelle culture “sabelliche” dell’Italia centrale o, in senso più ampio, l’acquisizione di una tradizione scrittoria (A. Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, Firenze 1985; A.L. Prosdocimi in L. Del Tutto Palma - A.L. Prosdocimi - G. Rocca, Lingue e culture intorno al 295 a.Cr.: tra Roma e gli Italici del Nord, in La battaglia del Sentino. Atti del Convegno, Camerino - Sassoferrato 10-13 giugno 1998, Roma 2002, pp. 407-663); la mutuazione da Roma di lessico di carattere istituzionale
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Anna Marinetti
contatto – ancora prima, le condizioni di volontà del contatto – sono primariamente politiche ed economiche: è pertanto il quadro storico nel senso più ampio che determina i contorni della transizione di lingua, dalle modalità del contatto ai caratteri stessi della documentazione. *** La base di partenza per l’analisi del contatto di lingue, dei fenomeni di bilinguismo tra latino e lingue locali, e delle modalità della romanizzazione linguistica è costituita di norma da fonti latine, sia storico-letterarie che epigrafiche (in senso lato), che offrono un’ampia miniera di dati. In questa situazione può apparire di secondaria rilevanza la ricerca di possibili indizi di transizione al latino a partire da fonti nelle lingue locali (mi riferisco ovviamente ai casi di lingue che non siano a loro volta equiparabili al latino per diffusione, prestigio e importanza storica, come ad esempio il greco). Tuttavia non si tratta solo di una oggettiva disparità quantitativa: i due approcci (partenza dal “latino” vs. partenza dalle “lingue locali”) si differenziano anche per la ricaduta dell’analisi, e per gli obiettivi sottostanti all’indagine. Nell’utilizzo delle fonti latine prevale l’interesse per la descrizione dei fenomeni “linguistici” della transizione, in una prospettiva più “orizzontale” di ricerca di dati generalizzabili. Sullo sfondo, anche se non direttamente richiamata, permane a mio avviso una questione a cui la linguistica storica è molto sensibile, e cioè la transizione dal latino ai “volgari”; in maniera più o meno esplicita la romanizzazione linguistica si pone come un fenomeno da considerare non solo in sé, ma anche perché possibile modello di uno stadio di “crisi linguistica” del territorio “italiano”, un modello parallelo anche se speculare – un “aggregarsi” vs. “disgregarsi” – rispetto a quanto avviene nello stadio di “crisi” costituito dalla transizione dal latino ai volgari. Si indaga cioè se, semplificando all’eccesso ed astraendo dalla natura delle lingue in gioco, si possano rintracciare nei trapassi dalla varietà all’unità (prima), e dall’unità alla varietà (dopo), analoghi meccanismi processuali secondo un possibile modello generale di cambio linguistico, o, ancora, se si possa rintracciare una continuità di precondizioni o sollecitazioni dovute alla specificità dell’area considerata (incluse, ad esempio, le questioni relative ai cosiddetti “sostrati”). L’indagine sulle fonti locali parte da premesse molto diverse, e mi pare diverga anche nelle finalità o quanto meno nell’utilizzo dei risultati. Scontata la dimensione “quantitativa”, di gran lunga inferiore rispetto alle fonti latine, vi sono altri condizionamenti: la diversità delle situazioni locali (nelle premesse culturali e nel processo storico di romanizzazione); i caratteri – e (magistrature, etc.) con abbandono delle forme locali (A.L. Prosdocimi, Studi sull’italico, “SE” s. III 48, 1980, pp. 187-249); etc.
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i limiti – delle fonti stesse connessi alla natura del medium quasi esclusivamente epigrafico; la varietà delle basi linguistiche di partenza. E inoltre, gli apporti delle fonti locali sembrano piuttosto indirizzati ad una lettura “verticale”, maggiormente focalizzata sulle singole aree / culture, quale contributo per delineare il processo storico di romanizzazione relativo alle aree / culture stesse. Si tratta forse di una differenza inevitabile, date le premesse per nulla paritetiche. Il processo di romanizzazione si innesta su una base di realtà linguistiche precedenti; è da tenere presente che l’Italia prima di Roma si presenta come una realtà estremamente variata nella consistenza etnica, linguistica e culturale dei suoi abitanti: dal sud profondamente grecizzato alla presenza etrusca col suo peso culturale; dalle popolazioni dell’Italia centrale (propriamente “italiche”) in costante oscillazione tra fasi di autonomie e momenti di federalismo, attratte da questi due poli – l’etrusco e il greco – culturalmente forti, ma provviste di proprie solide tradizioni; fino alle popolazioni del nord, su cui la tradizione antica appare molto più avara, e che per esse delinea al più una nebulosa condizione “para-barbarica”. La situazione di partenza, già all’insegna di una costitutiva varietà della penisola italiana, conosce poi un’evoluzione per fasi progressive, una trasformazione non simultanea ma scalata secondo una progressione spaziale (irradiazione da un centro), e una progressione temporale lungo diversi secoli, con dinamiche storiche variate e complesse. Alla complessità storica multidimensionale del fenomeno “romanizzazione” si affianca la coscienza dei limiti delle fonti, per quanto riguarda la possibilità di attingere i riflessi linguistici della romanizzazione stessa dal materiale a disposizione. Circoscrivo qui a quanto ho definito “fonti locali”; si tratta in sostanza di testi nelle lingue locali, di natura esclusivamente epigrafica, poco numerose e, mediamente, di livello “qualitativo” modesto, nel senso di testi funzionalmente delimitati (iscrizioni funerarie e votive, rare iscrizioni di carattere pubblico) e contenutisticamente abbastanza poveri; un capitolo a parte, che qui non è il caso di aprire, andrebbe rivolto all’esplorazione nel campo dell’onomastica (antroponimia, toponomastica), che necessita di un inquadramento specificamente indirizzato alla peculiarità del dato onomastico, per sua natura insieme partecipe e distinto dai caratteri della lingua. Un dato evidente è la relativa scarsità dei dati epigrafici “locali” che ci trasmettono direttamente indizi o prove del processo di romanizzazione; vi è una scarsità “oggettiva” dovuta alla casualità del ritrovamento, ma ancora più significativa di questa è la quantificazione che si ricava da una proporzione generale, nei diversi corpora, tra i documenti con segni di romanizzazione rispetto ai documenti propriamente locali; l’attestazione del trapasso di lingua, considerata anche solo l’amplitudine cronologica del processo, non è statisticamente proporzionale neppure alla lontana rispetto a quanto docu-
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menta da un lato la fase precedente, e dall’altro la fase in cui è già avvenuta la romanizzazione. La contrazione dei dati rispetto alla presumibile realtà dei fatti consegue all’ideologia in cui, coscientemente o meno, è vissuto il cambio di lingua, e ciò in relazione non alla comunicazione normale, ma alla fissazione di lingua in un testo, tanto più nel caso del testo epigrafico. Nel momento della fissazione di un testo nello scritto, si presuppone sempre un livello di acculturazione “alto” (proporzionato alle aree di base), e uno stretto controllo del medium linguistico; è pertanto inevitabile, ed è normale meccanica sociolinguistica, una polarizzazione verso un modello di riferimento, dal momento che lo scritto riflette una norma-modello, e che l’affiorare di quanto scarta dalla norma è l’eccezione, non la regola. Si deve quindi ricordare, nell’attribuire un peso ai dati a disposizione, che la documentazione non è prodotta in parallelo alla storia linguistica, non ne è un riflesso fedele, seppur parziale, ma – tutt’al più – un riflesso mediato; in maniera altrettanto mediata, cioè inquadrando il testo nelle motivazioni singole di produzione, deve essere colto il senso dell’eventuale indizio di transizione. Un testo – qualsiasi testo – è il prodotto di una situazione comunicativa che concorre, tramite il mezzo della lingua, alla sua realizzazione; il fatto che chi produce e chi riceve un testo condividano, oltre che lo stesso codice lingua, una certa conoscenza del mondo – nei suoi tratti generali e in fatti specifici dipendenti dalla comune base culturale – consente di non dover esplicitare sempre tutte le informazioni. I contenuti della comunicazione infatti solo in parte vengono veicolati dal testo di lingua; per un’altra parte vengono dedotti, in quanto impliciti nello stesso; per un’altra parte ancora si fondano sulle conoscenze extralinguistiche (situazione socioculturale, presupposti contestuali, etc.). Ciò significa che, qualora la situazione enunciativa non sia condivisa, ai fini dell’interpretazione deve essere recuperata nei suoi diversi fattori (dalla intelligibilità della lingua alle conoscenze extralinguistiche). Rapportando i presupposti generali ai testi di cui parliamo, spesso il livello delle nostre conoscenze, a partire dalla lingua stessa, consente solo un recupero parziale della situazione comunicativa, il che pone una limitazione all’interpretazione e in definitiva alla significatività di un testo. Come pure, ma in prospettiva linguistica o sociolinguistica più che “storica”, va valutata la significatività nel caso di testi singoli – cioè non riconducibili ad una reiterata tipologia di produzione testuale ma prodotto di situazioni specifiche – per non estendere automaticamente ad una situazione sociolinguistica generalizzata fenomeni di lingua dovuti a singole contingenze. Per esemplificare, i casi delle ghiande missili venetico-latine con la menzione degli Opiter-
CIL IX 6086,30; 6086,45.
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gini nell’assedio di Ascoli, o l’iscrizione venetica rinvenuta nell’Aquilano, ci dicono molto sul piano storico dei rapporti tra Veneti e Roma, ma nulla della situazione sociolinguistica di Opitergium, o di quella della (sconosciuta) zona di provenienza dell’estensore dell’iscrizione. Diversa è la significatività sociolinguistica di trenta iscrizioni funerarie venetico-latine di Este, in cui per contro l’importanza “avvenimentale” è irrilevante. *** Dopo questa premessa generale, finalizzata soprattutto a porre in evidenza i limiti entro i quali si possono attingere dati dalle epigrafie locali, restringerò il mio contributo ad alcuni aspetti pertinenti all’area orientale della Cisalpina, la Venetia. Va innanzitutto rilevato che, sulla esigua scorta dei dati di cui disponiamo, sul versante della lingua la Cisalpina presenta reazioni diversificate se non contrastanti all’avvento della romanizzazione. Ciò ricalca la diversità del rapportarsi “politico” nei confronti di Roma: all’atteggiamento conflittuale delle popolazioni celtiche nei confronti di Roma, alla loro politica di espansione fino all’Italia centrale, e cui fa seguito la resistenza alla conquista romana della Cisalpina, si oppone la scelta dei Veneti, fedeli alleati di Roma fin dal III secolo a.C., pronti all’aiuto militare esterno e disposti ad accogliere la presenza di Roma ai confini dei loro territori. Nei riflessi culturali e linguistici si rintracciano i riflessi di questa antitesi: alla tenace resistenza portata dai Celti alla nuova realtà si contrappone da parte dei Veneti un precoce e progressivo adeguamento al modello romano. Ipersemplificando da quanto resta della documentazione si colgono due diversi modelli, anche se non si può escludere – e ciò fa parte dell’alea del ritrovamento epigrafico – che la natura della documentazione che ci è pervenuta esasperi questo contrasto di reazioni, estremizzando la resistenza da una parte e l’adeguamento dall’altra. Per quanto riguarda la Cisalpina occidentale (area propriamente celtica, anche se articolata e diversificata), manca, almeno a mia conoscenza, una indagine sistematica in prospettiva di romanizzazione, soprattutto nel raccordo tra quanto possono restituire in questa direzione le iscrizioni locali (celtiche: leponzie e “galliche”) e le iscrizioni latine, e pertanto i dati parziali di cui si dispone possono essere deformanti della realtà. L’assenza di una documentazione che porti traccia della modalità di transizione, del tipo di quella chiaramente percepibile nel Veneto (Venetorum angulus), può essere già consi A. La Regina, I Sanniti, in Italia omnium terrarum parens, ed. G. Pugliese Carratelli, Milano 1989, pp. 299-432 (spec.: “I Veneti nella guerra sociale”, pp. 429-430). Su queste v. la recente rassegna di P. Solinas, Il celtico in Italia, “SE” s. III 60 (1994), pp. 311408.
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derata significativa del diverso atteggiamento di quest’area; ma, oltre al dato negativo, vi sono altri segnali a mio avviso ben chiari; è il caso dell’iscrizione di Briona (Novara) che ha menzione di un personaggio con patronimico locale (Tanotalikno-), ma identificato come Kvitos lekatos (Quintus legatus); questo dato, che colloca a pieno clima di romanizzazione, contrasta con la tradizione locale mantenuta a tutti i livelli, dalla grafia, alla lingua, al formulario, all’onomastica degli altri personaggi: la romanità è presente in forma non casuale (il fatto che un personaggio locale possa fregiarsi del titolo di legatus ha un rilievo di tipo pubblico e istituzionale), ma non emerge in vesti di lingua. Altro caso sintomatico mi sembra rappresentato dall’iscrizione bilingue di Vercelli, che porta uno stesso testo (= contenuto), in grafia e lingua celtica e in grafia e lingua latina, relativo alla definizione di confini sacrali: qui può essere celtico lo sfondo ideologico-religioso, ma la presenza istituzionale, nella regolamentazione di questioni confinarie, è romana. In termini quasi paradossali, la bilingue, nello stesso tempo che manifesta una situazione di biculturalità e connesso bilinguismo, fa trasparire anche la divisione dei due mondi; detto in altra parole: affiancare in una iscrizione pubblica celtico e latino può significare che non si vuole o non ci si può limitare a comunicare attraverso una delle due lingue / culture: non solamente con quella locale, a causa della presenza già istituzionalizzata di Roma, e non solamente con quella di Roma, perché non vi è stata (ancora) un’assimilazione – reale o ideologica – adeguata. I due casi citati potrebbero sembrare insufficienti come indicativi della resistenza, e potrebbero forse anche essere letti in chiave diversa, se non ci fosse comunque – per quanto riguarda i Celti – un retroterra più generalizzato, anche se articolato nella base, che sembra tendere alla differenziazione del modello dominante. Senza arrivare a una casistica lontana, come la produzione delle iscrizioni celtiberiche in un’Iberia che già conosce la realtà romana in varie forme, da ultimo militari, o l’uso dell’alfabeto greco nella Gallia M.
Lejeune, Recueil des inscription gauloises, II.1, Paris 1988, E-1; Solinas, Il celtico…, n. 140. qui la bibliografia ormai vastissima sull’iscrizione di Vercelli, nei suoi aspetti linguistici, storici e giuridici; per il testo rimando all’edizione di Lejeune, Recueil…, E-2 (cfr. anche Solinas, Il celtico…, n. 141). Attorno a questo testo e al suo contesto ideologico, cultuale e giuridico è annunciato un Convegno di studi che si terrà a Vercelli nel maggio 2008. Non pare possibile in ogni caso generalizzare un modello di comportamento delle popolazioni celtiche rispetto alla romanizzazione linguistica, neppure mediante il confronto con la situazione transalpina. Come sottolinea M. Christol (Romanisation et héritage celtique. L’integration sociale. L’apport de l’épigraphie, in Celtes et Gaulois, l’Archéologie face à l’Histoire. 5. La romanisation et la question de l’héritage celtique, Actes de la Table Ronde de Lausanne 17-18 juin 2005, Glux-en-Glenne 2006, pp. 5165) le fonti epigrafiche (latine) riflettono al proposito una situazione eterogenea, per quantità e qualità, in relazione alle diverse aree delle Gallie. Ometto
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Narbonense, anche qui, già in presenza di Roma, si può ricordare l’aspetto della monetazione cosiddetta “leponzia”: in questa monetazione, che di fatto si estende dalle foci del Rodano al Noricum, la questione è centrata sull’uso di una grafia, nelle legende, per la quale si recupera l’alfabeto leponzio come modo di autorappresentare la celticità, in opposizione alle grafie di riferimento, pur disponibili (il greco per le foci del Rodano, il venetico per il Noricum): insieme affermazione di autoidentità e di opposizione all’esterno. Si tratta di fatti alfabetici, e non di lingua, ma che hanno un valore più generale, quasi prototipico: sia perché l’oggetto iscritto è di per sé, come già detto, prodotto di un livello non banale di acculturazione; sia perché l’alfabeto è un aspetto rilevante nelle culture di queste aree, e l’adozione, l’uso e l’abbandono di una grafia è una scelta indicativa nei confronti di modelli culturali (e non solo: anche politici, economici, etc.). Se anche la Cisalpina celtica ha dovuto, per forza di cose, conoscere un processo di romanizzazione linguistica graduale, questo non assume manifestazioni esterne evidenti; ne dovremmo presumere che, a differenza del Veneto, sia stato più subìto che voluto, in una forma analoga (e in dipendenza) a quanto è accaduto per la romanizzazione politica. Nel Veneto10 la romanizzazione sub specie della lingua è stata osservata in particolare sulla scorta di un ampio stock di iscrizioni funerarie che vanno dal III al I secolo a.C., in massima parte da Este11: qui l’avverarsi della transizione si può seguire nella graduale sostituzione – ai diversi livelli della lingua – degli elementi locali con i corrispondenti latini. Il cambiamento è facilmente individuabile nei caratteri esterni, dall’alfabeto alla struttura della formula onomastica, alle basi onomastiche; meno evidente è invece il mutamento di codice, vuoi per la limitata rappresentatività dei testi, in prevalenza costituiti
Cfr. A. Marinetti - A.L. Prosdocimi, Le legende monetali in alfabeto leponzio, in Numismatica e archeologia del celtismo padano. Atti del convegno internazionale, Saint-Vincent 8-9 settembre 1989, Aosta 1994, pp. 23-48; A. Marinetti - A.L. Prosdocimi - P. Solinas, Il celtico e le legende monetali in alfabeto leponzio, in I Leponti e la moneta. Atti della Giornata di studio, Locarno 16 novembre 1996, Locarno 2000, pp. 71-119. 10 Per le iscrizioni venetiche l’edizione di riferimento è G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua venetica, I-II, Padova - Firenze 1967: a questa si riferiscono le sigle delle iscrizioni presenti in testo; più orientato agli aspetti linguistici che epigrafici M. Lejeune, Manuel de la langue vénète, Heidelberg 1974. Un lavoro di insieme è dovuto ad A.L. Prosdocimi in G. Fogolari - A.L. Prosdocimi, I Veneti antichi. Lingua e cultura, Padova 1988; per aggiornamenti v. A. Marinetti, Il venetico. Bilancio e prospettive, in Varietà e continuità nella storia linguistica del Veneto. Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia, Padova-Venezia 3-5 ottobre 1996, Roma 1998, pp. 49-99; inoltre le rassegne che periodicamente compaiono nella “Rivista di Epigrafia Italica”, sezione di “Studi Etruschi”: A. Marinetti, Iscrizioni venetiche. Aggiornamento 1988-1998, “SE” s. III 63 (1999), pp. 461-476; Venetico: rassegna di nuove iscrizioni (Este, Altino, Auronzo, S. Vito, Asolo), “SE” s. III 70 (2004), pp. 389-408. 11 M. Lejeune, Ateste à l’heure de la romanization. Étude anthroponymique, Firenze 1978.
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da semplice onomastica, vuoi per la coincidenza, a volte notevole, dei tratti linguistici – fonetici, morfologici, lessicali – tra la lingua locale, il venetico, e il latino. Questa prossimità tra venetico e latino – prossimità strutturale e non conseguenza di contatti – che si riconosce sempre più solida con il prosieguo dei ritrovamenti di testi venetici, è già stata invocata12 quale possibile fattore positivo nell’accoglimento da parte dei Veneti del latino, avvertito forse non troppo lontano o non troppo estraneo alla base locale. Il caso di Este è stato magistralmente indagato da M. Lejeune13 soprattutto per l’aspetto onomastico, e non vi è molto da aggiungere; eventualmente, come già a suo tempo rilevato14, può essere opportuno un ulteriore approfondimento nell’aspetto più propriamente istituzionale delle premesse e conseguenze del trapasso dell’onomastica; la recente edizione del complesso della necropoli di Villa Benvenuti15 ha portato a revisioni e correzioni in alcune letture, ma il quadro generale rimane immutato: la documentazione riflette la gradualità del processo di integrazione, che non mostra salti ma un progressivo avvicinamento al mondo romano. La volontà di integrazione di carattere sociale – percepibile nel cambio onomastico – pare inoltre affiancarsi ad una equilibrata acquisizione di aspetti culturali, senza che ciò comporti il rifiuto della tradizione locale; in questo senso può essere significativa la testimonianza di un’iscrizione votiva proveniente dal più importante luogo di culto atestino, la stipe della dea Reitia. L’iscrizione16, una tavoletta alfabetica bigrafe e bilingue, non solo mantiene i rispettivi canoni – venetico e latino – del formulario votivo (vdan donasto / votum solvit libens merito), ma traspone l’esercizio alfabetico di tradizione venetica – elemento caratteristico delle tavolette alfabetiche atestine – mediante un esercizio alfabetico in uso a Roma, diverso per natura dell’esercizio stesso, ma corrispondente nella funzione di mezzo per l’apprendimento della scrittura. Il caso di Este è un unicum per quantità e qualità nella concentrazione, e per omogeneità della documentazione. Altre realtà, non meno importanti dal punto di vista politico, offrono dati scarsi o nulli: è il caso di Padova ove, fatta eccezione per una bellissima stele funeraria di tradizione locale
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Prosdocimi, I Veneti antichi…, spec. pp. 419-420. Lejeune, Ateste… 14 A.L. Prosdocimi, Tra indeuropeo ricostruito e storicità italica. Un dossier per il venetico, in Este e la civiltà paleoveneta a cento anni dalle prime scoperte. Atti del XI Convegno di Studi Etruschi ed Italici, Este - Padova 27 giugno - 1 luglio 1976), Firenze 1980, pp. 213-281. 15 L. Capuis - A.M. Chieco Bianchi, Este. II. La necropoli di villa Benvenuti, Roma 2006. 16 Pellegrini - Prosdocimi, La lingua…, Es 27; cfr. Prosdocimi, in più sedi: per tutte I Veneti antichi…, pp. 271-274. 13
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con iscrizione “mista” latino-venetica17 (e di un modesto, ma significativo, bollo bigrafe-bilingue con marchio di produzione18), la transizione non ha riscontri nell’epigrafia locale. In linea di massima, tuttavia, quanto emerge dalle iscrizioni della fase di romanizzazione pare confermare anche per altre aree del Veneto la stessa disposizione all’integrazione, rilevata con evidenza ad Este: sia nelle iscrizioni funerarie di Montebelluna, sia negli ex voto del santuario di Lagole, la progressione dalla cultura locale a quella di Roma si percepisce senza fratture o discontinuità. Rispetto alla casistica sopra citata, già ampiamente nota, mi soffermo su due casi documentali, di acquisizione più recente. Il primo pertiene alla fase più tarda della cultura veneta di Altino, sito che, già ampiamente documentato come centro romano di primaria importanza, negli ultimi decenni ha progressivamente restituito elementi che consentono di delineare una solida configurazione anche nella fase paleoveneta, a partire dal IX-VIII sec.a.C.19 Una delle sepolture (tomba n. 1) della necropoli in località Fornasotti20 raccoglie numerose deposizioni (tredici ossuari) scalate tra la seconda metà del II secolo e la prima metà del I secolo. Su una parte dei materiali di corredo (due coperchi di ossuari, due brocche e coppe) si trovano epitaffi in scrittura e lingua venetica; si tratta di dieci iscrizioni, in parte frammentarie, con forme onomastiche pertinenti ad uno stesso gruppo familiare, in cui ricorre il medesimo appositivo (in varianti grafiche) Pan(n)ario-: Pletuvei Panarioi ego; -[... P]anarioi e[go; ... P]annarioi ego; Iantai Pannariai O-tna[i; Iantai Pa[nnariai O]-tnai; ...Pan(n)]ari-i ego; ......Pannariai [O-]tnai. Sulla base dei dati ricavabili dal complesso tombale, le iscrizioni attribuiscono lo stesso appositivo da un minimo di tre individui (ipotesi più verosimile) a un massimo di cinque, in un torno di tempo limitato ma comunque scalato in alcune decine di anni, e pertanto apparentemente non nella medesima generazione. L’uso del nome appositivo in questi termini, ossia riferito ad individui diversi di diverse generazioni, non rientra nella normalità per quanto riguarda 17 Nell’iscrizione, in grafia latina, [m’.galle]ni.m.f.ostialae.gallen/iaeeqvpetars (LV Pa 6) si riconosce l’innesto di forme latine (la grafia, la formula onomastica maschile) su una base di carattere locale (il formulario venetico con ekupetaris, designazione del monumento funebre, il nome del personaggio femminile, Ostiala). 18 A. Marinetti - A.L. Prosdocimi, Lingua e scrittura. Epigrafia e lingua venetica nella Padova preromana, in La città invisibile. Padova preromana. Trent’anni di scavi e ricerche, Bologna 2005, pp. 32-47. 19 M. Tirelli, Altino (VE): la prima fondazione sulla laguna, in Aa.Vv., I Veneti dai bei cavalli, Treviso 2003, p. 61. 20 Per la descrizione e l’inquadramento delle tombe Fornasotti 1 e 7 cfr. G. Gambacurta, Aristocrazie venete altinati e ritualità funeraria in un orizzonte di cambiamento, in Vigilia di romanizzazione. Altino e il Veneto Orientale tra II e I sec. a.C. Atti del Convegno, Venezia 2-3 dicembre 1997, edd. G. Cresci Marrone - M. Tirelli, Roma 1999, pp. 97-120.
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la formula onomastica venetica, in cui l’appositivo (aggettivo derivato con i suffissi -io- al sud e -ko- al nord) ha generalmente funzione di patronimico; l’attribuzione dello stesso appositivo a più individui, che la sepoltura comune circoscrive come gruppo familiare, sembra indicare una funzione dell’appositivo come indice di continuità familiare, quindi di tipo (para)gentilizio, che – non in uso nel sistema venetico, almeno nella generalità dei casi21 – risponde piuttosto ai principi della formula onomastica in uso a Roma. In Pan(n)ario- è riconoscibile il suffisso -ario-, che fa parte del patrimonio morfologico venetico (es. nom. Klutiaris con -is < -io- + -s; dat. Enopetiarioi); ma esso è ben documentato anche nei gentilizi latini in -arius diffusi tra Veneto, Istria e Dalmazia. La base Pan(n)o- non è direttamente attestata nel venetico, e fin da una prima evidenza rimanda ad una base lessicale latina, quella di pannus; in alternativa al latinismo, vi sono confronti arealmente prossimi ma non particolarmente stringenti, con forme come Panent-, di area più orientale (Dalmazia)22; una attribuzione “orientale” di Pan(n)ariopotrebbe trovare una solidarietà nel nome individuale di una delle formule, dat. Pletuvei, ricollegabile alla “famiglia” di Plaetor, Plator, Pletor (soprattutto diffusa in Istria e Dalmazia), anche se vi è per Pletuvei un confronto nello stesso territorio venetico, con l’attestazione patavina (Pa 2; IV secolo) di Pledei. Complessivamente, l’attribuzione potrebbe anche orientarsi verso una veneticità con possibili collegamenti orientali, pienamente ammissibili vista la caratterizzazione del Veneto orientale come area di transizione. Tuttavia, la peculiarità della struttura onomastica presente in questo contesto, con un (para)gentilizio più aderente a modello romano che venetico, sollecita a considerare con maggiore attenzione la forma stessa dell’appositivo Pan(n)ario-, nei due aspetti della formazione e della base. In generale, per l’onomastica, il lessico significante presente alla base dei nomi ha una rilevanza solo secondaria: in questo caso, tuttavia, la prossimità cronologica ed areale di romanizzazione deve porre anche l’eventualità di un confronto con il latino pannus, da cui l’appositivo Pan(n)ario- potrebbe essere derivato; dovrebbe trattarsi, in questo caso, di un latinismo, e non di una forma venetica parallela a quella latina, perché la trafila fonetica che porta a lat. panno- ben difficilmente potrebbe essere ipotizzata esattamente negli stessi termini anche in venetico, 21 Il mondo veneto in realtà conosce – per la formula onomastica – una casistica molto varia, in cui prevale il tipo binomio (nome individuale + appositivo in -io-/-ko-), ma sono presenti anche diverse realizzazioni; tra queste vi sono situazioni in cui si può configurare una forma di “gentilizio”, cioè di trasmissione onomastica familiare, come è il caso degli Andeti di Padova; si parte tuttavia per il caso patavino da premesse del tutto diverse, data la collocazione cronologica (a partire dal V secolo), oltre alla specifica caratterizzazione di tipo quasi “clanico” di questo gruppo. Per forme e funzioni della formula onomastica venetica cfr. Prosdocimi, I Veneti antichi…; ivi anche la discussione del caso degli Andeti. 22 Citate in J. Untermann, Die venetischen Personennamen, Wiesbaden 1961, pp. 104, 132-133.
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nonostante la parentela genetica e l’affinità strutturale delle due lingue. Per quanto riguarda il suffisso -ario-, potrebbe riflettere la composizione in area venetica (= suffisso venetico aggiunto alla base latina panno-), o risalire direttamente ad un -ario- latino (= base e suffisso latini). Se si accoglie la proposta di un latinismo, vale a dire di un prestito lessicale dal latino al venetico, se ne potrebbero trarre implicazioni sociali ed economiche: panno-, come latinismo, potrebbe indicare la presenza di un’attività commerciale, nell’ottica di aspetti economici connessi alla romanizzazione23. Restituendo una plausibile trafila per questa forma, potremmo postulare per Pan(n)ario- un valore originario di tipo cognominale derivato da un’attività economica, che resta poi fissato nella formula onomastica e trasmesso – appunto come “para-gentilizio” – nell’ambito familiare. Ad una prospettiva diversa da quella dell’integrazione sociale, riflessa come visto nelle iscrizioni del Veneto centrale e orientale, rimanda la documentazione che proviene dal comparto settentrionale alpino, in particolare dal Cadore e dall’area dolomitica. Del tutto diversi peraltro sono i presupposti che caratterizzano tale orizzonte geografico, a partire dalla base stessa di popolamento fino alle forme di insediamento ed alla loro consistenza. La presenza di scrittura e lingua venetica nell’arco alpino orientale fino al Noricum (valle della Gail) si spiega con l’assunzione e la diffusione di modelli scrittori e dei correlati modelli testuali provenienti dal Veneto di pianura; l’uso della lingua venetica, associata a tali modelli, pare però configurarsi non tanto come espressione diretta della varietà linguistica locale, quanto come medium comunicativo condiviso da componenti diverse presenti nell’area. Non ci è dato di conoscere con precisione il quadro sociolinguistico delle zone in questione, in quanto la documentazione pervenutaci è, come detto, esclusivamente venetica. È peraltro riconoscibile la componente germanica nelle iscrizioni di Gurina, e soprattutto la presenza di popolazioni celtiche. Le iscrizioni di Lagole di Calalzo portano onomastica che, accanto a basi tipicamente venete vede un’alta percentuale di nomi – almeno una metà del totale – riconducibili all’onomastica celtica; l’incidenza complessiva dei celtismi sul totale dei nomi è troppo alta perché questa fenomenologia di presenza celtica si possa semplicemente analogizzare con gli altri casi riscontrati nelle iscrizioni venetiche, ove si tratta di presenze celtiche accertate ma sporadiche. Già la
23 Potrebbe a pieno titolo rientrare in quella sfera di produzione e trasformazione del tessile, per cui Altino gode di fama, a partire dalla lana altinate spesso citata nelle fonti. Per la questione rimando ai contributi presenti nel volume Produzioni, merci e commerci in Altino preromana e romana. Atti del Convegno, Venezia 12-14 dicembre 2001, edd. G. Cresci Marrone - M. Tirelli, Roma 2003; in particolare, per le fonti e per la situazione riflessa nelle iscrizioni latine, ad A. Buonopane, La produzione tessile ad Altino: le fonti epigrafiche (pp. 285-297).
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sola statistica delle basi fa supporre che la composizione etnica sia mista, con un elemento celtico non certo minoritario rispetto a quello veneto; in più, il Cadore porta il dato toponomastico, che risulta determinante, a partire dal nome stesso derivato da un celtico *catubrigum24. Il dato toponomastico, rispetto all’onomastica portata dalle epigrafi, ha un peso specifico superiore per identificare la quantità e la qualità di un elemento alloetnico; mentre un nome celtico non dice nulla sulla posizione sociale e linguistica di un individuo in rapporto alla comunità, un toponimo celtico presuppone la presenza stabile di nuclei che parlano / parlavano la varietà linguistica alla base del toponimo, cioè di Celti parlanti celtico. Il problema storico è ampio, e comprende anche la questione delle modalità di arrivo e di insediamento del celtismo; in ogni caso la presenza documentale venetica va qui intesa come “culturalità egemonica” veneta rispetto ad un contesto antropico composito25. Va sottolineata la natura delle fonti epigrafiche qui presenti: le iscrizioni di carattere funerario sono scarse, e non hanno le caratteristiche di compattezza dei casi di Este e, in misura più limitata, di Altino o Montebelluna. È invece ben rappresentata, di fatto ampiamente prevalente, la tipologia delle iscrizioni votive, provenienti dal santuario di Lagole di Calalzo26 e da un altro luogo di culto recentemente scoperto ad Auronzo di Cadore (su cui avanti). Oltre alla diversità intrinseca di funzione, si tratta anche di situazioni in cui gli indicatori derivanti dalle iscrizioni richiedono maggior attenzione, date le caratteristiche specifiche dei siti. Per fare un esempio, nel caso di Lagole, al luogo di culto ed alle sue dimensioni non corrisponde una presenza di insediamento; ciò è facilmente comprensibile, sia perché la situazione geografica locale non favorisce un incolato stabile (riconoscibile invece altri siti dell’area dolomitica), sia per la sua caratterizzazione come santuario “di frontiera” etnico-culturale27; se tuttavia la frequentazione del santuario non è legata ad un insediamento ma al transito28 o comunque a provenienza non 24 L’etimologia del nome Cadore è stata trattata da G.B. Pellegrini, in più sedi: per tutte si veda la formulazione in Il Cadore preromano e le nuove iscrizioni di Valle, in “Archivio Veneto” s. V 101 (1974), pp. 5-34. 25 Su questi aspetti è intervenuto, in più sedi, A.L. Prosdocimi: cfr. I Veneti antichi…; più recentemente Luogo, ambiente e nascita delle rune: una proposta, in Aa.Vv., Letture dell’Edda. Poesia e prosa, Alessandria 2006, pp. 147-202. 26 A. Marinetti, Il venetico di Lagole, in Materiali preromani e romani del santuario di Lagole di Calalzo al Museo di Pieve di Cadore, edd. G. Fogolari - G. Gambacurta, Roma 2001, pp. 337-370. 27 Su tale classificazione, all’interno di un quadro dell’organizzazione dei luoghi di culto in area veneta, cfr. L. Capuis, Per una geografia del sacro nel Veneto preromano, in Depositi votivi e culti dell’Italia antica dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, edd. A. Comella - S. Mele, Bari 2005, pp. 507-516. 28 I materiali di Lagole e la stessa onomastica delle iscrizioni indicano per il luogo di culto una frequentazione quasi esclusivamente maschile, con una sicura componente di elementi legati all’attività guerriera.
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omogenea, qual è il valore che va attribuito a riferimenti di carattere istituzionale che le iscrizioni trasmettono? Le nostre conoscenze degli assetti istituzionali, già scarsissime per il Veneto centrale, sono qui totalmente assenti, e dunque ad esempio in quale accezione socio-politica si deve intendere la teuta “comunità” citata nelle iscrizioni di Lagole, considerato che neppure per la Padova para-urbana – molto meglio conosciuta nella sua consistenza insediativa29 e territoriale – in cui è presente la teuta (v. avanti) riusciamo con certezza a definirne i caratteri? Riguardo al tema della romanizzazione, nuove prospettive si aprono ora a seguito della scoperta di un santuario ad Auronzo di Cadore, in località Monte Calvario. Dopo una serie di ritrovamenti fortuiti, a partire dal 2001 è stata intrapresa, da parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto e sotto la direzione di Giovanna Gangemi, una sistematica campagna di scavo; è stata riportata alla luce un’area adibita ad attività di culto, di cui restano strutture murarie pertinenti a diverse fasi; l’arco cronologico del santuario si colloca tra la fine del II sec. a.C. e il IV sec. d.C. 30 «Significativa è poi la posizione del luogo di culto a controllo di un tracciato viario, risalente con ogni probabilità ad antiche età, che da Calalzo (e dunque dai nuclei di insediamenti sparsi che la ricerca archeologica è venuta evidenziando a Valle di Cadore, a Pieve di Cadore, a Domegge e a Lozzo) giunge nella valle dell’Ansiei per proseguire in direzione del Comelico e quindi alla volta della valle della Gail, dove nella stipe di Gurina sono documentati oggetti votivi affini a quelli rinvenuti a Lagole di Calalzo e a Monte Calvario di Auronzo»31. Tra i materiali votivi32 vi sono lamine e simpula di bronzo con iscrizioni venetiche; le iscrizioni finora rinvenute, due delle quali inedite, sono costituite da dediche votive, che per molti aspetti trovano motivi di stretto collegamento con quelle del vicino santuario di Lagole di Calalzo; con le dediche di Lagole condividono innanzitutto la tipologia dei supporti, lamine bronzee quadrangolari “a pelle di bue” (caratteristiche del comparto veneto alpino e orientale), e simpula usati per riti di libagione; la varietà alfabetica è quella di Lagole, con una sola ma importante differenza (v. sotto); è inoltre analoga la realizzazione dei testi, redatti ad Auronzo secondo uno dei tipi formulari 29
Aa.Vv., La città… ritrovamenti di Monte Calvario ha dato ampie notizie preliminari G. Gangemi, Lamine e simpula dal Monte Calvario di Auronzo di Cadore (BL), in AKEO I tempi della scrittura. Veneti antichi: alfabeti e documenti, Montebelluna 2002, p. 222; Ead., Il santuario in località Monte Calvario di Auronzo di Cadore (BL), in I Veneti dai bei…, pp.100-102. 31 Gangemi, Lamine…, p. 222. 32 È attualmente in corso di allestimento ad Auronzo il Museo Archeologico, nelle cui sale troveranno collocazione i reperti del santuario, ora in corso di studio da parte di G. Gangemi. 30 Dei
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presenti a Lagole, caratterizzato dalla selezione lessicale del verbo votivo nella forma toler, “offrì” (non altrove attestato), e dall’esplicitazione dell’oggetto donom. Così pure ricorrono basi antroponimiche già note a Lagole. Riporto qui la trascrizione (diplomatica e interpretativa) delle iscrizioni già pubblicate33: (lamine) 1) ]o.m.ma.i.s.terato.r.fo.s./fo.u.vatole.r./
Le dediche di Auronzo presentano però anche tratti esclusivi; una prima caratterizzazione riguarda la scrittura. Nelle iscrizioni è usato il grafema con valore “etimologico” h ad indicare [f], come a Lagole34, ma lo stesso segno rende anche il corrispondente di -b- interno (desinenza di dativo plurale -ho.s. = -bos), che a Lagole e nel resto del venetico, per tutto il corso della documentazione, è reso invece da f; è un aspetto che va puntualizzato tra usi grafici e attribuzione fonetica, ma la motivazione di una scelta grafica diversa da quella rappresentata compattamente nell’epigrafia venetica non può essere individuata che in una frattura di continuità, in circostanze in cui la tradizione non è più pienamente vitale, ma ancora sufficientemente conosciuta per consentirne un recupero. Una delle dediche ancora inedite mostra caratteri grafici “anomali” rispetto all’uso venetico: l’assenza di puntuazione sillabica, e la presenza di divisione interverbale mediante punti, estranea all’uso venetico e invece usuale 33 Le iscrizioni sono state esposte nel corso della mostra “AKEO. I tempi della scrittura. Veneti antichi: alfabeti e documenti” (Montebelluna dicembre 2001 - maggio 2002), e pubblicate nel relativo Catalogo: schede a cura di A. Marinetti in AKEO…, pp. 222-225, nn. 46-49; cfr. anche Marinetti, Venetico: rassegna…, pp. 389-408. 34 Il venetico per [f] usa di norma il digrafo vh; “di norma”, in quanto sono attestate anche altre soluzioni, ad esempio a Padova il digrafo hv; è possibile che anche la grande iscrizione su lamina bronzea da Este, in grafia patavina, porti per [f] una grafia alternativa a vh.
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nell’epigrafia latina; una successione di segni della prima faccia, incomprensibile come sequenza venetica, acquisisce senso se letta in chiave latina, attribuendo cioè alle forme grafiche il valore latino e non quello venetico; il segno per -b- interna è qui f, d’uso normale nel venetico, ma in contrasto con le altre iscrizioni del luogo (v. sopra). Tutto ciò sarà approfondito in sede di edizione del testo; è però evidente da subito l’interferenza con il latino (quanto meno sul piano grafico, ma non escludo anche quello lessicale), in una situazione tuttavia in cui la base della scrittura è latina piuttosto che venetica. La spia dell’interpunzione mi pare significativa, in quanto l’interpunzione risponde ad una logica grafica profondamente legata ad una specifica tradizione scrittoria, più ancora di quella che determina la foggia dei segni: all’opposto dei casi già noti in cui in iscrizioni latine affiora la tradizione venetica della puntuazione sillabica, qui pare piuttosto che ci sia il tentativo di innestare l’alfabeto venetico in una consuetudine (divisione delle parole) di tipo latino. Non si tratta di un fenomeno limitato ad Auronzo: anche altrove in iscrizioni venetiche “alpine” vi sono fenomeni grafici che sembrano dipendere da analoghe premesse35. In una delle iscrizioni di Gurina (valle della Gail), già richiamata sopra a proposito della pluralità di componenti etniche presenti nell’arco alpino, culturalmente omologate all’insegna della scrittura e lingua venetica, è accertato che il grafo D ivi presente è in valore latino e non venetico; il valore venetico del grafo sarebbe [r], ma la sequenza in cui compare (donasto = donavit) lo accerta senza alcun dubbio nel valore fonetico [d]; a questo aspetto, già riconosciuto (Lejeune, Prosdocimi), si aggiunge il fatto – non sottolineato a sufficienza – che l’iscrizione ha la puntuazione sillabica venetica, ma (per una occorrenza in cui il punto non dovrebbe essere presente) tradisce anche la presenza dell’interpunzione interverbale latina, evidentemente sottostante (e fattualmente precedente nella competenza dello scriba, o nella scuola: v. avanti). Da Valle di Cadore, da un deposito forse pertinente ad un luogo di culto, proviene un’iscrizione venetica (in trascrizione “diplomatica”: qvartio/ hvakios) con evidenti peculiarità grafiche e morfologiche; per attenerci alla sola grafia, manca la puntuazione, è presente il segno q, e [f] (Fakios) è reso con il digramma hv a differenza sia dell’uso venetico “standard” (vh), sia anche dell’uso locale (vedi a Lagole) che per [f] usa il solo h. È particolarmente significativo l’uso di q, dal momento che la grafia venetica consentiva senza problemi la trascrizione di una sequenza fonetica [kw] mediante kv, per cui non si può invocare una carenza alfabetica nella resa fonetica di una forma
35 Rimando
per i casi che seguono alla recente puntualizzazione di Prosdocimi, Luogo…
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latina a giustificazione della presenza di q. Anche questo caso la grafia sembra indicare non un attardamento ma un recupero di forme grafiche venetiche sovrapposte su una base latina. Il tutto va riportato alla pratica della scrittura nella prospettiva delle “scuole” scrittorie36; in tutti questi casi vi è certamente la conoscenza di diverse tradizioni scrittorie, ma la “scuola” promanante sembra essere principalmente quella romana; la tradizione venetica è conosciuta e in qualche caso recuperata, ma non è la base primaria. Tornando ad Auronzo, prima di riconsiderare oltre alla grafia anche i contenuti occorre segnalare una particolare tipologia di documenti epigrafici, costituita dalle monete sovrascritte. La sovrascrittura della moneta, fatto peraltro raro nel mondo romano, serve a “certificare” in via definitiva la valenza votiva assunta dalla moneta stessa a seguito della sua offerta, e impedire così che venga riutilizzata nella sua funzione originaria. Tra le monete rinvenute nel santuario vi è un piccolo nucleo di cinque esemplari, tutti denari d’argento, in cui su una od entrambe le facce sono apposte iscrizioni latine graffite. Ne anticipo qui la lettura, in attesa dell’edizione e dello studio numismatico e paleografico. 1) denario di età repubblicana (prima metà I sec. a.Cr.) Sul verso: graffito su due linee sovrapposte; scrittura capitale mais/ter 2) denario di età repubblicana (prima metà I sec. a.Cr.) Sul verso: graffito lungo il bordo; scrittura corsiva maistoratorº--3) denario di Augusto Sul recto: graffito sopra l’effigie; scrittura corsiva m Sul verso: graffito attorno al bordo e nella zona centrale; scrittura corsiva maistoº--a--4) denario di Tito Sul recto: graffito ai lati dell’effigie; i segni non sono leggibili: forse non sono alfabetici. Sul verso: graffito su linee sovrapposte; scrittura corsiva; lettura incerta mai/-oº-/36 La prospettiva della “scuola” come primaria nella trasmissione e nell’apprendimento della scrittura è stata sostenuta, in più sedi, da A.L. Prosdocimi; una sintesi in M. Pandolfini - A.L. Prosdocimi, Alfabetari e insegnamento della scrittura in Etruria e nell’Italia antica, Firenze 1990, ripreso in Scritti inediti e sparsi. Lingua, testi, storia, I, Padova 2004; più recentemente, in A.L. Prosdocimi, Sulla scrittura nell’Italia antica, in Scrittura e scritture: le figure della lingua. Atti del Convegno SIG, Viterbo 28-30 ottobre 2004, in corso di stampa.
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5) denario di Traiano Sul recto: graffito a destra dell’effigie; scrittura corsiva tlm Sul verso: graffito attorno all’effigie; scrittura corsiva vslm
Le iscrizioni portano variazioni evidenti: 1) scrittura capitale / corsiva; 2) alternanza fonetica (?) maistEr- / maistOr-; 3) formula con maist… / formula v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito). Mi limito qui per quanto concerne la scrittura a una breve considerazione. Dal punto di vista grafico, ad una prima lettura dei graffiti era stata considerata la possibilità di riconoscere nel tracciato la permanenza di tratti locali, o addirittura di segni venetici; ora propendo piuttosto per il più cauto riconoscimento di un generico ductus corsivo latino: trattandosi di graffiti di pochi millimetri di dimensione tracciati su superfici irregolari, è ovvio che non si possano trarre conclusioni sulla base di piccole varianti dei segni. Richiamo tuttavia il fatto che tale ductus, nei suoi tratti caratterizzanti, coincide per molti aspetti con la “logica grafica” della scrittura venetica locale, a partire dalla a aperta con tratto obliquo, a l con tratto obliquo, a t con tratto inclinato; altrimenti detto, la scrittura latina corsiva è molto meno lontana dalla scrittura venetica di quanto non lo sia quella latina capitale. Se ciò possa avere (avuto) qualche significato per la transizione dell’alfabeto, è un aspetto che dovrebbe essere valutato sulla base di una più generale rassegna dell’uso della scrittura latina in area veneta. La cronologia delle monete, scalata nel tempo, non è com’ è ovvio correlabile alla cronologia delle iscrizioni, se non come post quem; l’usura delle due monete repubblicane testimonia per esse una lunga circolazione, per cui la loro sovrascritta non andrebbe comunque collocata prima della fase augustea; il termine certo è dato dalla moneta più tarda, che fissa l’operazione della sovrascrittura almeno fino all’epoca di Traiano. Ma tranne in quest’ultimo caso – che ha la formula votiva latina – negli altri, fino alla moneta di Tito, è costante la presenza, spesso abbreviata, dello stesso nome che compare nelle iscrizioni sopra riportate. Nelle iscrizioni (e, abbreviata, nelle monete) è presente la forma, fino ad ora non attestata (dat. pl.), maisteratorbos. Nella logica delle dediche votive, a priori da attendersi per il contesto generale e per la tipologia di oggetti su cui queste si trovano, la forma al dativo dovrebbe identificare la divinità cui è destinata l’offerta. A prescindere per il momento dal valore della base lessicale, ne consegue che dovrebbe trattarsi di un culto riferito non a una ma a più figure divine, designate con un nome / epiteto collettivo. Si tratta di una circostanza non comune, ma neppure del tutto sconosciuta nel Veneto: senza considerare i marginali Ahsus di Gurina e le incerte Matres di Asolo (per cui non è esclusa una proiezione, rispettivamente, germanica e celtica) abbiamo
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a Vicenza la testimonianza dei termonios deivos “dèi confinari”, a protezione e garanzia di delimitazioni territoriali. Anche qui si tratta di una collettività di figure divine individuate mediante l’aggettivo che si riferisce al loro ambito di azione. Tra le due occorrenze sembrano però sussistere differenze sostanziali. Se il caso dei termonios deivos di Vicenza appare prossimo o forse assimilabile a quella sfera di manifestazione del divino nota come Augenblicksgötter o “dèi dell’attimo”, legata a contingenze specifiche e a interventi funzionali, ad Auronzo pare di dover attribuire ai maisterator- una diversa qualificazione sul piano teologico. Dal punto di vista morfologico maisteratorbos è il dativo plurale di un nome di agente in -tor- dalla base verbale maistera-; questa base trova una corrispondenza pressoché totale37 con il verbo attestato in latino come magisterare (Paolo ex Festo 113L: magisterare moderari; 139L: magisterare regere et temperare est). La semantica di lat. magisterare potrebbe far supporre per maisterator- un riferimento a cariche di potere, a “magistrati” o figure assimilabili; dovrebbe trattarsi allora di destinatari umani, e non divini, delle dediche, quindi, al massimo, dei beneficiari delle stesse. Ciò appare poco verosimile per una serie di ragioni: dalla ripetizione del nome in tutte le dediche, all’assenza dei nomi propri dei titolari della eventuale carica, all’anomalia della presenza dei beneficiari in assenza sistematica del teonimo, alla verosimiglianza generale per cui in iscrizioni da santuario, e pertanto votive, la forma di dativo è prioritariamente da interpretare come riferita alla divinità. Tutto pertanto rimanda ad un inquadramento, per maisterator-, come teonimo. Con quale valore, nell’ambito di una semantica corrispondente al latino regere, moderari, temperare? L’eventualità più adeguata che si offre per una sfera divina è quella di divinità “reggitrici = supreme” o simili. Al momento non disponiamo di precisi elementi per sostanziare una tale interpretazione. Resta il fatto che la nominazione delle divinità secondo un plurale collettivo non è la norma nel Veneto, anche se non è del tutto estranea. Dobbiamo pertanto chiederci se nomi e carattere di tali divinità siano genuinamente locali, o non siano piuttosto da ricondurre ad una operazione di adattamento in forme locali di ideologia e aspetti culturali romani. 37 Una forma maister- rispetto a magister- è pienamente spiegabile come risultato di una assimilazione; può essere venetica, non solo perché esito fonetico “naturale”, ma anche perché il venetico probabilmente attesta il fenomeno in una iscrizione che ha meu per mego (A. Marinetti, Venetico 1976-1996. Acquisizioni e prospettive, in Protostoria e storia del “Venetorum angulus”. Atti del Convegno di Studi Etruschi ed italici, Portogruaro - Altino - Este - Adria 16-19 ottobre 1996, Firenze 1999, pp. 391-436); si tratta tuttavia dello stesso esito che il latino presenta nelle lingue romanze (cfr. italiano maestro), e quindi non è per se stesso dirimente per l’attribuzione; lo è invece l’uso “istituzionale” per la base magister- che va attribuita, in primo luogo, al latino.
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Molti aspetti, anche non linguistici, del santuario di Auronzo sembrano disporsi secondo questa “trama” prospettica, vale a dire di una veneticità evidente nei tratti più macroscopici (la scrittura, la lingua, il formulario, la tipologia dei materiali votivi), che tuttavia si rivela in alcuni tratti “anomala” o fuori schema nelle modalità di realizzazione. Come si è visto, nelle iscrizioni vi sono tratti grafici che differenziano questa scrittura da tutto il resto del corpus venetico; vi sono contaminazioni grafiche tra venetico e latino che sembrano trarre il punto di origine nella componente latina; i destinatari divini delle iscrizioni in quanto “collettività” non sono incompatibili con la cultura locale ma non ne sono l’espressione consueta, e il teonimo dal punto di vista lessicale è un prestito latino al più trasposto in una forma fonetica che può essere compatibile con la fonetica locale presumibile per l’epoca. Dal punto di vista materiale, come ha sottolineato Giovanna Gangemi38, presentando i due splendidi esemplari di dischi bronzei con la rappresentazione di una figura femminile e una maschile, è mantenuta la tradizione venetica dei dischi figurati, ma con peculiarità iconografiche fino ad ora sconosciute; le lamine bronzee hanno la tipica foggia locale “a pelle di bue” ma non hanno – come invece hanno quelle di Lagole – la figurazione centrale; etc. La valutazione delle “anomalie” può restituire una chiave interpretativa con riflessi importanti non solo per Auronzo, ma per la storicità in generale in area veneta. L’“interferenza” di elementi esterni si manifesta nel comparto veneto alpino in maniera diversa dal Veneto di pianura, cui sembrano da attribuire quelle modalità di progressiva transizione esemplate nel caso di Este. Nel nord, a una lettura superficiale il quadro sembra quello di una tradizione locale ancora forte e vitale, meglio conservata rispetto alla pianura, coerentemente con la sua posizione di area geografica periferica; un quadro in cui, se l’accoglimento di elementi esterni è in una certa misura inevitabile, vi è comunque un grado di permeabilità inferiore rispetto ad un “centro” che va rapidamente romanizzandosi. Ma scendendo più in profondità, l’analisi dei fenomeni osservati indirizza in una direzione diversa, ad una programmata volontà di mantenimento della tradizione precedente, ribadita nei tratti più “appariscenti” ma che tradisce in dettagli apparentemente secondari una “regia” esterna. La “perifericità” di queste aree geografiche è tale solo se si considera in funzione di un “centro” costituito dalle grandi realtà venete di pianura, Este, Padova e (con connotati diversi) Altino; se invece si valuta in una prospettiva transnazionale, si tratta di aree strategiche per i collegamenti e il controllo del territorio sia verso il nord che, attraverso una viabilità 38 G. Gangemi, I dischi votivi del Monte Calvario di Auronzo di Cadore, in I Veneti dai bei cavalli, p. 103.
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orizzontale che raccorda con l’area friulana, verso l’est; ciò deve essere stato ben presente nella progettualità romana di espansione e consolidamento territoriale. Non è quindi priva di fondamento l’ipotesi che da parte romana si siano utilizzate forme della cultura locale, attardate o recuperate da una tradizione in declino ma ancora conosciuta, come mezzo per realizzare quel complesso di comportamenti generalmente definito “consenso”. In un recente lavoro A. Prosdocimi riprende il “caso Auronzo” in una prospettiva in cui il venetico diventa la premessa all’alfabeto runico39; in quella sede, accogliendo per i maisterator- il valore di “divinità reggitrici, supreme” di matrice romana, avanza per l’identificazione di queste figure divine un’ipotesi di grande impatto, teologico ed ideologico: «Quanto all’applicazione di un termine profano-magistratuale ad una realtà divino-religiosa vi è almeno un precedente a me noto – ma certo ve ne saranno altri a me ignoti – e cioè il modo in cui è nominata la triade capitolina, come inperatoribus summeis, nella cosiddetta “lamina dei cuochi falischi” … Nella dedica di Faleri ci sono le premesse per la nominazione di divinità, nel caso della triade capitolina, con un nome magistratuale, cioè della sfera del “civile (militare)” e non del “divino” e questa è una premessa per inquadrare la eventualità che i ma(g)isterator- di Auronzo siano non magistrati ma i (sommi) “reggitori” della triade capitolina, “mascherata” da un nome romano per una realtà romana in un contesto locale cui era estranea»40. Prosdocimi ricostruisce con ampiezza le circostanze in cui tale operazione può essere avvenuta, inquadrandola nello sfondo politico e ideologico della restaurazione augustea; in particolare mette l’accento su un aspetto specifico di questa restaurazione, che sarebbe la comunicazione che passa attraverso l’ideologia della lingua intesa in senso ampio, cultura scrittoria compresa, e che viene perseguita anche mediante il recupero / rifacimento antiquario di tradizioni linguistiche desuete, ma in grado di veicolare segnali di identità culturale. L’identificazione delle divinità di Auronzo con la triade capitolina piuttosto che con altre figure divine41 sarebbe un contributo importante,
39
Prosdocimi, Luogo…. Prosdocimi, Luogo…, pp. 170-173. 41 In attesa di un bilancio complessivo da parte di G. Gangemi, che consentirà una visione organica dei caratteri del complesso santuariale, gli altri dati su cui può poggiare un’identificazione dei destinatari del culto vanno per ora presi con cautela; la frequentazione del santuario sulla base dei materiali presenta una forte componente militare (Gangemi, Il santuario…); le figurazioni sui due dischi bronzei – altro caso di innesti romani su tradizione locale – sembrano rinviare a moduli iconografici dionisiaci (Gangemi, I dischi…). Se si riprende il dato dell’iscrizione venetica da Valle di Cadore con dedica a Louderai Kanei, letteralmente “Libera-Fanciulla”, in giunzione con le figurazioni di Auronzo, si profila la possibilità di un culto di connotazione misterica (la triade “Cerere-Liber-Libera”?). Il tutto è naturalmente è per ora solo una ipotesi. 40
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ma in fin dei conti è un elemento accessorio rispetto al quadro generale. Quanto va invece sottolineato è che l’orizzonte politico-ideologico posto da Prosdocimi pare restituire un senso compiuto ai modi in cui veneticità e romanità si compenetrano e si manifestano nella documentazione epigrafica locale, e che è attraverso questa chiave di lettura che i dati assumono una significatività non banale. Con i casi di Auronzo e di Valle di Cadore, siano essi dovuti a continuità o, come pensiamo, a voluto rifacimento, si intravede nel percorso della documentazione epigrafica locale l’ultimo atto del passaggio alla romanità. Dal complesso dei dati si evince non molto di fattuale, quanto piuttosto una prospettiva ideologica, nell’atteggiamento dei Veneti verso Roma e, forse, nella politica di Roma verso i territori di nord-est, quanto meno verso una parte di essi. Ci resta un quesito, che al momento non può che configurarsi come una pura ipotesi di lavoro, e cioè se non sia possibile attingere dall’epigrafia venetica anche elementi che rimandino al “primo atto”, ovvero alle forme iniziali del contatto tra Veneti e Roma. Non mi riferisco, ovviamente, ad eventi specifici, su cui lo stesso quadro storico appare definito solo a partire dall’alleanza del 225 a.C.: com’è noto sulla possibilità di rapporti precedenti i pareri degli storici sono contrastanti, a partire da quanto sarebbe (indirettamente) inferibile dalla notizia dell’attacco di Veneti a territori gallici durante l’assedio di Roma da parte dei Galli Senoni di Brenno. Mi riferisco piuttosto ad una penetrazione “culturale”, alla possibilità che realtà storiche o culturali nel Veneto assumano forme più o meno istituzionalizzate sulla scorta di assetti promananti da Roma. Un esempio per tutti42. Il mondo veneto mostra inequivocabilmente una rilevante attenzione agli aspetti della delimitazione spaziale, che rende anche attraverso l’esplicita sanzione in iscrizioni. Indirettamente potrebbero esserne riflesso anche le testimonianze epigrafiche degli interventi proconsolari romani in Veneto, in funzione arbitrale di contese territoriali (confini tra Atestini e Patavini, 141, e tra Atestini e Vicentini, 135); tuttavia alla metà del II secolo Roma è già solidamente presente nel nord-est, e la sua attenzione al territorio va correlata in primis alla politica di espansione viaria43: non 42 Altri forse se ne potrebbero fare; mi riferisco ad esempio alla possibile confluenza di una categoria socio-economica lessicalmente identificata nelle iscrizioni venetiche come (etimologico) “signore del cavallo” in una classe sociale strutturata “equestre”, per influsso romano; di ciò cenni in A. Marinetti, Il ‘signore del cavallo’ e i riflessi istituzionali dei dati di lingua. Venetico ekupetaris, in Produzioni…, pp. 143-160. 43 G. Bandelli, La penetrazione romana e il controllo del territorio, in Tesori della Postumia. Archeologia e storia intorno ad una grande strada romana alle radici dell’Europa, Catalogo della Mostra, Milano 1998, pp. 147-155; Id., Roma e la Venetia orientale dalla guerra gallica (225-222 a.C.) alla guerra sociale (91-87 a.C.), in Vigilia…, pp. 285-301; Id, Considerazioni storiche sull’urbanizzazione cisalpina di età
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può essere casuale che il primo intervento sia indirizzato appunto ad assetti territoriali. Casi di delimitazione spaziale di ambito pubblico nel Veneto sono costituiti dai cippetti di Oderzo con sigla te, che l’interpretazione a mio giudizio preferibile rapporta alla pertinenza della comunità (teuta)44: uno spazio di tipo pubblico o comunque definito da parte della istituzione sociale. Ciò è confermato anche dall’iscrizione patavina *Pa 14: il cippo opistografo segnala il confine (termon) di uno spazio sacro, l’entollouki (“entro del luco” o “luco interno”), anche in questo caso sotto il controllo e per iniziativa della comunità, esplicitata nel verbo teuters “posero pubblicamente”, detto probabilmente di magistrati o simili. La valenza sacrale del confine, tema ben noto nel mondo antico, è come già detto ribadita dalla testimonianza di un’iscrizione vicentina *Vi 2, una dedica agli “dèi dei confini” (termonios deivos). A questi esempi si aggiunge forse un altro, problematico testo. Premetto subito che se per questo testo dovessimo pensare a un modello romano, si dovrebbe presumere un contatto molto più antico di quanto probabilmente le nostre conoscenze ci consentano di ipotizzare; l’iscrizione – almeno sulla base della paleografia che è al momento l’unico elemento di datazione – non dovrebbe situarsi dopo il IV secolo. Tuttavia la cronologia dell’iscrizione potrebbe corrispondere con l’epoca cui riferire la notizia di Polibio (II 18,3) sull’attacco dei Veneti ai territori gallici; secondo lo storico ciò avviene in concomitanza con l’assedio di Roma; e dunque nei primi decenni del IV secolo. Si tratta di un’iscrizione su lamina di bronzo rinvenuta a Este, che costituisce un testo eccezionale all’interno del corpus venetico, per lunghezza e complessità45; il testo è frammentario, mancano forme lessicali già note, mancano forme onomastiche riconoscibili; non è né formulare né ripetitivo; per tutte queste ragioni pone anche enormi difficoltà interpretative. Si sono ciò nonostante riconosciute alcune sequenze: forme temporali, espressioni del “dare”, riferimenti spaziali al territorio, probabili nomi di animali. Il senso generale concerne lo “spazio”; rapportando a questo concetto una verosimile funzione per un’iscrizione certamente pubblica e “ufficiale”, potremmo riconoscervi l’espressione di una regolamentazione dell’uso del territorio, nelle applicazioni di confinazione, distribuzione, sfruttamento. Il fatto che l’iscrizione, trovata ad Este (anche se sottoposta a riutilizzi), sia in grafia di
repubblicana (283-39 a.C.), in Forme e tempi dell’urbanizzazione nella Cisalpina (II secolo a.C. - I secolo d.C.). Atti delle giornate di studio, Torino 4-6 maggio 2006, Torino 2007, pp. 15-28. 44 A. Marinetti, Nuove testimonianze venetiche da Oderzo (Treviso): elementi per un recupero della confinazione pubblica, “Quaderni di Archeologia del Veneto” 4 (1988), pp. 341-347. 45 Edizione e un primo commento al testo in Marinetti, Il venetico. Bilancio…; un lavoro complessivo sul testo (Prosdocimi - Marinetti) è in corso di elaborazione per la stampa.
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Padova, potrebbe, in questa componente “bilaterale”, confermare la natura di “trattato”. I casi di iscrizioni venetiche attinenti ai confini o agli spazi possono essere riconosciuti, come detto, quale segnale di una particolare attenzione da parte dei Veneti alla delimitazione pubblica del territorio46; ma i precedenti istituzionali e testuali della resa per via epigrafica a quale origine vanno ricondotti? Certamente non va sottovalutata l’Etruria come modello culturale primario, a partire dalla trasmissione alfabetica con il correlato portato di testualità che accompagna l’insegnamento della scrittura. Ma non è da escludere che il modello ideologico della sanzione confinaria vada ricercato a Roma; quanto meno, mi sembra sia un tema che merita di essere approfondito.
46 A. Marinetti in G. Gambacurta - D. Locatelli - A. Marinetti - A. Ruta Serafini, Definizione dello spazio e rituale funerario nel Veneto preromano, in Terminavit sepulcrum. I recinti funerari nelle necropoli di Altino. Atti del Convegno, Venezia 3-4 dicembre 2003, Roma 2005, pp. 9-40.
I legami tra i popoli italici nelle Origines di Catone tra consapevolezza etnica e ideologia Cesare Letta
1. Tradizioni di etnogenesi delle popolazioni osco-umbre Vorrei prendere le mosse dalle riflessioni che ho avuto modo di esporre in un recente convegno tenutosi a Isernia nel marzo 2007. Nell’esaminare il patrimonio di tradizioni sull’etnogenesi delle popolazioni dell’Italia antica, pur avvertendone il carattere composito, contraddittorio e pluristratificato, sono giunto alla conclusione che in esse possa riconoscersi una rete di connessioni difficilmente casuale tra le popolazioni che la linguistica dell’Ottocento ci ha insegnato a designare complessivamente come osco-umbre. Si deve dunque ammettere che queste, nonostante i molteplici sforzi per cercare anche altrove, e soprattutto nel mito greco, radici nobilitanti di singole etnie o singole città, che inevitabilmente resero più frastagliato e contraddittorio il quadro d’insieme, mantennero sempre una fondamentale consapevolezza dei loro legami etnici reali. Di questo si coglie un’eco molto chiara nelle leggende di etnogenesi in cui una discendenza, diretta o mediata, dai Sabini è attestata praticamente per tutte le popolazioni osco-umbre; e almeno nei casi meglio documentati si può ragionevolmente ritenere che si tratti di tradizioni anteriori alle sistemazioni operate dall’annalistica e dall’antiquaria a partire dal II sec. a.C. Sono ben noti il ver sacrum dei Sanniti, con la catena Sabini - Sanniti - Lucani - Brettii a cui si agganciano anche Frentani, Irpini, Campani e Mamertini, e quello dei Picenti; ma l’esistenza di tradizioni analoghe si può stabilire con certezza anche per Marsi, Ernici, Peligni e Marrucini,
L’insediamento fortificato sannitico e sabellico, Isernia, 31 marzo 2007 (in margine alla terza edizione del Premio Internazionale di Archeologia “I Sanniti”, organizzato dai Rotary Club Alto Casertano, Valle Caudina e Valle Telesina). Strab. V 3,1,228. Paul. Fest. p. 235 L., s.v. Picena regio. Per Marsi ed Ernici v. Paul. Fest. p. 89 L.; Serv. Aen. VII 684 e Schol. Verg. Veron. Aen. VII 684 (cfr. ora anche l’iscrizione di Alatri, Suppl. It., n.s., 16, 1998, pp. 45 s., nr. 1, su cui v. Letta 2006). Per i Peligni v. Ov. fast. III 95 s. Per Marsi e Marrucini v. Cato orig. fr. 53 P. (= II, 23 Ch.; 57 C.)
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e qualche indizio si può riconoscere anche per Volsci, Equi, Vestini e Pretuzzi. Il quadro può essere ora completato con la componente umbra, per lo più considerata estranea a queste tradizioni. In realtà ritengo che finora tutti (me compreso) abbiano frainteso il senso di un passo problematico di Dionigi di Alicarnasso, secondo il quale Zenodoto di Trezene affermava che «gli Umbri, popolo autoctono, dapprima abitavano nella regione detta Reatina; di lì, scacciati dai Pelasgi, giunsero nella terra dove abitano ora e cambiando il nome insieme al luogo, da Umbri vennero ridenominati Sabini». In questa forma il testo è inaccettabile, perché Zenodoto verrebbe a dire che gli abitanti dell’Umbria del suo tempo si chiamavano Sabini anziché Umbri. È indispensabile correggerlo: Zenodoto doveva dire che, giunti in Umbria, questi migranti provenienti dalla zona di Reate «da Sabini vennero ridenominati Umbri», e non viceversa. Per Zenodoto, dunque, che scriveva probabilmente subito prima di Catone10, anche gli Umbri derivavano da una migrazione dei Sabini e questa tesi potrebbe essere anche quella di Varrone e (senza l’elemento pelasgo) dello stesso Catone, come fa sospettare un passo in cui Plinio considera sabine le città umbre di Ravenna e Butrium11. In pratica tutta l’area occupata in età storica dalle popolazioni osco-umbre risulta compresa in questa complessa rete di tradizioni etnogenetiche centrata sui Sabini, che al tempo di Catone sembra già pienamente formata12. Cfr.
D.H. II 49,4-5 (legame con la dea sabina Feronia). De praenom., 1, cfr. D.H. II 48,3-4 (nome Modio, comune a un re degli Equicoli e al fondatore di Cures). Lucan. II 424 s.: Liris ... / Vestinis impulsus aquis; cfr. Letta 2006, 105, n. 75. Cfr. le iscrizioni di Penna S. Andrea con safina túta e safínum nerf (Marinetti 1985, 215 s., TE 5; 220-222, TE 7; 217-219, TE 6). D.H. II 49,1. Io stesso (Letta 1984, 433 e 438) ho discusso questo passo partendo dalla convinzione comune che Zenodoto considerasse i Sabini come discesi dagli Umbri. 10 Briquel 1984, 466 propone una datazione tra 180 e 60 a.C. (dopo Polibio ma prima di Varrone); a 463, n. 22 ammette però che Zenodoto era forse già noto a Catone: così proponevo anch’io (Letta 1984, 438). Anche per Abel 1972, 49-50 il terminus ante quem è Varrone, ma quello post quem sarebbe la dedica del tempio di Giove Statore nel 294 a.C. 11 Plin. nat. III 20,115. Ora non credo più che Catone polemizzasse con Zenodoto e ribaltasse il rapporto da lui sostenuto tra Umbri e Sabini: credo piuttosto che Catone accogliesse la discendenza degli Umbri dai Sabini sostenuta dallo storico di Trezene, limitandosi ad epurare il suo quadro dalla presenza dei Pelasgi, incompatibile col suo assunto. 12 Il fatto che Pompeo Trogo - Giustino (XX 1,4), attingendo probabilmente a Timeo (cfr. Moretti 1952), colleghi agli Spartani non solo i Tarantini, ma anche Sabini, Sanniti, Lucani e Bruzi, presuppone che Timeo conoscesse già la catena che faceva derivare l’uno dall’altro questi quattro popoli. Questo implica che la tradizione sull’origine dei Sanniti da un ver sacrum dei Sabini sia anteriore alle varie tradizioni che cercavano di collegare via via i Sanniti o gli stessi Sabini agli Spartani, il cui primo nucleo può datarsi già negli ultimi decenni del IV sec. a.C. (cfr. Russo 2007).
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2. I Sabini come fondamento dell’unità italico-romana nelle Origines Il quadro che ho sommariamente delineato aiuta a capire la scelta compiuta per motivi ideologici da Catone nelle Origines. Come ho cercato di dimostrare oltre vent’anni fa13, scrivendo la sua opera storica all’indomani della guerra annibalica, con la sua eredità di sospetti e rancori tra Roma e i suoi alleati italici, e nel pieno della svolta imperialistica verso l’Oriente, Catone si proponeva di rilanciare l’idea di un’unità italico-romana fondata soprattutto sulla fides, sull’austerità e sul valore guerriero e ne individuò la radice proprio nei Sabini e nei loro mores. Il fatto che potesse disporre da una parte della rete di tradizioni di cui si è detto, capace di ridurre a unità gran parte del variegato mondo italico, e dall’altra delle saghe sulla presenza sabina nelle origini di Roma, certo già pienamente strutturate14, gli offrì una soluzione semplice ed efficace: i Sabini potevano costituire il collegamento tra la componente romana e quella italica e divenire la chiave della sua dimostrazione15. Per l’assunto di Catone, teso ad esaltare questi mores che avevano fatto grande Roma e a mostrarne la superiorità sulla nova sapientia importata dalla Grecia ad opera di uomini politici senza scrupoli come Q. Marcio Filippo16, era fondamentale rivendicare l’assoluta originalità e autonomia dei mores sabini, radicati nella terra Italia e del tutto immuni da influenze esterne. In altri termini, era fondamentale che i Sabini fossero presentati come un popolo autoctono. Non insisterò qui sull’argomento, perché credo di aver già dimostrato che appunto questa era la tesi sostenuta da Catone: per lui i Sabini discendevano dall’eponimo Sabus (o Sabinus), figlio del daivmwn ejpicwvrio~ Sancus, secondo la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, che attribuisce esplicitamente ad altri la tesi di una loro origine spartana17. Il fatto che Servio dica Cato autem et Gellius a Sabo Lacedaemonio trahere eos originem referunt, se non è una semplice svista del grammatico, può solo significare che Catone citava la tesi spartana per confutarla18. 13 Cfr.
Letta 1984. soprattutto Poucet 1967 e 1972. 15 Secondo Chassignet 1987, 291 s., nella visione di Catone l’unità dell’Italia sarebbe data piuttosto dalla comunità di sostrato (aborigeno, arcade, etrusco etc.); non una parola è spesa sul ruolo dei Sabini, nonostante l’esplicita affermazione di Catone nel fr. 51 P: Sabinorum ... mores populum Romanum secutum ... Cato dicit; cfr. anche il fr. 76 P.: Italiae disciplina et vita ... Cato in originibus ... commemorat, col termine quasi tecnico disciplina a indicare un organico patrimonio di mores. 16 Cfr. Briscoe 1964; Petzold 1999; Brizzi 2001. 17 D.H. II 49,2 (Cato orig. fr. 50 P. = II 21 Ch.; 58 C.). 18 Serv. auct. Aen. VIII 638 (Cato orig. fr. 51 P. = II 22 Ch.; 59 C.); cfr. Letta 1984, 432-438. Alle stesse conclusioni, oltre agli autori ricordati in Letta 1984, 432, n. 244, giungono ora anche MartínezPinna 1999, 104-106 e Mastrorosa 2004, 246. 14 V.
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3. L’apporto greco alle origini di Roma nelle Origines In quest’ottica vorrei riesaminare la posizione di Catone sul ruolo che gli elementi greci (popoli migranti o singoli eroi fondatori) avrebbero avuto nelle origini di popoli e città dell’Italia antica, e più in particolare delle due componenti dell’unità che più gli sta a cuore, Roma e l’Italia osco-umbra. 3.1. L’autoctonia degli Aborigeni (frr. 5-6 P.) Per Roma e il Lazio sottolineo che quasi certamente Catone considerava autoctoni anche gli Aborigeni, per lui presenti anche nei territori poi occupati dai Sabini (fr. 50 P.) e dai Volsci (fr. 7 P.). Sebbene Dionigi di Alicarnasso, in un passo palesemente tendenzioso, invochi genericamente l’autorità di Catone, accanto a quella di Sempronio Tuditano, per sostenere la loro grecità19, Servio attesta chiaramente che Catone considerava gli Aborigeni come i primi abitatori del Lazio e non come una popolazione immigrata, e soprattutto che la presentazione che ne dava era stata poi ripresa da Sallustio nel Bellum Catilinae, dove in effetti leggiamo: genus hominum agreste, sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum20. Questo significa che per Catone gli Aborigeni erano autoctoni e primitivi, secondo una linea che si può far risalire per lo meno a Nevio, che li definiva silvicolae homines bellique inertes 21 e che probabilmente risale anche più indietro22, scaturendo quasi certamente dalla coniazione artificiale del nome in ambito romano a partire dal nesso latino ab origine23. 19 D.H.
I 11,6 (Cato orig. fr. 6 P. = I 4 Ch.; 8 C.). Aen. I 6 (Cato orig. fr. 5 P. = I 6 Ch.; 6 C.): tamen Cato in Originibus hoc dicit, cuius auctoritatem Sallustius sequitur in bello Catilinae (Sall. Catil. 6,1 citato nel testo); cfr. Oniga 1995, 78 s. Per Stok 2004, 119 e n. 18 il riferimento alla dipendenza di Sallustio da Catone si limiterebbe all’unione fra Troiani e Aborigeni. In realtà Servio non cita genericamente due fonti l’una accanto all’altra, ma le pone l’una in dipendenza dall’altra: evidentemente, quando ancora si potevano leggere in parallelo sia Catone che Sallustio, erano state notate convergenze significative tra i due testi su questo argomento. Ma poiché nel passo di Sallustio espressamente citato da Servio la descrizione degli Aborigeni si esaurisce in un’unica frase, il cui punto saliente è proprio il loro carattere primitivo che esclude qualsiasi legame col mondo civilizzato dei Greci, sembra impossibile che Servio (o la sua fonte) potesse parlare di dipendenza qualora davvero Catone avesse sostenuto, come vorrebbe Dionigi di Alicarnasso, che gli Aborigeni erano Greci. Non convince, pertanto la tesi di D’Anna 1989, 238, secondo cui Sallustio dipenderebbe da Iperoco (tramite Ateio Filologo) e ammetterebbe la grecità degli Aborigeni. 21 Naev. fr. 21 Morel in Macr. Sat. VI 5,9; cfr. Pasoli 1974 e Godel 1978. 22 La prima attestazione degli Aborigeni giunta fino a noi si ha in Callia, all’inizio del III sec. a.C. (FGrHist 564,5a in D.H. I 72,5). Si può quindi supporre che la tradizione si sia formata già nell’ultimo terzo del IV sec. a.C. (v. Martínez-Pinna 1999, 97 s.), forse nell’ambito delle rappresentazioni teatrali, il cui ruolo è stato giustamente sottolineato da Wiseman 1998. 23 Cfr. Golvers 1989; Martínez-Pinna 1999, 97. 20 Serv.
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Nel mio studio del 1984 non mi spingevo fino a rifiutare del tutto la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso e ritenevo che Catone si fosse limitato a ridimensionare la grecità degli Aborigeni che avrebbe trovato già nelle sue fonti e a marginalizzarne il ruolo nella formazione del popolo romano. Tra l’altro sottolineavo che, in base al fr. 19 P., gli Aborigeni di Catone non erano neppure in grado di parlare il greco24. In realtà le argomentazioni di J. Martínez-Pinna mi hanno convinto che l’arruolamento di Catone tra i sostenitori della grecità degli Aborigeni sia una manipolazione, o nel migliore dei casi una svista, di Dionigi, ossessionato dall’esigenza di accumulare il maggior numero possibile di prove dell’origine greca di Roma25. La grecità degli Aborigeni è molto probabilmente uno sviluppo erudito posteriore a Catone, che sembra presupporre due passaggi ulteriori: il loro accostamento ai Pelasgi in relazione a un oracolo di Dodona fabbricato verso la metà del II sec. a.C. e l’etimologia da errare proposta ancora più tardi da Iperoco di Cuma26. Per questo non mi sembra fondata l’interpretazione proposta ultimamente dal Gotter, che accettando senza discussione la testimonianza di Dionigi considera gli Aborigeni un’invenzione di Catone27. 3.2. Gli Arcadi di Evandro (fr. 19 P.) In definitiva, l’unica componente greca ammessa da Catone in relazione alle origini di Roma resta quella degli Arcadi di Evandro, che però, come avevo già a suo tempo rilevato, avevano nelle Origines un ruolo del tutto marginale, non partecipavano né alla fondazione di Roma né alla formazione
24 Cfr. Letta 1984, 424-428. Accettano la testimonianza di Dionigi anche Richard 1983, 32; Traina 1993-1994, 622 s. 25 Martínez-Pinna 1999; cfr. anche Stok 2004, 120: «Il silenzio di Servio [sull’origine greca degli Aborigeni] costituisce, forse, un indizio a favore di quanti non credono alla testimonianza di Dionigi su Catone». Molto probabilmente Dionigi non leggeva Catone direttamente, ma lo citava tramite Varrone (v. ad esempio Ferenczy 1989, 357), e questo può aver favorito un fraintendimento. 26 Martínez-Pinna 1999, 100-101, sulla base di Briquel 1984, 355 ss. Credo che Martínez-Pinna abbia ragione anche nel considerare Iperoco posteriore a Catone e non sua fonte, come ipotizzavo in Letta 1984, 427. 27 Gotter 2003, 128-132. Catone avrebbe inteso contrapporre alle saghe che fondavano le origini greche di Roma su eroi come Ercole, Odisseo ed Evandro, offrendo così appigli per le pretese genealogiche di singole gentes aristocratiche, una saga di sua invenzione, senza nomi di eroi, che in modo egualitario, anonimo e collettivo riferisse l’origine greca all’insieme del popolo romano. L’interpretazione mi sembra notevolmente forzata, soprattutto se si considera che altrove sia per Roma (Evandro, Enea), sia per gli altri popoli del Lazio e dell’Italia Catone non ha alcuna difficoltà a fare i nomi degli eroi che guidano migrazioni di popoli o fondano città.
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del popolo latino e non rappresentavano un elemento di continuità col presente, come invece Catone affermava per Aborigeni, Troiani e Sabini28. Colpisce, del resto, il fatto che Servio, parlando della guerra italica contro Enea, non parli affatto del ruolo avuto a fianco di Enea dagli Arcadi, nonostante il rilievo che Virgilio dà ad Evandro e a suo figlio Pallante: lo Stok ne ha dedotto, probabilmente a ragione, che nelle narrazioni “storiche” sulla guerra utilizzate da Servio (cioè in pratica in Catone) essi fossero del tutto assenti29. Quanto al ruolo civilizzatore che sembra assegnare loro Catone nel fr. 19 P., recentemente anche il Rochette ha ribadito che la testimonianza di Giovanni Lido non autorizza ad affermare che Catone considerasse il latino un dialetto greco30. In particolare si deve riconoscere che il ragionamento su Romolo che conosceva il greco deriva certamente da un’altra fonte31, perché esso è strettamente connesso con l’etimologia di Quirinus da kuvrio~, nel quadro di una teoria su Romolo tiranno che certamente deve risalire all’annalistica più recente32. Segnalo infine che una notizia di possibile derivazione catoniana data da Servio (Aen. VIII 285) potrebbe giustificare il sospetto che Catone contrapponesse un’origine puramente latina del sacerdozio romano dei Salii alla pretesa origine arcadica sostenuta da altre fonti: habuerunt et Tusculani salios ante Romanos. Alii dicunt Salium quendam Arcadem fuisse, qui Troianis iunctus hunc ludum in sacris instituerit... Il richiamo a Tusculum farebbe pensare che la fonte della notizia fosse il tusculano Catone, e la precisazione ante Romanos sembra indicare che egli sostenesse una derivazione dei Salii romani da quelli tusculani, che forse contrapponeva alla tesi di una derivazione arcadica ricordata subito dopo da Servio. Quest’ultima potrebbe risalire a Fabio Pittore, di cui sappiamo che attribuiva un’origine arcadica anche al sacerdozio dei luperci33. Se così fosse, avremmo un’ulteriore conferma del fatto che Catone, pur ammettendo la presenza di Arcadi nelle origini di Roma, cercava in tutti i modi di circoscriverne il ruolo effettivo, fin quasi ad annullarlo.
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Letta 1984, 428 s. Stok 2004, 136-137 e 150. 30 Lyd. mag. I 5 (Cato orig. fr. 19 P. = I 19 Ch.; 22 C.). Cfr. Rochette 1998. Scettico era anche Briquel 1984, 450 s.; cfr. anche Briquel 1988 e Letta 2007, 491 s. 31 Probabilmente proprio Serv. Aen. I 292, come propone il Rochette, sottolineando che Giovanni Lido mostra di conoscere bene e utilizzare spesso il commento all’Eneide. 32 Cfr. Fraschetti 2002, 104-107. 33 Cfr. Mavrogiannis 2003, 101 ss. 29
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4. L’apporto greco all’etnogenesi dell’Italia nelle Origines Per completare il quadro, occorre ora riesaminare sistematicamente tutti i frammenti delle Origines che in qualsiasi forma parlano di elementi greci nelle origini di altri popoli o città dell’Italia antica. Cercherò di farlo il più sinteticamente possibile, per poi tentare di tracciare un bilancio e trarre delle conclusioni. 4.1. Pisa (fr. 45 P.) Esaminiamo innanzi tutto i problemi testuali e interpretativi che pone la testimonianza relativa alla posizione di Catone sulle origini di Pisa, che è parte di una lunga sezione dedicata all’argomento dal Servio Danielino34: Cato originum, qui Pisas tenuerint ante adventum Etruscorum, negat sibi compertum, sed inveniri Tarchonem, Tyrrheno oriundum, postquam †eorundem sermonem (codd. eurundem sermonum) ceperit, Pisas condidisse, cum ante regionem eandem Teutanes (codd. Teutones) quidam, Graece loquentes, possederint. Va innanzi tutto detto che il genitivo originum, come aveva intuito il Jordan35, impone l’integrazione
, che stranamente non è stata accolta da nessuno degli editori successivi. In secondo luogo va respinta l’interpretazione generalmente accolta secondo cui nella visione di Catone gli Etruschi di Tarchon sarebbero subentrati direttamente ai Teutanes. Se veramente Catone riteneva che gli Etruschi avessero trovato nella regione i Teutanes, non avrebbe potuto dire che ignorava chi avesse occupato quel territorio ante adventum Etruscorum. Non si può infatti ridurre il non liquet di Catone a una semplice presa di distanza da una fonte che identificava i predecessori immediati degli Etruschi coi Teutanes. Secondo il Briquel36 si potrebbe in effetti pensare che l’espressione compertum e l’espressione inveniri si riferiscano allo stesso oggetto d’indagine, ma mentre compertum alluderebbe a fonti orali ritenute da Catone affidabili e da lui raccolte a Pisa stessa, inveniri alluderebbe a fonti scritte di cui lo storico non si fiderebbe e da cui preferirebbe prendere le distanze. 34 Serv. auct. Aen. X 179 (Cato orig. fr. 45 P. = II 15 Ch.; 49 C.). In generale sulle tradizioni relative alle origini di Pisa v. Pais 1893; Banti 1943; Ferri 1957, 238-240 (= 1962, 586-588); Pugliese Carratelli 1958; Pisani 1959; Lepore 1983; Briquel 1984, 297-313; Briquel 1991, 249-276 e 345-369; Bonamici 1995; Coppola 1995, 137-154; Corretti 1997 (cfr. anche Corretti 1994); Ampolo 2003. 35 Iordan 1860, 11 (fr. II 13). Per la sicura appartenenza al libro II v. soprattutto Cugusi - Sblendorio Cugusi 2001, II, 337. 36 Briquel 1991, 258 e 263-264.
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In realtà, mentre non c’è dubbio che inveniri può riferirsi solo a fonti scritte, l’espressione negativa negat sibi compertum non rimanda necessariamente a fonti solo orali, ma segnala piuttosto che le ricerche di informazioni hanno avuto esito negativo, cioè che Catone non è riuscito a trovare notizie affidabili né in fonti scritte né in fonti orali. In questo modo Catone mostra di distinguere tra l’oggetto dell’indagine che ha dato esito negativo (l’identità dei predecessori immediati degli Etruschi) e quello delle indagini che invece gli hanno permesso di trovare alcune informazioni in fonti scritte: da un lato la venuta degli Etruschi, sostituitisi agli ignoti di cui sopra, e dall’altro la presenza di Teutanes quidam Graece loquentes in un passato ancora più lontano, che dobbiamo necessariamente ritenere anteriore alla presenza degli ignoti predecessori immediati degli Etruschi. La struttura del discorso sembra dunque la seguente: 1) ante adventum Etruscorum c’erano degli ignoti [fase 2]; 2) poi arrivarono gli Etruschi, che evidentemente cacciarono o sottomisero questi ignoti predecessori [fase 3]; 3) ma in una fase ancora anteriore a quella di questi ignoti predecessori degli Etruschi (ante) avevano posseduto quella stessa regione i Teutanes [fase 1]. È evidente che in questa terza parte del discorso di Catone ante non può significare di nuovo ante adventum Etruscorum, come nella prima, ma deve significare “prima ancora”, cioè prima dell’insediamento degli ignoti che furono poi a loro volta sostituiti (cacciati o sottomessi) dagli Etruschi. A volte si è voluto vedere nel prosieguo del passo di Servio la prova che Catone ammettesse due sole fasi, con la diretta sostituzione degli Etruschi ai Teutani37. In effetti nella seconda parte del passo di Servio si parla di un diretto avvicendamento tra Teutae ed Etruschi, ma questa non è affatto la posizione di Catone, bensì una posizione che Servio contrappone a quella di Catone (alii ... dixerunt) e che presenta vistose differenze rispetto ad essa: alii incolas eius oppidi Teutas fuisse, et ipsum oppidum Teutam nominatum, quod postea †Pisas Lydia lingua sua singularem portum significare dixerunt ..., quare huic urbi a portu †lane nomen impositum. È facile constatare che: 1) alii ... dixerunt oppone esplicitamente questa versione a quella precedentemente attribuita a Catone; 37 Cfr. Briquel 1991, 255, che sulle orme di Prosdocimi 1977, 59-61, vede nei Teutanes una popolazione ligure. Bruni 1998, 65 si spinge fino a identificare direttamente i Teutanes di Catone coi Liguri di Licofrone (vv. 1359 ss.).
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2) qui si parla di Teutae, mentre nel frammento di Catone si dice Teutanes (o Teutones); 3) qui si parla di un oppidum già esistente prima dell’arrivo degli Etruschi e denominato Teuta, che sarebbe stato semplicemente ribattezzato Pisae dai nuovi occupanti che parlavano la lingua lidia (quindi dagli Etruschi); nel frammento di Catone, invece, prima dell’arrivo degli Etruschi non esisteva alcun oppidum e gli Etruschi di Tarchon non si limitarono a ribattezzare una città già esistente, ma ne fondarono una ex novo (condidisse). Prima di procedere oltre, va anche chiarito una volta per tutte che Servio attribuisce a Catone tutte le affermazioni contenute nella frase che comincia con Cato e termina con possederint. Il Briquel ha tentato invece di sostenere che il pensiero di Catone potrebbe limitarsi alla prima parte della frase (qui Pisas tenuerint ante adventum Etruscorum negat sibi compertum) e che la frase infinitiva in cui compare Tarchon potrebbe riportare un’opinione diversa non presente in Catone. A suo giudizio l’ostacolo grammaticale costituito dall’infinitiva inveniri Tarchonem..., non retta da alii aiunt o tradunt come nelle frasi successive, non sarebbe insormontabile, perché anche «le tout début de la notice [del Servio Danielino] ... commence par une infinitive non construite» (sane Pisas ... conditas)38. L’argomentazione non regge, perché in realtà la frase iniziale a cui si fa riferimento non è un’infinitiva sospesa nel nulla, ma un participio congiunto che si lega direttamente alla frase di Servio che la precede (ex quibus locis venerunt qui Pisas condiderunt, dictas a civitate pristina...). Come Servio aveva agganciato a Pisas condiderunt il participio congiunto dictas a civitate pristina, così lo scoliasta del Servio Danielino continua agganciando ancora a Pisas condiderunt anche sane Pisas antiquitus conditas etc. Nella parte che ci interessa, dunque, l’infinitiva inveniri Tarchonem... (una vera infinitiva) non può essere retta da altro se non da un verbum dicendi facilmente ricavabile dal precedente negat, con lo stesso soggetto Cato39. Possiamo dunque tranquillamente affermare che per l’occupazione del sito di Pisa Catone parlava di tre fasi e non di due. Questo consente, a mio giudizio, di affrontare su nuove basi la crux da tempo riconosciuta nelle pa-
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Briquel 1991, 259. stesso Briquel 1991, 258 riconosce che questa interpretazione è possibile. Osservo en passant che a ragione Briquel 1991, 260, n. 60 respinge l’emendamento invenitur proposto dal Jordan: «Avec le passif invenitur on attendrait sans doute plutôt une construction personnelle». 39 Lo
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role postquam †eurundem sermonum ceperit40: dietro di esse deve celarsi il ricordo dell’avvicendamento tra gli ignoti della seconda fase e gli Etruschi della terza. In altre parole, nell’eorundem che sembra di poter ricavare dal tràdito eurundem deve riconoscersi la menzione degli ignoti a cui subentrarono gli Etruschi. Grammaticalmente eorundem non può riferirsi ad altri se non a qui Pisas tenuerint ante adventum Etruscorum. Va sottolineato che eorundem non può riferirsi ad Etruscorum, come molti hanno inteso41, perché ciò implicherebbe un’improbabile distinzione etnica e linguistica fra Tarchon e gli Etruschi, di cui il primo avrebbe adottato la lingua, mentre è evidente che qui Tarchon, detto per giunta Tyrrheno oriundus, figura come il capo che guida gli Etruschi nella migrazione e nella conquista del territorio dove poi fonderanno Pisa42. D’altra parte è altrettanto evidente che eorundem non può riferirsi nemmeno ai Teutanes, perché un pronome simile può riferirsi solo a qualcuno che sia stato già menzionato in precedenza, mentre i Teutanes vengono nominati solo dopo. Difficilmente, però, l’espressione eorundem sermonem ceperit che si è creduto di ricavare dal tràdito eurundem sermonum ceperit può dare un senso soddisfacente come indicazione del sostituirsi degli Etruschi ai loro ignoti predecessori. Ci si aspetterebbe piuttosto il ricordo della loro sottomissione o espulsione. È quindi molto probabile che sia caduta una prima parte della frase, con un primo verbo che ricordava appunto questa azione; ciò che resta sarebbe perciò solo un completamento, il che suggerisce di correggere eorundem in eorum, come ripresa di un precedente eos retto dal primo verbo e riferito ovviamente agli ignoti abitatori della regione prima dell’avvento degli Etruschi43. Si potrebbe allora proporre la seguente restituzione: postquam <eos expulerit (sive subegerit)> eorum sermonem ceperit... La caduta di due parole potrebbe facilmente giustificarsi col salto meccanico del copista dalle prime due lettere di eos alle prime due lettere di eorum44. 40 Oltre all’evidente difficoltà di dar loro un senso plausibile in relazione al contesto, va rilevata anche l’anomalia del nesso sermonem capere. 41 V. ad esempio Pisani 1957, 170; Chassignet 1986, 25; Cugusi - Sblendorio Cugusi 2001, 337 (ma v. le giuste critiche di Briquel 1991, 253, n. 28). Per Ampolo 2003, 40 il testo non permetterebbe di capire se il riferimento sia all’etrusco, al lidio o al greco. 42 Così giustamente Briquel 1991, 253, n. 28. 43 Il supposto slittamento dall’originario eorumque all’attuale eorundem potrebbe essere stato favorito dalla vicinanza con l’eandem che si legge poco dopo. 44 Per questo la restituzione di un semplice eos mi sembra più convincente di altre, come un nome generico (ad esempio incolas), che in teoria potrebbero pure ipotizzarsi.
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Bisogna tuttavia riconoscere che l’espressione sermonem ceperit non soddisfa, né linguisticamente né storicamente. Sembra assai improbabile che Catone (o la sua fonte) potesse affermare che gli Etruschi fondatori di Pisa abbandonarono la propria lingua e adottarono quella degli indigeni vinti: questo appare tanto più improbabile dal momento che lo stesso Catone diceva di non sapere chi fossero (e dunque a maggior ragione quale lingua parlassero) questi indigeni. In ogni caso, l’altra fonte citata da Servio nel passo ricordato riteneva che il nome Pisae fosse da riportare alla Lydia lingua, il che sembrerebbe adombrare la lingua degli Etruschi venuti dalla Lidia. Se dunque il tràdito sermonum ceperit deve considerarsi corrotto, l’emendamento più probabile appare regionem ceperit, che riprende la sostanza di una vecchia proposta del Cluverius (eorundem regionem occupaverit)45. La presenza della parola regio, o di un suo sinonimo, sembra presupposta dall’espressione eandem regionem che ricorre nella parte finale della frase: non si potrebbe parlare della “stessa regione” se in precedenza non se ne era fatta una qualche menzione. Non può costituire una seria difficoltà il fatto che con questa restituzione si dovrebbe ammettere la ripetizione della stessa parola a breve distanza (regionem ceperit / eandem regionem... possederint): basti il confronto con l’analoga ripetizione della parola oppidum presente più avanti nello stesso passo del Servio Danielino (Aen. X 179: alii incolas eius oppidi Teutas fuisse, et ipsum oppidum Teutam nominatum ... dixerunt). In definitiva si può proporre per il fr. 45 P. delle Origines il seguente testo: Cato originum , qui Pisas tenuerint ante adventum Etruscorum, negat sibi compertum, sed inveniri Tarchonem, Tyrrheno oriundum, postquam <eos expulerit (sive subegerit)> eorum regionem ceperit, Pisas condidisse, cum ante regionem eandem Teutanes quidam, Graece loquentes, possederint. Questa ricostruzione, e il quadro in tre fasi che se ne evince, ci permettono di valutare i criteri e le finalità ideologiche con cui Catone rielaborò le informazioni di cui disponeva. 45 A ragione Briquel 1991, 254, n. 30 osserva che la restituzione del Cluverius (da lui attribuita al Salmasius), con eorundem senza collegamento a un sostantivo o pronome precedente, non può essere accolta; ma se si accetta la mia proposta di restituzione, eorumque si aggancerebbe al precedente <eos expulerit>. Decisamente meno convincenti e più difficili da giustificare filologicamente appaiono le restituzioni del Salmasius (postquam eorum locorum dominium ceperit) e del Jordan (postquam locum desertum manu ceperit). In una lettera del 29 dicembre 1982 il compianto Vincenzo Tandoi mi prospettava la possibilità di un emendamento eorundem desertores ceperit: «ne verrebbe fuori che Tarcone aveva fondato Pisa stanziandovi dei disertori etruschi da lui catturati». La proposta, però, non risolve la difficoltà di eorundem che ho segnalato sopra e farebbe di Tarchon non già il capo degli Etruschi, ma il loro avversario.
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Per Pisa esistevano certamente già da tempo radicate tradizioni su una sua origine greca; nate quasi certamente dal facile accostamento con l’omonima città dell’Elide e forse anche da una qualche memoria di una reale frequentazione focea di età arcaica, esse si erano andate strutturando soprattutto intorno alle figure di Pelope, Nestore ed Epeo e parlavano tutte di una fondazione greca della città46. Che fossero anteriori a Catone sembra potersi dedurre dal fatto che Pisa figuri come città di fondazione greca anche in Giustino, che tramite Pompeo Trogo attingeva probabilmente a fonti greche di IV e III sec. a.C.47 Catone fa tabula rasa di queste tradizioni, dice esplicitamente che Pisa fu fondata solo dagli Etruschi e relega la presenza greca nella zona a una vaga fase preurbana, affidandola a un’altrettanto vaga popolazione (Teutanes quidam), che non definisce esplicitamente greca, ma semplicemente parlante greco (Graece loquentes) e per la quale, anziché ricorrere a nomi greci noti, adduce un nome di cui forse egli stesso sa che non è greco48. Ma, a smentire in modo categorico e definitivo qualsiasi pretesa di continuità greca della città49, inserisce tra la remota fase dei Teutanes e quella ancora attuale degli Etruschi una fase oscura in cui la regione fu in mano a una popolazione di cui si ignora tutto. Questi innominati predecessori diretti degli Etruschi sembrano corrispondere ai Liguri menzionati da Licofrone (1359 ss.) e da Giustino (XX 1,11): forse Catone mostra di ignorarli in modo intenzionale e ostentato, coerentemente con la sua presentazione negativa e sprezzante dei Liguri50. Diversamente dagli autoctoni Aborigeni e Sabini, che possiedono un patrimonio di mores di cui Catone si mostra fiero, questi indigeni sono barbari inaffidabili 46 V.
da ultimo Bonamici 1995; Corretti 1998; Ampolo 2003. Iust. XX 1,11 (Pisas in Liguribus Graecos auctores habent). Briquel 1991, 113 s. e n. 91, 249, sulle orme della Sordi, pensa che la fonte sia Teopompo; ma si potrebbe pensare anche a Timeo (cfr. Moretti 1952). 48 Cfr. nota 36 per l’opinione di Prosdocimi e Briquel. Convincono poco i confronti greci addotti, sia pure con cautela, da Corretti 1998, 102-106 e da Ampolo 2003, 40. 49 Secondo Briquel 1991, 266, «...le fait qu’ils [= les Étrusques] succèdent aux Teutones hellénophones ne signifie assurément pas qu’ils soient hostiles à l’hellénisme: au contraire les deux couches de peuplement se superposent et renforcent, conjointement, l’hellénisme de la cité». La forzatura è palese: non siamo certi che anche per Catone, come per l’altra fonte citata dal Servio Danielino, la migrazione di Tarchon venisse dalla Lidia; in ogni caso, sembra sicuro che per Catone gli Etruschi non erano Pelasgi, e quindi non erano Greci (contro l’ipotesi in tal senso della Chassignet [1986, 73; 1987, 292], accolta anche da Beck - Walter 2001, 183, v. soprattutto Briquel 1991, 249 s.). Sia che li considerasse autoctoni di un’altra regione italiana, sia che li considerasse immigrati dalla Lidia, certo per Catone gli Etruschi non erano Greci. 50 Cato orig. fr. 31 P. (= II 1 Ch.; 34 C.): sed ipsi unde oriundi sunt exacta memoria, inliterati mendacesque sunt et vera minus meminere; fr. 32 P. (= II 2 Ch.; 35 C.): Ligures autem omnes fallaces sunt, sicut ait Cato in secundo originum libro… 47
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di cui non si sa nulla, di cui non si conservano memorie e che quindi non possono essere neppure nominati. Anche se nella visione di Catone gli Etruschi sembrano rimanere estranei alla vagheggiata unità italico-romana fondata sui mores dei Sabini, appare significativa la sua preoccupazione di ridurre e marginalizzare comunque la presenza greca in Italia al di fuori delle colonie greche di età storica, negando per essa qualsiasi continuità col presente. 4.2. Falerii (fr. 47 P.) Alla luce di questo primo importante risultato, esaminiamo ora il breve frammento catoniano su Falerii, tratto da Plinio51: intus (scil. in Etruria) coloniae Falisca Argis orta, ut auctor est Cato, quae cognominatur Etruscorum... In questo caso, pur nell’estrema laconicità dell’enunciato, si attribuisce senza ambiguità a Catone l’affermazione dell’origine argiva di Falerii. Ma la cosa non può sorprendere, se si considera la precisazione quae cognominatur Etruscorum, che potrebbe pure risalire a Catone: evidentemente la città era presentata come fondazione greca, secondo una tradizione solidamente attestata incentrata sulla figura dell’eponimo Halaesus52, ma si sottolineava che poi ai Greci erano subentrati definitivamente gli Etruschi. Ma quand’anche non si voglia ammettere che l’inciso quae cognominatur Etruscorum sia da attribuire a Catone anziché a Plinio, resta il dato di fatto incontrovertibile che al tempo di Catone la città di Falerii Veteres a cui si riferiscono queste notizie, fosse essa rimasta fino alla fine greca o fosse divenuta etrusca, non esisteva più, essendo stata rasa al suolo nel 240 a.C., in seguito alla sua ribellione al termine della prima guerra punica, ed era stata sostituita dalla nuova città di Falerii Novi, ormai una comunità romana53. Questo può spiegare come mai Catone, anziché sfruttare la presenza nella città di un culto di Iuno Curitis, che gli avrebbe agevolmente consentito di negare la grecità di Falerii e di legarla piuttosto alla Cures dei “suoi” Sabini54, preferì accettare le tradizioni che usavano la dea, tramite l’accostamento ad Hera Argiva, per collegare la città ad Argo. In questo modo poteva dimostrare ancor più nettamente il suo “teorema”: anche nei pochi casi in 51 Plin.
nat. III 8,51 (Cato orig. fr. 47 P. = II 18 Ch.; 51 C.). I 21; Verg. Aen. VII 723; Sol. 2,7; Ov. fast. IV 73-74; Serv. Aen. VII 695. Cfr. Briquel 1984, 347-350, che a p. 350 sottolinea come la grecità di Falerii, ricordata anche da Giustino (XX 1,3), dovesse essere già nella sua fonte ultima, a suo giudizio Teopompo (v. supra, n. 46); Briquel 1994. 53 Pol. I 65,2; Liv. per. XX; Val. Max. VI 5,1; Oros. hist. IV 11,10; Eutr. II 28; Zon. VIII 18. Cfr. Loreto 1989; Aa.Vv. 1990. 54 D.H. I 21; Ov. am. III 13,35; fast. VI 49. 52 D.H.
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cui una presenza greca in Italia si può ammettere, essa non ha continuità col presente, e quindi resta del tutto estranea all’unità morale romano-italica. 4.3. Tibur (fr. 56 P.) Nel caso di Tibur la strategia adottata da Catone appare diversa, ma finalizzata allo stesso risultato. Il fr. 56 P., conservato da Solino, recita infatti: Tibur, sicut Cato facit testimonium, a Catillo Arcade (scil. conditum), praefecto classis Evandri, sicut Sextius, ab Argiva iuventute...55. Come si vede, Catone ammetteva le origini greche di Tibur, ma anziché accogliere la versione più diffusa, che faceva riferimento a fondatori argivi considerati figli dell’eroe Anfiarao56, riportava la fondazione della città a uno degli Arcadi di Evandro. Mi sembra evidente, in questa correzione, l’intenzione di “economizzare” sulle presenze greche da ammettere nel Lazio, in pratica riducendole alla sola componente arcade, già ammessa per Roma. D’altra parte, pur non potendolo dimostrare, non escluderei che per Tibur già in Catone lo strato arcade primitivo risultasse sommerso e soppiantato da una successiva espansione sabina, come potrebbero far sospettare alcuni riferimenti alla sabinità di Tibur presenti in Catullo e Orazio57. In questa prospettiva anche la notizia pliniana che colloca Tibur nella Sabina potrebbe riflettere un filone della tradizione storico-antiquaria risalente a Catone, anziché essere un puro errore scaturito, per dirla col Dessau, inde quod Tiburtini ab Augusto non, ut reliqui Latini, regioni Italiae primae, sed, ut Sabini, regioni quartae adtributi erant58. Al contrario, l’esistenza di una tradizione storicoantiquaria sulla sabinità o la sabinizzazione di Tibur potrebbe essere la causa della decisione augustea di attribuire Tibur alla regio IV.
55 Sol.
2,7 (Cato orig. fr. 56 P. = II 26 Ch.; 60 C.). Aen. VII 670-674; Serv. Aen. VII 672; Hor. carm. I 7,13; 18,2; II 6,5 (con le note di Porfirione); Plin. nat. XVI 87,237; Sol. 2,7-8. Sulla tradizione v. soprattutto Lapini 1998 (giustamente severo nei confronti di Laneri 1995); Briquel 1997. Anche se l’ignoto Sestio citato da Solino sembra un autore molto posteriore a Catone, visti gli evidenti calchi virgiliani (Lapini 1998, 469), la leggenda argiva di Tibur dev’essere stata elaborata nella fase libera della città, dunque molto prima che Catone componesse le Origines; come nel caso di Falerii, lo spunto dovette essere offerto da un accostamento tra il culto locale di Iuno Curitis e quello di Hera Argiva (Briquel 1997, 67). 57 Catull. 44,1-7; Hor. carm. III 1,47; II 18,14; sat. II 7,118, in riferimento alla sua villa nel territorio di Tibur. Cfr. Uda 1990; Traina 1993-1994, 611-612. Inoltre i sacerdoti del famoso Hercules Victor di Tibur portavano il nome di cupenci, che secondo Serv. Aen. XII 538 era un nome sabino. 58 Plin. nat. III 17,107; cfr. H. Dessau in CIL XIV 365. 56 Verg.
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4.4. Petelia (fr. 70 P.) Con Petelia ci troviamo ormai di fronte ad un contesto totalmente diverso, quello della Magna Grecia, in cui le città erano state davvero fondate, in epoca storica, da Greci, anche se poi molte di esse erano state occupate da popolazioni italiche (Campani, Lucani, Brettii, Mamertini). Era questo anche il caso di Petelia, probabile subcolonia di Crotone presso l’attuale Strongoli, che la tradizione diceva fondata dall’eroe Filottete, ma occupata successivamente dai Lucani59 e infine importante centro dei Brettii (Bruttii per i Romani). La città si era poi distinta nella seconda Guerra Punica per la strenua resistenza che all’indomani di Canne, nel momento più nero per le fortune di Roma, aveva saputo opporre ad Annibale, che per questo l’aveva punita assegnandone gli abitanti come schiavi ai suoi soldati60, tanto che si sarebbe tentati di includere Petelia tra le popolazioni dell’Italia meridionale che si erano guadagnate la definizione catoniana di populi et boni et strenui61. In un passo di grande interesse, Appiano afferma che Annibale non si fidava dei Brettii “in quanto Italici della stessa stirpe di Scipione” (deivsa~ ... peri; Brettivwn wJ~ jItalw`n oJmoeqnw`n Skipivwni)62. Questa notizia sembra giustificare il sospetto che l’affinità etnica tra Romani e Bruzi non fosse solo un’idea di Annibale, ma fosse stata invocata sia dai primi che dalle fazioni filoromane dei secondi nel corso della guerra, mentre dopo la sua conclusione Roma non era più interessata a sottolinearla, o tutt’al più la presentava come un’aggravante per il comportamento di chi si era schierato con Annibale. Probabilmente nelle Origines Catone si proponeva invece di ribadirla, per rinsaldare il legame incrinato superando diffidenze e recriminazioni di cui avvertiva con lucidità tutti i rischi, e per questo esaltava quelli tra i Bruzi che erano rimasti costantemente fedeli a Roma, come gli abitanti di Temesa, 59 Strab. VI 1,3,254 (che cita come fonte Apollodoro); per la fase lucana, che propone di collocare nel primo ventennio del IV sec. a.C., cfr. Luppino 1980, 44. Sulla fondazione da parte di Filottete v. anche Verg. Aen. III 402; Sol. 2,10. Per le tradizioni legate a Filottete v. Maddoli 1989; De la Genière 1991; Malkin 1998. In generale per la storia di Petelia prima della fase lucana e brettia v. da ultimo La Torre 2002. 60 Cfr. App. Hann. 57,239-240. Per l’eroica resistenza della città, protrattasi per undici mesi, v. Liv. XXIII 20,4-10; 30,1-4 (216-215 a.C.); Pol. VII 1,3; Val. Max. VI 6 ext. 2; Frontin. strat. IV 5,18; App. Hann. 29,123-127; cfr. Costabile 1984, 81-83. 61 Cato orig. fr. 73 P. (= III 8 Ch.; 78 C.). 62 App. Pun. 47,205. Devo la segnalazione, di cui gli sono molto grato, a Federico Russo, che sulla scia di una sua importante ricerca sui rapporti tra Taranto, i Sanniti e Roma (Russo 2007 citato a n. 12), sta ora studiando la presenza di motivi ideologici come la parentela o l’affinità etnica nei rapporti tra i Romani e le altre popolazioni dell’Italia antica.
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o erano rientrati per tempo nei ranghi, come i duodecim populi di cui parla Livio63. Credo che in queste premesse vada cercata la spiegazione delle affermazioni su Petelia che troviamo in un frammento delle Origines conservato dal Servio Danielino64: ait Cato a Philoctete condita iam pridem civitate murum tantum factum. Catone, dunque, non si accontentava di sottolineare che la città greca non esisteva più, sostituita dalla valorosa città lucano-bruzia, ma confutava la tradizione che la voleva fondata da Filottete, riducendo il ruolo dell’eroe alla costruzione di una cinta muraria. Anche Petelia poteva a pieno titolo essere inclusa nell’Italia dei mores romano-sabini esaltata da Catone, senza che in questo il remoto apporto greco avesse alcuna reale rilevanza. 4.5. Tauriani (fr. 71 P.) Una situazione per molti aspetti simile si riscontra nel fr. 71 P., conservato da Probo65: item Cato originum III: †Thesunti (varianti Theseunti e Thelunti) Tauriani vocantur de fluvio, qui propter fluit. Id oppidum Aurunci primo possederunt, inde Achaei Troia domum redeuntes. In eorum agro fluvii sunt sex; septimus finem Rheginum atque Taurianum (codd. Taurinum) dispescit: fluvii nomen est Pecoli. Eo Orestem cum Iphigenia atque Pylade dicunt maternam necem expiatum venisse, et non longinqua memoria est, cum in arbore ensem viderint, quem Orestes abiens reliquisse dicitur. Appare evidente che il tràdito Thesunti (o Theseunti, o Thelunti) è corrotto, ma i tentativi di emendarlo finora proposti non sembrano soddisfacenti. Il Maddoli, accostando la doppia fondazione aurunca e greca di quest’oppidum alla doppia fondazione ausone e greca data da Strabone (VI 1,5,255) per Temesa, propose di restituire Tem(e)saei, supponendo in Catone o nella sua fonte Timeo una confusione fra la regione tauriana settentrionale testimoniata dallo stesso Strabone (VI 1,3,254) per l’entroterra di Thurii, e la Tauriana meridionale ubicata intorno al fiume Metauro-Petrace66. 63 Liv.
XXV 1,2, citato anche più avanti, a n. 71, per i Tauriani. auct. Aen. III 402 (Cato orig. fr. 70 P. = III 3 Ch.; 75 C.). Per Russi 1988, 48, «il collegamento con Filottete potrebbe essere sorto ... dopo la guerra annibalica, per nobilitare con una ktisis mitica una cittadina tanto benemerita nei confronti di Roma», che in realtà sarebbe stata fondata solo nel IV sec. a.C. dai Lucani. Ma ancora nella prima metà del II sec. a.C. la lista dei theorodokoi delfici, includendo Petelia, mostra che essa era ancora considerata una polis italiota con istituzioni elleniche, il che sarebbe oltremodo improbabile se fosse stata solo una fondazione lucana (Costabile 1984, 82 s., cfr. A. Plassart, in “BCH” 1921, 24 ss.). 65 Prob. praef. in Verg. Buc. p. 326 H (Cato orig. fr. 71 P. = III 4 Ch.; 76 C.). 66 Maddoli 1977. 64 Serv.
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La debolezza di questa proposta, che per sussistere deve postulare una confusione difficilmente credibile in Catone e ancor meno in Timeo, appare evidente; tra l’altro, anche ammesso che essa possa spiegare il passaggio della parte iniziale della parola da Tems- a Thes-, non riesce a dare alcuna plausibile spiegazione della supposta trasformazione della parte finale da -aei a -unti. Successivamente Daniele Castrizio ha pensato a Taisia, centro di difficile localizzazione non lontano da Reggio, e ha proposto di emendare Theseunti in Taesiati67. Anche questo emendamento è improponibile, sia perché, come ha rilevato il Cordiano, Taisia sembra da localizzare a Sud di Reggio anziché a Nord68, sia perché dalla forma latinizzata Taesia ci si aspetterebbe semmai una forma Taesiates, in cui molto difficilmente la desinenza in -ates potrebbe trasformarsi in -ati. Piuttosto sorprendente è la proposta di Felice Costabile, secondo il quale, in un possibile archetipo di Probo scritto in grafia semionciale, un originario ORIGINVMAMERTINITAVRIANI, da intendere come originu(m) Mamertini Tauriani, avrebbe subito la caduta delle prime due lettere di Mamertini (la M perché considerata erroneamente come desinenza di originum, che in realtà era abbreviato in originu(m), la A perché non più capita) e l’alterazione di MERTINIT in Thesunti o Thelunti: la M semionciale sarebbe stata letta come TH, la R parzialmente evanida ora come S ora come L, il gruppo TI come U, mentre il gruppo IT, costituito originariamente dalla I finale di Mamertini e dalla T iniziale di Tauriani, sarebbe stato invertito meccanicamente in TI69. La proposta, per quanto macchinosa, è indubbiamente affascinante, ma incontra difficoltà che ritengo insormontabili. 1) Nella ricostruzione del Costabile bisognerebbe ammettere che nel testo originario si leggesse semplicemente Cato originum (scil. libris), che è forma quanto mai improbabile; il confronto addotto col fr. 45 P. non è probante: come si è visto al § 4.1, essendo quello l’unico esempio di un uso così anomalo, è più ragionevole supporre che nel testo di Probo sia caduto meccanicamente il numero del libro e che si debba restituire Cato originum . 2) Poiché in realtà nel testo tràdito non si legge originum Thesunti Tauriani, ma originum III Thesunti Tauriani, risulta difficile ammettere l’erronea attribuzione alla finale di originu(m) della supposta M iniziale di Mamertini, possibile solo se le due parole, originu(m) e Mamertini, erano immediatamente contigue. In ogni caso, bisognerebbe poi giu67
Castrizio 1995, 29-34. Cordiano 2004, 26. 69 Costabile 1999, 8, figg. 5-6. 68
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stificare come l’originaria A dopo la M possa essersi trasformata meccanicamente nella cifra III, che – guarda caso – corrisponde proprio al numero del libro in cui davvero doveva trovarsi la notizia! 3) Se davvero la I finale di un originario Mamertini e la T iniziale di Tauriani, in ordine invertito, hanno dato luogo alla finale TI del tràdito Thesunti o Thelunti, la parola successiva avrebbe dovuto suonare Auriani e non Tauriani. Ritengo dunque che anche l’emendamento proposto dal Costabile debba essere respinto. Non c’è dubbio, però, che egli ha pienamente ragione nel localizzare nella zona di Tauriana-Palmi, a Sud del Metauro-Petrace, l’area di cui parla Catone e nel collegare la sua notizia alla presenza in essa dei Mamertini, testimoniata dalla celebre testimonianza di Festo su Alfio e da quella di Strabone sull’esistenza di una città Mamertion nella mesogaia che sovrasta Reggio e Locri70. Ricordo infine la restituzione proposta dal Cordiano, secondo il quale il tràdito Theseunti non sarebbe altro che una traslitterazione del greco qhteuvonte~ e indicherebbe, nell’ottica sprezzante della fonte greca di ispirazione reggina utilizzata da Catone, l’originario status di dipendenti salariati proprio dei Mamertini e dei Brettii71. Per quanto brillante e suggestiva, anche questa proposta si rivela fragile. Innanzi tutto non si vede perché da thet- (in cui la -t- è parte essenziale e insostituibile della radice) si sarebbe passati a thes-, né perché l’originario -euont- si sarebbe ridotto a -eunt- o -unt-; ancor meno persuade la supposta nascita di un’inverosimile forma in -onti da una originaria forma in -ontes, propria di un participio greco che poteva suonare familiare anche a orecchie latine, se non altro grazie al teatro. In secondo luogo, mi sembra molto improbabile che la frase potesse avere una formulazione contratta e sibillina come quella supposta dal Cordiano: qhteuvonte~ Tauriani vocantur de fluvio suonerebbe qualcosa come «i salariati sono chiamati Tauriani» (va escluso l’inverso, «i Tauriani sono definiti salariati», per la precisazione de fluvio, che fa palesemente riferimento al nome del Me-tauros, da cui sarebbe derivato quello dei Tauriani). Come minimo si richiederebbe l’enunciazione di un soggetto maschile plurale, cioè di uomini a cui riferire il participio qhteuvonte~ e di cui si potesse dire che avevano ricevuto il nome di Tauriani; e ci si aspetterebbe anche che fosse 70 Fest. p. 150 L.; Strab. VI 1,9,261; cfr. Costabile 1999, 9-12, con la proposta di considerare esatta l’identificazione erudita moderna di Mamertion con Oppido (che appunto per questo fu ribattezzata nel secolo scorso Mamertina). 71 Cordiano 2004.
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precisato chi erano gli antichi padroni di questi salariati. Mi sembra infine assai difficile che guerrieri mercenari come i Mamertini potessero essere designati semplicemente come “salariati”, con un termine di norma applicato solo alle pacifiche attività manuali di artigiani, contadini e pastori. Non credo poi che si possa a cuor leggero affermare che Catone facesse proprio senza batter ciglio l’atteggiamento sprezzante e rancoroso nei confronti dei Brettii che il Cordiano attribuisce alla sua supposta fonte greca, tanto più se si considera che i Tauriani figuravano tra i duodecim populi bruzi che nel 213 a.C., in piena guerra annibalica, tornarono all’alleanza con Roma dopo una breve defezione72. Questo mi induce piuttosto a pensare che anche i Tauriani, come i Petelini, fossero per Catone tra i populi et boni et strenui del fr. 73 P. Credo quindi che la soluzione del problema testuale vada cercata altrove. Per l’area del Metauro-Petrace l’incipit del frammento sembra contrapporre la situazione presente, rappresentata dalla comunità dei Tauriani di stirpe mamertina, a quella di un passato chiuso per sempre, che aveva visto la presenza dei Greci. In questo contesto, le vestigia del passaggio di Oreste dovevano assumere quasi il valore di trofei destinati ad esaltare la vittoria degli Italici che avevano cacciato o sottomesso i Greci ed ora erano signori del luogo. Per questo sospetto che la strana terminazione dello pseudoetnico Thesunti celi in realtà il verbo sunt in un’espressione che designasse coloro che al tempo di Catone abitavano nel territorio a Sud del Metauro. A titolo di esempio si potrebbe proporre T sunt Tauriani vocantur de fluvio qui propter fluit, ma non escludo che, a partire dal verbo sunt, si possano trovare soluzioni migliori. Sarei tentato di collegare questa notizia al fr. 68 P. (praeterea interisse Thebas Lucanas Cato auctor est)73 e di restituire The sunt etc., o meglio ancora The sunt Tauriani vocantur de fluvio qui propter fluit, supponendo il salto meccanico di un’intera linea. Naturalmente la I finale del tràdito Thesunti sarebbe stata aggiunta a sunt quando la caduta di questa linea si era già verificata e il thesunt che ne era nato poteva dare un senso solo con un intervento normalizzatore che gli desse l’apparenza di un etnico al nominativo maschile plurale74.
72 Liv.
XXV 1,2. nat. III 15,98 (Cato orig. fr. 68 P. = III 2 Ch.; 74 C.). La notizia dell’esistenza di una città lucana di questo nome, come in Plinio senza elementi per una localizzazione più esatta, torna solo in Steph. Byz., s.v. 74 La nascita della variante Theseunti presumibilmente fu favorita dall’ «influsso del nome Theseus su copisti semidotti» (Maddoli 1977, 274). 73 Plin.
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Osservo tra l’altro che, ipotizzando nella parte di testo caduta la menzione esplicita dell’oppidum, si spiegherebbe meglio, nel prosieguo del passo, la ripresa id oppidum. La restituzione implicherebbe in Catone la consapevolezza che il territorio tauriano, al suo tempo bruzio o mamertino, in precedenza (cioè prima della secessione brettia del 356 a.C.) fosse stato lucano, come Strabone sapeva per Petelia, e che la città greca di Thebae, conquistata dai Lucani, fosse scomparsa o avesse cambiato nome prima che potesse dirsi bruzia: la precisazione etnica, fosse essa “lucana” o “bruzia”, era avvertita come necessaria finché la città portava un nome uguale a quello delle più celebri città esistenti in Beozia, in Egitto e in Acaia, ma diveniva superflua una volta che essa era stata ridenominata Taurianum o Tauriana. Non può costituire un serio ostacolo il fatto che Plinio attribuisca questa città greca scomparsa alla Lucania, dal momento che nello stesso passo egli menziona come città lucana scomparsa anche Pandosia, che si trovava nella mesogaia all’altezza di Aprustum, della quale lo stesso Plinio, nel passo citato, dice mediterranei Bruttiorum Aprustani tantum. Quale che sia la soluzione, ritengo che anche il fr. 71 P. confermi la tendenza già rilevata di Catone a sottolineare, in tutti i casi in cui ciò era possibile, la cacciata o la marginalizzazione dell’elemento greco da parte di quello italico.
5. Casi in cui Catone nega del tutto l’apporto greco Vorrei concludere questa panoramica con un semplice accenno ai casi in cui la documentazione disponibile ci consente di affermare che Catone, in presenza di tradizioni grecizzanti, non si limitava a ridimensionare l’apporto greco nelle origini di una città, o a sottolinearne la mancanza di continuità col presente, ma lo negava del tutto, come aveva fatto per i Sabini, contrapponendo alle saghe greche tradizioni puramente italiche. Così nel Lazio la fondazione di Praeneste è da lui attribuita direttamente a Caeculus, figlio di Vulcano (fr. 59 P.), anziché a un Praenestes figlio di Latino e nipote di Ulisse75, e in Campania Nola è detta fondata dagli Etruschi (fr. 69 P.) anziché dai Calcidesi76.
75 Schol. Verg. Veron. Aen. VII 781 (Cato orig. fr. 59 P. = II 29 Ch.; 65 C.). Per l’altra versione v. Sol. 2,9. Cfr. Bremmer 1987; Deschamps 1988; Capdeville 1995, 41-59. 76 Vell. I 7,2 (Cato orig. fr. 69 P. = III 1 Ch.; 73 C.). Per l’origine calcidese v. Iust. XX 1,13; Sil. XII 161. Cfr. Donceel 1962; Traina 1993-1994, 88 s.
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6. La componente troiana Resta ancora da precisare quale fosse il significato ideologico della componente troiana nelle origini italico-romane, la cui presenza è accolta senza riserve da Catone non solo per Roma (frr. 4-5 e 8-11 P.), ma anche per altri centri del Lazio come Politorium (fr. 54 P.) e per i Veneti (fr. 42 P.). Se è esatto quanto ho detto finora sull’atteggiamento di Catone verso le tradizioni relative alle componenti greche, difficilmente la componente troiana poteva equivalere per lui ad una patente di quasi grecità. Sembra più logico supporre che Catone accettasse piuttosto il ruolo di avversari irriducibili dei Greci che i Troiani avevano assunto nella polemica antiromana fin dal tempo di Pirro, anche se, trasposto in un’ottica romana, questo diventava il fondamento del potere mondiale dei Romani, destinati come discendenti dei Troiani a vendicare la distruzione della città di Priamo e a prevalere in modo definitivo sui Greci.
7. Conclusioni Spero che queste mie riflessioni possano costituire un contributo di qualche peso per una migliore comprensione del quadro etnografico delle Origines e del suo valore ideologico. In particolare spero di essere riuscito a dimostrare che non basta la presenza di qualche nome di popoli o eroi fondatori greci nei magri frammenti conservati per dimostrare, come spesso si è sostenuto, che Catone non avesse alcuna difficoltà ad accogliere leggende di fondazione greche e che quindi nelle Origines non ci fosse un’ideologia “italica”. Al contrario, la sua preoccupazione di limitare e ridimensionare sistematicamente la presenza greca, negarla del tutto o presentarla come marginale e perdente, ammettendola solo per sottolineare una forte soluzione di continuità rispetto al presente in cui è completamente cessata, si spiega solo con un sistematico e coerente programma ideologico di “invenzione del passato” in funzione dell’unità romano-italica centrata sui Sabini, di cui le Origines erano espressione.
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Ecquando communem hanc esse patriam licebit? (Liv. III 67,10): Livius’ Geschichte als einheitsstiftender Faktor* 1 Chrysanthe Tsitsiou-Chelidoni
Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus. (Liv. XLIII 13,2)
Livius’ Werk, soweit erhalten, dokumentiert den Glauben des Autors an das prädestinierte Schicksal Roms, einst zum Haupt der Welt zu werden. Der Erfolg und die Herrschaft der Römer wird allerdings bereits in der praefatio zum ersten Buch auf moralische Werte zurückgeführt (Liv. I praef. 9). Die Römer hätten jedoch, meint Livius, ihre guten und so erfolgreichen Sitten mit der Zeit verlassen (Liv. I praef. 9 und 12). Unser Historiker schreibt sein Werk gerade um die alte römische Moral wiederherzustellen (Liv. I praef. 10). * Mein Vortrag, ursprünglich präsentiert unter dem Titel Rom, die Römer und die “Anderen” im Werk des Titus Livius, wurde für die Drucklegung überarbeitet und ergänzt. Mein herzlicher Dank gilt allen Teilnehmern an der Diskussion, die im Anschluss an den Vortrag stattgefunden hat, und ganz besonders Prof. Michael von Albrecht, Prof. Alessandro Barchiesi, Prof. Stephen Harrison, Prof. Martin Jehne und Prof. Jean-Michel Roddaz. Frau Dr. Helga Köhler hat auch diesmal meinen Text von mehreren stilistischen und inhaltlichen Schwächen befreit, wofür ich ihr sehr dankbar bin. Jeder Mangel, der geblieben ist, muss ausschließlich mir zur Last gelegt werden. Wie Burck geschrieben hat (1966a, 321), “…von dem großen, einst 142 Bücher umfassenden Ge schichtswerk ist nur ein Viertel erhalten, und nicht einmal dies im kontinuierlichen Zusammenhang”. Siehe Liv. I 4,1; 16,7; IV 4,4; V 54,4; 54,7; XXVIII 28,11; Burck 1966a, 334-335, 337-338; Burck 1967, 111-114; Paschoud 1993, 132-133 mit Hinweisen auf die frühere Sekundärliteratur. Vgl. auch Cic. rep. II 5,10. Man hat festgestellt, dass Livius ganz besonders die römische pietas mit dem Erfolg Roms verbindet. S. dazu z.B. Levene 1993, 175. Vgl. auch Von Haehling 1989, 177: “Die Gegenüberstellung der unterschiedlichen Gesinnung zu den Göttern ist im Geschichtsdenken des Livius das Beurteilungskriterium für politisch-moralisch rechtes Handeln.” Dem Inhalt dieser praefatio gemäß befindet sich Rom in der Zeit des Livius im Stadium des Verfalls. Zu den Gründen des römischen Niedergangs nach der Ansicht des Livius s. Miles 1995, 77 (mit Anm. 5, wo auf die frühere Sekundärliteratur zum Thema verwiesen wird), 78-80 (mit Anm. 12). Siehe z.B. Burck 1967, 139: “Wie bei Vergil handelt es sich auch bei ihm darum, nach der auch im geistigen Raum unerhört turbulenten Zeit der Bürgerkriege und nach der denkerisch und gefühlsmäßig in höchstem Grade aufgelockerten und zersplissenen Caesarischen Periode durch Betonung einiger weniger großer virtutes die Klarheit des Deutens, die Sicherheit des Wertens und die Ruhe vertieften
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Im folgenden Artikel befasse ich mich mit der politischen Wirkung dieses Vorhabens. Es wird sich zeigen, dass die moralische Haltung, welche Livius für echt römisch hält und konsequent anpreist, seiner Einstellung nach zur Bildung einer kollektiven Identität bei seinen Lesern und somit zur Einheit innerhalb der Bevölkerung Roms, Italiens und des ganzen römischen Reichs entscheidend beitragen kann.
1. Unser Historiker erzählt in seinem ersten Buch u.a. die beachtenswerte Geschichte von Numa (Liv. I 18 sqq.). Numa war schon vor seinem Königtum in Rom für seine Tugenden (iustitia et religio) berühmt (Liv. I 18,1). Unter ihm hat die Stadt ihre zweite Gründung erfahren, die jedoch nicht mehr durch Waffengewalt (vi et armis), sondern durch Recht (iure), Gesetze (legibus) und Sitten (moribus) erfolgte (Liv. I 19,1). Er hat in den Herzen seiner Landsleute den Respekt vor den Göttern hervorgerufen (Liv. I 19,4). Die Menschen handelten daher anständig nicht aus Angst vor den strengen Gesetzen, sondern vor den gleichsam anwesenden Göttern (Liv. I 21,1). Aber auch Numa selbst war nach Livius ein einzigartiges Vorbild für seine Landsleute, die von selbst ihre Sitten nach ihrem König formten (Liv. I 21,2). Und was Numa für seine Landsleute war, war Rom für die Nachbarvölker; diese empfanden nämlich ein solches Schamgefühl vor der frommen Stadt, dass sie es für Frevel hielten, gegen sie Gewalt anzuwenden (Liv. I 21,2). Somit wurde der Frieden erhalten, den der Fühlens für seine Zeitgenossen wieder zu erwerben und zu erhalten”; ebenda, 143: “Die dramatische Form aber dient genau wie bei Vergil dazu, den Leser so stark als nur irgend möglich in den Kreis jenes psychischen Kräftespiels einzubeziehen und damit unter den Eindruck der großen virtutes zu stellen, die Rom vorwärts gebracht haben und die er als lebendige Kräfte in seinem Volke wiedererwecken will”; Von Haehling 1989, 188: “Gerade in diesem religiös-kultischen Erneuerungsprogramm begegnen sich Geschichtsschreiber und Staatsmann”; ebenda, 213: “…vielmehr will er durch seine Geschichtsschreibung auf seine Leser einwirken (praef. 10), sich an den bewährten Grundsätzen des mos maiorum wieder auszurichten, um somit an Roms ruhmreiche Vergangenheit anzuknüpfen”; Walsh 1982, 1066: “For Livy history is, in the Ciceronian phrase, the magistra vitae”; (ebenda, 1073): “For Livy, history is the battlefield of manners, a moral teacher providing lessons for community and personal life”. Vgl. die allgemeine Bemerkung von Von Haeling 1989, 11: “Das Ziel, die Vergangenheit objektivierend aus ihren eigenen Vorstellungen darzustellen, haben gerade antike Geschichtsschreiber nie angestrebt, zumal sie auf ihr Publikum über die Vermittlung einer politischen Tendenz oder moralischen Lehre einzuwirken suchten. Die Darstellung der Vergangenheit wird den drängenden Erfordernissen der jeweiligen Gegenwart dienstbar gemacht”. Livius wird allerdings oft als “argloses Gemüt, als politischer Laie eingestuft”. Siehe dazu Von Haehling 1989, 15 mit Anm. 27 (hier Verweise auf die entsprechende Sekundärliteratur). Die Wiedergabe des Inhalts des Textes des Livius basiert hier stilistisch auf den deutschen Übersetzungen von Hillen 1997 und von Feger 2003.
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König ohnehin gefördert hatte, indem er Freundschaft und Bündnisverträge mit den Nachbarvölkern geschlossen hatte (Liv. I 19,4). In der Geschichte, die Livius erzählt, erscheint Numa als das Vorbild par excellence, dessen Wirkung sich nicht bloß auf Rom erstreckt, sondern auch über die Grenzen der Stadt hinaus. Numas Moral, die zur Moral der Römer wird, hat eine ansteckende Kraft. Sie ruft eine ähnliche Moral bei ihren unmittelbaren Rezipienten (den Römern selbst) hervor mit der unausweichlichen Konsequenz, dass ihre mittelbaren Rezipienten (Roms Nachbarvölker) hochachtungsvoll gegenüber Rom und den Römern werden. Diese Moral, die von Numa und von Rom, der Stadt in der Mitte (in medio) ausgeht, ist also eine starke, kommunikative Kraft, die zur Vertiefung der bereits durch den politischen Akt der Bündnisse erreichten iunctio animorum (Liv. I 19,4) entscheidend beiträgt10. Im Livius’ Geschichtswerk bildet Numa nicht den einzigen Fall, in welchem ein Mann durch sein römisches Ethos Bewunderung, Respekt und eine entsprechende moralische Haltung bei den Menschen in seiner Umgebung hervorruft. Quinctius Cincinnatus, Quinctius Capitolinus und Furius Camillus beweisen auch, dass ihre römische moralische Haltung genauso wirksam sein kann. Zwischen 462 und 460 v.Chr. befindet sich Rom wieder einmal in einer schwierigen Lage: In der Stadt herrscht Zwiespalt zwischen dem Senat und der Plebs11. L. Quinctius Cincinnatus, ein tüchtiger und anständiger Mann, wird zum Konsul gewählt (Liv. III 19,2-3). In seinen Ansprachen – Livius gibt ihren Inhalt in direkter und in indirekter Rede wieder (Liv. III 19,4 sqq.) – erhebt er Vorwürfe gegen beide Stände
Wie Luce bemerkt (1977, 237), “the source for the view that Numa wished to use religion as a political device to weld together a disciplined nation is unknown”. Siehe jedoch Ogilvie 1965, zu Liv. I 18-21, S. 89: “…the picture of Numa as a great religious founder with many specific institutions to his name will already have taken shape by 400 B.C.…”; “The idea of divine sanction as a social instrument … was congenial to the Romans…”; ebenda, 90: “Numa wished to use religion as a political tool to secure a disciplined and harmonious community”; “…there are strong arguments for believing that L.’s source for Numa was Valerius Antias”. Iustitia und pietas stellen zwei wichtige Erscheinungen der Moral dar, welche Livius für typisch römisch hält. Siehe zu pietas Burck 1967, 128-129; zu iustitia ebenda, 131-133. Siehe auch hier Anm. 23, 38. 10 Die Kombination iungere animos wird von Livius als Synonym des Begriffes concordia gebraucht. Siehe Liv. II 1,11; 39,7. 11 Der Zwiespalt herrscht auf Grund des Gesetzentwurfes, den der Volkstribun C. Terentilius Harsa zur Einschränkung der konsularischen Amtsgewalt eingebracht hat (Liv. III 9,2-5). Die Situation eskaliert bis zum Punkt, an dem die Tribunen eine Rekrutierung verhindern (Liv. III 16,6), obwohl Verbannte und Sklaven das Kapitol besetzt haben (Liv. III 15,4-5). Ein Bürgerkrieg wird knapp vermieden (Liv. III 17,7-9), das Kapitol wird allerdings in erster Linie von den Tuskulanern gerettet (Liv. III 18).
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(Liv. III 19,4)12. Das Ziel der Rede, welche Livius wiedergibt13, leuchtet ein: Cincinnatus will Abneigung, wenn nicht sogar Hass, gegen die Tribunen wie auch gegen jeden hervorrufen, der die römische Gemeinschaft durch sein Verhalten zu Spaltung führt (vgl. Liv. III 19,4-5). Hinter den starken Gefühlen, die die Rede durchziehen14, erkennt man das Ethos des Redners: Seine wichtigste Motivation scheint ein patriotisches
12 In der hier überlieferten Rede ist die Sorge des Cincinnatus um den Staat erkennbar (Liv. III 19,4) – die Paraphrasierung des Textes von Livius beruht hier auf der deutschen Übersetzung von Fladerer 2003. Die Tugenden seien aus Rom vertrieben worden (Liv. III 19,5). Römer hätten sich innerhalb der Stadt wie Feinde verhalten. Die Tribunen hätten das Volk dem Feind zum Gemetzel vorgeworfen (Liv. III 19,6-7; 19,9); die Patrizier hätten nichts getan um diese Feinde vom Forum zu entfernen; das sei eine Schande (Liv. III 19,7). Keiner der Tribunen habe außerdem ein Gefühl dafür, dass Jupiters Tempel auf dem Kapitol genau wie das Zuhause jedes römischen Bürgers aus dem niedrigsten Stand vor den feindlichen Truppen geschützt werden müsse (Liv. III 19,9-10). In der Stadt herrsche der Zwiespalt, da die Tribunen einen Teil des Volkes gleichsam abgetrennt und zu ihrem Vaterland und zu einem Privatstaat gemacht hätten (Liv. III 19,9). Cincinnatus ruft mit seinen letzten Worten das Volk zum Kampf gegen die Aequer und Volsker auf, die in seinen Augen eine ständige Gefahr für Rom bedeuten (Liv. III 19,12). – Zu den Quellen des Livius s. Ogilvie 1965, zu Liv. III 19-21, S. 428-429: “L.’s treatment of his material differs in several particulars from D(ionysius) (of) H(alicarnassus). Instead of building up the character of Cincinnatus by direct narrative, L. allows it to be disclosed in a pair of speeches (19.4-12; 21.4-7) which are evidently original compositions designed for this very purpose”. 13 Die hier überlieferte Rede ist wahrscheinlich als eine kurze Zusammenfassung der Ansprachen zu verstehen, welche Cincinnatus in den Versammlungen vorgetragen haben soll (Liv. III 19,4). 14 Livius führt seine Wiedergabe der Ansprache von Cincinnatus durch einen Ausdruck ein, der keinen Zweifel an der zornigen Gesinnung des Redners erlaubt: is ut magistratum iniit, adsiduis contionibus pro tribunali non in plebe coercenda quam senatu castigando vehementior fuit… (Liv. III 19,4. Vgl. Cic. Tusc. IV 25,55). Cicero erklärt genau, wie man solche Gefühle (Zorn und Empörung) im Publikum erregen kann. Die von Livius überlieferte Rede des Cincinnatus bietet ein klares Beispiel dafür, wie die ciceronischen Vorschriften angewandt werden können – schon Ullmann (1927, 58 und passim) hat erkannt, dass sich mehrere rhetorische Vorschriften Ciceros in den Reden erkennen lassen, die Livius in sein Werk eingeführt hat. Der Redner soll erwähnen, schreibt Cicero, dass die Angelegenheit, um die es geht, einen sehr großen Teil der Bevölkerung betrifft und sich ausgerechnet gegen die Götter wendet, während man Respekt gegenüber diesen zeigen muss (Cic. inv. I 53,101; vgl. Liv. III 19,6; 19,10-11). Es muss außerdem gezeigt werden, dass die zu tadelnde Handlung als tyrannisch gilt (Cic. inv. I 53,102; vgl. Liv. III 19,5), und dass man gegen Freunde bzw. Leute handelt, mit welchen man sein Leben verbracht hat (Cic. inv. I 54,103; vgl. Liv. III 19,9). Darüberhinaus lässt der Vergleich der strafbaren Handlung mit anderen abscheulichen Taten das Verhalten der Gegner noch schrecklicher aussehen (Cic. inv. I 54,104; vgl. Liv. III 19,6). Man soll außerdem mit Nachdruck hervorheben, dass die Tat von dem begangen ist, von welchem sie am wenigsten hätte begangen werden dürfen, und von welchem sie, wenn sie ein anderer beginge, hätte verhindert werden müssen (Cic. inv. I 54,104; vgl. Liv. III 19,9-10). Zuletzt habe man noch zu unterstreichen, dass es sich nicht bloß um ein ungerechtes Verhalten handle, sondern dass mit dem Unrecht noch Schmach verbunden sei (Cic. inv. I 54,105; vgl. Liv. III 19,4; 19,7). (Der Wiedergabe des Inhalts von Stellen aus De inventione ist die Übersetzung von Nüsslein 1998 zugrunde gelegt.) Die Aufregung des Redners drückt sich außerdem hier in seinen Fragen (Liv. III 19,6-7; 19,10), wie auch im Gebrach von Synonymen (Liv. III 19,5) und ironischen Ausdrücken aus (Liv. III 19,9). – Zur Funktion der Affekte in einer Rede s. Cic. de orat. II 45,189-190; 45,193; Wisse 1989, 257-269; Wisse 1992, 223; Carey 1994, 33.
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Interesse zu sein. Cincinnatus ist bereit, einen Kampf gegen die Feinde zu führen, den er als den einzigen Weg zur Rettung der res publica vor der Katastrophe sieht. Seine Sehnsucht nach einer Zeit, in der die Tugenden (virtus, constantia) in Rom herrschten, liegt schließlich auf der Hand (Liv. III 19,5)15. Die Rede des Konsuls bewegte die Plebs, sagt Livius, und die Väter glaubten, dass nun die res publica wiederhergestellt sei (Liv. III 20,1). Der Prozess der Einigung vollzieht sich allerdings nicht ohne weitere Schwierigkeiten (Liv. III 20,6-21,1). Neue Streitigkeiten zwischen dem Senat und der Plebs bieten einige Jahre später (446 v.Chr.) den Aequern und den Volskern willkommene Gelegenheit zum Angriff. Der Konsul T. Quinctius Capitolinus tadelt in seiner Rede16 sowohl die Patrizier als auch die Plebeier wegen ihrer Zwietracht (Liv. III 67,6)17. Manche rhetorische Mittel dienen auch hier, wie früher im Fall von Cincinnatus18, dem Zweck, die Enttäuschung, den Abscheu und die Empörung des Redners über die Lage der Dinge in Rom auszudrücken19, wo die Gefahr der vollkommenen Zerstörung wegen der Zwietracht der Bevölkerung immer größer wird (Liv. III 67,3; 67,11; 68,2-3; 68,7-8). Auch diesmal zielt die Rede darauf ab, die Bürger zu ermutigen, den gemeinsamen Kampf im Namen und auf Grund der alten römischen Werte gegen die äußeren Feinde aufzunehmen (Liv. III 68,12-13). Gleichzeitig beweist Capitolinus sein pa15 Vgl.
auch Liv. III 26,7 sqq. (L. Quinctius Cincinnatus erscheint hier als vorbildhafter Römer). Zu dieser Rede s. Burck 1964, 48-50; Treptow 1964, 80-88; Ogilvie 1965, zu Liv. III 67-68, S. 517: “A speech on similar lines was evidently in D(ionysius) (of) H(alicarnassus) whose text is defective at this point, which implies that one stood in the history written by Valerius Antias”; Von Haehling 1989, 191. Nach Ullmann 1927, 51 “…mais le premier (sc. discours) d’une étendue considerable est prononcé par T. Quinctius Capitolinus de l’an 446 av. J. Chr…”; 56: “Pour ce discours nous n’avons aucune source existante”. 17 Schon seit langem, sagt Capitolinus, lasse die Lage der Dinge im Staat nichts Gutes ahnen (Liv. III 67,2); jetzt jedoch schwebe Rom in der größten Gefahr, denn die Rivalitäten zwischen den Vätern und dem Volk hätten die Stadt vergiftet (Liv. III 67,6). Im Namen des Vaterlandes aber auch in ihrem eigenen Interesse, mit Rücksicht auf ihr eigenes Leben und auf das Leben ihrer Familien müssen jetzt Väter und Plebs sich wieder einigen und den Kampf gegen die Feinde entschieden übernehmen (Liv. III 67,10-11; 68,2-3). Für den Sieg würden die Sitten der Vorfahren bürgen: Capitolinus versichert dem Volk, dass er die Plünderer vom römischen Land verjagen würde, sobald die Römer die alte Lebensart ihrer Väter angenommen hätten (Liv. III 68,12-13). (Die Paraphrasierung des Textes von Livius beruht stilistisch auf der deutschen Übersetzung von Fladerer 2003) 18 Siehe Burck 1964, 49-50: “Nach ihrem Gehalt und Zweck läßt sich diese Rede mit der des L. Quinctius Cincinnatus aus der ersten Buchhälfte (19,6-12) vergleichen, zu der sie auch eine Art kompositionelles Gegenstück darstellt”. 19 Liv. III 67,1-2; 67,4; 68,10-12 ist die Rede von abscheulichen und schändlichen Zuständen in der Stadt, welche Empörung und Enttäuschung erregen. Fragen (Liv. III 68,3-4), die sich manchmal aneinander anschließen (Liv. III 67,3; 67,10), dezisive Aufforderungen (Liv. III 68,1-2), Ausrufe (Liv. III 68,6) zeichnen den Zorn und die Aufregung des Redners nach (s. Lausberg 1990 §§ 767, 809). 16
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triotisches Ethos, indem er sich um die Lage in Rom (Liv. III 67,2; 67,6) und um das Gemeinwohl (Liv. III 68,3; 68,9-10) Sorgen macht. Auch diese Rede hat eine starke Wirkung: Nachdem man Capitolinus gehört hat, drängt die ganze römische Jugend auf Kampf und Krieg (Liv. III 69,1-2). Die Senatoren erkennen daher im Konsul unum vindicem maiestatis Romanae (den einzigen Schützer der römischen Würde und Hoheit; Liv. III 69,3), den Retter der Würde der Väter, der in seiner Rede die Eintracht der Stände herausgestellt habe (Liv. III 69,4)20. Die weithin bekannte, großangelegte Rede des Camillus, die das Ende des 5. Buches nach einem durchdachten Plan des Autors markiert, gibt einen weiteren Denkanstoß21. Im Jahr 390 erlöst Camillus die Römer von der Schande, weiterhin als Freigekaufte leben zu müssen (Liv. V 49,1-2). Unter seiner Führung kämpfen die Römer siegreich gegen die Feinde (Liv. V 49,37). Dann will jedoch das Volk – wie auch die Tribunen – das zum größten Teil zerstörte Rom verlassen und nach Veji übersiedeln (Liv. V 49,8; 50,8). Unter diesen Umständen beschwören die Senatoren Camillus, die Diktatur nicht niederzulegen (Liv. V 49,9). Camillus hält eine flammende Rede vor der Volksversammlung, um die Römer davon zu überzeugen, dass sie in ihrer Stadt bleiben und diese wieder aufbauen sollen22. Auch diese Rede soll also dem Gemeinwohl dienen und dazu beitragen, dass die plebs und die patres in Eintracht über die Lage Roms entscheiden. 20 Vgl. die Bemerkungen von Ullmann 1927, 58: “Le caractère noble et fier de l’orateur est bien dépeint par Tite-Live … Le premier discours d’une étendue considérable dans l’oeuvre de Tite Live est ainsi un beau spécimen de l’idéal que se fait l’auteur d’un Romain de la vieille roche…”. 21 Zu den Quellen dieser Rede s. Ullmann 1927, 63; Ogilvie 1965, zu Liv. V 51-54, S. 742: “That much of it is derived from an earlier source is clear from the parallel speech in Plutarch (Camillus 31) … It does not, however, follow from this … that the arguments used by Camillus, even if conventional, were not sincerely held by L. himself. The speech is not a mere reworking of material already employed by Claudius Quadrigarius. It is L.’s own work, designed to form a tail-piece to the first five books”. 22 In dieser Rede artikuliert Camillus zunächst seinen Widerwillen gegen die Rivalitäten der Senatoren mit den Volkstribunen (Liv. V 51,1). Was ihn interessiere, sagt er, sei das Schicksal des Vaterlandes (Liv. V 51,2). Pietas sei es, die es den Römern nicht erlaube, ihre Stadt zu verlassen. Gerade das jüngste Unheil Roms sei auf das ungerechte und frevelhafte Verhalten der Römer zurückzuführen (Liv. V 51,7). Rom sei von den Vätern als Zentrum der Götterverehrung konzipiert (Liv. V 52,2; 52,7; 52,13). Der Kult lasse sich nicht umsiedeln (Liv. V 52,6-7); eine Umsiedlung der Priester würde außerdem die Änderung ihrer Identität bedeuten (Liv. V 52,14). Der Kult präge das politische Leben, denn einige Verfahren, wie z.B. die Wahlen, seien mit geweihten Orten innerhalb der Stadt eng verbunden (Liv. V 52,16-17). Die Umsiedlung würde daher auch politische Unordnung mit sich bringen. Rom sei darüber hinaus das Zuhause aller Römer und ein wichtiges geographisches, kommerzielles und militärisches Zentrum, das von den Göttern gesegnet und für die Herrschaft in der Welt bestimmt sei (Liv. V 53,9; 54,2-7). Das Bild der Stadt Rom, die er Mutter der Römer nennt (Liv. V 54,2), soll die Herzen der Bürger rühren. Die Vorfahren, die aus dem Nichts eine große Stadt gegründet hätten, seien von Camillus’ Zeitgenossen als wegweisendes Vorbild zu nehmen (Liv. V 53,9). (Die Wiedergabe des Inhalts des Textes basiert zum größten Teil auf der deutschen Übersetzung von Fladerer 1993)
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Camillus gibt sich hier als Vertreter der alten römischen pietas zu erkennen23, denn er spricht mit Begeisterung von dieser von den Vätern vertretenen (Liv. V 52,3; 52,8) und von den Göttern stets belohnten Tugend (V 51,4-5; 51,9-10), die es den Römern nicht erlaube, ihre Stadt zu verlassen. Man erinnere sich, dass der Senat einem Antrag des Diktators zufolge die zerstörten Heiligtümer hatte restaurieren lassen, bevor dieser seine Rede vortrug (Liv. V 50,2). Auf Grund desselben Antrags sollten auch die Kapitoli nischen Spiele veranstaltet werden (Liv. V 50,3). Camillus ergeht sich in eine laudatio patriae24; denn, wie er am Anfang seiner Rede bemerkt, es geht um einen Kampf im Namen des Vaterlandes (pro patria dimicatio [Liv. V 51,2])25. Auch diese Rede soll die Römer sehr bewegt haben (Liv. V 55,1). Allerdings ist es erst die Deutung eines zufälligen Ereignisses als Vorzeichens, das Senat und Plebs zu dem endgültigen Entschluss führt, Rom wieder aufzubauen. Cincinnatus, Capitolinus und Camillus erscheinen als Führer in kritischen Phasen, in denen Rom gespalten ist. Das Endziel ihrer Reden ist im Grunde die Wiederherstellung der concordia ordinum26 im Namen der patria und im Dienst jeweils eines patriotischen Planes27. Ob allerdings dieser Plan erfüllt wird, dies hängt von zwei Voraussetzungen ab. Die erste ist deutlich in allen drei Reden ausgesprochen: Die Römer müssen bereit sein, eine konkrete Moral aufzuweisen bzw. zu respektieren, welche sie verlassen haben bzw. vorhaben zu verlassen, obwohl diese das Überleben, den Wohlstand und das Glück Roms sicherte (Liv. III 19,5; 67,5-
23 Zum Inhalt dieses Begriffes s. Burck 1967, 128-129: “Mit unserer ‘Frömmigkeit’ hat pietas freilich auch jetzt noch wenig zu tun; sie meint nicht so sehr eine Gesinnung und ein religiöses Fühlen als vielmehr die peinlich gewissenhafte Erfüllung des Kultes und der den Göttern schuldigen Opfer”; Meister 1967, 5, 13-14. 24 Vgl. die Bemerkung von Feldherr zu Liv. V 49,3 (1998, 80): “By ordering his soldiers to fight ‘holding before their eyes the shrines of the gods, their families, and the soil of the patria’ (5, 49, 3), Camillus creates for each of his soldiers a visual link to the totality of the Roman state”. 25 Man erkennt diesmal keine besonders starken Affekte, obwohl sich Aufregung in den zahlreichen Fragen äußert (Liv. V 51,3; 51,7; 52,3-4; 52,12-13; 52,15-17; 53,8-9; 54,1-2). Vgl. auch den Ausruf in Liv. V 51,6 und die Beschreibung einer abscheulichen zukünftigen Perspektive in Liv. V 53,5. Diese Perspektive beängstigt offensichtlich den Redner und sie soll entsprechende Gefühle auch in seinem Publikum erregen. Camillus stellt außerdem die Rivalitäten zwischen den Volkstribunen und den Senatoren als verhasst dar (Liv. V 51,1). 26 Wie Howald bemerkt (1944, 170) lässt Livius im Jahre 403 von der concordia ordinum sprechen, “einem Modewort der ciceronianischen Epoche”. Siehe auch die Aufzählung der katastrophalen Konsequenzen des Zwistes innerhalb der Stadt Liv. III 19,6; 19,8-9; 67,6; 67,11; 68,4-5; 68,8; Camillus seien die Rivalitäten zwischen Senat und Plebs verhasst (Liv. V 51,1). 27 Im Fall von Cincinnatus und von Capitolinus sieht dieser Plan vor, den Kampf gegen die Feinde zu unternehmen, im Fall des Camillus, Rom wiederaufzubauen.
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6; 68,6; 68,12-13; V 51,9 - 52,3)28. Virtus, constantia, pietas stellen wichtige Bausteine dieser Moral dar (Liv. III 19,5; 68,12-13; V 52,1-3; 52,8-9). Es handelt sich um typische römische Tugenden29, die als die Gegenkräfte zu dem Aufruhr und zu den Spaltungstendenzen der verschiedenen Parteien zu verstehen sind (Liv. III 19,5). Alle drei Konsuln vertreten sie in ihrer Person. Die zweite Voraussetzung scheint in den Reden von Cincinnatus und von Capitolinus eher zwischen den Zeilen auf, während sie in der Rede des Camillus offen ausgesprochen wird: Die Römer müssen Zuneigung zu der patria empfinden und diese auch durch die Tat beweisen. Die drei Konsuln, die selbst ein hohes patriotisches Ethos besitzen, richten deswegen ihr Augenmerk – jeder auf seine Weise – auf das, was allen Römern gemeinsam ist und wegen der Zwietracht in Gefahr gerät: die res publica (Liv. III 19,4), die res communis (Liv. III 68,3), das geplünderte Land (Liv. III 68,2-3), das publicum commodum (Liv. III 68,10), die patria (Liv. III 67,10; V 51,2), die Heiligtümer auf dem Kapitol und der Burg, die als Beweis der Verehrung der Götter durch die Gemeinschaft gelten (Liv. III 19,10; V 52,6-7)30; auf die emotionale Beziehung des Redners zum Land (Liv. V 51,2; 54,2-3), die herrliche Besonderheit des Ortes und das Glück, das dieser mit sich bringt (Liv. V 54,4-6). All das erweckt Sympathie, ja sogar Liebe zum Vaterland (caritas patriae)31, welches alles – Institutionen, Menschen, Gebäude, Eigentümer, Landschaft – umfasst und somit die gemeinsame Grundlage aller Römer bildet32. 28 Vgl. auch Liv. III 17,6: Romule pater, tu mentem tuam, qua quondam arcem ab his iisdem Sabinis auro captam recepisti, da stirpi tuae; iube hanc ingredi viam, quam tu dux, quam tuus ingressus exercitus est. Primus en ego consul, quantum mortalis deum possum, te ac tua vestigia sequar. Nachdem P. Valerius die Tribunen angesprochen hat, wendet er sich nun mit diesen Worten an die Menge. In der Stadt herrscht Zwiespalt, während das Capitolium von Verbannten und Sklaven besetzt wird und die alten Feinde Roms die Stadt ständig mit Angriff bedrohen (Liv. III 15,4-5). Die Anführer der Plebs, die Tribunen, rufen die Soldaten von den Waffen weg. Valerius will, dass die Plebs sich mit den Vätern einigt, dass die Eintracht also in die Stadt zurückkehrt. Die Römer müssen dazu nach den Prinzipien ihrer Vorfahren handeln. 29 Zu dem römischen Wertbegriff der virtus s. Curtius 1967, 371: “Virtus ist also mehr als bloße kriegerische Kraft in Angriff und Verteidigung, sie ist eine dauernde Leistung im Aufbau eines bestimmten Staatswesens, das diese unermeßliche Kraftausgabe durch Jahrhunderte hindurch erforderte. Virtus im ersten Sinne war gewiß auch griechisch, gallisch oder germanisch, aber Virtus im weiteren Sinne als konstitutive Organisation von Verfassung und Recht, politischer Gesinnung, politischem Ideal und Norm für das Leben des einzelnen war rein römisch”. Siehe auch zur Bedeutung des Wortes bei Livius Moore 1989, 5ff. Zum Wertbegriff der constantia bei den Römern s. Curtius 1967, 373: “Und auf Münzen des Kaisers Claudius und seiner Mutter Antonia erscheint einmal die ‘constantia’, die Personifikation der standhaften Ausdauer”; 374: “Schon Polybius hat die Größe des Römertums in der Constantia gesehen, mit der es die Zeiten der Krisen, wie nach Cannae, bestand”; zum Begriff der pietas s. hier Anm. 9, 23. 30 Vgl. auch in der Rede des P. Valerius Liv. III 17,3. 31 Vgl. Liv. V 54,2. 32 Man vergleiche Liv. V 49,3: suos in acervum conicere sarcinas et arma aptare ferroque non auro reciperare patriam iubet, in conspectu habentes fana deum et coniuges et liberos et solum patriae deforme belli
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Diese zwei Voraussetzungen stehen allerdings in allen drei Reden in gewissem Zusammenhang zueinander. In der Rede des Cincinnatus werden konkrete moralische Werte, virtus und constantia, die nach den Worten des Redners einst in Rom lebendig waren, der römischen res publica für würdig gehalten (Liv. III 19,4-5). Im Sinne von Quinctius Capitolinus stellen die mores antiqui den einzigen Rettungsweg für Rom dar (Liv. III 68,12-13), das durch die discordia ordinum vergiftet ist (Liv. III 67,6). Rom beginnt demnach zu degenerieren, sobald die Römer ihre guten und so erfolgreichen Sitten verlassen; folglich müssen diese Sitten dem eigentlichen Wesen der römischen res publica entsprechen. Schließlich wird es in der Rede des Camillus ganz deutlich, dass Rom der Geburts- und Entwicklungsort der pietas ist, welche seine Bürger beweisen sollen (Liv. V 51,4; 52,2; 52,5-7; 52,13). Rom und seine Moral verbinden sich in einem corpus und lassen sich nicht voneinander trennen. Unter diesem Aspekt vertreten und verfechten alle drei Konsuln eine typisch römische Moral, die sie in ihrer Stadt wiederherstellen wollen. Alle drei Reden feuern die Zuhörer an, die sich darauf hin wieder einig fühlen und über kurz oder lang dazu bereit zeigen, den vom Redner vorgeschlagenen Plan durchzuführen. Das bedeutet, dass beide vorher erwähnten Voraussetzungen erfüllt sind. Die Liebe der Römer zu ihrer Heimat wird von neuem entfacht. Sie sind außerdem dazu bereit, die moralische Haltung anzunehmen, welche die Redner mit Begeisterung anpreisen und selbst verkörpern. Es liegt nahe, zu vermuten, dass diese moralische Haltung, genau wie die Moral, die Numa vertritt, nach Ansicht des Livius von einer besonderen kommunikativen Qualität ist und eine ansteckende Wirkung auf ihre Rezipienten ausübt. Im Fall von Cincinnatus, Capitolinus und Camillus wird allerdings diese Wirkung durch die rhetorische Behandlung der Thesen und Gedanken der drei Konsuln gefördert33. Diese moralische Haltung vermag zunächst den Respekt und die Bewunderung bei allen zu erwecken, welche sie wieder erkennen bzw. zum ersten Mal malis et omnia quae defendi repetique et ulcisci fas sit. Die Rede ist hier von Camillus, der als römischer Diktator die Römer anspornt, den Kampf gegen die Feinde im Angesicht der Landschaft, all der Institutionen und der Personen aufzunehmen, welche für die Römer ihre patria darstellen. Vgl. auch was die Väter im Jahre 460 v.Chr. zu den Bürgern sagen, um die Eintracht im römischen Volk wieder herzustellen Liv. III 17,11: …non inter patres ac plebem certamen esse, sed simul patres plebemque, arcem urbis, templa deorum, penates publicos privatosque hostibus dedi. 33 Siehe Vasaly 1999, 526: “In his portrayal of the Quinctii, Livy… contradicts the Socrates of the Gorgias by presenting to his readers a picture of those ideal moderatores rei publicae, essential to a free state, who are capable of reproving and educating their hearers by their rhetoric”. Schon Aristoteles lehrt, dass die Personen, die Tapferkeit und Weisheit beweisen, zum Gegenstand des zh`lo~ (des eifrigen Strebens, der Nachahmung) der Anderen werden (Arist. rhet. II 11,1388b5,14-17); dasselbe gilt auch für die Personen, die man in Versen oder in Prosa lobt und anpreist (Arist. rhet. II 11,1388b7,21-22). Siehe auch hier Anm. 59.
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kennen lernen, genau wie die pietas des C. Fabius die Bewunderung sowohl der Feinde als auch der Römer gleichsam erweckt, die ihn “mitten durch die Geschosse der Gallier von der Burg herabsteigen, um das alljährliche Opfer des Fabischen Geschlechtes am Quirinal zu begehen” sehen (Liv. V 52,3; nach der Übersetzung von Fladerer). Auch die Konsuln verhehlen nicht ihre eigene Bewunderung für die als echt römisch anzusehenden Sitten (Liv. III 19,5; 68,12-13; V 52,3; 53,9). Ihre emotionale Aufladung muss leicht auf die Zuhörer übergehen34. Im Anschluss an diese Reden sind somit die Römer bereit, eine gemeinsame Handlung zu unternehmen; sie drängen sich danach, die von den Rednern verfochtene und verkörperte Tugenden nachzuahmen. Leicht lässt sich die Schlussfolgerung ziehen, dass die moralische Haltung, deren wichtige Erscheinungen die virtus und die pietas sind – den Reden der drei Konsuln zufolge handelt es sich um eine typisch römische Haltung –, eine besonders inspirierende Kraft ist, welche aktiviert wird, wenn ihre Träger und Vertreter die Gelegenheit dazu haben, sich an ein breites Publikum zu wenden und diesem ihr eigenes Ethos und ihre moralischen Prinzipien durch Reden bzw. durch Handeln vorzustellen. Wenn jedoch die Bürger dieselbe Moral, welche als die typisch römische Moral angesehen wird, miteinander teilen, und dieselben Gefühle (Bewunderung oder sogar Zuneigung) für Rom, den Geburtsort dieser Moral, empfinden, bedeutet dies, dass sie eine gemeinsame Identität besitzen, dass sie wie Römer fühlen, denken und handeln35. Gerade das verlangen letztendlich alle drei Redner von ihren Zuhörern, dass sie ihre gemeinsame römische Identität, der sie vertrauen und auf die sie stolz sein sollen, unter Beweis stellen. Die drei Konsuln stellen selbst lebendige exempla dieser Identität dar. Wenn die Bürger sich dieser Identität bewusst werden, ist zu erwarten, dass sie nicht mehr in den Mitgliedern des anderen Standes “Feinde” sondern “Verwandte” sehen werden, mit denen sie viel Gemeinsames verbindet. Erst dann wird die concordia möglich; erst dann wird Rom zur patria aller. Diese Antwort scheint Quinctius Capitolinus auf die Frage zu geben, die er selbst stellt (Liv. III 67,10): ecquando unam urbem habere, ecquando communem hanc esse patriam licebit? Ich fasse zusammen: Aus den bereits besprochenen Stellen des Geschichtswerkes des Livius geht hervor, dass die als überlegen angesehene und so vorgestellte römische Moral – nach Livius (Liv. I praef. 9), Cincinnatus (Liv. III 19,5), Capitolinus (Liv. III 65,5; 68,6) und Camillus (Liv. 34
Zu der Wirkung der Affekte des Redners auf sein Publikum s. hier Anm. 14. Bezeichnenderweise unterstreicht Camillus die Habsucht, Unehrbarkeit und Frevelhaftigkeit der Gallier und hebt das Schicksal der eigenen Landsleute hervor, die gesiegt haben, als Gegenpol zu der Vernichtung, die die Feinde erlitten haben (Liv. V 51,10). 35
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V 51,5-6; 51,10) ist es die Geschichte selbst, die die Überlegenheit dieser Moral beweist – als ein wichtiger Faktor zu erkennen ist, der dazu beiträgt – dank ihrer besonderen Qualität und ihrer kommunikativen Kraft –, dass die Römer eine kollektive Identität ausbilden und sich einig fühlen. Als ein zusätzlicher Faktor von ebenfalls entscheidender Bedeutung bei der Bildung dieser Identität erscheint die gemeinsame Zuneigung zu Rom, dem natürlichen Ort der römischen Moral. Eine allgemein respektierte Person kann als repräsentatives Beispiel dieser Moral – gelegentlich auch der Liebe zu Rom – entscheidend dazu beitragen, dass die Dynamik der römischen moralischen Haltung als eines einheitsstiftenden Faktors ausgelöst wird.
2. Eine auffällige Analogie verbindet alle drei angeführten Reden mit der praefatio des Livius zum ersten Buch seines Geschichtswerkes: Die römische res publica befindet sich jeweils in einer höchst kritischen Lage, aus welcher sie durch die Rückkehr zu der ihrem Wesen entsprechenden Moral, zu der echten römischen Moral, gerettet werden muss. Diese Moral erscheint als der absolute Gegenpol zu dem aktuellen Sittenverfall der Römer (Liv. I praef. 4-5; 9; 11-12; III 19,4-5; 67,2; 67,5-6; 68,8; 68,12-13; V 52,1-3; 52,7; 53,7-9)36. Es liegt nahe zu vermuten, dass Livius selbst, genau wie Cincinnatus, Capitolinus und Camillus37, die Rückkehr zu den guten römischen Sitten befür36 An einem zusätzlichen Punkt verbindet sich Livius mit seiner Figur des T. Quinctius Capitolinus: Weder Livius noch Capitolinus beabsichtigen, der Mehrheit ihrer Leser bzw. ihrer Zuhörer zu gefallen: Der Historiker unterstreicht, dass er selbst trotz der Vorliebe der meisten seiner Leser für die jüngere Zeit sein Augenmerk auf die ferne Vergangenheit lenken wird (Liv. I praef. 4); Capitolinus hebt hervor, dass er gezwungen sei, durch seine Rede dem Volk unangenehm zu werden, obwohl er weiß, dass andere Worte diesem besser gefallen (Liv. III 68,9-10). Camillus bezeichnet außerdem als remedium für die res publica die Wiedereinsetzung von alten Ritualen (Liv. V 52,9). Das könnte ein Indiz sein für die besondere Bedeutung, die das Wort remedium in der praefatio hat (zu der Bedeutung des Wortes im genannten Kontext s. Von Haehling 1989, 212-215; Moles 1993, 151-153). Zu der Parallelität der Situation, welche Livius in seiner praefatio als Roms aktuelle Lage beschreibt, mit der Situation, in der sich Rom (dem 5. Buch zufolge) befindet, bevor Camillus seine Rede zum Thema der Umsiedlung der Stadt hält, s. Miles 1995, 79. – Alle erwähnten Analogien werfen auch ein Streiflicht auf die bekannte Frage, ob die praefatio des Livius von Pessimismus, wie oft behauptet wird, oder von Optimismus geprägt sei. Zum Thema s. Howald 1944, 170; Paschalis 1980, 131-132; Von Haehling 1989, 212-215; Walsh 1982, 1064; Paschoud 1993, 132 (mit Hinweisen auf die frühere Sekundärliteratur); Von Albrecht 1994, 675. Würde man sich etwa die Frage stellen, ob Cincinnatus, Capitolinus und Camillus pessimistisch oder optimistisch über ihr Vorhaben sind, das römische Volk umzustimmen? Ihre Reden sind Ansprachen von enttäuschten, scharf kritischen, ja empörten Männern, die jedoch offensichtlich davon ausgehen, dass die Lage in Rom sich ändern kann, wenn man noch rechtzeitig und wirksam interveniert. Genau der gleichen Einstellung dürfte auch Livius sein. 37 Zu der Parallelität des Livius mit historischen Figuren, die in seinem Werk vorkommen, s. Feldherr 1997, 137, 152 (Brutus als parallele Figur zu Livius); Feldherr 1998, 70-71 (Numa und Livius), 71 (Scipio und Livius).
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wortet, weil er glaubt, dass die echt römische Moral – virtus, iustitia, pietas und temperantia stellen einige ihrer wichtigsten Aspekte dar38 – zur Bildung und Verbreitung einer kollektiven Identität beitragen und dadurch die Einheit – zunächst innerhalb der Bevölkerung Roms – fördern kann. Ich werde zur Argumentation für diese Annahme zurückkehren, nachdem ich gezeigt haben werde, dass unser Historiker sich die Eintracht in Rom, in Italien und im ganzen Imperium tatsächlich angelegen sein ließ – wie könnte es eigentlich anders sein bei jemand, der die schlimme Erfahrung der Bürgerkriege gemacht hat39? Im Parteienstreit sieht Livius tatsächlich die häufigste und eine der schrecklichsten Katastrophen, die ein Volk erleiden kann (Liv. IV 9,2-3): frui namque pace optimo consilio cum populo Romano servata per intestina arma non licuit; quorum causa atque initium traditur ex certamine factionum ortum, quae fuerunt eruntque pluribus populis exitio quam bella externa, quam fames morbive, quaeque alia in deum iras velut ultima publicorum malorum vertunt. Er ist außerdem ganz sicher, dass Rom sich immer als militärisch überlegen erweisen wird, solange die Liebe zum Frieden und zur Eintracht zwischen den Bürgern in der Stadt herrscht (Liv. IX 19,17): mille acies graviores quam Macedonum atque Alexandri avertit avertetque (sc. miles Romanus), modo sit perpetuus huius, qua vivimus, pacis amor et civilis cura concordiae40. Die Einheit in Italien und darüber hinaus im ganzen römischen Reich muss ebenfalls in seinen Augen ein erwünschtes Ziel gewesen sein, denn das Imperium ist im Sinne von Livius als ein Organismus vorstellbar, dessen Haupt Rom ist (Liv. I 4,1; 16,6-7; 45,3; V 54,7; XXI 30,10)41. 38 Zu virtus, iustitia, pietas und temperantia als Komponenten der typisch römischen Moral nach der Vorstellung des Livius s. Moore 1989, 6, 51, 54, 61, 79. Moore betont allerdings, dass iustitia keine ausschließlich römische Tugend darstellt (ebenda, 54). Dasselbe gilt auch für pietas (ebenda, 56ff.). Nach Meister (1967, 5) “Fides, virtus, pietas sind die Säulen, auf denen das Wesen altrömischer Sittlichkeit ruht. Es ist eine den Volkscharakter sehr scharf bezeichnende Sittlichkeit”. 39 Wie Burck treffend bemerkt hat (1967, 105): “In den schweren Jahren der Bürgerkriege nach dem Tode Caesars war ihm (sc. Livius) das Wissen um die geschichtsbildende Kraft des Volksganzen als stille Hoffnung für eine Besserung der chaotischen Verhältnisse auf dem Gebiete der Politik und Wirtschaft, Religion und Moral langsam erwachsen und hatte sich unter den Segnungen der pax Augusta in ihm zum festen Glauben verdichtet, von dem sein Werk lebendiges Zeugnis ablegt.” Siehe auch Burck 1966a, 329, 331; Burck 1966b, 374. 40 Siehe auch Liv. II 44,8-9 und dazu Paschalis 1980, 144-145. Vgl. ferner Polyb. VI 18,1 und s. dazu Skard 1967, 177-178. Siehe auch Gell. V 8,1. Poseidonios hat “die altrömische Geschichte hell strahlen lassen…, eben weil damals die oJmovnoia ungebrochen dastand” (so Skard 1967, 187). Vgl. auch Cic. rep. I 19,32. 41 Siehe Burck 1966a, 331, 334; Mineo 2006, 19 (mit Anm. 1 und 2), 20-21. Zu den philosophischen Wurzeln der Vorstellung, dass die Stadt wie ein Organismus wächst, s. Mineo 2006, 32-45. Vgl. Liv. XXI 41,17: qualis nostra vis virtusque fuerit, talem deinde fortunam illius urbis ac Romani imperii fore. Hier wird es offensichtlich, dass das Schicksal Roms mit dem Schicksal des römischen Imperiums zusammenhängt.
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Die Förderung der Einheit ist außerdem vom augusteischen Geist durchdrungen42. Der Prinzeps bemühte sich bekanntlich um die Eintracht in Italien und im Imperium43 und er sah es als den Beweis für eine besondere persönliche Qualifikation an, dass das ganze Italien und dazu noch ein großer Teil des römischen Imperiums freiwillig auf seiner Seite gestanden habe (Res gest. 25,2): iuravit in mea verba tota Italia sponte sua, et me belli quo vici ad Actium ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem verba provinciae Galliae Hispaniae Africa Sicilia Sardinia44. Es liegt also mehr als nahe zu vermuten, dass Livius durch sein Werk zur Förderung eines der nach seiner Sicht wichtigsten Faktoren des Wohlstan42 Es gibt umfangreiche Bibliographie zu der Beziehung zwischen Livius und Augustus (zu der Bibliographie von 1933 bis 1978 s. Kissel 1982, 930; zu jüngerer Bibliographie und überhaupt zum Thema s. Badian 1993; Mineo 2006, 74, Anm. 300; 109ff.). Siehe u.a. Kienast 1999, 268: “Tatsächlich läßt Livius gelegentlich eine gewisse Unabhängigkeit des Urteils erkennen, etwa bei der Behandlung der mythischen Genealogie des julischen Hauses. Dennoch war sein Werk offenbar weitgehend im Sinne des Prinzeps. Die ausführliche Darstellung der römischen Vorgeschichte mußte den restaurativen Tendenzen des Augustus entgegenkommen; und für die Zeit der Bürgerkriege hat sich Livius wohl weitgehend an der Autobiographie des Augustus orientiert”; Shuttleworth-Kraus 1994, 8: “…the historian’s project parallels/rivals Augustus’ own building of a new Rome via (re)construction of its past … But a shared project does not necessarily mean a lack of independence”. 43 Nach Tarpin (2001, 4) ist es die augusteische Propaganda, “die … aus ganz Italien die natürliche Verlängerung Roms machte”. In der Zeit des Augustus wurde der Prozess der kulturellen Vereinheitlichung, der schon in der Zeit des Bundesgenossenkrieges anfing, mit beschleunigtem Rhythmus fortgesetzt (s. Tarpin 2001, 12). Neben der Sprache (vgl. Verg. Aen. XII 837; Plin. nat. III 4,39) förderten weitere Faktoren die kulturelle Vereinheitlichung Italiens: Die Vermischung der Bevölkerung, der Handel, die große Kolonialbewegung, die Deportationen, die Vereinheitlichung der Verfassungen, die fortschreitende Integration der italischen Notablen in die römische Aristokratie. “Dies geschah um so schneller, als Augustus und seine Umgebung in den italischen Städten häufig eingriffen” (so Tarpin 2001, 12-13). Die kulturelle Vereinheitlichung setzte sich vor allem in den höheren Sozialschichten durch (Plin. epist. IX 23,2). Wie Kienast bemerkt (1999, 500), “Von großer Bedeutung für das Werden der Reichseinheit war es ferner, daß erst unter Augustus das Imperium auch geographisch zu einem Ganzen geworden war, das zudem im Innern weitgehend von Truppen entblößt war und sich eines ungestörten Friedens erfreuen konnte”; ebenda, 504: “Augustus hat sein Reich aber auch verkehrstechnisch zu erschließen gesucht”. Auch die Entstehung einer einheitlichen Reichswährung trug zur Vereinheitlichung des Reiches bei (ebenda, 510). Kienast (ebenda, 511) kommt schließlich zu folgender Schlussfolgerung: “Stellt so das Römische Reich unter Augustus keineswegs einen Einheitsstaat dar, so lassen sich die aufgezeigten Tendenzen zu einer Vereinheitlichung des Imperium doch nicht übersehen. Obwohl diese Tendenzen von Augustus zweifellos gefördert wurden, fehlt es doch an programmatischen Äußerungen”. 44 Siehe auch Tarpin 2001, 11-12: “Der Ausdruck tota Italia, der sich schon bei Cicero (ad Q. fr. 4; dom. 75) findet, erhielt seinen vollen Sinn erst unter Augustus … Cicero meint damit die Eliten der Kolonien und Munizipien Italiens und der Zisalpina, während der angeblich spontane Eid auf Octavian i. J. 32 v. Chr. und in geringerem Maße seine Wahl zum Pontifex Maximus … in der Tat eine kohärente politische Einheit voraussetzten…”. Siehe jedoch ebenda, 11: “Gleichwohl war das augusteische Italien zwar keine Nation im modernen Sinne des Wortes, aber doch mehr als ein Propagandaschlagwort. Auch wenn Velleius Paterculus’ Feststellung (2, 15, 2) nach der die Italiker homines eiusdem gentis et sanguinis waren, auf die offizielle Propaganda zurückzugehen scheint, gab es hinter dem Begriff tota Italia eine Realität”. Vgl. Verg. Aen. VIII 678.
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des einer politischen Gemeinschaft beitragen wollte. Er stellte sich somit in eine Reihe mit denjenigen ausgezeichneten Männern, welche, wie er selbst andeutet, immer wieder eine neue Methode erfinden mussten um das Volk richtig zu lenken (Liv. II 43,10): adeo excellentibus ingeniis citius defuerit ars qua civem regant, quam qua hostem superent. Livius gibt uns schon in seiner ersten praefatio ein Beispiel dafür, wie die römische moralische Haltung nach seiner Sicht emotionale Verbindungen zwischen den Römern selbst sowie zwischen den Römern und jedem anderen hervorrufen kann, der die Erfahrung der echten römischen Sitten gemacht hat (Liv. I praef. 11): ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, aut nulla umquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit, nec in quam civitatem tam serae avaritia luxuriaque immigraverint, nec ubi tantus ac tam diu paupertati ac parsimoniae honos fuerit. Unser Historiker stellt hier seine Leser wie auch sich selbst vor die rhetorisch wirkungsvolle Alternative: Entweder seine Liebe zu seinem Werk, seine Bewunderung für die großen Gestalten der römischen Vergangenheit und für ihre Taten, täusche ihn, oder Rom stelle mit seinen alten Sitten eine Ausnahme dar, denn es habe niemals eine Gemeinschaft gegeben, die größer, anständiger oder reicher an maßgeblichen Beispielen gewesen wäre, und auch keine, in die so spät erst moralische Defekte, wie Gier und Luxus, eingezogen seien. Hier tritt Livius’ Disposition Rom und seiner Moral gegenüber zutage: Er ergeht sich in einer laudatio der römischen res publica auf Grund der moralischen Werte, die diese in der Vergangenheit aufwies45. Unser Historiker liefert somit schon an dieser frühen Stelle seines Werkes ein Beispiel dafür, wie die aus seiner Sicht echt römischen Sitten jemanden, der sie kennen gelernt hat, den Trägern dieser Sitten gegenüber disponieren können: Man bewundert sie, man respektiert sie und man will sie – so darf man ergänzen – nachahmen. In seiner ersten praefatio nimmt also Livius – kein geborener Römer, sondern ein Pataviner, der über das römische Bürgerrecht verfügt – die Reaktion nicht nur der Römer sondern auch der Nicht-Römer vorweg, welche Numa ansehen, ihn bewundern, respektieren und nachahmen46. Später wird 45 Vgl. Moles 1993, 155: “Here Livy tacitly rejects the possibility that love of his task has distorted his view of Rome’s virtues. All the stress falls on the second aut-clause, which introduces the theme of Rome’s moral greatness …”. Zu der Bibliographie zu der ersten praefatio des Livius vor 1993 s. ebenda, 162, Anm. 2. Zu der Bibliographie von 1933 bis 1978 s. Kissel 1982, 931-932. 46 Mit der Herkunft des Livius aus Padua und seiner Einstellung Rom gegenüber hängt das Problem seiner patavinitas zusammen, deren genaue Bedeutung vielleicht nicht so leicht erkennbar ist, wie man denkt, wenn man die einschlägigen Stellen bei Quintilian liest (Quint. inst. I 5,56; VIII 1,3). Die Bibliographie zum Thema ist enorm. Siehe Kissel 1982, 937; zu jüngeren Arbeiten s. z.B. Bonjour 1975, 185, 249-250; Flobert 1981; Miles 1995, 51 mit Anm. 57; Feldherr 1997, 139; Horsfall 1997, 71-74.
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er erzählen, wie die Falisker freiwillig zu den Römern übertreten, weil Camillus sie durch sein Handeln überzeugt hat (Liv. V 27)47. Einschlägige Beispiele fehlen auch nicht aus den späteren Büchern: Der Kampaner Calavius, Sohn des Pacuvius Calavius, “setzt sich leidenschaftlich für das Bündnis mit Rom und gegen einen Vertrag mit den Puniern ein” (Liv. XXIII 8,3 [nach der Übersetzung von Blank-Sangmeister]; 8,9-11; 9,10-12). Wenn er sich bei einem schwelgerischen Bankett vom Trinken als Einziger abhält, beweist er im Grunde seine temperantia (Liv. XXIII 8,6-7), eine nach Livius typisch römische Tugend (Liv. XXV 36,16; XXXVIII 58,6)48. Auch Demetrius, Sohn des Königs Makedoniens Philippus, bewundert und liebt die Römer. Er fördert deswegen die Freundschaft zwischen Makedonien und Rom (Liv. XXXIX 47,10-11; XL 5,5; 5,8; 12,17; 15,5-7). Er beansprucht außerdem für sich selbst “römische” Tugenden: iustitia und modestia (Liv. XL 15,5). Diese Beispiele beweisen, dass die römische Moral bei ihren Kennern nicht bloß Bewunderung, Respekt oder den Willen hervorrufen kann, die römischen moralischen Werte selbst anzunehmen, sondern dass sie in ihnen auch den Wunsch zu erwecken vermag, sich in die römische politische Gemeinschaft einzugliedern49. Die gemeinsame Liebe zur res publica Romana, dem geographischen und politischen Ort der römischen Moral, kann außerdem die verschiedenen Teile der Bevölkerung, zwischen denen eine Art von “Verwandtsschaft” bereits besteht, wenn sie alle die echte römische moralische Haltung bewundern, respektieren oder sogar verkörpern, noch enger miteinander verbinden. Den Gedanken legt Livius selbst schon an der angeführten Stelle aus seiner ersten praefatio an, wo er auch seine Zuneigung zu Rom auf eine Weise äußert, die keinen Zweifel daran erlaubt, dass er besonders stolz auf seine patria maior, auf seine Zugehörigkeit zu der römischen politischen Gemeinschaft ist50. 47 Siehe Von Albrecht 1994, 674 und ebenda: “Exemplum kann auch im Verkehr zwischen den Ständen wirksam werden: Im Augenblick, da die Niederlage droht, geben die Vornehmen ein Beispiel der Großzügigkeit, und die Plebejer ahmen ihre pietas nach (5, 7), um ihnen an Edelmut nicht nachzustehen”. 48 Siehe Moore 1989, 78-79. 49 Zur Funktion der römischen Moral als Grundlage der Hegemonie Roms über die anderen Völker s. die Bemerkungen von Mineo 2006, 37: “Comme Platon, Tite-Live semble particulièrement soucieux de conférer une légitimité morale aux relations que Rome doit développer avec les peuples qui lui sont soumis. Pour l’un comme pour l’autre, c’est la valeur morale des groupes humains qui justifie en dernier ressort l’hégémonie d’un peuple et l’autorise à exercer un magistère visant à faire entrer le groupe ou l’individu en situation de dépendance dans la même sphère morale que les dirigeants”. 50 Siehe auch Von Haehling 1989, 176: “Ungeachtet seiner Herkunft aus Padua denkt und empfindet Livius als echter Römer”. – Cicero unterscheidet zwischen zwei patriae (die eine patria ist von Natur [patria naturae], die andere vom Gesetz [patria civitatis]); s. Cic. leg. II 2,5. Er erkennt außerdem die Uberlegenheit der patria vom Gesetz an (s. Cic. off. I 17,57 und Bonjour 1975, 78-86). Nach Feldherr
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Die Bewunderung des Autors für die römische moralische Haltung und für die römische res publica steckt seine Leser an51, genau wie die Bewunderung des Cincinnatus, des Capitolinus und des Camillus für die alten römischen Sitten wie auch ihr Patriotismus ihre Zuhörer ansteckt. Unter diesem Aspekt erscheint Livius selbst als das erste aus einer langen Reihe von exempla der kollektiven römischen Identität, welche das ganze Werk durchziehen, um durch die ansteckende Wirkung ihrer moralischen Haltung und/oder ihrer Liebe zu Rom bei den Lesern den Willen hervorzurufen, diese Identität zu teilen. Livius’ Geschichtswerk trägt also dazu bei, dass eine große römische “Familie” entsteht, derer Mitglieder durch die gemeinsamen moralischen Prinzipien und durch die Liebe zu Rom miteinander verbunden werden52.
3. Man hat bereits behauptet, dass der Gegenstand des Geschichtswerkes des Livius die kollektive Identität der Römer sei53. Im vorliegenden Aufsatz habe ich unternommen zu beweisen, dass unser Historiker eigentlich vorhatte, eine kollektive römische Identität (wieder)herzustellen54. Sein End1997, 139 hat Livius selbst im Namen seiner römischen Identität seine Herkunft aus Padua in gewissem Sinn “unterdrücken” müssen: “Therefore just as the Roman state has its origins in the loss of a previous fatherland, Troy, so too the creation of Livy’s text depends on the historian’s own decision to tell the story of his Roman patria rather than the alternative narrative of his native people the Veneti”. Zu der Beziehung des Livius zu Cicero s. Quint. inst. II 5,20; X 1,39; Mazza 1966, passim; Feldherr 1997, 153. 51 Da unser Historiker ein Experte in der rhetorischen Kunst gewesen sein soll (s. Quint. inst. VIII 2,18 und Canfora 1993, 171-172), müsste er sich der Wirkung bewusst haben, welche die bezeichnete Stelle in der praefatio auf das Publikum haben mag, dass nämlich die Begeisterung des Autors für die alte römische Moral in die Begeisterung der Leser übergehen kann. Siehe auch hier Anm. 14. Livius hat bereits an früheren Stellen der praefatio (9-10) einen Kommunikationsweg zu seinem Leserpublikum sorgfältig gebahnt. Zum Thema Leser und Autor in der praefatio s. Moles 1993, 152: “Thus Livy stresses the moral implications for his readers in a direct personal appeal to the individual, an appeal moreover, so framed as to overturn the distinction between self-interest and national interest (in tibi tuaeque rei publicae, publicae unexpectedly redefines tuae rei)”. Zum Thema “Autor und Leser im Livius’ Werk” s. auch Shuttleworth-Kraus 1994, 14. 52 Nach Liv. II 1,5 sind es zwei Faktoren, welche nach unserem Historiker aus den einzelnen Menschen eine Gemeinschaft entstehen lassen: die Verwandtschaft, die die Menschen miteinander verbindet (pignera coniugum ac liberorum) – das ist im metaphorischen Sinne die überlegene römische Moral –, und die Liebe zu dem Land, in dem alle gemeinsam leben (caritas soli) – das ist im eigentlichen und im metaphorischen Sinne die Liebe zu Rom, dem gemeinsamen Referenzpunkt aller Teile der Bevölkerung des Imperium Romanum. 53 Nach Miles 1995, 18 “Livy’s preface suggests another subject for his narrative, the collective identity of the Roman people, a subject that depends less upon what actually happened in the past than upon how the past has been remembered”. 54 Mit der im vorliegenden Aufsatz präsentierten These sind folgende Bemerkungen vergleichbar: Howald 1944, 172: “Voraussetzung zum Verständnis ist aber die Bereitschaft seinem Ruf (sc. Livius’
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ziel war es, zu erreichen, dass in Rom, in Italien und im Imperium Eintracht herrschte55. Auch wenn wir annehmen, dass dieses Ziel sich ganz besonders auf die Jahre der Veröffentlichung der ersten Pentade bezogen habe56, ist nicht zu übersehen, dass die Voraussetzungen des beschriebenen Planes unseres Historikers das ganze erhaltene Werk durchziehen57. Zur Bildung und VerbreiRuf) zu folgen, auf das zu hören, was er mit uns anfangen will, nämlich seine Leser zu Römern im Sinne augusteischer Erneuerung zu machen”; Manzo 1991, 279: “…ma nulla esclude che quell’opera storica sia memoria rerum gestarum, che si esplica «come ricordo e consapevolezza della continuità nella innovazione, come coscienza di una tradizione, dinamica e non statica»” (Manzo zitiert hier M. Sordi, Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma, Milano 1989, 9); Mineo 2006, 44-45: “Mais on ne perdra pas de vue que cette tonalité morale est aussi celle d’un pouvoir politique s’employant à établir la cohésion nationale et l’autorité d’un homme sur des fondements historiques et philosophiques”. – Zur Bildung einer kollektiven römischen Identität haben auch frühere Werke beigetragen. Vgl. z.B. die Worte Cicero’s über die Bedeutung des Werkes von Varro (Cic ac. I 3,9): nam nos in nostra urbe peregrinantis errantisque tamquam hospites tui libri quasi domum deduxerunt, ut possemus aliquando qui et ubi essemus agnoscere. In den dreißiger und zwanziger Jahren kann man einen “Aufschwung der nationalen Gedanken” in der römischen Welt feststellen, der Livius, wie auch anderen “wachen geistigen Männern jener Zeit ein ganz anderes Verhältnis zur Vergangenheit und zur Geschichte ihres eigenen Volkes wies, als es noch die Gene ration vor ihnen hatte” (so Burck 1964, 180). 55 Bis zum Abschluss des vorliegenden Aufsatzes ist mir der Aufsatz von E. Gabba, Il problema dell’unità dell’Italia romana, in La cultura italica, Pisa 1978, 11-27 nicht zugänglich geworden. Siehe darüber Tarpin 2001, 11: “Nach E. Gabba gab es in der Antike kein italisches Nationalbewußtsein, sondern nur ein moralisches Band…”. 56 Siehe Burck 1967, 105: “Es ist kein Zufall und wohl auch nur zum Teil durch den Gegenstand seiner Darstellung bedingt, daß Livius sich gerade in den ersten Büchern immer aufs neue gegen den Fluch der discordia und des Streites der Parteien wendet und in ihnen den Keim des völkischen Verderbens sieht”; Von Haehling 1989, 11-12. Siehe allerdings auch Burck 1966a, 351: “Es geht Livius vielmehr darum, beispielhaft an verschiedenen Situationen die Möglichkeiten einer der salus und concordia rei publicae dienenden Herrschaftsgestaltung zu veranschaulichen. Daß solche Fragen in den Jahren nach der Beendigung der Bürgerkriege eifrig in Rom diskutiert worden sind und vermutlich auch während der ganzen Regierungszeit des Augustus nicht aufgehört haben, Gegenstand politischer Diskussionen zu sein, ist gewiß”. – Unser Historiker veröffentlichte vermutlich die erste Pentade schon 27/25 v.Chr. Siehe Burck 1966b, 371 mit Hinweis auf die frühere Sekundärliteratur; Von Haehling 1989, 19, 210, Anm. 84; 213-215; Moles 1993, 151; Von Albrecht 1994, 661. Luce 1965 hat jedoch behauptet – wie schon früher Bayet – dass Liv. I 19,2-3 und IV 20,7 auf spätere Interpolationen zurückzuführen sind. Zu Liv. IV 20,5-11 s. auch Harrison 1989, 410-411. Siehe allerdings Luce 1990, 124: “The first book was completed between 27 and 25 B.C.; very likely the whole of the first pentad was finished by then”. Nach Woodman 1988, 134-140 wurde die erste Pentade vor Actium (also in der Zeit des Bürgerkrieges) verfasst. Nach Paschalis 1980, 9-23 weist die erste praefatio auf die Zeit zwischen 38 bzw. 35 und 30 v.Chr. hin. – Zu dem Bezug der Erzählung von der altrömischen Geschichte bei Livius auf die aktuelle Zeit des Autors s. Skard 1967, 192. Siehe auch die Bemerkung von Von Haehling 1989, 18: “Die Zeitbezüge der ersten Dekade sind nicht nur zahlreicher, sie zeichnen sich auch durch die Qualität der Aussagekraft aus”. – Zu dem Bezug der Rede des T. Quinctius Capitolinus auf die aktuelle politische Lage in Rom s. Ogilvie 1965, zu Liv. III 67-68, S. 517; zu Camillus s. z.B. Howald 1944, 188-189; Hellegouarc’h 1970. 57 Siehe Burck 1966a, 322: “Er (sc. Livius) muß … bereits bei Beginn seiner Arbeit ein in den Hauptzügen festes Rombild konzipiert gehabt haben, von dem aus er schon seine Behandlung der ersten
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tung einer kollektiven römischen Identität tragen nämlich folgende Elemente bei: die als überlegen angesehene und angeblich im Laufe der Geschichte bewährte, typisch römische Moral als Grundstein der kollektiven römischen Identität58; sodann caritas zur res publica Romana als dem geographischen und politischen natürlichen Ort dieser Moral und schließlich das Auftreten von hervorragenden historischen Figuren, welche durch ihre Haltung und durch ihr patriotisches Ethos die ansteckende Kraft der römischen Moral und die Liebe zu Rom bei ihren Zuschauern oder Zuhörern und letztendlich bei den Lesern aktivieren59. Livius’ rhetorische Kraft, die sich in der Jahrhunderte römischer Geschichte durchgeformt hat … Natürlich muß die Möglichkeit offengehalten werden, daß sich im Laufe der langen Arbeit durch die persönliche Entwicklung des Livius und auch durch das Zeitgeschehen gewisse Maßstäbe und Kategorien gewandelt haben … Aber alle Möglichkeiten, einen solchen Wandel der Auffassungen aufzudecken, fehlen uns”. Anders Von Haehling 1989, 18: “…keineswegs der Eindruck erweckt werden, Livius sei sich während der ca. vierzig Jahre der Abfassung seines Geschichtswerkes in den politischen Grundpositionen immer treu geblieben…”. Siehe auch Phillips 1982, 1035 und die interessanten Bemerkungen von Moles 1993, 150-151. 58 Zum Erscheinen von Römern als hohen moralischen Vorbildern in den späteren erhaltenen Büchern s. Luce 1977, 265, 267-269; Von Albrecht 1994, 669. 59 Die Frage, worauf sich diese ansteckende Kraft gründet, auf eine natürliche Tendenz für das Lob und die Ehre, welche man dank seiner Tugenden erringt, oder auf eine ebenfalls natürliche Tendenz zum Guten, steht im Zusammenhang mit der Frage, worin die Wurzeln des Planes von Livius liegen, in der Philosophie oder vielleicht in der Rhetorik. Beide Fragen müssen hier dahingestellt bleiben. – Zu der Stellung der oJmovnoia im System der Stoa s. Skard 1967, 188-189. Siehe auch Mineo (2006, 73), der bemerkt: “L’emploi, en particulier, du concept de concordia chez Tite-Live renvoie certes avant tout à une philosophie politique qui depuis son introduction à Rome par le Moyen Portique et l’Académie a toujours trouvé d’illustres porteparoles”. – Zum Thema, wie das Ethos, das ein Redner aufweist, die Zuhörer für den Redner und für sein Programm disponieren kann – Informationen dazu geben die erhaltenen Werke der antiken Rhetorik – s. Süss 1910, 2, 83, 149; Wisse 1992, 220. Siehe was Livius in Bezug auf die Wirkung schreibt, welche sein Werk auf seinen Autor selbst ausübt: ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus (Liv. XLIII 13,2). Polybios spricht von der Wirkung, welche die laudatio funebris (die römische Grabrede) und das Mitführen der Ahnenbilder des Verstorbenen auf die Leute ausüben, die an der Zeremonie teilnehmen (Polyb. VI 53,1 - 54,5). Es leuchtet ein, dass ein systematischer Vergleich mit dem hier vorgestellten Programm des Livius sehr ergiebig wäre in Bezug auf die Vorbilder und die Gedankenwelt des livianischen Geschichtswerkes. Vgl. die Bemerkung Von Albrechts 1994, 674: “Wie für einen jungen Römer, dem im altrömischen Leichenzug seine Vorfahren in der Tracht ihres höchsten Amtes ‘leibhaftig’ erscheinen, so ist für Livius römische Geschichte eine erhabene, dem Alltag entrückte Welt, in die er sich ehrfürchtig versenkt”. Siehe auch Sall. Iug. 4,5-6 und dazu Paschalis 1980, 129; Feldherr 1998, 32; Chaplin 2000, 14, Anm. 51; 25-26. – Es wäre außerdem angebracht zu untersuchen, in welcher Beziehung die Absicht von Livius, welche hier vorgestellt worden ist, zu dem politischen Credo Ciceros steht. Vgl. z.B. Cic. rep. I 25,39: “Est igitur” inquit Africanus, “res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus”. Siehe dazu Meister 1967, 11: “Jeder Staat, res publica, …, ist nach Wesen und Wortsinn das Eigentum des Volkes, res populi. Das Volk aber ist nicht nur Interessengemeinschaft, sondern es ist auch eine Rechtsgemeinschaft, die nicht nur durch das allseitige Schutzbedürfnis, sondern auch durch die in der Menschennatur liegenden Keime der Sittlichkeit zum Volk vereinigt ist und somit eine res publica, ein Eigentum des Volkes, erhalten hat”. Siehe auch Mineo 2006, 72: “La concorde est, enfin, au centre des préoccupations politiques de Cicéron comme elle
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Auswahl des darzustellenden Materials, in dessen Disposition und im Stil der Erzählung offenbart, trägt entscheidend zum Erfolg dieses Programms bei. Unter diesem Aspekt erfüllt Numa eine programmatische Funktion im Werk nicht nur in Bezug auf die nachfolgenden exempla morum Romanorum60, sondern auch in Bezug auf das Werk selbst, das in ihm seine Personifikation findet61. Wie aus dem bereits Gesagten hervorgeht, bietet Livius’ Geschichte dem aufmerksamen Blick Zugang zu den literarischen Mechanismen, die unser Historiker benutzt hat, um Rom und die Römer, d.h. die bereits als militärisch mächtigst Erwiesenen, zu moralischen und ideologischen Hauptvorbildern für die Bevölkerung Italiens wie auch des ganzen Imperiums zu machen und dadurch die heterogenen Mengen zusammenzuhalten. Livius’ Werk ist ein Meisterstück der Propaganda, das den Akzent auf die römische mora lische Überlegenheit setzt62. Wie es von einem solchen Geschichtswerk zu erwarten ist, werden die Intentionen des Autors oft hinter den historischen Ereignissen kunstvoll versteckt. So erhält man den Eindruck, dass nicht Li-
l’est également chez Tite-Live”. Zu dem Einfluss der Ideen von Cicero auf Livius s. Vasaly 1999, 528; Mineo 2006, passim und vorwiegend 72-79. Siehe auch hier Anm. 50. 60 Zu der Funktion der exempla überhaupt im Werk des Livius s. Jaeger 1997, 28: “Thus, the public memories of Rome’s past, when transmitted through the restored monumenta, become sensory and personal memories, and because the text acts on every single reader, the sensory and personal act of remembering becomes social again, within the community of the readers”; Chaplin 2000, 201: “Precisely because exempla assume a continuity between two time-frames, they offered Livy and his contemporaries a sense of foundation in their past as well as possible bridges to the future…”; 202: “The reason why exempla were attractive to triumviral and Augustan Rome is that they were not only a sophisticated vehicle for creating political stability and for ordering a complicated history, but also a reassuring reminder that all was not lost and that the interpretation of that complex past could lead to a more secure future”. 61 Interessanterweise hat man schon in Numa eine Symbolfigur für Augustus selbst gesehen; s. Mineo 2006, 148, 176-178 (mit Anm. 179, wo Hinweise auf die einschlägige Sekundärliteratur vorkommen), 180-181; Feldherr 1998, 70 mit Anm. 56. Siehe allerdings die Debatte über Liv. I 19,3 (ob es sich um eine spätere Interpolation handelt) Moles 1993, 159. Siehe auch Ogilvie 1965, zu Liv. I 18-21, S. 90: “Even without the allusion in 19.3 such a treatment would be bound to strike a contemporary note for L(ivy)’s readers.” Numa trägt mit seinen Tugenden zur Einheit der Bevölkerung innerhalb und außerhalb von Rom bei. Zur analogen Funktion des Augustus s. Kienast 1999, 513: “Er (sc. Augustus) war es ja, der das Reich eigentlich zusammenhielt und der dem Imperium eine monarchische Spitze gegeben hatte, die allein seinen Bestand noch garantieren konnte. Aus diesem Grunde hat auch der Prinzeps selbst im Osten wie im Westen die Verbreitung des Kaiserkultes gefördert, und zwar nicht nur in den Provinzen, sondern auch in den zum Reich gehörenden Klientelstaaten”. Siehe auch ebenda, 514-515. 62 Siehe Burck 1964, 182; Bernard 2000, 298.
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vius selbst, sondern die erzählte Geschichte es ist, die lehrt, dass es schön ist Römer zu sein, sofern die Römer echte Römer sind.
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Ovid und die Romanisierung der griechischen Kultur Michael von Albrecht
Poesie enthält nicht nur wichtige Zeugnisse zur Romanisierung, sie trägt auch aktiv zur Romanisierung bei. Das Wort „Romanisierung“ kann bei der Untersuchung römischer Poesie unterschiedliche Bedeutungen haben. Einerseits kann man im Rahmen der Rezeption fremden Kulturguts durch einen Römer von „Romanisierung“ sprechen. Bei Dichtern geschieht dies z.B., wenn griechische Mythen so erzählt werden, daß sie der Empfindungsweise der römischen Zuhörerschaft angepaßt werden. Eine höhere Ebene der Romanisierung ist die Integration und Verschmelzung griechischer Literaturgattungen in das persönliche Oeuvre eines lateinischen Dichters und damit in die römische Literatur. Das Lateinische ist die einzige Sprache, die der übermächtigen griechischen eine eigene muttersprachliche Literatur gegenübergestellt hat. Hier kann man von einer Romanisierung der griechischen Literaturgattungen sprechen. Andererseits spielt Romanisierung bei der Ausbreitung römischen Kulturguts eine Rolle. Im letzteren Falle tragen die Dichter durch Ausbildung eigener Vorstellungen vom Römertum und von römischer Identität aktiv zur Romanisierung bei. In beiden Beziehungen kommt Ovid eine wichtige, von der Forschung noch nicht voll erkannte Rolle zu. Untersucht werden im Einzelnen: 1. Die Bedeutung der Regionen Italiens (insbesondere der griechischen Kolonien einschließlich Siziliens) für Ovid. Der ex-zentrische Standort des Munizipalen bedingt (wie bei Livius) eine künstlerisch fruchtbare Distanz zum Zentrum. 2. Die Romanisierung griechischer Elemente in ihrer Bedeutung für die Findung einer neuen Identität für den Dichter und neuer Formulierungen römischer Identität. 3. Die spezifische Form und Bedeutung des Einschlusses griechischer Literaturgattungen (vor allem Epos und Tragödie) in der von Ovid geschaffenen Gattung der „Heroidenbriefe“ mit besonderer Berücksichtigung intertextueller Bezüge, aber auch intratextueller Selbstreferenz. Diese auf den ersten Blick spezifisch literarischen Akkulturationspro-
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zesse sind Teil einer poetischen Identitätsfindung, die ein jeweils komplexeres Verständnis auch der römischen Identität mitbedingt.
1. Zunächst einige Worte zur Bedeutung des Regionalen für Ovids persönliche Identität und für sein Verständnis Roms! Ovid stammt aus Sulmo im Pälignerland (am. III 15,7 f.). Wie die meisten lateinischen Autoren ist er kein Stadtrömer. Wie sie alle ist auch er stolz auf seine engere Heimat. Er gehört der alten Munizipalaristokratie an, was ihn erheblich von Vergil und Horaz unterscheidet. Wie Vergil ist er sich der großen Bedeutung der Vielfalt der Ursprünge Italiens im Gefolge der Kolonisation aus unterschiedlichen Gebieten Griechenlands und Kleinasiens bewußt. Die Stoßrichtung ist umgekehrt wie bei Cato: Ovids Heimat war der Hauptort des Widerstandes gegen Rom im Bundesgenossenkrieg, und der Dichter unterstreicht dies: quam sua libertas ad honesta coegerat arma, cum timuit socias anxia Roma manus (ebd. 9 f.) „Welches sein Freiheitssinn zu ehrenden Waffen gedrängt hat, als die Verbündeten Rom damals in Schrecken gesetzt“ (Übs. R. Harder - W. Marg). Der Bundesgenossenkrieg lag bei Ovids Geburt (43 v.Chr.) erst wenige Jahrzehnte zurück. Erst im Gefolge dieses Krieges gestand Rom den Italikern in größerem Umfang das Bürgerrecht und damit die Teilnahme an der Weltherrschaft zu. Ovids poetische Identität stützt sich in dem Schlußgedicht (Sphragis) der Amores auf seine engere Heimat; auch in der Autobiographie (trist. IV 10,3) nennt er den Ortsnamen Sulmo voller Stolz, wie er dies bereits in den Amores getan hatte (II 16,1; III 15,11). Die griechischen Wurzeln einer italischen Stadt rühmt Ovid ebenfalls schon in den Amores (III 13). Es handelt sich um Falerii, den Heimatort seiner Gattin. An dieser Elegie fällt die starke Betonung des griechischen Ursprungs des faliskischen Juno-Festes auf. Ovid rühmt den griechischen Stadtgründer Halaesus – obwohl dieser, wie wir aus der Aeneis (VII 723) wissen, den Trojanern feindlich gesinnt war: Agamemnonius Troiani nominis hostis. Servius (zur Stelle) verweist auf eine Sagenversion, wonach Halaesus ein unehelicher Sohn Agamemnos sei. Aus Argolis kommt auch der Gründer Krotons, Myscelos (met. XV 9-59). In den späteren Büchern der Metamorphosen mehren sich die Weltenwanderer und Emigranten: Odysseus, Aeneas; Hippolytus, Pythagoras, Cipus. Ovid stellt sich in der erstaunlichen Elegie Amores I 13 ausdrücklich unter den Schutz der faliskischen Juno, de-
Hunc Agamemnonis plerique comitem, plerique nothum filium volunt, qui cum venisset ad Italiam, audito adventu Aeneae in bellum ruit, non amore Turni, sed odio hostilitatis antiquae.
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ren griechischen Ursprung er hervorhebt. Auch hier wird deutlich, daß Ovid sich auf eine provinzielle, munizipale, nicht stadtrömische Identität stützt und den Gegensatz zur Zentralgewalt unterstreicht. Ähnlich wie er hier die oppositionelle Haltung und das Flüchtlingsschicksal des Halaesus betont (dieser floh aus dem mordbefleckten Vaterhaus), so auch später das Flüchtlingslos des Daedalus (longumque perosus / exilium: met. VIII 183 f.) und des Pythagoras (odioque tyrannidis exul / sponte erat: met. XV 61 f.); bei beiden entspricht dem irdischen Los des Auswanderers im Geistigen der Aufbruch zu einer spirituellen Wanderung. Man kann sagen, daß das Bewußtsein der besonderen, nichtrömischen Wurzeln der engeren Heimat dazu beitrug, inneren Abstand und einen selbständigen geistigen Standort zu gewinnen. Wichtig ist in diesem Zusammenhang die Rolle Siziliens (und überhaupt der Magna Graecia) als Umschlagplatz für die Anverwandlung und Romanisierung der griechischen Kultur. Wie schon Vergil in der Aeneis, beachtet Ovid dies in den Metamorphosen. Bezeichnenderweise verweilt er besonders bei dem Arethusa-Mythos (met. V), in dem die Nymphe einer Süßwasserquelle aus Griechenland durch die Unterwelt – also unter dem Meer – nach Sizilien flüchtet. Es handelt sich hier um die (quasi „autobiographische“) Ich-Erzählung von einem Flüchtlingsschicksal, das zugleich eine spirituelle Unterweltsreise ist. Man erkennt den inneren Zusammenhang mit Hippolytus (met. XV), der in Griechenland stirbt, im Totenreich von Aesculap auferweckt wird und in Italien als Gott aufersteht. Man kann dies zugleich als Metapher eines organischen Prozesses sehen, in dem die griechische Kultur in verjüngter Form als römische eine neue Gestalt gewinnt. Diese Beobachtungen haben nicht nur punktuelle Bedeutung. Die Gesamtkonzeption der Metamorphosen „vom Urbeginn der Welt bis zu meiner Zeit“ (primaque ab origine mundi / ad mea ... tempora: met. I 3 f.) trägt der Tatsache Rechnung, daß durch den raschen Aufstieg Roms die Weltgeschichte zur römischen Geschichte wird (und die römische zur Weltgeschichte). Die Metamorphosen sind nicht nur in einem äußerlichen Sinne die Latinisierung und Romanisierung des griechischen Mythos, sie zeigen auch, wie diese Überlieferung auf dem Wege über den Trojanischen Krieg Daedalus:
ignotas animum dimittit in artes (met. VIII 188); Pythagoras: mente deos adiit (met. XV
63). Akkulturation,
Assimilation. Ovid und Vergil beweisen hier historischen Scharfblick – im Einklang mit antiken Historikern. Daß die sizilische Geschichte neben die griechische und römische gestellt wird, kreidet E. Schwartz, Griechische Geschichtschreiber, Leipzig 1957, 36, dem Regionalismus des Sikelioten Diodor als „eine spezielle Geschmacklosigkeit“ an. Die regionale Verwurzelung war es aber (nicht nur im Falle Diodors, sondern auch Ovids), die den Autoren einen selbständigen Zugang zum Phänomen Rom ermöglichte. Sie konnten es gewissermaßen „von außen“ sehen.
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in die römische Tradition mündet. Die Stationen macht Ovid namhaft (vgl. auch die Zusammenfassung met. XV 426-430): Die erste Polis ist Theben. Dementsprechend ist seine Gründung in Verbindung mit der Europasage ein wichtiger Gegenstand der ersten Bücherpentade. Die zweite Pentade beginnt im Zeichen Athens (Bücher VI-X). Es folgen Troja und Rom (Bücher XI-XV). Die Verbindung von Mythologie und Geschichte darf uns nicht verwundern, was ein Blick auf hellenistische Universalhistoriker bestätigt. Diodor, dessen Werk erhalten ist, verfährt in seinen ersten Büchern ähnlich wie Ovid, so daß der Anschluß des Dichters an hellenistische Universalgeschichten direkt nachweisbar ist. Natürlich liegt, dem Unterschied zwischen Dichtung und Historie entsprechend, bei Diodor das Gewicht auf dem historischen, bei Ovid auf dem mythischen Teil. Doch beide Autoren beginnen mit einer Weltschöpfung, die nicht mythisch, sondern „physikalisch“, also im Sinne der damaligen Wissenschaft konzipiert ist. Auch Ovids „zweite“ Zoogonie nach der Sintflut entwickelt – wie schon Diodor – die damals für wissenschaftlich gehaltene Theorie der Urzeugung von Lebewesen aus erwärmtem Schlamm. Heute würde man solche Texte als science fiction bezeichnen. Daran schließt sich bei beiden ein mythologischer Teil. Im Unterschied zu Diodor drängt Ovid das Ägyptische zurück. Immerhin erscheint auch bei ihm Io-Isis im ersten Buch (übrigens in scharfem Gegensatz zur restriktiven Religionspolitik des Augustus: Ovid, met. I 568-750; Diodor I 11,4) und das Schicksal des Kadmos (Diodor 4,2) und seines Stammes (Dionysos!) im vierten. Perseus steht bei beiden Autoren vor Hercules. Der regionale Standpunkt ist wichtig und produktiv: Als Nicht-Stadtrömer konnte Ovid Rom und seine Bedeutung gewissermaßen „von außen“ betrachten. Das Rom, das für ihn am Ende der welthistorischen Entwicklung stand, umfaßte auch und besonders die griechische Kultur.
2. Etwas länger sei bei den Heroiden verweilt. Tritt doch die Romanisierung in dieser von Ovid erfundenen Gattung, die noch zu wenig Beachtung gefunden hat, in ein besonders fesselndes Stadium. Wie Ovid bereits in den Amores geistig einen Standpunkt einnahm, der über der einzelnen Gattung stand (man beobachtet dies schon bei der Wahl des Themas am Anfang, aber auch im ganzen Werk beim „Einschluß“ (inclusion) von Elementen anderer Gattungen bis hin zur griechischen Aitiologie), so öffnet sich Ovid in den Heroiden in noch viel stärkerem Maße dem Der
Terminus wurde von Francis Cairns geprägt.
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Einfluß anderer Literaturgattungen. In der Tat spiegelt er in die Kleinform des Briefes jeweils ganze Tragödien, ja ganze Epen. Die gewählte subjektive Perspektive der enttäuschten liebenden Frau gestattet ihm dabei, z.B. die ganze Odyssee von einem ungewöhnlichen Standpunkt (dem der verlassenen Penelope) mit fast advokatisch anmutendem Scharfsinn durchzuarbeiten und einem Argumentationsziel dienstbar zu machen. Ähnliches gilt von der Ilias: Mit den Augen der gefangenen Briseis gesehen, liefert das Epos Material, um die Unzulänglichkeit Achills nicht nur als Liebhaber, sondern auch als Held nachzuweisen. Auch wenn ihn Briseis zum Kampfe aufruft, soll dies letztlich ihren eigenen Zwecken dienen. Romanisierung zeigt sich in der bewußten Verwendung römisch-juristischer Argumente: Der Eigentümer Achill hat es versäumt, die ihm geraubte „Sache“ – die Sklavin – zurückzufordern. Bei Ovid geht die Romanisierung – dem Unterschied der Generationen entsprechend – inhaltlich mit einer Entmilitarisierung und Vermenschlichung einher (Briseis und Penelope denken zunächst nicht in heroischen Kategorien, sondern sprechen vom Standpunkt der liebenden Frau). Auch im Verhältnis zum vergilischen Epos macht der Dichter bewußt den Abstand deutlich, wenn er Dido die pietas des Aeneas weit radikaler in Frage stellen läßt, als dies Vergil möglich war. So wird sichtbar, daß Ovid innerhalb der Romanisierung eine neue Stufe bedeutet. Die private Daseinserfüllung steht nicht mehr nur in einer Spannung zur gesellschaftsbezogenen (wie dies bei Vergil der Fall ist), sondern bekommt den Vorzug vor dieser. Neben der inhaltlichen Romanisierung und Modernisierung (man kann hier von einer Intertextualität unterschiedlicher kultureller „Codes“ sprechen) steht der bewußte Dialog mit den großen literarischen Gattungen, die in die relativ kleine Form der Epistel eingeschlossen werden (zum Terminus inclusion vgl. Anm. 5). Die tragfähigste Brücke zwischen Brief und Tragödie ist der tragische Monolog der Heroine, den Ovid vielfach zum Monodrama in Briefform entwickelt. Der Brief wird zum geistigen Selbstbildnis der Frau (Unwahrscheinlichkeiten werden dabei in Kauf genommen; z.B. schreibt Deianira weiter, obwohl sie inzwischen erfahren hat, daß der Adressat gestorben ist). Der Brief ist innerhalb der Kunstpoesie eine späte Erscheinung. Ovid macht diese kleine Gattung zum Spiegel der großen Genera, ja eines nicht geringen Teiles der griechischen Literatur. Der Aufbau der Heroidensammlung erweist sich unter dem Gesichtspunkt der Intertextualität mit griechischer Literatur (und ihrer Romanisierung) als wohldurchdacht. In der ersten Heptade (Siebenergruppe) steht die Auseinandersetzung mit der epischen Tradition im Vordergrund; diese reicht von Homer (Nr. 1 und 3) über Apollonios (Nr. 6: Hypsipyle) bis zu Vergil (Nr. 7: Dido). Als wichtiges poetisches Korrektiv erscheint gleich nach Homer Kallimachos (Nr. 2: Phyllis), der neue Kunstprinzipien und ein sub-
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jektives Prisma liefert, so dass die epische Tradition in farbiger Brechung erscheint. Die erste Siebenergruppe der Heroiden ist mit der zweiten dadurch verklammert, daß der mittlere Brief (Nr. 4: Phaedra) die Verbindung zur Tragödie, dem Hauptbezugspunkt der zweiten Siebenergruppe, herstellt. In der zweiten Heptade (Nr. 8-14) stehen Tragödienstoffe im Mittelpunkt. Wie in der ersten gibt es jedoch auch in dieser Gruppe einen Brief, der die Brücke zur benachbarten Heptade schlägt und zugleich Ovids Kallimacheertum dokumentiert: Es ist die Ariadne-Epistel (10), die mit Catulls 64. Gedicht, dem sog. Epyllion, konkurriert. So verhält sich die zweite Heptade komplementär zur ersten. Die Briefe der zweiten Serie beziehen sich auf Dramen des Aischylos (Nr. 14: Hypermestra), Sophokles (Nr. 8: Hermione; Nr. 9: Deianira) und Euripides (Nr. 11: Canace; Nr. 12: Medea; Nr. 13: Laodamia). Was die Art der Romanisierung betrifft, so erstrebt Ovid auch hier wieder ein Kontrastmodell zur traditionellen Überbetonung der patria potestas in Rom: Im Canace-Brief erscheint der Vater übertrieben grausam (in gleichem Sinne bedauert Hypermestra ihre Schwestern, die aus falschem Gehorsam unmenschlich handelten). Besonders aufschlußreich ist der Kontrast gegenüber Aischylos im Hypermestra-Brief. Ovid steht unter Philologen in dem Ruf, er erotisiere alle seine Stoffe. Hier aber ist das Umgekehrte der Fall. Aus der Verteidigungsrede der aischyleischen Aphrodite sind uns unsterbliche Verse bewahrt, die man als ein Hohes Lied der Liebe bezeichnen muß. Im Vergleich mit der kosmischen Urkraft des Eros bei Aischylos fällt auf, daß bei Ovid im Hypermestra-Brief von sinnlicher Liebe kaum die Rede ist. Um so mehr betont der Römer die pietas und die Verurteilung der Bruderkriege. Ovid hat hier den Eros zu pietas vergeistigt: eine kühne Romanisierung! Er wird nicht müde, uns durch überraschende Wendungen seines intertextuellen Dialogs mit den großen Erscheinungen der griechischen Literatur zu überraschen. Wie er am Ende der ersten Heptade den für die Römer verehrungswürdigsten Epiker, Vergil, gegen den Strich las, so jetzt den ehrwürdigsten der drei großen Tragiker. Seine Kritik ist in beiden Fällen nicht negativ, sondern positiv. Nach dem mörderischen Zeitalter der Bürgerkriege bricht er eine Lanze für die altrömische pietas: einer tapferen Frau traut er zu, sich dem verrohenden Einfluß männlicher Politik zu entziehen. Einem falschen Gehorsam stellt er mutig eine neu definierte pietas gegenüber. In der dritten Siebenergruppe (Nr. 15-21) verbindet sich mit der Romanisierung griechischer Gattungen ein höherer Grad der Selbstreflexion: Es kommen nicht nur Antwortschreiben der Männer hinzu, sondern auch der Dialog des Dichters mit seinem eigenen Schaffen. Vielsagend steht am Auch Apollonios von Rhodos liest er gegen den Strich: Anders als die kühl-vernünftige Hypsipyle bei Apollonios ist Ovids Heroine leidenschaftlich empört.
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Anfang der Brief der Dichterin Sappho, welche die Werbungstopik der römischen Liebeselegie aus dem Männlichen ins Weibliche übersetzt. Die Schreiberin wird am Anfang als „männlich“ vorgestellt; der Geliebte Phaon trägt „mädchenhafte“ Züge. Manche Stellen scheinen Ovids spätere Autobiographie anzukündigen (15,79; vgl. trist. IV 10,65), andere antworten auf die Liebeselegien (15,80; am. II 4,10). Das für diesen Brief charakteristische Hin- und Herpendeln zwischen der Schreiberin und dem Adressaten scheint die nun folgenden Doppelbriefe vorzubereiten. Was die Auseinandersetzung mit der Tradition betrifft, so steht hinter dem ersten Briefpaar (Paris und Helena) homerische, hinter den beiden letzten hellenistische (kallimacheische) Tradition. So kehrt die Sammlung zu den Hauptbezugstexten des Anfangs zurück. Neu ist der Dialog zwischen Männer- und Frauenbrief; hinzu kommt ferner, daß diese Episteln in weitem Umfang auf Werke Ovids Bezug nehmen (Frauenbriefe, Liebeselegien, Liebeskunst). Während die ersten beiden Heptaden sich mit bedeutenden klassischen, hellenistischen und römischen Texten auseinandersetzen, tritt nun die Selbstreferenz als neue Komplikation der Intertextualität in den Vordergrund. Dies erklärt die zahlreichen Selbstzitate in diesen Briefen. Die Ursache für ihr vermehrtes Auftreten liegt also nicht in einer Ermüdung von Ovids Talent oder gar in der Unselbständigkeit eines Nachahmers, sondern in der poetologischen Zielsetzung dieses Werkteils. Ähnlich hatte Ovid im letzten Buch der Liebeselegien die Öffnung der Gattung zu seinen übrigen Werken hin angedeutet. (Wie dort, erscheinen auch hier bereits indirekte Hinweise auf die Metamorphosen). Ovids Paris hat offensichtlich die Ars amatoria gründlich studiert. Es hat Ovid Vergnügen bereitet, von seiner ketzerisch-alexandrinischen Rezeption der epischen und dramatischen Frauengestalten zu einer weiteren, komplizierteren Form der Intertextualität fortzuschreiten. Er kreuzt nicht mehr nur homerische mit kallimacheischer Poetik, sondern (fremdbezogene) Intertextualität mit (korpus-immanenter) Intra-textualität: eine Art poetologischer Engführung mit antichronologischer Umkehrung der Rezeptionsrichtung. Bisher ist deutlich geworden, daß Briseis die Ilias und Penelope die Odyssee für ihre Zwecke ausschlachten. Jetzt aber wird klar, daß Paris und Helena Ovids Ars amatoria verinnerlicht haben: in der Tat eine kühne Form der „Romanisierung“! Das ist poetologisch die Pointe dieser Texte. Helena hat dabei einen intellektuellen Vorsprung vor Paris, der sich trotz seiner Kenntnis der Liebeskunst in Illusionen wiegt. Dagegen durchschaut die Frau die Brüchigkeit seiner Argumente und gibt dennoch der Leidenschaft für ihn – wenn auch mit „anständigem“ Zögern – nach. Sie geht also sehenden Auges ins Unglück. Die Romanisierung ist in diesem Briefpaar sehr weit getrieben: Der Spott über den Ehemann Menelaos, der selbst am Ehebruch seiner Frau schuld sei, läßt im Rom der
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augusteischen Ehegesetze an Deutlichkeit nichts zu wünschen übrig. Das Nebeneinander von Homer- und Kallimachosnachfolge (das auch für die Metamorphosen konstitutiv ist) hat eine doppelte Wirkung: Das homerische Liebespaar wird dem Leser durch zeitgenössische Anspielungen nähergerückt; umgekehrt stützt sich Ovid bei der Behandlung hellenistischer Stoffe (Hero und Leander; Acontius und Cydippe) auf Kunstmittel der hohen Poesie, um einem unpolitischen Gegenstand innere Größe zu verleihen. Hinter der Zusammenstellung heterogener Elemente steht die Absicht, den kallimacheischen Ansatz (der sich überwiegend auf „Kunst“, „Technik“, ars beruft) mit der großen Dichtung der klassischen Zeit (die man haupsächlich vom inspirierten Genie des Dichters, ingenium, her definierte) in einer neuen Einheit von (beherrschter) Natur und (inspirierter) Kunst zusammenzuführen. Bezeichnend sind Ovids Äußerungen über den hellenistischen Dichter Kallimachos („so schwach sein Talent, so stark ist sein Kunstverstand“ quamvis ingenio non valet, arte valet: am. I 15,14) einerseits und andererseits über den altrömischen Epiker Ennius („ein Riese an Talent, aber roh als Künstler“ ingenio maximus, arte rudis: trist. II 424). Die in den Metamorphosen kenntliche Absicht, große Dichtung und hellenistische Kleinform zu vermählen, liegt also bereits der Erfindung der Heroiden als poetisches Programm zugrunde. Bei den Anspielungen der Doppelbriefe auf die gleichzeitig entstehenden Metamorphosen steht das zentrale achte Buch im Vordergrund. Auch in jenem Buch offenbaren Stoff und Behandlung, wie Chrysanthe Tsitsiou gezeigt hat, die Absicht, epische, tragische und kallimacheische Poetik zu verbinden. Ovids Weg zur – elegisch beseelten und kallimacheisch verfeinerten – epischen Dichtung ist innerhalb der Frauenbriefe vorbereitet. Der Zug zur Monumentalisierung (welcher der kallimacheischen Kleinkunst zuwiderläuft) muß dabei als römisch-italisches Moment hervorgehoben werden. Im Unterschied zur Monumentalisierung des Politischen und Öffentlichen, wie wir sie bei früheren lateinischen Dichtern finden, erreicht Ovid eine neue Stufe der Romanisierung literarischer Stoffe und Gattungen, indem er das Private einer monumentalen Darstellung für würdig erachtet.
3. Nun zur Romanisierung des Griechischen – von einfachen Einzelzügen bis hin zur Schöpfung einer neuen römischen Identität! Hier kommt im Ge C. Tsitisiou-Chelidoni, Ovid, Metamorphosen Buch VIII. Narrative Technik und literarischer Kontext, Frankfurt 2003. Zur Behandlung der Zeit in den Metamorphosen jetzt T. Cole, Ovidius Mythistoricus. Legendary Time in the Metamorphoses, Frankfurt 2008, bes. 61-71 zur Periodisierung der Geschichte.
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gensatz zur peripheren Perspektive die urbanitas zur Geltung, aber auch ein fast mimischer Verismus. Beginnen wir mit relativ Offenkundigem: Ovid bringt seinen Leserinnen und Lesern die griechischen Mythen nahe, indem er Verbindungen zum römischen Leben herstellt. Solche Züge beanstandeten kritische Philologen als „Anachronismen“. So werden die Tränen der um Phaethon trauernden Schwestern zu Bernstein, der künftig römischen Damen als Schmuck dienen soll (nuribus mittit gestanda Latinis: met. II 366). Auch die Mentalität der Großstadt wird in die Erzählung hineinprojiziert: Wie ein römischer Jüngling ruft Apollo (met. I 498) beim Anblick von Daphnes bezaubernd unordentlichem Haar: „Wie, wenn es erst frisiert wäre!“ (quid, si comantur?). Die Ureltern Deucalion und Pyrrha schwingen sich angesichts des göttlichen Befehls, zur Wiederherstellung der Menschheit Steine hinter sich zu werfen, zu keinem höheren Gedanken auf als: „Was kann ein Versuch schon schaden?“ (quid temptare nocebit?: met. I 397). Sie erscheinen hier wahrlich als römische Pragmatiker. Anläßlich von Juppiters Affäre mit Semele schimpft Juno in gutem Alltagslatein wie eine römische Ehefrau: „Sie ist schwanger. Das fehlte noch!“ (concipit! Id deerat!: met. III 269). Eine höhere Stufe der Romanisierung ist erreicht, wenn die Götterwelt und die gesamte Weltgeschichte mit Rom in Verbindung gebracht werden. Wie in der römischen Gesellschaft unterscheidet Ovid auch im Himmel zwischen Vornehmen und der Plebs (met. I 173); eine besonders vornehme Wohngegend im Himmel nennt er folgerichtig den dortigen „Palatin“ (palatia caeli: met. I 176). Der im ersten und im letzten Buch anklingende Vergleich zwischen Juppiter und Augustus (als dem himmlischen bzw. irdischen Kosmokrator) setzt die bei Vergil und Horaz vorbereitete theologische Rechtfertigung – Legitimierung – des Prinzipats folgerichtig fort. Der faktischen Romanisierung der bewohnten Welt (Oikumene) entspricht die Romanisierung der theologia fabulosa unter dem Einfluß der theologia civilis. Doch bleibt Ovid nicht bei bloßer Affirmation stehen. Ein neuer Ton ist das Schlußwort der Metamorphosen mit der Feststellung, nicht einmal Juppiters Zorn werde Ovids Werk zerstören können. Hier ist die Auflehnung des Individuums ebenso spürbar wie in der feinen Unterscheidung zwischen der Apotheose Caesars und Ovids. Während Caesars Seele nur „höher als der Mond“ fliegt (met. XV 848), also gerade die unterste Region des Himmels Solche Elemente der „Verbürgerlichung“ des Mythos setzen natürlich ähnliche Tendenzen der hellenistischen Dichtung fort. Bezeichnend für Ovids Romanisierung des Mythos ist besonders das erste Zitat mit der Verbeugung vor seinen römischen Leserinnen. Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, / terra sub Augusto est; pater est et rector uterque (met. XV 858 ff.). Angedeutet ist die Parallele auch I 204 f.
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überwindet, wird Ovid „ewig über die hohen Sterne fliegen“ (met. XV 875 f.), also weit über Caesar hinaus. Hier ist die Selbstbehauptung des ingenium (trist. III 7) gegenüber der Zentralgewalt bereits vorweggenommen. Dabei spielt das Imperium als der Bereich, in dem des Dichters Werk gelesen wird, eine bedeutsame Rolle. Der politische Raum wird als kultureller Raum erfahren. Die horazische Einengung auf den Staatskult (Hor. carm. III 30) entfällt. Ein eigenes Kapitel würde Ovids Romanisierung der kallimacheischen Aitia in den Fasti erfordern, einem Werk, das auch wegen seiner höchst komplexen intertextuellen und intratextuellen Bezüge mehr Beachtung verdient als ihm bisher zuteil geworden ist10. In den Metamorphosen beruht Ovids Romanisierung des griechischen Mythos auf einer eigenen Konzeption des Römertums. Hier ist der Vergleich mit Vergil lehrreich. Dieser war gegen den Strom der literarhistorischen Entwicklung geschwommen, um zu den Quellen zu gelangen: von dem relativ modernen Theokrit über Arat und Hesiod zu Homer. Indem er so im Ringen mit immer älteren Meistern zu sich selbst fand, konnte er zur griechischen Kultur in gültiger Form einen Gegenentwurf schaffen. Die Gattungen, die er bearbeitete, wurden so nicht nur romanisiert, sondern von innen her neu geschaffen. Ovids Suche nach einer eigenen und einer neuen römischen Identität begann ebenfalls im Zeichen einer Moderne, und zwar innerhalb einer bereits etablierten zweisprachigen Tradition. Er nennt sich bis an sein Lebensende tenerorum lusor amorum (z.B. trist. IV 10,1) und versteht sich als vierten in der Reihe der römischen Elegiker (nach Gallus, Tibull, Properz). Als „Vollender der neoterischen Kunstbestrebungen“ (E. Martini)11 steht er bereits in einer römischen Tradition. Diese seine Anfänge haben Auswirkungen auf sein Selbstverständnis und auf sein Rombild, das sich von dem stärker politisch orientierten eines Vergil durch größere Offenheit und Weite unterscheidet. Die Identität Roms hat sich im Laufe einer Generation 10 Andeutungen in meinem Buch Ovid. Eine Einführung, Stuttgart 2003, 168-203, bes. 202 f.: „Die Einbeziehung griechischer Wissenschaft und Mythologie einerseits und römischer Bräuche und Ursprungssagen andererseits macht den Festkalender zum griechisch-römischen Universalgedicht. Dabei wird im Unterschied zu den Metamorphosen der historische Prozeß nicht in seinem Verlauf nachgezeichnet, sondern in Gestalt von Gedenktagen auf den Kreis eines Jahres projiziert. Anders als in den Metamorphosen stehen im Festkalender zunächst nicht die Mythen, sondern die Riten im Vordergrund. Die Konkretheit des Rituellen vermittelt dem Römer ein lebendiges Empfinden für die Gegenwärtigkeit historischer Erinnerung ... In diesem Sinne ist die Abfassung des Festkalenders ein Akt individueller und kollektiver Identitätsstiftung in der Dimension des Gedächtnisses, der eigentlichen Domäne der Dichtung”. Für die Bibliographie zu Ovid sei ebenfalls auf mein Buch verwiesen. Der neueste Forschungsbericht von U. Schmitzer, Neue Forschungen zu Ovid – Teil III, “Gymnasium” 114 (2007), sollte kritische Leser dazu anregen, sich von den dort vielfach mehr gelobten oder getadelten als referierten Arbeiten ein eigenes Urteil zu bilden. Quis custodiet ipsos custodes? 11 E. Martini, Einleitung zu Ovid, Praha 1933, 78.
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gewandelt. Liebe erscheint auch in den Metamorphosen als ein beherrschendes Thema – jetzt in schicksalhaftem Zusammenhang. Aber private Liebe wird nun auch ohne politischen Kontrapunkt epischer Darstellung für würdig befunden. Entschiedener noch als in der Aeneis steht der Friedensgedanke im Vordergrund. Charakteristisch für Ovids Überwindung einer einseitig maskulinen Perspektive durch eine gleichwertige Behandlung beider Geschlechter sind die ovidischen Doppel-Apotheosen. Eine solche wird im zentralen achten Buch Philemon und Baucis zuteil. Gleiches gilt aber von den Herrscherpaaren der ersten Polis (Theben) und der letzten Polis (Rom): Cadmus und Harmonia und Romulus und Hersilia. Früheren literarischen Gestaltungen römischer Identität stellt Ovid nicht nur in Metamorphosen und Fasti, sondern auch in seiner Exildichtung ein eigenes Rombild entgegen – und dies in schmerzlichem Kontrast zu seinen persönlichen Erfahrungen mit dem Herrscher. Ovid konstruiert dort ein musisches Herrscherbild und das Bild eines geistigen Rom, das sich weit über die traurige Wirklichkeit des Prinzipats erhebt und das als solches eine eigene Wirkung entfaltet, die dauerhafter ist als die politische Fortwirkung des Imperiums. Hier hat Ovid dem von Rom zwar beherrschten, aber nie seiner schöpferischen Eigenart beraubten Italien seine Stimme geliehen und eine weltumspannende Identität geschenkt. Treffend hat Wilamowitz von Ovid als dem ersten „Vollblutitaliener“ der Weltliteratur gesprochen.
Laudes Italiae (Georgics 2.136-175): Virgil as a Caesarian Hesiod Stephen Harrison
This paper argues that the celebrated laudes Italiae passage at Virgil (georg. 2.136-176) is metaliterary and refers to the Georgics themselves: the statements made about the Italian landscape itself also apply to the poem being written about the Italian landscape, and the Georgics itself is a laudes Italiae on a larger scale. It also argues that the passage is metageneric, negotiating the space for the Georgics within the broader context of the epic tradition: contrasts are drawn here between Virgil’s poetic enterprise and previous hexameter poems with which the Georgics has connections and which were prominent through Latin translations in the 30’s BCE – the Argonautica of Apollonius of Rhodes, and the didactic poems of Nicander who supplies both some content (e.g. on snakes) and the title (Georgika) of Virgil’s poem. One of the main functions of the passage is thus to map out the literary space within epos which the poem will occupy. The episode of the laudes Italiae is also, I contend, much more firmly rooted than scholars have thought in the anti-Oriental and pro-Italian propaganda of the period surrounding the battle of Actium. The references to Media and the East are partly echoes of the triumphant career of Alexander the Great (and perhaps of the poems written about him), but they also recall the continuing danger from Parthia and the contemporary victories of the young Caesar in the aftermath of Actium, the period of 31-29 BC, a date clearly pointed to by 2.170-172. The superiority of the Italian landscape over the inferior regions of the East in flora, fauna and natural advantages is a clear symbol of Caesarian Italy’s victory over the Antonian East. The poet adds a personal element to this, in that two of the regions mentioned (Lake Benacus and Avernus) are drawn from the two parts of Italy connected with his personal life, where he was born and where he was residing at the time of the Georgics – Mantua and the Bay of Naples. * My thanks to Mrs. Carla Canussio and the Fondazione Niccolò Canussio for their splendid hospitality at Cividale. This paper explores further some issues raised in Harrison 2007, 138-148; my thanks to the audience at Cividale and to another at the Scuola Normale Superiore di Pisa for their constructive comments.
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All this contemporary allusion helps to present Virgil in the laudes Italiae (and hence in the Georgics as a whole) as a Caesarian Hesiod, a didactic poet in an established literary tradition but with modern political and nationalist commitment. In the climax to the passage at 2.176 the Hesiodic tradition of agricultural epos is explicitly reframed in a new and living Italian context, just as Homeric heroic epos is reworked for the poet’s own time in the Aeneid. In what follows, I will analyse Georgics 2.136-176 closely from this perspective.
1. Georgics 2.136-139. Italy, The East and Alexander sed neque Medorum silvae, ditissima terra, nec pulcher Ganges atque auro turbidus Hermus laudibus Italiae certent, non Bactra neque Indi totaque turiferis Panchaia pinguis harenis. But let not the woods of the Medes, the richest of lands, nor the fair Ganges, nor the Hermus, murky with gold, vie with the praises of Italy, no, not Bactra or the Indians, or the whole of Panchaia rich with its incense-bearing sands.
This passage which introduces the episode lays immediate emphasis on contrast with the East. Medorum picks up the preceding discussion of the Median citrus-tree (2.126-135), but to a reader of contemporary Roman poetry the somewhat antiquarian term ‘Medes’ (like ‘Persians’) was becoming a familiar way of referring to the contemporary hostile state of Parthia: we may compare Horace carm. 1.2.51-52: neu sinas Medos equitare inultos / te duce, Caesar; 1.29.4-5: horribilique Medo / nectis catenas; 2.9.21-22: Medumque flumen gentibus additum / victis minores volvere vertices; 3.3.43-44: triumphatisque possit / Roma ferox dare iura Medis; 4.14.41-43: te Cantaber non ante domabilis / Medusque et Indus, te profugus Scythes / miratur; carm. saec. 53-54: manus potentis / Medus Albanasque timet securis; Propertius 3.9.25: Medorum pugnacis ire per hastas; 3.12.11: neve tua Medae laetentur caede sagittae. From the disaster of Carrhae in 53 and the failure of Antony’s expedition in 36 until the diplomatic settlement of 21/20, the Parthians constituted Rome’s main unsubjugated Eastern enemy, and these references are clearly made against this background. Italy’s natural resources are made to outclass those of her political foes.
1 For some recent accounts of the passage which set the context, see e.g. Ross 1987, 115-119; Jenkyns 1998, 352-371; Cramer 1998, 70-114; Nappa 2005, 78-85, and the standard commentaries of Thomas 1988 and Mynors 1990. Cf. Horace carm. 1.2.22; 3.5.4, with Nisbet - Rudd 2004, 84.
Laudes Italiae (Georgics 2.136-175): Virgil as a Caesarian Hesiod
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These lines outlining the superiority of Italy to the East also present some echoes of the career of Alexander the Great. Bactria (138) had been a key part of Alexander’s conquests, India (138) his final stopping-place, the river Ganges (137) his supposed ultimate destination, while the Hermus (137) as river of Sardis points to that city’s surrender to Alexander in 334 BCE. This can be closely linked with the young Caesar’s self-presentation as a new Alexander in the years 31-29, a comparison which had also attracted Antony before Actium: at georg. 4.560-562 we see Caesar conquering at the Euphrates, taking over Alexander’s traditional title of magnus (4.560) and his historical role as subjugator of the East, while the description of Antony as leader of the Orient in the account of Actium on the shield of Aeneas (Aen. 8.685-688) likewise presents him as marshalling the forces once overcome by Alexander and soon to be mastered by the young Caesar. Recall of Alexander’s mastery of the East here thus has a lively contemporary reference at the period of Actium. These references to the regions of Alexander’s conquests also suggest allusion to literary history and to literary self-positioning. Augustan poets were fully aware that Alexander was the subject of epic by his contemporaries, and that these poets (notoriously Choerilus of Iasus) were deemed to have been inadequate to the task (cf. Horace epist. 2.1.232-237). As already noted, Virgil’s praise of Italy and of the young Caesar in the Georgics as a whole can itself be seen as a laudes Italiae, and these lines can be read as setting Vergil’s Italian great poem against the turgid Alexander epics: poems in which Bactria, India and the Hermus played a role cannot compete with the modern laudibus Italiae (138) in the Georgics itself. The Hermus ‘eddying with gold’ (137: auro turbidus Hermus) is a neat symbol for such turgid poetry: the symbolic language of large and disturbed Eastern rivers surely recalls the famous characterisation of the Euphrates as a large and muddy stream in Callimachus’s Hymn to Apollo (107-112), a passage echoed elsewhere in Virgil: to;n Fqovnon wJpovllon podiv t∆ h[lasen w|de; t∆ e[eipen: “ jAssurivou potamoi`o mevga~ rJovo~, ajlla; ta; pollav For these items in Alexander’s career see conveniently Lane Fox 1973, 292-300 [Bactria]; 331402 [India]; 128 [Sardis]; for the Ganges as Alexander’s supposed ultimate objective see Curtius 9.2.1; Diodorus 17.93; Plutarch Alex. 62; Arrian Anab. 5.26.1 (Lucan 3.229-234 even claims that Alexander reached the Ganges). For Augustus and Alexander see Kienast 1969; on Antony and Alexander in the 30’s BC (and the Roman passion for Alexander-imitation in general) see Spencer 2002, 24-26. Note especially Bactra (8.688), the only other mention of this region in Virgil. With the useful discussion of Spencer 2002, 128-134. See Thomas - Scodel 1984.
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luvmata gh`~ kai; pollo;n ejf∆ u{dati surfeto;n e{lkei. Dhoi` d∆ oujk ajpo; panto;~ u{dwr forevousi mevlissai, ajll∆ h{ti~ kaqarhv te kai; ajcravanto~ ajnevrpei pivdako~ ejx iJerh`~ ojlivgh liba;~ a[kron a[wton”. Apollo kicked Envy with his foot and spoke as follows: “Great is the stream of the Assyrian river, but it drags along many off-scourings of the land and much rubbish on its waters. The water which the bees carry to Demeter is not from every source, but is whatever comes pure and uncontaminated from the holy spring, a small trickle, the very best”.
As in Callimachus, the Georgics can here be seen as using water-symbolism to set out its own literary qualities, defining itself as superior to the turbid and turgid tradition of Alexander-epic, and as equivalent to the pure spring-water offered to Deo (Demeter); here it is interesting to note that Ceres / Demeter is prominent in the opening catalogue of rural gods invoked in support of the poem at georg. 1.5-28 (1.7: alma Ceres), and that the bees of Callimachus who haunt clear water might find some echo in those of georg. 4. This metapoetic stance fits well with the general Hellenistic and Callimachean aesthetic of the poem. In these opening lines, therefore, a key complex of themes is established for the episode. The Eastern locations recall both the contemporary political contest with the Parthians and the historic conquests of Alexander. Both this episode and the whole of the Georgics are then presented as praise of Italy as superior to rival Eastern attractions, mirroring the political confrontations of the 30’s BC where Rome had faced first Parthia under Antony’s leadership and then the East joined with Antony under the leadership of the young Caesar at Actium. The young Caesar’s victory thus replays and improves on Alexander’s subjugation of the East; this is mirrored on the literary level in the way that Virgil’s Caesarian poem, the Georgics, overcomes traditionally turgid epic praises of Alexander by adopting a refined Callimachean poetic stance.
2. Georgics 2.140-148. Not the Argonautica haec loca non tauri spirantes naribus ignem inuertere satis immanis dentibus hydri, nec galeis densisque uirum seges horruit hastis; sed gravidae fruges et Bacchi Massicus umor impleuere; tenent oleae armentaque laeta. hinc bellator equus campo sese arduus infert, Note especially Georgics 4.18 (liquidi fontes as a good habitat for bees) and 4.17 (bees ferry food, ferunt ~ forevousi).
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hinc albi, Clitumne, greges et maxima taurus uictima, saepe tuo perfusi flumine sacro, Romanos ad templa deum duxere triumphos. These regions were not ploughed by bulls breathing fire from their nostrils for the sowing of the teeth of the monstrous dragon, nor did the crop there bristle with shields or the dense-packed spears of warriors; but heavy ears of corn and the Massic juice of Bacchus have filled them up, and they are occupied by olive-trees and happy herds. From here the war-horse carries itself loftily across the plain, from here, Clitumnus, the flocks and the bull, the largest victim, often washed in your sacred waters, have drawn the triumphs of Romans to the temples of the gods.
The comparison of the Georgics with other forms of epos has now been firmly established as a reading strategy for the laudes Italiae. The lines that follow can also be interpreted metapoetically: haec loca at 140 can refer to literary passages as well as topographical locations (Horace epist. 2.1.223: loca iam recitata), and both the physical features here excluded from Italy and those claimed for its own may thus be read as symbolizing the subjects of poetry. The literary tradition referred to in 140-142 is clearly the ploughing with fire-breathing bulls and planting of dragons’ teeth by Jason in the Argonaut story (Apollonius Rhodius 3.1278-1407; Valerius Flaccus 7.559-643), as scholars have recognised. Reading this metapoetically, the resulting claim that Virgil’s Callimachean poem contains material different from that of the Argonautic saga is likely to evoke contemporary literary history from the 30’s BCE. One product of that decade seems to have been the Argonautae of Varro Atacinus, probably echoed at georg. 2.404; Virgil’s Callimachean epos may here be differentiating itself from a recent version of the more Homerically inspired poem of Apollonius. The Italian subject-matter of lines 143-148 (corn, wine, olives, flocks) plainly gives ‘the subject-matter of Books 1-3 in order’ (Mynors ad loc.). This kind of summary is repeated at the end of the poem at georg. 4.559-560 (haec super arvorum cultu pecorumque canebam / et super arboribus), but here in the laudes Italiae must be a further suggestion that the episode is a symbolic summary or representation of the poem as a whole – a mise en abyme in narratological terms10. Virgil’s Caesarian praise of Italy in 2.136-176 reflects the themes and structure of the Georgics as a whole: we note that both the whole poem (at georg. 4.560-567) and the laudes Italiae (at georg. 2.170-176) have a climax in a sequence which follows encomium of Caesar with a reference to the poet’s own work.
See 10
Hollis 2007, 196-214. For mise en abyme see Dällenbach 1989.
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3. Georgics 2.149-154. Paradise without pests hic uer adsiduum atque alienis mensibus aestas: bis grauidae pecudes, bis pomis utilis arbos. at rabidae tigres absunt et saeua leonum semina, nec miseros fallunt aconita legentis, nec rapit immensos orbis per humum neque tanto squameus in spiram tractu se colligit anguis. Here spring is incessant, and summer in the other months; the herds are twice yearly with young, the tree is twice productive of apples. But raging tigers and the savage seeds of lions are absent, nor do aconites take in their unfortunate gatherers, nor does the scaly snake drag its measureless rings along the ground or gather itself into a coil in such great length.
These lines continue the literary symbolism. Italy and the Georgics are the location of a paradisiacal climate: the claim to continual spring and double fertility is an encomiastic topos rather than a serious agricultural observation, a rhetorical exaggeration, but once again the themes are treated metapoetically and pick up elements from the Georgics itself: spring is the subject of a famous description in this same book (2.319-345), while the care of sheep (pecudes) is dealt with at 3.295-299 and the cultivation of fruit-trees (arbos) has just been dealt with at 2.9-108. The absence of tigers and lions is likewise not just a zoological observation: lions and tigers belong to the exotic Eastern world of Alexander’s conquests (Curtius 9.8.2) and lions to the world of Homeric similes11: this surely reflects the alternative epic traditions of Alexander-style conquest (see above) and Homeric heroes which the Georgics seeks to avoid. The absence of both poisonous aconite and poisonous snakes is another encomiastic rhetorical exaggeration openly contradicted by the account of snakes at 3.414-449, a passage which indeed echoes several verbal details from 2.153-15412, but again the point is not just to over-emphasise the paradisiacal landscape of Italy13. Here once more there is metapoetical allusion to poetic models from which the Georgics diverge: the conjunction of poisons and snakes irresistibly recalls the extant poetic output of the late Hellenistic poet Nicander, who in the opening of his Alexipharmaka dedicates a considerable section to aconite (12-73) and who spends a third of his The11
For a convenient discussion of Homeric lion-similes see Mueller 1984, 116-120. 2.153 immensos orbis ~ 3.424 tardosque … orbis; 2.153 per humum ~ 3.420 fovit humum; 2.154 tractu ~ 3.424 trahit; 2.154 anguis ~ 3.425 anguis [both at line-end]. 13 Here and elsewhere I disagree with the pessimistic interpretations of Ross 1987 and Thomas 1988. 12
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riaca dealing with poisonous snakes (115-482); when Manilius later comes to summarise Nicander’s two poems, he uses words close to Virgil’s here (2.44: venenatos angues aconitaque). Given that Virgil probably took from Nicander’s lost Georgika the title of his poem but not much else (since that poem seems to have concerned horticulture rather than agriculture)14, this can be taken as another programmatic statement about Virgil’s epos. Though in some sense in the tradition of Nicander, the Georgics will avoid his relentlessly gloomy subject-matter15 and perhaps his lack of poetic sparkle16 by engagement with Italian landscape and Caesarian ideology. Once again, there is also a contemporary reference here. Aemilius Macer’s Latin versions of Nicander’s poems may have been written as early as the forties BC and are likely to have been available to Virgil in the Georgics17. Like the mythic Argonautae of Varro Atacinus, Macer’s versions of the arid Nicander are a contemporary road not taken in the Georgics.
4. Georgics 2.155-164. Caesarian projects adde tot egregias urbes operumque laborem, tot congesta manu praeruptis oppida saxis fluminaque antiquos subter labentia muros. an mare quod supra memorem, quodque adluit infra? anne lacus tantos? te, Lari maxime, teque, fluctibus et fremitu adsurgens Benace marino? an memorem portus Lucrinoque addita claustra atque indignatum magnis stridoribus aequor, Iulia qua ponto longe sonat unda refuso Tyrrhenusque fretis immittitur aestus Auernis? Add to this so many outstanding cities and the labour of building, so many towns piled by hand on sheer rocks, and the rivers flowing below their ancient walls. Or should I mention the sea that washes the land to the east, or that to the west, or the great lakes – you, mighty Larius, and you, Benacus, surging with waves and a roar like that of the sea? Or should I mention the harbours and the barriers added to the Lucrine lake, and the sea indignant with its great murmurings at the point where the Julian waters resound far and wide with their waves flowing back and the tide from the Etruscan sea is sent into the channels of Avernus?
14 See Harrison 2004 for an argument that the ‘Old Man of Corycus’ episode in georg. 4.116-148 alludes extensively to Nicander’s Georgika. 15 For a similar recent assessment of Nicander see Gutzwiller 2007, 103-106. 16 Though it is worth noting that ancient critics had a high view of Nicander as a poet: Cicero de orat. 1.69; Quintilian inst. 10.1.56. 17 See Hollis 2007, 101.
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Here the laudes turn to the towns of Italy and to contemporary building projects. Operumque laborem perhaps suggests an analogy between Caesarian architectural constructions and their poetic counterparts: laborem not only compares the labours of builder and farmer (for agricultural labor cf. e.g. georg. 1.118; 1.145; 2.61) but also evokes the effort of Callimachean poetic enterprises (for labor in this sense cf. georg. 2.39; ecl. 10.1). The relationship between the physical landscape of Italy and the Georgics as the poem which celebrates it is clearly marked by the link between the oppida of 2.156 and the oppida through which the Georgics is sung at 2.176 (see below). One key aspect of the Italian landscape in these lines is its great lakes of Como (Lari) and Garda (Benace): like the Italian river Clitumnus at 2.146, these clearly contrast favourably with the exotic, Eastern streams of the Ganges and Hermus. To these is added Lake Avernus and the Portus Iulius naval complex with connecting tunnels and waterways. The political significance of Agrippa’s works there is clear, for the whole complex was created as preparation for the Naulochus naval campaign in 37/36 BCE (Suetonius Aug. 16.1; Dio 48.50.1-4); in this passage we are now after Actium in the period 31-29 (see below), and the naval battle hinted at here is Actium not Naulochus. The technique of associating the two victories at sea is deployed again at Aen. 8.682-684, where Agrippa is shown at Actium but wearing the naval crown awarded for Naulochus. There is a clear analogy between Agrippa’s service to the Caesarian cause at the Portus Iulius and the poetic achievement of the Georgics: Virgil’s poetic labores encompass and contain the landscape poetically from a Caesarian point of view, just as Agrippa’s feats of engineering in 37/36 B.C. had mastered the landscape for Caesar in a more practical sense. Both Agrippa and Vergil thus contribute to the Caesarian project. Finally, it is worth noting that these lines combine two landscapes fundamentally linked with the poet. Lakes Como and Garda look to the poet’s nearby birthplace in the region of Mantua (cf. georg. 2.198; 3.11)18, while the Portus Iulius is close to Naples, the area where the poet locates himself at the end of the Georgics itself (4.563-564). This also combines the north and the south of the Italian peninsula: matching the Caesarian slogan tota Italia, the poet, his poem and the power of Caesar are presented as covering the whole of Italy19.
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Compare the similar link of Mantua and Como at Aeneid 10.205. For this idea in the Caesarian propaganda of the 30s BCE see still Syme 1939, 276-293.
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5. Georgics 2.165-176. Hesiod updated for Caesarian Rome haec eadem argenti riuos aerisque metalla ostendit uenis atque auro plurima fluxit. haec genus acre uirum, Marsos pubemque Sabellam adsuetumque malo Ligurem Volscosque uerutos extulit, haec Decios Marios magnosque Camillos, Scipiadas duros bello et te, maxime Caesar, qui nunc extremis Asiae iam uictor in oris imbellem auertis Romanis arcibus Indum. salue, magna parens frugum, Saturnia tellus, magna uirum: tibi res antiquae laudis et artem ingredior sanctos ausus recludere fontis, Ascraeumque cano Romana per oppida carmen. This land can show streams of silver and mines of bronze in its veins and has flowed rich in gold. This land has borne a fierce race of men, the Marsi, the Sabine host, the Ligurian inured to suffering and the Volsci armed with javelins, and the Decii, the Marii and great men such as Camillus, the Scipios tough in war and you, greatest of Caesars, who now already victorious on the farthest shores of Asia divert the unwarlike Indian from the citadels of Rome. Hail, great mother of crops, land of Saturn, great mother of men: it is for you that I embark on these matters of ancient renown and my art, daring to open up the holy springs, and that I sing the song of Ascra through the towns of Rome.
As already noted (see 2 above), the climax of the laudes Italiae matches the climax of the Georgics itself in presenting a sequence which follows encomium of Caesar in the East with a reference to the poet’s own work. Here at last we approach the territory of Hesiod: the co-presence in the Italian landscape of silver, bronze and gold, clearly not a metallurgical observation20, picks up the use of these metals in the Hesiodic Myth of Ages (Hesiod WD 106-201)21. It seems that Hesiod’s symbolic sequence of metallic decline (gold - silver - bronze - heroes - iron) is both truncated and deliberately mixed up: the first three metals are all present together in the paradisiacal landscape of Italy, decline seems out of the question, and it may even be suggested that a second age of heroes has now arrived, matching the ‘new age’ rhetoric of ecl. 4.35-36 (erunt etiam altera bella / atque iterum ad Troiam magnus mittetur Achilles)22. Here at least a key Hesiodic idea is being rewrit20 I
take it as rhetorically exaggerated encomium rather than the pessimistic lie argued by Ross 1987,
118. 21 It is also likely to recall the three declining ages (gold - silver - bronze) of Aratus Phaen. 114-136, modelled on Hesiod’s, but the primacy of Hesiod here is suggested by 2.176 (Ascraeumque … carmen). 22 On the political context of this poem see Harrison 2007, 36-44.
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ten for its new ideological and poetical context: the poet of the Georgics is a new Caesarian Hesiod for contemporary Rome. The list of great Italian tribes and heroes in 2.167-170 raises another literary source. The Marsians, Sabellians (Samnites), Ligurians and Volscians all belong to the early history of Rome, and all would have been found in the Annales of Ennius, the key poetic repository of that history for readers of the first century BCE23. A reference to the Annales is confirmed by the use here of the rare adjective verutus, ‘javelin-bearing’ (168), found before Virgil only in Lucretius (4.404) and Ennius (ann. 351 Skutsch), and the archaic form Scipiadas, found in Lucilius and Lucretius, is very likely to have been Ennian in origin24. The list of great Roman heroes climaxes in the presentation of the young Caesar, clearly engaged in his post-Actium Eastern campaigns (171: iam victor) as at georg. 4.560-561. The suggestion seems to be that just as the modern Caesar follows and surpasses (maxime) the legendary figures of early Rome, so Virgil in the Georgics is a new Ennius for a new Caesarian age25. Caesar himself is also here presented as outdoing a great figure from the Hellenic past as well as the heroes of Ennius. As in the Eastern locations set out at the beginning of the laudes Italiae (2.136-139), now recalled in a neat element of ring-composition at its conclusion, the suggestion is that Caesar and his poet are surpassing the achievements of Alexander and his poets. Caesar is hailed as maxime (170), greater than magnosque Camillos (169) but also greater than Alexander Magnus, and his Eastern theatre of operations recalls and encompasses the furthest penetration of Alexander into Asia (171: extremis Asiae … in oris) and even to India, famed scene of Alexander’s operations but reached only diplomatically by the young Caesar26. Greatness is the quality of Caesar, but it is also the quality of Italy itself (173-174: magna … magna) as set out in Virgil’s poem which reflects and matches the landscape it describes : the oppida of 176 (as already noted) look back to those of 156, while the ‘holy springs’ of poetic inspiration (175: sanctos … fontis) echo the ‘holy stream’ of the Italian river Clitumnus (147: flumine sacro). Suitably enough, given the prominent reference to Hesiod’s birthplace in 176 Ascraeum, the sanctos … fontis also recall the evocation of the springs of the Muses at the beginning of Hesiod’s Theogony (5-6: kaiv te loessavmenai
23 There is clear evidence of this for two of the four tribes in the fragments of the poem: cf. Annales 229 Skutsch (Marsa manus); 152 (Volsculus). 24 Skutsch 1968, 148. 25 This fittingly replays a move made by Virgil’s didactic predecessor Lucretius, if the arguments of Harrison 2002 are sound. 26 For India and Augustus see Andre 1986.
Laudes Italiae (Georgics 2.136-175): Virgil as a Caesarian Hesiod
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tevrena crova Permhssoi`o h] ”Ippou krhvnh~ h] ∆Olmeiou` zaqevoio), from which krhvnh~ seems to be echoed in fontis and zaqevoio in sanctos. Precisely as claimed at georg. 3.10-11 (in patriam mecum / Aonio … deducam vertice Musas) in Virgil’s poem the Hesiodic Muses are translated from the mountains of Boeotia to the lush landscape of Italy, and their Greek location is turned to the praise of Virgil’s patria and its leader. Thus the Georgics are presented as a new form of Hesiodic epos for a new location and a new political era. The troubled context of the Works and Days, where trickery and injustice seem to have affected Hesiod’s property and situation, is replaced by the mighty conquests and just rule of a great leader. So too the genre of hexameter epos is optimistically renewed, tied closely to Italy and its regeneration: overcoming the mythological fancies of the Argonaut epics and the dry manuals of Nicander, whether in Hellenistic or contemporary Latin form, surpassing the frigid panegyrics of Alexander and even the great narratives of republican heroism in Ennius’ Annales, the laudes Italiae, mirroring the Georgics as a whole, combine a revival of Hesiodic didactic epos with the contemporary encomium of Caesar and his renascent Rome.
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Bellum Italicum: l’unificazione dell’Italia nell’Eneide Alessandro Barchiesi
L’Eneide è un testo molto promettente per una storia dell’identità italica e dell’identità italiana, due problemi separati ma non privi di collegamento fra loro. Ma un’analisi del poema di Virgilio dal punto di vista di una “storia italica” è spesso naufragata su alcune difficoltà preliminari. Bisogna ammettere anzitutto che il ruolo dell’Italia nel poema è tutt’altro che semplice. L’Eneide è in qualche modo anche la storia della nascita di un’unità, ma si tratta di un’unità che ha poche analogie sia nel mondo antico che in quello moderno. Se si interpreta la storia dal punto di vista tipico del nazionalismo europeo, si nota che persino i più ardenti nazionalisti e irredentisti dell’800 hanno avuto difficoltà con Virgilio e hanno esitato ad adottarlo. La fortuna del poema, se si potesse schematizzarla in breve, conosce i suoi momenti alti più in consonanza con il colonialismo europeo (ad esempio, la colonizzazione delle Americhe con i suoi temi di esilio e distruzione della pace naturale, diaspora e genocidio insieme) che con la vera e propria ideologia “nucleare” dello stato-nazione. Uno dei problemi principali è che il fatalismo di questo poema epico è così totale da entrare in conflitto con le ideologie costruttive e collettive del nazionalismo. Un altro è che il rapporto tra stato, popolo, etnicità e spirito nazionale emerge dal poema come alquanto complicato a dir poco: nel proemio, ad esempio, si parla di una serie di città destinate a scomparire o a perdersi, come Troia, Lavinio e Alba Longa, e si approda poi alla genesi di una stirpe Latina (I 6) – genus unde Latinum, un’espressione
Questo tema non è presente quanto ci si aspetterebbe negli studi letterari sull’epica virgiliana, e i due lavori tuttora più stimolanti in questa prospettiva hanno ricevuto entrambi, per motivi diversi, un’attenzione inadeguata da parte di noi letterati: M. Sordi, Virgilio e la storia romana del IV secolo a.C., in “Athenaeum” n.s. 42 (1964), pp. 80-100 (= Prospettive di storia etrusca, Como 1995, pp. 76-93 = Scritti di storia romana, Milano 2002, pp. 85-105); G. Dumezil, Mythe et épopée, I. L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968. Uno strumento di eccezionale ricchezza per esplorare questa tradizione è oggi J.M. Ziolkowski - M.C.J. Putnam, The Virgilian Tradition: The First Fifteen Hundred Years, New Haven 2008. Per alcuni aspetti della fortuna moderna in rapporto al tema che sto trattando, rinvio alla mia introduzione (“Le sofferenze dell’impero”) a Publio Virgilio Marone, Eneide, trad. R. Scarcia, Milano 2006, pp. L-LII (con bibliografia aggiornata).
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problematica e proprio per questo significativa – e di una città dalle alte mura chiamata Roma. Evidentemente si tratta di entità amiche e affratellate, ma in questa storia Roma non viene fondata, e i Latini passano buona parte della seconda metà del poema a farsi scannare per impedire che ciò avvenga, a causa della loro ignoranza delle leggi del fato: e Alba Longa, secondo tradizione, sarà la prima vittima dell’espansione romana. Quanto all’Italia, essa viene nominata all’inizio del verso 2 del poema, come luogo di destinazione del viaggio di Enea, ma si tratta quasi di espressione geografica. Infatti nella prima metà del poema si parla spesso di ricerca dell’Italia e viaggio verso l’Italia, ma alla fine Enea è l’eroe che cercò l’Italia e finì per trovare Roma. Così voleva il Fato, ci viene detto. Questo ferreo fatalismo ha di fatto bloccato molti tentativi di recupero moderni. Persino fascismo e nazismo, che non guardavano per il sottile, hanno avuto i loro problemi di appropriazione. Quando Rudolf Borchardt, un estetizzante letterato austriaco con simpatie mussoliniane, tornò in Germania nel 1930 per le celebrazioni del bimillenario di nascita del poeta latino, si sentì dire che il suo Virgilio non era accettabile perché non parlava abbastanza dello stato, der Staat: ma il culto dello stato, tipico della cultura accademica negli anni di Hitler, non ha prodotto appropriazioni convincenti neppure per i nazionalsocialisti. È vero però che l’Eneide è stata frequentata parecchio dai fascisti, e almeno per un aspetto se ne capisce il motivo. L’Eneide illustra il potere di una forma di autorità che non è fondata su un popolo e su un territorio, ma precede la comunità a cui darà un senso e un contenuto, ma da cui sarà legittimata, il senatus populusque Romanus che Enea non potrà vedere. Da questo punto di vista si capisce come l’Eneide sia davvero un testo imperiale o coloniale più che repubblicano, e quale uso ne potessero fare gli ideologi fascisti. Ma l’analogia si ferma davvero presto. La violenza caotica che precede l’ordine romano non è vista come sacrificio o prezzo da pagare (che sarebbe ideologia del tutto compatibile con il fascismo), ma come esito di forze malefiche e irrazionali, che non risparmiano neanche i vincitori; e la nozione di unità etnica o addirittura di omogeneità di discendenza ha un ruolo alquanto ridotto nella visione virgiliana della storia di Roma. Il vero posto dell’Eneide in una storia dell’identità italiana sta piuttosto in un altro aspetto. Il poema dà un forte impulso alla costruzione di un’idea di Italia, e persino di unificazione italica: ma lo fa per un clamoroso e colossale Sulla necessità di affrontare le implicazioni di unde, anche rispetto alla tradizione storiografica, v. l’importante discussione di J. Linderski, Roman Questions, Stuttgart 1995, pp. 337-338. Sull’opera di Borchardt è ora fondamentale E.A. Schmidt, Rudolf Borchardts Antike. Heroischtragische Zeitgenossenschaft in der Moderne, Heidelberg 2006.
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secondo fine. L’Italia deve esistere e soffrire perché Roma debba affermarsi e diventare un impero mondiale. Da questo punto di vista – per quanto anacronistico, dato che stiamo attribuendo all’Italia un senso compiuto che all’epoca non poteva avere – Virgilio è realmente vicino a una tradizione che unisce il Papato (l’Italia è necessaria come contenitore per il successo della Chiesa) a Dante (l’Italia deve affermarsi perché una realtà più alta, il Sacro Romano Impero, possa svolgere la sua missione) – e ad altri sviluppi più recenti. In questa logica, l’identità italiana è segnata da due fatalità ricorrenti, l’eterogenesi dei fini e il tradimento. È un’unità che deve prosperare ma solo perché qualcosa di più grande possa affermarsi. Nel poema di Virgilio l’Italia antica è vista come frammentazione in cui ci sono anche speranze di unità, e il suo ritmo di crescita è l’alternanza ciclica di pace e guerra: alla fine di un lungo processo, che comprende insieme civilizzazione e barbarie, qualcosa di unitario emergerà, ma sarà, un po’ ironicamente per gli sforzi degli Italici, l’impero sovranazionale di Augusto. Può sembrare una visione anacronistica e modernizzante, ma proprio per l’ossessivo fatalismo di Virgilio succede nel poema che gli attori della storia si trovino presi in un meccanismo di anticipazione ironica. È questo il caso del più autorevole fra gli Italici incontrati da Enea, il re Latino: externi uenient generi, qui sanguine nostrum nomen in astra ferant, quorumque a stirpe nepotes omnia sub pedibus, qua sol utrumque recurrens aspicit Oceanum, uertique regique uidebunt. hoc Latio restare canunt, qui sanguine nostrum nomen in astra ferant.
(VII 98-101; 271-272)
In una profezia importante, tanto da essere ripetuta per due volte, il re Latino si è visto promettere che se sceglierà uno straniero come genero la sua stirpe salirà alle stelle. Questa promessa è dunque lo snodo fondamentale della trama, anche se, con ironia epica tipicamente virgiliana, proprio da questa promessa di matrimonio scoppierà una guerra funesta. L’ironia entra in profondità nel testo della profezia, cosa non rara negli oracoli degli antichi: Latino usa “sangue” nel senso di “discendenza”, ma quello che incombe per la sua gente è piuttosto un bagno di sangue; e usa nomen nel senso di fama, ma nomen Latinum è per i Romani una formula prefissata, che indica l’identità latina all’interno della struttura del territorio romano, e soprattutto indica il contributo più significativo che i Latini daranno per secoli a Roma: la partecipazione all’esercito. Ancora una volta il sangue e il nome Latino serviranno a un risultato imprevisto, il dominio di una città che non si iden-
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tifica totalmente con la lega dei Latini e i suoi simboli di appartenenza. I Latini troveranno nel sangue delle battaglie la loro vera funzione rispetto a Roma: come ha scritto John North, con metafora non tanto diversa, «warmaking was the life-blood of the Roman confederation in Italy». Quanto agli Italici, sembra che la loro confederazione ribelle nell’improvvisata capitale di Italica (90 a.C.) si basasse su una rivendicazione che è una variante di questa retorica: l’idea che non si poteva più donare il proprio sangue per coloro che non davano importanza alla consanguineità. Ancora una volta in Virgilio Roma è una sorta di eccedenza, di superamento rispetto al destino delle stirpi italiche. *** Il conflitto fra localismo e identità “globale” è un aspetto importante della storia narrata da Virgilio. Il poema, come abbiamo accennato, si apre con una sorta di atto di speranza nella capacità di superare le proprie origini e di aderire a una nuova patria; ma si chiude anche con una serie di immagini di violenza, che mostrano il prezzo da pagare e la sofferenza inflitta alle comunità locali. L’ultimo gesto attivo del campione italico, Turno, è sollevare una pietra di confine per usarla come arma contro Enea: nec plura effatus saxum circumspicit ingens, saxum antiquum ingens, campo quod forte iacebat, limes agro positus litem ut discerneret aruis. uix illum lecti bis sex ceruice subirent, qualia nunc hominum producit corpora tellus; ille manu raptum trepida torquebat in hostem altior insurgens et cursu concitus heros.
(XII 896-903)
Non disse di più; scorge attorno un macigno immenso, un macigno vetusto, immenso, confine d’un campo che stava per caso piantato nel piano, a dirimere discordia dalle colture. A stento sul collo ricurvi l’avrebbero sorretto due volte sei uomini scelti, quali sono oggi i corpi che la terra produce: afferrato con mano tremante l’eroe lo tirava sul nemico, slanciandosi più verso l’alto e sospinto dalla rincorsa.
Il gesto eroico è omerico, come prova l’aggiunta che solo dodici uomini di oggi potrebbero sollevare la pietra, anche se Turno, per ironia metaletteraria, finirà per non farcela. Ma esiste anche un riferimento a particolarità locali. Un italico come Turno dovrebbe sapere che il terminus, la pietra di confine, è sacra, e difende la proprietà e l’ordine tradizionale. D’altra parte i Troiani
The development of Roman imperialism, “JRS” 71 (1981), pp. 1-9 (a p. 7).
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hanno già violato questo stesso ordine, ad esempio sradicando un albero sacro a Fauno, il più “nativo” e “locale” fra gli dei di questo poema: forte sacer Fauno foliis oleaster amaris hic steterat, nautis olim uenerabile lignum, seruati ex undis ubi figere dona solebant Laurenti diuo et uotas suspendere uestis; sed stirpem Teucri nullo discrimine sacrum sustulerant, puro ut possent concurrere campo.
(XII 766-772)
Era lì per caso che sacro a Fauno un oleastro dalle foglie amare era stato, tronco un tempo religioso ai naviganti, dove salvati dalle acque solevano affiggere doni alla divinità laurente e sospendere le vesti in voto; ma quel fusto consacrato, senza far distinzione, avevano i Teucri tolto, perché potessero affrontarsi in uno spazio sgombro.
I Troiani hanno dissacrato e rimosso, nullo discrimine, quello che per loro è un ostacolo, ma per i Latini è un radicato oggetto di venerazione: l’opposizione del dio Fauno sarà in effetti l’ultimo dei tanti ostacoli sul cammino vittorioso di Enea: un albero dalle foglie amare, dice Virgilio di questo che era apparentemente un inutile tronco per chi non ne conosceva il valore sacrale. Prima ancora dell’atto di violenza che chiude il poema, l’uccisione di Turno (un atto di violenza che non è seguito da alcuna riconciliazione o purificazione, contro tutte le tradizioni della letteratura greco-romana), abbiamo quindi due immagini parallele: i due eroi in conflitto letteralmente travolgono i “confini” stabiliti del paesaggio, naturale e sacrale, del mondo italico per cui si combatte. *** D’altra parte Virgilio non ha fatto nulla per rappresentare l’appartenenza a un luogo e la continuità etnica come un valore assoluto. Se avessimo tempo, potremmo vedere in dettaglio come tutti i grandi personaggi del poema e persino gli dei siano “in transito” da una patria a un’altra. Lo stesso vale per i popoli più importanti: persino dei popoli e delle patrie italiche tradizionali si registra più volte l’origine non autoctona, l’effetto di migrazioni, fusioni, cambi di nome e di regime politico. Possiamo aggiungere che gli unici personaggi per cui Virgilio sottolinea l’essere “nativi” e residenti stabili di una Discrimine è corradicale del discerneret di 898: la guerra finirà per eradere distinzioni ancora più importanti, come quelle fra chi è nato in Italia e chi è immigrato dall’Asia, ma tutte le genti coinvolte pagheranno con il sangue questo superamento dei limiti tradizionali.
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località sono in effetti dei mostri incivili: il cannibale Polifemo e il bestiale brigante Caco, entrambi destinati a perdere nel conflitto con eroi viaggiatori e civilizzatori, Ulisse ed Ercole. Per altri gruppi etnici viene rappresentata piuttosto la mobilità e l’adattabilità a nuove condizioni. Latini e Italici sono già almeno potenzialmente le comunità che faranno da ospite e da contesto per la crescita di Roma, ma non manca nella loro vita una sorta di primitivismo e persino di barbarie da civilizzare. Virgilio ricorre (non senza autoironia) per questa rappresentazione dell’Italia pre-romana a elementi tipici dell’etnografia greca, là dove venivano rappresentati i barbari dell’Occidente e del Nord. In pratica quindi gli Italici che si oppongono a Enea svolgono una funzione ambigua nel mondo di Virgilio: da un lato, come vedremo, già mostrano per allusione i contributi che sapranno dare al melting pot della futura cultura romana, ma dall’altro, quando il narratore vuole, appaiono invece come figura del “barbaro nordico e occidentale”, colui che dovrà essere trasformato in futuro tramite l’impero civilizzatore di Roma. D’altra parte i Troiani stessi non sono affatto rappresentati come una completa prefigurazione dell’identità etnico-culturale dei Romani, a cui pure secondo Virgilio daranno un contributo decisivo. A seconda dei contesti e delle tensioni che si instaurano nel racconto, i Troiani possono apparire ancora troppo “orientali”, in modo tale da bilanciare l’eccesso di primitivismo degli Italici con un almeno potenziale eccesso di incivilimento, che ne farebbe degli orientali in senso negativo. In questa prospettiva, l’Eneide suggerisce che una combinazione di elementi disomogenei ha portato al giusto equilibrio tipico della civiltà romana. Questa civiltà è vista nell’Eneide come una combinazione e contaminazione di fattori, nessuno esclusivo e neppure preminente. Sono tutti fattori che avevano posti di rilievo nelle idee di etnicità e di etnogenesi tipiche del mondo greco-romano: il sangue condiviso, la provenienza territoriale, l’urbanesimo, i costumi e la cultura materiale, la lingua. Nessuno di questi fattori è privo di importanza, ma a nessuno è concesso un privilegio esclusivo. La situazione è comprensibile se si pensa che il mondo augusteo è caratterizzato da forme di cittadinanza allargata, che consentono processi di inclusione e integrazione, e favoriscono nuovi equilibri tra locale e globale, ma escludono la partecipazione politica attiva. La ricostruzione operata dall’Eneide sulle origini di Roma è coerente con questa dinamica di apertura civica e chiusura politica. Nel nuovo impero augusteo, i lettori del poema – e ce ne saranno stati, sin dall’inizio, non solo nell’Urbe ma a Cartagine e a Butroto, in Gallia Magistrale la trattazione di A. Giardina, L’Italia romana: storie di un’identità incompiuta, Roma 1997; v. anche H. Mouritsen, Italian unification, London 1998; e ora E. Bispham, From Asculum to Actium. The municipalization of Italy from the Social War to Augustus, Oxford 2007.
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e in Cisalpina, in Spagna e nelle isole – trovano di fronte a sé una visione aperta e integrativa delle origini di Roma. Questa visione continua una tendenza importante della cultura repubblicana, quella dell’asilo di Romolo, ma il protagonista della vicenda è ora non più il fondatore Romolo, origine nazionale e simbolo della romanità “nucleare” legata al territorio, ma piuttosto quello che era a lungo stato per i Romani il loro personaggio “internazionale”, Enea, non tanto un eroe fondatore quanto un mediatore, colui che collega il Lazio a Roma e l’epica omerica alle origini di Roma, prestandosi a una funzione di prestigioso exemplum nei rapporti interstatali e interculturali. Sviluppando questa tradizione, Virgilio descrive un mondo eroico in cui ci sono più compatibilità e inclusioni che esclusioni e differenze etniche. Se guardiamo alla trama del poema, molte sono le componenti etniche del nuovo impero che possono vedere giustificata una loro partecipazione e vicinanza alla comunità romana. A nessuna, però – questa è l’altra faccia della riconciliazione virgiliana tra i popoli –, viene concesso un privilegio o una stabile superiorità. Fino a un certo punto, riconosciamo in questo la continuazione di una tradizionale strategia politica e diplomatica della repubblica romana: molti stati e città sono ammessi a una condizione di vicinanza e di alleanza subordinata, privilegi e favori possono essere negoziati più volte, ma nessuno viene mai dichiarato “consanguineo” dei Romani nei termini usuali della diplomazia interstatale greca, neppure tramite l’appello alla leggenda di Enea che è il più tipico fra gli strumenti di “diplomazia genealogica”. Ma in Virgilio c’è uno sviluppo nuovo. Il popolo romano appare come l’esito dinamico di una serie di contatti e di fusioni tra popoli, in cui gli antichi progenitori troiani hanno agito come catalizzatori. L’enfasi cade non sulla purezza e permanenza del sangue e della genealogia, ma sul destino imperiale che contraddistingue Roma. Tuttavia c’è una significativa eccezione: dalla struttura del racconto emerge una sola famiglia che sia contraddistinta da “puro sangue troiano”, ed è la famiglia a cui appartengono Enea, Iulo, Romolo, Cesare, e soprattutto Augusto10. Ecco quindi la situazione del mondo romano come appare ai lettori che vogliano immaginare l’Eneide quale suo mito di fondazione e charter myth: esiste per molti la possibilità di diven Sulla storia di Romolo come mediazione fra “chiusura” e “apertura” etnica v. C. Ampolo, in Storia di Roma, I, Torino 1988, pp. 172-173; E. Dench, Romulus’ asylum, Oxford 2005. V. soprattutto C. Jones, Kinship diplomacy in the ancient world, Cambridge (Mass.) 1999; A. Erskine, Troy between Greece and Rome: local tradition and imperial power, Oxford 2001. 10 Un aspetto ben sottolineato da M. Bettini, Un’ identità “ troppo compiuta”: Troiani, Latini, Romani e Iulii nell’Eneide, “MD” 55 (2005), pp. 77-102. Si tratta in effetti dell’unica famiglia del poema che abbia una chance di sopravvivere oltre la sua trama: sul significato ideologico dell’insistenza su morti immature e figli scomparsi v. l’importante saggio di D. Quint, The brothers of Sarpedon, “MD” 47 (2001), pp. 35-66.
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tare “Romani”, e storicamente molti sono stati accettati e molti ancora lo saranno; il trattamento accordato nel poema a Greci, Italici e anche popoli più lontani, garantisce un’apertura verso l’integrazione e verso il dialogo; ma quasi a garanzia protettiva di questa apertura multiculturale, a nessuno può essere concesso di diventare “Troiano” cioè Giulio. Il privilegio che nasce dal racconto epico viene tesaurizzato a favore della casa imperiale, non di una etnia o nazione. La compatibilità fra le genti e la visione aperta della romanità viene quindi bilanciata da una forte asserzione dell’autorità imperiale: evidentemente, è così che il discorso politico augusteo giustifica l’esistenza dell’impero, non solo come necessità o persino prezzo da pagare, ma anche come vantaggio rispetto al modello delle poleis e delle repubbliche, che in passato erano state aperte al loro interno, e portatrici di cittadinanza attiva, ma durissime nell’escludere alieni, meteci, stranieri di ogni genere. *** Queste considerazioni ci aiutano a capire che la questione delle origini italiche non è solo un quesito antiquario nella lettura di questo poema e non va affrontata con gli strumenti tipici della critica delle fonti. Abbiamo visto che sugli Italici ricade una funzione che è esito di due sviluppi contraddittori: da una parte, il desiderio di vedere l’identità romana come una somma di contributi legati a etnie diverse e accettati con caratteristica apertura; dall’altra, l’idea di una violenza primitiva pronta a scatenarsi e destinata a essere domata o incanalata. Questa seconda prospettiva appare strana e di rado è valorizzata dagli interpreti moderni di Virgilio. Una parte del problema sembra essere che per noi l’Eneide tende a essere vista in un contesto storico unificato, tale da eclissare altre prospettive: il contesto delle guerre civili e della vittoria di Augusto ad Azio. Secondo una prospettiva autorevole ma sempre più controversa, che si deve a Syme, l’Italia sarebbe stata addirittura la vera vincitrice di queste guerre. Dopotutto è Virgilio stesso che mette a fuoco la battaglia di Azio come evento cruciale nella storia e nello spazio del Mediterraneo, e parla addirittura di Augusto che comanda gli Italici, Italos, contro Cleopatra. Andrea Giardina11 ha avvertito giustamente che generalizzare troppo in questo senso va non solo contro la complessità storica ma anche contro la lettera dei testi augustei: Virgilio è in realtà piuttosto isolato nell’immaginare Azio come una vittoria dell’Italia. In effetti le cose cambiano se scegliamo come contesto storico per capire l’Eneide non la spettacolare vittoria di Azio, ma una serie di eventi che nessun monumento e ben pochi testi romani
11 Cfr.
supra, n. 7.
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hanno celebrato, e che si svolse in località meno “internazionali” di Azio, un luogo che appare predestinato a uno scontro fra Oriente e Occidente: l’oscura catena di rivolte vendette e repressioni che i Romani stessi esitano su come definire, bellum Italicum, bellum sociale, bellum Marsicum, oppure, se scrivono in greco, “guerra degli alleati”. Una sporca guerra che si trascinò in luoghi pacificati ormai da secoli, nel Piceno, in Sabina, in Umbria, nel Sannio, in Lucania e nella Marsica. Non c’è da stupirsi che Virgilio mai vi alluda o la evochi, questa guerra degli Italici: persino i suoi commentatori antichi, così pronti a cogliere risonanze di eventi storici nel poema, non segnalano mai questo tipo di contesto storico. La guerra sociale è per molti versi un evento semicancellato, che le nostre fonti antiche hanno poco interesse a rievocare. La sua interpretazione è aperta, ma su un aspetto non sembra possibile ambiguità: fu un conflitto traumatico nella memoria collettiva, l’unica guerra romana che non sarebbe mai dovuta accadere. Non c’è da stupirsi quindi che non sia tra i riferimenti storici più comuni nell’interpretazione dell’Eneide. A questo si aggiunge che nessun autore destinato a essere canonico se ne è mai occupato. Sarebbe splendido avere gli scritti di Lucullo, uno dei personaggi più significativi della tarda repubblica, sulla guerra marsica, ma non sembra che abbiano avuto grande circolazione; gli storici più importanti della tarda repubblica, Sallustio e Asinio Pollione, cominciano più avanti le loro storie di Roma; Livio è pervenuto solo in magri riassunti. Non sto parlando quindi di un influsso letterario, di qualcosa che sia stato mediato a Virgilio da un testo famoso. Sto invocando la nozione, alquanto più difficile da precisare, di memoria collettiva. In termini temporali, la cosa potrebbe apparire plausibile. Quasi tutti gli studi di memoria collettiva concordano che un paio di generazioni di distanza sono lo spazio ideale per il consolidarsi di un contenuto collettivo nella memoria: questo ovviamente perché nonni o zii anziani sono il tramite più efficace per un certo tipo di racconto orale. È chiaro che dobbiamo immaginare scenari e localizzazioni diverse: i nonni di Ovidio, nel cuore del territorio peligno, non possono non essere stati coinvolti dal conflitto12; Orazio era nato nell’unica colonia latina che si era schierata con gli insorti, Venusia, che per questo fu punita, e i fasti della città si aprono con l’annotazione “dopo la
12 Cfr. per esempio R. Syme, in una recensione al libro Ovid: A poet between two worlds, “JRS” 37 (1947), p. 221: «Which are these two worlds? Suitable and perhaps instructive contrasts might be discovered in the life of the poet and the history of the times. Thus Italy and Rome – the generation of Ovid’s grandparents among the Paeligni belonged to the confederate revolt against the tyrant city. Or Republic and Monarchy – the infant born on 20th March, 43 BC, Hirtius and Pansa being consuls, might have a technical and tenuous claim to have “seen the Republic”».
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guerra marsica”13; Properzio ci appare legato alle sue origini umbre14, e quanto a Virgilio, semplicemente non sappiamo abbastanza delle sue ascendenze. Poche aree del mondo potevano essere etnicamente miste e mobili quanto la Cisalpina nel periodo sillano: e in ogni caso, per Virgilio come per altri, mi sembra pericoloso dedurre meccanicamente dall’identità etnica regionale un atteggiamento verso le guerre sociali del passato. Se pensiamo in generale all’élite romana, quella destinata a competere nelle guerre civili, la biografia giovanile di tutti loro, e spesso l’inizio di carriera, è segnata dalla guerra italica: l’esperienza accomuna Sertorio e Lucullo, Silla e Cesare, Crasso e Pompeo. Una notizia di Plutarco, ovviamente inverificabile, ci può servire come suggestione. Ecco cosa si raccontava dell’infanzia di Catone il giovane, che aveva 4 o 5 anni quando la guerra stava per scoppiare (Plut. Cato Min. 2): Catone era ancora un ragazzo, e allora gli alleati dei Romani si battevano per il diritto di cittadinanza. Un tale Pompedio Silone, uomo di guerra e di grande prestigio, fu ospitato dal suo amico Druso per diversi giorni, durante i quali entrò in confidenza con i ragazzi e disse loro: «Via, pregate vostro zio di aiutarci a ottenere il diritto di cittadinanza!». Cepione sorrise in segno di assenso, ma Catone non rispose e rivolse agli stranieri uno sguardo duro e serio; allora Pompedio gli chiese: «E tu che dici, ragazzino? Non sei disposto a intervenire per gli ospiti presso lo zio, come tuo fratello?». Catone non rispose, ma si capì dal suo silenzio e dalla sua espressione che respingeva la preghiera; allora Pompedio lo sollevò e lo tenne sospeso fuori dalla finestra, e facendo finta volerlo lasciare, disse che, se non li avesse aiutati, l’avrebbe buttato giù; intanto lo teneva fuori e spesso anche lo scuoteva. Ma Catone rimase in questa posizione a lungo, senza paura e senza timore; perciò Pompedio lo rimise giù e disse sottovoce agli amici: «Che fortuna per l’Italia che sia ancora un ragazzo! Se fosse già un uomo credo proprio che a noi non rimarrebbe un solo voto tra il popolo.
Congediamoci dal piccolo Catone, che a quanto pare non riportò danni evidenti dall’episodio – o forse sì. L’aneddoto per noi lega insieme alcuni fili che ci interessano: élites romane ed élites italiche a stretto contatto, negoziati febbrili, complotti e disordini, fino a un’esplosione di violenza inimmaginata: e tutto tramite gli occhi di un bambino romano e di un capo italico destinato alla morte in battaglia. Per un attimo si intravede nel capo italico Pompedio Silone la versione italica dell’ideale romano di libertas che sarà l’ossessione di Catone. 13 Cfr. J. Bodel, Chronologies and succession 2. Notes on some consular lists on stone, “ZPE” 105 (1995), p. 281 n. 9. 14 Cfr. per esempio W.R. Johnson, Imaginary Romans, in S. Spence (ed.), Poets and critics read Vergil, New Haven - London 2001, pp. 3-16; quello di Johnson è uno dei lavori più vicini alla mia posizione sull’Italia virgiliana, e tiene conto esplicitamente di esperienze “post-coloniali”; molto più tradizionale, allineato con il nazionalismo europeo moderno, l’approccio di R. Jenkyns, Virgil’s experience, Oxford 1999 (comunque utile nella sua attenzione per la dimensione e i paesaggi italici).
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*** Questa atmosfera di violenza incombente e inspiegabile, questa lotta tra vicini e alleati, aiuta a capire meglio alcuni aspetti dell’Eneide, e il particolare legame che si instaura nel poema tra guerra e territorio italico. Il potenziale guerresco dei popoli italici è insieme la chiave del successo di Roma – come Virgilio aveva scritto nelle Georgiche e come i Greci sapevano da tempo – e contemporaneamente una minaccia incombente. Il simbolo e la sublimazione di questa caratteristica sono i popoli della montagna e dell’entroterra. Sono questi appunto i popoli che Virgilio, contro qualsiasi tradizione antiquaria e mitologica, mobilita e fa marciare contro Enea nel trascurato catalogo degli Italici che chiude il libro VII. Questa estensione del conflitto non ha paralleli nelle fonti sulla leggenda di Enea. Enea in effetti dovrebbe lottare al massimo con i popoli della costa laziale, latini, rutuli o etruschi che siano. Si è cercato di spiegare l’escalation virgiliana parlando di amplificazione epica, di competizione con Omero o di interesse per le tradizioni italiche, ma l’impatto emotivo di questa strategia è più chiaro se si ripensa al trauma collettivo del bellum Italicum. Questo strano catalogo ci presenta i guerrieri in movimento, non statici come in Omero: essi già avanzano e scendono dalle montagne, in direzione ostinata e contraria alla nascente civiltà della campagna romana e della costa. Fra di loro non mancano i Marsi, il popolo eponimo della guerra che Virgilio ha dimenticato di citare: sono visti nella loro versione più remota e aliena, come incantatori di serpenti discesi da Medea o dalla maga Circe. Il dinamismo degli Italici si accompagna a un notevole senso di anarchia e di confusione. È divertente notare che questa poetica delle antichità italiche sta cominciando a produrre le reazioni che forse Virgilio desiderava. Dopo generazioni di paziente ricerca antiquaria, il maggiore esperto contemporaneo di questi problemi, Nicholas Horsfall, ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. I tentativi di identificare le fonti antiquarie usate da Virgilio rivelano che Virgilio non è un collega, ma piuttosto un vandalo. Il catalogo abbonda di nomi fuori posto, di comandanti che non appartengono ai loro popoli, di avventurieri vagabondi, di eroi che portano nomi di località o fiumi slegati dalla localizzazione del loro contingente. Non parliamo poi delle tracce di ordine alfabetico, che pure sono evidenti, per quanto bizzarre, nel catalogo epico di Virgilio. Si è tentato di usarle per risalire a una fonte antiquaria in prosa, ma quale fonte, scrive giustamente Horsfall15, avrebbe fatto uno sforzo sistematico per elencare alcuni eroi le-
15 «Unfortunately, we have long known what that source was … what sort of source would have listed, in alphabetical sequence, heroes both from the Aeneas legend and from local foundation stories, alongside with palpable inventions?»; «if he ordered them in alphabetical sequence … it is not clear to
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gati alla leggenda di Enea e mescolarli con alcune leggende locali scelte in modo capriccioso, con vere e proprie invenzioni, e in modo che alcuni personaggi restino chiaramente fuori sede? Quale fonte se non Virgilio stesso, che simula forse giocosamente di essere un antiquario repubblicano? Perciò, conclude Horsfall, nessun significato deve essere attribuito all’impressione che ci sia una sequenza e un ordine alfabetico. *** Io credo che la questione richieda un cambio di prospettiva. La confusione e la dislocazione tipica del catalogo degli Italici risponde a una logica duplice: segnala da un lato l’antichità del racconto, dall’altro la natura instabile e ingovernabile dell’Italia preromana. Per il primo punto, basta confrontare l’uso ricorrente che un importante contemporaneo dell’Eneide, Strabone, fa dell’epica di Omero. Omero per Strabone è indispensabile, perché garantisce un passato incompatibile con il presente della geografia16: uno stato di cose in cui nomi e popoli avevano un’altra distribuzione. Proprio perché Virgilio vuole fare il lavoro di un nuovo Omero applicato all’Italia, è necessario che la sua geografia dei popoli e delle fondazioni italiche non sia assimilabile alla mappa del presente e neppure in un certo senso a quella del passato: da qui le frequenti variazioni rispetto alle stesse fonti antiquarie in prosa che ci sono note o ricostruibili. Non si tratta tanto di affermare i diritti della poesia alla licenza poetica, ma di reclamare l’indipendenza del passato omerico rispetto al presente. L’altro punto è più importante per i nostri fini attuali. Le tracce di ordine alfabetico servono a creare un conflitto con l’instabilità tipica delle genti italiche nel catalogo: evocano i tentativi degli antiquari romani di mettere ordine sulla materia fluida dell’Italia preromana, un tentativo che ha ovvie implicazioni politiche. Infatti un ordine alfabetico è il meglio che si può fare quando si opera sul passato italico, come fa Plinio a proposito di popoli delle montagne che hanno identità ormai labile e incerta (nat. III 12,106: Anaxatini Atinates Fucentes Lucenses Marruvini) in un testo che «sembra confondere nomi ed attributi, riordinati in un fittizio ordine alfabetico»17. Lo sforzo di riordinare e controllare accompagna il tentativo augusteo di ridefinire l’Italia attraverso l’uso politico della geografia e del censimento: forse è allusivo, mi fa notare l’amico Sergio Casali, che il catalogo virgiliano nel libro VII abbia undici segmenti, quando l’Italia rifatta da me that the observation is rich in significant consequences» (N. Horsfall, Virgil, Aeneid Book VII, Leiden 2000, p. 416). 16 Sul significato di Omero per Strabone v. per esempio K. Clarke, Between Geography and History, Oxford 1999. 17 Questo il commento di C. Letta s.v. Marsi in S. Mariotti (ed.), Enciclopedia Oraziana, I, Roma 1996, p. 511.
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Augusto si componeva di undici unità amministrative. La marcia degli Italici contro Enea riporta i lettori di Virgilio verso un’Italia difficile da catalogare e definire. La resistenza di questa Italia contro Enea fa tutt’uno con la difficoltà di descriverla e metterla in scena in un poema epico di tipo tradizionale. Il poeta è consapevole di questo quando gioca, intenzionalmente, con nomi di località e popoli che sembrano quasi irriducibili alla misura dell’esametro o dello stile poetico o addirittura del genere letterario: alcuni degli insorti nel catalogo vengono da località poco promettenti per un poema epico, quali Fescennium e la palude di Satura (VII 695; 801). In questo senso il progetto del poema converge con l’ideologia romana della creazione di una relativa uniformità, attraverso imposizioni di lingua e cultura e cancellazioni di lingua e cultura; anche perché sin dall’età augustea questo processo correva parallelo a un ambiguo processo di reinvenzione delle identità locali. Il poema di Virgilio risponde a entrambe queste esigenze, perché da una parte salva e trasmette – o reinventa e immagina – molte identità locali, ma dall’altro fornisce anche un mito di fondazione per la romanizzazione dell’Italia. *** Si può osservare inoltre che Virgilio ha modificato e ricombinato tutte le fonti a noi disponibili sulla guerra di Enea nel Lazio in modo da avere un’opposizione tra due blocchi di alleanze: da una parte Turno con tutti i Latini e con vari popoli italici, alcuni simboleggianti famosi momenti della resistenza antiromana, quali Volsci, Sabini e Marsi; dall’altra Enea alleato degli Etruschi e dei Greci di Evandro. Nella confusa geopolitica del bellum Italicum, fu proprio la solidarietà o la non belligeranza di Etruschi e Magnogreci a facilitare la riconquista dell’Italia peninsulare da parte di Roma. La dimensione e la natura del conflitto rievocano quindi non solo, come si è sempre sostenuto, la memoria recente delle guerre civili, ma anche la memoria della divisione fra Italici e Romani nel bellum sociale. Il ripensamento della guerra sociale aggiunge da un lato ansietà nei confronti della guerra, ma dall’altro insinua anche un fondamento di giustificazione storica. Una fra le interpretazioni filoromane del bellum sociale è l’idea che la guerra abbia finito per accelerare integrazione e unificazione tra i popoli italici. Si tratta di un’interpretazione consolatoria, in assenza per noi di qualsiasi testimonianza diretta e autentica sulle intenzioni degli insorti e sul senso che avrebbero dovuto dare alla loro improvvisata coalizione italica. Ma Virgilio rende omaggio a questa idea quando rappresenta lo scoppio della guerra come un “fondersi insieme” di genti che vanno a formare una sorta di embrionale unità italica. Questo concetto anacronistico viene espresso in VII 43-44 in modo interessante: totamque sub arma coactam Hesperiam. Il verbo cogere è appropriato per indicare una sorta di mobilitazione generale (cfr. Aen. VIII
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7 sg.: undique cogunt auxilia), ma la sua costruzione più naturale è con ad (cfr. XII 581: ad proelia cogi); l’uso di cogere sub è invece normale se si parla di “ridurre un popolo sotto una dominazione” (cfr. Sall. Iug. 18,12: sub imperium suum coegere). Insomma secondo Virgilio la guerra contro Enea è un fattore di unificazione che porterà a un accresciuto controllo, la formazione forzata di un’unità italica: questo concetto convive, con una forte tensione e contraddizione interna, con l’idea che la guerra è pur sempre il risultato di un’esplosione di forze demoniache. Insomma la tendenza profonda alla guerra è la forza, insieme storicamente necessaria ed esecrabile, che porta i popoli italici verso forme di unificazione e quindi verso la dominazione romana. La dominazione romana è insieme il risultato di questa spinta e la necessaria imposizione di un controllo e di un freno. Che l’Italia sia inseparabile dall’idea di guerra, avrebbe dovuto essere chiaro ai Troiani sin dalla prima visione che ne hanno: humilemque videmus Italiam. Italiam primus conclamat Achates, Italiam laeto socii clamore salutant… quattuor hic, primum omen, equos in gramine uidi tondentis campum late, candore niuali. et pater Anchises “bellum, o terra hospita, portas: bello armantur equi, bellum haec armenta minantur. sed tamen idem olim curru succedere sueti quadripedes et frena iugo concordia ferre: spes et pacis” ait.
(III 522-524; 537-543)
I Troiani sono uniti e concordi nel salutarla, e il nome “Italia” è ripetuto per tre volte, ma poi Anchise ripete per ben tre volte la parola bellum nell’interpretare come omen l’apparizione dei cavalli. È vero che la sua interpretazione si conclude con le parole “speranza di pace”, ma dobbiamo fare attenzione al ragionamento che usa: i cavalli sono simbolo di guerra, ma quattro cavalli aggiogati possono essere uniti in una pariglia concorde. Questa immagine promette pace e concordia dopo la guerra, e certamente i Romani non fanno la guerra sulle quadrighe tirate da cavalli bianchi: ma occorre riflettere sul fatto che a Roma il tipico contesto figurativo per la rappresentazione di una quadriga è il trionfo, la celebrazione di una vittoria sui nemici esterni di Roma. L’Italia è quindi una terra di pace e guerra, in cui il trionfo romano regola l’alternanza tra pace e guerra. D’altra parte Virgilio offre un’altra importante indicazione sulla vocazione italica alla guerra: dopo l’apparizione della furia del male Alletto che scatena la guerra italica contro Enea, ci viene rivelata una sorprendente visione
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geografica: la Furia ridiscende nell’Inferno, a cui appartiene, attraverso un accesso diretto che è collocato, dice Virgilio con enfasi, nel mezzo stesso dell’Italia, nella valle di Ampsanctus: …Cocytique petit sedem supera ardua linquens. est locus Italiae medio sub montibus altis, nobilis et fama multis memoratus in oris, Amsancti ualles; densis hunc frondibus atrum urget utrimque latus nemoris, medioque fragosus dat sonitum saxis et torto uertice torrens. hic specus horrendum et saeui spiracula Ditis monstrantur, ruptoque ingens Acheronte uorago pestiferas aperit fauces, quis condita Erinys, inuisum numen, terras caelumque leuabat.
(VII 562-571)
Questa rivelazione di un accesso diretto all’inferno, luogo segnato da un aspro paesaggio montano ed esalazioni venefiche, ci coglie di sorpresa. Nel suo poema Virgilio ha già provvisto l’Italia di un proprio accesso diretto all’Oltretomba, in concorrenza e continuità con la tradizione greca: ma si tratta della civilizzata area sacra di Cuma, la più antica colonia greca in Italia, dove un regolare, ellenizzante culto di Apollo vigila sul passaggio. Ora invece, nel libro successivo del poema, veniamo a scoprire un’Italia diversa, più selvaggia ed epicoria, meno grecizzata e civile. La scelta di Virgilio riguardo alla valle di Ampsanctus dovrebbe essere misurata sul probabile modello enniano di questo episodio, discussione per cui non abbiamo tempo: basti dire in breve che se Ennio, come è congetturabile, aveva istituito un collegamento tra la Furia e il paesaggio italico, lo aveva fatto in una località diversa. Ma in effetti la scelta di Virgilio parla da sola. La valle di Ampsanctus ricorda ai lettori romani un paesaggio interno e remoto che si identifica con la storia della resistenza italica contro Roma: la gente italica che abita quel territorio, e venera le pericolose esalazioni ctonie di Mephitis, sono i Samnites Hirpini e il loro nome evoca una lotta senza quartiere, dalle memorie di Caudio e di Aquilonia, sino alla guerra sociale e alle sue conseguenze: i Samnites Hirpini infatti, poco interessati alle nostre precise distinzioni tra guerra sociale e guerre civili, furono gli unici a non deporre le armi dopo la guerra sociale, e continuarono a combattere Silla fino all’amaro finale di Porta Collina, tanti anni dopo. Le reazioni della critica virgiliana a questa rappresentazione dell’Italia come “cuore di tenebra” sono state variabili. Una polarità tuttavia sembra essersi affermata. Da un lato gli Italici dell’Eneide sono stati visti come l’immagine di una diversità ormai cancellata, un’immagine in cui permangono
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nostalgia, idealizzazione e senso di colpa. Questa posizione alimenta una tendenza a lungo prevalente nella critica americana, e anche dal punto di vista della cultura americana è interessante che uno dei primi e migliori esponenti di questa tendenza, Adam Parry, avesse esplicitamente paragonato gli Italici di Virgilio agli Indiani – come allora si diceva, in anni non ancora politicamente corretti: «the formation of Rome’s empire involved the loss of the pristine purity of Italy»; «to Virgil, this people represented the original Italian stock. His feelings for them had something in common with what Americans have felt for the American Indian»18. L’analogia è interessante per una storia dei rapporti tra immaginario collettivo dell’Italia e dell’America: il giovane figlio di Milman Parry scriveva quel suo brillante articolo proprio negli anni in cui il cinema di Hollywood mutava radicalmente la propria visione dei popoli nativi, tra gli ultimi capolavori di John Ford e film come Soldato Blu. A questa visione romantica e sofferta dell’Italia virgiliana si oppone un’altra tendenza diffusa, quella che attribuisce a Virgilio una serena risoluzione dei conflitti fra Italia e Roma: nel poema si coglie l’ormai compiuta integrazione che si vorrebbe attribuire all’opera del regime augusteo. Anche questa tendenza, come la prima, mi sembra criticabile, e la prospettiva offerta dal testo di Virgilio è più complessa. La prospettiva di chi vede nell’Eneide una compiuta risoluzione dei conflitti è alimentata dall’esperienza biografica tipica dei critici di poesia romana – tipicamente, studiosi del nord che sperimentano l’Italia in idillici viaggi premio. (Sarebbe interessante a questo proposito una storia dell’immaginario italiano attraverso gli scritti dei filologi classici. Per schematizzare una certa evoluzione, basterebbe confrontare gli scritti di letteratura latina di Eduard Fraenkel con quelli di Nicholas Horsfall: l’opera del primo, di circa cinquant’anni or sono, trasuda serenità e idealizzazione, fra paesaggi ameni, trattorie fuori porta, e terrazze panoramiche di Via del Corso; nel nostro contemporaneo Horsfall, autore di dottissimi commenti virgiliani, cominciano a insinuarsi, tra le maglie del commento, anche discariche abusive, vallate sfigurate da superstrade o piste di motociclismo, e criminalità organizzata). Questa tendenza è alimentata inoltre da una visione totalizzante e idealizzata della cultura augustea. La prospettiva di Virgilio, concludendo, è più complessa e contraddittoria. I popoli italici nel poema sono visti e rivalutati nel loro potenziale contributo a Roma, ma anche nel loro terribile potenziale di resistenza e disordine. Queste due concezioni si intrecciano e marciano di pari passo, come si po18 A. Parry, The two voices of Vergil’s Aeneid, “Arion” 2 (1963), pp. 66-80 = P. Hardie (ed.), Virgil, III, London - New York 1995, pp. 49-64 (da cui cito: le frasi nel testo sono a p. 51 sg.).
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trebbe mostrare ancora con analisi dettagliate. Soprattutto, questa contraddizione aiuta a spiegare meglio due momenti fondamentali nella conclusione della trama: due momenti in cui Virgilio ha innovato con forza rispetto alla tradizione letteraria e leggendaria. Il primo punto è l’uccisione di Turno collocata come momento e immagine finale dell’intero poema: nessun’altra opera antica, prosa o poesia, teatro o altro che sia, sembra essersi mai conclusa con un atto di violenza a cui non segue né riconciliazione né espiazione. È inevitabile pensare che la morte di Turno guardi soprattutto al futuro, ai secoli di lotta che seguiranno: se non ci fosse, l’Eneide non potrebbe funzionare come eziologia della futura storia romana e italica. Il secondo punto è l’importanza che viene data nel dodicesimo libro al racconto di un elaborato e formale foedus tra la coalizione di Enea e quella di Latino. La cura con cui il rituale viene descritto e l’importanza della posta in gioco per il futuro sono tali, che ci prepariamo a vedere questo momento come una degna conclusione dell’opera. Dopotutto, proprio da questo episodio partiva Hannah Arendt per la sua celebrata contrapposizione tra l’humanitas di Virgilio e quella di Omero: «Virgil’s reversal of Homer is deliberate and complete … the end of the war is not triumph for the victor and utter destruction for the vanquished but a new body politic – “both nations unconquered join treaty under equal laws forever”»19. Perciò è legittimo notare che il foedus rappresenta una sorta di passo avanti nella civilizzazione, e offre alla guerra nel Lazio una conclusione ben diversa da quella della guerra di Troia, ed è anche probabile, sulla base dei frammenti rimasti e dei paralleli con opere in prosa, che gli autorevoli predecessori Nevio ed Ennio avessero sanzionato con un foedus i rapporti fra Enea e il re laziale: si tratta niente di meno che del patto da cui provengono le origini di Roma. Ma è importante allora precisare che il foedus di Virgilio è raccontato come la storia di un fallimento. Se si fosse realizzato, invece di trasformarsi in una guerra senza quartiere, quel lontano esempio avrebbe inaugurato la storia di Roma sulla base di un foedus aequum fra due popoli parificati20 – esattamente ciò che la storia di Roma non proporrà mai. È ben nota la propensione dei Romani a rappresentare antichi foedera come simboli della loro identità collettiva, soprattutto attraverso la monetazione, e anche lo scudo di Enea, che per certi versi è una gigantesca moneta romana, dà spazio a questo tipo di immagine. Questa tradizione spiega la mia scelta di concludere questa relazione con una moneta, una moneta della confederazione antiromana di Italica / Corfinium (intorno
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H. Arendt, The life of the mind, San Diego - New York - London 1978, p. 204. l’espressione foedus aequum in senso più o meno evocativo, senza pretendere di applicare alla finzione virgiliana una terminologia esatta e rigorosa che forse neppure esisteva. 20 Uso
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al 90 a.C.: Sydenham 621)21. È penoso per noi dover confessare che non abbiamo alcuna idea sull’ideologia politica che sta dietro a questo oggetto, e sulle reali intenzioni e strategie dei confederati italici. Una cosa sembra certa: questa immagine di sacrificio e di giuramento paritario ha un messaggio di unità italica, e questa unità italica fa appello, in modo che a noi appare abbastanza ironico, ai moduli ormai tradizionali della propaganda romana. L’altra faccia della moneta infatti ci presenta un’immagine dell’Italia che è ricalcata, in funzione antagonista ma anche con una certa subalternità culturale, sulle immagini romane di Roma. Quanto alla nostra immagine, il giuramento, il patto, e il sacrificio contro Roma ci rimandano esattamente alle immagini di foedera tra Romani e Italici che caratterizzano la monetazione romana. Potremmo limitarci a dire che gli insorti rivolgono contro i Romani la loro stessa propaganda, ma la realtà dell’Italia antica, come Virgilio stesso sapeva, è più intricata e osmotica, e il problema dell’identità è quello di un bisogno di distinzione dentro una storia millenaria di intrecci e scambi. Secondo i Romani stessi infatti, almeno se si guarda alla tarda repubblica e all’età augustea, il sacrificio che sanziona guerre e trattati, e il relativo ius fetiale, è un contributo degli Italici a Roma, una tradizione che precede Roma e fu portata a Roma dalle montagne. Così i neo-Italici di Corfinio, mentre sperimentano la loro unità italica antiromana, hanno una scelta già segnata da subalternità: o rivolgere contro Roma i simboli della loro appartenenza all’apparato militare romano, o rivendicare una sorta di cultura italica pre-romana, salvo che questa Ur-Italia è ormai sottoposta a un monopolio culturale romano, e viene reinventata come anticipazione e contesto per la crescita di Roma. L’Eneide è appunto il poema che dà forma narrativa a queste contraddizioni e tensioni: il suo significato non è quello di rappresentare un processo ormai concluso, l’Italia unificata dai Romani sotto Augusto, ma è quello di essere parte attiva in un processo di trasformazione che per i primi lettori del poema è ancora in corso. Se siamo interessati alla storia delle identità italiche, dobbiamo studiare l’Eneide come un testo che sa esacerbare e sa lenire le tensioni generate dal processo di romanizzazione: sappiamo del resto che in questa capacità di influire sui processi di acculturazione, entrando in osmosi con grandi cambiamenti sociali, sta una delle grandi risorse, e una chiave di successo, per quella che chiamiamo letteratura.
21 Sui problemi di interpretazione v. A. Valvo, Fides, foedus, Iovem Lapidem iurare, in M. Sordi (ed.), Autocoscienza e rappresentazione dei popoli nell’antichità [Contributi dell’Istituto di Storia Antica. 18], Milano 1992, pp. 115-125; L. Cappelletti, Il giuramento degli Italici sulle monete del 90 a.C., “ZPE” 127 (1999), pp. 85-92.
Cosmopolitismo antico Luciano Canfora
1. Cosmopoli e impero Al principio del De cive Thomas Hobbes colloca un eroe italico antiromano, Ponzio Telesino. Dopo aver ricordato che Catone il Censore (secondo Plutarco) definiva “belve feroci” tutti i re, chiunque essi fossero, commenta: “Una ben maggiore belva era lo stesso popolo romano, che aveva depredato tutto il mondo per mezzo dei suoi generali, denominati Africani, Asiatici, Macedonici, Acaici e di tutti gli altri che avevano ricevuto un soprannome dalle genti che avevano spogliato!”. Ed è a questo punto che ricorda il duro atto d’accusa di Ponzio Telesino, alla vigilia della battaglia di Porta Collina combattuta senza successo contro Silla, quando Ponzio, passando in rassegna le sue truppe, “gridava che doveva essere diroccata e distrutta Roma stessa”, e “che non sarebbero mai scomparsi i lupi che privavano gli italici della loro libertà, se non fosse stata abbattuta la selva in cui trovavano rifugio”. Gli italici erano stati schiacciati da Roma con una guerra di conquista durata secoli, cui solo la meteorica apparizione di Annibale sul suolo italiano, verso la fine del III secolo a.C., aveva imposto un temporaneo arresto. Nel 1925 il maggiore studioso allora vivente di antichità classica, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, fu a Firenze nel quadro della “settimana tedesca”: un segno di riconciliazione culturale dopo la tremenda guerra che aveva contrapposto Italia e Germania fino a pochissimi anni prima. E pronunciò un saggio, intitolato Storia italica, che nulla concedeva alla retorica del nostro nazionalismo. Pur conoscendo le fisime del suo uditorio, Wilamowitz disse serenamente: “La storia d’Italia ha un contenuto più ricco. Un tempo tutte le sue stirpi ebbero la loro propria vita e una civiltà propria, che Roma ha distrutto, compresa la grecità della Sicilia”. E soggiungeva che l’ultimo sussulto, “l’ultima lotta per la loro vita etnica”, gli italici l’avevano tentata con la guerra sociale, di cui la vittoria feroce di Silla era stata in certo senso l’ultimo atto. Quindici anni più tardi, nel 1940, Simone Weil – allora giovanissima – pubblicava un saggio memorabile, La politica estera di Roma e la politica
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di Hitler, in cui, al di là del parallelo che istituisce sin dal titolo, fa una considerazione per molti versi simile a quella del grande filologo tedesco, ma riferita al mondo gallico. Segnala infatti, e con molta efficacia, che la cosiddetta romanizzazione della Gallia fu in realtà – oltre che un genocidio in termini di vite umane – l’estirpazione di una civiltà: di una civiltà che non parla più a noi per la semplice ragione che è stata cancellata. Nel considerare l’unificazione romana del mondo mediterraneo e celticodanubiano, gli storici sono di fronte a un bivio: o compiacersi di quel sanguinoso processo storico guardando agli effetti (tale fu già l’atteggiamento di una parte delle élites greche, le quali conseguirono un ruolo di “condominio diseguale” del mondo romanizzato) oppure porre in luce i costi non solo umani ma di civiltà che quel processo di unificazione ha determinato. Non fu però univoco l’atteggiamento delle élites greche. Da questo punto di vista, merita di essere osservato l’esito divaricato cui approdarono esponenti della corrente di pensiero forse più influente nel periodo di massima fioritura del mondo greco-romano: lo stoicismo. Come si sa, tale corrente di pensiero recava dentro di sé un potente presupposto ideale che andava in direzione dell’unificazione del genere umano entro una cornice organicistica e “provvidenziale”, e cioè l’idea della Cosmopoli. E tuttavia tale visione poteva approdare a due esiti opposti: quello di Panezio e di Posidonio, “cantori” (il termine è irriverente, ma il concetto non è erroneo) del predominio universale romano, e quello di Blossio di Cuma (non a caso un italico) che dopo aver ispirato le riforme sociali di Tiberio Gracco, andò a combattere, e a morire, al fianco degli schiavi del regno di Pergamo, ribelli al passaggio del loro paese sotto il dominio di Roma, stabilito in virtù del “testamento” del loro ultimo sovrano.
2. Stoicismo e cosmopolitismo Il carattere universale, sia pure sui generis, della sua opera impegna Diodoro in un ampio proemio nettamente diviso in due parti una più propriamente filosofica (I 1,1-2,8) e l’altra storiografica (I 3,1-5,3). Il concetto centrale della prefazione filosofica è quello della corrispondenza profonda tra storiografia di respiro “universale” (koinai; iJstorivai) e unità del genere umano. L’unità del genere umano, la visione anti-individualistica dell’umanità-organismo, è uno dei cardini del pensiero stoico: membra sumus magni corporis – è una celebre formula di Seneca che fedelmente rispecchia pensieri di Zenone e Crisippo –, natura nos cognatos edidit (epist. 95,52). Con terminologia rigorosamente stoica Diodoro esordisce appunto osservando che, con la loro opera unificatrice, gli autori di storie universali operano in coerenza con la “provvidenza divina” (altro cardine della fi-
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losofia stoica) in quanto promuovono quella unificazione “sotto un unico ordinamento” (uJpo; mivan kai; th;n aujth;n suvntaxin) dell’intera umanità, “dispersa e suddivisa bensì nello spazio e nel tempo ma partecipe di un unico vincolo di reciproca cognazione” (metevconta~ th`~ pro;~ ajllhvlou~ suggeneiva~: natura nos cognatos edidit). Gli storici sono dunque “assistenti” (uJpourgoiv) della provvidenza. Non vi è in questo proemio soltanto la esplicita adozione di concettibase dello stoicismo ma anche lo sforzo originale di motivare da un punto di vista stoico l’importanza della storiografia universalistica ed il suo contributo alle idealità proprie dello stoicismo. Gli autori di storie universali sono dunque, per così dire, “i cronisti della Cosmopoli”: serbano memoria dei fatti di tutta l’umanità di tutto il mondo abitato “come se fossero di un’unica città” (kaqavper mia`~ povlew~). La loro funzione, rispetto alla “provvidenza” è subalterna ma preziosa. La provvidenza conduce, “secondo un moto circolare che dura in eterno”, verso la “comune analogia” (I 1,3: eij~ koinh;n ajnalogivan) le singole nature degli esseri umani ed il moto cosmico degli astri visibili, ed assegna così, a ciascuno, “quanto a ciascuno è predestinato”. Gli storici universalistici, appunto in quanto cronisti della cosmopoli, subentrano a posteriori: registrano e prendono atto, “come in un unico luogo di bilancio” (koino;n crhmatisthvrion) dell’effettivo realizzarsi (tw`n suntetelesmevnwn) di quanto la provvidenza infaticabile ha via via predestinato. “Luogo di bilancio”, “unico computo” (e{na lovgon) sono i termini che probabilmente hanno messo fuori strada Eusebio là dove parla di unum idemque emporium nel quale Diodoro avrebbe concentrato le varie biblioteche compulsate. Sono termini che ben si comprendono alla luce della credenza storica nel nesso fra movimento degli astri e vicende umane e della conseguente fiducia in un sapere astrologico: quella “analogia” appunto tra moto celeste degli astri visibili e natura dei singoli il cui nesso, il cui raccordo, governato ovviamente dalla provvidenza, è “ciò che a ciascuno è destinato”, la eiJmarmevnh. È ben noto il crescente prestigio di cui questo tipo di vedute ha goduto nel pensiero greco soprattutto in epoca ellenistica. Una premessa era invero già nella concezione aristotelica relativa al primo movimento della sfera delle stelle fisse, che, appunto in virtù di tale movimento, esercita il suo influsso su quanto accade in terra. Ma la “mescolanza” del mondo greco con quello orientale – soprattutto iranico ed egizio – caratteristica dell’Ellenismo diede alla diffusione e alla amplificazione di tali vedute l’impulso decisivo. Beroso di Babilonia fondò a Cos una scuola per astrologi intorno al 280 a.C. (Vitr. IX 6,2). Ovviamente era il pensiero stoico, ruotante intorno al cardine della “provvidenza” e della interrelazione cosmica, il più ricettivo nei confronti di questa nuova “scienza”. La provvidenza attribuisce in partenza a ciascuno,
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in ragione della specifica sympàtheia con gli astri, la sorte spettantegli (th;n eiJmarmevnhn). Gli storici perciò – è questo il concetto che Diodoro sviluppa al principio del suo proemio – con le loro registrazioni di eventi (tanto più ampie quanto più ampio è il loro proposito) rendono possibile il bilancio (lovgon) di ciò che si è compiuto (tw`n suntetelesmevnwn). È soprattutto a Posidonio – il filosofo e storico di età sillana, ampiamente utilizzato da Diodoro – che si deve uno speciale sviluppo in questo ambito. Il cosmo è – nella sua visione – un organismo vivente che, attraverso il “legame” (suvndesmo~) di ciascuna parte con ogni altra (legame consistente appunto nella reciproca sumpavqeia), si rivela come un insieme sconfinato di rapporti reciproci. Posidonio accentua l’importanza in questo quadro d’insieme del concetto di causalità. Un aspetto della sympàtheia è, per lui, che i singoli fenomeni ne preannunciano altri, di più vasta portata: ed è questo il genere di causalità che consente la previsione, di cui è prezioso strumento la mantica. Sembra perciò legittimo pensare che la complessiva ispirazione stoicheggiante di Diodoro abbia proprio in Posidonio, ed in particolare nelle riflessioni che Posidonio avrà dedicato, nella prefazione della sua opera di storia, al fondamento filosofico della storiografia, la fonte principale di ispirazione. Uno dei concetti più nuovi, rispetto al ricco e ben rappresentato genere del proemio storiografico, è infatti, nella prefazione diodorea, l’idea che la storiografia – oltre ad essere “benefattrice del genere umano” e “portatrice della verità” – sia anche la “madrepatria (mhtrovpoli~) della filosofia”, anzi “della filosofia in ogni sua parte” (I 2,2: th`~ o{lh~ filosofiva~). Qui c’è l’idea del carattere intimamente, e alla radice, filosofico dell’attività storiografica, che sarà stato uno dei concetti sviluppati da Posidonio nella sua prefazione. Posidonio è forse il solo grande filosofo dell’antichità che si sia impegnato in un’opera storiografica di grande respiro (52 libri libri di Continuazione a Polibio) ed è più che probabile che abbia ampiamente spiegato le ragioni della sua scelta di impegnarsi così a fondo in un’attività così lontana rispetto a quelle tradizionalmente stimate proprie del “filosofo”. La dipendenza da tale praefatio posidoniana (con tutte le ingenuità e banalizzazioni che si dovranno imputare a Diodoro) potrebbe contribuire a meglio spiegare la rilevante presenza, in questa prima parte del proemio diodoreo, di concetti e di terminologia caratteristicamente filosofici: come ad esempio l’insistente uso di ajnavlhyi~ (I 1,4; 4,3; 4,8) per dire “acquisizione di conoscenza”, ovvero la compiaciuta serie di polarità, con cui questa parte del proemio si conclude, (“parte / tutto”; “continuo / frammentato” ecc.). La stessa espressione o{lh filosofiva, “la filosofia in ogni sua parte”, con riferimento ai vari mevrh, alle varie “parti” (etica, logica ecc.) di cui essa si compone rientra in questo livello espressivo, per Diodoro davvero insolito. Va rilevata in questo senso anche la ricca serie di metafore miranti alla
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esaltazione della storiografia, definita, volta a volta, “benefattrice del genere umano”, “portavoce di verità”, “madrepatria della filosofia” (I 2,2); essa ha “come guardiano il tempo”, ed è diversa in ciò da ogni altro monumento, per quanto fatto di materia solida e apparentemente indistruttibile ma fatalmente destinato a soccombere nel tempo (I 2,5); le virtù che le si debbono riconoscere sono innumerevoli: né solo le solite, più o meno moralistiche, legate al mondo della politica (I 1,5: rende i privati “degni di governare”, rende migliori i governanti perché fa balenare loro la possibilità di un ricordo immortale, distoglie i malvagi dal male con lo spauracchio di rendere eterna la loro infamia ecc.), ma anche virtù assai meno usuali, come quella di incrementare le escogitazioni scientifiche o la creatività dei legislatori (I 2,1). Nel definire il merito grandissimo che ha la storiografia come rimedio alla pochezza delle esistenze individuali, Diodoro si spinge anche a formulare un ben singolare concetto: che cioè un segno della “debolezza della natura umana” sarebbe il fatto che si muoia, o meglio, che si viva per un tempuscolo infinitesimo (ajkariai`ovn ti mevro~ tou` panto;~ aijw`no~) e che invece si muoia, si resti nella condizione di morti, per un tempo eterno. Non si può non pensare, di fronte a questa formulazione della “debolezza della fuvsi~”, alla visione posidoniana (dissonante in ciò rispetto allo stoicismo ortodosso), non totalmente paga della natura e del precetto esortante a vivere “in conformità con essa” (oJmologoumevnw~ th/` fuvsei zh`n), ma al contrario esaltante il logos: la natura non è, per Posidonio, senz’altro “il bene”; è, piuttosto, con il logos, vero organo del contatto spirituale, che si deve essere in coerenza. Tutto questo induce a pensare che anche la lunga teorizzazione diodorea sul lovgo~ – che figura a conclusione del proemio filosofico – dovrà farsi risalire a questa matrice. Per Diodoro, dunque, la storiografia “giova massimamente all’efficacia del logos”. Nulla – prosegue – vi può essere di più bello del logos: è il segno della superiorità dei Greci sui barbari, dei coltivati sui selvatici, è il veicolo che consente “al singolo di avere la meglio su coloro che numericamente lo soverchiano”. Anche il logos si articola in molte “parti” (mevrh): di tutte è la storiografia quella più alta. La poesia, infatti, “diletta più che giovare”, l’attività legislativa (nomothesìa: è notevole la sua inserzione nell’ambito del logos) è solo “punitiva”, non anche “istruttiva”; tutti gli altri tipi di logos o non giovano alla felicità o recano mescolati danno e vantaggio o si ingannano sulla verità; solo nella storiografia vi è una corrispondenza perfetta (sumfwnei`n) tra fatti e parole. Nel che si può cogliere una replica alla teorizzazione aristotelica, quale si legge nella Poetica, secondo cui la superiorità della poesia sulla storiografia è nel fatto che la poesia evoca e descrive il possibile mentre la storia si limita all’effettivamente accaduto.
Roma, Etruschi e Italici nel «secolo senza Roma» Giulio Firpo
Com’è noto, a più riprese Arnaldo Momigliano ha definito il Settecento italiano come il secolo senza Roma. Questo giudizio è ampiamente condivisibile e costituisce una solida cornice metodologica per l’approccio alla storiografia settecentesca sul mondo antico, anche se, naturalmente, Roma non fu totalmente assente o rifiutata, e se all’origine dell’esclusione o della condanna nei suoi confronti sono individuabili motivazioni diverse (anche di metodo), posizioni particolari e accenti più o meno marcati. È ormai storiograficamente acquisito e ampiamente studiato il progressivo venir meno della lettura tradizionale e canonica della storia romana rielaborata in età tardoumanistica e rinascimentale (si pensi al Machiavel* Nel redigere questo lavoro sono stato facilitato dalla pubblicazione, in anni recenti, di una cospicua serie di articoli, citati in corso d’opera, che testimoniano un notevole ritorno d’interesse per la storiografia sette-ottocentesca su Roma antica, probabilmente anche per il suo crescente legame con temi d’attualità. Ho il privilegio di averne partecipato, in qualche misura, con saggi su Melchiorre Delfico, su Pietro Giannone e sulla riproposizione di modelli romani nelle costituzioni postcoloniali latinoamericane del primo trentennio del XIX secolo, soprattutto per le idee e le indicazioni di cui mi è stato davvero prodigo nel corso dei varii lavori, compreso questo, il prof. Emilio Gabba, che ringrazio di cuore. A. Momigliano, La nuova storia romana di G.B. Vico, in Id. Sesto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, I, Roma 1980, pp. 191-210 [= “Rivista Storica Italiana” 77 (1965), pp. 773790], qui a p. 193: «il sec. XVIII è il vero secolo senza Roma della cultura italiana»; Id., Studi classici per un paese “classico”. Il caso dell’Italia nel XIX e nel XX secolo, “Atene e Roma” n.s. 31 (1986), pp. 115-132, qui a p. 119. Cfr. E. Gabba, Considerazioni su taluni problemi di storia romana nella storiografia italiana dell’Ottocento, in Lo studio storico del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento (Incontri Perugini di storia della storiografia antica e sul mondo antico, III, Acquasparta 30 maggio - 1 giugno 1988), ed. L. Polverini, Napoli 1993, pp. 405-443, p. 410 [poi riprodotto in Id., Cultura classica e storiografia moderna, Bologna 1995, pp. 99-139]. Così, ad esempio, in Giovanbattista Vico (su cui vd. infra), in Pietro Giannone (su cui vd. G. Firpo, L’Italia romana nell’ Istoria civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone, “Rivista Storica Italiana” 117, 2005, pp. 423-447), in Scipione Maffei e in genere nella tradizione storiografica veneta o di cultura veneta (su cui vd. G. Bandelli, Scipione Maffei e la storia antica, in Scipione Maffei nell’Europa del Settecento. Atti del Convegno, Verona 23-25 settembre 1996, Verona 1998, pp. 3-25, spec. pp. 12-13), nel cui àmbito si possono ricordare il Saggio sopra i Veneti primi, Venezia 1781, e le Memorie storiche de’ Veneti primi e secondi, I-VIII, Venezia 1796-1798, del conte Iacopo Filiasi (su cui vd. P. Preto, s.v. Filiasi, Iacopo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLVII, Roma 1997, pp. 643-646).
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li), percepita e giudicata inadeguata alla comprensione delle dinamiche del momento attuale, caratterizzato dalla grande frammentazione letteraria, politica e geografica dell’Italia, avvertita come ineludibile e ampiamente accettata: già nel secondo Seicento l’esaltazione dell’Italia romana e rinascimentale aveva progressivamente ceduto il passo a interessi regionali e municipali; veniva quindi sempre più naturale sottolineare, con maggiore o minor forza, i valori della divisione politica dell’Italia preromana, travolti e normalizzati dall’oppressione della potenza egemone e in buona misura tornati a rivivere nei comuni medievali, specie quelli più antichi (XI secolo), considerati – dal Muratori in avanti – all’origine dell’Italia moderna. Questa tendenza trovò man mano alimento nel progressivo estendersi del già avviato dibattito sull’idea del piccolo stato (soprattutto repubblicano) – contrapposto alle grandi monarchie assolute – quale ambito massimamente favorevole allo sviluppo e alla valorizzazione dei principii di libertà e di progresso. Così, tutte le popolazioni pre- e periromane vennero poste al centro dell’attenzione per ricostruire, spiegare ed esaltare le tradizioni regionali e le storie municipali. In tale contesto s’inseriscono, com’è stato opportunamente sottolineato, le scoperte e gli scavi archeologici in siti su suolo non romano (Paestum, 1752) o sul confine tra mondo romano e non romano (Ercolano, 1738; Pompei, 1748; Velleia, 1761; ecc.). 1. Il secolo s’era aperto con la pubblicazione del De antiquissima Italorum sapientia e latinae linguae originibus eruenda di Giambattista Vico (1710), che riproponeva il mito, già diffuso anteriormente, di un’antichissima sapienza filosofica italica di matrice pitagorica esistita, prima di perdersi, in Italia e Momigliano, Studi…, p. 119; Id., La nuova…, p. 191 ss., che fa anche notare come al declino dell’idea di Roma classica nel XVIII secolo corrispondesse quello dell’attrattiva della Chiesa romana, individuabile nell’influsso del giansenismo al Nord e nel nuovo interesse per l’autonomia delle diocesi metropolitane. E. Nuzzo, La tradizione filosofica meridionale, in Storia del Mezzogiorno, edd. G. Galasso - R. Romeo, X.3, Roma 1994-1995, pp. 19-127, qui a p. 26 s. e nt. 2 a p. 91. G. Galasso, L’Italia come problema storiografico, Introduzione a Storia d’Italia (UTET), Torino 1979, p. 153, e ivi citazione di B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari 19533, p. 136; Nuzzo, La tradizione…, p. 27. Gabba, Considerazioni…, pp. 410, 412. Su questo dibattito vd. W. Kaegi, Meditazioni storiche, trad. it. Bari 1960; M. Bazzoli, Il piccolo Stato nell’età moderna. Studi su un concetto della politica internazionale tra XVI e XVIII secolo, Milano 1990; J.-M. Goulemot, Sul repubblicanesimo e sull’idea repubblicana nel XVIII secolo, in L’idea di repubblica nell’Europa moderna, edd. F. Furet - M. Ozouf, Bari 1993, pp. 5-43; Polis e piccolo Stato tra riflessione antica e pensiero moderno. Atti delle Giornate di Studio, Firenze 21-22 febbraio 1997, edd. E. Gabba - A. Schiavone, Como 1999, ove, in particolare, cfr. G. Giarrizzo, Il piccolo Stato nella storia moderna, pp. 67-75, e M. Bazzoli, Piccolo Stato e teoria dell’ordine internazionale nell’età moderna, pp. 76-93. Momigliano, locc. cit.; Gabba, Considerazioni…, p. 410.
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in particolare in Magna Grecia10, e rintracciabile negli etimi latini arcaici, che Vico indagava sul modello del Cratilo platonico, un testo tradotto e molto studiato in età umanistica e nel Rinascimento11. In realtà, il De antiquissima era il primo libro, il liber metaphysicus, di una trilogia anticartesiana rimasta incompiuta12, e il tema della sapienza italica vi era affrontato solo nel proemio, ove si indicavano nelle civiltà magnogreca ed etrusca gli ambiti di provenienza delle parole latine dotte (posto che, fino all’età di Pirro, i Romani s’erano dedicati solo all’agricoltura e alla guerra). Vico tornò sull’argomento, in modo più articolato, nella Seconda risposta, del 1712, a una recensione critica di Bernardo Trevisano pubblicata nel “Giornale dei letterati d’Italia”, ove sosteneva che gli Egizi, allorché signoreggiavano nel Mediterraneo, avrebbero trasmesso agli Etruschi la loro sapienza iniziatica, la cui testimonianza più concreta e visibile sarebbe appunto stata nell’«architettura toscana»; a loro volta, gli Etruschi avrebbero trasmesso questa sapienza, insieme alla lingua, al Lazio e poi al meridione d’Italia ben prima dell’arrivo dei Greci. Qui i pitagorici, pur essendo greci, avevano tratto la loro sapienza «da lettere molto più antiche delle greche». Egizi, insomma, sarebbero l’origine e il contenuto metafisici degli etimi latini arcaici e dei «pochi e oscurissimi dogmi di Pitagora». Nella sua produzione successiva, in verità, Vico tornò solo cursoriamente sull’argomento, sostanzialmente abbandonandolo13, né la sua ipotesi di lavoro venne riproposta, a breve-medio termine, da alcuno (mentre, mutatis mutandis, sarebbe stata ripresa in età napoleonica, e adattata alla nuova situazione politica, da Vincenzo Cuoco: vd. infra). Non sfuggono tuttavia due importanti aspetti di quest’opera, le cui conseguenze si sarebbero avvertite a distanza di vari decenni: anzitutto, la celebrazione dotta della gloria della nazione italiana14; in secondo luogo, il fatto di considerare la storia e la civiltà romane non più come il termine unico idealizzato di riferimen10 B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari 19302, p. 52 s. Vd. ora P. Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Bologna 1998, p. 35 ss. 11 Casini, L’antica…, pp. 55, 185 ss. 12 Casini, L’antica…, p. 183. 13 Nella Sinopsi del diritto universale (1721), nell’Autobiografia (1725) e nelle tre redazioni della Scienza Nuova (1725, 1730, 1744): Casini, L’antica…, p. 184 e nt. 123, 195. 14 Nuzzo, La tradizione…, p. 28; cfr. Casini, L’antica…, p. 195: «Insistendo sull’esclusiva influenza degli Etruschi, sulla priorità nel tempo e sull’autonomia dottrinale dei pitagorici rispetto alla filosofia greca, mostrava di condividere la pietas patriottica diffusa nella penisola». E il suo grande amico e interlocutore di quegli anni, Paolo Mattia Doria, chiosava: «Gl’italiani son corsi a guisa di pecore a seguire le scienze degli inglesi, né hanno mai avuto il coraggio di ricorrere all’antica italica sapienza ch’è quella di Pitagora e di Platone seguace della scienza pitagorica e poco men che commentator di Pitagora, colla quale avrebbero potuto dimostrare false tutt’ad un tempo le scienze francesi, e le inglesi, e si sarebbe altresì in virtù di quell’antica sapienza rinnovellata nell’animo degl’italiani quell’antica ed eroica virtù de’ Romani» (ibid., p. 183 nt. 118).
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to, ma solo come uno dei momenti della storia della civiltà: una prospettiva qui solo abbozzata, che sarà in seguito approfondita e ampliata nella Scienza Nuova15. Il mito della sapienza italica ebbe invece parte non irrilevante nella cosiddetta etruscheria. L’esaltazione della civiltà etrusca era sorta invero assai per tempo, per la centralità dell’Etruria nella storia romana dell’età regia (ma non solo) e per la storia delle sue libere città. In età umanistica si legò all’esaltazione di Firenze repubblicana16, poi alla celebrazione della dinastia medicea di Cosimo I17. Alla medesima esigenza rispondeva il De Etruria regali di Thomas Dempster, composto tra il 1616 e il 1619 su commissione di Cosimo II, ma pubblicato poco più che un secolo dopo, nel 1726, a cura e con un’appendice di Filippo Buonarroti; si trattò dell’estremo supporto prestato all’ansimante signoria degli ultimi anni di Cosimo III e di Giangastone. È significativo che l’opera del Dempster (in cui, fra l’altro, vennero pubblicate per la prima volta le Tavole di Gubbio) si caratterizzi per l’affermazione della continuità tra il passato etrusco e il presente granducale, specie nelle sezioni riservate alle città della Toscana, assai più di quanto non si fosse verificato, ad esempio, nell’opera del Postel di un secolo prima (1551)18. Com’è noto, questa pubblicazione ebbe un importante ruolo di incentivazione sul piano della storia della cultura, e in particolare dell’archeologia e dell’antiquaria19: ad essa si fa infatti convenzionalmente risalire l’inizio dell’etruscheria (l’opera del Buonarroti «fu come la prima tromba, dalla quale furono eccitati diversi ingegni», dirà nel 1738 Scipione Maffei20), cioè il complesso 15 B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, Bari 19532, p. 244: «Nella Scienza nuova abbassò Roma a una fase dell’eterno corso e ricorso, le tolse con l’unicità l’individualità e, fra le tante altre Rome apparse nella storia o che sarebbero apparse nell’avvenire, scorgeva ai suoi tempi i lineamenti Romani nell’estremo oriente, nel Giappone». Pare dunque abbastanza ingeneroso il lamento di Francesco De Sanctis: «L’Europa aveva Newton e Leibniz, e a Napoli si stampava il De antiquissima italorum sapientia di Vico!» (Casini, L’antica…, p. 258). Sulla storia romana in Vico vd. S. Mazzarino, Vico, l’annalistica e il diritto, Napoli 1971; M. Raskolnikoff, Vico, l’histoire romaine et les érudits français des Lumières, “Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age - Temps Modernes” 96 (1984), pp. 1051-1077. 16 Giovanni Villani, Coluccio Salutati, e soprattutto Leonardo Bruni, Laudatio florentinae urbis e Oratio in funere Johannis Strozze: G. Cipriani, Il mito etrusco nel Rinascimento fiorentino, Firenze 1980, p. 1 ss.; C. Vasoli, La tradizione repubblicana umanistica fiorentina, “Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Arezzo” n.s. 67-68 (2005-2006), pp. 231-252. 17 Pierfrancesco Giambullari e Guillaume Postel: Cipriani, Il mito…, p. 71 ss.; Casini, L’antica…, p. 201 ss.; Vasoli, La tradizione…; Id., Postel e il mito dell’Etruria, in Id., La cultura delle corti, Bologna 1980, pp. 190-218. 18 M. Cristofani, La scoperta degli Etruschi. Archeologia e antiquaria nel ’700, Roma 1983, p. 23. 19 Cristofani, La scoperta…, p. 9. 20 Nel 1738: citato in G. Camporeale, Dall’etruscheria all’etruscologia. Appunti per un problema, in Chiusi Siena Palermo. Etruschi. La collezione Bonci Casuccini, Catalogo della Mostra (Siena - Chiusi 21 aprile - 4 novembre 2007), pp. 25-38, p. 28.
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delle ipotesi e delle discussioni che per alcuni decenni, a ritmi serrati, agitarono gli eruditi antiquari intorno all’origine e alla lingua degli Etruschi, a cui vennero associati anche i popoli italico-pelasgi. In questa produzione, a vario titolo (linguistico, etnografico, storico-religioso, etimologico, ecc.) e in diversa mistura fanno la loro comparsa Egizi, Lidî, Fenici, Ebrei, Aramei, Samaritani, Cananei, Pelasgi, Etruschi, Italici, Greci dell’Ellade e Greci d’Italia e di Sicilia, secondo una tendenza già presente in età umanistica e rinascimentale21; all’interesse per gli Etruschi si affianca e si unisce spesso quello dell’antica sapienza italica di origine pitagorica, grazie soprattutto alla mediazione della tradizione sulle origini tirrene di Pitagora22. L’etruscheria avrà avuto i suoi meriti, ma non quello di essere storia o quanto meno di voler preparare la strada alla storia23; nell’icastica definizione del Momigliano, una peste24, «una forza disgregatrice, una reale malattia della cultura italiana che dovette esser curata da Carlo Ottofredo Müller»25, dalla quale neppure l’ingegno forse più brillante tra tutti, il Maffei, seppe restare immune26. In Toscana, il raggiungimento dei livelli di maggiore intensità dell’etruscheria – che pure s’era già avviata in precedenza, con ritmi
21 Così nei Commentaria di Annio da Viterbo (1498), nell’Origine di Firenze di Giovanni Battista Gelli (tra il 1542 e il 1545), nel Gello del Giambullari (1546), nel Dialogo in defensione della lingua toschana di Sante Marmocchini (tra il 1541 e il 1545), nel Libellus de antiquitate urbis Arretii di Marco Attilio Regolo Alessi (anteriormente al 1552). 22 Casini, L’antica…, p. 194: in realtà, in Italia e in Europa, le congetture sui rapporti tra Etruschi e pitagorismo, e sulla “scuola italica”, erano diffuse da oltre un secolo. Sul mito pitagorico nell’etruscheria, ibid., p. 197 ss. Sulla tradizione circa Pitagora tirreno nell’antichità, nel medioevo e in età umanistica, ibid., p. 17 ss., 145 ss. 23 Limiti e meriti sono efficacemente segnalati, in poche battute, da M. Pallottino, Etruscologia, Milano 19756, p. 4: «Più che per il valore delle congetture e delle conclusioni, sovente arbitrarie e fantastiche, e per la natura del procedimento critico, la etruscheria settecentesca va giudicata positivamente per la passione e per la diligenza delle ricerche e della raccolta del materiale archeologico e dei monumenti, che talvolta, nel caso di documenti perduti, conserva tuttora un certo valore». Sui limiti in rapporto al metodo storiografico vd. anche A. Momigliano, Gli studi classici di Scipione Maffei, in Id. Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp. 255-271 [= “Giornale storico della letteratura italiana” 133 (1956), pp. 363-383], qui a p. 269; M. Pallottino, Sul concetto di storia italica, in Mélanges Heurgon. L’Italie préromaine et la Rome républicaine, II, Roma 1976, pp. 771-789, p. 772 nt. 4. 24 Momigliano, Gli studi…, p. 270. 25 Momigliano, Gli studi…, p. 259. 26 Secondo Momigliano, «era l’unico che avrebbe potuto salvare l’Italia dalla peste etruscologica e ne fu invece vittima», e intravvide una nuova storia di Roma, ma non la scrisse (Gli studi…, pp. 269 s.), nonostante i suoi meriti negli studi di storia municipale italiana (la Verona illustrata, del 1732) e i suoi interessi di storia ecclesiastica (Istoria teologica della idea della grazia nei primi cinque secoli della Chiesa, 1742); più benevolmente, Cristofani (La scoperta…, p. 39) lo pone all’inizio di un filone preciso della storia della nostra cultura che cercava di affrancarsi dall’antiquaria per collocarsi sul piano, ancora vacillante, della storiografia. Sull’argomento vd. G. Cipriani, Scipione Maffei e il mondo etrusco, in Scipione Maffei…, pp. 27-63.
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pur sempre ragguardevoli ma meno concitati27 – fu collegato al clima politico instaurato dalla dinastia lorenese (dal 1737)28; ma non si può dire che l’etruscheria sia sorta con una connotazione polemica antiromana, in nome della conculcata libertà etrusca, acquisendo semmai, e solo occasionalmente, tale caratteristica in un secondo momento29, contemporaneamente al manifestarsi di altre virulente prese di posizione di questo genere (vd. infra). 2. Oltre alla Toscana mediceo-lorenese, un altro ambito – culturalmente e politicamente ben definito – in cui il secolo senza Roma si manifestò con tratti sufficientemente omogenei fu il regno di Napoli della seconda metà del Sette27 Nel 1727 fu fondata l’Accademia Etrusca di Cortona e nel 1735 la Società Colombaria di Firenze. La prima produsse, a partire dal 1735 e fino al 1791, nove volumi di Saggi di dissertazioni, tra le quali meritano d’essere ricordate quella di L. Bourguet, Sopra l’alfabeto etrusco, del 1735, e quella di A.S. Mazzocchi, Sopra l’origine dei Tirreni, del 1741. Per questo periodo si ricorda anche, di Scipione Maffei, il “Ragionamento” Degl’Itali primitivi, in cui si procura d’investigare l’origine de gli Etrusci, e de’ Latini, aggiunto all’edizione 1727 della Istoria diplomatica. 28 F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino 19702, pp. 48 ss. Appartengono al periodo lorenese tutte le opere più importanti e ponderose: le Osservazioni letterarie (I-VI, 1737-1740) di S. Maffei; le Lettere roncagliesi (1742) e i In Thomae Dempsteri libros de Etruria regali Paralipomena (1767) di G.B. Passeri; il Museum Etruscum (I-III, 1736-1743) e il Museum Cortonense (1750) di A.F. Gori; il Saggio sopra la filosofia degli antichi Etruschi (1756) di G.M. Lampredi; le Origini italiche (I-III, 17671772) di M. Guarnacci; le Lezioni di antichità toscane (1766) di G. Lami, che, fra l’altro, fu il più solerte diffusore della conoscenza di Giovanbattista Vico in Toscana (cfr. F. Lomonaco, Tracce di Vico nella polemica sulle origini delle Pandette e delle XII Tavole nel Settecento italiano, Napoli 2005, p. 30 ss.) ed ebbe modo, agli inizi degli anni ’60, di conoscere e frequentare a Firenze il Denina (Cristofani, La scoperta…, p. 141); il Saggio di lingua etrusca e di altre d’Italia (1789) di L. Lanzi, che tuttavia si colloca su un livello metodologico più sicuro (Pallottino, Etruscologia, pp. 4 s.). 29 Per l’etruscheria dell’età lorenese Cristofani (La scoperta…, p. 103) parla di una funzione sottilmente antiromana alla quale Pompeo Neri attribuiva una qualche utilità sul piano politico. Comunque, le manifestazioni apertamente e duramente antiromane sono del tutto sporadiche. Di un certo interesse è la vicenda del Lampredi, il quale nel Saggio polemizzava col Dempster, esaltando l’indipendenza e l’autonomia delle città etrusche riunite in federazione, e la repubblica come sinonimo di pace e moderazione; ma quattro anni dopo, in Del governo civile degli antichi Toscani e delle cause della loro decadenza (1760), dovette ammettere che il governo repubblicano non era adatto a una regione ricca e opulenta e fertile come l’Etruria / Toscana (il “clima” di Montesquieu). Cfr. Cristofani, La scoperta…, p. 137 ss. Questa celebrazione dell’antica libertà repubblicana può ben spiegare il violento attacco del Lampredi a Roma, che, a quanto ne so, è anche l’unico esplicitamente portato dagli etruscomani settecenteschi: «Il rapace e inquieto popol di Roma non solamente soggiogò l’Etruria e la rese tributaria e serva, ma in tal maniera distrusse il suo dominio e oppresse la sua antica fama sotto lo splendore dei regni e delle province da esso poi conquistate che la provincia dei Toscani oltre le Italiche tutte bellissima e potentissima divenne un oggetto di piccola considerazione per gli storici tutti i quali, descrivendo le rapide conquiste del popolo romano, descrivean le conquiste dell’universo» (Del governo, cit. in Cristofani, La scoperta…, p. 139). A ciò si possono semmai aggiungere le elucubrazioni antiromane dello zio prete del Passeri, evocato dal nipote nelle Lettere roncagliesi (Cristofani, La scoperta…, p. 95): «Tutto quello che abbiam di romano è per noi così forestiero quanto lo è per i Daci e per i Sicambri. Quella nazione conculcatrice altra correlazione non ha con noi fuorché quella di averci oppressi. L’invidia romana estese le sue furie perfino contro l’innocenza del nostro antico idioma».
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cento. C’è poi un terzo ambito, che potremmo definire settentrionale (ma la connotazione è puramente geografica e convenzionale, e l’appartenenza non comporta, a differenza che nei casi precedenti, omogeneità di sorta, se non del tutto casuali), in cui rientrano il Denina, il Verri, l’Algarotti e il Mengotti. Tra questi autori, la subordinazione di Roma a una cultura – quella etrusca – anteriore e superiore (come nell’etruscheria) e l’avversione nei suoi confronti come potenza barbara e devastatrice di un’altra tradizione politica e culturale – quella italico-sannitica – anch’essa anteriore cronologicamente e superiore qualitativamente (come a Napoli: vd. infra), sono presenti solo nel Denina, anche se con accenti e modalità peculiari. Del tutto particolare è il caso dell’aspro antiromanesimo del Mengotti, legato alla sua polemica anticolbertista. Quanto all’Algarotti e al Verri, si tratta in verità di posizioni in cui Roma non è esclusa dalla ricostruzione complessiva, né il giudizio è aprioristicamente o totalmente negativo; questo, del resto, vale anche per il Denina. Per quel che riguarda le coordinate cronologiche, è ravvisabile una netta linea di demarcazione: invariabilmente, tutte le negazioni di Roma sono posteriori alla conclusione dell’opera (1749) del Muratori. Com’è noto30, per il Muratori le origini della storia d’Italia e delle problematiche attuali andavano ricercate nella massima misura nei secoli oscuri, a partire dall’arrivo delle barbarae gentes nella Penisola31; così, nei Rerum Italicarum Scriptores egli datava la storia d’Italia a partire dal VI secolo d.C., dalla sconfitta dei Goti da parte di Giustiniano, peraltro innovando rispetto a una consolidata tradizione risalente alle Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades (1483) di Biondo Flavio, nella quale, con la sola eccezione del Sigonio, era stato il V secolo a determinare il termine cronologico del discrimine tra antichità e medioevo32; vero è che gli Annali d’Italia iniziano dall’era cristiana, ma si trattò di un arrangiamento adottato in rapporto alla periodizzazione della storiografia ecclesiastica, in ispecie gli Annales del Baronio, rispetto al progetto originario che datava a partire dal 40033. Sul piano più propriamente politico-istituzionale, il Muratori individuava l’origine dell’assetto moderno dell’Italia – la cui attuale divisione in più stati approvava34 – nella grande «mutazion di governo» dell’età comunale, nella rivendicazione della 30 S.
Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli 1960, pp. 269-270. Rer. I.1, p. LXXXII: ex iis ipsis gentibus, quarum fatiscente Romano Imperio Italia dominationem sensit, et quas barbaras appellare consuevimus, ut verisimilis coniectura fert, plerique originem trahimus. 32 Galasso, L’Italia…, p. 156. Il De occidentali imperio del Sigonio iniziava col 284-565 d.C. Il Maffei invitò Muratori a colmare la lacuna cronologica, ma questi rispose di non voler sentir parlare di storia romana; in realtà, Maffei dissentiva dalla scelta unitaria della storia d’Italia operata dal Muratori: cfr. Galasso, L’Italia…, p. 157 ss. 33 A. Marcone, I libri sull’Italia antica delle Rivoluzioni d’Italia di Carlo Denina, “Rivista Storica Italiana” 112 (2000), pp. 1072-1093, p. 1073; cfr. Galasso, L’Italia…, p. 158 s. 34 Gabba, Considerazioni…, p. 410. 31
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(antica) libertà delle città toscane e settentrionali nei confronti dell’impero, resa possibile sia dalla debolezza dell’ordinamento imperiale, sia dalla persistenza del diritto romano35. L’appartenenza alla fase postmuratoriana della negazione storiografica di Roma in chiave più o meno polemica è un dato oggettivo: non credo illegittimo pensare, per questo, a una qualche influenza della scansione storiografica muratoriana, ricordando comunque che il Muratori non era certo animato da sentimenti antiromani, a cui si aggiunse la (ri)scoperta del Vico e in particolare della sua positiva valutazione del Medioevo come «barbarie ricorsa»36. Più tardi, come ricordava il Croce, il contributo determinante alla valorizzazione del medioevo come età sacra delle origini del popolo italiano vivo ancora e presente e agente sarebbe venuto dalla cultura francese e tedesca (Chateaubriand, Sismondi, Müller)37. 3. Nella Napoli di Carlo III e di Ferdinando IV di Borbone – e di Bernardo Tanucci, di Antonio Genovesi, di Gaetano Filangieri – l’esaltazione dell’antica libertà italica in opposizione all’oppressione romana sorse e proliferò nel contesto degli arditi progetti riformatori miranti a rafforzare i diritti giurisdizionali della monarchia contro il papato e contro la nobiltà feudale. La presenza di Roma era percepita come costante e opprimente: in antico aveva vinto i Sanniti, abbattendone la libertà; ora, la pretesa del potere universale del papato sull’autorità temporale dei re di Napoli era simboleggiata nella sua più compiuta plasticità dall’offerta annuale della chinea al Papa, e del correlato censo di 7000 ducati versato annualmente dal regno di Napoli38. L’insofferenza verso questa forma di sudditanza e verso le ingerenze della Curia romana nella politica e nell’economia del Regno era già diffusa da tempo: ad esempio, quando Carlo VI rifiutò di ricevere dalle mani del Papa l’investitura del Regno, l’abate Nicolò Caravita, a sostegno, pubblicò una Memoria intitolata Nullum jus Romani Pontificis in Regno Neapolitano dissertatio historico-juridica (1707). Ma chi sostenne con forza, storicamen35
G. Giarrizzo, Vico, la politica e la storia, Napoli 1981, pp. 45 s.; Marcone, I libri…, p. 1077. Croce, Storia della storiografia…, p. 112, ove giudica il contributo di Muratori come «soltanto un’eccellente erudizione di particolari». 37 Croce, Storia della storiografia…, p. 112. 38 M. Calaresu, Images of Ancient Rome in Late Eighteenth-Century Neapolitan Historiography, “Journal of the History of Ideas” 58 (1997), pp. 641-661, p. 642. La chinea era una mula bianca che il 28 giugno di ogni anno s’inginocchiava davanti al Papa, recando i 7000 ducati in una cesta d’argento fissata alla sella. Fino al 1472 il tributo, risalente forse al 1059, era stato pagato a cadenza triennale; da quella data divenne annuale. Ferdinando IV abolì chinea e tributo nel 1776, ripristinando solo il tributo nel 1788. Il tributo fu abolito solo nel 1855, quando Ferdinando II propose di definire il problema versando una tantum diecimila scudi per l’erezione della colonna dell’Immacolata Concezione in Piazza di Spagna, a Roma. 36
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te e giuridicamente, l’infondatezza delle pretese curiali fu soprattutto Pietro Giannone, nell’Istoria civile del Regno di Napoli (1721), che esercitò, sotto questo aspetto, grande influenza sugli intellettuali della seconda metà del ’700. Alle prese di posizione antiromane in quanto anticuriali39 si aggiungevano quelle antiromane in quanto antifeudali: qui ebbe sicuramente un peso la caratterizzazione vichiana della società romana dell’età eroica (da Romolo alle leggi Publilia e Petelia) come feudale, per il rapporto generato tra «eroi» e «famoli», cioè tra gentes e nexi o clientes; lo stesso rapporto riprodottosi nella successiva età eroica, la «barbarie seconda» o «ricorsa», cioè il Medioevo40 (anche se la polemica investiva di fatto il modello «gotico»: vd. infra). Fu Antonio Genovesi, nel II capitolo della prima parte delle Lezioni di commercio (1765), a indicare una via pratica e politica alla soluzione della questione feudale – il modello gotico, il «beau système trouvé dans les bois» del mondo germanico, come lo definiva, apprezzandolo, il Montesquieu, che costituiva la risposta alla decadenza e alla crisi del sistema romano imperiale41 – nel recupero del modello italico preromano; si trattava di unire «una filosofia fatta di cose a una riflessione di tenore storico sul mondo che quella filosofia intendeva contribuire a cambiare», riproponendo per tale via l’interpretazione vichiana dei fenomeni storici, per cui tutto il passato (anche quello italico, non solo quello romano) veniva considerato nella dinamica complessiva della storia della civiltà42. Strettamente connesso alla feudalità era il perverso rapporto tra città (capitale) colta e ricca e campagna miserabile e (vichianamente) selvaggia, tale essendo il risultato della violenta trasforma-
39 Il ministro Bernardo Tanucci limitò la giurisdizione dei vescovi, eliminò prerogative risalenti all’epoca medievale, ridusse le tasse da pagarsi alla Curia romana. Le entrate di episcopati e abbazie vacanti affluirono alla corona, conventi e monasteri superflui vennero soppressi, le decime abolite e nuove acquisizioni di proprietà da parte delle istituzioni ecclesiastiche tramite la manomorta vietate. La pubblicazione delle bolle papali necessitava della previa autorizzazione reale (il cosiddetto exequatur), e le concessioni non si considerarono più eterne. Anche le nomine vescovili nel Regno caddero, seppure non direttamente ma solo tramite raccomandazioni, nelle mani del sovrano. Il Re era soggetto soltanto a Dio, gli appelli a Roma erano proibiti a meno che non vi fosse stato l’assenso del re, il matrimonio venne dichiarato un contratto civile. I Gesuiti vennero espulsi nel 1767, e i loro beni furono incamerati dallo Stato; le proteste dei vescovi contro i nuovi insegnamenti nelle scuole a seguito dell’espulsione dei Gesuiti vennero liquidate come non valide. Uno degli ultimi suoi atti fu l’abolizione della chinea: vd. sopra. 40 Il vincolo feudale è proprio di tutte le società eroiche. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari 19733, p. 159 ss., 197 ss.; cfr. Giarrizzo, Vico…, pp. 102-120; ibid., p. 207 sulle misure antifeudali del Tanucci. Sul rapporto patrizi / plebe / clientela, Mazzarino, Vico…, p. 87 ss. 41 Giarrizzo, Vico…, p. 208: «Il “modello gotico” (germanico) diffonde una struttura statuale, in cui il sovrano è anch’esso un signore feudale che media, in virtù della maggiore potenza e ricchezza, le sollecitazioni anarchiche e centrifughe degli altri “commilitoni”». 42 Nuzzo, La tradizione…, p. 29 s.
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zione del regime di proprietà della terra provocata dalle clientele feudali43. Tutto ciò era supportato da un apparato legislativo cresciuto a dismisura, formato com’era da una base di diritto romano a cui s’era aggiunta, nei secoli, una quantità strabocchevole di leggi, codicilli, consuetudini e quant’altro. Il modello proposto – e seguito dai suoi numerosi allievi, pur con talune varietà d’intonazione e anche con qualche non trascurabile differenziazione: vd. infra – lasciava da parte ogni interesse per l’antica e arcana sapienza filosofica delle popolazioni preromane, esaltandone piuttosto la virtù politica e lo spirito di libertà, e contemplava: a) l’esaltazione dell’indipendenza e autonomia delle molte libere città italiche (e in ispecie sannitiche), le piccole repubbliche indipendenti, unite in unità superiori (nazione) da vincoli federativi; b) il carattere fiero e indomito di queste popolazioni, le loro qualità morali (laboriosità, sobrietà, austerità di costumi, ecc.), civili (specie per la pratica dell’agricoltura e del commercio e per l’equa distribuzione della proprietà della terra) e militari (i Sanniti furono coloro che più di ogni altro popolo seppero rallentare l’espansione romana in Italia); c) il loro elevato livello culturale (leggi, arti) e demografico, la loro opulenza, mai però degradante in lusso o in tryphé, come tra gli Etruschi o le città magnogreche; d) la barbarie, la rapacità e la violenza dei Romani, distruttori di popoli, di ordinamenti, di culture: unica loro dote, la grande disciplina, perfezionata nel tempo in quanto occupati dallo spirito di conquista (Galanti). Dobbiamo alle magistrali indagini di Franco Venturi e Giuseppe Giarrizzo la contestualizzazione di questi problemi all’interno della cultura napoletana del XVIII secolo e l’analisi degli aspetti particolari legati ai singoli protagonisti44; oltre ad esse, merita segnalare gli importanti contributi contenuti nell’opera collettanea La cultura classica a Napoli nell’Ottocento45. Tra i principali rappresentanti della scuola genovesiana che – pur con taluni non secondarii distinguo – riproposero nelle loro opere il modello italico si annoverano Francesco Longano, Francesco de Attellis, Giuseppe Maria Galanti, Francescantonio Grimaldi, Francesco Mario Pagano e Melchiorre Delfico. Non fu allievo di Genovesi Giovanni Donato Rogadei, anche se ne risentì dell’insegnamento. Merita di segnalare un altro tratto comune di alcu43 Giarrizzo, Vico…, p. 199 ss., 201. Sulla questione feudale nel regno borbonico vd. anche A.M. Rao, L’amaro della feudalità: la devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 1984. 44 Mi riferisco naturalmente a Illuministi italiani. V. Riformatori napoletani, ed. F. Venturi [da ora: Venturi, Illuministi], Milano - Napoli 1962, e al già citato volume di Giarrizzo, Vico, la politica e la storia. Le tesi qui sostenute da Giarrizzo sono state riproposte più tardi, con qualche aggiunta, in Id., Erudizione storiografica e conoscenza storica, in Storia del Mezzogiorno, edd. G. Galasso - R. Romeo, IX.2, Roma 1994-1995, pp. 509-600, specialmente alle pp. 569-591. 45 La cultura classica a Napoli nell’Ottocento, con premessa di M. Gigante, I-II, Napoli 1987.
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ni di loro: Longano, De Attellis e Galanti erano molisani, come lo fu anche Vincenzo Cuoco (vd. infra), originari cioè non solo di uno dei territori più poveri, desolati e male amministrati del Regno (da cui il naturale impulso a sollecitare le riforme), ma soprattutto di quello che corrispondeva alla massima parte dell’antico Sannio Pentro, l’autentica roccaforte della resistenza antiromana fino all’età sillana. Ben si comprende, quindi, come il riferimento fondamentale di questi autori, oltre a quello generico al mondo italico, sia propriamente a quello sannitico (ad eccezione del Delfico, che, essendo di origini pretuzie, parla prevalentemente di Atri e degli Italici medioappenninici, e del Rogadei, che accanto ai Sanniti descrive anche Sabini e Campani). Nel volume Dell’antico stato de’ popoli dell’Italia Cistiberina che ora formano il regno di Napoli (Napoli 1780), pubblicato come prima parte di un Diritto pubblico e politico del regno di Napoli poi mai realizzato, il Rogadei ritenne di aver individuato le origini del diritto pubblico e politico del regno di Napoli (come doveva intitolarsi l’opera completa, di cui invece comparve solo il primo volume, quello appunto relativo all’età più antica) nella storia delle tribù che in età preromana avevano abitato la regione (Sanniti, Sabini e Campani), considerandole una sola nazione divisa in più stati, in quanto di origine comune e con istituzioni e costumi assai simili. Rifiutando l’uso vichiano di favole, miti e tradizioni popolari per la ricostruzione della genesi delle società antiche, e peraltro difettando di monumenti, il Rogadei fece ricorso a un metodo originale quanto bizzarro, giustapponendo alle fonti letterarie romane descrizioni di tribù barbariche tratte dalle Sacre Scritture, dal Guarnacci e da vari altri testi antiquari46. Nella Raccolta de’ saggi economici (1779), e poi nel Discorso preliminare. Congetture sopra le maniere onde gli antichi popoli del Sannio cotanto prosperarono, aggiunto alla seconda edizione (1796) del Viaggio per lo Contado di Molise nell’ottobre 1786, già pubblicato a Napoli nel 1788, Francesco Longano, che fu filosofo, matematico, astronomo ed economista, analizzava le ragioni del profondo squilibrio del rapporto fra capitale e provincia47, riandando al mito sannitico centrato sull’immagine di una città ideale, sul Matese, in cui si sarebbero attuati comunanza dei beni, solidarietà, ordine e lavoro, come nel Sannio antico, l’unico stato che riuscì a ritardare a lungo la conquista romana dell’Italia48. Il marchese Francesco de Attellis, originale figura di erudito prodigo e gaudente, mostrò nei Principii della civilizzazione de’ selvaggi dell’Italia (I-II, Napoli 1805-1807) una profonda disistima nei confronti dei greci e grande ammirazione per la civiltà e la potenza etrusca, in una velleitaria riproposizione del metodo eti46
Calaresu, Images…, pp. 646-649. Giarrizzo, Vico…, p. 210. 48 Venturi, Illuministi, p. 344. 47
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mologico vichiano del De antiquissima che gli attirò la decisa stroncatura del Cuoco49. Il de Attellis si distinse anche, oltre che per aver salvato il Galanti, nascondendolo per due anni in casa sua alla vendetta dei sanfedisti50, per aver inutilmente perorato nel 1806, dinanzi a Giuseppe Bonaparte, la sostituzione dell’antico e glorioso nome di Sannio a quello di Contado di Molise, degradante in quanto di origine feudale51. Il più assiduo seguace dell’impostazione del Genovesi fu però il giurista Giuseppe Maria Galanti, che tornò più volte sull’argomento: dapprima nel Saggio sopra l’antica storia de’ primi abitatori dell’Italia, inserito nel IV volume (1780) della Storia filosofica e politica delle nazioni antiche e moderne, un ambizioso progetto a più mani ideato e coordinato da lui stesso, e poi ripubblicato a parte dopo qualche anno (Napoli 1783)52; indi, nella Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado di Molise, Napoli 1781, e infine nella Descrizione geografica e politica delle Sicilie (Napoli 1786-1794) e nella Nuova descrizione storica e geografica d’Italia (Napoli 1791). Galanti sottolineava l’importanza dello studio della fase preromana per un regno che aveva conosciuto tante «rivoluzioni» (citando Denina)53, insistendo sul tradizionale circolo virtuoso composto dalla virtù politica, dallo spirito di libertà e dalla fierezza degli antichi Sanniti54, dall’elevato livello demografico del Sannio antico, dalla correlata immensa ricchezza, attestata dalle splendide armi e dalle vesti sontuose ricordate da Livio, e dall’elogio dell’agricoltura ivi praticata come professione nobile e civile, segno del passaggio dalla barbarie alla civiltà e caratteristica dello sviluppo sociale; i popoli barbari (come i Germani in Cesare e in Tacito) non praticavano l’agricoltura, ma caccia, pesca e al massimo il pascolo55. L’equa divisione della proprietà della terra e l’assenza del latifondo distinguevano la situazione antica dal modello gotico e da tutti i suoi mali (un misto di nobiltà, di feudalità, di fiscalità e di sacerdozio), anche se, in realtà, prima ancora del modello gotico (e dunque, alle sue ori49 Venturi, Illuministi, p. 980; A. Andreoni, Omero italico. Favole antiche e identità nazionale tra Vico e Cuoco, Roma 2003, p. 222. Cfr. C. Cassani, s.v. de Attellis, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIII, Roma 1987, pp. 328-329; S. Cerasuolo, Francesco de Attellis, in La cultura classica…, I.1, pp. 175-194. Sulla stroncatura del Cuoco, ibid., p. 184. 50 Cerasuolo, Francesco de Attellis, p. 177 e nt. 11. 51 A. Zazo, Il mancato nome di “Sannio” nel 1806 alla nuova provincia di Molise, “Samnium” 24 (1951), pp. 114-122. 52 Calaresu, Images…, p. 651; Venturi, Illuministi, p. 960. 53 Ma anche Raynal, Robertson e Hume: Venturi, Illuministi, p. 960. 54 Venturi, Illuministi, p. 962, vi legge l’odio voltairiano contro i conquistatori e la trasposizione del mito rousseauiano dell’uomo primitivo, «germi tutti destinati a svilupparsi». 55 Calaresu, Images…, p. 652. Sul modello sannitico o sannita di Galanti in contrapposizione a quello romano cfr. F. Barra, Introduzione e Nota al testo in G. Galanti, Scritti sul Molise, I, Descrizione del Contado di Molise, a cura di F. Barra, Napoli 1987, pp. 5-45 e 47-49, spec. pp. 22-26.
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gini), fu Roma a infrangere questo mirabile equilibrio nella proprietà e nello sfruttamento della terra, attraverso l’introduzione del latifondo e del lavoro servile: dal quinto secolo della sua storia, fu Roma la prima e vera causa della decadenza del Meridione d’Italia (una convinzione comune ai riformatori meridionali del secondo Settecento)56. Dunque, come Vico, anche Galanti vedeva in Roma le origini del feudalesimo57. E nel VII volume della Storia filosofica e politica inserì una dissertazione sull’economia dei Romani di G.M. Butel-Dumont, presentata all’Académie des Sciences di Parigi nel 1776 e pubblicata nel 1779, in cui si affermava la quasi inesistenza dell’influenza dell’agricoltura sulle istituzioni e sui costumi dei Romani (dunque: inciviltà e infelicità), e si concludeva che la celebrità dei Romani era dovuta più al male fatto agli altri popoli che al bene fatto a se stessi (sulla scia del Chastellux e del Voltaire)58. A questi spunti si aggiunge l’affermazione secondo cui i popoli italici, non avendo «arti di lusso», non avevano bisogno «della superfluità delle altre nazioni», e dunque non avevano commercio estero: di qui la forte polemica contro le città greche d’Italia, ricche e corrotte59, a cui fa da pendant l’apprezzamento per lo spirito spartano dei Sanniti, tratto dalla nota notizia straboniana sul sinecismo spartano-sannita60. Quanto al livello demografico, è interessante notare come nel Saggio il Galanti valorizzasse acutamente un passo straboniano (V 4,12) sulla funzione sociale e pubblica del vincolo matrimoniale tra i Sanniti, centrato sulla figura della donna come ricompensa delle virtù civiche degli uomini e dei meriti da loro acquisiti al servizio della patria: i buoni legislatori sanniti avevano vietato ai padri di «maritare a lor piacere le figliuole», le quali venivano scelte dai giovani che avevano reso i maggiori servizi alla patria (il primo a scegliere era quello giudicato più meritevole, e così via in ordine decrescente di merito). E se qualcuno di costoro cambiava vita e si degradava, perdeva la moglie. Questa sottolineatura richiama, e contrario, la polemica deniniana sul celibato (vd. infra). Il Galanti paragonava (come già aveva fatto il Denina: vd. infra), le piccole repubbliche federate del Sannio «alle repubbliche federate degli Svizzeri, così popolate, così piene d’arti e d’industria»61; tuttavia non gli sfuggiva l’intrinseca debolezza dello stato sannitico: lo spirito di indipendenza e di libertà 56 S. Cerasuolo, Mito italico e progettualità dell’antico nel Platone in Italia del Cuoco, in La cultura classica…, I.1, pp. 143-173, p. 157 s. 57 Calaresu, Images…, p. 654 s. Sul concetto di feudalesimo in Galanti: Venturi, Illuministi, p. 962; sul contrasto, nella Descrizione, tra la miserevole situazione attuale e il Sannio preromano, ibid., p. 967: «il mito serviva davvero a render più profonde le ombre della realtà». 58 Venturi, Illuministi, p. 960. 59 Calaresu, Images…, p. 651 s. 60 Cerasuolo, Mito…, p. 160. 61 Cerasuolo, Mito…, p. 161.
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presuppone la possibilità del sorgere di fazioni e contrasti tali da minare la struttura federativa (eco della situazione attuale: grandi privilegi dei baroni e debolezza della monarchia) e l’assenza di disciplina nell’esercito, più numeroso ma per questo più debole di quello romano. La sconfitta con Roma era dunque inevitabile: ma quella potenza dispotica, avida, supermilitarizzata, desiderosa di sterminio (insiste in particolare sui Lucani) avrebbe conosciuto all’interno della sua storia perversa – con le guerre civili – la giusta punizione che nessuna potenza esterna sarebbe stata in grado di inferirle62. L’ultimo e il più longevo degli allievi di Genovesi, il teramano Melchiorre Delfico, personaggio dai molti e spesso contraddittori interessi, già nel 1791, nelle Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori, aveva denunciato il peso insopportabile dell’eredità giuridica romana sulle istituzioni e sulla prassi giuridica e politica del regno di Napoli: eredità considerata come prodotto dell’involuzione storica del diritto romano e dell’accumularsi su di esso di norme e consuetudini feudali (definite nuove sozzure), che avevano esasperato un difetto d’origine: la natura aristocratica, in senso socio-politico e religioso-sacerdotale, della legislazione romana, definita torbida e fangosa, e piena d’errore, malizia, prepotenza63. La polemica antiromana torna, acuta, nel trattatello sulla numismatica atriana, del 1824, a cui fa da parte introduttiva un Discorso preliminare su le origini italiche. Alle violente accuse alle devastazioni e all’oppressione inferte dai barbari transappenninici alle miti e felici popolazioni centroitaliche – qui soprattutto gli Umbri e i Piceni-Pretuzi: non si dimentichi che il Delfico, essendo teramano, era di origini pretuzie64 –, depositarie di una cultura ben più antica ed elevata, fa da pendant dimostrativo la raccolta e l’illustrazione appunto di una serie monetale fusa della colonia latina di Hatria (fondata nel 289 a.C. ma naturalmente attribuita a vari secoli prima, all’illustre e gloriosa Hatria pretuzia), sui cui contenuti sarebbe ingeneroso infierire. L’esaltazione del piccolo stato è presente anche e soprattutto nelle Memorie storiche della Repubblica di San Marino (1804), opera di ottimo livello e ancora di fruttuosa consultazione, scritta sia per riconoscenza verso chi l’aveva accolto esule (tra il 1799 e il 1806), sia perché la piccola repubblica, rimasta sempre immune dal sistema feudale e dall’autorità ecclesiastica e perciò stesso simbolo di libertà e indipendenza, di governo moderato ed efficiente, rappresentava un
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Calaresu, Images…, p. 653. Più tardi anche il Galanti, nel Testamento forense, Venezia 1806, avrebbe denunciato i vizi e le turpitudini del foro napoletano. Cfr. Venturi, Illuministi, p. 976 s.; Lomonaco, Tracce…, p. 51 s. 64 Sui rapporti tra Delfico e Galanti cfr. M. Raskolnikoff, Histoire romaine et critique historique dans l’Europe des lumières. La naissance de l’hypercritique dans l’historiographie de la Rome antique, Roma 1992, p. 654. 63
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tipo di organizzazione particolarmente adatta a soddisfare i fondamentali bisogni civili e sociali, sì da farla assurgere, con citazione vichiana, a «tipo dei veramente umani governi»65. In questo contesto napoletano (e non: Denina) di esaltazione delle virtù degli antichi popoli italici a fronte della barbarie romana, sorsero però anche voci originali e non sempre o totalmente allineate come quelle di Francescantonio Grimaldi e di Francesco Mario Pagano. Negli Annali del regno di Napoli (16 volumi, Napoli 1781-1786; i primi 12 tra il 1781 e il 1783) il Grimaldi descrive gli inizi e i progressi della nazione, in un ininterrotto susseguirsi di fatti (“Epoca I”, I 1): ciò richiama la lettura vichiana della storia come una serie di «continuità» connesse fra loro, influenza tanto più avvertibile nella divisione della storia del Regno in tre Epoche, sì da comparare un corso all’altro; inoltre, utilizza le favole come fonti storiche66. E vichiana è anche l’analisi del passaggio dallo stato selvaggio allo stato barbaro allo stato civile degli uomini67. A ciò si aggiunga che nel 17791780 il Grimaldi aveva pubblicato le Riflessioni sopra l’ineguaglianza tra gli uomini, collocantisi nell’ampio dibattito innescato dal Discours rousseauiano, attaccando come chimerica – sulla scia del Voltaire e del Ferguson – l’idea stessa di stato di natura e di uomo naturale68. Da ciò il profondo pessimismo circa la possibilità di eliminare l’ineguaglianza propria della natura umana, condizione per soddisfare l’emergere sociale dei bisogni69: essa, e la servitù civile sono considerate condizioni necessarie della civiltà, migliorabili (ma non estirpabili) attraverso l’idea di sviluppo e di progresso70. Si tratta di conclusioni condivise con il Filangieri, del quale proprio in quel torno di tempo cominciava a esser pubblicata la Scienza della legislazione (il volume sulle norme generali è del 1780), in cui il rapporto tra l’Italia preromana di liberi coltivatori e soldati, e senza schiavi né mercenari, e la vicenda storica di Roma, una società progressivamente imperniata sul lavoro servile e sull’imperialismo bellicista, si giuoca sul maggiore o minor grado di società naturale conservato nel passaggio alla società civile: i progressi nell’agricoltura e l’incremento del livello demografico sono proporzionali al titolo di proprietà, ed è per questo che nell’Italia preromana, a differenza che nell’Italia romana, 65 Nonostante i Pensieri sull’inutilità della storia: cfr. G. Firpo, Melchiorre Delfico e l’antica monetazione atriana, “Rivista Storica Italiana” 116 (2004), pp. 356-384. 66 Calaresu, Images…, p. 656 s. Cfr. M. Riccio, Lecture du conflit social et influence de Vico dans quelques ouvrages au seuil de la révolution napolitaine, in “Noesis” 8 (2006): http://noesis.revues.org/document121.html 67 Giarrizzo, Vico…, p. 211. 68 Venturi, Illuministi, p. 518. 69 Giarrizzo, Vico…, p. 211. 70 Venturi, Illuministi, p. 520 s.
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i liberi proprietari erano numerosissimi, non esistevano terreni incolti, l’agricoltura fioriva e con essa la popolazione. Il modello italico – qui imperniato sullo sviluppo dell’agricoltura inteso non tanto in relazione alla produttività, quanto all’eliminazione dei terreni incolti – era quanto mai attuale, e fungeva da premessa alla richiesta di alienazione dei feudi71. Sulla base di queste premesse si possono comprendere meglio gli aspetti originali del pensiero del Grimaldi rispetto al Galanti e allo stesso Genovesi. Anche il Grimaldi, come il Galanti, ravvisa nei legami federativi che riunivano in una nazione una pluralità di «repubblichette» (il tono della definizione è volutamente sarcastico, così come quella dei «principotti» che talvolta le governavano), riconoscentisi in origine e costumi comuni (ad es., i Sanniti), l’elemento di debolezza degli antichi ordinamenti italici. Ora – e qui è la novità della sua posizione rispetto a quella del Genovesi e del Galanti –, il Grimaldi non vede sostanziali differenze tra «i Romani ne’ primi tempi della loro barbarie», i quali a loro volta «non erano differenti da’ Galli», e i Sanniti, paragonati agli indiani d’America, divisi in una pletora di «repubblichette» i cui capi – un’oligarchia militare di uomini barbari, feroci e violenti – è considerata un tratto tipico della “prima infanzia” delle nazioni e l’indizio più sicuro del loro stato di barbarie72. Questa importante affermazione è analoga all’opinione del Denina (vd. infra), e a mio avviso è possibile che ne dipenda. E anche il nesso agricoltura-civiltà, riaffermato proprio in quegli anni dal Galanti (vd. sopra), è contestato dal Grimaldi: il fatto che i Sanniti fossero agricoltori non implica di per sé che non fossero barbari e guerrieri (e fa l’esempio dei Galli in Polibio II 17: guerra e agricoltura). Per contro, anche fra i Sanniti la proprietà della terra non era affatto suddivisa equamente: la stratificazione sociale era netta, come tra i Romani e i Galli, e la proprietà terriera era appannaggio di un ristretto numero di aristocratici. Ciò comportava la natura essenzialmente feudale-clientelare (proprietari / possessori), divisa in piccoli contadi, della società sannitica: un elemento di debolezza anche politica (qui si avvertono gli echi delle divisioni giurisdizionali del Regno)73. Queste strutture così precarie – e il Grimaldi irride al confronto galantiano con le repubbliche federate degli Svizzeri74 – non poterono reggere il confronto con Roma: ed è appunto su Roma e sul suo ruolo storico rispetto agli Italici / Sanniti che il giudizio del Grimaldi si differenzia rispetto al Galanti e al Genovesi: per meglio dire, il Grimaldi cerca di storicizzare la su71
Giarrizzo, Vico…, p. 213 ss., anche per il rapporto col pensiero di Adam Smith. Venturi, Illuministi, p. 522. 73 Venturi, Illuministi, p. 587, nota, sulle discussioni e le forti critiche di Cuoco alla descrizione grimaldiana degli antichi Italici, su cui vd. anche Andreoni, Omero…, p. 230 ss. 74 Cerasuolo, Mito…, p. 169. 72
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premazia di Roma sul mondo italico, spiegandone le cause morali, sociali ed economiche. Se le condizioni di partenza erano analoghe, perché Roma divenne Roma e i Sanniti dovettero sottometterlesi? A differenza delle «repubblichette» italiche, Roma ebbe, paradossalmente, la fortuna di cadere sotto la tirannia e la forza di liberarsene; così si fortificò e si disciplinò: il comando e gli interessi divennero una cosa sola, e una città costituì l’intera nazione. Così, se è vero che vengono ricordati il naturale istinto guerriero e la naturale indipendenza «dei nostri barbari», vichianamente «feroci d’un’immaginazione vivace» e «soggetti soltanto agli stimoli della loro fantasia e della loro immaginazione, che gli guidava in luogo della ragione», il Grimaldi ammette pure che ciò servì a ben poco, dacché «l’indipendenza personale de’ nostri barbari indusse le loro nazioni alla servitù, la servitù civile de’ Romani innalzò la loro repubblica al grado di regina dell’universo». Insomma, tra tutte le «repubblichette» italiche (di cui pur faceva parte), solo Roma seppe passare dalla barbarie alla «servitù civile», un ordinamento comprendente agricoltori “schiavi” che col loro lavoro mantenevano i guerrieri75. Nell’affermare la continuità tra antico e moderno, Grimaldi non idealizza, alla stregua del Galanti, un modello da trarre dall’antico e da riproporre, ma vuol evidenziarne l’importanza per affrontare i problemi giurisdizionali attuali del regno. Oltre a contrastare l’idealizzazione della vita delle popolazioni italiche preromane, il Grimaldi riequilibra anche il giudizio su Roma, non giudicata, come di consueto, la distruggitrice della libertà e della cultura italiche, bensì come colei che ha tratto i Sanniti fuori dalla barbarie; e assai acutamente il Giarrizzo sottolinea il giudizio sull’analoga situazione venutasi a creare alla fine dell’impero romano, quando «lo stabilimento de’ barbari» pose rimedio allo sfacelo morale e materiale in cui erano piombati i «nostri degradati indigeni»76. Complessa e di grande interesse è la vicenda umana e culturale di Francesco Mario Pagano. In una sua opera giovanile, il Politicum Universae Romanorum Nomothesiae Examen (1768), a un primo capitolo in cui viene celebrato il primato culturale degli Etruschi, populorum cultissimi, e la loro decisiva influenza su Roma per lingua, arti, musica, arte politica, arte divinatoria, ecc., vuoi per i riflessi dell’interesse coltivato a Napoli per l’etruscheria77, vuoi per la sincera ammirazione nei confronti dell’opera riformatrice 75
Giarrizzo, Vico…, p. 212; Calaresu, Images…, p. 656. Giarrizzo, Vico…, p. 212 s. 77 Nel 1755 Carlo III di Borbone istituì l’Accademia Ercolanese sul modello dell’Accademia Etrusca di Cortona, di cui fu membro autorevole Alessio Simmaco Mazzocchi, l’autore del celebre Commento (I-II, Napoli 1754-1755) alle Tavole di Eraclea, scoperte nel 1732, che nel 1741, per le Dissertazioni accademiche dell’Accademia Etrusca di Cortona, aveva pubblicato un saggio Sopra l’origine dei Tirreni. Sull’importanza e la vitalità dell’antiquaria a Napoli, nonostante la contrarietà del Genovesi, e sul pro76
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del granduca di Toscana Pietro Leopoldo (la cui sorella, Maria Carolina, era moglie del re di Napoli Ferdinando IV), al quale il lavoro era dedicato, segue un secondo capitolo in cui è esaltata la sacralità dell’antica giurisprudenza romana e dove – nel concepire il diritto come misura e disciplina di norme dettate dalla ragione, ma conoscibili solo nel loro divenire storico – sono evidenti le influenze vichiane e quelle del Saggio sulla giurisprudenza universale (1760) e dell’Origine e progressi del cittadino e del governo civile di Roma (1763-1764) di Emanuele Duni78. L’ammirazione per la perfezione e la sentenziosa brevità79 della legislazione decemvirale (in cui il Vico aveva riconosciuto l’espressione della saggezza poetica di un popolo ancora “barbaro” e un’importante testimonianza dell’antico diritto naturale dei popoli del Lazio), ispirata appunto al diritto naturale e finalizzata a porre rimedio ai guasti della disuguaglianza, va di pari passo con l’identificazione dello Stato ideale nel mos maiorum80. Come ha osservato il Venturi, il mito del classico e del primitivo (oltre alla legislazione romana arcaica, Pagano ammirava anche quella mosaica), strettamente uniti e congiunti, esercitava su di lui una profonda attrazione81. Dopo l’età decemvirale iniziò il declino: le lotte patrizioplebee innescarono la crisi delle istituzioni, con pesanti riflessi sulla legislazione: di qui la perdita progressiva della libertà, fino alla disastrosa fine della repubblica82. La situazione attuale di sfacelo dell’assetto legislativo nel regno napoletano derivava dalla degradazione delle leggi romane e dal sovrapporvisi dei vincoli feudali (così anche il Delfico e il Galanti). Più tardi, dal pensiero di Pagano scomparve però la valutazione positiva dell’età repubblicana arcaica e della stessa legislazione decemvirale: questa inversione di giudizio è stata convincentemente messa in relazione con l’abbandono delle fonti classiche e del correlato modello centralizzato di civilizzazione a seguito della ormai sopravvenuta totale sfiducia nel riformismo borbonico83. Così, nei Saggi politici (2 voll., Napoli 1783-1785; 1791-17922) – nel contesto dell’indagine sul passaggio dell’umanità dallo stato di selvaggi a quello di barbari a quello di società civile84 – egli consente col Grimaldi
blema storiografico del rapporto tra l’antiquaria stessa e la linea politico-riformatrice degli illuministi vd. da ultimo Andreoni, Omero…, p. 43 ss., con discussione (Momigliano, Giarrizzo). 78 Lomonaco, Tracce…, p. 37 ss. (anche per la citazione riportata tra lineette). 79 Venturi, Illuministi, p. 789. 80 F. D’Oria, Francesco Mario Pagano, in La cultura classica…, I.1, pp. 53-91, qui a pp. 69-73. 81 Venturi, Illuministi, p. 789. 82 D’Oria, Francesco Mario Pagano, p. 73 s. 83 Lomonaco, Tracce…, p. 49 ss. 84 Giarrizzo, Vico…, p. 225: cfr. Venturi, Illuministi, p. 802 su questa influenza di Vico; cfr. anche F. Lomonaco, Introduzione alla ristampa anastatica della prima edizione dei Saggi, Napoli 2000, pp. XIII-XCIV.
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circa l’inevitabilità dell’ineguaglianza nella società civile85 e le origini del feudalesimo86; pure per il Pagano, infatti, le origini più lontane del feudalesimo vanno ricercate nell’iniqua distribuzione della ricchezza presente già nelle antiche repubbliche (così ad esempio la Grecia omerica), e si ripresentano in tutta la loro virulenza – in un ricorso – in concomitanza col disfacimento dell’impero romano87. Roma, rapace e insaziabile, torbida e tenebrosa, s’impadronisce dell’Oriente e dell’Occidente fino a creare un impero talmente vasto da recare in sé le cause della propria debolezza e le ragioni del disfacimento: «Quell’impero, che nel centro spirava terrore, per debolezza nell’estremità languiva». La disgregazione provocò dunque il sorgere di più o meno piccoli potentati, e – ciò che a Pagano interessa soprattutto – «il governo feudale, di cui la natura consiste nella divisione dell’impero in tanti piccioli stati». Ed è significativo che sostenga vichianamente con forza che le origini del feudalesimo non vanno ricercate nell’arrivo delle orde barbariche da settentrione, ma nella storia stessa di Roma: «Il governo feudale si sarebbe adunque stabilito tra noi, ancorché dalle selve del settentrione non fussero qui venute quelle numerose schiere de’ barbari»88. Il modello, anche per il Pagano, è quello italico: una società di agricoltoriguerrieri, non aliena però dalle arti e dal commercio, che conduceva una vita sobria ed essenziale89. Ma, accanto al modello italico (e a differenza di altri: ad es. il Galanti) Pagano presenta anche il modello greco, con un alto elogio dell’Atene di Pericle, culla della libertà e della cultura, e addirittura delle città della Sicilia e della Magna Grecia, contrapposte alle «repubbliche dell’alta Italia e le mediterranee» che «ritrovavansi nel cominciamento del loro corso politico»90. Più tardi, nel 1799, nel Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana, al tit. XIII, artt. 350-380, si fa strada un richiamo – almeno nominalistico – al modello spartano, nel progetto di istituzione dell’eforato quale organo preposto al controllo e alla revisione della Costituzione, riprendendo un suggerimento del Filangieri91. 85
Giarrizzo, Vico…, p. 227. Calaresu, Images…, p. 661. 87 Cfr. Venturi, Illuministi, p. 885 ss. Secondo il Venturi, ibid., p. 802, Pagano riscontra vichianamente la continuità o il ritorno, nella storia, di talune condizioni: così la somiglianza fra prima e seconda barbarie, mondo arcaico e mondo feudale. Su Vico e feudalesimo in Pagano: ibid., pp. 802-804. 88 Cfr. Venturi, Illuministi, p. 891. 89 D’Oria, Francesco Mario Pagano, p. 61 nt. 20. Sulla differenza del modello italico di Pagano da quello di Genovesi e Galanti cfr. Giarrizzo, Vico…, p. 229 s. 90 Venturi, Illuministi, p. 889 s. 91 Venturi, Illuministi, p. 831. G. Filangieri, La scienza della legislazione, Napoli 1780, lib. I cap. 9; cfr. P. Catalano, Tribunato e resistenza, Torino 1971, p. 98 e nt. 7. All’eforato faranno riferimento anche Vincenzo Cuoco nelle Lettere a Vincenzio Russo, critico verso Pagano, e Francesco Reina, nel Progetto di Costituzione per la Repubblica Cisalpina dell’anno IX: Catalano, Tribunato…, pp. 98-101. 86
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Roma è dunque costantemente sullo sfondo come una presenza malefica, avida e oppressiva, la cui antica legislazione decemvirale è ora definita rozza e anacronistica (Saggio III, cap. 209); inoltre, col disfacimento delle sue istituzioni e con il degrado delle sue leggi, era alle origini del “ricorso” feudale che tanti danni aveva provocato e provocava ancora. Ben altro, a prima vista, potremmo esserci aspettati dal “giacobino” Mario Pagano, autore nel 1799 di un progetto di Costituzione repubblicana ispirata a quella termidoriana dell’anno III (1795) con evidenti richiami a quella dell’anno I (1793): in lui, per dirla col Volney, nessuna traccia di adorazione superstiziosa dei Romani, a dimostrazione, secondo me, della distanza che separò i giacobini francesi da quelli italiani – e quelli napoletani in primis – tra le due Costituzioni posttermidoriane (anno III, 1795 e anno VIII, 1799). Conferma la regola l’eccezione, più apparente che altro, dell’artificiosa ed esagerata, nel suo pedissequo richiamo ai modelli romani repubblicani, Costituzione della Repubblica Romana del 1798-1799, alla cui stesura aveva partecipato un archeologo del calibro di Ennio Quirino Visconti. D’altra parte, com’è stato recentemente osservato con acume, nel caso dei rivoluzionari napoletani si trattava piuttosto di studiosi di Vico fattisi giacobini92. 4. I riformatori napoletani non erano però stati gli unici a indicare nei piccoli stati dell’Italia centro-meridionale preromana i paradigmi di libertà e di virtù morali e civili. Lo aveva già fatto l’abate piemontese Carlo Denina, nelle Rivoluzioni d’Italia (I-III, Torino 1769-1770)93. Vale la pena di segnalare, in proposito, un risvolto cronologico non trascurabile: Denina pubblicò infatti la sua opera prima di quelle di tutti i riformatori genovesiani, ma quattro anni dopo le Lezioni di commercio del Genovesi, dove, come abbiamo visto, veniva proposto per la prima volta il modello italico. Si può pensare alla conoscenza dell’opera del Genovesi da parte di Denina, e quindi a una sua influenza? 92 «Gli illuministi del monarcato assoluto dovevano rinnovarsi, come nel fatto si rinnovarono, in giacobini»: B. Croce, Storia del Regno di Napoli, 19657, p. 227. Si trattava, nel caso di Pagano e di altri, in effetti di «studiosi del Vico fattisi giacobini», di moderati che «riponevano ogni virtù riformatrice (...) in quella parte del popolo che per superiorità di status sociale ed economico aveva capacità di suscitar moti e di governare» (G. Pugliese Carratelli, Prefazione a P. De Angelis, Politica e giurisdizione nel pensiero di Francesco Mario Pagano, Napoli 2006, pp. VII-X). 93 Un titolo che echeggiava l’Histoire des révolutions de la république romaine dell’abbé de Vertot (1719): in entrambi i casi, ma in particolare nel Denina, al concetto di rivoluzione sottostà l’idea di età successive in cui si sono via via realizzate le condizioni che hanno permesso a una civiltà di sorgere e svilupparsi: Marcone, I libri…, p. 1078 e nt. 25; cfr. anche E. Sestan, In margine alle ‘Rivoluzioni d’Italia’ di Carlo Denina, in Il secolo dei Lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, II, Napoli 1985, pp. 1045-1091, p. 1058 ss. Sul Denina vd. anche G. Ricuperati, Ipotesi su Carlo Denina storico e comparatista, “Rivista Storica Italiana” 113 (2001), pp. 107-137, nonché C. Corsetti, Vita ed opere di Carlo Denina, Revello (CN) 1988.
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Quantunque il Denina non annoveri il Genovesi tra le sue fonti, e il suo modello italico differisca da quello genovesiano – fra l’altro – per la dimensione nazionale italiana, se così si può dire (vd. infra), rispetto alla dimensione sempre nazionale, ma sannitico-napoletana, di quello del riformatore napoletano, l’interrogativo, a mio avviso, merita di esser tenuto in considerazione. Denina riserva il primo capitolo del I libro, dedicato alla civiltà dell’Italia preromana, alla «Grandezza e decadenza degli antichi Toscani»94, evitando però tutte le questioni allora in voga (lingua, origini, ecc.). Degli Etruschi, «la nazione più letterata e più colta fra tutte le altre italiche» (cfr. I 7, p. 78), giunti in Italia duecento anni dopo la fine di Troia e duecento anni prima della fondazione di Roma, oltre alla potenza e alle conquiste viene ricordato il merito d’essere stati i primi a «dirozzare la selvatichezza di queste province» (I 1, p. 47). Il declino iniziò «quando cessarono di governarsi sotto un sol capo» e quando li travolse il lusso e la fiacchezza, indotti dalla grande ricchezza (tryphé) (I 1, p. 46). Erano piuttosto le altre popolazioni italiche al centro dell’attenzione del Denina: dagli Umbri agli Italici medioappenninici e a quelli del meridione, dai Liguri ai Messapi, ai Dauni e agli Iapigi, tutti descritti come una specie di Arcadia secondo i parametri propri del pensiero illuministico (spunti fisiocratici misti a un temperato mercantilismo; questioni demografiche; polemica sul lusso, ecc.): semplicità, sobrietà, mitezza, felicità, autosufficienza economica (con particolare sottolineatura dell’agricoltura e della connessa piccola proprietà, e del commercio: un commercio limitato sia negli spazi che nei bisogni, e dunque non generatore di lusso: I 4)95, ricchezze naturali, produzione artistica, virtù guerriere; grande popolosità come indice comparativo del grado di felicità di quei popoli, in quanto legato al commercio e alla ricchezza96, e quindi capacità di mettere in campo eserciti numerosi e agguerriti (si veda a I 3, pp. 54-55 la rassegna delle forze degli alleati italici nella formula togatorum del 225 a.C. tratta da Polibio, altrove definite meravigliose: II 3, p. 123). Dopo aver descritto la successione delle forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) nelle antiche 94 La
fonte fu il Trattato sopra la nazione etrusca e sopra gl’Itali primitivi di Scipione Maffei (F. MaAnti-Roman and Pro-Italic Sentiment in Italian Historiography, “The Romanic Revew” 33, 1942, pp. 366-384, p. 371; Cristofani, La scoperta…, p. 141), anche se non va dimenticato che, agli inizi degli anni ’60, il Denina conobbe e frequentò a Firenze il Lami (ibid.). Gli Etruschi furono il punto di partenza, di lì a poco, anche per la Storia del Tiraboschi: cfr. Marcone, I libri…, p. 1082 nt. 37. Le citazioni del Denina sono tratte dall’edizione curata da V. Masiello per i “Classici della Storiografia” UTET, I, Torino 1979. 95 Sestan, In margine…, p. 1073: non è contro il commercio, ma contro la sua cattiva gestione (il mercantilismo colbertiano); è un fisiocratico, ancorché non addottrinato. 96 I 3-9, pp. 51-103. Marcone, I libri…, p. 1083 s.: interesse diffuso per questioni demografiche vivo allora: Montesquieu nelle Lettres persanes; e poi nel 1751 Hume, e Wallace nel 1753, e il D’Amilaville nel 1765 nell’Encyclopédie. scioli,
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repubbliche italiche (I 8, p. 82 ss.), Denina si produce (I 9, pp. 90-91) in un ampio elogio della saggezza del raggiunto equilibrio politico individuato nella costituzione di strutture federative su base etnica, per le quali richiama il confronto con la situazione contemporanea in Svizzera, Olanda e Germania97. A fronte di questa descrizione, l’espansione romana in Italia è vista come qualcosa di ineluttabile, date le sue premesse e le condizioni in cui avvenne, e di segno negativo, anche se forse meno di quanto possa apparire a prima vista. Criticando Machiavelli e Montesquieu, afferma che la grandezza di Roma non deriva dall’eccellenza delle sue istituzioni: ebbe tutto in comune con gli altri popoli d’Italia (II 1, p. 105): «fra i Romani, dico ancora de’ primi secoli, non furono né più virtù né meno difetti, che nelle altre repubbliche o Greche, o Italiche antiche» (II 1, p. 107 s.). Alle origini, Roma era un «ignobile borgo del contado di Alba» (II 1, p. 108); la sua popolazione, un’accozzaglia di «fuorusciti, falliti e malcontenti delle terre vicine», che Romolo seppe convogliare appunto a Roma, e mettersene a capo (II 1, p. 108) (riesumando le accuse di antichi greci raccolte in Dionigi di Alicarnasso I 89): ciò qualifica gli inizi della storia romana come «violenti, ignobili e ignominiosi» (II 1, p. 108). Decisivo per le sorti romane fu il sito stesso di Roma, talmente infelice e indifendibile che le guerre si facevano sempre all’attacco, per tenerne lontani i nemici (II 1, p. 113); ciò rese i Romani praticamente invincibili. I Romani – «popolo rozzo ed idiota» (II 1, p. 114) – furono dunque guerrieri e conquistatori prima per necessità (aggiunsero anche elementi di superstizione, e furono abili a imparare l’arte della guerra da Latini e Sanniti), e poi per ambizione e avidità (II 1, pp. 114-115; cfr. II 1, p. 106). Roma crebbe approfittando delle divisioni degli altri popoli (II 1, p. 110), aiutata in maniera decisiva anche dalla fortuna (II 1, p. 115). A II 1, pp. 106-107, viene fornito un pessimo quadro morale, civile e militare dei Romani. L’ascesa irresistibile di Roma durò fino a che, conquistati l’Italia e il Mediterraneo, le enormi ricchezze affluite «dovettero di necessità sbandir (...) quelle virtù che l’antica povertà vi aveva introdotte e mantenute alcun tempo» (II 6, p. 134); qui è evidente il riflesso della polemica settecentesca sul lusso98. Dopo le tensioni e i drammi dell’età graccana e della guerra sociale, la repubblica fu salvata dall’ingresso degli Italici nella cittadinanza, che «valsero grandissimamente a ravvivare le virtù de’ Romani», ritardandone la decadenza (II 6, p. 135). Accanto ai vantaggi (inserimento nella vita politica, ampliamento degli orizzonti sociali e culturali)99, l’ingresso degli Italici nella cittadinanza 97
Mascioli, Anti-Roman…, p. 373; Marcone, I libri…, p. 1082 e nt. 38. G. Borghero, La polemica sul lusso nel Settecento francese, Torino 1973; Marcone, I libri…, p. 1079 (Montesquieu, Espr. VII). 99 Gabba, Considerazioni…, p. 413. 98 Cfr.
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romana produsse però «un male interno e continuo, tuttoché più lento che non sono i mali della guerra», che condusse alla rovina: «il cambiamento de’ costumi e dell’esser politico delle città italiche» (II 6, p. 134). L’attrazione esercitata dalla capitale provocò un calo demografico nelle città italiche (riguardante in ispecie la «più utile spezie del genere umano, quali sono i rustici liberi e i borghesi d’umil fortuna»: II 6, p. 142) e un’estensione del latifondo; con questo fenomeno s’incrociarono le guerre civili e le distribuzioni di terre ai veterani, da Silla ad Augusto, sì che sotto Cesare e sotto Augusto l’Italia era in misero stato e in decadenza (II 6, p. 142). Alla fine del sesto capitolo del II libro (pp. 142-143), Denina coglie poi con acutezza il ruolo decisivo svolto dalle province, già fin dalla prima età imperiale, nella conservazione dell’impero100 e, all’interno di esso, dell’Italia, per quanto riguarda l’approvvigionamento, l’arruolamento e il livello demografico, messo in grave crisi, oltre che dai drammi della tarda repubblica, da quello che Denina definisce l’abuso del celibato nei primi due secoli dell’impero, con cui andò di pari passo un decadimento morale e materiale dovuto, ancora una volta, al lusso generatore di neghittosità101. La Constitutio Antoniniana inferse il colpo decisivo all’Italia (III 4, p. 157). Non mancano, a dire il vero, anche alcuni giudizi positivi: Roma partecipava delle virtù italiche correlate alla povertà e alla sobrietà di costumi (sopra, passim). Di Romolo viene elogiata la grandezza d’animo e la superiorità poiché superò tutti in «spirito e ferocia» (II 1, p. 108); così come vengono elogiati Numa (I 6, p. 71 e I 7, p. 80) e in genere tutti i re succeduti a Romolo, che seppero governare con giustizia e senza violenza, prendendo dagli Etruschi, ricchi, magnifici e già in parte corrotti dal lusso, quanto possibile delle arti e dei costumi per allettare Sabini e Latini; e da questi ultimi i Romani seppero prendere «della severità (...) quanto si conveniva per non alienarne i primi» (II 1, pp. 108-109). A II 3, p. 121, traspare addirittura un’interpretazione provvidenzialistica delle vicende romane repubblicane: fu infatti la provvidenza (e non la fortuna, come affermato in altre circostanze) a salvare Roma dalle insidie e dall’astuzia di Pirro, attraverso la rigida e frugale onestà di Fabrizio Luscino e di Curio Dentato. Personaggi di primo piano della tarda repubblica (Catone Maggiore, Mario, Sertorio) sono pur elogiati, ma in quanto originari di città latine o italiche entrate nella cittadinanza (II 6, pp. 135-136). Riguardo all’età imperiale, il giudizio sui primi due secoli è moderatamente positivo, almeno per certi aspetti. Essi furono infatti caratterizzati da un governo «di forma mista, o 100 Cfr. E. Gabba, Italia romana, Como 1994, pp. 26-27, sul ruolo delle province nei confronti dell’Italia nell’ordinamento imperiale. 101 Marcone, I libri…, p. 1084.
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vogliam dire monarchia temperata coll’autorità d’un senato, e colla libertà e podestà popolare» (III 1, p. 145) che lasciava notevoli spazi di libertà. Di Augusto e di Adriano vengono apprezzate le misure giudicate a protezione dell’autonomia municipale o comunque del decentramento amministrativo: per il primo, il voto per corrispondenza dei decurioni delle colonie e la regionalizzazione, ancorché di breve durata (III 1, pp. 145-146); per il secondo, l’istituzione dei iuridici (III 2, p. 147). Sono poi altamente elogiati Antonino Pio (III 2, pp. 148-149: sotto cui l’Italia godette della condizione più felice dalla fondazione dell’impero) e Marco Aurelio, il cui principato fu macchiato solo dall’infelice designazione di Commodo a suo successore, che segnò l’inizio del vero dispotismo (III 2, pp. 149-150). Sul giudizio circa il miglior assetto possibile nella composizione e nei reciproci rapporti tra le nazioni o gli stati presenti nel passato, nel presente e nel futuro dell’Italia (Sicilia esclusa), Denina non ebbe dubbi: non è riscontrabile infatti nessuna aspirazione all’unità politica dell’Italia, né ritenne che l’unità politica fosse necessariamente un pregio102; fu anzi convinto assertore dell’immutabilità, nei secoli, delle peculiarità regionali, risalenti all’Italia preromana, a cui fa da pendant, su un piano che diremmo appartenere all’ambito della psicologia sociale, l’individuazione di particolarismo ed equilibrio come caratteristiche degli italiani, all’interno della più ampia cornice della divisione politica (come del resto il Muratori)103. Una pallida apertura di prospettiva unitaria, nell’auspicio che in futuro l’Italia pur così divisa avrebbe trovato in Roma «un punto d’unione», si fece strada solo nel XXV libro, aggiunto nel 1792, più di vent’anni dopo i primi ventiquattro. Sul piano delle scelte di metodo storiografico, tuttavia, il discorso si pone diversamente: qui la prospettiva è certamente unitaria104, nel superamento delle ricostruzioni della storiografia postrinascimentale localista, centrate sulla dimensione municipale o, peggio, nobiliare105, o sugli stati esistenti106, e nel coraggioso recupero, rispetto al Muratori, della storia di Roma, ancorché limitata al 390 a.C. Come per il Muratori, peraltro, anche per Denina, la rinascita comunale dopo il Mille ha un valore epocale rispetto alle “rivoluzioni” delle età successive fino alla moderna: a essa dedica, in particolare, il cap. I del libro XI e i capp. V e VI del libro XII, mettendo a confronto, in questi ultimi due, le «repubbliche italiane de’ mezzi tempi con le italiche
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Sestan, In margine…, p. 1077. Sestan, In margine…, p. 1077. 104 Contra Sestan, In margine…, p. 1050. 105 Croce, citato in Galasso, L’Italia…, p. 153. 106 Marcone, I libri…, p. 1074 s. 103
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antiche». Le analogie sono fortissime107, con due importanti differenze, colte con notevole perspicacia: la prima fu la «sovranità, che sopra di esse ritenne un estero potentato, qual era il re di Germania, che un inveterato possesso fece riguardare come capo e signor supremo d’Italia» (XII 5, p. 657); la seconda, «l’influenza che la religion dominante avea nel governo politico» (XII 5, p. 658). Questo indirizzo storiografico sarebbe stato di lì a non molto riproposto da Saverio Bettinelli (Del risorgimento d’Italia negli studi nelle arti e ne’ costumi dopo il Mille, 1775) e da Jean Charles Sismondi (Histoire des républiques italiennes du Moyen Âge, 1807-1809; 1809-18182)108. Probabilmente sul Denina ha gravato a lungo il giudizio non favorevole di Croce109, e non sono mancate altre prese di posizione prevalentemente negative110. Ma le Rivoluzioni hanno conosciuto, in tempi recenti, anche una notevole rivalutazione per quello che riguarda il loro significato complessivo nella storia della storiografia. Il Galasso111 – in una rapida ed efficace sintesi di autorevoli opinioni precedenti, come quelle di Calcaterra, Maturi, Herder e Venturi – ha posto in rilievo l’importanza del loro ruolo di transizione tra la storiografia settecentesca e quella risorgimentale, nello sforzo di presentare in un disegno complessivo la storia dell’Italia divisa: e ciò va tenuto in tanto maggior considerazione alla luce del fatto che Denina non disponeva di alcun modello per una storia generale d’Italia in senso cronologico e geografico112. Gabba ha sottolineato la capacità di Denina di valutare l’impor107 X 5, p. 656: «Le une e le altre furono, dirò così, animate da uno stesso spirito, agitate dagli stessi umori, soggette quasi alle medesime rivoluzioni. Quel sovrano amor della patria, che nell’occasione de’ pubblici pericoli acqueta ed ammorza le gare e nimicizie particolari, regnò nelle une e nelle altre per alcun tempo egualmente. Vi regnò la stessa semplicità di costumi, la vita aspra, e delle fatiche e dei disagi paziente; ed oltre a questo, l’uso e l’esercizio dell’armi, per lo quale ogni piccola nazione potè, se non fare grandi conquiste, conservarsi almeno la sua libertà». 108 Gabba, Considerazioni…, pp. 412, 415 s. Secondo il Sismondi, che, pur se di origini toscane, era svizzero, l’Italia crollò nel XV secolo perché mancò l’unione federale tra le repubbliche. 109 Storia della storiografia…, p. 104: “Quella [Storia d’Italia] recente del Denina non conferiva certo né all’erudizione né alla critica né al sentimento”. 110 Oltre all’assenza di un problema unitario (vd. sopra, nt. 102), il Sestan, In margine…, pp. 1063 ss., 1077, rimarca anche quella di una sia pur tentata periodizzazione; l’impreparazione giuridico-istituzionale dell’Autore; la mancata considerazione vichiana della storia, in un succedersi secondo una linea ideale, sostituita da una serie di fasi salienti e discendenti, delle quali si cerca di volta in volta la ragione (e se non la si trova, si fa intervenire la Provvidenza); l’assenza di un concetto chiaro dell’idea di nazione. 111 Galasso, L’Italia…, p. 159 ss. 112 Tali non erano, ovviamente, l’Italia travagliata di Umberto Locati (Venezia 1576) e l’Istoria d’Italia dalla venuta d’Annibale fino all’anno di Cristo di Girolamo Briani (Venezia 1624), entrambi citati nella Prefazione (nel testo e in nota; il Denina fa anche riferimento, sempre nella Prefazione, all’Abrégé chronologique de l’histoire générale d’Italie di Ch. H. Le Febvre de Saint-Marc, pubblicato a Parigi tra il 1761 e il 1770, e relativo agli anni 476-1137). L’ultima ricostruzione complessiva, ma limitata al periodo 284-1268, era quella del De occidentali imperio e del De regno Italiae di Carlo Sigonio. Tra il 1704 e il 1723 erano stati pubblicati (fuori d’Italia, a Leyden) gli imponenti 9 tomi (in 31 volumi) del Thesaurus antiqui-
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tanza dell’allargamento del diritto di cittadinanza agli Italici, sì da poterne permettere la piena partecipazione alla vita politica dello Stato; è l’inizio di una riflessione storiografica incentrata sulle istituzioni e non sulle personalità che comprende la fase preromana e romana della storia italiana ed i cui effetti si produrranno nel secolo successivo113. Si tratta comunque, come ha osservato recentemente Marcone, di una vera storia d’Italia – di un’Italia che pare cominci a definirsi nel rapporto con l’eredità classica – riconducibile non a uno stato ma a una civiltà che aveva avuto cicli alterni114. In un momento di grande fermento intellettuale115 e negli stessi anni in cui il Denina lavorava alle Rivoluzioni, Alessandro Verri, fratello del più noto Pietro, attendeva alla composizione di una sua opera giovanile, la Storia d’Italia, composta tra il 1764 e il 1766 e mai pubblicata fino al 2001, quando ha visto la luce grazie alle cure di Barbara Scalvini, a cui dobbiamo anche un pregevole contributo preparatorio all’edizione stessa116. Come avrebbe fatto di lì a poco il Denina, della cui opera non aveva grande opinione117, anche il Verri deviava dalla periodizzazione muratoriana, delineando una storia d’Italia a partire da Roma monarchica; Roma è dunque all’origine della civiltà italiana, caratterizzata nei secoli a venire da una continuità di caratteri umani immutabili118. E dal Muratori il Verri s’allontanava non solo per la valutazione del Medioevo non già come alveo iniziale della modernità, bensì come fase intermedia di una vicenda più lunga e complessa, ma anche per un altro aspetto fondamentale: il giudizio sulle piccole repubbliche medievali italiane,
tatum et historiarum Italiae di Johann Georg Graeve, a cui avevano fatto seguito, fra il 1723 e il 1749, le tre grandi opere muratoriane (Rerum Italicarum Scriptores, 1723-1728; Antiquitates Italicae Medii Aevi, 1738-1743; Annali d’Italia, 1743-1749). 113 Sulla controversia ottocentesca circa l’inserimento o meno della storia romana nella storia d’Italia vd. Croce, Storia della storiografia…, p. 110; Id., La storia come pensiero e come azione, I ediz. economica, Bari 1966, p. 303 ss.; più di recente, P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano - Napoli 1962, p. 19 ss.; Gabba, Considerazioni…, p. 413 s.; Id., Italia…, p. 30 s., 211 ss.; Marcone, I libri…, p. 1080. 114 Marcone, I libri…, pp. 1072, 1077-1078, 1081. Comunque, di «prima moderna storia generale d’Italia concepita come storia» parla anche Sestan, In margine…, p. 1091; la «prima storia generale di nostra gente» l’aveva già definita Carducci (Galasso, L’Italia…, p. 161). 115 Caratterizzato dalla ricerca delle ragioni politiche e sociali delle formazioni statali e delle istituzioni: Agostino Paradisi, Saverio Bettinelli, Girolamo Tiraboschi (B. Scalvini, Introduzione a A. Verri, Saggio sulla Storia d’Italia, ed. B. Scalvini, Roma 2001, p. VIII nt. 5). 116 B. Scalvini, Notizie intorno alla Storia d’Italia di Alessandro Verri, “Rivista Storica Italiana” 111 (1999), pp. 65-96. 117 Si veda la lettera al fratello Pietro del novembre 1777, citata in Scalvini, Introduzione, p. IX nt. 6. 118 Scalvini, Notizie…, pp. 87, 77; Ead., Introduzione, p. XVII. Fino ad allora, l’idea di Italia «aveva agito come fecondo principio euristico» solo in ambito letterario (Gimma, Crescimbeni) e giuridico (Gravina, che Verri conosceva bene): ibid., p. XX s.
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positivo per qualche aspetto119, ma negativo quanto a valutazione storicopolitica complessiva: la gelosa difesa della propria libertà da parte di queste «immagini in miniatura della romana repubblica», ciascuna delle quali «avea la sua Cartagine» (c. XVIII), ne rendeva dipendente la sicurezza dall’oppressione o dall’eliminazione delle altre, sì da far preferire una forma monarchica tale da abbracciare tutta l’Italia o quanto meno parti cospicue di essa120. Il debito rispetto a Vico è stato acutamente individuato nell’idea di continuità, risalente con ogni probabilità all’influenza della sintesi vichiana tra romanità e germanesimo121; quello rispetto al Montesquieu delle Considérations, nell’idea che la decadenza di Roma fosse dovuta alle dimensioni raggiunte dall’impero e all’incapacità di adeguare le leggi, nel tempo, alla nuova realtà122. Il Papa, come poi sarà ribadito, con toni anche più accesi, nelle Notti, era chiamato a dar continuità a Roma antica e medievale («La sola storia facea risovenire ch’ella avea dominata l’Europa coll’arme de’ Romani, poi colla religione»: c. XXXII) e a svolgere un decisivo ruolo unificatore, come già aveva fatto in passato a fronte della debolezza dell’impero. Nel 1792, il Verri pubblicò Al sepolcro degli Scipioni, prima parte delle Notti romane; una seconda parte, Sulle ruine della magnificenza antica, uscì nel 1802, mentre una terza parte, Le veglie contemplative, rimasta a lungo inedita, è stata pubblicata solo nel 1967 (il lavoro era comunque terminato il 25 febbraio 1790123). Nel Sepolcro, il Verri immagina d’intrattenersi per tre notti con una serie di ombre presso il sepolcro degli Scipioni, fuori Porta Capena, da poco scoperto (1780); la prima tra esse, Cicerone, svolge il ruolo di guida alla conoscenza delle altre: Bruto uccisore di Cesare, Cesare stesso, Antonio, Ottaviano, Catone Maggiore, Orazio, Asinio Pollione, Pompeo, Gratidiano, i Gracchi, Mario e Silla, Attico, Virginio e Lucrezia. Nei colloqui vengono affrontati argomenti riguardanti prevalentemente le vicende dei singoli personaggi, per trarne conclusioni di varia natura: storiche, filosofiche, morali. Storiograficamente parlando, le parti più interessanti sono quelle in cui vengono ricordate le efferatezze di Mario e di Silla (Notte I, Colloquio 119 Scalvini, Notizie…, p. 86: «prezioso momento di riscatto civile e necessario presupposto politico al sorgere delle attività artistiche in senso lato». 120 Scalvini, Notizie…, p. 86. 121 Scalvini, Notizie…, p. 81; vichiano è anche il legame barbarie / umanità in antitesi a inumanità / cultura: ibid., p. 80; anche se da Vico lo dividevano altre cose importanti: ibid.; su Verri e Vico, Scalvini, Introduzione, p. XXIII. 122 Scalvini, Introduzione, p. XVII, ove però rileva anche le differenze rispetto a Montesquieu: la demonizzazione delle lotte sociali; l’impulso irrefrenabile che guida l’imperialismo romano e che fa declinare inesorabilmente la situazione verso il peggio. Sui rapporti con la storiografia inglese, e in particolare con Hume, ibid., p. XIII. 123 Si veda la data alla conclusione della terza parte, con il ringraziamento to theo doxa: p. 404 Negri. Le citazioni dalle Notti sono tratte da A. Verri, Le notti romane, ed. R. Negri, Bari 1967.
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3, pp. 26-32), e l’ampio excursus, affidato ad Attico124, ove la storia repubblicana è rivisitata nel segno di un impietoso giudizio negativo sulla violenza e le atrocità che l’hanno contraddistinta, indotte dall’avidità e dalla rapacità di una classe dirigente (monarchica, patrizia e patrizio-plebea) insaziabile e spregiudicata (Notte II, Colloqui 3-6, pp. 71-96). Le Veglie contengono invece una serie di dialoghi tra l’autore e alcune ombre (Cicerone, Cesare, Plinio, Orazio e Bruto) «intorno a’ principali rivolgimenti delle nazioni dopo la caduta della romana grandezza»: una vicenda narrata in modo rapsodico, interpretata e presentata come una storia di civilizzazione connessa col progresso delle scienze e con il raffinamento delle arti, e intersecata con vivaci osservazioni sui costumi moderni messi a confronto con quelli antichi. La parte storiograficamente più rilevante, comunque, è l’Appendice, intitolata «Ragionamento di Cicerone sul Pontificato Romano», dove Cicerone – con toni più accorati rispetto a quelli con cui questo stesso argomento era stato presentato nella Storia d’Italia – si lancia in un appassionato elogio del ruolo storico del Papato e della civiltà cristiana, considerata superiore a quella pagana e veramente universale. In questa continuità tra classicità e cristianesimo e nel conseguente ridimensionamento dell’importanza del declino imperiale Gabba ha individuato la premessa delle posizioni storiografiche neoguelfe, unitamente alla ragione – o a una delle ragioni – della mancata ricezione del Gibbon in Italia, in ragione della sua valutazione del ruolo del cristianesimo nella decadenza dell’Impero125. Si potrà aggiungere che qui non manca solo Gibbon, ma anche Montesquieu e magari anche Ferguson: nella galleria di grandi personaggi delle Notti romane è piuttosto ravvisabile l’influenza – opportunamente drammatizzata in chiave teatrale – degli eroi plutarchei celebrati nell’Histoire romaine di Charles Rollin126. 5. Due casi a parte, in qualche misura fuori contesto rispetto a quanto si è fin qui potuto osservare, sono rappresentati dall’Algarotti e dal Mengotti. Nel Saggio critico del Triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso, iniziato nel 1739 e quasi finito nel 1741, ma pubblicato postumo nel 1794, il conte Francesco Algarotti – che anche in altre occasioni mostrò interesse per la storia romana: si vedano ad esempio il Saggio sopra la giornata di Zama, del 1749, 124
Paolo Frisi aveva stampato nel 1780 un Elogio di Tito Pomponio Attico. Gabba, Considerazioni…, p. 414 s. Cfr. A. Momigliano, Edward Gibbon fuori e dentro la cultura italiana, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa” s. III, 6 (1976), pp. 77-95 [= Id., Sesto…, pp. 231-248]; Id., La formazione della moderna storiografia sull’impero romano, in Id., Sui fondamenti della storia antica, Torino 1984, pp. 89-152, spec. p. 112 s. 126 A. Forlini, I dintorni di un romanzo. Sulle Notti romane di Alessandro Verri, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, ed. A. Battistini, Bologna 1994, pp. 221-236, p. 230 s. Sulla cultura storica di Pietro e Alessandro Verri vd. F. Diaz, Pietro e Alessandro Verri storici e la recente discussione sulle loro idee, in Critica e storia. Studi offerti a Mario Fubini, II, Padova 1970, pp. 524-574. 125
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e soprattutto il Saggio sopra la durata de’ regni de’ re di Roma, Venezia 1746, d’impostazione newtoniana127 – offre un’interpretazione acuta e originale della crisi della repubblica romana. Solo da pochi anni (1734) erano uscite le Considérations di Montesquieu, del quale Algarotti accoglie la divisione, cronologica e di valori, tra Roma delle origini (odio della tirannia, compenetrazione religione / politica) e Roma tardorepubblicana, all’asta materialmente e moralmente, e destinata a perire128. Dei triumviri, giudicati comunque tre modi diversi di distruggere lo Stato e la libertà, liquida senz’altro Crasso (avarizia) e Pompeo (mediocre e costantemente incompiuto), mentre ammira il genio cesariano, anche se considerato ineguagliabile a fare eccellentemente il male129: in effetti, secondo Algarotti, Cesare si servì con grande spregiudicatezza130 della religione (pontificato massimo) e della politica sociale (distribuzione delle terre) per carpire il consenso popolare e fondare il proprio potere personale. Come si vede, è l’elogio – mutatis mutandis – del principe machiavelliano; del resto, l’influenza del Machiavelli su Algarotti fu cospicua anche per altri aspetti131. Questa benevolenza verso un personaggio che pure in Montesquieu restava un tiranno, ancorché quasi ineluttabile nell’ultima respublica, tradiva evidentemente – nonostante ripetute espressioni a favore del repubblicanesimo antiimperiale e anticesariano – l’ammirazione per Federico II di Prussia, alla cui corte l’Algarotti soggiornò a lungo, a due riprese (17401742 e 1746-1753), e dal quale ricevette onori e prebende132. Anche Federico II ammirava Cesare e vi si era identificato, per quanto in chiave antimachiavelliana (era autore dell’Antimachiavel, 1740): sul Principe quale corruttore della politica e della morale aveva speso parole di fuoco133. Come ha osservato il Gabba, l’importanza di questo saggio dell’Algarotti sta nel precorrere il dibattito ottocentesco su Cesare e cesarismo alla luce di una originale riflessione politica innovatrice rispetto alla tradizione critico-erudita134. 127 Il primo è ora in F. Algarotti, Saggi, ed. G. Da Pozzo, Bari 1963, pp. 311-324; il secondo, ibid., pp. 291-310, si rifaceva alla Chronology of Ancient Kingdoms Amended del Newton, pubblicata postuma (London 1728) sullo sfondo della grande discussione sull’incertezza della storia romana più antica all’interno dell’Académie Royale des Inscriptions et des Belles Lettres (Levesque de Pouilly, Fréret nel 1729; poi il Beaufort nel 1738: che probabilmente però Algarotti non conobbe): su questo, F. Arato, Francesco Algarotti storico di Roma antica, “Rivista Storica Italiana” 102 (1990), pp. 422-438, p. 422 s. Dello stesso autore vd. anche Il secolo delle cose: scienza e storia in Francesco Algarotti, Genova 1971. 128 Arato, Francesco Algarotti…, pp. 429, 435. 129 Arato, Francesco Algarotti…, pp. 429, 430 nt. 38, 433-435. 130 Che Algarotti connette all’adesione all’epicureismo, in opposizione allo stoicismo catoniano: Arato, Francesco Algarotti…, pp. 432-433. 131 Arato, Francesco Algarotti…, p. 429 ss.: nella dialettica natura-virtù-fortuna. 132 Arato, Francesco Algarotti…, p. 437. 133 Arato, Francesco Algarotti…, pp. 431 s., 437. 134 E. Gabba, Riflessioni storiografiche sul mondo antico, Como 2007, p. 171 nt. 1. Sull’attrazione per Cesare e la repulsione del cesarismo vd. Arato, Francesco Algarotti…, p. 438 e nt. 74.
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In una Dissertazione dal titolo Del commercio dei Romani dalla prima guerra punica a Costantino (1787)135, il feltriese conte Francesco Mengotti (17491831) tentò di offrire una spiegazione della decadenza romana in termini di storia economica, tracciando un quadro invero impietoso di Roma e della sua storia sin dagli inizi, in contrapposizione alla valutazione altamente positiva che del commercio romano aveva espresso P.-D. Huet nella sua Histoire du commerce et de la navigation des anciens, pubblicata a Parigi nel 1716, ma anche ai giudizi del Raynal e del Gibbon sulle cause dell’ascesa e della decadenza dell’impero romano136. A margine della sua polemica, per certi aspetti non molto lineare, contro il mercantilismo-colbertismo e il metallismo ad esso collegato137, Mengotti si scaglia contro le guerre di rapina, siano esse condotte da orde barbariche o da ben disciplinate legioni civilizzatrici, contrapposte all’esaltazione del lavoro, del commercio, dell’agricoltura, dell’arte, della civiltà: il bersaglio è Roma, di cui non si salvano né l’età arcaica, spesso ammirata come frugale e onesta da altri, né alcuni tra i principali personaggi della sua storia, Augusto compreso. Roma è paragonata ai feroci conquistadores spagnoli che avevano saccheggiato l’America138. Sin dagli inizi, 135 Presentata all’Académie des Inscriptions et des Belles Lettres di Parigi e da questa “coronata” col primo premio il 14 novembre 1786, e pubblicata, in traduzione italiana, nel 1787 a Padova. Mengotti pubblicò anche una Memoria dal titolo Dell’Oracolo di Delfo nelle “Memorie dell’Imperiale Regio Istituto del Regno Lombardo-Veneto” 1 (1819), pp. 263-300, in cui sosteneva esser l’Oracolo in questione niente più che uno strumento politico in mano ai governi delle città greche. 136 F. Venturi, Settecento riformatore, V.2, Torino 1990, p. 436 s.; E. Gabba, Francesco Mengotti e la polemica sul commercio, in Id., Cultura classica…, pp. 63-72, qui a p. 68. 137 Il Mengotti stesso fu autore di una Dissertazione intitolata Il Colbertismo, ossia della libertà di commercio de’ prodotti della terra, presentata alla Reale Società Economica Fiorentina detta de’ Georgofili e da questa “coronata” il 13 giugno 1792, pubblicata a Venezia nel medesimo 1792, ora agevolmente disponibile nella ristampa anastatica Napoli 1977 (Bibliopolis). Il colbertismo si fondava sull’idea che la prosperità e la potenza di un paese e dei suoi abitanti fossero legate alla massa di metalli preziosi disponibili. Tale massa, essendo ritenuta stabile a livello mondiale, andava accresciuta ricorrendo a misure protezionistiche, incrementando le esportazioni e diminuendo le importazioni: per far ciò, la produzione nazionale doveva abbracciare il più alto numero possibile di settori merceologici e raggiungere in essi standard qualitativi particolarmente elevati, sì da sbaragliare ogni concorrenza. Ne avrebbero sofferto la libera circolazione delle merci e l’agricoltura. Sulla non perfetta linearità del pensiero mengottiano al riguardo vd. L. Iraci Fedeli, Letture di economisti italiani dei secoli XVIII e XIX: Francesco Mengotti e il Colbertismo, in Studi sulla storia economica dell’Italia moderna (Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, II), Milano 1959, pp. 560-594. Sul Mengotti vd. anche O. Nuccio, Nota per una storia dell’industrialismo: il contributo di Francesco Mengotti (1749-1830), “Rivista di Politica Economica” 69 (1979), pp. 1143-1153; D. Bano, in Storia della cultura veneta, edd. G. Arnaldi - M. Pastore Stocchi, V.2, Vicenza 1986, pp. 418-420; F. Venturi, Settecento…, pp. 441 ss.; A. Marcone, Le proposte di restaurazione del porto di Aquileia alla luce del dibattito sul commercio, in La ricerca antiquaria nell’Italia nord-orientale dalla Repubblica Veneta all’Unità, a cura di M. Buora - A. Marcone, Trieste 2007, pp. 95-120, spec. pp. 95-98. 138 Iraci Fedeli, Letture…, p. 567. Già il de las Casas, nella Historia de las Indias (1561, anche se pubblicata, parzialmente, solo nel 1875), aveva evocato «l’inferno del Perù, che con la moltitudine di quintali d’oro ha impoverito e distrutto la Spagna» (ibid., p. 566).
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la storia romana è sinonimo di rozzezza, arretratezza, brutalità: popolo per cinque secoli (dalla fondazione alla vigilia della prima guerra punica) rapace e spietato, incolto e rozzo, senza lettere, arti, moneta in metallo pregiato, incapace di andar per mare, quasi geneticamente estraneo all’attività commerciale (commercio e cultura sono strettamente congiunti139). Il possibile spartiacque tra ciò che era stato per cinque secoli e ciò che avrebbe potuto essere in seguito è nel titolo stesso dell’opera: la prima guerra punica. A seguito dei contatti e dei trattati con Cartagine sin dagli inizi della repubblica, Roma aveva avuto l’opportunità di uscire dallo stato ferino in cui si trovava da secoli, essendo Cartagine descritta come una repubblica commerciale popolata di genti attive e industriose, ma non ne fece nulla: lo spirito di conquista e di sopraffazione, rimasto inalterato, le fece superare il primo scontro con la rivale e ne condizionò la storia successiva nel senso di una scelta definitiva per la guerra e la conquista, e di una altrettanto definitiva rinuncia al commercio e all’industria. La storia degli ultimi due secoli della repubblica è una storia di sopraffazioni e di rapine, di violenze e di sfruttamento parassitario delle risorse provenienti dalle conquiste. Così, il popolo romano, divenuto rapidamente e quasi improvvisamente ricco, precipitò nel baratro della dissolutezza e della mollezza, alimentate dall’incessante avidità di lusso (uno dei temi preferiti del Settecento francese), dal caos sociale, dall’inevitabile impoverimento e imbarbarimento. Le guerre civili della fine della repubblica segnarono la rovina dell’Italia. Con l’impero ecumenico, la situazione non fece che peggiorare: se commercio vi fu, fu unidirezionale, centripeto. La crescente domanda di lusso orientale produsse un’emorragia di metallo prezioso e il conseguente progressivo depauperamento. Come in antico, non si tenne nessun conto dell’agricoltura e delle attività industriali manifatturiere, affidate prima a schiavi e poi a liberti. A questo imbarbarimento economico-sociale andò di pari passo il ripiegamento culturale, meno rapido in alcune città o territori ancora in qualche misura vitali sotto l’aspetto mercantile140. Come si può vedere, l’avversione a Roma qui non ha nulla a che fare col piccolo stato: al problema fanno piuttosto da sfondo le tensioni della storia europea e coloniale tra XVII e XVIII secolo, con le polemiche sul mercantilismo / colbertismo e le connesse discussioni sul ruolo del commercio, assai dibattuto in quei decenni141. La condanna di Roma riguarda un’impostazione politicoeconomica che si appoggia sul lavoro servile o paraservile. All’originalità e, in certi casi, alla perspicacia della riflessione mengottiana si contrappongono gli evidenti limiti metodologici di una ricostruzione generalizzante, che non 139 Cfr.
Gabba, Francesco Mengotti…, p. 64 s. Gabba, Francesco Mengotti…, p. 70 s. 141 Gabba, Francesco Mengotti…, p. 63. 140
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sfuggirono naturalmente ai contemporanei: al gesuita Antonio de Torres, autore di una Memoria apologetica del commercio e coltura dei Romani da Romolo a Costantino in proposito delle asserzioni dei ch.mi Signori Mengotti e Andrès (I-II, Venezia 1788-1791) non riuscì difficile confutare con buoni argomenti almeno alcune delle affermazioni più esasperate del conte feltriese, rivendicando ad esempio la grande attenzione che i Romani ebbero per l’agricoltura, oltre che per il commercio stesso142. 6. Il XIX secolo si aprì con la pubblicazione di due opere di notevole importanza, che però, per argomenti e connessioni, costituivano una propaggine della produzione settecentesca. La prima è il Platone in Italia di Vincenzo Cuoco, una sorta di romanzo storico in tre volumi, pubblicati fra il 1804 e il 1806, scritto in forma epistolare che l’autore finge di aver tradotto dal greco, in cui si descrive il viaggio di Platone e del suo allievo Cleobolo in Magna Grecia e i loro colloqui col pitagorico Archita di Taranto143. «Il più ingegnoso e il più zelante» tra i giovani «apostoli vichiani» della fine del Settecento, come lo definisce Croce, cambiò in tesi l’ipotesi sostenuta nel De antiquissima Italorum sapientia144. Nel Platone in Italia, il protagonista, parlando con Archita, riconosce la superiorità dei regimi pitagorici magnogreci rispetto al modello di società delineato nella sua Repubblica, ammettendo l’anteriorità e l’indipendenza della civiltà pitagorica magnogreca rispetto alla Grecia, sia nel campo delle istitu142
Venturi, Settecento..., pp. 437-440; Gabba, Francesco Mengotti…, pp. 65-67. è vero, come è stato sostenuto, che dal punto di vista letterario si avverte l’influenza di letture come Les aventures de Télémaque di Fénelon (1699), Le voyage du jeune Anacharsis en Grèce dell’abbé Barthélemy (Paris 1788) e i Voyages de Pythagore di Sylvain Maréchal (1799) (Mascioli, Anti-Roman…, p. 367; Casini, L’antica…, p. 248). 144 Croce, Storia della storiografia…, pp. 8, 52-53. Cfr. anche Nuzzo, La tradizione…, p. 30: Cuoco ripensava il modello italico con grande sensibilità storicistica, debitrice a Vico. Secondo il Venturi, Illuministi, p. 802, la fortuna del De antiquissima sarebbe dovuta al confuso quanto attivo nazionalismo diffusosi a Napoli negli anni ’80 del secolo decimottavo; al riguardo vd. le critiche di M. Ghelardi, La storia dell’umanità nella interpretazione di Vincenzo Cuoco, in Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa 1987, pp. 259-285, qui a p. 279. Sullo storicismo cuochiano, interprete di Vico ma comprendente anche Genovesi, vd. anche M. Sansone, Romanzo archeologico e storicismo nel Platone in Italia di V. Cuoco, in Letteratura e arte figurata nella Magna Grecia. Atti del Sesto Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 9-13 ottobre 1966, Napoli 1967, pp. 11-33; F. Tessitore, Lo storicismo di Vincenzo Cuoco, Napoli 1965; Id., Vincenzo Cuoco tra illuminismo e storicismo, Napoli 1971; Id., Vincenzo Cuoco e le origini del liberalismo “moderato”, in L’Italia giacobina e napoleonica, Milano 1985, pp. 329-369, qui a pp. 355-359; R. Diana, Vincenzo Cuoco pensatore storico, in Vincenzo Cuoco, Platone in Italia. Sette possibili itinerari, a cura di R. Diana, Napoli 2000, pp. VII-XXXII. Sul Platone, oltre alla bibliografia citata di seguito, vd. anche Ghelardi, La storia…; M.M. Sassi, Fra Platone e Lucrezio: prime linee degli studi di filosofia antica nell’Ottocento italiano, “Archivio di storia della cultura” 3 (1990), pp. 165-199; F. Moriani, Esoterismi e storie. Platone nell’interpretazione di Vincenzo Cuoco, in ODOI DIZESIOS. Le vie della ricerca. Studi in onore di Francesco Adorno, Firenze 1996, pp. 677-688. 143 Se
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zioni civili, sia in quelli delle scienze e delle arti145. Pitagora aveva svolto la sua opera per risollevare l’Italia dalla desolazione e dalla barbarie in cui era precipitata dopo la disintegrazione, per dissensi interni, di un primigenio stato etrusco(-italico), comunque prefigurante, nella ricostruzione letteraria, un principio di unità politico-culturale della nazione146 (nei «tempi antichissimi (…) tutti gli italiani formavano un popolo solo ed il loro imperio chiamavasi etrusco»)147; e Pitagora aveva ripreso questo disegno, proponendosi di «far dell’Italia una sola città»148. In realtà, com’è stato osservato149, Pitagora non è considerato da Cuoco un personaggio storicamente esistito, bensì, vichianamente, un carattere poetico, un’idea immaginata dai popoli italici per «dinotare un sistema di cognizioni» pratiche e civili. È l’ideale del legislatore-statista capace, ad un tempo, di venire incontro ai bisogni popolari e di garantire il buongoverno dello stato150. L’eredità della Magna Grecia pitagorica – dimenticata e respinta dalle città magnogreche dell’età postpitagorica e, dopo Archita, anche da Taranto – passò al Sannio: gli stretti rapporti di IV secolo a.C. tra Taranto e il Sannio giustificano storiograficamente questo avvicendamento. Così, il molisano(-sannita) Cuoco trova il modo di elogiare virtù ancestrali dei Sanniti e il loro sistema federale, elogiandoli come l’unica nazione in grado di opporsi a Roma. Nel descrivere il Sannio antico, Cuoco – che aveva anche progettato un lavoro di Osservazioni sulla storia d’Italia anteriore al V secolo di Roma, rimasto però frammentario – ripropone lo schema del Galanti151: esso era già uscito dalla barbarie conseguente alla dissoluzione dello stato etrusco (forse vi si trovavano ancora solo i Romani), cioè dai vincoli feudali e dalla servitù personale, e la fiorente agricoltura era praticata da agricoltori / proprietari152. Ad Archita, tratteggiato come l’in145
Casini, L’antica…, p. 238. Andreoni, Omero…, p. 224 s. Sul debito di Cuoco verso l’antiquaria, ibid., p. 211 s. 147 Le citazioni sono tratte dall’edizione a cura di F. Nicolini, I-II, Bari 1916-1924. Questa, del c. LXV, è in II, p. 157. 148 C. XIV, in I, p. 74. 149 Nuzzo, La tradizione…, p. 30; Cerasuolo, Mito…, p. 163. 150 Cerasuolo, Mito…, p. 164 s.: polemica con i repubblicani napoletani, accusati di essere stati incapaci, nel ’99, di comprendere le esigenze del popolo. 151 Tessitore, Vincenzo Cuoco e le origini…, p. 331: collaborò nel 1790 all’ultimo volume della Descrizione geografica e politica delle Sicilie del Galanti: cfr. F. Tessitore, Cuoco e Galanti, “Archivio Storico delle Province Napoletane” s. III, 21 (1982), pp. 257-286; Casini, L’antica…, p. 248; Cerasuolo, Mito…, p. 162: anzi polemizzando molto col Grimaldi specialmente sulla proprietà della terra: ibid., pp. 169-170; Giarrizzo, Vico…, p. 236. 152 Cerasuolo, Mito…, p. 170 s., sottolinea il carattere progettuale di questo pensiero, per risolvere il problema feudale nel regno di Napoli; Tessitore, Vincenzo Cuoco e le origini..., p. 365, legge l’esaltazione dell’agricoltura nel contesto dell’apprezzamento del ruolo della borghesia. Oltre che nel Platone, questi concetti sono anche e forse meglio espressi nel saggio L’agricoltura italiana nel V secolo di Roma, 146
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carnazione del perfetto statista pitagorico magnogreco, corrisponde ora Attilio di Duronia, il prototipo del sannita agricoltore / filosofo, laborioso e sobrio. L’imperialismo militare dei barbari Romani e quello, meno violento ma non meno insidioso, culturale greco posero fine a questo mirabile equilibrio, facendone sin perdere la memoria. E Cuoco fa pronunciare a Platone un terribile anatema contro Roma153. In questa formulazione di un’ipotesi unitaria – ancor prima che in senso geografico154, sul piano della ricerca di un’identità civile e culturale della nazione tale da riunire, ad esse sovrapponendosi, le tradizioni etniche, linguistiche, culturali e filosofiche dell’Italia antica155, sì da creare lo «spirito pubblico» attraverso una ponderata e non ideologica (in senso romano) riflessione sulle memorie antiche (si ricordi la foscoliana «esortazione alle storie») – svolse certamente un ruolo non secondario il fatto che il romanzo fu composto quando Cuoco, dopo la fallita esperienza della Repubblica Partenopea del ’99156, si trovava esule a Milano, nella Cisalpina (vi rimase tra il 1801 e il 1806), sotto l’amministrazione del Melzi d’Eril (1800-1805), dove svolse un certo ruolo politico-letterario157. Dopo Marengo s’era costituita la seconda Repubblica Cisalpina (1800), che nel gennaio 1802 prese il nome di Repubblica Italiana (per la prima volta!) e nel 1805 di Regno Italico; l’estendersi della dominazione napoleonica in Italia, segnatamente in Toscana e a Napoli, poté certamente favorire, almeno in alcuni, il sorgere
in V. Cuoco, Scritti vari, I, Bari 1924, p. 181 ss.: cit. in Cerasuolo, Mito…, p. 168; Giarrizzo, Vico…, p. 237 s. 153 C. LXIX, in II, p. 190: «Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolgeranno nelle proprie viscere il pugnale ancora fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l’immenso potere che è necessario a dominar l’universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emulazione rimarranno arruginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comun schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e dell’ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza». 154 L’Italia del Cuoco restava pur sempre quella meridionale del regno di Napoli, estesa al precedente stato etrusco che tuttavia non assume, nella ricostruzione cuochiana, la nettezza del profilo e la cospicuità dei contenuti dell’Italia pitagorica e sannitica. 155 Casini, L’antica…, p. 251. 156 E da lui criticata nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato a Milano nel 1801 (18062), in quanto imposta dall’esterno, gestita da una élite molto limitata numericamente e impreparata all’arte del governo ed estranea alla coscienza popolare e alle peculiarità, tradizioni, necessità reali delle genti napoletane. 157 Tessitore, Vincenzo Cuoco e le origini…, pp. 351-352; Casini, L’antica…, p. 238. Da ultimo vd. La formazione del primo Stato italiano e Milano capitale 1802-1814. Atti del Convegno internazionale, Milano 13-16 novembre 2002, Milano 2006, e in particolare G. Ancarani, Melzi e la Repubblica Italiana come problema storiografico, pp. 15-50.
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di una prospettiva del tipo di quella delineata dal Cuoco158, anche se è fuori dubbio, com’è stato ben rilevato dal Treves e da altri, che in Cuoco a ciò si accompagnasse, in modo solo apparentemente paradossale, diffidenza se non avversione per l’avventura napoleonica, che troppo da vicino ricordava – anche nei simboli – l’avida ferocia delle legioni romane159. Erano questi gli anni in cui il Foscolo componeva l’ode A Bonaparte liberatore (1800) – dove, nel rifacimento dell’ottava strofa, esprimeva con chiara coscienza il concetto dell’unità delle «itale genti» – e partecipava con entusiasmo alla compilazione del Codice militare della Repubblica Italiana; parallelamente, nel programma del 3 agosto 1803 rivolto al Melzi d’Eril, Cuoco sosteneva che «conviene avezzar le menti degli italiani a pensar nobilmente (...), far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali sono abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia. (...) Se parlasi di uomini illustri, avezziamoli a considerar come comune la gloria di tutti gli angoli d’Italia»160. La seconda è l’Italia avanti il dominio dei Romani del livornese Giuseppe Micali (1810; 18212). Micali non si curò delle questioni delle origini, giudicandole un problema inutile e assurdo: gli antichi abitatori dell’Italia derivano da un popolo di cui si è persa la memoria, che in un periodo di grandi piogge cercò rifugio sui monti, cadendo in uno stato di barbarie. Quando le acque si ritirarono, scese al piano e nelle valli, e iniziò da lì un processo di civilizzazione. Con alcuni aggiustamenti, si tratta, com’è stato opportunamente rilevato, dell’adattamento della teoria generale vichiana sulle origini della civilizzazione al caso dell’Italia161, anche se per altri aspetti da Vico il Micali si allontanò162. Nella sua ricostruzione del progresso degli antichi popoli italici verso forme sempre più mature di vita sociale, civile e politica, il Micali
158 Tessitore, Vincenzo Cuoco e le origini..., p. 353: «I regni napoleonici e Napoleone sembrano a Cuoco un momento importante nella formazione della consapevolezza della coscienza unitaria della patria italiana». Su Cuoco e Napoleone, ibid., p. 353. 159 Treves, L’idea…, p. 66; Tessitore, Vincenzo Cuoco e le origini…, pp. 366-367; già Mascioli, Anti-Roman…, p. 368. Secondo il Treves, l’opera intende affermare la supremazia culturale italiana rispetto alla Francia ed al resto d’Europa e può essere considerata come un preannuncio della corrente d’orgoglio nazionale che si svilupperà in tutto il primo Ottocento e che culminerà nel Primato morale e civile degli Italiani di Gioberti. 160 Le citazioni dagli Scritti vari di Cuoco sono in Tessitore, Vincenzo Cuoco e le origini..., pp. 352353. Treves (L’idea…, p. 66) vi legge l’affermazione del «diritto a un’autonoma vita italiana, nella misura in cui si adempisse al dovere di meritarla per virtù propria, al prezzo dei propri eroismi e sacrifici, non per mero godimento sonnacchioso del retaggio romano». Manzoni ebbe a dire che il Cuoco fu il primo a scrivere che la libertà non era possibile senza l’unità: Tessitore, Vincenzo Cuoco e le origini…, p. 352. 161 Micali conosceva bene la Scienza Nuova: Mascioli, Anti-Roman…, p. 375 s. e nt. 41. 162 Cfr. Casini, L’antica…, p. 262: così, ad esempio, per la questione delle etimologie latine, come già segnalò il Cuoco, ivi citato.
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si pone su una prospettiva giusnaturalistica e contrattualistica163: il progresso della civilizzazione fu segnato, sul piano politico, dal formarsi di ordinamenti federativi sempre più ampi, in cui i singoli popoli confluivano liberamente (trattandosi di un’aspirazione contrattualistica inerente alla natura umana) in nome della giustizia universale e del reciproco vantaggio. Vi è celebrata la sapienza degli Etruschi («l’Etruria, sopra tutte le altre nazioni dottissima») e il suo primato rispetto alla “scuola” magnogreca, importata e dunque estranea alla cultura autoctona etrusco-italica (significativo è che, come già peraltro il Tiraboschi e il Meiners, Micali affermasse l’origine greca e non tirrenica di Pitagora), separando così ciò che Vico e il Cuoco avevano unito164; ma anche le altre popolazioni italiche – all’oscuramento e al travisamento della cui storia avevano in pari misura contribuito le insidie della Graecia mendax e la violenza romana – partecipano dell’encomio attraverso l’apprezzamento della vita semplice, dell’amore per la libertà, dello straordinario valore guerriero che le avevano contraddistinte. Etruschi e Italici, comunque, non erano sullo stesso piano: nettamente inferiori, i secondi ai primi, per livello culturale e civile e per capacità e potenza militare; il declino dell’Etruria – un declino rimpianto, dacchè la potenza etrusca aveva «effettuata per la più gran parte d’Italia quell’unità tanto desiderata» – fu segnato dalla perdita delle antiche virtù conseguente alla ricchezza e al lusso: non per nulla, furono i Sanniti, e non gli Etruschi, a cedere per ultimi ai Romani. La condanna di Roma, sin dalle origini città di banditi, è impietosa e molto “deniniana”. La dominazione romana aprì la strada a vizi sconosciuti e a costumi ignoti, distruggendo la virtù originaria. Per la conquista e il soggiogamento dei popoli italici, Roma usò in egual misura la spada e la perfidia di trattati fraudolenti; di fronte a un avversario così violento, determinato e ben organizzato, l’intrinseca debolezza politica e organizzativa delle federazioni etrusca e italiche rese inutile il valore di quei popoli. Assai significativa è la descrizione della condizione degli Italici tra l’età graccana e la guerra sociale165. 163 Casini, L’antica…, p. 264: da uno stato di eguaglianza originaria, interrotta dalla ferocia delle passioni, al recupero di una civile convivenza attraverso l’agricoltura e le arti, fino alla redazione delle leggi e alla creazione delle istituzioni; cfr. anche Mascioli, Anti-Roman…, p. 375. Sulle fonti del Micali (Montesquieu, Rousseau, Hume, Beccaria, Verri, Smith), Casini, L’antica…, p. 264. 164 Casini, L’antica…, p. 264 s. Le citazioni sono tratte dalla ristampa della seconda edizione, I-IV, Milano 1826. La frase sopra riportata è tratta dal c. XXVIII della parte I (vol. I, p. 204); l’origine samia di Pitagora è nel c. VIII della parte II (vol. III, p. 152). 165 Per l’esaltazione della potenza e della civiltà etrusche, e per la spiegazione del loro venir meno, vedi soprattutto i cc. X, XXVII e XXVIII della parte I (vol. I, pp. 103-140, con la frase citata nel testo a p. 121, e vol. II, pp. 166-241), e il c. I della parte II (vol. III, pp. 1-10). Per l’esaltazione degli ordinamenti e delle virtù italiche vd. i cc. I-XXVI della parte I. Sulle origini, la perfidia e la violenza dei Romani, vd. il c. XIII della parte II (vol. IV, pp. 102-126). Sulla condizione degli Italici prima della guerra sociale, vd. il c. XVIII della parte II (vol. IV, spec. pp. 260-272).
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Siamo dinanzi, ancora una volta, all’elogio del piccolo stato italico, culla dell’antica libertà repubblicana e incompatibile col grande stato unitario, destinato al dispotismo oligarchico o alla monarchia militare166. È discusso se il leit-motiv antiromano fosse anche antinapoleonico167: non sarà però un caso se ventidue anni dopo, cessato da tempo ogni incubo bonapartista, nella sua seconda opera storica, la Storia degli antichi popoli italiani (1832), Micali affermò di scrivere senza alcun rancore per i Greci e per i Romani, attenuando sensibilmente i toni rispetto a quelli dell’Italia168. Comunque sia, il Micali si attirò, nell’immediato, le critiche del Sismondi, che pure gli era amico, per il mutato giudizio su Roma, e soprattutto del Niebuhr, che invece lo avversava, sia per l’antiromanesimo di fondo (che lo studioso tedesco evidentemente considerò inalterato), sia per le divergenze circa l’origine degli Etruschi169. Il Micali fu sicuramente il più deniniano degli scrittori postdeniniani; non per nulla, egli frequentò per qualche tempo l’abate piemontese a Berlino170. L’accento posto sulla debolezza delle strutture federative richiama peraltro temi genovesiani; si ricordi che fu ottimo amico e corrispondente di Melchiorre Delfico. In tempi recenti si è assistito alla rivalutazione – certamente appropriata – del suo metodo storiografico, ad opera del Treves e soprattutto del Pallottino171; e tuttavia, è difficile sottrarsi all’impressione che si trat-
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P. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano - Napoli 1962, p. 302. Mascioli, Anti-Roman…, pp. 379-380 è decisamente per l’interpretazione antinapoleonica, accreditata peraltro, a suo tempo, già dal Niebuhr: Treves, Lo studio…, p. 304 s. Possibilista anche Pallottino, Sul concetto…, p. 773. Più attenuato Treves, Lo studio…, p. 305: Micali non fu antifrancese né antinapoleonico: il piano dell’opera era pronto, e fu presentato al Delfico già tra il 1790 e il 1792. «Il Micali anticipava se mai, col suo libro, le critiche o le allegorie degli avversari di Napoleone. Ma senza condividerle in proprio: o, tutt’al più, solamente nella misura in cui si sarebbe di necessità ritrovato fra gli antibonapartisti chi serbavasi fedele alle ideologie dell’illuminismo. L’utopia dello ‘statino’ italiano, l’utopia nazionalistico-pitagorica del vichiano De antiquissima, come preesistevano a Napoleone e condizionarono tanto la storiografia quanto l’erudizione archeologica del secolo XVIII, così rinverdivano tra Cisalpina e Impero ad opera precipua degli esuli meridionali, massimo il Cuoco, il quale nell’opera del Micali, tosto da lui recensita, avrebbe elogiato, forse un po’ a malincuore, l’inveramento storiografico dei suoi propositi e delle proprie intuzioni». Ciò è senz’altro condivisibile; anzi, nel 1801 l’opera era già stata scritta, secondo F. Pera, Ricordi e biografie livornesi, Livorno 1869, p. 336. Ciò però non toglie la possibilità che nel periodo intercorso fino al 1810 il Micali abbia apportato variazioni o accentuato determinati toni proprio in chiave antinapoleonica. 168 Treves, Lo studio…, p. 301. 169 Treves, Lo studio…, p. 304. Niebuhr, riprendendo il Fréret, riteneva che i Rasenna fossero una tribù conquistatrice venuta dall’esterno a opprimere i Tirreni, di stirpe pelasgica, imponendo una struttura sociale fortemente connotata nel senso della disparità e dell’ingiustizia. Cfr. Mascioli, Anti-Roman…, p. 377. 170 Treves, Lo studio…, p. 297. 171 Treves, Lo studio…, pp. XXII-XXIII, 295 ss., 298. In particolare, Pallottino, Sul concetto…, p. 772 ss. gli riconosce vastità di disegno, sistematicità e sviluppo della materia trattata, senza precedenti; 167
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Giulio Firpo
tasse davvero di un settecentista in ritardo, come l’ha definito il Treves172, e che, più che un innovatore, egli sia stato un pur attento e diligente traghettatore173. Nonostante il progressivo imporsi degli studi di storia greca (dal Mitford in poi, 1784-1810) e di storia romana (dal Niebuhr in poi, 1811-1832)174, l’interesse per la storia e l’etnografia dell’Italia antica secondo il “taglio” micaliano continuò ad esser coltivato a lungo: si pensi, oltre al già citato lavoro su Atri preromana di Delfico, al Saggio sulla popolazione del Regno di Napoli ne’ passati tempi e nel presente di Luca Cagnazzi (1820)175, alla “Lettera” Dei primi popoli abitatori d’Italia di Secondiano Campanari (Roma 1840 - Bologna 1841), e si pensi anche all’importanza della considerazione dell’Italia preromana in scrittori come il Balbo, il Cattaneo e il Vannucci. Nel 1836, l’archeologo torinese Carlo Promis pubblicava un giovanile (era nato nel 1808) quanto fortunato volume dal titolo Le antichità di Alba Fucens negli Equi, nel quale le mura della colonia latina erano attribuite a una precedente collaborazione pelasgico-aborigena176. A questo approccio metodologico fecero peraltro da pendant alcune pesanti rivisitazioni dell’antica sapienza italica, con la partecipazione degli Etruschi, di Pitagora e magari anche di Numa, nobilitate dall’idea di una missione civilizzatrice affidata alla stirpe italo-pelasgica progenitrice dei Greci e dei Romani, quali l’opera di Angelo Mazzoldi, Delle origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano all’Egitto, alla Fenicia, alla Grecia e a tutte le nazioni asiatiche poste sul Mediterraneo, 1840177, e, di lì a qualche anno (1846) – con argomenti analoghi ma con ben altra rilevanza e diffusione, anche per essere il manifesto del neoguelfismo – il Primato morale e civile degli Italiani di Vincenzo Gioberti178. metodologia critica nel vaglio delle tradizioni antiche; impiego dei dati archeologici ed epigrafici come fonte di storia (il «sussidio dei monumenti» accanto all’«autorità degli scrittori»). 172 Treves, Lo studio…, p. 296. 173 Cfr. Treves, Lo studio…, p. 299: Micali fu «storico agguerrito e provetto d’Italia, seppure neanche nel taglio e nella struttura disgiunga l’archeologia, le antichità, il descrizionismo antiquario dalla narrazione continuata, e quasi affidi, quindi, e tramandi alla meditazione del secolo il problema storiografico di quest’alternanza o antitesi»; e a p. 295 lo giudica un anello di congiungimento fra l’erudizione provinciale-paesana del ’700 e la storiografia del suo secolo e del successivo. 174 Pallottino, Sul concetto…, p. 774 ss. 175 Ove si celebra la floridezza del meridione d’Italia prima d’esser soggiogato dai Romani, descritti malissimo moralmente: Croce, Storia della storiografia…, cit., p. 111. 176 D. Liberatore, Alba Fucens. Studi di storia e di topografia, Bari 2004, p. 32 s. 177 A cui fece seguito un vivace scambio d’opinioni con Aurelio Bianchi-Giovini: Sulle origini italiche di Angelo Mazzoldi, Milano 1841; Risposta di Angelo Mazzoldi alle osservazioni di A. Bianchi Giovini sulle origini italiche, Milano 1842. Sul Mazzoldi vd. Croce, Storia della storiografia, pp. 53-54: «Sotto specie di istoria, un non istorico romanzo, grossolano eppur accolto con gravità»; e ora Casini, L’antica…, p. 269 ss. 178 Su cui vd. da ultimo Casini, L’antica…, p. 272 ss.